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IL POLITECNICO (vol. X - 1861)


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Sulla concessione delle ferrovie di Napoli e Sicilia, 

notizie estratte dai documenti.

Premettiamo che alcuni elementi di questo atto si riscontravano già nelle ultime concessioni impartite in Toscana dal ministerio Ricasoli; e alcune si riscontrarono poi nel progetto del ministerio Cavour per le ferrovie della Liguria.

Troviamo infatti nella concessione Ricasoli per le ferrovie di Maremma (art. o) che all'effetto di raccogliere i capitali occorrenti alla costruzione, il governo contrarrebbe uno speciale imprestito. Troviamo nella concessione delle ferrovie liguri, oltre al medesimo modo di costituire il capitale, l'altro principio che il governo si riserva l'esercizio e il frutto; e al concessionario solamente affida l'appalto e l'armamento. Non è più una vera concessione nel solito significato, ma una grande allocazione d'opera.

Ora a queste si aggiungano altre due condizioni: — Che li assuntori, contro prolusione fissa, hanno l'incarico di fare i progetti ed eseguirli al modo, al prezzo e al tempo da concertarsi col governo:— Che, contro altra prolusione fissa, assumono l'incarico bancario di collocare le cartelle, destinate a costituire mano mano il capitale. E allora si ha il progetto di concessione perle due ferrovie da Firenze a Ravenna e da Arezzo al confini; romano. E si ha pur l'altra che, dietro quell'esempio, il dittatore di Napoli e Sicilia diede ad una società pur toscana, composta anzi in parte delle medesime persone, e rappresentata dalle case Adami e Lemmi.

Tranne la ferrovia di Maremma, tutte le altre concessioni qui mentovate hanno il pregio d'escludere quel pronto gioco a man salva, che i socj fondatori, prima che le costruzioni fossero seriamente cominciate, solevano nel secolo d'oro fare a largo loro profitto, a maggiore aggravio dei successivi e veri azionisti, e a dissesto del commercio nella maturanza dei tempi.


Dalla ferrovia meridionale alla ligure v'è poi questo divario, che nella prima ogni parte di lavoro viene pagala secondo ciò che officialmente risulta valere. Ma nella ligure la compera degli spazj, il lavoro e l'armamento vengono apprezzati in monte, a un tanto per chilometro.

La concessione meridionale è dunque meno venturosa; offre maggior probabilità che in ogni parte d'opera, e per ciò in tutto il complesso, i pagamenti corrispondano al fatto dei lavori; sicché, nò dal lato degli assuntori, ne da quello del governo, vi sia fortuito vantaggio o svantaggio. E vaglia il vero: nella ligure il ministerio stesso mostrò di non avere assoluta fede in codesta stima fatta in monte; poiché si riservò la facoltà di rescindere il contratto, qualora nel mese dopo la sunzione della legge si presentasse altro appaltatore, il quale offrisse una riduzione per Io meno del cinque per cento sul prezzo convenuto. Nel che implicitamente confessò la possibilità d'aver fattomi soverchio di stimo, che importerebbe non meno di cinque milioni.

Inoltre, nella ligure, se le pendenze non oltrepassano la misura del dieci per mille, il governo dovrà pagare 294 mila franchi al chilometro: ma se mai «convenisse» accordare pendenze maggiori del dieci, li assuntori dovranno fare nel prezzo la riduzione di 24 mila franchi. Qui a prima giunta parrebbe che in ogni (ratto naturalmente piano e agevole l'opera debba esser pagata di più che non nei luoghi ingombri di rupi e di abitati, dove i costruttori, dopo avere affrontato i più ardui ostacoli, fossero costretti a rimostrare al governo la concernenza di seguire un limite di pendenza men rigoroso. La cosa si presenta dunque come se il facile dovesse venir pagato più del difficile. — Ma forse noi abbiamo letto male, o almeno inteso male; onde avremmo caro che alcuno di quei giornali che si danno per meglio informati, chiarisse il nostro dubio. Ad ogni modo nelle ferrovie liguri il governo, per gli studj fatti già in varie occasioni, e per l'esperienza delle porzioni di linea già compile, possedeva dati certi sulle difficoltà dei luoghi; e poteva per ciò riputarsi in grado di stimar la spesa vera alla cifra media di 570 mila o 594 mila franchi. Ma ciò non si sarebbe potuto fare in Sicilia, e dovunque il governo non avesse nemmeno codesto mal sicuro modulo. Colà diveniva perciò inevitabile la stima d'ogni parie d'opera; e perciò la compita redazione e discussione dei progetti.


Il che, per mano d'assuntori desiderosi di potere dar mano ai lavori, doveva conseguirsi più sollecitamente; ed era forse il solo modo possibile, quando tutta l'azienda governativa di quel regno era, e doveva essere per lungo tempo, più n meno perturbata.


Il progetto Adami e Lemmi non venne, come molti giornalisti supposero, improvvisato in Napoli nel breve tempo in che il deputato Bertani vi tenne la firma di secretario della dittatura, cioè nelle ultime tre settimane di settembre, tra l'ingresso di Garibaldi e la partenza di Bertani pel parlamento.

Fin dal di che Pilo e Crispi e i loro amici vollero ad ogni costo chiamare alle armi la Sicilia, il governo borbonico aveva sperato che le ferrovie potessero riescire un bastevole allettamento per amicare i popoli. E fin dal 28 aprile, aveva già promesso favore alle tre grandi linee d'Apulia. Calabria e Sicilia; poiché quella di Campania, cioè da Napoli al confine romano, era già compiuta fino a Capua e incominciata nel rimanente. Il governo aveva affidato ad una commissione poteri eccezionali per determinare sommariamente qual fosse il migliore tra i tre modi di promovere l'impresa: se l'annua sovvenzione, o l'assicurazione d'un minimo d'interesse, o la diretta mano del governo. Si preferì un minimo interesse del cinque per cento.

È ben chiaro che Garibaldi, liberata la Sicilia, non poteva volere che il popolo per amore delle strade ferrate avesse a desiderare il governo dei Borboni. Onde sino dal 22 giugno, tre soli giorni dopo che le fortezze di Palermo erano interamente abbandonate dai regj, aveva già cordialmente accolto, e favorevolmente apprezzato l'offerta della società toscana; e la sanciva colla firma sua e di chi era allora suo secretario. Bertani era ancora a Genova, a incalzare quei provvedimenti senza cui la spedizione di Sicilia sarebbe per mancanza d'alimento in breve svanita.

Garibaldi aveva caro anzi tutto di porgere lavoro e sollievo al popolo. Inoltre i concessionari gli avevano proferto d'anteporre negli impieghi e appalti quelli tra suoi ch'egli raccomandasse. Ed egli amava dire che, appena compiuta la guerra, voleva andare co' suoi soldati e con quanti volessero mostrar animo di cittadini, a dare il primo colpo di zappa! — E lo avrebbe fallo. Anche un appalto di strade, in sua mano, doveva divenir poesia.

Non perciò egli fece di quella concessione uno strumento di parte. a vantaggio e trionfo de'  suoi fautori.


Testimonio non sospetto ne sia il giornale torinese d'Arti e Industrie. «Per noi è di qualche peso che il cavaliere Adami, quello medesimo che venne a deporre a'  piedi del trono i voti per l'annessione della Toscana, sia uno dei segnatarii del contratto» (Ottobre 10. N. 79).

Quel giornale commenda anche il fatto che la società fosse italiana: «Le viste del generale Garibaldi furono evidentemente quelle di assicurare almeno un avvenire di lavoro agli uomini che per la patria esposero la loro vita, dacché a tutti non è possibile di provedere con pensioni ed altri mezzi. A quest'uopo, accettò le offerte d'una compagnia eminentemente italiana È un concetto di nobilissimo amor nazionale, difficile a compiersi con compagnie varie, e sopratutto con compagnie straniere, che hanno pure stranieri interessi...

Sono italiani, ai quali non potrà mai rincrescere di dar pane e sostegno a braccia italiane; e forse non ci svincoleremo da questa o da quella dipendenza straniera, se prima non avremo imparato nelle grandi opere pubbliche a fare da noi, come nelle militari e nella politica». ib.

A questo si può aggiungere che un governo trova sempre maggior docilità e compiacenza ne' suoi cittadini; e che nei protetti di superbe straniere potenze i casi di legale conflitto talora vengono a bello studio cercati; e talora non si risolvono senza grave contrasto e pericolo e sacrificio d'alti interessi.

Ripresa dai Borboni in Napoli la farsa costituzionale, venne delegata altra commissione, la quale redigesse i patti per le concessioni di ferrovie. Essa compieva il suo lavoro il 24 luglio. «Ma (come uno scrittore ebbe sin d'allora l'ardimento di stampare in Napoli) sotto la pressura del potere esecutivo, che aveva fatto della pronta e immediata formazione di una rete di ferrovie ad ogni costo una necessità politica, non poteva evitare gli sconci che risultavano da tali imperiose circostanze e dalle condizioni del mercato finanziero, le più sfavorevoli in questi ultimi trent'anni, se viene eccettuato il periodo anormale del 1848. E riteneva il principio dell'assicurazione del cinque per cento, più il fondo d'ammortimento ed un limite larghissimo della spesa di tanto a miglio» (1).


(1) (V. La questione delle ferrovie nell'Italia Meridionale, considerazioni economiche di Enrico Franco. Napoli, agosto 1860, p. 25).


Delle tre grandi linee, la più fruttifera e la più facile era quella che, oltre ad attraversare il cuore del regno, costeggiava tutto il litorale dell'Adriatico. Questa, il 24 agosto, venne improvisamente concessa ad una società nella quale uno solo di nove socj era italiano; nessuno aveva domicilio nello stato, e nessuno aveva offerto alcun pegno di studj preliminari.

Qui citeremo di nuovo il giornale torinese: «Il governo borbonico concedeva ai signori Labante la costruzione delle ferrovie, guarentendo ducati 455 mila per miglio, mentre ci si scrive che due altre dimande a lui medesimo erano state dirette, e non mai ritirate, l una che chiedeva la guarantigia a soli ducati 85 mila per miglio, e l'altra che la estendeva a ducati 105 mila. — Noi non terremo conto di quanto corse in voce di parecchi a Napoli sulle origini recondite del decreto borbonico. Fu detto che ebbe a promulgarsi a favore d'una compagnia estera, in vista dei servigi prestati da persone che avrebbero preso poi parte agli interessi dei concessionarii. Noi non asseriamo mai ciò che non ci consta in modo positivo; d'altronde non troveremmo strano che un governo assoluto, nello stringere i contratti, avesse anche in vista delle considerazioni personali». (Novembre. N. 89).


Ma codesta concessione borbonica fu veramente un atto compiuto e valido?

Se stiamo ai documenti, essa fu fatta dal ministro degli esteri e delle opere publiche, De Martino, «salva la ratifica delle camere legislative del regno (art. 1). Di qual regno e di quali camere si trattasse, vien definito nello stesso atto notarile di concessione, poiché in fronte ad esso venne naturalmente invocato il nome di Francesco II re del regno delle Due Sicilie. Ognuno converrà che in codesta futura ratifica delle camere legislative del regno delle Due Sicilie, riservata da un ministerio che professava d'esercitare poteri meramente costituzionali, né i petenti, né i concedenti, né il notajo, né il re in cui nome si stipulava, ebbero di fatto, o poterono avere, legale e valido proposito d'intendere le camere d'un altro parlamento, d'un parlamento nemico del re, e agli occhi suoi e alla lettera della legge e della costituzione composto o di stranieri o di ribelli. I contraenti non possono avere stipulato ciò ch'essi all'unanimità non ebbero in mente di stipulare, e letteralmente non dissero di stipulare.


Resa dagli avvenimenti giuridicamente impossibile la ratifica dalle parli intesa e convenuta, la concessione rimase tronca e morta di fallo, prima d'aver finito di nascere.

Non crediamo che quell'atto venisse nemanco dato alle stampe, e con ciò promulgato a forma di legge in quanto potesse valere. Nondimeno errò chi per senso d'amicizia intese doversi scusar Garibaldi d'averlo ignoralo. Lo ignorasse o no, certo è che gli tolse di poter venire a esistere legalmente. La Sicilia, il 24 agosto, s'era già levata tutta in nome dell'Italia; la ratifica delle camere del regno delle Due Sicilie era un edificio posato sul vuoto. Per aver vigore, quella concessione doveva dunque rinascere dal primo embrione, o per semplice e assoluto atto dittatorio, finché la dittatura era un fatto; ovvero passando per tutti i gradi e i riti della genesi legislativa dun'altra costituzione e d'un altro regno.


Aveva Garibaldi qualche ragione di publico bene o di giustizia o di popolarità, per redimere dal nulla quella concessione?

Ecco in qual modo ragionava il già citato scrittore pochi giorni prima che Garibaldi entrasse in Napoli: «Avendo lo stato, per fretta e negligenza inescusabile, determinato di trasandare interamente tali studj preliminari, ne volendo le private compagnie aspiranti alle concessioni incorrere in una spesa ingente col rischio d'anticiparla inutilmente, n'è avvenuto che queste, coalizzandosi fra di loro, si sono trincerate ne' limiti d'un maximum di spesa che le mette al coperto di qualunque eventualità;... ed è di troppo oneroso allo stato (p: 25). — Le condizioni finanziarie di tale concessione ci pajono esorbitanti, e poco convenienti alla dignità e all'interesse dello stato. Se siamo bene informati, non si sarebbe solamente ritenuto per cifra il maximum di 155 mila ducati al miglio. Ma nell'articolo che riguarda le azioni e obligazioni, si sono stabiliti articoli lesivi di ogni retto sistema di finanza (p. 53). — Sentiamo che siasi rilasciata l'autorizzazione di emettere tre quarti di obligazioni contro un quarto di azioni, violando così tutti i principj regolatori di simili intraprese. — Pare che siasi ottenuto dal concessionario che l'interesse dei titoli o azioni o obligazioni venga retribuito dallo stato sin dal principio della loro emissione, mediante un convento col real tesoro, ed il versamento che ne farebbe il concessionario. Non solo sarebbe in questo modo sorpresa la fede publica, ma gravissimo danno ne risulterebbe nel credito dello stato.


Non è necessaria una profonda conoscenza di materie finanziere per iscorgere che tali misure si richieggono dal concessionario per assimilare quant'è possibile i suoi titoli alle rendite iscritte; — anzi ottenerne, a preferenza di questi ultimi, lo smaltimento sulle borse d'Europa, aggiungendovi, a parità d'interesse, l'ipoteca delle ferrovie ed un aumento d'interesse» (p. 34, 35).

Con più brevi parole, anche i direttori del Giornale d'Arti e Industrie condannano i termini della concessione. «Noi non sapremmo come conciliare il progetto Lahante con quelle viste d italianità, di risparmio, di guarentigia, di saviezza insomma e prudenza che debbonsi avere nelle grandi intraprese d'utilità publica. E però non solo siamo lieti di saperlo inammissibile, ma lo combatteremmo in nome della lesione enorme, quando mai potesse avere il menomo valore (Nov. N. 89).


Or qui noi ci troviamo in dovere di porre i lettori in grado di giudicare più intimamente quelle che a Napoli parvero condizioni esorbitanti e a Torino parvero una lesione enorme. Il che faremo in via di paragone colle concessioni liguri e toscane.

La ferrovia Delahante doveva cominciare al fiume Tronto, sul confine dell'Abruzzo colle Marche, ove si doveva congiungere colla grande linea che dal Reno e dal Gottardo per Milano, Bologna e Ancona tende alla Grecia, alla Siria, all'Egitto. Dal Tronto, passando per Foggia, si stendeva fino a Taranto; e inoltre abbracciava a sinistra le diramazioni di Termoli, Barletta. Brindisi, Bari, facce e Otranto; e a destra due passi dagli Apennini alla Tolta di Napoli, anzi fino ad una stazione in Napoli (art. 14); il primo lungo i fiumi Biferno, Tammaro, Calore e Volturno, l'altro lungo l'Ofanto e il Sele. Il governo però riservossi d'escludere uno di questi due passaggi degli Apennini. E veramente erano troppo fra loro vicini; e inoltre la congiunzione di Napoli con Taranto, Brindisi, Lecce e Otranto deve riuscire molto più breve e facile, se si passerà l'Apennino fra Éboli e Potenza, come nelle concessioni Adami e Lemmi.

Non avendo i petenti borbonici allegato alcun tracciamento o altro studio, e non avendo il governo imposto su di ciò alcuna norma, noi non possiamo calcolare la precisa somma delle lunghezze. Una memoria, fatta inserire dagli stessi concessionarj borbonici nell'Iride di Napoli del 24 e 25 settembre, asserisce che il capitale «non si può valutare meno di trecentocinquanta millioni di franchi».


Or questa somma, in ragione dei ducati 135 mila al miglio, valutando il ducato al pari in franchi 4,24 (V. Annuaire du bureau des longitudes), supporrebbe una lunghezza totale di seicento e più miglia (611), come ciascuno può facilmente calcolare. Su questa somma la concessione assicurò l'interesse del cinque, e rammollimento del capitale, oltre al godimento delle ulteriori rendite dell'esercizio. Ma l'interesse non era stabilito sulla spesa effettiva. La concessione diceva all'articolo 50: — «L'importo totale della garentia di questa rendita netta risulterà dalla lunghezza delle linee, senza che la maggiore o minore spesa effettiva dia diritto all'una o all'altra parte di chiedere aumento o riduzione della rendita nella, garantita come sopra per ogni miglio napoletano».

E che cosa è il miglio napolitano? — Questo è un più oscuro problema che non si pensi. Non senza ragione lo si lasciò indeterminato, quando in cose di minor momento si appose alle misure napolitane l'equivalente metrico (V. art. Il e 12). Non essendo in grado noi di risolverlo, abbiamo consultato persona esperta, che ci favorì d'un prospetto di otto differenti valori di questo miglio; i quali però si possono ridurre prossimamente a due. L'uno, che il nostro amico reputa indigeno, sarebbe il miglio di settemila palmi, o mille passi da sette palmi ciascuno, pari a metri 1843.69; epperò ben poco minore del miglio geografico italiano da sessanta al grado; sicché alcuni per uniformarlo all'italiano, lo indicarono con cifre tonde in metri 1852. L'altro equivarrebbe a mezza lega di Francia; e perciò il nostro amico indurrebbe che fosse un'importazione borbonica od anche angioina. Viene stimato in metri 2,222.22; ma da alcuni un poco più (2,225.80) e da altri molto meno (2,126.40).

È probabile che il ministro, nel garantire il valore della ferrovia, pensasse al miglio più lungo, e il concessionario mirasse al miglio più breve. Nel primo supposto, la garanzia sarebbe riescita per ogni chilometro in franchi 257,580; e nel secondo in franchi 510.127. La differenza è grande: franchi 152,547 per ogni chilometro (1).

Le ferrovie d'Apulia, per tre quarti delle loro lunghezze, sono in terreno costantemente piano, asciutto e facile; attraversano anche i vasti pascoli del Tavoliere.


(1) Questi dati vennero raccolti da buone fonti, come l'Annuaire du bureau des longitudes del 1859, il Manuale del Cadolini, l'Ingénieur de poche, la Carta d'Italia del Bruppachcr, la Carta del regno di Napoli del Vallardi, le Tavole di confronto piacentine, il Dizionario geografico universale.


Nel rimanente poi. cioè per un centinajo di miglia dal Tronto al Biferno, e nelle strette degli Apennini non sono più difficili, o almeno più costose, della ferrovia di Maremma. Perocchè questa, oltre ad essere quasi sempre serrata tra i monti e il mare, attraversa molte paludi dove i lavori sono sempre lunghi e incerti, e l'aria insalubre incarisce la mano d'opera. Con tutto ciò la ferrovia di Maremma, nella concessione Ricasoli fu garantita con obligazioni dello stato in ragione di 33 millioni per 233 chilometri di lunghezza, compreso il ramo sotto Volterra; il che riesce in ragione di franchi 140 mila al chilometro (art. 10). È vero che le opere di ferra e d'arte devono colà essere a duplice carriera solamente sopra un decimo della lunghezza, e l'armamento solamente sopra un ventesimo (art. 1.) Ma i giudiziosi pratici, quando siano tenute in doppio tutte le opere d'arte, non che l'area, valutano il perfetto compimento della doppia rotaja a una differenza di franchi 40 mila per chilometro (1); ma il valore assicurato alla ferrovia d'Apulia, risultando di franchi 257,580 pel miglio di mezza lega, e di franchi 510,127 pel miglio di settemila palmi, la differenza di garanzia tra la concessione Ricasoli e la concessione De-Martino, nel primo caso, sarebbe di franchi 57,580 per ogni chilometro; e nel secondo taso, di franchi 110,127. Epperò, sopra l'intera linea di miglia 611 napolitane che poteva variare da chilometri 1357 a chilometri 1127, coeteris paribus, questo soprapiù di borbonico favore poteva variare da settantotto a centoventiquattro millioni di f'ranchi! I concessionarj. giustificandosi nel Nazionale di Napoli del 22 novembre, scambiarono, in certi loro paragoni con altre ferrovie, la cifra della spesa con quella della garanzia. V'è una gran differenza; poiché questa ha un'azione morale, che torna più a vantaggio del concessionario che non del successivo azionista.

Inoltre i concessionari d'Apulia non avevano alcun vincolo che togliesse loro di compiere a piacimento e a preferenza tutte le linee più facili, anche quando nell'esercizio fossero le meno fruttuose.

La spesa quivi sarebbe stata minima, ma la garanzia d'interesse sarebbe stata pari a quella delle linee più difficili, ove la spesa sarebbe stata massima.


(1) Cet ajournement de la pose de la seconde voie, tout en faisant pour deux voies les achats des terrains et les ouvrages de toute sorte, diminuerait la dépense d'environ quarante mille francs par kilomètre. Bineau, Chemins, ecc. p. 254.


Perlochè in effetto avrebbe oltrepassato la misura del cinque per cento, ch'è il valor medio di tutta la rete. Or dovendo questa esser compiuta in dodici anni, la società poteva concentrare in due o tre anni il veloce compimento delle linee piane e facili; e riservarsi a compiere pur velocemente negli ultimi due o tre anni del dodicennio le linee più montuose e difficili. Così avrebbe potuto sulle primizie dell'impresa assicurarsi per alcuni anni il godimento d'una garanzia d'interessi effettivamente superiore al cinque per cento. Questo soprapiù, in paragone alla ferrovia Maremmana, verrebbe a risultare certamente dell'uno per cento, probabilmente del due.

Or si aggiunga la facoltà, già qui sopra dal signor Franco notata, di emettere tre quarti del capitale sotto forma d'obligazioni, portanti semplice interesse. Tutto il vantaggio della differenza tra il costo minimo e il medio sarebbe venuto a condensarsi sopra quel quarto di capitale che avrebbe forma di azioni. Queste sarebbero venute a conseguire non solo il cinque per cento dell'interesse direttamente garantito, non solo un altro uno o due per cento pel soprapùì procaccialo mediante la posticipazione delle linee più scabrose; ma avrebbero adunato in sè anche il soprapiù che apparterrebbe ai (re quarti di capitale coperti colle obligazioni. Così la garanzia per le azioni sarebbe salita al nove per cento (5 + 1 + 3) se il soprapiù fosse stato uno per cento. Che se il soprapiù fosse stato di due, sarebbe salila al tredici per cento (5 + 2 + 6).

Noi lasceremo decidere agli esperii di borsa se in tal caso sarebbe convenuto ai concessionari ritenersi tutte le azioni e goderle per ammortire in parte il relativo capitale; ovvero se sarebbe convenuto approntare di si alti interessi per adescare al gioco i privati. In mano ai quali, le azioni avrebbero poi dovuto, come al solito, venir decadendo per ragguagliarsi al valor medio, mano mano che fosse necessario compiere anche le linee più costose.

La concessione borbonica si limitava a vaghe e oratorie ingiunzioni. «La ferrovia, con tutto il suo materiale di locomozione e di trasporto, sarà eseguita secondo i sistemi i più ricevuti dall'arte e dalla scienza, con ogni solidità e con tutti gli acecssorii al suo esercizio e mantenimento e con le norme contenute nei seguenti articoli» (art. 9).


Ma codesti seguenti articoli non determinavano alcuna forma d'efficace ingerenza e ispezione, colla quale il governo potesse assicurare ai futuri azionisti una paterna tutela dei loro interessi.

Il deposito, a farsi dai concessionari, si presentava col nominale apparato di tre millioni di franchi (720 mila ducati), che non erano a costituirsi «che dopo l'apertura totale delle linee di cui si compone la rete di vie ferrate concedute col presente istrumento» (art. 37). Ma tutto ciò poi si risolveva in una duodecima parte di questa somma (60 mila ducati), da versarsi «nell'atto della sottoscrizione del presente istrumento» e in Ire altri duodecimi da versarsi entro un anno e mezzo. E per li altri due millioni, si sarebbe fatta una ritenuta del dieci per cento sulla emissione delle obligazioni e azioni, che la società poteva immantinente negoziare; onde, anziché pagare, avrebbe potuto ricevere. E l'articolo 57 si compiva dicendo: «Nondimeno i eoncessionarj potranno ritirare la detta cauzione, a misura che potranno giustificare di avere compiuta ed aperta al traffico una lunghezza di via ferrata di un valore doppio della cauzione. Questo dritto potrà esercitarsi anche in parti. «Ebbene, il lettore potrà molto agevolmente fare il conto, che quando la società Delahante avesse compiuto un tronco di ferrovia di miglia dirci e due terzi (10 2/3), in ragione di 135 mila ducali al miglio, avrebbe appunto compiuto «una lunghezza di viti ferrata di un valore doppio della cauzione»; perché 155 moltiplicato per 10 2/3 fa 1,440,000; che è appunto il doppio di 720 mila.

Ma nemmen questo era necessario, poiché il diritto poteva esercitarsi anche in parti.

Preghiamo il lettore che non si annoi se aggiungiamo un altro dei molti punti di paragone che ancora potremmo fare tra le concessioni di Apulia e di Maremma. E questo è, che, mentre la prima dava diritto a tutto l'utile dell'esercizio, l'azionista toscano deve dividerlo per metà col governo concedente.


Or quando il governo di Napoli doveva assicurare il cinque per cento e l'ammortimento anche per capitali non interamente versati, quando doveva soggiacere ad ogni possibil perdita, meglio stava che si riservasse anche ogni possibil vantaggio, e che inoltre tenesse in suo pieno e libero possesso quelle ferrovie che rappresentavano il capitale ch'era da garantire e da estinguere.


Ecco quindi presentarsi naturalmente l'idea d'una nuova allocazione d'opera, invece d'una concessione centenaria di godimento. Ecco presentarsi in sostanza il principio della concessione Adami e Lemmi.

La commissione regia avrebbe potuto, in aprile, raccomandare tanto più al governo borbonico questo consiglio, in quanto le rendite napolitane essendosi sino a quel tempo sostenute incirca al pari, esso poteva con eguali somme procacciarsi una quantità di lavoro in ragione di cento, dove il governo piemontese avrebbe potuto procacciarsene all'incirca in ragione solamente di ottanta. Era un quarto d'opera di più, a pari emissione di rendita.

E sebbene in agosto le carte napolitane fossero già in notevole declinazione, il già citato signor Franco scriveva: «Ed invero la cifra del nostro debito publico è forse la più bassa in Europa, come le imposte, che ne sono la base e la malleveria, sono le più ridotte. — Ne mai sì chiara rifulse la solidità del credilo napoletano, come nei tempi presenti, dove smembrata per militare occupazione una parte del reame, l'altra agitata dalla laboriosa ristaurazione degli ordini rappresentativi, ed il publico erario chiamato a far fronte a bisogni urgenti e straordinari, pure la nostra rendita ha mostrato una tenacità singolare a scendere sotto alla pari, smentendo cosi le previsioni anche de'  più pratici ne' maneggi di borsa. Una cifra di cento milioni di ducati, o circa quattrocento millioni di franchi, può agevolmente essere sostenuta dal nostro sistema finanziario, quando ne sia colla necessaria prudenza ed in tempo opportuno regolata la emissione, e con apposita legge sanzionato l'investimento nella costruzione delle ferrovie. E noi insistiamo particolarmente su l'ultima condizione, perché da un lato un tale impronto differirebbe essenzialmente dai communi, destinali a coprire il vuoto di spese straordinarie ed il più delle volte improduttive; e dall'altra aprirebbe l'era nel nostro paese di una nuova rendita speciale, rappresentante un capitale, non già fittizio ed ideale, ma reale ed esistente nelle ferrovie, che esso ha servito a costruire».

Ecco a qual punto fossero in Napoli da un lato le concessioni, dall'altra le libere illuminate opinioni, quando Garibaldi vi entrò. E qual era il voto dei magistrati? Lasciamo la parola ai concessionarj borbonici.


Questi cosmopoliti si erano già con devota fede rivolti al sol nascente; poiché credevano forse che avrebbe avuto una più lunga giornata. Essi facevano publicare un estrado e una raccomandazione del loro progetto; e dopo avervi chiamato scimia di suo padre il re Francesco, e cagnotti li altri immanissimi reggitori, che avevano fatto loro la concessione delle seicento miglia, biasimavano i nuovi ministri (che il dittatore, pur troppo, aveva scelto tra uomini dell'ordine) ma che non parevano disposti a rigenerare la concessione nata morta. Speravano solo in Garibaldi, e ne' suoi. Volevano dividere fraternamente con essi i favori del re Borbone. Scrivevano: «— Frattanto ci si dice, il dittatore essere favorevole alla già fatta concessione. E ciò noi presentiamo, sapendo bene come fosse nobilissimo il suo animo, e grande la sua perspicacia onde il bene e onde il male derivi nelle cose che furono operate o che operar si debbono nel nostro paese. Ci si dice parimenti, e di ciò neppur meravigliamo, il ministro dei lavori publici osteggiare la concessione, voler rivederne il contratto, formare una commissione che lo esamini. E noi sappiamo che siano le commissioni in un paese in cui quinto elemento è l'avvocheria. Però egli è palese il ministro voler metter tempo in mezzo; e chi sa quanto tempo; ed aggiornerà l'attuazione di questa vitalissima intrapresa a quell'epoca che piacerà a S. E. ed a chi gli succederà, dato che, per isventura di questo infelicissimo paese, gli abbia a succeder persona di simile pedanterìa e di altrettanta meschinità. Il tempo che corre non è da dilazione. D'altronde non sa codesto novello uomo di stato che il comitato dell'ordine improvvisava, che i governi, quali si siano, hanno per costume di riconoscere i contratti già fermi da chi precedevali? — Il ministro dei lavori publici adunque, nel temporeggiare che fa, e nel''avversare così l'esecuzione di questa suprema bisogna del paese nostro, che altro fa se non seguire le tracce dei d'Urso, Scorza, Rocco e Murena? Non ci è che dire; gli uomini non si svezzano mai affatto dai pregiudizi! della scuola, e il D'Afflitto, oggi libéralissimo, nella vecchia burocrazia fu creato. Ma via, noi vogliamo prenderlo colle buone; e preghiamolo che, dappoiché piacegli recitare la parte di ministro del Garibaldi, la reciti pure. Ma non dimentichi, che bisogna far presto e liberalmente, quando s'è ai cenni dello eroe di Varese e di Milazzo». (V. Iride di Napoli 24 e 25 settembre).


Questa citazione prova molto. Prova che al nuovo atto del dittatore precorse una consulta di ministri d'altra opinione e d'altra setta; e ch'essi avversarono la concessione precedente e la riputarono degna di rigido sindacato; prova un'altra volta che il governo di Garibaldi non era governo di parte; prova un'altra volta che s'ingannò chi suppose che il governo dittatorio avesse, per ignoranza o per incuria, calpestato diritti già sacri.

E il dittatore nella concessione di Sicilia aveva già da tre mesi accettato e sancito il principio della compagnia toscana, il principio di dure al lavoro e non al gioco. Come poteva egli rinegare sopra una riva del Faro ciò che aveva proclamato sull'altra? Poiché il terreno giuridico delle concessioni era libero, poiché non v'era alcun fatto compiuto che l'occupasse, egli doveva estendere il principio del lavoro per conto e interesse della nazione, cosi come alla Sicilia, anche alla Calabria e all'Apulia. Ei sapeva che col concedere agli uni non negava agli altri; poiché la società toscana gli aveva già promesso d'accogliere nella sua ordinanza quanti volessero dar braccio all'opera.

Inoltre, poiché il terreno era libero, noi crediamo che non convenisse dividerlo tra compagnie rivali, che con mire divergenti turbassero l'ordine generale dei lavori. Abbiamo visto infatti come la società Delahante avesse prefisso di collegar Napoli e Taranto per la valle dell'Offanto; abbiamo visto come Adami e Lemmi proponessero di collegarle per Eboli e Potenza. Or si consideri che il divario non può essere minore di settanta chilometri; e potrà forse riescir maggiore. Siffatti disordini, nel sistema della locazione d'opera, sono emendabili lino all'ultimo istante; poiché tanto fa per li assuntori il lavorare in una o in altra linea. Ma nel sistema delle concessioni centenarie sono inemendabili, perché alle azioni gettate sul mercato non si può mutare i patti da cui traggono valore, senza dar ansa a infiniti lamenti e infiniti scompigli.

Per tutto ciò la concessione già sancita in Sicilia venne ripresa in più matura considerazione, venne ridutta a termini quanto più si poteva precisi, e anche più prossimi alle consuete forme di concessione, per eliminare tutto ciò che, avendo aspetto di superflua novità, potesse dare appiglio alla vigile malevolenza. E la nuova formula di concessione venne estesa ad abbracciar tutto il regno. Noi la crediamo fermamente un utile esempio che la nuova Italia porge alle altre nazioni.


Il giorno 25 settembre il dittatore sottoscrisse il decreto.

E inutile il dire che coloro i quali avevano già chiamato immanissimi cagnotti i ministri borbonici, e meschini pedanti quegli altri «che il comitato dell'ordine aveva improntati», diedero il segno d'allarme contro Garibaldi e i suoi. L'onda artificiale si dilatò per tutta Italia; lo spirito di setta vi soffiò a tutto potere. Vi fu chi rimproverò Garibaldi e i suoi di aver fatto troppo; e questi ebbero apparenza di parlar con ragione. Ma vi fu chi li rimproverò al contrario di non aver pensato (in tanto e sì lungo ozio!) a dar lavoro al popolo.

Si, abbiamo letto, e in giornali amici con amarezza abbiamo letto, che «mentre si disputava a Palazzo d'Angri e alla Foresteria, a Caserta e a Chiatamone, non si udivano li operai che dimandavano lavoro; non si udiva la plebe, numerosa, lacera, affamata che batteva alle porte e dimandava pane, il pane del corpo e quello dell'anima, il lavoro e l'educazione».

A Palazzo d'Angri e a Caserta (alla Foresteria non sappiamo) non si udirono mai grida di plebe afflitta, ma evviva e canti di popolo giulivo; e l'eco li ripete ancora. Nè Garibaldi ambiva solamente di dare il primo colpo di zappa; ma diede a Napoli dodici asili d'infanzia; e a Palermo diede l'istituto femminile e il battaglione degli adolescenti, e abolì a conforto dei poveri studiosi il dazio dei libri, ch'è bene un dazio sull'anima. E aveva due ministerii; e in ciascuno di essi v'era un ministro dell'insegnamento. E infine il primo pane dell'anima è la libertà; e a questo egli aveva ben pensato.


Garibaldi desiderò che la società toscana si conciliasse colle altre che avevano aspirato alla concessione. Erano tre, fondate tutte sul principio della concessione d'esercizio e godimento, l'una straniera e favorita dai Borboni, l'altra napolitana, l'altra genovese. Queste due adottarono il principio del lavoro a provisione fìssa, e si congiunsero alla società toscana. Colla società borbonica ogni prova fu vana. Allora i Toscani con risoluto consiglio scrissero al dittatore che le proposizioni della società Delahante erano troppo umilianti; e ch'essi, per mostrare a lui la gratitudine loro, erano pronti a stralciare, senza alcun compenso, dalla concessione loro e rilasciare alla società Delahante le linee che i Borboni le avevano promesse, qualora al dittatore ovvero al parlamento italiano piacesse, entro un anno dalla data del futuro plebiscito, di ravvivare l'atto borbonico, ma colle identiche condizioni, e non altrimenti!


In ciò essi fecero un generoso calcolo sulla morale impossibilità che un parlamento italiano, in cui avrebbero avuto voce i deputati di Sicilia e Napoli, potesse curvarsi a raccogliere dalla nullità e dall'oblio il cadavere d'una concessione che nessun sacrifìcio e nessun publico vantaggio raccomandava, e che pareva aver voluto escludere dall'armamento della ferrovia l'industria nazionale.

Per richiamare poi a più ragionevoli modi quei giornali, che, senza prendere alcuna notizia dei fatti, avevano mutato la concessione dittatoria in un'arme di parte, volontariamente si avvinsero a riformare, qualora al parlamento piacesse, le condizioni accordate dal dittatore, accettando quelle delle ferrovie liguri, ovvero quelle della linea da Firenze a Ravenna, o d'Arezzo al confine romano.

E con questo atto mostrarono d'avere unicamente aspirato a istituire un grandioso lavoro d'utilità publica, onestamente retribuito.


Le spontanee proferte dei Toscani, dal dittatore con benevolenza accolte, e il 13 d'ottobre publicate, travolsero d'un tratto ad opposto pendio il cieco torrente dell'opinione.

I due ministerii di Napoli e Sicilia aderirono; Garibaldi accettò la presidenza onoraria. Noi crediamo che il parlamento, anziché preferire la gravosa concessione borbonica, anziché imporre la rischiosa concessione ligure, potrebbe applicare alle opere future, perfezionando in quanto ulteriormente si possa, il modo di concessione a premio fisso, che la firma del dittatore sancì per Napoli e Sicilia.

E un passo avanti nella carriera del libero e illuminato lavoro!

L'antico regno delle due Sicilie, pari in popolazione ad un quarto dell'imperio francese, non aveva mezzo milliardo di debito publico; la parca e virtuosa amministrazione dittatoria, nulla ostante la guerra e la rivoluzione, non lo aggravò. Se per dotare prontamente e risolutamente di ferrovie quelle belle contrade, si dovesse anche duplicarlo d'un tratto, si verrebbe con una vana apparenza di debito ad aumentare veramente il suo reddito e il suo credito. E il sollecito svolgimento delle ferrovie non è solo questione d'economia publica e privata, ma di militare difesa e di vera e non illusoria unione.



Il primo scandalo toscopadano: le ferrovie meridionali di Zenone di Elea




















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