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BRIGANTAGGIO E DIMISSIONI DI GARIBALDI

TORNATA DEL 7 GENNAIO 1864

PRESIDENZA. DEL COMMENDATORE CASSINIS, PRESIDENTE.


(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)


Nella puntata “Il tempo e la storia Brigantaggio: una guerra italiana” andata in onda prima in aprile 2014 e poi nel settembre 2014, un medievalista come  Barbero viene spacciato come esperto del brigantaggio.

Paradossi, mistificazioni e scarsa cultura storica dell’informazione italiana.

Fra l’altro, nella puntata si riporta un filmato di Giorgio Bocca del 1970, nel quale si parla delle dimissioni di venti deputati a causa della repressione del brigantaggio.

Una falsità assoluta, basta leggere gli atti parlamentari.

Alcuni deputati, oltre allo stesso Garibaldi, si dimisero agli inizi del 1864, ma nel resoconto della seduta non si accenna a motivi inerenti il brigantaggio, se non indirettamente per Cairoli, a proposito del quale si scrive:

“L’onorevole Cairoli, deputato del collegio di Brivio, con lettera di Pavia del 31 scorso dicembre, rassegna le sue demissioni.

I motivi ne sono sostanzialmente i seguenti:

1° Il voto del 10 dicembre;

2° Il giudizio che ne ha portato l’opinione pubblica, e le funeste conseguenze che per suo avviso produsse il voto medesimo, quali la continuazione dell’arbitrio nelle provincie meridionali, la perturbazione delle coscienze, e dell’accordo necessario all’adempimento del comune mandato. (Bisbigli).”

Invitiamo i nostri lettori e i naviganti a soffermarsi sul lungo intervento di Pasquale Staninslao Mancini dell’11 gennaio 1864 che si batte per far cancellare dalla legge alcune parti, fra cui la richiesta di modifica dell’espressione “sospetti manutengoli” in “manutengoli”. Da leggere anche l’intervento del piemontese Brofferio del 12 gennaio 1864 che vota contro la legge sul brigantaggio in quanto viola il diritto alla difesa, diritto che in nessuno stato d’Europa, nemmeno nei momenti più bui, venne mai conculcato.

Il voto del 10 dicembre a cui si rinvia nella lettera di Cairoli è quello relativo alla interpellanza sui fatti di Sicilia da parte del deputato D’Ondes-Reggio che potete trovare nel nostro sito, atti parlamentari della Camera dei Deputati dal 5 dicembre 1863 al 10 dicembre 1863.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Zenone di Elea – 9 Ottobre 2014


SOMMARIO. Congedi. = Atti diversi. = Annunzio del ministro pei lavori pubblici Menabrea della promozione del deputato Bella. = Presentazione di disegni di legge sui libri di testo per le scuole secondarie e magistrali, e per disposizioni sul Consiglio superiore d'istruzione. — Convalidamento dell'elezione di Tolentino. = Rinunzia del deputato Garibaldi — Proposizione sospensiva del deputato Avezzana, rigettata — Considerazioni dei deputati Bixio, Bellazzi, Petruccelli, Bargoni e Sineo per la non accettazione della data rinunzia — Osservazioni nel senso dell'accettazione dei deputati Chiaves e Brofferio — Chiusura della discussione, e incidente sulla votazione — Le demissioni sono accettate — Si accettano pure quelle offerte dai deputati Laurenti-Robaudi e Cairoti, dopo incidente sul quale parlano i deputati Cadolini, Cavallini e Sineo — Altre demissioni del deputato Saffi, accettate — I deputati Vecchi, La Porta, Miceli, Romeo Stefano, Cognata e De Boni offrono seduta stante la loro rinunzia che è accettata. == Incidente sulla continuazione della discussione del progetto di legge per la repressione del brigantaggio — Parlano i deputati Sineo, Massari, Crispi, Broglio e Boggio.

La seduta è aperta alle ore 1 12 pomeridiane.

MASSARI, segretario, dà lettura del processo verbale dell’ultima tornata, che è approvato.

GIGLIUCCI, segretario, espone il sunto delle seguenti petizioni:

9628. Il dottore Leonardo Albani, quale rappresentante della compagnia dei facchini di Urgnano, provincia di Bergamo, fa istanza perché la Camera nel discutere il progetto di legge relativo all’abolizione delle società privilegiate voglia adottare quei temperamenti atti a menomarne le funeste conseguenze e riconoscere alla suddetta corporazione il diritto ad un’equa indennità.

9629, L’avvocato Carmine Miraglia ricorre per la quarta volta alla Camera, onde ottenere un aumento di pensione.

9630. Colombo Stefano, domiciliato in Lodi, reclama il trattamento che gli spetta per 10 anni di prestato servizio nelle guardie di finanza.

9631. Giordano Michele, di Catanzaro, già ispettore de’ dazi indiretti, chiede un aumento di pensione per quegli anni di servizio che precedettero la sua destituzione nel 1821 e che non vennero calcolati nella liquidazione della suddetta pensione.

9632. Il Consiglio municipale di Mirabella (Ariano) fa istanza, perché la ferrovia da Foggia a Napoli passi pel suddetto comune, secondo il primitivo tracciato dell’ingegnere Melisurgo.

9633. Il Consiglio comunale di Biccari, circondario di Foggia, reclama contro l’aggregazione dell’ufficio di registro, demanio e tasse esistente nel predetto comune a quello del mandamento di Troia.

9634. Bozza Nicola, sindaco di Montemale (Napoli), reclama l’allontanamento da quel comune di una famiglia la quale vi organizza il brigantaggio e l’opposizione al nuovo ordine di cose.

ATTI DIVERSI.

Presidente. Il deputato Betti, per ragioni di pubblico servizio, chiede un congedo di un mese.

(È accordato).

Il deputato Cocco, per ragioni di malferma salute, chieda che gli venga accordato un congedo quale richiedono le circostanze in cui si trova.

Propongo che gli sia accordato il congedo di un mese.

(È accordato).

Il deputato D’Ancona, per affari urgentissimi di famiglia, costretto a rimanersi in Firenze, chiede un congedo sino al 1° febbraio prossimo.

(E accordato).

Hanno presentato i seguenti omaggi:

Il ministro di agricoltura, industria e commercio — Relazione intorno ai lavori eseguiti nella quinta adunanza del Congresso internazionale di statistica in Berlino, copie 400;

Dottor Gioia Luigi di Napoli — Rappresentanza al Parlamento italiano a prò del corpo sanitario militari marittimo in occasione del libro intitolato: Storia della nuova organizzazione della marina reale, copie 60.

PARTECIPAZIONE DELLA PROMOZIONE DEL DEPUTATO BELLA.

Il ministro dei lavori pubblici scrive in data del 6 gennaio 1863:

«Per disposizione del 31 dicembre 1863 S. M. si è degnata di promuovere l’ispettore di seconda classe nel real corpo del genio civile, commendatore Giuseppe Bella, ad ispettore di prima classe nello stesso real corpo.

«Per effetto di quella disposizione venendo a scadere nel lodato signor commendatore la qualità di deputato al Parlamento nazionale, il sottoscritto si reca a dovere di renderne inteso l'onorevole signor presidente della Camera dei deputati ad opportuna norma della medesima nel dichiarare la vacanza del collegio elettorale di Mirandola.»

Firmato: MENABREA.

DISEGNI DI LEGGE SULLE SCUOLE SECONDARIE
E SUL CONSIGLIO SUPERIORE DI PUBBLICA ISTRUZIONE.

amari, ministro per l’istruzione pubblica. Ho l’onore di presentare alla Camera un progetto di legge sui

libri di testo nelle scuole secondarie magistrali ed elementari.

Un altro sull’istituzione del Consiglio superiore d’istruzione pubblica del regno d’Italia.

Presidente. Si dà atto al signor ministro per l’istruzione pubblica della presentazione di questi progetti di legge i quali saranno stampati e distribuiti.

cappelli. Domando la parola.

PRESIDENTE. Su che?

cappelli. Sono incaricato di presentare un progetto di legge che riflette i progetti già esistenti sul Tavoliere di Puglia.

Io lo presento alla Camera e faccio preghiera al presidente perché sia trasmesso alla Commissione incaricata di esaminare quel disegno di legge, acciò sia preso in considerazione.

Presidente. Sarà trasmesso alla Commissione, anzi al relatore già nominato, il deputato Mancini.

VERIFICAZIONE DI UN'ELEZIONE.

 

Presidente. La parola è al deputato Macchi per riferire sopra un’elezione.

macchi, relatore. A nome, dell’ufficio IV riferisco sull’elezione del signor Checchetelli cavaliere Giuseppe, avvenuta nel collegio elettorale di Tolentino.

Questo collegio è diviso in quattro sezioni: Tolentino, Sanginesio, Caldarola e Sarnano, e conta 498 elettori, dei quali 240 andarono all’urna, ed i loro suffragi andarono divisi come segue:

Al signor Checchetelli cavalier Giuseppe voti 222, al signor Angerilli Filippo 13, al signor Vasari Zenocrate 5.

Il cavaliere Checchetelli avendo quindi riportato più che il numero di voti richiesto dalla legge, venne proclamato deputato; e non essendovi punto osservazioni in contrario, l’ufficio IV m’incarica di proporvi la ratificazione di quest’elezione.

Presidente. Non essendovi opposizione, s’intenderà convalidata l’elezione del signor Checchetelli cavaliere Giuseppe a deputato del collegio di Tolentino.

(L’elezione è convalidata).

DIMISSIONI DEL GENERALE GARIBALDI
E DI ALTRI DEPUTATI - DISCUSSIONE E ACCETTAZIONE.

Presidente. Debbo annunciare alla Camera le demissioni di quattro dei nostri onorevoli colleghi: Garibaldi, Laurenti-Robaudi, Cairoli e Saffi.

(I deputati Petruccelli, Bellazzi, Bixio e Sineo domandano la parola).

L’onorevole Garibaldi, deputato del primo collegio di Napoli, rassegna le sue dimissioni con lettera da Caprera del 21 dello scorso dicembre, e pei motivi espressi...

Avezzana. Domando la parola per una proposta di sospensione.

Presidente. in un indirizzo a’ suoi elettori, di cui trasmette copia.

Questi motivi sono in sostanza i seguenti:

Primo, l’approvazione data dal Parlamento al trattato politico col quale era convenuta la cessione di Nizza alla Francia.

Secondo, il suo disaccordo colle deliberazioni della Camera; onde il bisogno di rassegnare un mandato, che incatenerebbe inutilmente la sua coscienza, e lo renderebbe partecipe di deliberazioni, che egli non approva.

Terzo, e più particolarmente l’ordine del giorno 10 dicembre scorso sulle interpellanze D’Ondes-Reggio.

Alcuni onorevoli deputati hanno chiesta la parola a tale riguardo, cioè il darsi atto di questa de missione.

E mio dovere di ricordare alla Camera una deliberazione del 17 dicembre 1862 secondo la quale il fatto della demissione fu considerato come un diritto, direi, individuale, e di cui è solo arbitro colui il quale la dà; quindi per tacita annuenza alla dichiarazione del presidente, conforme al tenore della discussione seguita, si adottò il sistema da avere effetto alla nuova Sessione parlamentare, e così nella presente, e si seguì in realtà, che le dimissioni si sarebbero mai sempre e senza discussione adottate, dandosi atto delle medesime.

La Camera certo può allontanarsi dai suoi precedenti, ma è mio dovere di richiamare alla memoria della Camera le sue tradizioni, i suoi usi, le sue determinazioni.

Ciò premesso, do la parola a chi l'ha chiesta.

Il primo che l'ha chiesta è l’onorevole Bellazzi.

Avezzana. Io ho domandato la parola per una proposta di sospensione.

Petruccelli. Io ho domandata la parola prima.

Presidente. Coloro che intesero di parlare si fecero iscrivere.

Vennero iscritti: Bellazzi, Bixio, Bargoni, Brofferio e Chiaves.

Petruccelli. Domando scusa al signor presidente; mi pare che niuno si poteva inscrivere sopra una questione che non era all’ordine del giorno.

La rinunzia di questi signori deputati che la signoria sua viene di leggere è stata annunziata in questo momento.

lo non so per quale intuizione dello Spirito Santo quei signori abbiano creduto di farsi iscrivere sopra tale questione. (Ilarità)

Quindi la parola tocca a me per il primo, ed io la cedo all’onorevole Bixio, riservandomi la facoltà di parlare al suo turno.

Avezzana. Mi pare che la parola che io ho chiesta, essendo per una proposta di sospensione, debba avere la precedenza.

Presidente. Vi sono due questioni.

Anzitutto l’onorevole Petruccelli osserva come non si potrebbero ritenere per valide le iscrizioni che si erano prese prima che l’incidente fosse all’ordine del

giorno; ed in ciò io credo veramente che l’onorevole Petruccelli abbia perfettamente ragione.

Quanto all’onorevole Avezzana egli chiede la parola per una proposta sospensiva.

Ma se egli intende che non si debba nulla discutere, cioè se vuole fare solo una mozione d’ordine, gli do la parola...

Avezzana. E mozione d’ordine.

presidente altrimenti la sua proposta, come sospensiva, avrebbe bensì la priorità nella votazione, ma; non quanto allo svolgimento.

Avezzana. Ho chiesto la parola per una mozione di ordine perché, secondo me, si dovrebbe prima di tutto; vedere se non sia da adottare una sospensione.

Io vorrei fare eccitamento alla Camera di sospendere per tre mesi questa discussione affine di lasciare: che in questo frattempo gli amici d’ambo i lati della i Camera possano meglio intendersi su questa vertenza. In questo lasso di tempo si potrebbe con calma venire a qualche favorevole risultato, ed evitare così, senza precipitazione  né violenza, alcuna di quelle impressioni che possono riuscire gravemente spiacevoli al paese.

Qui io non entro nei meriti di Garibaldi, nei meriti così ampiamente conosciuti di quest’uomo; ma dico che quella che io propongo adesso è una prova di affetto e di rispetto che gli si deve tributare.

Presidente. Propone dunque l’onorevole Avezzana che si sospenda di dare atto della demissione del generale Garibaldi.

Avezzana. Per tre mesi.

Presidente. Domando se questa proposta dell’onorevole Avezzana sia appoggiata.

(E appoggiata).

Essendo appoggiata, metto ai voti la proposta, cioè che si sospenda per tre mesi di dar atto della demissione presentata dall’onorevole deputato Garibaldi.

(Fatta prova e controprova, la proposta sospensiva non è adottata).

La parola spetterebbe ora al deputato Petruccelli, ma egli l’ha ceduta al deputato Bixio.

Petruccelli. Parlerò alla sua volta.

Bixio. Io mi dirigo alla Camera non come ad una Assemblea legislativa nelle sue funzioni ordinarie, ma come ad una riunione politica degli uomini più eminenti dell’Italia, e mirando all’altezza del suo patriottismo mi dirigo alla sua coscienza.

Per me in questo momento tace il regolamento, tace tutto; sorge qui giudice la nostra coscienza politica. E così Dio mi dia forza, imperocché sarebbe questo il più bel giorno della mia vita se arrivassi a togliere dalla mente dei deputati che stanno qui radunati le questioni che sono al disotto del giusto livello, alla cui misura deve essere trattata la presente questione.

È stato un tempo, e disgraziatamente l’abbiamo trascorso tutti in Italia, in cui la storia italiana cominciava a leggersi nelle storie parziali. E questo è successo a me pure per lunghi anni. Quando io, per; ispirarmi alla storia passata, leggeva il Tassoni, il Foghetta, il Giustiniani, pareva a me che la mia provincia avesse ragione di battersi con tutte le altre, ed applaudiva a quelle guerre, mi si permetta ora di dirlo, infami che fecero di Pisa quello che è; e che questa Italia, che dovrebbe essere la prima al mondo, hanno ridotta ad essere governata persino da preti. E l’hanno ridotta oggi, nel 1864, ad avere solo 400,000 uomini sotto le armi, ad avere gli Austriaci a Venezia, i Francesi a Nizza ed in Corsica, gl’inglesi a Malta, ed il papa a Roma, insulto continuo al nostro onore.

Ma il tempo cui accennava per me non è stato lungo. Dalla storia parziale d’Italia saltai al Sismondi, e giù fino al Manzoni; e mi accorsi allora che, invece di combattere, bisognava sollevarsi; mi accorsi che gli Italiani si erano sbagliati.

Ebbene in nome di queste lezioni del passato, io invito la Camera a dimenticare la questione che si agita dell’accettazione delle demissioni del generale Garibaldi e dimenticarla dal punto di vista dei partiti.

Io non so chi abbia scritto, chi abbia parlato di offesa, chi abbia detto alla maggioranza ciò che doveva o non doveva fare; ma quel che io so è che la Camera e questo dico non certamente perché io ne faccia parte, è composta degli uomini più eminenti del paese; io ho esaminato l’elenco dei membri della Camera come di quelli del Senato e trovai in questi due corpi gli uomini più ragguardevoli che vi siano in Italia.

Ebbene, questi uomini devono innalzarsi al di sopra delle volgari impressioni; non debbono lasciarsi trascinare dallo spirito dei partiti, dalle piccole questioni.

Si tratta di un uomo cui nessuno in Italia si può dir secondo; si tratta di un uomo eminente che ha reso immensi servizi al paese, il quale, male informato, e lo dico pensatamente, male informato, nella sua lettera alla Presidenza, si riferisce ad un indirizzo ai suoi elettori di Napoli, in cui vi sono cose che non sono vere; e pochi giorni sono io lo scrissi a lui stesso. Non parlo della questione di Nizza sulla quale spiegherò meglio in appresso il mio pensiero, ma nell’indirizzo vi sono cose che non hanno fondamento.

Si asserisce in quell’indirizzo che la Camera ha vituperata la Sicilia; e per me una prova che questo non è esatto si è che il giorno in cui il generale Govone ed il ministro della guerra parlarono della Sicilia, nessuno fece interruzioni; all’indomani soltanto i partiti per delle esigenze che si sono fabbricate hanno creduto di dover vedere in ciò che era stato detto un vitupero contro la Sicilia.

Ma non è; nessuno ha potuto vituperare il proprio paese. Qui non c’è Sicilia,  né Liguria,  né altro; io credo di essere in diritto di parlare della Sicilia, come della Liguria, come di qualunque altra parte d’Italia; e non; havvi alcuno che possa erigersi a speciale rappresentante di una data provincia. Dunque noi non potevamo vituperare la Sicilia. Il generale Garibaldi, dicendo che la Camera avea vituperato la Sicilia, ha commesso un errore. Del resto, dicendo alla Camera che questa ha vituperata la Sicilia, ha con ciò fatta offesa al Parlamento?

Non lo credo. Nessuno ch’io mi sappia può offendere il Parlamento. Come si fa ad offenderlo? C’è troppa gente in un Parlamento per recargli offesa, e se vi ha offesa nelle parole di qualcheduno che si diriga ad un corpo, qual è il Parlamento, ad un corpo, cioè, che è tutto, nel senso inglese, che comprende tutto, che è insomma il Governo, evidentemente l’offesa non arriva fino ad esso, ma resta sulle labbra di chi l’ha lanciata.

Rimane l’accusa per la cessione di Nizza. Io già ebbi occasione di dire più volte al generale Garibaldi il mio pensiero su questo punto, e per quanto possa essere impopolare il dirlo, dichiaro che se fossi stato al Parlamento in occasione della cessione di Nizza, l’avrei votata, e voterei domani altrettanto per la Liguria che è il paese dove io sono nato. (Oh! oh  — Rumori)

E la mia opinione, lasciatemela dire che la spiegherò... .

castagnola. Non è la mia.

Biancheri. Protestiamo!

Presidente. Prego l’onorevole Bixio di non dare così ampia estensione ai suoi ragionamenti.

Bixio. Mi permettano di svolgere il mio pensiero interamente. Se il signor presidente che mi ha dato un segno d'avvertimento sapesse con quanta religione, con quanto amore cerco di arrivare al cuore della maggioranza per ottenere quello che desidero, non mi chiamerebbe alla questione. Può darsi che io dica cose che non siano da tutti intese, ma non è questo al certo per difetto di cuore; però la Camera mi vorrà scusare...

Voce. Parli! parli!

Bixio. La questione per me sta in questo. Se a muovere la guerra all’Austria d’accordo colla Francia era necessario cederle Nizza, il Governo che l’ha fatto, ben fece a cederla; e adesso completo il mio pensiero col dire che non è già ch’io creda che Nizza debba lungamente rimanere alla Francia; no, non lo credo; io ho la convinzione che prima di morire tutto quello che è Italia farà parte dello Stato come oggi è costituito, ma sostengo che bisognava cominciare a far qualche cosa per arrivarci; e qui non parlo da dilettante politico, ma dal punto di vista degli uomini di Governo. Lo Stato prima del 1859 non aveva forze per avventarsi contro l’austriaco con quei dati di certezza nella riuscita che sono necessari ad un Governo, se anche non lo sono ad un individuo, ad un capo di un partito politico.

Conveniva dunque avere qualcheduno con noi, e si ebbe la fortuna di avere la Francia dalla parte nostra; cosicché mediante il suo aiuto potemmo avere forze bastevoli per avventarci contro l’austriaco e riuscire.

Il generale Garibaldi è uno di quegli uomini che non comprendono queste necessità, e non crede che fosse necessario dar Nizza alla Francia. Ognuno di noi lo sa, egli è un uomo a suo modo; se fosse diverso da quello che è non avrebbe l’influenza che esercita; e questo si capisce perfettamente. Egli non è uomo che miri a diventar ministro; non ha mai fatto vita politica e quando si fa una vita politica si hanno molto più nemici che non abbia lui: vivendo politicamente la verità bisogna dirla, e qualche volta convien rassegnarsi alle conseguenze, perché è molto facile fare della popolarità, ma quando si va nelle difficoltà serie, quando si vuol dire quelle verità che si credono utili, allora bene spesso la popolarità se ne va.

Garibaldi appartiene ad una scuola cui in fondo più che per metà appartengo anch’io, la quale crede che basti volere l’insurrezione per avere sempre il modo e gli uomini per fare quello che si desidera. Ma il Governo o quelli che sono l’espressione della maggioranza del paese non dividono questa opinione.

Io ricorderò un piccolo fatto, un episodio, che darà luce a quanto accenno, e che proverà come non sia sempre vero quello che gli uomini della nostra scuola vanno credendo.

In un momento solenne, il giorno due ottobre a Napoli, quando cinquanta mila uomini del Borbone si avventavano contro ventitré mila dei nostri, un partito generoso che vi era in Napoli cercò raccogliere tutti gli uomini che là si trovavano disposti ad appoggiarci nella lotta imminente.

Or sapete quanti quel partito ne raccolse?

C’è qualcheduno qui che può renderne testimonianza; ne raccolse trentasette. (Movimento) Si trattava di aiutare ventitré mila uomini disseminati, in cattive posizioni, che erano attaccati da cinquanta mila, ben difesi e ben collocati, e non si trovò nessuno. Questo prova che non si può fare gran fondamento sulle convinzioni morali, perché con quelle soltanto non si vince. (Movimento di sensazione)

Egli è dunque certo che l’impresa nazionale non poteva riuscire senza l’aiuto francese. Ora io dico che se per avere favorevole la Francia (è un mio giudizio, io non sono ministro, non faccio trattati, chiunque mi può contraddire, quindi esponendolo non comprometto nessuno) il Governo ha dato Nizza, ha fatto un bene. Un uomo politico non può pensare altrimenti; ed io se fossi stato parte dell’assemblea che ratificò il fatto, avrei votato coi più:  né io mi sarei curato del giudizio che giornali ed uomini pur volenti lo stesso fine con me, ma avversi solo perché non tengono conto di certe circostanze, avessero potuto portare del mio voto; e se mi si dicesse che ho dato Nizza non me lo terrei come un rimprovero. Vi è ben altra cosa qui dentro che non il giudizio d’uomini, mi si scusi il dirlo, di poca mente; questi sono atti che si compiono per convinzione e con tranquillità di coscienza, senza sentirsi offesi quando altri la pensi diversamente.

Dico di più: se l’attuale Parlamento fosse come il precedente chiamato a cedere un’altra Nizza per giungere al punto in cui siamo, farebbe, cedendola, un’opera patriottica, compierebbe il più sacrosanto de’ suoi doveri.

Io ne sono convinto, perché, senza avere con noi la Francia, la guerra del 1859 non si faceva; sono illusioni il credere altrimenti, il pensare che un paese come il nostro, dopo la cattiva prova del 1849, e malgrado la prova gloriosa del 1848, potesse affrontar l’Austria senza aver con sé la Francia.

Provato dunque che per averla bisognava darle Nizza, hanno fatto bene di darla; ed io per me non ne sono scontento, e darei, lo ripeto francamente, anche la Liguria in pegno, ancorché sia il mio paese natio, ed abbia là ciò che mi è di più caro.

Con ciò io intendo di aver dimostrato che, ove pure taluno dicesse, come il generale Garibaldi ha detto: voi avete ceduta Nizza, questo non è un rimprovero, anche perché si dirige agli uomini del passato. Il giudizio che se ne deve fare è come di ogni altra cosa soggetta all’esame della libera stampa; la è un’opinione come un’altra, a cui se ne può contrapporre un’altra ancora, e non bisogna offendersi per questo.

Adesso che ho detto il mio concetto, oltre forse il bisogno, mi rivolgo alla Camera per dirle: io credo, e lo dico chiaramente, che il generale Garibaldi ha usato espressioni che hanno poco fondamento nell’indirizzo a’ suoi elettori. Ma non è questa la sola cosa che il generale Garibaldi abbia fatta nella sua vita politica; vi sono ben altre sue lettere, ed io non ho che a ricordare alla Camera una cosa, ed è che il giorno prima di quello in cui si discuteva nel Parlamento subalpino la cessione di Nizza, io era venuto qui col generale Garibaldi per combinare la spedizione della Sicilia. Garibaldi è un uomo che scrive alla distanza di molte miglia dal Parlamento con informazioni poco precise.

Dunque, mentre la parte in cui era nato veniva strappata per utilità generale del paese alla famiglia italiana, egli, pur avendo ancora nell’animo il dispiacere che sentiva della perdita del suo paese nativo, si adoperava affinché all’unità d’Italia si aggiungesse la Sicilia; e non era mica uomo che andasse a fare una spedizione di quel genere come si va a compiere un altro atto di minor importanza; no, egli era conscio della sua alta missione, quanto era certo della sua riuscita.

D’altra parte potrei citare quel che avvenne pochi mesi prima alla Cattolica. Ma non vi sono soltanto questi fatti. La Camera lo sa meglio di me; se mettiamo insieme le catene che hanno dovuto portare tanti uomini che seggono in questo Parlamento, se mettiamo insieme le ferite di tutti quelli fra noi che si sono battuti per la patria, ne risulterà qualche cosa da far inorgoglire davvero questo giovane Parlamento, qualunque sia l’opinione che possa portare una parte del pubblico sopra noi.

Innalziamoci dunque sopra tutte le meschine vedute che potrebbero rinnovare i fatti funesti a cui assistettero i nostri padri, ricordiamoci soltanto che siamo uomini patriotti, uomini non volgari, che abbiamo tutti reso dei servigi al paese, dimentichiamo tutte le piccole querele, e diciamo ad un uomo che scrive cose le quali non hanno fondamento: voi v’ingannate, noi non vi lascieremo andar via da noi, onde non essere costretti un giorno a far quello cui siamo già stati costretti una volta.

Avvertiamo che il proclama del re di Danimarca ci fa vedere vicina la guerra, e che noi abbiamo dei nemici potenti. Noi dobbiamo mantenere serrati fra loro tutti gli uomini che hanno reso dei servigi al paese, non li lasciamo allontanare da noi, non permettiamo che i partiti rimestino sopra ciò, ognuno rimanga al suo posto, e non lasci andare il compagno; e questa sarà questione molto più importante che non sieno le altre della sovranità parlamentare, che cioè quando uno ha detto no, debba essere no. Io credo d’avere un alto concetto del Parlamento e del sistema parlamentare, ma non per questo credo che la dignità del Parlamento sia diminuita non accettando la dimissione del generale Garibaldi.

Ricordiamoci gl’immensi sforzi che gli altri paesi hanno fatto. Mio Dio! Vi sono degli esempi così sanguinosi in Europa per provare quanto sieno profonde le ferite che si fanno colla cessione d’una provincia, da potersi ben comprendere, come un uomo si possa abbandonare a parole anche precipitate.

Così la Prussia aveva riconosciuta la sanzione prammatica, e Federico aveva, in occasione della guerra della Slesia, data la sua formale promessa, ed il Governo aveva riconosciuto con trattato di proteggere Maria Teresa, cosa che diede luogo ad una lunga guerra e ad infinite stragi, eppure Federico è rimasto quel grand’uomo che era.

E d’uopo considerare un uomo nel suo complesso. Nel libro di Paixhans, Histoire de la campagne de Home, trovo sulla difesa di Roma una pagina che mi ha fatto inorgoglire come Italiano, e la difesa di questa città era, come ognuno sa, affidata al generale Garibaldi. I suoi fatti d'armi degli anni successivi non sono da aversi in minor pregio.

Come ho già detto, Garibaldi non è un uomo rigorosamente parlamentare; questa non è la sua natura, e la Camera deve tener conto di tutto nel prendere una deliberazione a suo riguardo. Non so se avrò potuto persuadere tutti i miei colleghi, ma credo che la Camera farebbe opera patriottica, opera di conciliazione, se rifiutasse di accettare la chiesta demissione.

Ho qualche volta avuto la fortuna d’essere ascoltato con molta deferenza dalla Camera, ma il giorno più bello della mia vita parlamentare fu quello in cui a poca distanza dal mio stallo vidi tornare la concordia fra il generale Garibaldi ed il conte dì Cavour. Erano successe cose abbastanza serie, e pareva che ne sarebbe nata una scissura fuori del Parlamento. Ebbene, ho allora avuto la fortuna di poter dire qualche parola di conciliazione, il che mi valse molti encomi per parte di alcuni, come pure molte maledizioni per parte di quelli che avrebbero forse volentieri veduto nascere una guerra civile. Faccio lo stesso anche adesso. La Camera dimentichi tutto; dimentichi quelle che potrebbero chiamarsi piccole offese; si ricordi che Garibaldi è un uomo che ha reso grandi servigi al paese, e che ne renderà degli altri. La guerra è vicina; ch’essa, quando sorga, ci trovi tutti uniti. La storia giudicherà forse severamente qualche atto della vita dell’illustre patriota; ma non per questo egli cesserà di essere un grand’uomo, e noi che siamo qui, patrioti, uomini eminenti, lasciatemelo ripetere, quantunque sia qui dentro anch’io che non valgo nulla, e forse appena col cuore valgo anch’io qualche cosa, stiamo serrati insieme; non lasciamo andar via i buoni, e adoperiamoci ad impedir le scissure. L’accordo ci ha portato sin qui; l’accordo ci porterà al compimento delle nostre aspirazioni (Bravo!)

Presidente. Il deputato Bellazzi ha la parola.

Petruccelli. Non tocca a me la parola?

Presidente. Ella avrà la parola al turno che sarebbe spettato al deputato Bixio.

L’onorevole Bellazzi ha la parola.

BELLAZZI, Nelle gravi circostanze in cui versa il paese non havvi ragione, a mio credere, per cui possano o debbano darsi demissioni dal nobilissimo incarico di rappresentante della nazione. È questa una mia inalterabile convinzione.

I membri di un’austera opposizione parlamentare sono soldati la cui virtù s’ammira, perché sorretti unicamente dalla fede in una lontana completa vittoria in nome dei proprii principii, a favore del giurato programma nazionale.

Questi soldati sono ammirati, perché combattono sempre franchi, leali, energici colla quasi certezza di soccombere sempre, spesse volte sconfitti, non domati mai. Sono ammirabili perché dal soccombere non traggono già argomento di ritirarsi dall’arena, ma ragione di raddoppiare di sforzi per tornare all'attacco contro avversari che, pur combattendo, stimano, rispettano e talvolta amano nei meriti e nelle persone. Però essi non mai darebbero una demissione, specialmente oggi che difficili corrono i tempi, che tempestosi minacciano incalzare gli avvenimenti, oggi che il paese ha presentimento di prossime decisive lotte; non darebbero la dimissione anche perché questa arieggia il fatto del soldato che, valoroso, volendo agire a modo suo, sosta un istante non senza mettere scompiglio nelle file ordinate e pronte all’assalto.

Tuttavia secondo alcuni possono esistere delle ragioni recondite nella coscienza di qualche patriota, per le quali questo possa dare la propria demissione. Egli è perciò che noi assistemmo in questi giorni dolorosamente silenziosi allo spettacolo di dimissioni succedentesi l’una all’altra. Ma il silenzio non deve durare a fronte delle demissioni del generale Garibaldi.

Per quanto riguarda me personalmente manifestai già a quel grande solitario, ch’io non voglio giudicare quest’atto suo, perché innanzi a lui io non sento che rispetto ed affettuosa divozione.

Ma qui nel Parlamento, come rappresentante della nazione, per il bene della nazione, io sento nel profondo dell’animo afflitto il dovere di non accettare quella demissione, come sento nel medesimo tempo di esprimere a voi tutti, onorevoli colleghi, il desiderio che prendiate una determinazione su questo grave soggetto, la quale ridondi a vantaggio del paese.

Io appartenente all’opposizione ho fiducia nel carattere, nel senno, nel patriottismo della maggioranza.

Sto dunque sicuro ch’essa vedrà come accettando le demissioni del generale Garibaldi lascia credere che si voglia far divorzio colla rivoluzione, quale ha esistito finora, congiunta colle forze ordinate dello Stato; sola arme con cui possiamo ancora imporne agli stranieri che vogliono farla da padroni in casa nostra; la sola potenza con cui si può rendere la nazione nostra temuta e rispettata dalle altre nazioni; il solo mezzo con cui potremo rendere un fatto la divisa: indipendenti sempre, isolati mai.

Riflettiamo, o signori, che intorno al generale Garibaldi, come raggi intorno a centro, convergono cento e cento memorie di prodigi di valore; da queste cento memorie è formata un’aureola di gloria nella cui luce l’Italia volentieri superbamente si specchia, nel cui splendore l’Europa magnanimi fatti all’Italia invidia.

E doloroso il pensiero che questa luce si ritiri dalla prima rappresentanza nazionale.

Che dirà di noi la storia ai figli nostri?

Non si creda, o signori, che io dimentichi in chi noi tutti riconosciamo, in chi la nazione saluta il simbolo e il primo campione dell’italico risorgimento, il primo duce delle battaglie che tante parti d’Italia già congiunsero in una: non io dimentico questo; ma nel medesimo tempo ricordo che a fianco o dietro di questo primo soldato dell’indipendenza italiana un secondo ed altri molti valorosissimi suoi possono e devono combattere ancora e vincere, perché hanno già combattuto e vinto.

Ora quando un eminente fra questi valorosissimi, il generale Garibaldi, sta come testimonianza vivente del tatto provvidenziale per cui dieci milioni d’italiani si congiunsero all’italiana famiglia, io credo atto impolitico di permettere che questa vivente testimonianza si allontani dall’Assemblea nazionale; però, lo ripeto, non accetto la demissione del generale Garibaldi.

Senonché a questo punto mi occorre alla mente altro gravissimo argomento che molti induce coscienziosamente ad accettare questa demissione; tutti sentono quale sia questo argomento; io credo superfluo il ricordarlo, come credo fuori luogo il fare appello alla vostra abnegazione, o signori: imperocché se un atto di abnegazione è atto di virtù in un cittadino, è talvolta atto di debolezza funesta alla patria in un rappresentante della nazione. La storia dei Parlamenti di Francia e d’Inghilterra offre troppo severi ammonimenti, perché questi stadi della maestà parlamentare siano dimentichi qui dai gelosi.

Fra i due argomenti, signori, della non accettazione e dell’accettazione, esorterò io la Camera a stare meco pel primo, proponendo nel tempo stesso un relativo ordine del giorno? Volentieri il farei, ma persuaso che un ordine del giorno nel caso presente formulato dai membri non appartenenti all’opposizione incontrerebbe più facile favore, ad essi mi volgo, perché uno ne formulino nella loro saviezza, nel loro patriottismo; uno che sia degno della maestà dell’Assemblea italiana, e corrisponda nel medesimo tempo ai voti, con cui il popolo italiano si fata verso Garibaldi.

Presidente. Il deputato Petruccelli ha facoltà di parlare.

Petruccelli. Signori, io non appartengo all’illustre coorte del generale Garibaldi, e due volte ho preso la parola in questa Camera per oppugnarlo. La mia parola è quindi completamente disinteressata.

Mi unisco all’onorevole Bixio ed all’onorevole preopinante per domandare che la demissione del generale Garibaldi non sia accettata.

Il signor presidente vi ricordava testé un precedente della Camera che io approvo altamente. Però, signori, vi sono delle circostanze che non sono ordinarie, vi sono degli uomini che non vanno misurati all’auna comune. Di questi uomini, non occorre che io lo dica, è il generale Garibaldi.

Il generale Garibaldi, se non fosse altro, è l’Argonauta di Marsala, è l’autore del plebiscito, è colui che ha portato in eredità all’Italia dieci milioni d’italiani, e che ritornava all’isola sua con dieci franchi in scarsella. Di questi tipi la natura non prodiga, la storia non registra gran numero.

In altra circostanza io aveva l’onore di dirvi che vi erano due Garibaldi: un Garibaldi ideale, quello che l’Europa ha collettivamente creato, quello che spazia in un’atmosfera serena, una figura antica, una figura titanica; un altro, il Garibaldi reale, che non è meno grande, checché si facciano taluni che diconsi suoi amici e che si riparano all’ombra sua come i topi in una piramide, per demolirlo, per abbassarlo. (Bravo!)

10avrei compreso il generale Garibaldi ideale che avesse presa l’iniziativa di un atto che avrebbe potuto avere gravi conseguenze politiche. Non comprendo il Garibaldi reale che subisce una pressione qualunque, che va al rimorchio, che si lascierà andare ad un atto di collera. Noi che siamo sereni, rispondiamo ad un atto di dispetto con un atto di calma.

Si dice che il generale Garibaldi ha vituperato il Parlamento. Ciò è impossibile. Il Parlamento in corpo rappresenta l’Italia, e l’Italia non vi ha chi possa insultarla,  né deputati,  né ministri,  né principi,  né Re,  né chicchessia. L’Italia è l’Italia: honny soit qui mal y pense.

Il generale Garibaldi diceva, non senza ironia, che la Camera si sarebbe affrettata ad accogliere le sue demissioni.

Signori, noi abbiamo il debito di provare all’Europa che quest’ironia non si basava sul vero. Noi siamo al disopra degli insulti, tanto più quando questi ci verrebbero da, un uomo il quale spaziando nell’atmosfera in cui dovrebbe essere, non dovrebbe essere accessibile alle passioni dei partiti. Sapete, o signori, come una parte della stampa d’Europa, sapete come caratterizza la demissione del generale Garibaldi? Come foriera di un’aggressione che il generale meditava sulla Venezia.

Ebbene, noi abbiamo il dovere in questi tempi cosi solenni di non prestarci alla possibilità di questi sospetti.

Una parte della stampa italiana, dice, crede, che la rielezione del generale Garibaldi sarebbe uno scacco per il gabinetto: le signorie loro ohe hanno confidenza in questo Gabinetto, che lo appoggiano, non dovrebbero prestare appicchi al realizzamento di questo fatto.

Un’altra parte della stampa soggiunge che la non rielezione del generale Garibaldi sarebbe un vitupero per Napoli.

Ebbene, signori, noi che amiamo tutti questa città tanto nobile e calunniata, noi dovremmo rifuggire di dare una possibilità ad un fatto che sarebbe eternamente burinato nella storia, come il delitto di San Pietro che tre volte rinnegò il suo maestro.

La città di Napoli ed il collegio che lo elesse tutta unanime vi rinvierà colui che l’ha liberata.

Una voce a sinistra. Tanto meglio!

Petruccelli. Tanto meglio, mi si dice; tanto meglio, è verissimo; ma perché andare a provocare passioni, le quali potrebbero divenire occasione di disordine in una città che ha bisogno più che tutt’altra di essere concorde per esser forte?

Il generale Garibaldi dice nell’indirizzo a’ suoi elettori che l’Italia lo troverà sulla strada di Roma e Venezia. Nessuno ne dubita; e poiché degli Aspromonte non si commettono che una sol volta nella vita di un uomo, sopratutto quando quest’uomo si chiama Garibaldi; questi sarà sulla strada di Roma e di Venezia come ci si trovò su quella di Como e di Varese, vale a dire, primo arcangelo che farà scintillare la spada d’Italia dinanzi agli occhi dei nemici (Bene!); su quella strada egli troverà noi tutti: il Re, l’esercito, la nazione civile; e sarà il primo ad aprire la strada alla vittoria della bandiera italiana.

Ma sorge un dubbio, che parmi bisogna dissipare.

Si dice: il generale Garibaldi non accetterà questo atto di cortesia, questo atto di stima che gli sarà dato dalla Camera, e manderà di nuovo la sua dimissione.

Io non lo credo; non voglio crederlo, non posso crederlo, checché si possa fare da coloro che vorrebbero abbassarlo.

Ad ogni modo, se quest’idolo si vuole gettar giù dal suo altare volontariamente, ch’egli cada. Egli si spezzerà, ma non si spezza l’Italia per questo. La force des choses, come la chiamava l’imperatore Napoleone non ha guari, sarà la stessa che condurrà l’Italia al Betlemme del suo destino, malgrado tutti, malgrado tutto. Noi però non concorriamo a diminuire l’insieme ed il prestigio di questa forza con un voto che potria male essere interpretato.

Prego adunque la Camera di non accettare le dimissione del generale Garibaldi, e di essere superiore alle volgari passioni che imbrattano, che insozzano quella stampa la quale vorrebbe gettare dissensioni nel Parlamento e nella patria. Siamo già anche troppo divisi e a destra ed a sinistra. Io non condanno queste parti, " perché i partiti sono la vita della nazione, sono segni della sua vitalità; ma guai quando queste scissioni legali si traducono fuori e possono esser segnacolo a scissioni illegali!

Quindi rinnovo alla Camera la mia preghiera di non accettare le dimissioni del generale Garibaldi. (Bravo! Bene! a sinistra)

Presidente. Il deputato Bargoni ha facoltà di parlare.

BARGONI. Non è senza qualche turbamento che io vengo quarto a parlare intorno alla questione che ora si agita, abbenché io mi pronunzi nello stesso senso dei preopinanti.

Anzitutto io vorrei non essere accusato di rimpicciolire o di sviare, per così dire, la questione; ma pure sento il bisogno di portarla per alcuni istanti sopra un altro terreno, e di chiamare anche sui miei argomenti l’attenzione della Camera. Ho bisogno soltanto della sua indulgenza.

La dimissione di Garibaldi non ci si presenta, o signori, come un fatto isolato; essa fu preceduta, voi lo sapete, da parecchie altre; oggi pare che essa venga da altre accompagnata. Ora, a me torna impossibile il non tener conto anche di questa che mi sembra gravissima circostanza. Io non ho aspettato di conoscere il voto dei più fra i miei colleghi per professarmi interamente avverso alle dimissioni; ma nello stesso tempo io rispetto altamente i convincimenti di coloro, i quali, consultando la loro coscienza, credettero di doversi ritirare dal Parlamento.

Se non che, quantunque l’onorevole nostro presidente non abbia creduto in alcuni casi di poter dare comunicazione delle lettere con cui quei colleghi nostri annunziavano le loro dimissioni, queste lettere furono lette sui giornali; e voi mi siete tutti testimoni che esse contenevano parole, frasi, idee, le quali, se da un canto tendevano a giustificare l’atto di chi usciva, dall’altro contenevano un biasimo per chi rimaneva; biasimo, il quale era, ad un tempo, ed una pressione morale esercitata sopra chi fosse, per avventura, irresoluto nella sua definitiva decisione, ed una condanna sopra ehi già era fermo nel proposito di rimanere.

Posto ciò, e mentre io rendo omaggio anche all’opinione di chi usciva tenendo questa condotta, credo però che possa essere venuto il momento di considerare quest’atto, non già sotto un tale aspetto da trarne materia ad una rappresaglia di censure verso i nostri colleghi che sono usciti, ma sotto quell’aspetto che esso può veramente acquistare per sé medesimo, dinanzi alle condizioni in cui versiamo.

Or, quest’atto, o signori, io, secondo il mio intimo convincimento, vi invito a deplorarlo, e deplorarlo altamente siccome funesto all’educazione politica del nostro paese. (Bene!)

La tirannia delle maggioranze, e pensatamente adopero questa scortese parola, la tirannia delle maggioranze è anch’essa salvaguardia di libertà. E la ribellione delle minoranze contro le maggioranze — o non è che lo sterile dispetto di pochi che si stancano di una lotta nella quale numericamente sono vinti tutti i giorni, ed allora merita appena il nome di protesta; — ovvero è la divinazione di un nuovo ordine di cose capace di trascinar seco il paese, ed allora si chiama rivoluzione. (Bravo!)

Come protesta, io non accetto quella che nasce c muore coll’atto stesso con cui la si compie; io accetto invece la protesta di tutti i giorni, di tutte le ore, che disputa agli avversari le ragioni alla tribuna, i voti nell’urna, che diffonde principii, dottrine, credenze in mezzo ai paese, che mostra che cosa vogliono i diversi partiti che si contendono il terreno entro l'orbita legale, costituzionale, che è vigile, operosa, feconda.

Come rivoluzione, io non posso dimenticare che noi siamo già una rivoluzione, che questo stesso nome di regno d’Italia che noi ci siamo dato è una rivoluzione in faccia all’Europa, in cospetto a tutto il mondo civile (Beneiy, non posso dimenticare che questa rivoluzione noi non l’abbiamo ancora compiuta, che per compierla abbiamo un programma sanzionato, voluto dalla sovranità nazionale, che questa volontà si è espressa tre anni sono soltanto, e che non si può, dopo tre anni, chiamare il paese a disfare quello che ha fatto (Benissimo!), ma bensì a compiere il suo programma, a prezzo di sacrifizi, a prezzo di concordia. E non parlo già, o signori, di quella concordia arcadica che gl’ingenui della politica sognano sì volentieri, ma di quella concordia che sola può nascere fra i partiti dopo la lotta, dopo gli attriti, e quando colle reciproche esigenze e colle concessioni reciproche si giunge gradatamente a quel punto in cui, trovato l’accordo di tutte le oneste opinioni, si può slanciare il paese ai supremi cimenti, colla viva certezza che la vittoria sarà per noi. (Vivi segni di approvazione)

Io credo che la storia d’Italia di questi ultimi anni possa bastare a dare suffragio alle mie parole. Temo solo che i nostri amici, i quali si sono ritirati dall’agone, abbiano dimenticato di considerare la questione sotto questo punto di vista.

E un’altra cosa io temo che essi abbiano dimenticato quando han mostrato il desiderio che tutti noi, i quali eravamo con loro compagni di fatiche e di aspirazioni, li seguissimo fuori di quest’aula; io temo cioè che non abbiano pensato come, se mai questo fatto disgraziatamente fosse avvenuto, noi avremmo portato un fierissimo colpo alle istituzioni parlamentari sulle quali poggia il nostro edificio nazionale. (Bravo! Bene!) Io temo che essi non abbiano pensato che quando noi avessimo insegnato col fatto nostro che le minoranze, il giorno che si sentono d’aver il torto, ed è il solo torto che abbiamo, di essere minoranza, possono gettare il paese in una crisi, noi avremmo dato un’arma in mano agli stessi partiti a noi avversi; imperocché quando noi stessi fossimo diventati un dì maggioranza, avremmo già additata e aperta la via sulla quale la minoranza conservatrice a noi opposta ci avrebbe potuto vincere cogli stessi nostri mezzi. (Bravo!)

Perciò, se io mi era rallegrato quando, in alcune riunioni private che noi tenemmo, era stato a grande maggioranza abbandonato il pensiero di ritirarci, ho poi dovuto altamente dolermi dello spettacolo che hanno dato alcuni nostri amici ritirandosi separatamente, individualmente; e me ne sono doluto anche perché non ho potuto considerare quest’atto come singola espressione di alcune individualità soltanto; ma mi è parso che in faccia al nostro paese prima, e all’estero che ci guarda poscia, quest’atto avrebbe potuto essere considerato come un atto collettivo, dal quale giudicare la condotta della democrazia italiana; e questo giudizio non poteva, o signori, che essere molto sfavorevole a noi, sopratutto in faccia all’esempio che ci viene dato dalla democrazia francese. Dopo parecchi anni che essa s’è stata ritirata dalla lotta, noi vediamo la democrazia francese fare atto di adesione all’uomo che ha tolto le sue libertà vere alla Francia, noi la vediamo voler entrare a disputare anch’essa il terreno nell’orbita legale, noi la vediamo fare precisamente l’opposto di quello che da noi si sarebbe voluto, da noi, che per entrare in Parlamento non abbiamo un ponte lubrico di sangue cittadino sul quale passare, come l’hanno avuto a superare i democratici francesi.

Ora noi non possiamo, non dobbiamo lasciare sola la Maggioranza, sopratutto in un Parlamento dove, se le manca lo stimolo delle nostre impazienze, essa non ha nemmeno, mi si permetta la frase, il controstimolo delle esigenze retrive di una destra ultraconservatrice. (Bene! Bravo!)

Io credo per questo che, se il senno degli elettori ci ricondurrà nel Parlamento i nostri amici che se ne sono allontanati, quelli almeno che non si sono deliberatamente preclusa la via a rientrarvi, essi stessi comprenderanno il loro errore e ci daranno affidamento di non più ricadérvi. A me ne fa fede il loro passato. E dico il loro passato, perché io ricordo che, or volge poco più di un anno, la legge e lo Statuto furono violati; e ricordo che se oggi noi diciamo violata la legge e se gli stessi ministri e la Maggioranza lo consentono, si può tuttavia discutere sulla violazione dello Statuto e ridurla ad una questione di apprezzamento, sicché l’altro giorno l’onorevole guardasigilli sosteneva assai abilmente la tesi contraria a quella che noi sosteniamo; ma in quell’epoca memoranda era indubitabile che lo Statuto era stato violato; eppure allora nessuna parola di demissione fu udita, e coloro medesimi ohe oggi si sono dimessi  né vi pensarono eglino stessi,  né diedero ad altri il consiglio di farlo. Io dunque amo viver sicuro che su questa via non si andrà più oltre nel Parlamento italiano.

Ma se ciò mi ha portato a dire parole forse alquanto severe intorno a questo fatto delle altrui dimissioni, ora dirò aperto l’animo mio su quella, che oggi si presenta alla Camera, del generale Garibaldi.

Signori! Io credo, e duolmi parlare di me, di essere abbastanza noto, od almeno che sia nota la mia illimitata devozione al generale Garibaldi. Prima di essere deputato, io fui giornalista, e lo fui precisamente durante quell’epoca cui poco fa accennava. Ho difeso Sarnico, ho difeso Aspromonte. Il deputato non ha lasciato sulla soglia del Parlamento le convinzioni del giornalista. Epperò lasciatemi dire quel che testé hanno detto altri preopinanti,  né vi sorprenda se anch’io chiamo Garibaldi uomo eccezionale.

Io non posso seguire l’onorevole Bixio nell’esaminare passo passo la lettera che il generale Garibaldi ha diretto a’ suoi elettori: io credo che davanti a noi non deve apparire che solo, nudo, in sé stesso, l’atto della sua dimissione. Considerando quest’atto per ciò che esso è, e per l’effetto che deve esercitare sulla nazione, io dico che esso non può essere accolto dal Parlamento.

Noi dobbiamo considerare che Garibaldi non appartiene a sé stesso. Egli appartiene alla Nazione; e noi rappresentanti della Nazione non possiamo permettere che un giorno solo il suo nome sparisca dal novero dei nostri.

Non abuserò oltre dell’indulgenza della Camera: aggiungerei altre considerazioni, ma potrebbero avere l’aspetto di giustificazione contro accuse lanciateci fuori di questo recinto. Ma io non amo scendere qui su questo terreno, e finisco. (Bravissimo!)

Presidente. Il deputato Sineo ha la parola.

Sineo. Se nessuno combatte la proposta che fu fatta di non accettare le dimissioni, io nulla ho da aggiungere; quindi mi riservo la parola dopo che alcuno abbia impugnato quella proposta.

Presidente. Dopo l’onorevole Sineo è iscritto il deputato Chiaves. (Segni di attenzione)

chiaves. Signori! Io credo che se il generale Garibaldi assistesse a questa seduta ed avesse uditi amici suoi dichiarare che se la sua dimissione fosse accettata noi avremmo reso più difficili le condizioni della patria, quasiché in una guerra probabilmente vicina togliessimo lui con questo nostro atto dal novero de’ suoi difensori, il primo a protestare contro questa dichiarazione sarebbe certamente l’illustre patriota. Egli certo direbbe: ecché!? Credete voi forse che il mio concorso all'ultima lotta per l’indipendenza nazionale debba dipendere dall’accettazione o non accettazione delle mie dimissioni da deputato?

E ripetuto, e dichiarato pubblicamente in quella lettera, di cui pure si è fatto cenno dagli onorevoli preopinanti, che sulla via la quale deve condurci alla redenzione completa della patria egli sarebbe stato sempre: io quindi non credo che questa ragione potrebbe ammettersi mai da questa Camera, non dirò come ragione per risolvere la questione, ma come ragione la quale non offendesse, e nell’intimo dell’animo, quell’illustre nostro concittadino.

Signori, a mio avviso (sebbene si tratti del generale Garibaldi, dei cui meriti è inutile qui parlare, tanto ne abbiamo tutti unanimemente alto il concetto in mente), la questione è semplicissima.

Noi non possiamo metterci in mezzo tra il generale Garibaldi ed i suoi elettori, dicendo: non accettiamo le dimissioni sue.

Accetta o non accetta le dimissioni chi conferisce l’ufficio.

Ora le dimissioni che rassegna il generale Garibaldi dall’uffizio di deputato sono gli elettori suoi che diranno, rieleggendolo o no, se vogliano oppur no accettarle.

Secondo la formola ottimamente espressa, a mio avviso, dal nostro presidente, noi non possiamo se non prendere atto (e lo prenderemo con dolore) di questa dimissione del generale Garibaldi dall’uffizio di deputato. E certo ponendo la questione su questo, che credo sia il vero terreno in cui dev’essere posta, è già palese come venga ad essere del tutto estranea alla discussione l’idea di qualsiasi offesa od ingiuria che qualcheduno credesse per avventura diretta al Parlamento alla occasione di questo penoso incidente.

Quindi l’onorevole Bixio e gli altri preopinanti si diano pace: in questa discussione è lasciata per necessità da parte qualunque avventata espressione sia stata comunque lanciata, o dal generale Garibaldi, o da altri per esso, contro quest’Assemblea.

E quando pur fosse, basterebbe (e per me, concedetemi che io lo dica in modo particolare, basterebbe) una delle ragioni che egli ne ha esposte, voglio dire il dolor suo per la cessione del circondario di Nizza alla Francia. Io, nel mio particolare, ricordo che, quando votai (perché anch’io lo votai) quel trattato di cessione, mi era forza il pensare che per me vi erano vincoli di famiglia che quel trattato rallentava, vi era una frontiera di Stato estero che mi staccava dalla mia famiglia materna; ciò solo dico per dimostrarvi quanto io debba davvero sentire come sia a perdonarsi al generale Garibaldi uno sfogo di quell'insistente e profondo dolore che egli prova per quel trattato di cessione del suo paese natio all’impero francese.

Ma se come privato potrebbe questa ragione farmi per avventura sorpassare a quelle altre a cui io accennava, alla incompetenza cioè di quest’Assemblea a non accettare con una formale deliberazione queste dimissioni, io però non potrei certo passarvi sopra come deputato, perché come deputato io’ non posso consigliare alla Camera ciò che, a parer mio, ' sarebbe evidentemente una diminuzione della maestà del Parlamento.

Si è parlato, signori, e con ragione, della condizione eccezionale in cui si trova il generale Garibaldi, e questa condizione eccezionale io, al pari di ogni altro, ammetto; ma quegli stessi che ve ne hanno parlato han però detto: il Parlamento non può essere offeso da nessuno, nemmeno dal generale Garibaldi. E perché? Perché il Parlamento è qualche cosa al disopra d’ogni individualità, per quanto universalmente riverita ed amata. Ed io non vorrei venir qui ad accrescere quegli errori che lamentava l’onorevole Bargoni nel suo eloquente discorso, e che diceva procedere da un’imperfetta educazione politica del nostro popolo, e non vorrei per avventura andare ingenerando o fomentando negli animi del popolo nostro certi pregiudizi i quali, se non erro, hanno già prodotta la diffusione di non so quali stampati, in cui sono a deplorarsi i falsi apprezzamenti della maestà di quest'Assemblea, e dei rapporti che esistono ed esister debbono tra l’illustre generale Garibaldi ed il nazionale Parlamento.

Signori, io non ho per mia parte che a ringraziare l’onorevole generale Bixio delle qualifiche lusinghiere ch’egli ha date a ciascuno di coloro i quali compongono questo Consesso, ma ripeto che non posso dimenticare qui che sono deputato, e che l’assemblea in cui parlo è la Camera dei deputati.

So al pari dell’onorevole Bixio che il generale Garibaldi, se fu autore della lettera a cui si alluse, dovette essere male informato.

Per me fu sempre cosa inconciliabile l’immagine del generale Garibaldi che mi personifica uno dei più efficaci elementi della nazione armata, che mi richiama sempre alle impazienze di coloro i quali vorrebbero quanto prima toglier via colla ragione delle armi ogni ostacolo che ancora si opponga all’intera indipendenza italiana, per me, dico, fu sempre inconciliabile questa marziale immagine con una dimissione la quale verrebbe motivata da un voto della Camera che approvava Tessersi raccolte sotto la bandiera italiana più migliaia di soldati italiani, pria reluttanti a far parte dell’armata nazionale.

Signori, l’onorevole Petruccelli testé vi diceva: sarà mandato di nuovo il generale Garibaldi a sedere fra noi dai suoi elettori.

Ebbene, è appunto questa, signori, la ragione per cui ripeto non doversi tener conto di oltraggi,  né di offese dirette contro quest’Assemblea; ne avremo la più bella riparazione dal corpo elettorale di Napoli. È per me chiaro che quegli elettori mandando di bel nuovo il generale Garibaldi a sedere fra noi gli diranno con ciò: non è vero che la Camera sia un’Assemblea meno rispettabile, perché noi torniamo a volere che voi ne facciate parte. (Bravo! Bravo!) Vedete dunque che questa soddisfazione, che non può probabilissimamente mancarci, ne obbliga vieppiù a dimenticare ogni offesa che abbia potuto avventare contro di noi la lettera lamentevole di cui si tenne discorso.

Ma se non possiamo tener conto di quest’offesa, è pur sempre vero che per quanto illustre sia un cittadino, per quanto popolare sia un nome, non può mai stare al di sopra della maestà del Parlamento.

Signori, quel giorno in cui la maestà di questo Parlamento s’inchinasse ad un uomo, ad un nome, per quanto caro ed illustro, oh certo noi avremmo in quel giorno data agli stranieri occasione di un nuovo oltraggio contro l’Italia! Eppure gli oltraggi antichi li abbiamo già rintuzzati abbastanza! Si diceva: gl’italiani non sanno battersi, ed abbiamo smentita l’accusa; si diceva: gl’italiani non sanno accordarsi, ed anche questa imputazione l’abbiamo saputa disdire. Oh che? Avremo noi ora a dare occasione che si dica di noi: gl’italiani non sono capaci di reggersi a libere istituzioni? (Bene!)

Signori, Garibaldi non sarà deputato; ma Garibaldi sarà sempre il grande patriota.

Si parla della sua posizione eccezionale. Ebbene, signori, la posizione eccezionale del generale Garibaldi io la trovo in questo, che la qualità di deputato punto non gli accresce,  né gli diminuisce prestigio. Egli è sempre e per tutti lo stesso Giuseppe Garibaldi. Egli non siederà più fra noi, e sarà pur sempre il valorosissimo campione dell’indipendenza italiana, l’uomo che certo si potrà sempre contare di trovare per quella via che egli stesso accennava nella sua lettera, quella via che ci dovrà condurre al complemento dei destini della nazione. (Bene!)

Signori, troppo errore, a mio avviso, commetterebbe la Camera quando non accettasse questa demissione. E mi conforta la parola stessa del generale Garibaldi. Io l’ho udito in questo recinto in una tempestosa discussione; l’ho udito quando si trattò della penosa questione della cessione di Nizza e di Savoia, nella legislatura precedente, e nell’una e nell'altra occasione, colla usata sua franchezza, questo nostro concittadino vi ha detto: so bene, o signori, che qui non è il mio posto, io non sono fatto per queste discussioni; il mio posto è sul campo di battaglia con una carabina in pugno.

Ci conforti adunque anche in questo la parola di lui. Ci rassicuri poi questo pensiero, che accettando le sue demissioni (siccome io credo che le cose bisogna intenderle sempre nella loro sincera espressione), non faremo che adempiere un vivo suo desiderio, quale egli lo volle pubblicamente e solennemente dichiarare.

Io quindi accetto le demissioni del generale Garibaldi e prego la Camera di volerle egualmente accettare. (Bene! al centro ed alla destra)

Presidente. L’onorevole Sineo ha la parola. (Movimenti diversi)

Sineo. Io lascierò per un momento in disparte il generale Garibaldi, e chiamerò l'attenzione della Camera sopra un fenomeno politico che non ha esempio nella storia.

Signori, in un bastimento che veleggia in alto mare può qualche volta aprirsi una vena d’acqua, e poi una altra, e poi un’altra ancora. Poche vene d’acqua non fanno paura a chi guida il bastimento, ma quando vengono a moltiplicarsi, a succedersi una vena e poi l’altra, allora bisogna guardarsi che non venga il momento in cui il bastimento possa sommergere. (Conversazioni)

Presidente. Prego gli onorevoli deputati di far silenzio.

Sineo. Io credo, o signori, che importa non meno alla maggioranza che alla minoranza, che importa alla Camera che il fatto di coloro che si sono dimessi sia apprezzato al suo giusto valore, che non vada soggetto a fallaci interpretazioni, le quali tendono a dividere l’Italia in due campi, fanno supporre una divisione che in realtà non esiste.

Dopo una lunga discussione voi avete adottato un ordine del giorno, il quale liberava i ministri dell’accusa contro ad essi diretta di aver violato la Costituzione. Ebbene, in questo recinto, dopo la vostra decisione, nessuno può riproporre quella questione; è cosa giudicata, è cosa giudicata in questa Sessione, ciascuno di noi tuttavia ha potuto conservare la sua opinione. Quelli che sono rimasti nella Camera hanno rinunciato al diritto di riproporla pendente questa Sessione in questo consiste la maestà del Parlamento invocata dall’onorevole Chiaves. Ma la maestà del Parlamento non impedisce che in un’altra Sessione si riproduca la stessa questione e che abbia un esito totalmente opposto.

Io mi ricordo, o signori, che in quest’aula, un’assemblea, a grande maggioranza, quasi all’unanimità, ha dichiarato che sarebbero traditori della patria coloro che richiamerebbero la flotta da Venezia, e che aprirebbero Alessandria al nemico. Ebbene, o signori, un’altra legislatura venne, e la nuova maggioranza dei deputati diede voto favorevole a quegli stessi ministri che avevano richiamata la flotta, e che avevano dato Alessandria al tedesco. E che perciò? Fu lesa forse la maestà del Parlamento? Ognuno può dunque conservare la sua opinione senza sfregio al Parlamento, e riservarsi di riproporla in un’altra Sessione; e altri può egualmente, conservando la sua opinione, fare appello a quella che è regina di tutte le opinioni, cioè all’opinione pubblica.

Il deputato che si dimette rientra nei suoi diritti di libero cittadino; esso può fare un appello all’opinione pubblica, e colle parole e colla stampa. Egli è perfettamente libero, e noi qui non lo siamo, non vogliamo esserlo perché vogliamo attenerci alle forme parlamentari, e limitarci a quelle manifestazioni che le leggi, lo Statuto, i regolamenti della Camera consentono. Ma in questo non c’è divisione: tutti siamo ancora egualmente unanimi, e quei che restano, e quei che sono usciti. Noi vogliamo tutti la Costituzione, vogliamo tutta la Costituzione, non vogliamo niente che la Costituzione.

La Camera può ben capire qual senso io abbia provato nel vedere quante volte una stampa, che in questo certamente non è leale, abbia cercato di travisare i sentimenti di quelli che restano ed i sentimenti di quelli che sono usciti. Io credo, e dico questo quantunque io non vegga più nessuno dei ministri ai loro banchi, io credo alla loro onestà, e quindi non posso supporre che essi approvino queste espressioni di una stampa fallace e traditrice. Se questa stampa è favorita dai loro amici, io dico che essi hanno degli amici che li servono male; se essa è in mano di scrittori salariati, io dico che spendono male i denari della nazione. Io invito i ministri a ripudiare e quei falsi amici, e quei traditori salariati. Facciano essi stessi atto di buona fede, proclamino essi stessi che mai da questi banchi,  né mai da nessuno di quelli che su questi banchi sedettero, essi hanno sentito una voce, la quale fosse contraria alle nostre istituzioni costituzionali.

Ed è ben singolare che l’accusa d’incostituzionalità sia fatta a proposito di una discussione in cui tutti quelli che sedevano su questi banchi non avevano altra opera che quella di difendere l’integrità della Costituzionali.

Voi, o signori, avete bensì potuto dire che non credevate che fossero da accusarsi i ministri per aver violata la Costituzione; questo è un vostro apprezzamento; ma non potete certamente pretendere di essere più devoti alla Costituzione di coloro i quali la difendono, i quali ne chiamano la rigorosa osservanza. La tesi contraria è qualche cosa di più che una bassa calunnia; è una stoltezza, è una perfida stoltezza, la quale è troppo micidiale pel paese perché non sia da tutti gli uomini onesti ripudiata e combattuta.

Vede quindi l’onorevole mio amico Bargoni in quale parte io non possa essere d’accordo col suo discorso, al quale ho fatto in ogni altra parte sincero plauso. Io credo che non si possa fare rimprovero  né a chi resta,  né a chi esce.

Noi abbiamo tutti lo stesso scopo; gli uni si sono riservati il diritto di mantenerlo e di promuoverlo in questo Parlamento, gli altri hanno voluto riacquistare il diritto, come liberi cittadini, di fare appello alla pubblica opinione.

Aggiungerò poche parole in ciò che concerne il generale Garibaldi.

Signori, io non avrei voluto eccitare la questione quale siete chiamati a decidere; io non vi avrei domandato  né di accettare,  né di respingere questa demissione.

Ma dal momento che alcuni onorevoli deputati hanno formolato una conclusione su questo proposito, io lamento che siasi alzata una voce per impugnarla.

L’onorevole BonCompagni in un’altra solenne discussione ha detto che il generale Garibaldi era un eroe. Il generale Garibaldi, o signori, è più che un eroe; esso è un simbolo; esso è il simbolo del valore e del senno popolare; esso è il simbolo della rivoluzione, della rivoluzione, non come la intende l’onorevole Petruccelli, non della rivoluzione bagnata di sangue, attorniata dalle forche, attorniata dagli strumenti di distruzione.

Petruccelli. Domando la parola per un fatto personale.

SINEO. La rivoluzione simboleggiata da Garibaldi è quella rivoluzione pacifica ohe è degna della civiltà e della umanità del secolo xix. Noi siamo tutti figli di quell’altra rivoluzione alla quale l’onorevole Petruccelli accennava: ma essa ha fatto il suo tempo. Noi le siamo grati per le conseguenze che ha ottenuto; ma ora siamo tutti convinti, od almeno i miei amici sono convinti che si debba procedere in altra guisa. Garibaldi è un nuovo salvatore che stende la mano sui popoli, i quali si svegliano alla magica sua voce e rivendicano la giusta loro libertà. Ebbene, avete un bel fare, questa rivoluzione pacifica, e in Italia e fuori, è simboleggiata da Garibaldi.

Se la sua dimissione fosse stata un fatto inosservato, fuori di contrasto, io credo che il voto della Camera non avrebbe avuto notevole conseguenza. Ma dappoiché si è messa in discussione, l’accettarla sarebbe in qualche modo riconoscere la sua opportunità; ed io credo, signori, che voi non dovete dar questo voto.

Certamente l’espressione dell’opinione pubblica, di questa vera regina del mondo, non sarà regolata dal vostro voto. I veri giudici dell’opportunità delle dimissioni, lo ha detto bene l’onorevole Chiaves, saranno gli elettori che gli hanno conferito il mandato, ed al di sopra ancora del giudizio di un collegio elettorale starà quello di tutti i popoli liberi del mondo, di tutti quelli che aspirano a rivendicare i propri diritti.

Ma io credo, con la maggior parte dei preopinanti, che voi fareste cosa buona ed opportuna se vi uniformaste anticipatamente a questo giudizio che non può mancare.

Io non seguirò gli onorevoli preopinanti nelle loro escursioni fuori della cerchia della discussione che in ora si agita. Voi ben sapete ch’io non posso concordare in tutto con tutti gli oratori che mi hanno preceduto: ma in quanto ai fatti che appartengono alla storia, a quest’ora credo che essa li ha giudicati. In quanto a ciò che concerne il nostro avvenire, Dio buono! io vorrei che non trovassimo che delle parole di concordia onde venire a quell’unione che sola fa la forza delle nazioni.

Presidente. Il deputato Brofferio ha facoltà di parlare.

Brofferio. Non mi accingo a fare un discorso; le travagliate mie forze noi consentirebbero; desidero solo di spiegare il mio voto.

Signori, io non mi credo a nessuno secondo nell’amare, nell’onorare Garibaldi: mi rammento con molto orgoglio delle prove di benevolenza di che egli mi fu molte volte cortese: e mi staranno incancellabili nel cuor mio.

Ma appunto perché amo Garibaldi, perché venero Garibaldi, io credo che gli farei oltraggio se non accettassi le sue demissioni.

Si è parlato di offesa recata alla Camera dalle parole del generale Garibaldi. Per me la questione non è questa, ché anzi se si dovesse discutere sul valore delle pretese ingiurie, io direi che quanto più la provocazione viene dall’alto, tanto più la persona ingiuriata ha diritto, anzi ha dovere di sentirla e di non sopportarla.

Se un uomo dappoco vuol usarmi villania, io lo disprezzo e tacio; se un uomo rispettato e rispettabile mi fa contumelia, io ho debito di pronta difesa, e se io mi tacessi mancherei non solo al mio decoro, ma sarei irriverente verso lui stesso.

Le parole pronunziate da Garibaldi potrebbero avere, in bocca d’altri, quel senso d’innocenza che loro vorrebbe attribuire il deputato Bixio, ma in bocca di Garibaldi quelle parole hanno diritto ad essere raccolte.

Tuttavolta, io lo ripeto, questa non è agli occhi miei questione di più o meno accese parole, è questione di importantissimo atto politico.

Garibaldi piglia commiato dalla Camera è dichiara volersi ritirare dal suo seggio. Possiamo noi credere, senza far oltraggio a Garibaldi, che egli sia venuto a questa deliberazione per puerile stizza, per un istante di cattivo umore?

Se noi, accogliendo le ragioni dette dal deputato Bixio, respingessimo la istanza di Garibaldi colla speranza di vederlo ritornare sopra il suo seggio, sarebbe lo stesso ohe tacciare di leggierezza le ponderate deliberazioni di un tant’uomo.

Quale sarebbe la conseguenza delle niegate demissioni?

O l’una o l’altra di queste due: o Garibaldi tornerebbe alla medesima istanza di commiato, o Garibaldi si contenterebbe di rimanere nella Camera con silenzio di appagamento.

Nel primo caso ne soffrirebbe la dignità della Camera; nel secondo la dignità di Garibaldi. Soffrirebbe la Camera, umiliata da non accetta preghiera; o soffrirebbe Garibaldi, lasciando credere che non per virile proposito, ma per capricciosa fantasia avesse chiesto di ritirarsi.

O l’una o l’altra di queste due conseguenze sarà del pari funesta, perché l’Italia ha d’uopo che non sia menomata la riverenza per Garibaldi, e che non soffra detrimento la rappresentanza nazionale; salvate all’Italia il suo grand’uomo, ma salvate anche la maestà di sè stessa. (Bene)

Il deputato Chiaves ha detto che giudici di questa questione dovranno essere gli elettori. Io non accetto questa dichiarazione, e dico che solo giudice è il Parlamento.

Che Garibaldi meriti di far parte della Rappresentanza nazionale, chi ne può dubitare? Ma non è di ciò I che si tratta; si tratta di vedere se la Camera debba respingere il chiesto commiato di Garibaldi, e di ciò non tocca giudicare agli elettori, tocca ai deputati.

Con osservazione più arguta che giusta diceva il signor Chiaves che gli elettori, rinviando alla Camera il generale Garibaldi, dichiareranno essere la Camera, malgrado le parole di Garibaldi, rispettabile sempre.

Ma se gli elettori non lo rinviassero, ne verrebbe forse la conseguenza che la Camera non fosse più degna di rispetto?

Ciò dimostra che la questione di cui si tratta dobbiamo deciderla noi e non altri. A tempo debito gli elettori non mancheranno di fare il loro dovere; intanto facciamo noi il nostro.

Per dimostrare come l’Italia abbia bisogno quando che sia del braccio di Garibaldi si è detto che si fece nel 1849 cattiva prova delle armi nostre.

Non è vero, o signori, che i nostri soldati abbiano fatto cattiva prova. Ci toccarono allora fieri disastri; ma anche nelle sventure la prova fu sempre onorata, e Goito, e Peschiera, e Pastrengo fanno testimonianza del valore delle nostre schiere. .

Non sarà per le accettate o non accettate sue dimissioni che il generale Garibaldi sorgerà per l’Italia quando abbia d’uopo del suo braccio; egli ama troppo la patria per esitare a difenderla in considerazione di misere gare; suoni l'ora della battaglia, e la spada di Garibaldi si aprirà, come sempre, il varco alla vittoria.

E per questo motivo, è per far atto di riverenza verso Garibaldi che io rispetto le sue deliberazioni ed accetto la sua dimissione; tanto più accettabile per me colla sicurezza che ho in cuore che ci sarà prontamente restituito.

Presidente. La parola spetta al deputato BonCompagni.

Petruccelli. Domando la parola per un fatto personale.

Presidente. Ha la parola per un fatto personale.

Petruccelli. L’onorevole Sineo mi vuol far passare come un cannibale. (Risa) In verità io sono rivoluzionario, arcirivoluzionario, perché nell’attuale situazione d’Italia non si può essere altro sinché essa non sarà compiuta; ma cannibale, signori, no, non lo sono, lo non odio in questo mondo che i preti politici, e niuno più.

Io assolvo tutti i partiti, perché tutti i partiti, quando combattono per un principio, sono rispettabili agli occhi miei; vanno assoluti se combattono con coscienza di bene. Il prete politico no, perché la politica non è la sua missione; il posto del prete è l’altare, la sua arma la preghiera, la sua missione il perdono e la fratellanza.

Se dunque l’onorevole Sineo crede che Tessere rivoluzionario in questo modo sia un essere cannibale, io mi rassegno. Ma io non la intendo in questo senso. Vi sono rivoluzionari e rivoluzionari, signori. Vi sono rivoluzionari dal basso in alto, quelli che scendono a sommuovere le passioni luride delle piazze, e di costoro io non sono. Vi sono poi i rivoluzionari dall’alto in basso, quelli che vogliono far servire l’autorità alla creazione della nazione per imporre la libertà, e di questo tipo io mi sono rivoluzionario. Io non sono con Mazzini, sono con Saint-Just.

Questo mi occorreva rispondere all’onorevole Sineo. Presidente. L’onorevole BonCompagni ha la parola.

Boncompagni. Vi rinunzio.

Voci. Ai voti! ai voti! (Rumori)

Presidente. Domando se la chiusura è appoggiata. (È appoggiata).

Bixio. Domando la parola...

Curzio. Domando la parola contro la chiusura.

Presidente. Sono due che hanno domandato contemporaneamente la parola contro la chiusura e non può averla che un solo; s’intendano tra loro.

Curzio. Non mi sembra ragionevole votare ora la chiusura su questa discussione...

Voci a sinistra. Ma nessuno la domanda!

Curzio. è giusto che l’onorevole BonCompagni abbia la parola.

Voci. Vi ha rinunziato!

Curzio.  ...la maggioranza non ha spiegato ancora le sue idee, è necessario che il suo capo le formoli.

(Rumori)

Presidente. II deputato BonCompagni ha rinunziato, e nessuno può obbligarlo a parlare.

Metto ai voti la chiusura.

Bixio. Domando perdono, io ho domandato la parola,  né so perché non mi si vuol concedere.

Presidente. Scusi: ella ha domandato la parola; l’onorevole Curzio pure l’ha domandata. Io ho detto che entrambi pareva accennassero di voler parlare contro la chiusura; che un solo poteva farlo; l’onorevole Curzio parlò, ella signor Bixio si tacque; io credeva che la cosa fosse intesa.

Curzio. Io ho domandato la parola contro la chiusura, e non ho continuato a parlare perché da alcuno mi era stato detto che la chiusura non era stata domandata; quindi io non avendo parlato, reclamo il diritto di parlare.

Presidente. Perdoni: la chiusura non solo fu chiesta, ma venne anche appoggiata.

Voci a sinistra. No! no! (Interruzioni)

Presidente. Furono due che volevano parlare contro la chiusura; allora io dissi che s’intendessero quale dei due avrebbe parlato, avvegnaché, come ben sanno, secondo il regolamento contro la chiusura può parlare un solo; e difatti mi parve, per quanto il consentivano i rumori, udire che l’onorevole Curzio abbia parlato contro la chiusura.

Voci. No, non ha parlato.

Curzio. Io parlerò se mi concede la parola.

Presidente. Parli adunque, ma solo contro la chiusura.

Bixio. Mi permetta due parole. Io non ho sentito affatto parlare di chiusura, tanto più che ebbi sempre gli occhi rivolti verso il banco della Presidenza. Io ho domandato la parola replicatamente.

Presidente. Allora non avrà ben inteso. La chiusura fu domandata, ed è stata appoggiata. Adesso parlerà l’onorevole Curzio per opporsi alla chiusura, se il crede, in difetto darò la parola all'onorevole Bixio, ma solo sopra tale argomento.

Mancini. Domando la parola.

Curzio. Il mio concetto è questo, e lo dirò in poche parole.

La Camera ha udito oratori di diverse parti; quindi mi parrebbe giustissimo doversi concedere la parola, ove venisse domandata, a qualche oratore che parli in senso contrario, massime se appartenga alla maggioranza della Camera; e siccome il deputato BonCompagni era stato appunto quello che domandava di parlare quando si voleva la chiusura, io pregherei l’onorevole BonCompagni personalmente a voler prendere la parola. (Rumori)

Molte voci. Ha detto più volte che rinunziava.

Presidente, L’onorevole BonCompagni avendo rinunciato alla parola, io metto ai voti la chiusura.

(Dopo prova e controprova, la chiusura è ammessa).

Ora metto ai voti la proposta che venne fatta: non doversi accettare le dimissioni del deputato Garibaldi.

Domando se questa proposta è appoggiata.

(È appoggiata).

Crespi. Domando la parola per una mozione d’ordine.

Presidente. Ha la parola.

Crespi. Non vi è bisogno di mettere ai voti la non accettazione della proposta, giacché la non accettazione è la negazione dell'accettazione: essa non è una proposta nuova.

Chiaves. Domando la parola per una mozione di ordine.

Presidente. Ha la parola.

Chiaves. Io credo che, se non vi fosse contestazione, la forinola sarebbe veramente questa: «La Camera prende atto della dimissiono;» ma quaudo vi sono opposizioni all’accettazione, allora la non accettazione rimane la proposta che si deve mettere ai voti, perché, come io diceva, non è il caso di votare accettazioni.

Crespi. Veda il regolamento.

CHIAVES. Perdoni l’onorevole Crispi; il nostro regolamento tace in proposito; il regolamento del Senato è conforme a questo metodo. Quando un senatore dà la sua dimissione, il Senato senza più prende atto della dimissione. Non può essere altrimenti.

Presidente. Questo è il motivo pel quale io proponeva la non accettazione.

Crispi. Mi permetta il signor presidente una parola.

L'onorevole Chiaves, invocando il regolamento del Senato, ha sbagliato. Abbiamo un regolamento a noi speciale, ed in questo è stabilito che tutte le proposizioni, qualunque esse siano, si votano per alzata e seduta. Qualche volta il presidente...

Boggio. Chiedo di parlare.

Crispi... presumendo il consentimento della Camera a ciò che è messo in deliberazione, dice: se non vi sono opposizioni, la proposta s’intenderà accettata. Cotesta non è che un’interpretazione della volontà della Camera, e non un modo esplicito di votazione. Se l’onorevole Chiaves consulterà il regolamento nostro, se consulterà lo Statuto che è base al regolamento, troverà che tutte le mozioni si debbono votare per alzata e seduta. Ora qual’è quella portata oggi alla Camera? Un deputato è venuto chiedendo la sua dimissione; bisogna dunque che il presidente metta ai voti se questa dimissione è accettata o no. Nella negativa o nell’affermativa che si manifesteranno, si troverà il risultato della volontà della Camera.

Presidente. La questione non è se si debba fare la votazione implicita o no, ma se si debba mettere la questione sotto forma negativa o sotto forma affermativa; questo, lo ripeto, è la vera questione; importa di evitare gli equivoci: importa ritenere che il regolamento si osserva.

Crispi. Io non ho risposto al presidente, ma al deputato Chiaves.

Boggio. Appunto per le ragioni addotte dall’onorevole Crispi, la votazione debb’essere fatta nella formola che ha indicato il presidente, e che fu di nuovo espressa dall’onorevole Chiaves.

L’onorevole Crispi ha ragione quando dice che si deve sempre mettere ai voti la proposizione. Ora un deputato che domanda la sua demissione pel fatto stesso che indica di non voler più appartenere all’Assemblea, non deve più e non può più fare proposizioni all’Assemblea (Rumori), se invece v’è qualcuno che non voglia che la demissione sia accettata... (Conversazioni a sinistra e rumori)

Presidente. Pregherei che non si facessero altre questioni di parole.

Cadolini. Domando la parola per una mozione d’ordine. (Rumori)

Boggio. Non è mia abitudine di tacere quando si fanno rumori, e non rinuncio alla parola.

Presidente. Prego la Camera a far silenzio.

Boggio. Una sola proposizione è stata fatta, la proposizione che non si accettino le offerte dimissioni; epperciò, secondo il regolamento invocato dall’onorevole Crispi, deve mettersi ai voti questa unica proposizione. Insisto perché non sia violato il regolamento, e si voti in quel modo che esso prescrive.

Presidente. Il deputato Cadolini ha la parola per una mozione d’ordine.

Cadolini. Io credo che questa questione sia semplicissima, e che i precedenti della Camera ci insegnino come ci dobbiamo comportare in questa votazione.

Nelle altre occasioni in cui la Camera ha accettato dimissioni, il presidente disse: «Se nessuno si oppone, le dimissioni s’intenderanno accettate.» Nei casi in cui qualcuno sorse a fare opposizione, il presidente mise ai voti con un’altra formola e disse: «Se nessuno si oppone, le dimissioni del tal deputato non saranno accettate.» Nessuno opponendosi, si ritenevano come non accettate.

Molte voci. No! no!

cadolini. Mi ricordo l’ultima volta che le demissioni di un deputato furono rifiutate in seguito a lunga discussione, nel porle ai voti il presidente disse: «Coloro i quali intendono che le dimissioni non sieno accettate sono pregati di alzarsi.» Quindi io credo che in questa occasione non si abbia che ad applicare lo stesso sistema, e che quindi si debba mettere ai voti la proposizione negativa.

Presidente. Metto ai voti la non accettazione proposta.

Chi intende di non accettare le demissioni offerte dal deputato Garibaldi è pregato d’alzarsi.

(Dopo prova e controprova, le demissioni sono accettate).

Viene ora la demissione del deputato Laurenti-Robaudi.

L’onorevole Laurenti-Robaudi, deputato del secondo collegio di Palermo, rassegna le sue demissioni con lettera di Genova del 3 di questo mese.

Il motivo della sua demissione è in sostanza cotesto: il suo disaccordo cogli atti del potere esecutivo e colle deliberazioni del Parlamento, ch’egli reputa contrari allo Statuto fondamentale del regno.

Se non vi hanno opposizioni, si dà atto delle demissioni del deputato Laurenti-Robaudi, le quali s’intenderanno accettate.

(Sono accettate).

L’onorevole Cairoli, deputato del collegio di Brivio, con lettera di Pavia del 31 scorso dicembre, rassegna le sue demissioni.

I motivi ne sono sostanzialmente i seguenti:

1° Il voto del 10 dicembre;

2° Il giudizio che ne ha portato l’opinione pubblica, e le funeste conseguenze che per suo avviso produsse il voto medesimo, quali la continuazione dell’arbitrio nelle provincie meridionali, la perturbazione delle coscienze, e dell’accordo necessario all’adempimento del comune mandato. (Bisbigli).

cadolini. Domando la parola.

Presidente. Ha facoltà di parlare.

cadolini. Io conosco la lettera dell’onorevole nostro collega Cairoli, e non trovo che in quella ci sia parola della quale l’onorevole presidente dovesse commettere la lettura.

Io ricordo come in tutte le occasioni in cui alcuno dei nostri colleghi ha presentato una lettera di dimissione la quale non recasse offesa alla Camera, l’onorevole presidente ebbe sempre la compiacenza di darne lettura alla Camera; e nel caso presente si deve, a parer mio, fare altrettanto.

Se il presidente annunziasse le demissioni senza darne i motivi, allora potrei consentire che non fosse letta la lettera; ma quando l’onorevole presidente viene ad esporre questi motivi con parole che non son quelle della lettera, io trovo essere di convenienza e di dovere verso il nostro collega dimissionario che i motivi siano espressi colle stesse sue parole: perciò pregherei l’onorevole presidente a voler leggere quella lettera, oppure a permettere che noi non accettiamo come esatta la formola da lui impiegata.

Cavallini. Io credo bene di osservare all’onorevole deputato Cadolini che il presidente non fu mai vincolato da una forma piuttosto che da un’altra; i precedenti parlamentari dimostrano che gli fu sempre lasciato in ciò un pienissimo arbitrio, arbitrio di cui egli ha sempre fatto il più parco uso dando quasi sempre lettura di tutte le lettere che vengono a questo riguardo presentate. .

Dimodoché l’osservazione dell’onorevole Cadolini mi pare a questo riguardo inopportuna ed infondata.

Sineo. Io non contesto il diritto del nostro presidente di dare o no lettura delle lettere che sono a lui rivolte. Ma ritengo altresì che ciascun deputato ha il diritto di fare al presidente quelle richieste che credè convenienti. In questo caso io mi unisco all’onorevole Cadolini, conoscendo anch’io il tenore di questa lettera, per domandare che ne sia data lettura.

cadolini. Per dimostrare come sia stato inopportuno il non dar lettura di questa lettera, basta il fatto stesso che si sono intesi dei rumori nella Camera allorché l’onorevole presidente disse i motivi delle dimissioni dell’onorevole Cairoli, mentre io so, e non sono il solo che ha letta ed esaminata quella lettera, che in essa non c’è parola la quale offenda la Camera.

Presidente. L’onorevole Cadolini ha osservato che i motivi furono da me esposti esattamente, e quali sono stati espressi nella lettera dell’onorevole Cairoli; io giudicai varie espressioni di questa lettera non convenienti... (Bisbigli a sinistra) Questo è il mio apprezzamento; cionondimeno, se la Camera crederà che io debba darne lettura...

Voci a destra. No! no! basta!

presidente... ma dal momento, lo ripeto, che fu riconosciuto che quei motivi li ho esattamente riferiti, io non credo sia il caso di darne lettura avvegnaché vi hanno espressioni in essa ch’io non reputo conformi agli usi ed alle esigenze parlamentali. (Bene)

Se non vi sono altre osservazioni, si dà atto delle dimissioni del deputato Cairoli, che s’intendono accettate.

(Sono accettate).

Vi hanno ora le dimissioni dell’onorevole deputato Saffi.

L’onorevole Saffi, deputato del collegio di Acerenza, scrive in data 2 gennaio 1864, domandando le sue dimissioni. I motivi sono cotesti due:

1° Il convincimento che l’opposizione non possa oramai nelle presenti condizioni proseguire l’opera sua con quella forza morale, che è il solo presidio dell’azione politica della minoranza.

2° La coscienza di potere, come privato cittadino, meglio che in una difficile situazione parlamentare, adempiere al debito suo verso la patria.

Se non vi hanno osservazioni, la Camera dà atto di queste dimissioni.

(Sono accettate).

L’onorevole Vecchi, deputato di Cerignola, con lettera di questo momento scrive domandando le sue dimissioni pel voto testé dato dalla Camera in occasione delle dimissioni dell’onorevole Garibaldi.

Se non vi hanno osservazioni, queste dimissioni si intenderanno accettate.

(Sono accettate).

Inoltre gli onorevoli deputati Miceli, La Porta, Stefano Romeo, Cognata e De Boni scrivono alla Presidenza in questo momento:

«Presentiamo alla S. V. Illma la nostra dimissione di deputati, e la preghiamo a darne comunicazione alla Camera, perché si degni accettarla, serbandoci dirne le ragioni al paese in un indirizzo che volgeremo ai nostri elettori.

«Accolga,» ecc.

Se non vi sono opposizioni, queste dimissioni s’intenderanno accettate.

(Sono accettate).

(Movimenti e conversazioni generali. — Succede una sospensione di circa un quarto d'ora).

INCIDENTE SULL'ORDINE DEL GIORNO.

presidente L’ordine del giorno reca il seguito della discussione generale sulla legge di repressione del brigantaggio.

L’onorevole Sineo ha facoltà di continuare il suo discorso incominciato ieri.

Sineo. La Camera è evidentemente preoccupata del voto che ha dato. (Mormorio) Essa non è disposta ad entrare in una nuova discussione. (Segni di dissenso) Quelli che sono qui possono essere disposti ad entrare in una nuova discussione, ed io accetto la loro dichiarazione, e suppongo che, poiché si mostrano disposti ad ascoltare, ascolteranno veramente; ma quelli che mancano non sentono. (Ilarità)

Ora una discussione così grave deve agitarsi davanti alla Camera che sia in grado di votare. Penso adunque che anche il signor presidente sentirà la necessità di rimandare questa discussione a domani.

Presidente. I deputati rientreranno sì tosto che ella cominci a parlare. Del resto la seduta continua.

Sineo. Ma il deputato deve parlare alla Camera legalmente costituita. Io domando l’appello nominale. Se non siamo in numero, non si ha da parlare ai banchi!

Voci a sinistra. No! no! A domani! a domani!

Presidente. Si procede all’appello nominale.

Prego gli onorevoli deputati a volersi recare ai loro posti, poiché mi pare che la Camera sia abbastanza frequente di numero perché l’onorevole Sineo possa continuare il suo discorso.

(Alcuni deputati escono dalla sala).

Prego gli onorevoli deputati di non uscire; rivolgo poi nuovamente la mia preghiera segnatamente ai deputati che sono nell’emiciclo, di volersi recare ai loro posti.

Invito ora l’onorevole Sineo a continuare il suo discorso.

Sineo. Io suppongo che si sia fatto l’appello nominale per vedere se fossimo in numero. (Movimenti in senso diverso)

Il regolamento, o signori, parla chiaro; se non volete osservare il regolamento, allora cambiatelo. Molti deputati hanno risposto all’appello, e poi sono usciti.

massari. Domando la parola per una mozione di ordine.

Presidente. Ha la parola.

massari. Ogni deputato ha certo il diritto di chiedere l’appello nominale, ciò è fuori di dubbio; ma mi pare che l’onorevole Sineo voglia stabilire un precedente che noi non possiamo accettare, vale a dire che nessun oratore possa parlare se non vi è in quest’aula il numero legale richiesto dallo Statuto per le deliberazioni. Se è per le deliberazioni, l'onorevole Sineo ha ragione in tutto e per tutto; ma per la semplice discussione mi pare che egli voglia assolutamente imporre alla Camera un precedente che confido essa non accetterà.

Crispi. Io credo che il precedente più funesto sia quello che vuolsi provocare dall’onorevole Massari. Abbiamo una volta per prudenza discussa, ma non decisa, cotesta quistione, non l’abbiamo decisa per un riguardo a noi medesimi.

Io non verrò collo Statuto in mano e col regolamento che ci siamo fatti per dimostrare ai pochi deputati che sono presenti ed all'onorevole Massari il quale mi ha preceduto nella parola, che le sedute e le discussioni allora possono aver luogo quando la maggiorità dei deputati costituenti la Camera è qui presente. Si sono più d’una volta, er una reciproca accondiscendenza, cominciati i lavori parlamentari prima che la Camera fosse in numero; ma ciò è unicamente avvenuto al principio della tornata in attenzione degli altri nostri colleghi. Quando però la tornata si avvicina al suo termine e la Camera non è in numero, ogni presunzione che lo diverrebbe è cessata, e continuare la discussione sarebbe contrario allo Statuto ed al regolamento.

Del resto, qual è lo scopo dell’appello nominale? È quello appunto di vedere se la Camera è in numero.

Ora dopo cotesta prova, risultando che pochi sono i deputati presenti, sarebbe un atto sconveniente e poco dignitoso non sciogliere la tornata. Quindi per non istabilire un precedente funesto, quale è quello che vorrebbe provocare l’onorevole Massari, e per la dignità della Camera e per prudenza politica chiedo che sia dichiarata sciolta la tornata ai termini dello Statuto e del regolamento.

broglio. Qui non è il caso che si possa venire ad una deliberazione, dal momento che la Camera non è in numero; ma io non posso assolutamente lasciar passare senza osservazione in contrario le considerazioni messe innanzi dall’onorevole Crispi.

Se fosse vero che le disposizioni dello Statuto e del regolamento dovessero essere interpretate nel modo che egli accenna, io dico che in questo caso, per una ipotesi inammessibile, e Statuto e regolamento imporrebbero alla Camera un obbligo impossibile e consacrerebbero l’assurdo nelle nostre deliberazioni. Immaginare che durante la discussione si debba d’istante in istante verificare se ci sia o non ci sia il numero prescritto nell’Assemblea, sarebbe rendere assolutamente impossibili le discussioni della Camera.

È naturale, è evidente lo spirito dello Statuto e del regolamento, che cioè ci debba essere un dato numero di deputati presente al momento della deliberazione; è naturale anche che i deputati che hanno da deliberare debbono essere presenti in massa nel tempo della discussione, perché si capisce che un corpo non delibera se non ha discusso; ma che singolarmente, individualmente si debbano numerare i deputati ad uno ad uno ad ogni istante della discussione, per vedere se c’è o non c’è il numero legale, questo, ripeto, sarebbe una cosa che condurrebbe assolutamente all’assurdo.

In questo senso io ho creduto dover protestare contro le teorie messe avanti dall’onorevole Crispi; del resto, ripeto, non si può procedere ad una deliberazione in proposito, dal momento che non c’è il numero legale.

Crispi. Chiedo di parlare.

presidenti: Parli.

Crispi. Io mi sento obbligato a legittimare collo Statuto e col regolamento che citai e non lessi la teoria da me posta avanti. All’articolo 53 dello Statuto è detto: «Le sedute e le deliberazioni non sono  né legali,  né valide se la maggiorità assoluta dei membri non è presente.» Dunque qui si parla di sedute e di deliberazioni. Lo Statuto a quest’articolo vuole esplicitamente che la maggiorità assoluta dei deputati sia presente, perché le sedute e le deliberazioni siano valide.

All’articolo 9 del regolamento è poi detto che il presidente apre le sedute coll’appello nominale. Quindi al secondo alinea è soggiunto: «Quando, scorsa un’ora dall’apertura della seduta, la Camera non sia in numero, il presidente scioglie la seduta.»

Dopo questa mia osservazione non resta nulla a soggiungere; sta al presidente di fare il suo debito.

Presidente. Non ne farei una questione  né di diritto,  né di regolamento, bensì una questione di semplice convenienza, o meglio dirò di tolleranza, se cioè l’onorevole Sineo volesse, mentre i deputati stanno rientrando nella sala, incominciare il suo discorso; se egli noi crede, io non ve lo posso astringere.

Lascio a lui, lascio a chi lo stimi, il giudicare del fatto, lo apprezzarne le conseguenze.

Sineo. Io debbo dichiarare per qual motivo non aderisco all’invito del signor Presidente.

Io sarei ben lieto di usare un atto di cortesia al nostro presidente, ma in questo momento non posso.

Quando c’è stata una discussione che ha assorbita così potentemente l’attenzione della Camera, quando nessuno è disposto a sentire una discussione legale, da avvocato, io tradirei il mio dovere se venissi a presentarvi dei gravi argomenti che credo meritevoli d’esser meditati.

Quindi io domando di essere ammesso a presentarli quando la Camera sarà tranquilla, quando sarà disposta a valutarli.

Presidente. Osservo all’onorevole Sineo che la Camera è tranquilla.

Crispi. I banchi sono deserti!

Presidente. La parola è all’onorevole Boggio per una mozione d’ordine.

BOGGIO. Se l’onorevole Sineo non crede di continuare il suo discorso io pregherei il signor presidente a dar la parola a taluno degli oratori inscritti dopo, perché mi parrebbe strano che la volontà di un deputato fosse bastevole perché la Camera non potesse tener seduta.

Presidente. Io non credo di potere accogliere la sua proposta,  né potrei metterla ai voti per la ragione, che ella sa.

BOGGIO. Io sono pregiudicato ne’ miei diritti: sono tra gli iscritti, e non posso parlare finché non hanno parlato quelli che sono iscritti prima di me. Io domando se un deputato può frustrare il diritto degli altri deputati: è una violenza morale che si fa a quelli che sono iscritti dopo il deputato Sineo.

Petruccelli. Parli lei.

BOGGIO. Io non voglio privilegi, quindi non posso accettare quello che mi viene offerto dall’onorevole Petruccelli. Parlerò al mio turno.

Presidente. La seduta è sciolta. Domani alle ore 1 12 si farà l’appello e il nome degli assenti senza legittima causa sarà stampato nel foglio ufficiale.

La seduta è levata alle ore 5.

Ordine del giorno per la tornata di domani:

1° Seguito della discussione sul progetto di legge per la repressione del brigantaggio.

Discussione dei progetti di legge:

2° Pensioni degli impiegati civili;

3° Modificazioni al Codice penale militare.


Interpellanze sui fatti di Sicilia D'Ondes-Reggio





















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