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La rivoluzione napoletana del 1820-1821 tra "nazione napoletana" e "global liberalism" dii Zenone di Elea

Testo pubblicato in Firenze nel 1852, ne pubblichiamo un ampio stralcio, tra cui la parte che riguarda gli anni della restaurazione e la parte inerente la Rivoluzione Piemontese del 1821.

I testi pubblicati prima della unità di Italia hanno il pregio di narrare gli eventi che riguardano le Due Sicilie senza acredine, pur sottolineando gli errori e i voltafaccia della dinastia borbonica.

Zenone di Elea - Luglio 2020

CRONACA ITALIANA DAL 1814 AL 1850

COMPILATA DA UNA SOCIETÀ DI SCRITTORI

ADORNA D'INCISIONI

VOLUME PRIMO

FIRENZE

MASSIMILIANO DINI EDITORE

1852

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SOMMARIO DEL LIBRO V

Considerazioni generali sulle restaurazioni italiane

SOMMARIO DEL LIBRO VI

Seguita la narrazione delle vicende italiane dal 1815 al 1820

SOMMARIO DEL LIBRO VII

Rivoluzioni di Napoli e di Sicilia nel 1820-1821

SOMMARIO DEL LIBRO VIII

Fatti di Sicilia del 1820-1821

SOMMARIO DEL LIBRO IX

Rivoluzione Piemontese del 1821

NOTE

CRONACA ITALIANA LIBRO V

SOMMARIO DEL LIBRO V
Considerazioni generali sulle restaurazioni italiane

Condizione dei governi e dello spirito pubblico all'epoca della rivoluzione francese: le Repubbliche: il Piemonte: Napoli: Toscana: Roma: la Lombardia: lodi e biasimi. Mutazioni ingenerate dalla rivoluzione e dal dominio francese. Svolgimento dell'idea nazionale: incitamenti datici dall'Austria e dagli alleati per suscitare i popoli contro Napoleone, messi in non cale dopo la vittoria. Quel che fosse da operarsi per beneficio comune dai principi restaurati: quanto contrariamente invece si procedesse: fatali conseguenze. – Si riprende la narrazione delle cose di Napoli. Convenzioni colle reggenze di Tunisi, di Tripoli e d'Algeri per la liberazione degli schiavi e l'abolizione della schiavitù: l'ammiraglio Exmouth bombarda Algeri. Trattati di commercio colla Spagna, la Francia, e l'Inghilterra. Cessione dei galeotti napoletani al Portogallo. Sistema carcerario del regno. Matrimonio della figlia del duca di Calabria col duca di Berrv, e di Maria Clementina d'Austria col principe di Salerno. Flotta americana a Napoli per esigere quattro milioni di scudi, che non vengono dati. Tavoliere di Puglia. Viaggio di Ferdinando a Roma. Diciotto papiri d'Ercolano cambiati dal re con diciotto Kangarou. Morte di Carlo IV. Ferdinando si intitola I, come re del regno riunito delle Due Sicilie. Decreti, che più o meno velatamente distruggono la costituzione di Sicilia. Considerazioni su quella costituzione, e sui modi ed effetti della sua abolizione. Canosa ministro di polizia: i Carbonari e i Calderari. Esercito e milizie provinciali. Eccidio dei Vardarelli. I Tedeschi sgombrano dal Regno. Congresso d'Aquisgrana. Concordato. Nuovi Codici. Condizione del regno al cominciare del 1820.

la ragione di tutti i successivi rivolgimenti.

Prostrata di nuovo, e questa volta per sempre, la fortuna napoleonica a Waterloo, stretto fra i re d'Europa il patto dell'Alleanza che disser Santa, spento al Pizzo Gioacchino Murat, il destino d'Italia era fermato. Ma per quai modi, sotto che influssi, con quali tendenze, con quanta relazione ai bisogni, ai voti, alle idee del paese si consumava quella restaurazione? Agli ordini antichi irremissibilmente caduti, ai nuovi, che la dominazione francese aveva da quindici anni introdotti, e che la forza dell'armi cancellava ora ad un tratto, a questa generale rovina, come, da chi, con quai mezzi intendevasi ora di provvedere?

Noi non ripeteremo, ché la coscienza nostra nol consente, le lodi superlative, che un grande storico nostro, Carlo Botta, tributa alle riforme iniziate, prima della rivoluzione francese, dai principi italiani: riforme, nel cui tranquillo e logico svolgimento egli riconosce il maggior bene, che agli Italiani fosse lecito augurarsi e desiderare. Senza dubbio, ad importanti migliorie legislative ed amministrative, richieste dallo spirito de tempi e dagli scritti di valentissimi filosofi ed economisti, erasi fatta ragione in tutti quanti gli stati della Penisola, se si eccettuino le repubbliche, dove per singolare anomalia sembravano le idee viete e retrograde essersi intieramente rifugiate. Ma quest'opera riformatrice, per quanto grande e benefica, non era scevra di sostanziali difetti.

In Piemonte nuove leggi avviavano il nuovo regno ad una legislazione uniforme compivasi il catasto. riformavasi la moneta, rialzavansi gli studi, incoraggiavasi l'agricoltura, miglioravasi ogni ramo della pubblica amministrazione. Ma non sì che anche nel bene non apparissero i danni della sbrigliata potestà regia, la quale volendo tutto riformare a senso proprio, spesso offendeva la dignità degli stessi beneficati, e minorava lo zelo di chi avrebbe potuto più efficacemente secondarla: e fu vergogna del regno di Vittorio Amedeo III, che Lagrangia, Alfieri, Denina, Bodoni ed altri si facessero illustri o grandi trapiantandosi altrove.

Napoli, sebbene non più governata dalla forte e intelligente volontà di Carlo III, che aveva rinnovata la faccia di quel paese, e in venti anni di regno cicatrizzate le piaghe più sanguinose apertevi e incrudelite in due secoli di governo vicereale, fruiva ancora del beneficio di quelle riforme, troppo più larghe e sostanziali perché potessero in brev'ora perdere d'efficacia per la lassezza del figlio. Ma le stesse opere del padre furono sovente difettive ed incomplete: miglioraronsi ad una ad una le leggi civili, criminali e commerciali, ma non ordinaronsi in codici: undici legislazioni erano, undici rimasero. Furono scemati i diritti e le eccezioni feodali. ma non tolte di mezzo radicalmente, che ivi ed altrove era il solo rimedio buono a tal peste. E dalla depressione dei nobili era già nato, e crebbe più che mai un altro malanno, la oltrepotenza e l'ingerenza in tutto de curiali. Furono ordinate le finanze, ma lasciate in appalto le tasse indirette, ed introdotto il lotto. Grandi abbellimenti, edifizi e strade magnifiche furono condotte, in Napoli specialmente, ma più per caccie e diporti regi, che per beneficio del pubblico, essendoché qui pure, come per tutto altrove, l'idea regia trasmodava. Della Toscana non accade quasi di far parola, avvegnaché il solo nome di Pietro Leopoldo ricordi anche ai più inscienti di cose patrie un'era iniziatrice di tale prosperità, che non solo preparò a questa avventurata parte d'Italia i mezzi di sopportare con minor disagio di ogni altra tutti i flagelli dei successivi rivolgimenti, ma le apprestò quelli eziandio di ricostituirsi da poi più prontamente e più tollerabilmente di tutte l'altre. Si può dire in poche parole, che Leopoldo fece della Toscana lo stato meglio ordinato, che fosse a quei dì, e quasi un modello di principato assoluto. Ebbe sì il vizio di tali stati: una polizia, una smania di sapere e di regolare eccessiva, inquieta. incomoda, pretendente ad antivenire il male, non solamente colle leggi generali, che è dovere e possibilità dei governi, ma colla prevenzione d'ogni caso, che anche in piccolissimo regno è assoluta impossibilità(1).

Roma stessa per una lunga sequela di ottimi pontefici. Lambertini (Benedetto XIV). Rezzonico (Clemente XIII). Ganganelli (Clemente XIV), Braschi (Pio VI), veniva mitigando i secolari disordini del suo civil reggimento, difficilissimi a vincersi per la doppia natura di quel governo, nel quale la immutabilità della parte spirituale non può non inceppare, per abito contratto dagli esercenti del doppio ufficio. la necessaria mutabilità della parte temporale. Ma giustizia di storico richiede, che si ricordino. a sgravio di quella curia, le preoccupazioni e i disturbi, onde fu nell'ultima metà del precedente secolo travagliata da quasi tutti i principi d'Italia. anzi d'Europa, i quali nella recuperazione dei diritti di sovranità, cui l'affetto proprio e lo spirito del tempo li conduceva, spesso passarono il segno.

La Lombardia in fine. cessato il flagello della dominazione spagnuola. rinasceva. è forza il dirlo, sotto il nuovo governo di casa d'Austria. Svincolato il commercio dei grani, tolte le finanze agli appalti, uniformate le imposte e cresciute senza aggravio dei popoli per un buon censimento, restituiti i comuni nel diritto della propria amministrazione, promosse opere di pubblica utilità, ordinata la pubblica istruzione, onorati e chiamati agli affari e all'insegnamento gli uomini più distinti. Carli, Verri, Giulini, Beccaria, Argelati, Boscovich, Scarpa. Borsieri. Spallanzani e tant'altri: tornava per tutto a refluire la vita, cresceva e diffondevasi la ricchezza, moltiplicavasi il numero degli abitanti. Se fu colpa in Giuseppe II, fu il correr troppo veloce a quelle innovazioni, per le quali non sempre erano i popoli maturi: ma il buon volere l'assolve.

Questa del volere in fretta, del volere ad ogni costo, del volere a modo proprio, anche talora con danno di quelli che s'intendeva beneficare, fu certo intemperanza comune a tutti i nostri principi del secolo passato, i quali sembravano voler tutto riformare salvo sé stessi, essere liberali dei diritti altrui e non de propri, senza avvedersi che l'insegnare ai popoli tutte le libertà. e negar loro ad un tempo quella civile e politica, al cui desiderio la stessa opera loro li veniva iniziando. era un prepararsi gravi difficoltà nell'avvenire, tanto se il moto delle umane cose avesse seguitato il corso suo regolare, tanto e più se, come avvenne, fossero sopravvenuti eventi straordinari ad accelerarlo. Frattanto quelli, che si spandevano a larga mano, erano incontrastabili beni. Le moltitudini non ancora agitate dall'idea nazionale, che solo accendeva pochi spiriti eletti. bisognose allora sopra tutto di vedersi emancipate dai vincoli interni, che d'ogni parte le inceppavano ed invilivano, ricevevano da quell'opera riformatrice vera soddisfazione a grandi ed imperiose necessità. E i popoli godevano, i letterati lodavano, gli amici stessi di quel progresso universale, di che incominciavasi a concepire l'idea e a pronunziare il nome, esultavano, speravano: v'era generale consonanza tra il fatto e l'idea, precipua condizione del ben essere e del contentamento dei popoli(2).

Perché a un equilibrio congenere si desse luogo nella restaurazione del 1815, a quali idee, con quali opere era duopo di provvedere? Vediamolo.

Tre grandi fatti eransi compiuti nel periodo francese in Italia. Spento ogni resto di feodali privilegi, e tutti indistintamente pareggiati gl'individui in faccia alla legge. e per ciò stesso rinvigorito il senso della personal dignità. Risuscitato lo spirito militare, e con esso quella nobile fierezza, che è il germe più potente della vita e della gloria di un popolo(3). Avvalorato in fine il sentimento della nazionalità, e volti così gli spiriti a quello scopo supremo, cui Dio e la natura han predisposte le varie membra di questa umana famiglia, perché lo svolgimento dell'esser suo si compia in armonia delle leggi provvidenziali che la governano. Quanto il concetto di cui parliamo fosse cresciuto e radicato negli animi, quanto il rispetto che la ragion politica imponeva di tributargli, erasi già veduto dal linguaggio stesso dell'Austria, che rompendo la guerra del 1809 non seppe trovar molla più potente per agire sull'animo degl'Italiani, che il promettere e il far loro sperare l'indipendenza.

«Italiani (diceva nel suo proclama l'arciduca Giovanni), scuotete una volta le catene, che vi tengono avvinti. Secondate l'opera riparatrice dell'Imperatore Francesco, e la patria vostra sarà di nuovo felice e rispettata in Europa, e resa inaccessibile ad ogni straniera signoria. L'Italia tornata a nuova vita riacquisterà il suo grado fra le nazioni del mondo, sì come già ella aveva altra volta, ed avrà senza dubbio quando che sia. E Nugent nel dicembre del 1815 bandiva: «Aiutatevi coraggiosi Italiani, a scuotere il ferreo giogo, che vi ha oppresso fin qui. Avete tutti a diventare una nazione indipendente. E Bentinck, sventolando sulle spiaggie d'Italia una bandiera col motto iscritto di Libertà e Indipendenza Italiana, così parlava per pubblici manifesti nel 1814: «La Spagna e l'Olanda hanno rivendicata la loro indipendenza. Vorrete voi soli, o Italiani, rimanere nei ceppi, mentre è in poter vostro lo spezzarli per sempre? Non vi si domanda che veniate a noi, ma che valer facciate i vostri diritti e siate liberi, e ridiventi l'Italia qual già fu ne suoi giorni migliori. Ipocrite parole tutte quante, ma che attestano l'esistenza del nobile sentimento, che cominciava a giganteggiare in Italia. E di niun altro errore dee forse maggiormente rimproverarsi Napoleone, che di avere negletta questa grand'opera della italiana rigenerazione, che a lui forse concedevano i fati, e nella quale egli avrebbe finalmente fissata, come in iscoglio incrollabile. l'ancora della sua incerta fortuna(4). Gli errori stessi dei Lombardi e dell'esercito italico nel 1814, onde quella grande occasione andò perduta, mossero dall'affetto per quella causa medesima in favor della quale, con opera più sincera che consigliata, si travagliavano. Avvegnaché l'uno e gli altri, sedotti dalle fallaci promesse che d'ogni parte si prodigavano finché durasse il bisogno, e fosse giunta l'ora di togliersi dal viso la maschera, si alienassero dal Principe Eugenio, sopra il cui capo poteva forse posarsi la corona indipendente dell'Alta Italia, tementi d'averlo principe troppo ligio agli interessi stranieri.°nde questi tradì Mantova a Bellegarde, sperando, con non dissimile errore, di conseguire dalla grazia degli alleati, ciò che dal favore del popolo gli si negava. Caddero finalmente, ma troppo tardi le bende, e dal labbro spergiuro dei recenti promettitori seppe l'Italia d'esser dannata a più dura e disperata dipendenza, che da un secolo non avesse patita(5).

Nell'ebbrezza della vittoria, l'Austria non vide o volle chiuder gli occhi ai pericoli più o meno prossimi, ma infallibili un giorno, pur che l'Italia non subissasse, che l'attendevano nell'avvenire. Credette forse che dominandone direttamente così gran parte, come quella che a sé aggiudicò, e disponendo dei principi minori per stretti vincoli di parentela, e padrona degli sbocchi dell'Emilia per la flagrante usurpazione delle fortezze di Ferrara e di Comacchio(6), avrebbe per sempre regolati a suo libito i destini dell'intera penisola, e in ogni evento impedito che le estreme due parti si collegassero un giorno in un intento comune. Ma come non avvertire, che un' opera continua di compressione, oltre che da mille diversi eventi poteva un giorno venire attraversata, la costringeva a un ordine di reggimento, non dirò solo duro e difficilissimo, ma essenzialmente pernicioso ai propri interessi, siccome quello che in ogni pericolosa congiuntura, che a lei fosse d'altronde intervenuta, o l'avrebbe impedita dall'intero sviluppo delle sue forze, o sottoposta al doppio pericolo di una insurrezione italiana? E chiaro s'è veduto a nostri giorni, che ogni sua previdenza è stata vana a trattenere lo scoppio di un grave moto in Italia; e pericolando le sue sorti in Ungheria, la necessità di tenere un poderoso esercito di qua dall'Alpi, l'ha costretta ad invocare il braccio d'un alleato, e a dichiararsi in faccia al mondo impotente a tener testa da sé sola ai pericoli. che di continuo minacciano la sua male costituita esistenza.

Posto ciò, che per le cose sopra discorse, è manifesto. che cioè il sentimento di nazionalità avesse germogliato in modo indistruttibile nel petto degli Italiani la giustizia e la politica, che mai non si disgiungono impunemente, chiedevano che a questo nobile affetto, a questa suprema aspirazione di un popolo fosse fatta ragione. né giammai contingenze più favorevoli ad iniziare, se non a compiere tranquillamente questa grand'opera, potevano attendersi di quelle che allora offeriva la generale condizione delle cose.

Facciamo calcolo delle imperiose ed invincibili esigenze dell'imperfetta nostra natura: né quindi ci avvisiamo di sostenere. che l'Austria, già posseditrice di una parte d'Italia, e dopo si lunghi e faticosi sforzi per recuperarla insieme all'altre parti divelte della sua monarchia, potesse in quella grande occasione del dividersi le spoglie Napoleoniche, abdicare, in rispetto di più alti principi, a ciò che già fu suo, secondo le ragioni di stato, e a un adeguato compenso delle patite fortune. se quello della pace assicurata non le paresse già sufficiente. Ma la gioia degli insperati trionfi e la facilità dell'occasione la involsero in due eccessi, l'uno più pernicioso dell'altro. Il primo del soverchio ingrandimento coll'aggiunzione di tutti gli Stati Veneti alla Lombardia, onde non poteva non suscitarsi in lei quella libidine di assoluta preponderanza, che prima o poi doveva intorbidarle la tranquillità del possesso: l'altro peggiore ancora, dal quale muove tutto il nostro ragionamento, di avere, nella forma di quell'ingrandimento, conculcato il diritto e il sentimento dell'italiana nazionalità, in onta alle sue, anzi alle comuni promesse degli alleati, e quel che è più in pregiudizio de' suoi più veri interessi.

Bastava allora, bastava forse per ieri, costituire l'Italia in una federazione anche di poco dissimile della Germanica, qualunque fosse l'ampiezza dei possessi dell'Austria di qua dall'Alpi (meglio però se minore), e assicurar per tal guisa alla evoluzione delle sorti italiane, che è forza pur che si compia. un corso sufficiente e progressivo. E in pari tempo all'Austria si conveniva il rischiarare le menti dei principi restaurati intorno alle nuove necessità di governo e all'indeclinabil bisogno, non tanto di mantenere tutto ciò che la precedente dominazione lasciava d'ordini buoni, ma di porre ogni lor cura in migliorarli ed accrescerli quanto fosse mestieri, perché questa grande conversione di fortuna venisse dai loro popoli accolta come vero e reale beneficio. Ma fermato una volta il principio di soffocar l'idea nazionale e di considerare l'Italia come una semplice espressione geografica(7), fu logica conseguenza per l'Austria l'indirizzare i principi restaurati a tutt'altro ufficio che quello da noi poc'anzi discorso: e col cercare di tenerli divisi dall'affetto dei popoli, indurli a riconoscere in lei sola l'egida dei loro troni, e renderli quanto più fosse possibile solidari della propria fortuna. Così fu stabilito, così operato: con quanta utilità dei principi e dei popoli saremo per vedere pur troppo in queste pagine. le quali scevre d'ogni spirito di parte, e consacrate a ciò solo che noi crediamo essere il vero, verranno tardo ammonimento, quali esse si sieno, così per gli uni come per gli altri. Premesse queste generali considerazioni, che a noi sono parse indispensabili a questo punto della narrazione per stabilire il criterio, secondo il quale soltanto può, a nostro avviso, comprendersi e giudicarsi la storia italiana di questi ultimi trentacinque anni, riprendiamo il filo del racconto colla fedeltà e semplicità di cronisti, percorrendo partitamente i vari stati della Penisola, poi fermandoci a considerarli nel loro insieme quando un intento comune li condusse ad opera più o meno collettiva e di generale importanza. Ciò determina al nostro lavoro tre magne divisioni, la prima delle quali abbraccia il tempo decorso dalla caduta della dominazione francese al 1820, la seconda da quest'epoca al 1851, la terza dal 51 al 48. E perché la fine del quarto libro ci ha già introdotti alla narrazione delle cose Napoletane, onde poi emerse la prima grave crisi d'Italia, questa innanzi ad ogni altra riprenderemo. Abbiamo nel precedente libro avvertito come la restaurazione Borbonica procedesse da prima più mitemente, e con maggiore rispetto delle istituzioni introdotte dal precedente governo, di quello che avesse luogo negli altri stati d'Italia. E ciò per doppia cagione: per la forza, cioè, del trattato di Casalanza e per la peculiare condizione di Ferdinando re costituzionale della Sicilia, onde l'arbitrio sovrano non avrebbe potuto, anche di qua dal Faro, spiegarsi in tutta la sua pienezza senza troppo scandalosa contradizione, finché durasse quel vincolo aborrito. Quale però fosse da ritenersi la vera inclinazione del re, assai chiaro lo addimostravano ai giusti estimatori delle cose la sua qualità di Borbone, l'ira delle patite fortune, l'adesione alla Santa Alleanza(8), e le suggestioni dell'Austria, che già avevano fin dai primordi trionfato nell'animo di Ferdinando, come più tardi fu manifesto all'universale per la divulgazione dell'articolo secreto del trattato del 12 giugno 1815, da noi più addietro riferito ((9).°ra ogni studio del restaurato governo era nel preparar le occasioni di rimuovere gli ostacoli, che ancora si frapponevano al conquisto di quella piena e dispotica dominazione, nella quale con errore fatale esso reputava consistere il suo miglior bene, e diciamolo pure. giacché la stoltezza è più frequente e più insita all'umana natura che la nequizia, quello ancora dei popoli. Ma prima di passar oltre a discorrere dei fatti più ponderosi, che riuscirono ai moti insurrezionali di Napoli e di Sicilia. ci par bene sbrigarci di altre minori particolarità. le quali né si potrebbero da noi pretermettere senza mancare alla nostra qualità di cronisti, e a riferirle partitamente nell'ordine rigoroso della loro successione. verrebbero spesso ad attraversare la narrazione di ciò. che più importa che venga attentamente considerato in rispetto al fine precipuo di questa nostra fatica. Nei primi mesi del 1816, ebbero tutti gli stati d'Italia. non che quello di Napoli, a provare il benefico intervento dell'Inghilterra contro il flagello delle piraterie Barbaresche, che non solo si esercitavano contro le navi di commercio, ma desolavano eziandio le spiaggie del Mediterraneo. asportandone a man salva le robe e le persone, che riducevano in schiavitù(10). Fu dunque dal governo di quella nazione spedito l'ammiraglio Exmouth con una squadra per indurre quel barbari a stabilire cogli Stati Italiani i medesimi pacifici rapporti, che avevano colle grandi potenze, e a consentire che questi potessero tener consoli della loro nazione presso le Reggenze di Tunisi. di Tripoli e d'Algeri: e l'ottenne, salvo certe annue regalie ed altre minori in occasione d'ogni rinnovazione di console. e il riscatto degli schiavi allora esistenti in ragione di circa mille piastre di Spagna per ciascheduno. L'ammiraglio inglese insistette inoltre per l'abolizione della schiavitù anche nelle catture di guerra: e conseguì che i Bev di Tripoli e di Tunisi dichiarassero, che «in considerazione del grande interessamento che il Principe Reggente d'Inghilterra manifestava per metter fine alla schiavitù de Cristiani, volendo provare il loro sincero desiderio di mantenere i vincoli d'amicizia esistenti fra loro e la Gran Brettagna, e dar segno delle loro pacifiche intenzioni, come pure della loro alta stima per le potenze Europee, colle quali desideravano di stabilire una pace durevole, dichiaravano che in caso di guerra i prigionieri non sarebbero ridotti in schiavitù, ma secondo gli usi d'Europa trattati con umanità sino al cambio o alla restituzione senza riscatto(11). Algeri non volle consentire immediatamente. e chiese tempo sei mesi per avere. come diceva. l'assentimento della Sublime Porta. Frattanto consegnò, previo lo stabilito pagamento, schiavi cinquantuno. che aveva di Sardegna, e trecentocinquantasette delle Due Sicilie.

Appena però la squadra inglese erasi, dopo queste conclusioni, allontanata dalle acque di Algeri, si riaccese in quel Bev la prosunzione, e nei sudditi l'audacia: e in un tumulto popolare, accaduto nel maggio in Bona ed in Orano, circa novecento Cristiani, che si trovavano colà alla pesca del corallo. furono manomessi e catturati. La Gran Brettagna credette allora del suo decoro di esigere una solenne riparazione, e rimandato l'Exmouth colla flotta nel Mediterraneo, questi, congiunta alla sua una squadra dei Paesi Bassi, che trovavasi nel medesimo mare, si presentò il dì 27 di agosto dinanzi Algeri. Chiesta soddisfazione per l'affare di Bona. e ricevutane una risposta insultante, cominciò a fulminare la città colle artiglierie. Gli Algerini risposero da principio con gran vigore, ma crescendo il guasto negli edifizi, e vedendo i bastimenti della loro flotta incendiati, il Bev non persistette più a lungo, e sottoscrisse un trattato, nel quale in sostanza fu convenuto: «Acconsentire esso a riconoscere l'abolizione della schiavitù degli Europei. In riparazione dei fatti di Bona e di Orano, restituire il denaro che pel riscatto avevano pagato i Napoletani ed i Sardi. I regali consolari essere convertiti in doni personali, e non poter oltrepassare il valore di cinquecento lire sterline. In caso di guerra colle potenze europee, non dover esser i prigionieri ridotti in schiavitù, ma trattati umanamente sino al loro cambio o restituzione(12). Tale mitigazione otteneva per l'intervento Britannico quella vergogna europea della pirateria barbaresca, che più tardi doveva la Francia, con eterno suo onore, cancellare per sempre. «I trecentocinquantasette schiavi Napoletani affrancati (narra il Colletta) sbarcarono nel porto di Napoli, e a processione attraversarono la città con tristo spettacolo, giacché indossando veste lurida e servile rappresentavano agli occhi ed alla mente le miserie della schiavitù. Immenso popolo li seguiva: ora vedendosi frotte liete, perché di congiunti che si abbracciavano, ora udendosi i gemiti di altri, che cercando del parente lo sentivano morto o in modo incognito perduto. Stava sul volto ai riscattati non allegrezza e non mestizia, ma curiosità e stupore; e molti fra loro, antichissimi alla schiavitù. riducendosi alle famiglie e trovandole spente o rifatte da generazioni ignote alla memoria ed al cuore, ed essi già diversi da noi per usi. costumi e bisogni dell'acquistata barbara natura, ritornavano volontari, ma franchi, alle terre affricane».

E giacché siamo in sul parlar di trattati, faremo ricordo di alcuni altri che il governo napoletano conchiuse nei primi anni della restaurazione. In forza di antichi patti i bastimenti inglesi, francesi e spagnuoli godevano nei porti delle due Sicilie privilegi ed esenzioni perniciose così al commercio nazionale, che alla riscossione dei dazi. Ferdinando tentò di toglierle di mezzo. e vi riesci mediante nuove convenzioni firmate coll'Inghilterra a 26 settembre del 1816, colla Francia a 28 di febbraio del 1817, e colla Spagna ai 15 agosto dello stesso anno; per le quali fu convenuto. «che i sudditi delle tre dette potenze venissero trattati come quelli delle nazioni più favorite, e nella importazione dei prodotti nazionali godessero una diminuzione del dieci per cento sui dazi stabiliti dalla vigente tariffa del 1° gennaio 1816(13)». Condizioni certamente men gravi delle precedenti, ma tuttavia onerose al nazionale commercio di trasporto. Nel 1818 fu concordata con tutte le corti europee l'abolizione dell'albinaggio, la quale più civili costumi venivano da per tutto operando. Ma con animo ben dissimile, nel decembre dell'anno appresso, conchiudeva il governo napoletano un trattato col Portogallo, che fu cagione di scandalo e di sdegno universale. Avvegnaché, sotto specie di libertà, i condannati a vita o a tempo alle galere donasse a quella nazione con facoltà di trasportarli a Rio-Janeiro e disporne a suo beneplacito, lo che non altro significava se non votarli a vera e reale schiavitù. «Il governo (osserva il Colletta) si vantava di pietà per aver fatti liberi, come diceva, que prigioni, benché in altro emisfero: ma un secreto sentimento di umanità rendeva l'atto abbominevole: dicevasi, che vietata nel mondo la tratta infame degli schiavi, si vedevano in Napoli uomini nati liberi andare in schiavitù, e per sordido risparmio, dati in dono. Ma questa del considerare i delinquenti quasi non più uomini, ma bruti, è una delle più antiche, più profonde e più vergognose piaghe del governo napoletano: la qual cosa segnaliamo fin d'ora, perché nelle frequenti occasioni che avremo ad enumerare degli infelici condannati a quella esistenza, possa il lettore formarsi un adeguato concetto della pena che li colpiva. Noi ci varremo della lugubre esposizione che ne fa l'egregio signor Gualterio(14), la quale, non che poter esser tacciata di esagerazione, oltre che appella a irrepugnabili testimonianze, è vinta oggi stesso dai colori ben più terribili usati in tal materia da un grave pubblicista britannico, la cui parola ha commosso tutta l'Europa civile(15). Quanta sia in Napoli la trascuranza nel regime delle prigioni, è cosa che sorpassa ogni credibilità: e se tale era quale siamo per dire nel 1859 e nel 1845, può di leggieri immaginarsi il lettore quale esser dovesse fino dal 1816, quando le voci, che dappoi sono sorte in tutto il mondo civile a domandar altamente la riforma dei sistemi penitenziari, suonavan deboli e rade. E un testimonio di quell'epoca. da non poter certo essere revocato in dubbio, l'abbiamo nel conte Orloff. il quale sotto il 1817 così scriveva(16): «Tutte le prigioni del regno erano affette da un contagio epidemico, causato e incrudelito dalla ristrettezza e insalubrità di quegli asili tenebrosi e dalla natura degli alimenti, che venivano distribuiti agli sciagurati, che v'erano rinchiusi. Invano furono reclamati i necessari soccorsi. Gli stessi malati mancavano di vestimenta che li coprissero, di paglia su cui giacersi, di medici che li assistessero, e d'ogni altro refrigerio qualunque. Miasmi pestilenziali infettavano ognor più quella immutabile atmosfera. ed accrescevano ogni giorno il numero delle vittime di quelle cave fetenti, ove il condannato e il prevenuto, il reo e l'innocente correvano la stessa orrida sorte. Colla immondizia e insalubrità di quei luoghi, onde piuttosto a sepolture di viventi. che ad abitazioni d'uomini potrebbero rassomigliarsi, concorda con orribile armonia l'interno reggimento dei miserabili rinchiusi in quelle caverne. Ammonticchiati a frotte talvolta numerosissime veggonsi i più ignudi delle membra (sì perché il fisco o gli appaltatori dei vestiari, più che a fornirli e a mantenerli decenti, intendono al proprio utile o guadagno, sì perché i detenuti li vendono per piccola moneta, divisa forse coi guardiani affinché lo consentano). senza tavole sulle quali riposare il corpo stanco, e sdraiati la notte sull'umido suolo, ridotti a procacciarsi un poco di calore col solo mezzo del contatto reciproco delle membra. Taccio le nefandezze d'ogni genere. frutto di cotanto abbrutimento. Simili veramente quei miseri a un'orda di selvaggi rinchiusi, privi però del gran compenso di questi, la libertà delle selve e la padronanza dell'ampio deserto, sentono anche più di loro la necessità di una regola, dirò quasi d'un governo, a fine di portare un simulacro di ordine in mezzo a questo spaventoso pandemonio. Cose comuni al certo in tutte le prigioni sono cotali ordinamenti ed associazioni, ma in Napoli sono più bestiali quanto maggiore è l'abbrutimento di quei sepolti vivi. I capi di questo governo di galeotti appellansi i camurristi, e sono giudici delle questioni che insorgono fra loro: come è naturale, la maggiore tristizia. il maggior numero di delitti, e insieme la maggior forza fisica sono i meriti che determinano a chi il grado e l'onore di camurrista si appartenga. È quello veramente il regno della forza. Il capo de' camurristi dispone sovranamente e a suo talento delle rare e lacere vesti, e del denaro d'ognuno. Giudica inappellabilmente e condanna a severe punizioni, e fin anco a ferimenti, coloro che a lui paiono colpevoli. Tolti all'umano consorzio, senza mezzo di migliorarsi, repudiati dalla società, ne formano essi là dentro una novella: una società, stetti per dire d'antropofagi. Tale era tale è ancora mentre scriviamo, lo stato delle prigioni napoletane, mentre non avvi nazione, sì in Europa come in America, la quale non abbia fatto subietto alle disquisizioni della scienza, alle cure della carità cittadina, non che al dovere governativo, il miglioramento materiale e morale di quei luoghi, che non dovrebbero esser destinati solo alla sicurezza della società ed alla punizione degli scellerati, ma eziandio alla possibile loro rigenerazione. Questo abbandono però conviene alla polizia napoletana; ond'è che il governo non giudica mai che l'erario abbia modo di disporre la somma ai miglioramenti necessaria benché non il dovere solo, ma umilianti rimproveri e confronti non abbiano mancato di sospingerlo più fiate a comandarli. Perciò ha negato quante più volte ha potuto agli stranieri incaricati o vogliosi di studiare (essendo questo studio in onore) le condizioni di quei luoghi i di pena, perché quell'obbrobrio non si facesse al mondo manifesto. Non però che talora non abbia dovuto arrendersi agli uffici di chi li spediva, e alla vergogna che sentiva nel dare una ripulsa, la quale poteva interpretarsi come una confessione di colposa incuria. Quindi è che nel 1859 Carlo Lucas ebbe modo di percorrere quegli antri: e la trista impressione che ne riportò non si potè altrimenti dal governo napoletano attenuare, se non facendogli le più larghe promesse, e manifestandogli le più belle e civili intenzioni di prossimi miglioramenti. Vane parole, e politici accorgimenti! Nel decembre del 1845 giungeva in fatti da Parigi monsignor Boilav, uno degli ispettori generali delle prigioni di Francia, inviato dal Guizot per istudiare ancor egli il sistema carcerario napoletano: ed ottenuto con incredibili stenti il permesso di visitare quei luoghi. ne rimase per tal guisa inorridito, che nell'uscire dal le prigioni della Vicaria spaventato, e bagnata la fronte d'atro sudore, esclamò: «Ma questa è una bolgia d'inferno (gouffre d'enfer). E la medesima espressione usò nel rapporto, che poco stante inviò a Parigi al ministro committente, nel quale a parte a parte espose l'orrendo, e direm anche pericoloso spettacolo, al quale aveva assistito. Ma ritorciamo, sinché ci è dato, l'attenzione da così triste argomento.


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A 15 aprile del 1816 furono celebrate le nozze tra il duca di Berrv. nipote del re di Francia, e la principessa Carolina Ferdinanda figlia primogenita del duca di Calabria, erede della corona, la quale nella tenera età di appena tre lustri, tra le feste e le pompe degli sponsali, era certo ben lontana dal prevedere, che tanta parte avesse a rovesciarsi su lei delle catastrosi, colle quali Dio sembra avere decretata la fine del ramo primogenito della sua casa. Altri sponsali rallegrarono in quel medesimo anno la reggia napoletana, e furono del principe di Salerno, secondogenito di Ferdinando, coll'arciduchessa d'Austria Maria Clementina.

Ma quelle gioie non furono senza mistura di amarezza, perché in sulla fine dell'anno stesso arrivava nel golfo di Napoli una flotta americana, conducente un ambasciatore, il quale, prima con uffici, poi con minaccie di mandava al governo quattro milioni di dollari, ossia di piastre di Spagna, a ristoro di confische patite nel 1809 da sudditi americani. né la domanda era senza sufficiente fondamento, perché avendo in quell'anno il marchese del Gallo, ministro allora degli affari esteri, dichiarato con nota autentica al consolo degli Stati-Uniti, che i vascelli americani sarebbero liberamente ammessi negli stati napoletani, trenta bastimenti di quella nazione si erano successivamente condotti nei porti di questo regno. Ma il governo di Gioacchino, forzato ad ottemperare agli ordini dell'imperatore Napoleone, che ne comandò la confisca senza riguardo alla ufficiale dichiarazione che abbiamo detto, fece senz'altro sequestrare, poi vendere all'incanto e le navi e le merci che in quelle si contenevano, e col denaro ritratto allestire la mal riuscita spedizione contro Sicilia. Per la massima universalmente riconosciuta, che ogni governo è tenuto alla soddisfazione degli obblighi contratti verso gli estranei da quello che lo ha preceduto, gli Americani erano al certo in diritto di insistere virilmente nel domandato compenso: e rifiutandosi il governo di Ferdinando a consentirlo, Napoli temette un istante di esser per soggiacere ai disastri di un bombardamento. Fu riconosciuto più tardi, che sì severa ingiunzione non era stata imposta dal governo di Washington al suo negoziatore: il quale per modo di accomodamento propose (ed era forse il precipuo fine di quel tentativo) di fondare un emporio di vicendevole commercio in qualche isola o porto delle Due Sicilie, e preferibilmente in Messina: cosa che veramente sarebbe tornata non meno vantaggiosa al proponente che all'accettante. Ma l'Inghilterra, che non poteva senza scapito dei suoi interessi. e forse de' suoi disegni futuri. consentire in una conclusione di tal natura, si valse dell'ascendente. che le circostanze politiche le conferivano sul governo napoletano, per impedirla. E la flotta, recuperate solo tre navi non ancora vendute dell'antica confisca, si allontanò(17).

Nel mentre che per tal guisa il governo di Ferdinando ricusava un beneficio propostogli da altri, fabbricava volontario a se stesso un nuovo danno. È noto come esista nella provincia di Capitanata una vasta estensione di paese, denominata Tavoliere di Puglia. Da antichissimo tempo rimasto incolto, vi pascolavano alla libera gli armenti, sotto la guardia di pastori nomadi e quasi selvaggi, senza legami di casa o di famiglia. e obbedienti ai propri capi, anziché a delegati del governo. Tra siffatti, nella rivoluzione del 99 eransi reclutate quelle feroci bande, che coll'assassinio pretendeano ripristinare la fede. Il dominio francese con provvidissima legge aveva nel 1806 emancipato il Tavoliere, e distribuitolo fra piccoli possessori, i quali per interesse divennero fautori di quel governo. Già si coprivano di spiche quelle terre poco innanzi selvaggie, apportando più che sperate ricchezze, quando Ferdinando ripristinò con nuova legge il Tavoliere a possesso comune, turbando la santità degli acquisti, disordinando le industrie. impedendo la francazione delle servitù, e ravvivando le già spente. Ne furono motivo l'odio alle opere tutte del cessato governo. e una stolta avidità finanziera: e dico stolta, perché se un nuovo titolo di provento venivasi così agli altri aggiungendo. perdeva l'erario quanto ne avrebbe ritratto per imposizione diretta, che un giorno sarebbe stato moltissimo, e quel che è peggio, restituiva un ordine di cose assurdo ed ingiusto. E frattanto gli spropriati alzavano lamento ed ingrossavano il numero del malcontenti.

In fin che siamo sul parlar di fatti minori, tre ne accenneremo, che valgono a colorire il morale ritratto di Ferdinando.

FERDINANDO I VISITA IN ROMA PAPA PIO VII

FERDINANDO I VISITA IN ROMA PAPA PIO VII

Andato egli a Roma nel 1818, per inchinare il papa dopo la conclusione del concordato, del quale parleremo più innanzi, volle del piccol numero de' suoi seguaci un Casaciello, buffo napoletano a lui gratissimo, delle facezie del quale intendeva sulle pubbliche scene rallegrare i Romani, che di ben altro avevano mestieri in quella prima fase, sebbene la più mite, della restaurazione pontificia.°nde i motti di Casaciello li fastidirono: e fra la pubblica noia il solo ridere del re non valse certo gran fatto ad accrescergli riverenza presso l'universale.

Abbiam veduto più addietro(18) come, cinquanta soli giorni dopo la morte di Carolina, Ferdinando passasse a nuove nozze colla vedova principessa di Partanna, la quale non cessava egli di ricolmare di doni nei giorni anniversari del nome, de' natalizi, delle nozze, e in ogni felicità della reggia.°ra volendola un giorno regalare di cosa peregrina, e per la grande rarità sua difficilissima allora a conseguirsi, voglio dire di diciotto Kangarou, animali d'America per la sola deformità singolari, dette in prezzo a sir William A Court ministro d'Inghilterra, negoziatore di quel contratto, altrettanti papiri non ancora svolti dell'Ercolano!

Il terzo caso, che ho proposto di raccontare del re, si riferisce alla morte del fratel suo Carlo IV, già re di Spagna, mancato in Napoli, dove s'era trasferito poco prima da Roma, il 19 gennaio del 1819(19). E questo troviamo bene marrarlo colle proprie parole del Colletta, alla evidenza delle quali nulla può essere aggiunto o diminuito. «Della infermità del fratello ebbe Ferdinando avviso frettoloso stando in Persano a diporto di caccia: ma troppo dedito a quel piaceri, o confidando della guarigione, non tornò alla città. Carlo, sollecito del fratello, ne dimandava a circostanti, che, per confortare quelle ansietà di morte, accertavano vicino il ritorno del re: ma questi, per altre lettere, per altri messi, avvisato e fastidito, comandò che non si aprisse un foglio allora giunto, e non gli si parlasse del fratello prima della tornata da una caccia, pronta per lo indomani, e sperata dilettevole dall'abbondanza di cignali e cervi da uccidere. Si obbedisce al comando. Tornati dalla caccia, ed aperto il trattenuto foglio, fu letto esser Carlo agli estremi di vita, e sforzare il debole fiato dell'agonia per richiedere del fratello. Disse Ferdinando: «A quest'ora egli dunque è trapassato: io giungerei tardo ed inutile: aspetterò altri avvisi. Subito vennero, e recarono che Carlo era morto: e poiché lo arrestarsi a Persano per diporto faceva pubblico scandalo, il re passò a Portici. Si fecero le esequie al sesto dì dopo la morte, serbando le ridevoli cerimonie spagnuole, così che da sei giorni era spento il re, ma si fingeva che vivesse, mangiasse, comandasse: chiudendo il cadavere nella tomba, tre volte era chiamato a nome, tre volte scosso e pregato a rispondere, onde paresse che per suo talento si partiva dal mondo, non soffrendo la regal superbia ch'egli cedesse al fato universale. Le spoglie, prima deposte nella chiesa di Santa Chiara, dove hanno tomba i re di Napoli, furono poi trasportate nella Spagna. Mentre i funerali si celebravano. Ferdinando andò da Portici a Carditello per nuova caccia: e facendo invitare la sera innanzi, per averlo compagno, sir William A Court, n'ebbe risposta che pietose auguste cerimonie (tacendo il nome) impedivanlo di accettare il grazioso invito. E nel dimani, stando l'A'Court in chiesa ad ascoltare le lodi del defunto, il re con altro foglio. nella chiesa diretto, gli diceva che, distrigato dai funerali di Carlo. il raggiungesse a Carditello. L'inglese maravigliando si recò all'invito, e poi disse che il re fu allegro più che non mai. ed avventuroso alla caccia. »

Veniamo alle cose di maggior pondo.

Il grande affanno di Ferdinando, e più ancora dei fautori di dispotismo che lo circondavano, e l'ascendente dei quali sull'animo di lui era grandissimo, sì per la conformità dei principi, che pel merito dei condivisi infortuni, proveniva dal fatto della costituzione di Sicilia, che offendeva ad un tempo l'idea cardinale del restaurato governo, e l'intimo sentimento dei governanti: i quali, e il re sopratutti, cordialmente abborrivano quella forma di libero reggimento, che la forza delle cose li aveva costretti ad accettare nel 1812, come abbiam veduto più addietro(20). Non solo in tutti loro quel fatto risvegliava un doloroso ricordo, ma volendo, e tutti quelli il volevano, governare ad arbitrio, misuravano di leggieri gli ostacoli ed i pericoli, di cui li minacciava la sancita libertà di un paese, ch'essi non cessavano di considerare come provincia del regno.°gni lor cura fu posta adunque nell'indagare studiosamente le vie onde riuscir nell'intento di disfare il già fatto, e ciò senza che la violazione del giuramento apparisse troppo manifesta, e quel che più importava, senza offendere sfacciatamente il decoro dell'Inghilterra, promovitrice e garante di quella costituzione. Cominciò quindi il governo di Ferdinando dall'insinuare a facili ascoltatori, che la Sicilia, scontenta del suo stato politico, desiderava nuove leggi, arrecandone in prova gl'indirizzi di alcune comunità, procurati con arte e minaccie, anzi scambiati di senso e falsificati, perché, malgrado ogni industria, i più riuscirono contrari all'intento pel quale furono provocati. Il ministro inglese, considente del re, amico del Medici, malevolo e scaltro, avvalorò quelle frodi, e la Gran Brettagna. ingannata ed ingannatrice, abbandonò la Sicilia(21). Tali pratiche si tramarono molti mesi copertamente, finché il governo, avuto il consentimento dell'Inghilterra. forte dell'esercito tedesco e proprio, cessò d'insingersi pubblicando le leggi, che fra poco riporteremo. né contro questa cospirazione di corte trovava la Sicilia un contrappeso né pure in quelli tra i Napoletani, che, per sensi liberali o per affetto al passato ordine di cose, avversavano la presente restaurazione: avvegnaché tutti quanti, e specialmente i murattisti, risguardassero l'Isola siccome l'arca, che aveva tenuto in serbo i Borboni per restituirli nel regno, e distruggere l'opera della rivoluzione.°nde i Siciliani, che, dal canto loro, odiavano i Napoletani come cospiratori contro la loro indipendenza, e la corte come cospiratrice contro la loro libertà, erano a loro volta detestati da entrambi i partiti di terraferma.°di fatali, che dovevano un giorno risolversi in nazionale sciagura!

Accennate sommariamente le intenzioni e le opere, colle quali fu proceduto all'annientamento degli antichissimi diritti della Sicilia. facciamoci a considerarne partitamente il progresso, perché fatti così ponderosi non manchino di quelle prove, che tanto più si rendono necessarie. quanto maggiore è l'importanza degli effetti, sui quali vuolsi da noi richiamare l'attenzione dei nostri lettori.

Il racconto delle cose siciliane fu da noi condotto fino all'epoca dell'ultima chiusura del parlamento e della partenza di Ferdinando per Napoli(22). Ciò fu il 14 maggio del 1815. ll re partiva giurando di mantenere incolumi i diritti della Sicilia: ma non appena ripetuta quella solenne promessa, già la violava in due modi. Stabiliva la costituzione, che il re, nell'allontanarsi dal regno, dovesse col consenso del parlamento stabilire da chi e con quali condizioni avessero ad esercitarsi le sue funzioni(23): ora egli, di sua sola volontà, senza farne consapevole il parlamento, costituì il figlio luogotenente generale in Sicilia, e ciò con una cedola reale, non sottoscritta da veruno dei ministri. In assenza del parlamento, le commissioni di governo non avevano per legge altro diritto che di tutelare l'adempimento delle cose già decretate: il re in vece nominò, nel suo partire, una commissione di diciotto individui coll'incarico di stendere un piano di riforma, secondo certe istruzioni che da lui stesso lor vennero trasmesse, e che in realtà contenevano l'abrogazione vera e reale della costituzione(24). Peggio accadde quando il re finalmente si trovò in Napoli, e su tornato il Medici da Vienna latore delle intenzioni e assicurazioni dei sovrani alleati, e specialmente dell'imperator d'Austria. Da quel momento ogni speranza per la Sicilia fu morta. Il proposito di levare affatto di mezzo la costituzione divenne fondamentale: esitavano soltanto il re ed i ministri sul modo di recar ad effetto quel loro proponimento: e già la commissione dei diciotto non era che un mezzo preparato per dar passi più arditi: pure accettando essa il progetto delle trenta linee. s'incorreva il pericolo di veder salvo almeno il nome di costituzione, e questo ancora volevasi cancellare: solo non si osava di farlo con un decreto.°ra, fin che un modo adequato si presentasse non si richiese più conto alcuno delle fatiche della commissione: la quale d'altronde, conscia della illegalità della sua esistenza e del suo mandato. ascrisse a ventura di non essere altrimenti sollecitata in quell'opera pericolosa.

Le mire dei ministri napoletani furono secondate da quelli di Sicilia con uno zelo non punto inferiore a quanto desideravasi. Il principe, che si era lasciato luogotenente. non aveva veruna autorità: era una larva di governante per illudere i Siciliani con una imagine d'indipendenza. Dei quattro ministri, che erano stati posti alla testa del governo di Sicilia, l'uno. il Lucchesi, era morto. il Naselli era ito a Napoli col re: restavano Gualtieri e Ferreri, che pendevano in tutto dagli ordini del Medici e del Tommasi, per compiacere ai quali cominciarono a far man bassa sulla costituzione, e a perseguitare fieramente tutti coloro, che erano stati o si mostravano ancora parziali della medesima. L'imputazione di costituzionali rimpiazzò quella di giacobini, e s'inveì contro loro come contro ad insidiatori della pubblica sicurezza.

Per seguire intanto l'impulso dei ministri, gli stessi magistrati si prestarono con deplorabile esempio ad accuse e condanne, che ricordavano i peggiori tempi del governo di Ferdinando in terraferma. E uno Scrofani, avvocato regio, di resse al re una rappresentanza. nella quale intendeva di dimostrare che gli attributi della sovranità sono inerenti alla corona ed inalienabili: che ogni principe è tenuto a tramandare al suo successore illesi i supremi diritti annessi alla monarchia: che qualunque atto pregiudichi tali diritti è nullo ipso jure, e quindi era nulla la costituzione da lui giurata, siccome quella che lo spogliava di tanta parte dei suoi diritti ereditari. Ma lo stesso governo negò di mettere quella rappresentanza ad esame(25).

Tutti però gli sforzi del governo tornavano vani: il popolo con una reazione proporzionata alla compressione, coglieva qualunque destro per far palesi i suoi sentimenti, i quali giammai si erano dimostrati in modo più energico. Tornava allora di Napoli il luogotenente, che vi si era poc'anzi trasferito: il quale, o fosse squisita arte di regno.° vero sentimento del di lui animo, era in voce di favorire gl'interessi dei Siciliani. E questi, sì perché lo credevano e speravano da lui un temperamento ai loro mali, sì perché non stimarono inopportuno il cercare di captivarsi l'affetto del successore alla corona. stabilirono di riceverlo colle più lusinghiere e significative accoglienze. Fu dunque incontrato da tutta la nobiltà di Palermo e da gran folla di popolo accorsa sulla spiaggia a festeggiare il suo arrivo. La sera, tutte le contrade della città furono illuminate, e dapertutto si esposero pitture intese ad onorare il principe e a far mostra del comune attaccamento alla costituzione. Una tra le altre attirò maggiormente a sé lo sguardo di tutti. Rappresentava essa la quadriga della gloria, e in quella assiso il principe, difeso dallo scudo della diva. su cui a grandi lettere era scritto: «Viva la costituzione». Stritolati dalle ruote, ed in sembianza di mostri, figuravansi i nemici del sacro patto. e calpestato dai cavalli un personaggio vestito alla spagnuola. che chiaramente significava il duca d'Alba, infeodato poc'anzi illegalmente nella contea di Modica in Sicilia, dove aveva invano a suo gran rischio tentato di promuovere un indirizzo al monarca, perché volesse degnarsi di cassare e togliere di mezzo la costituzione.

Il principe passeggiò per Toledo(26) mostrando grandemente compiacersi di quelle dimostrazioni: si recò quindi al teatro, dove al suo comparire levossi un grido universale: «Costituzione! Costituzione!né fu sola la capitale ad esprimersi in forma così manifesta. I consigli civici dell'isola cominciarono a mandare indirizzi al principe luogotenente per congratularsi del suo ritorno, protestare del loro affetto alla costituzione, e pregare per la pronta riapertura del parlamento. In pochi giorni oltre a quaranta di tali indirizzi vennero trasmessi al principe, e più sarebbero stati se non l'avessero arbitrariamente impedito i ministri, l'opera dei quali potè più assai di quello che potesse o volesse l'opera del luogotenente. Anche la stampa, che cominciava in quei giorni a fulminare. fu fatta prontamente tacere.

Dato questo passo, si venne a un altro ancora più grave. Già si avvicinava l'agosto del 1816, ed alla fine di quello spiravano le imposizioni statuite dall'ultimo parlamento: riconvocarlo per ottenere le nuove, primieramente non si voleva; in secondo luogo, era da ritenersi per certo, che in tanta concitazione degli animi, sarebbero state negate. né poteva soprassedersi al bisogno. Adunque il 6 agosto fu pubblicato un proclama sottoscritto dal ministro Ferreri, col quale si ordinava la continuazione dei dazi, e si conchiudeva con minacciare arresti e pene contro chiunque avesse mormorato di ciò: e furono spediti ordini dall'avvocato fiscale della gran corte a tutti i capitani d'arme d'arrestare qualsivoglia individuo, che si fosse attentato di muovere parola contro quella decisione del governo.

Abbattuti i due cardini della libertà politica e civile, la stampa e la votazione dei tributi, non fu difficile il procedere contro gl'individui, che maggiormente ostavano alle mire del governo. Per raggiungerne con maggiore facilità il più gran numero possibile, fu colto il pretesto degl'indirizzi presentati al principe luogotenente, mettendo in causa non i consigli civici, che, tutelati in ciò dalla legge, non potevano per l'espressione di un loro voto esser tradotti in giudizio, ma sì bene tutti coloro, che, senza esser membri di un consiglio, avessero insinuato o provocato quell'atto. Fu trovato e provato, che il numero di costoro era grandissimo, e fra questi Cosimo Galasso fu tenuto oltre a due anni prigione, e non ne uscì che quando fu presentato al re un suo memoriale, nel quale confessando il suo delitto implorava la sovrana clemenza.

Tal governo fu fatto dei Siciliani nel 1816; ma più ancora dei mali presenti, li crucciava l'incertezza dell'avvenire: e il triste presentimento si avvalorava per un decreto del re, che proibiva ai legni siciliani d'inalberar d'ora innanzi l'antico stemma dell'isola. Era oramai manifesto, che il governo napoletano mirava, non che a spogliar la Sicilia della sua costituzione, a torle affatto la sua esistenza politica, e cancellarla dal rango delle nazioni. A ciò appunto fu proceduto sulla fine dell'anno nel modo che qui siamo per dire.

I troni di Napoli e di Sicilia, malgrado che innanzi agli Angioini, e da ultimo per più di tre secoli fossero stati, quasi senza interruzione, tenuti da un medesimo re, non avevano cessato dall'essere in diritto ed in fatto tra di loro disgiunti ed indipendenti, tanto che il titolo del medesimo principe era diverso nei due distinti reami; e Ferdinando come re di Napoli era IV e come re di Sicilia III del nome suo.°ra allegando che il Congresso di Vienna lo aveva riconosciuto re del regno delle Due Sicilie ((27), egli inferiva, che l'antica distinzione dei due regni scomparisse nella fusione loro in uno solo, e questa sanzionava coll'intitolarsi I del nuovo regno riunito(28). Pertanto con decreto del dì 8 decembre 1816 stabili: «Il Congresso di Vienna, nell'atto solenne a cui doveva l'Europa il ristabilimento della giustizia e della pace, confermando la legittimità dei diritti della sua corona averlo riconosciuto re del Regno delle Due Sicilie. Ratificato un tal atto da tutte le potenze, e volendo esso, per quanto lo risguardava mandarlo pienamente ad effetto, disporre per legge fondamentale dello stato, che tutti i suoi domini al di qua e al di là del Faro costituissero il Regno delle Due Sicilie. Assumere il titolo di Ferdinando I. La successione rimanere regolata a perpetuità colla stessa legge di Carlo III del 1759. Stabilire una cancelleria generale, la quale tenesse il registro, e il deposito di tutte le leggi, ch'egli fosse per emanare. Creare un Supremo Consiglio per la discussione degli affari più importanti dello stato, prima che fossero portati dai ministri alla decisione sovrana nel Consiglio di Stat0(29).

Con altro decreto poi dell'11 del medesimo mese di decembre, tendente non meno del primo a spegnere di coperto le costituzioni della Sicilia, decretò: «voler confermare i privilegi conceduti ai Siciliani, e combinare insieme la piena osservanza dei medesimi colla unità delle istituzioni politiche, che dovevano formare il diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie. Sanzionare pertanto che tutte le cariche ed uffici civili ed ecclesiastici della Sicilia al di là del Faro fossero conferiti privativamente ai Siciliani. Nello stesso modo poi questi non potessero aspirare ad impieghi negli altri dominj. A tutte le grandi cariche del regno i Siciliani fossero ammessi in proporzione della popolazione dell'Isola, cioè per una quarta parte. Gl'impieghi però delle armate di terra e di mare, e quelli della casa reale sarebbero conferiti promiscuamente a tutti i sudditi. Il Sovrano, risiedendo in Sicilia, avrebbe lasciato nei domini al di qua del Faro per luogotenente generale un principe della sua famiglia.° un ragguardevole personaggio scelto fra sudditi, e un simile rappresentante avrebbe lasciato in Sicilia, risiedendo di qua dal Faro. Le cause de Siciliani continuerebbero ad essere giudicate in ultimo appello nel tribunali di Sicilia. Perciò vi sarebbero due tribunali supremi di giustizia, uno al di qua e l'altro al di là del Faro. L'abolizione della feudalità in Sicilia esser confermata egualmente che negli altri domini al di qua del Faro. La quota della dote permanente dello stato, sarebbe in ogni anno fissata e repartita dal Sovrano, ma non potrebbe eccedere onze 1. 847. 687, quantità stabilita per patrimonio attivo della Sicilia dal parlamento nell'anno 1815. Qualunque quantità maggiore non potrebbe essere imposta senza consenso del parlamento. Su questa quota si prelevasse in ogni anno una somma non minore di 150. 000 onze per pagare ed ammortizzare il debito pubblico(30). »

Pretermettendo per un momento ogni altra considerazione. che si affaccia alla lettura dei due decreti, chi non vede che la sola riunione dei due regni in uno spianava di necessità il fondamento della esistenza propria della Sicilia, le toglieva i diritti fino allora serbati incolumi fra le vicissitudini di tanti secoli, la rendeva da autonoma provincia? Un cenno fugace degli antichissimi privilegi della Sicilia abbiamo dato più addietro(31); ma qui è luogo di farne più diffuso ragionamento. perché ad essi appellano tutte le successive vicissitudini di quel paese.

Sottratta appena alla dominazione dei Saraceni e dei Greci, una costituzione era stata la base del primo ordinamento della Sicilia nel secolo undecimo sotto i Normanni conquistatori. Per quella costituzione il Parlamento composto, come altrove abbiam detto, dei tre bracci, militare, ecclesiastico e demaniale, si radunava in ogni anno, e dopo Carlo l'ogni quattro, in sessione generale, così detta per distinguerla dalle straordinarie, convocate ad occasione di non preveduti bisogni. Al chiudere della sessione generale, venivano eletti quattro membri di ogni braccio, che insieme componevano un'assemblea esecutrice. tra le due sessioni, delle sentenze, e all'uopo sostenitrice delle ragioni del parlamento. Il quale solo tassava i tributi, non potendo imporne il governo se non per casi urgentissimi, come il riscatto del re prigioniero, la invasione di nemici esterni, le interne rivoluzioni, o altro sconvolgimento istantaneo e di gran mole: ed anche allora l'arbitrio del re fra stretti limiti si volgeva.

Né solo al diritto di stabilire i tributi, già molto ben largo, per la sua manifesta e capitale importanza, si distendeva l'ambito di quella costituzione, ma includeva eziandio la più estesa sovranità nazionale: imperocché disponeva della corona dell'isola e niun principe credé validi giammai i suoi diritti, né saldo il suo dominio, se non avesse base nella elezione fatta o riconosciuta dal parlamento. Così fino dal 1166 era stato eletto Guglielmo II. così la buona Costanza sua figlia nel 1185, la quale fu poi imperatrice, moglie al crudele Enrico figlio di Barbarossa. Così più tardi nel 1189 era tolta allo stesso Enrico dal parlamento siciliano la corona per la sua crudeltà, e posta sul capo di Tancredi: così lo stesso Enrico vincitore non credè potersi sciogliere dall'obbligo di chiedere l'investitura al parlamento nel 1194: così nel 1218 era eletto Federigo II, e nel 1258 l'infelice Manfredi: e così gli Angioini non furono voluti né sopportati, perché imposti dai pontefici e non scelti dalla nazione; onde l'origine della irritazione, che scoppiò tremenda nei Vespri Palermitani. Gli Aragonesi, successi agli Angioini, furono liberamente chiamati dal parlamento nella persona di Pietro d'Aragona, e di padre in figlio riconosciuti e rieletti, respingendo i tentativi di riunire le due corone fatti da Giacomo, e spossessando anche costui nel 1295, e coronando in suo luogo il fratel suo Federico. Agli Aragonesi successero i Castigliani, eletti ancor essi liberamente nella persona di Ferdinando di Castiglia. E non è fuor di luogo il notare come alla morte di lui, il successore suo Carlo l'non fu immediatamente riconosciuto. Ebbe l'investitura più tardi, cioè nel 1518, e come gli antecessori suoi prestò giuramento di serbar salve ed intatte le franchigie del regno. Fatto imperatore, tornò in Sicilia, e il gran despota del secolo XVI confermò nel 1555, nella cattedrale di Palermo, i suoi giuramenti, e aprì in persona la sessione del parlamento. Singolare fenomeno, che quanto è più strano, tanto più chiaramente significa l'attaccamento dei Siciliani alle loro istituzioni, che pur furono giurate e rispettate dai successori di Carlo, non escluso Filippo II. Alla guerra di successione, quel trono fu disputato con tutti gli altri domini spagnuoli di Carlo II. La pace di Utrecht di la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoia, ma sotto riserbo di tutti i diritti e privilegi di lei, onde le libertà siciliane passarono a far parte del diritto pubblico europeo(32). Vittorio Amedeo fu leale osservatore dei patti: recossi nell'isola nel 1714, vi fu coronato e convocò il parlamento. Alcune quistioni però, insorte fra lui e la deputazione del regno, dettero indi a poco pretesto al cardinale Alberoni di tentare la rivendicazione della Sicilia alla casa di Spagna: ma è notevole il suo manifesto, pubblicato in nome di Filippo V. perché appunto basava il diritto di quelle ostilità nelle violazioni, che allegava recate alle libertà siciliane garantite dal trattato di Utrecht. Finalmente nelle varie vicende di quella guerra di molti anni la Sicilia, contrastata fra casa d'Austria e casa di Borbone, dispose sempre della sua sorte liberamente. e del suo voto era chiesta dagli ambiziosi che a vicenda se la disputavano. L'ebbero i Borboni riconoscendone le prerogative come tutti i loro antecessori avevano operato. Così pervenne a Carlo III e poi a Ferdinando, il quale nel 1811 volendo tentare di governarla a suo arbitrio, ruppe allo scoglio dei diritti degli isolani, e senza l'intervento dell'Inghilterra perdeva forse la corona, che solo conservò, rispettando, sebben di mal animo, le obbligazioni sotto le quali ell'era a lui prevenuta. Fu allora che vennero operate nell'antica costituzione siciliana quelle riforme, che non solo la differenza dei tempi rendeva ormai necessarie per la migliore amministrazione del regno, ma che erano dimostrate indispensabili dai recenti arbitrii del re mal frenati dalla lettera di antichissimi capitoli, che perdevano di efficacia per le cavillose interpretazioni alle quali l'antica loro redazione lasciava luogo. E perché le circostanze davano allora agli Inglesi assoluta preponderanza nell'isola, i mutamenti dello statuto siciliano si fecero in conformità di quello che reggeva la Gran Brettagna, non senza però procedere a queste medesime modificazioni per quei mezzi che l'antico diritto siciliano consentiva; tantoché la costituzione del 1812, che quindi emerse, non fu già un fatto nuovo, una violenza protetta dalle armi forestiere, ma un legale svolgimento dell'antica. A tale effetto il parlamento, convocato secondo le antiche forme, entrò, il 20 luglio 1812, a deliberare intorno a questo grave argomento.


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Nella prima seduta, che durò ventiquattr'ore di seguito, furono stabiliti quindici articoli, che dovean servire di base alla costituzione, i quali furono conchiusi ad unanimità di voti. Il tempo non fu perduto che nella esposizione di essi e nelle imbarazzanti formalità usate negli antichi parlamenti di Sicilia, per cui, per ogni parola che voleasi apporre o cambiare. doveano andare e venire più ambasciate solenni da un braccio agli altri due.

Gettate le basi della costituzione, due importantissime quistioni si ebbero ad agitare nella seconda seduta, cioè: 1.° Se dovea, prima di progredirsi più oltre, chiedersi la reale sanzione di quei quindici articoli fondamentali. 2.° Se a questo oggetto era mestieri che il re desse un'espressa facoltà al principe vicario per farlo. Il parlamento, pensando che tutta la costituzione dovea poggiare su quelle basi, e che cadutane una, perché non approvata dal re, l'edificio sarebbe ito a terra, col dissenso di sei soli voti, determinò doversi chiedere la sovrana sanzione di quegli articoli. Il principe vicario scrisse allora una lettera al re, nella quale gli chiedeva espressa facoltà per consentire a tutte le proposte del parlamento, che sarebbero uniformi alla costituzione inglese; sotto alla quale scrisse il re di suo proprio pugno: Essendo ciò secondo le mie intenzioni, vi autorizzo a farlo(33).

La lettera del principe vicario, in un colla risposta del re, fu trasmessa al protonotario del regno, e quindi nelle forme registrata nei pubblici archivi. Il principe vicario, così ampiamente facoltizzato, sanzionò gli articoli stabiliti nel parlamento, e la sanzione fu comunicata con decreto dei 10 agosto al parlamento medesimo.

È prezzo dell'opera il riferire ora testualmente i quindici articoli in discorso:

ARTICOLO I.

La religione dovrà essere unicamente, ad esclusione di qualunque altra, la cattolica apostolica romana. Il re sarà obbligato a professare la medesima religione, e quante volte ne professerà un'altra, sarà ipso facto decaduto dal trono.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO II.

Il potere legislativo risiederà nel solo Parlamento. Le leggi avranno vigore quando saranno da S. M. sanzionate. Tutte le imposizioni di qualunque natura dovranno determinarsi solamente dal Parlamento, ed anche avere la sovrana sanzione. La formula placet o veto dovrà accettarsi dal re senza modificazione.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO III.

Il potere esecutivo risiederà nella persona del Re.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO IV.

Il potere giudiziario sarà distinto ed indipendente dal potere esecutivo e dal legislativo. e si eserciterà da un corpo di giudici e magistrati. Questi saranno giudicati, puniti e privati d'impiego per sentenza della Camera dei Pari, dopo la istanza della Camera dei Comuni: come meglio rilevasi dalla costituzione d'Inghilterra, e più estesamente se ne parlerà nell'articolo magistrature.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO V.

La persona del re sarà sacra ed inviolabile.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO VI.

I ministri del Re ed impiegati saranno soggetti all'esame e sindacatura del Parlamento, e saranno dal medesimo accusati, processati e condannati qualora si troveranno colpevoli contro la Costituzione ed osservanza delle leggi, o per qualche gran colpa nell'esercizio della loro carica.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO VII.

Il Parlamento sarà composto di due Camere, una detta dei Comuni, ossia de' rappresentanti delle popolazioni, tanto demaniali che baronali, con quelle condizioni e forme che stabilirà il Parlamento ne' suoi posteriori dettagli su questo articolo. L'altra, chiamata dei Pari, la quale sarà composta di tutti gli ecclesiastici e loro successori, e da tutti quei baroni e loro successori, possessori delle attuali Parie, che attual mente hanno diritto di sedere e votare nei due bracci ecclesiastico e militare, e da altri che in seguito potranno essere eletti da S. M. giusta quelle condizioni che il Parlamento fisserà nell'articolo di dettaglio di questa materia.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO VIII.

I baroni, come pari, avranno testaticamente un sol voto: togliendosi la moltiplicità attuale relativa al numero delle loro popolazioni. Il protonotario del regno presenterà una nota degli attuali baroni ed ecclesiastici, e sarà questa inserita negli atti parlamentari.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO IX.

Sarà privativa del Re il convocare, prorogare e sciogliere il Parlamento, secondo le forme ed istituzioni che si stabiliranno in appresso. S. M. però sarà tenuta di convocarlo ogni anno.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO X.

La nazione dovendo fissare i sussidi necessari allo stato, si darà precisamente il dovere di fissare nella lista civile le somme bisognevoli allo splendore, indipendenza e mantenimento del suo augusto monarca, e della sua real famiglia, in quella estensione la più generosa, che permetterà l'attuale stato delle finanze del regno; e quindi la nazione assumerà per suo conto la esazione ed amministrazione di tutti i fondi e beni nazionali, compresi quelli riguardati sinora come cespiti fiscali e demaniali, la cui somma poi passerà alle mani del ministro della finanza per gli usi dal Parlamento stabiliti. Per le persone poi, sistema e mezzi, coi quali tali fondi saranno amministrati ed esatti, si riserba fissarlo nel dettaglio di questo articolo.

Vetat R. Majestas(34).

ARTICOLO XI.

Alcun siciliano non potrà essere arrestato, esiliato o in altro modo punito o turbato nel possesso o godimento de' dritti e dei beni suoi, se non in forza della legge di un nuovo codice, che sarà stabilito da questo Parlamento, e per via d'ordini e di sentenze del magistrati ordinarii, ed in quella forma, e con quei provvedimenti di pubblica sicurezza, che diviserà in appresso il Parlamento medesimo. I Pari goderanno della forma del giudici medesimi che godono in Inghilterra, come meglio si diviserà dettagliatamente in appresso. Placet R. Majestati.

ARTICOLO XII.

Con quel medesimo disinteresse che il braccio militare ha sempre marcato nelle sue proposte, ha votato e conchiuso, e il Parlamento ha stabilito, che non vi saranno più feudi, e tutte le terre si possederanno in Sicilia come in allodii, conservando però nelle rispettive famiglie l'ordine di successione, che attualmente si gode. Cesseranno ancora tutte le giurisdizioni baronali, e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi a cui sinora sono stati soggetti per tali dritti feudali. Si aboliranno le investiture, rilevi, devoluzioni al fisco ed ogni altro peso inerente ai feudi, conservando però ogni famiglia i titoli e le onorificenze.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO XIII.

Aderisce inoltre a stabilire, che si aboliranno i così detti diritti angarici e privativi, tosto che però le università e i singoli che ci vanno soggetti, indennizzeranno il proprietario attuale con ragionare il capitale al cinque per cento sul fruttato, sia della gabella che vi sarà all'epoca della reluizione, ovvero, mancando questa, sui libri della rispettiva segrezia: ben inteso però che i possessori di terre di qualunque natura conserveranno la stessa mano e i loro dritti per la facile esigenza dei crediti e censi, nello stesso modo e forma, che sinora hanno goduto.

S. M. si riserba di accordare la sua approvazione quando riceverà sopra questo articolo le necessarie dilucidazioni.

ARTICOLO XIV.

Aderisce il braccio militare alla proposta del Comuni, che ogni proposizione relativa a sussidi debba nascere privativamente e conchiudersi nella riferita Camera dei Comuni, ed indi passare a quella de Pari, ove solo si dovrà assentire o dissentire senza punto alterarsi. Ha poi stabilito che tutte le proposte riguardanti gli articoli di legislazione e di qualunque altra materia, saranno promiscuamente avanzate dalle due Camere. restando ad entrambe il diritto alla repulsa.

Placet R. Majestati.

ARTICOLO XV.

Quanto poi agli altri principi e stabilimenti della predetta Costituzione britannica, il Parlamento dichiarerà in appresso. quali si dovranno accettare, quali rigettare e quali modificare per le differenze dello stato e delle circostanze delle due nazioni. Perloché fa sapere che volentieri riceverà que progetti che si faranno da suoi membri per la conveniente applicazione della Costituzione Inglese al regno di Sicilia, onde possa scegliersi quello che si giudicherà più confacente alla gloria di S. M. ed alla felicità del popolo siciliano.

S. M. a misura che se le presenteranno altri articoli, risolverà quali meriteranno la sua real sanzione.

Quanta fosse la sobrietà e la moderazione di quest'atto, ognuno può di leggieri avvertirlo per sé medesimo. Lungi dall'abbandonarsi al torrente delle idee, che prevalevano allora nel volgo di Europa, seppero i siciliani legislatori prescegliere fra gli antichi loro statuti quelli, che soli e strettamente convenivano ai veri e reali bisogni della monarchia, abdicando anzi a talune franchigie, che più sarebbero andate a sangue ai democratici dei giorni nostri, e che gli avrebbero fatti incorrere negli errori, che, in quell'ora medesima, si commettevano dal parlamento di Cadice: il quale riunendo senza criterio tutti gli antichi statuti delle diverse parti della monarchia spagnuola, ne formava un informe e vacillante edifizio. soggetto a tutte le oscillazioni della democrazia, senza essere democratico. e dove il re non può mantenere quell'ombra di autorità, che gli è concessa, se non col fomentare i dissidi e l'anarchia, e porre ad ogni tratto a repentaglio la cosa pubblica. Compresi di più sani principi, coloro che divisarono la riforma siciliana del 1812 volendo bensì frenare gli abusi del governo, ma non crollare dalle fondamenta la monarchia, si limitarono a rendere più chiaro e preciso il linguaggio delle antiche leggi, a riunire in un solo tanti statuti sparsi qua e là nel codice del diritto pubblico siciliano, a segregare i poteri in cui risiede la somma della pubblica autorità, lasciando al re libero l'esercizio di quella prerogativa, che è necessaria allo splendore del primo magistrato, e alla conservazione dell'ordine pubblico.

La costituzione siciliana del 12 non fu dunque, per così dire, che una nuova redazione dell'antica, di quella costituzione che la reggeva da secoli. ed alla quale doveva la Sicilia d'avere, in mezzo a tante vicissitudini, a tante mutazioni di regni, conservata la sua indipendenza e la sua libertà: onde l'affetto di quelle genti pel loro sacro palladio non era artificiale e fittizio, ma in loro connaturato come elemento di vita. Così passò per la Sicilia l'epoca del feudalismo temperato da quelle istituzioni, in virtù delle quali gli stessi baroni non eran quivi, come altrove, esclusivamente per sé o per il proprio castello, ma per la nazione. Così passò l'epoca delle lotte municipali, men grette quivi che in altre parti d'Italia, pel vincolo sempre vivo di un interesse comune, che la costituzione vi manteneva. Così passarono i giorni del dispotismo, che pesò per secoli su tutta Europa, senza danno della Sicilia, che nelle sue istituzioni trovò un'egida potente a preservarla. E queste le apprestarono i mezzi di operar senza rivoluzione e senza sangue quelle riforme che richiedevano i tempi: queste la salvarono in ultimo dal turbine delle idee francesi e dalla schiavitù, che da per tutto era alle medesime conseguata. Non forza d'uomini o di cose poteva omai divellere dal cuore dei Siciliani l'affetto per quelle istituzioni, dalle quali riconoscevano ogni lor bene, e che avevano il suggello di sette secoli di gloriosa e incontrastata esistenza. Come abbia a giudicarsi il radicale mutamento introdotto da Ferdinando nel 1816 e consentito dall'Inghilterra, la coscienza universale ha già sentenziato(35).

I fatti che conseguitarono ai decreti del decembre 1816 furono anche più gravi di quello che la lettera loro desse argomento d'imaginare. Taccio che il parlamento non fu riunito mai più, e che anche nelle materie di finanza, riserbate alla decisione di quello, il re procedette per decreti a suo talento(36). D'anno in anno le imposte furono aumentate, e astretti inoltre i comuni a pagare le ingentissime spese delle intendenze provinciali, delle sottintendenze distrettuali, del giudici di circondario, dell'alloggio e forniture della giandarmeria, e mille altri arbitrari stabilimenti, talché esausto il paese per la sproporzione tra i pesi pubblici e la pubblica ricchezza, l'agricoltura, il commercio e tutte le sorgenti della industria e della prosperità dello stato si trovarono in breve inaridite. I piccoli poderi divennero quasi peso ai proprietari, perché le imposizioni e le spese di cultura giunsero ad uguagliare e talvolta a superare il prodotto. Ai grandi proprietari mancarono i capitali necessari alla cultura dei loro vasti possessi, onde avvenne che immensi tenimenti, che nel 1815 rendevano ricchissimi prodotti, furono lasciati a sterile pastura, e i possessori decaddero in miserabile stato. Gli esattori della rendita pubblica aggravavano il male giungendo a pignorare agli infelici contribuenti non che i vestiti, ma i vomeri, le falci ed ogn'altro istrumento d'agricoltura: onde per tutto incominciò il pubblico spettacolo di infelici spiranti per disagio nell'antico granaio dell'Italia, e sorsero bande di disperati grassatori in un paese, ove la sicurezza delle strade era proverbiale. E a sì crudele condizione era tratto per abusi fiscali un popolo abituato da sette secoli a non pagare gravezze, che non fossero imposte dal suo parlamento.

In una parola, non fu lasciato in Sicilia né pure il vestigio delle antiche istituzioni. Furonvi aboliti i consigli civici, i magistrati municipali, il protonotario del regno, i capitani giustizieri dei comuni, e tutti gli altri uffici necessari alla formazione del Parlamento, il quale venne così distrutto nel fatto. Agli antichi ordini amministrativi fu sostituita tutta la macchina francese, macchina di dispotismo, che in Sicilia divenne tanto più odiosa, in quanto che, oltre alle reali vessazioni che adduceva, veniva eretta sulle rovine del nazionale edifizio.

Aboliti gli antichi consigli civici, fu instituito un decurionato, composto di individui nominati dal re, la cui autorità si estese per tal guisa ai più minuti oggetti dell'amministrazione municipale. I consigli provinciali e distrettuali ebbero la stessa regia derivazione, e dalle loro attribuzioni fu esclusa ogni politica ingerenza. ed ogni legislativa ed economica facoltà, che oltrepassasse la sfera dei comunali interessi.

All'antico ordine di magistrati fu sostituita una immensa torma di giudici, tutti con soldo: e comeché questo fosse per la maggior parte, mal proporzionato alla dignità della carica. pure pel numero, eccedente oltre misura al bisogno, divenne peso strabocchevole per la nazione.

La smania di tutto innovare e di spegnere ogni vestigio dell'antica indipendenza della Sicilia giunse a tale, che fu persino vietato l'uso della moneta siciliana. Ma ciò recò nel fatto tali disordini, che il governo ebbe poco dopo a revocare quell'improvvido statuto.

Così fu cancellata la costituzione di Sicilia, che v'era nata colla monarchia: che il tempo aveva bensì alterata, ma che per sette secoli era rimasta integra nelle sue parti essenziali: che trentacinque re avevano giurata e rispettata: che lo stesso Ferdinando, non solo aveva giurata esso pure, salendo al trono, ma per cinquantasei anni aveva riconosciuta, e la cui riforma era stata da lui approvata e solennemente garantita(37).

Discorse le cose di Sicilia con quella ampiezza, che l'importanza dell'argomento, e la sua poca notorietà ci hanno fatto credere necessaria, torniamo agli stati di terra ferma, ed ivi prendiamo innanzi tutto a considerare l'operato del principe di Canosa, la cui nomina al ministero della Polizia, accaduta nel 1816, ci svela meglio di ogni altro fatto e senza bisogno di ulteriori commenti, gl'intimi disegni e l'ultimo fine della restaurazione di Ferdinando. Ma perché l'opera del troppo celebre ministro e le morali condizioni del regno vengano meglio intese ed apprezzate. è mestieri ritornar un istante col discorso alla setta dei Carbonari della quale poche parole abbiamo già detto più addietro(38). riserbandoci appunto di parlarne più estesamente costi.

Era antichissima in Europa la setta dei franchi-muratori. sorta secondo alcuni all'epoca dell'esterminio dei Templari per opera di Filippo il Bello, o ad essa preesistente secondo altri, istituita da prima, a quel che pare, ad instaurare nel mondo non so qual modo di ideale governo: la quale, certo per lungo esperimento della vanità de' suoi tentativi, erasi ormai ridotta ad uffici di mera beneficenza, e si spassava in feste e in un deismo confacente alla filosofia del secolo passato. Aveva però gran numero di adepti, e l'opera de mutui soccorsi si continuava con zelo: di guisa che, dove non fosse intervenuta la lassezza dei capi, e l'artificio de governi, che nelle persone dei principali agenti della medesima destramente la regolavano. avrebbe, in qualche caso di pubblica conturbazione. potuto tentare effetti di gran momento. Così viveva quella setta. quando nel 1811 Carolina d'Austria, anelante al riacquisto del perduto trono di Napoli, senza riguardo alla natura dei mezzi. stimò che quella associazione potesse utilmente venir diretta all'intento di rovesciar dal trono il suo rivale Murat, sol che venisse rinfrescata ed inanimita con qualche più formulato principio, come quello, a cagion d'esempio. della nazionale indipendenza ed anche della forma repubblicana nel politico reggimento dello Stato: condizioni che a lei non incutevano spavento o preoccupazione veruna, persuasa che, tolto una volta di mezzo l'usurpatore, non le sarebbero venuti meno espedienti per pagare colla moneta che più le fosse piaciuto l'opera de' suoi inconsapevoli fautori. Giovandosi adunque della organizzazione massonica quant'era mestieri ad incamminare la novella intrapresa, i fautori di Carolina(39) posero le fondamenta di una nuova associazione conosciuta sotto il nome di Carboneria, forse, come pare al Witt(40), per essere stati i primi adepti riuniti nelle foreste o carboniere degli Abruzzi. Tutto che, secondo l'Orloff, fosse di regia origine la setta. non era da sperare di renderla numerosa ed intraprendente se non si istituiva colle massime e colle forme, che solo allettavano gli uomini arrischiati, che si avventurano nelle secrete associazioni politiche: di più, ad imitazione della massonica, che si prendeva ad esempio, era mestieri darle un colore religioso, per aver modo di agire più potentemente sul popolo: laonde (siccome abbiamo dal medesimo scrittore) una tal qual dottrina evangelica fu posta come fondamento della dottrina politica. Quindi è che le minute genti del popolo, i lazzaroni di Napoli, i campagnuoli, e gli stessi preti e frati, dei quali moltissimi furono in breve guadagnati alla setta, non mai uscivamo dalle secrete congreghe senza sentir ravvivato il loro zelo a perseverare nei giurati propositi, e a procacciare nuovi aderenti alla setta. I Carbonari dettero alle loro riunioni il nome di vendite, in ordine alla simulata loro natura di mercanti di carbone, appunto come presso i franchi-muratori, per la supposta origine di quella associazione, si dicevano logge. Una vendita particolare si componeva di venti buoni cugini, in relazione fra loro, ma isolati dalle altre vendite: i deputati di venti vendite parziali formavano una vendita centrale, che per via di un deputato comunicava coll'alta vendita, e questa per un emissario riceveva gli ordini da una vendita suprema e da un comitato di azione. Ciò aiutava il secreto, la diffusione e i ritrovi senza nuocere all'unità. Nulla scrivevano i Carbonari, ma partecipavansi gli ordini a voce: si riconoscevano per mezzo di carte tagliate e delle parole speranza e fede, o alternando le sillabe di ca-ri-tà: stringendosi la mano, descrivevano col pollice il segno della croce. Lo spergiuro o il rivelar ai pagani il secreto dei segni del regolamento, dello scopo, eran puniti di morte. Dovevano procacciarsi un fucile, una baionetta e venticinque cartatuccie: versavano alla cassa comune un franco per mese, e cinque all'atto dell'ammissione(41).

Il Carbonarismo rimase da prima debole e inosservato: ma finalmente la polizia napoletana, penetrata, se non nell'intimo, in molta parte dei suoi secreti, credette necessario governarlo per suoi agenti. Era ministro allora un Maghella genovese, il quale si persuase in primo luogo di poter ridurre la nuova setta al grado di innocente passatempo, come era avvenuto della massonica, ed in secondo luogo di poterla rivolgere con seduzioni e lusinghe a sostentacolo del nuovo regno: onde propose a Gioacchino di secondarne, sotto certe cautele, la propagazione, anziché cimentarsi al pericolo, com'egli lo chiamava, di spegnerla. Murat, più per istinto di re (come acutamente dice il Colletta), che per senno di reggitore, vi si opponeva: ma finalmente aderì, e la Carboneria, per nuovo impulso che le veniva dal trono, si distese e si accreditò. Presto e molto crebbe di numero e di potere, sì perché pubblici ufficiali divenivano settari, sì perché i settari, col favore della polizia, divenivano pubblici ufficiali: non vi era ufficio. che molti non ne contenesse.

L'opera di Carolina d'Austria falliva così al suo fine: ma, senza volerlo, Carolina Murat, la sua implacabile avversaria. in questo la soccorreva. Perché nel 1815, essendo essa reggente in assenza di Gioacchino, e incominciando a temere l'influenza già potentissima de carbonari, che anelavano a forme libere di governo, dette esempio ed incitamento a Murat, reduce indi a poco, di perseguitarli: onde riavvicinaronsi al vecchio re, che per suoi emissari lor prometteva, restituito nel regno, e la costituzione di Sicilia e i più squisiti favori. I carbonari aiutarono in fatti la rovina di Murat e la restaurazione di Ferdinando, dal quale, colla stoltezza ingenita di ogni setta, si ripromettevano il loro pieno trionfo. Tornato però in trono il Borbone cogli auspici e colle tendenze, che a tutti si fecero in brev’ora manifeste, disperati essi non che del conseguimento dei loro fini, ma della propria personale sicurezza, accresciuti del numero non scarso di quegli stessi Murattisti, che per favorire al loro re, si erano da ultimo mostrati avversi alla setta, cominciarono a macchinare nuovi rivolgimenti con tanta maggiore concitazione, quanto più grande pareva loro l'ingratitudine del restaurato Borbone.

Fu allora, nel 1816, che Ferdinando conferì al principe di Canosa il ministero della Polizia, tenuto nei primi tempi dal Medici; il quale, sia perché non credesse gran fatto temibili i carbonari, sia perché stimasse più conveniente il procedere con arte e dissimulazione. non contentava gran fatto i più arrabbiati reazionari e il principe di Canosa in ispecial modo, del quale anzi era il Medici dichiarato avversario. Venuto quest'uomo dal cuor di tigre al potere, cominciò ad attuare il disegno, di lunga mano già meditato, di spegnere insino all'ultimo ogni adepto della carboneria, non senza includere nella categoria dei settari tutti quelli, che, per ragione o per interesse, gli si rappresentassero avversi all'antico or dine di cose, ch'egli intendeva restituir per intero. Ma ben si avvide che coi mezzi ordinari di polizia non avrebbe potuto venire a capo dell'intento smisurato, ch'egli si era prefisso: onde pensò valersi dell'opera di un'altra setta, da lui medesimo già istituita o fomentata molt'anni innanzi, la quale ora intorno a lui si stringeva e lo riconosceva per capo. Era questa la setta dei Calderari.


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Opinano taluni che questa non fosse da principio se non uno scisma della massoneria, sorto nel regno di Napoli e guadagnato con arte alla causa dei Borboni. Ma lo stesso Canosa. la cui testimonianza in tal materia non può non reputarsi per la migliore, la dice(42) nata in Palermo, quando per intervento di lord Bentinck ivi si sciolsero le maestranze. le quali levarono tumulto, e quella specialmente dei calderai, che assicurarono la regina del loro affetto, e le si profferirono a prender le armi anche contro gl'Inglesi. Carolina accolse i loro voti e li protesse, li organizzò, li accrebbe di tutti i malandrini sorti nel brigantaggio del decennio, e dei liberati dalle galere di Ponza e di Pantelleria. Molti vissero in Sicilia sovvenuti dalla corte fino alla restaurazione, più altri in terraferma, o tramando nascostamente, o combattendo i Murattisti coll'armi in mano. Su questa infame genia fece dunque assegnamento il Canosa e ciò con tanto maggior profitto in quanto che, negli ultimi anni del regno di Murat. molti di loro essendosi affiatati coi Carbonari. ne conoscevano i membri e gli ordinamenti. Cominciò il Canosa dall'imporre loro il giuramento di obbedienza cieca a suoi ordini e di esterminio, senza riguardo nei mezzi, di tutti i Carbonari e Franchi Massoni(43). Divise la nuova setta in curie: in ogni provincia pose una curia centrale. alla quale le minori facesser capo: egli solo, per suoi emissari, corrispondeva colle centrali: completò l'armamento di tutti i proseliti colla distribuzione di ventimila fucili, parte tratti dagli arsenali dello stato, parte acquistati d'altronde. Ciò fatto, e distese e già trasmesse le liste di tutti quelli che dovevano essere uccisi in ogni provincia, anzi essendo già incominciate le esecuzioni sotto forma di proditori assassinamenti, questa trama infernale fu dal Medici e dal Tommasi svelata e comprovata con documenti incontestabili al re. Il quale ordinò sì, che l'orribile attentato fosse impedito, e gli emissari s'imprigionassero; ma non per questo stimò avere il Canosa demeritato del suo favore, e il manteneva in ufficio. Se non che instando alcuni consiglieri dello stato e grandi della corte, e gli ambasciatori d'Austria e di Russia perché fosse cacciato, il re, a mal in cuore, lo levò alfine dal ministero, lasciandolo però ricco di stipendi(44). Gli succedette, non come ministro, ma direttore di polizia, Francesco Patrizio, caldo partigiano della monarchia legittima ed assoluta: il quale (dice il Colletta). se spinto dalle sue passioni. era eccessivo: se ricordava le male sorti del Canosa. era mite: la perplessità e la incostanza. difetti pessimi in un ministro, furono i distintivi del suo governo.

Caduto il Canosa, i calderari, che in lui perdevano il capo e il fondamento della loro esistenza, si dispersero, abbandonando in qualche guisa il terreno ai loro avversari, i quali ormai, anziché rimanersi sulle difese, cominciarono a meditare le offese. Fu creduto il governo spaventato dai Carbonari, e tutti allora vollero esser del numero; i signori per diffidenza nella stabilità delle cose. gli arrischiati e facinorosi per isperanza d'avvantaggiare nei futuri rivolgimenti: i buoni, che pur ve n'erano, rimasero sopraffatti dai perversi. Peggiorando la setta, trasmodò a sua volta in concetti ed opere nefande. Queste richiedevano malvagi operatori; onde fu aperto lo entrarvi ad ogni generazione di ribaldi. I calderari medesimi ambirono l'onore di penetrar nelle file dei già loro nemici. Il governo sperò reprimerne l'audacia colle minaccie e talora con severi castighi: scarso provvedimento là dove il solo buono sarebbe stato inanimire ed a sé richiamare la parte sana della nazione con sagge e liberali maniere di pubblico reggimento: ma questo era tenuto da lui come rimedio peggiore ancora del male. I mezzi e le forze della carboneria ormai soverchiando, tacevano gli offesi, mancavano gli accusatori, mentivano i testimoni, vacillavano i giudici, diventava sicura l'impunità. Ciò visto si scrissero settari tutti i colpevoli e coloro che volgevano in mente alcun delitto: le prigioni si trasformarono in vendite. A che riuscisse questa preparazione, saremo per vedere fra poco.

In presenza di così gravi pericoli avesse almeno posto mente il governo a rinforzarsi di un buono e valido esercito, che a lui e alla nazione avessero consentito di guardare con meno trepidanza nell'avvenire. Ma l'avarizia e un preconcetto del Medici nol consentirono: il quale persuaso che in fino a tanto che i Borboni durassero sopra il trono di Francia. Napoli come schifo di gran vascello, sarebbe incolume e sicuro non vedeva che fosse necessario provvedere con mezzi proprii ed adeguati alle future eventualità. Preferiva impinguare l'erario (cosa buona quando non sia a scapito d'altre migliori) e riposare per la difesa del regno negli interessi dinastici e conservativi delle maggiori potenze.

L'esercito era dunque pel Medici un grave e inutil peso allo stato, al quale quattro reggimenti, guardie del re, e buona mano di birri parevano più che sufficienti al bisogno. Ma d'altra parte l'obbligava a tenere in piedi un assai maggior numero di truppe il pattuito contingente di venticinque mila uomini pronto alle richieste dell'Austria(45) ancorché la Santa Alleanza promettesse ai principi lunga pace e riposata monarchia: ond'è che il ministro, sdegnato dello spendere, come diceva, in opera vana, assottigliò le paghe, restrinse i comodi dei soldati, li vessò, li crucciò, suscitò in loro lamenti, dei quali mal riesciva allo stesso Nugent, che pur l'avrebbe voluto, di ottener qualche rada soddisfazione. Impediva frattanto la composizione dell'esercito, che pure era mestieri l'istituire, il decreto, col quale il re, nel suo rientrare nel regno, aveva abolita la coscrizione stigmatizzandola come uno dei maggiori flagelli della dominazione francese. Ma non ancora essendo corsi due anni, stretto dalle presenti necessità, la restituì qual'era. col solo nome mutato in quello di leva. e chiamando reclute i coscritti. Ma il popolo non restò preso a questi miseri artifici, e doppiamente sdegnato gridava i coscritti avere almeno avuto comodi, onori e fortuna e le reclute esser misere e abiette, e il re che già aveva solennemente condannata l'asprezza degli usurpatori, esercitarla peggio di loro.

Furono altresì nel 1817 ordinate per tutto il regno le guardie di sicurezza. milizia civile ascendente a 80. 000 inscritti. divisi in ventun reggimenti, quante erano le provincie di qua e di là dal Faro(46).°bbligo e titolo ad essere iscritto era il possedimento di beni stabili: gli ufficiali a scelta del re fra i maggiori possidenti. Nei cinque battaglioni di Napoli entravano anche gli artieri: ma qui pure i gradi d'ufficiale erano conferiti soltanto ai ricchi ed ai nobili. Qualunque però si fosse la composizione di questa milizia civile, per essa il governo conseguiva un fine diametralmente opposto al vagheggiato, quante volte si ostinasse a camminare una via contraria a quella degli interessi comuni: e il fatto non tardò lungo tempo a dimostrarlo.

Il restaurato governo aveva fin dai primi momenti chiarito il popolo, ch'egli intendeva d'esser tornato nelle antiche sue sedi per godimento suo proprio, non per affaticarsi a studiare e a provvedere ai pubblici bisogni. Aveva per conseguenza spenta ben presto quella fiducia, che nell'animo di molti era sorta per le belle parole prodigate nei tempi dell'avversità, e la mala contentezza veniva facendosi di giorno in giorno più grave ed universale. L'accrebbe il fatto dei Vardarelli, che recheremo colle parole stesse del Colletta, il quale lo riferisce con tutte le particolarità necessarie ad apprezzarne la natura e gli effetti(47).

«Gaetano Vardarelli, di servili natali, prima soldato, poi disertore dell'esercito di Murat, ricoverò in Sicilia: e di là per nuovi delitti fuggendo, ritornato nel regno, cercò salvezza non dal perdono o dal nascondersi, ma combattendo. Brigante. felice in molti scontri, poi perseguitato vivamente, volse di nuovo a quell'isola, sperando che i travagli e le fortune del brigantaggio gl'impetrassero scusa degli antichi misfatti: né si ingannò: lo tornarono alla milizia, divenne sergente nelle Guardie, e così ricomparve in Napoli nell'anno quindicesimo. Ma non pago di mediocre fortuna e di posato vivere, cercando il malo ingegno opulenza e cimenti, disertò nell'anno istesso, e si diede a scorrere, pubblico ladro, le campagne. Prodigo ai poveri, avido e feroce co' ricchi. ebbe compagni due suoi fratelli, tre congiunti, quaranta e più altri malvagi al pari di lui. Capo e tiranno di quella schiera, puniva i falli con pene asprissime: la codardia colla morte. Tutti montati sopra cavalli, assalire velocemente. velocemente ritirarsi. camminar giorno e notte, apparire quasi al tempo stesso in lontane contrade, erano le arti, che li facevano invitti, benché sempre inseguiti e spesso raggiunti da non pochi soldati napoletani e tedeschi. Acquistò Vardarelli tanto nome di valore e di fortuna, che or mai la plebe, scordando le nequizie, lo ammirava: e tanto più ch'ei davasi vanto (e forse lo era) di Carbonaro. »

«Il ministero sollecito di congedare le rimanenti schiere dell'esercito tedesco, era trattenuto dalla fortuna dei Vardarelli e dal pensiero che una torma di assassini non sarebbe invincibile senza i secreti aiuti della setta, e che la setta viepiù ardirebbe, avendo mano di armati apertamente ribelli, avventurosi e potenti. Spegnere quei tristi o soggettarli divenne interesse di governo, e poiché non si poteva abbatterli colla forza, si discese a quetarli coi trattati, e da pari a pari stipular atto che io qui registro acciò rimanga documento della debolezza del potere legittimo, fonte d'onde derivaron poco appresso altre sventure di maggior momento.

Articolo 1.° «Sarà concesso perdono ed obblio ai misfatti de Vardarelli e loro seguaci».

Articolo 2.° «La comitiva sarà mutata in isquadriglia di armigeri.

Articolo 3.° «Lo stipendio del capo Gaetano Vardarelli sarà di ducati 90 al mese, di ognuno dei tre sottocapi di ducati 45. di ogni armigero di ducati 50. Sarà pagato anticipatamente ogni mese. (Erano paghe da colonnelli e da capitani).

Articolo 4.° «La suddetta squadriglia giurerà fede al re. in mano di regio commissario; quindi obbedirà a generali che comandano nelle provincie, e sarà destinata a perseguitare i pubblici malfattori in qualunque parte del regno. »

«Napoli,6 luglio 1817. »

«I Vardarelli giurarono e mantenendo i patti. spensero i grassatori, che scorrevano la Capitanata: ma sospettosi del governo, chiamati a rassegna, si radunavano in aperta campagna: non venivano in città. benché comandati: prendevano alloggiamenti sempre vari, e parte dello stuolo vegliava in armi, mentre l'altra stava in riposo. Salvi lungo tempo dalle insidie, vi caddero alfine. Andavano spesso in Ururi, piccolo villaggio delle Puglie, assicurati da numerosi amici e parenti. Un giorno la schiera giaceva spensierata sulla piazza, allorché partirono dai vicini edifizi molti colpi d'archibugio, e vi restarono morti Gaetano, i suoi due fratelli, e sei dei maggiori compagni. Fuggirono i restanti. sbigottiti. Era tra gli uccisori un tristo di Porto-Cannone, nemico ai Vardarelli perché ne ebbe giovine sorella presa di forza e stuprata. Questi, dopo l'eccidio. corse sopra i cadaveri, bagnò più volte le mani nel sangue di quei miseri, e sporcandone orrendamente il proprio viso coll'atto di lavarlo. si volse al molto popolo colà raccolto, e ricordata la macchia dell'antica ignominia, disse, indicando il viso col dito: l'ho purgata. »

«Il governo promise vendetta dell'assassinio. Il generale Amato, che comandava nelle Puglie, mandò in cerca dei pro fughi (che pur Vardarelli, onorandosi del nome, si chiamavano) e per lettere accertò che il misfatto di Ururi sarebbe punito, che il trattato del 6 luglio reggeva intatto, che altro capo eleggessero. Erano trentanove quei tristi, scompigliati, intimiditi, increduli alcuni, altri confidenti, ed in molti serpeva l'ambiziosa speranza d'esser primo. Restarono cheti, ma più guardinghi. Una squadra di soldati andò in Ururi: degli omicidi altri furono imprigionati, ed altri fuggiaschi; si ordinò il giudizio, si fece pompa di severità. »

«Dopo le quali apparenze il generale chiamò a rassegna i Vardarelli nella città di Foggia, e promise di eleggere, a voti loro, il capo e i sottocapi della squadriglia: ed eglino, dopo varie sentenze, si recarono al destinato loco, fuorché otto. contumaci all'invito. Era giorno di festa: la piazza scelta per la rassegna stava ingombrata di curiosi, quando vi giunsero i Vardarelli, gridando: Viva il re, ed avendo spiegate solennissime, a modo loro, vesti ed arredi. Il generale dal balcone faceva col sorriso cenni di compiacenza: il colonnello Sivo, disposti in fila quei trentuno li rassegnava, e lodando la bellezza ora dell'uomo, ora del cavallo, facea dimande, scriveva note; dall'alto il generale anch'egli con loro conversava: infine il colonnello si recò a lui, e credevasi per la scelta dei capi: restarono i Vardarelli in piedi, ciascuno innanzi al suo cavallo. Per due ore furono tenuti a rassegna, nel qual tempo le squadre napoletane avevano di nascosto circondata la piazza, e attendevano il convenuto segnale a prorompere. »

«Levossi il berretto il generale Amato (era questo il segno) e ad un tratto avanzarono le colonne coll'armi in pugno, e gridando: arrendetevi. Si aprono le affollate genti, e s'incalzano: i Vardarelli frettolosamente montano sopra i cavalli, ed allora le prime file dei soldati scaricano le armi: nove dei Vardarelli cadono estinti, due s'aprono un varco e dileguansi: gli altri venti, atterriti, abbandonano i cavalli, fuggono confusamente in un grande e vecchio edifizio, che era alle spalle. La fama del loro coraggio, e la disperazione che lo accresceva, ritiene i soldati dallo inseguirli, accerchiano però l'edifizio, spiano, non veggono uomo né segno di fuga, entrano a folla le guardie, ricercano vanamente ogni loco: stavano maravigliate ed incerte, quando dallo spiraglio di una cava uscì colpo che andò a vuoto: un soldato che vi si affacciò, per altro colpo fu spento: erano i Vardarelli in quella fossa. Vi gettano i soldati in gran copia, e per lungo tempo, materie accese, non esce da quell'inferno lamento o sospiro, ma più crescevano il fuoco ed il fumo. Si udirono contemporanei due colpi. e poi seppesi che partirono dalle armi di due fratelli, che, dopo gli estremi abbracciamenti, a vicenda si uccisero: si arrenderono altri diciassette, un ultimo si trovò morto ed arso. »

«Informato il governo, comandò che gli arresi fossero messi in giudizio per aver mancato alla convenzione del 6 luglio; e però in un sol giorno del maggio 1818 furono dal tribunale militare, giudicati, condannati, posti a morte. Gli altri dieci ancora fuggiaschi, in vario modo, in varii tempi furono distrutti; si spense affatto quella trista gente, non in buona guerra, dove tante volte fu vincitrice, ma per tradimenti ed inganni, cosicché nel popolo i nomi loro e le gesta sono ancora raccontate con lode o pietà. I già imprigionati di Ururi tornaron liberi e premiati. Delle malvagità dei Vardarelli altra ed alta malvagità fu punitrice: ne venne al governo pubblico vitupero, ché non si onesta il tradimento perché cada sui traditori. »

«Fermata la sommissione dei Vardarelli, ma innanzi della descritta catastrofe, l'esercito tedesco, ridotto in quel tempo a dodicimila soldati, sgombrò affatto dal regno nei mesi di luglio e agosto del 1817. »

Versava a questi giorni il governo di Ferdinando in altro grave negozio, quello del concordato con Roma, prossimo finalmente ad essere concluso, e che richiede a sua volta che se ne faccia in questo luogo diffuso ragionamento.

Carlo III, principe riformatore, e nell'istesso tempo molto sollecito, come tutti quelli dell'età sua, delle prerogative del trono, non tardò guari, dopo la sua conquista del regno, a richiedere dalla romana curia, che le immunità e privilegi degli ecclesiastici venissero ridotti in più ristretti confini. Clemente XII, poi lo stesso Benedetto XIV esitarono lungamente prima di accogliere e statuire sulle ingrate proposizioni: ma nel timore di vederle con maggiore scandalo e danno messe in atto, senz'altro attendere, da quel governo, fu convenuto intorno le controverse materie col concordato del 1741, pel quale fu stabilito che gli antichi beni della Chiesa pagassero, d'allora innanzi, la metà dei tributi comuni; i nuovi acquisti, l'intero: il censo dello stato separasse dal patrimonio del clero le proprietà laicali, confuse in esso per malizia o errore: le franchigie fossero ridotte, i favori d'uso revocati: si restringesse alle chiese il diritto d'asilo, e questo per pochi determinati falli leggieri: definito lo stato ecclesiastico e ridotte le immunità personali, la giurisdizione vescovile fosse circoscritta: la secolare di altrettanto ampliata: accresciute le difficoltà per le ordinazioni e le discipline de' cherici, a ristringere il numero dei preti. Un tribunale misto decidesse le controversie che nascessero dal concordato. Carlo però, e dopo lui il figliuol suo Ferdinando, giovine allora e di più larga coscienza, non preterivano occasione d'interpretare ed applicare a vantaggio proprio le clausole di quel reciproco patto, e la corte di Roma era in continue e amare contestazioni con quella di Napoli. Sopravenne la rivoluzione di Francia, cruenta e trionfatrice, e il re e il sommo pontefice, legati dallo spavento comune, sospesero le private brighe. Frattanto per bisogni di guerra e di stato, il governo di Napoli vendeva beni di chiesa, scioglieva conventi, non provvedeva alle sedi vacanti dei vescovi per goder delle rendite, violava in mille guise il concordato. Peggio ancora, in ordine alle cose di chiesa, si condussero i Napoleonici: e le innovazioni introdotte da loro nella legislazione e negli ordini tutti del paese, e che la restaurazione, anche volendolo, non avrebbe potuto interamente togliere di mezzo, resero necessario, al ritorno di Ferdinando, un nuovo patto in materia di religione. Ma un diverso intendimento dominava nella curia pontificia e nel consiglio del re, volendo quella ricondurre le cose quanto più si potesse all'antico, e questo. per lo contrario, mantenersi il più che fosse possibile indipendente da Roma. Queste difficoltà s'aggravarono per l'incidente della chinea, il qual richiede due parole di discorso retrospettivo.

Usavano i re di Napoli presentare al papa in ogni anno la chinea (cavallo bianco riccamente bardato) e sette mila ducati d'oro in sequela di un obbligo assunto da Carlo d'Angiò, quando per legittimare la sua usurpazione, si dichiarò vassallo della chiesa. La cerimonia era pomposa, perciocché un ambasciatore nel 29 di giugno, giorno di s. Pietro, offeriva quel dono in nome del re al pontefice, che negli atrii della basilica vaticana ricevendolo, diceva: «essere il censo a lui dovuto per diretto dominio sui due regni di Sicilia. Nell'anno 1776, mentre il principe Colonna, gran contestabile del regno, e ambasciatore del re, cavalcava alla basilica, una disputa di precedenza, insorta tra i servi dell'ambasciatore, e quelli del governatore di Roma, produsse nel popolo adunato moti e rumori; i quali, benché subito quietati, dettero al re, che volentieri accolse l'occasione, argomento a deliberare che cessasse per l'avvenire una cerimonia, che poteva dar luogo a disgustose conseguenze e a motivi di disturbare la quiete dei due sovrani e dei reciproci stati, aggiungendo la prestazione della chinea «dipendere unicamente dalla sovrana volontà e da religiosa compiacenza. Il pontefice protestò, e in ogni anno successivo, mancato il tributo, ne rinnovava nella festa di s. Pietro pubblica lamentanza. Anni appresso il re privatamente offerse settemila ducati d'oro senza chimea o cerimonia, come dono di principe devoto alla chiesa: ma il papa li rifiutò, dichiarando più che mai solennemente le sue ragioni e la disobbedienza (così la diceva) della corte di Napoli. Poteva credersi che dopo tanta mutazione di cose, quanta erane intervenuta negli sconvolgimenti degli ultimi vent'anni. la corte di Roma non avrebbe disseppellita una pretesa di sì difficile e, diciam pure, vana soddisfazione. Ma così non fu: e malgrado le cure di quei momenti difficilissimi, nel dì di s. Pietro del 1815, il papa rinnovò la protesta, soggiungendo «non dubitare che il re avrebbe quanto prima adempiuto al suo dovere(48). L'anno appresso, vedendo deluse le sue speranze, scrisse direttamente a Ferdinando rammentandogli l'obbligo di quel tributo, e concludendo «che se la sua voce, la quale era pure la voce del vicario, benché immeritevole, di Gesù Cristo, aveva la disgrazia di non farsi per o allora sentire, esso se la sarebbe sentita risuonare un giorno al tribunale di Dio. »

Rispose il re ai 26 di luglio «essere stato un tempo, in cui tutto aveva preso in Europa la forma feudale. Questo stesso principio di feudalità aver fatto anche nascere i feudi oblati, specie di volontaria servitù, che era a que tempi da sommi vantaggi largamente compensata. La chiesa poi quanto invariabile ne' suoi principi di dogma, nelle cose temporali ai sistemi di ragion pubblica essersi sempre conformata. La feodalità essere finita in Europa. Sarebbe adunque il solo regno delle due Sicilie, che rimanesse vassallo? che sentirebbe dopo il trattato di Vienna, principio e fonte di tutte le attuali possessioni, parlarglisi di censo e di chinea, mentre in quel trattato, fra le possessioni nelle quali la Santa Sede era stata reintegrata per l'armi delle potenze, non leg gevasi già il diritto di signoria sul regno di Napoli? né censo né chinea essere diritti pei quali potesse venir citato dinanzi a Dio. Queste pretensioni della chiesa romana essere diritti politici, che si acquistano e si perdono per que modi che i domini si acquistano o si perdono: sempre sotto la legge del bene generale delle nazioni, del cui diritti sono i sovrani a nome di Dio i sacri depositari. Sarebbe adunque sempre stato ubbidientissimo figlio della Santa Sede; ma in materia di temporalità avrebbe valutato i diritti del sovrano di Roma con quei principi d'indipendenza, che si conveniva al suo regno. Anzi non potere in coscienza lasciar sussistere questo addentellato di censo e chinea ai suoi successori, germe del funesto pericolo della perdita della loro sovranità. Del resto, mentre non poteva rimuoversi del fermissimo proposito in cui era di non mai consentire a prestazione di censo e di chinea, esser pronto, pel bene della pace, quando questa questione si cumulasse con Benevento e Pontecorvo(49). a convenire di un compenso pecuniario. Con queste sante e pure intenzioni essere pienamente in calma, ed avere la coscienza tranquillissima. »

Pio VII replicò a 10 di decembre «non avrebbe mai aspettato una simile risposta. Avergli parlato il linguaggio della religione, della confidenza e del candore apostolico, e la risposta chiamarlo ad una discussione di diritto pubblico. Avere lungamente esitato se gli conveniva la replica: essersi finalmente risoluto a farla sul riflesso, che il suo silenzio potesse essere interpretato per convincimento. Non potere però essere d'altro convinto se non che egli prestava più fede agli altrui, che ai suoi suggerimenti. Ripetere con franchezza che i sentimenti espressi da Napoli non erano conformi a quelli manifestati da Palermo, mentre la chinea si chiamava una pretensione della chiesa romana, una materia meramente temporale. Si chiamerebbe adunque pretensione un diritto fondato sopra i titoli più sacri di possesso? Si chiamerebbe temporale un obbligo religioso, che vincolava la coscienza? Se una materia temporale in sé stessa erano la chinea e il censo, non era una materia temporale né la causa da cui deriva, né il giuramento che imprimeva il carattere d'una promessa fatta a Dio. Non sussistere che dall'attuale sistema politico dell'Europa, e dai risultamenti del Congresso di Vienna ne sia derivata una totale abolizione della feudalità. né sapersi poi comprendere come alla prestazione del censo e della chinea volesse darsi il carattere delle feudalità comuni, mentre era tanto diversa nella sua natura e nella qualità di chi riceveva una tale prestazione. Ma qualunque fosse il carattere che volesse darsele, era certo che i diritti della Santa Sede non erano soggiaciuti a quelle vicende, che si erano analizzate in fatto di diritti temporali e feudali. Avrebbe potuto dimostrarlo anche con altri argomenti, ma crederlo poco decente alla evidenza dei propri diritti. Dispiacergli poi di sentire che fosse tranquillo nella coscienza, fondandosi nell'obbligo di mantenere la indipendenza del suo regno. Piangere su questa illusione. Imperciocché come si poteva avere la coscienza tranquilla quando si frangevano i giuramenti fatti al cospetto di Dio? nell'ascendere al trono, egli aveva giurato di prestare il censo e la chinea, l'avea prestata per lunghi anni, e non si era considerato al certo meno indipendente allora che attualmente. Chi adunque, col pretesto di conservare la indipendenza del regno, lo consigliava di non adempire le sacre obbligazioni da cui era vincolato, era un nemico dei di lui veri interessi, perché non era un consigliarlo a conservare, ma a mettere in pericolo la indipendenza ed il regno. Nell'ascendere al pontificato aver giurato di conservare i diritti ed i possessi della Santa Sede, ed essere per ciò che non poteva convenire nel progetto fattogli di un compenso pecuniario. Il censo e la chinea esser dovuti alla Santa Sede, ed essere pur troppo materia per cui sarebbe stato chiamato al giudizio di Dio. E quand'anche non fosse per incontrare alcun altro motivo di rammaricarsi per aver trasgredito questo sacro obbligo, se ne rammaricherebbe sicuramente nel giorno in cui sarebbe comparso innanzi al giudice supremo di tutte le umane operazioni. Si rammentasse in fine che i regni della terra passano, e quello de' cieli che solo si conquista colla rettitudine non finir mai(50). »

Questo incidente della chinea raffreddò le trattative, che in quel medesimo tempo avevano luogo fra i due governi; finché sul declinare del 1817, Ferdinando, malgrado che rimanesse inflessibile in quell'argomento, si fece coscienza di ritardare più oltre la sistemazione dell'altre cose con Roma, e comandò al ministro Medici di venire su queste a conclusione. Il plenipotenziario pontificio fu lo stesso cardinal Consalvi, segretario di Stato. Insieme convenuti a Terracina, ivi sottoscrissero, il dì 16 febbraio 1818, un concordato in trentacinque articoli, pei quali in sostanza tra le due parti fu C0mvenuto:

«La religione cattolica apostolica romana essere la sola del Regno delle Due Sicilie, e aversi sempre a conservare con tutti i diritti e prerogative, che le competono secondo il comando di Dio e le sanzioni canoniche. Quindi l'insegnamento nelle scuole dover essere in tutto conforme alla dottrina della medesima. »

«Nei domini al di qua del Faro si farebbe una circoscrizione nuova di diocesi, sopprimendo alcuni piccoli vescovati. All'opposto in Sicilia se ne sarebbe aumentato il numero. Le piccole abbadie unissersi ai vescovati, e si conservassero soltanto le concistoriali, che avevano un'annua rendita al disopra di cinquecento ducati. »

«Nessuna mensa vescovile avesse rendita minore di ducati tremila in beni stabili, dedottene le pubbliche imposte. Le parrocchie più piccole non avessero meno di ducati cento annui. »

«La collazione delle abbadie concistoriali, che non fossero di regio patronato, spettasse al Sommo Pontefice, il quale le conferirebbe a sudditi del re. I benefizi semplici di libera collazione, con fondazione ed erezione in titolo ecclesiastico, sarebbero conferiti dalla Santa Sede e dai vescovi, secondo la distinzione dei mesi, nei quali la vacazione sarebbe seguita. Cioè da gennaio a giugno dalla Santa Sede, e da luglio a dicembre dai vescovi. La provista sarebbe sempre in persone suddite del Re. »


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«Lo stesso si osservasse circa ai canonicati di libera collazione, tanto dei capitali cattedrali, che dei collegiati. La prima dignità però fosse sempre di libera collazione della Santa Sede. Il sommo Pontefice accordar ai vescovi del Regno il diritto di conferire le parrocchie. »

«Tutti i beni ecclesiastici non alienati dal governo militare(51), e che al ritorno del Re si erano trovati nell'amministrazione del demanio, esser restituiti alla Chiesa(52). In quanto ai beni alienati tanto dal governo militare, quanto dallo stesso re Ferdinando, il Santo Padre, in riguardo alla pubblica tranquillità che alla religione sommamente importava di conservare, dichiarare che i possessori di tutti questi beni non avrebbero alcuna molestia né da sé né da suoi successori. »

«Le ristrette circostanze del patrimonio regolare non alienato ed amministrato dal demanio, non permettendo di ristabilire tutte le case religiose dell'uno e dell'altro sesso. le medesime sarebbero ristabilite in quel numero che risultasse compatibile coi mezzi di dotazione, e specialmente di quegli istituti, che sono applicati alla istruzione della gioventù nella religione e nelle lettere, alla cura degli infermi, ed alla predicazione. »

«Tutti i religiosi dipendessero dai loro superiori generali. »

«La Chiesa avesse il diritto di acquistare nuovi possedimenti: né potesse farsi soppressione alcuna.° unione di fondazioni ecclesiastiche senza l'intervento della Santa Sede, salve le facoltà attribuite ai vescovi in tali casi dal concilio di Trento.

«Le luttuose circostanze de' tempi non permettendo che gli ecclesiastici godessero la esenzione del pubblici pesi. il Re promettere frattanto di far cessare l'abuso ne passati tempi introdotto, per cui essi erano più gravati dei laici stessi. A tempi più felici poi dal religioso Sovrano si sarebbe supplito con largizioni in vantaggio del clero. »

«All'occasione delle proviste del vescovati e dei benefici di nomina regia, continuasse ad ammettersi la riserva delle pensioni ecclesiastiche secondo le forme canoniche. Il Santo Padre poi, sopra alcuni vescovati ed abbadie del regno che si sarebbero stabilite, riserbarsi in perpetuo dodici mila ducati annui di pensioni, delle quali avrebbe disposto a suo piacimento in favore de' suoi sudditi dello stato Ecclesiastico. »

«Gli arcivescovi e i vescovi fossero liberi nell'esercizio del loro pastorale ministero, secondo i sacri canoni. Conoscessero nel loro foro le cause ecclesiastiche. e specialmente le matrimoniali, che secondo il Concilio Tridentino(53) spettano ai giudici ecclesiastici. Non esser comprese in questa disposizione le cause civili dei chierici, le quali sarebbero conosciute e definite da giudici laici. Castigassero i vescovi colle pene stabilite dal Concilio di Trento, o altre che giudicassero opportune, i chierici degni di riprensione, salvo il ricorso canonico. Procedessero eziandio colle censure contro qualunque tra fedeli, che fosse trasgressor delle leggi ecclesiastiche, e de sacri canoni. Le cause maggiori spettassero al Sommo Pontefice. »

«Fosse libero di appellare alla Santa Sede. La comunicazione colla medesima del vescovi, del clero e del popolo, su tutte le materie spirituali e gli oggetti ecclesiastici, fosse pienamente libera, e per conseguenza esser revocate le leggi, che prescrivevano un permesso del re prima di scrivere a Roma.

«Ogni qual volta i vescovi ne' libri introdotti o stampati nel regno trovassero qualche cosa contraria alla dottrina della Chiesa ed ai buoni costumi, il governo ne proibirebbe la divulgazione. »

«Il re sopprimere la carica di regio delegato della giurisdizione contraria al diritto canonico. La curia del cappellano maggiore e la sua giurisdizione si conterrebbe nei limiti della costituzione di Benedetto XIV, che comincia Convenit. e dal susseguente motoproprio dello stesso pontefice sul medesimo oggetto. »

«La proprietà della Chiesa fosse sacra ed inviolabile ne' suoi possessi ed acquisti. »

«In considerazione della utilità che dal concordato derivava alla religione ed alla chiesa, e per dar un attestato di particolar affetto alla persona del Re, il Santo Padre accordare in perpetuo a lui e suoi successori l'indulto di nominar a quel vescovati ed arcivescovati del regno, pei quali non godeva prima del diritto di nomina. »

«Gli arcivescovi e i vescovi avrebbero fatto alla presenza del re il giuramento di fedeltà(54). »

«Quanto agli altri oggetti, de' quali non era fatta menzione ne presenti articoli, le cose sarebbero regolate a tenore delle veglianti discipline della Chiesa, e sopravenendo qualche difficoltà, il Papa e il Re riserbarsi di concertarsi fra loro. Il concordato poi esser sostituito alla convenzione del 174 l. ed a tutte le leggi, ordinazioni e decreti emanati finora nel Regno sopra materie ecclesiastiche.(55).

Spiacque ai Napoletani il concordato per tutte quelle ragioni, che è facile immaginare dopo tant'anni di assoluta indipendenza da Roma; e sopratutto eccitò sospetti il giuramento dei vescovi, anche a scapito, per quanto allora ne fu detto, della confessione(56). Ma più altamente lamentaronsi i Siciliani, che videro nel concordato una nuova sanzione dell'abolita monarchia di Sicilia, la quale, in virtù di antichissimi privilegi e di una bolla di Benedetto XIII, giudicava per l'organo di un suo proprio deputato ecclesiastico gran numero di casi altrove riserbati alla Santa Sede ((57). Vero è che Ferdinando, con decreto dei 5 aprile dello stesso anno 1818 dichiarò, per quietarli «non esser aboliti i legittimi e canonici privilegi contenuti nella bolla di Benedetto XIIIma nel fatto l'efficacia di quella fu ben diversa di prima, né altrimenti esser poteva dopo la mutata condizione della Sicilia.

Ad aggravare dalle due parti del Faro la generale concitazione degli animi s'aggiunsero indi a poco le decisioni della conferenza d'Aquisgrana, dove i sovrani d'Europa, nell'occasione di consentire a ritirar le loro truppe dal suolo francese, rinnovarono la loro unione con patti ancora più espliciti che non fossero stati quelli del 1815, e intesero di far capaci i popoli d'Europa che in ogni tentativo di alterar lo stabilito ordine delle cose, tutti i potentati si dichiaravano solidari ad impedirlo. Qui fu stabilita la massima dell'intervento con ben altra efficacia di quella, che dodici anni più tardi si avesse il contrario principio proclamato dalla tribuna francese. In quella occasione, le quattro grandi potenze collegate invitarono la Francia ad aderire formalmente ai principi conservativi da loro adottati, ed essa non mancò di corrispondervi. E dai plenipotenziari di tutte cinque fu sottoscritto il dì 15 novembre 1818 un protocollo della più alta importanza, e le cui principali disposizioni, siccome quelle che risguardavano non meno l'Italia, che ogni altra parte d'Europa, è opportuno in questo luogo di riferire.

«Semplice come santo e salutare è l'oggetto di questa unione, che non mira a nuove combinazioni politiche, né a cambiare le relazioni stabilite dai precedenti trattati: ma calma e costante, vuol mantenere la pace e le transazioni, che la fondarono e consolidarono. I sovrani d'Austria, Prussia, Russia, Francia ed Inghilterra, formando questa augusta unione, ne posero fondamento l'invariabile loro risoluzione di non mai iscostarsi, né fra loro né rispetto agli altri Stati, dai più stretti canoni del diritto delle genti, i quali applicati ad uno stato di pace permanente. soli possono esficacemente garantire l'indipendenza di ciascun governo, e la stabilità della generale consociazione.

«Fidi a queste massime, i sovrani le manterranno nelle adunanze o di loro propri, o del loro ministri, sia che vi discutano in comune i proprii interessi. sia che si riferiscano a questioni dove altri governi abbiano reclamata la loro intervenzione. E lo spirito che dirigerà i loro consigli e le comunicazioni diplomatiche, presiederà pure a questi congressi volti a conservare il riposo del mondo.

«In tali sentimenti i sovrani compirono l'opera cui erano chiamati, non cesseranno d'operare ad assodarla e perfezionarla: e formalmente riconoscono che i loro doveri verso Dio e verso i popoli governati gli obbligano ad esser al mondo, per quanto possano, esempio di giustizia, di concordia, di moderazione: fortunati di dirigere tutti i loro sforzi a proteggere le arti della pace, crescere l'interna prosperità del loro paesi, e ridestarvi i sentimenti di religione e di morale, troppo affievolite dalle sciagure di questi ultimi tempi(58). »

Era in cuor del re e dei ministri oltrepotente l'odio verso gli uomini e le cose del passato decennio, e più e più si andava manifestando a misura che paresse loro venirsi assicurando lo stato nuovo. Proruppe finalmente in un atto della più alta significazione, il quale, sebbene in causa privata, fu origine di generale spavento. La compagnia Redinger era creditrice dello stato per provvigioni somministrate all'esercito di Murat: ma per difficoltà insorte nella liquidazione dei titoli di quella vasta e complicata amministrazione, il credito era rimasto pendente fino all'anno 1818: quando alfine chiariti i punti controversi, e nulla più opponendosi al pagamento, fu questo negato per decreto del re «attesoché l'oggetto di tali spese era stato di sostenere una ingiusta guerra contro il legittimo principe, e di impedirne il ritorno». Questa decisione divenuta massima di finanza, generò grandi perdite in casi analoghi, o che si vollero ridurre a questa categoria e a questa legge, e indusse infiniti in timore della loro sorte: avvegnaché se l'aver fornito provigioni era colpa, peggio dovea temere chi aveva sostenuto il cessato governo col consiglio e col braccio e con irrepugnabili testimonianze d'affetto.

Delle due strade denominate del Campo e di Posillipo, opere stupende della cessata dominazione, l'una fu camminata dal re non prima del terzo anno del suo ritorno, l'altra non lo fu mai. La disotterrata Pompei non fu più vista da lui, e gli scavi quasi intermessi, come opere favorite dei re francesi: ed anche all'epoca nella quale scriviamo così misera somma è destinata a quelle escavazioni, che non basterebbero secoli a condurre a fine il discoprimento della sepolta città. Tutti i nomi decennali mutaronsi: solamente il ritenne la casa o educandato Carolina, benché opera di Carolina Murat, perché fu detto che sotto tal nome s'intenderebbe d'ora innanzi quello di Carolina d'Austria. Di chiunque nominavasi nel consigli il re domandava: È de nostri o dei loro? Le foggie, le usanze. i colori del decennio erano abborriti: le sue leggi duravano per prudenza del Congresso di Vienna, che non volle, almeno sulle prime, lasciare sbrigliata facoltà agli eroi del 99 di far man bassa secondo il desiderio del loro animo, e rimettere di nuovo in problema la tranquillità del regno e degli alleati.°nd'è che il governo odiava in cuore assai cose, che pur gli era forza di mantenere: l'animo e la politica discordavano; e le provvidenze, mosse da cagioni contrarie, imprimevano alla macchina sociale difformità di scopo e di azione. Questo continuo antagonismo impossibil cosa era che potesse lungamente durare, e minacciava al regno terribili e non lontane calamità.

Dalla medesima causa ebbe motivo l'istituzione dell'ordine di San Giorgio, coll'aggiunto nome di Riunione, per segnar il tempo nel quale i due regni separati si composero in uno. Il re non comportava l'ordine delle Due Sicilie, il quale, sebbene mutato di epigrafe e di colori, traeva principio da Giuseppe, lustro e fama da Gioacchino: e d'altronde le convenzioni di Casalanza e del Congresso vietavano che si abolisse. Ma concedendo ai militari decorati dell'ordine delle Due Sicilie, quello, in egual grado, di San Giorgio, il primo fu rivocato e l'aborrito nome scomparve. L'ordine nuovo era militare, dandosi al valore ed ai servigi di guerra, per giudizio di un capitolo di generali; gran maestro il re, gran contestabile il principe ereditario della corona, gran collane i capi dell'esercito, gran croci i generali più distinti: e così discorrendo per otto gradi sino ai soldati. Il nastro è turchino orlato di giallo, i colori della stella rubino e bianco, i motti in hoc signo vinces circondando l'effigie del santo, ed alla opposta parte virtuti. I Napoletani, i Siciliani, i Murattisti, i Borbonici ne furono fregiati: parve segno di pace fra le contrarie parti dell'esercito, ma non era; che secondo che le passioni soffiavano, i Murattisti cimentatisi nelle grandi guerre adontavansi d'esser pareggiati ai Borbonici, che avevano poltrito o nelle ville o in Sicilia; questi credevano, così accomunati, offeso e sconosciuto il loro merito di fedeltà: e i Siciliani vedevano in ciò uno scorno aggiunto alla loro soggezione ai Napoletani.

I nomi di Giuseppe e di Gioacchino vieppiù scomparvero nella pubblicazione dei nuovi codici. Erano sei; ma poiché in nulla mutarono quelli del commercio e della procedura. rimane a dire soltanto del civile, del criminale, di quello di procedura criminale, e del militare. Fu l'opera di quella riforma affidata a uomini degnissimi la più parte, e assai periti delle materie, intorno le quali erano chiamati a statuire. Ma se il regno di Napoli può a buon dritto gloriarsi di una delle migliori legislazioni de giorni nostri, il merito principale è da attribuirsi per giustizia a Francesi, l'opera de' quali rimase fondamento principale dei nuovi codici, e non tutte le innovazioni introdotte furono egualmente lodevoli.

In quanto al codice civile, richiedevano i costumi e le opinioni dell'universale l'abrogazione della legge, che permetteva il divorzio sotto leggieri pretesti, e ciò fu operato nella nuova riforma. e reso il matrimonio indissolubile, se non per i casi contemplati dal Concilio di Trento. Altra riforma richiedevasi, e fu introdotta, ad accrescere la paterna potestà, che distrutta dalle prime licenze della libertà francese, poco risorta nell'Impero, rimaneva giusto e grande desiderio della società. Dovevasi migliorare il sistema ipotecario, ma questo restò qual era. Fu permesso nelle civili contrattazioni il volontario imprigionamento per un errore comune a quasi tutte le legislazioni d'Europa, che sovente puniscono con questa pena crudele l'infortunio allora appunto che maggiormente meriterebbe d'esser soccorso, e per servire al male inteso interesse d'uno o di pochi precipitano sovente quello di molti, per gli estremi partiti cui quasi sempre è ridotto l'infelice colpito da quella disposizione. Se il dolo è provato si punisca: se l'infortunio e innocente, si compassioni e soccorra.

Il codice penale serbò alcuni errori dell'antico, cioè l'inesatta scala dei delitti. la soperchia severità delle pene. il troppo uso del supplicio di morte, e ne introdusse due nuovi: 1.° Distinse in quattro gradi la pena di morte, secondo che il reo mandavasi al patibolo vestito di giallo o di nero, calzato o scalzo. Intorno a che osserva opportunamente il Colletta, che se era indizio di barbarie l'antica crudeltà pel condannato prima di ridurlo a morte, l'accrescimento però sul martirio diveniva vero grado di pena: ma oggi è ridevole far diverso il dolore del morire, o il terrore dell'esempio per colore di vestimenta, per assenza o presenza di calzatura. 2.° Tolse o scemò ai giudici un ragionevole arbitrio che avevano fra certi limiti, nell'applicazione della pena; perciocché il patire, prendendo misura dalla diversa sensibilità fisica e morale degli individui, diversamente affligge: e quindi la facoltà di variare in poca parte la durata o altra condizione della pena adegua le differenze di età, stato, sesso, fortuna e capacità di sentire. Furono anche contemplati i delitti di lesa maestà divina, ed aspramente puniti. Furono abolite le confische: e questo solo beneficio bastò a rendere il nuovo codice penale migliore dell'antico.

Della procedura criminale non può dirsi altrettanto, la quale fu assolutamente peggiorata. Aboliti i giurati: la facoltà d'imprigionare per mandato d'accompagnamento confermata: il giudizio di accusa ridotto in cinque o tre giudici, da sei o quattro che erano prima: il beneficio della parità, revocato: i giudici dell'accusa fatti anche giudici del processo, onde la sentenza era affidata a magistrati prevenuti contro l'accusato: i asi di ricorso in cassazione ristretti.

Il codice militare riunì molti pregi e molti errori delle antiche istituzioni. Due furono i fatti più gravi: non separare lo stato di guerra da quello di pace, ed allargare la giurisdizione dei tribunali militari; imperocché variano i doveri del soldato secondo che è in pace o in guerra; e l'ampliare la giurisdizione che separa la milizia dallo stato civile. è resto di feudalità, che sconcorda coi costumi e collo spirito di tutta la, moderna legislazione. Tra le pene, sanzionò il codice la prolungazione del servizio e le battiture, Ma se il servire è dato in pena, si insinua nei popoli il pernicioso concetto che lo stato militare sia di sua natura penoso ed affliggente. e si spegne quella moralità e quella dignità del soldato, che fa valenti gli eserciti. Le battiture apportano infamia e sconvengono ad esercito, che si componga per coscrizione: e a quelli che citano come grave testimonianza in questa materia la dichiarazione del duca di Wellington di essere per rifiutare il comando dell'esercito inglese quando quella pena vergognosa fosse abolita, ricordisi che l'Inghilterra non ha coscritti e compone le sue schiere per ingaggi.

Importanti cangiamenti tennero dietro alla pubblicazione dei codici. Riordinandosi i tribunali secondo le nuove leggi e discipline, molti giudici furono levati di posto senza palesarne il motivo, e quel silenzio e la intemerata vita della più parte di loro fece credere, che ne fosse causa la profonda inimicizia dei ministri e del re per gli uomini e le cose del decennio. Il pubblico parteggiò per gli sventurati, che datisi al liberale esercizio dell'avvocatura incontrarono fortuna e favore in quella misura appunto che la perdeva il governo. De magistrati mantenuti in ufficio fu pur trista la sorte. Giuseppe li aveva dichiarati stabili per legge: ma Gioacchino per un decreto del 1812 sospendendo per tre anni la stabilità, coll'intendimento di esplorarli e di formarsi una magistratura fidata, prolungò il cimento fino al 1815, allorché, per le vicende politiche di quell'anno, e per nuovo decreto del nuovo re, fu allungata l'incertezza sino alla pubblicazione de' codici borboniani: ora que' codici promulgati, ed espurgata la classe dei giudici, furono non pertanto dichiarati in esperimento per altri tre anni. Si voleva tenerli sempre a dipendenza, per lo che gli onesti si sdegnavano, tutti temevano, e non ristava il pubblico dall'osservare che mentre tanto si malediceva il decennio, si riteneva di quello ogni opera ed ogni esempio che profittasse all'assoluta dominazione. né basta: era spiato ogni giudice. il voto di ognuno in ogni causa rivelato al governo e spesso ad arbitrio del ministro erano i giudici puniti con rimproveri. minacce, congedi e lontane traslocazioni. Mancavano per tal guisa alla magistratura le due più pregiate condizioni, stabilità e indipendenza: onde molti. di lor natura amanti della quiete e non volti fino allora a intemperanti pensieri, incominciarono a desiderare essi pure che lo stato delle cose nel regno si mutasse.

Le riforme erano all'ordine del giorno, e venne a sua volta quella del dicastero di polizia, necessaria ed invocata da ogni parte del regno. Abbiam detto come, uscita dalle furiose mani del principe di Canosa, passasse in quelle di Francesco Patrizio, che di varia e capricciosa natura, ora rilassava le discipline, ora aspramente le restringeva, secondo che i timori della reggia o della piazza soverchiassero nell'animo di lui. Perciò rinvigorivano le antiche sette, se ne creavano di nuove. le stampe clandestine si succedevano, ed ora un libello eccitatore, ora un messaggio ardimentoso al monarca, ora un progetto di costituzione svelavano da per tutto contumacia contro il governo, che spesso ancora si traduceva in delitti ed offese contro i partigiani di lui. Dei quali disordini maggiormente abbondando la provincia di Lecce, vi andò commissario del re con pieni poteri il generale Church. nato inglese, passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli in patria, sebbene appresso dimenticate per buone opere prestate al nuovo padrone e per incontrastabile perizia nelle cose militari. Il rigore da lui spiegato in quella occasione fu grande, ma giusto: e in quella travagliata provincia fu per lui restituita la pubblica tranquillità.°r dunque, per nuovo ordinamento, la polizia fu unita al ministero della giustizia. L'accoppiamento (dice il Colletta) poteva produrre che la polizia prendesse la rigorosa norma delle leggi: ciò sembrava essere stato l'intendimento di quella disposizione: accadde invece, che i magistrati adottarono i modi arbitrarii della polizia. Fu eletto direttore un tal Giampietro, uomo non dissimile dal Patrizio che nella incostanza: ma la fermezza sua era in continue sevizie, in un'opera di compressione, che minacciava di diventare spietata(59). Fu detto che il principe di Metternich. venuto nell'aprile di quell'anno in Napoli accompagnando l'imperator d'Austria Francesco I ((60), lodasse ed insinuasse la persistenza nelle massime di compressione: le quali se per alcun tempo ponno essere tollerate là dove il principe dia a popoli grandi soddisfazioni di gloria e di prosperità come Napoleone alla Francia, reggono assai breve tratto dove lor manchi tale accompagnamento. I più veggenti pronosticavano infatti vicini sconvolgimenti: ma il governo, fosse torpore di mente, fosse cieca fede nella fortuna che lo aveva con così poco meritorestituito nel regno, li credeva impossibili, e viveva e reggeva alla spensierata. E se alcuno per zelo di carica o di patria rivelava i pericoli, n'era preso a sdegno e a sospetto, credendo unicamente a chi lodasse quello stato e presagisse felicità e sicurezza. Ma il pericolo vieppiù si avvicinava: solo mancava un'occasione a farlo prorompere, e presto una se ne offerì più grande assai di quel che fosse mestieri in tanta concitazione degli animi, vogliamo dire la rivoluzione di Spagna: la quale avendo prodotto conseguenze di così grande importanza anche all'Italia, richiede che da noi s'entri in qualche particolare sulla medesima. Quando nel 1808 ebbe Napoleone consumata l'usurpazione del trono di Carlo IV, gli Spagnuoli insorsero contro l'invasore a nome della religione, e della indipendenza del re e della patria, e colsero finalmente il premio, che mai non è negato dal cielo ai perseveranti nella difesa di una legittima causa. Ma in tutto il lungo tempo di quella lotta mancando la presenza del re, il popolo si trovò solo e in tutto abban donato a se stesso: e benché le diverse e slegate autorità, che allora sorsero.°perassero a nome del re, era evidente, che esse non tenevano da lui i loro poteri. Era naturale che in tanta libertà di azione, lo spirito filosofico del tempo, che già aveva penetrato anche in Spagna, non tardasse a mostrarsi nelle giunte e nei campi a congiungere al principio della indipendenza quello delle politiche libertà, che nelle tradizioni non ancora spente del paese trovava facile preparazione. Pertanto a lato ai Patriotti, che erano popolo e campagnuoli, mossi da fede nazionale e religiosa, sorsero i Liberali ritemprati alle idee rivoluzionarie; i quali, per meglio venire a capo del loro intento, cominciarono a proclamare il bisogno di un potere centrale, che solo regolasse le operazioni delle giunte disgregate e delle indipendenti guerriglie. E trentacinque deputati dell'alto ceto si eressero senz'altro in giunta sovrana adAranjuez: dove primeggiarono Floridabianca, già ministro della marina e Melchiorre di Jovellanos. Entrambi vecchi ed assennati. il primo però voleva, come già nel suo ministero, rinforzare l'autorità regia: l'altro, gran nemico alla depravazione della corte, che veramente aveva dato di sé nefando spettacolo, domandava due camere: dal quale dissenso derivarono lentezze e divisioni. Invasa frattanto l'Andalusia, dovettero essi ricoverarsi sull'isola di Leon nella baia di Cadice. Allora alla giunta centrale prevalendo le parziali, dal popolo sovrano si adunarono le cortes, dove nobili e clero sedettero senza distinzione, spiegando nella libertà l'eguaglianza cui li aveva ridotti la servitù. Pertanto il popolo, che più pareva in ritardo si trovò più libero di tutti, ponendo nella nazione la base di ogni autorità, e costituendosi potere sovrano finché fosse restituito Ferdinando VII, tenuta valida l'abdicazione di Carlo IV in favore del figlio. Poi nel 1812 si pubblicò l'atto della famosa costituzione, la quale si fondava sull'antico sistema patrio, e sulla necessità di difendere l'indipendenza nazionale in mancanza di re, e però liberalissima. Le basi erano le seguenti:

«La sovranità risiede nel popolo.

«La religione del regno è la cattolica apostolica, unica vera, esclusa ogni altra.

«ll governo è monarchico, diviso nelle tre potestà, legislativa, esecutiva e giudiziaria.

«Il re è inviolabile, ma gli è tolta la sanzione assoluta. «Una camera unica raccoglie i deputati della nazione.

«I deputati sono eletti da assemblee di provincia, composte di elettori nominati da assemblee di distretto, e queste di elettori nominati da assemblee di parrocchia. In queste ultime hanno voce tutti i cittadini. «Gli elettori di parrocchia devono avere venticinque anni compiti, come gli elettori di distretto. I deputati alle Cortes, o camera unica suddetta, debbono inoltre godere di un'annua rendita sufficiente.

«Ogni settantamila anime danno un deputato biennale alle Cortes, le quali siedono almeno tre mesi ogni anno, votano le imposte, propongono le leggi, che il re sanziona e fa eseguire: se per due anni ei ricusasse, la terza volta vi è obbligato.

«Competono al re la guerra e la pace, la nomina de' magistrati, de vescovi e benefiziati, de generali e comandanti militari; ma non può impedire, sospendere o sciogliere le Cortes, non uscire dal regno, non abdicare, non far alleanze o trattati con altre potenze, non mettere imposizioni senza assentimento delle Cortes.

«I pubblici funzionari sono nominati dalle Cortes.

«I militari hanno diritto di esaminare il proprio statuto e di proporne le modificazioni.

«La costituzione non può essere riveduta che col consentimento di tre legislature successive, e per decreto non sottoposto alla sanzione reale.

È facile il discernere, quanta imitazione forestiera i liberali innestavano alle patrie consuetudini, ma la massa della nazione non intese altro in tutto ciò che di opporre al dispotismo napoleonico un atto di popolare potenza, di opporre alla violenza di un uomo la volontà di tutti, sollevati per la religione, per l'indipendenza, pel re. Ciò solo era inteso dalle moltitudini, e perciò si combattà per questa costituzione: e comunque troppo liberale la credessero i forestieri, pure fu riconosciuta dall'Inghilterra, e dalla Russia, tanto per opporla alla Francia.

Quando Napoleone ridotto agli estremi, onde riavere le truppe occupate nella penisola, nel marzo del 1814, mise in libertà Ferdinando VII, questi ai confini del regno trovò le Cortes che gli rendevano la corona conquistata per lui e senza lui. Voi, gli soggiungevano, la dovete alla generosità dei vostri popoli. La nazione non mette alla vostra autorità altri limiti che quella costituzione, adottata dai vostri rappresentanti. Il dì che la trapasserete sarà rotto il patto solenne, che vi fece re.


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L'esultanza universale con cui egli fu accolto quasi rappresentante della nazionalità, non tolse che Ferdinando repugnasse da quella costituzione, e coll'editto di Valenza del quattro maggio, che divenne da poi così gran titolo contro di lui, la dichiarò attentato contro le prerogative del trono, commesso per colpevole abuso del nome della nazione.

Il popolo avea combattuto per la religione. per l'indipendenza, pel re: ottenuto il suo intento, più non avea che chiedere alla costituzione: onde bastò quel decreto ad abolirla, e Ferdinando avrebbe potuto regnare assoluto e benedetto, se non avesse cominciato invece una reazione vergognosa ed ingrata. Non che concedere i promessi miglioramenti, condanna a morte chi in scritti e in detti eccitasse ad osservare la costituzione; e spalleggiato dai despoti forestieri. imprigiona. relega, deporta e cassa il molto bene rimasto dall'amministrazione francese; perseguita pei fatti passati, ricusa la liquidazione del debito a quelli che la cercarono da un governo intruso, riduce a un terzo del valor nominale i boni dell'Inquisizione: sospende le nomine del prelati onde convertire le rendite del tempo intermediario alla estinzione del debito.

Le colonie americane. le quali sotto il governo costituzionale erano prosperate per l'abolizione degli ostacoli, che si frapponevano al loro libero commercio, repugnarono al ripristimato assolutismo, vollero mantenere la facoltà di conoscere dei pubblici affari. e fin dai primi momenti si disposero a quelle lotte, che dovevano terminarsi colla loro indipendenza. Ferdinando VII si delibera di combatterle, ma ottiene fin dal principio successi molto inferiori al desiderio ed alla espettativa: deliberato allora ad uno sforzo decisivo. raccoglie a Cadice un esercito, per tragittare il quale la patria di Cortez e di Pizzarro fu costretta a comprar navi dalla Russia.

Intanto il malcontento era cresciuto fra quelli che dell'aver pugnato pel re avevano avuto ricompensa di carcere e supplizi: e gli antichi liberali rannodavano le trame, però separati dal popolo (che poco o nulla li intendeva, o che non voleva sapere affatto di loro), e come congiura e fazione di cittadini, di militari, d'impiegati, scoppia finalmente nel gennaio del 1819 una cospirazione a Valenza: ma il generale Elio, che vi comanda, la reprime ferocemente. Se non che dallo esercito di Cadice disertano molti per mancanza di paghe e accolgonsi in guerriglie, mentre la peste desola l'Andalusia. L'esercito intero preparato per la spedizione d'America finalmente tutto si commove: il riflessivo Quiroga e l'impetuoso Riego si concertano: ma O'Donell conte d'Abisbal, comandante supremo della spedizione, e partecipe del secreto, li tradisce e nel luglio arresta Quiroga. Questi fugge, e Riego matura la insurrezione dell'esercito, il quale al di 1.° del 1820 proclama la costituzione del 1812. Finché il loro grido si estenda rinforzansi nella memore isola di Leon: e di là l'esercito nazionale annunzia che i re appartengono alle nazioni, non esse a loro.

I realisti marciano per reprimerli: ma Quiroga li previene assediando Cadice. Riego li affronta e con marcie prodigiose va diffondendo proclami: ma la nazione non risponde, talché egli è costretto a disperdere le truppe. Se non che il generale Mina, che aveva combattuto contro Napoleone, accorre di Francia.°ve esulava, raduna un esercito nazionale del nord per la causa liberale, e mette la Gallizia in fuoco. Ferdinando promette e chiede consigli liberi, sintomo di pericolo crescente e di paura: ma esita a concedere, finché estendendosi la rivolta fino alle porte di Madrid, il generale Balesteros lo induce a proclamare il di 7 marzo, che la volontà del popolo essendosi dichiarata in modo indubitabile, egli è deciso a giurare la costituzione del 1812.

A Madrid si raduna l'assemblea, che deve «rianimare una nazione agonizzante: riempiere un tesoro esausto: ricreare la marina annichilata: occuparsi dell'artigiano ridotto ozioso: del guerriero, che, a vergogna de' cittadini, tendendo la mano mostra le ferite ricevute per la loro indipendenza: dell'agricoltore, che, per mancanti comunicazioni. perisce di fame fra l'abbondante ricolto(61). »

Le principali elezioni cadono nel clero, nell'esercito e negli avvocati: nessun grande: vi primeggiano Martinez della Rosa poeta, Toreno dotto ed esperto politico: mentre fra gli estremi, infervorati di idee convenzionali, figurano Alpuento e Moreno. Vengono allora soppressi gli ordini religiosi, l'inquisizione, che Ferdinando aveva ristabilita la forca, la censura, i maggioraschi, le sostituzioni, ripristinate alcune imposte del napoleonide Giuseppe: trasformata in tassa civile la decima ecclesiastica. Così conservando originale la base della costituzione nelle applicazioni insinuavasi la fatale e non ancora cessata imitazione della Francia: e, ciò che è peggio, ogni cosa era fatta dall'esercito, o sotto la sua influenza.

Non tardarono dunque a venire urli e dagli ecclesiastici e dagli altri naturali nemici: Riego, che, a capo dell'esercito costituzionale e degli esaltati, facea da padrone è destituito. Quiroga sta pel re: sono chiusi i circoli avversi. sciolto l'esercito di Leon. tentato dai partigiani di Ferdinando di riconquistare il potere. I liberali allora reagiscono: richiamasi Riego al canto del Tragala perro(62): la società dei Comuneri si obbliga a punire chiunque abusi dell'autorità, fosse anche il re: potere esecutivo più robusto, perché nato nelle file dell'esercito.

L'esempio della Spagna non tardò guari ad essere seguito in Portogallo, sdegnato d'esser quasi provincia del Brasile, antica sua dipendenza, dove fino del 1807 s'era ritirato il 're Giovanni, padre di Don Pedro e di Don Michele. Ivi pure la congiura fu ordita e consumata dall'esercito. e il colonnello Bernardo Sepulveda invitò il 24 agosto 1820 in Oporto i soldati a sollevarsi pel diritto che hanno gli uomini di lottare contro la miseria. In un giorno la rivoluzione fu compiuta. La reggenza, che teneva le veci del re lontano, aderisce alle Cortes, che non aveano per se stesse nulla di repugnante alla monarchia. Ma presto, essendo proclamato il voto universale, furono portati alla camera uomini risoluti ed agitatori, che la costituzione mutarono in rivoluzione.

A questi annunzi anche il Brasile si scoteva, e a Bava proclamavasi la costituzione. Don Pedro persuase il re ad accettarla, ed egli, buon uomo, esclama: Perché non farmelo saper prima? ed è dai Negri portato in trionfo. Ma ben presto gl'istillano dubbi e sospetti, talché fugge in Europa. lasciando la difficile reggenza a Don Pedro, il quale è in breve condotto a dichiarare il Brasile indipendente: fatto che è rimasto definitivo(63).

Le insurrezioni della penisola Iberica onde ottenere un re costituzionale destarono un fremito d'imitazione per tutta Europa, e specialmente nel mezzogiorno d'Italia per la somiglianza di natura e di costumi tra i due paesi. E poiché avevano giurata la costituzione delle Cortes Ferdinando VII come re. e Ferdinando I come Infante di Spagna, e poco sangue e poche lacrime era costato quel rivolgimento, piacque il modo civile ai Napoletani, che nulla meglio seppero desiderare per esempio ed incitamento a conseguire il simigliante. Non mai tanto i carbonari si agitarono nelle adunanze, non mai tanto crebbero di numero e di mole; e vedendo che la riuscita dell'impresa stava nel consentimento dell'esercito, si volsero in tutti i modi. a convertire alla setta quanti uffiziali e soldati erano ancora inviti o ripugnanti. né il conseguimento di questo fine fu difficile agli infiniti ed audacissimi agitatori, dacché il vantato eroismo di Riego e di Quiroga aveva quasi sciolta la coscienza delle milizie dalla religione dei giuramenti, e mutato in virtù lo spergiuro.

Il moto di libertà fu così grande nel regno, che l'assopito ministero si riscosse; ma vista la congerie dei mali, e la difficoltà dei rimedi, ondeggiò lungo tempo tra il resistere e il cedere. Se proponeva di richiamare i Tedeschi, si offendeva il credito del ministro Medici, che poco innanzi aveva indotto il re a rinviarli dal regno: se concedeva la costituzione si offendeva l'Austria, e si mancava alla promessa confermata nel congresso di Vienna, di resistere all'invasione delle nuove idee, promessa non ha guari ripetuta in occasione della visita dell'imperatore. Fra le quali dubbietà peritandosi, tornavano i ministri all'antica scioperatezza: ma nuovi moti, nuovi gridi e maggiori pericoli vincendo la stemperata natura loro, e sforzandoli ad operare, stabilirono di provvedere con mezzano, e per ciò stesso inefficace temperamento, a rimuovere i pericoli con qualche concessione, che mentre offendesse il men che fosse possibile la sovrana prerogativa, velasse ad un tempo il mancamento delle promesse date nel congresso. E consisteva la meditata riforma nell'accrescere fino al numero di sessanta i membri del Consiglio di Cancelleria, ordinarli in due camere. dichiarare necessario per ogni atto legislativo il loro voto, far pubbliche le discussioni, ma sopra tutto operare siffatti cangiamenti senza solennità di legge e per quasi non avvertite ordinanze.

Ma sopravenne un nuovo caso ad arrestare ad un tratto le sollecitudini del governo. L'esercito napoletano, per le ragioni che or ora accenneremo, fu 'radunato a campo nelle pianure di Sessa esordiente la primavera del 1820, e il re vi si recò a permanenza. Rumoreggiava da lungo tempo il sospetto che quelle milizie. ad esempio delle spagnuole, fossero per iscuotere il freno dell'obbedienza ed imporre al governo una costituzione: ora il vederle, per comando e quasi a dispregio del pericolo. radunate, e tra quelle il re aggirarsi e permanere in aspetto di confidente e sicuro. fu creduto un atto di bello ardire e di ferma coscienza; sì che i settari e i malcontenti d'ogni maniera, che già erano sull'irrompere in atti di ribellione, tra per la meraviglia ed il timore, soprassederono alla esecuzione dei meditati disegni.

Qual poi si fosse il vero motivo della riunione di quel campo, la storia non ha ancora documenti bastevoli a dichiararlo. Fu opinione di molti che veramente si volesse dal re. col far prova di non temere i pericoli, incutere spavento nei novatori, e confermar le milizie nella religione del giuramento con quel franco abbandono, che sugli animi generosi è più possente d'ogni studiato artificio. Ma la natura assai ben nota del re e degli uomini, ai consigli dei quali ei maggiormente inclinava. male ci persuadono della bontà di questa opinione, e più presto incliniamo a ritener per vero il motivo. del quale dice il Colletta aveva avuta affermazione da altissimi personaggi. Che, cioè, nel congresso di Vienna, o in altra più recondita adunanza di potenti fosse stabilito che alla morte di Pio VII si dessero le Legazioni all'Austria e le Marche a Ferdinando: che frattanto si nascondesse al pontefice il proponimento, per non addolorare (dicevasi) la sua vecchiezza, ma invero per cogliere con più certo successo la Santa Sede mentre era vuota: e che per ciò in occasione della grave malattia nella quale versava allora il pontefice. si raccogliesse l'esercito napoletano per non soprassedere alla occupazione dove quegli fosse venuto a mancare. Corroborarono questa opinione due fatti di non leggiera gravità, l'invio di nuove schiere austriache a Ferrara contemporaneo alla sopraccennata circostanza della infermità di Pio VII, e, susseguente alla guarigione di lui, la fuga, con passaporto austriaco, di monsignor Pacca, governatore di Roma, non per causa di furto, come allora fu detto, ma piuttosto per complicità nella macchinazione di quello spoglio(64). E nulla proverebbe in contrario a questa opinione il non essersi altrimenti tentato lo smembramento dello stato ecclesiastico alla morte di Pio VII e de due primi suoi successori; potendosi facilmente inferire che le rivoluzioni del 1820 e l'incessante agitarsi dei popoli rannodassero più strettamente i monarchi alla Santa Sede. La surriferita opinione parrà ancora tanto meno inverosimile, dove il lettore si ritorni a memoria che nel 1814 l'Austria consentiva per trattato a Gioacchino la conquista e il possesso delle Marche, e che finalmente non senza lunga ed ostinata opposizione dette, non rese, le Legazioni a Pio VII.

Del resto, fossesi qualsivoglia la causa onde il campo di Sessa fu radunato due effetti egualmente gravi ne derivarono. Che se l'ardire, tal fu creduto, del re e l'insolita benignità mostrata in quell'incontro ai Murattiani, sospese per allora la esecuzione dei disegni già deliberati da molti, quella comunione di genti crebbe il numero dei settari, e tutti li legò di amicizia come di voto; talché se per lo innanzi tratteneva taluni il sospetto della fedeltà degli altri, dopo quel tempo anche questo freno scomparve. E d'altra parte il governo ingannato dall'apparente tranquillità di quella riunione, che molti, per il recente esempio dell'esercito spagnuolo raccolto in Cadice, avevano disapprovata come pericolosa, stimò non importare altrimenti le riforme, alle quali poc'anzi aveva volto il pensiero, e come sollevato da un grande affanno, ritornò alla consueta spensieratezza.

Il campo fu levato a mezzo il maggio del 1820, e già al finire dello stesso mese. succedendosi le novelle di Spagna, e gl'incitamenti dei settari, non che dell'altre parti d'Italia. di tutta l'Europa, i carbonari di Salerno. impazienti di più lunga aspettazione, detter voce e presero concerti per prorompere finalmente col grido di Costituzione. Ma come in opere di tal natura suole intervenire, che i più ricchi, e perciò più timidi, delle sette, i quali più per vezzo, o per tema di mancare di amici e di difensori nei giorni pericolosi, si avventurano in quelle compromissioni, nel momento ponderoso d'impugnarle armi, e di passare dagli oscuri recessi al pieno lume del giorno. sentono vacillare il cuore e la mano, e tentano con artifici e lusinghe di scongiurare il pericolo: così accadde fra i congiurati Salernitani, che mentre già eran dati gli appostamenti, e stabilito il modo e l'ora dell'irrompere, furono da taluni della fazione persuasi a sospendere le cominciate mosse e a revocare le già parteeipate disposizioni. Delle quali oscitanze fatto consapevole il governo, e per esse inanimito, pose la mano sopra di loro, e parte furono rinchiusi in carcere, parte sbanditi dal regno. Ma questa fu breve sosta al torrente, che impetuoso ingrossava, e che doveva tra breve rompere i deboli argini, che ancora lo contenevano.

Il quale avvenimento per avere nelle sue conseguenze più o meno prossime e manifeste, involte tutte le altre parti d'Italia, e per ciò stesso determinando una delle epoche principali del periodo di storia che abbiamo impreso a trattare, è necessario che prima da noi si discorrano le precedenti vicende degli altri stati della penisola, e si conduca la narrazione di quelle al punto stesso, al quale ora siam giunti col discorso delle cose napoletane.


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CRONACA ITALIANA LIBRO VI

SOMMARIO DEL LIBRO VI
Seguita la narrazione delle vicende italiane dal 1815 al 1820

– Considerazioni sulla restaurazione Piemontese. Nuova deliminazione di confini dalla parte di Francia. Ritorno degli oggetti d'arte da Parigi. Ripristinazione dei Conventi. I Tedeschi e gl'Inglesi sgombrano lo Stato. Decreto del 16 febbraio 1816 per la ripristinazione della leva militare, e per la formazione dell'esercito. Rinnovazione del vecchio cerimoniale di corte. Flagelli della fame, delle petecchie e dei lupi. Istituzione di un ministero di finanze, e liquidazione del debito pubblico. Riattivazione delle imposte indirette. Funesti effetti dell'editto del 20 maggio 1814, che dichiarava come non avvenute le leggi francesi. Biglietti regii. Proteste di Ferdinando Dal Pozzo. Mal animo della regina Maria Teresa. Dimissione del ministro degli esteri, Vallesa.

Ripristinazione dei maggiorascati e fidecommessi. Nuovo Concordato con Roma. I Gesuiti. Pubblico malcontento. Prospero Balbo chiamato al ministero dell'interno nel 1820. – Considerazioni generali sul Regno Lombardo-Veneto. Legislazione austriaca. Legge comunale: esame della medesima. Congregazioni Provinciali e Centrali. Errori dei Lombardi. L'imperatore a Milano nel 1816 e morte della imperatrice. Morte di Melzi duca di Lodi. Nomina dell'arciduca Ranieri a vicerè del Regno Lombardo-Veneto. Sistemazione del debito pubblico: considerazioni a iò relative. Prime cospirazioni. Porro e Confalonieri. Processo e condanna dei Carbonari del Polesine nel 1819. – Considerazioni sulla restaurazione Pontificia. Moto-proprio del 6 luglio 1816 pel general governo dello Stato: come fosse eseguito. Censimento dello Stato: Sètte liberali. Cospirazione di Macerata del giugno 1817. Sètte antiliberali. – La Toscana, Lucca, Parma e Modena dal 1815 al 1820.

più ignoranza delle cose di stato, non fosse nel governo napoletano:perché la classe elevata che nella restaurazione era naturalmente promossa ai primi incarichi del regno, si trovava in Piemonte in condizione intellettuale più sfavorevole che in ogni altra parte d’Italia; non certo per naturale difetto, ma per una peculiare condizione, che qui è necessario avvertire onde non s’abbia a cadere in giudizi spropositati e perniciosi.

Sul finire del secolo decorso tutti i governi delle altre parti d'Italia avevano già abbattuti i resti di feodalismo, che ancora vi si trovavano in piedi; onde all'irrompere della rivoluzione i nobili non ebbero a risentirne, come tali, danni ed offese particolari: quindi più facilmente poterono accomodarvisi e prestarsi a servire i governi che ne derivarono: e infiniti di loro si distinsero nei pubblici incarichi così delle repubbliche che della monarchia Napoleonica. Ben altrimenti passò la cosa in Piemonte, dove essendo a quell'epoca ancor viva molta parte dei diritti feodali, la casta privilegiata vide nella rivoluzione trionfante la sola causa del proprio abbattimento, e si accese di un odio inestinguibile contro tutte le innovazioni, che ne furono la conseguenza. La combattè da prima coll'ar mi, e quando queste le tornarono vane, credette vendicarsene col tenersi affatto in disparte. E se alcuni giovani di quella casta, che pur ve ne furono vinti con buoni studi i pregiudizi di una gretta educazione, accettarono uffici sotto l'Impero, i puri aristocratici quasi li rinnegarono considerandoli come apostati della santa causa. È quindi facile immaginare come al cadere della dominazione francese si gettassero a occhi bendati nella reazione, e v incitassero il re, che pur troppo condivideva le antipatie e i pregiudizi di quelli.

Vittorio Emanuele, che della rivoluzione non aveva veduta se non la fase peggiore, cioè il cominciamento, che lo cacciava di seggio. vissuto lunghi anni nell'isola di Sardegna fra un circolo di leali ma così appassionati servitori come abbiam detto, i quali in tutto il tempo della fortuna Napoleonica altro non fecero che rappresentargli lo stato della patria sotto colori assai più tristi del vero, e predicare per unico rimedio la ripristinazione di tutto ciò che era in piedi al partir loro dal regno: credette in buona fede che i suoi popoli dovessero sentire e pensare in egual modo, e nel ripatriare si persuase di non poterli meglio soddisfare che ritornando in tutto all'antico, e cancellando senza riguardo veruno quanto di nuovo era stato introdotto dalla rivoluzione e dall'Impero. Fu errore di mente e non di cuore: non libidine sfrenata di autorità, ma convinzione di debole intelletto: e ciò è tanto vero, che sebbene ne derivassero male contentezze e tentativi di novità, fu sempre con rispetto alla famiglia regnante: rispetto radicato nelle opere gloriose della sua lunga esistenza e nella riconosciuta lealtà delle intenzioni. Ma prima di seguitare in quest'ordine di considerazioni, che non è senza importanza a chi ripensi essere la piemontese l'unica dinastia veramente nazionale, che oggi imperi in Italia, seguitiamo la narrazione dei fatti.

La circoscrizione de confini, stabilita nell'atto finale del Congresso di Vienna, lasciava, come abbiamo veduto(65), smembrata la Savoja di Chamberv e di Annecv e d'altre frazioni di territorio con egual dolore del re e di quelle fedeli popolazioni. A ciò fu provveduto col secondo trattato di Parigi sottoscritto a 20 di novembre del 1815, pel quale fu stabilito che, dalle frontiere del cantone di Ginevra fino al Mediterraneo, la linea di confine tra la Francia e i domini della Casa di Savoja tornasse quale era nel 1790, e che le correlazioni determinate nel primo trattato di Parigi tra la Francia e il Principato di Monaco, s'intendessero invece stabilite fra questo e il re di Sardegna(66). Per lo stesso trattato, che gravava i Francesi di un'imposta di settecento milioni di franchi a titolo d'indennità verso l'Europa, il re di Sardegna n ebbe dieci con obbligo d'impiegarli ad afforzare le sue frontiere, secondo il disegno dagli alleati trasmesso; e di qui ebbe origine la riedificazione della fortezza di Exilles, e la costruzione del nuovo propugnacolo di Lesseillon. Ebbe altresì la Sardegna venticinque milioni di franchi, come parte a lei spettante sopra gli altri dugento quaranta imposti alla Francia per soddisfazione di crediti privati: per il ripartimento della qual somma fu instituita in Piemonte una commissione di liquidazione, del cui operato giustizia vuol che si dica, che non ebbero i creditori a rimaner gran fatto contenti.

Il 1815. che avea restituita al Piemonte la sua indipendenza, sebbene a prezzo di molti altri vantaggi, che non potè così presto recuperare, si chiuse con due fatti, che suscitarono impressioni diverse nella nazione. L'uno fu il ritorno dei monumenti d'arte, che la vittoria aveva dal Piemonte portati in terra straniera; onde l'università di Torino riebbe le statue egizie, la tavola Isiaca, il codice di Firmiano Lattanzio. i manoscritti di Pietro Goffredi ed altri rari documenti; e le gallerie, molti dipinti di Wamdick, di Potter, dell'Albano, del Gaudenzio: e sarebbe anche ritornata la famosa tavola della Idropica, se il re, con tratto d'insigne buona fede, non avesse dichiarato, che di quel capolavoro faceva dono suo padre a un generale francese. L'altro fu la ricomparsa dei frati, sbanditi ed aboliti da tre lustri. Primi furono i Cappuccini, ai quali, poco stante, tennero dietro i Barnabiti, i Filippini, i Minori Riformati, i Camaldolesi, gli Scolopi, e più tardi i Gesuiti: tutti insieme nuova e formidabile potenza, che veniva ad avvalorare il fatto e gl'intendimenti della restaurazione.

Fu sempre pensiero dominante della famiglia di Savoja la dignità e l'indipendenza dello Stato; né si smentì in Vittorio Emanuele, una delle precipue cure del quale fu di sgomberare il regno dalle truppe alleate: e nel febbraio del 1816 gl'Inglesi lasciarono Genova, e i Tedeschi Alessandria nel 51 marzo. Alla qual'opera associò quella della riforma dell'esercito, affidandola al marchese di San Marzano, che fu chiamato al ministero della guerra con generale soddisfazione, siccome quegli che della sua idoneità aveva date luminose riprove, e ricevutone attestazioni irrepugnabili dallo stesso imperatore Napoleone. Il concetto di Vittorio Emanuele fu di avere un esercito di sessanta mila uomini per le occasioni di guerra, dei quali una terza parte soltanto fosse costantemente sotto le armi. Ma senza coscrizione era vano il pensare di conseguir questo fine, e allora chiaramente s'avvide dell'errore di averla, nel suo ritorno, abolita, e gli fu forza ripristinarla con decreto del 16 febbraio 1816, nel cui preambolo cercò di scusarsi allegando la necessità di quelle modificazioni, che il progredir del tempo ed il variar degli eventi sempre imprime alle generali abitudini e costumanze. Il principal nucleo fu di vecchi soldati ed ufficiali, che il re aveva portati seco dalla Sardegna. Solo più tardi cessò la stolta esclusione di quelli che avevano combattuto sotto Napoleone. E questo fu grave ostacolo al compimento dei disegni del San Marzano, che altri pure ne incontrò nelle strettezze dell'erario, specialmente per provvedere al materiale dell'esercito: tuttavia a lui debbesi d'aver posto la prima pietra del nuovo edifizio militare del regno.

Non fu egualmente bene accolta la ripristinazione di tutto il vecchio cerimoniale di corte, e delle viete distinzioni da nobili a cittadini, che gli emigrati specialmente riconducevano, e che tanto più apparivano ridicole, quanto più contrastavano colle idee e coi costumi, nei quali s'era nutrita la nuova generazione: e se non produssero fin da prima peggiore effetto, ciò debbesi alla naturale temperanza dei Piemontesi, e dicasi pur anche all'onestà di quei nobili, che correggevano in parte l'odiosità delle forme con vere e sode virtù(67).

La fame, che afflisse nei primi anni della restaurazione l'Italia, non tardò ad infierire anche in Piemonte, il quale allora sottostava a un altro non leggiero flagello, quello di numerosi branchi di lupi, che spargevano lo spavento nelle campagne.

Quanto alla fame, conseguenza in parte dell'inclemenza delle stagioni, in parte della cattiva amministrazione, si richiamarono qui pure i provvedimenti contro i monopolisti, si impedì l'estrazione delle granaglie, si accrebbero le pene contro i magazzinieri, che fedelmente non le consegnassero, e in fine fu ricorso all'espediente di far venire provigioni dall'estero. Ma le finanze erano esauste: i dazii e le gabelle, per la pessima ordinazione del Bellosio, fruttavano poco: i tributi, in causa della pubblica miseria, si esigevano con difficoltà; e il governo si vedeva obbligato di tratto in tratto a farsi mutuare notevoli somme da qualche negoziante torinese, specialmente dal banchiere Nigra, il quale, dopo avere sborsati quattrocento e più mila franchi, chiudeva pur egli i suoi scrigni. Fu allora pensato ad un imprestito volontario di sei milioni di franchi da conseguirsi per mezzo di azioni di cinquecento lire ciascuna. Ma la prontezza degli offerenti non rispondendo all'urgente necessità, con editto del 51 decembre il prestito fu dichiarato obbligatorio. Gl'impiegati civili e militari, i negozianti, gli affittuari, gli ebrei, le amministrazioni civiche e comunali, i proprietarii, tutti dovettero imprestare al governo.

Questi ed altri temperamenti però a poco valsero, e la carestia durò ancora tutto il 1817 avendo per ausiliario il tifo petecchiale che menò grandissima strage. Quanto al flagello dei lupi, che si protrasse per altri due anni, fu così gran cosa, e proveniente da errore di governo, che non può preterirsi in queste storie. Nei distretti della Svizzera confinanti col Piemonte, e specialmente nel Vallese e nel Ticino. si ordinava una caccia generale contro i lupi, non senza farne prima avvertita la segreteria Piemontese degli affari esteri, acciocché si prendessero le opportune precauzioni. Ma il conte Vallesa. più intento a guardare lo stato dai giacobini che dalle fiere, lasciò in dimenticanza l'avvertimento delle Elvetiche autorità.°nde fu tutto a un tratto invaso il Piemonte da quei feroci ospiti della Svizzera, che diedero assai fastidi e sparsero molto sangue prima di venire distrutti(68). La condonazione delle imposte indirette, fatta nel primo rientrare di Vittorio Emanuele sì per odio della amministrazione francese, che per rendersi le popolazioni benevole; la carestia, le spese che conseguitano sempre ad ogni restaurazione, e il poco ingegno dei primi amministratori, avevano in breve ridotto così povero il regio erario, così oppresso dai debiti lo stato, che il re fu consigliato a provvedervi colla istituzione di un ministero delle finanze, e colla nomina di un adeguato ministro, che fu il marchese Gian Carlo Brignole di

Vol. I. 66 Genova, il quale si pose all'opera con grandissima alacrità, e le finanze furono da lui per la prima volta veramente or dinate. Ma non può passarsi senza biasimo l'artificio col quale egli sgravò l'erario di uno dei più molesti carichi, qual era quello dei creditori dello Stato. Instituì da prima una Giunta provvisoria di classificazione e liquidazione del debito dello Stato per far constare, diceva egli, «della entità del suddetto debito, e adottare in seguito proporzionali mezzi di farvi fronte, conciliando nei modi più adattati alle circostanze le sollecitudini di providenza da esse reclamate cogli impegni del regio erario(69). Col pretesto frattanto di accertare il debito, cominciò il nuovo finanziere a sospendere tutti i pagamenti; onde non tardò guari a sorgere nelle menti il sospetto, che si volesse dichiarare un pubblico fallimento. Il Brignole si adoperò in ogni modo ad avvalorare questo dubbio, e i titoli di credito pubblico caddero ben presto di valore: ognuno cercò di vendere a qualunque prezzo, e il ministro, per mezzo di secreti agenti, fece secretamente comprare. Quando questi raggiri furono consumati, il Brignole dichiarò aperte le casse della finanza per soddisfare i creditori; e i crediti si tro varono quasi tutti acquistati dal regio erario.

Né ciò bastando alle imperiose necessità della nuova amministrazione, vennero richiamate in vigore le già abolite imposizioni indirette. Furono prime quelle sul sale e sul tabacco; successivamente comparvero tutte le altre, meno il diritto di patente e la contribuzione detta di porte e di finestre, le quali non dovevamo essere evocate che a giorni nostri, quando in mezzo a tanta declamazione dei conservatori (così chiamansi gli avversari della rivoluzione) contro il socialismo e il comunismo, i governi ne danno il più terribile esempio coll'assorbire poco a poco e farsi essi soli distributori di tutta la pubblica ricchezza.

Non era tuttavolta senza grande ripugnanza che Vittorio Emanuele si acconciava a qualche mutamento. Tenacissimo del passato, non senza grandi difficoltà si giungeva a fargli comprendere le incalzanti esigenze del presente. Il buon re si ostinava ad assicurare che le leggi del novantasette dovevano bastare a tutto. Ho dormito quindici anni, diceva egli: ora mi sono svegliato, e non ho che a ripigliare le cose del giorno avanti. A questo proposito corse voce di una acerba risposta dell'ambasciatore di Russia: il quale udendo un giorno ripetere al re il solito ritornello di avere dormito quindici anni. «Sire, gli replicò il diplomatico, ringraziamo il cielo che non abbia dormito anche l'imperatore di Russia, altrimenti Vostra Maestà correva gran rischio di non risvegliarsi sul trono. La risposta non piacque, ma si dovette avere per buona(70). »

Cominciarono frattanto a farsi manifesti i tristi effetti del famoso editto del 21 maggio 1814. che aboliva tutte le leggi e disposizioni emanate dopo il 25 giugno dell'anno 1800. I giureconsulti del regno assicuravano bensì, che il decreto non poteva avere effetto retroattivo, né essere applicato che a fatti posteriori alla sua promulgazione. Ma vedendosi popolati i tribunali di giudici nati per la più parte ad un tempo con quell'editto medesimo, e inspirati da sentimenti propri a tutt'altro che a temperarne le conseguenze, i nuovi possessori, gli emancipati per le leggi francesi, e un infinito numero di gente, che dalle leggi dell'Impero riconosceva la sua presente esistenza, vivevano in una trepidazione angosciosa. Non tardarono i fatti a giustificarla.

Instituivasi un famoso giudizio dinanzi al senato fra il padre e il figliuolo Todros. Pretendeva il primo che, sebbene il figliuol suo fosse divenuto padre di famiglia in virtù della passata legislazione, pel decreto del 21 maggio ricadesse sotto la patria potestà. Rispondeva il figliuolo, che mai può perdersi una qualità per legge acquistata: che le leggi francesi emanavano da potestà legalmente costituita e da tutta Europa riconosciuta: che finalmente, accogliendosi le ragioni del padre, si sarebbe, contro ogni principio di diritto, attribuita forza retroattiva all'editto, cosa mostruosa e certamente contraria alle intenzioni del legislatore. Ciò nonostante, il Senato giudicò che, per l'editto del 21 maggio 1814, il padre Todros recuperava la patria podestà sopra il figliuolo.

Il sacerdote Carlo Costa veniva evocato in giudizio dal suo fratello Teodoro. Sosteneva questi che Carlo non poteva ereditare, perché avesse anticamente appartenuto all'ordine monastico, e la legge regia proibisse ai frati di succedere.°pponeva il sacerdote essere stato restituito al secolo dalle leggi francesi, più frate non essere, non poterglisi quindi contendere la parte della paterna eredità. E il senato, con sentenza del 50 agosto 1816, dichiarava non poter succedere Carlo Costa, perché la legge francese non aveva potuto restituirlo al secolo.

I marchesi Dolceacqua. i quali avevano diritto negli scorsi tempi di costruire nel loro villaggio, ad esclusione di ogni altra persona. torchi da olio, traducevano in giudizio dinanzi alla regia camera Lodovico Tornatore. Giuseppe Cassini, Giuseppe Guasco e molti altri proprietari di torchi da olio in Dolceacqua, sotto il governo francese costrutti. E con sentenza del 4 gennaio 1817 la camera ordinava l'abbattimento dei torchi non feudali.

Contro quest'improba reazione alzò la voce Ferdinando dal Pozzo, quello stesso che in nome della corte d'appello, di cui era presidente. faceva udire in Genova decorose parole a Vittorio Emanuele. Deposto allora d'impiego, ritiravasi e taceva.

Ma quando vide i tribunali tradire così la propria missione, ruppe il silenzio e protestò in nome della patria e della legge. Sotto il nome di Avvocato Milanese, pubblicò in Lombardia un primo volume sopra varie quistioni politico-legali, nel quale, fondato sui più solenni principii di pubblico e civile diritto, dimostrava che le ragioni dai privati acquistate sotto il governo francese erano inviolabili, e che rompere non si potevamo senza grave misfatto. Prendendo in oltre per base il trattato di Parigi. invocando principalmente l'articolo 16, nel quale concedevasi intiera amnistia al passato, ed erano dichiarate inviolabili le persone e le sostanze: diceva che operare il contrario era lo stesso che violare i patti giurati dai monarchi. Poscia facendosi ad esaminare alcune sentenze dai tribunali pronunciate, ne svelava la illegalità, ne proclamava l'ingiustizia. In un secondo volume dirigeva i suoi ragionamenti contro le sentenze Todros, Costa e Dolceacqua superiormente riferite, e chiamando a rassegna i motivi stessi delle sentenze, notava i giudici colla taccia di prevaricatori. né agli stessi re vincitori risparmiava il Dal Pozzo i meritati rimproveri: «A che montano (scriveva) gli eserciti, a che le arche gravi d'oro detestato, a che un'ingannatrice diplomazia, a che giova tutto ciò per la felicità dei popoli? Libertà civile vuol essere, libero commercio, e lumi e scienze ed arti, ed ogni maniera insomma di larghi istituti, che congiungano fra loro gli abitanti di tutti i paesi, ed aprano e spianino vastissima carriera all'umano incivilimento. E la forza onnipotente del vero penetrava nei cuori, e gli abusi, condannati in faccia al mondo da quel generoso cittadino, cessarono.

Ma troppo ancora si richiedeva, troppe altre vittime bisognavano ancora per frenare tutti i corsi della mal acqua, che dilagava nella restaurazione. Quello che non si osò più di fare per interpretazione del decreto del 21 maggio, si tentò conseguire per via di regii biglietti sotto pretesto di grazia. E collegatisi a questo fine il conte Cerruti, presidente del Senato, e il conte Borgarelli, succeduto al Vidua nel ministero dell'interno, strapparono a Vittorio Emanuele centinaia di regie patenti, colle quali si circoscrissero contratti, s'infransero transazioni, si annullarono sentenze passate in giudicato, e si osò persino esonerare qualche nobile dal pagamento non tanto dei debiti quanto ancora degli interessi per molti anni(71). E senza enumerare infiniti privilegi di tal sorta conceduti già innanzi all'epoca della quale ora c'intratteniamo, ricorderemo tra i moltissimi i seguenti. Nel 25 febbraio 1816, il re autorizzò Stefano Malinverno di fare in giudizio qualunque genere di prova, derogando alle leggi del cessato codice in causa da quello dipendente; e in appresso autorizzò i suoi eredi a proporre in giudizio l'eccezione del non numerato denaro, nonostante la biennale prescrizione, derogando ad ogni legge contraria. Nel 19 aprile 1816 il re ordinava al Senato di Piemonte che, constandogli come al testamento del canonico Filippo Amedeo Millo, del 15 maggio 1808, altro non ostasse fuorché l'ommissione delle solennità prescritte dal Codice francese, quello fosse non ostante esecutorio, accordandone S. M. la convalidazione. Con altra lettera patente dello stesso giorno il re ordinò al Senato di giudicare di nuovo le vertenze fra Caterina Lind e Francesco Vassal, non ostante le sentenze della corte d'appello di Aiac, e di cassazione di Parigi.

A questa nuova illuvie di arbitrii e di illegalità tornò ad alzar la voce il Dal Pozzo: e in due altri volumi. nei quali alla dottrina del giureconsulto si accoppiava l'indipendenza del cittadino, avvertiva i Piemontesi dell'abisso in cui erano condotti, e il re delle enormità, che in suo nome si commettevano. Poi tornava ad accusare il governo Piemontese di tradire le disposizioni dei congressi di Vienna e di Parigi, e volgendo in fine direttamente il discorso a Vittorio Emanuele, gli parlava gravissime parole, e il consiglio di una liberale costituzione suonava intrepidamente sulle sue labbra.

«La saviezza di V. M. (diceva il Dal Pozzo) peserà se in sì scabrose materie, all'esempio di tanti potenti monarchi e dei suoi più remoti antenati, non le sarebbe più utile di circondarsi anche di deputati o rappresentanti del suo popolo, dal cui libero assenso, più ancora che dall'autorità, otterrebbe i più importanti, e i meglio ripartiti sacrifici, e dal cui aperto opinare conoscerebbe i pubblici bisogni, i voti de' suoi sudditi, e le migliori sorgenti della prosperità nazionale. »

Parve che questo libero linguaggio, che il re non volle punire, malgrado le suggestioni dei consiglieri, conseguisse in parte il suo fine, giacché con regio atto del 6 ottobre 1816 fu dichiarato, che nessuna delegazione sarebbe più accordata sul ricorso di un solo degli interessati; che molto difficilmente, e non senza efficacissimi documenti, si sarebbero concedute restituzioni in tempo, e che verrebbero indistintamente rigettate le domande di dilazioni al pagamento delle somme dovute in dipendenza di titoli chiari e di emanate sentenze. Ma pochi mesi trascorsero, e le delegazioni, e le restituzioni in tempo, e le dilazioni al pagamento dei debiti si moltiplicarono più che mai.

A questi un nuovo scandalo s'aggiunse, che commosse profondamente gli animi per la natura del personaggio da cui partiva. Era notorio che la regina cumulava immense ricchezze e facevale sparire dallo stato trasportandole nella banca di Vienna. Parve grave il caso al barone Valesa, ministro degli affari esteri, il quale da prima ne parlò in secreto al re, ed appresso osò farne motto anche in cospetto della regina. Non avvezza alle osservazioni, chiedeva alteramente l'austriaca principessa se un ministro avesse a dar conto delle proprie azioni ad altri che al suo principe. «Sì, rispondeva il Valesa. dee render conto delle sue azioni prima alla sua coscienza, poi al suo paese e finalmente alla storia. Replicava Maria Teresa: «Voi date troppa importanza all'ufficio vostro: per me un ministro non è altro che un servitore(72). »

A queste parole il barone pigliava commiato e si ritirava dal ministero. Disamato fino allora il Valesa. malgrado la sua fama d'integrità, perché riconosciuto partigiano del passato, e ripugnante ad ogni forma di libero governo, divenne da quel giorno argomento di pubblica ammirazione.

Questo avvenimento funestò l'onesto animo del re, ma non valse a sottrarlo dalle influenze che lo dominavano tanto più facilmente, quanto maggiore era la sua naturale disposizione a ricercar nel passato la sola ed esclusiva regola del governare. A ciò fu dovuta in quel medesimo anno 1817 la ripristinazione dei maggioraschi e fidecommessi, aboliti già nel 1797 dallo stesso suo padre. Il motivo delle regie patenti del 18 novembre, che a ciò si riferivano, fu «di mantenere nel ceto che per propria istituzione sta più vicino al trono, e più specialmente vegliar deve alla sua difesa, quel lustro e quel retaggio di gloria, che forma la più nobile sua prerogativa. »

Fu gran ventura che a quel disposto succedesse una mitigazione, per la quale «la porzione dei beni vincolati non potesse eccedere il terzo del patrimonio per chi lasciava quattro figli o più. né la metà per chi ne lasciava meno di quattro(73).

Poco innanzi, il 15 luglio 1817, aveva il re concluso un concordato con Roma circa le cose ecclesiastiche ad effetto di distruggere quello già stabilito fra la medesima e Napoleone nel 1805, in virtù del quale le antiche diciassette diocesi di Piemonte erano state ridotte a otto. Pel nuovo concordato non solo furono restituite le già soppresse, ma vi fu aggiunta la nuova di Cuneo, eretta in metropolitana quella di Vercelli, e regolate le suffraganee in questa forma, che alla metropolitana di Torino appartenessero i vescovati d'Acqui, Asti, Ivrea, Mondovì, Saluzzo, Alba, Cuneo, Fossano, Pinerolo e Susa: a quella di Vercelli le diocesi di Alessandria, Biella, Casale. Novara e Vigevano: a quella di Genova, ora congiunta al regno, Brugnato, Sarzana e Luni unite, Savona e Noli unite, Albenga, Nizza. Tortona e Bobbio. Alla metropolitana di Chamberv, tornata alla casa di Savoia, fu sottoposta la sede vescovile d'Aosta per allora, e in seguito anche quella di Annecv, Tarantasia e San Giovanni di Moriana. Furono altresì colla medesima bolla ristabilite le due famose abbazzie di San Michele della Chiusa e di San Benigno di Fruttuaria: e più tardi conceduto al Piemonte un nunzio di primo grado, il quale non ne partisse che decorato della porpora.


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In fin che siamo sulle cose di chiesa, faremo memoria che, poco dopo la conclusione del concordato. penetrarono in Piemonte i Gesuiti, non da principio nella capitale, ma nella piccola e remota città di Novara. Esordirono con modeste apparenze. Pareva non avessero volontà alcuna di partecipare al pubblico insegnamento, e si contentarono di aprire quietamente un privato convitto di giovani alunni. Poco per volta da Novara si condussero a Voghera, a Nizza, a Aosta, a Chamberv, a Genova, e finalmente, e più che altrove, a Torino. Posto piede nella capitale, vi ottennero da prima il convitto del Carmine, poi il collegio di san Francesco di Paola, poi la chiesa de Santi Martiri, fino a che si resero dominatori assoluti della istruzione Piemontese, e non vi fu scolastica disciplina, che direttamente o indirettamente non cadesse nella loro dipendenza. Divenuti potenti in corte, lo spirito della loro istruzione si insinuò dalla reggia nella aristocrazia, dalle scuole primarie nelle università, dall'ordine amministrativo nel giudiziale, divennero (o fu creduto) la potenza dominante del Piemonte(74).

Per tutti gli atti, che abbiamo sin qui discorsi, cominciò gradatamente a mancare negli animi quella fiducia di quieto e onesto vivere, che erasi concepita al ritorno d'un'amata dinastia. ed ingrossavasi quel nucleo di malcontenti, che le esclusioni dagli impieghi e dalle onorificenze, il Carbonarismo, già da tempo introdotto anche in Piemonte, e i modi usati nell'annessione di Genova, avevano sin da principio costituito. Nella perseveranza del mal governo crebbero le dissidenze e i lamenti: dai circoli privati si produssero in pubblico: e non tardò guari a serpeggiare e farsi manifesto il voto di una Costituzione. Intorno al quale argomento non era però d'accordo tutta quanta la parte liberale, come lo era nel riprovare gli atti del governo e nel riconoscere la necessità di un riparo.°pinavano alcuni essere il paese immaturo alla Costituzione, né questa potersi applicare utilmente finché il regno non avesse allargati i suoi confini. Credevano questi, che l'Austria si sarebbe giovata di quelle istituzioni per gettare il Piemonte nella maggior confusione, e torgli quella forza di unità, che è necessaria ad uno stato, il quale miri a conquiste, come reputavano essere il fato del Regno Sardo. Ritenevano inoltre, che per la diversa proporzione dei due stati, il Piemonte non sarebbe riuscito giammai nelle sue mire (nelle quali pur tutti consideravano esser non tanto la fortuna quanto la conservazione del Regno) senza una politica accorta e silenziosa, la qual si rende impossibile in un paese governato da istituzioni rappresentative, e specialmente nuovo alle medesime. Gli amici della Costituzione, per lo contrario, riguardavano questa come mezzo efficacissimo per suscitare all'Austria interni imbarazzi, ed indebolirla col malcontento de' suoi popoli, i quali non potendo ottenere que miglioramenti (nella concessione dei quali l'Impero vederebbe la sua dissoluzione) avrebbero costan temente mirato ai loro bene avventurati vicini, e per tal mezzo sarebbesi più o meno lentamente compiuta l'emancipazione della Lombardia. Malgrado le accennate differenze intorno ai mezzi, in tutto questo partito liberale piemontese l'idea della nazionalità italiana primeggiava, e questa maggiormente offendeva le idee dei vecchi aristocratici, i quali del Piemonte facevano una cosa separata, per non dire una loro privata proprietà. Questi fin da principio videro di mal occhio i Genovesi, e quel ducato riguardarono come un acquisto, non come parte del vecchio regno. Il governo cercò bensì d'immedesimare quant'era possibile quei novelli sudditi coi vecchi: ma eguale resistenza trovò e nei richiami che quelli facevano al passato, e negli inveterati pregiudizi dei nobili piemontesi(75).

L'aumento dell'opposizione, e la confusione tuttavia crescente nello stato, persuasero infine il governo stesso, non che il re Vittorio, della necessità di recedere dall'intrapreso cammino. La promozione del conte Prospero Balbo al ministero dell'interno nel 1820, fu il segnale di questo cambiamento: fu la vittoria ottenuta dalla pubblica opinione. Ma come semipre interviene là dove gravi risoluzioni sono adottate non per effetto di vero ed intimo convincimento, ma per forza di circostanze, e quasi invito l'animo del concedente. il re non seppe o non volle convalidare quell'atto colle attestazioni di buon volere, che la malevolenza stessa de retrogradi gli offeriva opportune.

Intendeva, per una delle prime opere, il Balbo riformare la legislazione piemontese. Istituì a tale effetto una giunta, che per la qualità de' suoi membri toglieva ogni dubbio d'innovazioni pericolose. Ciò non pertanto la vecchia magistratura, non per timore di dispiacevoli effetti, ma per dispetto della popolarità del conte Balbo, fece pervenire al re per l'organo del conte Borgarelli, presidente del senato, un richiamo, nel quale si contenevano le seguenti smisurate espressioni: «Vostra Maestà degni ricordarsi, che le antiche leggi dello stato sono la salvaguardia della sua sicurezza e della sua gloria. Non permetta la Maestà Vostra che una mano imprudente le cangi. Le innovazioni sono sempre seguitate da grandi sventure. »

Dopo questa allocuzione, concertata, come fu universalmente creduto, colla stessa Maria Teresa, il re avrebbe dovuto rimuovere il presidente Borgarelli: ma non lo fece. Il Balbo e i membri della giunta avrebbero allora dovuto ritirarsi dai loro uffizi: ma non lo fecero. Così da una parte e dall'altra, ma con più colpa per quella del re, si mancò di dignità, e si tirò avanti nel sistema delle transazioni(76). Scusa il Balbo la ragione, ch'egli stesso soleva mettere innanzi, che l'abbandonar il posto era un lasciarlo aperto al nemico, e ch'egli soffriva onta per amore del pubblico bene, persuaso di potere col tempo venire a capo e della opposizione degli accaniti retrogradi e delle incertezze del re. Certo, l'integrità e l'ingegno suo potevano tornare di gran ristoro alla patria: ma il beneficio del tempo gli venne meno: chiamato agli affari quando già tutt'intorno rumoreggiava il tuono delle rivoluzioni, fu sopraffatto da queste prima che l'esperimento delle legali innovazioni potesse aver luogo.

Qui ci è forza soprassedere al racconto degli avvenimenti piemontesi, il progresso dei quali ha bisogno, per essere bene inteso, che prima si trascorrano quelli intervenuti nelle altre parti d'Italia durante il periodo fin qui discorso, e che si narrino i casi della rivoluzione napoletana, alla quale strettamente si collega e conseguita la piemontese. Con quest'ordine entriamo a parlare del Regno Lombardo-Veneto.

Abbiamo veduto a suo luogo(77) come gli errori stessi dei Lombardi spianassero all'Austria la via di condurre ad effetto i suoi cupidi disegni, e come alle sole fortuite circostanze del ritorno di Napoleone dall'Elba e della dichiarazione di guerra di Murat, dovesse il Lombardo-Veneto d'aver sfuggito il caso anche peggiore di venir governato a provincia, d'essere stato costituito in regno, e d'avere per tal modo serbato un'ombra di autonomia(78).

Superati quei nuovi ed inattesi pericoli, ogni industria dei nuovi dominanti fu posta ad eludere l'efficacia delle stesse, benché miti, concessioni, contenute nell'atto del 7 aprile 1815, e ad intedescare quanto più fosse possibile il nuovo regno. Sventuratamente in ciò li sovvennero gli stessi Lombardo-Veneti, parte accecati dall'odio, che fece loro preferire l'inerzia a quel poco d'azione, che consentiva la legge, parte illusi dalla fallace speranza che quell'ordine di cose fosse di sua natura transitorio, ed avesse di per se stesso da un giorno all'altro a crollare. Ma prima di passare alle prove di questa dolorosa asserzione, cominciamo dall'accennare le modificazioni legislative, che, in ordine allo stesso decreto del 7 aprile, ebbero luogo tra il finire del 1815 e il cominciar del 1816.

Dispose primieramente l'imperatore che, dal principio del detto anno, avesse forza di legge nel regno Lombardo-Veneto il codice dei delitti e delle pene, che dal 1804 era in vigore ne' suoi stati tedeschi. Fece però dichiarare che in questo regno «non avesse luogo la pena delle percosse, in vari paragrafi del codice medesimo disposta, ma fosse commutata coll'arresto. »

Applicò pure al nuovo regno il codice civile generale austriaco, che ne suoi stati di Germania aveva promulgato fino dal 1812, il quale, fra l'altre sue disposizioni, portava la facoltà d'instituire fidecommessi, che vennero per tal modo ristabiliti. Divise il regno in due governi generali, quello di Milano e quello di Venezia, distribuendo il primo in nove provincie. Milano, Mantova, Brescia, Cremona, Bergamo, Como, Sondrio, Pavia e Lodi, e restituendo la divisione già fatta del Veneto nel 1805 in sette provincie. Venezia, Udine. Treviso. Padova, Vicenza. Verona e Rovigo. Stabili in Milano ed in Venezia un tribunale di appello generale per le cause criminali, e in Verona un Senato o supremo tribunale di giustizia per l'attivazione del sistema giudiziario, e per la revisione delle cause del regno Lombardo-Veneto. Conservò il sistema d'ipoteche stabilito dal cessato governo, e finalmente colla patente del 12 febbraio 1816, istituì l'ordinamento dei comuni promesso nell'articolo 11 dell'editto del 7 aprile.

Tanto si è parlato fino a questi ultimi tempi della eccellenza della legislazione comunale austriaca, che non crediamo poter pretermettere qualche particolare considerazione intorno la medesima, che ne rilevi imparzialmente il bene e il male. Muove la legge dal principio che tutti gli oggetti risguardanti i comuni debbano essere trattati dagli stessi comunisti più interessati (possidenti e negozianti) riuniti, o tutti in persona, come nei convocati generali, o per mezzo di rappresentanti scelti fra loro, come nei consigli comunali. Questo principio è giusto perché il supremo potere domestico viene affidato in tal modo alla generalità di coloro, che devono anche sottostare agli aggravi, che ne derivano. La esecuzione degli ordini o misure adottate dai Convocati o Consigli, e l'ordinaria amministrazione è affidata a tre individui, chiamati deputati comunali, eccettuate le terre che hanno un podestà con assessori. Il principio di porre tre individui alla direzione di un eomune in luogo di un solo, come i podestà sotto il governo italico.° i sindaci in Piemonte e altrove, ha lo svantaggio di paralizzare ad un tempo l'attività e l'energia, che derivano dall'unità del comando, e di non conseguire né meno quanto il legislatore ripromettevasi dal sindacato reciproco: poiché avviene sempre che, o l'uno dei tre è di gran lunga più intelligente degli altri, ed allora la controlleria è nulla; od eglino si trovano in pari condizione, ed allora è quasi certa fra loro la poca armonia, il che ritorna sempre a danno del comune. Ma pur tuttavia concedendo che questa nostra opinione possa aversi per controversa. non è già in ciò che consiste il massimo difetto della patente, nè, come porta l'articolo 68. nel potersi eleggere deputati i pupilli, i minori ed anche gl'interdetti, salvo il dover essi farsi rappresentare da un procuratore od amministratore(79): sibbene nella mal definita assegnazione dei poteri, come ne fanno prova le numerosissime e pur tuttavia insufficienti disposizioni, che vennero emanate più tardi.

Nel mandare ad effetto la legge fondamentale divennero dunque necessarie molte interpretazioni: e queste poi si dovettero modificare, a seconda dell'attività, dell'ingegno e dell'indole di coloro che reggevano i comuni. E qui comincia quel fallo degli stessi Lombardo-Veneti, al quale poco sopra abbiamo fatto allusione. L'amministrazione dei comuni avrebbe dovuto formare la cura, il vanto, o anche, se si voglia. il passatempo delle persone colte ed agiate, siccome quella che non era retribuita da mercede, e che necessariamente cadeva in individui di tal qualità per disposto della legge, che prescrive doversi il primo magistrato scegliere fra i tre principali estimati del comune. L'opera loro sarebbe tornata più efficace e più santa di quegli stessi martiri, che tanti poi seppero degnamente sopportare nelle carceri e nell'esilio. Supponiamo un istante, che le persone più considerevoli ed agiate avessero compreso l'importanza di quell'ufficio, ed animate da vero amor di patria si fossero poste da per tutto a capo dei comuni. Chi può calcolare gli effetti, che in quel cerchio non solo ma sullo spirito generale della popolazione avrebbero potuto derivare? In quanto a noi non dubitiamo di affermare che ne sarebbe risultata tal forza, tale irresistibile potenza da ripromettersene i più felici risultamenti al regno ed all'Italia. né già intendiamo che quei deputati avessero dovuto adoperarsi a fini reconditi e politici: bastava solo che si fossero proposti il nobilissimo scopo di giovare ai comuni senza contravenire alla legge, anzi operando sempre in nome di quella: tutto il resto sarebbe venuto da se. Nello spettacolo di persone colte ed agiate, adoperantisi con attività e disinteresse pel comun bene, avrebbero i minori incominciato a riconoscere, che non è solo a fini di privata utilità che deve intendere il cittadino, ma al beneficio comune. Fattasi generale questa massima, alla quale così pochi dan fede, perché ne vedono tanto rari gli esempi, ben presto e senza accorgersene si sarebbe progredito di un altro passo. Non trascorre giorno che l'uno o l'altro degli abitanti di un comune non urti e non inciampi nel gineprajo intricatissimo delle leggi austriache.°ra in vedere come l'attività e lo zelo de' suoi immediati amministratori fosse stata impotente a sgrovigliar la matassa ed a cavarlo d'angoscia; in osservare come, anche in genere, gli sforzi per il pubblico bene vengono così spesso paralizzati dalle autorità superiori, quel terrazzano non avrebbe potuto a meno di cader poco a poco nel concetto della necessità di mutare sostanzialmente i sistemi. E fattosi una volta generale questo concetto, il governo si sarebbe da se stesso modificato, e il tremendo espediente delle rivoluzioni remosso.

Allegano taluni, ai quali questi rimproveri non sono nuovi, non essere già stato il timore di qualche sacrifizio, o mancanza di patriottismo, che abbia distolto le persone facoltose ed influenti dall'immischiarsi negli affari del comune, sibbene la ripugnanza di trovarsi in contatto cogli agenti dell'Austria, e il timore di non potersi adoperare utilmente come l'esigerebbe l'utile pubblico; per evitare in una parola i dispiaceri che fruttano sempre siffatti incarichi sotto una dominazione assoluta. Questi motivi potrebbero forse ritenersi per abbastanza plausibili. se l'ufficio di deputato avesse richiesto un domicilio obbligatorio, e che lo tenesse continuamente in contatto coll'autorità governativa: ma la legge è così lontana dal pretenderlo. che nei comuni dove si tiene un convocato generale, il primo deputato, qualora non risieda nello stesso comune, ha diritto di nominare qualcuno, che degnamente lo rappresenti. A questo dunque avrebb'egli potuto affidare il carico delle faccende più ingrate, riserbandosi la somma di quelle, che senza costringerlo a far le pugna colla legge o metterlo a rischio d'una disapprovazione, potevano dargli modo di giovare agli interessi materiali e morali de' suoi concittadini. Nei comuni stessi dove la legge non consente se non un consiglio comunale, ed obbliga il deputato a tenervi il suo domicilio, basta, per soddisfare a quest'obbligo, ch'egli sia inscritto nel ruolo della popolazione, né quindi gli è tolto di dividere il suo soggiorno fra il contado e la città. In questa anzi, se sede di una delegazione, sarebbe tornata sovente utilissima la sua presenza per sollecitare in voce quelle risoluzioni, che non sempre si ottengono per carteggi o per messi.

Né può asserirsi in discolpa dell'astinenza che condanniamo, che le facoltà accordate dalla legislazione austriaca ai comuni fossero in origine ristrette; che anzi offerivano largo campo a chi avesse voluto cavarne un opportuno partito. Ma l'ira e l'inerzia fatalmente prevalsero: e salvo poche onorevoli eccezioni, i comuni furono abbandonati dai loro naturali tutori. Queste sono vergogne nostre, che altri avrebbe voluto forse tacere; ma noi che ci siamo proposti di giudicare colla debita severità gli errori e le colpe dei governi, dovevamo, perché le nostre parole sortissero qualche efficacia, essere giusti con tutti.

Abbandonati i comuni da coloro, che dovevano darsene la più sollecita cura, essi caddero in balia delle autorità sovrastanti, cioè dei commissari distrettuali, il cui potere largo per legge, ma che poteva venir frenato dall'energia dei deputati, non ha fatto che ingrandirsi fin da principio, invadere le altrui attribuzioni ed arrogarsene delle nuove. Le disposizioni onerose, che oggi esistono a carico dei comuni, non esistevano in origine: furono introdotte a poco a poco quando si vide, che ciò poteva impunemente operarsi.

Per la medesima causa fu vulnerata l'efficacia delle Congregazioni Provinciali e Centrali, fondate così le une come le altre sulla elezione per parte dei consigli comunali. La congregazione provinciale rappresenta i comuni presso la delegazione, e la centrale rappresenta le provincie presso il governo. È ben vero ch'esse hanno per rispettivi lor capi, quella il delegato provinciale, questa il presidente del governo, cioè quelli stessi, che sovente esse dovrebbero sindacare, e i quali ponno in certa guisa eludere il voto puramente consultivo alle medesime concesso. Ma se la importanza di queste congregazioni non fosse stata vulnerata fin dall'origine, per l'abbandono in cui rimasero i comuni per parte delle persone che maggiormente avrebbero dovuto averli in cura, l'intervento di quelle sarebbe tornato di gran peso, per quanto fosse dalla legge ristretta la loro autorità: e ne avremo più innanzi una riprova, quando, spinte dal moto di tutt'Italia, quelle corporazioni cominciarono ad assumere un linguaggio, che avrebbe dovuto essere il loro fin da principio.

Tornando al filo della nostra cronaca, ricorderemo come tra il sinire del 1815 e il cominciar dell'anno susseguente l'imperatore percorresse le provincie del nuovo regno, e fosse necessitato a lasciare in Verona l'imperatrice Maria Luigia d'Este, inferma di etisia, la quale ivi passò di questa vita il giorno 7 di aprile, onde poi Francesco I devenne a quarte nozze colla principessa Carolina, figlia del re di Baviera(80). In questo medesimo anno 1816 terminò anche i suoi giorni Francesco Melzi d'Eril duca di Lodi. Era nato in Milano nel 1751 da nobili genitori, e aveva nutrita la sua gioventù con forti studj. Dal 1796 al 1814 fu chiamato ai più cospicui incarichi dai governi stabilitisi successivamente nella sua patria fino a quello di vice-presidente della Repubblica Italiana: moderato e benefico, li sostenne tutti con plauso universale. Un violento attacco di podagra lo tolse di vita in Milano il dì 16 di gennaio(81).

Due atti di ben diversa importanza segnarono l'anno 1818. L'uno fu la nomina dell'arciduca Ranieri, fratello dell'imperatore, a viceré del Regno Lombardo-Veneto: carico ch'egli tenne poi per trent'anni nella pura e semplice forma di macchina funzionante sotto la mano del gabinetto di Vienna. L'altro fu la sistemazione generale del debito pubblico, la quale sebbene concepita in vista di una giusta riparazione. sortì ad un fine tanto contrario pel modo col quale venne operata, che merita di essere con qualche particolarità riferita. Per le lunghe e ripetute guerre che tennero dietro allo scoppio della rivoluzione francese. e pel mal esito che v'ebbe l'Austria per sì lunghi anni, onde le sue finanze rimasero squilibrate come quelle di pressoché tutti gli stati d'Europa, dovette essa pure ricorrere, e ben presto in larghissima misura, alla emissione della carta monetata: la quale non tardò guari a subire la stessa sorte, che già erasi sperimentata in Francia nei primi tempi della rivoluzione, cioè un discredito sempre crescente. che da ultimo ne ridusse quasi a nulla il valore. Ne seguì in tutto l'Impero Austriaco un disordine, un incaglio in ogni contratto, in ogni affare così privato che pubblico, che a mala pena potrebb'esser descritto. Il governo volle porre un riparo a tanta pubblica calamità, e credette di conseguire il suo fine colla famosa patente del 12 febbraio 1811.

Alcuni passi di quella sono degni di particolare considerazione, e specialmente il paragrafo 24 ed ultimo, quello che determina la sorte dei creditori dello stato, il quale incomincia come segue: «Quantunque sia in nostro potere il dichiarare nullo in gran parte il capitale stesso del debito dello stato per gl'imbarazzi finanziari sopravenuti, e per i molti sacrifizi già fatti, pure non vogliamo servirci di questo mezzo ec. Così in vece di contentarsi di allegare a proprio discarico i tempi difficili e i molti danni sofferti, il monarca austriaco preferiva mettere in campo la sua illimitata autorità ed a norma di quella deliberare. Del resto la patente dichiarava in conclusione il fallimento dello stato, e statuiva che la carta monetata (conosciuta sotto il nome di cedole di banco, le quali nel 1798 valevano come denaro effettivo) fosse ridotta al quinto del suo valore. Così per pagare un debito di 20 fiorini di moneta effettiva occorrevano 100 fiorini di cedole di banco. come esigevano le contrattazioni d'allora e le successive; per le anteriori poi la patente portava una tabella, col corso di ogni anno e di ogni mese relativo alla carta monetata, e a seconda di quella potevano i contraenti soddisfare alle reciproche obbligazioni. Per semplificare poi quel sistema, si decretò ritirare tutta la carta monetata, ossia cedole di banco, poste in giro per l'enorme somma di 1. 060. 798,655 fiorini, e surrogarvi un'altra nella proporzione accennata del 20 per cento, con che la nuova carta doveva intendersi pareggiata alla moneta effettiva. Si denominò quest'ultimo trovato valute di Vienna, che dal 12 febbraio 1812 in poi dovevano esser messe in giro esclusivamente: si ordinò in pari tempo, sotto pena di nullità di contratto, che ogni stipulazione dovesse esser fatta in dette valute.

La medesima patente statuiva inoltre che dovessero tutte le rendite sullo Stato ridursi alla metà dell'antico importo, e tale metà si pagasse colla nuova carta di riscatto. Nessuno può idearsi gli aggiotaggi, i danni ed i rovesci di private fortune avvenuti in forza di tali disposizioni. Che il sovrano, nella impossibilità di soddisfare ai suoi impegni, stabilisse il modo più acconcio a sdchitarsi, ciascuno può comprenderlo: era il bisogno che gliene imponeva la necessità: ma voler obbligare i privati ad attenersi nelle libere contrattazioni ad una tariffa fissata anche per l'avvenire, senza ponderare che quella relazione fra il denaro e la carta monetata poteva ancora alterarsi era commettere una violenza, che doveva partorire i più mostruosi risultamenti; e ciò avvenne di fatto. Coloro che erano vincolati da contratti anteriori ne subirono le dure conseguenze con perdite assai maggiori di quelle limitate dalla legge; poiché mentre i creditori erano obbligati a chiamarsi soddisfatti di 100 fiorini effettivi con 500 fiorini di cedole di banco, come stabiliva la patente, i debitori in vece trovavano il cambio a proporzioni ben diverse. Chi poteva disporre di una somma in denaro effettivo, trovava non uno ma cento, che gli esibivano cedole di banco a proporzioni ben più vantaggiose, vale a dire che per cento fiorini se ne potevano ottenere settecento, ottocento, e nel 1811 vi fu perfino chi per cento ne ricevette mille, e mille duecento. Queste transazioni fatte su due piedi, e nelle quali ambe le parti erano egualmente interessate a tacere, non potevano per alcun modo esser colpite dalla legge, la quale non vincolava che i creditori.°nde avveniva, per esempio, che un debitore di 10 mila fiorini ef fettivi se ne procurava con 5 mila effettivi 50 mila in cedole di banco, e poi colla legge alla mano obbligava il suo creditore a riceverli in pagamento e saldo del suo conto di 10 mila fiorini, equiparato dalla legge a 50 mila. Se la legge non si fosse frapposta, debitore e creditore avrebbero convenuto nel valutare l'equa porzione fra la carta monetata e il denaro effettivo: e per quanti inconvenienti ne potessero succedere. essi non sarebbero stati da paragonarsi a quelli suscitati dalla legge, che dava l'armi in mano ai debitori, per cui innumerevoli famiglie perdettero capitali e sostanze.

La nuova carta di riscatto non tardò essa pure a subire le medesime vicende delle cedole di banco. Nel maggio del 1812, vale a dire tre mesi dopo che le valute di Vienna erano state messe in giro, il loro corso era già sceso a 180. cioè per avere 100 fiorini effettivi bisognava pagarne 180 in cedole di valuta di Vienna, quantunque la legge le avesse dichiarate pari in valore al contante: cosicché con cento fiorini in valuta di Vienna se ne potevano ricevere novecento in cedole di banco. Più tardi discese fino a 400, ultimo ribasso a cui soggiacque la carta monetata.

Qual fosse allora la condizione dei creditori verso lo Stato. gl'interessi dei quali erano stati ridotti dalla patente 12 febbraio 1811 alla metà, ossia per taluni al due e mezzo, per altri al 2 ed anche solo all'uno e mezzo per cento, portando l'antico debito dello stato diversi interessi del 3,4 e 5 per cento: qual fosse, dico, la condizione di tali creditori, che venivano pagati in valute di Vienna al corso primitivo, è facile indovinare. Una persona che avesse da prima impiegato 100 mila fiorini effettivi al 4 per cento, in luogo di 4 mila ne riceveva 2 mila in cedole di Vienna, che cambiate in effettivo re valevano 500, e così percepiva il mezzo per cento.

Ma finalmente l'orizzonte politico si rischiarò anche per l'Austria. Dopo tante ambascie e sconfitte, Francesco I si trovò per ultimo assai più potente di prima. Allora il monarca, me more dei giorni passati, pensò ad un atto di riparazione, usando di quella potenza istessa, in nome della quale avea parlato nei giorni dell'avversità. La patente 12 febbraio era stata uno degli atti più arditi e funesti del suo regno, e, quantunque perentoria ed assoluta, non aveva raggiunto lo scopo desiderato, come abbiamo dimostrato abbastanza più sopra. Stabilita e consolidata la pace, cessò pure la grande oscillazione nel debito pubblico, e si statuì un medio di 1 a 5 e un terzo, ovvero, per spiegarci più chiaramente. 100 fiorini effettivi si scambiarono facilmente con 555 in valuta di Vienna. Sarebbe stato preferibile che la proporzione si facesse in modo più preciso, ed il governo ne poteva assumere l'iniziativa per vie indirette. dandone primo l'esempio in tutti i contratti riscossioni e pagamenti co' suoi sudditi. Le circostanze allora favorevoli a tali negoziati avrebbero anch'esse agevolata la cosa. Ma Francesco I non si tenne pago di questo. e volle che i posseditori di quella carta provassero, alla lor volta, la fortuna seconda, e si risarcissero almeno in parte delle perdite sofferte nello scambio della carta monetata con denaro effettivo. Per una serie di operazioni finanziarie, la cui origine risale al 1 giugno 1816, e che ebbero compimento colla legge del 21 marzo 1818, portante il nuovo piano adottato per la conversione e riscatto del debito pubblico, la proporzione fra il denaro effettivo e la carta monetata divenne di 1 a 2 e mezzo, ossia il valore delle cedole viennesi si rialzò a tanto, che non occorrevano più 555 fiorini di tale valuta per riceverne 100 effettivi, ma soli 250. Voler dare un'idea di simili operazioni in vero complicatissime, senza entrare in lunghi e noiosi particolari. sarebbe quasi impossibile. Basterà accennare ch'esse si effettuarono mediante nuovi aggravi addossatisi dal governo, convertendo a suo debito con interesse la differenza fra il medio corrente e la nuova misura in vigore, per ciò che spetta alle valute di Vienna, a vantaggio degli ultimi possessori: onde venne ad aggravarsi il tesoro di un annuo pagamento in effettivo di 2. 458. 150 fiorini. rappresentanti come frutto di cinque per cento un capitale di quasi 246 milioni, senza che con tutto ciò cessasse dall'essere in corso un'ingente somma di carta monetata.

Fu questa la grande operazione finanziaria, ideata e condotta nella mira di fissare in modo stabile e definitivo il corso della carta monetata, non che di risarcire i detentori, che tanto aveano sofferto pella patente 1811; una di quelle idee, che nate nell'ebbrezza della vittoria, si accarezzano ravvisandole solo dal lato bello, lasciando poi che gli effetti ne dimostrino la vera loro natura. Riparare con provida legge ai danni cagionati era certo un'idea bella e lodevole. se la cosa fosse stata possibile; ma siccome prima, col volere il soverchio, non si ottennero che mali incalcolabili, così questa volta, per desiderio di ripararli, si falli di nuovo la meta, non solo aggravando il tesoro pubblico di un onere ingente, ma danneggiando quelli che si intendeva di beneficare, ed impinguando chi aveva piuttosto guadagnato che perduto per la patente del 1811. La gravità di questi asserti c'impone di mettere sott'occhio del lettore le prove.

Allorché cominciarono a girare le valute di Vienna, la speranza di un prossimo sollievo, il bisogno di supplire alla scarsezza del denaro con altri mezzi, e l'autorità della legge che prometteva non si sarebbe più cangiato il loro identico valore. fecero sì ch'esse in sulle prime vennero accettate quasi senza sconto. Ma tostoché si vide essere lo stato impotente a mantenere le fatte promesse, e diffondersi nel pubblico ad ogni tratto nuova alluvione di carta monetata, la diffidenza subentrò alla fiducia, e tutti cercarono di disfarsi di valute effimere, scadenti e soggette a tanti ribassi e vicissitudini. Avvenne in Austria ciò che suole da per tutto intervenire quando le carte pubbliche sono nel massimo avvilimento, che cioè se ne concentri la maggior parte nelle mani dei banchieri ed agiotatori, che prevedono e talvolta fanno anche nascere crisi favorevoli, le quali, ancor che brevissime, bastano loro per realizzare immensi benefici a carico dell'universale. Quando apparvero le disposizioni di legge, che alzarono ad un tratto in modo così oneroso per lo stato il corso delle carte pubbliche. queste si trovavano in gran parte nelle mani di pochi. I cittadini di sostanze limitate se n'erano privati, per bisogno o per elezione, con una perdita della quale non avevano più a sperare compenso: i vantaggi che toccavano solo all'ultimo possessore, andaron perduti per quanti avevano maggiormente sofferto nelle crisi finanziarie: l'ideata riparazione non fece che impinguare chi era già ricco: e dice il Tegoborski(82) che più d'una gran casa di Vienna deve la sua fortuna a cotal genere di speculazioni.

Nè ciò basta. Abbiamo detto che quelli che s'intendeva di beneficare con questa misura. vennero invece aggravati. È facile la spiegazione di questo fatto. I veri perdenti erano tutti quelli che s'erano dovuti disfare della carta monetata a misura delle loro necessità. e non una né poche, ma insinite volte. per la continua circolazione di quei valori. Era questa la grande maggiorità dei sudditi dell'Impero, i quali non possedendo che punta o pochissima carta all'epoca del decreto del 21 marzo 1818, non risentivano nella così detta operazione riparatrice alcun vantaggio, ossivvero uno minimo e del tutto sproporzionato al danno ripetutamente sofferto. E siccome per quella operazione il tesoro assumeva un onere da doversi necessariamente soddisfare colle pubbliche imposte, il gran numero dei veri danneggiati si trovava condannato a contribuirvi a vantaggio dei pochi favoriti da quell'insana misura. Queste considerazioni derivano così facili e spontanee, che mal può credersi che non siano cadute in mente dei consiglieri di Francesco I: onde è più verosimile l'inferire che profittassero della onorevole intenzione dell'imperatore per fare il fatto proprio e non quello dei sudditi o dello stato. E osserva giustamente il sopracitato Tegoborski, che se il governo si fosse limitato ad impedire lo scredito crescente dei fondi pubblici, prendendo per base del rimborso e successiva estinzione il valor genuino al quale erano allora ridotti, un'annua somma di 14 a 15 milioni, fra interesse ed ammortizzazione, sarebbe stata più che sufficiente ad estinguere in trent'anni tutti i debiti dello stato. Ma questa sembra essere stata sin dal principio della sua restaurazione la condanna dell'Austria, di precipitare in un vortice di operazioni finanziarie così spaventevole che n'abbiano un giorno a derivare per lei peggiori effetti che dalle più ingrate combinazioni in cui la possono involgere i politici avvenimenti. né questa considerazione ci vien dettata dagli imbarazzi economici, nei quali possono averla involta questi ultimi anni di rivoluzioni e di guerre: ma sì dall'osservare come, malgrado le risorse sterminate di quell'impero. malgrado trenta anni di pace, il debito pubblico dell'Austria. liquidato nel 1818 in 500 milioni di fiorini fosse già cresciuto nel 1846 (epoca nella quale secondo il calcolo del Tegolorski avrebbe dovuto trovarsi estinto) fosse. dico, cresciuto a più di un miliardo. Le misure legislative ed economiche, delle quali abbiamo fatto discorso. i crescenti rigori della polizia, il continuo accrescimento degli impiegati austriaci, l'invio di là dall'Alpi delle truppe nazionali, il dolore della perduta indipendenza. della quale almeno serbava le apparenze l'antico regno d'Italia, vennero vie più sempre concitando gli spiriti di quei Lombardi, che nel 1814 avevano vagheggiato un ben altro avvenire per la lor patria. Insofferenti d'indugio, pretermettendo quei mezzi. che. come sopra abbiam detto, avrebbero in modo ben più efficace potuto spianar loro la via al conseguimento dell'alto fine che li moveva. illusi sugli ostacoli veri che era duopo di superare. si gettarono con più ardore che mai nelle congiure, capitanati da due uomini principali di Lombardia. il conte Luigi Porro Lambertenghi di Como. e il conte Federico Confalonieri di Milano.


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Giustizia vuole che si dica come anche per altri mezzi migliori tentassero di amicarsi e far convergere il pubblico a quel nobile scopo, al quale essi intensamente anelavano. Principale fra questi tentativi fu la istituzione del giornale letterario il Conciliatore, nato in casa Porro, essendone secretario Silvio Pellico e redattori i migliori ingegni di Lombardia. Sotto apparenza di comporre le accanite questioni dei Classici e dei Romantici, intese il Conciliatore ad erigersi in scuola di libertà. Il governo la chiamò congiura, e dopo avere inutilmente cercato di stancarne i redattori colle molestie censorie, finì per abolirlo a dirittura nel 1820 dopo due scarsi anni di travagliata esistenza.

Un secondo modo di educazione popolare tentarono: stabilire, cioè, una compagnia comica permanente in Milano da servire d'interprete ed alimento ad una nuova e nazionale letteratura drammatica: ma il governo non consenti. Per il commercio interno e limitrofo fu fatto costruire da Porro da Confalonieri e dal marchese Alessandro Visconti un vascello a vapore, che partiva di Pavia e toccava il Piemontese e il Parmigiano; e fu il primo che si vedesse nel regno. Porro fu anche il primo, che introducesse in Italia macchine per la illuminazione a gas, e desse occasione agli artefici lombardi di tentare la fonditura dei tubi. nel che in breve quelli di Lecco divennero eccellentissimi.

È noto di quale importanza sia per gl'italiani il prodotto dei lini e delle canape, e quale immenso beneficio sarebbe il trovato d'una macchina per la filanda. In Inghilterra, framezzo a molte tentate, una s'avvicinava più allo scopo, senza tuttavia completamente raggiungerlo. Confalonieri, non guardando alla forte spesa ne fece acquisto, confidando che per quella qualche ingegno sarebbe stato incitato ad opera, che più perfettamente conducesse all'intento. Importante quanto i lini e le canape a quei di Crema. è per le vallate di Brescia e di Bergamo il prodotto della seta. Molti filatoi furono instituiti con metodi che intendevano ad ottenere semplicità, prontezza. economia di spesa e abbondanza di prodotto. Gli sforzi del conte Porro conseguirono sopra tutti la palma, e la sua grandiosa filanda vinse per lungo tempo ogni concorrenza. Egli stesso inventò una macchina semplicissima per macerare le canape, che fu coronata dall'istituto di Milano. A vantaggio dell'industria vollero pure i conti Porro e Confalonieri insieme aprire un bazar, ma il governo nol consentì. Quanto alle belle arti, i migliori ingegni erano incoraggiati dai medesimi due: e da essi pur mossero le nazionali sottoscrizioni per fornire al Botta e al Grossi i mezzi e l'agio necessario a condurre quegli la sua continuazione del Guicciardini, questi il poema dei Crociati Lombardi. Giammai, può dirsi. in questa classica terra delle cospirazioni, sorsero più splendidi e virtuosi cospiratori dei due sunnominati: solo è da deplorare che la parte arcana delle loro opere prevalesse alla manifesta la pericolosa alla certa, la meno alla più utile. L'Austria, che tutto attentamente considerava e spiava, intese di dare un avvertimento sul principio del 1819 col mettere la mano sopra un nodo di Carbonari del Polesine, contro i quali la delazione l'aveva messa in possesso di prove irrepugnabili. Di quaranta e più inquisiti. tredici furono condannati a morte. ma graziati della vita dall'Imperatore, che commutò la pena in più o meno anni di carcere duro allo Spielberg. I nomi loro, da due in fuori che non abbiamo presenti, erano questi: Cecchetti di Fratta, dottor Caravieri di Crispino, conte Rinaldi di Bologna, marchese Canonici di Ferrara (questi due, possidenti sulla sinistra del Po), avvocato Foresti pretore a Crispino, avvocato Solera pretore sul lago Isèo. Munari di Calto, Bachiega di Gambarare. il sacerdote Fortini, Villa e il conte Oroboni, tutti tre della Fratta nel Polesine(83). Ma non per questo i congiurati lombardi si smarrirono: che anzi perseverando più che mai nei loro disegni, presero accordi coi settari delle altre parti d'Italia, e più specialmente si collegarono con quelli del Piemonte all'intento di pervenire di qua e di là dal Ticino ad una simultanea sollevazione. Delle quali colleganze e dei funesti risultamenti che ne conseguitarono, avremo a trattenerci più innanzi.

Ora passiamo a considerare lo Stato Pontificio durante questo medesimo periodo del 1815 al 1820.

Fin da quando le nuove idee cominciarono a pullulare in Europa, la romana curia alla quale mancò il senno ed il cuore di combatterne le intemperanze colle sole armi degne di quel conflitto. vide in ogni nuovo provvedimento civile un attentato alla sociale esistenza, e tutti indistintamente li condannò come opera di una perversa filosofia, come flagelli destinati da Dio a punizione della protervia degli uomini(84). Questi sentimenti l'accompagnarono nella sua restaurazione e lo stesso Pio VII e il cardinale Consalvi, temperanti per natura, educati alla scuola dell'avversità, osservatori ingegnosi e giudici abbastanza imparziali del bene e del male sorto dal grande cataclisma del 1789, rimasero soverchiati dalla cieca passione della casta restituita nell'antico potere, e fu lor tolto il provvedere ai nuovi bisogni coi meglio intesi temperamenti, che l'ingegno, l'esperienza ed il cuore li stimolavano ad adottare.

Ciò non pertanto ritardarono essi, fin che rimasero in vita, l'assoluto sconquasso, che incominciò a farsi manifesto alla lor morte, e la cui gravità da ciò stesso può misurarsi, che nulla valse a correggerlo la generosa volontà di un Pontesice, che non giustamente appone oggi alla sola intemperanza dei popoli la sua mala riuscita. Necessitato Pio VII a deliberare fra il desiderio proprio di mantenere il più che fosse possibile della amministrazione francese, e l'odio della corte a tutto quanto era stato introdotto dalla rivoluzione. emanò finalmente il moto-proprio del 6 luglio 1816, le cui principali disposizioni vogliono in questo luogo essere registrate. Stabilivasi in quello: «Lo Stato Ecclesiastico fosse diviso in diciannove delegazioni (cioè provincie) oltre la capitale cd i luoghi suburbani, alla medesima immediatamente soggetti. Le delegazioni fossero quindi suddivise in governi, e questi in comunità.

«Un prelato col titolo di Delegato presiedesse all'amministrazione di ogni delegazione, ed avesse presso di sé una congregazione governativa con voto consultivo. Destinandosi a qualche delegazione un cardinale, allora questa fosse denominata legazione(85).

«Confermarsi l'abolizione delle giurisdizioni baronali nelle provincie di secondo ricuperamento. Nelle altre in cui erano ristabilite. fosse in facoltà dei Baroni il rinunciarvi. conservando però il titolo onorifico. Quelli poi che le volessero conservare dovessero supplire a tutte le spese necessarie alla retta amministrazione della giustizia coll'approvazione della segreteria di stato. Rimanessero intanto nella loro integrità le giurisdizioni del cardinal decano in Ostia e Velletri, e del maggiordomo pontificio in Castel Gandolfo.

«Per la giustizia civile vi fosse in ogni governo un governatore, ed in ciascun capoluogo della delegazione un tribunale di prima istanza, che giudicasse collegialmente.

«Vi fossero poi quattro tribunali d'appello, uno in Bologna, uno in Macerata, e due in Roma; cioè gli antichi della Ruota e dell'Uditore della Camera.

«Rimanessero ferme le giurisdizioni degli Ordinari e dei tribunali ecclesiastici.

«In Roma si conservassero inoltre i tribunali del Campidoglio e della Camera.

«Una segnatura (cassazione) unica conoscesse della validità delle sentenze.

«Tutti i tribunali avessero l'obbligo di motivare le loro sentenze: l'uso della lingua italiana dovesse sostituirsi a quello della latina in tutti i tribunali non ecclesiastici.

«Essere abolita la tortura. Istituirsi il giudizio d'istruzione e l'avvocato dei poveri: ammettersi l'appello e il confronto dei testimoni davanti al giudice.

«Per avere poi un sistema di universale legislazione, tre Commissioni di cinque individui per ciascuna compilassero i Codici di giustizia civile, criminale e di commercio coi rispettivi di procedura.

«Quanto all'organizzazione comunale ammettersi un consiglio per deliberare, una magistratura per amministrare. Il consiglio essere più o meno numeroso secondo la classe della comune: per la prima volta i membri doversi scegliere dal delegato: quindi reclutarsi da se stesso il consiglio, sottoponendo la scelta alla approvazione del delegato. I membri potersi scegliere fra il clero, i possidenti, i letterati e i negozianti. La magistratura comporsi del gonfaloniere, di quattro o sei anziani e di un sindaco: la scelta di questi membri doversi fare dal delegato su tre liste presentategli dal consiglio, salva l'approvazione della segreteria di stato(86).

«Confermarsi l'abolizione del sidecommessi nelle provincie di secondo recuperamento. Nelle altre, in cui era rimasta sospesa, modificarsi in guisa, che restassero sciolti i beni, i quali sotto il cessato governo erano stati alienati, o erano passati ad altra persona per la morte del gravato. Per quei beni poi, che non avevano sofferto mutazione, che erano stabili ed ascendessero al valore di scudi quindicimila, restasse il vincolo fino alla quarta generazione(87).

«Potersi similmente istituire nuovi sidecommessi in beni stabili di un valore non minore di quindici mila scudi, pubblicamente divisati, e per la stessa durata di quattro generazioni.

«Le raccolte di statue e pitture potersi eziandio vincolare come aggiunte ai fidecommessi.

«Si compilasse un nuovo catasto regolato a misura ed a stima, con un modulo comune, in cui si avesse riguardo alla natura, alla bontà, alla posizione ed ai prodotti del suolo, come anche alle differenti specie di coltivazione e d'infortunj, ed a tutt'altro che dovea aversi in considerazione, acciò il censimento fosse dapertutto corrispondente alla forza intrinseca ed al valore reale dei fondi, Si deputasse per tale effetto una congregazione particolare.

«Ristabilirsi il bollo ed il registro, e mantenersi la conservazione delle ipoteche.

«Si liquidassero i residuali luoghi di monte (azioni di debito pubblico) alla ragione del quarto del loro valore originario, unitamente ai frutti, a tutto il precedente anno. Si formasse quindi un registro generale del debito pubblico, del quale si corrispondessero i frutti al cinque per cento. S'istituisse poi una cassa di ammortizzazione.

«Si sarebbero aggiunte nuove provvidenze per favorire le arti liberali, l'industria, l'agricoltura e il commercio(88). »

Tale fu l'insieme di quella legge organica, che, malgrado le sue imperfezioni, tendeva evidentemente a conciliare il passato col presente, l'antico sistema governativo colla organizzazione francese per quanto lo permettessero i tempi. Ma gli ostacoli alla stessa volontà del pontefice, che sopra abbiamo accennati, ne impedirono la piena e leale applicazione.

Le Commissioni incaricate della legislazione civile e criminale compilarono di fatto i loro codici, ma di questi fu solamente pubblicato, nel 1817. quello di procedura civile. Ed anche relativamente al medesimo fu dipoi dichiarato che «dovesse soltanto regolare il corso dei giudici nelle cause civili profane ad eccezione di quelle che, per ragione di materia o di persona, propriamente appartenessero al foro ecclesiastico, sulle quali restassero ferme le pratiche e le forme i vigenti nelle curie e nei tribunali ecclesiastici.(89)»

Si conobbe di poi coll'esperienza che questo codice era in diverse parti imperfetto, e si cercò di supplirvi con posteriori dichiarazioni. In quanto al codice di commercio nulla fu innovato fino al 1821: nel qual anno fu finalmente riconosciuto non potersi far opera migliore di quello del Regno Italico, rimasto in attività nelle provincie di seconda recupera, e che fu allora reso di nuovo generale per tutto lo Stato, non senza dichiarare peraltro che avesse a considerarsi come provvisorio ordinamento. Si formò il registro del debito pubblico, ma non si stabilì che assai più tardi la divisata cassa di ammortizzazione, la quale fu anche confiscata indi a poco, come a suo luogo vedremo. Similmente non comparvero mai le promesse provvidenze per favorire le arti liberali, l'industria, l'agricoltura ed il commercio.

Quei primi tempi furono tuttavia meno ingrati dei posteriori, siccome sopra abbiam detto. Le animosità si spiegarono con meno impeto, l'amministrazione fu più integra ed illuminata, le tasse meno gravose. L'amministrazione finanziera del cardinal Guerrieri Gonzaga fino al 1820 fu invano desiderata più tardi. L'operazione del censo farà sempre onore a quell'uomo, e per averla tentata, e per il modo imparziale col quale volle eseguirla; e gl'impedimenti suscitatigli, le lotte che ebbe a sostenere, le persecuzioni che ne soffrì rimarranno per una delle maggiori condanne della corte di Roma che sempre ciecamente si oppose a chiunque tentasse di spezzare la lancia contro abusi oramai intollerabili(90). In quel lavoro gigantesco il Guerrieri si valse dell'opera d'ingegneri stati al servizio del Regno Italico, combattendo arditamente le opposizioni, che per ciò gli venivano fatte. La sua amministrazione del tesoro fu così bilanciata, che nel 1819. non ostante le spese che ebbero luogo per il ricevimento dell'imperatore Francesco, non vi fu deficit(91). Fece guerra ostinata ai ladri, e n'ebbe l'odio dei dicasteri: ma gli rimane la gloria d'aver con senno e forte volontà tentata una grande riforma, sebbene impossibile a conseguirsi da un solo uomo senza l'aiuto di buone e fondamentali istituzioni.

La manifesta preponderanza, che la giovine curia, men buona assai della vecchia, andava guadagnando ogni giorno, accrebbe negli Stati Pontifici gli sdegni e i desideri di novità, che abbiam veduto serpeggiare in tutto il resto d'Italia, e specialmente nelle Legazioni e nelle Marche, dove il governo Italico, e le recenti speranze suscitate da Gioacchino, avevano maggiormente incaloriti gli animi e lasciate maggiori reminiscenze. Il carbonarismo fece proseliti infiniti fra quelle turbe di malcontenti, e non ostante che il papa avesse fulminata d'anatema la setta, i soci della medesima avevano mantenute e continuate le loro unioni, sebbene per intestine discordie o per escludere alcuni membri sospetti si fossero venute riformando sotto le diverse denominazioni di Guelfi, Fratelli seguaci, Protettori repubblicani, Adelfi, Soci della spilla nera, e più altre. Fu specialmente stabilito un consiglio centrale Guelfo in Bologna, e un'alta Vendita carbonara in Ancona, la quale cercando aiuto nel Bonapartismo, aveva ascritto ed elevato al supremo grado di Gran duce Luciano Bonaparte(92). I più impazienti fra questi congiurati delle Marche, credettero di potere utilmente profittare della grave malattia nella quale era incorso Pio VII nella primavera del 1817. Persuasi che fosse imminente la di lui morte, e mossi forse da quella stessa mano che abbiam veduto preparare per quell'evento una invasione napoletana nelle Marche, concertarono di unirsi armati in Macerata, opprimere la forza pubblica, liberare i carcerati abili alle armi, arrestare e spegnere, se occorresse, i principali nemici, e per mezzo di proclamazioni sollevare il popolo, già travagliato dalla carestia, e spingere la rivoluzione sino a Bologna. Dovevasi allora proclamare un governo libero ed indipendente per tutta l'Italia, escluso il Regno delle Due Sicilie(93), e crearne console un certo conte Cesare Gallo di Osimo. Ma Pio VII tornò in salute, e i Carbonari rimasero sconcertati. Nondimeno alcuni dei più avventati, mossi specialmente, come pare, da un Carletti, militare riposato, vollero tentare la sorte, e, sparse a tale effetto proclamazioni, concertarono di unirsi in Macerata nella notte seguente ai 24 di giugno. Recaronsi di fatti alcuni al convegno, ma in numero molto minore di quello che i capi avevano calcolato, essendo i più, nell'atto di venire all'esecuzione, rimasti spaventati dalla temerità dell'intrapresa. Accadde intanto che mentre si attendevano dai primi giunti altri soci, accostatisi taluni ad una sentinella pontificia, che vigilava presso le mura, al grido militare della medesima corrisposero con due colpi di fucile: accorsero al rumore i carabinieri, e i carbonari armati si dispersero. Ma poi caduti alcuni nelle mani della giustizia, e per fatto del costoro esame più altri, con tre sentenze proferite nel 1818 ne furono condannati tredici a morte, e ventidue alla galera per tempo diverso. Furono tra i primi un certo Papis romano, negoziante in Ancona, Gallo e Carletti di sopra nominati. Pio VII però commutò a tutti la pena di morte nella relegazione perpetua in un forte, e diminuì eziandio il tempo a quelli che erano stati condannati ai ferri.

Il mal successo della cospirazione di Macerata non valse però a fiaccare le speranze e a interrompere i disegni dei cospiratori: che anzi da ogni parte venivano loro nuovi incitamenti, ed essi da ogni parte con avidità ne cercavano. Tutta Europa, non che l'Italia, allora si agitava nelle sette, e sintomi tremendi venivano d'ora in ora a rivelarne l'esistenza. Così sotto il pugnale di Sand cadeva nel 1819 il tedesco Kotzebue per avere rivelati i misteri della BurfSchenschaft: così nel febbraio del 1820 sotto quello di Louvel cadeva il duca di Berrv, nel quale i settari francesi contavamo di spegnere la successione di quel ramo borbonico.

Tanto eran volti i tempi, di cui parliamo, alle sette, che questa maledizione era entrata perfino nell'animo degli stessi principi italiani, prova manifesta della vertigine, che tutti travolgeva.°gni retto senso era sparito: ognuna delle due parti intendeva non al beneficio comune, ma alla tirannica dominazione degli uni sugli altri. Così si invelenivano gli odi, si corrompevano le coscienze, si preparava l'abisso, sull'orlo del quale, popoli e principi, ci troviam tutti oggidì. Dei Calderari suscitati dalla corte di Napoli contro i Carbonari, abbiamo altrove discorso. Diremo ora come fino dal 1819 stesse la regia setta del Concistoro, instituita, a quanto pare. dai principi italiani non appartenenti a casa d'Austria, e rivolta a conservare e rendere maggiore la loro indipendenza da quella: onde può argomentarsi, che malgrado la loro piena cognizione delle mene dei Carbonari, si astenessero qualche tempo deliberatamente dall'opprimerli quanto potevano, nell'intento di valersi all'opportunità anche di loro. L'unico degli Austriaci incluso nella lega era l'ambizioso Francesco di Modena, che, per brama di più esteso dominio, vedremo a suo luogo involto in altre e più importanti cospirazioni(94). Il fine della setta era di giungere alla seguente nuova divisione dell'Italia: Gli Stati Pontifici si allargassero nel Polesine di Rovigo e in gran parte della Toscana. L'isola dell'Elba, le Marche e qualche altra provincia del papa fossero date al re di Napoli. Il duca di Modena avesse Parma, Piacenza, il Veneto e parte della Lombardia col sospirato titolo di re. Il resto della Lombardia, il Tirolo italiano, Massa, Carrara, Lucca ingrandissero i possedimenti del re di Sardegna. E per la protezione che questa setta, non che quella dei Carbonari, riceveva dalla Russia, la quale vagheggiando Costantinopoli voleva tener l'Austria occupata gravemente in queste faccende, ad essa Russia si offrissero per gratitudine della sua cooperazione o Ancona.° Civitavecchia o Genova(95). Ma l'Austria, o accortasi del pericolo, o mal sofferente il temuto ingrandimento dello Czar, unita all'Inghilterra, fece affrettare la pace di Adrianopoli, per la quale caddero molte speranze italiane, non che quelle del Concistoro. I Carbonari, su quali esso faceva fondamento come su eventuali alleati, tornarono nuovamente ad essere riguardati come nemici. Anzi abdicando allora i principi le idee ambiziose per quelle della propria difesa contro i novatori, e perseverando ad un tempo nella contratta natura di settari, formarono una setta novella, che chiamarono Cattolica Apostolica Società dei Sanfedisti, accomunando, a quanto pare, gli avanzi dei Concistoriali con un antico sodalizio politico-religioso esistente negli Stati Pontifici sotto il titolo di Pacifici o della Santa Unione, il quale aveva per motto il testo biblico: Beati pacifici quia filii Dei vocabuntur. L'ordinamento della nuova società fu eguale a quello della Carboneria: mistero e giuramento, la sua forza; scopo, l'esterminio dei liberali Massoni e Carbonari(96). Questa setta fu capitanata dall'Austria e dal papa, le due potenze più minacciate dai riformatori. Ciò abbiamo avvertitamente notato per rettificare le opinioni di taluni, che hanno ritenuto essere stata questa setta istituita tanto contro le insidie dei novatori, quanto contro quelle dell'Austria alla integrità degli Stati Pontifici(97). Lo che non è vero: lo scopo e i direttori del Sanfedismo erano quali noi abbiam detto. È bensì vero che la corte Romana, non tanto per un resto di tradizioni guelfe, quanto per naturale istinto della propria conservazione. ha sempre guardato con grande gelosia agli ambiziosi disegni del suo potente vicino, e che dove le venisse fatto di trovare una garanzia d'esistenza all'infuori del patronato dell'Austria, la vedrebbe volentieri andare a soqquadro: ma è questa direi quasi una eccezione al Sanfedismo nei soli alto locati della romana curia, che apparve e apparirà solamente quando fra i due pericoli quello dell'ambizione austriaca soverchi. L'intento generale del Sanfedismo fu la guerra ai principi liberali: questo fine gli rese non solo desiderabile, ma necessario il concorso dell'Austria, che fu dato ed accettato. Vedremo più innanzi le opere parallele delle due sette. Tale era dunque la preparazione degli animi anche nello Stato pontificio alla vigilia di quegli avvenimenti, che dovevano segnare in note di sangue l'epoca del 1820-21, cui si avvicina oramai il corso della nostra narrazione, alla quale manca soltanto il far parola dei minori principati italiani. I modi e la natura della restaurazione Toscana sono stati da noi esposti a suo luogo(98), e nessun atto importante, nessuna essenziale differenza sopravenne nei cinque primi anni che a quella conseguitarono, concorrendo la mite natura così del popolo come del principe a mantenere le delizie del quieto vivere, del pari a entrambi gradite(99). Crebbero le industrie, salì Livorno a un grado d'inaudita prosperità, si compì il bonificamento delle Chiane, provincia creata dalla sapienza idraulica del Fossombroni, che trasmutò quei pantani in amene e fertilissime campagne. Eravi sì un partito puramente retrogrado. il quale può dirsi fosse rappresentato dal principe Rospigliosi; e questo si trovò alle prese coi vecchi Leopoldini, coi nuovi Imperialisti e coi liberali d'ogni colore, che andavano pur sorgendo in Toscana, sebbene in forma più mansueta o vogliam dire più civile, che in ogni altra parte d'Italia. Ma questi ultimi, o più veramente i Leopoldini, che formavano il grosso della opposizione, riuscirono vincitori; e se per essi non furono temperate le forme assolute del governo, vennero almeno conservate alla Toscana le istituzioni di Pietro Leopoldo, e singolarmente le leggi giurisdizionali, il diritto di neutralità e la libertà del commercio. In tal modo il partito retrogrado, che rappresentava gl'interessi austriaci, restò vinto e vide i suoi disegni falliti. Il Principe stesso favorì sagacemente questa opposizione: retrocedendo, non aveva egli a combattere la sola opinione liberale, ma la memoria stessa del padre suo, che quanto ora lo proteggeva, altrettanto gli sarebbe ritornata fatale nel ripudiarne le opere. Comprese il Granduca perfettamente lo stato delle cose, e preferì una saggia e generosa politica ad un'insana e sempre pericolosa reazione.

Quello però che l'Austria non potè ottenere direttamente, cercò di conseguirlo per vie indirette, cogliendo ogni occasione di far sentire ai Toscani, che malgrado la mancanza di espliciti e consacrati diritti, essa li considerava pur sempre quasi appendice dell'Impero in virtù dei stretti vincoli di parentela, che univa il ramo primogenito di casa d'Austria al secondogenito di Toscana. Così nella spedizione contro Murat volle che alle sue armi si congiungessero quelle di Ferdinando III, al quale per qualche tempo derivarono da ciò tali odi, che, come poco sopra abbiamo accennato, nei disegni del Concistoro la dinastia Toscana era destinata a sparire dall'Italia cogli Austriaci, lasciando i suoi stati come materia di compensi per la novella ripartizione territoriale. Ma i ministri del Granduca si opposero mai sempre con vero e zelante patriottismo ai manifesti intendimenti dell'Austria. E se la piccolezza dello stato non permetteva di contrastare con aperta resistenza, più grande e benemerita deve considerarsi l'opera loro, e specialmente del Fossombroni, che per tanti anni resse la somma delle cose toscane; il quale non potendo ribattere i colpi del più forte, sempre cercò di scansarli, e di eludere coll'industria i pericoli. Vedremo a suo luogo come felicemente superasse il maggiore, che fino allora avesse da questa parte minacciato l'indipendenza della Toscana, nella occasione della morte di Ferdinando(100).

Così avess'egli provveduto con pari acume ai morali interessi dello stato, ch'egli, educato alla scuola degli enciclopedisti e dell'Impero, sacrificò in tutto al materiale progresso, dando così di buon'ora agli spiriti desiderosi di più nobili fini giustificato argomento d'intendervi per le medesime vie, nelle quali si camminava da tutto il resto d'Italia. Che se in Toscana la gentilezza del costume, e la pratica tolleranza del governo, esclusero per lungo tempo il pensiero di tentativi violenti, non pertanto qui pure l'opinion pubblica incominciò ad alienarsi dalle regioni governative, e a preparare di lunga mano i rivolgimenti, dei quali siamo stati a questi giorni testimoni.

Rimaneva ancora insoluta la questione di Parma e Lucca per le proteste della Spagna, da noi più addietro accennate(101), contro le relative stipulazioni del Congresso di Vienna. Fu solo dopo circa due anni, che piegandosi alla forza delle circostanze, riconobbe quella potenza le disposizioni del Congresso relative al ramo borbonico di Parma, e sottoscrisse in Parigi, il 10 giugno 1817, una convenzione, che dichiarava in sostanza: «Essersi riconosciuto che il motivo per cui la Spagna aveva differito la sua adesione ai trattati di Vienna e di Parigi del 1815 consisteva nel desiderio di veder fissata dal consenso unanime delle potenze interessate l'applicazione dell'articolo 99 dell'atto finale del Congresso di Vienna (nel quale si stabilì che Parma si possedesse dall'arciduchessa Maria Luigia, e poi se ne sarebbe determinato il regresso) e per conseguenza il regresso di Parma dopo la morte dell'arciduchessa Maria Luigia. Tale adesione poi essere necessaria per consolidare la tranquillità dell'Europa. Quindi convenirsi che lo stato del possesso attuale dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, come anche quello del principato di Lucca, restassero secondo la determinazione del Congresso di Vienna. Il regresso poi di questi ducati determinarsi in modo, che dopo la morte dell'Arciduchessa Maria Luigia, passassero in piena sovranità all'Infante di Spagna Maria Luigia, ed all'infante Carlo Lodovico suo figlio, e suoi discendenti maschi in linea diretta e mascolina. A tale epoca il regresso del principato di Lucca, contemplato nell'articolo 102 del Congresso di Vienna, avesse luogo a favore del granduca di Toscana. Sebbene poi le frontiere degli Stati Austriaci in Italia fossero determinate dalla linea del Po. tuttavia convenirsi di comune accordo che, la fortezza di Piacenza offrendo un interesse più particolare alla difesa di quelli, l'imperator d'Austria avrebbe conservato in questa città, sino all'epoca del regresso dopo la estinzione del ramo spagnuolo de Borboni, il diritto di presidio puro e semplice. In caso di estinzione del ramo dell'Infante Carlo Lodovico, il regresso essere mantenuto nei termini del trattato d'Acquisgrana del 1748 e dell'articolo separato del trattato tra l'Austria e la Sardegna dei 20 maggio 1815(102).

In forza di questa convenzione, nel giorno 22 di novembre del detto anno 1817, Lucca fu consegnata da un commissario austriaco ad un ministro spagnuolo incaricato della Infante Maria Luigia. E questa, che sino allora aveva dimorato in Roma, nel giorno 7 dicembre, entrò nel nuovo stato con gran gioia degli ecclesiastici, ai quali fu larga di grazie e di privilegi, intesa come era ad espiare devotamente negli anni maturi le letizie della sua gioventù(103).

Dal canto suo la vedova del vivente Napoleone sedeva sin dall'aprile del 1816 sul ducal seggio di Parma, dove non isdegnò di discendere dall'imperial trono di Francia, a piè del quale l'avevano inchinata i re d'Europa. Nel 22 giugno del 1818, il figliuol suo, salutato, nel nascere, erede del più potente trono della terra, riceveva dall'imperator d'Austria il titolo di duca di Reichstadt, perché non gli mancasse un nome col qual venire appellato. Nel 1820 promulgò la duchessa nuovi codici, civile e penale, coi loro rispettivi di procedura, e di più un altro criminale militare.

Nel codice civile dispose che «le liberalità per testamento non potranno oltrepassare due terzi de' beni del disponente, quando questi, morendo, lascia un figlio legittimo o naturale o legittimato; la metà, se ne lascia due o tre: un terzo quando ne lascia un numero maggiore. Non ostante potrà essere avvalorata da grazia del sovrano la disposizione, colla quale il testatore ordini all'erede o al legatario di conservare e rendere i beni ai figli e discendenti maschi per linea mascolina del medesimo erede o legatario, con ordine di primogenitura: potranno essere assoggettati a primogenitura soltanto i beni stabili, liberi da privilegio e da ipoteca, e di una rendita che non sia minore di lire nuove italiane (franchi) tremila: la sola porzione che la legge lascia a libera disposizione del testatore può assoggettarsi al vincolo di primogenitura. »

Francesco l'di Modena, dispotico e reazionario per istinto, governava frattanto in conformità di questa natura sua, mirabilmente accomodata agli intenti della restaurazione(104). Ma in lui potendo più ancora che l'amore dell'assoluto padroneggiare, l'ambizione di uscire da quel guscio di castagna (come dice il poeta) dove l'aveva costituito la sorte, non abborrì più tardi, come vedremo, dall'immischiarsi nelle sette e nei di segni dei liberali, quando la regia cospirazione del Concistoro venuta meno, non gli rimase altra via per tentar di riuscire alla soddisfazione delle sue cupide voglie. Forse era inganno reciproco, contando ciascuna delle due parti di cogliere un fortunato momento per poi disfarsi dell'altra: l'una espiò colla morte l'incerta colpa; l'altra, col giudizio impreteribile della storia. Ma di ciò basti per ora, non dovendosi anticipare la narrazione.

Frattanto, o fosse ciò effetto di natural cupidigia, o stimasse opportune le ricchezze al compimento degli ambiziosi disegni, fu sua cura precipua tesaurizzare ed accrescere il già pingue patrimonio di Casa d'Este(105). Al quale effetto egli intese non solo coi risparmi del principato, ma col commercio e coi traffichi, che, sotto altro nome, esercitò, così dentro i confini del suo dominio. , che fuori, dove buona occasione si presentasse, e persino sui mari nostri ed estranei. Ricco, despota ed ambizioso lo rivedremo più innanzi.


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CRONACA ITALIANA LIBRO VII

SOMMARIO DEL LIBRO VII
Rivoluzioni di Napoli e di Sicilia nel 1820-1821

– Insurrezione di Nola: Morelli, Silvati e Menichini. Marcia degli insorti verso Avellino. Adesione del tenente-colonnello De Conciliis. Giuramento dei Costituzionali in Avellino. Altre insurrezioni e defezioni di milizie regie. Timori del governo. Consiglio di Ministri. Consiglio di generali. Il generale Guglielmo Pepe è proposto al re per comprimere il movimento insurrezionale. Il re non lo consente e gli surroga il generale Carascosa. Sue vane trattative cogli insorti. Scontro infelice del general Campana coi medesimi. Il general Nunziante espone al re la necessità di accordare una costituzione. Defezione di Pepe e sua proclamazione dal campo di Monteforte. Il re si determina a promettere la costituzione: forma un nuovo ministero, e crea il duca di Calabria vicario generale del regno. I Carbonari di Napoli chiedono la costituzione delle Cortes di Spagna. Il Vicario tiene consiglio intorno a ciò: si delibera ad accettarla. Proclama del 7 luglio 1820. Imperioso messaggio del general Pepe al vicario. Sono aggiunti i colori della Carboneria alla bandiera borbonica. Il general Pepe nominato comandante generale di tutte le forze militari della monarchia. È instituita una giunta provvisoria di governo. Ingresso dei costituzionali in Napoli il 9 luglio. Presentazione di Pepe e degli altri capi della rivoluzione al vicario e al re. Il 13 luglio il re giura sui Santi Vangeli la costituzione delle Cortes. Ammutinamento del reggimento Francese. Il prezzo del sale diminuito. Liberati dal carcere quasi tutti i condannati. Incremento della Carboneria. Insurrezione separatista in Sicilia. Nuova formazione dell'esercito. Apertura del Parlamento il 1.° ottobre. Discorso del re. Pepe depone il comando. Manifesto della Giunta al parlamento. Rapporti dei ministri della giustizia, dell'interno, delle finanze, della marina e della guerra. Ma la disposizione delle Potenze verso il nuovo governo. Dichiarazione dell'Austria. Sono respinti gli ambasciatori mandati a Vienna e a Pietroburgo. Dichiarazione a ciò relativa del duca di Campochiaro ministro degli affari esteri. Congresso dei sovrani alleati a Troppau. Tentativo di mediazione della Francia respinto dal Parlamento. Ferdinando invitato a congresso dai collegati in Lubiana. Discussioni nel Parlamento sulla partenza del re: è consentita. Conferenze di Lubiana, e dichiarazione dell'Austria, della Prussia e della Russia al re Ferdinando del disegno stabilito di far occupare il regno da un esercito austriaco. Lettera del re al principe reggente. Note conformi degli ambasciatori. Questi atti sono deferiti al Parlamento. Decisione di resistere colle armi. Apprestamenti di guerra. Dichiarazione dell'Austria. Manifesto di Ferdinando. Il general Pepe, contrariamente agli ordini, attacca il nemico presso Rieti: infelice successo di quel tentativo: il suo esercito si sbanda: gli Austriaci superano le gole di Antrodoco: invadono gli Abruzzi nel tempo stesso che tentano la strada di s. Germano. Una brigata della guardia reale ricusa di combattere. Si sbanda anche il corpo d'armata del general Carascosa.°gni difesa vien meno. Gli Austriaci a Capua. Convenzione di Aversa per la consegna agli Austriaci di Napoli, Gaeta e Pescara, e loro ingresso in queste piazze. Chiusura del Parlamento.°ccupazione totale delle provincie di qua dal Faro e della Sicilia.

tiva condizione in verso alle estere potenze, e dalla natura stessa dei popoli che la compongono, doveva tornare di più efficace insegnamento, che per avventura non sia intervenuto, a chi posteriormente si è adoperato all'intento di profittare alla patria. Altro è l'irrompere in rivoluzione (che è la parte meno ardua). altro il governarla e preservarla dai pericoli interni ed esterni, che richiede più senno, disinteresse e fermezza di quello che pur troppo non si verifichi negli ordinari sommovitori dei popoli; pei quali il più delle volte la somma dell'impresa sembra consistere nel cominciare, riposando pel rimanente, con fatalismo tremendo, nel favore della fortuna.

Disposti gli animi nel regno come nel libro l'abbiamo abbastanza diffusamente narrato, la mattina del 2 luglio, giorno sacro a s. Tebaldo, tenuto dai Carbonari per loro protettore, il prete Menichini di Nola, spiegata una bandiera rossa, azzurra e nera, colori della setta, con venti compagni armati si fa dinanzi al quartiere, in cui era colà alloggiato il reggimento Borbone Cavalleria, e con accese parole lo invita a sollevarsi per la libertà della patria. Morelli e Silvati, sottotenenti consapevoli e concordi, montano a cavallo, avvalorano le parole del Menichini, e facilmente guadagnano alla loro parte centoventisette fra bassi ufficiali e soldati del reggimento, i quali tutti pongonsi arditamente in via per Avellino, città distante intorno a dieci miglia da Nola. Gridavano procedendo: «Viva Dio, il Re e la Costituzioneparole, che i semplici ascoltanti interpretavano per cessazione d'ogni male e fonte di ogni bene, visto specialmente l'aspetto lieto e sicuro di chi le profferiva. A Mercogliano fecero sosta, ed ivi continuamente ingrossati da nuovi compagni, che da più parti giungevano, si trovarono a sera più che raddoppiati, sommando il loro numero a circa trecento cinquanta. Di là il Morelli scrisse al tenente colonnello De Conciliis, ricco possidente, che comandava in Avellino con autorità civile e militare, rappresentandogli che non quel solo pugno di gente, che aveva in Nola spiegata la bandiera della libertà, proclamava il bisogno di riformare il governo, ma essere questo un voto universale cui ben presto risponderebbero tutte quante le provincie del regno, e che egli coll'aiutare così nobile impresa farebbe la sua patria felice e a sé procaccerebbe eterna gloria. Titubò da prima il De Conciliis sul partito a cui dovesse in quel frangente appigliarsi, finché vinto dalle replicate istanze non solo dei sollevati di Nola, ma dei settari già predisposti nel paese stesso di Avellino, finalmente si dette loro; e sedotte o spaventate le autorità della provincia, le strascinò a secondare quel moto, e il dì 5 aperse agli insorti le porte della città, dove entrarono trionfalmente al grido di: «Viva la Costituzione. I magistrati di Avellino, l'intendente, il vescovo, li accolsero festosamente, e nella chiesa giurarono insieme Dio, Re e Costituzione. Nella cerimonia del giuramento il Morelli dichiarò non essere sedizioso quel moto, avvegnaché s'intendesse mantener integri lo Stato, la famiglia regnante, le leggi e l'ordine pubblico; ed avanzatosi verso l'intendente gli esibì un foglio del sindaco di Mercogliano, pel quale testificavasi che la schiera del sotto tenente Morelli aveva in quella terra serbato strettissima disciplina e pagato le vettovaglie. E di poi voltosi a De Conciliis, gli disse: «Io sottotenente obbedirò voi, tenente colonnello dello stesso esercito di S. M. Ferdinando, re costituzionale. E ciò detto, preso l'aspetto di subordinato, non di più comandi, non alzò più la voce, sottomesso al De Conciliis, che assunse il grado supremo. Frattanto colla rapidità del baleno l'insurrezione si spargeva all'intorno, e gl'insorti accorrevano in Avellino, tanto che nel dì 4 si trovarono ascendere a circa quindici mila. Foggia stessa, una delle principali città del regno, erasi sollevata fino dal dì innanzi, e in quel moto era concorsa la porzione del reggimento di cavalleria detto del Re, che ivi si trovava a quartiere. La notizia degli avvenimenti di Nola giunse in Napoli nello stesso di due, mentre il re stava in mare presso Capri all'incontro del principe ereditario, che in quel giorno tornava colla famiglia dalla Sicilia. In assenza del sovrano, il ministero, composto del marchese Tommasi, del cavalier Medici, del marchese Circello e di Nugent capitano generale, si adunò tosto per deliberare innanzi tutto intorno al modo con cui dovesse comunicarsi al re la trista novella senza troppo spaventarlo ed irritarlo; e ciò specialmente per avergli sempre il Medici rappresentato il Carbonarismo come un delirio di poche menti sorvegliate oltre il bisogno dalla vigilanza e dallo zelo de suoi subordinati. E fermarono di attenuare nella narrazione l'importanza del fatto, assicurandolo ad un tempo che tutto era pronto e disposto per la repressione.

La notizia frattanto già circolava nel popolo, e i Carbonari intendevano a valersi della aspettata occasione mentre le autorità agitavansi incerte intorno a ciò che fosse da operarsi. Il re, subito sospettando in quel moto un principio di rivoluzione simile a quella di Spagna, dubitò alquanto se dovesse tornare in terra o tenersi in mare ed attendere: ma incoraggiato dalle lettere dei ministri sbarcò col figlio: e già nel primo consesso dall'ondeggiare dei timidi consiglieri misurò l'importanza dell'accaduto esser ben altra da quella che gli si voleva far credere.

Nugent dal canto suo pensò di radunare intorno a sé i principali generali per intendere il loro avviso in questa grave emergenza; e furono Carascosa, Fardella, d'Ambrosio. Ascoli e Filangeri. Ivi fu deciso che si farebbe partire immediatamente per Avellino il generale Guglielmo Pepe, governatore militare della provincia in rivolta, con ordine di combattere gl'insorgenti, e di reprimere severamente la sommossa. E credendosi Nugent certo dell'approvazione del re, chiamato a sé il generale, invocò la sua devozione, e gl'ingiunse di disporsi a partire tostoché fosse dal sovrano firmato il foglio, che lo investiva dei necessari poteri. Il general Pepe, che confidava di guadagnarsi in quella impresa fama e favore, l'accettò volentieri, e senza frappor dimora scrisse al comandante militare di Avellino, del quale ancora non era sospetta la fede, ordinandogli movimenti di soldati e di milizie civili, ed annunziando il suo prossimo arrivo con poderosi rinforzi. Ma allorché il Nugent portò a cognizione del re e del consiglio questa deliberazione, gli fu risposto non sembrare il general Pepe uomo abbastanza sicuro per affidargli una missione di cotal fatta e aversi quindi a disdire, surrogandogli in vece il generale Carascosa. murattiano anch'esso per vero, ma al re meno esoso, e il cui fermo carattere e il rispetto meritato dell'esercito sembravano renderlo più alto a quel difficile cimento. E non solo volle il re mutata la persona del generale, ma mutate eziandio le istruzioni, intendendo di ridurre i ribelli all'ossequio per le vie della persuasione anziché per quella delle armi. Pessimo temperamento, ma in certo modo scusabile se dettato da sensi di umanità: peggio che inescusabile se, come fu creduto da molti, moveva da sospetto della fede del generale: il quale parti la notte stessa da Napoli con pieni poteri, ma senza aiuto di truppe. Eguale autorità fu conferita nel tempo stesso al general Nunziante, che reggeva le divisioni territoriali nelle provincie di Salerno e delle Calabrie, e a Campana maresciallo di campo, che comandava le truppe stanziate nella stessa provincia di Salerno.

L'inerme Carascosa dovette ben presto arrestarsi a Marigliano, indi a Nola, attesoché trovò intercettata la strada di Avellino, ove, come abbiam detto, si consumava appunto in quell'ora la rivoluzione. E inteso come il pericolo ad ogni istante crescesse, e già la Capitanata, la Basilicata e gran parte del Principato Citeriore, non che quasi tutto il Principato Ulteriore, del quale è capo-luogo Avellino, fossero sollevati, tentò con grosse offerte di denaro i capi del movimento, ma indarno. Nella notte del 5 al 4 fu finalmente raggiunto dal general Roccaromana con seicento e quarantanove uomini, e nel giorno 4 fu rafforzato da altri trecento. Queste forze non bastavano certo ad espugnare la posizione di Monteforte munita dal De Conciliis: ben sarebbero bastate unite a quelle di Nunziante e di Campana. Ma ciò non volle il re, sospettando la fede dei soldati, e che l'accordo dei generali si mutasse in congiura: d'altra parte operando ciascuno isolatamente, ogni possibilità di buon successo veniva meno. In fatti nella mattina del 4 il generale Campana, movendo sopra Avellino con una colonna d'infanteria e cavalleria, ebbe uno scontro assai vivo: ma vista la nessuna speranza di superar l'inimico, prestamente si ricondusse là donde era partito.

Allora il generale Nunziante, misurata assai bene la natura dei fatti, nello stesso giorno quattro, scrisse apertamente al re, che «se vi era chi temesse di far giungere ai piedi del trono la verità in tutta la sua purezza, non era egli quel desso; si degnasse ascoltarla dal più umile e dal più fedele de' suoi sudditi: non trattarsi di combattere pochi uomini malamente raccozzati, senza piano. e. come in tante altre occasioni, diretti solo da private passioni e da malnati interessi: le intere popolazioni domandare una costituzione e sperarla dal senno, dal cuore e dall'accorgimento suo: in tale stato di cose il combattere essere un accrescerne inutilmente i pericoli; e quand'anche fortuna gli sorridesse, qual bene tornerebbe al re dallo spargimento del sangue de suoi popoli? Spedire Campana con una porzione delle truppe in Salerno, e col rimanente dirigersi in Nocera onde conservare le comunicazioni con Salerno, dandogli così il tempo di concedere una Carta Costituzionale alla nazione, la quale componesse gli spiriti e corresse prontamente innanzi al vo to universale del popolo, che faceva per ogni dove risuonare il grido di – Viva il re e la Costituzione. – Ogni indugio sarebbe funesto. »

Né il Nunziante si era punto ingannato sui progressi della rivoluzione; anzi questi prevennero gli stessi suoi calcoli. Imperciocché mentr’egli disponeva di poche truppe e mal fide, De Conciliis aveva già in Avellino tanti militi da potergli spedir contro forze sufficienti per minacciarlo alla destra ed anche alle spalle verso Salerno. Quindi nel dì 5 di luglio egli si ritirò sulla destra del Sarno. Ma nel partire da Nocera perdette un reggimento di cavalleria (Principe), il quale disertò, tranne il colonnello ed alcuni uffiziali, per avviarsi a Monteforte. Nello stesso giorno i rivoltosi, che erano partiti da Avellino, occuparono Salerno, e da questi due luoghi interruppero le comunicazioni fra Napoli e tutte le provincie meridionali.

Gli avvenimenti incalzavano. Il general Pepe insospettito per l'accaduto, che il governo pensasse di farlo carcerare siccome quello le cui relazioni coi Carbonari erano palesi e temute, e d'altra parte vedendo la rivoluzione molto avanzata, stimò dover cercare la sua salvezza e ad un tempo l'occasione di nuova fortuna nel campo di Monteforte. E accordatosi col generale Napoletani, nella notte seguente al cinque di luglio, provocata la diserzione di una parte di tre reggimenti che erano di presidio nella capitale, fuggì con quelle truppe verso Avellino. Dopo qualche titubazione del De Conciliis, fu colà riconosciuto comandante generale dell'esercito costituzionale, e in tal qualità pubblicò una proclamazione, che in sostanza conteneva:

«Secoli di barbarie, di servaggio e di avvilimento avevano immerso nella miseria la nostra bella patria; ma l'entusiasmo di cui sono tutti i cuori agitati per avere una costituzione, ci annunzia già, che ci mettiamo a livello delle più colte nazioni di Europa. Noi eravamo poveri non ostante che abitassimo il più beato suolo della terra; eravamo poco avanzati nella civiltà, non ostante che i migliori ingegni nascessero tra noi: avevamo poca riputazione militare, non ostante che fossimo animati di coraggio e di ardire. Ma queste contradizioni erano ben facili a spiegarsi. Gli errori del governo non potendosi smascherare, eravamo nella guerra comandati da esteri mercenari: l'amministrazione interna, manomessa dalle più vili passioni, era garantita da tenebre impenetrabili. Tutti questi mali sono fugati dal governo costituzionale. Lo slancio unanime della nazione non ha più misura: l'armata ogni giorno più s'ingrossa: i soccorsi delle provincie limitrofe sorpassano la richiesta e l'aspettativa. Chiamato dai nostri concittadini ad assumere il comando dell'esercito nazionale, ho giurato, ed hanno essi giurato di assicurare alla patria, comune madre, una costituzione, o di morire. Io dichiaro che mi dimetterò da questo comando, appena che saremo fatti sicuri che i comuni voti abbiano ricevuta piena soddisfazione. »

La notizia della defezione di Pepe e del presidio della capitale giunse al re contemporanea con quella della occupazione di Salerno per parte degli insorti. Mentre versava nella più profonda costernazione, ecco cinque settari presentarsi al palazzo, dicendo apertamente ai custodi ed alle guardie essere deputati del popolo a parlare al re o a qualche grande di corte. Si portò sollecito a loro il duca d'Ascoli, e l'uno dei cinque gli disse:

«Siamo delegati per dire al re, che la quiete della città non può serbarsi (né si vorrebbe) se S. M. non concede la bramata costituzione. Soldati, cittadini e popolo sono in armi: la setta è adunata: tutti attendono per provvedere la risposta del re. – «Anderò a prenderla disse il duca; ed indi a poco tornato, volgendosi a quello istesso che sembrava il primo dell'ambasceria, disse: «S. M. , visto il desiderio dei sudditi, avendo già deciso di concedere una costituzione, ora coi suoi ministri ne consulta i termini per pubblicarla». E quegli: «Quando sarà pubblicata?– «Subito. – «Ossia?– «In due ore».

Un altro dei cinque allora si mosse, e, distesa la mano senza far motto al pendaglio dell'orologio del duca, inurbanamente glielo tirò di tasca, e volto il quadrante così che egli e il duca vedessero le ore, disse: «È un'ora dopo mezza notte, alle tre la costituzione sarà pubblicata. Rese l'orologio e partirono. Quell'audace era il duca Picolella, genero dell'Ascoli. ((106)

Stavano a consiglio presso il re il duca di Calabria suo figliuolo, e tre ministri, essendo che il quarto, il general Nugent, si fosse trasferito al campo di Carascosa, che tuttavia) prometteva per la mattina del 6 una conclusione, sia di accordi, sia di guerra. Quei ministri, avviliti ora quanto superbi nella prospera fortuna, supplicavano il re che cedesse alla necessità dei tempi, rimettendosi pel rimanente alla fortuna degli eventi; e quanto più il re, di senno e d'animo maggior di loro, resisteva, tanto più quei paurosi lo ripregavano ed intimorivano. Il marchese Circello, più vecchio e stemperato in grossolane delizie, piangendo gli diceva: «Io amo Vostra Maestà come padre ama figlio; ascoltate e seguite il consiglio, che viene da labbro fedele: concedete prontamente una costituzione: superate i pericoli di questo istante, che Iddio aiuterà principe religiosissimo ed innocente a recuperare da popolo reo i diritti della corona.(107)»

Così da vili e inetti consiglieri, che preparano la rovina degli stati col mal governo, sono i principi abbandonati e traditi nelle avversità, senza che ciò valga ad illuminarli intorno la natura e i pericoli di amici di cotal fatta. Stretto finalmente per ogni parte, il re si arrese, e sottoscrisse una dichiarazione indirizzata al popolo del Regno delle Due Sicilie, concepita in questi termini:

«Essendosi manifestato il voto generale della nazione del regno delle Due Sicilie di volere un governo costituzionale, di piena nostra volontà consentiamo e promettiamo nel corso di otto giorni di pubblicarne le basi. »

«Fino a che sia pubblicata la costituzione, rimangono in vigore le veglianti leggi. »

«Soddisfatto in questo modo al voto pubblico, ordiniamo che le truppe ritornino ai loro corpi, ed ogni individuo alle sue ordinarie occupazioni. »

Questa dichiarazione firmata dal re, era pure sottoscritta dal marchese Tommasi, ministro cancelliere, e datata del 6 luglio 1820. Immediatamente furono spacciati corrieri ai campi di Nocera e di Monteforte, non che ai generali Carascosa e Nugent, ai quali giunsero appunto quando, veduto inutile ogni tentativo di trattare coi capi dell'insurrezione, disponevansi a dare addosso ai costituzionali. A cotal nuova le truppe reali lasciarono i loro alloggiamenti, e rientrarono allegramente in Napoli al grido di: Viva Dio, il re e la costituzione. Il campo di Monteforte, come era da immaginare, non si conformò affatto ai termini del decreto, e stette saldo; ond'ebbe pieno successo in quattro giorni la rivoluzione di un regno, la quale, come osserva il Colletta, sotto un saggio governo non sarebbe nata, e sotto un governo più animoso. tosto nata, sarebbe venuta meno.

Con altro decreto dello stesso giorno 6, il re designò nuovi ministri, che furono il conte Ricciardi alla Giustizia, il duca di Campochiaro agli affari esteri, il conte Zurlo all'interno. il cavaliere Macedonio alle finanze e il generale Carascosa alla guerra. La marina fu conferita a Ruggero Settimo siciliano: ma questi essendo in Palermo (dove rimase) fu poscia affidata la direzione di quel ministero a De Thomasis. Finalmente in quella medesima fatale giornata il re depose la suprema autorità nelle mani del principe suo figlio, in conseguenza dei motivi annunziati nell'atto seguente:

«Mio carissimo ed amato figlio Francesco, duca di Calabria: Vedendomi costretto per la mia cattiva salute, e dietro i consigli dei medici, ad astenermi da ogni grave occupazione, mi crederei colpevole verso Dio, se nelle attuali circostanze non provvedessi al governo del regno in modo che gli affari, che pur sono di grande importanza. abbiano il loro corso, e perché la cosa pubblica non provi nessun danno fino a che piaccia a Dio di darmi abbastanza salute da poter io reggere lo stato. Non posso affidarne il governo ad alcuno che ne sia più degno di voi, mio amatissimo figlio, e perché siete il mio legittimo successore, e perché ho già esperimentato la vostra grande rettitudine e capacità. È perciò che di mia piena ed intera volontà vi costituisco e faccio mio vicario generale nel mio regno delle Due Sicilie, come già lo foste altra volta(108), tanto negli Stati di Napoli, che negli Stati di là dal Faro. e vi trasmetto e cedo coll'intera clausa dell'alter ego l'esercizio di ogni diritto, prerogativa, preminenza e facoltà di cui godo e potessi godere io stesso: ed affinché la mia volontà sia conosciuta da tutti e da tutti eseguita, ordino che il presente atto, da me sottoscritto e munito del mio reale sigillo, sia conservato e registrato dal nostro segretario di stato, ministro cancelliere, e che ne sia data copia ai consiglieri e segretari di stato, perché lo manifestino e pubblichino con tutti i mezzi che giudicheranno convenienti. »

Ma queste disposizioni, anziché ammansire, fecero più viva la concitazione del popolo, che gridava essere la promessa reale un artifizio per addormentare gli animi ed opprimere gl'insorti alla spicciolata dopo averli indotti a sciogliere il campo di Monteforte: la dilazione di otto giorni essere strabocchevolmente soverchia là dove non si trattava che di promulgare la costituzione delle Cortes Spagnuole. riconosciuta in Europa e giurata dal re medesimo nella sua qualità d'Infante di Spagna, ed essere troppo breve per fare una costituzione affatto nuova: il nuovo ministero essere certamente migliore, ma non eletto con animo di conservarlo, come appariva dai ricchi stipendi mantenuti agli antichi ministri: infine il vicariato del duca di Calabria ricordare gl'inganni usati in Sicilia e preconizzarne ora dei nuovi. I Carbonari della capitale, fino allora ignoti alla moltitudine, mostrandosi apertamente, stabilirono un centro di unione e di direzione presso la piazza della Carità, e corsero tripudianti le strade. Alcuni si recarono ad impadronirsi dei bastimenti di guerra, sospettando che il re meditasse di allontanarsi dalla sua residenza per adoperarsi da luogo sicuro contro la rivoluzione. Da tutto ciò nacque un'agitazione universale ed indescrivibile; e la città non essendo munita che di poche truppe e mal fide, era imminente il pericolo di cadere in una completa anarchia.

In quel supremo momento (era sul cadere del giorno) il Vicario adunò a consesso pochi generali, alcuni antichi consiglieri di stato e i ministri nuovi, e con grave sembiante e caldo accento imprese a dire: ((109)

«Il re e noi tutti qui adunati, figli della stessa patria, dobbiamo cercare, se bastano le forze umane, a salvare la madre comune dal presente pericolo. Sino a che la costituzione chiedevasi da pochi arditi mossi a tumulto, apparendo pensiero o pretesto di setta, il re dubitava di concederla. Egli poteva colle armi espugnar Monteforte, vincere e punire i costituzionali(110); ma nol volle perché aborriva il sangue civile, e voleva dare alle opinioni tempo e libertà di manifestarsi, onde conoscere le vere brame, il vero bisogno politico del suo popolo. E però il ritardo, che si credeva ripugnanza, era studio di re saggio e benigno. E difatti, conoscendo appena il voto di tutti, ha promesso di soddisfarlo; ha levato i campi e inviato i soldati ai quartieri come nei tempi di pace: il cammino da Monteforte alla reggia è aperto; la casa intera e quindi la dinastia dei Borboni è in mano a popoli sommossi e non fugge e non teme. Ma se il desiderio trasmoda e niega tempo alla difficile compilazione di uno Statuto, o turba il consiglio a voi, destinati dal re a quell'opera, farete cosa imperfetta e sconvenevole, apparirà indi a poco il bisogno di riformarla, e poiché le riforme nei governi costituzionali portan seco il sospetto ed il moto delle rivoluzioni, ritorneremo presto alle presenti dubbiezze e pericoli. A voi perciò, così amanti della patria quanto fedeli al trono, dimando un modo per attiepidire il i pubblico fervore, ed aspettar quetamente, non più del prefisso tempo di otto giorni, la promessa legge. Incitando a i parlare ciascuno di voi, rammento a tutti che nelle difficoltà di regno la sincerità del consigliero è bellissima fede al sovrano, e che se importuno riguardo ritiene il vostro labbro farete onta a voi stessi, tradimento al re, danno alla patria comune, offesa a Dio. »

Tacque, ciò detto; e tacendo per maraviglia o diffidenza i consiglieri adunati, però che varia era la fama del duca di Calabria, finalmente uno di loro, dopo nuovo incitamento, così disse:

«Nel rispondere a V. A. io non guardo la importanza del subietto, il pericoloso uffizio del consigliero, la mia stessa incapacità, ma solamente il debito di dire e operare nei casi difficili, come vogliono il proprio giudizio e la coscienza. Parlerò aperto e troppo, stimolato dal comando di V. A. e dalla mia natura. La costituzione è desiderio antico dei Napoletani, sorto nei trenta scorsi anni di civili miserie: salito a speranza per la costituzione concessa già dal re Ferdinando alla Sicilia, e l'altra dal re Luigi alla Francia, e l'altra a noi stessi (benché tardi) dal re Gioacchino, e l'ultima data o presa in Ispagna. Ed oggi che di questa voce han fatto lor voto e pretesto numerosissimi Carbonari, ella non è solamente desiderio e speranza, ma bisogno ed ansietà. L'opporsi al torrente degli universali voleri era già da tre anni vana fatica, ma facile prova il dirigerlo: l'ultimo ministero è stato cieco ai pericoli, sordo ai consigli. sperando che il turbine si disperdesse, o scoppiasse più tardi: per vanto di serbare illesa la monarchia, eccola colpita ne' suoi maggiori nervi, cioè nell'impero e nel prestigio. Si poteva il 2 luglio sottomettere Morelli e i suoi pochi, si poteva nei seguenti giorni espugnar Monteforte, si poteva rendere vano questo altro cimento della setta, e dilungare la rivoluzione, perché scansarla era impossibile, ove i modi del governo non mutassero. Si avevano rimedi di forza insino a ieri, oggi non più: la facile promessa di una costituzione, il richiamo delle milizie dai campi, la caduta del vecchio ministero, i romori intorno alla reggia non frenati, han fatto il governo men forte della rivoluzione; e nei conflitti civili la condizione dei deboli è l'obbedienza o la rovina. È pericoloso questo momento alla monarchia quanto al monarca: i costituzionali negano il tempo a comporre un nuovo statuto, e ne domandano uno straniero, quello delle Cortes. Se il re oggi ricusa, vorrà domani; e frattanto la continua ritrosia, dai tumulti crescenti superata, più abbasserà l'autorità del re e delle leggi, più innalzerà i suoi nemici e la plebe: in quelle politiche sproporzioni risiedono, A. R. . i gran delitti. Perciò son d'avviso che debbansi avanzare le dimande, soddisfare in un punto tutti i desideri presenti. dare al popolo, sotto specie di concessioni, quanto egli guadagnerebbe per via di forza. »

Il Vicario, rompendo allora il discorso, soggiunse: «Ma la costituzione delle Cortes è convenevole ai Napoletani?»

Rispose l'oratore: «Vano il cercarlo: oggi trattasi del come chetare la rivoluzione, non del motivo di farla: essa è già fatta. Coloro che più altamente richiedono la costituzione di Spagna, non intendono il senso politico di questo atto, è un domma per essi: ogni altra costituzione, ancor ché più adatta, ancorché più libera, spiacerebbe. È dolorosa necessità per un governo piegarsi alla forza de' soggetti: è doloroso per noi esortare alla pazienza; ma poiché siamo sì presso ai precipizi, è officio dei consiglieri la prudenza. come forse sarebbe virtù nel monarca correre le fortune per sostenere le sue ragioni. Perocché l'ardire col proprio pericolo è valore, coll'altrui è arroganza. »

Sebbene tutti i convenuti avessero, durante questo discorso, mostrato e col gesto e col labbro di approvarlo, il duca di Calabria chiese il voto individuale di ciascheduno. Tutti adottarono le conclusioni dell'oratore tranne uno solo, che sebbene consentisse nel generale, insinuò d'introdurre nel decreto una espressione di doppio senso, dalla quale si potesse cavar partito più tardi, quando la corte avesse già superate le presenti strettezze. Ma il principe, opponendosi, ne mostrò sdegno, protestando che dagli inganni rifuggiva la sua e la religione del re. E recatosi presso il padre, ritornò prontamente annunziando che il re aderiva alla proposizione, e ordinava che all'istante si stendesse il decreto, che fu il seguente:


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«Noi, Francesco duca di Calabria, vicario generale del re, in virtù dell'atto datato di ieri, pel quale Sua Maestà il nostro augusto padre ci ha trasmesso, colla clausa intera dell'alter ego, l'esercizio di ogni suo diritto, preminenza ec.°nde godeva la stessa Maestà Sua, e in conseguenza della decisione per la quale Sua Maestà ha promesso di dare una costituzione allo Stato:

«Volendo manifestare a tutti i suoi sudditi i nostri sentimenti, ed appagare al tempo stesso il loro unanime voto, abbiamo decretato ciò che segue:

«ART. I. La Costituzione del regno delle Due Sicilie sarà la stessa che venne adottata dal regno delle Spagne e sanzionata da S. M. Cattolica nel mese di marzo di quest'anno, salve le modificazioni che un'assemblea di rappresentanti la nazione, costituzionalmente convocata, crederà dover proporre per adattarla alle circostanze particolari del nostro regno.

«ART. II. Ci riserbiamo di prendere tutte le misure per facilitare ed accelerare l'esecuzione del presente decreto.

«ART. III. Tutti i ministri secretari di stato sono incaricati della sua esecuzione.

«Napoli, il 7 luglio 1820.

«Firmato, FRANCESCO, vicario generale.

«Pel secretario di stato, ministro cancelliere assente, il reggente della prima camera del Consiglio supremo di Cancelleria del regno

«Il principe di CARDITO. »

Ma né pure di ciò il popolo si chiamò sodisfatto, protestando che non il vicario, ma il re dovesse sottoscrivere una legge che mutava lo stato(111): e già di nuovo tumultuando intorno al palazzo. Ferdinando nello stesso giorno pubblicò «confermare quell'atto e promettere l'osservanza della costituzione sotto la fede e parola di re. riserbandosi di giurarla nelle debite forme: ratificare in oltre fin d'allora tutti gli atti posteriori, che da suo figlio si sarebbero fatti per l'esecuzione della costituzione.(112)»

Così per non aver saputo resistere o concedere in tempo, nel che consiste l'arte suprema del governare e il precipuo dovere dei governanti, le cose napoletane precipitarono fin da principio verso l'abisso, che ben presto doveva far ragione del più e del meno. Una costituzione a foggia della francese poteva forse tenere in sospeso i potentati d'Europa ed ammansirne le ire: quella delle Cortes non mai; la quale troppo manifestamente ledeva il principio stesso della monarchia, ed era stoltezza il credere che la stessa Francia avesse voluto tollerarla, e potuto i Napoletani difenderla. né accuseremo noi quella corte di averla per ciò appunto consentita, come mezzo opportuno a conseguire che con quella cadesse ogni altra possibilità di governo rappresentativo; perché in simili giuochi non è raro chi vi avventuri la vita. La corte l'accettò per fatale necessità: l'errore fu di quelli, che spinsero le cose a tale eccesso, e che purtroppo lo pagarono, ma non soltanto del loro.

Emanati questi atti, il governo volse il pensiero a togliere di mezzo, dove fosse possibile, lo scandalo e il pericolo insieme dell'armata riunione, nella quale perseveravano gl'insorti: e spedì per tale effetto nel medesimo di 7 il principe Pignatelli Strongoli in Avellino, e il generale Colletta a Salerno ad annunziare ufficialmente l'accettazione della costituzione di Spagna qual pegno di pace e di concordia. Ma l'intento loro veniva attraversato dal general Pepe, il quale intendeva di usar intera l'occasione a costituirsi fermamente in quel grado di autorità, che oramai non era più in potere di chi che fosse il contrastargli: e già con imperioso messaggio, aveva chiesto. fra più altre cose, al vicario generale «il comando dell'esercito sino alla convocazione del parlamento, la consegna delle fortezze della capitale, e l'istituzione di una Giunta provvisoria, che invigilasse alla causa pubblica, e i membri della quale fossero per la quarta parte da esso nominati. »

Tali petizioni di chi aveva tanta forza in pugno erano pretti comandi: onde il principe nello stesso giorno rispose «desiderare vivamente di mettere a profitto i di lui servigi e consigli; la maggior parte degli articoli proposti i nella sua memoria essere di già stati preveduti dal re, desiderare alcune modificazioni suggerite dal pubblico interesse e dagli stessi principi costituzionali; perciò inviargli Beneventani e Nani, commissari di sua fiducia e muniti di pieni poteri, per conchiudere seco lui l'affare. »

Ma i negoziati tornarono pressoché inutili, né poterono i commissari ottenere che Pepe rinunziasse al trionfale ingresso nella capitale, che a sé ed agli insorti apparecchiava. Solo conseguirono che il forte di Castelnuovo, contiguo al palazzo del re, continuasse ad essere presidiato dalla guardia reale. Fu concordato il solenne ingresso delle truppe e dei settari armati pel giorno 9. e Pepe investito del general comando di tutte le forze militari della monarchia fino alla riunione del parlamento.

Non appena soddisfatto quel desiderio, altro ne sorse. I costituzionali nel primo concitamento, benché si protestassero soggetti al re, avevano mutata l'antica bandiera borbonica nei colori della Carboneria, e con questi soli intendevano ornare il loro ingresso in città. Ciò saputosi dal governo, furono inviati altri oratori, che per trattato ottennero fosse mantenuto l'antico stendardo, ma a condizione che a quello si aggiungesse la lista dei tre colori della setta.

Nel medesimo giorno 7, per l'organo del duca di Campochiaro, furono spedite alle corti di Europa note circolari annunzianti i cambiamenti politici intervenuti nel regno delle Due Sicilie. Vi stava (dice il Colletta) adombrata la forza che il re pativa dai popolari tumulti: la quale sincerità, quando i fogli si palesarono, fu motivo di accusarne il ministro. Ma oltreché le lettere. scritte il giorno innanzi dal marchese Circello, avevano rapportato alle corti medesime lo stato delle cose ed i pericoli di quei momenti, vedevasi la patita forza scolpita nella rapidità dei successi, nella nomina del vicario, nel mutato ministero malgrado l'indole ben conosciuta del re.

Il dì 8 i costituzionali attendarono presso Napoli nel campo di Marte. Qual si fosse la disciplina di quelle genti, a tutti noi, troppo ben conscii di tali cose per le recenti esperienze, è agevole lo immaginarlo. Solo vuol esser notato, che qui pure, come nei primi momenti di ogni insurrezione vittoriosa, non ebbero a deplorarsi escandescenze pericolose né d'opere né di parole. Nel pensiero della futura beatitudine, che, secondo la loro mente, doveva per sempre irraggiare oramai quella terra fortunosa, sollazzavansi quelle turbe in lieti canti, ed ognuno s'apparecchiava a comparir l'indomani nella più splendida forma, che per lui fosse possibile. Nella città, per lo incontro, dove più stimoli a nuovi moti si racchiudevano, saziato il primo tripudio, si alzaron nuovi sospetti: diffidavasi dell'antica polizia, e fu cassata: si temeva dei comandanti dei forti, e furono cambiati: sospettavasi che il pubblico tesoro fosse involato, e fu dato in custodia ai Carbonari: si disse che il re intendeva a fuggire, e furono sguarnite le navi, guardato il porto. Temendo peggio, il vicario trovò buono il suggerimento di Pepe, l'istituzione cioè di una Giunta, e decretò «essere creata una Giunta provvisoria di quindici persone, innanzi alla quale, unitamente a tutti i principi della reale famiglia, avrebbe prestato il giuramento alla nuova costituzione della monarchia. Questo giuramento sarebbe di poi ripetuto in cospetto del Parlamento nazionale dopo la sua legittima convocazione. La stessa giunta sarebbe stata da lui consultata per tutte le disposizioni di governo insino allo stabilimento del parlamento nazionale.(113) Furono tra i membri di questo consesso Melchiorre Delfico, il tenente generale Florestano Pepe (fratello di Guglielmo) Davide Winspear, il duca del Gallo e il colonnello Russo: tutti onesti uomini ed onorati, nessuno di Monteforte, nessuno (meraviglioso a dirsi) carbonaro.

Il giorno 9 (così racconta il Colletta) trionfante per il campo e festivo al pubblico, mesto ai Borboni, dubbioso a molti, era diversamente aspettato: chi lo dicea termine, chi principio della rivoluzione. Fra pensieri ed affetti così vari, suonava l'ora prefissa all'entrar delle schiere nella città. N'è avvertita la reggia: il re si trattiene nei più remoti penetrali, contigui al castello; il Vicario in abito di cerimonia sta colla famiglia nella stanza del trono, e dietro a lui la Giunta, i ministri, i cortigiani. I suoni militari avvisano l'arrivo della prima schiera, e subito per onorarla va la corte ai balconi, e, come in segno di gioia, fa sventolare i lini, che poco innanzi avevano rasciugato lacrime di tristezza. Ben sono ciechi coloro che s'avvisano potersi l'umana natura accomodare di buona voglia a conversioni di cotal fatta!

Il drappello primamente disertato da Nola precedeva la colonna; seguivano le bande musicali, poscia il general Pepe(114). che aveva a fianchi il generale Napoletani(115) e De Conciliis: procedevano le schiere ordinate, tra le quali alcuni battaglioni, che il giorno innanzi, per vaghezza o comando, erano rifuggiti da Napoli al campo; l'ultima schiera di quel primo corpo era il superbo reggimento dei dragoni. Il generale Colletta, unico, ma grande e imprescindibile storico di questi fatti, compreso in questo luogo del giusto sdegno di un onorato militare, avverte che «profondo sentimento di alcun fallo pungeva la coscienza di queste genti, e la quasi universale riprovazione temperava gli applausi, che alcuni venivano loro tributando: si vedeva in quella pompa il giuramento mancato, calpestata la disciplina, trasfigurata la natura delle milizie, e di tante colpe non il castigo, ma il trionfo. »

Onorevoli sono queste parole; ma è vano il lamentare una condizione insita dell'umana natura. Tocca ai governi il rimuovere le occasioni di questi falli, paralizzare le voglie intemperanti coll'affetto dei popoli riconoscenti: senza ciò anche le ribellioni militari faranno il giro del mondo. Ma seguitiamo la narrazione. Alle milizie ordinate, succedevano le civili: cittadini quei militi, e della causa cittadina sostenitori, sentivano allegrezza onesta, e nei circostanti la spargevano, gridando: «Evviva la costituzione e il re»; il pubblico rispondeva: «Evviva i militie quei saluti d'onore, confusi insieme, si mutavano in suono festante, alto, universale, che non finì se non quando nuovo spettacolo si offerse, l'abate Menichini e i suoi settari. Egli vestito da prete, armato da guerriero, profusamente guernito dei fregi della setta, precedeva a cavallo sette migliaia di Carbonari, plebei e nobili, chierici e frati, diffamati ed onesti: senza ordinanze, senza segno d'impero e d'obbedienza, mescolati, confusi.

Rivoluzione del 1820 – L’Abate Menichini e i Costituzionali a Napoli

Rivoluzione del 1820 – L’Abate Menichini e i Costituzionali a Napoli

La qual truppa, non curante degli applausi altrui, da sé applaudivasi col grido «Viva i Carbonari»: tal che a vederla era brigata, non militare o guerriera, né veramente civile, bensì ebbra e festosa. Appena scoperta dai balconi della reggia, il Vicario comandò che ognuno attaccasse al petto il segno di Carboneria, ed egli e i principi della casa se ne ornarono i primi: fu seguito l'esempio, e se qualcuno non era sollecito a provvedere i tre nastri (rosso, nero, turchino) gli aveva nella reggia vaghissimi, figurati a stella, dalla mano della duchessa di Calabria!

Finita la rassegna ed avviate le schiere agli apprestati alloggiamenti, andarono alla reggia Pepe, Napoletani, De Conciliis, Morelli, Menichini, e subito corteggiati passarono nella gran sala delle cerimonie, dove il Vicario li attendeva. Si inchinarono sommessamente a lui, che cortesemente li accolse, e Pepe così parlò:

«Quando giunsi al campo costituzionale la rivoluzione era fatta, e però fu mio pensiero dirigerla per il bene dello stato e del trono. Gli uomini armati, che ho mostrato a V. A. R. , e altri a mille, trattenuti nelle provincie, o rinviati, non sono ribelli ma sudditi, e perciò quelle armi non si rivolgono a rovina del trono, ma in sostegno. Fu necessità per me durissima prendere a patto il comando supremo dell'esercito: perché, meno anziano e però tanto meno meritevole de' miei colleghi. ripugno all'autorità quanto essi forse alla dipendenza: ora S. M. e V. A. possono accorciare (e le ne prego) la nostra comune inquietudine, convocando prestamente la rappresentanza nazionale. Io giuro al venerando cospetto di V. A. e di questi primi dello stato, che discenderò dal presente grado assai più lietamente di quel che oggi vi ascendo.

Il Vicario rispose: «S. M. il re, la nazione, noi tutti dobbiamo gratitudine all'esercito costituzionale, ed a voi suoi degni capi. Il voto pubblico è manifesto per la natura stessa del seguito cambiamento: il governo oggi mutato non aveva il consenso dei soggetti, il trono non era saldo, ora è saldissimo, che poggia sulle volontà e gl'interessi del popolo. Il re. che nelle sue stanze vi attende, manifesterà egli stesso i suoi sentimenti, come io qui i miei. Nato, per i decreti della divina mente, erede del trono, era mio debito lo studio della monarchia e dei popoli, sì che d'assai tempo sono persuaso essere riposta la stabilità di quella, la felicità di questi (per quanto può dirsi delle cose mondane) nel governo costituzionale. Persuasione politica si convertì, come a principe cristiano si aspettava, in domma religioso, e pensai e penso che non potrei con calma di coscienza reggere un popolo per mio solo ingegno e per atti della mia sola comeché purissima volontà. Se dunque riconosco in voi la salute del regno, la durevole prosperità della mia stirpe, la pace dell'animo, doni sì grandi agguaglierà la mia gratitudine, che non sarà spenta o scemata per mutar di fortuna o di tempi. Voi, general Pepe, acchetate le inquietudini prodotte da generosi pensieri, esercitate la suprema militare autorità senza ritegno: perocché i generali han mostrato compiacimento della vostra elezione da stupendi fatti e singolar merito giustificata, così che le opere han superato il lento camminare degli anni. In quanto alla costituzione di Spagna, oggi ancora nostra, io giuro – (e alzò la voce più di quel che importava l'essere udito) – di serbarla illesa, ed all'uopo difenderla col sangue. . . E altro forse dir voleva, ma la commozione degli astanti vinse il rispetto, e da cento evviva il discorso fu rotto.

Guidati poscia quei cinque dal Vicario stesso presso il re, il quale stava disteso sul letto per infermità, come pareva. Pepe, avvicinatosi, piegò a terra il ginocchio, baciò la mano che da sessant'anni reggeva lo scettro, e, sollevatosi, reiterò con più modesta voce le cose poco innanzi dette al figlio.

E il re rispose: «Generale. avete reso gran servigio a me e alla nazione, e però doppiamente ringrazio voi ed i vostri. Impiegate il supremo comando dell'esercito a compiere l'opera della cominciata santa pace, che tanto onorerà i Napoletani. Avrei data innanzi la costituzione. se me ne fosse stata palesata l'utilità o l'universale desiderio: oggi ringrazio l'onnipotente Iddio per aver serbato alla mia vecchiezza di poter fare un gran bene al mio regno. »

E ciò detto licenziò col cenno gli astanti, porgendo al generale la destra, ma con tal atto, che lo incitava a baciarla. Il generale la ribaciò e partì a spargere fra le diverse milizie e negli ordini dei cittadini le nuove assicurazioni, che dal labbro stesso del re e di tutta la reale famiglia aveva raccolte per la quiete e il contentamento dell'universale, che fu grande e verace senza alcun dubbio, perché in mezzo a una sì gran capitale e in tanta moltitudine di armati, l'ordine e la quiete maravigliosamente si conservarono; tanto che gli animi più timidi si rassicurarono, e la rivoluzione cominciò a trovar grazia anche appresso i più austeri(116).

Ma pure fra le speranze non tardò a riaffacciarsi la severa memoria del passato e a suscitare sospetti nelle menti, onde fu chiesto al re che affrettasse la solennità del giuramento. né egli si peritò, e a mezzo giorno del 15 luglio, nella chiesa del palazzo, in cospetto della Giunta, del ministero, dei grandi della corte, e di alcuni del popolo, dopo il sacrifizio della Messa. salì all'altare, stese la mano sul Vangelo e con ferma ed alta voce pronunciò:

«Io Ferdinando Borbone. per la grazia di Dio e per la costituzione napoletana, re, col nome di Ferdinando I. del regno delle Due Sicilie, giuro in nome di Dio e sopra i santi Evangeli. . . . (seguivano le basi della costituzione, poi soggiungeva):

«Se operassi contro il mio giuramento, e contro qualunque articolo di esso non dovrò essere ubbidito, ed ogni operazione, con cui vi contravenissi, sarà nulla e di niun valore. Così facendo, Iddio mi aiuti e mi protegga: altrimenti, me ne domandi conto. »«

Il proferito giuramento era scritto. Finito di leggerlo, il re alzò il capo al cielo, fissò gli occhi alla croce. e spontaneo soggiunse:

«Onnipotente Iddio, che collo sguardo infinito leggi nell'anima e nell'avvenire. se io mentisco, o se dovrò mancare al giuramento, tu in questo istante dirigi sul mio capo i fulmini della tua vendetta. »

E ribaciò il Vangelo. E il figlio, e tutti l'un dopo l'altro giurarono(117).

Mentre il re così solennemente giurava la costituzione, e con lui il vicario, i principi, i grandi e i propugnatori infiniti della medesima, altri cercava invece di soffocarla violentemente appena nata. Il reggimento Farnese, d'infanteria. stanziato in Napoli, sospettato dal nuovo governo di nutrire caldi affetti per l'antico ordine di cose, aveva per ciò stesso ricevuto ordine di trasferirsi a Gaeta, nel giorno appunto del solenne giuramento della costituzione. Trecento soldati allora si ammutinarono, e disertarono con armi e bagagli dirigendosi verso Somma. Accorsero immediatamente ufficiali per ricondurli al dovere e il general Filangeri, antico loro ispettore, raggiuntili al villaggio di san Giovanni al Teduccio, li indusse a ritornare alla capitale. Ma giunti presso al ponte della Maddalena nuovamente si ammutinarono: se non che circondati da altre truppe e da uno stuolo di Carbonari prontamente condotto dal Menichini, dovettero tentare di aprirsi la via colle armi. Diciassette di loro caddero morti, e gli altri furono fatti prigioni. Un consiglio di guerra li condannò alla fucilazione: ma il Vicario mitigò la pena commutandola in quella dei ferri. che né pure ebbero a sostenere, perché in tanto rilasciamento d'ogni disciplina e debolezza della autorità, i colpevoli, dopo breve prigionia, tornarono liberi.

Del resto il nuovo governo. secondando lo spirito della rivoluzione, diminuì della metà il prezzo del sale per contentare la moltitudine(118). Liberò dalle carceri tutti coloro che erano stati arrestati per cause politiche o di sette; abolì (28 luglio) l'azione penale per tutti i prevenuti di reati correzionali o di polizia commessi fino a quel giorno, salvo solo alle parti offese l'azione civile. Ma ciò non fu sufficiente a contentare gl'infiniti Carbonari, che avevano avuto parte nella rivoluzione, e che intendevano di lavare con questo specifico i più gravi delitti, di cui molti di loro erano rei. Laonde vollero e conseguirono dal governo il seguente decreto dell'8 agosto:

«Essendosi saputo che la forza del voto unanime della politica rigenerazione sia stata così energica, che facendo tacere tutte le vendette particolari, abbia fatto fraternizzare gli offensori e gli offesi, per modo che sono insieme concorsi senza alcun disordine alla proclamazione del regime costituzionale; e volendo sempre più confermare lo spirito d'armonia e di concordia tra i popoli, si è riconosciuta l'utilità di ampliare l'abolizione delle azioni contenuta nella legge dei 28 di luglio. Decretasi pertanto essere abolite le azioni penali per tutti i misfatti commessi nei domini al di qua del Faro prima dei 7 luglio, e ciò per tutti coloro che non trovavansi nelle forze dei tribunali. Eccettuasi soltanto il parricidio, il veneficio, la calunnia e la falsa testimonianza in cause capitali, l'omicidio per causa di furto o di abuso di persona, e l'aggressione sulle pubbliche strade(119). »

Dovevansi inoltre ricompensare i promotori e gli agenti della fortunata rivoluzione: e il general Pepe, che la rappresentava qual capo principale, chiese, per coloro che erano convenuti a Monteforte, duecento promozioni e settemila croci dell'ordine militare di San Giorgio. Riteneva il generale che in vista dell'importanza smisurata, cui egli era in virtù dei recenti avvenimenti pervenuto, nessuna opposizione potesse venir fatta alle sue inchieste: ma il Carascosa, ministro della guerra si pronunciò apertamente contro sì esorbitanti pretese. Quindi rancori fra loro due, che non furono poca parte negli avvenimenti che precipitarono la fine di quella rivoluzione. Vennero nondimeno concessi molti favori alle milizie ribellate. Da principio tutti li ricusarono, dichiarandosi abbastanza ricompensati dal felice successo della intrapresa. Bensì dopo qualche tempo alcuni li accettarono, altri persisterono nel nobile rifiuto. Intanto da questi premi straordinari a taluni uffiziali insorse malcontento negli altri. ed alcuni spinsero lo sdegno fino a congiurare per abbattere il general Pepe dal suo grado supremo: effetto che, per timore di peggio, lo stesso Carascosa fece indirettamente svanire. I soldati del reggimento Borbone cavalleria, il primo che alzasse il grido di costituzione, furono costituiti in un corpo separato, che ebbe il titolo di Squadrone Sacro. Frattanto la Carboneria sempre più si ampliava colla aggregazione di ogni maniera di cittadini: le donne stesse vi erano accolte col titolo di giardiniere. Nella sola Napoli annoveravansi novantacinque vendite, una delle quali contava fino a ventottomila fratelli(120).°gni magistratura, ogni reggimento aveva la sua. I più schivi si lasciavano ascrivere per non essere molestati dai turbolenti.

«Vincitrice alla fine, e non più cauta de suoi misteri, la setta (dice il Colletta acerbo narratore delle sue gesta) bramò un trionfo; e compose coi mistici suoi riti una sacra e pubblica cerimonia. In giorno di festa, moltitudine di Carbonari, profusamente spiegando le dovizie dei loro fregi, ad ordinanza di processione, stando nelle prime file preti e frati, in petto ai quali miravasi la croce ed il pugnale, protervi al guardo, taciturni, a passi lentamente misurati, si recarono in chiesa, dove un sacerdote, settario o intimidito, benedisse la insegna ed i segnati. »

Sebbene nei primi momenti, per essersi consumata la rivoluzione senza sangue, e averla il re sì prontamente sancita, i semplici, che, ivi come da per tutto, erano i più, andassero persuasi che un'era di pace e d'invidiabile felicità dovesse succedere alla passata, non tardarono a scorgere i segni di gravi e diversi pericoli, che potevano eventualmente intorbidare quella gioia. Da una parte il principe di Cariati, inviato presso la corte di Vienna in qualità di ambasciatore straordinario, era tornato prontamente a Napoli, recando la nuova della pessima accoglienza ricevuta, e dell'ostile atteggiamento dei grandi potentati. Dall'altra l'insurrezione della Sicilia, della quale saremo per trattenerci distesamente più innanzi, ed operata a fine di conseguire la sua indipendenza da Napoli, qualunque ne fosse il governo, accennava a pericoli ancora più prossimi e non meno gravi(121).

Fu quindi forza rivolgere il pensiero alla ricomposizione di un nuovo e numeroso esercito, e ciò tanto più prontamente che l'antico, in quella immensa perturbazione, poteva considerarsi pressoché affatto sciolto e venuto meno. Si disegnò raccogliere sotto le bandiere un effettivo di cinquanta mila uomini. Ma siccome i risultamenti della coscrizione si temettero troppo lenti al bisogno, furono richiamati ad arruolarsi volontariamente tutti i vecchi soldati, che nella ristorazione avevano ricevuto il loro congedo. Speravasi, grazie a questo patriottico appello, trovare alcune momentanee risorse. e si ottenne un resultato, che eccedette ogni speranza. I volontari si presentarono in così gran numero, che fu duopo ringraziarne molti per allora, rimettendo l'accettazione dei loro servigi ad altro tempo: e l'esercito regolare si trovò bentosto elevato a cinquantadue mila uomini.

Si avvicinava frattanto l'epoca dell'apertura del Parlamento, stabilita sino dal 22 luglio con decreto del Vicario Generale pel di 1.° di ottobre. In tale occasione egli aveva così parlato con pubblico proclama agli elettori.

«All'avvicinarsi di un'epoca nuova per voi, il mio cuore prova quella sollecitudine di chi attende un bene, e pure teme le difficoltà, le quali possono contrariarlo. Mi compiaccio a sperare. che, penetrati delle importanti funzioni delle quali i vostri deputati saranno incaricati, voi porrete mente alla scelta delle persone, dalle quali dipenderà la futura ed eterna sorte della nazione. Ascoltate la mia voce come quella dell'amico, più che del Vicario Generale del mio augusto padre. Rivolgete le vostre mire agli uomini probi, incorruttibili. virtuosi, distinti per un vero e puro amore di patria. Elevatevi al di sopra di ogni passione, e di ogni personale interesse. Gli uomini e gl'interessi personali passano, ma le nazioni sono eterne. Che l'avvenire sia avanti ai vostri occhi più che il presente! Quanto a me dichiaro che non ho altro interesse che il vostro.(122)»

Ma le elezioni, che che ne dica il Colletta, non corrisposero generalmente alle prudenti insinuazioni di questo invito, ed ebbero luogo per la maggior parte nel senso della rivoluzione e del carbonarismo. Alcuni collegi elettorali manifestarono aperta avversione contro l'antica nobiltà: e nella loro ingratitudine o nel loro completo obblio della storia nazionale, la impedirono violentemente dall'esercitare il diritto di suffragio: tantoché in settantadue deputati delle provincie di qua dal Faro si moverarono dieci preti, otto professori di scienze, undici magistrati, nove dottori, due impiegati del governo, tre negozianti, cinque militari, ventiquattro possidenti, due soli nobili; mentre su ventiquattro deputati siciliani, la terza parte era di nobili, la quarta di preti, e gli altri dieci di tutti i ceti della società.

Giunse finalmente l'aspettato di 1.° di ottobre, stabilito. come sopra abbiam detto, all'apertura del Parlamento nella gran chiesa dello Spirito Santo, essendosi stimata insufficiente la sala di San Sebastiano scelta per servire di locale alle sedute parlamentari. Il re Ferdinando preceduto dai principi e principesse della casa. e accompagnato dal vicario del Regno. uscì dal palazzo in gran pompa, e percorse in tutta la sua lunghezza la via di Toledo, invasa sino di prima mattina da una immensa folla di popolo, che a mille voci lo applaudiva, e spargeva fiori sul suo cammino, e liberava uccelli al suo sguardo, per doppio simbolo (dice il Colletta) di allegrezza e di libertà. Fra questa gioia giunse in chiesa, ov'era tanto numero di spettatori, quanti nel vasto edifizio a stento capivano. E frattanto così profondo era il silenzio, che parea vuota la sala: sia che la maraviglia impedisse le voci, sia che ciascuno intendesse a scuoprire nel viso del re i secreti del cuore. Ma poiché si mostrò lieto e sereno, da mille e mille ripetuti Evviva fu salutato. Egli, fatta riverenza all'altare e poscia al pubblico, sedette in trono, mentre alla manca, sopra scabello minore, sedeva il Vicario, e stavano in piedi ai suoi fianchi i grandi della corte e il general Pepe. Il cavalier Galdi, presidente del Parlamento, e il più anziano dei secretari si avvicinarono al trono, il primo tenendo in mano il libro dei Vangeli, e l'altro un foglio contenente la formula del giuramento. Il re, alzatosi, prese il foglio, pose sul sacro libro la mano, e ve la tenne finché a voce alta ed intesa pronunziò il giuramento. E poi, rendendo saluti agli Evviva del popolo, nuovamente sedè. Parlò allora il presidente Galdi, al cui discorso si vide il re dare a più riprese segni di approvazione.


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Alzandosi poscia il Vicario, e preso rispettosamente un foglio dalla mano del padre, lesse un lungo discorso pieno di ammonimenti e precetti, nel quale così il re si esprimeva(123):

«Comincio dal render grazie a Dio, che ha coronata la mia vecchiezza, circondandomi dei lumi dei miei amatissimi sudditi. In voi considero la nazione come una famiglia, della quale potrò conoscere i bisogni e soddisfare i voti. Voi mi presterete d'ora innanzi la vostra mano nell'adempimento del mio sacro dovere: ed io, raccogliendo dalla propria vostra voce i voti della nazione, sarò liberato dall'incertezza di doverli interpretare. Per conseguire l'oggetto delle nostre comuni cure, io debbo richiamare la vostra attenzione alle importanti operazioni che ci sono commesse, e alle difficoltà che dobbiamo superare. Voi siete in primo luogo incaricati della importante opera della modificazione da farsi alla costituzione spagnuola, onde adattarla al nostro bisogno. Molte delle nostre instituzioni sono compatibili con qualsivoglia ordine politico. Tali sono la divisione del nostro territorio, il sistema di pubblica amministrazione, ed il nostro ordine giudiziario. Io sono sicuro che il Parlamento valuterà sopra tutto il bene di evitare quanto più sarà possibile i cangiamenti nell'ordine interno, ed in tutto ciò che fu generalmente sanzionato dall'esperienza. Vi raccomando principalmente l'assicurare l'ordine pubblico, senza del quale ogni sistema politico e civile resterebbe senza effetto. Voi saprete dar vigore al governo, la forza del quale si confonde con quella delle leggi, quando il suo andamento è da queste diretto. Custodite gelosamente le garanzie individuali de' cittadini, ma sottoponete le volontà particolari alla generale. e rivestite l'autorità, che la rappresenta, di tutti i mezzi necessari a farla rispettare. L'inviolabile attaccamento, che la nazione ha dimostrato alla nostra Santa Cattolica Religione, mi rende sicuro che il Parlamento ne custodirà la purità, e conserverà con ciò il più bel pregio della costituzione. Ho ordinato a tutti i miei segretari e ministri di Stato di presentarvi un rapporto dello stato di ciascun ramo. Lo stesso desiderio, per quanto riguarda le sue operazioni, ho manifestato alla Giunta provvisoria di governo. Lo stato delle nostre relazioni coll'estero è delicato; ma a superare le difficoltà che presenta, può forse essere bastevole la moderazione unita ad un contegno nobile e fermo. La necessità di questo contegno vi persuaderà altresì de' sacrifici che la nazione deve fare nel ramo delle finanze. Voi troverete preparate tutte le altre istituzioni, dalle quali dipende l'interna prosperità del regno. Io ho conservato dopo il 1815 tutte quelle che l'esperienza ed il voto nazionale indicavano come necessarie ed utili. Quanto agli affari ecclesiastici, l'ultimo concordato ha fatto sparire tutte le antiche controversie colla Corte di Roma. Io sono persuaso che in tutte le future transazioni il Parlamento si farà sempre guidare dal rispetto dovuto alla Santa Sede, e dalla necessità di stringere sempre più le relazioni di amicizia, che debbono esservi fra due stati vicini, e insieme legati per un comune interesse. Deputati, niun momento nella storia della monarchia è stato più importante di questo. L'Europa tutta ha gli occhi sopra di noi. L'Onnipotente, che regge il destino di tutti i popoli, ci ha messo nella posizione di acquistarci con la moderazione e con la saviezza la stima di tutte le nazioni. È nelle nostre mani il consolidare le nostre istituzioni, ed il renderle stabili, durevoli, e tali che producano la nostra prosperità. Quanto a me non farò che secondare il voto de' miei popoli. Io desidero portare con me alla tomba la vostra riconoscenza, e meritare il solo elogio di avere sempre voluto la vostra felicità. »

Gli applausi universali, che seguirono a questo discorso, ne attestarono il comune gradimento.

Finita quella lettura, il general Pepe si accostò al trono a rassegnare al re il comando dell'esercito, dicendo «i suoi voti essere adempiti. Fedele alla sua promessa, ed ai precetti costituzionali, deporre ai piedi del re ed in presenza dei rappresentanti della nazione il comando in capo dell'esercito, che il solo attaccamento alla sua patria ed ai veri interessi del sovrano gli avevano fatto accettare. Felice nella tranquillità. sarebbe sempre stato il primo ad eseguire gli ordini del re, ed a spargere il suo sangue per la difesa della costituzione e del trono, qualunque fosse stato il grado, in cui fosse piaciuto al Sovrano di collocarlo. Delle quali parole ebbe lodi dal re.

Parlò dopo il duca di Calabria, non come vicario, nella qual dignità veniva pertanto confermato, ma come figlio, dirigendo al padre discorso non di politica e di stato, ma della gratitudine sua e della sua stirpe per averne assodati i fondamenti nella bene augurata costituzione. Dopo ciò, il re stesso dichiarò aperto il Parlamento e si parti in mezzo a nuovi e prolungatissimi evviva.

Prima occupazione del Parlamento fu di instruirsi dello stato del regno. E cominciò dal prendere cognizione di un manifesto della Giunta provvisoria di governo, che allora appunto rimaneva sciolta, e che con quello volle render conto dell'uso che aveva fatto della autorità temporariamente compartitale. Incominciava il manifesto dal dichiarare «la recente riforma politica non essere stata l'opera di una setta, ma bensì l'effetto della volontà unanime del popolo, potendo bensì una mano di faziosi turbare violentemente la forma d'uno stato, ma non soggiogare la volontà o l'opinione d'una nazione. Di fatti un partito, per lungo tempo vincitore, avere rovesciato troni, e mutato forme e leggi in ogni Stato. I governi, impotenti a resistergli, essere stati soccorsi dai popoli. che avevano rivendicato i loro diritti, ed avevano provato essere la forza delle nazioni maggiore di tutti gli eserciti. Dopo di ciò essere risibile il progetto di coloro, che avevano creduto poter ristabilire come scudo dei troni la massima, che le nazioni erano date da Dio in patrimonio ai principi. Più saggi e moderati di loro, i popoli avere vendicato l'onta fatta all'umanità ed alla ragione, correggendo l'empia dottrina con un codice politico, che rendeva sicure le nazioni dei loro diritti, ed i sovrani della loro inviolabilità. I Napoletani avere scosso due volte il giogo degli stranieri, ed essere corsi incontro all'amato loro re Ferdi nando. Ma i Napoletani del 1815 non essere più quelli del 1798. Essere stati anch'essi ammaestrati nella scuola delle politiche calamità, ed istruiti dall'esperienza che ogni rivoluzione apre il campo a nuove passioni ed a nuovi bisogni. Desiderare pertanto una forma civile, che ponesse un termine alle loro vicende: ma invece avere avuto un dispotismo ministeriale e la continuazione di gravi carichi. sebbene nulla più ritornasse dal tesoro alla nazione. Queste due cagioni avere ridestato la pubblica opinione contro il governo. Alla generale disposizione degli animi essersi poi unita quella dell'esercito retto da uno straniero ((124) con disciplina e scettro boreale. In tale stato di cose essersi pensato di creare una forza interna nelle provincie, composta di proprietari, i quali sentivano più che gli altri il peso del sistema oppressore dei tributi; e queste milizie essere state appunto quelle che avevano concepito ed eseguito il progetto di liberare la loro patria dal dispotismo ministeriale. »

La Giunta riferì quindi quali fossero state fino a quel dì le sue operazioni e aggiunse un cenno dello stato in cui allora trovavasi ogni ramo della pubblica amministrazione. ma senza troppo diffondersi intorno a ciò, volendo lasciare questo ufficio ai singoli ministri o direttori dei diversi supremi dicasteri(125). Il ministro di giustizia espose quindi l'amministrazione giudiziaria essere caduta in un estremo languore: la pubblica voce reclamare una riforma non solo nel personale della magistratura, ma eziandio in alcune istituzioni, e sembrare opportuno lo stabilimento del giurì nei giudizi criminali. Questo poi non poter aver luogo senza indurre altri cambiamenti in tutto l'attuale sistema giudiziario. Essere per presentare quanto prima al parlamento progetti a ciò relativi ((126).

Il ministro dell'interno principiò dal canto suo ad accennare «l'amministrazione essersi già trovata in una condizione deplorabile allorquando il regno era governato da viceré stranieri. Carlo III aver cominciato a ricondurre l'ordine ed a preparare il bene, e questo essere poi stato di molto accresciuto dal re Ferdinando. Nella invasione del 1806 l'interesse dei conquistatori, il desiderio d'innovare e di meritar gloria. secondati dai germi già esistenti e dall'amor patrio dei cittadini, aver fatta seguire una generale riforma, che tanti avvenimenti avevano preparato. Nel 1815 il re avere riconosciuto l'utilità del nuovo ordine di cose e non solo averlo conservato per intero, ma avere anche cercato di migliorarlo. Nondimeno il successo non essere stato così pieno come per l'addietro. Avrebbe pertanto esposto lo stato di ciascun ramo quale era nel 1815, e quale si trovava ora dopo cinque anni. Spettare poi al parlamento di rettificare quanto occorresse. Disse fra le altre cose, che «nei dominii al di qua del Faro la popolazione nel 1819 ascendeva a 5. 054. 000 individui. Dal 1800 al 1818 il numero dei nati essere stato di un milione ottocentosettantadue mila: di questi soltanto dugento ottantamila essere stati vaccinati: quindi calcolando la mortalità dei vaiolosi al diciassette per cento, essersi per tal mezzo salvata la vita a quarantasettemila individui: dugento e settantamila essersi, in difetto di quello, perduti. I proietti essere allora quindicimila e cinquecento, e constare dall'esperienza che i nove decimi perivano poco dopo la loro esposizione. Seicentomila ducati essere in quest'anno destinati ai lavori pubblici per conto del governo e delle provincie. Le rendite comunali ascendere a quattro milioni settecento novantatrè mila ducati. Quelle dei luoghi pii e degli stabilimenti delle provincie ad un milione e ottantamila ducati. Nella capitale gli stabilimenti destinati a ricevere gl'infermi ed i poveri, avere una rendita di annui ducati quattrocento trentotto mila. Cinque mila e cento individui essere mantenuti nell'Albergo dei Poveri, e nei luoghi dal medesimo dipendenti. Cinquecento sessanta mila ducati essere assegnati alla pubblica istruzione, ed ottantaseimila alla dotazione del Teatro di San Carlo. Una sola coppia di ballerini costare quattordici mila ducati. Nel commercio dal 1815 al 1819 essere stata un'annua importazione di quarantacinque milioni di ducati, e la esportazione essere stata soltanto di trentanove milioni: quindi una perdita di sei milioni(127). »

Il ministro delle finanze ai 5 di ottobre annunziò «l'introito presunto del 1820 essere di 19. 580. 000 ducati. In questa somma la Sicilia essere soltanto compresa per 2. 190. 000 ducati contingente assegnatole per la quarta parte delle spese di diplomazia, della guerra e della marina, poiché per il restante essa teneva conti separati. Essersi calcolati ducati 7. 450. 000 per la fondiaria: 7. 000. 000 dai dazi indiretti, e 5. 000. 000 da introiti diversi. Fra questi ultimi i diritti del registro calcolarsi in 515. 000 ducati; quelli del bollo in 458. 000, e quelli delle ipoteche in 150. 000. I calcoli delle spese essere: 590. 000 ducati agli affari esteri: 740. 000 alla giustizia: 50. 000 agli affari ecclesiastici: 2. 477. 000 all'interno; 7. 642. 000 alla guerra: 1. 800. 000 alla marina: 74. 000 alla cancelleria; 194. 000 alla polizia: 6. 995. 000 alle finanze, e fra questi seicento novantaseimila alla casa reale (oltre altri seicento e ventisette mila che ne aveva dalla Sicilia), cento venti mila pel mantenimento dei reali siti, ed ottanta mila in supplemento per gli assegnamenti ai principi reali, che erano a carico dell'amministrazione dei beni riservati: questi beni essere di una rendita presupposta di dugento e tre mila ducati. Esservi negli introiti una mancanza di 5. 914. 000 ducati proveniente dalla diminuzione del prodotto di diversi dazi indiretti (specialmente del sale) e dalla non esigenza delle rendite di Sicilia. Esservi inoltre un antico vuoto, che si riempiva in ogni anno colle rendite dell'anno susseguente. Sicché in tutto esservi un vuoto di 6. 000. 000. Propose quindi, e si approvò. di riempirlo col vendere alcuni beni stabili. ritirare un milione che lo stato aveva nella cassa di sconto, ed esigere quanto dovea la Sicilia. »

Nel giorno 9 dicembre poi, lo stesso ministro fece un altro rapporto al Parlamento sui debiti e crediti dello Stato al 1 luglio 1820, ed annunziò «che il debito consolidato, il quale nel 1815 era di annui ducati 940. 000, per diverse permutazioni di pensioni in rendite iscritte, ascendeva nel 1820 a 1. 420. 000 ducati: e il debito vitalizio, il quale era di 1. 044. 000 ducati annui, nello stesso quinquennio, per aumento d'altre pensioni, era asceso ad 1. 582. 000. Esservi inoltre un ruolo provvisorio di altri assegnamenti dell'annua somma di 244. 000 ducati. Sicché il totale del debito pubblico ascendeva a 5. 076. 000 ducati all'anno. Di più esservi altro debito da liquidarsi, il di cui interesse era stato calcolato ad annui ducati 500. 000(128)

Il direttore della Marina nell'esporre quanto a lui si apparteneva, così parlò: «Circondati dal mare, separati per breve intervallo dalle Reggenze dell'Africa, che, per la natura dei loro governi e per la maniera di esistere di quei popoli, mal possono rispondere della perpetuità dei trattati, non può essere soggetto di discussione per noi, se abbiamo o no da avere una marina militare. Vi furono tempi, è vero, in cui ridotta la nostra patria a condizione di provincia non ebbe più né armi né navi proprie, ma tra i mali nati da tale degradazione vi fu quello appunto che le popolazioni intere divennero vittima o preda dei pirati, le coste rimasero abbandonate, e gli uomini si accumularono sui monti. Quindi l'ingorgamento nei fiumi, l'insalubrità dell'aere. e la spopolazione progressiva. Quand'anche però la nostra posizione geografica non ci obbligasse a sostenere una forza marittima, voi non ignorate che marina mercantile non può esistere senza una marina protettrice: ed una marina mercantile può e dev'essere considerata come la nudrice, ed il sostegno di ogni ramo d'industria. In fine la marina, sia militare sia mercantile. può e vuole essere considerata un'industria produttrice. Nel nostro paese, qual si sia lo stato non florido della marina, egli è certo che attualmente trecento venti mila individui traggono sussistenza direttamente dal mare. Noi abbiamo nei domini al di qua del Faro tremila cento e ventisette bastimenti da traffico, e mille e quarantasette barche da pesca; e al di là del Faro quattrocento e trentotto barche da pesca, con mille quattrocento e trentuno bastimenti da traffico. Questo è lo stato attuale della marina mercantile: ma l'aumento delle produzioni, o la necessità dovranno spingere un numero decuplo dei nostri concittadini per le vie del mare. L'Europa d'oggi non è più quella di trent'anni fa. I progressi e l'estensione dell'agricoltura nel settentrione dell'Europa e dell'America, il basso valore delle terre e del fitti di esse in quelle contrade, la facoltà di esportare le loro derrate, le piantagioni da per tutto crescenti degli ulivi, che una volta erano credute piante esclusive dell'Italia o della Grecia, le preparazioni sostituite alle nostre sode, e la propagazione delle pecore merine han fatto sì, che i cereali, nostra principale produzione, o non trovino più compratori o abbiano molti rivali. Gli oli v'è da temere che soffrano tra qualche anno un abbassamento di prezzo: le sode non hanno più alcun valore, e le nostre lane si vendono già ad un terzo meno di quelle di Spagna, di Francia, e dell'alta Italia. Questo nuovo ordine di cose non produrrebbe che un'alterazione ne prezzi, e non un male reale se noi potessimo far senza delle produzioni straniere, e ridurre in un istante le nostre contribuzioni, il nostro stato militare e sopra tutto le spese private; ma questa economia generale, a cui pure bisogna volgersi, è più l'opera del tempo che delle leggi. Quindi in questo momento è importantissimo ed urgentissimo di aver ricorso ad altri espedienti, se vogliamo ristabilire il livello tra i nostri bisogni ed i nostri mezzi; e questo espediente è un solo, e consiste nel ricorrere alle altre sorgenti della ricchezza. Queste sono le manifatture e la navigazione. Abbiamo duecento e quarantadue bastimenti spettanti alla marina militare; ma questa forza numerica non è che apparente. Imperciocché abbiamo soltanto atti al servizio un vascello, due fregate, una corvetta e tre pacchetti con novantatrè legni minori. Altro vascello è in costruzione: due fregate e quarantanove bastimenti minori possono restaurarsi: tutti gli altri non sono più capaci di alcuna riparazione.(129)»

Parlò a sua volta il ministro della guerra, e riferì come oramai fosse in ordine un esercito di cinquantadue mila uomini (non compresi cinquemila giandarmi) mercé il richiamo dei congedati, di cui più sopra abbiam detto. Aggiunse annoverarsi nella parte del regno di qua dal Faro dugento diciannove mila uomini di milizia nazionale atti a portare le armi fuori delle loro provincie, e ad appoggiare eventualmente le operazioni dell'esercito regolare o formarne la riserva: ed essere inoltre istituiti quattrocento mila uomini di guardie urbane, da rimanere alla custodia delle provincie rispettive. Dichiarò ancora come già si desse opera a munire le piazze di frontiera e ad allestire ogni altro preparamento necessario a rimettere in assetto le cose militari del regno. Chiese intanto, ed ottenne, un soccorso straordinario di cinquecento mila ducati per provvedere al fornimento de' coscritti e del congedati richiamati sotto le bandiere. E veramente cominciava a farsi stringente il bisogno dei preparativi guerreschi per le male disposizioni dei potentati d'Europa, ormai a tutti manifeste, e non punto dissimulate al Parlamento dal duca di Campochiaro, ministro degli affari esteri. La rivoluzione Napoletana, tanto per il modo con cui era seguita, quanto per i principi che aveva promulgati, era sommamente dispiaciuta a diverse potenze e all'Austria in particolare, la quale considerava questo avvenimento lesivo ai patti stabiliti nel 1815. Non tardò quindi ad emettere una nota fino dal 25 di luglio, nella quale dichiarava «l'ordine politico stabilito nel 1815 da tutte le potenze d'Europa avere costituita l'Austria qual naturale guardiana e protettrice della pubblica tranquillità in Italia. L'imperatore avere fermamente deciso di rispondere a quest'alta vocazione, di allontanare dai con fini de' suoi stati, e da quelli de' suoi vicini ogni pericolo di movimenti che potessero turbarne la tranquillità, di non essere per soffrire alcuna offesa ai diritti ed alle relazioni garantite dai trattati ai Principi Italiani, e d'essere determinato a ricorrere alle più forti misure. qualora le rimostranze non avessero ottenuto lo scopo desiderato(130). »

Si aggiunga che il principe Alvaro Ruffo, ambasciatore napoletano in Vienna, aveva ricusato di aderire al nuovo governo stabilito nella sua patria (e così pure il principe di Castelcicala ambasciatore a Parigi) e ciò nondimeno continuava ad essere riconosciuto da quella corte. Fu allora che il governo napoletano mandò il principe di Cariati a protestare dello scrupoloso suo mantenimento delle relazioni esistenti: ma quelle proteste non furono curate, e il principe se ne tornò con assai mala soddisfazione. Per ciò venne spedito sui primi di agosto all'imperatore il duca di Serra Capriola con lettere confidenziali del re e del vicario, e coll'ordine al principe Ruffo di portarsi a Napoli a render conto della sua condotta: ma questa missione non ebbe miglior successo di quella del principe di Cariati. Il ministro austriaco ricusò di presentare il Serra Capriola all'imperatore, e solo assunse l'incarico di trasmettergli le lettere del re e del principe ereditario, ed appalesò rispetto agli avvenimenti di Napoli le stesse prevenzioni, che aveva manifestate al principe di Cariati. Il Ruffo dal canto suo, persistendo nella sua disobbedienza all'ordine ingiuntogli, venne destituito.

Successore al Ruffo era stato nominato e spedito il duca del Gallo: ma giunto a Klagenfurth dovette sospendere il suo viaggio per ordine del gabinetto di Vienna. Lamentatosi con lettera al principe di Metternich per una tale misura. n'ebbe in risposta «che l'imperatore non avrebbe potuto riceverlo senza rinunziare ai principi che gli dovevano servire di norma nella contingenza di una così grave sovversione degli ordini e dei patti stabiliti: che vedendo pei fatti consumatisi in Napoli minacciata la sicurezza dei troni, compromessa l'esistenza delle antiche istituzioni e la quiete dei popoli, Sua Maestà l'imperatore, quali che fossero i vincoli e l'affetto che l'univano al re e alla sua famiglia, non poteva agire altrimenti senza contradizione e senza autorizzare opinioni ben lontane da quelle, che egli nutriva. »

Dietro questa notificazione, l'ambasciatore lasciò gli stati austriaci e ritirossi a Bologna, mentre l'imperatore faceva sfilare nuove truppe in Italia.

Il medesimo intervenne al principe di Cimitile spedito ambasciatore straordinario in Russia: il quale vide pure a Vienna il principe di Metternich, e nelle conferenze che ebbe con quel ministro ne ricevé le stesse dichiarazioni già fatte a suoi predecessori. E dal ministro russo a quella corte seppe che l'imperatore Alessandro non l'avrebbe ammesso come inviato del nuovo governo «non volendo esso dare un passo che non o fosse in stretta consonanza con quelli de suoi alleati in cosa tanto grave, come i presenti affari del regno di Napoli, che reclamavano l'unanime intervento di tutti i capi dell'ordine europeo. »

Dopo questa dichiarazione del ministro russo dovette il Cimitile sgombrare dagli stati austriaci e ritirarsi pur esso a Bologna, di dove fu mandato ministro in Inghilterra.

Non v'era più dunque da dubitare sul concerto ostile delle grandi potenze rispetto alla questione napoletana. Il duca di Campochiaro lo fece aperto fino dai primi giorni al Parlamento, mentre scriveva al principe di Metternich «i Napoletani essere tranquilli, e perfettamente uniti di principi, di volontà e di sentimenti. Rispettare colla più scrupolosa esattezza i diritti e la indipendenza delle altre nazioni. L'Austria poi non avere alcun diritto d'immischiarsi negli affari interni delle Due Sicilie. La convenzione del 1815 essere limitata alla forma del governo da stabilirsi dal re nella circostanza del suo ritorno in Napoli in quell'epoca. Doversi inoltre osservare che trattavasi di una semplice convenzione, e non di una clausola che contenesse obbligazione per un tempo determinato. Ma supponendo eziandio che l'articolo fosse obbligatorio per sempre, esso non sarebbe punto stato violato. Imperciocché la costituzione consolidava il trono, e garantiva la legittimità del diritto. Non aver dunque l'Austria alcun diritto di lagnarsi delle riforme eseguite nel Regno delle Due Sicilie. Quindi chiedere una positiva e categorica risposta sugli armamenti straordinari, e sull'attitudine che dessa aveva preso verso il governo di Napoli. Sperare che lo splendore delle grandi virtù dell'imperatore Francesco non sarebbe oscurato dal meditarsi un attacco contro il regno delle Due Sicilie. Ma se disgraziatamente questa speranza fallisse, il re e la nazione intiera determinati a difendere fino all'ultima estremità l'indipendenza del regno e la costituzione, avrebbero saputo piuttosto seppellirsi sotto le rovine della patria, anzi che piegare il capo sotto un giogo straniero. L'esempio dell'eroica resistenza degli Spagnuoli al dispotismo di Napoleone avrebbe servito di esempio ai Napoletani. ((131)»

Ma l'Austria rimase ferma nel suo proposito, tanto più che nelle identiche vedute sue convenivano altre grandi potenze. Anzi, se si eccettuino la Spagna, i Paesi Bassi, la Svezia e la Svizzera, tutti gli altri Stati d'Europa si astennero dal riconoscere il nuovo governo napoletano, sebbene continuassero a mantenere in quel regno i loro rappresentanti. Anche la Russia e la Prussia, gelose forse della preponderanza che una guerra fortunata poteva a quella conferire, allestivano esse pure i loro eserciti e si offerivano all'Austria per il caso in cui si fosse dovuto venire alla ragione delle armi. Dall'altra parte i liberali di tutto il mondo, facendo plauso alla rivoluzione di Napoli, la incoraggiavano e le si offerivano aiutatori: due inglesi di fama offerivano con se stessi quattro reggimenti di volontari: case ricche di Londra e di Parigi non dubitavano di proferire imprestiti al nuovo governo: generali stranieri, non potendo per loro leggi combattere di persona in suolo straniero, consigliavano sulla difesa della frontiera, o per teorica trattavano della resistenza di popolo agli eserciti ordinati: da ogni parte si affaticavano gl'ingegni a scuoprire e a comunicare secretamente ai Napoletani nuove macchine ed artifizi peregrini di guerra(132).

Era in somma caso di gran momento, e del quale gli alleati credettero dovere al più presto troncare la prolungazione: a tal che, dietro proposta della corte di Vienna, fu stabilita una ragunanza in Troppau, nella Slesia austriaca, per conferire di questa grave bisogna. E tra la fine di ottobre e i primi di novembre vi si recarono i sovrani d'Austria, Prussia e Russia coi principali ministri e coi rappresentanti delle altre potenze, che risiedevano presso di loro, investiti delle opportune facoltà dai rispettivi governi.

I tre monarchi presenti di persona, siccome quelli ai quali maggiormente era a cuore di venire a pronte deliberazioni, dichiararono per primi unanimemente «gli avvenimenti seguiti o nel mese di marzo in Ispagna, nel luglio in Napoli e posteriormente in Portogallo, avere necessariamente eccitato un profondo sentimento d'inquietudine in coloro, che si erano incaricati di invigilare alla tranquillità degli stati. Avere essi recentemente soffocata la rivoluzione, e vedersi frattanto che questa rialzava la testa: esser quindi necessario deliberare nuovamente sui mezzi di prevenire i mali, che un'altra volta minacciavano di piombare sull'Europa. Essere naturale che per combatterla dovessero usarsi gli stessi mezzi adoperati così felicemente nella memorabile lotta, che aveva liberata l'Europa dal giogo sopportato per venti anni. Tutto far sperare che questa lega formata nelle più difficili circostanze, coronata dal più brillante successo, e consolidata dalle convenzioni del 1814,1815 e 1818, come aveva preparata, fondata e consolidata la pace del mondo, e liberato il continente Europeo dalla tirannia militare del rappresentante della rivoluzione, sarebbe anche capace di mettere un freno ad un nuovo potere non meno tirannico, non meno spaventevole, a quello cioè della rivolta e del delitto. Tale essere il motivo e lo scopo della loro riunione. Aver essi esercitato un diritto incontrastabile, concertando insieme i mezzi di sicurezza contro quegli stati, nei quali un rovescio di cose cagionato dalla rivolta doveva considerarsi come esempio fatale a tutti i governi. L'esercizio poi di questo diritto essere tanto più urgente, quanto che i rivoltosi cercavano di comunicare agli stati vicini le disgrazie in cui si erano immersi. In tale attitudine pertanto, ed in tale condotta esservi un'evidente rottura del patto che garantiva a tutti i governi d'Europa, oltre la inviolabilità del loro territorio, il godimento di correlazioni pacifiche, le quali escludevano qualunque usurpazione reciproca sui loro diritti. Essere per altro d'avviso, che si adoperassero da prima i consigli. poi, questi non bastando, le armi a far cessare gli sconcerti nel regno delle Due Sicilie: che s'invitasse il re Ferdinando a Lubiana, dove si sarebbero trasferiti essi medesimi, affinché, libero da qualunque influenza, potesse farsi mediatore fra i suoi popoli traviati e gli Stati dei quali minacciavano la tranquillità: che finalmente tali deliberazioni si comunicassero alla Francia e all'Inghilterra invitandole a cooperarvi.(133)»

Assentirono a queste conclusioni tutte in generale le potenze, all'infuori dell'Inghilterra, e con certe limitazioni la Francia. La prima non espresse da principio ufficialmente la sua negativa; ma si tenne in disparte, finché ai 19 di gennaio del seguente anno indirizzò al Congresso una nota, della quale ci sembra opportuno di rendere in questo luogo la sostanza. Dichiaravasi in quella «che le deliberazioni di Troppau comprendevano due oggetti distinti: cioè lo stabilimento di alcuni principi generali per regolare la condotta politica futura dei collegati nei casi in esse indicati, e il modo di contenersi, secondo quegli stessi principi intorno i presenti affari di Napoli. Il sistema dei mezzi proposti, quanto alla prima parte, se dovesse essere reciproco, sarebbe direttamente contrario alle leggi fondamentali dell'Inghilterra. Ma quand'anche non esistesse questa obbiezione perentoria, il Governo inglese riguarderebbe nulla di meno i principi, su cui quelle disposizioni sono fondate, come tali da non potersi ammettere con sicurezza nel sistema del diritto delle genti. Credere che la loro adozione sanzionerebbe inevitabilmente, e presso monarchi meno benefici potrebbe col tempo condurre ad un intervento più frequente e più esteso negli affari interni degli stati, di quello che, secondo la propria convinzione, non lo pretendevano le auguste parti che li adottavano. Credere inoltre che questi principi non potessero conciliarsi coll'interesse generale, né coll'autorità e la dignità dei sovrani indipendenti. Non credere poi che, secondo i trattati esistenti, i collegati fossero autorizzati ad assumere poteri così generali. Non credere similmente che potessero arrogarsi tali poteri straordinari in forza di qualche recente transazione diplomatica fra loro stessi, senza attribuirsi una supremazia incompatibile coi diritti degli altri stati; ed anche acquistando questi poteri coll'accessione speciale di questi stati medesimi, senza introdurre in Europa un sistema federale non solo gravoso e poco proprio ad ottenere l'intento, ma conducente ad inconvenienti gravissimi. »


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«In quanto poi a ciò che concerneva in particolare l'affare di Napoli, il governo britannico non avere dal primo momento esitato ad esprimere la sua forte disapprovazione sul modo e sulle circostanze colle quali si era fatta la rivoluzione; ma nel tempo stesso aver dichiarato alle corti collegate che non credeva di dovere e né anche di poter consigliare un intervento ostile e diretto. Ammettere nulladimeno che alcuni stati europei, e specialmente l'Austria e alcune potenze italiane, potessero giudicare che le circostanze in cui si trovavano fossero differenti da quelle dell'Inghilterra: e dichiarare non essere stata sua intenzione di pregiudicare la questione in ciò che poteva loro concernere, né d'intervenire nella condotta che quegli stati avessero stimato a proposito di adottare per la propria sicurezza, quante volte però fossero pronte a dare tutte le ragionevoli garanzie che le loro mire non fossero dirette ad oggetto d'ingrandimento, né sovversive del sistema territoriale dell'Europa qual era stato stabilito dagli ultimi trattati. Il governo inglese pertanto do ver ricusare il richiesto assenso alle disposizioni generali che si erano adottate come fondate sui trattati esistenti, e protestare contro l'interpretazione data ai medesimi. Del resto niun altro governo essere più disposto a sostenere il diritto di uno stato qualunque ad intervenire quando la propria salvezza od i suoi essenziali interessi fossero minacciati dagli affari interni di un altro stato. Ma poiché credeva che soltanto la più assoluta necessità potesse giustificare l'uso di un tal diritto, e la medesima dovesse dirigerlo e limitarlo, non poter ammettere ch'esso potesse avere un'applicazione generale e senza distinzione a tutti i movimenti rivoltosi, senza avere riguardo alla loro influenza immediata sopra qualche stato, e che se ne facesse la base di una lega. Riguardare questo diritto come un'eccezione a principi generali della più alta importanza, e come un diritto il quale propriamente non derivava se non da circostanze speciali. Ma credere nel tempo stesso che le eccezioni di questo genere non potessero giammai, senza il maggior pericolo, essere ridotte in regole tali da inserirsi nella diplomazia ordinaria degli stati, e nelle istituzioni del diritto delle genti. Del resto rendere giustizia alla purità delle intenzioni, che aveva senza dubbio diretto le auguste corti nell'adottare le loro disposizioni. La differenza dei pareri, che era tra esse ed il governo britannico, relativamente a questo oggetto, non poter recare alterazione qualunque alla cordialità ed all'armonia che regnavano fra collegati sopra ogni altro oggetto, né raffreddare lo zelo comune nel dare il più compiuto effetto a tutti i loro impegni attuali.(134)»

Le limitazioni della Francia, alla quale più che ad ogn'altra potenza premeva la continuazione della pace, consistevano in ciò, che mentre ella aderiva ai principi formulati dall'Austria, dalla Prussia e dalla Russia, intendeva che avessero a condursi gli affari di Napoli ad una conciliazione senza ricorrere a mezzi ostili, finché ogn'altro più longanime temperamento non fosse affatto esaurito, e profferiva d'interporsi a questo fine. E l'interposizione non spiacque, sebbene non fosse ufficialmente accettata, non volendo i tre sovrani impegnarsi senza conoscer prima quali modificazioni fossero per proporre o consentire i Napoletani. Frattanto così scriveva da Parigi il loro incaricato d'affari sotto il dì 11 novembre.

«L'avversione dei gabinetti europei al modo con cui la costituzione si era ottenuta formare il nodo più forte della questione. La camera unica dei deputati, le restrizioni della prerogativa reale, l'incoerenza di partecipare ad un'assemblea i negoziati diplomatici, la nomina agli impieghi della quale disponeva il parlamento, l'inceppamento del potere esecutivo, l'odiosità del veto lasciata nel solo governo, e questo veto anche insufficiente perché solamente sospensivo, ed altre disposizioni della costituzione spagnuola giudicarsi dalle varie potenze come tanti germi di disordine e di anarchia, ed incompatibili colla tranquillità dell'Europa. In tale stato di cose, per evitare una guerra e le conseguenze che ne sarebbero derivate. non esservi altro mezzo che la rifusione della costituzione spagnuola, o piuttosto la formazione di una costituzione napoletana. Stabilisse questa una camera di pari; attribuisse al re la facoltà esclusiva di nominare i consiglieri di stato, l'iniziativa delle leggi, la facoltà di sciogliere il parlamento ed il veto assoluto. Dopo tali modificazioni doversi chiedere la mediazione della Francia, ed esservi speranza di ottenerla. Insomma doversi andare incontro con dignità ai desideri dell'Europa.° aspettarsi la guerra con tutte le sue conseguenze. Modificare da sé la costituzione, o aspettare che altri venisse a modificarla violentemente.

I ministri napoletani, e con loro i più prudenti fra quelli che versavano nei pubblici negozi, andavano intimamente persuasi e dei difetti intrinseci della costituzione, e della indeclinabile necessità di profittare degli avvisi e della mediazione francese per tentare di modificarla, e non esitavano a comunicare il dì 2 di dicembre al Parlamento il dispaccio surriferito. Ma la fazione dei Carbonari, alla quale Guglielmo Pepe, che mal comportava la perdita del suo lato comando, erasi interamente dedicato, agitavasi allora con più violenza che mai: più non respirava che la guerra, e andava altamente proclamando che una pace, ottenuta con qual si fosse concessione alle potenze Europee, sarebbe a un tempo sventura ed onta alla patria. né il Parlamento era in grado di far argine a quell'impetuoso torrente. Di tre fazioni che lo componevano (così ne parla il Colletta), una era di troppo liberi, forte di numero fortissima per aiuti popolari, ma ignara, ineloquente: un'altra d'incuriosi dello stato, provvidi dell'avvenire, taciturna, inchinevole al bene, timidissima, nulla per ingegno, potente solo negli scrutini: la terza dei moderati, dove stavano la eccellenza del dire, l'altezza della mente, e dei pochi che la componevano erano primi per eloquenza Poerio. Borelli, Galdi, e per dotto scrivere Dragonetti e Niccolai. Nelle contese però vinceva il terrore, perciocché la Carboneria dominava in secreto, tanto che alcun deputato non ardiva contrastare le passioni, benché sfrenate, di lei. E però i discorsi alla tribuna nelle materie astratte erano alti. liberi e maravigliosi, nelle concrete bassi e servili al popolo.

Da questa malaugurata disposizione degli animi risultò quello, che naturalmente era da attendersi, e che forse gli alleati speravano, che, cioè, la mediazione della Francia fu rigettata, e alla comunicazione ministeriale fu risposto il dì 5 dal Parlamento:

«L'unità della Camera avere un compenso nel Consiglio di Stato; non sembrare ristretta la prerogativa reale. ma bensì il potere dei ministri. Non essere prescritta la necessità d'indicare all'assemblea legislativa i negoziati diplomatici, ma di renderle conto dei risultamenti di essi: non potere tornar molesta al Governo una Deputazione destinata alla sola vigilanza. Il Parlamento non avere sugli impieghi altri diritti fuorché quelli di presentare le terne per il solo Consiglio di Stato. Se la forza esecutiva era inceppata nel male, essere libera nel bene. Il veto non mostrarsi sotto l'aspetto di odioso, o l'odiosità dover ferire il Consiglio assai più che il monarca. In fine non sembrare inefficace un atto, che poteva differire per anni la sanzione delle leggi, e che necessitava con questo mezzo al consenso i due poteri sovrani. Il premurare poi un altro sovrano a farsi mediatore di pace esser forse un mettersi nel caso di transiger più o meno intorno la costituzione di Spagna: ma questa essere segnata indelchilmente nel loro mandato, nei loro giuramenti. nelle loro coscienze, nella religione del re e nella volontà del popolo. »

Così la camera unica, la sanzione in certi casi forzata delle leggi proposte dal Parlamento, la deputazione permanente, che erano gli articoli che urgeva modificare, furono confermati. anzi aggravati con tre altre disposizioni, che abbondavano nel medesimo senso: cioè il numero dei deputati accresciuto di due quinti, il numero dei consiglieri di Stato di due quinti scemato, regola al Parlamento ed obbligo al re di scegliere i consiglieri per provincia.

Mentre con sì infelice successo si tentavano dalla Francia partiti di conciliazione, i tre sovrani, o spontanei, o incitati dallo stesso Ferdinando, come insinua il Colletta, lo invitavano a congresso in Lubiana con una lettera del dì 20 novembre, dove di nuovo esponevano «essersi uniti in Troppau per divisare insieme intorno le conseguenze, di cui gli avvenimenti di Napoli minacciavano il resto della penisola Italiana, e forse l'Europa intiera. Nel decidersi a questa comune deliberazione non aver fatto che conformarsi alle transazioni sulle quali riposava quell'alleanza tutelare, unicamente destinata a garantire da qualunque attacco la indipendenza politica e l'integrità territoriale di tutti gli Stati, come altresì ad assicurare il riposo e la prosperità dell'Europa, col riposo e colla prosperità di ciascuno dei paesi della medesima. Non dubiterebbe egli adunque che l'intenzione dei gabinetti uniti non fosse se non quella di conciliare l'interesse ed il benessere, che la sua paterna sollecitudine doveva desiderare di far godere a suoi popoli, coi doveri che apparteneva ai monarchi collegati di adempiere verso i loro stati e verso il mondo. Essi avrebbero desiderato di eseguire questi solenni impegni con la di lui cooperazione, e fedeli ai principi che avevano promulgato, non tralasciare di domandarla. Appunto per que sto solo scopo proporgli di unirsi a loro in Lubiana. La sua presenza avrebbe affrettata una conciliazione così indispensabile, ed essere in nome degli interessi più cari del suo regno, e con quella benevola sollecitudine, di cui credevano avergli data più d'una testimonianza, che lo invitavano ad andare a ricevere nuove prove della vera amicizia che gli portavano, e della lealtà che formava la base della loro politica.(135)»

Lo stesso re di Francia scrisse poi, sotto il dì 5 di decembre, a Ferdinando I invitandolo anche in proprio nome a trasferirsi a Lubiana(136).

Giunte queste lettere in Napoli insorgeva una grave difficoltà per conformarvisi, non permettendo da un lato la costituzione che il re si allontanasse dal regno senza consenso del parlamento, e dall'altro sembrando assai difficile, che, nella crescente alterazione degli animi, ciò fosse per essergli accordato; e il partire senza averlo ottenuto essere pieno di difficoltà e di pericoli. Dopo molte dubitazioni, riunitisi a consiglio presso il re il vicario e i tre ambasciatori dei sovrani congregati, fu stabilito che Ferdinando chiedesse con dignitoso messaggio il permesso al Parlamento, ed usasse l'occasione per tentar nuova mente di disporre gli spiriti alle desiderate modificazioni della legge fondamentale. Fu da prima cercato di scandagliare le disposizioni della maggioranza, e per opera dei due ministri Ricciardi e De Thomasis nella sera precedente il giorno stabilito pareva potersi fare assegnamento sopra un numero considerevole di voti in favore delle due proposizioni. Ma il carbonarismo, vedendo in quelle il pericolo della costituzione spagnuola, all'ombra della quale soltanto si reputava sicuro, decretò che bisognava ad ogni costo impedire che fossero accettate, e suscitò prontamente una tumultuosa agitazione, che dalla strada penetrò fino alle sale del Parlamento.

La mattina del 7 decembre, essendo già i vestiboli, la sala e le tribune affollate di settari, entrò il duca di Campochiaro a leggere in Parlamento le lettere dei tre monarchi collegati ed il messaggio del re, la cui sostanza era questa. «I sovrani d'Austria, di Prussia e di Russia m'invitano a rendermi in Lubiana per interpormi come mediatore fra essi e la nazione. Penetrato l'animo mio dello stato delle circostanze, ho risoluto di rendermi prontamente all'invito, per evitare alla nazione il flagello di una guerra. Lungi da me e da voi il pensiero che l'adesione a questo progetto possa farmi per un momento dimenticare il bene del mio popolo. Partendomi da voi, è degno di me il darvene una nuova e solenne garanzia. Dichiaro perciò a voi ed alla nazione che farò di tutto onde i miei popoli godano di una costituzione saggia e liberale. Qualunque misura sia per essere richiesta dalle circostanze relativamente al nostro stato politico, ogni mio sforzo sarà adoprato perché rimanga sempre fondato sopra le seguenti basi, cioè: sia assicurata per una legge fondamentale dello stato la libertà individuale e reale: nella composizione dei corpi dello stato non si abbia alcun riguardo ai privilegi di nascita: non possano esser stabilite imposte senza il consenso della nazione legittimamente rappresentata: sia alla medesima renduto conto delle pubbliche spese: le leggi siano fatte d'accordo colla rappresentanza nazionale: il potere giudiziario sia indipendente: resti la libertà della stampa, salve le leggi restrittive della medesima: i ministri siano responsabili, e sia fissata la lista civile. Dichiaro inoltre che non aderirò mai che alcuno de' miei sudditi sia molestato per qualunque fatto politico avvenuto. Desidero poi che una Deputazione composta di quattro membri a scelta del Parlamento mi accompagni, e sia testimonio dei pericoli che ci sovrastano, e degli sforzi che da me saranno fatti per ischivarli. ((137)»

Letto questo foglio, lo depose il ministro, insieme colle lettere dei sovrani, nelle mani del presidente del Parlamento, pregato per una sollecita risposta si ritirò insieme cogli altri suoi colleghi.

Finché i ministri furono presenti, il popolo che ingombrava le tribune, e si accalcava alle porte dell'assemblea, si contenne in un cupo silenzio: ma appena usciti quelli, da tutte le parti tumultuosamente fu gridato: La costituzione di Spagna o la morte. Questo disordine e queste vociferazioni impedirono la discussione, che fu rimessa al giorno appresso, avendo frattanto il Parlamento dato il messaggio all'esame di una commissione speciale, di cui erano membri Galdi, Poerio, Berni, Begani, Bausan, di Donato, Ricciardi (giudice), Visconti e Borelli.

Mentre queste deplorabili scene si producevano nel seno dell'assemblea, il terrore e il tumulto regnavano nella città, e ciò tanto più quando si videro le sentinelle della reggia raddoppiate, e le artiglierie del castello rivolte al popolo. Il messaggio reale, affisso ai canti delle vie fu lacerato: e la plebaglia, correndo tutta notte per la città non cessò d'urlare in mezzo a molte oscene imprecazioni: la costituzione di Spagna o la morte. Accrebbe la gravità del fatto una folla di guardie urbane in armi, venute con incredibile sollecitudine dalle provincie di Avellino e di Salerno, le quali inondando la capitale e percorrendola, insieme a lazzaroni, in ogni senso, incutevano negli animi il sentimento di qualche spaventevole catastrofe. Tanto per gli uomini del governo, che pei pacifici cittadini, la notte fu passata in mezzo a inesprimibili angoscie.

Con questi auspici si apriva l'indimane,8 decembre, il Parlamento, sebbene fosse il giorno della solenne festa della Concezione. I deputati, nel rendersi dal vestibolo alla sala delle adunanze, traversarono le onde popolari, e a misura che comparivano, i Carbonari mostrando loro il pugnale minacciavano di morte chiunque non aderisse alla loro intimazione della vigilia(138).

Cominciò l'esame del messaggio. La commissione, di ciò incaricata il giorno innanzi, opinava negarsi ogni cambiamento alla costituzione, consentirsi la partenza del re. La storia non ha ancora potuto determinare con fatti positivi se la negativa dell'una parte fosse messa innanzi per ottenere l'affermativa dell'altra, e se questa, anziché ingenuo convincimento degli animi, fosse parto di comprata coscienza, non già di tutti, ma d'alcuno dei più influenti tra i commissari. Enunciato l'opinamento, primo a parlare (così si esprime il Colletta) fu il deputato Borelli, che, usato alle varianze del foro, parlator d'arte, pose in argomenti e ragioni le dissennate voglie dei settari per mantenere immutata la costituzione di Spagna. In quanto poi alla partenza del re, dimostrò l'utilità d'aver nel congresso dei monarchi un monarca sostenitore dei diritti suoi e del popolo: che un re qual era Ferdinando religiosissimo, nipote per sangue e per virtù ad Enrico IV e a San Luigi, non potrebbe supporsi mancatore alle promesse, spergiuro ai sacramenti, così sciagurato da calpestare la dignità della sua corona, così snaturato da esporre l'abbandonata famiglia ai pericoli della guerra e dell'odio pubblico. Altri oratori, dopo il Borelli, parlarono nel medesimo senso, laonde fu deciso di adottare l'opinamento della commissione, la cui sostanza era questa:

«Non avere il Parlamento facoltà di aderire a tutto ciò che il messaggio del dì 7 conteneva di contrario ai giuramenti comuni ed al patto sociale, che stabiliva la costituzione di Spagna. Non avere inoltre facoltà di aderire alla partenza del re, se non in quanto fosse diretta a sostenere la costituzione di Spagna da lui giurata. Credere poi superfluo di farlo seguire da quattro deputati, facendoli abbastanza sicuri l'occhio vigile e la parola del Re, il ripetuto e solenne suo giuramento, la veduta osservatrice di tutta Europa, l'indipendente e severo giudizio della posterità. »

Prima però che questa decisione del Parlamento fosse stata deliberata, il re spaventato dalla generale esaltazione degli animi, e dominato da un solo pensiero, quello di fuggire prontamente il teatro delle scene tumultuose ch'egli temeva essere per degenerare in effetti anche peggiori, aveva mandato un nuovo messaggio nel quale dichiarava:

«Avere con infinito dolore dell'animo suo appreso, che non tutti avessero riguardato sotto un medesimo aspetto la sua risoluzione. Ad oggetto di dileguare ogni equivoco, dichiarare che non aveva mai pensato di violare la giurata costituzione; ma siccome nel decreto dei 7 di luglio aveva riserbato alla rappresentanza nazionale la facoltà di proporre le modificazioni che avrebbe giudicate necessarie alla costituzione di Spagna: così aveva creduto e credeva che il suo intervento al congresso di Lubiana potesse esser utile agli interessi della patria, onde far gradire anche alle potenze estere progetti tali di modificazioni, che senza nulla detrarre ai diritti della nazione, respingessero ogni ragione di guerra; ben inteso che in ogni caso non potesse essere accettata alcuna modificazione, che non fosse consentita dalla nazione e da lui medesimo(139). »

Il Parlamento però rispose «essere impossibile il perdere di vista che la costituzione non era ormai suscettibile d'altre i riforme, fuori di quelle che al Parlamento sembrasse opportuno il proporre(140)».

Questa nuova dichiarazione del re e più ancora le assicurazioni date e ripetute dalla corte, che Ferdinando andava ormai per perorare esclusivamente la causa della costituzione di Spagna, e che dove i suoi sforzi tornassero indarno si sarebbe prontamente restituito fra i suoi fedeli popoli per difenderla colle armi, ammansirono le ire, e potè oramai considerarsi come certo il formale permesso della partenza. Lo agevolarono altre soddisfazioni date ai Carbonari: avvegnaché questi mettendo in colpa i ministri per le frasi attentatorie. secondo essi, alla costituzione contenute nel primo messaggio obbligarono il vicario a mutarli; e quegli infatti nominò il dì 10 a nuovi ministri il duca del Gallo per gli affari esteri, il marchese Auletta per gl'interni, il magistrato Trovsi per la giustizia e gli affari ecclesiastici, il duca Carignano per le finanze, e il generale Giuseppe Parisi per la guerra.

Urgeva al re il partire, onde nel medesimo giorno 10 decembre, in cui si compieva la mutazione del ministero, mandò un terzo messaggio al Parlamento, col quale l'interpellò «a decidere in modo positivo se acconsentiva al suo intervento in Lubiana allo scopo di sostenere la volontà generale della nazione per l'adottata costituzione. »

Sorsero allora in quel consesso nuovi dibattimenti, avvegnaché non mancasse chi intravedeva tutti i pericoli di quell'andata.°sservavano alcuni deputati «il Sovrano essere in Napoli un ostaggio. Allontanandosi dalle influenze del popolo e dal parlamento, potersi temere che non mantenesse le fatte promesse, e che dal canto loro i Collegati fossero per procedere più francamente contro un governo che certamente odiavano. »

Ma finalmente nel giorno 12 il Parlamento deliberò «che ne termini della decisione del dì 8, e degli atti correlativi del re e del Parlamento medesimo, si accordava la facoltà richiesta in virtù della costituzione, e si avvertiva che, avvenendo la partenza del re, l'autorità regia fosse esercitata dal duca di Calabria, non più nella qualità di vicario, ma di reggente del regno a termini dell'articolo IV della costituzione(141)».

Queste solenni deliberazioni furono presentate al re con gran cerimonia da una deputazione di ventiquattro membri del Parlamento. Il deputato Borelli fu quegli che prese la parola, cui il monarca rispose, che si rendeva al congresso per ivi mantenere i suoi giuramenti e sperare che Dio si degnasse accordargli la forza necessaria per condurre a compimento le sue leali intenzioni.

Intorno questa deliberazione, il Colletta, che la chiama il peggiore dei partiti possibili, così si esprime: Poteva il parlamento accettare intiero il messaggio, e per la spontanea promessa di nuova costituzione accrescere le ragioni del popolo, la difficoltà dei mancamenti; o poteva rigettarlo in intiero, e tener presente il re, quasi ostaggio e prigione. Ma se poi riconosceva l'offerto statuto come riforma della costituzione spagnuola, e vietava al re di partire, avrebbe avuto nuove sicurezze, nuove speranze, maggior ritegno alla guerra, speditezza alla pace: e questo era per la natura dei tempi e delle cose il più sapiente consiglio. Come per l'opposto tutti i benefici si perdevano col decretare nessun'altra costituzione che la Spagnuola, e libero il re di partire. Non è già che i deputati volessero il peggio – (forse lo voleva qualcuno) – ma spaventati dalle minaccie dei Carbonari, ed inesperti alle rivoluzioni, temevano i pericoli più vicini, non vedevano i futuri, giudicavano durabile quel che men dura, il presente.

Ottenuto il sospirato permesso, il re già pronto alla partenza diresse al figlio la lettera che qui trascriviamo, come documento da non potersi pretermettere nella storia di questi gravi avvenimenti:

«Benché più volte io ti abbia appalesati i miei sensi, ora li scrivo acciò restino più saldi nella tua memoria. Del dolore che provo in allontanarmi dal regno mi consola il pensiero di provvedere in Lavbach alla quiete de' miei popoli e alle ragioni del trono. Ignoro i proponimenti dei sovrani congregati; so i miei, che rivelo a te, perché tu li abbia a comandi regii e precetti paterni. Difenderò nel congresso i fatti del passato luglio; vorrò fermamente per il mio regne la costituzione spagnuola; domanderò la pace. Così richiedono la coscienza e l'onore. La mia età, caro figlio, cerca riposo; ed il mio spirito stanco di vicende, rifugge all'idea di guerra esterna e di civili discordie. Si abbiano quiete i nostri sudditi, e noi, dopo trent'anni di tempeste comuni, afferriamo un porto. Sebbene io confidi nella giustizia dei sovrani congregati e nella nostra antica amicizia, pur giova il dirti che in qualunque condizione a Dio piacerà di collocarmi, le mie volontà saran quelle che ho manifestate in questo foglio, salde, immutabili agli sforzi dell'altrui potere o lusinga. Scolpisci, o figlio, questi detti nel cuore, e siano la norma della reggenza, la guida delle tue azioni. Io ti benedico e ti abbraccio(142)».

La mattina del 14 decembre imbarcavasi a bordo del vascello inglese il Vendicatore, comandato da quell'istesso capitano Maitland, che aveva condotto Napoleone a Sant'Elena. Non conduceva seco che la moglie, il ministro della casa, un gentiluomo di camera e pochi servi. Il duca del Gallo, nominato ministro al congresso, doveva raggiungerlo per via. Appena il Vendicatore ebbe preso il largo al fragore delle artiglierie dei bastimenti e dei forti, nella oscurità della notte scontrossi in una fregata inglese. L'urto dei due legni fu così violento, che sconciatisi entrambi, la fregata fu costretta venire a ristorarsi in Napoli, e il vascello a Baia. Grande fu la commozione per il pericolo incorso dal re: la famiglia reale andò subito a visitarlo, e altrettanto fecero con sollecite deputazioni la municipalità, l'esercito e il Parlamento, osservando ciascuno con meraviglia, che, stando pure sicuro e libero sopra vascello inglese, il re portasse all'abito il nastro tricolorato della carboneria, già quasi disusato nell'universale, e solamente rimasto ai più caldi settari. Dopo due giorni, risarcito il vascello, rimise alla vela, e con prosperi venti fu il 19 in vista di Livorno. Per Firenze, Bologna e Modena prese quindi Ferdinando la via di Lubiana, dove arrivò nel giorno 8 del prossimo gennaio.

Conforme allo stabilito, nei primi di gennaio 1821, recaronsi in Lubiana gl'imperatori d'Austria e di Russia coi principali ministri propri o appo di loro accreditati. Il re di Francia e quello di Prussia spedirono plenipotenziari. L'Inghilterra lasciò la cura del propri interessi all'ambasciatore che aveva presso la corte di Vienna, coll'istruzione «di assistere alle conferenze come semplice testimonio per informarla delle determinazioni, che si sarebbero prese(143)».

Il Papa, il re di Sardegna, il granduca di Toscana e il duca di Modena spedirono rappresentanti. Ferdinando I, partendo da Napoli, si era fatto seguire, come abbiam detto, dal duca del Gallo, suo ministro degli affari esteri. Ma i tre sovrani collegati (Austria, Prussia e Russia) avevano disposto che non dovesse intervenire con altri individui, che quelli addetti al suo personale servigio: onde Gallo, dopo vari ostacoli incontrati prima in Firenze, e poi in Mantova e in Udine, fu costretto trattenersi in Gorizia per attendervi ordini ulteriori del suo sovrano, Questi potè peraltro avere presso di sé il principe Ruffo, suo antico ambasciatore alla corte di Vienna, il quale, come altrove accennammo, aveva ricusato di giurare la costituzione.

Apertosi il congresso, e cominciate le conferenze fra i ministri delle cinque grandi potenze, il re Ferdinando fece dichiarare «avere accettato con interessamento l'invito de suoi augusti Collegati nella speranza di conciliare il ben essere, di cui desiderava far godere i suoi popoli, col dovere che i monarchi alleati potevano essere chiamati ad adempiere verso i loro stati e verso il mondo; e nella speranza ancora di far scomparire, sotto gli auspici della pace e della concordia, gli ostacoli, che fin da sei mesi avevano isolati i suoi stati dall'alleanza europea. Quindi essere pronto a concertarsi sui mezzi di risparmiare al suo paese le infelicità di cui lo vedeva minacciato. Intanto prima di tutto domandare a suoi augusti Collegati di manifestargli senza riserva i loro pensieri in tutta l'estensione. »

Risposero i plenipotenziari austriaci, russi e prussiani: «La rivoluzione di Napoli avere in se stessa un carattere inquietante, e tale da fissare l'attenzione dei sovrani per dirigere le loro misure sui danni, che minacciava agli stati vicini. I mezzi co quali erasi operata, i principi annunziati da coloro, che se n'erano dichiarati capi, l'andamento ch'essi avevano seguito e i resultamenti prodotti, tutto dovere diffondere lo spavento negli stati d'Italia, e fortemente agire sulle potenze più direttamente interessate al riposo della penisola. Il governo austriaco non avrebbe potuto riguardare con indifferenza una catastrofe, le cui incalcolabili conseguenze, rovesciando l'ordine e la pace d'Italia, potevano compromettere i suoi più preziosi interessi ed anche minacciare la sua propria sicurezza. Fedele al sistema, ch'esso aveva seguito da sette anni, aver creduto, in una circostanza così importante, d'invitare i suoi alleati a somministrargli i loro lumi e a deliberare seco lui sopra questioni degne sotto tanti rapporti di occupare seriamente i pensieri e le sollecitudini di tutte le potenze. I gabinetti, uniti a Troppau non aver potuto considerare la rivoluzione di Napoli come un avvenimento assolutamente isolato. Avervi essi trovato il medesimo spirito di turbolenza e di disordine, che aveva desolato il mondo per sì lungo tempo, e che si era potuto credere compresso dai salutari effetti di un pacificamento generale. Intanto sempre lontani dal ricorrere ad estreme misure per ottenere ciò che si fosse potuto conseguire per vie insinitamente più analoghe ai loro principi, si sarebbero sinceramente felicitati di poter giungere colla forza della ragione, e coi mezzi di conciliazione ad uno scopo, al quale essi non avrebbero saputo rinunziare senza mettersi in opposizione colla loro coscienza e coi loro più sacri doveri. Avere perciò invitato il re Ferdinando ad intervenire alle loro deliberazioni. Del resto, subito che con la soppressione spontanea di un reggimento condannato a perire sotto il peso de' suoi propri vizi, il regno delle Due Sicilie fosse rientrato nelle sue relazioni amichevoli cogli stati d'Europa, i sovrani collegati non avrebbero più che un solo voto a formare, quello cioè che il re, circondato dai lumi e sostenuto dallo zelo degli uomini i più probi e i più savi fra i suoi sudditi, giungesse a cancellare sino la rimembranza di un'epoca disastrosa, stabilendo per l'avvenire ne' suoi stati un ordine di cose portante in se stesso le garanzie della sua stabilità, conforme ai veri e ben intesi interessi de' suoi popoli e proprio a rassicurare gli stati vicini sulla loro presente e futura tranquillità. Che se poi quest'ultimo tentativo restasse infruttuoso, non rimarrebbe allora ai sovrani collegati che ad impiegare la forza delle armi per mandare ad effetto le invariabili loro determinazioni. Finalmente il re Ferdinando essere invitato a far conoscere ai plenipotenziari dei collegati i mezzi, che avrebbe giudicato conveniente di prendere per prevenire i nuovi disastri, che minacciavano il suo regno, e per secondare il sincero voto dei collegati di vedervi ristabilito l'ordine. In ogni modo poi voler essi una garanzia, che credevano indispensabile all'interesse generale dell'Italia, e questa consistere nella presenza temporanea (e precisamente di tre anni) di un esercito di occupazione, il quale non sarebbe entrato negli stati del re, che in nome delle potenze decise a non lasciar sussistere più lungamente in Napoli un reggimento imposto dalla ribellione, ed insidioso alla sicurezza degli stati vicini. Quest'esercito sarebbe stato sotto gli ordini del re. L'occupazione non sarebbe che una misura transitoria, e in nessun caso attenterebbe mai all'indipendenza politica del regno delle Due Sicilie. »


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A tali dichiarazioni il re Ferdinando fece rispondere: «Riconoscere l'inutilità o piuttosto l'assoluta impossibilità di un negoziato fondato sopra basi irrevocabilmente rigettate dai sovrani collegati. Posto così tra il danno di abbandonare i sudditi a nuove calamità, e la necessità di determinarli a rinunziare con una pronta e compiuta ritrattazione ai cambiamenti politici che si erano operati nel regno dopo li 2 di luglio, non potere esitare un momento ad abbracciare l'ultima alternativa. Proponevasi pertanto di scrivere al suo figlio duca di Calabria una lettera, colla quale gli avrebbe fatto conoscere la propria posizione, le determinazioni de' sovrani collegati. ed i pericoli ai quali il regno sarebbe inevitabilmente esposto, se si persistesse a sostenere ciò che oramai non avrebbe potuto condurre se non alle più funeste estremità. Sperava poi che i collegati avrebbero secondato i suoi sforzi. ed appoggiato i passi che sarebbe per fare, dirigendo ai loro agenti diplomatici in Napoli una istruzione precisa, concepita nel medesimo senso, e munendoli di tutte quelle informazioni di cui avrebbero potuto far uso, onde cooperare al felice risultamento, che valesse a porre un termine alle sue pene, ed ai patimenti dei fedeli suoi sudditi. »

In ordine al desiderio espresso in questa nota del re, i plenipotenziari austriaco, prussiano e russo prepararono le istruzioni da trasmettersi agli agenti diplomatici dei loro sovrani residenti in Napoli(144).

Stabilite le quali cose, il re Ferdinando chiamò a Lubiana il duca del Gallo, trattenuto, come sopra è detto, a Gorizia: il quale appena giunto fu invitato a recarsi nella stessa sera (30 gennaio) ad una conferenza, alla quale intervennero ancora tutti i ministri italiani ed oltramontani. Per chiarire al duca del Gallo qual fosse la sua respettiva posizione, gli fu immediatamente dichiarato, lo scopo della sua chiamata non essere altro che quello di dargli cognizione delle istruzioni che si spedivano a Napoli circa le decisioni dei sovrani collegati, e non di discutere sulle medesime, avvegnaché fossero già sancite ed inalterabili; e tale notificazione venirgli fatta perché egli potesse meglio far constare al duca di Calabria l'unanimità e la irrevocabilità di quei propositi. Udita la lettura delle istruzioni, il duca ne chiese copia; ma gli fu risposto non potersi in ciò compiacerlo, ed esser del resto inutil cosa, dacché per appositi corrieri si trasmettevano al duca di Calabria. Soggiunse allora il ministro napoletano, che se gli fosse stato permesso di entrare in discussione sui principi e sui fatti prodotti nelle carte che gli erano state lette, avrebbe avuto molte osservazioni da sottomettere all'assemblea: ma poiché ciò non gli veniva concesso e si trattava solo di udire risoluzioni già irrevocabilmente stabilite, non gli restava che domandare gli ordini e le istruzioni del suo sovrano. Il quale rimessagli la lettera pel figlio, senz'altro lo congedò. Il dì appresso fu ingiunto all'esercito austriaco stanziato in Lombardia di varcare il Po e d'incamminarsi su Napoli, non senza avere stabilito i collegati in altro apposito protocollo, che il mantenimento di quelle truppe, dal giorno del passaggio fosse a carico del re delle Due Sicilie.

Mentre si maturavano in Lubiana queste gravi deliberazioni, in Napoli si viveva alla spensierata, quasi che all'Europa dovessero oramai tornare indifferenti quei fatti, che l'avevano pur dianzi si altamente commossa, e fosse per piegare dinanzi al decreto del parlamento, che dichiarava intangibile la costituzione di Spagna. Solo verso la fine di gennaio, non vedendosi ancora comparir lettere del re, cominciavano in taluni a rinascere sospetti ed apprensioni, quando finalmente giunsero nuove del sovrano, ma queste assai lontane dal soddisfare al desiderio di chi le attendeva; avvegnaché non d'altro scrivesse il re al principe reggente che del felice viaggio e della perfetta sanità; vantava i suoi cani, che superavano nelle caccie i bracchi dell'imperatore di Russia: nulla diceva degli affari di stato. Ma di questi cominciò ad aversi sentore da lettere del duca del Gallo, le quali riferivano gl'impedimenti oppostigli di portarsi al congresso, e da altre, così private come officiali, che annunziavano l'esercito austriaco agglomerarsi e mettersi in punto sulla sinistra del Po. I ridestati timori incominciavano a farsi presenti e generali quando appunto, il 9 febbraio, giunse il duca del Gallo, latore della lettera del re, datata del 28 gennaio, e concepita in queste proprie parole:

«Figlio carissimo: voi ben conoscete i sentimenti che mi animano per la felicità de' miei popoli, e i motivi pei quali solamente ho intrapreso, ad onta della mia età e della stagione, un così lungo e penoso viaggio. Ho riconosciuto che il nostro paese era minacciato da nuovi disastri, ed ho creduto perciò che nessuna considerazione dovesse impedirmi di fare il tentativo, che mi veniva dettato dai più sacri doveri. »

«Fin da miei primi abboccamenti con i sovrani, ed in seguito delle comunicazioni che mi furono fatte delle deliberazioni, che hanno avuto luogo dalla parte dei gabinetti riuniti a Troppau, non mi è restato più dubbio alcuno sulla maniera colla quale le potenze giudicano gli avvenimenti accaduti in Napoli dal 2 luglio a questo giorno. »

«Le ho trovate irrevocabilmente determinate a non ammettere lo stato di cose, che è risultato da tali avvenimenti, né ciò che potrebbe risultarne, e a riguardarlo come incompatibile colla tranquillità del mio regno e colla sicurezza degli stati vicini, ed a combatterlo piuttosto colla forza delle armi, qualora la forza della persuasione non ne producesse la cessazione immediata. »

«Questa è la dichiarazione, che tanto i sovrani quanto i plenipotenziari rispettivi mi hanno fatto, ed alla quale nulla li può indurre a rinunciare. »

«È al di sopra del mio potere, e, credo, d'ogni possibilità umana, ottenere un altro risultato. Non vi è dunque incertezza alcuna sull'alternativa, nella quale siamo messi, né sull'unico mezzo che ci resta per preservare il mio regno dal flagello della guerra. »

«Nel caso che tale condizione, sulla quale i sovrani insistono, sia accettata, le misure che ne saranno la conseguenza non verranno regolate se non colla mia intervenzione. Devo però avvertirvi che i monarchi esigono alcune garanzie, giudicate momentaneamente necessarie per assicurare la tranquillità degli stati vicini. »

«In quanto al sistema, che deve succedere all'attuale stato di cose, i sovrani mi han fatto conoscere il punto di vista in generale sotto cui essi riguardano la quistione. »

«Essi considerano come un oggetto della più alta importanza per la sicurezza e tranquillità degli stati vicini al mio regno, per conseguenza dell'Europa intiera, le misure che adotterò per dare al mio governo la stabilità della quale ha bisogno, senza voler restringere la mia libertà nella scelta di queste misure. Essi desiderano sinceramente che, circondato dagli uomini più probi e più savi tra i miei sudditi, io consulti i veri e permanenti interessi de' miei popoli, senza perdere di vista quel che esige il mantenimento della pace generale, e che risulti dalle mie sollecitudini e da miei sforzi un sistema di governo atto a garantire per sempre il riposo e la prosperità del mio regno, e tale da render sicuri nel tempo stesso gli altri stati d'Italia, togliendo tutti quei motivi d'inquietudine, che gli ultimi avvenimenti del nostro paese avevano loro cagionato. »

«È mio desiderio, figlio carissimo, che voi diate alla presente lettera tutta la pubblicità che deve avere, affinché nessuno possa ingannarsi sulla pericolosa situazione nella quale ci troviamo. Se questa lettera produce l'effetto, che mi permettono di aspettarne tanto la coscienza delle mie paterne intenzioni, quanto la fiducia nei vostri lumi e nel forza delle armi.

retto giudizio e lealtà de' miei popoli, toccherà a voi a mantenere frattanto l'ordine publico, finché io possa farvi conoscere la mia volontà in una maniera più esplicita per il riordinamento dell'amministrazione.»

«Di tutto cuore intanto vi abbraccio, e benedicendovi mi confermo
»

«Vostro affezionatissimo padre

«FERDINANDO»

Contemporaneamente gli ambasciatori russo, austriaco e prussiano, che attendevano l'arrivo del duca del Gallo colla lettera del re, per notificare le istruzioni dal congresso a loro trasmesse, recaronsi in quel medesimo giorno a tale effetto presso il principe reggente. E dichiararongli ufficialmente: che le deliberazioni dei sovrani collegati erano in tutto conformi alla lettera, che gli veniva diretta dal re suo augusto padre: che un esercito austriaco di occupazione era già in via verso Napoli, per presentarsi amichevolmente se il regno tornasse in tempo all'antica obbedienza, ed ostilmente se persistesse nell'ostinato proposito: che si avanzava in riserva un esercito russo per quei casi che le sorti della guerra potessero richiedere: che, sia per pace o per guerra, l'occupazione austriaca sarebbe temporaria e senza lesione dell'autorità del re e delle leggi: che infine nessuna contribuzione di guerra sarebbe imposta quando una spontanea disapprovazione dei fatti del luglio permettesse alle potenze collegate di non ricorrere alla forza delle armi.

Il principe reggente, che non meno del padre odiava quella costituzione, nulla meglio desiderava internamente che di vederla al più presto tolta di mezzo. Ma la sostanza del potere era in fatto nelle mani di quelli che l'avevano proclamata, e non era certamente sperabile d'indurli a deporlo colla semplice persuasione, già invano tentata per effetti di minore momento.°nde il reggente propose agli ambasciatori il caso in cui il Parlamento avesse voluto consultare intorno a ciò la nazione. Ma quelli risposero che non perciò sarebbesi arrestata la marcia delle truppe, le quali, amiche o nemiche, avrebbero pur sempre dovuto occupare il regno. Anche il ministro di Francia, presentatosi nello stesso giorno al principe reggente, ma separatamente e solo, gli dichiarò verbalmente che il suo governo aderiva alle decisioni del congresso di Lubiana; ed il ministro inglese, presentatosi pur esso, altro conforto non dette se non che l'Inghilterra sarebbe rimasta neutrale nelle presenti contese.

In queste gravi congiunture il reggente convocò tosto un parlamento straordinario, e dopo quattro giorni ne aprì la sessione. Il principe fece dapprima conoscere sommariamente all'assemblea la risoluzione del Congresso dicendo che il duca del Gallo ne avrebbe riferite le particolarità. Raccomandò quindi una condotta non meno ferma che prudente in cospetto di un pericolo, che appariva grave quanto vicino. Promise di conformarsi alle decisioni del parlamento, di non separare la sua sorte da quella della nazione, ed infine di mostrarsi in tutto fedele al giuramento da lui prestato. Ciò detto si parti applaudito dai deputati e dal popolo.

Il duca del Gallo, prendendo allora la parola, lesse la lettera del re al figlio, parlò delle istruzioni mandate dalle tre corti, delle comunicazioni dei ministri di Francia e d'Inghilterra, e delle ostili disposizioni di tutte le corti d'Italia: non diede, consigli né preghiere, ma si limitò a dichiarare che il ministero era pronto ad eseguire gli ordini che il reggente gli trasmetterebbe in consonanza delle decisioni del parlamento. I diversi documenti che il duca sottopose all'assemblea furono tosto rimessi all'esame di una commissione incaricata di farne rapporto, e il parlamento deliberò di rimettere al dì seguente la trattazione di quella grave materia.

Fino dallo spuntare del giorno appresso la folla accalcavasi alle porte della sala delle adunanze; ma questa volta taciturna e pensierosa, siccome quella che ben comprendeva la gravezza dei casi soprastanti. Il Poerio, relatore della commissione, fu quegli che con maggior calore d'eloquenza e di sentimento parlò in quel giorno solenne concludendo alla guerra: disse, le pretese dei monarchi collegati inconciliabili colla dignità, coll'onore e coll'indipendenza della nazione; il re prigione di altri re, e violentato; i pericoli della guerra gravi per certo, ma scemarli la giustizia di una santa difesa, e la sicura protezione di quell'Ente Supremo, che protegge la causa delle nazioni oltraggiate: propose quindi al parlamento le seguenti dichiarazioni:

«1.° Non aver egli il potere di aderire a veruna delle proposte, che gli furono comunicate per parte delle loro Maestà, il re di Prussia e gl'imperatori d'Austria e di Russia, proposte che tendono all'annientamento della costituzione attuale ed alla occupazione del regno.

«2.° Che riguarda come impossibile l'attribuire alla libera volontà di Sua Maestà ogni atto passato e futuro il quale fosse contrario a suoi giuramenti confermativi di questa stessa costituzione; e conseguentemente riguarda Sua Maestà, rispetto a questi atti, come costituita in stato di coazione.

«3.° Che durante questo medesimo stato di coazione di Sua Maestà, il duca di Calabria, suo augusto figlio, continua nella reggenza del regno.

«4.° Che in conformità delle dichiarazioni contenute negli articoli precedenti, a seconda della costituzione, verranno prese tutte le misure necessarie alla salvezza dello Stato. »

Queste deliberazioni accolte con entusiasmo dal parlamento e dagli accalcati spettatori, furono presentate al reggente, che vi aderì: onde ai 17 di febbraio fu dal Governo pubblicato un analogo manifesto, che in sostanza conteneva:

«I bisogni dei popoli delle Due Sicilie e il grado d'incivilimento a cui erano giunti reclamare da molti anni un cambiamento nell'interno sistema dello stato. Nei primi giorni dello scorso luglio la costituzione di Spagna essere stata domandata dal voto unanime della nazione: il re avervi aderito, ed averne giurata l'osservanza. Sin dai primi momenti lo spirito di moderazione. ed un rispetto religioso per l'indipendenza, per le istituzioni e per i diritti delle altre nazioni, aver formato la regola di condotta del governo di Napoli. Averne esso promulgato le massime al cospetto del mondo intero, allorché ricusò d'intervenire, ancorché chiamato, negli affari di Benevento e di Pontecorvo(145). Nulladimeno la corte di Vienna, allegando che questa riforma politica abbatteva dai fondamenti l'edifizio sociale, averla fatta proscrivere in Troppau ed in Lubiana, e di già le sue truppe avanzarsi verso le frontiere napoletane. Non mai essersi in un modo così odioso abusato della forza: le potenze di second'ordine dover considerare in ciò, che avveniva nel regno di Napoli, il danno imminente che loro sovrastava: il giorno in cui la causa napoletana fosse perita, sarebbe l'ultimo giorno per la loro indipendenza, e per la libertà dell'Europa. Ma una causa protetta dalla giustizia e dalla pubblica opinione, che interessava tutti i governi preveggenti, e tutti i popoli i quali sentivano la loro dignità, meritava di trionfare. La disperazione avrebbe combattuto contro la forza. »

Il dado era tratto, e l'animosa sentenza eccitò gli spiriti di molti anche fra quelli, che più si ritenevano timidi e schivi. Sopra tutti ne fu lieto il general Pepe, che vagheggiava nei prossimi cimenti luminosi trionfi e nuova potenza. Trecento Bruzi(146) si offerirono al parlamento con questo indirizzo:

«Ci si additi il passaggio, che più deve contendersi al nemico. Siamo stanchi di sentir parlare di Cremera e delle Termopili. Altri esalti gli antichi; noi intendiamo lasciare ai posteri qualche nuovo esempio a seguire. Quel che intanto ci fa superbi è il poter dire, come Scevola al tiranno d'Etruria, e con più verità: – Pari a noi sono tutti i nostri concittadini, e tutti capaci di preferire all'ignominia la morte(147). »

Il principe di Salerno, fratello del principe reggente, dimandò di servire nella guerra; e dimandarono lo stesso onore il duca d'Ascoli, vecchio amico del re(148), il giovine Partanna, un Niscemi, figlio del principe, che stava col re in Lubiana; e poi della casa e della corte i nomi più cari al monarca, più devoti alla monarchia.

Quale frattanto si fosse il vero stato del regno in quel giorno di sicura guerra, lo dice aperto il Colletta, il cui giudizio non può essere revocato in dubbio, alieno come egli era da quello spirito di parte che accieca gl'intelletti, amante bensì di ordini liberi, ma non rivoluzionario, non carbonaro. Le speranze della rivoluzione mancate o cadenti, i rivoluzionari delusi, la pubblica fiducia spenta, il popolo ricreduto, la carboneria tralignata, tradita da suoi medesimi, menata dagli astuti servi del potere(149); il re contrario, e fattosi guida alle schiere nemiche: il reggente, figlio, suddito, confidente del padre, capo dell'esercito napoletano; di questo esercito i generali svogliati, gli uffiziali disobbedienti, la soldatesca ribalda: povera la finanza, gl'imprestiti esterni mancati, gl'interni lenti e difsicili; grande il terrore delle armi nemiche, grandissimo della vendetta del re; sospetti scambievoli nell'esercito e nella nazione. E fra tanti pericoli la risoluzione ormai irrevocabile. La decisione del parlamento per la guerra e la gioia pubblica erano stati effetti non del senno, non del valore, non delle speranze, non perfino della disperazione, bensì di quella vaghezza di somma lode, che più alletta i caldi popoli delle Sicilie. Ma cessata l'ebbrezza, i timorosi disperavano di salute, gli astuti si stringevano al reggente per averlo riparo nei precipizi, gli avventati seguitavano soli a schiamazzare. Tanta varietà di sentimenti traducendosi negli atti, vieppiù i pubblici interessi ne rimanevano offesi, ed ogni buona preparazione per l'avvenire impedita. Tentò bensì il governo di avere aiuti da Spagna, interessata certamente a sostenere i principi della sua costituzione, che non erano soltanto minacciati nel regno di Napoli: ma forse per ciò stesso quella potenza non giudicò possibile l'avventurare parte di quelle forze, che presto avrebbe essa pure dovute spendere in propria difesa. Facevasi altresì da alcuni assegnamento sul Piemonte, dove sapevano esser prossimo un moto insurrezionale. Ma questo scoppiò debole e tardo, e anch'esso si risolse pei Napoletani in una vana speranza.

Bisognava pur tuttavolta organizzare un sistema di difesa, ed occuparsi di un piano di campagna. Il duca di Calabria convocò a questo effetto un consiglio composto del primari generali dell'esercito, e disse loro che se era permesso ad una piccola nazione e ad un piccolo esercito sperare di far fronte a forze dieci volte maggiori, dacché due grandi potenze entravano addirittura nella lotta, ciò non poteva aver luogo che per l'unione di tutte le volontà e di tutti gli sforzi: non aver egli bisogno di rammentare ad uomini onorati ciò che l'onore esigeva in tal circostanza, e che per parte sua egli dividerebbe con essi loro, unitamente al principe di Salerno suo fratello, le fatiche e i pericoli dell'avvenire.

Prima era da pensarsi all'esercito, il quale non componendosi allora che di circa quarantamila uomini, compresi dodici mila che erano di presidio in Sicilia, fu stimato necessario ingrossarlo coll'assoldare le guardie civiche. Venne quindi deciso che settanta battaglioni di tali milizie venissero mobilizzati, nel tempo stesso che si richiamassero quattro mila uomini dell'esercito di Sicilia, unitamente al generale Colletta. cui verrebbe affidato il portafoglio della guerra, che il vecchio general Parisi non si credette atto a sostenere in così gravi momenti. Il general Pepe fu di nuovo nominato comandante in capo di tutte le guardie civiche del regno: le quali congiunte alle truppe regolari dovevano formare un effettivo di novantamila Napoletani da porsi in linea per la difesa della frontiera.

In quanto al disegno o piano di campagna, s'incominciò dal discutere se convenisse combattere il nemico alla frontiera o prevenirlo nello stato pontificio. Prevalse il parere di non uscir dai confini, e ciò per due motivi. Primieramente per non dare ai nemici della rivoluzione napoletana pretesto alcuno di chiamarla aggressiva; in secondo luogo per la qualità delle truppe; le quali per la maggior parte poco disciplinate ed inesperte, non potevansi senza troppo pericolo avventurare in battaglie campali, ma dovevansi assuefare alla guerra col farle combattere in luoghi muniti e a piccoli stuoli. Stabilito di attendere il nemico alla frontiera e di combattere in guerra difensiva, restavano a stabilirsi e a prevedersi i modi e i casi dell'adottato sistema. Parve e fu adottata per opinione più sicura, che gli Austriaci tenterebbero gli Abruzzi, sebben più difficili e remoti dalla capitale, anziché il passaggio del Liri per la strada di Valmontone e Ceprano, per non avventurare la loro sinistra, e correre il caso di vedersi preclusa la ritirata.

Conseguentemente fu stabilito che un esercito prendesse posizione negli Abruzzi: si chiudessero con opere militari le valli e le gole, che comunicano collo stato Romano. quella d'Itri in ispecial modo, e si stendessero quelle opere di difesa, che furon dette la prima linea, a Monte-Cassino, a Mignano, a Cassano, a Pontecorvo, a Mondragone con doppia testa di ponte al Garigliano. La seconda linea fu determinata dal corso del Volturno e dell'Ofanto, all'origine dei quali fiumi siede la città di Ariano, che fu mutata in fortezza. Terza linea, nella previsione che anche la seconda venisse superata, e nulla ostante la perdita che ne sarebbe conseguita della capitale, fu disegnata tra Ariano e Cava per S. Severino ed Avellino, con un campo a Montefusco, dove il nemico avrebbe a lottare eziandio con molti e gravi ostacoli naturali. perché là i monti non seguendo la legge ordinaria di catene primitive e contrafforti, ma confusamente aggruppandosi come se il terremuoto li abbia sconvolti, s'incontrano ad ogni passo inaspettati rivolgimenti ed angustie. Finalmente, dove anche questa terza linea venisse forzata, doveva l'esercito dirigersi per varie strade verso le Calabrie e concentrarsi in un campo trincerato in riva al Faro, che proteggesse il suo passaggio e il suo ritorno dalla Sicilia, secondo che fossero per portare gli avvenimenti.

Frattanto le truppe disponibili e in punto per la frontiera si trovarono più scarse dello imaginato; le regolari, per i diversi distaccamenti e le riserve, che fu stimato indispensabile di stabilire; le irregolari, perché non tutte le provincie risposero alla chiamata, e le Calabrie furono le più restie; tantoché di questa qualità di milizie s'ebbero in tutto sedici mila uomini sotto le armi(150), e delle regolari scarsi ventottomila consistenti in trentasei battaglioni e quattordici squadroni (che sommavano due mila cavalli) e quarantotto pezzi da campagna. Delle truppe regolari furono composte quattro divisioni, e del complesso di tutte formati due eserciti agli ordini l'uno del general Pepe, l'altro del general Carascosa. Questi ebbe tre divisioni di linea, comandate dai generali d'Ambrosio, Pignatelli Strongoli e Filangeri, ammontanti a circa diciotto mila e quattrocento uomini, compresi mille e cinquecento cavalli, e sei mila cinquecento legionari: in tutto circa venticinque mila combattenti. Pose il suo quartier generale a San Germano sulla strada da Roma a Napoli, appoggiandosi a sinistra su Gaeta e a destra sugli Appennini. Pepe ebbe l'altra divisione forte di novemila e seicento uomini con trecento e cinquanta cavalli, più sette mila cinquecento legionari: in tutto circa diciassette mila soldati. Stabilì in Aquila il suo quartier generale, avendo un corpo avanzato verso Ascoli agli ordini del generale Verdinois, ed un distaccamento a Tagliacozzo per comunicare per la valle di Roveto col campo di Carascosa.

Ai capi dei due eserciti diede il principe reggente istruzioni militari e politiche conformi al concetto già stabilito della guerra difensiva, in questi termini:

«Il nostro sistema di guerra è difensivo, così convenendo alla natura del territorio e alla giustizia della nostra causa. Ma poiché la neutralità passiva del Papa, e i suoi stati già occupati dal nemico danno a noi diritto eguale di oltrepassare i confini del regno per torre le posizioni migliori alle difese, voi nei movimenti strategici avrete libertà senza limiti. »

«Il governo del Papa sarà da voi rispettato: i popoli dei paesi che occuperete saranno trattati con piena giustizia: non permetterete il minimo attentato alle proprietà degli abitanti: farete pagare al giusto le vettovaglie; veglierete acciocché il comando militare, il quale naturalmente si stabilisce nella occupazione d'un paese, provvegga solamente alle proprie milizie. Se alcun fatto del sovrano pontefice obbligasse nello avvenire a mutar sistema, noi col nazionale parlamento il dichiareremo, e voi delle decisioni sarete opportunamente avvisati. »

«Serberete continua corrispondenza col capo dell'altro esercito, col capo dello stato-maggiore-generale e col ministro della guerra. »

«Le vostre facoltà sono fra i limiti delle presenti istruzioni. E poiché in guerra molto dipende da circostanze di luogo o di tempo, non sarà vietato al capo di un esercito di allontanarsi dalle cose prescritte, ma sotto due leggi: giustificare le sue opere, e avvisare prontamente lo stato-maggiore-generale, il ministro della guerra, ogni generale, ogni comandante interessato all'impreveduto movimento. »

«FRANCESCO. »

E le schiere mossero lietamente verso i minacciati confini.°gni reggimento che usciva dalla capitale era passato in rivista dal principe reggente, e la duchessa di Calabria annodava alle bandiere la lista dai tre colori, ricamata di propria mano o dalle principesse sue figlie.

All'incontro s'avanzava già alla distesa l'esercito austriaco, ammontante a cinquantadue mila uomini, comandato in capo dal barone Frimont generale di cavalleria, e composto di cinque divisioni condotte dai generali Stutterheim, Walmoden, Wied-Runkel. Lederer e Assia-Omburgo. I liberali di Lombardia sparsero fra i reggimenti ungaresi, che erano in quell'esercito, proclamazioni in lingua latina per esortarli a non prestarsi a quella impresa, e piuttosto adoperarsi per ricuperare la propria indipendenza: ma non sortirono effetto veruno. Varcato il Po sui primi di febbraio, Frimont, giunto a Bologna, diresse Walmoden sopra Ancona e Foligno, mentre egli colle altre quattro divisioni, si avanzava per Toscana e Roma, senza però entrare coll'esercito in questa città per deferire al desiderio espresso da Pio VII. Il dì 1.° di marzo la divisione Stutterheim si appostò a Tivoli, Frascati e Albano, mentre da Foligno si avanzava Frimont, che ivi il 21 di febbraio si era ricongiunto a Walmoden, il quale, occupata Ancona veniva a porsi alla vanguardia dell'esercito disposto a scaglioni da Terni fino a Rieti. Mentre poi gli austriaci avanzavano per lo stato pontificio, una flottiglia, comandata dal marchese Paolucci, veleggiò nell'Adriatico, poi nel Mediterraneo per secondarne le operazioni.

Frattanto la corte di Vienna per giustificare il movimento di quell'esercito pubblicava, anche a nome de' suoi collegati, una dichiarazione, la quale, dopo narrati gli avvenimenti di Napoli e le conferenze di Troppau e di Lubiana, conchiudeva coll'annunziare che «se contro tutte le previsioni, e contro i voti dei monarchi collegati, la resistenza si prolungasse, l'imperatore di Russia, sempre fedele a suoi elevati pensieri, e persuaso della necessità di combattere contro un male così grave, non tarderebbe ad unire le sue forze a quelle dell'Austria. I sovrani collegati altro non avere in mira che la salvezza dei propri stati e il riposo del mondo. L'inviolabilità di tutti i diritti stabiliti, la indipendenza di tutti i governi legittimi, l'integrità di tutti i loro possedimenti essere la base di tutte le loro risoluzioni, dalle quali non si sarebbero mai allontanati. Sarebbero ampiamente compensati dei loro sforzi, se fosse possibile di assicurare sopra queste stesse basi la tranquillità nel seno degli Stati, i diritti dei troni, la vera libertà e prosperità dei popoli, beni senza i quali la stessa pace esterna non sarebbe né pregevole né durevole(151). »


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Nel tempo stesso il re Ferdinando diresse da Lubiana, in data del 25 febbraio, un manifesto col quale così parlava ai suoi popoli: «Una lunga esperienza, durante sessant'anni di regno, ci ha insegnato a conoscere l'indole e i veri bisogni dei nostri sudditi. Noi confidiamo nella loro retta intenzione, e sapremo coll'aiuto di Dio soddisfare a quei bisogni stessi in un modo giusto e durevole. Dichiariamo in con seguenza che l'armata, la quale s'avanza verso il nostro regno, dev'essere riguardata dai nostri fedeli sudditi non già come nemica, ma come solamente destinata a proteggerli, contribuendo essa a consolidare l'ordine necessario per mantenere la pace interna ed esterna del regno, ordiniamo quindi alla nostra propria armata di terra e di mare di considerare ed accogliere quella dei nostri augusti Alleati come una forza, che agisce soltanto pel vero interesse del nostro regno, e che lungi dall'essere inviata per sottoporlo al flagello di una inutile guerra, è al contrario diretta a riunire i suoi sforzi per assicurare la tranquillità e per proteggere gli amici veri del bene e della patria, quali sono i fedeli sudditi del re(152). E perché non si allegasse che anche questa era una dichiarazione coatta, lasciata Lubiana, se ne venne per Firenze a Roma.

Anche il generale Frimont pubblicò in Fuligno il 27 febbraio un proclama ai Napoletani nel quale dichiarava che «varcando i confini del regno, nessuna intenzione ostile guidava l'esercito austriaco, il quale osserverebbe la più scrupolosa disciplina, e non tratterebbe da nemici che coloro i quali volessero opporsi alla sua marcia: non sarebbe levata nel regno alcuna contribuzione di guerra, qualora fosse amichevolmente ricevuto, e solo ne sarebbero colpite le provincie e i luoghi, che si comportassero contro la volontà già dichiarata del loro monarca; e queste contribuzioni verrebbero impiegate ad indennizzare le provincie pacifiche e fedeli(153)

Era questo l'apparato militare e politico degli invasori, quando sul principio di marzo giungeva Pepe al suo quartier generale di Aquila. La deliberazione ivi da lui presa ad un tratto, e i modi adoperati per metterla in effetto, furono, non v'ha dubbio, l'immediata cagione del crollo repentino di tutta l'impresa napoletana; ma nella nostra imparzialità a noi non sembra di doverlo così severamente giudicare come il Colletta, dalle cui aspre parole trapela il segno degli antichi rancori. Raccolte le sue forze principali (circa dodici mila uomini, fra regolari e legionari) nella fortissima posizione di Antrodoco, nel dì 6 si avanzò a Civita Ducate e prese posizione a distanza di un miglio e mezzo da Rieti, di dove giustamente argomentava che fossero per muovere le prime offese dell'inimico. Fino a quel punto non si potrebbe ben dire che fosse suo deliberato proposito, mutare il prestabilito concetto di quella guerra, e passare all'improvviso dalla difensiva all'offensiva. Ma venuto quivi in cognizione (come assevera egli stesso)(154) dei maneggi di due aiutanti maggiori per procurare la dispersione dell'esercito, e dell'effetto già da loro ottenuto nello sbandamento di due battaglioni di militi Teramesi, e di un battaglione di Campobasso, che lo dovevano raggiungere, e temendo che il funesto esempio fosse imitato da altri, deliberò di interrompere il corso di quel fatale principio con un attacco improvviso, il cui prospero successo rianimasse le proprie truppe, e incutesse rispetto negli avversari. In presenza dell'imminente pericolo, di cui già aveva le chiare testimonianze, che abbiamo sopra accennate, non si potrebbe veramente redarguire come affatto improvvido e sconsigliato questo concetto: solo è inescusabile dell'averlo condotto ad esecuzione senza quei preparamenti, che potevano e renderne più valido il prospero successo, ed attenuarne le conseguenze se il colpo gli tornasse fallito; avvegnaché non solo non avvisasse della sua determinazione il capo dell'altro esercito, ma ne facesse mistero o dimenticasse d'informarne gli stessi condottieri di due proprie legioni stanziate in Ascoli e Tagliacozzo.

Adunque nella mattina del 7 marzo, diretti due mila uomini, per la maggior parte militi, da Leonessa verso Piè di Luco e Terni per tenere a bada gli Austriaci in quella parte, con altri sette mila di truppe di linea, e tre mila militi, si avanzò in tre colonne sulle colline, che circondano Rieti. Gli Austriaci, avvertiti di questo movimento, erano già sulla difensiva: ma vista l'irresoluzione, che presto parve loro di scorgere negli assalitori, mossero pur essi in tre colonne ad incontrarli: una destinata ad attaccar di fronte le linee napoletane, un'altra a prenderle di fianco, e la terza per proteggere alla circostanza un movimento di ritirata.° decidere della sorte della battaglia. A mezzo giorno cominciò il fuoco, che fu sostenuto qualche tempo con alterna fortuna; finché incominciando i Napoletani a piegare, il generale austriaco lanciò alla carica un reggimento di cavalleria ungherese, dinanzi al quale nulla tenne più fermo, e tutto fu ben presto terrore e fuga. La notte sopraggiunta accrebbe lo scompiglio e lo spavento, e la stessa posizione di Civita Ducate fu abbandonata senz'altra resistenza. Pepe tentò nel dì seguente di fermare e raccogliere i fuggitivi nelle gole di Antrodoco. Ma il disordine era già divenuto irreparabile; onde lasciato il generale Giovanni Russo con settecento uomini alla difesa di quel passo, recossi in Aquila con alcuni uffiziali e pochi soldati, di dove quasi solo, per Popoli e Solmona, non temé di presentarsi quasi primo relatore della catastrofe a Napoli.

Frattanto, al primo annunzio delle ostilità. Frimont fatta avanzare in fretta la divisione di Wied-Runkel a sostenere quella di Walmoden, recossi di persona a Rieti per dirigere più da vicino le operazioni. Non conoscendo ancora pienamente la dispersione dell'esercito napoletano, prese le disposizioni prescritte dalla tattica nell'assalto dei posti di montagna. E stabilito d'impadronirsi di Antrodoco, luogo forte per natura ed anche munito di un vecchio castello, nella mattina dei 9 marzo. raccolta la divisione Walmoden in Civita Ducate, ordinò che si avanzasse in tre colonne. Il maggiore d'Aspre con tre battaglioni marciò a sinistra, e il general Villata con due battaglioni e un distaccamento di zappatori e di cavalleria mosse a destra per assaltare il posto a rovescio: Walmoden poi si avanzò di fronte colla colonna del centro, seguito dalla divisione di Wied-Runkel. Giunto al ponte sul Velino fra Canistro e Borghetto, lo trovò fortificato e difeso da un distaccamento di fanteria leggiera, il quale poteva anche sostenersi facilmente sulle alture che lo dominavano. Ma all'avvicinarsi degli Austriaci i Napoletani fuggirono senza tirare un colpo, e si dispersero fra le montagne. Walmoden giunse così senza resistenza sotto Antrodoco, dove vide il castello munito di tre pezzi d'artiglieria, e alcune truppe sulle eminenze circonvicine. Si spararono alcuni colpi di cannone dall'una e dall'altra parte, finché il maggiore d'Aspre giunto colla sua colonna sopra le alture che sono al settentrione d'Antrodoco, i pochi Napoletani che difendevano il posto lo abbandonarono agli Austriaci, i quali si avanzarono fino al passo del Corno e alla Madonna delle Grotte.

Le due divisioni Napoletane di Ascoli e Tagliacozzo, non consapevoli, come abbiam detto di sopra, del tentativo di Rieti, e lasciate nell'ignoranza dell'accaduto, stavano ferme nei campi: ma il dì stesso della presa d'Antrodoco, avvertite dal grido pubblico, frettolosamente si ritirarono, anzi si sbandarono come il resto di quell'esercito, e gli Abruzzi rimasero affatto vuoti di difensori.

Fino dal primo annunzio delle ostilità, il principe reggente aveva deliberata la sua partenza pel campo, ed affidata la custodia della reggia e de suoi alla guardia cittadina di Napoli. Partì l'8 di marzo, accompagnato dal principe di Salerno, e si rendè a Capua, dove nella notte del 9 apprese, per mezzo di un ajutante di campo, il maggiore Cianciulli, i disastrosi avvenimenti di Rieti. Convocò tosto un consiglio di guerra nel quartier generale di Torricella per la mattina del 10, nel quale fu approvata la proposta del Carascosa di considerare la perdita degli Abruzzi come certa ed irreparabile, e conseguentemente di riunire l'esercito dietro il Volturno, seconda linea di difesa convenuta nel piano generale della guerra. Questa ritirata, decisa seduta stante, fu immediatamente posta ad effetto: abbandonati i lavori d'Itri, fu distrutto il ponte sul Garigliano, e le fortificazioni e i campi trincerati della prima linea dati alle fiamme.

Il terrore e la costernazione regnavano in Napoli. Il disastro di Rieti sventava molte ambizioni, distruggeva molte speranze. Le milizie vie più ogni giorno si sbandavano, tanto che il principe reggente tornò alla capitale per istanza dello stesso Carascosa, che gli rappresentava il pericolo e la vergogna di trovarsi da un istante all'altro senza truppe, che difendessero la sua stessa persona. Un nuovo consiglio di guerra fu tenuto ad Aversa, ove il generale Guglielmo Pepe osò presentarsi a domandare la riorganizzazione e il comando di un nuovo esercito. Florestano Pepe, che a Torricella aveva proposto di mettere suo fratello in istato d'arresto, emetteva l'avviso di rimandare a Napoli, per mantenervi l'ordine, la guardia reale, che già negava di battersi contro gli Austriaci, disciogliere il Parlamento e far atto di sommissione al re. Il principe non sapeva a che risolversi fra i pericoli del presente, e le minaccie dell'avvenire: poiché poteva egualmente temere di incorrere nello sdegno dei monarchi alleati e di esporsi alla disperazione dei Carbonari. Non fu preso pertanto alcun partito: soltanto Florestano Pepe, conseguente allo spirito della proposta da lui emessa, diede la sua dimissione, mentre nello stesso giorno veniva destituito Guglielmo suo fratello.

Mentre si consumava questa rapida dissoluzione dell'esercito, anzi del governo costituzionale di Napoli, gli Austriaci proseguivano con cautela, ma ognora guadagnando terreno. gli inaspettati successi. Superate le gole di Antrodoco, Frimont ritornò personalmente alle divisioni che ancora aveva nello Stato Pontificio per accelerarne l'avanzamento, lasciando il comando delle due già entrate in Abruzzo al luogotenente generale Mohr. Questi marciò ad Aquila, dove entrò nella sera dei 10 di marzo, e il dì seguente n'ebbe per capitolazione il castello. Recossi quindi a Popoli, e spedì distaccamenti ad occupare Chieti e Teramo, e ad osservare il forte di Pescara. Lasciata poscia in quelle provincie la divisione di Wied-Runkel, mosse coll'altra di Walmoden verso Venafro. Intanto Stutterheim con una parte delle sue forze squadronava da Tivoli verso Tagliacozzo, che occupò nel dì 9, scendendo poscia tranquillamente per la valle di Roveto. E Frimont giunto il di 12 a Frascati, dove era il rimanente delle sue truppe, ne diresse per la via Appia a Fondi un piccolo distaccamento, mentre colle forze principali difilava egli stesso per la via di Ceprano sul Liri, dove giunse ai 17 di marzo. Entrò il giorno seguente a San Germano, e ai 19 aveva già occupato i forti di Monte Cassino, nei quali erano rimaste due sole compagnie della guardia reale, che ricusarono di battersi, occupò anche l'abbandonato campo di Mignano, e quindi marciò sopra Teano e Calvi. Con tale movimento riunì a sé le truppe discese dalle valli di Roveto, e si avvicinò alla divisione di Walmoden, che era giunta a Venafro, ed alla quale prescrisse di passare il Volturno, e squadronare sul destro lato dei Napoletani, mentre esso si sarebbe avvicinato a Capua di fronte.

Mentre così precipitavano gli avvenimenti non mancarono taluni, anche fra i notevoli del regno e del parlamento che arditamente opinassero doversi trasferire la sede del governo in Calabria, o pure in Messina, e proseguire la guerra di partigiani con tutti i mezzi di militare difesa(155). Ma lo spirito pubblico della maggior parte del popolo non secondava questa audace o disperata proposizione di pochi. E lo stesso Colletta, che dice nelle sue storie:

«Se nel campo si fosse eretto un altare, ad uso della felice Roma, e il capo dell'esercito, coll'insegna levata, avesse chiamato i fedeli ad unirsi, sarebbero corsi certamente gli ufficiali e rincorati i soldati risponde poco appresso a sé medesimo con queste pur troppo assai più vere parole: «La istantanea dispersione di un esercito sembra, non opera umana, catastrofe della natura, tanto è immensa ed irrevocabile. Sparirono coll'esercito le preparate difese, le linee, la ritirata del governo, e ogn'altra idea grande e libera: prostrare al nemico la nazione, raccomandarla al re, salvare sé stessi, furono le sole cure pubbliche e private. »

In fatti il Parlamento all'annunzio del disastro di Rieti. con serotina moderazione, fino dal giorno 12 marzo, scrisse al re (il quale ai 9 era arrivato a Firenze) che «se credeva doversi allontanare in qualche parte dal sistema dianzi adottato, si degnasse ritornare fra il suo popolo; svelasse in famiglia le sue vere disposizioni, venisse a manifestare nell'effusione del suo cuore quali miglioramenti credesse necessari nello stato attuale. Il suo popolo sarebbe contento di mantenere seco lui quel nobile e giusto accordo, di cui si era sempre fatto un onore, e se ne farebbe sempre un dovere. Ma di grazia non vi fossero stranieri che pretendessero di frapporsi fra la nazione ed il suo capo. Non vi fosse chi dicesse la loro presenza essere necessaria per inspirare ad un popolo, che amava e rispettava il suo monarca, la docilità, l'attaccamento e la confidenza. Le leggi proprie non fossero tinte di sangue nemico o fraterno. Il suo trono riposasse intieramente sull'affetto de' suoi propri popoli e non sulla clava di oltramontani(156). »

Questo indirizzo portato dal generale Fardella, che giunse a Firenze il 17 di marzo, rimase, come ben era da attendersi, senza risposta. Ciò che sarebbe stato prudente ed utile assai prima, diventava vile ed inutile, quando dalla sola paura veniva consigliato. L'animo del re apparve manifesto dal dono di una lampada ricchissima di argento e d'oro, che appese in voto nella chiesa della SS. Annunziata in Firenze con inciso il motto: Mariae Genitrici Dei Ferd. I Utr. Sic. rex Don. d. d. anno 1821 ob pristinum imperii decus, ope ejus praestantissima, recuperatum. E della natura e tranquillità del suo spirito dava singolar mostra traendo seco da Lubiana alcuni orsi grossissimi, donatigli dall'imperatore di Russia, per migliorare la specie di queste fiere, che ne boschi dell'Abruzzo vive (così il re affermava) poco feconda e tapina.

Per terminare quel poco che ancor rimane a dire del Parlamento, soggiungeremo che, nonostante l'atto di inutile sommissione del dì 12, esso chiuse dignitosamente la sua esistenza: avvegnaché il deputato Poerio facesse, nel dì 19, adottare ai pochi, che tuttavia ancora rappresentavano quel nazionale consesso, la seguente dichiarazione:

«In sequela della pubblicazione del patto sociale dei sette di luglio milleottocentoventi. in virtù del quale il re si degnò di aderire all'attuale costituzione. il medesimo sovrano, per organo del suo augusto figlio, convocò i collegi elettorali. Nominati da essi noi ricevemmo i nostri mandati giusta la forma prescritta dallo stesso monarca. Noi abbiamo esercitate le nostre funzioni conformemente ai nostri poteri ai giuramenti del re ed ai mostri. Ma la presenza nel regno di un esercito straniero ci mette nella necessità di sospenderli, tanto più che secondo il parere del principe reggente, gli ultimi disastri accaduti nell'esercito rendono impossibile la traslocazione del Parlamento, che d'altronde non potrebbe essere costituzionalmente in attività senza il concorso del potere esecutivo. Annunziando questa dolorosa circostanza, noi protestiamo contro la violazione del diritto delle genti, intendiamo di serbar saldi i diritti della nazione e del re, invochiamo la saviezza di S. A. R. e del suo augusto genitore, e rimettiamo la causa del trono e dell'indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio, che regge i destini dei monarchi e dei popoli. »

I deputati quindi si separarono, e fu chiusa l'aula delle loro adunanze. Molti di loro ed altri tra i personaggi più notevoli della rivoluzione, chiesero ed ottennero passaporti per la Spagna. Furono tra essi Guglielmo Pepe, De Conciliis, Russo e Menichini.

Del resto, procedendo gli Austriaci, fu forza entrare con essi loro in trattative per impedire calamità ancora peggiori: e per ordine del reggente il generale Carascosa partecipò a Walmoden nel giorno 19 potersi trattare di convenzioni militari. La qual proposizione fu subito accolta, specialmente perché essendo giunta fino dal 17 così al reggente che al generale austriaco notizia della rivoluzione di Piemonte, si voleva da ambo le parti prevenire che, trapelata nel pubblico, desse luogo a qualche nuova difficoltà col suscitar gli spiriti abbattuti: onde su rigorosamente tenuta ascosa dall'una parte e dall'altra fino al giorno 21, in cui il fato di Napoli doveva essere e si trovò consumato. Adunque la mattina del 20 il generale austriaco Fiquelmont recossi in Capua, e nello stesso giorno sottoscrisse col generale d'Ambrosio una convenzione, nella quale si stabilì:

«Le ostilità cessassero, l'armata austriaca nel dì seguente occupasse Capua ed Aversa. L'occupazione della città di Napoli e de' suoi forti sarebbe stato l'oggetto di una convenzione particolare. L'armata austriaca avrebbe rispettato le persone e le proprietà qualunque fossero le circostanze particolari di ciascun individuo. Tutti gli oggetti di proprietà regia e dello stato esistenti nelle provincie, che l'armata austriaca avrebbe occupato, appartenessero di diritto al re, e fossero rispettati come tali. In tutte le piazze e forti, indipendentemente dal comandante austriaco, vi fosse un governatore a nome del re; tutto il materiale di guerra, per ciò che riguardava la parte amministrativa, dipendesse dalla direzione amministrativa reale. »

Altra convenzione fu poi conclusa addì 25 tra il generale Pedrinelli, governatore di Napoli, e lo stesso Fiquelmont in Aversa, per la quale fu stabilito che «attese le esistenti correlazioni d'amicizia, l'armata austriaca nel dì 24 avrebbe occupato Napoli e i suoi forti, ad eccezione del Castel Nuovo, destinato per alloggio alla Guardia Reale. Questa avrebbe continuato quel servizio che avrebbe potuto fare, e sarebbesi impiegata presso la persona e il palazzo del re. Del resto, siccome atteso l'ingresso degli Austriaci era impossibile di alloggiare in città i soldati napoletani, che ancora vi erano, questi avrebbero ricevuto in quel giorno stesso l'ordine di uscirne e pel loro ulteriore destino sarebbero sotto gli ordini del comandante in capo Frimont. La giandarmeria continuasse nel solito servizio. La Guardia Civica conservasse il suo ordinamento, ma non potesse prendere le armi, e fare il servizio senza la richiesta del comandante in capo. Nel dì seguente, prima dell'ingresso degli Austriaci in Napoli, si consegnassero al comandante in capo gli ordini del principe reggente per la resa delle piazze di Gaeta e di Pescara(157)».

In ordine a questa convenzione l'esercito austriaco fece il suo ingresso in Napoli il 24 di marzo, e solo più tardi la divisione Walmoden passò in Sicilia, dopo essersi ivi consumati quegli avvenimenti dei quali ci apprestiamo a tessere la narrazione.

Nel giorno stesso, con patente del re Ferdinando, che tuttavia si tratteneva in Firenze, fu instituito un governo provvisorio presieduto dal marchese Circello, e composto di sei membri, oltre il presidente, ai quali in breve fu aggiunto il principe di Canosa in qualità di ministro generale di Polizia.


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CRONACA ITALIANA VOLUME I PARTE II

CRONACA ITALIANA LIBRO VIII

SOMMARIO DEL LIBRO VIII
Fatti di Sicilia del 1820-1821

– Sentimenti dei Siciliani verso Napoli. Messina e la prima città di Sicilia, che inalberi la bandiera costituzionale, ma senza separarsi dal Regno unito. Moti separatisti in Palermo. Inettitudine del luogotenente generale Naselli. insurrezione del di 16 luglio. Consegna dei Castelli al Popolo. Intemperanze popolari. Formazione di una Giunta provvisoria di governo. La truppa napoletana vuol infine reprimere il disordine. Combattimento del giorno 17= trionfo dei sollevati. Liberazione dei galeotti, e indulto dato loro dalla Giunta. Eccidio dei principi d’Aci e di Cattolica. Fuga del Naselli. Arrivo del principe di Villafranca da Napoli. Trattative con Napoli. Negativa del Vicario ad accogliere le domande dei Palermitani. Manifesto dei medesimi al re il di 8 agosto. Si dispongono alla guerra. Impresa di Caltanisetta operata dal principe di San Cataldo. Sacco ed eccidio di quella città. Il venturiere Gaetano Abela di Siracusa. Vano tentativo contro Trapani. Manomissione di Cefalù. Spedizione di Raffaello Palmieri verso Messina. Suo conflitto colla guerriglia del monaco Errante. Nuova spedizione di San Cataldo contro Catania. Il Colonnello Napoletano Costa muove da Messina contro queste genti, le disperde, e si reca a Cefalù ad attendervi l'arrivo dell’esercito Napoletano condotto dal generale Florestano Pepe. Determinazioni del governo napoletano contro la Sicilia. Promesse d’indipendenza. Indirizzo della Giunta Palermitana al re il dl 12 settembre. Arrivo del generale Florestano Pepe coll'esercito a Cefalù. Trattative dei Palermitani con esso lui, che intende di conceder meno di quanto il Principe Vicario aveva fatto promettere. Si avanza. colle truppe sopra Palermo. insurrezione della città. Feroci combattimenti. Dedizione dei Palermitani pattuita il di 5 ottobre fra il principe di Paternò e il general Pepe nei termini delle promesse del Principe Vicario. La convenzione del 5 ottobre è dichiarata nulla dal Parlamento napoletano. Pepe è richiamato e surrogato dal generale Colletta. Suoi atti. Al Colletta, assunto al ministero della guerra in Napoli, succede il generale Nunziante. Scaltrezza del medesimo nel blandire i Siciliani. Tentativo del generale Rossarol in Messina per difendere la Costituzione contro gli Austriaci. È abbandonato e fugge. Gli Austriaci occupano la Sicilia.

contrada, che pur cotanto interessano la storia generale d’Italia.

L’antica rivalità dei Siciliani contro la dominazione napoletana erasi vieppiù accresciuta ed invelenita da che Ferdinando aveva tolto loro il titolo di regno particolare, la costituzione del 1812 e l’amministrazione separata, e introdottovi il reclutamento, il registro e la carta bollata; oneri non patiti fino allora da quegli isolani. La città di Palermo in ispecial modo consideravasi offesa dallo stabilimento dei tribunali ed intendenze di provincia, onde a lei, oltre l’antico prestigio di città capitale, era tolta eziandio la direzione e l’amministrazione dei principali all'ari della Sicilia. Aggiungasi che i Patrizj, mentre erano avversi al governo per la perdita di una costituzione, la quale dava loro il dritto di sedere in una camera di Pari, erano anche incitati dalla certa scienza che fosse per pubblicarsi una legge feudale e demaniale, per la quale derogandosi a transazioni, a sentenze, a benefizio di prescrizione, una parte dei beni stabili, che possedevano, sarebbe passata ai comuni e agli abitanti dei feudi da loro per innanzi posseduti(158). l Forensi altresì, che, in Palermo specialmente, erano molti e potenti, avevano generalmente in avversione le nuove leggi, le quali toglievan loro la maggior parte del lucro e dell’influenza, cui da lunghissimo tempo erano accostumati. Il volgo poi era rimasto fisso nell’antico e cieco odio contro i Napoletani.

In tali disposizioni degli animi, scoppiava il 2 luglio del 1820 la rivoluzione napoletana. Prima a conoscerla, ed a sapere che il re aveva accordata la costituzione di Spagna, in la città di Messina, il cui popolo si levò immediatamente a rumore, chiedendo che anche lì fosse tosto pubblicato il decreto. Il principe di Scaletta, comandante della provincia, si negava, allegando che il telegrafo avea dato soltanto notizia dell’accaduto, ma non l’ordine di pubblicar la costituzione, che dovea prima esser comunicato ed eseguito in Palermo; e per frenar quel moto popolare stimò opportuno spiegare un corpo di truppe con qualche pezzo d’artiglieria. Ma non appena i soldati furono in vista del popolo, misero basso le armi e con quello fraternizzarono. il colonnello Testa, fattosi capo di tutti quei sediziosi, circondò con essi l’abitazione del principe di Scaletta, minacciando di ucciderlo e di porne a sacco la casa se subito non dava l’ordine che si proclamasse la costituzione di Spagna: e così com’egli volle fu fatto.


LA COSTITUZIONE PROCLAMATA IN MESSINA - (1820)

LA COSTITUZIONE PROCLAMATA IN MESSINA - (1820)

La plebe trionfante corse allora a liberare i prigionieri di stato, ed era in via di trasmodar d’avvantaggio; ma la truppa, ottenuto l'intento, ristabilì ben tosto la calma, e le cose si composero in guisa, che in quella città, mercé eziandio l’antica sua rivalità con Palermo, non ebber luogo dimostrazioni separatiste.

Non così procedettero gli avvenimenti in Palermo, dove al primo e incerto annunzio della rivoluzione, subito ed universale fu il voto di aver un parlamento separato ed indipendente. Ciò stesso, interpretando i desiderj dei loro concittadini, avevano già manifestato nel consiglio del Vicario Generale i principi di Cassaro e di Villafranca, che trovavansi in Napoli. Cosi essendo già gli animi disposti, nella sera dei 14, una nave mercantile recò in Palermo gli atti coi quali il re aveva accettata la costituzione di Spagna, ed alcune notificazioni che promettevano una diminuzione di dazj. Venivano nell’istessa nave alcuni Siciliani fregiati della coccarda costituzionale, e principale fra essi il Marchese di Poggio Gregorio, noto a tutta la città per nascita, per impieghi e per principj liberali manifestati lino dal 1812. Alcuni magnati, avidi di notizie, immediatamente gli furono intorno, e da’ suoi discorsi infiammaronsi reciprocamente di entusiasmo per la costituzione non solo, ma per l’antica indipendenza da reclamarsi. Unitisi a deliberare sui mezzi coi quali ottenere l’intento, non tardarono a insorgere differenze, che li divisero in due parti ben distinte. I principi di Aci e di Cattolica, i duchi di Sperlinga e di Villarosa, ed altri fra i primarj patrizj, ragnnatisi in casa del Principe di San Cataldo, opinavano per la costituzione inglese del 1812. Il Marchese Baddusa, Requesens, colonnello in ritiro, il conte Aceto, uomini in Palermo notissimi, e la maggior parte dei forensi preferivano quella di Spagna. Frattanto incominciarono taluni a mostrarsi colla coccarda tricolore, ed essendovi quella sera passeggio per la strada principale illuminata e piena di popolo, in brev’ora tutti fregiaronsi di quella divisa. Ma ben tosto vi fa chi avvisò essere necessario un segno per dimostrare che, oltre la costituzione, volevasi l’indipendenza; pel quale effetto fu tosto aggiunto a quel segno un nastro giallo.

Era allora luogotenente generale di Sicilia, Diego Nasellì palermitano, personaggio d’ingegno insufficiente nelle circostanze ordinarie, affatto inetto nelle straordinarie che preparavansi. Quindi restò confuso e sospeso al primo segno di ribellione indicato dal nastro giallo, e non prese veruna precauzione onde prevenire gli ulteriori ed imminenti disordini. Tanto che più arditamente operarono i separatisti; sebbene, come sopra abbiamo detto, non fossero tra loro d’accordo sulla costituzione da adottarsi, né avessero preso intorno a ciò verun concerto determinato: nondimeno in questo tutti convennero, doversi sollevare ed armare il popolo, indurre il luogotenente generale a non opporvisi, trarre la truppa ad unirsi coi cittadini, e chiedere al sovrano l’indipendenza.

I fautori della costituzione del 18i2, essendo per la più parte fra i principali possidenti, molto consultavano e poco agivano, mentre gli altri, per la mediocrità della fortuna più audaci. si avanzavano arditamente verso la meta propostasi. La mattina dei 15 luglio, il luogotenente generale dovendo intervenire con pompa alla messa, che in quel giorno, sacro alla Patrona Santa Rosalia, celebravasi solennemente nella Metropolitana di Palermo, molta mano di gente gli fu presto d'intorno, gridando per le strade e nella stessa Chiesa: Viva l’indipendenza. Terminata la funzione, e il luogotenente ritornando alla sua residenza, le stesse grida si ripeterono; e molti de’ principali, seguitandolo nella sua stessa abitazione, gli vennero esponendo che il desiderio della indipendenza era universale nel popolo, ed estremamente pericoloso il non dargli pronta soddisfazione. Cercavano cosi d’indurre il Nasellì a prender egli stesso l’iniziativa di quel grand’alto per compromettere quanto fosse possibile il governo napoletano. Ma egli non lasciò prendersi ad agguato cosi manifesto, e solo promise di far noto quel desiderio al suo re.

La scena della mattina, gli attruppamenti, gli schiamazzi popolari, i sintomi d’un orgasmo generale che andavano crescendo di momento in momento, avrebbero dovuto avvertire il luogotenente dell’urgente bisogno di dar passi energici per la conservazione della pubblica tranquillità; ma egli si rimase come indifferente spettatore di quelle scene; anzi furon visti i soldati stessi incitar per le vie il popolo a gridare: Viva la Costituzione, Viva l’Indipendenza, fin che vennero al fatto scandalosissimo, che siam per dire. La sera dello stesso giorno 15 il luogotenente interveniva alla festa, che dal pretore si usa dare alla nobiltà di Palermo, mentre il popolo si godeva nel Cassero, illuminato secondo il costume, tanto la solennità della Santa, quanto il tripudio della comune allegrezza per la instante mutazione della sua sorte politica. Nell'ora appunto che più stipata e gaudente era la folla, ecco circa cinquanta bassi ufficiali e soldati. uscir dal loro quartiere di S. Giacomo, vestiti delle insegne carbonaresche, e scendendo pel Cassero gridare a piena gola: Viva la Costituzione, Viva l’Indipendenza. L’aspetto di quei soldati e di quelle insegne produsse, come ’è facile immaginare, un entusiasmo ed un clamore universale. Allora il generale Riccardo Church, comandante delle armivin Sicilia, ma invisa così alle truppe che ai Carbonari, informato della cagione di tanto chiasso, scese dal palazzo del pretore, dove egli pure trovavasi, accompagnato da’ suoi ajutanti di campo, e dal general Coglitore, e fattosi incontro a quei soldati, ordinò loro di ritornar al quartiere. Ma troppo erano già progredite le cose, perché la voce dell’autorità po. tesse più essere rispettata. Il popolo gli si avventò addosso c0n tal furia, che ne sarebbe senza meno rimasto vittima, se i suoi ajutanti, con coraggiosa resistenza contro gli ammutinati, non gli avessero dato campo a fuggire. La plebaglia si vendicò di lui sulla sua casa, che mise a sacco, e ne arse in mucchio gli arredi sul piano della marina.

Incominciato in tal guisa il ludibrio del pubblico potere, fu facil cosa agli agitatori il dirigere i sollevati contro tutte le recenti istituzioni, che il volgo odiava principalmente come importate dai Napoletani. Pertanto nella mattina del 16 gli ufficj della Carta Bollata, del Registro, delle Ipoteche, del Catasto e dell‘Intendenza, furono invasi e saccheggiati. Fu altresì tentato di abbattere la statua del re nella piazza Borbonica, ma la saldezza del monumento rese vani gli sforzi degli aggressori,e la sola testa ne cadde a terra. Furono eziandio distrutti gli stemmi regj, e rialzata l’antica insegna Palermitana, consistente in un'aquila a due teste; essendo in tutte queste opere accompagnato e rallegrato il popolo dalla musica dei reggimenti di guarnigione.

Il luogotenente avrebbe potuto reprimere tanta licenza, se avesse avuto più senno ovver più cuore; ma nel momento in cui sarebbe stato necessario di agire colla maggiore energia, egli pensò di venire a patti coi faziosi, e quel che è peggio di deluderli. Torme immense di gente si affollarono sotto la sua casa, gridando che vulcano proclamata l'indipendenza. Egli replicò la promessa del giorno antecedente, di spedir subito un bastimento in Napoli a quell’oggetto, e ne diede avviso al pubblico con un proclama; ma la nave mai si vide partire.

Ma ciò non è il peggio, che abbiamo a dire di lui. Comecché la truppa fosse stata sino a quel punto perfettamente d’accordo colla plebe, pure, non si sa come, venuta questa in diffidenza di quella, pretese di prender possesso del Castello a mare; e il luogotenente aderì a quella domanda, consegnando a coloro, che no lo ricercavano, un ordine del maresciallo O’Farris, capo dello stato maggiore, diretto al tenente generale La Grua, comandante del luogo, di ammettervi tanto numero d'artigiaui quanti soldati vi erano, per tenerne insieme la custodia. Ma quando coloro giunsero coll'ordine al Castello, trovarono una immensa ciurmaglia già dentro il forte, che conteneva un deposito di quattordicimila fucili, con più centinaja di cannoni, dei quali oggetti tutti il popolo si mise in pieno possesso.

Il Castello a mare di Palermo non è un forte da resistere a un attacco regolare, ma era ben in istato di farsi beffe delle minaccie di una inerme plebaglia. Perché mai il luogotenente lo trascurò in quei critici momenti? Perché non pensò ad accrescerne la guarnigione, anzi ad andarvisi a racchiudere egli stesso, come avean fatto, in simili. occasioni, altri avveduti governatori? Come si lasciò egli indurre a dar quell’ordine? Come il tenente generale La Grua ammise la plebe entro il Castello anche prima d’averne l’ordine? E dato anche che l’abbia fatto in preventiva cognizione di quel comando, può mai questo giustificarlo di averlo accolto senz’altra rimostranze per parte sua? Alcuni hanno accusato il Naselli di avere ad arte consentito a quel fatto, e deliberatamente incalorito il moto separatista per indebolire colle intestine discordie il nuovo governo costituzionale di Napoli; e avvalorano l’accusa col fatto che, nella restaurazione del governo assoluto, vennero egli e il La Grua mantenuti in soldo ed in attività di servizio. Ma noi repugnando a prestar fede a tanta nequizia, finché prove più manifeste non vengano in luce, stimiamo doversi preferire la sentenza di chi li accusa ambidue di inettitudine e di viltà.

Armata la plebe coi fucili del Castello a Mare, si cominciò a temerne da quelli stessi che l’avevano in prima lasciata fare. Il luogotenente, alle istanze dei principali della città, chiamò allora i capi delle corporazioni degli artìeri, detti in Sicilia i Consoli, ai quali ordinò di riunire ognun di loro una squadra, che, accompagnata da un cavaliere e da un prete, dovesse percorrere la città per impedirei disordini. Fu al tempo stesso decretata con un proclama la formazione di una guardia di sicurezza, di cui fu nominato ispettor generale il principe di Cattolica, e furono destinate persone autorevoli per dirigerla nei diversi quartieri e borghi della città.

Se questi provvedimenti fossero stati presi qualche giorno prima, o per lo meno spinti ora colla dovuta energia, il male sarebbe stato forse riparabile. La plebe conservava ancora tanta docilità, che quando per le strade le persone oneste insinuavano ai sediziosi di deporre le armi, essi senza difficoltà vi si prestavano depositandole dove veniva loro indicato; ma siccome nessuno aveva incarico di custodirle, e forse non mancava ehi soffiasse nel crescente incendio, quelli stessi indi a poco le riprendevano.

L’inerzia del governo accrebbe il coraggio della plebe, la quale cominciò a pretendere di aver anche consegnati i due forti accanto al palazzo reale, minacciando d’invaderli armata mano se la pacifica dedizione non fosse loro accordata. Dal quale effetto riuscì a gran stento il cardinale Gravina, arcivescovo di Palermo, a distogliere la prepotente ciurmaglia, col permettere che quaranta individui della corporazione degli argentieri entrassero in quei forti per custodirli unitamente alla truppa. Ma non per questo vennero meno le intemperanze e gli eccessi.

Il dopo pranzo di quello stesso giorno 16, il popolaccio corse a manomettere la casa di un Barbaglia, cui il governo avea dato la privativa dei giuochi, e le ricche masserizie del luogo furono arse in Piazza Vigliena: egual sorte ebbero la casa del marchese-Ferreri, ministro della finanza, e l’ufficio del Demanio.

In tanta gravità di circostanze, il luogotenente, vedendo l’autorità sua all'atto sconosciuta ed impotente, pensò, ad imitazione di quanto erasi operato in Napoli, d’istituire una Giunta di governo, composta del principe di Villafranca (sebbene assente in Napoli), di Ruggiero Settimo, di Gaetano Bonanno, di Palermo religioso Teatino, del marchese Raddusa, del colonnello Requescens e di Giuseppe 'I‘ortorici, col parere della quale scrisse il Naselli una rappresentanza al Principe Vicario, in cui faceva conoscere il desiderio dei Siciliani di avere un governo indipendente da quello di Napoli, e la necessità di contentarli: ed un proclama fu scritto, ed anche stampato per pubblicarlo il domani, onde far noto al pubblico questa risoluzione. Fu ugualmente convenuto che forti ronde di artieri, sotto i respettivi lor consoli, accompagnate da preti, da cavalieri e da altre persone di conto, girassero per la città onde dar opera di ritirare di nuovo le armi dalle mani della plebe; e che per maggior sicurezza ogni ronda, se i consoli lo chiedessero, fosse accompagnata da un certo numero di soldati.

Intanto gli artigiani, che faceano le ronde, furono, non si sa come, informati che la truppa si poneva in movimento. I cavalieri che li accompagnavano, sicuri della fede del luogotenente, protestavano esser la cosa impossibile, e certo solo imaginata per soverchia diffidenza; e per farli maggiormente convinti, si condussero con alcuni dei loro al palazzo arcivescovile, dove il cardinale arcivescovo, il principe di Cattolica, il principe d’Aci, e molti altri che ivi erano, replicarono le stesse assicurazioni. Ma queste, lungi dal tranquillare gli animi, non servirono che a farli entrare in maggiore sospetto delle intenzioni della truppa; e bene in ciò si apponevano.

Avvegnaché, sulla sera, il maresciallo di campo O’Farris (a cui era rimasto il comando dopo la fuga del Church) e il general Pastore comandante della divisione, presentatisi al luogotenente generale, gli esposero credere la troppa compromesso il proprio decoro se tardasse più oltre a reprimere tanto disordine. ll Naselli approvò la militare proposta, ed immediatamente si stabilì, che il presidio, consistente in circa due mila nomini, fra’ quali quattrocento di cavalleria, e ducento e quaranta artiglieri, si schierasse sulla piazza del palazzo reale, e sulla prossima di Santa Teresa per agire secondo le circostanze; e tale disposizione fa nella stessa notte posta ad effetto. Frattanto i cittadini, che nel precedente giorno erano entrati nelle fortezze, per presidiarle, come si è detto, insieme alla truppa, sopravvenuta la notte se n’erano tornati a riposare alle lor case; circostanza che avrebbe reso mirabilmente facile al luogotenente il restaurare la compromessa autorità. Ma né egli, né i comandanti rispettivi approfittarono pienamente di si propizia congiuntura, essendosi limitati a munire di sola truppa il debole fortino del palazzo, trascurando i molto più importanti della marina.

L'aspetto dei soldati in battaglia, avvertito immediatamente dai cittadini, non li atterrì; anzi raccoltisi in bande numerosissime, li molestarono tutta notte colle schioppettate, apprestandosi ancora a far uso di alcuni cannoni cavati il giorno innanzi dall’arsenale. Conosciutasi allora la necessità di combattere, i comandanti delle truppe si dettero a discutere intorno al modo.

Opinavano alcuni essere mal difendibile la posizione del palazzo reale, situato tra la città ed i sobborghi: doversi quindi attraversare la città stessa in tre colonne, prendere posizione presso il porto, dove si avrebbe il nemico da un lato solo, munire le fortezze del Molo, del Castello a Mare e della Sanità, e, dove tutto volgesse a male, disegnare la ritirata per la spiaggia verso Termini e Messina. Altri per lo contrario sostenevano doversi rimanere in posizione dove erano, dirigere distaccamenti nella città per tentare di ristabilirvi la calma, e se occorresse poi ritirarsi, ciò si facesse per Monreale a Trapani. Fu questo il parere che prevalso.

Difatti ai primi albori dei 17 di luglio, furono spediti distaccamenti in diverse direzioni, per allontanare dal palazzo reale il popolaccio armato, e tutti quanti compirono quel primo moto con pieno successo. Uno anzi, composto di due compagnie di un battaglione estero, comandato dal maggiore Francia, scendendo per la strada principale, che è spaziosa e rettilinea. ne scacciò i popolani che la occupavano, tolse loro alcuni pezzi d’artiglieria che seeo avevano, e sebbene dai canti delle strade laterali e dai tetti molestato con spessi colpi ai fianchi ed alle spalle, attraversò l’intera città fino alla spiaggia. Dopo alcun tempo però, i varj distaccamenti, secondo le istruzioni ricevute. retrocedendo ai loro corpi, i sollevati, interpretati quei movimenti per segni di timore, crebbero di audacia ed intraprendenza, e ritornarono più baldanzosi alle offese. Per giunta di sciagura, rioccupate quasi senza resistenza le trascurate fortezze della marina, ne liberarono i detenuti, accrescendo in tal guisa il loro numero di circa due mila e cinquecento scellerati e facinorosi. Non avevano capo, non ordinati armamenti, ma a tutto suppliva l’odio comune contro i Napoletani. Distinguevasi fra tutti per l’audacia, e più ancora per l’abito, un Gioacchino Vaglica, frate Francescano, che messosi alla testa di quelle masnade, operò veramente prodigi di valore, e non fu ultima cagione che l'infanteria schierata sulla piazza reale si trovasse finalmente costretta, circa a tre ore pomeridiane, a ritirarsi nel forte del palazzo. Questo fatto, che non poté compiersi senza molto disordine, scoraggiò in tal guisa i soldati, che indi a poco, non ascoltando più le voci dei loro capi, si dettero ad uscire in drappelli, che sbandaronsi in diverse direzioni. La cavalleria non tardò guari a seguire l’esempio dell'infanteria, ma si agli uni che agli altri incolse peggio che non sarebbe intervenuto per una capitolazione, che ancora erano in grado di conseguire. Avvegnaché i contadini delle campagne e dei paesi limitrofi, sollevatisi anch’essi all’annunzio dei fatti della città, imbattendosi, mentre a quella accorrevano, nei fuggitivi, molti ne manomisero e più altri ne tradussero legati alle pubbliche carceri di Palermo, fra gli schiamazzi e gli schemi del volge tripudiante. Mentre cosi precipitavano le sorti della città, il luogotenente generale imbarcavasi furtivamente nella stessa sera dei 17 per Napoli; tutti i pubblici impiegati cessarono dall’esercizio dei loro ufficj, e Palermo rimase pienamente nell’anarchia. Il popolaccio saccheggio il palazzo reale, le abitazioni degli ufficiali e le caserme dei soldati. Una moltitudine confusa di cittadini, di contadini e di galeotti correva le strade armata mano, insultando la Religione e la Società, colle grida di Viva santa Rosalia, viva il buon ordine, mentre, sotto pretesto di cercar armi, o d’inseguire il nemico, invadevano e sovente manomettevano le case dei più opulenti. Fra quei furibondi segnalavansi i conciatori, che in Palermo erano molti, uniti d’abitazione, facinorosi, spregiatori delle leggi anche in tempi tranquilli, formidabili ora in ispecial modo.

In tanta anarchia, i soli, che conservassero ancora un resto d’influenza, erano i consoli delle arti; molti dei quali nella mattina dei 18 di luglio si presentarono al principe di Torrebruna retore (così chiamano in Palermo il capo del Corpo Municipale), e lo invitarono ad assumere il governo della città. Questi li condusse dal cardinale arcivescovo Gravina, e seco lui fu concertata la formazione d’una nuova Giunta Provvisoria, a membri della quale furono istituiti lo stesso cardinale (presidente), i principi di Paternò, di Castelnuovo, di Trabia, di Pantelleria e di Pandolfina, il duca di Monteleone, il marchese Raddusa, il conte di San Marco e Ruggiero Settimo. Vi si aggiunsero dieci avvocati col titolo di collaboratori, e ne fu nominato cancelliere Gaetano Bonanno. Ragunatasi la detta Giunta nel giorno 49, conobbe ben presto la necessità di ammettere nelle sue sessioni i consoli stessi delle arti e con tali facoltà, che nessuna risoluzione potesse esser presa senza il loro consenso.

Ma né pur questo temperamento fu sufficiente per vari giorni ad arrestare il corso dell’anarchia; avvegnaché il di 20 una turba di liberati dal carcere e dalle galera circondasse il palazzo arcivescovile, in cui si ragunava la Giunta, e con minaccevole attitudine chiese l’indulto dei proprj delitti.

Eccidio del principe di Cattolica

Eccidio del principe di Cattolica

Le circostanze non permettevano di deliberare sulla natura e sui risultan1enti d’un tale atto, e il cardinale presidente, affacciatosi a una finestra, cominciò a tranquillare i richiedenti assolvendoli con benedizioni vescovili, finché la Giunta pubblicò un decreto nel quale si dichiarava, che per le imperiose circostanze in cui versava il paese, e per assicurare la comune salvezza, si era determinata di accordare un pieno indulto, non solo a quelli che erano usciti dalle carceri e dalle galere, ma generalmente a tutti coloro che trovavansi macchiati di colpe, per le quali avrebbero potuto esser tradotti in giudizio.

In tanto scompiglio della città, molti Napoletani ed anche alcuni personaggi Palermitani, che non tenevansi sicuri dal furore del popolaccio, eransi rifuggiti nel palazzo arcivescovile. Trovavasi fra questi il principe di Aci, odiato dal volgo per. il rigore con cui aveva esercitati alcuni ufficj municipali, e sospetto ai Carbonari di parzialità per la corte napoletana, ed altamente imputato di traditore della patria per aver fatto, come asserivano, inchiodar parecchi cannoni, che erano in mano del popolo. Egli dimostrò facilmente innanzi alla Giunta la sua innocenza, ma non poté piegar l’animo dei facinorosi, i quali continuavano a minacciare di invadere il palazzo per averne giustizia. Per non esporre pertanto la sede arcivescovile e forse tutti i suoi compagni ad un pericoloso cimento, ne usci egli la sera dei 25 per esser tradotto, sotto la scorta di alcuni conciatori, alle carceri, dove sperava trovare un più sicuro rifugio. Ma procedendo per via, un ribaldo, che sembra essere stato uno degli stessi suoi conduttori, l’uccise con un colpo d’archibugio. Il cadavere suo fu mutilato, e fra l’orrore dei buoni e gli schemi dei malvagi strascinato tutta la notte seguente per la città ed infine pubblicamente abbruciato. Egual sorte era poco innanzi toccata al principe di Cattolica, venuto in sospetto della plebe per aver egli pure assicurato cogli altri, nella sera del 16, che le truppe non si sarebbero mosse, ed essersi poi negato a combattere contro di quelle. Appena appiccatasi la zuffa era egli corso a cercare ricovero sulla nave medesima ove stava già imbarcato il Naselli; ma costui non volle riceverlo, e lo costrinse a ridiscendere a terra. Lo sventurato cercò allora di nascondersi nella campagna della Bagheria; ma riconosciuto dai sollevati del luogo, fu ivi barbaramente trucidato, e il suo cadavere lasciato più giorni a ludibrio sulla pubblica via. Nella stessa notte del 25 fu similmente ucciso un certo Sanzo artigliere Iittorale, imputato pur esse, come il principe di Aci, d’aver inchiodato i cannoni per renderli inutili al popolo.

Da quel momento la plebe vide dappertutto inchiodatori di cannoni. Un accattona, che raccoglieva cenci per le strade, essendogli stato trovato addosso un chiodo, senz’altro esame fu fucilato. Poco mancò che la stessa sorte non incogliesse a Niccolò Cacciatore, direttore della Specola Astronomica, il quale mosse dal lodevole zelo della conservazione di uno stabilimento di tanto onore alla Sicilia ed a lui, a rischio della vita si era introdotto nel palazzo reale per cercar d’impedire il guasto che egli temeva. Ma appunto in quel momento si gridava da qualche forsennato, che ivi pure i cannoni erano stati inchiodati. La ciurmaglia cominciò allora a cercare colà entro i colpevoli. e visto a caso l'astronomo, a loro sconosciuto, supposero esser egli l'inchiodatore; onde fu preso, ed era già per esser fucilato, quando taluno, che forse si compunse a quella vista, allegò che bisognava prima fargli rivelare i committenti e i correi; così fu tratto alla Vicaria, donde, dopo due giorni, conosciuto l’errore, ne usci miracolosamente salvato.


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Mentre la plebe andava in traccia de’ militari, ch’ella gridava traditori dei patti, si scontrò in un vicolo della città col vecchio colonnello Calderara, comandante degl’invalidi, che, fidato nella propria innocenza, era stato in quell’ora a sentir messa. Inferociti alla vista dell’uniforme, gli si fecero addosso, e gi’intimarono di ceder loro la spada e rendersi prigioniere. Il buon vecchio rispose che, finché avea vita, non avrebbe ceduta la spada che per ordine del re. Né la sua venerabile canizie, né l’inoffensivo suo stato, né l’onorata risposta valsero a piegar la ferocia di quei barbari, uno dei quali con una fucilata lo stese al suolo.

Un’altra banda di quei sediziosi corse a dar sacco alla deliziosa villa del principe di Aci; e non contenta d’averne involato mobili, argento, arredi, e quanto vi era di prezioso, ne svelse le porte, le finestre, ed i marmi, sterpò gli alberi dei giardini e tutte devasto le rinomate delizie di quel luogo: talché uno dei più belli ornamenti di Palermo in pochi istanti non presentò più che qualche muro cadente, e un campo nudo e desolato all’intorno.

Scosso una volta il santo impero delle leggi, era ben difficile che quella mano di sciagurati fosse per rientrare spontaneamente nell’ordine, e tollerare in pace un governo: indi avvenne, che cominciaronsi a spargere voci contro la Giunta, e in particolare contro il cardinal Gravina, il quale, sebbene fosse nulla per allora l’azione sua, era colla sola presenza un’importuna protesta contro l’imperversare dei tristi. Veramente la lunga sua dimora in Ispagna, il suo noto attaccamento al partito realista di quel paese, il titolo di difensor fidei a lui concesso da Ferdinando VII, non erano la miglior commendatizia pei momenti che allora volgevano. Si aggiunga a ciò l’avere egli dato ricovero al principe di Aci, onde la plebe chiamava traditore anche lui; tanto che un manifesto pericolo minacciava i giorni di quel prelato, cui tutt’altro poteva accagionarsi che pravità di cuore e d’intenzioni. Per sua ventura il padre Gioacchino Vaglica, che grande autorità aveva acquistata sulla plebe per la stra0rdinaria valentia dimostrata nelle fazioni del 17. pigliò la difesa del suo superiore, e postosi egli stesso ad abitare nel palazzo arcivescovile, facendolo custodire da gente di sua fiducia, tanto si adoperò presso i sediziosi, che giunse finalmente a distornarli dal reo proponimento.

Frattanto la Giunta per tentar di por modo alla perpetrazione di nuovi crimini, e per cercare ad un tempo di rafforzare in qualche guisa il suo precario governo, pensò ad assoldare, e sottoporre per tal mezzo a qualche regola, le bande armate. Ma il buon pensiero venne meno dinanzi all’ostacolo del numero strabocchevole di quelle genti, che non constavano soltanto dei veri facinorosi, ma di tutti gli artieri ed operai di quella immensa città, ai quali, mancato l’ordinario lavoro, il vivere in armi s’era fatta quasi necessità d’esistenza; né il comune poteva tutti provvedere di soldo.

Oltre gli armati per servizio pubblico, come dicevano, non vi era casa privata alla cui porta non si vedesse uno stuolo di cotal gente, sia che il proprietario li avesse istituiti per sua custodia, sia che eglino stessi, come sovente avveniva, s' imponessero a forza per difensori alle case onde estorcere vitto e denaro ai padroni delle medesime. Di guisa che Palermo non presentava in quei tristissimi giorni, che terme immense d’armati sparsi per tutte le contrade, cannoni postati qua e là, mucchi di cenere ancor fumanti, e non di rado cadaveri delle infelici vittime di quei furori. In tutti i volti si vedeva dipinta o la feroce arroganza del delitto trionfante, o il pauroso contegno della sicurezza perduta. Tale era lo stato di Palermo quando, allo spuntare del giorno 24, vi giungeva da Napoli il principe di Villafranca.

Le notizie già pervenute in Sicilia della condotta tenuta in Napoli dal principe di Villafranca; la buona opinione che di lui correva per l’onestà e pei dolci costumi suoi; l’essersi egli nelle precedenti vicende distinto sempre fra gli amici della libertà e della costituzione, fecero ch'egli venisse accolto dal popolo di Palermo con trasporti di giubilo, ed immediatamente acclamato presidente della Giunta in luogo del cardinale Gravina, che continuò a farne parte come semplice membro.

Per quanto le difficoltà da superarsi onde dar forma alla rivoluzione fossero infinite, e l’intervento dei facinorosi ed usciti dalle galere quasi insormontabile, ciò non ostante le cose della città cominciarono per opera del principe di Villafranca a prendere un andamento meno' anarchico ed irregolare. Uno dei primi atti della Giunta fu di spedire una deputazione in Napoli per esporre al re i fatti accaduti in forma meno acerba di quello che avesse fatto il Naselli, e chiedergli ad un tempo un governo indipendente, ma si un principe della sua casa a governar la Sicilia in conformità degli antichi diritti della medesima. Al tempo stesso diresse lettere circolari alle altre città dell'isola per dar loro notizia della spedita deputazione in Napoli, ed invitarle a far causa comune con Palermo.

Questi savj provvedimenti però non ebbero il successo che si sperava, né poteano averlo. I disordini della plebe palermitana aveano prodotto due fatali effetti; di screditare la causa dell’indipendenza, e chiudere qualunque comunicazione tra Palermo e l’altre città, per le orde di assassini che tennero più giorni la campagna per molte miglia intorno alla capitale. Solo istintivamente si intesero da per tutto i facinorosi e trasmodarono in opere violente e disordinate. I coscritti messi in libertà, i forzati e i detenuti evasi incitavano dappertutto il popolaccio alla rivolta, alla rapina, al disordine. Le autorità nulla potevano sopra un popolo disusato all’obbedienza, e lungi dal valer come freno, furono anzi sprone involontario agli eccessi pei tentativi insufficienti che in qualche luogo operarono a fine di contenerlo.

Sull’esempio di Palermo furono dappertutto manomessi gli ufficj governativi, e l’insensato furore della plebe giunse in molti luoghi a tale, che gli stessi archivi pubblici e gli atti notariali vennero bruciati. Disordini, rapine, private vendette, si commisero quasi in ogni città.

Egli è vero che il principe di Villafranca e la Giunta spedirono bande armate per isgombrare le strade dagli assassini che le infestavano; e cosi le comunicazioni tornarono in qualche modo sicure. Ma la causa dell’indipendenza era già denigrata; già si era data troppa larga occasione ai nemici della Sicilia di confondere il voto ed i diritti dell'isola cogli eccessi della canaglia; già indipendenza era divenuta quasi sinonimo di scioglimento dell’ordine sociale; onde avvenne che in molti luoghi il popolo sostenesse quel governo stesso che abborriva, cioè il napoletano, perché era pane un governo.

E per vero, da un lato l’invito all'indipendenza veniva da una città, che, per atti non bene ancora cessati, dava solo l'esempio dell’anarchia alle altre città della Sicilia, senza poter loro offerire garanzia e soccorso di sorte alcuna; mentre dall'altro, il governo di Napoli presentava uno stato di cose regolare e tranquillo, sicurezza ai cittadini ed ordini politici consentiti spontaneamente dall'universale. Il principe vicario scriveva lettere pressantissime agli intendenti in Sicilia per animarli a mantenere il paese unito a Napoli, e prometteva loro difesa e soccorsi; la truppa napoletana serviva, è vero, a comprimere il voto dell’indipendenza, ma valeva anche a reprimere gli eccessi della plebe: e finalmente il contegno della carboneria, che dai Napoletani si disseminava in Sicilia per accresccrvi il loro partito, serviva ad illuder molti e ad allontanarli dalla causa siciliana.

La deputazione spedita dalla Giunta di Palermo fu arrestata in Napoli, e i deputati vennero rinchiusi in una casa di campagna, sotto,divieto di essere visitati da chicchessia. Nel modo stesso il duca di Belmonte inviato a Messina, e il duca di Sperlinga mandato a Catania per suscitar quelle città in favore della indipendenza, furono nei due luoghi arrestati e spediti prigionieri al Castello di Gaeta.

La Giunta Palermitana pensò frattanto di formare un nuovo esercito per dar forza al governo, e ricondurre la plebe all’ordine ed all’obbedienza. L’idea era ottima; l’esecuzione fu pessima. I consoli, che conservavano pur sempre grande autorità, fecero acclamare capitan generale il colonnello Emmanuele Requescens, onest'uomo, siccome narra la fama, ma incompetente a quel carico. Il Monaco Vaglica fu fatto colonnello; i consoli vollero tutti il grado di capitano; e lo diedero a molti, cui nei plebisciti si conferiva il titolo di benmeriti cittadini, mentre il pubblico li conoscea per ladri o facinorosi. Si vollero formare cinque reggimenti d’infanteria, uno di cavalleria ed uno d’artiglieria. Ma tranne pochi ufficiali della distrutta armata regolare, che spinti dalla fame s’indussero a prestar servizio, il resto dei graduati furono per lo più gente della qualità che abbiam detto.

Se il nuovo capitan generale avesse avuto‘ più senno, e vedute più estese, avrebbe formato il nuovo esercito di gente tratta possibilmente da ogni parte dell’isola, e collocatone il grosso in qualche punto centrale per minacciare più da vicino i Napoletani, che tenevano Messina ed altri luoghi, ed incuorare le. popolazioni sgomento per l’anarchia; ma assoldandolo quasi di soli Palermitani, molti dei quali erano della natura che abbiamo indicato, e tenendolo in quell’estremo della Sicilia, mancò allo scopo principale, che, rispetto all’idea della indipendenza, era da aversi di mira, e appena può dirsi che giungesse a frenare i disordini della città, e a dare finalmente al governo un’apparenza di forza nell’interno di quella.

Giungeva intanto in Palermo un proclama del principe Vicario diretto ai Palermitani; nel quale amaramente Ii rinfacciava della loro condotta, insinuava il ritorno all’obbedienza, e conchiudeva colla minaccia di severi temperamenti. Replicarono a quello i Palermitani il di 8 agosto con un documento, che ci sembra di troppo grande importanza per poter essere da noi pretermesso, e che qui per intero riportiamo, come uno degli atti che sparge maggior lume sulla natura degli avvenimenti che abbiamo impreso a narrare.

«Altezza Reale; una crisi violenta ha scossa la società fin dalle sue fondamenta, e ne ha minacciato la distruzione. Una gloriosa rivoluzione, premeditata con senno e consiglio, eseguita con calma e con coraggio, e sostenuta dalla forza armata, si era già operata in Napoli. Cominciata nella notte dei 2 luglio, ebbe. essa testo il suo termine in quella dei 5. La libertà che ne fu il frutto e che non era men cara ai siciliani, fu il dono funesta che servir dovea come di elemento alla nostra disorganizzazione. A produrre un effetto così inaspettato, ed a far si che un dono cosi prezioso fosse per noi divenuto germe di calamità e di sciagure, uopo era al certo di tanti errori insieme riuniti, quanti dal governo se ne commisero in tal circostanza; e se questo si ebbe da esso in mira, può ben egli applaudire ai suoi sforzi. Le misure prese ebbero il loro successo. L’anarchia, il disordine e la guerra civile minacciarono questa capitale. Ma la provvidenza che spesso veglia più che i governi alla salvezza dei popoli, ci liberò da tanta rovina. Il popolo siciliano, nemico delle rapine, docile di carattere, rientrò tosto nell’ordine, e dando al mondo un esempio della più rara moderazione, ha con ciò saputo acquistare dei nuovi titoli alla stima e considerazione delle altre nazioni. In tale stato di cose, ed appena usciti da si penosa situazione, ci giunge il proclama di V. A. R. in data dei 20 di luglio. V. A. R. ricusa di chiamarci figli; rinfacciandoci i beneficj da noi ricevuti, ed i sacrificj da V. A. B. fatti per il nostro bene, ci accusa d’ingratitudine, ci chiama or sediziosi, or ribelli, or faziosi, ci impone di rientrare sotto l’obbedienza del re, ci promette oblio, amnistia e perdono, e ci minaccia infine delle nuove disgrazie in caso di nostra ostinazione.»

«Noi non possiamo nascondere a V. A. B. la profonda afflizione e il dolore di cui siamo tutti stati penetrati alla lettura di questo proclama. Esso non ha servito che ad aprire delle ferite, che bisognavano invece di balsamo; ed in esso anzi che riconoscere il cuore paterno di V. A. R., chiare si scorge lo stile, lo spirito, i principi di coloro che mal consigliando V. A. R. han sempre cospirato all'asservimento della nostra patria.

Questa filiale e rispettosa rimostranza, che deponiamo a’ piedi di V. A. R. unita ai voti di cui sarà organo presso V. A. B. la deputazione di già spedita, serva a convincerla del filiale attaccamento e tenerezza, di cui è tuttora animata questa popolazione per V. A. R.»

«Noi ameremmo in vero di stendere un velo sul passato, e non riandare avvenimenti che non servon oggi, che a maggiormente inasprire gli spiriti; ma la taccia d’ingratitudine è cosi nera e pesante, che noi dobbiamo a V. A. R. , a noi stessi, all’Europa intiera il giustificarci di tale imputazione. V. A. R. anziché credersi ingannata dalle dimostrazioni d'amore e di fedeltà che le abbiamo sempre dato, lo è certamente dai perfidi consigli di coloro, che la persuadono che tutti i sacrificj fatti sieno dal lato della corte, e tutti i beneficj dal lato. della nazione; di coloro in somma che le insinuano che i popoli fatti sieno per la convenienza dei principi, e non li principi per il benessere dei popoli.»

«Quale è dunque stata sin’ora la situazione della Sicilia? Qual è stata la sua sorte? Per ben due volte S. M. il re, vostro augusto genitore, e tutta la real famiglia, costretta ad abbandonar Napoli, venne a cercar tra noi un asilo. Quali prove non diede allora la nazione di fedeltà, divozione ed attaccamento? Essa non solo mantenne la corona nel suo splendore, ma forze e mezzi appresto al re, onde riacquistare il regno perduto. I di lei tesori furono profusi per il lauto mantenimento di stuol numeroso di emigrati napoletani. Ecco i sacrifizj fatti dalla nazione siciliana. Quali ne furono allora i beneficj ed i vantaggi? Una corte permanente fu promessa alla Sicilia in solenne parlamento. Fu questa promessa mantenuta? Ritornata la. seconda volta la corte nel 1806, migliorò forse la sorte della Sicilia? Gli onori, le cariche e le pensioni dello stato non si profusero che ai Napoletani. Il denaro dello stato fu dissipato in inquisizioni e spionaggi, nel mantenimento di una numerosissime armata napoletana e ad assoldare masse di cmissarii e briganti che infestavano il regno di Napoli. La Sicilia in somma fu una colonia governata da un gruppo di emigrati napoletani. In questo stato di cose, e allorquando la corte fu obbligata a far fronte a tante profusioni, ad imporre dei dazj illegali ed arbitrari, allora si fu che la Sicilia vidde alcuni dei suoi migliori cittadini strappati, nel bujo della notte, dal seno delle loro famiglie da forza militare, e relegati in isole nella più dura e penosa detenzione, come perturbatori della pubblica tranquillità. Quale fu mai il delitto di costoro, se non quello di protestare rispettosamente contro la violazione delle leggi fondamentali del Regno?»

«La Sicilia si pronunziò allora per la costituzione d’Inghilterra; fu questa adottata. Fu l V. A. R. creata da S. M. Vicario Generale del Regno. Fu decisa e solennemente sanzionata la indipendenza di questo regno. S. M. ripigliate le redini del governo solennemente promise nel Parlamento del 1815, il mantenimento non solo, ma il compimento ancora della Costituzione adottata. Ritornò il Regno di Napoli sotto il dominio di S. M. Quali furono i benefizj che la Sicilia ottenne? Fu essa immediatamente spogliata della sua nuova Costituzione non solo. ma di quella ancora, che per il corso di tanti secoli, tutte le antecedenti dinastie avean sempre giurato di mantenere e religiosamente rispettato. Strappata la sua bandiera, infranti i suoi patrii stemmi, abolita la sua moneta, e cancellato per fino il di lei nome, che ha sin ora cotanto brillato nella storia del mondo: degradata, avvilita ed insultata, fu infine ammessa all’alto onore di essere una delle provincie del regno di Napoli, ossia delle due Sicilie

«Quali furono i compensi ch'essa n’ebbe? Per la prima volta si videro le madri strappati i giovani figli, non per la difesa della patria, ma per popolare le schiere Napoletane nei lontani lidi della Puglia; la carta bollata, il registro, tanti altri dazj non men pesanti arbitrariamente imposti, facendo giornalmente passare in Napoli le ricchezze del paese, avean fatto da per tutto succedere alla prosperità e all’opelenza la più squallida miseria. Una mania di sistemi e di organizzazioni novelle manteneva la vertigine e il disordine in tutte le amministrazioni, la incertezza in tutti gli spiriti. Falangi d’impiegati, scelti da ciò che la Sicilia avea di più abbietto in 'ogni classe, la innondarono per esaurirne tutte le risorse. Il desiderio d’impieghi avea già guadagnato tutte le classi dei cittadini, e a gara eran da tutti abbandonate le utili professioni, le arti, la industria, altronde avvilite, per la,carriera degli impieghi, che si riguardava come l’unica ed estrema risorsa. Da’ più piccoli ai più gravi interessi, tutto si definiva in Napoli. Migliaja d'infelici ogni giorno astretti erano a varcare il mare, e popolando le scale e le anticamere di ministri invisibili, presentavano il più degradante spettacolo della nostra umiliazione. La persona stessa di V. A. B. che colle auguste funzioni di luogotenente, e con il lustro di una corte soddisfaceva, se non gli interessi, le immaginazioni dei Siciliani, fu per sino richiamata da quest’isola e strappata dal nostro seno.»

«Si è operata la rivoluzione gloriosa di Napoli. I Napoletani han guadagnata la loro libertà. Il governo dovea ben presumere, o dubitare almeno delle conseguenze del contraccolpo nello stato e disposizione in cui erano qui gli spiriti. Esso ne fu avvertito, e sollecitato da diversi Siciliani residenti in Napoli: delle misure furono proposte ad evitare quanto è accaduto: furono esse spregiate e rigettate. Quali disposizioni si presero? Il segreto, ed il silenzio! Nel giorno 6 in in Napoli consumata la rivoluzione. Le più essenziali misure per il nuovo sistema costituzionale si pubblicarono quasi tutte in quel giorno, e non ostante che de’ telegrafi tanto onerosi allo stato, e dei legni da guerra d’ogni sorte solessero essere di una straordinaria attività ove si agiva di recarci calamità e pesi, si lasciarono in si importante momento nella inazione. Tutto era consumato in Napoli il giorno 6, ed intanto non In prima del giorno 15, e non pria che dei legni mercantili avessero già recata la nuova degli accaduti avvenimenti, che si pubblicò da questo governo il primo proclama di S. M. alla nazione del Regno delle Due Sicilie in data de’ 6. Ignorava forse il governo, che noi mancavamo di Guardia Civica, e d’interna sicurezza, che le nostre milizie erano state disarmate, disciolte, ed annientate?»

«Non si sentivano pertanto da per tutto che voci di esultazione e di gioia. I militari stessi festeggiavano a gara una si lieta novella. La irruenza e violenza di un generale fu il segnale dei disordini e della confusione. Il luogotenente generale, ondeggiando fra l’imbecillità e il terrorismo, decise la fatale catastrofe. Fu ceduto alla plebe il Castello e le armi. I disordini non ebbero progresso. Si volle nella notte dei 16, contro il parere della Giunta, far prendere le armi alla guarnigione, e farla marciare contro il popolo. Ciò diede luogo alla fatale giornata dei 17 e ai disordini, che ne furono la conseguenza, e che ogni buon cittadino amaramente deplora. E chi mai avrebbe potuto prevederne il termine, se la moderazione di un popolo naturalmente pacifico, e l'attività e lo zelo dei consoli delle corporazioni ed arti, la cui condotta non può ammirarsi abbastanza, non avesse fatto tutto rientrare nell’ordine? Egli è adunque contro il governo che noi abbiamo diritto di reclamare per li accaduti disordini, di cui si è egli fatto autore, ed è su di esso solamente che ne gravita la più odiosa responsabilità.»

«Tutto è oggi infine tranquillo, ed una Giunta provvisoria di Governo, chiamata dal pubblico voto e presieduta dal principe di Villafranca, tutto regola e dirige. Il voto però di questa capitale e di tutta l'isola non e men forte né men deciso per la libertà e l’indipendenza sotto il governo d’un principe della real famiglia. Tutti sono convinti che senza indipendenza non v’ha libertà, e tutti son decisi di difenderle entrambe fino all’ultima stilla di sangue. Esse periranno insieme, ma prima perirà ogni buon Siciliano. Se in alcuni angoli della Sicilia gl’intrighi dei faziosi riescono ancora a comprimere questo voto, lo scoppio non sarà ivi che più terribile e fatale a coloro, che di comprometterlo procurano.»

«Non possiam dunque noi deplorare abbastanza l’errore nel quale è stato indotto l’animo di V. A. R. col farle confondere il voto unanime e deciso della nazione Siciliana per la libertà e indipendenza sua coi movimenti sediziosi e coi misfatti momentanei di pochi individui, mossi forse da obbrobriosi artificj per macchiare il patriottismo di questa popolazione e la santa causa ch’essa ha impreso a difendere. Noi ardentemente scongiuriamo V. A. R. a nome della nazione Siciliana perché, ingannata forse da consigli dettati da privato interesse o da malintesa vanità nazionale, non si abbandoni ad imprudenti e disastrose misure, né macchiar voglia con esse i primi passi che fa il popolo Napoletano nella gloriosa carriera della libertà.»

«Rammenti la II. A. V. che queste potrebbero essere egualmente fatali agl’interessi di due popoli fratelli, nati per amarsi, non per combattersi né signoreggiarsi fra loro: rammenti infine ch’esse potrebbero esserlo ancor più forse a quelli del trono medesimo e della regnante dinastia.(159)»

Tanto i termini della proclamazione del principe vicario, quanto quelli della surriferita risposta, toglievano ormai ogni speranza di transazione fra le due parti, come pure non era più da ritenere che Messina, e le altre città, che avevano aderito al governo di oltre Faro, fossero per pronunciarsi nel senso separatista. Laonde videro assai chiaro i Palermitani che la guerra si faceva inevitabile, tanto all’interno per sottomettere v le città ancora fedeli a Napoli, quanto contro le regie forze. che inevitabilmente erano per piombar loro addosso.

A imitazione di quanto avevano operato gli Spagnuoli centro gli eserciti napoleonici, e senza punto esaminare se a cosiffatto esempio fosse utile e possibile in Sicilia di conformarsi, stabilirono i Palermitani di adottare il sistema di guerra per bande armate e guerriglie, colle quali sottomettere i paesi ribelli (così li denominarono) dell’isola, e prepararsi a impresa di maggior pende. E così come fu stabilito si procedette.

Fra le città dissenzienti era Caltanisetta, la quale, pei cambiamenti accaduti dopo il decreto delli 8 decembre 1816, era divenuta capitale di una delle sette provincie, in cui era stata divisa la Sicilia. Sede di un tribunale, di un intendente e di più altri impiegati, era natural cosa ch’essa avesse avuto meno a dolersi del governo di Napoli, e che ivi molti gli fossero devoti. La Giunta di Palermo, ben conoscendo che il timore di perdere le acquistate prerogative poteva essere l’impedimento all’adesione di molte città, aveva stabilito che da per tutto fosse mantenuto lo stesso sistema di magistrature. Ma gli agenti del governo napoletano studiandosi d’impedire che nessuna delle carte pubblicate in Palermo penetrasse nei luoghi di loro dipendenza, e producendo lettere del principe vicario e del luogotenente Scaletta, nelle quali si raccomandava la fedeltà e si promettevano aiuti nel bisogno, riuscì loro di mantenere in fede Caltanisetta, Note e Siracusa.

Fu dunque destinato a quella impresa il principe di San Cataldo, del quale veramente non poteva proporsi persona più disadatta e mancante d’ogni necessaria cognizione degli uomini e delle cose. Credendesi chiamato a diventare il Mina della Sicilia, si persuase che a ciò ogni mezzo gli fosse lecito e buono. Non contento della guerriglia, che la Giunta avea messo a sua disposizione, volle rinforzarla con uno stuolo di malandrini, raccolti fra gli scarcerati di Palermo; e se la guerriglia non rifiutò tali compagni, possiamo agevolmente immaginare quel che si fosse ella stessa.

La prima sua prodezza fu quella di ordinare il saccheggio delle campagne all’interno di Caltanisetta; e quel territorio, uno dei più fertili e meglio coltivati della Sicilia, fu interamente devastato. Branchi di bestiame involati, fattorie distrutte, piantamenti atterrati furono i primi trofei di quella masnada, che il suo capo superbamente intitolava Grande Armata di San Cataldo, e quelli i primi augurii del gran riscatto.

Dall’altra parte l'intendente napoletano Gallego, nipote di Nasellì, con inaudita viltà, seguitò fedelmente l’esempio dello zio. All’avvicinarsi della tempesta fuggì notte tempo, portando seco dugent’uomini di truppa di linea che ivi erano, i quali avrebbero potuto far resistenza ed accrescere il coraggio di quella misera gente. Molti di quei derelitti cittadini pensarono sottrarsi all’instante pericolo col riparare altrove: il rimanente deliberò di scendere a’ patti. Era quello il momento in cui il Principe di San Cataldo avrebbe potuto rimediar tanti orrori. Per guadagnar la città bastava ritirarsi, esigendo per sola condizione che si disfacesse da Napoli. Ma quegli crede ciò insufficiente alla sua gloria e forse ai suoi interessi; onde pretese che da quei cittadini gli si pagassero ventimila onze, e gli si consegnassero tutti i magistrati della città. Mentre queste cose si stavano trattando fra le due parti, alcuni di Caltanisetta fecero fuoco sopra un distaccamento della gente di San Cataldo. Si gridò allora al tradimento, e la masnada corse alle armi. La superiorità del numero, e la forza di quattro cannoni che San Cataldo aveva seco, fecero ben tosto disperdere gli armati che difendevano la sventurata lor patria, e un torrente di assassini invase Caltanisetta. Quell’infelice città fu, non per giorni, ma per più settimane esposta al sacco, non che della guerriglia di Palermo, ma degli assassini dei vicini villaggi e della plebe stessa della città; e si giunse alla barbara ferocia di appiccarvi il fuoco in più luoghi per distruggerla dalle fondamenta. Furono uccisi moltissimi, non solo fra coloro che opposero resistenza, ma fra’ pacifici cittadini, e taluno fu perfino scannato nella chiesa in cui avea creduto di trovare uno scampo. Un gran numero di quegli infelici d'ogni condizione fuggirono a piedi in varie direzioni, e credendo di aver sempre i masnadieri di Palermo alle spalle, corsero nudi sino a Siracusa ed a Messina, spargendo da per tutto lo spavento e l’orrore pel nome Palermitano.

V’hanno talvolta dei delitti politici. la cui turpitudine è in qualche guisa temperata dallo splendore di azioni gloriose, dalla necessità, o dal profitto che se ne trae. L'eccidio di Caltanisetta non fu che un grande assassinio senza gloria e senza motivo, e ciò che lo rende ancor più orribile si è, che mentre la Giunta poteva pur trarne sommi vantaggi, il Principe di San Cataldo non seppe conseguirne veruno.

Il Governo di Napoli essendo sino a quel punto sicuro dell’adesione delle città capitali delle altre provincie siciliane, poco avea temuto Palermo e le città inferiori, malgrado la gran massa della loro popolazione, e si era lusingato che la città di Palermo sarebbe stata costretta dal suo isolamento a cadere da se medesima. Ma l’impresa di Caltanisetta incusse in ogni parte tale spavento, che se il Principe di San Cataldo avesse continuata la sua marcia dopo quel fatto. non vi sarebbe stata città di Sicilia, che non avesse inalberata la bandiera dell’indipendenza per non esporsi a simile calamità. E un tale effetto era tanto più certo, che in quei luoghi medesimi, che tuttavia mostravano di aderire a Napoli, esisteva pure un partito, che si adoprava per l'indipendenza, e che altro non attendea se non la favorevole occasione di scuotere il giogo della legge. Ben previde ciò la Giunta di Palermo, la quale con ordini pressantissimi ingiunse al Principe di San Cataldo di affrettarsi sopra Catania e Messina; ma costui, non si sa bene per qual ragione, fece ritorno a Palermo. Onde apparve che si fosse manomessa Caltanisetta per il solo piacere di manometterla.

In un paese già da secoli non più uso alle armi, e senza alcuna recente tradizione militare, l’annunzio di quella impresa produsse in sulle prime in Palermo un’ebbrezza generale, ignorandovisi le scene d’errore colà accadute. Un plebiscito dichiarò il Principe di San Cataldo, e tutti coloro che aveano fatto parte di quella spedizione, avere ben meritato della patria, e si pensava a solennizzar quel trionfo con una generale illuminazione della città.

Il principe di Villafranca, troppo ben conscio di quanto era accaduto, risparmiò alla Sicilia l’onta di quel pubblico attestato di gioia per un avvenimento così funesto. In una patetica arringa diretta ai consoli e a un numeroso uditorio, egli dimostrò turpe e scandaloso che Siciliani si compiacessero del danno arrecato ad altri Siciliani; disse che se una dura necessità avea messo le armi in mano ad alcune città di Sicilia contro le altre, doveva ciò considerarsi come una sventura comune, e che,il sangue sparso in Caltanisetta doveva destare lacrime di rimorso anziché di compiacimento. Questo discorso commosse gli animi più inferociti, ma le fatali conseguenze del fatto non si fecer meno sentire.

I popoli (osserva in tal proposito il Palmieri) sono come i liquori, che, messi in fermento, la feccia sale e li intorbida: se la ebullizione affatto non li depura, vengono a corrompersi interamente. Cosi doveva essere della Sicilia; e sventuratamente. come avviene il più delle volte, fu il peggiore dei due resultati che in essa si verificò. In quella universale convulsione. i mezzi ordinarj di sussistenza erano affatto cessati. I proprietarj o non ritraevano più alcun prodotte dai loro fondi, e lo traevano a stento; il foro era chiuso, il commercio interrotto, e coloro che viveano di qualche industria e mestiere ben presto non ebbero più come vivere. La necessità li portava alI’armi; le circostanze, la mancanza di forza nel governo, e la mala direzione li portò alla rapina. A tali stimoli si aggiunse quello di aver veduto molti tornare da Caltanisetta carichi di bottino, e la plebe non volle ormai saper d’altro che di guerriglie.

In tale stato di effervescenza giunse da Napoli in Palermo Gaetano Abela di Siracusa, il quale arrestato alcun tempo prima per sospetto di carboneria, era stato tradotto in una delle prigioni di Napoli. La rivoluzione gli fe' riacquistare la libertà; e il mal genio della Sicilia quivi di nuovo lo trasse per aggiunger esca a quel fuoco. Questo avventuriere dotato di qualche ingegno, ma vano, leggiero ed imprudente, cercando fortuna ad ogni costo, si presentò alla Giunta e fece la più ridente pittura dello stato delle cose in Napoli rispetto alla Sicilia. Disse che l’esercito d’Osservazione, mosso dall’Austria, avrebbe impedito qualunque aggressione dei Napoletani contro Sicilia; che in Napoli nessuno pensava a sottomettere questo paese; che colà i più riconoscevano il diritto dei Siciliani alla indipendenza; che il ministero era bensì diviso, ma in maggiorità favorevole, e che i pochi restii avrebbero dovuto cedere all’impotenza di usare la forza; che quindi conveniva ostinarsi nella resistenza, essendo per tal ‘mezzo sicuro il conseguimento del fine.


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L'audacia, come suole accadere in tali incontri, tenea luogo di ogni merito; quindi l’Abela divenne istantaneamente uomo d’alta importanza. Gli si diè per quella relazione, che si volle pubblicar colla stampa, una gratificazione di settecento onze, fu fatto colonnello, e destinato a comandare una guerriglia diretta appunto contro Siracusa sua patria.

Il nuovo colonnello, per prepararsi a quella spedizione. non risparmiò bulloneria atta a suscitare vie maggiormente la plebe: fece fare sontuose bandiere, e dopo averle condotte in trionfo per tutte le strade della città, le fe’ benedire pubblicamente in una messa solenne. Egli cd i suoi ufficiali vestirono un uniforme di scarlatto con galloni d’oro, con cappelli dorati e carichi di piume dei più vivaci colori, onde più lurida appariva la masnada di cenciosi che conducevano. I quali stanchi in fine di tutte quelle ridicole scene, né tollerando più a lungo che il loro comandante stesse quasi a diporto in Palermo, si levarono una sera a sommossa e corsero a casa di esso colonnello per manomette rlo se non si partiva all’istante; e forse l’assassinio si consumava se il principe di Villafranca, accorso a quel tumulto, non lo impediva. Con tali auspicii la spedizione parti.

Non erano ancora a due giornate di cammino quei ciurmatori, quando vennero fra di loro a contesa per certe ruberie che alcuni commisero e che altri voleano impedire; onde il litigio degenerò in una zuffa generale, che fini collo sperpero di tutto il corpo. Abele ferito fuggì; gli ufficiali si dispersero; dei soldati, altri restarono morti sul campo, altri si sbandarono, altri tornarono come trionfanti in Palermo coi vessilli e i cannoni. Venne però fatto alla Giunta di arrestarli, e farli giudicare da un consiglio di guerra, che condannò i capi alla fucilazione; ma questo tardo esempio di rigore nulla valse a frenare il contagio già troppo invalso della indisciplina.

Il comando delle guerriglie era allora dei primi occupanti. Un certo Cuzzaniti, amico del console dei conciatori, per questo solo merito, da curiale che era, fu fatto comandante di una guerriglia diretta contro Trapani. Costui, alla testa d’una banda di sciagurati, mise a sacco le campagne di Alcamo, Calatafimi, Monte Sangiuliano e Marsala, città che pur tutte aderivano a Palermo; onde lungi dal guadagnar Trapani, si perdettero molti comuni, che disgustati da trattamenti si rei, si rivoltarono contro la capitale. Ma ancora più turpe è quanto siam per dire di Cefalù.

Sin dai primi momenti che la sedizione erasi comunicata alle altre città della Sicilia, in Cefalù una banda di malviventi aveva assalita la casa d’un cittadino ed uccisolo insieme con tutta la sua famiglia, permetterne a sacco le sostanze. Molti, che accorsero alla difesa di quell'infelice, non arrivarono a tempo per salvarlo, ma vennero a capo di arrestare il principal reo e fugar gli altri. L’assassino, preso sul fatto, in per ordine delle autorità fucilato. Un suo fratello e gli altri complici del delitto, per vendicarsi della mala riuscita, corsero a Palermo, dove cominciarono a spargere che la Giunta di Cefalù, spinta dal Vescovo, s’era gettata dalla parte di Napoli, e segretamente se l’intendeva col principe di Scaletta. Un certo Geronimo Battaglia, console dei carbonai, il più attivo in Palermo nell’acereditar quelle voci, si otierl egli stesso ad andare-a punire quella ribelle città.

Il principe di Villafranca indotto dalla sua stessa lealtà a credere che altri non potesse mentire in cosa di tal momento, ebbe per vero il referto, ‘e non esitò ad affidare al Battaglia quattro barche armate, per recarsi a Cefalù. Ben e vero che il principe gli diede ordine espresso di non far scendere in terra la sua gente e di non commettere veruna ostilità, ma solo d’indagare lo stato delle cose e farne alla Giunta un più preciso rapporto. Ma ciò non giustifica certamente la sua imprudenza di aver fatta partire la spedizione, ad onta dei vivi e continuati reclami del rappresentante di Cefalù, che sedea nella Giunta, e molto meno l’errore di avere affidato un tale incarico al Battaglia, al quale si accompagnò un certo Gabriele Fuxa bastardo del principe di Torremuzza, non conosciuto che pel suo male operare.

Costoro, giunti in Cefalù, circondarono di armati la città, ed appuntativi contro i cannoni le intimarono la resa, minacciandole in caso di resistenza il saccheggio. Gl’infelici cittadini cosi inaspettatamente aggrediti, spaventati dall’esempio di Caltanisetta, non trovarono altro scampo che nel pagare ottomila onze al Battaglia, il quale dopo una impresa cosi scellerata tornò trionfante in Palermo. Il rappresentante di Cefalù insisteva per aver giustizia di quella depredazione; ai reclami di lui s’uni una querela della Giunta della infelice città e una memoria di quel vescovo diretta alla Giunta di Palermo. Tutti fremeano di sdegno, ma nessuno osò profferir parola contro il Battaglia,0 insistere onde costui restituisse il mal tolto; perché quel reo ladrone accompagnato da numerosa coorte e sicuro del favore degli altri consoli. era sempre presente in Giunta. Così mentre Palermo gemeva fra gli artigli d’una sfrenata plebaglia, doveva ancor tollerare di essere l'oggetto dell’odio dei Napoletani e di una gran parte della Sicilia per gli eccessi che da per tutto si commettevano in nome suo.

Fra tanti orrori, di cui il solo dovere di storico può estorcere la narrazione, è consolante l’aver qualche esempio d'onestà da ricordare. Sin dal momento che venne in campo la funesta idea delle guerriglie, Raffaello Palmieri fu destinato al comando d’una diretta per Messina. Onesto ed avveduto, egli aveva già troppo bene compreso che la forza era, non che inutile, nociva all’impresa di guadagnare le città dissenzienti; onde parti con poca ma fidata gente, che venne mano a mano accrescendo a misura che si avanzava. Da per tutto si asteneva dall’esigere alcun servizio o prestazione dal popolo; la massima disciplina regnava nella sua piccola armata; e la sua massima cura era tutta posta nell’assicurare la pubblica tranquillità, nel ristabilire i magistrati, fugare e punire i malfattori; nel che solo faceva uso della forza. Così si avanzò sino a Mistretta, ricca e popolosa città della provincia di Messina. Ivi si agitava un partito per l’indipendenza, ma era tenuto a freno dalle autorità, che, obbligate a seguire gli ordini ricevuti dal principe di Scaletta, lo comprimeano; onde quel luogo era costituito nella stessa condizione della sventurata Caltanisetta.

Palmieri lasciò a poche miglia di distanza la sua gente ed entrò solo nella città. L’opinione che già si era sparsa di lui, e il vederlo comparire in quella forma inoffensiva, fecero che nessuno si avvisasse di molestarlo. Giunto sulla pubblica piazza, cominciò a persuadere quei cittadini, che egli non veniva con alcuna veduta ostile contro di loro; che, Siciliano, avrebbe avuto in errore il lordar le sue mani di sangue Siciliano; che egli era appunto venuto solo per dare una prova della purità delle sue intenzioni, che altre non erano se non d’invitarli ad unirsi alle città, che già avevano proclamati i dritti del popolo Siciliano; protestò che la sua gente non sarebbe venuta innanzi se non fosse da loro stessi richiesta, sia per reprimere i malfattori, sia per respingere i comuni nemici, dei quali aveva d’ora in ora a temere. Quel discorso pronunziato da un uomo che pure aveva mezzi di offendere, e non ne usava, destò un’acclamazione universale. Da quel momento Mistretta si dichiarò per l’indipendenza, e invitò. la truppa di Palmieri ad entrare. Le autorità ed i più facoltosi cittadini, concorsero in quel voto generale, e fecero a gara per colmare il comandante, gli ufficiali e i soldati di favori d’ogni maniera. Presso a cento altri comuni seguirono l’esempio di Mistretta, senza che in alcuno di quei luoghi accadesse il più leggiero disturbo. Così progredendo, Palmieri si avvicinava a Melazzo, ove un grosso partito di cittadini lo aveva invitato, per aiutarli a cacciare la guarnigione napoletana; il quale effetto sarebbe stato decisivo per la Sicilia. I Napoletani, minacciati nel centro delle lord operazioni, avrebbero perduto coraggio; il popolo stesso di Messina si sarebbe forse pronunciato, e in ogni evento Melazzo avrebbe contenuto la marcia dell’esercito, che già si preparava in Napoli contro Sicilia.

Palmieri doveva dunque nel giorno concertato con quei cittadini trovarsi sotto Melazzo, quando un accidente inaspettato venne, non solo ad interrompere, ma a rovinare affatto il corso delle sue operazioni. Un monaco palermitano chiamato Errante, levata un’accozzaglia di mascalzoni in Palermo e nel vicino villaggio della Bagheria, si offerì di condurli ad accrescere la guerriglia di Palmieri. Senza esaminare se questi avesse bisogno di tal rinforzo, senza pensare se pure gli potesse esser gradito, la Giunta non solo aderì alla proposta del monaco, ma gli dette alcuni pezzi d’artiglieria per consegnarli a Palmieri, che già li avea richiesti. Ma appena uscito Errante dalla città, cominciò a mettere a contribuzione quanti paesi incontrava, e senza mai ristare dalle violenze giunse finalmente in Santo Stefano poco lungi da Mistretta, ove allora Palmieri si ritrovava. Gli abitanti in udire che quella gente faceva parte della guerriglia di Palmieri, l'accolsero con ogni dimostrazione d'affetto. Ma guari non andò che il monaco ribaldo chiese ivi pure, sotto tremende minaccie, una grossa contribuzione di denaro.

I cittadini costernati ricorsero a Palmieri, il quale credendo di trovare in quei nuovi venuti gente di suo comando, si recò solo in Santo Stefano, ed ordinò a quel monaco di astenersi. Quello sciagurato gli rispose di non conoscerlo per suo superiore, e minacciando di arrestarlo se insistesse più oltre, ordinò in sua presenza il sacco della città. Palmieri corse a Mistretta, e fe' ritorno alla testa della sua guerriglia, determinato a vendicar quelle genti, che non avea potuto salvare. Il monaco rivoltò contro lui quegli stessi cannoni che gli dovea consegnare, e la zuffa si fece accanitissima, difendendosi quei masnadieri col coraggio della disperazione. Finalmente circa cento di loro, fra' quali lo stesso monaco, essendo caduti morti sul campo, e sessanta altri avendo cedute le armi, il resto si volse in fuga, lasciando sulla vicina spiaggia quella preda che non aveva avuto tempo d’imbarcare, e che il probo Palmieri fece religiosamente restituire ai proprietarj.

Spedì quindi gli arrestati a Palermo, dove volle recarsi egli stesso, non solo per dar conto alla Giunta dell’accaduto, ma per cogliere quell’occasione di persuadere il capitan generale, e quanti dirigeano gli affari di guerra, a desistere dallo spedire bande armate a depredare le contrade dell’isola. Disse che l’idea di sottomettere le città dissenzienti colla forza era ingiusta, irragionevole, perniciosa; che si dovea porre ogni studio a guadagnare i cuori, non le mura di quegli abitanti; che la condotta sino allora tenuta ad altro non poteva riuscire che a rendere insormontabile l'odio fra le città Siciliane: e finalmente chele guerriglie non erano di minor danno a Palermo, che le pagava, che al regno che devastavano. Tutti applaudirono alla saggezza di quei consigli, e promisero di regolarsi in avvenire giusta le sue savie insinuazioni. Palmieri riparti bentosto per l’impresa di Melazzo; ma questa’ venuta meno per avere il principe di Scaletta avuto tempo di rinforzarne la guarnigione, si condusse a Bronte coll’idea di muovere sopra Catania.

Ma non si tosto aveva egli lasciata la capitale, che isuoi consigli furono dimenticati e pretermessi, e il principe di San Cataldo, già promosso al grado di maresciallo. fu incaricato egli stesso di una spedizione contro Catania, per la via di Caltanisetta, e gli fu data a tale effetto quasi tutta la truppa di linea che si era venuta mettendo in piedi a Palermo: e fu ordinato altresì che una guerriglia raccolta dal colonnello Orlando dovesse agire di concerto con quel piccolo esercito.

Erasi mosso frattanto da Messina il colonnello Costa, alla testa di tremila uomini, e passando per Catania s’era diretto a Caltagirone, conscio oramai che nessuna resistenza avrebbe avuto a temere dalle sgomente popolazioni. Avvegnaché, siccome altrove abbiam detto, le masnade, che, sotto nome di libertà e d’indipendenza, devastavano quel misero paese, avessero indotto i popoli a considerare il dispotismo e la stessa soggezione ai Napoletani mille volte preferibile all’effrenata anarchia per la quale nulla esisteva di sacro e rispettato. ll Costa in fatti entrò senza ostacolo in Caltagirone, malgrado il poco affetto di quegli abitanti, d’onde passò a Castrogiovanni colla veduta di avvicinarsi alla spiaggia di Cefalù, ed ivi riunirsi alla spedizione che si attendeva da Napoli.

Trovavasi allora tra Caltanisetta e Castrogiovanni il colonnello Orlando colla sua guerriglia, il quale contando sull’aiuto di San Cataldo, che era a poche miglia di distanza, mosse ostilmente contro le truppe del Costa. Ma San Cataldo, malgrado i pressanti avvisi, non essendosi mosso per timore, come diceva, di tradimento,1’ Orlando, dopo avere con gran calore attaccata la zuffa, rimasto senza soccorso, vide i suoi piegare a poco a poco, quindi volgere in assoluta e dirotta fuga. Anche la guerriglia di Palmieri, dopo questo fatto, si disperse.

Il Costa vincitore, dopo pochi giorni di dimora in Caltanisetta, dirigendosi per Alimena, Resuttano e Polizzi, andò finalmente a fermarsi a Collesano poco lungi da Cefalù, non senza aver pur troppo egli pure dato nuovi e innesti esempi di rapacità e di violenze tanto più deplorabili ed amare, che colpivano una infelice popolazione cosi crudelmente manomessa come fin qui abbiamo detto.

A questo punto della narrazione si rende necessario il far parola delle trattative e delle deliberazioni che frattanto avevano avuto luogo in Napoli circa le cose di Sicilia. La risposta dei Palermitani al proclama del principe Vicario aveva fatto sentire così a lui che alla Giunta Napoletana la necessità di qualche maggiore concessione, sebbene non mancassero alcuni che ciò reputassero sotto ogni aspetto perniciosissimo. Fu tra questi il Colletta, il quale, in un consiglio a tale effetto convocato, cosi si espresse:

«La costituzione di Spagna in due Stati non si apprende ad unico re, perché nei casi più gravi di governo, come la guerra, la pace, le alleanze, il matrimonio del re, lo smembramento dello Stato, abbisognando alla regia volontà l’assenso del Parlamento, se dei due parlamenti l’uno assentisse, dissentisse l'altro, qual ne sarebbe l’effetto? a chi si appiglierebbe la decisione del re? qual sarebbe l'opera di governo? E dire non abbisogna, però che il presente lo dimostra, se la concordia dei due Parlamenti sarebbe facile e continua fra genti, per genio antico e nuovo, nemiche.»

«E nemmeno è possibile la confederazione di due Stati liberi, mancando il modo di costringersi alle pattuite condizioni; cosi che la confederazione di due Stati e sostanzialmente pura alleanza, la quale per varietà d’interessi, di tempi, di passioni si stringe o si sci0glie.»

«Perciò gli ambasciatori dimandano cose impossibili, ed io penso che, concedendole, sarebbero le Due Sicilie e presto in guerra, o divise affatto di governo. Che non giovi la guerra, le presenti ansietà lo dimostrano; e che nuoccia lo star divisi lo mostra più chiaramente la natura. Ella ha così situato le Due Sicilie, che, nelle invasioni nemiche, il regno di Napoli sia antifumo a quell’isola, e l’isola cittadella del regno. Riandate, per non dire le vecchie cose, la storia dei nostri tempi: la napoleonica potenza, che tanti eserciti disfece, che tanti regni conquistò, fu trattenuta sul lido del Faro, non dai presidj dell’isola, non dalle armate nemiche, ma da poco mare. Sono le fantasie dei tempi, e, a dirla più schiettamente, le ingiustizie nostre, che fan desiderare ai Siciliani separarsi da Napoli.»

«Abbia la Sicilia tutti i frutti della libertà: serbi a sé la sua finanza, dirige le amministrazioni, compisca i giudizj; abbia comuni con noi leggi ed esercito, abbia eguale dignità e decoro di governo, tal che altiera signoria o livida dependenza non più rompa i legami naturali dei due popoli; provveda da sé stessa ai suoi bisogni più veri, che sono l’abolizione piena della feudalità, lo scioglimento degli opulentissimi monasteri, la misura ed eguaglianza dei tributi, il ritorno delle proprietà, col nome di soggiogazioni, distratte.»

«Io quindi avviso dover rigettarsi, come impossibili o nocevoli, le proposizioni dei Siciliani, e trattare accordi alle condizioni giuste e persuadenti di sopra esposte; per lo che cesserà la ribellione di Palermo,0 la colpa di durarla resterà tutta dei Siciliani, non divisa, quale oggi appare, col popolo e col governo di Napoli.»

Queste ragioni, che erano per sé stesse di gran momento, avrebbero forse condotto la Giunta Napoletana ad adottarle, se per l'una parte la presa di Caltanisetta e d’altre città non avesse fatto credere a maggior forza e risoluzione di quella che veramente fosse nei Siciliani, onde temevasi di una guerra lunga ed incerta; e per l’altra la mala accoglienza che la nuova costituzione riceveva in Europa, e i pericoli che quindi ne derivavano, non avessero persuaso alla Giunta che fosse da preferirsi una tal quale conciliazione. Di guisa che, il di 51 di agosto, il Principe Vicario ordinò al generale Parisi, a Davide Winspear e al Colonnello Russo di partecipare (a voce) agl’inviati Palermitani: «la indipendenza di Sicilia, allorché fosse con indirizzo chiesta aire dalla città di Palermo e da tanti altri comuni quanti addimostrassero il voto della maggior parte dei Siciliani, sarebbe con reale decreto accordata. Si darebbe similmente un’amnistia. Col vocabolo indipendenza intendersi che la Sicilia avesse un parlamento particolare, e godesse di tutti i resultamenti che derivavano dalla Costituzione Spagnuola, che la nazione Siciliana era per abbracciare. Tale indipendenza però avesse le seguenti limitazioni: il re capo del Regno di Napoli lo fosse ugualmente di quello di Sicilia. Fossero comuni la lista civile, il corpo diplomatico, l’esercito, la flotta. La Sicilia somministrasse la sua porzione delle spese generali ed il contingente d’uomini per l’esercito. Il re provvedesse alla sua rappresentanza in Sicilia. Palermo rientrasse nell’ordine, e per tale effetto ristabilisse gli stemmi regi, intitolasse gli atti a nome del re, disponesse una guardia civica ed ubbidisse alle leggi. S’imbarcasse la truppa camerata. Intanto una spedizione militare sarebbe partita per la Sicilia: i Palermitani si dirigessero al comandante della medesima per quanto occorresse.»

«Intese tali proposizioni quattro deputati ritornarono a, Palermo per sottoporlo alla Giunta, la quale non si mostrò affatto aliena dall’accettarle, e ciò in virtù di molte e gravi considerazioni, che non è fuor di proposito l’enumerare. Primieramente continuando ad essere inceppata dall’influenza dei consoli delle arti e più ancora dal popolaccio armato, non aveva la Giunta potuto mai acquistare l’autorità necessaria per agir liberamente. Da questa sua debolezza ne derivavano omicidj, furti, estorsioni, ed altre enormità d’ogni genere, che a lei era impossibile non solo di prevenire, ma di punire. Secondariamente le ingenti spese di quelle fatali spedizioni in varie parti dell’isola, e tutte a carico della sola città di Palermo. avevano esauriti i fondi pubblici: i tributi dalle diverse località nominalmente soggette o non potevano esigersi, o bastavano appena alle private spese d’ogni comune. In tali angustie erasi avuto ricorso ai mezzi più violenti: s’era arbitrariamente speso tutto il denaro depositato nel banco di Palermo, né ciò bastando si era fatto un mutuo coattivo di dugentomila onze, che fu ingiustissimamente repartito e violentissimahrente esatto. Lo stato interno della Sicilia era anche più spaventevole: l’ordine sociale sciolto quasi per tutto: in molti luoghi, pubblici malfattori costituiti di propria autorità nelle prime magistrature: l'unione fra le diverse parti o pienamente rotta od illusoria.

I membri della Giunta, e tutti in generale gli onesti e ragionevoli sentivano che l’aderire al progetto napoletano era un ferire nel cuore il vagheggiato diritto dell’assoluta indipendenza della Sicilia, ma sentivano altresì esser quello l'unico mezzo di por fine alle calamità della patria; né dinanzi a questa suprema considerazione esitarono più lungamente, e nel di 12 settembre fu per essi redatto il seguente indirizzo al re:

«Sacra Reale Maestà; la Giunta Provvisoria di Palermo ascrive a sua somma ventura il potere, dopo tante disgustose vicende, far giungere una volta alla M. V. i sensi suoi, ed essere l’organo della volontà della maggior parte de’ vostri sudditi di questo regno di Sicilia.»

«Sin dal momento che giunse in questa capitale la notizia di aver la M. V. accordata a tutti i sudditi la Costituzione Spagnuola, un sentimento universale di giubilo si palesò in ‘questo popolo. Ma un’tal sentimento non poté andar disgiunto dal desiderio di un governo indipendente. Noi non osiamo, Sire, di rammentar alla M. V. le funeste cagioni dei disordini a V. M. pur troppo noti, che penetrarono i cuori di tutti i buoni Siciliani.»

«Questa Giunta, chiamata a riparare i mali dell’anarchia, prodotta dalla mancanza di qualunque governo, fra le gravi e penose cure di ristabilire la pubblica tranquillità, non trascurò da una mano di spedire alla M. V. una deputazione per rappresentare la verità de’ fatti occorsi, e farle noti i desiderj di questo popolo per l’indipendenza; e diede dall’altra avviso di tutto ciò ai Comuni del regno. La maggior parte di questi si sono affrettati a profferire lo stesso voto della Capitale, e molti di essi hanno anche spedito loro rappresentanti per sedere fra noi.»

«Dopo un lungo ed affannoso aspettare, è ritornata in fine una porzione della Deputazione spedita a’ piedi di V. M. , la quale ci reca la consolante notizia che la M. V. siasi compiaciuta di riconoscere la giustizia dei nostri voti, e che si degnerebbe accordare alla Sicilia la sua indipendenza, sempreché ciò le venisse richiesto dalla città di Palermo, e da tanti altri Comuni quanti addimostrassero il voto della maggior parte dei Siciliani.»

«Noi, Sire, con tanta maggior fiducia avanziamo ora alla M. V. le nostre suppliche per l'indipendenza, in quanto ciò è stato promesso a nome della M. V. ai nostri deputati da S. E. il 'signor tenente generale D. Giuseppe Parisi, presidente di cotesta Giunta di governo, e dai due membri della stessa signor Barone Davide Winspeare, e signor Colonnello Russo.»

«Il desiderio dell’indipendenza non è in noi figlio né di privato interesse, né d’irrequieta smania di novità: esso è il risultato dei nostri antichissimi diritti, e delle leggi stesse costitutive della monarchia. Questa monarchia nacque in Sicilia. Il voto de’ Siciliani diè la corona al primo re Ruggeri. L’ lmperator Federigo, non solo rispettò il trono Siciliano, ma per dare all’Europa un solenne testimonio della indipendenza di questo regno, concesse alla Sicilia lo stemma, che l’ha sempre distinta. Il voto de’ Siciliani, il loro sangue, i sacrificj loro richiamarono al trono la linea legittima de' nostri re, che n’erano stati esclusi dall'invasione Angioina; fissarono le leggi fondamentali della monarchia, e stabilirono l’assoluta indipendenza di questo regno. E comecché le vicissitudini politiche avessero in seguito ridotta la Sicilia ad essere governata da Principi altrove residenti, pure essa conservò sempre un particolare governo, e i suoi diritti, lungi dall’esser stati cancellati, hanno ricevuto nuovo vigore dal giuramento di tutti i nostri Re. E la stessa M. V. si degnò di giurarli nel salire al trono, e poi di confermarli in modo più solenne nel 1812.»

«Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal rango delle Nazioni, e di perdere ogni Costituzione. Ma in un momento più favorevole si è indetta la M. V. a secondar il desiderio dei sudditi, e conceder loro una libera Costituzione.»

«Mentre, Sire, la gioia echeggia in tutti gli angoli de’ vostri dominj, può il cuore paterno di V. M. esser chiuso alle giuste domande de’ vostri sudditi Siciliani? Noi dimandando l’indipendenza della Sicilia vogliamo fruire di tutti i risultati che scaturiscono dalla Costituzione Spagnuola. che V. M. si è compiaciuta di accordarci, ma non chiediamo che si alterino le leggi della successione al trono, né che si rompano que’ legami politici, che dipendono dall'unicità del monarca.»

«Sire, son questi i voti non del solo Palermo, ma dell’intera Sicilia. Mentre l’opinione di molti comuni è traviata dallo spirito di fazione,0 compressa dalla forza, non è p0tuto conoscersi il voto libero dell’intera Nazione. Pure dal quadro che ci facciamo un dovere di sottometterle, potrà la M. V. scorgere che la maggior parte del popolo Siciliano ha pronunziato il suo voto per l’indipendenza.»

L’indirizzo, e il prospetto dei voti delle Comuni in esso allegato, furono spediti il di 48 con una deputazione in Cefalù, dove già era giunto coll'esercito, composto di circa dieci mila soldati, il generale Florestano Pepe, cui il principe di Villafranca scrisse nello stesso tempo una lettera a fine di pregarlo a sospendere la sua,marcia sopra Palermo finché la Giunta potesse riuscire a indurre la plebe ancora mal doma, e padrona dei forti e delle armi, a riceverlo in forma amica. Il generale poco informato dello stato delle cose in Palermo, attribuendo a timidità e debolezza quell’amichevole apertura della Giunta, e sperando ottenere più ancora di quello che il suo governo, in disperazione di meglio, ne attendeva, e confermandosi forse ad istruzioni particolari pel caso che a lui pareva ora intervenire, rispose apertamente: «la proposta sospensione di armi supporre uno stato di guerra e questo non esistere. Del resto le idee comunicate dalla Deputazione essere quasi conformi agli ordini che avea ricevuto dal Principe Vicario Generale. Le truppe avrebbero ristabilito l’ordine, ovunque fosse stato turbato, senza rammentare il passato. Si sarebbe in seguito cercato di meglio conoscere la volontà di tutta la popolazione dell’Isola per mezzo di deputati regolarmente convocati. Il voto della maggior parte di essi avrebbe ottenuto dalla sovrana bontà ciò che il Principe Vicario Generale avea promesso per la felicità dei suoi sudditi. La volontà del re e l’interesse comune di tutti i sudditi delle due Sicilie prescrivergli di evitare qualunque effusione di sangue, ed egli essere in tutto disposto di conformarvisi, a meno che non fosse astretto dalla imperiosa necessità. Il comando generale delle armi in Sicilia essergli affidato. Tutte le truppe di qualunque genere dovere, per conseguenza, dipendere da’ suoi ordini. Quindi fossero subito inviati in Termini tutti i militari prigionieri in Palermo, nello stato in cui erano prima del disordine.»

Ritornata la deputazione in Palermo con tale risposta, grande fu il commovimento della Giunta, che ben s’avvide non intendere il general Pepe di conformarsi interamente alle proposizioni venute poco innanzi da Napoli; e taluni apertamente esponevano non esservi più luogo a transazione. Ma il principe di Villafranca li contenne col far loro osservare che la maggior parte della Sicilia 0 non era mai stata. unita alla causa dei Palermitani, o era di già tornata all’ubbidienza di Napoli; che Palermo si trovava omai ridotta alle sole sue forze, e queste essere come ognuno ben lo sapeva tenuissimc, e affatto esausto l’erario: che quindi era dura ma indeclinabile necessità l’accomodarsi alle circostanze.

Tutte le persone assennate erano in ciò d’accordo, e la Giunta, dopo lungo e vivissimo dibattimento, nel giorno diciannove di settembre stabili: «doversi accettare le proposizioni del general Pepe con quelle modificazioni che si potessero sperare dalla mediazione del principe di Villafranca e dalle altre persone che lo avrebbero accompagnato.»

Ed alcune modificazioni erano di fatto indispensabili; imperciocché fosse, a cagion d’esempio, impossibile il restituire la truppa nello stato in cui era nel mese di luglio, essendo stata la medesima spogliata e poi dispersa. Il Villafranca si mosse nel di seguente con altri sei deputati per incontrare il general Pepe, e concertare sere lui l'occorrente per l’ingresso dei Napoletani in Palermo, e per la consegna delle fortezze.

Intanto nella sera dell’istesso giorno I9 di settembre, la vanguardia del generale e la brigata di Costa, che già lo aveva raggiunto, si avvicinarono a Termini, secondate per mare da una divisione della squadra. Questa città, distante da Palermo non più di diciotto miglia, era munita di un piccolo castello presidiato dai sollevati, e difesa per mare da cinque cannoniere e da altri tre piccoli bastimeuti Palermitani. I Napoletani vi furono ricevuti ostilmente tanto per terra che per mare, e ne seguì una scaramuccia, che durò sino alla notte. Nel 'di seguente ambedue le parti erano disposte a rinnovare l’azione; ma i terrazzani avendo avuto avviso che la Giunta avea accettate le condizioni proposte, desistettero dalle ostilità, ed i Napoletani occuparono pacificamente Termini dalla parte di terra. Non cosi tranquille corsero le cose sul mare; avvegnaché mentre la flottiglia Palermitana, all’avviso della cessazione delle ostilità, erasi mossa dalla rada di Termini per ritornare in Palermo, i legni Napoletani, che avevano istruzione di ridurre all'ubbidienza qualunque forza armata incontrassero, si opponessero a quella ritirata. Ne derivò una zuffa presso Solanto, nella quale cinque bastimenti Palermitani furono presi e tre soli poterono riparare in Palermo.

Durante l’azione il principe di Villafranca navigava cogli altri deputati sopra picciol legno per approdare a Termini. Trovatosi inaspettatamente in mezzo al fuoco, innalzò bandiera parlamentaria; ma il segnale non fu veduto, e soprastando il pericolo, egli, colle persone che lo accompagnavano, dovette buttarsi in mare per guadagnare la spiaggia di Trabia, ove giunto recossi a Termini. Incontrò ivi il general Pepe, col quale concertò il modo di introdurre presidio Napoletano in Palermo, prestandosi il Pepe ad attendere per tale effetto fino al di 25, nel qual tempo il Villafranca, per evitare altri pericoli di viaggio, e temendo d’altronde le furie del popolaccio, rimase in Termini. Il general Pepe pubblicò allora una proclamazione, nella quale prometteva intiero oblio dc’ fatti passati. La Giunta | nel di ventiquattro approvò l'operato del Villafranca, e fattolo manifesto al popolo incominciò a disporre quanto occorreva per l’esecuzione.


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Cosi pacifiche non erano però le disposizioni del popolaccio di Palermo. Cieco nell’odio e nel disprezzo contro i Napoletani, specialmente per la vittoria riportata contro di loro ai diciassette di luglio, non gli avrebbe più volnti vedere di presidio, e d’altronde temeva la vendetta dei militari malgrado la promessa amnistia. Quindi mormorazioni, sospetti di tradimento, diffidenza della Giunta, della Guardia Civica, e degli stessi consoli delle arti, e proteste di combatter contro qualunque forza armata che si fosse avvicinata alla città. Coloro i quali s’erano accostumati a vivere di rapina, vedevano con piacere siffatta agitazione, e procuravano accrescerla. Tale era lo ‘ stato degli animi quando nella sera dei 24 settembre fu dato mano, per ordine della Giunta, a ricondurre in città alcuni cannoni, che erano stati collocati al di fuori pel caso in cui fosse stato necessario il combattere. Fra i curiosi ed oziosi accorsi ad osservar quel trasporto non tardarono a sorger voci sinistre ed insidiatrici di alcuni, che sussurravano come improvvida e traditrice quella determinazione. Ne derivò un piccolo tumulto, nel quale i cannoni furono abbandonati da chi li custodiva, e poco dopo presi da una turba di popolaccio. Crehbe con ciò la costernazione in tutti i buoni cittadini, che vedevano in quel fatto riaprirsi una fonte di nuovi guai. Né quei timori eran vani; che nella seguente mattina dei 25 di settembre, destinata all’ingresso delle truppe napoletane, il popolaccio sollevossi apertamente in diversi punti della città, apri un’altra volta le carceri e rimise in libertà una turba di ribaldi. Assaltò, e dopo breve combattimento disarmò e disperse i posti della Guardia Civica, entrò nel palazzo dello stesso principe di Villafranca col pretesto d’impadronirsi d'un supposto deposito d’armi, e lo saccheggiò. Strascinò quindi molti pezzi di artiglieria verso il lato orientale della città, e mentre nell’interno tutto ripiombava nell'anarchia, corse tumultuariamente ad opporsi alla truppa napoletana che si avanzava.

In fatti il generale Florestano Pepe dopo il mezzo giorno erasi avvicinato a Palermo e investivala dalla parte di levante con tutte le sue truppe divise in tre brigate, ma prive d’artiglieria, la quale era ancora a bordo della squadra, che pel cattivo tempo non aveva potuto prender porto: Una delle brigate, sotto gli ordini del general Campana, appoggiava la sua destra alla marina; un’altra, comandata dal colonnello Costa, stendeva la sinistra alle falde delle prossime montagne. Il colonnello Celentano conduceva la terza, che costituiva la riserva. Questo movimento doveva essere appoggiato dalla squadra; ma i venti contrarj la impedirono lungo tratto. I Palermitani incominciarono a molestare la truppa con un fuoco vivissimo d’artiglieria dai bastioni, ed anche maggiormente da tre cannoniere, colle quali verme lor fatto tenere il mare. Varie turbe uscirono eziandio coi cannoni dalla città. Altre se ne formarono nelle vicine campagne ed assalirono audacemente i Napoletani ai fianchi ed alle spalle. Ciò non ostante il general Pepe non solo tenne fermo respingendo quegli attacchi colla sola moschetteria, ma colla estrema destra penetrò eziandio nella città per un tratta non difeso da mura, e ne occupò alcuni edifizj. Ma il fuoco dell’artiglieria del vicino forte della Garita e delle cannoniere lo costrinse indi a poco ad abbandonarli.

Nella seguente notte, le cannoniere Napoletane poterono accostarsi e scambiare alcuni colpi con quelle dei Palermitani e coi forti. Bersagliarono eziandio alcune case, ma con lievissimo danno. Nella mattina del 26, Pepe tentò di comunicare cogli abitanti, e per tale effetto spedì loro un capitano con bandiera parlamentaria ed una proclamazione. Ma nei tempi d’anarchia il dritto delle genti non è meglio rispettato di quel. che sia il diritto privato, e quel parlamentario fu trattenuto dal popolaccio, maltrattato, e chiuso in un forte. Allora Pepe ordinò un nuovo attacco, penetrò un’altra volta nella città coll'estremo della sua destra, e fece prova di stabilirsi in un angolo di quella. Gli abitanti difendendosi con ira disperata suscitarono quella dei soldati, che poser fuoco alle case, trucidarono quanti si paravan loro dinanzi, e la guerra prese il più orribile aspetto. Allora Pepe considerò che in tanta esacerbazione di animi la occupazione di Palermo si rendeva, se non impossibile, certamente oltre modo disastrosa, e che quindi fosse più prudente lasciar luogo alla riflessione di prevalere, e se la forza dovesse usarsi di nuovo potesse almeno ricevere le artiglierie, colle quali render la trista lotta più breve. Abbandonò pertanto i posti occupati nella città o presso le porte, e prese posizione fuori del tiro del cannone. I tumultuanti persuasi ch’ egli non si ritirasse già per prudenza, ma per debolezza, uscirono ad attaccarlo sulla sua sinistra, ma furono respinti con perdita di molti uomini e di alcuni cannoni, e nella sera Pepe fece getlar nella città alcune bombe e granate dalla flottiglia.

Frattanto Palermo continuava all’anarchia, poiché né la Giunta, né i consoli delle arti conservavano più la minima autorità od influenza. Quindi estorsioni, rapine, saccheggi ed uccisioni. I benestanti erano per la maggior parte chiusi nelle loro case, altri si erano nascosti ed alcuni cercavano di fuggire dalla città, sebbene ne fosse pericolosissima l’uscita. Il popolaccio, vedendo che ricusavano di combattere, li gridava nemici della patria, traditori, e con stravagante denominazione Giacobini. Alcuni forsennati sussurrarono eziandio, che dopo di aver distrutta la truppa napoletana, conveniva trucidare i cento primarj possidenti palermitani, subentrare nei loro beni e titoli, e creare re di Sicilia un certo Giaimo friggitore. Fra i saccheggiati fu un House, vecchio ottuagenario, e già precettore dei figli del re. Fra i trucidati si annoverò il Tortorici console dei Pescatori.

Ora accadde che nella sera stessa del 26 tacendo il fuoco per qualche tempo delle due parti, una mano di gente inerme uscì dalla città per porta Termini. Il maggiore napoletano Cianciulli si accostò loro, e senza che ne avesse avuto altro incarico, li richiese che gli indicassero persona di fiducia del popolo per parlamentare, e frattanto penetrò con quelli, che ritornavano, nella città. Alcuni gli segnalarono il principe Paternò, la cui abitazione era prossima a quella parte, e taluno corse a dirittura a prevenirlo che veniva ricercato da un ufficiale napoletano. Il principe usci subito ad incontrarlo e lo condusse nel proprio palazzo. Era il principe di Paternò fra i più nobili e più ricchi proprietarj di Palermo, audace, scaltro e bizzarro; ottuagenario, ma di anime vigoroso, franco promettitore, e che usava zuffolare parlando come uno scimunito, quantunque in fatto fosse tutt’altro.

Egli approfittò destramente di quel principio di favor popolare, e dell’arrivo del parlamentario, per scrivere al general Pepe proponendogli un abboccamento onde trattare del modo di una composizione egualmente necessaria alle due parti.

IL PRINCIPE PATERNÒ PERSUADE I PALERMITANI ALLA RESA

IL PRINCIPE PATERNÒ PERSUADE I PALERMITANI ALLA RESA

Nel di 27 fu discusso tra loro del luogo da assegnarsi al convegno, e nella mattina del 28, riunita la Giunta, si fece il Paternò acclamare presidente della medesima con facoltà di trattare e convenire di quanto occorresse col comandante napoletano. Restava però da superarsi la difficoltà principale, cioè a persuadere il popolaccio armato, il quale, tuttavia sospettando di tradimento, minacciava pur sempre di trucidare il parlamentario. mentre continuava a combattere coi posti avanzati dei Napoletani. Per ammansarlo, il Paterno, fregiato d’una coccarda bianca qual segnale di pace, e scortato di alcuni sgherri suoi fidi, incominciò a girare per la città, chiedendo alle turbe dei mascalzoni che incontrava se volevano pace 0 guerra: li avvertiva fossero cauti perché (diceva egli) vi potrebbe esser tradimento. A quelli che gridavano guerra, soggiungeva che avrebbe loro somministrato denaro e viveri, ma uscissero a combattere fuori delle porte per preservare da ulteriori guasti la città. Invitava poi tutti a riflettere maturamente, a riunirsi altre volte in determinati luoghi, ed a manifestargli la loro volontà, alla quale soltanto egli intendeva di conformarsi. Cosi acquistossi e si mantenne la fiducia del popolaccio, e lo vedremo ben presto riuscire egli solo in otto giorni a far ciò che tutta insieme la Giunta non aveva saputo operare in doppio spazio di tempo. Scorsero così quattro giorni, nei quali finalmente ricevette Pepe la sua artiglieria, onde il 50 settembre incominciò a tirare qualche colpo sulla città. Egli aveva eziandio occupati alcuni molini di uso principalissimo per Palermitani, onde, tra per l’uno e per l’altro di questi avvenimenti, cominciò infine ad ammansirsi il furore della plebaglia e a dar luogo a più prudenti considerazioni.

Venute a tali termini le cose, il principe di Paternò nel di primo d’ottobre procurò che si rimandassero al campo i parlamentarj trattenuti nei primi giorni, come sopra abbiamo veduto, e vi riuscì; e Pepe in ricambio restituì i molini all’uso degli abitanti. Da quel punto le ostilità cessarono, ed i cittadini incominciarono ad addomesticarsi coi soldati degli avamposti Napoletani, mentre, seguitando fra i capi le trattative, fu finalmente fissato un abboccamento pel giorno 5 ottobre sopra un bastimento Inglese (il Racer) che trovavasi nella rada di Palermo. Il Paternò vi si condusse accompagnato da alcuni consoli delle arti, e Pepe vi spedì il general Campana con due altri ufficiali. Si discussero ivi i termini di una convenzione da stipularsi, nella quale, fra le altre cose si determinava la consegna delle fortezze Palermitane alle truppe del re. Ma questo era un patto di assai difficile esecuzione, poiché l’ignorante valgo credeva di doverle conservare in ogni caso, e stavano a custodia delle medesime uomini audaci e provvisti di ogni sorta di munizioni. Per superare pertanto quest’ultima difficoltà, si concertò un’altra conferenza pel giorno cinque d'ottobre, onde frattanto il Paternò tornato in Palermo potesse indurre i difensori delle fortezze a promettergliene la consegna. Del quale effetto assicuratosi con squisiti accorgimenti, finalmente nella mattina del 5 recossi egli di nuovo sul bastimento Inglese, ove pure convenne il general Pepe, ed insieme sottoscrissero la famosa convenzione di quel giorno, nella quale in sostanza fu stabilito: «che le truppe prendessero quartiere fuori della città, dove il generale comandante credesse più opportuno. Gli si consegnassero i forti e le batterie. La maggioranza dei voti dei Siciliani, legalmente convocati, decidesse della unità, o della separazione della rappresentanza nazionale del regno delle Due Sicilie. La Costituzione di Spagna esser riconosciuta in Sicilia, salvo le modificazioni che potesse adottare il Parlamento unico o separato. I prigionieri Napoletani esistenti in Palermo fossero restituiti. Si rimettessero le armi e le effigie del re. Intero oblio coprisse il passato. Palermo fosse temporaneamente governata da una Giunta, di cui fosse membro il comandante delle armi, e presidente il Paternò. Pubblicatasi la convenzione allo sparo dell’artiglieria, i difensori dei piccoli forti, innalzata la bandiera reale, se ne tornarono alle proprie case. La truppa occupò subito la batteria della Garita; quindi preceduta dal Paternò attraversò la città, entrò senza opposizione nel castello e ne scacciò i popolani che vi erano rimasti. Nel di seguente furono dai Napoletani occupati tutti gli altri posti militari della città.»

L’esercito del general Pepe sommava da principio, come altrove abbiam detto, a circa dieci mila soldati, dei quali settemila aveva egli condotti sulla squadra da Napoli, e tre mila all’incirca aveva trovati a Cefalù sotto il comando del Costa. A queste genti si aggiunsero alcune compagnie delle reclute della stessa Giunta di Palermo, comandate da un ferocissimo capitan Garofalo, Siciliano a modo suo, che per volere del principe di Villafranca segui le armi del Pepe. Lor s’aggiunsero ancora alcune milizie di Catania e di Messina, messe per doppia ragione nelle prime file, e perciò quasi distrutte nei primi combattimenti: i lor cadaveri, soli insepolti fra quei dell’esercito regio, restarono sino alla fine dell'assedio là dove erano caduti per mostrare quanto la guerra fraterna sia turpe ed orribil cosa. Quanti dei sollevati pugnassero non si può dire, perché ognuno andava a suo talento, combatteva oggi, domani no; ma non passarono certamente il numero degli assalitori, sebbene taluni, e fra questi il Bianchini, li facciano sommare fino a settantamila, che è assurdo sopra una popolazione di cento settantamila tra uomini, donne e fanciulli, e dove tutti coloro che portavan cappello si chiudevano in casa tremanti, e la più parte della stessa plebe, incerta in quel contrasto coi ceti superiori, che già solea riverirc ed. anche amare, si asteneva. Dice lo stesso (e qui non possiamo ‘sospettare che esageri) che una quinta parte dell’esercito di Pepe cadesse sotto le mura di Palermo. Dalla parte del popolo non si sa il numero dei morti, ma bensì che i cadaveri gettati alla rinfusa nel cimitero della parrocchia della Calza ne empierono una parte. Perciò si potrebbe affermare che in tutto quattro o cinque mila italiani fossero vittima di questa guerra civile.

Il generale Florestano Pepe, appena entrato in Palermo, dette le opportune disposizioni (e furono mitissime) per ristabilire l’ordine, tanto in città che nei vicini paesi, nei quali era di lunga mano venuto meno. Non ristabilì peraltro né la coscrizione né la carta bollata, dei quali due oneri rimase libera tutta la Sicilia. Mani i forti, e spedì a Napoli le armi superflue, fra le quali cento e cinquanta cannoni, cinquemila e seicento fucili, quattro mila canne, e mille e duecento barili di polvere. Il governo generale di Sicilia rimase in Messina nella persona del principe di Scaletta. Il Paternò tenne per qualche tempo la presidenza della nuova Giunta stabilita in Palermo, finché la somma di tutti i poteri fu ristretta nel comandante delle armi, il quale non smenti nel poco tempo della sua onnipotenza la riputazione di mite e benevolo acquistatasi fine dei primi momenti. Ma questa buona ventura dei Siciliani non tardo guari a cambiarsi in. meno prospera sorte: avvcgnaché il Parlamento Napoletano si avvisasse di ritenere come lesiva dei proprj diritti e nulla nelle sue clausole quella convenzione, che il generale Florestano Pepe aveva pure segnata in virtù delle ricevute istruzioni. Non può negarsi che la separazione del regno non fosse per sé stessa una calamità, e che ciò in fine non si risolvesse a debolezza e a danno delle due parti. Ma, pretermettendo ancora la considerazione dell’odio antico dei Siciliani, i quali forse non si potevan condurre a sentimenti più utili che con questa condiscendenza, resta pur sempre incontrastabile che se si voleva negare soddisfazione a quel voto, ciò doveva farsi francamente e fin da principio, e non valersi a tal fine di una menzogna che doveva vie maggiormente inasprire gl’ingannati isolani. e farli viepiù tenaci in una avversione, della quale anche oggi abbiam pur troppo veduto le lacrimevoli conseguenze. Pervenuta adunque in Napoli la notizia della convenzione, sorse contro di quella un grido generale, che dalle strade penetrò fine nel Parlamento, dove il deputato colonnello Pepe nella tornata del 14 ottobre rappresentò «la costituzione essere stata violata in uno de’ suoi punti cardinali, non potendo il re, in virtù dell'articolo I72, alienare o permutare alcuna parte del territorio, ed intanto nella convenzione essersi pattuito di scindere in due la nazione; essersi pattuito di segregare l'isola dalla parte continentale; essersi pattuito un parlamento separato nel tempo stesso in cui il parlamento generale stava esercitando le sue funzioni. Di più non essersi convenuto con tutti i Siciliani, ma con un branco di sediziosi, i quali si erano lordati di mille eccessi. Qual fiducia potrebbe quindi la nazione riporre nel governo ove avvenisse una guerra collo straniero, quando aveva veduto la sua espettazione tradita in una guerra con pochi malviventi? Qual energia potrebbe attendere la nazione dal governo in una guerra con alcuna potenza di prim’ordine, quando constava un tanto esempio di debolezza verso una turba di assassini e di sediziosi? La nazione e l'esercito reclamare altamente pel proprio cuore compromesso in quella vile convenzione. Doversi la medesima annullare(160)».

Altri deputati manifestarono con forza la stessa opinione, e non poco valse a corroborarla un foglio, sia coatto o spontaneo, che venne in nome dei Messinesi diretto al Parlamento ed al Vicario, nel quale si leggevano queste aspre parole: «Il benefizio di unire in uno Stato le Due Sicilie non è inteso che da pochi sapienti; ma la comune dei Siciliani, ricordevoli delle ingiurie patita dai Napoletani, e vaga del nome d’indipendenza. credendo libertà l'esser' sola, pronunzierà la lusinghiera separazione nell’assemblea generale consentita per tale effetto nella convenzione del 5 ottobre. Quindi Palermo sarà capo di questo regno; la città ribelle avrà trionfato; noi, perché città fedeli, nemiche a lei, saremo oppresse. Se voi tollerate, anzi se voi stessi fate infelice la fedeltà, chi mai più vi sarà fedele? E se la ribellione da voi vincitori è premiata, qual città non sarà ribelle?(161)».

E il Parlamento deliberò quell’atto «essere contrario ai principj stabiliti nella costituzione, poiché propendeva a indurre divisione nel Regno delle due Sicilie: essere altresì contrario ai trattati politici, a' quali l’unità era appoggiata: essere ugualmente contrario al voto manifestato da una grandissima parte della Sicilia con la spedizione de' suoi deputati all’unico parlamento nazionale: essere infine contrario alla gloria del Regno unito, alle sue convenienze politiche, ed all’onore delle armi nazionali: quindi tale convenzione dichiararsi essenzialmente nulla e come non avvenuta ((162)».

E con atto del di 15 il Principe Vicario sanzionò il decreto del Parlamento, e revocò il general Pepe non senza insignirlo della Gran Croce di San Ferdinando, e dichiararlo ad ogni modo benemerito. Questi nobilmente rifiutò un onore, che stava in così aperta contraddizione coi fatti. e lo fece con una lettera, che cercò di far conoscere a tutto il regno, nella quale formalmente attestava di avere agito in conformità delle ricevute istruzioni: «Sire (scriveva egli) le ricompense di cui mi ricolma la-M. V. sono ben lusinghiere. Ma col massimo dolore, non posso aver la fortuna di goderne dopo che si è contraddetto ciò che io promisi perché mi venne ordinato. Aggiungo che ragioni di salute non mi permettono di proseguire il servizio, e supplico la M. V. onde si benigni accordarmi il ritiro dopo di aver fatto esaminare da una commissione i miei servigi militari.»

Lo stesso esercito del general Pepe pubblicò una dichiarazione, per la quale intendeva in certa guisa di considerarsi solidale dei patti firmati dal suo condottiero: ma ciò nulla valse non solo a modificar il decreto del Parlamento, ma a renderlo più riguardoso negli atti che alla Sicilia si riferivano.

In quei giorni appunto fu emanata dallo stesso Parlamento una legge detta feudale, per la quale si dichiarò che tutti i fondi posseduti dagli ex-baroni, sopra i quali i comuni avean diritto di pascolo e di legna, erano usurpati; che quindi senza esame e senza compenso i proprietarj ne fossero spogliati, e ricadessero al popolo di pieno diritto. Veramente maggiore insania non poteva mostrarsi da quei legislatori. Tutti i comuni siciliani, un tempo soggetti alla giurisdizione feudale, offrivano, è vero, mille luttuosi esempi di usurpazione; ma fra questi non era certamente la mostruosità del simultaneo diritto sopra il medesimo fondo; e il fatto, che s’intendeva prendere di mira, era stato originato nel modo che siam per dire. Nei bassi tempi, i baroni, per invitare i coloni a popolare i lor feudi, concedean loro il diritto sia di far pascolar gli armenti, sia di far legna, o simili, nel recinto del feudo. Ciò è tanto vero, che quando nei recenti tempi, pretesero i baroni di liberare i loro feudi da tali servitù, i comuni che le godevano, presentando ai tribunali le carte della primitiva concessione, vennero mantenuti nei loro diritti. Talvolta poi i possessori di un fondo concedeano in enfiteusi i soli alberi, riservandosi l’uso della terra: e di tal genere era la concessione degli uliveti di Cefalù. Era anche comune in quei barbari tempi di conceder le terre limitando al colono la quantità da seminarsi e il numero degli animali da porvi al pascolo, e soggettandolo a permettere che altri menasse a pascolare il suo bestiame nelle terre inseminate. Questo mostruoso sistema si osservava in tutti i luoghi un tempo appartenenti a’ baroni spagnuoli, che forse l’introdussero in Sicilia. Ogni ragione voleva che un ordine di cose tanto contrario ai progressi della agricoltura fosse abolito; ma doveva abolirsi rispettando sempre la proprietà, come appunto aveva fatto la costituzione siciliana del 1812, la quale aveva convertito in annue prestazioni in denaro quelle servitù. L’abolirlo senza compenso, il dichiarare usurpazione ciò che da secoli era posseduto, ciò che era stato autorizzato dalle leggi del regno, e che era venuto in commercio, si convertiva in un manifesto e violento attentato alla libertà del cittadino, che non poteva cadere in mente se non di chi gridava libertà senza averne il concetto e la coscienza, senza sapere che la sua più ferma base è la gnarentigia della proprietà. E bisognava eziandio ignorare gli elementi della politica economia per non conoscere che la proprietà delle terre è sempre, e senza comparazione, più utile nelle mani degli individui, che in quelle delle comunità; onde spogliando un gran numero di proprietarj per I r-L s . A ffA"'î-4Î . . . . A 718 CRONACA ITALIANA trasferirnc i beni nel popolo, lungi dal favorire gl’interessi della nazione, si viene a scemare in un tempo la privata e la pubblica ricchezza. Arroge a queste generali considerazioni che tutti i beni di famiglic Palermitane situati in provincie aderenti a Napoli, malgrado la convenzione, furono confiscati a benefizio del governo. I proprietarj, e talora i comuni stessi, reclamarono tanto al ministero che al Parlamento, e si l’uno che l’altro mostrarono di risentirsi di tale esorbitanza; ma,0 non furono mai dati ordini di restituzione, o questi 'non furono eseguiti; talché non venne fatta giustizia che dopo l'entrata degli Austriaci nella Sicilia.

Frattanto al Pepe richiamato era stato sostituito il generale Colletta, del quale fin da principio abbiam veduto l’animo avverso alla separazione della Sicilia dal regno. Di sé stesso parlando nella sua storia, cosi ragiona di quella breve missione, dalla quale fu richiamato quando il pericolo delle armi austriache lo fece crederà più necessario alla direzione del ministero della guerra in Napoli.

«Il Colletta (egli dice) arrivando in Palermo levò il campo, sciolse la Giunta di Governo, disuso i nastri gialli(163), cancellò tutti i segni del passato sconvolgimento. Indi a poco, nei paesi già ribellati, fece dar giuramento alla costituzione di Napoli, ed eleggere i deputati al Parlamento Comune. Il Colletta, preceduto da meritata fama di severità, l’accrebbe in Sicilia, raffrenò l'esercito e la plebe; amante in modo vero e possibile di libero reggimento, scacciava la falsa libertà, diceva essere gl'impotenti novatori del suo tempo peggiori dei molto operanti e distruttori della repubblica francese; però che quelli, animosi e primi, meritarono col morire, si scusarono colla inesperienza; mentre questi. sordi alla ragione se felici, timidi e pieghevoli ad ogni fortuna, non hanno della libertà che i vizj soli, la irrequietezza, la indisciplina, il sospetto. Egli fu amato da pochi Siciliani, obbedito da tutti, lo che bastava per la condizione de’ tempi agl'interessi dei due regni.»

Giustizia vuol però che si dica che i Siciliani non consentono alla pittura che l'illustre storico la di se stesso in queste poche parole non indegne di Tacito, e che non sempre i mezzi da lui usati risposero a quel senso di virtù antica, che da esse traspare.

Con più favore ricordano il generale Nunziante, che successe al Colletta, richiamato pei casi che detti abbiamo; e il Palmieri in ispecial modo si loda della di lui mitezza, e dell'affetto dimostrato a quella terra infelice. Se non che non vuolsi dall’istorico dimenticare, che il Nunziante, spedito in Sicilia quando Napoli s’apprestava a combattere l’esercito Austriaco, aveva forse istruzione di suscitarvi con scaltri blandimenti la speranza di ottener dagli estranei ciò che dal Parlamento le si negava, per distoglierla dall'aiutare in quel pericoloso cimento l'esercito costituzionale. E lo stesso Palmieri che ne tesse un pomposissimo elogio, avvalora la nostra induzione là dove dice, che «mostrandosi egli nemico del governo di Napoli, e negandosi ad eseguire e pubblicare i decreti del Parlamento, si rendeva assai caro ai Siciliani, e maggiormente li confermava nei loro sentimenti d’inimieizia contro Napoli(164)». E non e ultima prova di quanto la passione faccia velo all’intelletto, la cieca fede che questo buon Siciliano riponeva in un uomo, che, per confessione sua stessa, tradiva per lo meno il governo, ch’egli aveva apparente missione di sostenere.

Ma il momento finale di ogni illusione si avvicinava; perché sconfitto l’esercito costituzionale e penetrati gli Austriaci nel regno, caddero a tattile bende, e ognuno troppo tardi s’accorse a che fossero per riuscir finalmente le discordie e le intemperanze; Pochi Carbonari, tanto Siciliani ché d'oltre Faro, tentarono per un istante di contrastare alla fortuna. Radunatisi una ventina di loro la sera del 525 marzo in Messina, stabilirono d'invitare il generale Rossarol, comandante le milizie di quel Vallo, a collegarsi seco loro per tentare gli ultimi mezzi di difendere la costituzione e sostenere la lotta centro gli Austriaci. Rossarol, giovane immaginoso ed intraprendente, accolse di buon animo i deputati, e promise d’impiegare tutte le forze di cui potesse disporre per conseguire lo scopo desiderato. E senza per tempo in mezzo spedita gente sicura a chiamare sotto i suoi ordini tutte le truppe stanziate allora in Sicilia, ed altra a concertare coi comandanti militari delle Calabrie la resistenza popolare in quelle provincie, che predicavansi devotissime alla costituzione, fece il di appresso, colle truppe, che comandava in Messina, il suo pronunciamento. I pochi suoi partigiani corsero furiosi per la città, onde incalorirla a secondarli, insultarono le statue del re e minacciarono nella vita il principe di Scaletta, che, nella antica sua qualità di luogotenente generale di Sicilia, risiedeva tuttora in Messina, di dove fu sollecito a ritirarsi colla fuga. Vano riuscì per altro il tentativo di subornare le truppe di Nunziante, il quale, avuti in sua mano i messi di Rossarol e venuto in chiaro di tutti i particolari di quella nuova emergenza, ildi I aprile assunse il temporario comando di tutta l’isola, e provveduto alla tranquillità di Palermo, spedì a Napoli per averne sollecite istruzioni.

Rossarol dal canto suo, non sgomento del mai successo in Palermo, si dichiarò a sua volta comandante generale di tutta l’isola, e meditando di passare in Calabria diresse a quei popoli una proclamazione, nella quale annunziava: «Noi colle armi difenderemo la patria, e l’Europa attonita all’altissimo tradimento dei perfidi che hanno introdotto gli Austriaci in Napoli, dirà che il napoletano onore si sostenne in Calabria, e nelle provincie tutte dove ancora in armi sono i popoli. I Piemontesi, per la santa costituzione già alle prese coll’inimico, non isdegneranno avere per compagni i Calabresi». Ma ben altri erano i sentimenti di quelli ai quali egli volgeva queste parole, talché Rossarol stabili di sottomettere colla forza la vicina città di Reggio, che si negava a pronunciarsi e ad accoglierlo, e preparò a tale effetto una spedizione per assaltarla nella notte del 2 di aprile. Ma gli stessi suoi ufficiali conosciuta ben presto la inanità di tutti quei tentativi, lo abbandonarono. Un Masi, che comandava la squadriglia destinata appunto all’assalto della città di Reggio, appena allontanato dal porto, prese altra direzione e si sottrasse. Un Tansi, colonnello comandante della cittadella, alzò i ponti levatoi della medesima, e dichiarò che non avrebbe più riconosciuto altri ordini che quelli della legittima autorità. Ogn’altro allora cercò lo scampo che credette migliore, sia col fuggire, sia nascondendosi: onde lo stesso Rossaroll, così a un tratto abbandonato, ebbe a gran ventura di trovare una barca il giorno tre, colla quale poter fuggire dall’isola(165).

Poco appresso la divisione austriaca Walmoden passò in Sicilia, e ne occupò le città e fortezze principali. '


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CRONACA ITALIANA LIBRO IX

SOMMARIO DEL LIBRO IX
Rivoluzione Piemontese del 1821

– Condizione dei partiti in Piemonte. I Federali. Gli studenti dell’Università di Torino. Fatti lacrimevoli del 12 gennaio. Arresto del principe La Cisterna e del marchese di Priè nella fine di febbraio. I Federali stabiliscono d’insorgere. Tentano il generale Gilllenga onde averlo per capo: suo rifiuto. Carlo Alberto principe di Carignano. Giustificazione della sua condotta. Indirizzo dei liberali al Re Vittorio Emanuele nei primi di marzo. Insurrezione di Alessandria nel giorno 10. Proclama di Vittorio Emanuele col quale invita gl’insorti a sottomettersi offerendo loro il perdono. Tentativo del capitano Ferrero per far insorger Torino: gli fallisce, ed egli recasi co’ suoi in Alessandria. Arrivo del conte di San Marzano da Lubiana a Torino, che determina il re alla resistenza. Proclama reale del 12 marzo. Insurrezione della cittadella di Torino. Il re si determina ad abdicare in favore del fratello Carlo Felice, e nomina il principe di Carignano Reggente nell’assenza di quello. Parte il di 14 per Nizza. Il Reggente offre di nuovo amnistia agli insorti e li stimola a rientrare nella legalità. La cittadella di Torino intima al Reggente di proclamare la Costituzione di Spagna sotto minaccia di bombardamento. La Costituzione è proclamata. E instituita una Giunta di Stato provvisoria. Stimoli e profferte dei Lombardi per indurre il governo costituzionale a dichiarare la guerra all’Austria. Carlo Alberto vi si rifiuta. Il 19 marzo il conte Binda ministro d’Austria parte da Torino. Proclama di Carlo Felice da Modena del 16 marzo. Carlo Alberto seguendo le ingiunzioni di Carlo Felice lascia Torino e si reca presso il generale La Tour a Novara, di dove va a Modena e quindi in Toscana. Santarosa è nominato ministro della guerra il giorno innanzi la partenza del Reggente. Suo energico proclama del 23 marzo. Moti reazionari nel regno. Genova invece si dichiara per la insurrezione. Tentativo di reazione in Torino stessa per parte dei carabinieri, che non riescono nell’intento e si recano quasi tutti a Novara presso il generale,ba Tour investito dei poteri di Carlo Felice. Annunzio dei disastri napoletani. Il Mocenigo, ministro di Russia a Torino, oltre la mediazione sua agli insorti sotto onorevoli condizioni. Viene accettata dalla Giunta. È resa vana dalla chiamata degli Austriaci operata da Carlo Felice, che l’annunzia a’ suoi popoli col terribile proclama dei 3 di aprile. Il generale La Tour muove il di 4 da Novara sopra Torino. È attraversato dall’esercito costituzionale. Vedendo inevitabile un conflitto torna a Novara ad attendervi gli Austriaci. Battaglia di Novara del di 8 aprile. 1 costituzionali sono sconfitti. Dimissione della Giunta di Torino. Pensiero di Santarosa di difendersi in Genova, reso vano dalla spontanea ripristinazione dell’autorità regia in quella città. Fuga dei costituzionali dal regno. Il cavaliere Thaon di Revel conte di Pratolungo è instituito da Carlo Felice suo rappresentante in Torino.

lo spirito di opposizione, che ogni giorno e da ogni parte si veniva rendendo più manifesto. Ma quel saggio temperamento era tardo: ciò che soli sei mesi innanzi sarebbe bastato a restituir la fiducia e a distogliere i malcontenti da ogni temerario concetto, era di presente tenuto per scarsa e involontaria I concessione, e convertivasi in stimolo pei novatori, che reputavano la nomina del Balbo, quale era in effetto, una prima vittoria loro. Ad accrescerne l’ardire e le speranze sopravvenne la notizia della trionfante rivoluzione di Cadice, e poco appresso di quella ancor più facilmente eonsumatasi in Napoli. L’esempio fu fatale ai Piemontesi in questo principalmente, che li indusse a procedere allora per via di cospirazione, che fra tutti i modi di mutare la natura di un governo è senza dubbio il peggiore.

Fino allora i partiti in Piemonte erano bensì ordinati e retti con stretta e regolare corrispondenza, ma non intendevano al loro fine con arcani e prestabiliti concetti; e gli stessi Carbonari, che ivi pure eran molti, non avevano in realtà, tranne le vaghe tendenze, nulla di comune con quelli di Napoli. Fu soltanto dopo le due accennate rivoluzioni, che, eccitati dall’esempio, cominciarono i Piemontesi a cospirare essi pure; e credendo buona ed opportuna l'occasione che loro si presentava, si posero in relazione con quelli, che in Parigi si erano fatti centro di tutte le rivoluzioni europee, e loro chiesero e da loro attesero un indirizzo. In forza dei consigli di quelli si ordinarono i Federali, e quasi tutta la gioventù, che formava il partito della riforma in Piemonte, vi prese parte; e Santorre Santarosa, uomo d’ingegno robusto, d'anima elevata e di coraggio oltre I’ordinario, ma tradito dalla fervida fantasia, tenne sopra ogni altro opinione non esservi migliore temperamento da usarsi al conseguimento del fine da loro vagheggiato, che quello delle società secrete. Non tutti però vollero dare il loro nome alla setta, né aderire ai disegni ed allo scopo cui quella intendeva; fuvvi anzi persona notabilissima, che dappoi servì la patria in incarichi di gran momento, che, sebbene sinceramente parziale del partito riformatore, rifiutossi alle insistenze più ardimentose che saggie del Santarosa, ricordandogli come il partito della riforma guadagnando ogni giorno terreno, non solo contava già nelle sue file moltissimi membri dell'aristocrazia piemontese, ma come questi, tutto che giovani, oltre alla superiorità dell’ingegno e dello studio, trovavansi già alle seconde cariche dello stato, e presto sarebbero stati per salire più innanzi, ed aiutare senza pericolo le innovazioni che ora desideravansi. «Fra dieci anni (ci soggiungeva) tutte le prime cariche saranno in nostre mani, e il principe di Carignano, che ama come voi la nostra patria, sarà assiso sul trono: l’affrettare gli eventi non può che compromettere l’avvenire». Al che il Santarosa replicava: «Troppo e l’attendere dieci anni ancora. L’ora è suonata, convien cogliere l’occasione.»

Nello sprezzare quei saggi ammonimenti il Santarosa consultava più il suo cuore che la sua mente, alla quale tutti i rischi dell’impresa e l’imparità delle forze, che pure era evidente, non si facevano palesi. L’esempio già dato da Napoli, la fiducia nel felice successo di quel tentativo e nel valore dell’esercito Napoletano, sul cui entusiasmo spacciavansi i racconti più favolosi, avevano per tal guisa esaltate le imaginazioni de’ giovani da persuaderli che l'Italia, nelle condizioni in cui trovavasi costituita, avrebbe senza meno potuto emulare l’impresa si generosamente allora sostenuta dai Greci per rivendicare la loro indipendenza, senza per mente alla differenza di civiltà, di religione e di estranei interessi, che militavano a favore di quelli, e che del tutto mancavano ad una simile impresa, che da noi si f0sse tentata.

Cominciaronsi pertanto a stabilire gli accordi secreti, e si diè opera a intrattenere relazioni coi malcontenti di Lombardia, dove con inaudita leggerezza, della quale abbiam pur troppo a’ giorni nostri veduta la fedele ripetizione, si aveva per ispacciat0 alla prima alzata di scudi l’Impero Austriaco. Cosiffatte illusioni non tardarono guari a vincere nell’animo di molti tra gli ufficiali dell’esercito piemontese la religione stessa del giuramento, che ti aveva per alcun tempo tenuti incerti e titubanti. E quando fu conosciuto che alla federazione partecipavano un Lisio, un Ansaldi, un Santarosa, un Regis, un San Marzano, figlio primogenito del ministro, un Bianco, rin Collegno, un Gambini, l’adesione dei militari si fece pronta e numerosissima. Da questi passò l’esempio con maggiore facilità nella civile amministrazione, nei professori della Università di Torino, e perfino negli alti gradi della magistratura.

Poco a poco il vincolo federale si diffuse dalla città capitale alla provincia, e trovò apostoli perfino nei villaggi e nei casali. Ma, dice lo stesso Brofferio, laudatore di questa vasta cospirazione, e storico in ciò non sospetto, mancava a quest’opera l’elemento principalissimo, il popolo! «Lavoratori, cittadini, operai d’ogni genere e d’ogni classe (egli dice) nulla intendevano di tutto quanto si operava intorno ad essi. Nessuno studio, nessuna educazione aveva svolta la loro intelligenza: l'indipendenza d’Italia non sapevano che cosa volesse significare: la parola Costituzione era ad essi non meno strana. Avvezzi ad obbedire sotto gli antichi Sabaudi, avvezzi ad obbedire sotto Napoleone, non conoscevano-altro precetto che quello dell’obbedienza alla forza. Nulladimeno avendo altre volte veduti popolari commovimenti, o avendone sentito a parlare, non ignorava affatto il popolo Piemontese che cosa si pretendesse dai rivoluzionarj; e il paragone dei tempi Napoleonici con quelli che allora volgevano, faceagli desiderare qualche novità; ma non si sentiva inclinato ad arrischiar per questo la vita: quindi se non contrario alla imminente rivoluzione, vi era per lo meno indifferente.»

Queste considerazioni di gran valore avrebbero dovuto almeno temperare la foga dei più bollenti, e render loro manifesto il pericolo in cui erano per trascinare se stessi e la patria, quando nell’ora dei cimenti pericolosi avrebbero cercato in vano le forze senza cui l’opera loro non poteva non tornar vana. Ma era fatale che quel grande esperimento dovesse compirsi; né tardò guari il presagio della lotta, che dovea crudelmente insanguinare quelle contrade.

Gli studenti della Università di Torino, soliti ad intervenire al teatro d’Angennes, eransi dati da qualche tempo a schiamazzare più o meno clamorosamente ogni sera; turbolenza giovanile, che sarebbe stato facile contenere ed impedire coi mezzi ordinarj, ma contro la quale per più sere non ne fu usato veruno. In quella finalmente delli Il gennaio 1821. parecchi dei soliti studenti comparvero nel teatro con in capo un berretto rosso alla foggia di quelli onde s’adornano i paesani nelle provincie piemontesi limitrofe alla Lombardia. Ora, benché un tal berretto in nulla ricordasse quelli del 1795, pure allarmossene la polizia, ed ordinò l'arresto di quelli sconsigliati. Tosto furono loro dintorno i compagni facendo prova di liberarli; ma vani ne riuscirono gli sforzi, prevaleudo gli agenti di polizia, che trassero con seco gli arrestati. La cosa non avrebbe avuto altro Seguito se in tal contingenza si fossero rispettati i regolamenti secondo i quali era da procedersi, cioè salvati i diritti universitarj, che concedevano agli studenti certe forme privilegiate di giudizj. Piacque invece alla polizia menar gran rumore del fatto, e oltrepassando la consuetudine, trasportare nel seguente giorno 12 i detenuti in due fortezze distanti dalla capitale, facendoli attraversare la città di Torino in mezzo a una coorte, di soldati. A tal vista s’infiammano i compagni, reclamano i loro privilegi, e il rispetto dovuto alle leggi che tutelano l’Università. 8’ intromettono i professori a calmarli, ma indarno; si che intorno il mezzogiorno una moltitudine di studenti ingombrava i dintorni dell’Università discutendo di quel che fosse da farsi in cosa che li ledeva negli affetti, e, come con grand’enfasi dicevano, nel diritto.

Un distaccamento di carabinieri reali, che venne per ordine della polizia a passare colà, vi fu accolto con urli e fischi; ma quei soldati, per lodevole fedeltà alla loro consegna, si mostrarono impassibili e tirarono oltre. Se non che quel loro contegno illuse i giovani, i quali eredendosi temuti imbaldanzirono; ed occupata l’Università, in un attimo ne misero sossopra il pavimento ed abharrarono le porte, determinati a costituirsi come in una cittadella di dove chiedere perentoriamente la liberazione dei compagni, e a non separarsi finché l’intento loro non fosse conseguito. Accorre il conte Balbo, ministro e preside dell’Università, nell’intento d’acchetarli: presentatosi appena viene applaudito, ma tosto gli si chiede giustizia. Egli dirige loro paterno parole miste di tenerezza e di rigore; insistono quelli chiedendo con grida ognor più concitate la liberazione dei loro compagni. Il Balbo non laseiossi sfuggire pro. messa alcuna, ma né pure un detto, che avesse potuto interpretarsi come minaccia di ricorrere alla forza, e li lasciò colla promessa di una pronta risposta. Ma scorso appena un quarto d'ora dal ritiro di lui, quattro compagnie di granatieri recavanla. Il partito del rigore aveva vinto.

Gli studenti raccolti nell’Università non erano che due o tre centinaja. ma toccavano invero l'estremo grado di esaltazione. Aggiravansi forsennati sotto le volte delle pacifiche aule gridando: Vogliamo i nostri compagni: ti vogliamo ad Ogni costo. Stringevansì convulsi le mani, s'abbracciavauo, giuravansi l’un l’altro di morire insieme, se a tanto dovesse giungere quel tristo dramma: ma fra tanto delirare non un grido di rivoluzione fu alzato, e la parola Costituzione, già da gran tempo cosi universalmente ripetuta, non fu pure da loro profferita. Erano fanciulli esacerbati e nulla più.

A sette ore di sera giungevano dunque i granatieri condotti dal cavaliere Ignazio Thaon di Revel, conte di Pratolongo, governatore di Torino. Parecchi ufficiali di differenti reggimenti, e qualcuno delle Guardie del Corpo, avevano seguito il governatore per un moto spontaneo, che si sarebbe potuto meritare il nome di zelo, se la posteriore condotta della maggior parte di essi non l'avesse in ben altro modo caratterizzato. Il conte di Castelborgo, comandante della provincia, si fece innanzi ad arringar gli studenti. Ma avendo in quel men,tre alcuni di loro scagliata qualche pietra sui militari, questi senz’ altro attendere si slanciauo all'assalto dei deboli ripari, ed atterrata le porte penetrano in poco d'ora nel recinto della Università, di dove gl’inermi giovani, lanciati appena alcuni sassi, si ritirano nelle parti più interne. Nulla sarebbe stato anche a quel punto più facile che impedire lo spargimento del sangue, se facendo pesare i soldati si fossero di nuovo richiamati i giovani all'obbedienza, avvegnaché l’esito della lotta non potesse più parer dubbio a veruno di loro. Ma, fossero ordini spietati, fosse l'impeto delle truppe incitate dai fischi e dai sassi di quei ragazzi, appena entrate si scagliano colle armi sopra di loro. Incalzati per le scale, nelle scuole, sotto le cattedre non de’ professori, e, tristo a dirsi, perfino nella chiesa del luogo, vengono barbaramente colpiti, là dove non accorre al riparo qualche umano e coraggioso ufficiale. Cosi il Colonnello Giravegna rattenne i suoi granatieri, non senza aver dovuto più volte interporsi fra la baionetta di quelli e gli studenti. Il conte Cesare Balbo, figlio del ministro, il cavaliere Angelino Olivieri, il cavaliere di Colobiano e pochi altri fecero il simigliante. I più lasciarono fare; taluni anche incitarono al sangue.

Venticinque studenti feriti vennero trasportati all’ospitale: a molti altri, meno gravemente colpiti, riuscì sottrarsi. Si sparse voce ben presto che dei feriti pochi eran quelli che nol fossero di più colpi di sciabola, onde non tanto in giudicato quel fatto opera dei soldati che degli ufficiali, e lo sdegno universale si rese più manifesto. L’Università non venne chiusa, ma molti studenti furono rimandati nelle loro provincie, e il rimanente dispersi in più scuole aperte a tal fine nei differenti quartieri della città.

Questo lugubre avvenimento accrebbe grandemente il numero degli. avversi al governo, che veniva imputato della crudele catastrofe, e contribuì non poco ad incoraggiare gli apostoli della insurrezione. Dal canto suo si accorgeva a manifesti segni il governo non essere per tardare il momento di qualche fatto di maggior pondo. Raddoppiavansi quindi le investigazioni della polizia: le sentinelle ricevevano ordini severissimi di usare le armi ad ogni minimo moto, che paresse accennare a tentativi di rivolgimenti; giravano in tutte le ore e per tutte le vie della città numerose pattuglie di fanti e di cavalli: nelle caserme i soldati erano costantemente tenuti in pronto ad uscire in battaglia: Torino aveva preso l’aspetto d'una fortezza in tempo di guerra.

Due mesi trascorsero in questo state: le due parti si trovavano in cospetto, e si osservavano a vicenda: ognuno sentiva che i tempi erano maturi, che d’ora in ora era per prorompere il momento definitivo. Frattanto il conte Lodi, ministro della polizia, riceveva avviso dal governo francese, che il principe La Cisterna in Parigi frequentava i liberali più sospetti, e faceva fabbricare una carrozza con secreti per nasconder carte. La carrozza denunziata dalla polizia francese si pose in fatti in viaggio alla volta di Torino, ma fermata alla frontiera, e rigorosamente perquisita, non vi si rinvenne carta alcuna che alludesse a complotto o a disegni di sovversione: ciò non ostante il principe La Cisterna, che in quella se ne veniva, fu arrestato e tradotto prigione a Fenestrelle. Poco stante si operava pure I’ arresto del marchese Priè e del marchese Ettore Perrone, ambidue viventi in Torino, desiderosi entrambi di novità, ma non cospiratori.

. Cotali arresti furono pei veri compromessi il segnale di raccorre le loro forze, e di pensare ad usarle senza ritardo. L’ esercito austriaco procedeva già verso Napoli, e i più opinavano che fosse da aiutarsi la difesa dei Napoletani con una insurrezione simile alla loro, sebbene taluno non mancasse di rappresentare il fatale ed irreparabile effetto, che aver potrebbe in Piemonte la notizia di qualche sinistro, che venisse per avventura a colpire in quell’arduo cimento i costituzionali del mezzogiorno. Ma le compromissioni eran troppe, ed i più arditi prevalsero.

Stabilito l’insorgere, restava a trovare un capo supremo di tutta l'impresa, che fino allora obbediva ai diversi rettori delle congreghe, nessun dei quali sentiva o però in sé stesso capacità e credito sufficiente per assumere cosi grande compromissione. Ricercando pertanto un uomo che valesse a si alto incarico, gli occhi dei più si rivolsero sul luogotenente generale Gifflenga, ispettore della cavalleria, noto all'esercitò per luminose prove d'intrepidezza nella campagna del 1812 e di perspicacia militare in quella del 1814 sotto gli ordini del Vicerè. Ma il Gifflenga, tuttoché arditissimo e desideroso di qualche segnalata occasione per dar prova di sé, diffidava in estremo del buon successo della impresa napoletana, alla quale egli vedeva giustamente congiunta la sorte della rivoluzione piemontese; onde si rifiutò alla proposta non senza grande rincrescimento dei congiurati, che dal nome di lui si ripromettevano grandissimo seguito fino dai primi momenti.

Se però non potevano avere un capo prima di alzar la loro bandiera, si ritenevano certi di conseguirne uno principalissimo il giorno in cui il grido di Costituzione avesse echeggiato entro le mura della capitale. Era questi, in mente loro, Carlo Alberto di Savoja principe di Carignano, erede designato al trono, che per alti e generosi spiriti, e per vincoli d'affetto che lo stringevano a diversi di quelli che erano più innanzi e più influenti nella cospirazione, veniva additato come l’uomo che doveva impugnar la bandiera della Costituzione e della Indipendenza italiana, quando ai Federati fosse sembrato giunto il momento d’inalberarla, senza però che alcuno di loro fosse in grado di attestare, che, sia in modo diretto od indiretto, tanta compromissione fosse mai stata assunta da lui. La commiserazione, che sempre accompagna i vinti, ha per lungo tempo dappoi aggravata la memoria di quel principe del doppio fallo di avere consentito in quei disegni, e abbandonato i compromessi nell’ora del pericolo. E gravi contumelie, e triste a ricordarsi da ogni cuore italiano, corsero lunga pezza contro l’infelice e magnanimo principe, che reputò debito proprio ed utile altrui il tacersi finché gli fosse data occasione di rispondere all'ingiuria con fatti che la confondessero, e dimostrassero meglio di ogni apologia qual criterio definitivo fosse ad aversi di lui. La propria rivendicazione ha egli suggellata colla sua morte; e la voce imparziale dell’istoria è sorta finalmente sulla sua tomba a far giustizia delle accuse malevoli o leggiere, che per lunghi anni furono accolte dall’universale in onta del vero, che pure, dai soli fatti conosciuti, doveva a giudici spassionati apparire per sé stesso manifesto. Molti scrittori hanno ormai svolti i fatti di quell’epoca sotto la nuova luce che oggi finalmente li irraggia; ma nessuno con maggior copia di argomenti che l’illustre marchese Gualterio ne’ suoi libri degli Ultimi Rivolgimenti Italiani, onde principalmente abbiam tratto quanto concerne Carlo Alberto nel periodo, del quale ora c’intratteniamo.

La famiglia di Carignano, collaterale della casa regnante di Savoja, era rimasta in Piemonte quando questa, sopraffatta dalle armi francesi, riparava nell’isola di Sardegna. In quella grande trasformazione aveva essa subito i politici cangiamenti senza abbiettezza, ma senza inutile resistenza, e a ciò dovette forse Carlo Alberto la prima aura di popolarità, che giovinetto ancora lo accompagnava. Nulla dava in quei giorni a divedere cosi prossima la successione al trono di questo ramo della famiglia reale; ond’è che il ramo regnante non pose gran pensiero agli atti e alla condotta di quello. Il principe di Carignano prestò senza affettazione i servigi di suddito come gli altri cittadini, e fu veduto prendere il fucile come semplice milite iscritto nei ruoli della guardia nazionale: la principessa, donna di alta mente, di natura oltremodo vivace, e di maniere amabili e festive, rallegrava colla sua presenza le più splendide riunioni, nelle quali la sua piacevolezza faceva dimenticare la gravità delle costumanze spagnuole, che avevano per lo innanzi un impero assoluto nella corte dei re sabaudi. Carlo Alberto, loro figlio, sortiva i natali il 2 ottobre del I798. Il tempo non era propizio alle corone: i fondamenti dei treni erano tutti minati, e gli ammaestramenti che scaturivano dagli eventi straordinarj, che allora accadevano, furono la prima educazione del nuovo principe. Giovinetto ancora, aveva innanzi agli occhi lo spettacolo di una vecchia macchina, la quale cadeva in brani, della società stessa crollante sotto l'ariete rivoluzionario; ma Vedeva salvato tra quei rottami, e nel terreno stesso intriso del sangue di un re, il principio della monarchia, e fatto anzi argine necessario alle straripate passioni, per le virtù di un Uomo, la cui vera potenza fondavasi sui principj di civiltà novella, che seguivano i passi del suo esercito vittorioso. Napoleone frenò la demagogia cominciando la ricostruzione di un edificio del tutto nuovo, e non ripristinando il caduto: poté restaurare il principio dell’autorità perché seppe comprendere le necessità dei tempi, inaugurando il regno della Legge, col farla civile ed eguale per tutti. Non ebbe coraggio di compier l’opera, perché la possanza lo aveva inebbriato; ma quella ebbrezza fu la cagione appunto di sua caduta. Coll’incanto del nome di patria aveva suscitate le simpatie dei popoli, che spianarono a lui stesso la via dei trionfi; ma l’avere rivolti i servigi e il sangue loro in suo esclusivo vantaggio, gli fruttò dappoi cdl e’ maledizioni, che scoppiarono in ira e vendetta il giorno in cui la sua stella si ecclissò nei ghiacci del settentrione.

Questi grandi insegnamenti ebbe la giovinezza di Carlo Alberto, il quale cresciuto in mezzo a popoli commossi, speranti e traditi, poté meditarli ed avvantaggiarsene. Quelle impressioni non si cancellarono mai dalla sua mente, e quei sensi generosi lasciarono nel vergine suo cuore vestigia indelebili. Questa educazione Io le degno di governare secondo i tempi, e capace di restaurare la monarchia di Savoja sul fondamento della novella civiltà emersa dagli ultimi sconvolgimenti. Tutte le virtù dell’antica erano nella dinastia che stava per estinguersi; ma con essa altresì tutta la debolezza che l’aveva profondamente corrosa. Solo quelle dinastie che all’uopo sanno ritemperarsi, possono sperare nell’avvenire; perocché le famiglie, invecchiando come le piante, hanno necessità d'essere dopo lungo tratto di tempo ringiovanite per sopravvivere. Questo rinnovamento, che la dinastia dei Borboni sperò nella Casa d'Orléans, doveva la dinastia di Savoja più certamente trovarlo nel principe di Carignano.

Bello della persona nella sua età giovanile, benché di forme non regolari; maestoso e grave di statura, che sorti sopra l'ordinaria; aveva lo sguardo acuto e penetrante, amabile e affascinatore quando a lui piaceva; capace sempre di leggere l’altrui pensiero, non mai di tradire il proprio: maestà di re, amabilità di cavaliere, semplicità militare di modi. questo era l’aspetto del giovine principe. La sua presenza in un crocchio di dame poteva rassomigliarsi a quella d’un cavaliere del medio evo. e per l’elegante amabilità del suo tratto, e per l'irresistibile fascino ch’egli vi esercitava. La tempera di quei cavalieri poteva appunto così compendiarsi: prodezza di braccio, amore del grande e del bello, genio per le avventure: e questa tempera era per ogni parte quella di Carlo Alberto. Soldato per natura e per educazione, portava nella milizia, oltre all’aspetto marziale, il maggior coraggio personale ed il più incredibile sangue freddo; senza però nulla (a dir vero) che mostrasse l’impeto guerresco ed il profondo intelletto dell'arte. La milizia era il suo elemento naturale, e tutte le virtù militari erano in esso congiunte, specialmente la cura dell'onore, e l'amore dell’ordine e della disciplina: perciò l’autorità era da lui militarmente intesa; come, cioè, necessaria tutrice dell’ordine, fondata sulla stima delle personali virtù, e coritrappesata dai grandi doveri che incombono a chi la deve esercitare. Nulla eravi di bello che non eccitasse la sua fantasia; nulla di grande che non generasse in lui non solo ammirazione, ma desiderio di conseguirlo. Quella fantasia dotata di tutto l’ardore che può trovarsi in un uomo meridionale, lo trasportava sovente nel campo dell’ideale, e gli faceva ambire sovra tutto le gioie dell’incomprensibile e del misterioso. Cosi gli stessi principj religiosi che informavano la sua mente, e la fede che era profondamente radicata nel suo cuore, pascevano ed esaltavano quella sua fantasia, avviandola a grado a grado sui sentieri del misticismo. Le abitudini militari da prima, e poi questa tendenza religiosa, la quale ebbe in lui principio si tosto che ebbe assaggiato le primizie della sventura e del disinganno, gli fecero scegliere ima maniera semplice di vivere, e a pochissimi bisogni sottoposta. Ma quanto da lui erano trascurati quasi tutti i piaceri volgari della vita, altrettanto si diè sollecitamente a coltivare le qualità dell’intelletto. Laborioso per instancabile volontà, amò lo studio e fece ogni sforzo per sollevare la sua mente all’altezza dei tempi. Il suo ingegno era penetrante se non elevato; e quindi con la costante operosità molto poté apprendere, e trarre sopratutto dalla sto-‘ ria utili avvertimenti per la sua vita. Con lo studio di questa egli poté acquistare molte politiche virtù, e perfezionare quelle ehe naturalmente in sé possedeva. E sopratutto si formò una ferrea volontà, inflessibile ne’ suoi propositi, dei quali era sempre norma la rettitudine. Il continuo e soverchio ponderare i mezzi idonei a conseguirli, lo rese invero talvolta incerto nella scelta; e di questa incertezza era cagione ancora il suo naturale non subitaneo, né soggetto a sbalzi. Arrivò a padroneggiare se stesso a segno. da non tradirsi giammai nei moti della fisonomia. Il suo secreto era profondamente nascosto nel suo cuore, e invano avresti cercato di leggerlo nel suo sguardo. Questo era eguale sempre, né la buona, né l’avversa fortuna sembravano apparentemente commuoverlo. Non l'abbattimento della sofferenza, non l’impeto della gioia gli toglievano giammai la signoria di sé stesso: lo avresti detto stoicismo ed indifferenza al bene e al male, ed era invece dominio delle sue passioni ed arte di nasconderei suoi secreti. Niuno infatti era accorto e dissimulatore più di quel ch’egli lo fosse. Qualche volta era pure soverchiamente diffidente; ma troppo bene conosceva gli uomini, e i primi anni della sua gioventù avevangli fornito materia di amari disinganni. Ad essi non avrebbe mai sacrificato un grande scopo, né la privata amicizia avrebbe giammai potuto traviarlo.

Con tali virtù cresceva il principe di Carignano. La sua istruzione militare si compie in Francia, donde recò l’ammirazione per quell’esercito che aveva soggiogato l’universo. il sentimento della dignità nazionale, che è prepotente in quel popolo, ed un fare aperto e liberale, al cui confronto mal reggevano le grettezze e gli atolli pregiudizj che la restaurazione in Piemonte aveva voluto risuscitare, e che provocavano il malcontento di tutte le persone illuminate, massimamente della gioventù, la quale era stata educata nei principj e nelle maniere francesi durante l’Impero. Diventò quindi, anche senza volerlo, bandiera di opposizione; e tutti gli occhi si rivolsero ben presto sopra di lui, ansiosi dall’una parte e sospettosi dall’altra.

Fatto colonnello, gli fu dato a comandare il reggimento Saluzzo; il che nelle usanze di Casa di Savoja era cosa straordinaria, non essendosi fin allora concesso ad un principe più che il titolo, il quale importava soltanto il comando momentaneo in occasione d'una parata. In appresso Carlo Alberto fu innalzato al grado di Gran Maestro dell'Artiglieria. Lo spirito di menzione, del quale abbiamo altrove parlato, faceva pompa di sue follie anche nell’ordinamento dell’esercito, predominando in tutto le idee antifrancesi. Il principe di Carignano cercò di promuovervi un migliore spirito, e il reggimento Saluzzo fu uno dei primi appunto ove le nuove idee cominciarono a manifestarsi; la qual cosa suscitò contro il principe, come era natural cosa l’imaginare, la turba reazionaria. che in lui trovava non solo,un potente inciampo nel presente, ma un fantasma che turbava i suoi{sonni nell’avvenire. Il palazzo Carignano cominciò allora ad aprirsi a splendide feste e conviti, che naturalmente raccoglievano molti intorno al principe, il quale avea spesso sul labbro il sommo de' suoi pensieri, la patria, da lui sempre ricordata con parole di caldissimo affetto. Senza dare ricette alle utopie degli uomini fantastici, partecipava ai sentimenti dei generosi, e questi d’ogni suo detto facendo tesoro facilmente si persuasero di doverlo avere per capo nelle imprese, che con più ardire che sanno da loro si vagheggiavano.


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Il conte di Santarosa, l’eroe della rivoluzione piemontese, ne ha scritta una storia, dove con penna ulcerata dal dolore del mal successo sono lanciate contro Carlo Alberto le più terribili accuse d’aver lusingati e poi abbandonati nel momento decisivo i motori della rivoluzione. La vita e la morte dell’ill11stre ed infelice scrittore fanno fede della sua perfetta lealtà, onde non si potrebbe senza colpa accusarlo di aver mentito a ciò ch’ egli, nei dolorosi momenti in cui dettava quelle memorie, credeva essere il vero. Ma forza è l’inferire che la passione facesse velo al suo intelletto, e l'inducesse a ritenere per formali assicurazioni ciò che in Carlo Alberto altro non era che l'espressione di un nobile desiderio che le sorti d’Italia si migliorassero: ma nessun documento fa fede, né vien prodotto dagli stessi suoi avversarj, ch’ egli avesse per buoni e consentisse nei mezzi, che allora si proponevano. Carlo Alberto era l'erede designato della corona di Savoja, ma crede non necessario; circostanza che non meno nell’interesse della patria, ch’egli pure amava cotanto, che di sé stesso, doveva imporgli la più pesata circospezione prima di avventurarsi, ed esclude all’intutto la presunzione, che innanzi almeno che le cose di Napoli avesser preso un aspetto rassicurante, egli fosse per trarre avventatamente il dado di tante sorti. Il tenore istesso di un manifesto che i rivoluzionarj sparsero nella capitale e nelle provincie intorno ai primi di marzo, e che qui rechiamo ai riprova della nostra argomentazione, rende, diremo quasi, puerile l’opinione che in un moto condotto con quello spirito potesse il presuntivo erede del trono partecipare. Così si esprimeva quel manifesto diretto al re Vittorio Emanuele:

«Sire, i vostri buoni sudditi, sottoposti a tutte le avanie del reggimento arbitrario nell’interno, e. minacciati dalla perdita della loro indipendenza dai sovrastanti pericoli al di fuori; i vostri buoni sudditi, pieni di quell’amore e di quella confidenza nella vostra real persona, che essi avevano ereditato dai loro avi, e che la bontà vostra, Sire, confermò in essi sempre, hanno lungamente aspettato in silenzio che V. M., nella sapienza de’ suoi consigli, soccorresse di efficace aiuto alle necessità della patria, e costituisse lo Stato sopra quei fondamenti, che il secolo e le circostanti vicende esigevano. Quella speranza tornò vana: i consiglieri di V. M. tradiscono la causa della nazione; e i desiderj del popolo mal palesati o repressi, o non giunsero insino al trono, o travisati vi giunsero.»

«Ora i tempi ci hanno ridotti a tale, che avrebbe taccia di malvagio cittadino chi si ritraesse dal manifestar pubblicamente i bisogni dello stato e il voto della nazione. L’opinione bolle e minaccia di riversarsi; gli animi fremono esulcerati per I’ angoscia presente e per la tema del futuro; di un futuro non redimihile poi da tardo pentimento. Ancora un poco d’indugio, o Sire, e la patria è perduta e il trono con essa. A tranquillare gli animi, a concentrare insieme gli sforzi degl'Italiani contro il comune oppressore, V. M. ha un rimedio, e, conviene pur dirlo, uno solo: promulgare la Costituzione di Spagna, quella costituzione che un terzo dell’Italia ha proclamata, a cui la rimanente anela, e che il vostro popolo ha fermata nel suo cuore, e che noi usiamo supplicare V. M. di giurare palesemente al cospetto di Dio e degli uomini. Se v’ha chi le consigli di provveder altrimenti ai presenti pericoli, quegli o mal conosce le urgenze del tempo, o ha altro motivo in cuore che l’amore della patria. Se V. M. la rifiuta, i vostri buoni sudditi potranno bensì morire in difesa della vostra corona, ma non potranno salvarla.»

La ragion comune si nega, lo ripetiamo, ad ammettere che il principe ereditario di Savoja adottasse giammai un simile programma. E la dove il Santarosa racconta del colloquio che, la sera del 6 marzo, egli, San Marzano, Lisio e Collegno tennero con Carlo Alberto, e del consenso loro accordato da lui di porsi a capo della rivoluzione, è senza meno da credersi che o le richieste degli uni o il consentimento dell'altro fossero assai meno espliciti di quello che lo scrittore sembra volere inferire: e la formale negativa da Carlo Alberto data il di appresso non fu al certo che il risultato d’un’istanza più chiara e più perentoria che dal Collegno e dallo stesso Santarosa gli venne fatta colla esposizione che il moto insurrezionale era disposto ed ordinato pcl giorno 10. Carlo Alberto, prese ad esame le condizioni generali d’Europa, la sproporzione tra le forze militari del Piemonte e quelle dell'Austria, e lo spirito pubblico in Italia assai meno eccitato di quello che dai suoi caldi interlocutori si giudicasse; dimostrò loro che la rivoluzione avrebbe condotto gl’lmperiali a Torino, che per ciò le condizioni peculiari del Piemonte e quelle, per conseguenza, di tutta Italia peggiorerebbero, e l’emancipazione farebbesi più difficile anche nell’avvenire. Cercò insomma distoglierli con ogni mezzo da una impresa, donde non altro che la rovina della patria era per derivare. Quei consigli non solo furono posti in non cale, ma nel bollore delle passioni e nel succedere delle sventure ebbero nome di tradimento, e fruttarono una vita di amarezze a chi per risparmiarle altrui invano si affaticava.

Il 10 marzo era, come abbiamo detto, il giorno destinato al prorompere della congiura piemontese. Nella notte doveva sorprendersi la cittadella d’Alessandria, e nella mattina proclamarsi a Torino la costituzione. Il conte Santarosa, maggiore d’infanteria e sotto-aiutante generale, e il conte Lisio, capitano dei Cavalleggieri del Re, dovevano condurre da Pinerolo ad Alessandria trecento cavalleggeri: lo stesso farebbe da Vercelli il marchese di San Marzano, colonnello in secondo del reggimento Dragoni della Regina; ed il maggiore Giacinto Collegno, comandante l'artiglieria leggiera, avrebbe fatto insorgere la gente di quell’arme. Frattanto il conte Morozzo, col suo reggimento de’ Cavalleggieri di Piemonte, doveva da Fossano recarsi a Moncalieri, ove era il re; circondare il castello ed obbligare quel principe a proclamare la Costituzione di Spagna. Consumata la rivoluzione, disegnavano i congiurati d’invadere con venticinque mila uomini la Lombardia, e in poco tempo ragunarne altri trentacinque mila. Una colonna marciando sulla sinistra del Po avrebbe circondato Mantova, e presa la linea dell'Adige prima che l’Austria potesse mandar soccorsi in Italia. L’altra movendo sulla destra avrebbe tratto, a sé le truppe. di Parma, di Modena e dello stato Pontificio. Questi, a quanto sembra, erano i concerti; ma il di 9 saputosi dai congiurati che il governo ne era già venuto in cognizione, stettero per abbandonarli; anzi si mandarono contrordini, e la cospirazione doveva per allora sciogliersi del tutte. Se non che era nei fati del Piemonte, che quel tristo esperimento dovesse compiersi(166).

Sia che gli avvisi non giungessero in tempo ad Alessandria, sia che il partito più audace volesse romperla. ad ogni costo, fatto è che le prestabilite risoluzioni si tradussero in atto; e la mattina stessa del giorno 40 si sparse per Torino la novella che la guarnigione di Fossano era in marcia per Moncalieri. Quella di Torino ebbe immediatamente l’ordine di prender l’armi. Il dado era tratto. Santarosa, San Marzano, Lisio e Collegno insieme convenuti, deliberano di recarsi ai loro posti, e in meno di mezz’ora furono in via.

Frattanto si consumava il moto di Alessandria. Ivi alle due del mattino il capitano conte Palma, fatte prender l’armi al reggimento Genova acquartierato in cittadella, proclamava addirittura la costituzione al grido di Viva il re. I dragoni, guidati dal cav. Baronis e dal conte Bianco, capitano il primo e tenente l’altro, muovono in silenzio dai loro diversi quartieri, e riunitisi sul ponte del Tanaro, s’introducono difilati nella cittadella per la porta lasciata aperta dall’uffiziale di guardia, e penetra con essi loro buon numero di federali cittadini. Ansaldi, tenente colonnello del reggimento Savoia, assume il comando della fortezza, compone una giunta provvisoria dei cittadini Urbano Rattazzi. Appiano, Dossena, Luzzi, e degli ufficiali Palma, Baronis e Bianco, e ne dà avviso al cav. De Varax, governatore di Alessandria. imponendogli militarmente di somministrare i viveri necessarj alle sue truppe indi senza por tempo in mezzo bandisce il seguente proclama, che appieno dimostra l’indole di quella rivoluzione:

«In nome della Federazione Italiana: È proclamata la C0stituzione decretata dalle Cortes straordinarie di Spagna il I8 marzo 1812.»

«È costituita una Giunta Provinciale provvisoria di governo incaricata di provvedere alla salvezza ed ai bisogni della patria ed al fine della Federazione.»

«Essa è indipendente da qualunque altra autorità, e non cesserà di esercitare gli atti del governo, sintantoché non siasi costituita una Giunta Nazionale pel fine della Federazione.»

«Si riterrà legittimamente costituita la Giunta Nazionale quando il re avrà resa sacra e inviolabile la sua persona, e legittimata la sua autorità come re d’Italia colla prestazione del giuramento alla Costituzione di Spagna, salve le modificazioni che verranno fatte alla medesima dal Parlamento Nazionale.»

Cosi quel primo giorno. Il Collegno e il capitano d'artiglieria Radice arrivarono nella cittadella la mattina dell’11, e la stessa sera vi giunse il marchese di San Marzano. Il costui disegno d’indurre i dragoni della regina, che stanziavano in Vercelli, a-dichiararsi per la rivoluzione, era stato attraversato dal colonnello in prima di quel corpo conte Sambuy, che avevalo di qualche ora preceduto, e al quale tornò tanto più facile il contenere in fede quei militari, in quanto che il San Marzano, colonnello in secondo da due mesi appena, e non ancora ridottosi al reggimento, non v’era, si può dire, conosciuto.

Lisio, che era l’idolo del suo, trovò migliore fortuna. Arrivato dopo il mezzogiorno del IO a Pinerolo, raduna Chini, Pecorara, Conti, Calosso, Bruno, Capponi ed altri ufficiali, coi quali entrato in caserma, ove i soldati attendevano riuniti a governare i cavalli, grida loro:

«Su compagni, a cavallo, corriamo ove la salvezza d’Italia, l’onore del sovrano ne appellano.»

E ratto le trombe squillano, il segnale di insellare è già dato. Sopraggiunge allora il Tana, maggiore ed unico ufficiale superiore che fosse al corpo, e Lisio a lui:.

«Maggiore, alla testa». Quegli cerca temporeggiare; ma «No (risponde Lisio), bisogna partire al momento:» e rivolto ai soldati ordina loro di salire a cavallo. Non erano scorsi appena cinque minuti, e trecento cavalleggieri partivano a corsa: giungeva in quel mentre Santarosa, prorompendo nel grido di: Guerra agli Austriaci: e Guerra, Guerra, ripeteva quel pugno di gioventù inebbriata.

Giunti a Carmagnola durante la notte, profittarono i due capi del riposo concesso al reggimento per far stampare una dichiarazione, che valesse, come stimavano, a coonestare l’infrazione da essi recata alle leggi militari, e nella quale cosi si esprimevano:.

«L’armata piemontese, nella gravità delle attuali condizioni d’Italia e del Piemonte, non può abbandonare il re all’influenza straniera. {Questa influenza impedisce al migliore dei principi di appagare i voti del suo popolo, che brama vivere sotto il regno delle leggi. e veder i proprj diritti ed i proprj interessi garantiti da una costituzione liberale: questa influenza funesta fa si che Vittorio Emanuele se ne stia spettatore ed approvi in certo modo la guerra mossa ai Napoletani dall’Austria contro il sacro diritto delle genti, affine di poter dominare a sua voglia su tutta la penisola, e spogliare il Piemonte, segno dell’odio suo. Due sono i nostri fini: mettere il re in grado di poter seguire gl’impulsi del suo cuore schiettamente italiano, e rivendicare al popolo la giusta e decorosa libertà di svelare i suoi desiderj al re, come figli ad un padre. Se noi ci allontaniamo per poco dalle leggi di militare disciplina, vi siam trascinati dal supremo bisogno della patria, e n’è guida l’esempio dell’esercito prussiano, che fe’ salva nel 1815 l’Allemagna colla spontanea guerra intrapresa contro l’oppressore. Ma noi giuriamo ad un tempo di difendere la persona del re, e l’onore di sua corona contro qualsiasi nemico, seppure Vittorio Emanuele può avere altri nemici che quelli d’Italia.»

Questa dichiarazione venne distribuita ai soldati e spedita a Torino. dopo di che,mosse la colonna verso Asti, dove pervenne a mezzo del giorno 11, salutando con grida clamorose la casa dove era nato Vittorio Alfieri.

L’avvicinarsi di queste genti decise il governatore d’Alessandria a sgombrare dalla città seguito dal reggimento Savoia, rimasto per la maggior parte fedele, dagli ufficiali superiori del reggimento Genova e dai dragoni del re, coi quali prese la via d’Asti per Oviglio, a fine forse di evitare uno scontro coi cavalleggieri che ne venivano.

Sul mezzogiorno del di ‘12 fecero i costituzionali il loro ingresso in Alessandria, dove venne tosto proclamata la costituzione sulla gran piazza, ed inalberato il tricolore vessillo. Ansaldi prese il comando della divisione, Santarosa quello della città e della guardia nazionale, Collegno s’incaricò della cittadella, e San Marzano con dugento dragoni, dugento soldati del reggimento Genova, e un forte distaccamento di guardia nazionale si mosse sopra Casale, non senza essersi prima dalla Giunta Provvisoria decretato il regno d’Italia, e dichiarato il paese in istato di guerra con l’Austria: la qual follia e tanto meno giustificabile, in quanto che il rifiuto della brigata Savoia doveva aver insegnato a quegli uomini, come degli stessi soldati Piemontesi non potevano interamente disporre. in una guerra, a cui sarebbe stato impari anche tutto l’esercito. Ma egli è ormai tempo di rivolgere la nostra attenzione alla capitale, ove si condusse a compimento la rivoluzione.

Al primo e ancora confuso annunzio d’insurrezione giunto sul tramontare dello stesso giorno 10 in Torino, il re, tornato tosto da Moncalieri, adunò un consiglio straordinario, al quale, oltre i ministri, intervennero la regina, il principe di Carignano ed alcuni tra i principali personaggi della corte e dello stato. Trattossi del modo di ristabilire l’ordine, e il principe di Carignano, interrogato del suo parere, rispose parergli opportuno di concedere qualche cosa alle circostanze. (vi in chi scrisse averne fatta proposta formale, e questa essere stata rigettata dalla maggioranza dei consiglieri ). ma il re non entrò in discussione sopra tale argomento; e fu alla perline conchiuso di non cedere ai rivoltosi, di offerir loro il perdono, e di manifestare apertamente al popolo lo stato delle cose. Fu pertanto immediatamente redatta la seguente proclamazione colla data dello stesso giorno 10, sebbene non potesse venire prodotta in pubblico che il giorno appresso:

«Le inquietudini che si sono sparse hanno fatto prendere le armi ad alcuni corpi delle nostre truppe. Noi crediamo che basti far conoscere il vero, acciò tutto rientri nell’ordine. La tranquillità non è punto turbata nella nostra capitale, dove noi siamo con la nostra famiglia e col nostro dilettissimo cugino, il principe di Carignano, che ci ha dato non dubbie prove del costante suo zelo.»

«Falso è che l’Austria ci abbia domandato, come da taluni si vocifera, veruna fortezza ed il licenziamento di una parte delle nostre truppe. Noi siamo anzi assicurati da tutte le principali potenze dell’indipendenza nostra e dell’integrità del nostro territorio. Ogni movimento non ordinato da noi sarebbe la sola cagione, che, malgrado del nostro invariabile volere, potrebbe condurre forze straniere entro i nostri Stati, e produrvi infiniti mali.»

«Assicuriamo tutti coloro, i quali hanno preso parte nei movimenti finora seguiti, e torneranno tosto alle loro stazioni sotto la nostra obbedienza, che conserveranno i loro impieghi ed oneri e la nostra grazia reale.»

«VITTORIO EMANUELE»

Mentre il re ed il governo s’attendevano ai buoni effetti di questa proclamazione, ecco sopraggiungere un incidente gravissimo. che venne a paralizzarne gli effetti. Nella mattina stessa del giorno Il, lo stendardo tricolore sventolava alle porte della capitale nel modo che siamo per dire. Vittorio Ferrero, capitano del corpo della Legione Reale Leggiera, destinavasi dal ministero a presidiare la città di Cuneo, e partiva da Torino il giorno innanzi colla sua compagnia di ottanta soldati. Ma, federato anch’egli, aveva fatto divisamento di recarsi col suo seguito in Alessandria, anziché obbedire agli ordini ricevuti: e già era in via per quella volta, quando ad un tratto gli halenò alla mente il concetto di tornare sull’orme sue, e provocare a rivoluzione la stessa capitale. Ciò stabilito, ordina ai soldati di pernottare in Carignano, dove era giunto; poi, sul far del giorno, invece di porsi in marcia verso Carmagnola, ripiglia la via di Torino colla sua gente ancora ignara de' suoi disegni.

Dopo tre ore di cammino, si ferma alla distanza di un tiro d’archibugio dalla capitale, accampandosi dinanzi alla chiesa di San Salvario. S'informa dello stato delle cose: tutto era tranquillo in Torino come il giorno innanzi: gli abitanti tacevano e aspettavano: i soldati obbedivano: l’autorità era in pieno esercizio del suo potere. Senza sgomentarsi per tutto ciò, Ferrero arringa i suoi soldati; li accende del fuoco che lui stesso invadeva; li fa giurare di consacrar la vita alla libertà, e sotto le mura di una capitale difesa da più migliaia di combattenti, sulle porte dell'arsenale, sulle porte della cittadella, circondato da ogni parte da artiglieria e da cavalleria, inalhera il vessillo tricolore e bandisce la Costituzione di Spagna.

Divulgatasi la notizia per la città, si affollano gli abitanti verso Porta Nuova; alcuni salutano la bandiera costituzionale, ma i più stanno in silenzio, osservano per puro moto di curiosità. e né pur uno passa nel campo della costituzione. Terribile dovette essere quel momento per Ferrero; nondimeno qualche soccorso non tardo a giungergli per parte degli studenti, due centinaia dei quali, accompagnati da alcuni professori, lo raggiunsero e a lui si unirono con grida clamorose, Venivano senz’armi: armaronli i soldati colle proprie sciabole.

Da quel momento il governo cominciò a temere di intelligenze fra cittadini e soldati; e se prima era disposto a far man bassa su quel pugno di rivoltosi, tennesi allora in sospeso, e deliberò di procedere con maggiore cautela. Frattanto uscivano dalla città due battaglioni del reggimento di Aosta con una compagnia di artiglieri, ai quali era stato prontamente dato ordine di apparecchiarsi a quella fazione. Apprestarono queste truppe i loro fucili e caricarono i loro cannoni in cospetto dei costituzionali. Ferrero, senza turbarsi, schierò a battaglia il suo drappello, e soldati e studenti si accinsero a sostenere l’assalto. Il sangue stava per isgorgare allorché ai soldati reali fu mandato ordine di retrocedere.

Nulladimeno la popolazione non si muoveva, e il solo soccorso che ebbero gl’insorti venne loro dall’avvocato Pallone, il quale traversando coraggiosamente le doppie file di guardie, si fece strada con una carrozza piena di fucili sino al recinto di San Salvario, onde parecchi studenti ebbero anch’essi armi da fuoco.

Dopo mezz’ora si presentò loro incontro un grosso drappello di Carabinieri a cavallo, condotto dal capitano Caravadossi, con uno stuolo di Piemonte Reale Cavalleria, comandato dal maggiore Ducco. Giunti sul luogo i due comandanti, dopo breve conferenza, si posero alla testa de’ soldati, e parve li. arringassero per far impeto contro i sollevati. Ferrero comandò a’ suoi di formare il quadrato; collocò nel centro gli studenti ‘e aspettò la carica. Veduta l’intrepidità degli avversarj, Caravadossi prese campo e si contentò di stare in osservazione.

Trovavasi in Torino il cavaliere Raimondi, colonnello della legione, di cui facea parte la compagnia di Ferrero, e fu pensato a corte di mandarlo a chiamare all'ordine la sollevata compagnia. Il Raimondi si presentò per questo effetto; ma appena Ferrero l’ebbe ravvisato, corse ad impedirgli d’avvicinarsi. Il momento era decisivo. Ferrero disse al colonnello:

«Noi siamo qui per la Costituzione: se volete riconoscere la nostra bandiera, siamo pronti ad obbedirvi, se no ritiratevi o faremo fuoco sopra di voi.» – «Sono vostro superiore, ripigliò Raimondi, e come tale vi ordino di obbedirmi.» – «In questo momento, replicò Ferrero, non ho altri superiori che Dio. Vi ripeto di ritirarvi; e se pure volete rimanere, fuori la spada, e sia decisa la questione fra noi due».

Raimondi trasse la spada, non per combattere con Ferrero, ma per intimare ai soldati di eseguire i suoi ordini. Ferrero vuol ritenerlo, ma invano: i soldati già possono ascoltare le parole del colonnello; Ferrero minaccia, e Raimondi s’innoltra: allora uno studente impugna una pistola, e trae sul colonnello, il quale cade nel proprio sangue, ed è portato nella chiesa, dove poco stante è richiamato alla vita.

Quel colpo salvò bensì Ferrero e tutti i suoi: ma la natura stessa del fatto auspicava cosi male all’impresa, e tanta era la impassibilità della popolazione torinese, che Ferrero senti non rimanergli altro a fare che ritirarsi e correre in Alessandria, per dove fu lasciato muovere dai regi senza contrasto.

La sera riunì di nuovo il re a consiglio i suoi ministri; le opinioni dei quali non mostraronsi meno incerte e contradittorie, di quello che fossero state in tutto il giorno. Alcuni proponevano di muovere arditamente colle truppe sopra Alessandria; altri, mostrando minor fiducia nell’esercito, consigliavano al re di ritirarsi a Milano e confidare nell’Austria; altri finalmente insinuavano di proclamare la costituzione di Francia per dividere il partito liberale e separare Alessandria da Torino. Mentre si stavano agitando queste diverse opinioni, giungeva, reduce dal congresso di Lubiana, il marchese di San Marzano, che vi era stato dal re accreditato con pieni poteri. Egli recò l'espressione dell'assoluta volontà delle potenze alleate, le quali non erano disposte a tollerare verun cambiamento nelle forme governative degli Stati Italiani, e notificò di aver preso egli stesso solenni impegni in proposito, a nome del suo re. in quella ineluttabile necessità. Vincolata così la sua parola reale, fu da quel momento in poi Vittorio Emanuele irremovibile nel proposito di non dar costituzione qualsivoglia al suo regno. Egli non voleva inoltre esporlo ad un intervento, che avrebbe avuto luogo anche non chiesto. se non avesse attenuti gl'impegni presi in di lui nome dal suo ministro, né voleva, per opporvisi, avventurarlo in una guerra, il cui esito si ren-. deva troppo manifesto dalla disparità delle forze. Questo stato delle cose, la manifesta volontà della Santa Alleanza, volle il re lealmente esporre al suo paese, esprimendo nei modi più affettuosi e sinceri il suo dolore di vedere il regno esposto senza difesa ad un intervento non provocato al certo da lui. E ciò fece colla seguente proclamazione, redatta in quella notte medesima per essere pubblicamente affissa e divulgate nell'indomani:

«Dal di che è piaciuto a Dio chiamarci al governo di questi Stati di Terraferma, noi abbiamo in tutte le cose cercato di mostrare ai nostri sudditi gli effetti del nostro cuore paterno.»

«E singolarmente ci siamo adoperati a mantenere fra di loro gli spiriti dell'unione e della concordia, e di rimuovere ogni occasione di odii, di rancore, e di parte.»

«A questi sensi hanno corrisposto i nostri sudditi; ed è stato vanto di essi e di noi, ed ammirazione d'Europa, che in mezzo a tante turbolenze straniere mai non è stata sia qui turbata la tranquillità di queste fedeli provincie.»

«E sin da principio ancora noi ci siamo compiaciuti nel distinguere con singolari dimostrazioni di affetto i nostri sudditi militari. E da questa parte dei nostri sudditi avemmo pure e tuttodì abbiamo non dubbie prove di valore e di fedeltà.»

«Ma oggi, mentre sta pur ferma la devozione delle provincie e del nostro esercito, persistono nel contegno dell’aperta disubbidienza, hanno abbandonato i loro capi e si sono rinchiusi nella cittadella d’Alessandria alcuni drappelli di militari, cui non ha valuto a ritrarre da si colpevol disegno il primo nostro amorevole invito.»

«Noi vediamo con indicibil dolore il pericolo a cui la colpevole ostinazione di pochi trae la tranquillità non solo, ma la sorte istessa e la indipendenza della patria.»

«Nell’atto perciò che rimettiamo noi e la causa nostra al sostegno della Provvidenza Divina, e noi e la causa nostra raccomandiamo alla fermezza dei nostri sudditi fedeli. a tutti generalmente, messi da coscienza e da affetto paterno qui dichiariamo:

«Che recentissima, schietta ed unanime deliberazione delle. grandi potenze nostre alleate ha fisso, che mai, per nessun caso, non verrà da niuna di esse approvato, e tanto meno appoggiato atto veruno che tenda a sovvertire i legittimi ordini politici esistenti in Europa.

Che anzi a mano armata le tre potenze, austriaca, russa e prussiana, si faranno vindici d'ogni attentato contrario alla conservazione degli ordini medesimi.»

«In questa condizione di cose, deliberati per nostra parte e fermamente risoluti come siamo a non permettere, riconoscere, e tanto meno operar cosa da cui possa nascere occasione d'invasione straniera; costanti nel proposito d'usare ogni mezzo che non si sparga il sangue de’ nostri amati sudditi, noi qui diamo questo sfogo al nostro oppresso paterno animo, facendo noto a tutti in faccia all’Europa, che tutta sarebbe la colpa dei sovvertitori degli ordini legittimi, se mai altra armata che la nostra venisse a mostrarsi dentro i confini del nostro Stato, o se mai, ciò che inorridiamo a pensare, la discordia civile venisse a flagellar questi popoli, che abbiamo tenuto sempre, e che non cesseremo mai di tenere come parte amatissima della nostra famiglia.»

Una quiete sepolcrale regnava in Torino la mattina del 12 marzo, non da altro interrotta che dal moto delle truppe che raccoglievansi in piazza Castello per esservi passate in rassegna e mosse poi verso Asti, dove dovevano riunirsi le regie forze per far impeto contro Alessandria. Era prossimo il mezzogiorno, e già si affiggeva il proclama redatto la notte innanzi, quand’ecco tuonare d’improvviso il cannone della cittadella annunziatore di nuovi eventi. Dalla reggia si spediscono instantaneamente due dragoni per avere spiegazioni del fatto, che già aveva incusso trepidazione e spavento in tutti gli animi. Giungono i dragoni in prossimità degli spalti, e veggono sventolare sopra l’antica fortezza la bandiera costituzionale. Un popolo immenso circonda i fossi e i bastioni, e si comincia a gridare da esso: Viva la Costituzione! In vece di retrocedere. i dragoni spingonsi in mezzo alla folla agitando la sciabola per aprirsi il passo. Gridano i circostanti: Indietro, nel fodero le sciabola. ma quelli vogliono tuttavia inoltrarsi e menano in giro i ferri. Allora un colpo di pistola atterra il primo dragone; l’altro. spaventato, si da a precipitosa fuga.

La rivoluzione della cittadella n0n erasi compiuta senza effusione di sangue. Enrico e Gambini, capitani d’artiglieria, erano stati i principali autori di quel moto. Nella notte dell’11, di concerto con Bossi, ufficiale del genio, con Becciocchi, Bigolino e Cassana, ufficiali del reggimento di Aosta, divisarono Enrico e Gambini di far prigioniero il cavaliere Desgenevs, comandante della cittadella, poi sollevare il presidio in nome della libertà italiana. Il prode comandante non volle arrendersi, e nel calore dell’azione un sergente, per nome Rittatore, gli confisse la sciabola nel petto. Gambini assunse il comando della fortezza in nome della Giunta d’Alessandria,0 soldati ed ufficiali prestarono giuramento alla rivoluzione.

I Torinesi, sino allora taciti spettatori degli avvenimenti, si riscuotono, s’inebbriano, si uniscono alle acclamazioni del presidio, e la Costituzione di Spagna è inaugurata là dentro fra le grida del popolo e gli strepiti delle artiglierie.

Tutt’a un tratto si commove la folla, e l’aria è ripercossa da nuove salutazioni. È il principe di Carignano, che si mesce col popolo, e si presenta agl’insorti della cittadella, perché facciano aperte le loro intenzioni.

«Le nostre intenzioni (risponde Gambini) non hanno bisogno di ulteriore manifestazione. I nostri cuori sono fedeli al re; ma vogliamo la guerra all’Austria e la Costituzione di Spagna: tale è il grido del popolo, il desiderio della patria, il voto dell'Italia.»

Ciò udito, ritorna Carlo Alberto sulle sue orme. Allora un ardente giovine, chiamato Pietro Muschietti, si accosta al principe, gli rimostra con accese parole quali e quante speranze sieno riposte in lui, e gli presenta un tricolore stendardo. A tal vista cresce il popolare fervore: la folla circonda il principe facendo risuonar l’aria di evviva; e Carlo Alberto, preceduto da quel vessillo, e seguitato dalla commossa popolazione, va portatore al sovrano dei nuovi casi.

Tanta era la fiducia dei novatori in Carlo Alberto, non conosciuto da loro che per quanto destramente avevano di lunga mano insinuato coloro che lo volevano indurre a favorire l'insurrezione, che sulle orme di lui continuavano ad acclamare la costituzione sopra la piazza medesima dove stava ancor schierato l'esercito. La fanteria non si mosse, ma un reggimento di cavalleria si scagliò sul popolo, e nuovo sangue fu versato.

Intanto giungeva la notte, e intorno al re sempre maggiori si facevano le incertezze. Dopo le dimostrazioni dei Torinesi e la rivoluzione della cittadella non si poteva più avventurare la spedizione contro Alessandria. Si tornava a proporre l’intervento dell’Austria, si tornava a parlare di costituzione di Francia; e non mancò né pure chi spaventato dagli eventi suggerì di soddisfare al voto dei sollevati; ma a quest'ultima proposta ripugnava affatto l’animo del re, che ripeteva essere infrangibili gli obblighi contratti coi sovrani alleati, e tornava a pensare se colle proprie forze avesse potuto aver ragione dei sollevati. Chiamò in fatti a se i capi dei corpi, che erano nella capitale, per conoscere il vero spirito delle truppe e quel che fosse attendibile da esse. Di cinque colonnelli, due assicurarono che potevano rispondere della fedeltà dei loro soldati; gli altri si mostrarono titubanti. Tuttavolta bisognava risolvere, avendo il presidio della cittadella dichiarato, che se al nuovo giorno non era pubblicata la costituzione avrebber posto mano alle bombe. Sopravvenne in questa il Lodi, ministro di polizia, annunziando al re le provincie essere tutte insorte, e trentamila del contado armati essere già in marcia alla volta della capitale. Questa notizia non vera, e forse sparsa ad arte, come taluni opinarono, per ottenere l’abdicazione del re, venne avvalorata dal corpo decurionale di Torino, il quale spaventato si recò a pregare il re «di avere riguardo alla capitale». Allora finalmente la parola di abdicazione fu pronunciata dallo stesso Vittorio Emanuele, il quale da molto tempo volgeva già in mente l’idea di ritirarsi a vita privata, specialmente per ragion di salute. E quello, che i più sfidati avversarj della rivoluzione desideravano, ottennero; di vedere cioè in quel terribile frangente la corona passare sulla testa di Carlo Felice, fratello di Vittorio Emanuele, il quale allora ritrovandosi in Modena, poteva liberamente annullare ogni atto che venisse consumato in Piemonte a favore della rivoluzione, e invocare l’aiuto degli Austriaci. Narra il Coppi, in proposito di questi fatti(167), come a lui stesso rivelasse dappoi il conte Prospero Balbo, allora ministro dell’interno, che la regina Maria Teresa propose in quel momento al re di essere dichiarata reggente con una costituzione; ma che Vittorio Emanuele si negasse a questo desiderio di lei. Chiamò invece a se il principe di Carignano, innanzi di firmare l’atto della sua abdicazione, e a lui offerì la reggenza. Il principe non voleva per conto alcuno accettare quel terribile incarico; ma il re dopo le più amorevoli insistenze rimaste infruttuose, lo impose. e il principe di Carignano, suo malgrado, fu nominato reggente. L’atto in settescritto dal re con tutte le formalità necessarie, e conteneva il temporaneo conferimento nel principe di tutta intera la regia autorità, innanzi alla declaratoria dell’abdicazione. Erano cautele necessarie alla legalità di un atto diretto a preservare il paese dall’anarchia, la quale sarebbe stata conseguenza dell’interruzione d’ogni legittima autorità. Eccone il testo quale fu pubblicato in data del giorno 15:


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«Tra le disastrose vicende, per le quali si è andata consumando gran parte della nostra vita passata, e per cui sono venuti già mancando la fermezza ed il vigore della nostra salute, più volte ci siamo consigliati a dismettere le ardua cure del regno.»

«In questo pensiero, non mai stato da noi dismesso, sono venuti a confermarci nei giorni correnti la considerazione delle sempre crescenti difficoltà dei tempi e delle cose pubbliche, non che il nostro sempre costante desiderio di provvedere per tutto ciò che possa essere pel meglio de' nostri amati popoli.»

«Noi perciò deliberati di mandar oggi ad effetto senza più il detto nostro disegno, ci siamo anzi tutto disposti ad eleggere e nominare, come qui di nostra certa scienza e regia autorità, avuto il parere del nostro Consiglio, eleggiamo e nominiamo reggente de’ nostri stati Carlo Amedeo Alberto di Savoia, principe di Carignano, nostro amatissimo cugino, conferendogli perciò ogni nostra autorità per l’efficacia di questa stessa nostra elezione e nomina di sua persona.»

«E con questo stesso atto, di nostra regia e libera volontà. e avuto il parere del nostro Consiglio, ci facciamo poscia a dichiarare:»

«Che dal di tredici marzo corrente rinunciamo irrevocabilmente alla corona, e cosi all’esercizio e ad ogni ragione di sovranità a noi competenti, tanto sugli Stati da noi attualmente posseduti, quanto su quelli di cui per ragione di trattati o altrimenti ci potesse spettare diritto di successione.»

«Che intendiamo bensì essere condizione sostanziale di questa nostra rinuncia ognuna delle riserve seguenti, cioè:

«1.° Che conserviamo il titolo e la dignità di re e il trattamento come ne abbiamo goduto sin qui.»

«2.° Che ne sarà pagato a quartieri anticipati la somma di annua vitalizia pensione di un milione di lire nuove di Piemonte, riservandoci inoltre la proprietà e disponibilità de’ nostri beni mobili ed immobili, allodiali e patrimoniali.»

«3.° Che sempre sarà libera per la nostra persona e famiglia la scelta del luogo che più ci piacerà per nostra residenza.»

«4.° Che sempre similmente ci sarà libera la scelta delle persone colle quali ne piacerà convivere, o che ne piacerà ricevere o mantenere al servizio della nostra persona e della nostra famiglia.»

«5.° Che in tutto e per tutti gli effetti, s’intenderanno star fermi e, bisognando, qui confermati gli atti passati già a favore della regina Maria Teresa d’Austria, nostra amatissima consorte, e delle principesse Maria Beatrice Vittoria duchessa di Modena, Maria Teresa Ferdinanda Felicita principessa di Lucca, Maria Anna Ricciarda Carolina, e Maria Cristina Carolina, nostre amatissimo figliuole.»

L’atto venne contrafirmato da Carlo Alberto e da quindici i ministri e consiglieri di stato.

All’alba del 11 marzo, il re Vittorio partiva alla volta di Nizza accompagnato sino alle Alpi dal generale Gifflenga. Copiosa era la neve su quelle cime, disastroso il passo, coperto di nubi il cielo. Fra la cupa solitudine di quelle orride gole, mentre lasciava in Piemonte una corona che non doveva più cingere, quante volte il re sventurato avrà richiamato al pensiero il giorno 20 di maggio del 1814, e avrà ricordato quel fulgido sole, quelle ridenti spiaggie, quegli archi trionfali, quelle vie gremite di popolo, quei fiori che piovevano dai veroni e dai terrazzi, quei lumi che a mille a mille sfidavano le stelle del cielo, quegli augurj, quegli applausi, quelle benedizioni, che precedevano e seguivano le orme sue! Tante speranze, tanti ridenti pensieri erano ora rivolti in lutto: l’invasione straniera, la guerra cittadina, le prescrizioni, gli esigli, le fughe, le capitali condanne stavano per desolare il seno della sua patria: e tardi forse rimproverava a sé stesso di non avere, per tempo e con adatti temperamenti provveduto alle cause onde scendevano allora si deplorabili effetti.

La mattina stessa del 14, il nuovo reggente annunciava lo straordinario avvenimento; invitava a rispettare il re abdicatario nel suo viaggio e dichiarava che nella giornata avrebbe palesato le sue intenzioni uniformi a quelle del pubblico. Era questa un’implicita promessa di pubblicare la Costituzione, fatta sotto la forza di quelle congiunture medesime, che avevano obbligato il re (cui la parola data a Lubiana toglieva l’uso di un tale espediente) a rinunciare al trono; I termini però erano abbastanza elastici da concedergli il benefizio del tempo e del consiglio. In questo mentre,. pel fatto della abdicazione del re, tutto il ministero si tenne in obbligo di rinunziare nelle mani del reggente, non senza proporgli esso medesimo la formazione di un altro. Ma il principe reggente, innanzi di prendere altre deliberazioni, riuni trenta ragguardevoli cittadini, domandò la loro cooperazione, e li richiese del loro parere. Essi dichiararono unanimemente non essere nelle facoltà del reggente, nonostante i larghi termini del reale decreto, di proclamare una costituzione; ed opinarono doversi spedire al nuovo re Carlo Felice a Modena, a fine di esporgli lo stato delle cose e sottoporgli i provvedimenti presi nell’urgenza dei casi; e compilarono un atto da pubblicarsi nel quale csp0selo francamente la commissione affidata al marchese Costa di Beauregarde presso il re Carlo Felice, e la riserva per parte del reggente della regia sanzione per tutte le deliberazioni ch’egli avrebbe prese. Il quale atto, importantissimo per farsi ragione della condotta del reggente, fu bensì emanato in Torino il giorno istesso, ma la Sentinella Subalpina, che pubblicò tutti gli atti del governo dopo il 15 marzo, tenne su questo maliziosamente il silenzio, d’accordo con quelli che volevano ad ogni modo trascinar Carlo Alberto nel vortice della rivoluzione.

Volendo intanto il reggente profittare delle autorità conferitegli dal re Vittorio per beneficare secondo le tendenze del cuor suo, e temendo la conosciuta asprezza del nuovo re, non tardi) ad offerire agli insorti, nello stesso giorno I4, una piena amnistia, sotto condizione che immediatamente ritornassero all’obbedienza. Volendo poi torre all’Austria ogni pretesto d'invasione, e infirmare gli effetti dello sconsigliato manifesto Alessandrino, proibì d’inalberare altra coccarda 0 bandiera fuori della Piemontese, ed ordinò a tutte le autorità di rimanere ai loro posti per evitare l'anarchia. Il primo invito però non venne accettato dagli insorti, ed anzi alcuni di loro vi risposero con una protesta. Cosi rimasero vani gli sforzi nei quali Carlo Alberto si affaticava per giungere ad una vantaggiosa conciliazione.

A Torino frattanto, dopo la seconda pubblicazione del reggente, le cose peggioramno, e la rivolta prese un aspetto oltremodo minaccioso. Il torrente aveva già superato l’argine. Alle tre pomeridiane gl’insorgenti assediarono il palazzo della municipalità e ne invasero ostilmente le sale: uomini armati di pistole e di pugnali chiedevano ad alta voce che una deputazione di colà partisse e si recasse al reggente a chiedergli l'immediata pubblicazione della costituzione Spagnuola. Il tumulto ad ogni istante ingrossava; l’agitazione nella città giungeva al colmo, ed il palazzo Carignano era circondato. Carlo Alberto, pienamente convinto de’ mali che da quell’atto erano per derivare, non volle cedere e resisté più ore a quel minaccioso frastuono. Fra i gridatori di piazza, uno a tutti sovrastava, il medico Crivelli di Moncalvo, che Carlo Alberto fece salire perché apertamente esponesse i suoi sensi. Alla richiesta della costituzione fatta da quel tribuno a nome del popolo, rispose il principe con leale franchezza:

«Io non posso pubblicarla, essendo lungi il re Carlo Felice: la inia carica non ha i poteri a ciò necessarj.»

A ciò il Crivelli oppose minaccie non velate, esponendo i rischi che, a parer suo, la dinastia correva in tal frangente. Ma Carlo Alberto replicogli altamente e con franchezza:

«Perciò appunto io sono risoluto a morire per quelli ch’io rappresento.»

Questo linguaggio del principe, che colpi di ammirazione il Crivelli, il quale rese omaggio alla sua cavalleresca energia, mostra assai palesemente come niun impegno lo legasse agli insorgenti, e come egli allora non mancasse a sé medesimo. Né pago di ciò, ponendo fiducia nel buon senso de’ suoi concittadini, rappresentò che quell’atto sarebbe un’intimazione di guerra alla Santa Alleanza, una causa inevitabile d'intervento straniero, e quindi la rovina della indipendenza del Piemonte: voler lui procurare il bene e non essere causa di sventure all’Italia, ch’egli amava come Italiano.

A queste sincere ed assennate parole fu risposto che urgeva scongiurare una catastrofe imminente, e tanto più da temersi in quanto che tutti i capi dei corpi di guarnigione in T0rino dichiararono alla lor volta di non poter più assicurarsi. dei loro soldati. Il reggente però resisteva ancora: da una parte sperava nel rinsavire del popolo; dall’altra cercava consiglio dal tempo; quando in fine, alle otto di sera, l’interno del palazzo Carignano fu invaso pel tradimento di alcune persone al servizio del principe; e la cittadella minacciò per ultima intimazione che se fra un quarto d’ora non si pubblicava la costituzione di Spagna, avrebbe cominciato un fuoco micidiale sulla città, che non sarebbe cessato se non al momento di quella pubblicazione. Allora i notabili radunati dal reggente riconobbero pur essi in tali estremi la necessità, per evitare la guerra civile, di proclamare la Costituzione di Spagna, salvo le modificazioni che il re ed il parlamento avrebbero creduto opportuno di arrecarvi. Questa riserva in l’ultima opposizione fatta agl’insorgenti. Il principe di Carignano comparve allora (erano le otto pomeridiane) al balcone del suo palazzo annunziando ai tumultuanti la promulgazione di quella costituzione, che venne fatta col seguente proclama:

«L’urgenza delle circostanze in cui S. M. il re Vittorio Emanuele ci ha nominati reggente del regno, malgrado che a noi peranche non si appartenesse il diritto di succedervi, nel mentre cioè che il popolo altamente enunciò il voto di una costituzione nella conformità di quella che è in vigore nelle Spagne, ci pone nel grado di soddisfare, per quanto può da noi dipendere, a ciò che la salute suprema del regno evidentemente in oggi richiede, e di aderire ai desiderii comuni espressi con un indicibile ardore. In questo difficilissimo momento non ci è stato possibile consultare maturamente ciò che nelle ordinarie facoltà di un reggente può contenersi. Il nostro rispetto e la nostra sommissione a S. M. Carlo Felice, al quale è devoluto il trono, ci avrebbero consigliati ad astenerci dall’apportar qualunque cambiamento alle leggi fondamentali del regno, o ci avrebbero indotto a temporeggiare, onde conoscere le intenzioni del nuovo sovrano. Ma come l’impero delle circostanze è manifesto, e come altamente ci preme di rendere al nuovo re salvo, incolume e felice il suo popolo, e non già straziato dalle fazioni e dalla guerra civile; perciò ben ponderata ogni cosa, ed avuto il parere del nostro Consiglio, abbiamo deliberato, nella fiducia che S. M. il re, mosso dalle stesse considerazioni, sarà per rivestire questa deliberazione della sua sovrana approvazione, che la Costituzione di Spagna sia promulgata ed osservata come legge dello Stato, sotto quelle modificazioni, che dalla Rappresentanza Nazionale, in un con S. M. il re, verranno deliberate.»

Le violenze popolari che precedettero e accompagnarono questa proclamazione, concessa solo per evitare gli orrori della guerra civile, e le clausole appostevi da Carlo Alberto, sono esuberanti a liberare il suo nome da qualsivoglia accusa, da un lato di violata promessa, e dall’altro di abusata autorità.

Secondo lo spirito della costituzione di Spagna, il principe reggente stabili una Giunta provvisoria, che facesse le veci del Parlamento fino alla sua convocazione, nominandone presidente il canonico Marentini, e fra i diversi membri, che furono dapprima quattordici, aumentati poi fino a ventotto, il marchese di Barolo, il principe della Cisterna, il marchese Ghillini, il marchese Agostino Pareto, due Serra, un Balbi, un Spinola. Compose il ministero, conferendo gli affari esteri al marchese Arborio di Breme, l'interno a Ferdinando dal Pozzo, le finanze al De Guhernatis, e la polizia al conte Cristiani. Mise alla direzione del dicastero della guerra il marchese di Villamarina, che prontamente dovea cederlo a Santarosa. Nel giorno 15 giurò poi solennemente la costituzione, ma non diede alcuna disposizione per farla giurare dalle truppe e dagli impiegati.

Cosi pubblicavasi la Costituzione di Spagna, per la quale nessuno in buona fede potrà affermare che o fosser nati 0 nascessero rapporti ed intelligenze fra gl'insorgenti e il principe di Carignano, il quale scongiurò quanto poté tanta sventura, additando agli amici la via della prudenza, e offerendo, finché era tempo, il perdono a chi avea spinto all'impazzata la patria sull'orlo dell’abisso.

Che che ne dicano gli storici parziali di quella rivoluzione, lo statuto spagnuolo non divenne affatto popolare in Piemonte, parte per l’ottima ragione già data dal Brofferio, il quale sembra poco appresso dimenticarsene, della indifferenza del popolo, parte perché già incominciavano a conoscersi i mali eventi di Napoli, dove era tutto il fondamento delle speranze dei subalpini, e perché la maggiorità di quelli medesimi che desideravano forme liberali avrebbero preferita una costituzione assai più moderata di quella delle Cortes. Né poco contribuiva ad accrescere la generale temenza la scissura che tuttavia esisteva fra la Giunta di Torino e quella di Alessandria, che protestava ancora contro il decreto di perdono di Carlo Alberto, e che solo più tardi fece atto di adesione per l’intervento di Santarosa. Non è quindi meraviglia se appena proclamata la Costituzione s’incominciassero a vedere per l'una parte sintomi di ‘reazione, specialmente nelle milizie, che ogni giorno disertavano la bandiera del nuovo governo, e per l’altra stimoli e tentativi onde condurre il reggente a dichiarare la guerra all’Austria invadendo la Lombardia. Questa idea era vivamente caldeggiata dai congiurati Lombardi, dei quali dovremo altrove intrattenerci, bastandoci ora il dirne ciò solo che ai presenti casi direttamente si riferisce. Una loro deputazione corse in questi giorni a Torino, e dichiarò al ministero: Esistere 15,000 fucili depositati in Milano per armare quelli che fossero insorti: ne promisero una immediata 'e copiosa fabbricazione nelle riattivate fabbriche di Brescia, ed assicurarono di esser pronti ad impadronirsi per sorpresa del gran parco d'artiglieria allora custodito in Verona. Promettevano radunare, non appena scop. piata l’insurrezione,il disperso esercito del vicerè richiamando dai loro focolari i 12,000 uomini che già lo componevano, ed ordinare immediatamente 50,000 guardie nazionali. Il ministero piemontese, il quale sapeva per notizie sicure che il deposito delle armi lombarde non era ignorato dalla polizia austriaea; che agevolmente intendeva quant’era folle il pensiero d'incominciare una guerra e fornire un esercito con armi, che tuttora fossero da fabbricarsi; che vedeva quanto chimerica fosse la speranza di sorprendere il parco chiuso in Verona, e sapeva inoltre quanto tempo e quali difficoltà portasse il richiamo degli antichi soldati, e quanto vano fosse il far fondamento sopra i nuovi solo mentalmente preparati; non mancò di osservare a quegli inviati quanto deboli e fallaci fossero i mezzi proposti, e si negò a secondarne i disegni. Ma insistendo essi tuttavia nel magnificare ed esagerare le facilità dell’impresa, come sempre accade anche in buona fede agli uomini impegnati in una cospirazione, fu loro risposto:

«E perché dunque non insorgere?»

A questa perentoria interrogazione opposero i deputati la seguente dichiarazione:

«Che niuno in Lombardia sarebbesi mosso, finché non si. vedesse effettivamente la bandiera Piemontese sotto le mura di Milano.»

E dichiararono di esigere ciò, in primo luogo, perché così volevansi assicurar della buona fede dei Piemontesi, e convincersi che fossero entrati nell’impresa senza speranza di ritorno; secondariamente perché non si sentivano abbastanza forti da torsi d'impaccio coi I2,000 Austriaci, che occupavano in quel momento la Lombardia. Intorno a che osserva pur troppo giustamente il Gualterio: Questa dichiarazione di debolezza, accompagnata da un apparato di arroganti pretese e di diffidenza, forse parrà cosa strana ed incredibile: e certo innanzi al 1848 sarebbesi chiamata favolosa, e volentieri l’avremmo taciuta se non ci fosse parsa necessaria a conoscersi come precedente di quegli avvenimenti medesimi. Cosi nulla si concluse fra quei deputati e i ministri del reggente, che non si lasciarono sedurre da quelle offerte ipotetiche, o fuor di ragione esagerate.

I congiurati Lombardi pensarono quindi di rivolgersi agl’insorti, e trattare con essi direttamente. Infatti, il 46 marzo, presentasi a Torino il cavalier Perrone, quegli medesimo che suggellava nel I849 a Novara l’antica fede, giovine allora di trentadue anni, con una lettera del colonnello Caraglio di San Marzano, già da noi nominato. Quella lettera ne conteneva un’altra, che il colonnello aveva testé ricevuta da Milano, portante la sottoscrizione di molti ascritti alla setta dei Carbonari. Dopo una esposizione altisonante di lusinghe folli e di promesse affatto iperboliche, concludeva la lettera coll’invitare il Caraglio (lusingato eziandio col titolo di generale) a passare immediatamente il Ticino. Il colonnello accompagnava questa lettera dei Milanesi colle più calde ed insistenti preghiere, avvalorate eziandio dalle istanze del Perrone, affinché gli fosse data facoltà di gettarsi in quell’impresa, e perché si facessero cessare le opposizioni del conte La Tour, onde alla gente che egli aveva con se (circa 500 uomini) potesse unirsi il reggimento Cuneo, da quello comandato. È quasi incredibile che seriamente si chiedesse un permesso di cotal fatta senza por mente che una colonna di 1500 fanti e 200 cavalli, quale in tutto sarebbe stata la sua, affatto priva di artiglieria, senza magazzini, né munizioni, né riserve, non avrebbe tardato ad essere senza alcun pro e senza scampo distrutta; e ciò che è ancor più grave, senza accorgersi che la violazione del territorio lombardo sarebbe stata all’Austria opportuna occasione d'inframmettersi negli affari interni e domestici della vicina contrada.

Il ministero piemontese previde tutto il rischio, che poteva correre la patria quando lasciasse libero il corso alle passioni di quei giovani, che tanto inconsideratamente si erano spinti innanzi. Fu appunto in quella occasione che il cavaliere di Villamarina, il quale per impedimenti di salute aveva fin allora tenuto quasi il solo titolo di ministro della guerra, cominciò a dare opera personalmente agli affari. Levatosi dal letto ove giaceva, recossi dal reggente, e narratogli le domande del San Marzano, gli espose senza velame lo stato vero delle cose. Né Carlo Alberto tardò a comprendere tutta la gravità del pericolo, in che il Piemonte poteva incorrere, ove non si fossero prese le opportune determinazioni. Egli dunque incarico ben tosto il ministro della guerra di spedire nella stessa notte l’ordine al San Marzano di ritirarsi dal confine lombardo, dove si ritrovava per ordine della Giunta di Alessandria, e di recarsi con tutti i suoi in questa piazza; alla quale ingiunzione giustizia vuol che si dica avere il colonnello obbedito senza esitare. Non si pretermise allora da chi pure voleva conseguire l’effetto d’una dichiarazione di guerra, di suscitar tumulti popolari in Torino contro il conte Binder, ministro austriaco, la cui abitazione in nella notte del 19 violata, ond’egli il giorno appresso se ne parti.

Mentre queste cose accadevano in Torino, “ritornava da Modena il marchese Costa di Beauregard, che più sopra abbiamo veduto spedito da Carlo Alberto al nuovo re, riportando un proclama del giorno 16, nel quale Carlo Felice protestava contro l’accaduto, comminava a tutti, senza distinzione, le pene di ribelli se non si tornavano le cose nel pristino stato, e terminava ingiungendo l’immediata pubblicazione delle sue sovrane volontà. Questo importantissimo documento vuol essere da noi testualmente qui riferito:

«Noi Carlo Felice, duca del Genevese ec., dichiariamo colla presente, che in virtù dell’atto di abdicazione alla corona, emanato in data del 45 marzo 1821 da-S. M. il re Vittorio Emanuele di Sardegna. nostro amatissimo fratello, e da esso a noi comunicato, abbiamo assunto l’esercizio di tutta l’autorità e di tutto il potere regio, che nelle attuali circostanze a noi legittimamente compete, ma sospendiamo di assumere il titolo di re, finché S. M. il nostro amatissimo fratello posto in istato perfettamente libero ci faccia conoscere essere veramente questa la sua volontà.»

«Dichiariamo inoltre, che ben lungi dall’acconsentire a qualunque cambiamento nella forma di governo preesistente alla detta abdicazione del re nostro amatissimo fratello, considereremo sempre come ribelli tutti coloro de’ reali sudditi, i quali avranno aderito o aderiranno ai sediziosi, od i quali si saranno arrogati, o si arrogheranno di proclamare una costituzione, oppure di commettere qualunque altra innovazione portante offesa alla pienezza della reale autorità, e dichiariamo nullo qualunque atto di sovrana competenza, che possa essere stato fatto o farsi ancora dopo la detta abdicazione del re nostro amatissimo fratello, e quando non emani da noi, o non sia da noi sanzionato espressamente.»

«Nel tempo stesso animiamo tutti i reali sudditi, o appartenenti all'armata, o di qualunque classe essi siano, che si sono conservati fedeli, a perseverare in questi loro sentimenti di fedeltà, ed opporsi attivamente al piccol numero de’ ribelli, ed a star pronti ad obbedire a qualunque nostro comando o chiamata per ristabilire l’ordine legittimo, mentre noi metteremo tutto in opera per portar loro pronto soccorso.»

«Confidando pienamente nella grazia ed assistenza di Dio, che protegge la causa della giustizia, e persuasi che gli augusti Nostri Alleati saranno per venire prontamente colle loro forze al nostro soccorso nell’unica generosa intenzione da essi sempre manifestata di mantenere la legittimità dei troni, la pienezza del regio potere, e l’integrità degli stati. speriamo di essere in breve tempo in grado di ristabilire l’ordine e la tranquillità, e di premiare quelli che nelle presenti circostanze si saranno resi particolarmente benemeriti della nostra grazia.»

«Rendiamo nota colla presente a tutti i reali sudditi questa nostra volontà per norma della loro condotta.»

Contemporaneamente era investito il generale La Tour di pieni poteri dal nuovo re, il quale aveva già realmente invocato il soccorso dei Collegati tuttavia riuniti in Lubiana; onde l'imperatore Francesco I fece immediatamente muover truppe verso il Ticino, e in meno di un mese furono colà radunati ventisette mila uomini sotto gli ordini del general Bubna. L’imperatore Alessandro mise egli pure in movimento un esercito di cento mila uomini «per prevenire i funesti e pur troppo probabili effetti della rivoluzione militare scoppiata in Piemonte.(168) Letto appena il terribile decreto, Carlo Alberto convocò d’urgenza il Consiglio, il quale, prima d’ogn’altra cosa, deter

vvv T. iî. ivvv v v v v . «2‘; v 3 3‘ . r s. 3 -4 v v -r LIBRO IX minù di sospendere l’esecuzione dell’ultimo articolo, per timore che la mal repressa anarchia uscisse in questa occasione dai limiti, e gettasse il paese in preda ai maggiori disastri. Questa deliberazione venne presa all’unanimità. e fu spedito il cardinal Marozzo a Modena per dimostrare al re i fatti e le ragioni che avevano indotto il consiglio a questa arbitraria, ma, come reputavano, opportuna sospensione. Ma a che pro tenere il secreto in Torino, quando a Genova e'a Novara si pubblicava l’atto stesso dal De Genevs e dal La Tour, che lo ricevevano direttamente da Modena? Ciò saputosi poco dipoi. e aggiuntosi questo fatto ai severi termini del proclama. nacque dissidio fra gli stessi membri del Consiglio. V’era chi riteneva doversi quelle acerbe frasi riguardare come poste ad terrorem, e nulla più: contro questa opinione sorse il Villamarina in questi termini:

«Signori, io da lunga pezza conosco il duca del Genevese, ora nostro re. Alla maggiore rettitudine egli accoppia una volontà ferrea. Siate persuasi che fino all’ultima sillaba di ciò che esprime, manterrà. Quanto a me io protesto che non fui e non sarò ribelle giammai. Accettai il portafoglio da un’autorità legittimamente costituita, e nelle sue mani le riporrò quando il dovere lo voglia. Il reggente allora, prendendo a parlare, soggiunse: Né io fui, ne sarò ribelle giammai. L’esempio dell’ubbidienza verrà da me. Ma frattanto, finché io resto, nessuno deve intralasciare le proprie attribuzioni.»

A più forte ragione di tutti gli altri si esprimeva in tal guisa Carlo Alberto, avvegnachè il dispaccio recatogli dal Costa contenesse una lettera particolare a lui diretta dal re, della quale non credette prudente o necessario il far parte per allora al Consiglio. La lettera gl’imponeva di adunare a Novara le truppe, recarsi colà in persona, e mettere il supremo comando nelle mani del generale La Tour, attendendo dal medesimo gli ordini per quanto riguardava la sua persona. Terminava cosi:

«Vedrò dalla prontezza della vostra ubbidienza se siete ancora principe di Casa Savoja, o se avete cessato di esserlo.»

Finché egli sperò per un momento nella missione del cardinale Marozzo e in più miti dichiarazioni di Carlo Felice, sospese l’ottemperare a quella ingiunzione: ma divulgatosi bentosto il proclama per opera del De Genevese del La Tour, come abbiam detto, e resa vana ogni speranza di transazioni reciproche, egli non pose tempo in mezzo a risolvere. Né solamente a ciò lo determinava il debito d’obbedienza al suo re, ma un’altissima considerazione eziandio dei veri e più sostanziali interessi della sua patria. Avvegnaché non foss’egli ignoto come un potente partito a lui avverso cercasse con ogni arte di farlo escludere dalla successione dei reali di Savoia a vantaggio della casa di Modena, e fosse pronto a valersi d’ogni occasione ch'egli sconsigliatamente offerisse loro per conseguire tal fine. Egli adunque ritirandosi, oltre all’essere coerente a se medesimo, e seguire quella linea sulla quale erasi tenuto fino dal primo momento che gli fu conferita l’autorità, cioè la più scrupolosa legalità ed abnegazione, tutelò i supremi e vitali interessi della sua patria, i quali non è chi non veda quanto si sarebbero trovati lesi nel passaggio della corona a un principe austriaco. Questo punto dovevano più attentamente considerare coloro, che la di lui obbedienza al re Carlo Felice ed il suo ritiro chiamarono egoismo e tradimento(169).

La partenza del principe fu concertata secretamente per l’alba del 22 marzo, e dati gli ordini per la marcia delle truppe alla volta di Novara, malgrado la presenza di Santarosa, che, mandato dagli insorti d’Alessandria a stimolare il governo di Torino, e giunto nella capitale il di 21, fu nominato da Carlo Alberto ministro della guerra in luogo del Villamarina, che si dimetteva. Il reggente non vide però il Santarosa scusandosi per indisposizione di salute; la qual cosa fece nascere sospetto dei suoi disegni di partenza, ei più avventati pensavano già ai modi d’impadronirsi della sua persona sperando di potere con tal mezzo prolungare una resistenza, nella quale si trovavano destituiti d'ogni opportuno sussidio. Carlo Alberto, avutone sentore, accelerò la partenza: due ore innanzi la mezza notte trovavasi già sulla strada di Novara. scortato dalla cavalleria, per ordini preventivi in più stazioni divisa: l’artiglieria doveva seguirlo; e i secreti e precisi suoi comandi fecero riuscir vani gli sforzi del Santarosa, che cercò trattenerlo od impedirlo per via con un ordine mandato a Vercelli per mezzo di un corriere. che venne arrestato dai regj prima che arrivasse al suo fine. Incontro per istrada un altro reggimento di cavalleria e lo trasse seco. Giunto in Novara, immediatamente pubblicò che «allorquando aveva assunto le difficili incombenze di principe reggente, non per altro lo aveva fatto, fuorché per dar prova dell’intiera sua ubbidienza al re, e del caldo affetto che lo animava per il pubblico bene, il quale non gli permetteva di ricusare le redini dello Stato momentaneamente affidategli, per non lasciarlo cadere nell’anarchia: ma il primo suo giuramento solenne essere stato quello di fedeltà al re Carlo Felice. Pegno della sua fermezza nella giurata fede esser quello d’essersi tolto dalla capitale insieme colle truppe che eran rimaste fedeli, e il dichiarare che rinunziava da quel giorno all’esercizio delle funzioni di principe reggente. Altro poi non ambire che dimostrarsi il primo sulla strada dell’onore che l’Augusto sovrano gli additava, e dare così a tutti l’esempio della più rispettosa ubbidienza ai sovrani voleri.»

Eguale a se medesimo, il primo e l’ultimo suo proclama ebbero gli stessi ordini, i consigli medesimi, sperando sempre di potere evitare alla patria la sciagura dell’intervento straniero. Quegli inviti, dettati da vera carità cittadina, furono ricevuti tra le imprecazioni e le più insane maledizioni. Egli fermossi in Novara otto giorni, e poi. secondo gli ordini ricevuti da Carlo Felice, si recò per Milano e Modena a Firenze presso il Granduca suo suocero (per averne nel 1817 sposata la figliuola Maria Teresa) dove, poco dopo, fu raggiunto da tutta la sua famiglia.

Nel tempo stesso che Carlo Alberto segnava il suo proclama da Novara, un altro ne emanava il generale La Tour in conformità degli ordini ricevuti da Carlo Felice, col quale ordinava a tutti i militari dell’esercito piemontese di seguire l’esempio del principe di Carignano, solo scampo che rimanesse ad ‘ evitare le calamità ond’era minacciata la patria, non ultima l delle quali (dichiarava) sarebbe stata l’occupazione straniera.

Varj corpi di truppe e molti uffiziali recaronsi in fatti a quel mano IX m ‘ punto di riunione, ch’egli additava. Partecipò altresì La Tour a Santarosa (per mezzo di Cesare Balbo) le dichiarazioni di Carlo Felice, e gli ordinò di dimettersi dalla direzione del ministero della guerra cedendone il portafoglio al cavaliere Lesearene: ma esso rispose che avrebbe ubbidito agli ordini del nuovo re tosto che il medesimo. uscito dalla corte straniera, dove allora si ritrovava. fosse in istato di esprimere liberamente la sua volontà. Lo sgomento però che invalse per questi fatti nell’universale (onde i più giudicarono per ispacciata la causa della costituzione e si disposero a mettersi in salvo, come il principe della Cisterna ed il marchese di Priè, che si partirono per Ginevra) turbo talmente lo stesso Santarosa, che già deliberava di consegnare la cittadella di Torino alla guardia civica, e ritirarsi colle poche truppe a lui devote in Alessandria, quando ricevuta notizia che il reggimento Dragoni della regina. disertando da Novara, evasi recato in Alessandria, si rincorò e pubblicò (addì 25 marzo) il seguente ordine del giorno ai soldati:


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«Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, rivestito da S. M. Vittorio Emanuele dell’autorità di reggente, mi nominò con suo decreto del 21 di questo mese di marzo a reggente del ministero della guerra e marina.»

«Io sono un’autorità legittimamente costituita e in queste terribili circostanze della patria io deggio far sentire a’ miei compagni d’armi la voce di un suddito affezionato al re, e di un leale Piemontese.»

«Il principe reggente, nella notte del 21 al ‘29! marzo corrente, abbandonò la capitale senza informarne né la Giunta Nazionale né i suoi ministri.»

«Nessun piemontese dee incolpare le intenzioni di un principc,, il cui liberale animo, la cui devozione alla causa italiana furono sin ad ora la speranza di tutti i buoni. Alcuni pochi uomini disertori della patria e ligi dell’Austria, ingannarono colle calunnie e con ogni maniera di frodi un giovine principe, cui mancava l’esperienza dei tempi procellosi.»

«Si è veduto in Piemonte una dichiarazione sottoscritta dal re nostro Carlo Felice; ma un re Piemontese in mezzo agli Austriaci, nostri necessarj nemici, è un re prigioniero: tutto quanto egli dice non si può, non si dee tenere come suo. Parli in terra libera, e noi gli proveremo d’essere i suoi figli.»

«Soldati Piemontesi! Guardie nazionali! volete la guerra civile? volete l’invasione dei forestieri, i nostri campi devastati, le vostre città, le vostre ville arse e saccheggiate? volete perdere la vostra fama. contaminare le vostre insegne? Proseguite: sorgano armi piemontesi contro armi piemontesi; petti di fratelli incontrino petti di fratelli!»

«Comandanti dei corpi, uffiziali, sott’uffìziali e soldati! qui non v’è scampo se non questo solo. Annodatevi tutti intorno alle vostre insegne, afferratele, correte a piantarle sulle sponde del Ticino e del Po: la terra Lombarda vi aspetta. la terra Lombarda che divorerà i suoi nemici allo apparire della nostra vanguardia. Guai a colui che una diversa opinione sulle cose interne dello Stato allontanasse da questa necessaria deliberazione! Egli non meriterebbe né di guidar soldati piemontesi, né di portarne l’onorato nome.»

«Compagni d'armi! Quest’è un'epoca europea. Noi non siamo abbandonati. La Francia anch’essa solleva il suo capo, e sta per porgerci possente aiuto.»

«Soldati e Guardie nazionali, le circostanze straordinarie vogliono risoluzioni straordinarie. La vostra esitazione comprometterà tutto, la patria e l’onore. Pensateci. Fate il vostro dovere. La Giunta nazionale, i ministri fanno il loro. Carlo Alberto sarà rinfrancato dalla vostra animosa concordia, e il re Carlo Felice vi ringrazierà un giorno di avergli conservato il trono.»

Né alle parole soltanto limitandosi il ministro, spedì all'istante corrieri per tutte le parti del regno a mettervi in movimento le truppe. Cinque battaglioni della guarnigione di Genova, tre di quella di Nizza e di Savona, e tre di quella di Savoia ricevettero l’ordine di portarsi in Alessandria a marcie forzate. Fu nominato il generale Belletti al comando della divisione di Novara, in rimpiazzo del generale La Tour dichiarato disertore, e il generale Ciravegna a quello delle truppe ivi stanziate,commettendogli di appoggiare con quelle delle quali frattanto realmente disponeva, il generale Bellotti. Fu spedito a Vercelli il general Bussolino per concertarvi disposizioni d’accurdo con Ansaldi, confermato dal ministro nel comando di Alessandria. E nello stesso mentre fu ingiunto al generale d’Ison, comandante le truppe di Genova, di assumere il comando di quella divisione in luogo del conte De Genevs.

Dall’insieme di queste disposizioni chiaro apparisce come fosse mente del Santarosa il raccogliere quante più forze po tesse sul confine lombardo e romper quinci senza indugio la guerra. Ma egli medesimo, nelle memorie da lui dettate di questi avvenimenti, dichiara come non s’attendesse già egli gran fatto a veder fedelmente eseguiti gli ordini suoi, per quanto precisi e perentorj si fosse studiato di darli. Egli conosceva troppo bene i sentimenti dei governatori delle provincie e dei comandanti dei corpi per potersi ripromettere di vederli identificarsi alla causa, cui egli s’era oggimai irrevocabilmente consacrato. Pure non sospettò che primi ad avverare i suoi timori sarebbero stati il Belletti, il Ciravegna e il Bussolino sunnominati; e il primo specialmente, che, proscritto dall’Austria come parziale dell’antico regno d’Italia, andava debitore al governo costituzionale d'essere stato riposto in attività col grado di maggior generale. Egli adunque non rispose alla chiamata del ministro, stette in forse per qualche giorno, e fini col sottomettersi in vece al generale La Tour. Ciravegna, il c’ui spirito costituzionale non erasi spiegato che nella sera del tredici marzo, ma che pur continuava a mostrarsi assai caldo nei suoi discorsi, rispose da prima evasivamente, poi ad un tratto andette a riporsi in quella stessa Novara, che gli veniva ingiunto d’espugnare. Bussolino non fece caso di sua missione e finalmente scomparve.

Né erano queste le sole decezioni che affliggessero il ministro della guerra, nel quale può dirsi che tutta si raccogliesso la somma del governo costituzionale di Piemonte. In Savoia la dichiarazione di Carlo Felice non crasi potuta da principio pubblicare, non perché il numero de’ novatori vi fosse gran fatto considerevole, ma perché il reggimento d’Alessandria, che costituiva la maggior parte del presidio di Chambery, ne faceva preponderare le opinioni. Ma richiamate quelle truppe, come sopra abbiam detto, il conte di Andezeno, governatore di quella provincia, tenero della regia prerogativa, concertatosi coi primarj ufficiali delle rimaste truppe, nel di 26 marzo si recò sulla piazza di Chamberv circondato dal suo stato maggiore, ed ivi pubblicò la dichiarazione reale. Da quel momento tutto ritornò e si mantenne tranquillamente in Savoia nello stato in cui era prima che fosse decretata la costituzione.

In Nizza il cavaliere Annibale Saluzzo, che n’era governatore, aveva disegnato di radunare tutte le truppe della sua divisione, e, rinforzatele con buon numero di contadini, muovere sopra Torino per ristabilirvi il primitivo ordine di cose: ma Vittorio Emanuele si oppose a cosiffatto divisamento. Disciolse bensì la guardia civica e trattenne la brigata dei Cacciatori Guardie, che invano il Santarosa chiamava a sé.

In Cuneo, il governatore San Severino, aiutato dal Morra comandante i carabinieri della divisione. fatta pubblicare la protesta di Carlo Felice, si adoperava per inviare a Novara i soldati provinciali della brigata Cuneo, che raccoglievansi a Mondovì. Al compimento di questo disegno si oppose il conte Pavia, comandante dei cavalleggieri di Savoia stanziati in Savigliano, pel cui mezzo i provinciali di Cuneo ritornarono sotto gli ordini del ministro della guerra, e San Severino fu costretto a rifuggirsi presso il La Tour, il quale, tra per queste intelligenze, tra per le pratiche già aperte in Milano, si teneva omai g6 a certo di abbattere con un«colpo di mano il governo costituzionale. E forse conseguiva il suo fine coi soli proprj mezzi. dove non fosse stato il mutamento sopraggiunta in quei medesimi giorni nella città di Genova.

Giusto e mansueto, il conte De Geneys erasi da lungo tempo guadagnato l’affetto dei Genovesi; ma sinceramente devoto alla monarchia, pubblicava nel 21 di marzo la protesta di Carlo Felice, e partecipava ai Genovesi che il principe di Carignano già si era uniformato agli ordini del re. Genova, più repubblicana che costituzionale, non erasi gran fatto commossa alla notizia della rivoluzione di Alessandria: ma quando per la pubblicazione dei suddetti atti i compromessi, che pur ve. n’erano. s'accorsero degl’imminenti pericoli che loro sovrastavauo, credettero di scongiurarli coll’aiutare il movimento piemontese: e suscitato il popolo a rumore, fecero impeto contro il palazzo governativo. Stava col governatore la maggior parle del presidio, determinato a far testa all'insurrezione, la quale,titubante nel giorno 22, si mostrò determinata il di appresso ad usare i suoi ultimi espedienti. Il De Geneys, che abborriva dal sangue cittadino, volle arringare gl’insorgenti, ma furono inutili le sue parole; che anzi valendosi i più arditi di quella occasione, e mal difeso egli da’ suoi, gli furon sopra e lo presero.

Erano collocati sotto la loggia del palazzo, dove quell’atto si consumava, due pezzi d’artiglieria, dei quali, contro il volare del governatore, si valsero a quel punto gli ufficiali traendo a scaglia sul popolo; ma anziché sgomentarsi, inferocita più che mai per tal fatto la moltitudine, già poneva le mani sul De Geneys, e ne avrebbe fatto scempio se molti generosi non frapponevansi a tempo. Giunse altresì in quel punto per sua buona ventura il generale d’Ison, spedito, come sopra abbiam detto, dal Santarosa. il quale tanto si adoperò coi sollevati, che. mutato animo, aiutarono essi medesimi a trasportare il prigioniero semivivo in casa di un rispettato cittadino, Giacomo Sciaccaluga, dove gli furono prodigati i più opportuni e benefici soccorsi. Poco stante il popolo nominava un Consiglio Governativo composto del generale d’Iseo, del maggiore Cresia e dei cittadini Francesco Peloso, Emanuele Balbi, Carlo Baratta, Giacomo Chiappa, Girolamo Cattaneo, Girolamo Serra, Matteo Molfino, Luigi Morro, Andrea Tollot, e Giacomo Sciaccaluga. Lo stesso De Geneys approvava l’instituzione di questo consiglio colla sua firma a piè del rivoluzionario decreto.

Il successo di Genova rinfrancò l’animo ormai affranto del Santarosa, ma ben altro si richiedeva per dar valore e forza sufficiente ad una rivoluzione così poco favorita dal popolo, come per confessione dello stesso Brofferio abbiamo già avvertito in principio, e cosi mal secondata da quelli stessi che pur desideravano veder mutate le antiche condizioni del regno, i quali si dividevano in tre distinte fazioni. Eranvî i Riformisti, che desideravano qualche miglioramento nelle leggi civili e criminali, nella pubblica amministrazione, nelle magistrature, ed avrebbero anche accettato un Consiglio di Stato con voto consultivo, ma senza toccare gli ordinamenti politici dell’assoluta monarchia, che volevano conservata in tutta la sua pienezza. Questo partito componevasi di una parte della magistratura, del clero e dell’esercito, che, mantenendosi nei privilegi, voleva pure che si facesse qualche prudente concessione dai tempi richiesta. Ai Riformisti succedevano immediatamente i Costituzionali, che volevano introdurre in Piemonte gli ordini rappresentativi della Francia. E in questa classe di novatori entravano molti nobili, ai quali andava assai bene a versi la Camera dei Pari. e l’alto censo per la elezione dei Deputati, e l'articolo decimoquarto, che lasciava facoltà al Governo di sospendere la costituzione, avvegnaché non avesse ancora avuto luogo il tristo esperimento, che Carlo X n’ebbe a fare nel 1850. Venivano ultimi i radicali, che aspiravano al patto nazionale fondato dalle Cortes di Spagna, con una sola Camera e con ordinamenti affatto popolari. Non è du0po soggiungere che questo partito, sebbene il men numeroso, era il più 38 ardito ed intraprendente; e non dee recar meraviglia la discordia, che, dopo il suo trionfo, insorse fra quelle parti. E questa (dice lo stesso Brofferio) non fu l’ultima delle cause per cui il principe di Carignano si allontanò dal campo costituzionale. Santarosa parteggiava anch’egli per la costituzione di Francia; tuttavolta servi e difese la bandiera dei radicali, quando la lassezza degli uni e la improntitudine degli altri ebbero escluso ogni miglior modo di riforma.

Era quindi purtroppo natural cosa che da tanta disarmonia di principj derivasse disordine e confusione nei fatti. La Giunta torinese trovava fino dai primi giorni un’opposizione, prima velata, poscia più aperta, fra gli uomini stessi della rivoluzione; e l'organo di questa (la Sentinella Subalpina) il 31 marzo l’assaliva direttamente; ed in prova di diffidenza le ricordava com’ella facesse le veci di parlamento, e che doveva perciò deliberare in pubblico e non in privato. Chiamava quindi la sua condotta governativa una violazione dell’articolo 126 della Costituzione. Nell’esercito (tuttoché lusingato dal Santarosa e stimolato con gratificazioni di denaro)(170), non si trovò quel sussidio che si sperava, perché la dichiarazione di Carlo Felice aveva messo la dubbiezza e seminata la divisione fra coloro; che già in più modi avevano dato segni di esitanza. Le guardie reali palesavano apertamente le loro tendenze opposte alla rivoluzione; e quanto alla brigata Savoia fu necessario rimandarla in patria il primo di aprile col pretesto di riunirei contingenti. Quell’allontanamento della parte forse migliore dell’esercito, nel momento in cui il pericolo dal lato del Ticino ingrossava, mostra assai chiaramente come il governo versasse in gravi timori sulle intenzioni di quei soldati.

Temeva esso specialmente la presenza dei Reali Carabinieri, comandati dal colonnello Cavasanti. il quale si teneva senza mistero in aperta corrispondenza col generale La Tour. Continuava quel corpo nel servizio della polizia, ma ricusava di prestar giuramento alla costituzione, onde la Giunta viveva in grande sospetto, avvalorato da pubbliche vociferazioni che un complotto si stesse organizzando tra Novara e Torino per mettere in potere dei reazionarj il tesoro pubblico, i ministri, i membri della Giunta, e particolarmente Ì canonico Marentini suo presidente. Il governo poteva confidare nel presidio della cittadella e nella brigata Alessandria, la quale, sciogliendosi di per sé stessa degli ordini del colonnello Righini e commettendo il proprio comando ai capitani Ceppi e Pacchiarotti, era succeduta a quella di Savoia nel presidio della capitale. Riposava pure il governo nella guardia nazionale, non perché la credesse accesa d’entusiasmo per la rivoluzione, ma perché la sapeva disposta per amore dell'ordine ad opporsi ad ogni attentato che potesse turbare la pubblica tranquillità. Fermò pertanto il ministro della guerra di licenziare il colonnello con due ufficiali dei Carabinieri; e nel dubbio di qualche novità, ordinò al reggimento di Alessandria di schierarsi in prossimità della caserma sulla piazza di San Carlo.

Sul far della notte del 31 marzo, due compagnie di Carabinieri a cavallo slanciansi a gran carriera fuori della caserma. Alcuni di essi colla sciabola alla mano traversano di galoppo la via di Po e spargono lo sgomento nella capitale. Quale intendimento avessero costoro, non si seppe mai bene; forse è vero, come alcuni affermarono, che i Carabinieri, divisi in due parti, erano venuti fra loro alle mani nella caserma, e che i fedeli prorompevano allora nelle vie della capitale tentando di suscitarvi una contro-rivoluzione. Il reggimento d’Alessandria frattanto dalla Piazza di San Carlo-si era condotto in Piazza Castello, dove, in cospetto di quella cavalleria, si disponeva in quadrato e accennava di volersi difendere. I Carabinieri a cavallo, sebbene non ginngessero a due centinaia, scagliansi con furore sul quadrato. Alcuni soldati, in vece di aspettarli di piè fermo colla bajonetta abbassata, fanno fuoco. A mala pena riescono gli ufficiali a sventar colle sciabole i colpi micidiali e ad impedire che abbia luogo un dolor0so conflitto, di cui son vittime tre Carabinieri, una donna, ed alcuni inermi cittadini. Gli assalitori finalmente lasciarono il campo e corsero a Novara a riunirsi al generale La Tour. Gli altri di quell’arma rimasti in Torino "prestarono giuramento alla Costituzione.

Più ancora che per le interne difficoltà s’accoravano i compromessi Piemontesi per le funesta notizie. che loro frattanto pervenivano delle cose napoletane, non senza però cercare di persuadere agli altri ed a se stessi che d'ora in ora fosse‘ per giunger novella di qualche fatto, che ristorasse ad un tratto la fortuna di quelle armi e la sorte della rivoluzione in ambo i regni. Questa debole speranza non doveva però durar lungo tratto. e il repentino e final crollo di quella impresa era già noto in Torino nel primo giorno di aprile. Da principio vi fu negata credenza: ma quando non fu più lecito il dubitarne, e si vide sparita quell’ultima speranza degl’insorti, subentrò in loro un generale sbalordimento. Si fu allora che il conte Mocenigo, ministro di Russia a Torino, si profferse al cavaliere Dalpozzo e all’abate Marentini per trattare di pace; e sebbene non mostrasse di adoperarsi in tale faccenda a nome del sovrano da lui rappresentato, ma di suo spontaneo arbitrio, pure non lasciava di assicurar le persone, alle quali si era diretto, del vivo interessamento e della sollecitudine dell'imperatore Alessandro per una prospera pacificazione del Piemonte. Partecipava egli adunque «potersi evitare l’invasione austriaca con una pronta sottomissione al Re, la quale avesse per condizione un’amnistia piena ed intera ed uno Statuto qualunque atto a garantire gl’interessi della società(171)

Un tal progetto in sottoposto alla Giunta, la quale, dopo averlo maturamente esaminato e discusso, dichiarò accettare la mediazione del ministro russo, approvò le basi della pace da lui presentate, ma credette dover insistere caldamente sulla necessità di uno Statuto, come l’unico mezzo di stabilire la pace durevole e la prosperità del Piemonte. Firmatasi questa dichiarazione da tutti i membri della Giunta e dal ministero dell’interno, fu spedito in Alessandria l'abate Marentini incaricato di comunicarla ai capi costituzionali e di sollecitarne l'assenso.

Santarosa non si oppose a queste deliberazioni: caduto il governo costituzionale di Napoli, a’ suoi occhi erano affatto mutate le condizioni del Piemonte. e nulla meglio rimanevagli a desiderare che una pace che preservasse la patria dalla presenza dello straniero. Si astenne però dal sottoscrivere la dichiarazione della Giunta, non volendo che la sua sorte fosse diversa da quella de’ suoi compagni d’Alessandria, nel caso che questi non opinassero conforme eran richiesti. E a questi e al Mocenigo fe’ aperto che sino a quando non sapesse ultimate le trattative, avrebbe perseverato in tutti quegli atti che avesse stimati necessarj alla difesa del presente stato delle cose.

L’arrivo del Marentini in Alessandria destò una viva agitazione così nel popolo che nelle truppe, le quali non ben comprendevano ancora tutta la gravità dei casi presenti, e giudicavano come abbietto e vergognoso qualunque aggiustamento. che non avesse per base l’intatta conservazione della costituzione spagnuola. Ansaldi però non si oppose alle proposizioni del Mocenigo: solo voleva in qualche parte modificarle, e l’effetto ne sarebbe seguito, se il rapido incalzarsi degli avvenimenti non avesse tronco in sul nascere quei negoziati. Carlo Felice, pretermesso ogn'altro rispetto, aveva già invocato ed ottenuto l'intervento delle truppe austriache: e questo grave fatto veniva da lui stesso con solenni parole annunziata il giorno 3 di aprile a’ suoi sudditi:

«Per togliere a chi che sia qualunque pretesto d'ignoranza sul modo con cui risguardiamo la ribellione, dichiariamo ribelli tutti coloro i quali in qualunque modo osarono insorgere contro il re Vittorio Emanuele, e che tentarono d’immutare la forma del governo dopo la di lui abdicazione. Cosi egualmente chiunque, che, dopo avere avuta cognizione delle nostre precedenti proclamazioni, non ha alle stesse ubbidito. Volendo però usare clemenza verso quelli, che possiamo credere ingannati o illusi, accordiamo amnistia ai soldati, che rientreranno nel loro dovere. Dei bassi uffiziali, non otterranno da noi grazia che quelli, che, dopo maturo esame, si saranno particolarmente giustificati. Ma gli uffiziali, i quali hanno preso parte alle prime ribellioni delle truppe, o hanno seguito le bandiere dei ribelli, sono dichiarati felloni, e saranno accordati compensi pecuniarii a chi li consegnerà prigionieri all'armata fedele. Ordiniamo a tutti i bassi uffiziali e soldati, che trovansi all'armata ribelle di Alessandria 0 nella cittadella di Torino di ritornare alle loro case, e proibiamo ai contingenti di obbedire a qualunque ordine dei ribelli o di riunirsi alla loro armata. Dichiariamo che nell’addossarci il peso dell’esercizio della sovrana autorità riconosciamo che il primo dovere è quello di separare i pochi individui ribelli e sediziosi dalla maggiorità dei sudditi fedeli. Dichiariamo pertanto che per giungere a questo salutar fine (sdegnando ogni trattativa coi felloni) giudichiamo necessario che la parte dell’armata reale rimasta fedele sia sostenuta, nella ricuperazione dei paesi sconvolti dalla rivoluzione, dalle armate dei nostri Alleati; e perciò abbiamo invocato il loro soccorso, del quale siamo stati da essi assicurati coll’unico generoso scopo di assisterci nel ristabilimento del legittimo governo. Quindi ordiniamo che ogni buon suddito riguardi dette truppe come amiche ed alleate. Il primo dovere di ogni fedele suddito essendo quello di sottomettersi di vero cuore agli ordini di chi trovandosi il solo da Dio investito dell’esercizio della sovrana autorità e eziandio il solo da Dio chiamato a giudicare dei mezzi più convenienti ad ottenere il vero loro bene, non potremo più rin guardare come buon suddito chi osasse anche solo mormorare di queste misure, che giudichiamo necessarie. Nostra cura sarà di tutelare i buoni sudditi in modo che soffrano il meno possibile dei pesi inevitabilmente congiunti con misure, le quali poi debbono portare la loro soda felicità, e che questi pesi principalmente cadano sui felloni autori e rei di tutti i mali dello Stato. Nel pubblicare questi nostri vo- Ieri dichiariamo, che solo colla perfetta sommissione ai mcdesimi i sudditi si possono render degni del nostro ritorno fra di loro, e frattanto preghiamo Iddio che si degni di illuminare tutti ad abbracciare quel partito, al quale sono chiamati dal dovere, dall‘onore e dalla santa nostra religione(172)».

Questo terribile proclama non lasciava più luogo ad illusione veruna, e troncava di per sé stesso ogni trattativa del ministro di Russia a Torino. Gl’insorti d'Alessandria, i più compromessi di tutti quanti, tentando l’estremo dei loro mezzi, fecero, per l‘organo di Ansaldi, un violento appello alle truppe già riunite in Novara intorno al generale La Tour. Dichiarava l’Ansaldi in quello scritto il re Carlo Felice non libero della sua volontà, mentite le attribuzioni di La Tour, lui spergiuro e venduto all’Austria, ed incitava le truppe ad unirsi contro il comune nemico. Per tutta risposta La Tour moveva il giorno 4 colle sue truppe verso la capitale, forse col generoso intendimento di preservare la patria dall’intervento straniero, come certo sarebbe intervenuto se,non trovando impedimento per via, avesse potuto operare la controrivoluzione in Torino prima che gli Austriaci varcassero la frontiera: del che il paese e il re stesso avrebbergli dovuto sapere buon grado; quello, visto l’estremo a cui le cose erano giunte, questo per ragione d’onore. Ma per raggiungere uno scopo tanto desiderabile in quella congiuntura, gli abbisognava, lo ripetiamo, poter procedere difilato e senza contrasto al suo fine, lo che l’esercito costituzionale di Alessandria, facendoglisi incontro, non gli permise; e il La Tour, sebbene alquanto superiore di forze, non stimò doversi avventurare in un conflitto, il cui esito, qualunque fosse per essere, avrebbe pur sempre aggravate le calamità della patria.


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Appena adunque ebbe il La Tour trasferito il suo quartier generale a Vercelli accennando alla capitale, Santa Rosa dette ordine alle truppe costituzionali stanziate in Voghera e in Alessandria di raccogliersi a Casale per muovere incontanente verso la Sesia sotto gli ordini del colonnello Regis, che per essere reputato il più esperto degli ufficiali piemontesi, fu investito del comando supremo di quella impresa. Componevasi l’esercito costituzionale di due divisioni comandate, la prima dal colonnello San Marzano, la seconda dal colonnello San Michele. Formavano in tutto duemilasettecento cinquanta fanti, mille e ottanta cavalli con sei pezzi di artiglieria sotto gli ordini del maggiore Collegno. Il conte La Tour aveva sotto a’ suoi ordini dieci battaglioni, sedici squadroni, due batterie e qualche altro nodo di truppe di diverse armi: in tutto circa sei mila uomini.

Al colonnello Regis cosi scriveva il Santarosa nell’insignirlo del comando: «Presentatevi ai soldati di Novara colle armi al braccio: subite senza rispondervi il primo lor fuoco. Dessi n possono dimenticare per un istante che siete loro fratelli, ma se ne aVvedranno ben tosto al vostro atteggiamento.»

Belli ed onorevoli sentimenti al certo eran questi; ma sul campo di battaglia. là dove della sorte propria, e di quella che i combattenti chiamavano la causa della patria, doveva decidersi, affatto vani, come ben presto dovevano addimostrargli gli eventi.

Nel giorno 6, il colonnello Regis, diviso in due colonne il suo corpo, si pose in marcia speditamente: la prima colonna tenne la strada di Riva, la seconda quella di Cigliano. Il conte La Tour dal canto suo udite appena le mosse di Regis, ritiravasi in fretta, abbandonava Vercelli, rivarcava la Sesia e ponevasi a vedetta in capo al ponte.

In prossimità di Vercelli il generale Belletti, passato già con Bussolino e Ciravegna dalla parte delle regie schiere, presentavasi all’antiguardo dei costituzionali in qualità di negoziatore pel generale La Tour. Allegando la necessità di risparmiare fraterno sangue, invitava il colonnello Regis a conferire col generale Gifflenga alle dieci della notte in Borgo Vercelli; poi conchiudeva demandando una tregua.

Il desiderio, che certamente avevano i costituzionali di evitare possibilmente la guerra civile, non permise loro di rifiutare le proposte del Belletti. Ma giunto Regis, accompagnato da Lisio e San Marzano, al luogo del convegno, non trovò il generale Gifflenga; e non seppe il generale Faverges, comandante del retroguardo Novarese, giustificare quel mancamento.

Nel mattino del 7 il colonnello Regis riprese assai tardi il suo movimento, e quando la testa della colonna arrivava al ponte della Sesia, il generale Belletti comparve nuovamente ad arrestar la marcia dei costituzionali, proponendo una seconda conferenza alla cascina detta La Graziosa. E la proposta venne di nuovo accettata.

Le truppe in una sola colonna procedevano lentamente sulla gran strada di Novara, aspettando di ora in ora i parlamentarj: ma l’intera giornata passò senza vederli comparire. Si spedivano ufficiali un dopo l’altro a Novara, ma 0 tornavano senza risposta o più non tornavano. Finalmente verso notte ogni speranza di venire a patti disparve.

È stato accusato il La Tour di avere cosi tenuto a badai costituzionali per dar tempo ai Tedeschi di sopraggiungere, e si sono lanciate contro lui le più crudeli imputazioni. Il fatto è senza dubbio verissimo: ma oggi, che più freddamente possiamo giudicare quei lagrimevoli avvenimenti dobbiamo assolvere quel generale dall’accusa di amico dello straniero, e ne 33 mico dei proprj fratelli, che allora venne da ogni parte scagliata contro di lui. Avvegnaché essendo al di sopra d’ogni suo. mezzo l’impedire l’entrata degli Austriaci nel regno, che altro gli rimaneva in quell’estremo frangente se non aspettarne l’arrivo e ritardare fino a quell’ora un immanchevole conflitto, che, per la immensa sproporzione delle forze, sarebbe stato più breve e per ciò stesso meno esiziale? Dio preservi ognuno da così orribili congiunture: ma siano gli uomini abbastanza imparziali da giudicarle senza passione di parte.

E d’altronde importante a notarsi un fatto pretermesso dagli storici parzialmente favorevoli alla rivoluzione. E questo è che il general Balma, comandante gli Austriaci sul Ticino. prima di passare la frontiera, scrisse a La Tour di partecipare alle truppe sollevate che «se fermavansi, avrebbe atteso l’esito dei negoziati del Mocenigo, che ancora potevano continuarsi. Se per altro passavano la Sesia, egli avrebbe varcato il confine, ed esso sarebbero responsabili degli avvenimenti.»

Il La Tour comunicò effettivamente tale annunzio al Regis; ma questi considerandolo qual semplice stratagemma non vi prestò alcuna fede e continuò la sua marcia(173).

Al rifiuto pertanto dei Costituzionali di sospendere il loro avanzamento, La Tour e Bnbna si regolarono per-agire d’accordo. Questi avanzossi immediatamente da Boffalora con otto mila uomini presso Novara, e nel tempo stesso diresse con altri distaccamenti i generali Lillemberg da Abbiategrasso a Vigevano, Vescey da Pavia a Valleggio, e Neiperg da Piacenza a Tortona. La Tour rimase in Novara con parte delle sue truppe, e collocò le altre alla destra della città sotto gli ordini del maggior generale Faverges. Bnlma si accampò alla sinistra.

Tutti questi movimenti si consumarono senza che i Costituzionali se ne accorgessero, tantoché mentre sull’alba del giorno 8 stavano essi per occupare le posizioni della Bicocca e di San Martino, e nutrivano tuttavia la speranza di vedere i regi congiungersi fraternamente con loro, fu per essi un punto solo il trovarsi fulminati dalle artiglierie della piazza, e minacciati da squadroni austriaci, che accennavano d’inoltrarsi per la via di Bobbio. In tale condizione di cose, troppo tardi conosciuta da Regis, non rimaneva a questi che pensare alla ritirata; e non potendo per la qualità del suolo distendere la cavalleria, ordinava che i fanti della divisione San Marzano si raccogliessero in capo il ponte dell’Agogna, mentre i cavalli difilerebbero. Cosi fu fatto: e intanto all’estrema sinistra due compagnie dell’artiglieria di marina respingevano vivacemente un battaglione che usciva da Novara e cacciavanlo nei fossi della città.

Appena la cavalleria fu schierata in colonna sulla via di Vercelli, le truppe che difendevano il ponte dell'Agogna cominciarono a scaloni la ritirata. Formavano l’ultimo retroguardo il primo battaglione di Monferrato, la compagnia della Legione comandata da Ferrero, e due drappelli de’ Dragoni del Re. I regj, vedendo dalle torri di Novara la difficile condizione dei Costituzionali, raddoppiarono il fuoco delle artiglierie, e fecero impetuose cariche contro l’ultima colonna, finché un reggimento di Ussari Austriaci si scagliò sopra i due drappelli di dragoni che chiudevano la marcia.

Cacciati dal numero, i Dragoni sparpagliansi fra il reggimento di Monferrato, e vi recano qualche disordine: accorre la colonna San Marzano, e la cavalleria austriaca si contiene. Ma già le notizie dei disastri e il terror panico si erano fatto strada nell’animo dei più, e' la stessa fanteria, che sino a quel punto erasi ritirata con ordine, cominciò a sgomentarsi. Regis si travagliò indarno per prender posizione a Cameriano. Lisio bensì schierato il suo reggimento de’ cavalleggieri sul davanti del villaggio di Borgo Vercelli, fece ancor testa coraggiosamente al nemico. Ma era facile a quest'ultimo, mercé la sua numerica superiorità, agire in più direzioni, e già alcuni drappelli austriaci, guadata in luoghi agevoli la Sesia, stavano sotto Vercelli. Bisognò quindi precipitare la ritirata, e i soldati giunti a Vercelli nel massimo scompiglio, non ascoltando più le voci dei capi, si dispersero per le campagne, solleciti la maggior parte di rifuggirsi alle loro case ((174).

Lisio con un drappello di retroguardia tentò di nuovo di arrestare l'inimico, ma invano: ché circondato egli stesso non fece poco a cavarsegli di mano. Anche il capitano Rolando, raccozzato uno stuolo di Dragoni, torna alla carica allo sbocco del ponte della Sesia: ma tutti questi sforzi d’individuale valore non valevano ad impedire l’avanzarsi del nemico e a cangiare le sorti della giornata. Le campagne erano coperte di soldati dispersi. Indarno gli uffiziali si adoperarono quanto tu in loro a riordinarli: non appena ricomposto un distaccamento, già si sbandava. Le poche truppe rimaste ancora intorno lo stendardo, e che intendevano a Torino per Casale, dove era giunto il colonnello Regis, trovata quella via di già interrotta. affrettaronsi a passare il Po parte a Crescentino, parte a Chivasso. Così in meno di dodici ore l’esercito costituzionale aveva cessato d’esistere.

Giunta a Torino, nella sera stessa dell’8, la notizia della disfatta, affrettossi Santarosa ad ordinare la ritirata, prima sopra Alessandria, ove sperava resistere momentaneamente al nemico, poscia su Genova per tentarvi un’ultima disperata difesa: ma poco dipoi, veggendo che San Marzano e Lisio non erano coi loro sforzi pervenuti a ricondurre a Torino se non che miseri avanzi, e inteso ancora che 1tegis non poteva più tener fermo a Casale, in procinto di essere occupata dagli Austriaci, mentre un’altra loro colonna minacciava Voghera, dovette persuadersi che l’estremo fato della rivoluzione era giunto.

Radunata la Giunta, annunziolle com’egli si disponesse a partire per Alessandria, e, dove questa strada gli fosse resa impossibile. per Genova, onde organizzarvi possibilmente una estrema difesa; e la invitò a seguirvelo non senza farle aperta ad un tempo tutta l’estensione dei disastri ond’erano colpiti. La Giunta non opinò di seguitarlo: prese invece il partito di rassegnare alle autorità municipali la cura del governo, nel tempo stesso che la cittadella veniva affidata alla custodia di un battaglione di guardia nazionale. Una numerosa deputazione del corpo decurionale assistette a quell’ultima seduta, nella quale le misure atte a mantener l’ordine e la pubblica quiete furono zelantemente concertate fra uomini, che sebbene nelle politiche loro opinioni discordi, pure sentivano esser turpe cosa sacrificar a queste il paese, e adoperaronsi a gara per preservarlo.

Il tesoro reale, pingue d’ingenti somme, malgrado le gravi spese occasionate da quegli avvenimenti, fu rispettato. 11ministro della guerra chiese solo ed ottenne dalla Giunta la somma di 150.000 franchi per sopperire alla sussistenza e alle paghe delle truppe, che partivano da Torino.

Nella sera stessa dell’8 arrivava in Torino il generale Guglielmo di Vaudoncourt accorso da Losanna ad offerire i suoi servigi ad una causa, ch’egli non reputava condannata a cosi misera fine. Accettò ciò non ostante il comando degli avanzi dell’esercito, che in dispersi drappelli venivano sopraggiungendo.

Le truppe costituzionali lasciarono Torino nella mattina del 9 aprile, in numero però di due soli battaglioni, giacché un battaglione della legion reale leggiera, e l’artiglieria vollero rimanersi. La città di Torino era trista, ma tranquilla. La guardia nazionale entrò nella cittadella a mezzogiorno in presenza di Santarosa, che partì ultimo.

Egli prese la strada d’Acqui sul timore che quella di Asti ad Alessandria potesse venire da un momento all’altro, come t ne correva voce, occupata dal nemico: e in Acqui ebbe ad apprendere dal Collegno l’annunzio di un’ultima sventura. Presidiavano Alessandria il reggimento Genova e la legione dei Veliti di Minerva, sotto il comando del colonnello Ansaldi, come fin da principio fu detto, il quale, come portava la sua natura, la forza de’ suoi convincimenti, e la sua estrema compromissione, era deliberato a resistere con tutti i mezzi di quella forte piazza agli Austriaci, ai quali certamente quella fazione sarebbe costata molto tempo e molto sangue. Ma l’idea di un lungo assedio turbò ben presto la mente delle nuove reclute, che in gran parte componevano il reggimento Genova, e sulle quali divenne affatto impotente l’autorità degli ufficiali: agli ordini rispondevano coll’inobbedienza. alle minaccie colle insolenze. ai castighi col ribellarsi apertamente. Ansaldi fece voltare contr'essi le artiglierie e per poco li contenne. Ma venuta la notte, ricominciarono i disordini e più provocante si fece la ribellione. Il sangue stava per isgorgare, allorché con buone o con ree intenzioni venne dischiusa la porta di soccorso, e sul far del giorno la cittadella si trovò sprovveduto di difensori.

Ansaldi, a tutto disposto, avrebbe voluto chiudersi egli solo nella fortezza cogli studenti e colla guardia nazionale per sostenere sino all'ultimo l’onore del nome italiano. Ma la diserzione aveva seminato lo scoraggiamento, e nulla più era possibile dei tanti sogni ch’egli aveva fino a quel punto accarezzati. Gli era adunque forza partire: gli studenti, pochi soldati e qualche cittadino si strinsero con lui disposti a seguire la sua fortuna; e insieme dissero addio alle torri di Alessandria, e pei campi di Marengo si volsero alla Liguria.

Appena intesa la fatale novella, Santarosa co’ suoi si volse pur egli difilato su Genova, Ultimo rifugio, speranza estrema a quei vinti. Ma un altro disinganno lo attendeva.

Non si tosto la capitale della Liguria ebbe intesa la rotta di Novara, si conturbò. Quando poi ebbe più certe nuove dell’ingresso del generale La Tour in Torino, e seppe che da Stradella e da Bobbio il generale Neiperg, da Tortona e da Voghera il generale Vescey marciavano alla sua volta, piegò il capo agli eventi, e smettendo l’autorità cittadina si raccomandò all’assistenza di quello stesso generale Des-Geneys, che pochi giorni innanzi essa aveva violentemente cacciato.

Chi dirà il dolore di Santarosa, di Ansaldi, di Collegno. di Lisio, di Regis e dei pochi, che ancora si trovavano raccolti sotto il tricolore vessillo, al vedersi, giunti in cospetto di Genova, chiuse in viso quelle porte, entro le quali l'ultima loro salute, l’ultimo raggio di speranza tuttavia riponevano quegli infelici! Se però Genova non li accolse come rappresentanti di un’idea, che aveva per allora cosi male fruttificato. non venne meno in essa la carità cittadina. Trattenuti i Costituzionali a San Pier d'Arena, vi trovarono ogni più gentile accoglienza, e lo stesso Des-Geneys gareggiò coi Genovesi a soccorrere i vinti colle più affettuose sollecitudini. Se il governatore avesse voluto, i capi della rivoluzione sarebbero tutti caduti in mano di quel terribile tribunale, che indi a poco vedremo essere stato cosi prodigo di sentenze di morte. Ma egli vide, tacque, soccorse; e dinanzi agli occhi suoi si allestirono le navi che a Marsiglia, a Atene, a Barcellona portarono quei figli della sventura ((175).

Altri si rifugiarono in Isvizzera. Furono circa mille dugento i Piemontesi, che abbandonarono in tale congiuntura la patria.

Del resto La Tour e Bubna progredirono insieme da Novara fino a Vercelli. Concertate quindi le ulteriori operazioni, La Tour avanzossi coi Piemontesi a Torino, dove entrò nella sera dei 10 di aprile, mentre gli Austriaci occupavano nello stesso giorno Casale, Tortona e Bobbio, e nel di seguente Alessandria coll’abbandonata cittadella. Bubna diresse quindi la sua avanguardia verso Genova, dove si ristette dal pervenire quando un’apposita deputazione gli ebbe notificato lo spontaneo cambiamento colà intervenuto, dichiarando al Des-Geneys «che niun altro scopo avendo l’entrata dell’esercito imperiale nel regno se non quello di ristabilir vi l’obbedienza al sovrano, non trovava alcuna difficoltà a trattenersi dallo spinger oltre le truppe, quando l’intera sottomissione al re era ristabilita; che cosi operando si uniformava alle intenzioni del suo augusto signore e dei suoi eccelsi alleati; che però fosse ognuno persuaso che nessun'altra considerazione avrebbe potuto trattenerlo dal procedere risolutamente.»

Cosi compivasi il periodo di quella rivoluzione.

Il giorno I9 aprile Carlo Felice istituiva suo luogotenente-generale nel regno il cavaliere Thaon di Revel, duca di Pratolongo, già governatore di Torino, il quale annunziò ed assunse il nuovo ufficio colla seguente proclamazione del giorno 26:

«Nell’assumere le gravi cure di governo dei Il. Stati, che piacque a S. A. B. il signor duca del Genevese(176), per la di lui assenza, affidarci, nella qualità di suo luogotenentegenerale, colle patenti del I9 aprile, abbiamo dovuto rivolgere l’attenzione alla ribellione dei traviati, macchinata col mezzo dei tradimenti, e dalla più scandalosa insubordinazione di alcuni corpi e persone militari eseguita,all’oggetto di rovesciare l’ordine legittimo di cose, che sotto il paterno reggimento di S. M. il re Vittorio Emanuele e degli augusti reali suoi predecessori avea finora fatto l'ammirazione dell’estero ed apportato ai sudditi una sempre crescente prosperità. A soddisfare la vindice giustizia non basta l’esecrazione nella quale sono e saranno i colpevoli presso tutti i buoni e fedeli sudditi di S. M.; la stessa giustizia altamente chiede la punizione, conformemente alle vigenti leggi, di tutti coloro che vi hanno partecipato: e siccome in tali delitti si troverebbero implicati individui assoggettati a diverse giurisdizioni, e d’altronde l’unità o connessione dei fatti e le relazioni che vi potessero essere fra i rei importano la necessità che da una sola autorità se ne prenda la cognizione e ne emani la debita punizione; perciò, valendoci noi dei poteri dei quali siamo investiti, nell'avocare a Noi la cognizione di tutti i delitti sopra divisati coi loro annessi, connessi e dipendenti, e con derogare ad ogni legge, ordine e stabilimento in contrario, abbiamo determinato e prescritto come segue:

«1.° È creata una Delegazione composta di personaggi legati e militari per conoscere, esclusivamente ad ogni altro magistrato o tribunale, dei delitti di ribellione, tradimento, insubordinazione ed altri, stati commessi all’oggetto di operare e sostenere lo sconvolgimento del legittimo governo di S. M. eseguito nello scorso mese di marzo.

«2.° Sono nominati membri di questa Delegazione:

S. E. il signor conte di Varaz cavaliere del supremo or dine della SS. Annunziata cc. cc. che ne sarà il presidente, e i signori (seguono i nomi in numero di 11)………….

«3.° La Delegazione non potrà giudicare in numero minore di 7.

«4.° L’Uditorato generale di guerra instruirà, con intervento del R. Fisco militare, i procedimenti contro ogni accusato, che occorreranno farsi in questa capitale.

«Ed avendo ad instruirsene, ed essendovi informazioni da assumersi, od incumbenti da appurarsi nella provincia, il presidente uditore generale di guerra ne farà la commissione, colla partecipazione ed annuenza della Delegazione, a quei soggetti, che da essa saranno prescelti.

«5.° Le conclusioni fiscali in tutti i suddetti procedimenti avranno sempre a farsi dall’uffizio,del sig. avvocato fiscale generale in questo R. Senato di Piemonte.»

Come e con quali risultamenti procedesse la Delegazione saremo per vedere nel Libro X. A compimento del presente soggiungeremo soltanto, che avendo Carlo Felice, come più addietro accennammo, sospeso l'assumere il titolo di re, finché Vittorio Emanuele, libero da ogni vincolo di reale o presumibile coazione, avesse di nuovo manifestata intorno a ciò la sua volontà, questi dichiarò apertamente sotto il 19 di aprile che «dal primo momento in cui l’abdicazione da lui fatta nel tredici di marzo era stata conosciuta dal suo fratello duca del Genevese, a cui in seguito dello stesso atto spettava la corona, questi gli aveva costantemente manifestato il suo ardente desiderio di vederlo ripigliarle redini del governo, e ciò per il vivissimo affetto che gli portava, e perché considerava come nullo e forzato un atto emanato in si luttuosa circostanza. Persuaso egli però che le esimie qualità di suo fratello non potevano che assicurare la felicità dei popoli che la divina provvidenza aveva affidato al suo governo, e per l’altra parte mosso dalle cause accennate nell’atto stesso, si era determinato di sua piena volontà a confermare l’abdicazione fatta nel giorno tredici del precedente marzo alle condizioni espresse nel medesimo atto, pregando instantemente il carissimo suo fratello duca del Genevese di assumere il governo e il titolo di re, ed assicurare cosi la felicità de’ suoi popoli(177)

Allora Carlo Felice assunse finalmente il titolo, sebbene non facesse ritorno ne’ suoi stati che nell’ottobre, dopo compiti gli atti di severa indagine e punizione, che saremo per esporre nel seguente libro. Gli Austriaci non poser piede né in Torino né in Genova. Occuparono bensì e tennero Alessandria e gran parte del regno da prima con ventisette mila uomini, poi con quindici, poi con dodici mila, finché nel settembre del 1825 lo evacuarono affatto, come saremo per vedere a suo luogo.


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NOTE

1 Il Botta ha tolto da uno scrittore straniero (De Potter) il cenno di un governo deliberativo, che si pretende essere stato ideato da Leopoldo per la Toscana; e non vedendo effettuata tale idea, egli dubita poi se Leopoldo l'avesse veramente, o la lasciasse a visti i mali prodotti da quelle assemblee in paese illustrato da sole caldo. Ma s' ei l'ebbe e la lasciò, crede il Balbo che l'abbandono fosse effetto della solita ripugnanza, che hanno i principi, e che avevano specialmente quelli del secolo scorso, a far concessioni a carico della propria autorità. Noi allargando l'argomento, e considerando inoltre, che Leopoldo, chiamato alla successione dell'Impero, non potesse in verun modo voler stabilire un precedente, che l'avrebbe in certa guisa obbligato ad operare il simile in un campo, dove ciò gli sarebbe tornato necessariamente impossibile, crediamo che non egli, ma qualcuno di que suoi illuminati consiglieri, il Gianni forse, di cui mano è lo scritto del progetto sopra discorso, lo concepisse, e cercasse di farlo accogliere dal Principe; ma in effetto si rimanesse fin dall'origine un lodevole desiderio e nulla più.

2 L'abate Bertola nel 1787, appena due anni innanzi la convocazione degli Stati Generali a Parigi, scriveva una filosofia della storia, nella quale talmente esaltava la perfezione dei sistemi politici del tempo suo, che non temeva inserirne essere ormai assicurati i popoli dalle sovversioni; poche riforme essere ancora ad operarsi, e queste tranquille; né l'Europa dover più temere rivoluzioni!

3 Non contando i contingenti Piemontesi e Toscani, che vennero via via ingrossando gli eserciti dell'Impero, cui quelle provincie italiche erano state riunite, Napoli aveva nel 1812 cinquanta mila uomini in armi, e il Regno d'Italia settantacinque mila, tutte genti così presto e così bene addestrate alla guerra, che in Ispagna ed in Russia, nei più duri e difficili esperimenti, pareggiarono sempre e spesso superarono il valore delle più vecchie e reputate milizie.

4 A Sant'Elena ha cercato Napoleone scolparsi di quest'accusa, dichiarando che l'unione e l'indipendenza d'Italia era tra suoi concetti fondamentali, e che solo aveva ritardata quell'opera per meglio predisporvi il paese, e prepararlo a questo gran fine col fonderlo e rifonderlo in vari modi, onde ne scomparisse ogni resto delle antiche gelosie municipali. Noi non crediamo a queste postume dichiarazioni, e ci torna presente, a confermarci nella nostra incredulità, un suo detto medesimo, che svela l'intimo suo pensiero in questo argo-. mento, e del quale non possiamo porre in dubbio l'autenticità, per la natura del personaggio, che a noi l'ha riferito e che si trovò presente ad udirlo. Murat, reduce di Spagna, intrattenendo un giorno Napoleone del valore dimostrato dagli Italiani in quella guerra, proruppe con moto generoso: Gl'Italiani son degni d'essere costituiti in nazione. Perché V. M. , che sola lo può, non compie questa grand'opera? Al che soggiunse subito Napoleone: Mon cher, vous n' v pensez pas: ils seraient bientòt les maitres des Gaules.

5 Castlereagh, plenipotenziario inglese al Congresso di Vienna, interpellato dal parlamento sopra il mercato di popoli fattosi dai re, osava dire, parlando dell'Italia: «I pregiudizi dei popoli non meritano riflesso se non quando non si oppongono a uno scopo prestabilito.°ra le potenze confederate essendosi obbligate a garantire la sicurezza dell'Europa, questa sicurezza generale ci obbligava a far violenza ai sentimenti degli Italiani. Questa conclusione avevano le promesse del 1814: questi son sempre i servigi, che l'Italia deve attendersi dallo straniero.

6 Abbiamo veduto a suo luogo, pag. 585, come altamente, sebbene invano, la corte di Roma protestasse contro siffatta usurpazione.

7È attribuita questa frase al Principe di Metternich.

8 L'atto d'adesione fu firmato da Ferdinando il di 26 settembre 1813, come abbiamo veduto a pag. 570.

9 Vedasi a pag. 571.

10 Per tacere di molt'altri, accenneremo due soli notevoli fatti di pirateria, l'uno del 1797, l'altro dell'ottobre del 1815. Il primo concerne il Principe di Paternò, uno dei più ricchi signori di Sicilia e di ricchezze millantatore orgoglioso. Veniva egli di Palermo sua patria agli uffici di corte in Napoli sopra una nave greca oltomana, che per ciò doveva reputar franca dal pericolo dei pirati, e sulla quale erano altri signori ed un mercante di gioie. Per tanta ricchezza accesa la cupidigia del capitano, si accordò coi pirati che scorrevano i mari della Sicilia, e fu predato il legno poco lontano dal porto, prese le supellettili preziose e portati in schiavitù i passeggieri. Il Principe interpose inutilmente gli uffici del governo presso la Porta Ottomana, e non fu reso alla libertà che col riscatto di un milione di piastre, oltre la perdita di dugentomila ducati che aveva seco.°nde scemò d'assai la ricchezza della sua casa. Il fatto del 1815 fu consumato nell'isola di Sant'Antioco presso la Sardegna, ove una banda di Tunisini portò via, oltre tutte le ricchezze che potè raccoglier nelle case, un centinaio di persone, che furono ridotte in schiavitù.

11 Martens, Recueil ec. Tom XVI. pag. 21.

12 Martens, loc. cit. , pag. 88 e 9o.

13 Collezione delle leggi del Regno delle Due Sicilie 1818. nn. 1169 e 1160.

14 Gli ultimi rivolgimenti Italiani, Vol. I, Par. 2. pag. 267.

15 Gladstone, Lettere a lord Aberdeen.

16 Opera citata, Tomo III, pag. 288 e 5o3.

17 La somma fu poi di nuovo richiesta con perentori argomenti nel 1853, e questa volta pagata.

18 Pagina 179.

19 Carlo IV era nato in Napoli l'anno 1748: ne parti con Carlo III suo padre nel 1759: gli succedette sul trono di Spagna nel 1788: abdicò a Bajona nel 1808: quasi tutto il tempo successivo lo passò in Roma. Fu buon uomo: altra lode di lui non consente la verità della storia. Essendo già egli in Napoli, morì in Roma nel 1818 la regina di Spagna sua consorte.

20 Pagina 175.

21 Era succeduto a Guglielmo Bentinck, ministro d'Inghilterra presso la corte di Napoli, Guglielmo A Court, come abbiamo precedentemente veduto; i quali per la diversa opera loro ebbero dai Siciliani il titolo, quello di Guglielmo il Buono, questi di Guglielmo il Malo, come già i due re di Sicilia.

22 Pag 179.

23 Cost. di Sic. Della success. al trono, art. 6, § 15.

24 Queste istruzioni erano in trenta articoli, onde furono proverbialmente dette la riforma delle trenta linee: la sostanza era: il re proponesse al Parlamento le leggi e i sussidi: sei magistrati, impiegati del re, sedessero nella camera dei Pari: ammessi gl'impiegati nella camera dei Comuni: potesse il re metter fuori editti e regolamenti per l'esecuzione delle leggi e la sicurezza dello stato: la libertà della stampa e delle opinioni fosse ristretta con le stesse leggi di Luigi XVIII, con la censura dei giornali e degli opuscoli minori di 20 pagine: le contribuzioni ordinarie restassero immutabili e adattate a tutti i pesi dello stato: si confermassero dal parlamento ogni quattro anni con quelle modificazioni, che potessero occorrere: le straordinarie durassero secondo i bisogni pel tempo stabilito dal Parlamento: al riacquisto di Napoli il re avesse la sovranità dell'uno e dell'altro regno: lasciassene per altro l'esercizio a un luogotenente di sangue reale residente in Sicilia quand'ei s'allontanava: unico l'esercito e unica l'armata di Napoli e Sicilia: gl'impieghi di Sicilia ai Siciliani, ma le cariche diplomatiche e militari si accomunassero.

25 Palmieri. Costituzione di Sicilia ec. cap. XX.

26 Anche in Palermo è questo il nome di una delle principali strade della città.

27 Atto finale del Congresso di Vienna, art. 111. Le parole dell'articolo sono queste: «S. M. Ferdinando IV è ristabilito per sé e suoi successori sul trono di Napoli, e riconosciuto dalle potenze come Re del Regno delle Due Sicilie. »

28 Di quanto momento fosse per Ferdinando quella nuova denominazione appare anche dal suo decreto 12 aprile 1819, col quale accordò una gratificazione di 120 mila ducati al principe di Castelcicala suo rappresentante al Congresso di Vienna, per la sua cooperazione alla riunione di tutti i reali domini in un sol regno. Palmieri, Saggio sulla costituzione di Sicilia, Cap. 21.

29 Collezione delle leggi del Regno delle due Sicilie, num. seg. – Il primo Consiglio componevasi di dodici consiglieri ordinari, cinque straordinari, otto referendari: era dei referendari l'informare, degli ordinari il consigliare; e solamente nelle adunanze generali, gli straordinari davano voto. Il Consiglio, diviso in tre camere, provedeva all'amministrazione delle comunità, e alle fon dazioni pubbliche o religiose; ma non punto alle imposte o alla finanza, né alle amministrazioni di stato o di provincia. Il voto era consultivo; l'esame secreto, sopra mandato di un ministro, e a quello istesso rispondeva il Consiglio.

Il Consiglio di Stato non aveva facoltà né tornate ordinarie: sceglieva il re i consiglieri, che gli pareva di udire: consultivo il voto; secrete le adunanze e i pareri. Questo poteva anche meno sul re, che l'altro sui ministri,

30 Collezione delle Leggi del Regno delle Due Sicilie, num. 567.

31 Pag. 174.

32 Nell'articolo 7.° di quel trattato, la Spagna vi consentiva sotto condizione per parte del nuovo re di «aprobar, consirmar v ratificar todos los privilegios, immunitades, erempciones, libertades, stilos v otras costumbres de que cl dicho reino goza d ha gozado per lo pasado. »

33 Palmieri, op. cit. , cap. VIII.

34 A questo articolo dovevano farsi delle modificazioni, alle quali tolsero luogo gli avvenimenti posteriori.

35 Gl'Inglesi non disconoscevano la delicatezza della loro posizione rispetto alla Sicilia, i cui privilegi avevano energicamente difesi nel 1812 contro il re stesso, che tentava di metterli in non cale. Ma non bisogna perder di vista, che non aiutaron mica i siciliani per tenerezza di cuore o per rispetto della giustizia. Gl'Inglesi non potevano offender Napoleone che alle estremità del suo impero, nelle due penisole: d'onde ognun vede se la Sicilia fosse luogo importante per essi in quella guerra. E in Sicilia è naturale che non volessero altro nemico che il ne. mico: perciò quando la corte di Palermo cominciò, dopo la conferenza di Tilsitt, ad ascoltare le lusinghe di Napoleone, a mostrarsi rimessa nell'amistà inglese, e a provocare qualche grave rivoluzione contro il loro interesse, gl'Inglesi cominciarono a considerarsi mal sicuri o almeno esposti a molte molestie; e avendo pagato il re di Sicilia perché si difendesse dai Francesi, non intendevano lasciar l'isola così di queto. Ma bisognava coonestare con qualche bella apparenza il fatto del predominio che volevano, nel loro interesse, mantenere ed ingrandire. Fu allora che si accesero di un grande affetto per le libertà e i privilegi dei siciliani, che il re e la regina intendevano interpretare a loro modo, ed aiutarono il popolo a rivendicare i suoi diritti. Caduto Napoleone, la cosa per gli Inglesi mutava aspetto: poco più importava loro oramai de Siciliani, e lord Castlereagh non arrossi di attestarlo nel giugno del 1821 in pubblico parlamento. Approvata la massima di non vincolare ulteriormente il re di Napoli, non ebbero che a cercar un mezzo termine per salvar tanto quanto il proprio onore. Questo su trovato dall'inviato A’Court e dal ministro Castlereagh in due dichiarazioni che si imposero al re di Napoli in compenso di lasciargli la mano libera in tutti i cangiamenti che gli piacesse di fare, e che l'Inghilterra sforzavasi di creder buoni per uscire da quell'ingrata faccenda. Le due dichiarazioni che si vollero dal re furono 1.° ch'egli non molesterebbe coloro che si erano compromessi coll'Inghilterra durante le vicende sicule: 2.° che la condizione dei siciliani non sarebbe sostanzialmente peggiorata da quella che era allora. Questa frase equivoca era a tutto profitto dell'Inghilterra in qualsiasi congiuntura: ma quanto valesse a sollievo dei Siciliani, chi non lo sappia potrà vederlo nel progresso del nostro racconto. In quest'opera si giunse a tale, che l'A' Court nel trasmettere al suo ministero la copia dei decreti del decembre, dei quali nessuno di loro ignorava il giusto valore e le necessarie conseguenze, concludeva: Il cambiamento non potea farsi in una maniera più prudente: non vi è una parola che possa dar ombra ad una potenza, per quanto fosse nella più delicata situazione: non vi è nulla che lasci un adito ad accusar il governo inglese di abbandono di principi, perché gli antichi privilegi della nazione sono distintamente preservati; e soggiunge finalmente che non gli resta a far altro che congratularsi con lord Castlereagh della sua totale liberazione da ogni responsabilità!! In risposta a quel dispaccio, lord Castlereagh, già così felicemente liberato, come diceva l'A’ Court, da qualunque responsabilità, gli mandò in Napoli l'ordine di complimentare a nome del governo inglese il re Ferdinando della sua fortunata metamorfosi. «La storia (dice il Palmieri cap. 22, con giusta e s: generosa ira) ci offre mille esempi di governi, che hanno sacrificato le leggi della buona fede e dell'onore a qualche loro particolare vantaggio: ma era riserbato ad un ministro della Gran Bretagna il dare al mondo un esempio cosi luminoso di perfidia, senza ricavarne altro frutto che la maledizione e l'abbominio di tutto un popolo. »

36 Con decreto del 21 gennaio 1817, il re aggiunse od aumentò alcune imposizioni per la somma di onze 461,128. Con altro decreto dei 2 marzo 1818, rivolse a tutt'altro uso l'annua rendita delle onze 150. 000 destinate all'estinzione del debito pubblico della Sicilia. Con altro decreto del 20 novembre 1819 crebbe la dote, che dovea pagarsi dalla Sicilia, di onze 519,613. Peggio ancora procedette la cosa dopo il 1820.

37 La violazione di tutte le promesse del re di Napoli fu constatata nel 1821 nel parlamento inglese (tornata della Camera dei Comuni del 21 giugno) dallo stesso lord William Bentink, personalmente interessato per proprio onore in quelle trattative. Le sue parole valgono un documento. «Quand'io partii di Sicilia (egli diceva) due condizioni furono stipulate solennemente in favore del popolo: l'una che alcun individuo non sarebbe molestato pei vincoli avuti cogli Inglesi, finché questi diressero gli affari dell'Isola; l'altra che i diritti e i privilegi dei Siciliani non soffrirebbero alcun attentato. In qual modo queste solenni stipulazioni sono state eseguite? Lungi dall'essersene rispettata la più minima parte, io so dalle più sicure autorità, che giammai non vi fu annichilamento più compiuto di tutti i diritti, giammai un cumulo d'ingiustizie, d'oppressioni, di crudeltà maggiori non segnalò gli annali di alcun paese. La Camera sentirà nella sua giustizia che è tempo di richiamar il re di Napoli all'osservanza delle sue promesse, a ristabilire la costituzione siciliana sopra solide basi. E parlando delle istruzioni date al ministro inglese a Napoli nel 1816, disse: «Quanto alle istruzioni che furono inviate di qui, debbo convenire che se io stesso le avessi scritte, non vi avrei saputo aggiunger nulla, che potesse meglio soddisfare al profondo interesse che nutro pei siciliani. Ma quali sforzi si sono fatti per render efficaci quelle istruzioni? Ricevute con gioia dai Siciliani, esse furono immediatamente seguite dal decreto del re, che riuniva i due paesi. Questo atto di unione non solo violava la costituzione, ma la rovesciò interamente. Egli annullò i diritti, i privilegi della nazione, e fece della Sicilia una provincia. Ecco come si trattò la Sicilia. »

38 Pag. 163.

39 Orloff, op. cit. T. 2, pag. 281 e segg.

40 Les societés secrètes en France et en Italie, Paris 1831.

41 Per maggiori particolari, specialmente in Francia, dove presto si distese la setta o si confuse con altre, vedasi l'opera di Trélat intitolata Paris révolutionnaire 1844.

42 Nella sua opera anonima: I pifferi di Montagna, Dublino 182o.

43 Orloff, oper. cit. , T. 2, pag. 289.

44 Non fu esiliato come taluni asseriscono: spontaneo volle partire dal regno per non tornarvi, come si dice che dichiarasse a taluno, se non pregato a compir ciò, che ora stoltamente gli si impediva.

45 Per convenzione del 4 febbraio 18 19, l'obbligo di questo contingente fu ridotto a soli 12. 000 uomini.

46 Divennero poi ventidue quando la provincia di Napoli fu staccata da quella di Terra di Lavoro. Sono oggi 13 di qua dal Faro, sette in Sicilia.

48 Dichiarazione inserita nel Diario di Roma 1815, num. 52.

49 Secondo il principio adottato a Vienna di rettificare i confini dei rispettivi stati, si era colà intavolato qualche negoziato per fare un cambio di Benevento e di Pontecorvo, città pontificie, rinchiuse nel territorio napoletano, ed incomode ad ambidue i governi. Si era d'accordo sulla utilità reciproca del cambio: ma Roma chiedeva l'equivalente in territorio, ed all'opposto Napoli l'offriva in denaro: imperciocché osservava, che cedendo una porzione degli Abruzzi, unico sito conveniente, si sarebbe privato di passi militari importantissimi. Ne derivò pertanto, che nulla si conchiuse.

50 Coppi, Ann. 1816.

51 Così chiamavasi il governo del decennio.

52 Eravene però una quantità riserbata a parte, ed ascendente alla rendita dugento mila ducati, che non fu restituita, come si conobbe dal rapporto del ministro di finanza al parlamento nel di 9 decembre 1820.

53 Can. 12. Sess. 21.

54 Ne fu inserita nel Concordato la formula, che era questa: Io giuro e prometto sopra i Santi Evangeli obbedienza e fedeltà a Sua Maestà Reale: io prometto egualmente di non aver alcuna comunicazione, di non assistere ad alcuna assemblea, di non mantener né al di fuori né al di dentro del regno, alcuna relazione sospetta, che possa nuocere alla tranquillità pubblica; e quando, tanto nella mia diocesi, che altrove, si tramasse qualche cosa contro lo stato, io la farò nota a Sua Maestà.

55 Collezione delle leggi del Regno delle Due Sicilie, n. 1 13o. Martens Recueil ec. Tom. XV, pag. 157-168.

56 Colletta, Lib. VIII, cap. 2.

57 Bulla Benedicti XIII Fideli ac prudent. tertio Kal. Septembris 1728. Capitula Regni Siciliae, Tom. II, pag. 511.

58 Martens, Recueil ec. T. XV, pag. 36o, 561.

59 Vedremo più innanzi come il Giampietro espiasse con crudelissima fine le sue presenti sevizie.

60 Fu in questa occasione che Ferdinando nominò il Metternich duca di Portella con quella ricca dote che abbiamo detto più addietro.

61 Manifesto della Giunta suprema.

62 Vale ingoiata, e intendevasi la costituzione, e lo scherno era diretto al re.

63 La separazione del Brasile dal regno di Portogallo fu proclamata il 15 agosto 1822, e Don Pedro assunse il titolo d'imperatore del Brasile. Per gli uffici dell'Inghilterra, Giovanni VI riconobbe nel 1825 l'indipendenza di quella già colonia del regno. Venuto poi a morte nel 10 marzo 1826, e avendo l'imperatore Don Pedro, suo primogenito, destinata la corona di Portogallo alla minore sua figlia, Donna Maria da Gloria, sotto la reggenza di Don Miguel, questi, nel 25 giugno 1828, si fece proclamare dalle Cortes di Lamego legittimo re ad esclusione della nipote. Don Pedro stimolò allora i Brasiliani alla guerra contro l'usurpatore; ma non corrisposero essi al desiderio di lui; che anzi non volendo impacciarsi in quistioni colla madre patria, gli suscitarono contro una rivoluzione, in forza della quale dovette, il 7 aprile 1851, abdicare a favore di suo figlio D. Pietro d'Alcantara, allora in età di cinque anni, ed imbarcarsi per l'Europa. Coll'aiuto dell'Inghilterra, della Francia e della Spagna cacciò il fratello dal regno nel 1854. In quello stesso anno venne Don Pedro a morte, e Donna Maria, uscita ormai di minorità, prese le redini del regno. Sposò nel 1855 il duca Augusto di Leuchtenberg, figlio del viceré d'Italia Eugenio Beauharnais, il quale morì due mesi appena dopo celebrati gli sponsali, onde la regina passò l'anno appresso a seconde nozze col principe Ferdinando di Coburgo, il quale dalla nascita del suo primo figlio (16 settembre 1857) porta il titolo di re.

64 Il Coppi, nella sua continuazion degli Annali di Muratori narra la fuga del Pacca nel modo seguente. «Tiberio Pacca prelato (nipote del cardinale di tal cognome) governatore di Roma e direttore generale di polizia, nella sera dei 7 aprile 1820 fuggi ed allontanossi dallo Stato Pontificio. Si disse che per lascivie e dilapidazioni del pubblico denaro, Pio VII ne avesse ordinato l'arresto; e che il Cardinal Consalvi Segretario di Stato, per togliere di mezzo un disgustoso processo lo avesse avvisato affinché fuggisse. Ma fin d'allora dai meglio informati delle cose, quella fuga fu ritenuto procedere da assai più alta cagione.

65 Pag. 552.

66 Nel 1817 fu poi stabilito fra le due parti, che il presidio Sardo nello Stato di Monaco fosse di un mezzo battaglione agli stipendi e sotto gli ordini di esso principe di Valentinois.

67 Un documento notevole delle restituite miserie si ha nel racconto dato dalla Gazzetta Officiale dello sbarco della Regina Maria Teresa a Genova il 22 agosto 1815. Ivi si leggono queste testuali parole: Bello il vedere la Reale Sovrana, che nell'abito di casimiro quasi nanchino, guarnito di velluto turchino, e con capellino nero e penne ond'era ornata, tutta presentava quella celeste amabilità, che forma la delizia dei popoli. Stavale accanto S. A. R. l'arciduchessa di Modena, che in abito di florence bigio e con capellino con fiori in testa, tanta parte del cielo chiudeva nel volto. Attorno al Re, e strettissimamente unite a S. M. le Reali Principesse, vestite di merinos cremisino guarnito in nero con capellino bianco sul capo, tutti rispettosamente chiamavano gli occhi degli astanti a vagheggiare le sorprendenti amabilità e le rare bellezze. «Più ridicola parodia (esclama con giusta indignazione il Brofferio) non era possibile immaginare: ed è ventura che quasi sempre trovisi negli abietti scrittori associata la stupidità. »

Giacché abbiamo pronunciato il nome della Regina, non sarà fuor di proposito, che qui se ne faccia qualche parola. Questa Austriaca principessa, di rara beltà, di svegliato ingegno, di sufficiente cultura e di eleganti maniere, aveva lasciato di sé grata ricordanza in Piemonte, sebbene fosse da taluni imputata di superbi propositi. Nelle patite disavventure il suo carattere s'innaspri, e fino dai primi giorni del suo ritorno ne dette tali testimonianze, che il popolo cominciò a disamarla, ed essa a concepire contro il Piemonte una profonda avversione, che non si estinse mai più.

68 Se il consentisse la gravità della storia, cadrebbe in acconcio di riferire i molti ordini e decreti, che furono emanati contro i lupi, per dare un saggio dell'ignoranza quasi incredibile delle persone, che nel ritorno dell'antico regime invasero i pubblici impieghi. Tuttavolta non taceremo della notificazione del 1.°ttobre 1816, che per lungo tempo passò in proverbio a Torino. Dopo un preambolo degno di quel che seguiva, veniva notificato Che tre distinti premii verranno pagati a chi riescirà di far preda di uno dei pr elo d ati lupi. E dopo caldamente raccomandato di dar opera allo sgombramento della provincia da si implacabili nemici dell'uman genere, per l'amore della gloria, per la dolce soddisfazione di rendersi utili ai nostri simili, e la sicura con degna ricompensa dei ben intesi sudori, si ordinava che il cacciatore o l'armigero dovesse presentare la fiera all'uffizio secondo il solito praticato.

69 Regio editto del 29 ottobre 1816.

70 Questo ambasciatore era il principe Kosslowstk, che segnavasi a dito per la sua smisurata corpulenza. Segretario d'ambasciata era il barone Potenkin, lungo, asciutto e gracilissimo; onde dai begli spiriti di corte dicevasi che non potevano esser meglio rappresentate che in quei due personaggi la longitudine e la latitudine della Tartaria.

71 Quel diluvio di rescritti crebbe a segno, che il reggente della Cancelleria, il conte Gattinara, confessò ingenuamente la sua parte di proventi potersi calcolare per questo titolo a non meno di due mila franchi al mese.

72 Brofferio, Oper. cit. cap. 8.

73 Raccolta di editti del re Vittorio Emanuele, vol. VIII, pag. 164.

74 Non vinsero però la causa della successione di Carlo Emanuele Iv morto in Roma il 6 ottobre 1819 nella casa professa dei Gesuiti; perché il fratello, Vittorio Emanuele, facendo valere che il defunto non avesse assunto che i voti semplici, i quali in sostanza non sono altro che una promessa di entrare nella Compagnia, vittoriosamente impugnò che la di lui eredità dovesse andare a beneficio dei Padri, i quali, invocando i loro statuti, si dichiaravano eredi del morto confratello.

75 Gualterio Op. cit. vol. 1. cap. 55.

76 Brofferio, Op. cit. cap. VIII.

77 Libro I, pag. 19 e segg.

78 Libro III, pag. 299 e segg.

79 I motivi pei quali la legge interdice un individuo, si fondano ordinariamente o sull'incapacità di amministrare il fatto proprio o sulle soverchie prodigalità: ragioni, che quand'anche non valessero a far dubitare, che un simile individuo possa far buona scelta di un sostituto, sono incompatibili colla guarantigia che tuttavia lo lega al comune. Ed è d'altronde cosa assai umiliante per un comune l'avere alla sua testa il rappresentante di un interdetto.

80 Le altre due mogli erano state Elisabetta di Wurtemberg e Maria Teresa di Sicilia.

81 Il Maroncelli, nelle sue Addizioni alle Mie Prigioni di Silvio Pellico, narra, in proposito del Melzi, il seguente aneddoto. – Abitava Melzi sul lago di Como una deliziosissima villa, dove una mattina il conte Confalonieri andò a trovarlo. Il venerando vecchio era ancora in letto, ed osservando il Conte che un libriccino molto ben legato era rovescio sulla tavoletta da notte, lo prende in mano, e vede essere l'Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. Melzi, ignorando l'impressione che ciò fosse per produrre nell'animo di Confalonieri, volle prevenirne una cattiva, e così gli parlò: «voi nella bella forza dell'età, avendo una carriera tutta integra a percorrere, e molto bene da fare, avete bisogno d'essere stimolato a vita attiva. Io vi ci consiglio col volere immacolato e sempre giovane, che mi lega d'amore inestinguibile alla mia cara patria; e», vi ci spingo con le mie vecchie mani, che incallirono nel governare, forse non indegnamente, il timone della cosa pubblica. Ma altresì ricordovi che quando età e malanni abbiano posto fine alla corsa, che in essa farete, attendevi un'altra sfera di bontà e di amore; ed il codice pratico di questa nuova carità lo troverete nel disprezzato ma santo libretto di Tommaso da Kempis: e allora pensate a me. Confalonieri accettò le venerate parole del vecchio amico, e le depose nell'animo suo ricordevole per proprio profitto e d'altrui.

82 Des finances de l'Autriche,1815, T. 1. pag. 60.

83 Intorno a tre di questi condannati, abbiamo le seguenti interessanti particolarità dal Maroncelli (Addizioni ec. cap. 17). «Foresti, Munari e soIera furono i soli a cui si disse che la sentenza di morte doveva eseguirsi in loro. Un senatore venne a bella posta da Verona a Venezia, che era stato il luogo del giudizio, a recar loro questa nuova. Dopo averli lasciati alcun tempo in tale angustia, estrasse un bigliettino autografo dell'imperatore, che cominciava coll'amorosa frase: – Caro Pelnitz. – Pelnitz era il presidente del senato, e l'imperatore gli diceva di sospendere la pena di morte anche a quei tre massimi colpevoli quando si fossero determinati a fare rivelazioni importanti. La proposizione su loro fatta, e tutti e tre risposero: «Bisognerà bene che subiamo la pena di morte, poiché non abbiamo che rivelare. »

– Ebbene sia cosi: – ripigliò il senatore: ma l'avvocato Solera si mise a ridere.

– Perché ride ella?

– Perché non lo credo.

– Non crede a me? non crede al chirografo imperiale? Questo poco rispetto per si venerande cose è indegno di lei.

– Non è punto mancanza di rispetto, bensì di convinzione. Io non so persuadermi che l'imperatore, che ambisce tanto d'esser giusto, ci voglia condannare da senno, mentre sa la nostra innocenza, e mentre la legge che punisce ogni pertinenza a società secrete è stata fatta solo dopo il nostro arresto. La scena ch'ella ora ci fa è quindi una tortura morale, un estremo colpo di riserva, onde tentare di scoprire se in processo abbiamo taciuto qualche cosa. Per mia parle nulla ho da dire.

Il Senatore andò sulle furie, e separati Solera, Foresti e Munari, fece loro incatenare piedi, mani e schiene, serrandoli per tal modo contro il muro, che non potevano fare il minimo moto.

Allora il povero Costantino Munari, rispettabile vecchio di settant'anni, gli disse:

– Signor senatore, ella mi vede con le lacrime agli occhi, ma è il dolore fisico, che me le spreme. La prego di cessare da un inutile crudeltà: guardi i miei polsi; sono rossi e gonfi, il sangue sta per uscirne, il mio corpo indebolito non regge più, ma nulla posso aggiungere alle mie deposizioni. –

Il Senatore fece allentare un poco le manette, e durò così a torturarli per molti giorni.

Munari e l'avvocato Foresti credettero veramente, che nulla avendo a rivelare, le parole precisissime dell'imperatore non ammettessero alcuna modificazione alla sentenza di morte: quindi il vecchio soffri uno stringimento pericolosissimo alla vescica e sparse molto sangue; il giovine volea sottrarsi al rabbrividente genere di supplizio che lo attendeva, cioè la forca, perché sotto la legge austriaca i soli nobili avevano il diritto di morire decapitati; e spezzata una grossa bottiglia di cristallo la ingoio tutta a piccoli pezzetti. Ma sorvegliati come erano, una guardia se ne avvide, corse ad avvertire, e il senatore stesso venne a sollecitare soccorsi. – Abbiam voluto spaventarli (diss'egli) col buono intento di scuoprire il male e tagliarlo dalla radice; ma nulla avendo veramente a rivelare io spero che, siccome la clemenza ha già parlato condizionalmente al cuore dell'imperatore, ora gli parlerà senza condizioni. – A capo d'un mese venne la commutazione della pena: 20 anni di carcere duro nello Spielberg

84 Il troppo celebre cardinale Rivarola tacciava d'infame in un editto il Registro già dal governo ristabilito: infami dicevansi i codici francesi, infame la pubblicità dei dibattimenti, infame la direzione laica degli studi; infame abbiamo sentito noi dichiarare da un prelato secreto la scrittura doppia, diabolica invenzione introdotta dai Francesi per dissanguare i pubblici e privati patrimoni. È nota anche la risposta di un monsignor tesoriere, al quale dicendo un giorno taluno che l'amministrazione delle finanze era ormai diventata agevole dopo tanti scritti di economisti nostrani ed esteri, egli soggiunse: «Oli! veramente i loro o scritti sono quasi tutti all'Indice, e non si possono leggere senza permesso. »

85 Quattro furono di poi le legazioni, cioè Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì.

86 Roma e Bologna furono poste fuori del sistema. Ebbero come in antico un senatore ed alcuni conservatori: Bologna ebbe di più un consiglio di 4o Savi.

87 Il Principe Colonna non volendo assoggettarsi ai vincoli ed oneri, cui furono sottomesse le giurisdizioni feudali, vi rinunciò immediatamente, e il di lui esempio fu quindi seguito dalla maggior parte degli altri Baroni.

88 Moto-proprio di Pio VII delli 6 luglio 1816.

89 Moto-proprio sul nuovo Codice di Procedura Civile dei 22 novembre 13. 17.

90 Uno dei maggiori oppositori del Guerrieri fu il cardinale Albani, il quale, richiesto un giorno dal primo delle ragioni che lo determinavano a contrariare quella giusta operazione, non arrossì di rispondere: «I miei possessi nelle Marche non sono allibrati se non forse per un terzo. Non voglio triplicare i dazi a mio carico.

91 Le spese di quel ricevimento superarono due milioni di franchi. Coppi, A n. 18 19.

92 Così abbiamo da un opuscolo non ha guari pubblicato a Capolago sotto il titolo Del Governo Austriaco, Società Segrete, e Polizia in Lombardia.

93 Questa circostanza registrata dal Coppi, avvalora il sospetto, che il Governo di Napoli, all'intento di guadagnarsi una porzione degli Stati Pontifici, avesse mano, più o meno direttamente, in questa briga.

94 Anche nei rapporti che riceveva in Milano la polizia austriaca è denunziata l'esistenza di tal setta in Romagna, e se ne designavano capi il duca Francesco e il cardinal Consalvi; e risulta da essi che il Duca, innanzi di recarsi a Vienna nel 1818, assistà ad una riunione generale di quella o altra setta. Gualterio Vol. I, par. 1. a, pag. 12.

95 Lettres sur l'Italie nella Bibliothèque historique vol. 11.

96 Carlo Didier nella sua Rome souterraine, la quale esprime al vivo lo spirito delle congiure carbonaresche in Roma, nei misteri delle quali l'autore non poteva non essere iniziato, ci dà il giuramento dei Sanfedisti, che qui trascriviamo.

«Io N. N. in presenza di Dio onnipotente Padre, Figliuolo e Spirito Santo, di Maria sempre Vergine immacolata, di tutta la corte celeste, e di te onorato padre (quello che instituiva l'adepto) giuro di farmi tagliare piuttosto la mano diritta e la gola, di morire dalla fame e fra i più atroci tormenti, e prego il Signore Iddio onnipotente che mi condanni alle pene eterne dell'Inferno, piuttosto che tradire o ingannare uno degli onorandi padri o fratelli della Cattolica Apostolica Società, alla quale in questo momento mi ascrivo, o se io non adempissi scrupolosamente le sue leggi, o non dassi assistenza ai miei fratelli bisognosi. Giuro di mantenermi fermo nel difendere la santa causa che ho abbracciata, di non risparmiare nessun individuo appartenente all'infame combriccola dei liberali, qualunque sia la sua nascita, parentela o fortuna: di non avere pietà né dei bambini, né dei vecchi; e di versare fino all'ultima goccia il sangue degli infami liberali, senza riguardo a sesso né a grado. Giuro infine odio implacabile a tutti i nemici della nostra santa religione cattolica apostolica romana, unica e vera. »

Segue una specie di catechismo colle parole di passo che sono quattro: Alfa, Arca di Noè, Aquila imperiale, e Chiavi del cielo.

97 Questa pare anche l'opinione del Farini nel primo capitolo del primo libro del suo Stato Romano dal 1815 al 1850.

98 Pag. 12o e segg. e 559 e segg.

99 Teniamo da persona che si trovava presente, il seguente aneddoto, che dipinge l'indole de' tempi e del Granduca Ferdinando. Erano un giorno radunati presso di lui alcuni signori di Firenze in una stanza del palazzo Pitti, la cui serica tappezzeria era sparsa di fiori. Volto ad uno di loro, disse Ferdinando: «Quanti sono i fiori di queste pareti? – Soggiunse quello: «Ci vorrebb'altro a contarli!– E replicando il Granduca: «Abbiamo tutto il tempo per ciò– l'altro intese, ed aggiunse: «Dio ci conservi questa felicità.

100 Il Gualterio, dal quale abbiamo tratto queste riflessioni, pubblica tra i documenti della sua opera una Memoria scritta dal Fossombroni nel 1796, allorché il Granduca spedi il suo maggiordomo Marchese Manfredini al generale Bonaparte per preservare la Toscana dalla occupazione francese. Quella memoria, dice giustamente il Gualterio, dà una chiara idea della politica costante dei ministri toscani, e del loro zelo perché il Granducato non solo non venisse assorbito dall'Impero, ma né pur trascinato nel suo sistema. In quella sono constatati in modo autentico non solo i diritti della Toscana a governarsi indipendentemente dall'Austria, ma eziandio, occorrendo, a farle guerra.

101 Pagg. 556-58.

102 Che, cioè, Parma fosse dell'Austria e Piacenza della Sardegna. Ma il 28 novembre 1844 a Firenze fu poi disposto altrimenti. Convenuti ivi i plenipotenziari dei duchi di Lucca e Modena, del granduca di Toscana, del re di Sardegna e dell'imperator d'Austria, fu conchiuso un cambio di varie porzioni di stati per meglio arrotondarli quando avvenisse il passaggio del ducato di Lucca alla Toscana, e di Parma e Piacenza all'infante di Spagna. Fu stabilito che la Toscana conserverebbe i vicariati di Barga e Pontremoli, Bagnone e le terre annesse di Lunigiana. Il duca di Parma cederebbe a quello di Modena il ducato di Guastalla e la lingua di terra parmigiana sulla destra dell'Enza. l'imperatore riconoscerebbe la cessione del ducato di Guastalla, e il diritto di reversibilità che gli competeva su questo e sul territorio oltr'Enza, trasferirebbe sul distretto di Pontremoli e sulla restante Lunigiana ceduta al duca di Parma. Se mai il ducato di Parma ricadesse all'Austria, l'imperatore cederebbe al re di Sardegna la suddetta porzione di Lunigiana e i distretti ora estensi di Treschietto, Villafranca, Castevoli e Mulazzo, e ciò invece della convenuta città e fortezza di Piacenza. Più tardi ancora, appunto nella occasione del passaggio di Lucca alla Toscana nella fine del 1847, fu da questa, con altri compensi dati al duca di Modena, conservato l'antico territorio di Pietrasanta, come meglio sarà discorso a suo luogo.

103 Noteremo qui che la precedente signora di questi luoghi, la principessa Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, morì il 9 agosto 182o in una campagna presso Trieste, dove dimorava sotto il nome di contessa di Campignano. Era nel quarantaquattresimo anno dell'età sua.

104 Il Gualterio (Vol. I, parte I, pag. 57) riporta la seguente osservazione da un viaggio MSS. di un illustre italiano, sotto la data del 1819: Le Duc de Modène est un legittime dans toute la force du terme. Le pouvoir est aussi concentré dans son petit état, que dans ceux d'Alger et d'Autriche. La liberté, la proprietà et la vie de sa poignée de vassaux sont entiérement à sa disposition.

105 Francesco IV duca di Modena nasceva di Maria Beatrice, ultimo rampollo di Casa d'Este, e dell'Arciduca Ferdinando d'Austria, zio dell'imperatore Francesco. Nella restaurazione del 1815 furono assegnati, come abbiamo veduto, alla vedova Maria Beatrice il ducato di Massa e il principato di Carrara, patrimonio della defunta sua madre Teresa Cibo Malaspina, che nella morte di essa Beatrice, accaduta il 14 novembre 1829, venne poi ad accrescere gli stati di Francesco IV.

106 Colletta Lib. IX.

107 Id. ibid.

108 Nel 1809 quando Ferdinando si trovava in Sicilia.

109 La chiamata fu così perentoria, che diceva: nello istante comunque vestito. Il dialogo seguente è quello stesso riportato dal Colletta, cui non è lecito ad altri il variare in alcuna parte, essendoché fosse egli medesimo l'anonimo interlocutore, del quale qui riferisce le parole.

110 Così per la prima volta si dinotavano quei medesimi, che insino allora furono chiamati ribelli.

111 Quanto ne sapessero di tutto ciò quelli che più schiamazzavano può rilevarsi dal seguente aneddoto. Entrava in uno di quel primi giorni il barone Poerio in palazzo, quando una mano di lazzari gli fu intorno, chiedendogli con rispetto che cosa fosse la Costituzione. Egli si tolse d'imbarazzo rispondendo loro che significava il vivere a miglior mercato; e quelli se ne andettero contentissimi, per quanto poco fatalmente queste due condizioni sogliano insieme verificarsi. – Del resto i nostri lettori hanno già veduto il sunto della Costituzione delle Cortes a pag. 501 di questo volume.

112 Coppi sotto l'anno 1820. Queste parole testuali mancano nel Colletta.

113 Collezione delle leggi del Regno delle Due Sicilie,182o, semestre II, Num. 9 e 10.

114 «Che sconciamente imitava le foggie e il gesto del re Gioacchino dice il Colletta.

115 Questi morì indi a pochi giorni. Ecco la biografia data di lui dal Colletta: «Nel 1799 prete, confessore, curato, cacciato in esilio, quindi soldato degli eserciti francesi, sali per valorosi servigi sino al grado di capo-squadrone; e regnando Gioacchino, a colonnello e generale. Nel corso delle sue milizie su due volte marito e padre avventurato di numerosa famiglia: per essere conservato sotto il regno del divoto Ferdinando, andò a Roma, nel 1815, a impetrare la remissione de' suoi falli, ed indi appresso restò tranquillamente generale, padre e marito. »

116 Ciò venne attestato anche nelle conclusioni del pubblico ministero e nella decisione della Corte Speciale di Napoli, in occasione del processo che, caduta la rivoluzione, ebbe luogo contro gl'insorti di Monteforte e di Avellino.

117 Colletta, Libro IX, Cap. I, § 10.

118 Collezione delle leggi del Regno delle due Sicilie,1820, num. 11.

119 Collezione delle leggi ec. nn. 181. 185.

120 Coppi sotto l'anno 182o.

121 La importanza storica, e la poca notorietà degli avvenimenti Siciliani di quest'epoca, ci ha persuasi a dedicare ai medesimi un separato libro di quest'opera, che sarà l'VIII. Basti frattanto l'accennar qui in poche parole, che, dopo orribili episodi, il moto separatista fu compresso colla forza e coll'inganno; perché dopo avere il generale Florestano Pepe (fratello di Guglielmo) occupato, il 5 ottobre, colle sue truppe Palermo sotto condizione, che dovesse consultarsi per mezzo di rappresentanti la opinione dell'isola, questa condizione non fu ri conosciuta dal parlamento Napoletano, il quale mandò il generale Colletta a co mandare in Palermo; e la Sicilia rimase tanto quanto soggetta alla legge generale del Regno, finché gli Austriaci vennero a far tacere di qua e di là dal Faro ogni quistione del più e del meno. Fu certamente errore dei Siciliani l'insistere per la separazione; ma su errore più grande del parlamento Napoletano il negarla, e disconoscere la fede della capitolazione di Palermo. Ma di ciò più diffusamente a suo luogo.

122 Collezione delle leggi ec. an. 1820. nn. 21. 22.

123 Noi rechiamo molti documenti ufficiali, che non si trovano nel Colletta, al quale lo interdice forse la grave forma del suo racconto, mentre a noi non solo lo consente, ma in certa guisa lo impone la nostra qualità di cronisti.

124 Il General Nugent.

125 Manifesto della Giunta provvisoria di Governo al Parlamento nazionale.

126 Rapporto del ministro di giustizia al Parlamento nel giornale costituzionale.

127 Rapporto del ministro dell'interno al Parlamento nel giornale citato.

128 Rapporto del ministro delle finanze al Parlamento nei giorni 5 ottobre e 9 decembre 1820.

129 Rapporto ec. nel giornale sopracitato.

130 MARTENs, Recueil ec. , T. XVI, pag. 363.

131 MARTENS, Recueil, T. XVI, pag. 568.

132 Colletta, Lib. IX.

133 MARTENs, Recueil, T. XVI, pag. 592.

134 MARTENS, Recueil ec. , T. XVI, pag. 392 e 598.

135 Archiv. Diplom. Tom. I, pag. 267.

136 Ivi, pag. 271.

137 Messaggio del re al Parlamento nel Giornale Costituzionale n. 152.

138 Dice il Colletta, che alcuni deputati, come fosse per esser quello l'ultimo giorno di loro vita, fecero gli atti di religione, altri il testamento: ma nessuno si arretrò dal pericolo.

139 Atti del governo nel Giornale Costituzionale del Regno delle due Sicilie, num. 135.

140 Ivi, num. 156.

141 Atti del governo nel Gior. Cost. nn. 154,156.

142 Colletta, Lib. IX, cap. 2.

143 Abbondiamo in documenti, tratti specialmente dalla preziosa raccolta del Martens, come il mezzo migliore, a nostro avviso, di svolgere e autenticare i più importanti fatti di questa storia.

144 Le rechiamo più innanzi, insieme alla lettera del re al principe reggente.

145 Fino dal 5 luglio Benevento, e poco di poi Pontecorvo, si sottrassero per insurrezione all'autorità pontificia, ed invocarono di essere incorporati al regno. Ma con pubblica dichiarazione del di 12 dello stesso mese, il Governo napoletano non solo si rifiutò, ma ordinò a tutti gli abitanti del regno che «niuno ardisse intromettersi armato nei confini degli altri Stati, né mischiarsi in modo qualunque negli affari dello stato limitrofo. Allora Benevento e Pontecorvo si costituirono in un governo loro proprio, che durò fino alla venuta degli Austriaci.

146 Uno dei primi atti del Parlamento era stato di mutare i nomi delle provincie in quelli di Irpini, Marzii, Bruzi, Sanniti, ed altri dell'antichità, essendo (dice il Colletta) natura di popoli scarsi del presente ricordar le glorie del passato, e con vergognoso vanto mostrare le miserie della decadenza.

147 Giornale Costituzionale 1821, num. 57.

148 Intorno a questo vecchio amico del re, racconta il Colletta, che quando dovette il bastimento che lo portava a Livorno fermarsi a Baja, il duca d'Ascoli fu tra quelli che andettero a visitarlo per chiedergli in mercede dell'antica servitù la vera indicazione di ciò che fosse per piacere al suo re, ch'egli facesse quando i tempi volgessero a momenti pericolosi; al che il re rispondesse: «Duca, d'Ascoli, farei scusa ad ogni altro della dimanda, ma non a te, che da fanciullezza mi conosci. Io vado al congresso intercessore di pace: pregherò, la otterrò, tornerò grato a miei sudditi. Voi, che qui restate, manterrete la quiete interna: ma, se avverso destino lo vuole, vi apparecchierete alla guerra. E il duca pianse, lodò il re, gli baciò la mano e parti. I momenti pericolosi sopravvennero: offerì il suo braccio, e Ferdinando nel ritorno da Lubiana, stando ancora in Roma, ne decretò l'esilio.

149 Era direttore di polizia il Borelli, vicepresidente ad un tempo del parlamento, e intorno alle astute opere del quale si distende in più luoghi il Colletta.

150 Se ne presentarono ventimila, ma sette mila per mancanza d'armi furono lasciati in Santa Maria di Capua. Cosi dalle memorie del generale Carascosa.

151 MARTENS, Recueil ec. , T. XVI, pag. 611.

152 MARTENS, Recueil ec. , T. XVI, pag. 650.

153 Archives Diplomatiques, T. I, pag. 477.

154 PEPE, Relazione ec. p. 85.

155 CARASCOSA, Mémoires pag. 451 e segg.

156 PEPE, Relazione ec. p. 158.

157 CARASCOSA, Mémoires pag. 4 12.

158 Questa ingiustissima legge in poi emanata dallo stesso governo costituzionale, come saremo per vedere più innanzi.

159 Aceto, De la Sicilc et de ses rapporta aver: l’Angleterre ec. Paris 1826.

160 Atti del Parlamento inseriti nel Giornale Costituzionale delle Due Sicilie 1820, un. 86 0 87.

161 Colletta, Lib. IX, cap. 21.

162 Giornale Costituzionale sopracitato.

163 Colori della indipendenza siciliana.

164 Capitolo settimo.

165 Andò prima in Ispagna, dove combatté per la costituzione contro i Francesi: riparò quindi in Inghilterra e di là in Grecia, dove mori d’infermità, non della morte del soldato, come aveva desiderato.

166 Il contrordine non giunse in tempo o non fu rispettato che dal Morozo, che era già In punto per montare. a cavallo quando lo ricevette. Sospesa la partenza, In poco appresso, per ordine del governatore di Cuneo, messo in arresto.

167 Annali ec. Anno 1821 § 105.

168 MARTENS, Recueil cc. Tom. XVI, pag. 634.

169 I severi ed appassionati giudizi che per tant‘anni travagliarono Carlo Alberto pei fatti che siam venuti discorrendo fin qui, hanno oggi dato luogo a ben diversi criteri, e le inveterate opinioni si sono per tal guisa corrette, che il distenderei più lungamente intorno a ciò potrebbe parere. a molti soverchio. Bensì non sarà discaro ad alcuno dei nostri lettori, che qui da noi si riproduce parte di un documento pubblicato dal cav. Cibrario nei Ricordi d‘una missione in Portogallo, che è un brano di lettera dallo stesso Carlo Alberto scritta nel 1859 intorno i fatti del 1821: «Se io ho potuto desiderare che il nostro buon re Vittorio Emanuele ci ordinasse di marciare verso la frontiera e di dare volenterosi la vita per procacciargli alcuna gloria, le cose cambiarono assolutamente di aspetto al momento della sua abdicazione. Tutti i prestigi più seducenti disparvero: allora un lugubre volo si stese su tutta la patria: tutti i nobili cuori si sentirono assiderati, ed io, così giovine, abbandonato in quei momenti da tutti gli uomini ragguardevoli che dirigevano l’amministrazione. e che credettero con ragione di doversi ritirare, mi ritrovai solo, per dir cosi, di fronte ad a una rivoluzione di Carbonari lo doveva salvare la famiglia reale, la capitale: doveva rispondere a Dio ed agli uomini della Indipendenza nazionale, che poteva essere gravemente compromessa col menomo passo falso in riguardo alle ’straniero. Essendo alla testa dello Stato, ho dovuto vedere che noi non avevamo assolutamente nulla di ciò che era indispensabile per entrar in campagnu; che quand'anche il nostro buon re Vittorio Emanuele fosse stato alla nostra testa, noi non potevamo in quelle nostre condizioni che sacrificare il paese. Io amava profondamente il re Vittorio Emanuele, io doveva esser fedele al successore di lui. Quale fu la mia condotta fino al momento in cui ebbi gli ordini del nuovo re? quella di un capo che dichiara che vi fu colpa nell‘insurrezione militare, e che aspetta istruzioni in una severa Impossibilità. Nominato reggente del regno dal re abdicatario, o non dai rivoltosi, io non era che l‘organo delle volontà sovrana, donde scaturiva unicamente la mia autorità e la mia forza. Il re avendo pronunziato, non rimaneva a tutti i suoi fedeli soldati che ad obbedire.»

170 Queste gratificazioni furono stabilite nella somma di 750 lire per gli ufficiali di cavalleria e di artiglieria leggiera: nella somma di lire 600 per quelli d‘infanteria e di artiglieria di linea, Furono chiamati a godere di questo beneficio anche tutti coloro che erano stati promossi dal giorno dell‘abdicazione di Vittorio Emanuele.

171 COPPI 1821 § 129.

172 Raccolta di Editti ec. Vol. XV, pag. 229.

173 Coppi, anno 1821, § 154.

174 Così abbiamo dallo stesso Santarosa.

175 Santarosa dopo avere strascinata per qualche tempo una infelice esistenza in Francia e in Inghilterra, si trasferì in Grecia, ove mori combattendo per la indipendenza di quella contrada; e sul lido di Sfacteria gli fu eretto un monumento, che ricorda il suo nome e l’onorata sua morte.

176 Carlo Felice {non aveva ancora, come altrove abbiam detto, assunto il titolo di re, attendendo dal fratel suo nuova dichiarazione quando fosse costituito In istato dl piena libertà, le che ebbe luogo nel 19 di aprile, come fra poco vedremo.

177 Raccolta di Regj Editti, VOI. XV, pag. 208.








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Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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