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INTERPELLANZA SUI FATTI DI SICILIA

del Deputato D'ONDES-REGGIO

TORNATA DEL 5 DICEMBRE 1863

PRESIDENZA DEL COMMENDATORE CASSINIS, PRESIDENTE.


Signori, questa triste iliade doveva finire con due grandi catastrofi. L’una, quella ornai assai famosa di Petralia; a tutti è noto che si andava a cercare in una capanna sui monti di notte tempo, non un renitente alla leva, ma uno il quale poteva sapere, o s’immaginava che poteva sapere dove fosse un renitente alla leva, si tentava di fare aprire per forza chi vi albergava il quale non voleva aprire; si tirano fucilate da ambo le parti, e poi si appicca il fuoco e si bruciano vivi un padre, una figlia, un figlio. (Viva sensazione)

[…]

L’altra catastrofe: si arresta a Palermo un sordomuto come renitente alla leva; la povera madre chiedeva di vederlo, le era proibito; ma l’amore di madre, e di madre siciliana, sa vincere ogni barriera. (Ohi ohi)

Questo ed altro narra il deputato siciliano per motivare la sua interpellanza e la sua richiesta di commissione di inchiesta. Lo scontro in parlamento riguardò soprattutto l'applicazione arbitraria della Legge Pica in  Sicilia, in quanto era stata varata per le provincie continentatli e comunque per quelle dichiarate con decreto reale "infestate dal brigantaggio".

Dal voto sulla sua interpellanza derivarono poi le dimissioni di alcuni parlamentari fra cui Garibaldi.

Zenone di Elea – 9 Ottobre 2014

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SOMMARIO. Atti diversi — Congedo = Interpellanza del deputato D'Ondes-Reggio e sua proposta d'inchiesta parlamentare sopra gli ultimi fatti di Sicilia, cioè provvedimenti contro i renitenti alla leva a Licata, Petralia e PalermoRisposte del ministro per la guerra, Bella Rovere, in difesa dell’operato delle autorità militari, comunicazioni di parecchi rapporti sullo stato dell'isola e sua opposizione all'inchiestaParole del deputato generale Govone in difesa dei suoi atti in Sicilia—Proposta formulata dal deputato D’Ondes-ReggioDomanda dello squittinio nominale fatta da dieci deputati sovra la proposizione suddettaVoto motivato dal deputato Bixio.

La seduta è aperta alle ore 112 pomeridiane.

MASSARI, segretario, dà lettura del processo verbale della tornata precedente, il quale è approvato.

NEGROTTO, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:

9553. Martellini Paolo Giambattista, da Camelli (Asti), già luogotenente nello stato maggiore delle. piazze, collocato a riforma, ora domiciliato in Ancona, ricorre al Parlamento perché, conformemente all’annotazione che sta in calce alla tabella annessa al regio decreto del 15 marzo 1860, relativo alla paga degli ufficiali, gli siano corrisposte lire 30 sulle quali il sopradetto decreto non deve avere effetto retroattivo.

9554. I comuni di Londa e Scarperia (Firenze) fanno adesione alla petizione sporta dal Consiglio comunale di Bagno a Ripoli contro la proposta perequazione della imposta fondiaria.

9555. De Cesare Pietro, commesso requisito negli ospedali militari del disciolto esercito delle Due Sicilie, licenziato dall’attuale Governo per aver omesso fra i titoli da lui presentati un documento che venne dipoi spedito, invoca la giustizia della Camera per essere reintegrato nel suo impiego e risarcito di quanto perdette durante la sua sospensione.

ATTI DIVERSI.

PRESIDENTE. Hanno fatto omaggio alla Camera:

La Direzione del Giornale del registro e del notariato— Pubblicazione circa i prodotti delle tasse di registro, bollo e simili nel 1863, copie 8; Avvocato Matteo Magnani, da Firenze — Riflessioni politico-religiose sulle principali quistioni del giorno, una copia; Prefetto di Girgenti — Processi verbali della Sessione autunnale 1862 di quel Consiglio provinciale, una copia; Predavalle Bartolommeo, da Genova — Descrizione del tracciato della congiunzione ferroviaria ligure, secondo il progetto da lui presentato al ministro dei lavori pubblici ed al municipio di Genova, copie 2.

L’onorevole nostro collega Santocanale chiede un congedo sino alla fine del presente mese per cagioni di qualche importanza che lo trattengono altrove.

(E accordato).

CAIROLI. Prego la Camera di voler dichiarare l’urgenza della petizione segnata col numero 9552, colla quale 4500 Italiani circa domandano l’abolizione della pena di morte.

(E dichiarata d’urgenza).

PRESIDENTE. Prego i signori deputati di prendere il loro posto.

Ricorda la Camera come sullo scorcio della tornata di ieri si fossero mandati alla Commissione, incaricata di riferire sul disegno di legge relativo alle privative industriali, l’articolo 3 e gli emendamenti relativi onde la medesima desse il suo parere.

La Commissione non avendo potuto terminare il suo lavoro, quest’oggi non potrebbe quindi aver luogo cotesta discussione.

INTERPELLANZA DEL DEPUTATO D'ONDES-REGGIO

SOPRA GLI ULTIMI FATTI DI SICILIA.

PRESIDENTE. Si procederà per ciò alle interpellanze degli onorevoli deputati D’Ondes-Reggio e Greco Antonio intorno agli ultimi fatti di Sicilia.

Ha facoltà di parlare il deputato D’Ondes-Reggio.

D'ONDES-REGGIO. Con assai mio rincrescimento....

LAZZARO. Chiedo di parlare.

D'ONDES-REGGIO...  onorevoli colleghi, vengo ad esporre innanzi a voi dei fatti miserandi e rei eccessivamente; ma a ciò mi costringe il Ministero che non accetta la mia proposta di un’inchiesta parlamentare. Eppure, qui non si tratta di diversità di opinioni politiche, molto meno di questioni di parti, da cui niuno ignora quanto io sia alieno; ma si tratta de’ principii eterni della giustizia e dell’umanità orrendamente violati.

Ella è ornai inconcussa massima appo i savi politici che le riforme ed i nuovi ordini non s’introducono tutto d’un subito presso dei popoli, ma gradatamente, affinché non incontrino ostacoli e provino male.

Indubitatamente i Siciliani debbono e vogliono venire sotto le armi come tutti gli altri Italiani, ma non è a negare che presso loro vi ha delle difficoltà alla leva forzata perché a memoria d’uomini non se n’è fatta mai.

A me pare che si avrebbero potuti usare ordinamenti, almeno in principio, un po’ diversi, dimodoché si ottenesse il numero richiesto di soldati e tanto grave non riuscisse alle popolazioni.

In questo i Siciliani sono come gl’inglesi, i quali neanco hanno mai tollerata la leva forzata; e credo che se mai un Ministero proponesse alla Camera dei comuni d’Inghilterra la leva come si pratica in Francia e negli altri paesi del continente europeo, quei prudenti legislatori senza discuterla la rigetterebbero.

Sia comunque, o signori, si ordinò la leva in Sicilia. Dapprima pareva volonterosi, per specie di momentaneo entusiasmo, andassero sotto le armi, e realmente molti andarono, e principalmente in Palermo; e tutta l’isola si specchiò, come al solito, su ciò che faceva l’antica sua capitale. Ma poi l’entusiasmo venne meno; non è mica da assennati politici stabilire delle leggi sull’entusiasmo, che non è condizione naturale delle menti, né durabile.

Di più, i giovani andavano all’urna fidenti nella sorte di prendere un numero alto; ma poi, siccome sono state chiamate e prime e seconde categorie, come si addimandano, videro che quella distinzione di numero alto e numero basso non era di alcun costrutto. E ciò molto ha contribuito a far sì che si rendessero essi renitenti non solo, ma che neppure più in appresso volessero recarsi all’urna ad estrarre il numero.

Quindi il Governo credette che per i molti renitenti che vi erano fosse di mestieri una legge eccezionale.

Io, o signori, combattei fortemente cotesta legge, perché so che sempre amari frutti si ricavano dalle leggi eccezionali, che significano leggi contrarie allo Statuto, leggi contrarie alla giustizia. Pur non di meno la mia parola non fu ascoltata, e ciò che specialmente mi si opponeva era che io divisava teorie, che bisognava invece venire alla pratica: che vi sono renitenti in un numero eccessivo, quindi di necessità un’altra legge, onde gli stessi militari conoscessero e giudicassero dei renitenti alla leva, e non più i giudici civili. Io veramente non ho compreso mai che cosa significa questa teoria e questa pratica in opposizione. Io so che la teoria non è altro che la pratica di lunghi secoli raccolta dagli ingegni grandi e coordinata colle leggi perpetue dell’umanità. Una pratica quindi in opposizione colla teoria non è altro se non l’esperienza di un individuo e di pochi che l’accerchiano, l’esperienza di tempo breve di uomini che ignorano i pensieri e le opere delle passate generazioni. Allora la pratica è la scienza politica di uomini primitivi, una scienza politica dei figli di Noè. (Si ride a sinistra)

Ma, al postutto, vi è la legge, secondo me violatrice dello Statuto, da me riprovata, ma finalmente è legge, e si esegua.

Eccone il testo:

«Art. 1. È devoluta ai tribunali militari la cognizione dei reati di renitenza alla leva per l’armata di terra.

«La renitenza alla leva di mare appartiene alla giurisdizione dei Consigli di guerra marittimi.

«Art. 2. Sono pure soggetti alla giurisdizione dei tribunali militari e dei Consigli di guerra marittimi rispettivamente tutti coloro che abbiano cooperato al reato di renitenza in alcuno dei modi espressi nell’articolo 178 della legge 20 marzo 1854 sul reclutamento dell’esercito, e nell’articolo 135 della legge 28 luglio 1861 sulla leva di mare.»

Ora vediamo come questa legge si è eseguita. Leggerò primamente un documento autentico che ho avuto dal nostro onorevole collega Vito Beltrani:

«L’anno 1863, il giorno 15 del mese di agosto:

«Riunitasi la Giunta municipale del comune di Licata composta dai qui sottosegnati assessori, e sotto la presidenza del signor D. D. Gaetano Gigante, regio sindaco, nella casa comunale;

«Costituitosi il signor maggiore comandante il 1° battaglione del 19° e 4° battaglione del 32° reggimento fanteria, ha disposto momentaneamente farsi pubblicare per tutte le strade della città e dall’ora una di notte in poi la seguente sua disposizione:

«A tutti gli abitanti di Licata.

«Se domani alle ore 15 non si presenteranno i renitenti e disertori che rimangono a presentarsi, procederà a togliere l’acqua alla popolazione, e ad ordinare che nessuno potesse sortire di casa s otto pena di fucilazione (Sensazione) e di altre misure di più forte rigore. (Movimenti diversi)

«La medesima Giunta, in vista dell’ordine assoluto per tale pubblicazione, ha deliberato darsi esecuzione, incaricando l’usciere comunale D. Vincenzo Incandela per la pubblicazione corrispondente, redigendone indi certificato della seguita pubblicazione.

«Fatto e firmato oggi nel dì, mese, ed anno di sopra.

«La Giunta municipale

«Gaetano Gigante, sindaco — Giuseppe Urso — Angelo Corvaia — Angelo Caffarello — Stefano Sciccolone — Il segretario faciente funzione Salvatore Saito.

«In Licata, 15 agosto 1863, alle ore tre di notte italiane.

«In esecuzione degli ordini del signor maggiore comandante signor Frigerio:

«Il sottoscritto, usciere comunale di Licata, certifica di aver pubblicato a suono di tamburo ed in tutte le strade di questo comune la sopra inserta ordinanza emessa dal suddetto maggiore, relativa alla presentazione dei renitenti e disertori di leva ed i castighi minacciati a tutta la popolazione.

«E costare, rilascia il presente.

«Sottoscritto: — Vincenzo Incandela — Visto: Il sindaco Gigante — Il segretario comunale Angelo Vitali.»

La medesima Giunta pubblicava il giorno dopo il seguente manifesto:

«L’anno 1863, 16 agosto, in Licata, riunitasi la Giunta municipale di questo comune sotto la presidenza del signor Gigante sindaco, la medesima venne interessata a dare quei provvedimenti che meritava lo stato allarmante del paese e la somma agitazione del popolo, visto che dal maggiore signor Frigerio, con apparato minaccievole si era tutto disposto perché venisse effettuata l’ordinanza da lui emessa la sera del 15 andante concepita in questi termini:

«Se dimani alle ore 15 italiane non si presenteranno i renitenti e i disertori che rimangono, il signor maggiore procederà a togliere l’acqua al paese e ad ordinare che nessuno potesse sortir di casa sotto pena di fucilazione e di altre misure di più forte rigore. (Movimenti e ilarità generale)

La Giunta nel confermare quanto dal signor presi dente venne dichiarato, che cioè tutto faceva presentire un forte disturbo all’ordine ed alla sicurezza del paese per la grandissima esasperazione degli animi per le sofferte angustie di due giorni di stretto assedio militare che tolse il commercio al paese, e con esso ogni mezzo di sussistenza alle classi più popolose del comune, e pel timore di vedersi fra pochi istanti assoggettati a delle misure che sono una flagrante violazione dei principii sanciti nello Statuto, che è la base del nostro sistema costituzionale, unanimemente delibera:

«1° Invitarsi prontamente i rappresentanti delle estere potenze residenti in Licata a riunirsi tosto in casa comunale, onde interessarli sullo stato anormale in cui versa il paese, e per protestarsi innanzi loro dal non assumere nessuna responsabilità di quello che potrebbe accadere;

«2° Chiamare sotto le armi l’intiero corpo della guardia nazionale, acciò rendere l’interessante servizio di sedare i tumulti e di attendere allo scrupoloso adempimento degli obblighi che ha contratti in forza della legge, quelli di curare che la sicurezza del comune non fosse menomamente turbata.

«Fatto e deliberato oggi, dì, mese ed anno come sopra.

Sottoscritti: Gaetano Gigante, sindaco — Giuseppe Urso, assessore — Angelo Corvaia — Angelo Caffarello — Stefano Sciccoloni.

«L’anno 1863, 16 agosto.

«In conseguenza della deliberazione emessa come sopra da questa Giunta municipale, essendosi riuniti in casa comunale i signori viceconsoli di Francia, di Prussia, di Danimarca, di Russia, d’Inghilterra, d’Olanda e dei Paesi Bassi, i medesimi si ebbero quelle comunicazioni cui è parola nella accennata deliberazione.

«E poiché assunsero i suddetti signori l’incarico di conferire col maggiore signor Frigerio, lo stesso presentatosi in casa comunale, tenne lungo discorso con i suddetti signori rappresentanti, dietro il quale, e conosciuta l’imponente dimostrazione dell’intiero corpo della guardia nazionale, ordinò che la truppa schierata nella strada Maggiore si fosse ritirata, e declinando dal togliere l’acqua al paese, e dall’assoggettare alla fucilazione i cittadini che fossero sortiti dalle case loro lasciò nella sua pienezza lo stato d’assedio.

«La Giunta municipale, eco.»

Signori! Chi diede a cotesto uffiziale cotanta facoltà? Chi gli diede la facoltà di mettere lo stato d’assedio? Se la popolazione veniva a collisione colla truppa, chi era il ribelle? Era la popolazione oppure chi aveva la popolazione provocata? Costui fu il ribelle al Re, al Parlamento, alla maestà della legge: il popolo di Licata è benemerito della patria. (A sinistra: Bravo! Benissimo!)

Era allora un onorevole deputato a Licata, il quale tosto scrisse al ministro dell’interno di tutto ciò che era avvenuto. Che cosa rispondesse il ministro, io non so; so bensì che si seguitarono le misure a Licata, anzi si applicarono quindi ad altre parti dell’isola, misure che già prima che in Licata in altri comuni si erano praticate.

Girgenti, Sciacca, Favara, Trapani, Marsala, Calatafimi, Bagheria nella provincia di Palermo, ed altri comuni sperimentarono quelle misure, altri deputati, credo, avranno documenti simili a quello che ho letto di Licata.

Per i quali fatti contrari allo Statuto ed alle leggi sendovi documenti io credo che quando ho proposto un’inchiesta parlamentare, ho proposto invero molto meno di quello che si potrebbe fare; credo che per cotali fatti non sarebbe necessaria un’inchiesta parlamentare, si potrebbe procedere come di giustizia senza di essa.

Ma ora vi dirò fatti di cui certamente non vi sono documenti; ma fatti che si narrano come veri da’ diari, che si attestano da uomini rispettabilissimi, che io pur nondimeno, per onore dell’umanità, desidererei che non fossero veri: l’inchiesta parlamentare chiarirà se sono veri o no.

E si narra dà tutti che padri, madri, fratelli, sorelle, le madri anco coi lattanti al petto, sono stati legati é buttati in carcere, con colpi di scudiscio sono stati flagellati alle braccia ed alle gambe perché i loro figli o fratelli erano renitenti alla leva, ad alcuni erano stretti i pollici con un nuovo strumento di tortura, che ha già il suo nome, e tanto che sguizzasse il sangue e la carne, e giungesse sino alle ossa. (Mormorio d'incredulità)

Dal banco dei ministri. Non è vero!

D'ONDES-REGGIO. È assai simile a certezza che sia vero.

Se io non avessi letto il documento sui fatti di Licata avreste anche gridato che non era vero quanto io diceva: è necessaria l’inchiesta parlamentare onde chiarire la verità. Non potete stare al detto dei vostri dipendenti che sono giudici e parte nella stessa causa, non possono confessare i loro atroci delitti.

Si dice che qualche giovinetto (Dio voglia che non sia vero) sia morto dal dolore. (Oh! oh!— Rumori al centrò)

Un fatto si narra dai giornali, come avvenuto testò nel comune di Caccamo; la forza pubblica, non so se per cagione della leva o per altro, andò per arrestare un uomo, e non trovandolo, arrestò invece la moglie incinta e la portò al carcere; alle lagrime ed alle preghiere infine la restituì alla sua casa, tosto abortì e morì. (Rumori a destra) Si è anco narrato che una donna per non aver consegnato il figlio renitente alla leva, da un colpo di baionetta fu ferita e morta. (Rumori)

lo più di voi desidero che questi fatti atroci non sieno veri; ma possibile che tutti i giornali si accordino ad inventarli tutti; ed i giornali officiali od officiosi perché tosto non l’hanno smentito? Anzi alcuni con un cinismo osceno hanno detto: vedete i risultati! Come! i risultati degli omicidi e delle torture?

E le colonne militari dopo d’avere percorse le provincie di Girgenti e Trapani s’avvicinavano alla città di Palermo. Ma per fermo niuno credeva che il trattamento simile si facesse a quella città, non perché ella si avesse dei privilegi (già qui non si trattava di privilegi, ma di non conculcare la legge un’altra volta ancora), ma perché prudenza certamente consigliava di maneggiare una città popolosa di più di 220, 000, anime, antica capitale della Sicilia. Invero di quei fatti orribili che ho narrati non si commisero in quella città, pure leggiamo il proclama che fece il generale Govone.

«Comando generale delle truppe d'operazione.

«Le liste di leva della città di Palermo del 1840, 1841 e 1842 danno oltre a 4000 renitenti e disertori.

«Il sottoscritto, incaricato dal Governo del Re di chiamare i colpevoli alla obbedienza della legge, onde rendere meno gravi alla popolazione della città le misure militari che dovrà impiegare, pubblica il seguente avviso:

«1° Tutti i cittadini che per l’età e l’apparenza loro possono venir trattenuti dalle pattuglie di truppa come sospetti di appartenere alle ultime leve devono essere in grado d’indicare tosto alle pattuglie stesse la parrocchia nella quale furono battezzati. Senza questa precauzione avrebbero a subire incomodi ritardi nella constatazione del personale;

«2° Essendo necessario di passare a perquisizioni domiciliari si invitano le famiglie a prestarvisi di buon grado, onde non dar luogo a procedere a tenore di legge. Le lagnanze a cui potesse dar luogo una perquisizione debbono essere fatte immediatamente al capopattuglia;

«3° Si mettono in avvertenza i proprietari, i capi d’arte, e tutti i cittadini in generale, che si renderebbero colpevoli verso la legge coloro i quali dessero asilo o tenessero al servizio loro un disertore o renitente. L’arresto di uno di questi produrrebbe inevitabilmente l’arresto del capo di famiglia o del negozio presso cui fosse trovato, e questi ultimi arrestati sarebbero sottoposti al tribunale militare, a tenore della legge 8 agosto 1863 votata dal Parlamento.

«Il sottoscritto invita tutti i buoni cittadini ad aiutare l’opera sua per l’utile comune.»

Ora chi diede al generale queste facoltà? Sono esse certamente flagranti violazioni della legge. Nella stessa legge eccezionale non sono né punto né poco.

E quindi si circonda la città come stretta d’assedio, e s’impedisce di uscire a chiunque per l’età e per l'apparenza sembrasse renitente alla leva. (Movimenti e sussurri al centro)

Uno dovea dare la prova negativa, provare che non era renitente, la presunzione stava contro di lui. Violati i domicili di chiunque piacesse, ed osservate che si dice che le perquisizioni si sarebbero fatte senza alcuna norma, ad arbitrio, e solo se alcuno resistesse allora si sarebbe proceduto secondo la legge, ma primamente contro la legge.

E ne avvenne che persone le quali avevano giustificato di non appartenere alla leva, posciaehè il precipuo argomento anzi il solo era la fisonomia, facile smarrirsi per il numero de’ giovani di tanta popolosa città, furono arrestate per due o tre volte.

La città di Palermo era tutta in subbuglio, gli uffici dello stato civile, le parrocchie, erano invasi dalla folla, generale e minacciosa agitazione; tantoché l’onorevole deputato Vito Beltrani pensò di andare dal pretore di Palermo, che ora si chiama sindaco, per vedere che cosa si potesse fare, ma il sindaco disse che non credeva far cosa alcuna e che temeva che far qualche cosa potesse aggravare le condizioni anziché no.

Allora d’accordo si recarono dal prefetto di Palermo; il Beltrani gli espose lo stato dei pericoli in cui versava la città, ed egli rispose primieramente che nulla sapeva, poi che nulla poteva.

Come? Il capo politico di una città di 220 mila anime e più, non può far nulla per evitare qualche ingente disastro! Allora l’onorevole Beltrani giudicò necessario di spedire un telegramma al ministro dell’interno.

Io non so che cosa abbia risposto il ministro dell’interno, ma so che le misure seguitarono; quindi fuor di dubbio non diede alcun provvedimento.

Ora io domando, o signori, se una collisione avveniva in Palermo, città certamente fra le più importanti d’Italia, la prima città dell’isola, piena di abitatori animosi e facili a prendere l’armi, sempre guida ed esempio delle altre città dell’isola, quali sarebbero state le orribili conseguenze? Chi sarebbero stati i ribelli, eglino o i provocatori? Costoro i ribelli al Re, al Parlamento, alla maestà delle leggi. Il popolo di Palermo ha bene meritato della patria. (Bene! bene! a sinistra)

Signori, è pregio anche leggere il secondo proclama del generale Covone:

«Comando generale delle truppe di operazione.

«Dei renitenti e disertori delle classi 1840-41-42 che erano annotati sulle liste di leva della città di Palermo in numero dì 4162, se ne presentarono a tutto oggi 462, ne furono cancellati, perché morti o riconosciuti femmine o per altre cause legittime, 1292: totale 1754; rimangono a trovarsi 2408.

«Il sottoscritto e la sua truppa hanno l’obbligo di rintracciare anche questi.

«Essi non desisteranno fino ad opera compiuta.

«Tutti i cittadini aiutino l’azione delle truppe, spingano i restii a presentarsi, spingano le famiglie interessate a produrre spontaneamente le carte giustificative pei morti e per coloro che vanno cancellati.»

Questo è l’unico paragrafo lodevole del generale. (Si ride)

«Il sottoscritto potrà allora, ma allora solamente, senza mancare al proprio dovere, dar pronto termine alle misure militari in corso.»

Dunque, o signori, per forza questi renitenti dovevano essere entro la città di Palermo; mentre che è naturalissimo che i renitenti già fossero usciti fuori; e se poi non si presentavano doveva essere in questo modo vessata e bersagliata per 2000 individui tutta una popolazione di 220 e più mila abitanti.

Ma infine il generale si accorse che voleva l'impossibile, e però alcuni giorni dopo desistette dalle bandite misure.

Signori, questa triste iliade doveva finire con due grandi catastrofi. L’una, quella ornai assai famosa di Petralia; a tutti è noto che si andava a cercare in una capanna sui monti di notte tempo, non un renitente alla leva, ma uno il quale poteva sapere, o s’immaginava che poteva sapere dove fosse un renitente alla leva, si tentava di fare aprire per forza chi vi albergava il quale non voleva aprire; si tirano fucilate da ambo le parti, e poi si appicca il fuoco e si bruciano vivi un padre, una figlia, un figlio. (Viva sensazione)

CURZIO. Infamia!

D’ONDES-REGGIO. E se non piangi, di che pianger suoli!!!

Sapete il padre perché non voleva aprire di notte? Perché altra volta avendo aperta la sua capanna ebbe oltraggiata la figlia. Poveri infelici! Ignoti agricoltori de’ siculi monti morirono più sublimi che Virginia morì! (Movimento)

L’altra catastrofe: si arresta a Palermo un sordomuto come renitente alla leva; la povera madre chiedeva di vederlo, le era proibito; ma l’amore di madre, e di madre siciliana, sa vincere ogni barriera. (Ohi ohi)

Una voce. Tutte.

Un' altra voce. Le altre mandano i figli all’armata.

D’ONDES-REGGIO... il figlio si getta in braccio alla madre, mostrando le piaghe fatte con ferro infuocato, 154 (Sussurro), la madre intinge il suo fazzoletto nel sangue del figlio, e gli dà un pane, cliè egli era anco affamato.

La nuova dell’orrendo martirio si sparge per tutta la città, vi fu chi la rese pubblica nei giornali; allora rispettabili deputati e senatori, appunto per verificare il fatto e per calmare la concitata popolazione, chiesero al generale Govone di andare a vedere quell’infelice...

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Il generale Medici.

D’ONDES-REGGIO. Sono tutti miei rispettabilissimi padroni (Risa a sinistra), ma qui si tratta dell’umanità oltraggiata. (Benissimo!)

Or si dice, non posso più nulla asseverare di certo, che andò il sostituto procuratore del Re con un interprete, e verificò che era un sordomuto. Si dice che si fece una perizia, e che da questa perizia risultò che aveva avuto delle sevizie, e che non era punto vero che avesse per una malattia bisogno di questa sorta di cura, di 150 rivalsivi superficiali volanti, come ornai si è espresso il medico maggiore dell’ospedale militare, ornai in Sicilia sono famosi presso il popolo i rivalsivi superficiali volanti.

Il medico medesimo in una sua relazione stampata asseriva tra le altre cose che la prima perizia affermava che non si erano usate sevizie, ma di rimedi a malattia grave, ma i periti subito si sono affrettati a smentirlo nel modo seguente:

«Nel numero 247 del Giornale di Sicilia colla data del 6 novembre alla categoria Notizie interne si legge una lettera dell’egregio signor Restelli medico divisionale di questo spedale militare all’indirizzo del comandante militare della città e circondario di Palermo, nella quale si dà conto di un affare che riguarda un tale col nome di Antonio Cappello renitente della leva del 1840.

 Fra quanto in essa si assevera sono le seguenti parole:

«Non si sa da chi fu sporta querela al signor procuratore del Re per sevizie che si usavano sugli ammalati nell’ospedale ed in ispecie sul renitente arrestato Antonio Cappello. Il distinto integerrimo magistrato faceva domandare in ufficio il Cappello e lo faceva visitare da due egregi periti medici del paese, i quali, stabilito che non si trattava di sevizie, ma di applicazione di sistema di cura nei casi difficili domandati dalla scienza. Nella querela sporta al signor procuratore si parlava anche di ferita al capo; sono tutte falsità, prette invenzioni, i periti stessi esclusero il fatto.

«Or noi sotto segnati dottori Diego Maglienti e Vincenzo Argento che fummo i periti cui pare volesse alludersi in questo racconto, sorpresi dal vederci aggiudicare un criterio che non fu il nostro, sentiamo il debito di dichiarare al signor Restelli che egli è stato tratto in errore sulla natura del giudizio da noi dato intorno alle ferite dell’Antonio Cappello e che abbiamo fatto meraviglie del come con tanta solennità si sia pubblicata una notizia quale questa che ci riguarda, tutt’affatto lontana dal vero, perché fondata sopra informazioni niente esatte.

«Noi dobbiamo dire che il nostro giudizio fu consacrato in apposito verbale redatto nella congiuntura ricordata nella lettera del signor Restelli, e non saremmo lontani dal renderlo di pubblica ragione ove tuttavia non fosse in corso il procedimento cui essa si allega.

«Questa dichiarazione abbiamo dovuto scrivere e pubblicare tanto per debito di cittadini indipendenti e di esercenti una professione che ha troppo gravi doveri verso la scienza e verso l’umanità, quanto per culto ai nostri principii che sono sacri alla giustizia ed alla verità.»

Ma di più, o signori, nella relazione citata dal signor Restelli sta scritto che «esclusa la sordità del Capello, la mutolezza n’era alquanto dubbiosa.» Ora il giorno 24 novembre, per ordine del prefetto, ed a premura dell’autorità giudiziaria, quegli è stato tradotto nello ospedale dei sordomuti di Palermo.

È questo fatto atroce, e quasi incredibile, è dell’evo medio più tenebroso. L’inchiesta parlamentare dovrà chiarirlo; v’ha un cumulo di circostanze che pur troppo indica la sua realtà; il modo stesso come pria si seppe, e poi e più lo stesso modo come il medico maggiore lo difende, una improvvisa malattia di tanta algida natura che richiede a tanto numero l’applicazione del rimedio ferro rovente!

Ma per vedere, o signori, come anche vi è probabilità che siasi usata quella crudelissima tortura, leggiamo il regolamento della legge del 1855, dove se tali crudeltà non sono permesse, si prescrivono però cose tali che in questi tempi, in cui si fa con ogni facilità man bassa su tutte le leggi, possono aver dato spinta a tanto eccesso.

Il regolamento del 1855 prima parla della mutolezza per causa fisica, poi della mutolezza simulata o prodotta momentaneamente da sostanza velenosa, in questi termini:

«Nella mutolezza simulata o prodotta momentaneamente da sostanze velenose come dallo stramonio, qualche prova dolorosa, la privazione degli alimenti, il rinchiudimento, non tarderanno qualche volta a rendere la parola ai simulatori. Il finto muto dimentica facilmente la sua parte allorché, sorpreso di nottetempo, crede per esempio di essere assassinato, ed è costretto ad azzuffarsi per propria difesa. Allora getta un grido ben pronunciato, laddove non si dovrebbe udire che uno strido.»

Si può dunque fingere di ammazzare un individuo per udirlo a gridare. (Susurro) Il regolamento stabilisce in appresso che «dopo avere inutilmente esauriti tutti i mezzi possibili per iscoprire la simulazione, sarà infine il caso di ricorrere alla solita inchiesta prescritta dai regolamenti per verificare la reale esistenza delle affezioni sospette di simulazione.»

Ma come l’inchiesta regolare, il procedimento umano alla fine, dopo il disumano? Ma che, si può simulare la mutolezza a ventenne in un giorno? Ma tutti quelli di un comune, e se ampio e popoloso, i vicini molti non possono testimoniare la veracità o menzogna di quella malattia, ma il sindaco, ma la Giunta municipale non possono certificare se sia muto o no un concittadino? Queste pagine nere debbono tosto cancellarsi.

Io credo che non vi siano italiani che vogliano sopportarle; e so una cosa, che per noi meridionali sono impossibili, e so che questo è virtù. (Rumori a destra)

Inutili queste parole, ognuno risponda, se può, a suo turno.

CRISPI. È meglio prendere la parola.

D’ONDES-REGGIO. Signori, qui non posso tralasciare un’osservazione che sia di scusa a’ miei concittadini tanto ornai oppressi ed ingiuriati. Se mai al 1855 fu di necessità di siffatto regolamento qui in Piemonte, vuol dire che dei renitenti alla leva ce n’erano pure ed abbondanti: perché altrimenti un tale regolamento?

Dunque i siciliani possono essere in certo modo scusabili se sono renitenti alla leva mentre a memoria di uomini leva non si è mai fatta presso loro.

Signori, ora su tutti i fatti da me esposti io non propongo che una inchiesta parlamentare.

E come si potrà mai negare? Ma delle obbiezioni che voi, o ministri, per avventura mi potrete fare, discorrerò in appresso. Andiamo pria ad altro momentosissimo argomento.

Signori, queste sono ingiustizie e crudeltà già consumate. Ma ora abbiamo a discorrere d’una legge che per sè stessa non può che dar luogo ad altre ingiustizie e crudeltà, la legge del 15 agosto 1863.

Premetto, signori, per le cose che debbo dire, che io in nessuna guisa voglio porre in dubbio la buona fede del ministro dell’interno per il modo da lui tenuto nel discutersi questa legge in questa Assemblea; ma nel tempo stesso devo dichiarare che egli usò di modo irregolarissimo, non parlamentare.

In questa Camera lungamente si agitò la questione del brigantaggio di Napoli, si elesse una Commissione.

Reduce essa da Napoli, si discusse assai; si propose finalmente un progetto di legge; poi questo progetto che conteneva molti articoli, si ridusse a nove in tutto; ed esso progetto, si noti bene, si portò in discussione l’ultimo giorno in cui si tenne seduta, ché la Camera poi si aggiornò; e nello stesso giorno si portarono in discussione e si deliberarono tanti altri progetti con una precipitazione, che non edificò alcuno.

E la legge si discusse per il brigantaggio di Napoli: ma poi votata, si trovò una legge espressa in termini generali, legge per tutta Italia.

Ora io dico: il signor ministro dell’interno pronunziò mai una parola da cui si potesse argomentare, che quella era legge generale per l’Italia? La Commissione ne pronunziò mai una parola?

Qui, o signori, è questione di buona fede. Non si pensò mai di fare una legge per tutta Italia, ma solo di fare una legge sul brigantaggio di Napoli. Di questo si trattò, di questo si era trattato sempre. Ed anche ora l’intitolazione della legge è: «Legge colla quale sono date disposizioni dirette alla repressione del brigantaggio.» E dove era in Italia il brigantaggio? In Napoli. Non si è parlato mai di brigantaggio in altre parti.

Questa legge, o signori, si portò quindi dinanzi al Senato, ed in quel consesso Lorenzo Pareto, il quale non ha dimenticato mai i principii di libertà e di giustizia, ed è decoro dell’antico patriziato genovese, oppose al Ministero che con questa legge e principalmente coll’articolo quinto si avrebbero potuto mettere le Giunte in tutta Italia; allora il ministro fece la genealogia della legge, che per fermo è una genealogia un po’ bastarda; egli parlò di legge di sicurezza pubblica in Napoli e di legge di sicurezza pubblica in Sicilia, come se mai si fosse parlato e del brigantaggio di Napoli e della sicurezza pubblica della Sicilia insieme, come se mai o nelle proposte o nella discussione di cotal legge si fosse fatto un motto solo della Sicilia!

E tanto è vero che non se ne parlò, che vi era un altro progetto di legge che risguardava la Sicilia e che l’onorevole Conforti, relatore della Commissione, mi disse quello ultimo giorno della precipitazione delle leggi che sperava si sarebbe potuto discutere avendo egli la relazione in pronto.

Il signor ministro tra le altre cose rispondeva a Pareto che questa legge non poteva applicarsi all’alta Italia, ma bensì alla Sicilia.

Ma l’illustre senatore replicava che questa distinzione non era scritta nella legge, la quale si dovea eseguire come stava scritta.

A ciò il ministro dell’interno non rispondeva.

Ondeché abbiamo una legge proposta e discussa per il brigantaggio di Napoli, e poi trovata legge per tutta Italia, e quindi la legge stessa per volontà del ministro ristretta in Senato a Napoli e Sicilia; il ministro fece le parti dell’Assemblea dei deputati.

Eppure cotesta legge in Sicilia neanche si applica secondo il suo tenore.

In Sicilia non è stato e non è brigantaggio, pure dal Governo in virtù dell’articolo 5 della detta legge si ordina che si compongano Giunte e funzionino.

Il presidente e procuratore regio del tribunale si ricusarono di farne parte, allegando che non vi era ancora il decreto reale che dichiarasse la provincia di Palermo in istato di brigantaggio. Il Consiglio provinciale ricusò parimente, e per la medesima ragione, di scegliere i due consiglieri a far parte della Giunta.

PERUZZI, ministro per l'interno. Non è stato richiesto.

CRISPI. Nel Consiglio si discusse.

D’ONDES-REGGIO. E se non è stato richiesto, peggio; poiché allora il prefetto, avanti, senza attendere la risoluzione del Consiglio, sceglieva i due consiglieri che gli andavano a grado, non sapeva o non voleva sapere che i due consiglieri si dovessero destinare dallo stesso Consiglio provinciale.

Alla fine il prefetto sceglie da sè i due consiglieri, che poco curandosi del parere contrario del Consiglio, si pregiano d’obbedire al prefetto; i due magistrati che si erano ricusati, in modo invero non lodevole cedono pure all’ordine del prefetto, ed in tal modo composta già esercita sue funzioni la Giunta.

Signori, l’articolo 1 della legge dispone chiaramente che le disposizioni susseguenti allora saranno in vigore quando non solo le provincie sieno infestate di brigantaggio, ma che anco sieno tali dichiarate con decreto regio. Come dunque mai per mettere in vigore le disposizioni dell’articolo 5 non fa d’uopo di quel decreto dichiarativo dello stato di brigantaggio?

L’articolo 5 è così concepito:

«Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta del prefetto, del presidente del tribunale, del procuratore del Re e dei due consiglieri provinciali.»

Troppo nota ai giureconsulti è la massima: nisi tota lege perspecta incivile est iudicare, la quale mettendo da banda difficilmente c’è disposizione d’una legge, che ne contenga varie, alla quale non si possa dare un senso affatto diverso di quello che ha. E nella fattispecie se vero fosse che anco nelle provincie non infeste da brigantaggio e tali non dichiarate da regio decreto si potessero stabilire le Giunte secondo l’articolo 5 riferito, la conseguenza sarebbe che il Ministero potrebbe stabilire delle Giunte ovunque gli piacesse, poiché in quale parte d’Italia (per vero in niuna parte del mondo) non sono oziosi, vagabondi o persone sospette? Possibile dunque che il Parlamento volle tanto arbitrio concedere al Ministero di sospendere ovunque il corso ordinario della giustizia e stabilire di cotali Giunte? Oh la pretensione è assurda!

E sentite come mai funziona la Giunta di Palermo.

Di cotali tribunali straordinari, sventuratamente se ne leggono molti nelle istorie sotto i Governi tirannici; però io non so tribunale in cui almeno non si sentisse l’incolpato, non il Santo Ufficio, non le Giunte del Governo di Ferdinando IV di Napoli al 1799; non i Consigli statali d’Austria, non i Consigli subitanei chiamati di guerra in Sicilia sotto Delcarretto. Anzi in alcuni di cotesti tribunali di vendetta e di sangue sovente si sono intesi anche i testimoni.

Ma la Giunta di Palermo non ascolta neanco gl’incolpati; li condanna senza sentire che cosa possano allegare a loro difesa; una spia, un calunniatore possono perdere un innocente. Negare la difesa, sacro diritto naturale, che anco i popoli barbari non hanno negato! Oh vane parole di Mario Pagano, misera Italia, come scorda gli ammaestramenti e le sventure de’ suoi grandi! E quindi alti si muovono i lamenti di infelici condannati!

Da uomini a cui debbo prestare ogni fede perché di intemerata coscienza, mi si scrive che nel comune della Bagherìa, prendendosi equivoco dall’omonimo di un tale che aveva realmente commesso un omicidio, e che si trova sotto processo, se pure non sia condannato, si arrestarono due fratelli che portavano certificato e del sindaco e del capo della guardia nazionale, di essere stati sempre di ottima condotta; si tengono quaranta giorni nel carcere senza essere mai interrogati; infine la Giunta istessa si accorge che aveva sbagliato; ma la Giunta non isbaglia, il Governo non erra, e quindi non errano mai i suoi dipendenti, e sino all’ultimo birro sono ornai tutti infallibili! (Risa) E che cosa determina la Giunta? Essa determina di scegliere uno dei due per la deportazione, come atto di pietà colui il quale aveva una famiglia meno numerosa; e siccome uno aveva sei figli, o più, l’altro ne aveva quattro, si sentenzia la deportazione a colui che aveva quattro figli!

Mi si scrive ancora che un altro povero uomo dell’età di 65 anni, padre di quindici figli, agricoltore al villaggio Colli, è stato anche condannato alla deportazione senza essere interrogato!

Non so se ancora penda la suprema sanzione che sta in mano del ministro dell’interno investito di ottomano Visirato. (Si ride)

Signori, un’inchiesta parlamentare è indispensabile per chiarire tutti questi fatti.

Ed anche io chieggo che il Parlamento dichiari illegali le Giunte stabilite in Sicilia. Anzi mi si dice che il Consiglio di Stato ha dichiarato illegali le Giunte ed illegale la scelta che il prefetto della provincia di Palermo fece di consiglieri a componenti della Giunta.

Nè qui, o signori, mi dica alcuno colla solita pur troppo triviale obbiezione: dunque voi non volete puniti i rei! Io voglio puniti i rei, ed i rei di qualunque specie, e non solamente i rei di misfatti comuni, ma ancora i funzionari pubblici che hanno violato in Sicilia Statuto e leggi e che voi non volete puniti, ma voglio puniti i rei e non gli innocenti.

Ogni volta che si punisce un innocente, ordinariamente si lascia impune un reo, e quando gli innocenti si possono punire come i rei, allora, o signori, lo spavento è in tutti i buoni, l’incoraggiamento è nei malvagi, e la civiltà è ita da un consorzio umano!

PRESIDENTE. Se l’onorevole D’Ondes-Reggio vuol riposare per cinque minuti....

D’ONDES-REGGIO. Volentieri, se la Camera me lo permette.

(L'oratore riposa per dieci minuti. )

CAMERINI. Domando la parola.

PRESIDENTE. Ha la parola.

CAMERINI. A suo tempo, dopo il discorso dell’onorevole D’Ondes-Reggio.

D’ONDES-REGGIO. Signori, a me pare che di salde ragioni non si possano in niun modo allegare contro la mia proposta d’una inchiesta parlamentare, pure nella mia mente ho ruminato quali per avventura speciose obbiezioni si potrebbero fare.

Primieramente pare, lo intesi buccinare, si voglia oppormi: volete un’inchiesta parlamentare per fatti per cui è in corso il procedimento penale?

Rispondo: primamente per molti reati non vi è nessun procedimento, anzi, o signori, tutti i reati di cui ho parlato alla Camera, tutte le crudeltà sono non solamente impunite, ma non c’è affatto disposizione alcuna per procedersi in giudizio, eccetto per due: pei tre bruciati vivi, e per il mutolo tormentato col ferro e col fuoco.

E secondamente rispondo: perché mai, se vi ha un procedimento giudiziale, non si può fare un’inchiesta parlamentare? Qui una questione teorica: or dunque anco voi smettete la qualità vostra d’uomini pratici per diventare uomini teorici. Pria d’ogni altro vi dico che ciò è contrario al fatto stesso della Camera. A Napoli per il brigantaggio erano i procedimenti penali, erano giudizi in corso, eppure si ordinò l’inchiesta parlamentare.

Ma vediamo la vera teoria costituzionale.

I poteri in un reggimento costituzionale sono indipendenti l’uno dall’altro, il legislativo, l’esecutivo, il giudiziale. Il che importa che nessuno di questi poteri può usurpare le funzioni dell’altro; importa che né il potere esecutivo, né il legislativo possano annullare una sentenza già pronunziata, né imporre al magistrato di pronunziare piuttosto in un modo che in un altro. Ma questo non significa mica che il potere legislativo, che è il potere sovrano, non possa sorvegliare gli altri poteri.

Niuno mette in dubbio che esso può sorvegliare il potere esecutivo, anzi è ufficio suo di sorvegliarlo continuamente per vedere se mai viola la legge; ed è ancora ufficio suo per conseguenza di sorvegliare il potere giudiziario, senza impedirne l’esercizio, per vedere se fa il suo dovere oppur no. Altrimenti ne avverrebbe che il Ministero potrebbe sorvegliare i magistrati, quindi potrebbe destituirli, o denunziarli alle Corti cui spetta giudicarli, se mancano al loro dovere, secondo i casi, o traslocarli, ed il potere legislativo non potrebbe far nulla, dimodoché se mai il potere esecutivo si mettesse d’accordo col potere giudiziario per commettere delle ingiustizie, il potere legislativo non potrebbe recarvi alcun rimedio.

Addipiù i procuratori del Re fanno i processi. Il Governo ordina loro di procedere o di non procedere: essi sono agenti del Governo, come lo sono i prefetti nell’ordine amministrativo....

MICHELINI. Domando la parola.

D’ONDES-REGGIO. Secondo le leggi di Napoli e di Sicilia, i procuratori del Re erano magistrati indipendenti dal Governo, istituzione assai migliore di quella d’essere meri agenti del Governo, eppure noi l’abbiamo dovuto perdere!

Ondeché una inchiesta parlamentare su fatti che sono sotto procedimento giudiziario è inchiesta che va indirizzata sopra agenti del Governo, e non sopra magistrati.

L’esempio dell’Inghilterra è poi decisivo sulla materia, essa è il paese nobilissimo in cui si sono primamente formate le prerogative del Parlamento, adottate quinci appo gli altri paesi d’Europa. Ora, quando mai si è posto in dubbio in Inghilterra, che la Camera de’ comuni si avesse la facoltà di fare una inchiesta che versasse sull’amministrazione della giustizia?

Ed un celebre esempio valga per tutti.

L’inchiesta contro Warren Hastings, al 1783, fu appunto chiamata, e fu, inchiesta sopra l’amministrazione della giustizia. Dietro la quale si fece la relazione alla Camera de’ comuni. Quindi si passò all’accusa innanzi alla Camera dei lords, esposta da Burke. Vi furono compresi tutti i complici di Hastings, giudici o non giudici, ed infine si dibattè il solenne giudizio.

Anzi, o signori, da questo che ho detto voi rilevate che in Inghilterra si fa di più: non ostante già siano cominciati i procedimenti giudiziari, quando si tratta di gravi reati, di violazione della Costituzione o delle leggi da parte di pubblici funzionari, come fu appunto in quel caso di Hastings, la Camera dei comuni porta accusa innanzi la Camera dei lords onde il procedimento è levato agli ordinari istruttori, il giudizio è levato alla cognizione delle assisie. Imperocché certamente, avvenuto un reato, si procede tosto, e non si attende se mai la Camera dei comuni voglia conoscerne con una inchiesta e portarne l’accusa a quella dei pari.

 Signori, forse a questo si replicherà, noi vogliamo l’inchiesta, ma un’inchiesta amministrativa, e non una inchiesta parlamentare.

Rispondo che la vostra inchiesta amministrativa non avrebbe alcun valore. Ancorché tutti i fatti esposti si trovassero non veri, nessuno, o signori, presterebbe fede perché voi ed i vostri dipendenti sareste in ciò giudici e parte. E per vero quando da tre anni in qua si è mai visto un esempio che un funzionario pubblico manomettendo la legge fosse stato punito?

E non basta citare il fatto orribile di Somma, cinque uomini innocenti tolti di notte tempo dalle loro case, alle mogli ed ai figli, ed all’alba dell’indomani fucilati! Chi fu punito? Niuno.

Qui nella Camera varii deputati accusavano un tale, non so il nome, né se lo sapessi lo direi, che non voglio dare ad alcuni neanco la celebrità di Erostrato, accusavano un tale di aver fatto fucilare senza norma alcuna numero di uomini in Calabria: furono voci al deserto.

E che dire per Sicilia? Brutalmente si arrestarono venerandi vecchi ottuagenari ed altri rispettabilissimi cittadini in Palermo, e si tennero in carcere per più di un mese sotto l’indegna, e stupida insieme, calunnia d’essere eglino i capi di sciagurati pugnalatori, mentre su questi capi si è gettata cenere. Che punizione si ebbero i funzionari di polizia, il procuratore del Re non indocile a’ consigli di quelli? Niuna.

E smettete, signori ministri, seppur l’abbiate, la massima assai volgare che il principio di autorità è da tenersi elevato, e che le punizioni a’ pubblici funzionari lo menomerebbero. Il principio d’autorità è perduto quando si stabilisce sull’ingiustizia e sulla iniquità, non è più un principio morale, ma una forza materiale che ogni altra forza materiale maggiore attacca e distrugge.

Credo che un’altra risposta mi si para contro: voi lamentate tutto ciò che si è fatto in Sicilia in questi tempi, eppure noi abbiamo deliberazioni di Consigli municipali i quali ringraziano la provvidenza del Governo per quelle misure eccezionali e severe.

Signori, deliberazioni di Consigli municipali non c’è Governo che avendo in mano la forza, non ne abbia avute; ne ebbero anche i Borboni (Oh! oh!Rumori); tutti ne hanno avuto, tutti sempre potranno averne.

I Borboni ne ebbero da’ comuni di Sicilia e dai comuni di Napoli. (Mormorio) Anzi a Napoli ebbero anco preghiere di abolire la Costituzione!...

Ma a me che preme di ciò che deliberano i Consigli municipali di cento città, di tutta Italia, che preme se anco tutta la misera razza d’Adamo domandi un’ingiustizia? Io dico no; la giustizia non dipende dalla volontà degli uomini, ella sta sulle leggi eterne che Dio ha creato per reggere il mondo.

Signori, a me non fa meraviglia alcuna che si siano fatti cotesti indirizzi di ringraziamento, anzi non mi meraviglierei se si domandasse qualche ricompensa nazionale, non mi meraviglierei neppure che qui venissero i ministri a proporre un’apoteosi per coloro che hanno così operato. (Oh! oh!Rumori)

Così va il mondo, quando la giustizia ha culto e la libertà è nel suo splendore, allora Jackson, l’eroe di due guerre, per aver carcerato illegalmente due individui, ciò che credette necessario alla vittoria, fu chiamato dinanzi ai giudici e fu condannato.

Hastings, che salvò l'impero britannico nell’Asia, per aver adoperato mezzi non onesti, fu carcerato, accusato dai comuni d’Inghilterra innanzi ai Lordi, lungamente umiliato, fulminato dall’eloquenza di Burke, di Sberidan e di Fox. Ma quando la giustizia è ludibrio dei potenti e la libertà un vano nome, allora a Nerone, dopo aver dato un calcio nel ventre alla madre sua ed avere abbruciato Roma, il Senato decretò onori divini. (Bene! bravo! a sinistraMormorio al centro)

Signori, se a tutti i fatti che ho esposto aggiungete un disturbo in ogni pubblica cosa, ogni ceto di persone danneggiato per insipienti leggi e peggiori governativi ordinamenti, un generale sistema di concentramento condotto all’estremo, che è una insopportabile oppressione, e pensate se in Sicilia v’ha universale scontento! Dirò franco: v’ha abborrimento misto ad un certo stupore come di cose che non furono mai viste, né mai udite. (Mormorio) Oh no, la memoria per un po’mi falliva; furono viste dal 1713 al 1720; sei secoli addietro sotto gli Angioini; venti secoli addietro sotto Verre, ma allora la Sicilia mia ebbe a difensore Cicerone. Ahi! quanto è il mio dolore, che non ho l’eloquenza di quel grande; ma sono a lui superiore pell'amore che porto alla Sicilia perché io sono siciliano, e pel culto che porto alla giustizia perché io sono cristiano.

Signori, fra quanti mi hanno scritto degli infausti casi, niuno mi ha detto: rimostrate al Governo, fate interpellanze, o proponete inchieste; i più si sono taciuti dopo le lagrimevoli narrazioni, altri soltanto hanno soggiunto: tenetevi in un dignitoso silenzio, noi non speriamo cosa alcuna da alcuno, ci appelliamo a Dio. (Rumori al centro)

Ma io, signori (con calma), non dimentico di aver giurato d’osservare lo Statuto, e quindi ho creduto mio dovere di far appello anche agli uomini. Che se essi non risponderanno al mio appello, tutta la colpa rovescierà sulla loro testa, e l’animo mio sarà tanto afflitto quanto la mia coscienza è serena. (Bravo! bene! a sinistra)

PRESIDENTE. La parola spetta al deputato Greco Antonio.

GRECO A. Mi riserbo di parlare dopo la risposta del signor ministro, perché le cose che io voleva dire hanno relazione con ciò che ha detto l’onorevole D’Ondes-Reggio.

PRESIDENTE. Noti che allora io dovrei mantenere l’ordine dell’iscrizione, non le potrei dar facoltà di parlare che secondo il medesimo.

GRECO A. Sta bene.

LA PORTA. Chiedo di parlare per una questione di ordine.

Quando avrà parlato il signor ministro debbo pur rispondere qualche cosa: allora...

PRESIDENTE. Il ministro della guerra ha facoltà di parlare.

DELLA ROVERE, ministro della guerra. (Movimento di attenzione) Innanzi tutto mi permetta la Camera di ringraziarla della compiacenza da lei usata a mio riguardo nel ritardar fino ad oggi queste interpellanze; io gliene esprimo la più viva riconoscenza. Imprenderò ora a rispondere all’onorevole D’Ondes-Reggio.

Le accuse da lui formolate con molta eloquenza, debbo dirlo, non sono giuste, né vere.

Prego la Camera di udire da me prima come fossero le cose di Sicilia nella primavera di quest’anno, quali disposizioni il Governo abbia creduto di dover dare per provvedere ai disordini che colà regnavano, e quali sieno le lagnanze pervenute a questo Ministero, poiché tutte le querele che si mossero contro quei provvedimenti mi furono mandate, e le ho qui dinanzi. Debbo poi dire che sono poche: e quando le avrò lette, esporrò alla Camera quali sono i vantaggi che si sono raccolti dalle disposizioni prese. Ne verrà quindi facilmente la conclusione che si debba assolutamente rigettare la preposta d’inchiesta fatta dal deputato D’Ondes-Reggio, che noi, ministri, consideriamo come un voto di sfiducia al Ministero. (Bene! a destra e al centro)

Non potrei meglio far conoscere lo stato delle cose in Sicilia alla primavera, che leggendo un rapporto che mi fu mandato da Girgenti dal generale Govone al momento in cui stava per intraprendere le sue operazioni.

Mi sia concesso di leggerne una parte:

«Se non che dal concetto che ho potuto farmi sul luogo del brigantaggio che infestava la provincia di Girgenti, mi parve che non vi fossero mai grosse bande di malfattori ordinate e costantemente riunite sotto un capo. Furono visti soventi alcuni armati commettere aggressioni, fu catturata qualche persona, furono mandate moltissime lettere di scrocco, furono commessi frequenti omicidi barbari, ma non ebbe esistenza il brigantaggio come si pratica nel Napoletano.

«I malviventi, fatto un colpo, rientravano generalmente a casa loro o stavano in campagna nelle vicinanze del comune, sicuri che nessuno osava denunziarli all’autorità e sicuri di non essere riconosciuti dall’arma dei carabinieri, troppo giovane ancora ed ignara del paese per poter compiere al suo servizio come praticava per l’addietro.

«I malviventi assai numerosi, sussidiati talora dai renitenti o disertori, avevano preso animo e dalla fuga dei prigionieri di Girgenti nell’inverno 1862, e dalla libertà ridata a coloro che, arrestati durante lo stato d’assedio, erano stati deportati a Gaeta, e dalla diminuzione di forze militari in Sicilia.

«Le aggressioni, gli scrocchi avevano intimorito al più alto grado i proprietari del paese. Giovandosi di questo timore s’aumentava il numero di coloro che, dimorando nelle città mandavano lettere di scrocco, che si vedevano puntualmente soddisfatte, senza dare querela all’autorità.

«I malviventi prendevano vieppiù animo da ciò che nessuna solidarietà esiste fra la gente onesta, e nessuno si adopera a scansare altrui un male che non lo colpisce direttamente. La gente onesta diventava vieppiù timorosa per la solidarietà che esiste invece fra i malfattori, i quali non tardano a far cadere la vendetta su colui che accusa un malvivente e ne facilita le ricerche alla giustizia.

«I proprietari non osavano più sortire dall’abitato del proprio comune e talvolta non erano sicuri che nella propria abitazione.»

E si fa accusa a noi di aver messo il cordone! (Ilarità)

Proseguo: «I malviventi avevano insomma il sopravvento. L’eccesso del male aveva già prodotto una reazione favorevole e portato qualche rimedio al momento dell’ingresso delle truppe nella provincia. Alcuni atti di energia dalla guardia nazionale di Regalmuto, che trasse dalle carceri e fucilò un malvivente, una compagnia di guardia nazionale a cavallo organizzata a Girgenti, una operazione fatta dal presidio di Girgenti sopra Favara aveano alquanto migliorato la condizione della pubblica sicurezza.

«Lo stato dì cose sopra descritto indicava il modo con cui si doveva procedere per la ricerca dei malviventi. Fu riconosciuto essere altrettanto proficuo ricercarli in paese, con arresti di coloro che erano indicati dall’autorità politica, quanto il batter la campagna per l’arresto dei latitanti. I due mezzi furono impiegati contemporaneamente.

«La Sicilia, soprattutto la provincia di Girgenti, sotto alcuni aspetti, è in condizione che si avvicina ai mezzi tempi.

«Esistono odii di famiglia e di parte che spingono ai più crudeli eccessi. Basta ricordare l’esterminio di una famiglia di Resuttana, ove la plebe eccitata da un nemico di quella uccise il capo della famiglia, la moglie di lui, i bambini, non rimanendo agli altri lontani parenti che di emigrare in altro comune. Basta ricordare le ostilità scoppiate in Regalbuto nel 1862 fra due famiglie che si aggredirono a colpi di fucile e posero assedio alle case. Basta ricordare i fatti di Santa Margherita, ove la plebe aizzata da un partito fece eccidio dell’altro, e minò e fece saltare il Casino di Compagnia, ove esso si era ridotto. Basta ricordare i fatti di Castellammare, ove eguali origini produssero simili conseguenze.

«Il commettere dietro una siepe omicidio per odio di famiglia e per vendetta è considerato dall’opinione pubblica come cosa pressoché onorevole (Rumori a sinistra e voci: No! no!) e l’omicida di questa specie non desta orrore: è quasi riguardato come valoroso, e come in altri paesi colui che siasi battuto in duello.

«Mi accadde essendo a Grotte che tre fratelli omicida si costituissero alle truppe. Mi si chiesero da due cittadini (credo membri del municipio), poche ore di libertà per divertire quegli imputati prima che entrassero in carcere. Sortiti dalla mia stanza e scesi per la strada i tre omicida trovarono folla di gente che andava a gara ad abbracciarli.

«Mi accadde alcune volte che discorrendo coi più rispettabili cittadini del paese, di taluno omicida non si voleva qualificato per malfattore: aveva commesso omicidio, ma era onesto.

«Ne consegue che chi aiutasse le ricerche dell'autorità di un omicida, sarebbe considerato vile dalle masse, così come chi deponesse in giudizio contro di lui.

«La popolazione non si rallegra che dell’arresto di colui che commette molti reati di sangue, senza ragione che il furto e la prepotenza esercitata contro tutti. La presentazione di alcuni di questi alle truppe, fu salutata dalla pubblica soddisfazione in Favara ed in altri luoghi. Per contro, durante il mio soggiorno a Girgenti fui richiesto dall’autorità giudiziaria dell’arresto di undici imputati appartenenti alla guardia nazionale di Montaperto, i quali avevano ucciso un malfattore di questa specie senza forma di processo, ed insieme uccisa anche la moglie. Gl’imputati erano, in fuori di ciò, contadini benestanti e tranquilli. Il loro arresto fu impopolarissimo, e destò lagnanze da parte della guardia nazionale di Girgenti.

«Ma anche contro i malviventi tenuti da tutti e odiati, scarseggierebbero i testimoni in giudizio per timore della vendetta dei parenti dell’accusato o di lui stesso, se viene assolto. In generale non danno indizi alla pubblica forza riguardo ai reati di sangue, fuorché i parenti degli uccisi e fra essi forse solo coloro che non possono vendicare da sé stessi l’offesa, come sarebbe la vedova dell’ucciso.

«Mi furono citati a Girgenti da quell’ottimo giudice istruttore fatti terribili, come la disparizione di persone senza che né si trovasse il cadavere, né testimonianze, né si avessero indizi, fuorché tanti quanti bastavano a gettare il sospetto sopra taluni proprietari. Non mancano fra i proprietari gli omicida o i mandatari per omicidio. Non sono introvabili i casi di parenti che uccidono i parenti per usufruirne più prontamente l’eredità; né mi fu detto i casi di avvelenamento. Ma soventi difettano le testimonianze per omicidi sulla pubblica piazza e gl’imputati vanno fuori carcere.

«Non ricorrendosi alla giustizia per la repressione dei delitti, o questa riuscendo impotente, ciascuno cerca nelle proprie forze la difesa. Quindi ho in Girgenti sentito parlare molte volte di facinorosi, resisi temuti per reati ed omicidi consumati, protetti e tenuti al servizio di proprietari, come guardiani di campagna o servi, onde facessero rispettare la proprietà e la vita del padrone. Veri bravi di altri tempi in altri paesi.

«Mi si raccontava di un signore di un altro circondario che era stato catturato da sette facinorosi, un anno addietro, ed aveva dovuto pagare grosso ricatto. Nel volgere di pochi mesi i sette malviventi erano stati trovati morti, ed il barone diceva maliziosamente, per ognuno sparito, che il dito di Dio gli faceva giustizia!

«Talora i malviventi s’impongono ai proprietari. Poche settimane prima che le truppe entrassero nella provincia di Trapani fu sparato, sulla pubblica passeggiata, al barone Burgarella, maggiore della guardia nazionale, un colpo di pistola che non lo colpì. Egli dice che l’assassino è un tale imputato che poco prima aveva inutilmente cercato di essere ricevuto al suo servizio.

«Sebbene gli omicidi avessero di molto scemato dopo l’ingresso delle truppe nella provincia di Girgenti, ne accaddero parecchi durante il mio soggiorno colà.

«Un antico percettore di Favara fu barbaramente ucciso. Altri omicidi accaddero a Grotte ed in vari altri luoghi. A Sambuca una guardia comunale che aveva una sola volta servito di guida ad una pattuglia di Caltabellotta per la ricerca di malviventi, fu ucciso pubblicamente in paese poco prima che arrivassero le colonne mobili. ,

«Quest’ultima specie di fatti, che si ripetono frequenti, esercita non poca influenza a dissuadere le popolazioni dall’aiutare la pubblica forza e la giustizia nelle sue ricerche.

«Ai mali istinti del popolo non è un correttivo la religione. Essa prende le forme di un’idolatria sacrilega. In un grosso borgo del circondario di Girgenti un anno addietro, mentre si stava portando in processione una venerata immagine della Madonna, giunse notizia di una zolfara che rovinando aveva seppelliti molti operai. Il popolo andò in furore contro l’immagine.

«Essa fu spogliata, fatta a pezzi, bruciata sulla via, e seduta stante si raccolse una colletta per fare edificare altra immagine più benefica. In alcune delle zolfare presso Girgenti gli operai tengono il lumicino acceso avanti l’immagine grossamente modellata del diavolo, e le rendono culto.»

A questa descrizione della situazione di quell’isola io debbo aggiungere un estratto dei reati commessi contro i carabinieri in Sicilia.

Una voce a sinistra. E quelli commessi dai carabinieri? (Rumori)

Altra voce a sinistra. Li diremo noi.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Furono uccisi 16 carabinieri, 64 furono feriti. (Movimento)

Ma a questa situazione bisogna aggiungere poi un male gravissimo per la sua immensa estensione: il male dei renitenti e dei disertori.

Il deputato D'Ondes-Reggio disse che la leva in principio non incontrò difficoltà, che si fece con entusiasmo. Io lo debbo in questo contraddire.

La leva del 1840 (era la prima, quella che si faceva sotto l’impressione dell’entusiasmo) diede 4987 renitenti; la leva del 1841, diede 5870 renitenti; la leva del 1842, 8241; in totale queste tre leve 1840-41-42 diedero sui ruoli dei renitenti 19,298 individui. (Segni di stupore)

Dopo questi vengono i disertori, cioè quelli che erano stati inscritti sui ruoli della seconda categoria, e che chiamati non si presentarono; questi sommano a 2952 per la classe del 1840, ed a 2656 per quella del 1841: totale 5608.

Finalmente dai corpi diversi dell’esercito, di quelli inscritti che avevano obbedito alla legge sulla leva ne erano disertati 1419. Addizionando tutte queste cifre troviamo un complesso di 26,225 individui. (Sensazione)

A questo male si era cercato riparare con gli arresti ordinari, come si usa in tutte le altre parti d’Italia dove i renitenti ascendono forse a 150 in ogni provincia: se ne arrestarono così 3759 con molto stento, ma restavavano sempre 22,366 renitenti e disertori, tutta gente fuor bando.

Ora, domando io, cosa doveva fare il Governo in presenza di uno stato di cose così deplorabile: quando i cittadini non potevano più circolare per le loro occorrenze, e non solo non potevano uscir fuori del comune, ma non potevano scendere in piazza, né nella strada, se non col timore di essere uccisi d’un colpo di fucile per non aver voluto rispondere ad una lettera di ricatto?

Quando si riconobbe che nella maggior parte delle aggressioni prendevano parte renitenti e disertori, io stimai necessario che il Governo dovesse addivenire a provvedimenti energici: ma quali furono?

Da ogni parte di Sicilia mi giungevano lagnanze per mancanza di truppe; tutti i prefetti mi scrivevano la stessa cosa; il ministro dell’interno mi ripeteva queste querele.

Io però che vedeva la disposizione delle truppe su tutto l’intero Stato, non poteva assolutamente diminuirle nelle altre parti d’Italia per portarne un numero maggiore in Sicilia; pensai allora che atteso il carattere del Siciliano il quale difficilmente si allontana dal suo villaggio, si sarebbe potuto praticare un altro modo per ridurre al dovere tutta questa turba di renitenti e di malviventi, e quindi ordinai al generale Carderina che portasse sulla periferia delle provincia di Caltanissetta e Girgenti, che erano quelle più infestate, venti battaglioni, e ne desse il comando al generale Govone.

Io non intendo qui fare l’elogio del generale Govone; dico solo che l’ho scelto perché ha tutta la mia fiducia.

Egli ebbe istruzioni di recarsi con questi battaglioni dalla periferia verso il centro di quelle due provincie per arrestare i renitenti ed i disertori.

In sulle prime le truppe praticavano in questo modo: andavano nei villaggi battendo la campagna; se trovavano qualche giovane che dall’apparente età potesse essere sospetto di renitenza o diserzione, lo interrogavano e lo conducevano al paese, e lo tenevano finché il municipio e le autorità dichiaravano che non era renitente, né disertore.

Il generale Govone procedette in tal maniera per un po’ di tempo; finalmente vedendo che non poteva in questa guisa provvedere efficacemente, pensò di appigliarsi ad un mezzo più energico per liberare il paese da tutta quella zizzania.

E questo modo quale si fu? Si andava in un paese, si metteva un cordone, non si lasciava più uscire alcuno, e poi si andava al municipio e se gli diceva: avvertite che nessuno può più uscire dal paese; dite ai renitenti che si costituiscano, perché noi non vogliamo andarcene senza che siano arrestati. (Bene!)

Avvertite che se i renitenti non si costituiscono in un dato tempo, noi faremo visite nelle case dove essi stanno; avvertite che se non li troviamo in quelle tali case dove sappiamo che devono essere ricoverati, metteremo dei piantoni: e finalmente avvertite che se non potremo con questo mezzo assicurarci dei colpevoli, metteremo in sequestro i parenti che danno loro vitto e alloggio e ricovero (Oh! oh! a sinistra) e non cesseremo dal cercarli finché non siano costituiti. (Bravo! Bene! a destra)

Quanto alla visita delle case io credo che la legge comune lo permetta perfettamente, perché, dacché taluno è portato sulle liste dei renitenti, queste vengono passate per copia al procuratore del Re ed ai carabinieri onde siano arrestati senz’altro. Così si procede a tenore di legge per tutto il regno. Se il renitente è in una casa, si va in quella a cercarlo; quindi in ciò la legge non si viola menomamente.

Or bene, o signori, questi provvedimenti che a me pare non siano così barbari, produssero immensi risultati!

Appena si metteva un cordone, appena si erano fatti quei bandi, i renitenti cominciavano a presentarsi, e laddove c’era un ritardo alla presentazione, se si cominciava a distribuire i piantoni, allora era tutto finito, venivano tutti a costituirsi.

A questo modo operando il generale Govone potè raccogliere oltre a 4000 disertori e renitenti. (Benissimo!)

Ciò posto, io credo che non si possa dire che in questo modo si sia fatto del male, quando si ebbe un così splendido risultato. (Segni di assenso a destra e al centro)

Io vi esposi, o signori, i modi coi quali si procedette: ora vengo alle lagnanze che mi furono sporte. Veramente me ne vennero pochissime, non sono che sette, ma appena mi arrivavano, posso assicurare la Camera che io domandava immediatamente informazione in Sicilia, e mi pervenivano tosto, e tant’è che a tale proposito io posso fornire i più ampi schiarimenti.

La più insistente e più generale lagnanza che si muoveva era quella della privazione dell’acqua quando le truppe mettevano il cordone: certo che nelle località che avevano le fontane fuori del paese era un sagrifizio quello di non poter bere per quelle dieci o dodici ore che durava il cordone.

Voce a sinistra. Che dieci ore?

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Quanti giorni?

Voce a sinistra. Otto giorni. (OhSegni di diniego)

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Allora sarebbero morti. (Segni d'assenso ed ilarità)

Dunque io diceva che messo questo cordone, naturalmente quando le fontane erano fuori, gli abitanti non potevano andar a bere. Ma, ripeto, gran male non lo ha fatto questa misura (Mormorio a sinistra); nessuno n’è morto, nessuno ha sofferto, e i renitenti si sono costituiti immediatamente: non mi pare dunque che questo provvedimento possa tacciarsi di essere così scellerato ed infame.

Verrò adesso alle lagnanze speciali, giacché questa dell’acqua sorse dappertutto.

La prima lagnanza speciale che ho ricevuta mi giunse per mezzo del generale Govone, il quale mi scriveva così da Girgenti il 3 agosto (si avverta che le operazioni erano cominciate col luglio, quindi duravano da un mese e qualche giorno):

«.... Finora ebbi una sola lagnanza riguardo ad un battaglione del 19° fanteria, che passando di notte presso un campo di melloni lo devastò. Feci fare una perizia, ed il battaglione pagò 153 franchi equivalenti al danno.»

Io credo che quel campo non ha mai prodotto tanto al suo proprietario. (Ilarità)

CRISPI. Là le campagne producono tesori.

Voci a destra. Silenzio!

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. La seconda lagnanza mi venne per mezzo del ministro dell’interno: vede la Camera che i ministri stavano tutti attenti.

Quel ministro aveva ricevuto un dispaccio telegrafico il quale annunziava che non si era voluto lasciar sortire da Favara, cinta da cordone, un tal Mendolìa. Nel comunicarmelo diceva vedessi se si poteva lasciarlo sortire. Io telegrafai si badasse chi fosse, e se non vi era difficoltà lo lasciassero sortire.

La risposta del generale Govone mi venne il 4 agosto ed è la seguente:

«Ho l’onore di riscontrare colla prima occasione che mi si presenta alla lettera di V. S. pervenutami coll’ultimo corriere, relativa al reclamo giunto al ministro dell’interno da Vincenzo Mendolìa (invece di Medaglia), di Girgenti.

«Costui è proprietario in Girgenti ed in Favara. Stabilitosi dalla truppa uno stretto cordone attorno a Favara che conteneva renitenti, e che è conosciuta come il focolare dei malviventi dell’intera provincia...» È la vera sentina di assassini e di altri rei di quella provincia, i quali conveniva aver nelle mani ad ogni costo.

«Il Mandolìa si presentava dopo alcuni giorni al colonnello Eberard onde sortire dal paese. Il colonnello non giudicò la cosa conveniente per l’andamento delle operazioni.»

Vedranno, signori, da un’altra lagnanza, che una persona presentavasi al cordone per sortire, e siccome aveva ottenuto un salvocondotto potè sortire. Ora costui era un omicida carico di più delitti. Non si doveva dunque lasciar sortire gente con tanta facilità se si volevano avere i renitenti ed i malviventi..

«Intanto un individuo francese di origine venne da me a chiedere che il Mandolìa potesse sortire. Risposi che avrei scritto al colonnello Eberard di lasciarlo andare, se ciò non pregiudicava l’operazione; altrimenti no. Quando il colonnello ricevé la mia lettera, il Mandolìa aveva già ricevuto la libera uscita, che il colonnello Eberard gli aveva data dopo 48 ore dal momento della domanda.»

Questo Mandolìa è un cittadino che possiede in Girgenti ed in Favara. Girgenti e Favara non sono molto lontane; credo che siano lontane forse come Torino e Moncalieri: tale almeno è l’idea che io mi faccio.

Quest’uomo quando era in Favara si presentava come cittadino di Girgenti, e quando era in Girgenti diceva di essere di Favara onde poter sortire.

Ostacoli gravi non ci furono, e, come ho detto, anche prima che arrivasse la risposta del Governo si lasciava che quest'uomo liberamente uscisse.

Ma quand’anche non fosse stato lasciato libero così presto, io domando se simili accuse sarebbero molto gravi per il Ministero.

Viene ora una lagnanza molto più importante del municipio di Burgio, una lagnanza fatta sul genere di quelle del municipio di Licata che vi ha letta l’onorevole D’Ondes-Reggio.

Se permette la Camera, io la leggerò, perché indica da una parte l’esagerazione delle idee di questi paesi in certe cose, e come le cose più semplici siano travisate in forma di grandi reati.

(Leggendo) «Il sottoscritto sindaco, l'uffiziale del Governo, il commissario della guerra, il rappresentante sovrano del comune fu vilipeso, abbattuto, sequestrato e pubblicamente malmenato.

«E la carica offesa che reclama riparazione.

«L’annesso verbale e la deliberazione della Giunta municipale giustificano abbastanza gli eccessi arbitrari commessi dal maggiore signor Volpi, del 67° reggimento di linea, contro cui lo scrivente vivamente reclama.

«Il militarismo armato od il croatismo sinonimale del maggiore signor Volpi deve trovare appoggi nella legge?

«E impossibile, perché per trovarli sarebbe mestieri lacerare prima la legge stessa.

«Lo scrivente, nel trasmettere a V. E. il verbale, chiede l’alto suo appoggio, perché il potente braccio dell’E. V. può solo far impartire quella giustizia che con speranza attendesi dal sottoscritto sindaco, vilipeso nell’esercizio di quelle funzioni che sono come un prisma di quelle dell’E. V. (Ilarità)

«Se l’impedito esercizio delle funzioni, il sequestro, l’arresto e le offese fatte pubblicamente ad un sindaco, che rappresenta lo Stato in un comune, rimarranno impunite, chi sarà a continuare, chi sarà ad accettare la carica, che sovente diviene il ludibrio e lo scherno del militarismo brutale armato?

«E la legge, e non il diritto detestabile di Obbes che deve prevalere.

«Eccellenza, giustizia si chiede.

«O lo scrivente, od il maggiore Volpi dovrà essere punito.

«In caso d’indifferentismo è parata la dimissione di colui che, non uso a soffrire violenze armate, ama meglio lasciare quella carica che in diritto rappresenta una superiorità a quella del maggiore di linea signor Volpi che difatti calpestò e vilipese.»

A questa è annessa la dichiarazione del comune. Leggerò prima tutte le accuse contro il maggiore Volpi, poi leggerò le sue difese.

Voci. Faccia leggere.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Non sono stanco.

«L’anno 1863 il giorno 2 agosto in Burgio e nel palazzo comunale alle ore 24 circa.

«Noi, Vito D. Giandalia, sindaco della comunità di Burgio, uffiziale del Governo e commissario di guerra, assistito dal vicesegretario comunale Francesco Valenti, e nell’esercizio delle nostre funzioni, fregiati della sciarpa tricolore, si è presentato a noi un capitano del 67° reggimento di linea sotto il comando del signor maggiore Volpi, cui non appalesossi di nome, ma pòtrebbesi da noi riconoscere nei modi di legge, e in tuono marziale c’intimò che, ove infra un’ora non avessimo presentato nelle mani del maggiore Volpi il nominato Giuseppe Cardinali avrebbe immantinente passato all’arresto di noi e del nostro vicesegretario; al che si rispose che la nostra autorità non poteva essere così vilipesa, e per altro l’autorità municipale non poteva avere ingerenza nell’affare che poteva riguardare il Cardinali.

«Il capitano replicava che se spettava a lui ponderare il valore e le ragioni da noi addotte, vi si conformava; però era esecutore dell’ordine del suo superiore maggiore che doveva praticare, e così si accommiatò.

«Noi intanto, seguendo l’esercizio delle funzioni nostre e particolarmente per la provvista dell’annona e di tutti gli altri mezzi di sussistenza, e nel mentre il vicesegretario redigeva lettera officiale da trasmettersi allo stesso maggiore, onde spiccare un permesso perché la truppa che da due giorni ci tiene assediata la comune, lasciasse passare un espresso che per affari urgentissimi di nostra comune si doveva da noi spedire al superiore in Bivona, si presentò a noi il detto maggiore Volpi, spalleggiato dal capitano testé nominato, dal brigadiere dei carabinieri, e ci intimò l’arresto di noi e del nostro vicesegretario, ingiungendoci di dover partire fra un’ora per Sciacca ed indi per Girgenti, e tosto chiamando all’armi i soldati che il palazzo comunale accerchiavano, a noi presentatosi impose loro di riguardarci come arrestati; al che noi, rispondendo, manifestammo che dovevamo cedere alla forza, ma che intanto il maggiore doveva considerarsi di avere arrestato un sindaco, un uffiziale del Governo, un commissario di guerra, la di cui rimozione è riserbata solamente al Re (Dio guardi).

«Nulla scosse il maggiore signor Volpi, e noi ed il nostro vicesegretario rimanemmo in arresto, accerchiati dai soldati armati, e parati alla partenza che di sopra ci aveva imposto.

«Nè questo è tutto, poiché, non soddisfatto della sua atrabile di cui fece sfogo a nostro danno in pubblica piazza, il giorno di ieri nelle ore pomeridiane, e a dare una pubblicità maggiore al nostro arresto, ed una pressione assai aggravante, ci vietavano i soldati di nostra custodia di far salire un sorbetto che noi dal verone del palazzo comunale chiedevamo.

«Erano così passate le ore 2 circa della notte quando quell'istesso capitano, il brigadiere dei carabinieri ed il delegato della sicurezza pubblica, vennero a manifestarci in nome del maggiore signor Volpi la nostra liberazione e quella del vicesegretario, colla ingiunzione però di restare sospesi dalle nostre funzioni, e tutto ciò verbalmente, e di fatti furono rimosse le custodie dell’arresto nostro e del vicesegretario.

«Gli esposti fatti, consumati con discapito della nostra autorità, in faccia ad un pubblico intiero, si potrebbero particolarmente accertare dai signori

Francesco Pilato fu Lorenzo, Francesco Sacerdote, Maniscalco Crisafulli; D. Domenico Viti; Niccolò Serra; Giuseppe Colletti Baronello; D. Michele Maniscalco, ed altri che per brevità non si additano, ma che al bisogno ci riserbiamo espressamente d’indicare.

«Delle cose dette ne abbiamo steso il presente verbale firmato da noi e del vicesegretario, e perché l’autorità nostra fu abbiettata, perduta ogni forza morale, calpestata ed arbitrata la legge, abusate tutte le facoltà, impedita la nostra funzione e sequestrata la nostra persona, chiediamo la punizione del colpevole maggiore comandante signor Volpi, ed al risarcimento dei danni per il sofferto discapito del nostro decoro ed autorità.»

Io dunque domandai tosto informazioni appena ricevuta questa lettera che è datata da Burgio 6 agosto.

Scrissi a Palermo al comandante del dipartimento. Allora le truppe avevano già marciato, il generale Govone era già lontano, e dovette scrivere a questo maggiore Volpi. Le informazioni non arrivarono che il 81 agosto, ma vede la Camera che, appena si aveva un richiamo, comunque sembrasse straordinario, vi si andasse dietro.

Il maggiore Volpi rispose a tutti questi reclami appoggiandosi a documenti che qui tengo.

Dalla risposta che abbiamo ricevuto si rileva che le cose stanno a questo modo. Si erano arrestati parecchi renitenti e disertori, e si tenevano rinchiusi in una casa. Venne l’ordine di traslocarli a Girgenti, credo; allora una gran massa di popolo si mise d’attorno alla casa dove erano rinchiusi, e fece tumulto. Perciò il tenente uscì e andò a prendere alcuni soldati, cinque o sei, e venne con questi per far allargare la folla; in quel mentre il maggiore Volpi che era sopra, vedendo questo tafferuglio scese, ed anche egli aiutò a far sgombrare il sito. Questi adunque sono gli atti inumani che il sindaco di Burgio dice che si sono usati verso la popolazione.

Riguardo poi al ferimento dello Sparacino (negli atti di quel comune si accusava anche il maggiore Volpi di aver dato delle sciabolate ed un tale Sparacino). Egli ciò nega assolutamente, e scrive: quando io scesi per disperdere la folla presi la sciabola in mano perché la dovevo prendere comandando della truppa, ma non feci il menomo male ad alcuno.

Riguardo all’appunto che gli si fece di vietare l’uscita ai cittadini, egli asserisce che è vero, ma non poteva lasciar uscire una popolazione da un paese mentre era incaricato di eseguire l’arresto dei renitenti, disertori, e malviventi dei quali aveva seco analoga lista.

Soggiunge poi che non fu né dal sindaco, né dal delegato menomamente coadiuvato; sul carattere poi di quest’ultimo unisce informazioni, che non conviene qui esporre.

Dunque questo pover'uomo non ebbe il menomo aiuto dal sindaco e dal delegato per trovare i renitenti, e sé dovette mettere i piantoni alle porte, se dovette mostrarsi un po' severo, io credo che non vada troppo accusato.

In quanto a lasciar mancare l’acqua ed il necessario vitto agli abitanti, ho qui documenti autografi in cui è detto che l’acqua in questo paese non poteva essere tolta perché vi sono due fonti dentro il paese.

È quindi erronea quell’accusa. In quanto al vitto è dichiarato che si davano dei salvacondotti a quelli che uscivano onde andare a cercar viveri per la città, ed ho pure qui i documenti.

Mi rincresce proprio di non aver letto la deliberazione del comune di Burgio. In questa si dice ancora che il maggiore Volpi fece arrestare delle donne per poterle possedere, ed anche donne oneste.

Ad accusa tanto indegna il maggiore Volpi rispose mandando due documenti. Uno di questi è del delegato di pubblica sicurezza di Burgio, il quale scrive al maggiore suddetto, che in seguito a’ suoi ordini egli aveva arrestato le donne Antonia Cordova, Giovanna Antoninelli, Caterina Manfredi, Giuseppa Borelli, Antonia Marrica, ecc., le quali erano infette di male. L’altro documento è la dichiara del medico, che avendo visitate le donne suddette le trovò infette. Quindi il maggior Volpi le fece ritirare, perché i soldati non venissero infettati.

E questo diede fondamento al municipio di Burgio, di movere accuse enormi contro il maggiore Volpi.

Quanto all’arresto del cancelliere Guarisco il maggior Volpi scrive: «Oltre al rapporto che ebbi l’onore d’indirizzare alla S. V., come nell’appunto numero 6, le unisco il documento d’informazioni col quale io sulla pubblica opinione ne ordinava l’arresto.

Ora ecco il documento d’informazioni:

«In pronto riscontro della S. V. Illustrissima in margine citato, mi fo dovere di farle conoscere che il nominato Guarisco Vito, segretario in questa cancelleria municipale, non solo si accontentava di avere il suo figlio Leopoldo come disertore alla leva dell’anno 1841, ma bensì fu la cagione che tutti i renitenti di questo mandamento non si presentarono sino a quest’oggi, stante il suddetto Guarisco ha continuamente consigliato i genitori degli altri disertori e renitenti a non presentarli, stante che non sarebbe andato alla lunga che Francesco II rientrerebbe a prendere possesso della Sicilia, in allora sarebbero tutti liberi. Per cui la S. V. Illustrissima non è stata male informata, stanteché l’intiera popolazione di questo mandamento potrebbe rendere testimonianza di tutto quanto sopra.

«Finalmente vedendo le rigorose misure prese dal Governo in questa provincia si determinò a presentarlo lui stesso, ed ecco che tutti gli altri disertori e renitenti gli andarono appresso. Il ridetto Vito Guarisco tiene anche un altro suo figlio, per nome Luigi, sotto mandato di cattura per omicidio volontario, compresane anche la di lui moglie, Noto Marianna, ed in vista di ciò, molti di questi buoni cittadini sono non poco maravigliati come il Governo possa dare un impiego ad un uomo di simil carattere.»

L’impiego non è il Governo che lo dà, è il Municipio.

Quanto all’arresto del sindaco, il maggiore Volpi dichiara che è falso che il sindaco sia stato arrestato, è solo stato messo sotto sorveglianza nel proprio ufficio. Ora dirò il perché.

Questo sindaco, quando fu messo il cordone, domandò al maggiore Volpi che gli lasciasse mandar fuori del paese un certo numero di panattieri e di mugnai per poter rifornire di viveri la città e la guarnigione, e ne presentò la nota che qui tengo. Il maggiore Volpi appose dietro la carta: si lascino passare, però si restituisca la carta, poiché voleva avere quel documento in mano, e ben si appose. Appena i supposti panattieri e mugnai furono lasciati liberi, giunse un carabiniere colla nota dei malviventi principali del paese di Burgio. In questa nota v’era portato certe Giuseppe Cardinale che era appunto fra coloro che avevano licenza di andare a rifornirsi di viveri. Fu allora che il maggiore sdegnato pose guardie alla stanza del sindaco, vietandogli d’uscirne finché non fosse arrestato il Cardinale; ma poi, pensandoci meglio, fece la sua deposizione al giudice contro al sindaco, e lasciò tosto libero questi; non già togliendogli l’amministrazione del comune, ma anzi insistendo perché continuasse nella sua carica, onde il comune non fosse privo di direzione.

Tali sono le risposte date dal maggior Volpi agli appunti fatti dal sindaco di Burgio. Non credo dovervi aggiunger altro. A me pare che il maggiore Volpi abbia agito assai bene in questa circostanza.

Altra lagnanza è quella del municipio di Licata che vi ha letta il signor D’Ondes Reggio e ne lo ringrazio poiché mi risparmia di dover leggere io stesso.

Solo le faccio notare una piccola dimenticanza nel leggere la nota dei consoli esteri che avevano sottoscritto. Egli ha’ letto che vi erano i viceconsoli di Francia, di Russia, di Danimarca, di Prussia, d’Inghilterra, d’Olanda. Ma qui la nota originale che tengo aggiunge, dei Paesi Bassi. (Si ride)

Voci. Si riposi un momento!

(L'oratore riposa per dieci minuti).

PRESIDENTE. Il signor ministro della guerra ha facoltà di continuare il suo discorso.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. La Camera ha sentito dall’onorevole deputato D’Ondes-Reggio quali fossero le lagnanze della Giunta di Licata. Quelle lagnanze mi erano scritte in data del 28 agosto, ed io subito chiedeva informazioni in Sicilia, e ne aveva questa risposta dal maggiore Frigerio.

Non rianderò le lagnanze fatte dal comune di Licata, la Camera le ricorderà.

Ecco la risposta del maggiore Frigerio:

«Rispondo immediatamente al riservato dispaccio 24 andante, numero 1375.

«Da uomo onesto, da leale soldato, con tutta franchezza dichiaro che le accuse della Giunta municipale di Licata portate contro il mio operato colà non sono consone ai fatti, perché in parte false, in parte esagerate.

«Non occorre che io ripeta a V. S. come io giungessi a Licata la mattina del 15 agosto, precedutovi da due battaglioni del. 19“ e del 71° (quest’ultimo partiva subito dopo il mio arrivo), i quali vi tenevano il cordone, e non l’assedio, come sta detto negli atti, già da cinque giorni senza alcun prò.

«Non altro era a farsi che rinnovare le disposizioni già adottate precedentemente per gli altri paesi da me percorsi: bisognava agire prontamente ed energicamente.

«Avendo saputo che i renitenti ed i disertori erano in paese, diedi subito ordine ai reali carabinieri perché fossero ricercati i parenti di quelli che li occultavano, però quali manutengoli. Ed infatti come avrebbero potuto quei disgraziati sottrarsi alle ricerche della forza pubblica, se non se nascosti e nutriti dai loro prossimi congiunti? E come fu mai che in sì poche ore si presentavano cinquantasette fra renitenti e disertori, se non se perché tornate inefficaci le blande e ultralegali prese dapprima, fu forza ricorrere a più severe misure?

«Convocai in pari tempo la Giunta municipale, il clero ed i notabili: esposi loro con gravi e dignitose parole che il Governo del Re lunganime finora, voleva che le leggi fossero osservate; che una legge era in corso contro i manutengoli; che era dovere di ogni buon cittadino l’adoperarsi pel pubblico interesse nella presentazione dei renitenti e disertori, onde alleviare il peso che al comune derivava dalle straordinarie misure attivate; che la presentazione volontaria era una circostanza mitigante, la quale sarebbe stata presa nella debita considerazione dall’inesauribile clemenza di S. M.; che però io sarei stato severissimo nell’adempiere il difficile e delicato mandato di cui era onorato; che nessuno si attentasse di reagire alla truppa nell’eseguire gli ordini ricevuti, poiché l’opposizione alla forza stessa sarebbe stata severamente punita, e se con mano armata, la truppa avrebbe fatto uso delle armi.

«Pregai gli agenti consolari esteri a radunarsi, e loro esposi come il Governo del Re non intendesse punto pregiudicare l’interesse dei loro tutelati; che libera era per questi l’uscita, come pure libero il carico degli zolfi di loro spettanza: in ogni caso mi si, facesse presente qualunque circostanza od incaglio potesse insorgere. Non ebbi mai da loro alcun reclamo.

«E rivoltomi al municipio, dichiarai che accordava per la presentazione spontanea dei renitenti e disertori il termine utile fino alle ore 15 siciliane del seguente giorno 16; ordinava che non si avessero a suonar le campane, e più sotto dirò il perché.

«Il mattino del 17 levai il cordone.

«Ecco le generalità.

«Vengo ai particolari.

«Il reclamo della Giunta di Licata verte su diversi punti che si riassumono nei seguenti:

«1° Chiuso il commercio;

2° Pochi viveri in città, scarsa l’acqua;

«3° Impedito il suono dei sacri bronzi;

«4°. Ordinata la fucilazione e peggio a chi usciva di casa;

«5° Protesta della guardia nazionale e dei consoli contro il mio operato;

«6° Violato domicilio, arresti illegali.

«Al primo appunto rispondo: certo è che un paese stretto da cordone militare non ha più quella libertà di commercio di cui gode altrimenti; se l’avesse mancherebbe lo scopo per cui fu attivato. Faccio però osservare che entrambi i giorni 15 e 16 in cui durò il mio cordone erano festivi, quindi di nessun danno per le commerciali operazioni, massime qui in Sicilia, ove nei giorni di festa nessuno lavora nei campi, e che tenendosi in città gli abitanti, sarebbe riuscita più sollecita la mia operazione.

«Checché ne dica la Giunta municipale, saranno pure stati scarsi i viveri, scarsa l’acqua, ma certamente non difettavano mai i primi, anzi si concedevano i così detti paesini per la sortita onde procurarsene al di fuori. Se poi l’acqua era scarsa, pure bastò sempre al bisogno. Ed io dirò francamente: avrei amato ve ne fosse minor copia, perché più presto avrei raggiunto lo scopo del mio mandato. Nei tanti paesi da me percorsi, l’impedimento dell’acqua fu causa della presentazione di tanti malviventi.

«Diedi l’ordine, è vero, di impedire il suono delle campane. — Fu proprio gran disgrazia? — Questa misura, io non la presi già a casaccio, ma fummi suggerita nei primordi delle mie operazioni, onde ovviare che col mezzo delle stesse si potessero dai male intenzionati segnalare al di fuori ed anche al di dentro le mosse di una pattuglia, gli ordini dati per l’arresto di Caio e Tizio, ed in una parola, di seguitare nel sistema che è in corso in Sicilia, di corrispondere con concertati segnali a grandi distanze, e così deludere le date disposizioni.

«L’appunto della fucilazione per chi sortisse di casa, e di più severe misure (dopo la fucilazione?) è così ridicolo che non vale la pena di essere confutato.

«Vedendo come a Grotte specialmente, si ebbero i risultati migliori dal trattenere tutti in casa, onde raggiungere lo scopo delle domiciliari perquisizioni e dell'arresto dei ricercati (giacché perquisita una casa passavano da una all’altra i ricercati, ed a casa non si rendevano), io l’applicai a Licata, perché mi si voleva tenere a bada con molte chiacchiere, e si mancava alla fattami promessa della immediata presentazione di molti. Minacciai che alla porta della casa di ogni renitente avrei posto una sentinella colla consegna di lasciar sortire nessuno: certamente che la fazione avrebbe dovuto impedire la violazione della sua consegna, ma da questo a fucilare c’è un tratto.

Per chi conosce il carattere siculo, basterà che io accenni che si lascia sorprendere dalle esteriorità; e che fa più impressionò una energica misura, mi si perI metta la espressione, chiassosa, che non una più severa e pacata; me ne appello ai risultati della mia missione.

«Ma questo stato anormale di cose durò poche ore, poiché i renitenti presentavansi a frotte, e non vi era più bisogno di straordinario rigore, cosicché non ebbi neppure il tempo di mettere le sentinelle; soltanto diverse pattuglie percorsero la città per intimare ad ognuno di ritirarsi.

«Si accenna alle proteste degli agenti consolari e all’imponente dimostrazione dell’intiero corpo della guardia nazionale. Io dirò che, entrato nella sala comunale il giorno 16, non ebbi che i ringraziamenti dei primi per le date disposizioni a favore di essi loro e dei loro tutelati, né mi accorsi punto dell’imponente dimostrazione della guardia nazionale, la quale radunavasi pacificamente nel suo quartiere in numero di 30 od al più di 40.

«Aggiungerò anzi che il comandante di quella, Stefano Scicoloni, membro della Giunta municipale, appena reduce da Girgenti il giorno 16, si presentò proferendo i suoi servizi e quelli della guardia nazionale a me (presenti i miei signori ufficiali) per cooperare alle operazioni, ed io accettai di buon grado la sua offerta, cosicché si fecero col suo concorso molte delle lamentate catture.»

Questo Scicoloni protestava poi colla Giunta municipale. (Ilarità generale)

«La Giunta si lagna del violato domicilio, degli arresti illegali, non che della minaccia d’arresto della Giunta stessa. Io non ho conoscenza di alcuna violazione di domicilio, almeno arbitraria, poiché tutte le visite domiciliari e gli arresti conseguenti furono fatti e diretti dall’arma dei reali carabinieri, e talvolta personalmente dall’assessore funzionante di delegato di pubblica sicurezza, Angelo Caffarello, pure sottoscritto al reclamo. (Ilarità)

«Provai di sopra che tutti i parenti dei renitenti e disertori furono arrestati quali manutengoli. Anche la Giunta comunale nel suo reclamo non fa opposizione a questa misura, là ove dice che l’arresto dei parenti avendo portato la quasi totale presentazione dei ricercati, perché affliggere il paese con così dure misure? Ed io risponderò: se non si fossero arrestati i parenti e prese le lamentate misure di rigore, sarebbersi presentati i renitenti ed i disertori che da 5 giorni se ne ridevano del preesistente cordone?

«Ed infatti l’efficacia dell’arresto non ha bisogno di dimostrazione, giacché carcerati 46 parenti si ebbe l’immediata presentazione di 57 fra renitenti e disertori non solo, ma la partenza per Malta di altri 7 parenti, onde prendervi i loro congiunti colà ricoverati.

«Non occorre pur dire che appena presentavasi il cercato, veniva rilasciato il suo parente, sebbene si sarebbe dovuto procedere a termine di legge per occultazione di colpevole.

«Quanto ai residui nove carcerati che emergono dall’elenco unito alla rimostranza, tutti mi furono indicati (e come mai io li avrei diversamente conosciuti?) per tristi soggetti, sospetti grandemente, epperciò a tenore delle generali istruzioni arrestati. Di questi però taluno, più fortunato o più scaltro, potè produrre certificati sia di un numero vistoso di notabili del paese, sia dei giudice di mandamento, e carpirmi la sua scarcerazione. Gli altri li lasciai in consegna ai reali carabinieri. Del resto tutti dediti a delitti di sangue. .

«Però, avvertasi bene, partito di Licata e non appena giunto in Favara, io ricevetti una lettera dal prefato comandante la guardia nazionale colla quale mi pregava di fare presto ritorno a Licata, perché il paese era commosso per l’avvenuta scarcerazione di taluno degli arrestati che altrimenti i renitenti ancora latitanti, procedenti da Malta, non si sarebbero presentati.»

E sempre quello Scicoloni che aveva firmato la protesta. (Ilarità al centro e rumori a sinistra)

«Tale ufficio io lo comunicai al signor comandante le truppe stanziate nella provincia di Girgenti il quale me lo respinse facendomi osservare doversene informare V. 8., alla quale perciò io trasmisi a Trapani e quella lettera e l’avuto riscontro sul cadere di agosto.»

Queste sono le osservazioni che il maggiore Volpi mandò sulle lagnanze fatte dal municipio di Licata.

Ora vengo ad un’altra lagnanza relativa alle misure prese dal maggiore Milani, quando andò a cercare i renitenti a Marsala.

Erano allora convocati i Consigli provinciali. Il prefetto di Trapani segnalò per telegrafo al maggiore Milani, che vedesse di lasciar sortire due o tre consiglieri provinciali che dovevano recarsi a Trapani.

Il maggiore Milani fece dire a questi consiglieri che volessero passar da lui, che avrebbe loro dato un biglietto d’uscita per poter andare per i loro affari.

Questi consiglieri mandarono invece un’altra persona. Il maggiore, non conoscendola, negò i biglietti, poiché temeva frodi, 'e fece dire ai consiglieri di venire in persona.

Questi consiglieri credettero vedere in ciò un’offesa alla loro dignità, non si presentarono e non andarono al Consiglio provinciale.

Venne quindi una nuova istanza dal prefetto di Trapani, perché si lasciassero partire i consiglieri provinciali. Ma il maggiore Milani, avendo tolto il cordone l’indomani, lasciò che i consiglieri andassero pei fatti loro.

Questa è una delle lagnanze che si sono fatte, ed io domando se possa motivare un grave biasimo al Governo.

Dopo viene in ordine la lagnanza relativa allo stabilimento del cordone a Salemi. Questa lagnanza fu fatta da un deputato.

Il prefetto di Trapani scriveva il giorno 28 agosto al generale Govone:

«Ricevo in questo momento (ore 8 pomeridiane) il seguente telegramma che mi affretto di comunicare a V. S. III. ma per quel caso che crederà di farne.»

Il prefetto (Firmato) Sobisio.»

«Al prefetto dì Trapani,

«Comandante truppa Salemi asseta due giorni popolazione, animali; domanda nota malviventi: firma gentiluomini: minaccia carcere: incarcerò madre moribonda. Orrori! Prego dire generale levi subito comando tale persona feroce aspetto, segnalazione, altrimenti vado chiudermi Salemi resistere testa mia popolazione, violenze contro leggi, contro natura.

(Firmato): Il deputato Corleo.»

Voci a sinistra. È della maggioranza.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra, lo non so da che parte segga.

Il maggior Govone, che era a Trapani vicino a Salemi, invitò subito il maggiore che comandava a Salemi a dire come stavano le cose, ed il maggiore rispose immediatamente:

«In quanto all’ampolloso e declamatorio dispaccio pervenuto a cotesto prefetto dal signor deputato Corleo, e trasmessomi nel pregiatissimo foglio della S. V. a margine citato, ho l’honore di inviare alla S. V. illustrissima, non per mia discolpa, ma per semplice dimostrazione del mio operato e della verità, la qui unita deliberazione di questa Giunta municipale, debitamente firmata e direttamente indirizzata alla S. V., dalla quale ella potrà argomentare quanto a ragione si possa chiamare esagerato ed insussistente tale dispaccio.»

Ecco che cosa dichiarava la Giunta municipale:

«Alle 3 antimeridiane del 26 spirante mese arrivò in questa la colonna di operazione per l’arresto dei renitenti, disertori e malfattori comandata dal maggiore del 48° fanteria. Appena giunta la detta colonna il paese fu privato intieramente dell’acqua e stretto di un forte cordone che ne impediva l’uscita.

«Mossa la sottoscritta Giunta dalla costernazione e dallo scontento in cui la mancanza dell’acqua gettava questa popolazione, fece sul proposito delle vive istanze presso il maggiore, le quali felicemente approdarono; e difatti dopo 27 ore di privazione questo popolo si ebbe l'acqua. Il cordone fu poi tolto dopo il corso completo di giorni tre ed una notte. In tal periodo i renitenti si costituirono, e i malfattori furono arrestati.

«Queste misure, benché severissime e non accettabili sempre, vengono giustificate però dal lodevole fine a cui tendono e dai buoni risultati che potrebbero dare sia per la renitenza che per la pubblica sicurezza. j

«La Giunta però non può dissimulare la gratitudine che devesi al Governo perché ha preso in considerazione l’anormale stato in cui si è trovata la nostra provincia, e che vuole a qualunque costo eliminare.

«Lode e gratitudine quindi al Governo, lode e gratitudine anche a questo maggiore comandante la colonna, che con zelo ed operosità ha disimpegnato la sua missione.

La Giunta municipale:

(Firmato): Cav. Cascio, sindaco. (Firmato): Mariano Marino. (Firmato): Gaspare Renda. (Firmato): Michele Racca.»

Riprendo il dispaccio del maggiore. Io l’ho interrotto per leggere la deliberazione.

Continua il maggiore:

«Se tale dispaccio (il dispaccio telegrafico) è stato fatto dal sullodato signor deputato, il motivo fu solamente perché, trovandosi qui il suo nipote in accompagnamento della di lui moglie, non potè uscire dalla linea del cordone, disposizione questa che io aveva emanata per tutti generalmente, e che non poteva derogare per non essere tacciato di parzialità.

«Tanto io ho l’onore di esporre alla S. V. a schiarimento domandato.

«Il suddetto signor deputato poi, invece di interessarsi di queste cose, stando alla semplice asserzione di un suo nipote, il quale neppure è di questo paese, sarebbe stato molto meglio si fosse operato pel ben essere di questo comune dove succedono fatti, che a buon diritto possono dirsi inumani, che, cioè, si lasciano morire d’inedia nell’ospedale i bambini esposti.

«E ciò è tanto vero, che il dottore del 71° fanteria nel visitare gli ammalati di questi battaglioni che si trovano all’ospedale per vedere come venissero trattati, vi trovò una bambina inviluppata in panni di lana quasi moribonda, la quale da qualche giorno non riceveva alcun alimento.

«E ciò perché? Perché il municipio non vuole pagare le nutrici.

«Dimodoché da questo rapporto ricevuto dal dottore, mi portai subito all’ospedale, obbligando una nutrice a dare il latte a quella creatura, soggiungendole che le avrei io corrisposta di mia borsa particolare la dovuta mercede.

«E questo non è il primo caso di tal genere che succede in Salemi, ma dalle altre nutrici, le quali vennero da me per ottenere pagamento loro dovuto per siffatto loro servizio, io ebbi a convincermi come molti altri consimili casi siano successi, e che tanti bambini abbiano dovuto perire perché il municipio non ha voluto pagare le nutrici.»

Questo dunque è il maggiore di feroce aspetto Raiola. (Si ride)

Dopo questa vi è un’altra dichiarazione per il maggiore Raiola, del municipio di Poggio Reale; anche essa è tutta di soddisfazione. Poi viene un rapporto che mi mandò il maggiore Govone, del 6 settembre, il quale mi dice:

«Il signor prefetto di Trapani mi significa che da tutte le parti gli giungono deliberazioni municipali di ringraziamento e di gratitudine verso le colonne mobili per il modo lodevole col quale si comportarono ufficiali e soldati, e pei buoni risultati ottenuti sì nell’interesse della leva militare, che della pubblica sicurezza.»

Il deputato D’Ondes-Reggio ha detto che queste deliberazioni municipali non vanno molto considerate perché, secondo lui, i municipi fanno quello che vogliamo noi, essendo essi soggetti al Governo.

La cosa potrebbe stare se questi municipi fossero quali erano prima del 1860; ma questi municipi sono posteriori al 1860 e sono eletti a suffragio dai loro amministrati medesimi. (Bravo!) Quindi non vedo come possano essere così soggetti (Bene I bravo! a destra e centro) al Governo.

Un’ultima lagnanza che mi viene (e le ho enunciate tutte annoiando forse la Camera (No! no!) con questa lungaggine, ma ho voluto tutte enumerarle perché si veda sino a che punto possono andare le imputazioni fatte al Governo), un’ultima lagnanza è quella che mi venne trasmessa per telegrafo dal ministro dell’interno. Il telegramma era così concepito:

Il principe Beltrani mi prega mandarle seguente telegramma in cifra acciò non ne trapeli il senso:

«Ministro PermisiTorino.

«Operazioni militari colpiscono intera città, quindi illegali ed ingiuste. Prego vivamente perché il Governo ordinasse che tosto si ritorni nei termini della legge 8 agosto: il rigore di essa bastare ed essere giovevole a tutti, mentre dannevole molto soverchiarla contristando infinito numero d’innocenti cittadini. — Beltrani.»

«Come ella sa, le operazioni militari sono dirette dall’autorità militare, ed io mi limito trasmetterle questo telegramma.»

Immediatamente segnalai pel telegrafo al generale Carderina lo stesso giorno:

«Nelle misure che l’autorità militare prende per l’arresto renitenti e disertori Palermo veda di mettersi d’accordo con prefetto ed evitare troppa irritazione.

«Ella sul sito e col prefetto meglio di me può apprezzare. Noi abbiamo qui avuto lagnanze di un tale principe Beltrani.

«Ma badino bene che importa molto l’arresto dei renitenti e disertori, cosicché se popolazione non mostra irritazione è meglio proseguire con i migliori modi. — A. Della Rovere.»

E il generale Carderina mi rispondeva lo stesso giorno:

«Operazione procede accordo col prefetto. A parte qualche reclamo privato, operazione incontra approvazione generale. Si procede con prudenza e calma per cui si va più lentamente che altrove. Si hanno trenta a quaranta presentazioni al giorno. S’ignora affare principe Beltrani. — Carderina.»

Ora, io dico, questo prova che non ci era questo malcontento a Palermo. Osservo poi che nel telegramma si alludeva alla legge dèll’8 agosto; ora la legge dell’8 agosto credo sia quella che sottopone i renitenti ai tribunali militari, ma per sottoporre i renitenti ai tribunali militari, pare a me che prima bisogna arrestarli: io credo che questo sia necessario. (Ilarità)

Il dispaccio del signor Beltrani non aveva dunque niente a fare con queste operazioni...

BELTRANI. Domando la parola per un fatto personale.

DELLA ROVERE, ministro della guerra. Del resto io cercherò appoggio in una persona delle più liberali, alla quale non si potrà certo fare accusa di parteggiare pel Ministero, in una persona che sempre fece opposizione a tutti i Ministeri credendoli non abbastanza avanzati, in una persona alla quale nessuno può negare un altissimo grado d’onestà e di franchezza di parola, nel signor Perrone Paladini di Palermo.

Questo signore scriveva nel giornale II Precursore, il quale giornale credo non possa dubitarsi sia per noi... (Ilarità) scriveva questa lettera, che prego la Camera di permettermi di leggere perché è molto interessante.

(Il ministro Pisanelli legge:)

Palermo, 20 agosto.

«Signor direttore, .

«Nell’odierno numero del suo applaudito giornale, alla rubrica: Cronaca locale, trovo annunciato che il prefetto De Cossilla ha diramato una circolare a talune autorità municipali, colla quale chiede il domicilio dei renitenti di leva del 1842 di Palermo; in essa assicura che fra non guari giungerà fra noi un generale con pieni poteri, a cui il De Cossilla proporrà lo stato d’assedio per ogni quartiere di Palermo, la perquisizione di tutti i domicilii alla caccia dei renitenti.

«Ella si mostra allarmata dalla minaccia di tali misure, e critica la disposizione come nata da una teoria di scuola russa.

«Io ho dubitato che in tutto questo non vi fosse un malinteso che toccò ragionevolmente la sua suscettibilità.

«Questo malinteso pure a me sia provenuto dalla odiosa parola stato d’assedio, che ricorda presso noi epoche di gravi sciagure.

«Io non ho letto le circolari, ma suppongo, e sono sicuro di non ingannarmi, che non si parli in esse di una misura politica, ma di una misura strettamente militare; non è già che si vogliano sospendere le garanzie dello Statuto, ma si vogliono eseguire delle operazioni militari.

«Ella saprà certamente che i renitenti della classe del 1842 in questa città sono arrivati ad una cifra straordinaria. Non voglio entrare nelle cause, mi basta assicurare il fatto.

«Non mi si negherà che questo fatto sia un male grave, e a cui è mestieri si ponga una volta rimedio.

«E un male grave sotto tutti gli aspetti.

«Sotto l’aspetto militare, perché toglie soldati al nostro esercito, e porge il mal esempio alle leve future.

«Sotto l’aspetto morale, perché i renitenti acquistano l’abitudine al vagabondaggio e all’inosservanza della legge.

«Sotto l’aspetto sociale, perché i renitenti si guastano, si associano ai latitanti per reati comuni, e diventano un pericolo per la pubblica sicurezza.

«Si è gridato didatti ripetutamente al Governo: provvedete. Anche il Consiglio provinciale si occupò dei rimedi, e fece proposte al Ministero.

«Il Governo accordò proroghe alla presentazione, promise ed accordò indulgenza; nei comuni dell’interno molti si presentarono, in Palermo però non sono valse né lusinghe, né minaccie.

«Infine un nuovo rimedio si era reso indispensabile; ma quale?

«Qui entrano considerazioni di un genere diverso.

«Di certo mille o due mila renitenti non possono dimorare in Palermo, senza che vi siano almeno altrettante famiglie conscie della loro negghienza, e che loro danno ricovero.

«Questo fatto di per sè basta a provare una specie di generalità nella complicità al reato di renitenza. I parenti, gli amici, il vicinato, tutti conoscono la dimora del renitente, niuno lo consiglia a presentarsi, tutti lo aiutano a sottrarsi alle ricerche della forza.

«Quando un vizio sociale è ordinato sopra sì vasta scala, ci vuole un rimedio efficace per sradicarlo. La renitenza non è nella sua origine un delitto, ma diventa tale pel bisogno che la società ha della difesa.

«Questo bisogno non ammette remora, e quindi anche per questa ragione certe misure si possono rendere indispensabili.

«Aspettare che i renitenti s’inducano o sieno indotti a presentarsi è sciocchezza: in tale stato di cose non resta, che o rinunziare alla coscrizione, o ricorrere a mezzi energici per effettuarla.

«E questi mezzi energici tanto più sono necessari nel nostro paese, quanto più i privati restano sotto l’azione della intimidazione dei renitenti, o dei loro congiunti od amici.

«Nè ci si dica che con ciò noi contraddiciamo alle nostre teorie contro le misure eccezionali; noi siamo stati e siamo opposti a leggi e misure eccezionali per cui sia violata la libertà e sospeso lo Statuto per considerazioni politiche odi pubblica sicurezza; ma quando si tratta di affari militari, Tessere avverso alle misure o leggi eccezionali sarebbe un controsenso, perché la istituzione della milizia è per sè stessa una eccezione al diritto comune.

«Ecco perché lo stato di assedio, come misura militare, io credo sia in talune circostanze indispensabile, esso non sospende la libertà, non serve che al solo fine di nettare il paese dai renitenti. In ciò non vi è arbitrio ad esercitare, perché i renitenti sono quelli che sono, e non vi ha luogo agii equivoci.

«Vero è che i cittadini dovranno aprire le loro case alla forza; ma diremo davvero che in ciò vi sia violazione di domicilio? Sono io un ricettatore di renitenti? In questo caso si ha diritto non solo ad invadere la mia casa, ma sì pure ad arrestarmi. Non sono un ricettatore? Ed allora che m’importa se la mia casa è perquisita?

«Non sarebbe questo, pare a me, il caso di dare l’allarme contro l’arbitrio; sono anzi di parere che i] buon cittadino dovrebbe spontaneo aprir le porte alla pubblica forza. Infine se mi liberano da una classe che è o può divenire perniciosa, io devo esser contento di aver ciò ottenuto con sì piccolo sagrifizio.

«Queste considerazioni, signor direttore, mi sorsero in mente, e credetti far opera buona di darvi pubblicità, con la speranza di far cessare l’allarme, se mi apposi al vero; di ritrattare il mio giudizio se ella o altri mi convincessero di errore.

«Prego lei dunque a dare un posticino nelle sue colonne a questoscritto, e ad aprire sull’argomento la pubblica discussione.

«Mi creda con sensi di stima

«F. Perdoni Paladini.»

Credo non si possa muover dubbio che questa lettera sia stata dettata da un sentimento generoso ed altamente italiano; è dettata da un avversario nostro, ed io ne sono soddisfattissimo.

Voci a sinistra. Bisogna leggere anche gli altri articoli.

DELLA ROVERE, ministro per la guerra. Chiuderò queste osservazioni sulle lagnanze relative alle ricerche fatte a Palermo dei disertori renitenti con un estratto dell’ultimo rapporto del generale Govone.

«Chiuderò il presente rapporto notando come durante le infinite visite domiciliari ed i piantoni militari messi a centinaia nelle case in Palermo non una lagnanza per abuso o disordine od indisciplina si manifestò in tutta la città.»

Le lagnanze che pervennero al Ministero furono tutte da me esposte. Due fatti soli sono gravi. Però non credo di doverne parlar qui. Uno è il fatto atroce di Petralia Soprana; l’altro è il fatto del muto Cappello.

L’uno e l’altro fatto sono ora nel dominio dei tribunali. Nulla di questi fatti posso dire, tanto meno di quello di Petralia Soprana. Credo che una parola mia potrebbe recar danno all’imputato o giovargli forse indirettamente. Credo che una perfetta indipendenza si debba lasciare ai giudici ed una perfetta libertà di azione ai difensori. Una parola detta qui potrebbe aggravare la condizione dell’imputato, o servire a scolparlo. Quindi mi ritiro affatto da questa discussione, deplorando più ancora dell’onorevole D’Ondes-Reggio quel fatto atroce. (Brandi)

Il fatto del muto Cappello è pure sottoposto ai tribunali. Due processi si fanno a questo riguardo: uno è intentato direttamente dall’autorità giudiziaria per sevizie fatte su questo muto o supposte fatte; l’altro è un processo di diffamazione, intentato dal medico Restelli e dal medico Maffei contro il signor Morvillo, che li ha accusati di sevizie. Credo che anche qui non si possa nulla dire; e spero che la Camera vorrà interpretare in bene la mia riserva.

Esposto così lo stato delle cose, iodico: mi pare che non vi sia molta gravità di fatti, escluso quel di Petralia perché anche quello del muto non è cosa importante; ma escluso quello di Petralia Soprana, io domando se questi fatti sono di tal natura da motivare un’inchiesta.

Dirò adesso alla Camera quali sono i vantaggi che si ottennero dalle misure emanate dal Ministero.

Anzi tutto dall’isola tutti quanti attestano che la tranquillità è rinata in molte parti, che gli omicidii hanno diminuito immensamente, che si può andare alla campagna, che le persone che erano sequestrate in casa possono sortire ed attendere ai loro affari, e quindi sono soddisfattissimi. E prova ne siano ì molti ringraziamenti mandati dai municipi, e dei quali potrà parlare il generale Govone. Osserverò ancora che in un circondario non si era mandata la truppa, ed era Alcamo. Il prefetto si era adoperato quanto poteva in sul principio che si procedeva alle misure militari per far costituire i renitenti ed i disertori, e questi veramente si erano costituiti. Allora quando il municipio vide che le truppe non passavano per arrestare anche i malviventi, fece un reclamo e domandò che si mandasse la truppa anche là. (Si ride)

Debbo dire ancora che la leva, che negli anni scorsi diede tanti renitenti, ora procede assai bene, ed ho ricevuto una lettera in data 24 novembre dal prefetto Cossilla, non da me provocata, nella quale mi dice:

«Il sottoscritto gode di poter partecipare al signor ministro della guerra che le operazioni della leva militare procedono con tutta regolarità. Sono pochi gli iscritti sinora che non si presentarono al Consiglio; pare minore la tendenza a commettere frodi per sottrarsi al servizio; e se le cose proseguiranno come sono avviate, il numero dei renitenti non solo non avrà nulla che fare con quello degli anni scorsi, ma sarà di poca entità.»

Ora leggerò alcune cifre che fanno vedere quanta importanza in bene si debba dare alle operazioni fatte.

Io ho detto dapprincipio il numero dei renitenti. Ora vedete che cosa si è ottenuto nelle provincie di Caltanissetta e di Girgenti. I renitenti e disertori arrestati furono 1574; ne restano ancora da cercare 332. Si riconobbe che sarebbe stata vana ogni ricerca per 1478, e questo sapete perché? Perché le liste di leva furono fatte con molto disordine e molti errori. Si inscrisse sulle liste un’immensità di giovani di più che realmente esistesse. Non i municipi, ma la truppa stessa che ricercava i renitenti si diede il carico di ricorreggere anche quei registri, che l’onorevole D’Ondes dice erano disordinati per causa di queste ricerche. Si trovò dunque che nelle provincie di Caltanissetta e di Girgenti 1487 uomini non dovevano essere portati sulle liste.

Ora quale fu la conseguenza di questo numero straordinario portato sulle liste? Innanzi tutto fu che si assegnò un contingente di molto superiore alle provincie di Caltanissetta e di Girgenti rispetto alle altre provincie continentali, cosicché esse, in causa della negligenza dei loro municipi, sottostarono ad un più grave carico di leva; in secondo luogo, non esistendo questa gente, non si presentava, e quindi si annotò quel numero spaventoso di renitenti.

Nella provincia di Trapani si ebbero questi risultati: renitenti e disertori arrestati 938, da ritrovarsi 134, senza traccia 473. Nella provincia di Palermo renitenti e disertori arrestati 1931, ed ancora se ne devono cercare. Oltracciò si ebbero arrestati malviventi e tutto quanto vi ha di peggio, 304 nella provincia di Caltanisetta e Girgenti, 379 nella provincia di Trapani, 517 in quella di Palermo. (Movimenti)

Il risultato totale si è: arrestati 4000 circa renitenti e disertori vaganti, 1200 malfattori: per 8000 renitenti si provò che, od erano morti, od avevano cambiato domicilio, oppure non erano mai esistiti.

Ora, con un risultato tale mi pare che la Camera debba dimostrarsi soddisfatta delle cure del Governo e delle operazioni delle truppe. Io credo che dietro un tale risultato il Ministero possa negare un’inchiesta. I fatti dei quali siamo stati accusati ve li ho esposti; voi ne avete vista l’entità, avete visto se meritano veramente un’inchiesta: sicché io vi dichiaro che un’inchiesta il Governo la considererebbe come un atto di sfiducia; ed io a nome del Ministero stesso la respingo assolutamente. (Vivi segni d'approvazione a destra ed al centro)

PRESIDENTE. Fu domandata la parola da quattro deputati: prima dall’onorevole Camerini per una mozione d’ordine.

CAMERINI. Vi rinunzio, perché ora l’interpellanza dell’onorevole D’Ondes è circoscritta a fatti speciali, estranei a quelli cui è relativa altra interpellanza. pendente per mio conto.

PRESIDENTE. Poi fu chiesta per un fatto personale dagli onorevoli Beltrani e Govone, finalmente dall’onorevole La Porta per una mozione d’ordine.

Do dunque la parola all’onorevole Beltrani per un fatto personale.

(Il deputato Beltrani non è presente).

Non essendovi l’onorevole Beltrani, l’onorevole Govone ha la parola per un fatto personale.

GOVONE. Per giudicare equamente dei fatti compiuti dalle truppe in Sicilia, la Camera non deve collocarsi dal punto di vista di un paese il quale si trovi in condizioni regolari e normali. Non deve neppure la Camera giudicare dall’opinione che possono esprimere i partiti, in Sicilia, dopo quei fatti, ma rimontare all’opinione che esprimeva l’intera Sicilia nei primi mesi dell’anno corrente.

PRESIDENTE. Avendo ella domandato la parola per un fatto personale, la pregherei di attenervisi.

Voci dai varii banchi. Lasci che parli. Parli!

PRESIDENTE. Poiché la Camera vi acconsente, parli pure nel senso a cui accennano le parole con cui ha esordito.

GOVONE. Signori! In Sicilia esistono odii di famiglia e di parte feroci. Essi datano da molto. L’imperfetta amministrazione della giustizia, il mal governo passato, possono avervi contribuito assai. Ma essi sono inspirati sopratutto dal desiderio di supremazia e dominio nel comune.

Intanto la rivoluzione del 1860 porse occasione a questi odii di manifestarsi con crudeli eccidi, ed io conosco molti comuni, potrei citarne qui subito alla Camera una, ventina, ove cavalieri e scribi, greci e latini, sorci e liberali, ed altre parti con altri nomi, nomi non di rado di casati rivali, si gettarono l’una sull’altra, ed ove intere famiglie furono distrutte, uomini, donne, bambini; le case saccheggiate ed arse, non rimanendo ai lontani parenti che di emigrare in altri comuni. Questo mi pare medioevo.

Ma oltre a questi eccidi più clamorosi, molti altri odii trovarono sfogo, ed infinite vendette furono compiute.

Questi fatti, oltre a lasciare dietro di sè maggiori rancori, compromisero colla giustizia un numero considerevole di individui, per lo più popolani, i quali avevano servito di strumento.

A questa prima categoria di individui pericolosi vanno uniti i numerosi malviventi, evasi dalle carceri e dalle galere nel 1860, e per impossibilità di riprenderli, amnistiati dalla Dittatura. Il loro numero si fa ascendere a sei, otto, dieci mila, io non so bene.

Finalmente venne la leva e con essa, una nuova categoria di persone pericolose: i renitenti e disertori, che andavano latitanti a migliaia.

Tanti odii, tanti rancori e tante persone pericolose dovevano produrre i loro tristi frutti.

L’arma dei carabinieri in 24 mesi, del 1861 e del 1862, notò 1500 omicidi, e questa non è ancora la cifra vera e reale, ma si può dire che in Sicilia si commettessero un migliaio d’omicidi all’anno. (Sensazione)

In quanto ai furti, agli scrocchi, alle aggressioni sulla pubblica via, ai sequestri di persona, agli incendi, io domando il permesso alla Camera di leggere alcune linee di un giornale di Girgenti del mese di maggio.

«Il giorno 8 corrente una banda di briganti nel territorio di Naro circuirono la casina del massaro Alà, sequestrarono il figlio, che rilasciarono collo scrocco di una somma che non si conosce.

«Nello stesso giorno, e in quelle contrade si verificarono diversi furti di frumento, farina, accompagnati dalle solite busse.

«Ivi stesso furono involate sei mule e due giumente con seguaci a un tale Marziano, il quale, come si assicura, le recapitò col pagamento di onze cento.

«Il giorno nove la sera la guardia nazionale di Naro, e alquanti carabinieri si portarono nella casina del massaro Alà, per dare la caccia ai briganti. Da Naro si godeva un vivo fuoco, non vi fu danno alcuno, né alcun arresto.

«Lo stesso giorno nelle vicinanze d’Aragona una mano di briganti sequestrò un certo Licata, tassandolo per onze 400. Lo ritennero tre giorni fra la vita e la morte, e infine ci si assicura essere stato lasciato collo scrocco di circa onze cento.

«Nelle stesse vicinanze si rapiva dalle braccia del marito una donna che fu rilasciata dopo pochi giorni.

«In Aragona fu appiccato il fuoco a una pagliara di un tale Di Benedetto.

«Nello stesso giorno nello stradone detto piano di Cleri si videro 20 briganti armati di fucile a due canne, e tromboni di rame, suonando il passapensieri, detto da noi magarrone, e rubando chi passava. Dopo con aria la più disinvolta entrarono nella bettola di quelle vicinanze, sita in mezzo le quattro strade, mangiarono, si ubbriacarono, pagarono, e andarono via.

«In Castrofilippo vicino dell’abitato un tale Pasquale Geraci travagliando nel suo piccolo campo con 22 giornalieri, videsi presentare non meno che 25 briganti armati come sopra. Fu sequestrato, e facendosi passare per tre giorni nei dolori dell’agonia, fu rilasciato al prezzo di onze 60.

«Nel paese San Biagio una mano di briganti minacciavano di assalto l’abitazione; ma accorsa tutta la popolazione, fuggirono.

«Nella borgata Milocca provincia di Caltanissetta, ci viene assicurato che entrata una comitiva armata di pieno giorno, ne rapiva 10 zitelle portandole non si sa dove e quando vorranno restituirle. Ne parleremo all’altro numero.

«Un milite della compagnia di Girgenti a nome Calogero Messina da Camastra accompagnando un trafficante da Girgenti a Naro, ove andava a smerciare la roba sua, fu aggredito da 14 briganti, ed assassinato a colpi di coltello insieme all’infelice trafficante. Le vetture furono traforate da colpi di palle.

«Molti altri furti in ogni dove di animali, frumenti ed altro nella provincia, li riporteremo nel numero seguente.

«Signori del Governo, replichiamo le nostre preghiere di volere rivolgere gli occhi a quest’isola che si chiama Sicilia, e togliere dalla vostra mente quell’idea che manifestaste colla parola esagerazione.

«Siano energiche le vostre disposizioni, ed ordinate a chi di dovere di fare uscire la truppa, i cavalleggieri, i militi, la guardia nazionale.

«Il momento è fatale, e se non si ripara la cangrena piglierà tali proporzioni da non potersi più curare.»

Io ho scelto questo foglio a caso, e potrei prenderne cento altri. Tutti i fogli dei primi sei mesi dell’anno corrente sono ripieni di questi dolorosi racconti.

Io credo, che oltre ai pubblici fogli, anche municipi e collegi costituiti, facessero giungere le loro rimostranze al Governo.

Ad ogni modo io trovo che nella Camera di commercio di Girgenti si firmava una petizione nella quale si leggono questi passi:

«Il brigantaggio si organizza nel nostro circondario in estese proporzioni, i furti, gli omicidi, gli scrocchi, i sequestri di persone si consumano a man salva, senza che una resistenza efficace gli arresti o li prevenga.»

E più sotto:

«Le leggi, un dì del Piemonte, sono fatali alla Sicilia. Quando manca alle leggi la bontà relativa, esse sono una calamità, non beneficio al popolo.»

E più sotto ancora:

«Una grande massa di truppe, di carabinieri, di guardie nazionali, di militi a cavallo, è costretta vedere lo scempio della società, senza che possa mettere un argine al torrente che ne minaccia lo sfacelo, perché bisogna trovare la flagranza o il mandato di cattura! Ma né l’una, né l’altro occorrono così facilmente e così rapidamente da prevenire i reati e da correggerii.»

E finalmente:

«Noi emigreremo con tutte le nostre famiglie per; trovare altrove quella pace e quella tranquillità cui siamo tanto ardentemente desiderosi di riacquistare; abbandoneremo fin da oggi le nostre campagne. Chiuderemo le nostre miniere, nella coscienza di non essere per nulla responsabili degli effetti che ne risentirebbe la società per più migliaia di operai, che sarebbero buttati per le vie in cerca di lavoro e pane.»

Tutte queste lagnanze ripercosse per tutta l’isola ebbero eco in questa Camera stessa e l’onorevole deputato di Girgenti, nella seduta del 17 aprile, interpellando il Ministero tra le altre cose diceva:

«Io credo necessaria la persecuzione incessante della forza armata contro queste bande, contro tutti questi latitanti, unico rimedio perché questi che attualmente non sono briganti, ma grassatori, sieno distrutti, e un brigantaggio non avvenga in Sicilia. Io credo difficile il brigantaggio in Sicilia, ma se dal Governo non vi si riparerà per tempo, all’iniziamento di queste bande ne avremo a temere serie conseguenze.» E il deputato di Girgenti diceva benissimo. (Si ride)

LA PORTA. Risponderemo.

GOVONE. Lo stato di alcune provincie siciliane e soprabito di quella di Girgenti era diffatti gravissimo. Come io diceva in rapporto al ministro della guerra, i cittadini non potevano uscir dal comune, e spesso dalla loro abitazione.

Mi ricordo di un ricco proprietario, il quale per recarsi a Palermo dall’interno dell’isola, si faceva scortare da quaranta de’ suoi cavalieri armati. Dai comuni poco distanti da Palermo i cittadini non potevano venire in città se non riunendosi in carovane armate. I ricatti nell’interno di taluni borghi e città si pagavano colla precisione di una cambiale, per timore di peggio.

Lo spirito pubblico era sommamente depresso.

Le autorità politiche e le giudiziarie non potevano porre argine al male, imperocché a loro non si ricorreva generalmente.

E non si ricorreva e per timore delle vendette, e per un vecchio pregiudizio radicato nel popolo, il quale fa giudicare vile chi fa rivelazioni anche contro il più infame dei malviventi.

Dirò anzi alla Camera che questa virtù del silenzio nel linguaggio popolare ha un nome speciale, e si chiama umiltà, omertà.

Riguardo al timore delle vendette esso è pur troppo giustificato da fatti che accadono tuttodì, di persone uccise nel centro di borghi e di città per sospetto di aver avute relazioni col carabiniere o col giudice.

Io racconterò anzi alla Camera alcuni dei fatti accaduti a me in quelle settimane, in cui esercitai il comando delle colonne mobili.

A Sambuca nella provincia di Girgenti esisteva una banda di 5 o 6 banditi. Una pattuglia venne spedita, e questa pattuglia domandò per guida una guardia comunale.

Questa guida servì la pattuglia fedelmente, quantunque i banditi non fossero per allora trovati.

Il giorno dopo, partita la pattuglia, la guardia comunale fu uccisa nel centro di Sambuca, soltanto per aver servito di guida alla pattuglia.

A Santa Cristina presso Palermo io mandai una compagnia per arrestare alcuni malfattori. Questa compagnia arrestò infatti un pessimo soggetto. Il giorno dopo tre individui si presentavano alla casa d’un parente del sindaco (notate, d’un parente del sindaco) e lo trucidavano, perché si sospettava che il#sindaco avesse dato indicazioni.

Finalmente, o signori, a Bagheria, raccolti i renitenti e malviventi le truppe partivano e lasciavano sei di questi ai carabinieri, perché fossero tradotti in Palermo.

I carabinieri richiesero al sindaco un carro per trasportarli, ed il sindaco incaricò un suo giovine nipote non ancora ventenne di eseguire questo trasporto.

Questo giovane accompagnava a Palermo i malfattori. Quando, messo in libertà dai carabinieri, se ne tornava a Bagheria che dista tre o quattro miglia da Palermo, a mezza strada si presentavano a lui due individui e gli sparavano una pistola in bocca. Il carro trasportò alla casa paterna il cadavere di questo giovane, ucciso solo per vendetta contro il sindaco che si credeva aver date indicazioni alla truppa. (Sensazione)

Signori, questi fatti accadono tutti i giorni. Io ne citai tre, potrei aggiungerne altri.

Di qui, o signori, nasce un gravissimo male per la Sicilia. Imperocché non ricorrendosi alla giustizia per riparazione dei danni sofferti, ciascuno cerca nei proprii mezzi la propria difesa. Quindi, ricchi proprietari del paese che tengono al loro servizio come guardiani di campagna e gastaldi individui malfamati, carichi di delitti, onde colle loro relazioni che hanno coi malviventi e col terrore che ispirano garantiscono la vita e le sostanze del loro signore. E quando costoro, come avvenne sotto una legge eccezionale, cadono nelle mani dell’autorità, intervengono perché siano messi in libertà.

Veri bravi di altro tempo.

L’eccesso del male aveva prodotto nella provincia di Girgenti una reazione favorevole; ma questa reazione si manifestò, come ha esposto l’onorevole ministro della guerra, con atti illegali. Così la guardia nazionale di Regalmuto estrasse dalle carceri un malvivente e lo fucilò senza forma di processo.

A Monteaperto presso Girgenti, come io diceva nel rapporto letto dall’onorevole ministro, la guardia nazionale uccise un malfattore appunto nel momento in cui non credendosi più sicuro della vita del paese, trasportava il domicilio in altro comune; ed uccise anche la moglie.

Io ho fatto arrestare i colpevoli per mandato del potere giudiziario, ma debbo dire che quest’arresto fu disapprovato dalla città di Girgenti.

Finalmente, o signori, ricordo ancora un altro fatto. Un ardito giovane di Girgenti, essendo stato aggredito sulla pubblica via e derubato, il giorno dopo sortì a caccia con alcuni amici tutti armati. Ma a caccia dei ladri, ed avendone trovato uno che stava lavorando il proprio campo, lo uccise, e ritornò a casa contento del successo.

Io attribuisco senza dubbio codesti fatti allo stato eccezionale del paese, ma voglio con questo far notare alla Camera che le condizioni del paese erano tali che giustificavano qualche misura energica.

Il Governo si commosse di sì grave stato di cose, e volle ripararvi. Ma di quali mezzi poteva giovarsi il Governo? Dei carabinieri?

Il ministro della guerra ci ha detto che 68 carabinieri furono uccisi o feriti in Sicilia. Io aggiungerò che, mentre 35 furono colpiti nei due anni 186162, nei soli primi sei mesi del 1863 furono uccisi gli altri 33, e non furono uccisi nell’atto che arrestavano malviventi, ma furono uccisi per la maggior parte proditoriamente da colpi partiti dietro le siepi e dietro i muri.

Molti altri attentati fallirono ancora, perché si dava letteralmente la caccia ai carabinieri dai malviventi.

Alle medesime pattuglie di truppa si cominciava a resistere.

Vi furono parecchi scontri: uno a Misilmeri, uno a Polizzi ed altri in altri luoghi. Ma rammento specialmente che a Castellammare una banda di malviventi e di renitenti resisté ad una compagnia di truppa, la quale ebbe tre soldati uccisi.

Non v’era dunque altra strada a seguire che quella tracciata dal ministro della guerra, di tentare cioè con un nucleo sufficiente di truppa e coll’imponenza della forza di raccogliere malviventi e renitenti.

Il ministro mi affidò questo incarico. Io dirò francamente alla Camera di quali mezzi mi giovassi, e quali difficoltà incontrassi. .

Le truppe, come già si disse, partirono dalla periferia della provincia di Caltanissetta. Esse dovevano entrare in varie colonne mobili toccando tutti i comuni; dovevano raccogliere per la campagna (poiché nessuno ci dava indicazioni) tutti i giovani i quali per la loro età potevano essere renitenti di leva; questi si conducevano al comune.

Al comune si metteva improvvisamente un cordone di sentinelle che impedisse ai giovani sospetti di uscire.

Poi si pregava il sindaco di riunire la Giunta municipale, i parroci, la guardia nazionale ed i notabili cittadini.

Il comandante la colonna mobile li pregava in nome della patria di persuadere ai renitenti l’obbedienza alla legge.

Finalmente, o signori, si faceva bandire per le strade a suono di tromba e di tamburo l’obbligo che incombeva a quelli di presentarsi.

Queste misure influivano da principio sulla immaginazione popolare e qualche renitente venne. Ma poiché le truppe acceleravano la loro marcia sopra Girgenti, e le popolazioni si accorsero che esse non potevano soffermarsi più di 24 o 48 ore in ciascun comune, aumentò la resistenza e nessuno più si presentò.

Così si giunse nella provincia di Girgenti. Nella provincia di Girgenti la questione dei renitenti era altamente complicata con quella dei malviventi. I malviventi in Sicilia non stanno generalmente uniti in bande permanenti come nel brigantaggio napoletano, ma si costituivano bande di malviventi e renitenti, commettevano alcuni misfatti e quindi ciascheduno rientrava a casa sua, protetto da parenti ed amici che lo nascondevano, sicuro che nessuno avrebbe osato rivelarlo al giudice od al carabiniere. Quando io giunsi a Girgenti le bande si erano sciolte.

Quindi io dovetti rivolgermi all’autorità giudiziaria perché m’indicasse coloro che erano soggetti a mandato di cattura, ed all’autorità politica, perché mi fornisse la nota di coloro che avevano preso parte alle bande, e che erano ritenuti avervi partecipato, ed allora commetteva alle colonne mobili di tentarne l’arresto.

Riguardo ai renitenti non saprei meglio descrivere le difficoltà che incontrai, fuorché narrando con qualche particolare la storia del primo tentativo che io feci in un grosso comune.

Si mise un cordone che impedisse ai giovani di sortire. Si domandò l’intervento dell’autorità municipale; essa si rifiutò. Si domandò l’intervento dei notabili cittadini; essi si rifiutarono. Si domandò quello degli uscieri comunali, onde indicassero le abitazioni dei renitenti; essi si rifiutarono e preferirono andare in carcere. Allora che cosa si doveva fare? Si fecero perquisizioni domiciliari, dandovi forma legale, coll’intervento di un delegato o di un brigadiere dei carabinieri.

Raccolti i giovani sospetti, rimaneva sempre la difficoltà di riconoscerli', di sapere chi essi fossero, poiché si cambiavano nome e patria.

Non vi fu altro mezzo, fuorché praticare nel modo seguente:

Avanti alla Giunta, riunita in una sala, si conduceva il giovane sospetto. Egli declinava il suo nome, e la Giunta attestava o no. E per guarentire la sincerità di questo attestato si doveva ricondurre l’individuo stesso avanti un’altra Commissione di otto notabili cittadini che dovevano essi i primi declinare il nome del sospetto e vedere se tutto concordava poiché, o signori, vi era grande difficoltà di constatare se il tale era il tale. Ma così procedendosi fu necessario l’impiego di quattro o cinque battaglioni, e d’una quindicina di giorni per prendere 50 o 60 renitenti. Quando poi i proprietari, stanchi delle noie che ciò loro cagionava, si offrirono di aiutarci, sapete che cosa domandarono? I notabili cittadini, membri del municipio, domandarono di essere tradotti nelle strade in mezzo ad una pattuglia per avere l’apparenza di essere arrestati, e così fosse salvaguardata la loro responsabilità in faccia al paese. (Movimenti diversi)

Io domando alla Camera che cosa dovessi fare di fronte a codesta cospirazione di mal volere e sopratutto di timore, e dico sopratutto di timore perché c’è molto più timore che malvolere.

Dovevo io dire al Governo: la missione che mi avete affidata è impossibile? Doveva io dire a quei cittadini onesti, a quei notabili che avevano bisogno di sicurezza, che non potevano sortire dalle loro case che avevano da due anni e sopratutto da sei mesi abbandonate le loro campagne ai contadini, doveva dir loro: perdete ogni speranza, nell’ultima riserva che rimaneva, quella delle truppe nazionali, il Governo non può far niente? Poteva io lasciar credere ai renitenti, ai disertori, ai malviventi che per essi non vi era mezzo di repressione e di gastigo? (Bravo! Benissimo! a destra)

Io credo che avrei fatto opera di cattivo cittadino e di pessimo soldato. (Bene!) Credetti quindi di dover al caso compromettere la mia responsabilità personale, prendendo quelle misure le più miti possibili, ma che pure fossero pari al bisogno. (Benissimo!)

Allora, signori, ecco come si procedeva. Si metteva un cordone di truppe intorno ad un comune; questo cordone non doveva lasciar uscire dal paese né renitenti, né malviventi; e siccome nessuno indicava i malviventi, non poteva sortire alcuno. Nessuno, perché non si poteva insultare al popolo dicendogli: i proprietari possono uscire, voi invece che avete da guadagnarvi il vitto non potete uscire. (Segni d'approvazione) L’uscita era dunque vietata a tutti, ed ecco il fenomeno che si produceva.

Dopo 24, dopo 48 ore di tal cordone, l’opinione si modificava; quelli che erano ostili, che facevano propaganda contro la presentazione, la facevano invece per la presentazione. Talora, qualche volta, in qualche comune, la guardia nazionale prendeva coraggio e prendeva anche le armi e ci aiutava nelle perlustrazioni e nelle perquisizioni. Qualche notabile cittadino, più coraggioso degli altri, accostava le truppe e dava indicazioni. Allora, signori, venivano a costituirsi i renitenti non solo, ma anche i malfattori, e dopo qualche arresto, qualche perquisizione che producesse l’arresto di un malvivente, venivano gli altri a costituirsi.

Si è detto che furono presi degli ostaggi e che si sono fatte sevizie ai parenti dei renitenti e dei malfattori.

Io respingo questa interpretazione.

In generale non si misero che pochi piantoni alle case dei ricercati. Però nei luoghi dove i renitenti ed i malviventi infestavano più le popolazioni, la gente medesima del paese ci diceva: voi non farete niente, se non torrete ai malviventi il sussidio dei parenti e dei manutengoli che fanno loro pervenire avvisi, viveri, sussidio; si ricorse a questo mezzo. Or bene costoro si prendevano, ma non si mettevano, in generale, in carcere. L’ordine era di metterli in locali appositi, ed in generale si è fatto questo, e non si usò loro nessuna sevizia.

Qualche volta, per mancanza di locali appositi, ne furono messi in carcere, ma non di più; e se vi è stato qualcheduno cui sieno state messe le manette, vuol dire che sarà stato per qualche fatto speciale. Nego recisamente che questa sia stata una misura adottata, non potè essere che un singolo caso.

Allora, signori, moltiplicando le perlustrazioni le più faticose, sopratutto se aiutati da alcuni cittadini e talora dalla guardia nazionale, i malviventi venivano a costituirsi e venivano taluni i quali avevano dieci omicidi a loro carico, perché spaventati e privati d’ogni sussidio.

Dalla provincia di Girgenti, che era la più infesta e dove la resistenza fu maggiore, si passò in quella di Trapani. Questa provincia, che pur sapeva che cosa facessero le colonne mobili, aveva chiesto per organo dei consiglieri provinciali, se non erro, il loro intervento.

E veramente la provincia di Trapani non era guari meglio sicura di quella di Girgenti. Succedevano sequestri di persone, omicidi frequentissimi nel centro degli abitati. Un capitano della guardia nazionale era ucciso alle porte stesse di Trapani, e sulla pubblica passeggiata di questa città ad un maggiore della guardia nazionale, ricco proprietario del luogo, era sparato un colpo d’arma da fuoco.

Tale era lo stato delle cose nella provincia di Trapani. Ebbene, signori, le truppe penetrarono appena, che la metà di un migliaio effettivo di renitenti che vi era, venne a costituirsi spontaneamente dietro l’esempio della provincia di Girgenti, senza che fosse fatto il cordone od altro, e vennero per torme, a suono di tamburo, accompagnati dalle guardie nazionali, facendo evviva all’Italia.

L’altra metà si dovette prendere coi mezzi di cui ho parlato e che furono grandemente esagerati.

Nella provincia di Trapani vi sono due grossi comuni che erano supremamente infestati: Alcamo, capoluogo di circondario, e Castellammare.

A Castellammare dopo la reazione, provocata da odii di parte nel 1821 e macchiata di eccidi e di incendi gravissimi, esistevano ancora latitanti da sessanta individui compromessi e sotto mandato di cattura. Più. un trecento renitenti di Castellammare, Alcamo e Monte San Giuliano che si annidavano su quelle montagne.

Questo comune era causa di frequenti allarmi al Governo.

Ricordo parecchi telegrammi spediti da Castellammare al ministro dell’interno, comunicati a quello della guerra e trasmessi a Palermo per segnalare bande di 100 e 200 briganti raccolti sulla montagna che aspettavano altri 300 o 400 compagni, ora da Roma, ora da Malta.

Questo comune era insomma in condizioni insopportabili e da due anni i proprietari avevano dovuto abbandonare le loro fertili campagne al contadino.

Quando io giunsi a Castellammare venne da me il sindaco e la Giunta e mi dissero di far di loro e del paese ciò che io credessi, purché potessi liberarli una volta da uno stato insoffribile.

Ebbene, o signori, ho fatto a Castellammare precisamente quello che ho fatto in altri comuni.

Ho posto un cordone al paese, un cordone di quaranta chilometri in campagna, isolando l’istmo di San Vito, circondando montagne intere. Il medesimo soldato è stato sei giorni e sei notti di sentinella in un pestifero clima, col sole ardente del giorno e coll’umidità della notte, ma è rimasto là perché io voleva assolutamente liberare quel comune. (Bravo! Bene!)

Altri sei giorni furono impiegati a fare perlustrazioni faticosissime in quelle montagne. Non havvi casa che non sia stata perlustrata, non antro, non capanna che non fosse visitata.

Ebbene, o signori, noi abbiamo arrestato un certo numero dì malviventi, ma se noi avessimo dovuto arrestarli tutti, sarei ancora là. Ma il cordone e la energia delle misure produsse la presentazione dei renitenti e di tutti i 60 malviventi colpiti dall’autorità giudiziaria, fra i quali ve ne erano di quelli che avevano quattro o cinque omicidi riconosciuti. (Applauso a destra)

SALARIS. Non è un teatro questo! (Rumori)

MORDINI. E un quadro troppo desolante per ridere e applaudire.

PRESIDENTE. Si calmino; continui l’oratore il suo discorso.

GOVONE. In Alcamo per contro un’autorità locale mi disse di aver fatti arresti, e non credere necessario l’intervento mio.

Ebbene, o signori, Alcamo mosse per questa preferenza vive lagnanze sui giornali, sopra alcuni giornali, s’intende, ed a ragione, perché in Alcamo continuarono gli assassina in mezzo alle strade, e credo che in una settimana od in un mese, non so bene, ve ne fossero cinque o sei.

So che fu arrestato anche un proprietario il quale aveva sparato un colpo di fucile nella strada pubblica ad un nemico.

Per modo che, terminate le cose a Palermo, fui obbligato a mandare in Alcamo un battaglione; ed un giornale che ricevo oggi, son lieto di dirlo, fa elogi di questa misura e dei risultati benefici ottenuti da quell’ottimo signor prefetto e da quell’egregio maggiore di linea.

Dalla provincia di Trapani si passò in quella di Palermo. Quivi ci furono utili forse le medesime esagerazioni di taluni giornali. Fatto si è che non solo i renitenti erano disposti a presentarsi, ma ancora i malfattori, e 130 malfattori andarono a costituirsi spontaneamente all’autorità di pubblica sicurezza di Palermo prima che noi andassimo a prenderli e senza che noi li ricercassimo, e tra questi vi sono dei capibanda che avevano commessi vari omicidi e sequestri di persone e che erano già condannati a 10, 15 anni dai tribunali.

Quando io giunsi a Palermo ebbi molti complimenti dai migliori cittadini. Non spettavano a me, e quindi posso dirlo con orgoglio, spettavano alle truppe; complimenti per ciò che si era fatto nell’interesse della Sicilia.

Del resto anche le misure che si presero a Palermo da principio erano guardate molto benignamente e si sorrideva quando una pattuglia accompagnava un giovane a farsi riconoscere da una Commissione. Non vi era apparenza di malcontento o di resistenza, assolutamente niente, niente.

A Palermo si dovette fare un cordone di sentinelle che non lasciasse uscire quelli che essendo giovani erano sospetti di renitenza.

Signori, vi erano 4000 renitenti sulle liste. Io sapeva bene che non tutti erano renitenti, che molti erano morti, quindi mi rivolsi al municipio per correzioni alle liste.

E qui dirò che io non accuso il municipio, e molto meno quell’egregio e sotto ogni riguardo rispettabile sindaco, che mi aiutò per quanto potè. Ma le circostanze erano tali che il municipio non poteva far nulla. Ad ogni modo io mi trovavo di fronte ad una lista di 4000 renitenti, senza sapere quali erano i renitenti veri, né dove trovare tutti questi nomi, né quali fossero i morti, e quindi dovetti far verifiche riguardo a tutti i 4000 nomi. Questo durò qualche tempo, perché non si trovò nella popolazione quell’aiuto che si sarebbe potuto ottenere e che si desiderava. Rendo però qui omaggio ad alcuni benemeriti cittadini e parroci per l’aiuto che mi fornirono.

Quando un ufficiale si presentava ad una porta domandando se stava colà un tale individuo, il padrone di casa, che era forse il ricercato, usciva e diceva: non lo conosco. In una strada si domandava a taluno: è questa via Toledo, è quella casa Riso? Esso rispondeva: non so, e la casa era lì vicino.

Signori, queste difficoltà complicarono non poco le cose; quindi si dovè prolungare la misura di non lasciar sortire i giovani. Feci qualche esperienza per rimediare a questo danno, ma praticamente non si potè che lasciar sortire coloro che ne avevano stretto bisogno.

Ciò produsse qualche malcontento soprattutto nei signori, poiché vi erano molti che bramavano uscire, quantunque io abbia sempre rispettata la pubblica passeggiata.

Vi fu quindi qualche lagnanza, ma, o signori, si fece un bene anche a Palermo, perché, sebbene dei 4000 renitenti non vi fossero che 900 fra renitenti e disertori, tuttavia sapete che cosa si fece? Si scopersero numerose frodi in fatto di leva, le quali cadevano a danno del povero popolo. Si scopersero 80 frodi per esenzioni di individui quali figli unici, mentre avevano cinque o sei fratelli (Ilarità al centro), e per queste frodi 150 persone furono già consegnate e molte altre denunciate all’autorità giudiziaria. Trecento o quattrocento omessi dalle liste del 1840, 1841 e 1842 furono iscritti per le leve del 1843 e 1844.

Io non mi estenderò maggiormente sui fatti di Palermo; mi limiterò a dire che le truppe percorsero da 154 comuni, raccolsero più di 4000 renitenti, giustificarono la posizione di 8000 individui, messi erroneamente sulle liste, con minutissime ricerche che assicuro la Camera hanno costato assai fatica agli ufficiali, la quale deve valere alla truppa qualche favorevole pensiero per parte dei Siciliani.

Le truppe raccolsero inoltre 1350 malviventi, un terzo od un quarto sotto mandato di cattura, e fra gli altri molti hanno parecchi omicidi anche senza mandato di cattura. Finalmente si fece pagare mezzo milione d’imposte arretrate.

Egli è evidente che tutto questo non si può ottenere senza ledere qualche interesse e ferire qualche suscettibilità. Da qui le lagnanze delle quali il ministro della guerra già ha tenuto parola e date spiegazioni. Tuttavia in quanto a Salemi dico ancora poche parie.

A Salemi si disse che mancava l’acqua; ve n’era difetto soprattutto per gli animali: ecco tutto. Ma a Salemi fu indispensabile uno stretto cordone, perché vi era un tale proprietario del paese che da 45 giorni era catturato dai malviventi, e francamente era indispensabile liberarlo. Esso fu infatti liberato, venne, ma non volle dir nulla di quello che fosse accaduto, né dare indizio alcuno sui malviventi.

Ma, o signori, oltre alla deliberazione municipale di Salemi letta dal ministro di guerra in giustificazione di quel comandante la colonna mobile, debbo aggiungere che quando i consiglieri provinciali di Salemi andarono a Trapani, ebbero a dire ad un’autorità politica queste parole: noi come liberali abbiamo dovuto protestare, ma ci duole che il generale Govone abbia troppo presto tolto il cordone senza aspettare di liberarci da tutti i malviventi.

Signori, ecco i fatti nostri ed i giudizi dello autorità locali. Io non credo necessario smentire fatti di crudeltà.

Dirò ancora una parola intorno a Licata. Appunto perché era una città importante e di non poco commercio, io cercai ogni modo per risparmiare il cordone a Licata.

Arrivò in primo luogo un distaccamento di truppe, e nel primo giorno un 15 o 20 renitenti vennero a costituirsi. Poi cessò subitamente la loro presentazione, perché qualche persona, forse molte persone consigliavano la resistenza. Io aspettai qualche giorno, mandai due altri battaglioni che battessero pattuglia e feci mettere dei piantoni alle case dei renitenti. I piantoni non riscuotono tasse; e danno solo l’incomodo che risulta dall’avere alcuni estranei in casa.

Anche questo mezzo non portò assolutamente alcun risultate.

Nessun renitente si presentò ed erano già decorsi quindici giorni. Ponetevi un momento al mio posto: che cosa doveva far io? Rinunziare all’opera sarebbe stato di un pessimo esempio per altri comuni.

Visto che le cose andavano sempre così, io bilanciai meco stesso che cosa dovessi fare e pensai che lasciare così Licata sarebbe stato mostrare la resistenza ad altri comuni, i quali vedendo il nessun risultato che la legge e la forza pubblica avevano dinanzi ottenuto, avrebbero detto naturalmente: eh! resistiamo anche noi.

Allora io feci ritirare le truppe dopo 25 giorni e le feci tornare improvvisamente mettendo un cordone a Licata. Ma, per cinque giorni nessuno veniva, forse perché si era cercato di fare tutte le facilitazioni al paese.

A quell’epoca appunto io doveva cambiare uno dei battaglioni di Licata con un altro, perché il primo doveva proseguire per Trapani. Quando il nuovo battaglione fu imbarcato per Licata, lo feci soffermare al molo di Girgenti, e mi recai a bordo del vapore per dare istruzioni al suo comandante, e gli dissi: maggiore, qui si tratta di una città importante, dove io desidero che non si faccia danno al commercio. Ella procuri di fare più rumore che fatti, onde troncare la questione subito e senza danno.

Mi pare che egli abbia saputo interpretare la mia intenzione ed ottenere un pronto risultato senza torcere un capello ad alcuno.

Con ciò io non dico di approvare in massima tutto quanto possa aver fatto ciascuno degli uffiziali; quando sarà provato che alcuno si rendesse colpevole, non declino la parte di responsabilità che me ne può toccare; questo io dico del maggiore Frigerio, che è un ottimo uffiziale, energico, che non risparmiò mai fatica. Egli non dormiva, camminava sempre, e questo per ottenere un risultato che a lui importava assai meno che alla Sicilia (Bravo! a destra).

Il signor ministro ha creduto di non parlare del renitente Capello; non so se abbia anch’io da avere gli stessi riguardi. Ad ogni modo mi limiterò a dire che visto il chiasso fatto dai giornali, ho visitato io medesimo questo Capello all’ospedale. Egli vi entrò come sordomuto, ma il giorno dopo gli si dichiarò una febbre tifoidea algida, malattia che allora regnava nell’ospedale, e della quale morirono parecchi. Consultai i registri: vi lessi più giorni di seguito: «Preparato di chinina» (Risa a sinistra) poi, dopo dodici o quindici giorni: «Si sospende la somministranza dei medicinali per impossibilità di ingestione,» ed applicazione di revulsivi volanti in numero di 30.

Poi qualche altro giorno dopo: «Frizioni di pomata stibiata.»

Visitai l’individuo; egli sulla schiena aveva trenta macchie rossiccie come quando alcuno si scotta con acqua bollente. Poi altre marche biancastre e tonde come lasciano le pustole di un’espulsione cutanea.

Io non so come nella prima perizia siansi potute sommare queste piccole macchie colle altre trenta per farne centocinquanta traccie di ferro rovente. (Si ride a destra)

DE BONI. Queste non sono cose da eccitare l’ilarità,

CRISPI. E' cinismo.

GOVONE. Il dottor Restelli fece una dichiarazione sopra i giornali, ed i periti risposero, ma non risposero mica: non è vero questo o quello: risposero in modo da aggravare le cose senza compromettersi.

Ora, o signori, io ho letto nella relazione del procuratore del Re ciò che avevano detto i periti. Essi avevano detto: abbiamo constatato 154 macchie così e così, e siccome non sappiamo per qual malattia la cosa sia arrivata, non possiamo pronunziare un giudizio definitivo. Questa è l’impressione che me ne rimase.

I periti non han mica detto: abbiamo riconosciuto che voi avete maltrattato un renitente muto e sordo. Questo non l’hanno detto. Del resto poi io dico quel che ho visto, non dico il resto, perché il resto è nelle mani dell’autorità giudiziaria.

Riguardo al fatto di Petralia, il ministro non ha voluto parlarne, ma io debbo dire una parola in proposito.

Quasi contemporaneamente al fatto di Petralia, una pattuglia a Piana dei Greci, di notte, andava per fare un’imboscata a dei malviventi. Questa pattuglia si soffermò vicino a dei casolari. Partì un colpo da una casa, passò attraverso alla pattuglia e bucò l’uscio di una casa di fronte,

Si era sparato contro la forza pubblica; che cosa fece la truppa?

L’uffiziale mandò a chiamare il sindaco. Il sindaco venne; si chiese chi fossero gli abitanti di quella casa e se ne fece aprir l’uscio coll’intervento dei parenti. Si domandò perché si fosse sparato il fucile, e s’ebbe in risposta che si era sparato perché si credeva che fossero ladri o banditi. L’ufficiale non disse neanche: avete fatto male. Lasciò tutti tranquilli e partì.

I Questo colpo di fucile vi mostra da una parte quale sia lo stato, la sicurezza del paese; dall’altra quale sia la condotta delle truppe. Questa norma fu seguita sempre, vi furono altri fatti, nei quali si fece fuoco contro la truppa.

A Prizzi, poco dopo al fatto di Petralia, ci fu una cattura di una donna. Due briganti vennero per prendere la somma del ricatto in una casa nella quale si era nascosta una pattuglia della truppa. Uno dei briganti aprì l’uscio, e visti i soldati, cercò di fuggire. Ritenuto, morsicò i soldati, ma fu preso. Un altro era entrato nella casa, e vista la truppa, chiuse la porta, fece venticinque o trenta fucilate, ed uccise un soldato; ma non volendo lasciarsi prendere, mise fuoco ad alcune fascine che erano nella casa. Quando poi si sentì soffocare dal. fuoco, non avendo altrimenti il coraggio di sfidare la morte, si gettò dalla finestra. La truppa lo prese; aveva ucciso un soldato, non fu per questo fucilato, ma fu consegnato all’autorità giudiziaria. (Bene!)

A Pantelleria c’era una banda di quindici briganti, la quale da tre anni infestava quella provincia. Era una banda altrettanto feroce quanto quelle del Napoletano; aveva commesso uccisioni e reati in grandissima scala; ultimamente aveva ucciso cinque o sei persone, aveva loro mozzate le teste e le aveva portate nel paese. Il paese era in isgomento. La truppa ebbe ordine di fare il possibile per distruggere quella banda, ma per un mese quattro compagnie non poterono far nulla, perché agivano come si agisce nei tempi normali. Io allora incaricai un egregio colonnello di prendere il comando, e gli diedi delle istruzioni.

Questo egregio colonnello pose un cordone attorno il paese, e venne a scoprire, dove era la banda. Attaccatala, essa resistette 28 ore, due soldati furono feriti, ma la banda dovette arrendersi.

Questo fu chiamato da talun giornale il delitto di Pantelleria!

Signori, domandate a quelle popolazioni che cosa rispondono a quel delitto di Pantelleria. Esse porsero vivissimi ringraziamenti al Governo.

La popolazione di Pantelleria domandava che si fucilassero questi 15 individui. Io ho qui molte deliberazioni municipali, una delle quali di Pantelleria dice: che quantunque la popolazione volesse che i 15 briganti fossero fucilati, la truppa si oppose, e volle consegnarli all’autorità giudiziaria.

Queste, o signori, sono le crudeltà che furono commesse. (Bene!)

Del resto, o signori, io debbo dire che quando si feriscono degli interessi o delle suscettibilità, vi sono delle lagnanze.

Io debbo dire che riguardo alla disciplina delle truppe ho 150 e più attestati di sindaci, i quali dicono chela condotta delle truppe fu dappertutto esemplare; la gentilezza dei militari, essi dicono, è tale, da onorare il nome del soldato italiano. (Bravo!) Questo lo dico con molta compiacenza, per omaggio alla verità, e per omaggio alle brave truppe, lo quali sopportarono molte fatiche per compiere il loro dovere, e la Camera pure si compiacerà di sapere così come si formi l’armata italiana. (Bene!)

Del resto, se vi furono cinque, sette od otto casi di lagnanza di Consigli comunali, io ho una ventina di deliberazioni, le quali fanno ampi attestati di soddisfazione. Le ho qui, ma ne risparmio la lettura; e d’altronde l’ora sarebbe alquanto tarda; ma sono tutte deliberazioni che fanno il più grande elogio della moderazione e dello zelo della truppa.

Debbo ancora dire, o signori, che quattro de’ miei comandanti di colonna mobile ebbero la cittadinanza di onore in comuni che avevano liberati dai malandrini. (Bravo!)

Io, o signori, se dovesse la Camera giudicarmi, non le chiederei amnistia, vorrei essere giudicato, perché credo vi sia interesse ad essere giudicato. Se la Camera tien conto solamente delle misure prese senza badare all’eccezionaiità delle circostanze che resero le misure necessarie dovrebbe condannarmi: ma se per contro giudica dei risultati ottenuti, senza badare alla severità delle misure che eccezionali circostanze imposero, dovrebbe altamente approvarmi.

Io non posso certamente sentenziare di me, come non debbo domandare un voto alla Camera: ma spero che essa, senza darmi né lode, né biasimo, riconoscerà che noi abbiamo fatto il nostro dovere, quale era urgentemente richiesto dalle circostanze.

Dal giudizio che porterà la Camera si vedrà se la forza militare possa ancora essere impiegata in Sicilia a vantaggio della pubblica sicurezza. Per me sta che male accadrebbe in Sicilia, quando si togliesse questo mezzo d’azione. La Sicilia sente ora un miglioramento; io ricevo qualche avviso da cui rilevo che in una provincia invece di ventidue omicidi in due mesi se ne sono commessi soltanto dodici. In un’altra provincia la media mensile di trentatrè omicidi nei due mesi che precedettero le nostre misure scese ad otto.

Non voglio estendermi su ciò, ma è un fatto che vi fu un miglioramento. Ma, o signori, per la poca esperienza che ho acquistata, devo dire che questo miglioramento è passeggierò, perché, quando circostanze sociali non permettono ai tribunali di cogliere, di condannare i colpevoli, i malviventi rinascono, e con essi i delitti, e così in pochi mesi si ritornerà alle antiche lagnanze, se l’autorità e la sapienza della Camera e del Parlamento non provvederanno.

È però di conforto su questo infelice stato di cose il pensare che la Sicilia non è perciò sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà; essa si trova in uno degli stadi per cui tutti, Inghilterra, Francia, altre provincie d’Italia, passarono, e ritenere che il tempo, aiutato da convenienti misure, sarà un rimedio sufficiente. Essa è sulla via comune, e conviene aiutarla su questa via.

Questa è l’opinione che io mi feci, e su cui è giudice la Camera. (Bravo! a destra e al centro)

PRESIDENTE. Darò lettura alla Camera di tre proposte che sono state deposte sul banco della Presidenza.

Una è dell’onorevole D’Ondes-Reggio, così concepita:

«La Camera delibera un’inchiesta parlamentare sugli atti governativi commessi in Sicilia contro lo Statuto e le leggi, dal mese di agosto di quest’anno fino ad oggi.»

La seconda sottoscritta da oltre dieci deputati per cui si chiede l’appello nominale sulla votazione della inchiesta parlamentare. (Rumori)

Essi sono gli onorevoli D’Ondes-Reggio, Vito Beltrani, Mordini, Crispi, La Porta, Calvino, Monzani, Marsico, De Luca, Salaris.

La terza proposta è dell’onorevole Bixio, del tenore seguente:

«La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero;

«Considerando che è primo e supremo bisogno dello Stato mantenere l’esercito in quella forza che le leggi prescrivono, e l’onore d’Italia comanda;

«Considerando che ognuna delle provincie ha debito di contribuirvi nelle proporzioni dalle stesse leggi determinate, passa all’ordine del giorno.» (Bravo! Benissimo! dalla destra e dal centro)

La seduta è levata alte ore 6 14.

Ordine del giorno per la tornata di lunedì.

1° Seguito delle interpellanze dei deputati D’Ondes-Reggio e Greco Antonio intorno ai fatti di Sicilia e Napoli;   

2° Seguito della discussione del progetto di legge per l’estensione a tutto il regno della legge sulle privative industriali;

3“ Discussione del progetto di legge concernente il bilancio attivo.




BRIGANTAGGIO E DIMISSIONI DI GARIBALDI



















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