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Ottobre 2019

La rivoluzione napoletana del 1820-1821 tra "nazione napoletana" e "global liberalism" di Zenone di Elea































STORIA DOCUMENTATA

DELLA

DIPLOMAZIA EUROPEA

IN ITALIA

DALL’ANNO 1814 ALL’ANNO 1864

PER

NICOMEDE BIANCHI

______________

VOLUME II

Anni 1820-1830

______________

TORINO

dall’unione tipografico-editrice

1865

1.CAPITOLO PRIMO

Sommario

Mutamento di governo a Madrid e a Napoli — Immediata condanna del governo costituzionale napoletano per parte della Santa Alleanza — Proposte conciliative della Francia — Disaccordi di concetti e d’opere ne’ diplomatici francesi del pari che nella diplomazia russa —Occulti intendimenti del Governo inglese in ordine al reggime costituzionale napoletano — Progetto austriaco d'immediato intervento armato nel regno di Napoli perchè non riuscito — Pratiche del Gabinetto di Vienna presso le Corti di Modena, Firenze, Roma e Torino — Avvertenza — Tentativo non riuscito per parte dell’Austria di occupare militarmente la Toscana e gli Stati della Santa Sede — Colloquio tra il principe di Metternich e l’ambasciatore per la Sardegna in Vienna — Avvertenza — Contegno apertamente ostile dell’ Austria verso il governo costituzionale napoletano — Colloquio tra il principe di Metternich e il principe di Cimitile — Pratiche del cancelliere imperiale per impedire la convocazione d’un congresso a decidere sulla questione napoletana — Opposta opinione dello czar Alessandro — Conferenze di Troppau — Proposte fatte in esso — Contrari pareri — Accordi terminativi — Federico Gentz — Astuzie politiche del principe Metternich — Nuovo indirizzo dato dall’imperatore Alessandro alla sua politica — Lettera del principe Metternich al cardinale Consalvi — Sospetti nella Corte romana intorno alla lealtà politica dell'Austria — La dominazione straniera incolpata dal conte d’Agliè ambasciatore per la Sardegna in Londra, quale cagione primaria dei moti rivoluzionari italiani — Avvertenza — Osservazioni del conte Cotti di Brusasco, ambasciatore sardo a Pietroburgo, sulla politica austriaca in Italia — Suggerimenti liberali dello stesso diplomatico al re Vittorio Emanuele.

I

Nel marzo de! 1820 la nazione spagnuola impose a Ferdinando VII il ristauro di quelle franchigie costituzionali, per le quali essa avea lottato ne’ campi di guerra contro l’invasione straniera, e salvato dal naufragio la corona dei suoi re. A poco andar di tempo, i Borboni di Napoli si trovarono nei medesimi termini. Nel luglio di quello stesso anno per sedizione militare il reggime costituzionale senza gravi turbamenti prese il posto del principato assoluto nel regno delle Due Sicilie. Quel mutamento politico, come a quei dì attestavalo al suo governo il conte Solaro della Margherita, era richiesto dai voti della parte migliore del paese, e presentava buoni elementi per assodarsi.

Il duca di Campochiaro, chiamato in Napoli al posto di ministro sopra gli affari esteri, diede notizia dell’avvenuta mutazione di Stato a tutte le Corti, usando modi assai rispettosi ai trattati e ai doveri internazionali. Ma ciò non bastava per indurre i monarchi guidatori della Santa Alleanza a guardar di buon occhio il nuovo governo napoletano. Preventivamente essi aveano condannato qualunque siasi mutamento politico per forza di volontà popolare. Si trovarono quindi tosto concordi nel proposito di non riconoscere il nuovo Stato; ma non così s’intesero sui modi di rimediarvi.

Il gabinetto di Parigi mostrossi alieno dallo assentire all'intervento armato; e soltanto inclinava a riconoscerne la necessità ove il governo di Napoli fosse caduto nelle mani de’ settarii. Il meglio da praticarsi,diceano i ministri dei re Luigi XVIII, era il partito d’un amichevole arbitramento, indirizzato a stabilire un reggime costituzionale capace di proteggere i diritti della corona e il benessere del popolo. Il gabinetto di Parigi mirava così a soppiantare gli influssi austriaci nell’Italia meridionale. 11 barone Pasquier, che vi reggeva il ministero degli affari esteri, inviò pressantissime istruzioni, concepite in tal senso, al signor di Fontenoy agente del governo francese in Napoli. In quello scritto massime inculcavasi al Fontenoy di maneggiarsi con ogni diligenza per tenere i nuovi governanti napoletani entro i termini della maggior moderazione al di fuori e al di dentro nel riformare lo Stato. Nello stesso tempo dalla cancelleria del gabinetto di Parigi partiva una nota circolare alle Potenze alleate, nella quale, mentre significavasi la disapprovazione più manifesta all’insurrezione militare napoletana, s’insisteva però in vista dell’interesse dell’ordine europeo affinché le deliberazioni che s’andrebbero a prendere dai maggiori monarchi, non mirassero a distruggere, sì bene a condurre nei limiti dell’equità il nuovo ordine di cose stabilitosi di recente nel regno delle Due Sicilie (1).

Dopo il ristauro del 181S, questo è il primo serio tentativo fatto dalla Francia per riprendere In Italia la sua parte d’influssi, in contrarietà a quelli praticati dall’Austria, e onde aprirsi una strada propria nel campo del moto europeo. Per l’attuamento della sua politica nel regno delle Due Sicilie, il governo di Luigi XVIII sperava nell’appoggio della Russia. L’imperatore Alessandro tuttavia manifestavasi propensissimo alle idee liberali; e i suoi più cari consiglieri, e coloro fra i diplomatici russi che nelle varie Corti d’Europa possedevano i segreti pensieri del loro governo, non tralasciavano di manifestare senza riserva di parole che, a salvar l’Europa da nuove calamità, conveniva gratificare i popoli di liberali istituzioni (2).

Ma negli andamenti della politica francese, del pari che in quelli della politica russa, mancava concordia e unità. Nel gennaio dell’anno 1821 il principe Metternich, nel primo colloquio che ebbe a Laybach col conte San Marzano, ministro sopra gli affari esteri del re di Sardegna, gli disse francamente; — Voi incontrerete qui due Francie e due Russie (3). — Così era, e su ciò in ispecie faceva fondamento il cancelliere imperiale per uscir trionfante da una lotta, dalla quale dipendeva l’avvenire e la sicurezza del dominio austriaco in Italia. Delle due Russie, la liberale era rappresentata tuttavia dall’imperatore Alessandro, dal conte di Capodistria e dagli altri diplomatici russi, che rispetto al regno delle due Sicilie avrebber voluto modificarne, non distruggerne il reggime costituzionale. L'altra delle due Russie, accennate dal Mettermeli, era raffigurabile nel conte di Nesselrode, capo di quel gruppo di diplomatici tedeschi che stavano al servizio della Corte di Pietroburgo. I due opposti modi di pensare e d’operare della diplomazia francese erano una delle funeste conseguenze del disorganamento, in cui era caduto il grande partito parlamentare governativo in Francia. Senza nesso costante d’azione fra loro, i diplomatici francesi nella sorta questione napoletana si contraddicevano stranamente. A Pietroburgo il marchese de La Ferronays faceva ogni sforzo per togliere all’Austria la possibilità del suo intervento armato nel regno di Napoli. In Vienna il conte di Caraman, parlando pure a nome del gabinetto di Parigi, teneva un opposto linguaggio col principe di Metternich. A Napoli Fontenoy dava quotidiana testimonianza della benevolenza del governo francese verso i costituzionali napoletani. A Roma il duca di Blacas, ambasciatore di Luigi XVIII, era ciecamente posto al servizio della Santa Alleanza, a segno d’essere l’intermediario della corrispondenza segreta del re di Napoli con Metternich e i diplomatici napoletani, che, incaricati di missione all'estero, non aveano voluto aderire al governo costituzionale (4).

Il gabinetto inglese, infedele alle vecchie tradizioni politiche del suo paese, avea visto di mal occhio il regime costituzionale impiantarsi nelle Due Sicilie. Ad assicurare meglio a sé e al proprio governo la facoltà di cooperare a ruinarlo, l’incaricato inglese in Napoli sir William a’ Court ne svisò addirittura l’origine, lodando bugiardamente l’ordine di cose edificato dal malvagio despotismo di re Ferdinando. Ecco le sue parole:

Lo spirito di setta e l’inaudita defezione d’un esercito ben pagato, ben vestito, e il quale non difettava della minima cosa, hanno prodotto la ruina d’un governo veramente popolare. Un regno, che avea raggiunto il più alto grado di prosperità e di felicità sotto il più dolce dei governi, in nulla sopraccaricato d’imposte, è crollato per opera d’un pugno d’insorti, che un mezzo battaglione di buoni soldati avrebbe disperso in un istante. Temo che tutto ciò non debba terminare con scene di stragi e d’universale confusione. Non bisogna illudersi; la costituzione è la parola d’ordine, di cui si fa uso: ma ciò che è avvenuto, è nientemeno che il trionfo del Giacobinismo, è la guerra della povertà contro la proprietà. Si è insegnato alle classi a conoscere infine le loro forze (5).

Non poteasi mentire con maggior impudenza sullo stato vero delle cose. La storia pertanto è nel debito di valutare queste parole di a’ Court come un indegno oltraggio da lui fatto all’antica lealtà inglese. Ma gli uomini di Stato, che a quei dì erano investiti dell’onore di dirigere la politica esterna della Gran Bretagna, la trascinavano nel fango per favoreggiare il sistema politico che l’Austria loro prediletta capitaneggiava. Quindi lord Castlereagh ponevasi addirittura sul terreno medesimo di sir William a’ Court.

Ebbi ieri una conferenza con lord Castlereagh, la quale totalmente versò sugli affari di Napoli. Questo ministro parla con molta stima del governo, che ha cessato. Egli osserva che il cangiamento avvenuto in Napoli benché somigli a quello succeduto in Ispagna rispetto alla parte presavi dall’esercito, tuttavia ne differisce molto sotto gli altri aspetti, e massime perchè il governo napoletano non avea dato motivi di malcontento. Potrebbe quindi avvenire, ha soggiunto, che le Potenze alleate lo considerassero sotto tutt’altro punto di vista.

In tal modo scriveva da Londra addì 23 luglio 1820 il conte d’Agliè al suo governo. Poi soggiungeva d’essersi accorto dalle parole del primario ministro inglese, che la Gran Bretagna per lo meno abbandonava il nuovo governo napoletano in balìa dell’infelice destino che attendevalo. Effettivamente la politica del gabinetto di Londra in ordine alla questione napoletana non tardò a delinearsi nettamente. Il suo perno, che doveva restar occulto all’opinione pubblica e al Parlamento inglese, basava sul seguente ordine d’idee, che lord Castlereagh, per maggior guarentigia di poterle sottrarre dal cadere nel dominio della pubblicità, affidò a una lettera particolare diretta sotto forma d’istruzioni confidenzialissime a lord Stewart il 13 settembre 1820. Le riassumiamo qui appresso con la maggior precisione: — Gravi erano i dubbi che il ministro dirigente la politica estera dell’Inghilterra manifestava sulla convenienza di applicare alla rivoluzione napoletana gli accordi fermati in Aquisgrana. Neanco teneva per utili quelle dissertazioni politiche, fondate sopra principi! astratti, di cui mostravasi innamorato l’imperatore Alessandro. Il governo inglese neppure potevasi associare al progetto presentato dall’Austria, il quale in sostanza era una lega ostile delle cinque grandi Potenze contro il governo di fatto stabilitosi in Napoli. Stavano a principali impedimenti per assentirvi la necessità, in cui si sarebbe trovato il governo inglese, di portare a cognizione del Parlamento la conchiusa lega, e i pericoli che da questa si genererebbero per la famiglia reale di Napoli, la quale non potrebbe più essere salvaguardala dalla neutralità britannica. Conveniva quindi appigliarsi a un altro spediente, che non fosse 11 quello d’una lega offensiva delle cinque Potenze alleate.— Castlereagh in tal proposito proseguiva così ragionando: — Indubitatamente la rivoluzione napoletana chiude nel proprio seno germi di gravi pericoli per l’Europa. Essa in effetto è l’opera d’una sètta, che mira a sconvolgere tutti gli Stati della penisola per riunirla in un solo corpo politico. Tali pericoli però minacciavano in modo così disuguale gli interessi delle Potenze alleate, da non poter esigere e neanco giustificare per parte loro identici provvedimenti. Verbigrazia l’Austria poteva credersi nell’obbligo d’appigliarsi tosto a misure estreme: il governo inglese al contrario non trovavasi minacciato così direttamente, da giudicarsi autorizzato a un intervento armato da quelle massime di politica, che egli a fronte scoperta poteva propugnare nel parlamento. Tornava quindi impossibile l’unione dei due governi di Londra e di Torino per un’azione comune. Meglio era pertanto che l’Austria si risolvesse ad agire per conto proprio, prendendo confidenzialmente il preventivo consiglio dei gabinetti alleali, onde accertarsi della loro condiscendenza. Ad ottenerla con agevolezza la Corte di Vienna dovea dar certificato di non agire contro Napoli per mire d’ingrandimenento territoriale o di predominio, sì bene per necessaria difesa propria; e in pari tempo dichiarare che, conseguita la vittoria, non esigerebbe da Napoli altri sacrifizi tranne il mantenimento dell’esercito d’occupazione. —Noi desideriamo, concludeva lord Castlereagh, di lasciare all’Austria tutta la sua libertà d’azione, ma reclamiamo pure la nostra. È nell’interesse della Corte di Vienna che per noi si conservi un tale contegno. Esso in effetto ci porrà in grado di considerare le deliberazioni e gli atti dell’Austria verso Napoli come proprii d’un governo indipendente, e così avremo modo di propugnarne il rispetto nel Parlamento; la qual dottrina certamente 12 — non potremmo sostenere ove per noi si partecipasse ai medesimi (6).

Questi erano gli inviamenti che il governo inglese preferì dare alla sua politica nelle trattazioni diplomatiche cagionate dalla rivoluzione napoletana. Essi in sostanza miravano a indurre l’Austria a schiacciarla per determinazione propria, anziché per mandalo europeo. Così mentre la Francia inclinava a salvare di quel mutamento di stato quanto era ragionevolmente salvabile, e la Russia propendeva a fiancheggiarla in tal opera di assennata conciliazione, la libera Inghilterra ponevasi dal lato opposto, e sottomano consigliava quell’intervento armato, che nel gius comune era una delle violazioni più funeste al principio dell’indipendenza delle nazioni.

II

Il gabinetto di Vienna avea scandagliato sin al suo fondo il precipizio che la rivoluzione napoletana spalancava a quell’immobilità politica della italiana penisola, che era stata posta a perno della dominazione austriaca in essa. Confortato quindi dalle buone disposizioni del governo inglese, il primo pensiero che balenò alla mente di Metternich fu quello d’un’invasione immediata nel regno delle Due Sicilie. Laonde egli poi scriveva al duca di Modena nel gennaio del 1821:

Se nel luglio dell’anno passato l’Austria avesse avuto sul Po una forza armata disponibile di ventimila uomini soltanto, noi gli avremmo subito fatti marciare su Napoli, vi avremmo fuor di dubbio spenta la rivolta, ed il mondo avrebbe applaudito al successo, come in fin dei conti applaude sempre ad ogni successo felice.

Tale bramosia di poter tosto soffocare nel sangue la rivoluzione costituzionale napoletana erasi manifestata in Vienna così ardente, da toglier ogni valore a qualsivoglia considerazione d’ordine diverso. Così avendo in quei dì il nunzio apostolico fatto osservare al principe Mettermeli i gravissimi pericoli in cui sarebbesi trovata la famiglia reale di Napoli, ove si ponesse mano ai mezzi violenti, erasi udito rispondere dallo stesso cancelliere imperiale con irosa asprezza: — In simili circostanze bisogna sorpassare a tali considerazioni (7).

—Trovatosi per mancanza de’ necessarii apprestamenti nel l’impossibilità, d’invadere armata mano il regno delle Due Sicilie nel primo periodo dell’avvenutovi mutamento di Stato, il gabinetto viennese volse ogni sua cura a far sì che fosse accolta come un dovere comune a tutte le maggiori Potenze la distruzione dell’ordine di cose stabilitosi in Napoli. Per ciò primieramente conveniva all’Austria tenere stretta in pugno la volontà delle Corti di Firenze, Modena, Roma, Lucca e Torino, per averle ancelle nel chieder all’Europa d’intromettersi a salvare la penisola dagli estremi mali, e per conservarle obbedienti al suo sistema politico scosso dalla rivoluzione napoletana. A tal doppio fine dalla viennese cancelleria partì una nota circolare, nella quale era detto — che l’ordine pubblico stabilito nel 1845 da tutti i Potentati europei avea costituita l’Austria guardiana della tranquillità dell’Italia, e che l’imperatore per soddisfare a tale incarico, se non bastassero i provvedimenti pacifici, s’appiglierebbe ai mezzi violenti per allontanare dai confini de’ suoi Stati e da quelli dei vicini suoi ogni turbazione o attentato a quei diritti ed a quelle correlazioni, che stavano sotto la tutela della legge comune. Frattanto le Corti italiane avvisassero che erano tutte direttamente interessale a caldeggiare per la propria sicurezza alla distruzione di quell’esempio di rivoluzione fortunata nel regno delle Due Sicilie (8).

Così recisamente favellando, il gabinetto di Vienna mostravasi assai poco scrupoloso di lealtà. Avvegnaché non era per nulla vero che le stipulazioni europee del 1815 avesser affidato all’Austria l’uffizio di sorvegliatrice della tranquillità pubblica in Italia. E molto meno la Corte di Vienna poteva arrogarsi il diritto d’ingerimento nella politica interna degli Stati italiani al segno d’incatenarli nell’immobilità politica, o di retrospingerveli per forza d’armi. Un tal procedere invece offendeva ogni ragion di diritto in ordine all’indipendente sovranità degli Stati. Ma già da un pezzo l’Austria erasi abituata nelle cose italiane a non tenere in alcun conto il diritto positivo europeo, e i più sacri principii del diritto delle genti.

Fatte conoscere per modo identico lo intenzioni dell’imperatore Francesco alle Corti di Roma, Firenze, Modena, Lucca e Torino, Metternich si rivolse a quelle peculiari pratiche che più convenivano alle condizioni, in cui le une e le altre si trovavano.

L’occupazione militare della Toscana sembrava a Vienna cosa da farsi subito. Ma avendo il ministro austriaco saggiato in Firenze il terreno, lo trovò duro assai. Fossombroni si tenne fermo nel rispondere che il granduca era così sicuro dell’amore e della fedeltà de’ proprii sudditi, da non temere menomamente veruna perturbazione della pubblica tranquillità. Scorto per tal via non facile l’ottenimento, con ampio mandato fu inviato a Firenze il conte di Fiquelmont. Trovato il granduca saldo nel rifiutarsi ed assentire all’occupazione austriaca, il nuovo ambasciatore imperiale non ai tenne dall’appigliàrsi al maligno spediente di suscitargli nell’animo atroci sospetti sul conto della fedeltà de’ migliori, suoi sudditi. Ma ben tosto Ferdinando III si riebbe dal concepito stupore, e con franca onestà rispose al conte di Fiquelmont:—Ella, signor conte, faccia sapere al suo Sovrano, com’io farò sapere a mio fratello, che de’ miei sudditi io solo dispongo e rispondo (9).

La Corte di Vienna erasi in pari tempo rivolta a Roma per ottenere dal papa l’assenso che gli Austriaci tosto occupassero le Legazioni (10). Ma colà pure lo scredito in cui era la buona fede del gabinetto di Vienna, tolse che l’assenso fosse dato con amichevole confidenza. II cardinale Consalvi con molta destrezza fece intendere al principe di Metternich che la romana Corte sentivasi profondamente grata alle sollecitudini manifestate dall’imperatore per la quiete degli Stati di Sua Santità. D’altra parte però il Santo Padre trovavasi nell’obbligo di prendere a scrupoloso esame se convenivagli assentire ad atti, che accennavano a ostilità verso il finitimo governo, di Napoli, mentre che gli interessi della religione lo consigliavano a mantenersi nella neutralità più rigorosa (11). Il gabinetto di Vienna sentì dispetto di un tal procedere, né Metternich lo dissimulò. Il conte Rossi scriveva a Torino:

Il principe di Metternich è assai malcontento della Corte di Roma, la quale delibera sempre e non decide mai nulla. Questa per parte sua teme l’avvicinamento d’un esercito austriaco, e sovratutto l’occupazione del regno di Napoli, presso che tanto quanto gli intrighi dei Carbonari (12).

Sembra che l’Austria tentasse di spuntarla, facendosi essa stessa fomentatrice di settariche rivolture nelle Legazioni. Così per lo meno a quei dì mostrò sospettarlo il cardinale Spina che reggeva Bologna, e il quale scriveva al Consalvi ne’ termini seguenti:

Malgrado la persuasione e gli sforzi di coloro che vorrebbero pure persuaderli a non dar passo rivoluzionario per non eccitare i vicini a prender ragione da qualche disordine di marciare sopra questa città, essi (i settarii) non si arrendono, sicché arrivasi ad immaginare che molti di loro agiscano d’accordo coi vicini per far nascere scompigli (13).

Ora conviene dire delle pratiche intraprese dal principe Metternich per mettersi d’accordo colla Corte di Torino. In ragione dell’importanza dell’affare, il cancelliere imperiale non frappose tempo di mezzo. Ragguagliato ch’ei fu delle cose di Napoli, tenne tosto il seguente discorso al conte Rossi, che stava in Vienna ambasciatore di Vittorio Emanuele: — L’atmosfera politica è gravida di tempeste. L’imperatore darà pieno svolgimento a tutti gli immensi mezzi di cui è possessore, al fine di mettere al coperto i suoi Stati da simili avvenimenti. Egli è pronto ad usarli ugualmente in vantaggio di quelle Potenze italiane, le quali, rinunziando a malintese gelosie ed a tutti gli infondati timori, si volgeranno a lui con franchezza per conseguire quei soccorsi, di cui potessero bisognare. Ma affinché tuttociò cammini per bene, fa di mestieri che i principi italiani si mostrino di buona fede. Debbono riflettere che, mentre una sola parte degli Stati austriaci versa in pericolo, gli Stati loro invece sono compromessi nella totalità. Quanto al vostro re, l’imperatore fa pieno assegnamento sulla sua cooperazione, e spera che saprà piuttosto morire colla spada in pugno anzi che subir la legge da sudditi ribelli. Non mi trovo per anco in grado di mettervi a cognizione dei mezzi che l’imperatore impiegherà, perocché la loro scelta dipende dalle circostanze: posso però assicurarvi che tutti coloro, i quali avranno bisogno di lui, verranno soddisfatti senza riserbo. Per parte nostra, domandiamo al vostro re, così come agli altri Sovrani d’Italia, rigore e fermezza accompagnala da giustizia. Apriteci francamente l’animo vostro; diteci con fiducia i vostri mezzi, le vostre speranze, i vostri bisogni; fate causa comune con noi; chiudete le orecchie a coloro, i quali cercano di seminar zizania con bugiarde supposizioni e con miserabili artifizj politici. L’imperatore ha ora soltanto in mira la sicurezza e la conservazione dell’ordine attuale degli Stati italiani, ben prevedendo che, se rimanessero isolati ed abbandonati, finirebbero per esser travolti dal torrente rivoluzionario che li minaccia (14). — L’imperatore Francesco,all’udienza del quale il conte Rossi si presentò per consegnargli una lettera autografa del re di Sardegna, gli manifestò sentimenti identici ai menzionati di Metternich. Soltanto egli con maggior energia di parole insistette sulla necessità — di spegnere (citiamo testualmente) una volta per sempre l’idea che minacciava esterminio a lutti i governi, a tutti gli Stati (15).—

Nella reggia di Torino e ne’ consiglieri di Vittorio Emanuele vivea pur sempre una fatale avversione alle idee costituzionali. Rimasti uomini dei vecchi tempi, tutti perduravano nelle più viete idee rispetto agli ordinamenti sociali e politici; e tenendo fiso lo sguardo sullo spettro della Rivoluzione francese, giudicavano impossibile il connubio dell’ordine pubblico colla libertà dei popoli. Mentre quindi la buona politica consigliavali di mantenersi in riserbo verso il gabinetto di Vienna, per accostarsi agli intendimenti della Francia e della Russia, i governanti piemontesi gittaronsi a chius’occhi nelle braccia dell’Austria (16). Se ne rallegrava il Metternich, e blandendo, com’era sua abituale astuzia, il debole gabinetto di Torino, magnificavane l’animosa fermezza nel porsi attraverso all’irrompente follia de’ tempi (17).

Assicuratasi per le riferite pratiche degli intendimenti della Corte di Torino, l’Austria assunse un contegno apertamente ostile verso il governo costituzionale napoletano. Il principe Cariati, portatosi in Vienna, non potè in alcun modo farsi ascoltare da Metternich. Venne interdetto l’ingresso nella reggia al duca di Serra-Capriola, portatore d’una lettera autografa di re Ferdinando al monarca austriaco. Saputosi chef di corto stava per giungere in Vienna il duca del Gallo con lettere di credenza del governo costituzionale di Napoli, s’ordinò di fermarlo alle frontiere. Vano infine riuscì il tentativo fatto dal principe di Cimitile per indurre il governo austriaco a smettere l’implacabile avversione manifestata verso un ordine di cose, che perdurava tranquillamente. — La rivoluzione napoletana, diceva il principe Cimitile al cancelliere imperiale, benché provocata dai Carbonari, deesi tuttavia considerare come l’opera della nazione. Sarà permesso di biasimare la forma, con cui questa rivoluzione si è manifestata; ma sarebbe impossibile annullarla o farla retrocedere. —

Metternich rispose: — La rivoluzione esistente in Napoli è l'opera d’una sètta riprovata, è il prodotto della sorpresa c della violenza. La sanzione che le Corti accordassero a tale rivoluzione, contribuirebbe a deporne i germi negli altri paesi, che tuttavia ne sono liberi. Il primo dovere pertanto, come il primo interesse delle Potenze alleate, si è quello di soffocarla in culla. — Ma il mio governo, riprese Cimitile, desidera di vivere in pace con lutto il mondo; esso avrà grande cura di non mescolarsi nella faccende interne degli altri stati, e con la sua saviezza si studierà di salvare il paese dalle calamità, da cui trovasi minacciato. Andando così le cose, per qual motivo vorrà egli l’imperatore toglierci i mezzi di sostenerci? —Il cancelliere imperiale, volgendo in derisione quel sorriso che gli scherzava continuamente sulle labbra, riprese a dire: — In verità che dobbiam esser grati al nuovo governo di Napoli di manifestare intendimenti avversi alla voglia d’entrare nella via dei conquisti! Ma non capite che, ove noi vi stendessimo la mano, scassineremmo le basi della vostra esistenza, e nel medesimo tempo priveremmo il vostro paese dell’unico mezzo che possa salvarlo dall’anarchia?— Ma quali sono cotesti mezzi di salute? domandò l’inviato napoletano? che Vostra Altezza si degni d’accennarli. — Eccoli, rispose Metternich; essi sono il ritorno e rassicurata conservazione nell’avvenire dei principii, sui quali si fonda il riposo degli Stati: questi principii, dovete accertarvene, trionferanno pel fermo proposito che hanno i governi di serbare immutabili le istituzioni antiche contro gli assalti dei novatori e de’ settarii (18).

Dalle cose narrate è manifesto che, per far trionfare queste sue idee politiche, Mettermeli non doveva confidar molto in un congresso, nel quale Francia e Russia si sarebbero presentate con inclinazioni contrarie. Il cancelliere imperiale tentò quindi dapprima d’impadronirsi dell’animo dell’imperatore Alessandro, inducendolo a portarsi a Pesth onde, in un personale e confidente colloquio con l’imperatore Francesco, stabilire i modi d’agire contro la rivoluzione napoletana (19). Non riuscito questo tentativo, Metternich ne pose in campo un secondo, che consisteva nell’immediata riunione personale dei tre Sovrani di Prussia, Austria e Russia, i quali s’accorderebbero in una pubblica condanna del governo costituzionale impiantatosi a Napoli, lasciando ai loro principali ministri il compito di concertare in Vienna per mezzo di conferenze i migliori modi di levare tale scandalo dagli occhi dell’Europa. Questo modo di procedere non piacque neanco allo czar Alessandro; all’incontro fece significare al conte di Lebzelten, ministro austriaco in Pietroburgo, che niuna Potenza dovea di proprio arbitrio deliberare e operare sopra pericoli comuni a tutti gli Stati, e che invece era venuto il tempo di dar alluamento ai concerti presi in Aquisgrana. Così rimase stabilito di congregarsi a Troppau.

Nell’ottobre 1820 convennero in quella città della Slesia per la Francia La Ferronays e Caraman, per la Prussia Hardenberg e Bernstorff, per l’Austria Metternich, per la Russia Capodistria. I tre Sovrani di Vienna, Berlino e Pietroburgo vi si portarono per dirigere personalmente le gravi deliberazioni che s’andavano a prendere.

III

Le proposte, sulle quali dovevasi deliberare nel Congresso di Troppau erano due: la prima consisteva nello stabilire un sistema di principii generali, per basarvi sopra il diritto d’intervenzione reciproca negli affari interni degli stati; la seconda era l’applicazione di tali principii negli affari del regno di Napoli. La Prussia si pose ben tosto dalla parte dell’Austria, la quale propugnava il diritto d’intervento nella sua più ampia attuazione, ed insisteva perchè fosse applicato allo sconvolto regno di Napoli. Il plenipotenziario inglese dichiarò di non potersi in ciò mettere d’accordo coll’Austria e colla Prussia. Le sue istruzioni gli vietavano di sanzionare col proprio voto la massima generale dell’intervenzione d’uno o più Stati negli affari interni d’un altro Stato. L’Inghilterra d’altra parte non credeva che i trattati stipulati dal 1815 in poi legittimassero ne’ Potentati maggiori un tale diritto. Tuttavia il governo della Gran Bretagna non disconosceva che il supremo bisogno della propria difesa poteva in via eccezionale render necessario l’intervenire o per consigli o per armi nelle interne faccende d’uno Stato. Ove rispetto alle condizioni, in cui trovavasi il regno delle Due Sicilie, tale necessità fosse riconosciuta dall’Austria e dai principi italiani, l’Inghilterra non susciterebbe il minimo inciampo alla intervenzione loro, purché l’assetto territoriale italiano rimanesse inviolato.

Miti e savi temperamenti proponevano i plenipotenziari francesi. Si chiegga, dicean essi,con voce concorde in nome de’ grandi principii conservatori dell’ordine pubblico una solenne punizione di coloro che, a dispetto del militare giuramento, si resero colpevoli di ribellione al redi Napoli. Ottenuto ciò, si domandi al re Ferdinando ed a’ suoi ministri d’assoggettarsi con pronta e leale fiducia ad assentire tutti quei mutamenti che si crederanno necessari d’introdurre nel reggime costituzionale napoletano. Capodistria dichiarossi inchinevolissimo a tale pacifica mediazione; ma a lui faceva già difetto l’appoggio dello czar Alessandro (20).

La Spagna che non era stata invitata al Congresso, per mezzo di una nota querelavasi d’esser lasciata in disparte in conferenze, nelle quali trattavansi affari d’interesse europeo; e in pari tempo protestava contro qualsiasi deliberazione che a Troppau si prendesse contro l’indipendenza degli Stati, massime che i Napoletani erano nel pieno diritto di voler conservare intatte istituzioni liberali giurale dal re e care alla nazione.

In tanto divario d’opinioni Metternich vide che tornava, se non impossibile, scabrosissima cosa il condurre le cinque Potenze congregate a decretare addirittura la morte violenta del reggime costituzionale napoletano. Risolse quindi di raggiungere questo stesso fine per una svolta molto destramente prescelta nel metter innanzi le proposte seguenti: si procurassero al re di Napoli i mezzi di porre al sicuro la sua reale persona; libero ch'egli fosse, si costituisse mediatore e riconciliatore fra il suo regno e l’Europa, deliberata a non riconoscere in esso l'edilizio della sedizione militare; che se il re di Napoli non potesse uscire da’ suoi Stati, si risolvesse in comune l’uso dei mezzi migliori per liberarlo dalla cattività. — Qualunque cosa avvenga, conchiuse Metternich, così deliberando avremo salvalo il principio della legittimità (21).— Buono è qui l’avvertire che il principe Metternich già teneva nelle proprie mani una lettera del re di Napoli, statagli consegnata dal principe Ruffo, in cui Ferdinando estrinsecava il suo desiderio di fuggire dal regno per riprendere coll’aiuto delle armi austriache la podestà assoluta (22).

Dato al negoziato un tal andamento, esso prontamente si ridusse a termine. I tre Sovrani congregati stabilirono d’accordo di scriver lettere autografe al re di Napoli onde invitarlo a portarsi a conferire seco loro a Laybach. Il ministro degli affari esteri del re di Prussia, nel trasmettere la lettera del proprio re al barone di Ramdohr a Napoli, scriveagli:

Se il re non potesse partire, mi renderete tosto avvisato degli ostacoli che si oppongono alla sua libera volontà. In pari tempo rimanete incaricato di rimettere al duca di Campochiaro una nota, nella quale dichiarerete che per voi s’obbedisce all’ordine ricevuto in modo eventuale col dichiarare in nome di Sua Maestà il re di Prussia, che la persona sacra del re di Napoli e la sicurezza della sua famiglia saranno da quell’istante, e per tutti i successivi avvenimenti, poste sotto la tutela di ciaschedun Napoletano (23).

I rappresentanti russo e austriaco in Napoli vennero forniti d’ordini uguali; e l’ambasciatore inglese rimase incaricato, se la libera partenza del re non tornasse possibile, d’aiutarne con ogni maggiore studio la fuga.

Prima di lasciare Troppau, i tre monarchi d’Austria, Russia e Prussia vollero dar notizia a tutti gli altri Sovrani delle prese deliberazioni. Ciò fecero mediante una dichiarazione, nella quale dicevasi che per parte loro crasi esercitato un diritto incontestabile nell’occuparsi di prendere in comune misure di sicurezza contro Stati, nei quali il rovesciamento del governo compiuto dalla sedizione si dovea considerare come un esempio pericoloso e ostile a tutti i governi legittimi. L’esercizio poi di questo dovere era divenuto una necessità tanto più urgente in quanto che coloro, i quali aveano compiuto il riversamento del proprio governo, si maneggiavano perchè la sedizione e l’anarchia s’infiltrassero ovunque. Quello scritto, che per la smoderatezza della forma e della sostanza mal convenivasi al tempo in cui usciva alla luce, concludevasi così:

Ma tutto lascia sperare che l’alleanza costituita nelle più critiche circostanze, coronata dai più splendidi successi, e rassodata dalle convenzioni degli anni 1814, 15 e 18, nel modo che ha preparato ed assicurato la pace nel mondo, liberando il continente europeo dalla tirannide militare, sarà capace di metter un freno alla novella dominazione non meno tirannica, non meno spaventevole, quella della sedizione e del delitto (24).

Federico Gentz, che avea rivelato al mondo la perversità dell’animo suo, irridendo perfin coloro che consigliavano sinceramente il bene nelle faccende politiche; che già vecchio, slava tuttavia impantanato ne’ vizi d’una laida giovinezza, e serviva il despotismo non con fede, ma per far grassi guadagni (25), era stato l’autore di siffatta dichiarazione, attestatrice sfacciata di colpe non reali de’ popoli, bugiarda vantatrice di beni che non erano mai comparsi a confortar l’Europa di pace onorata. Ma al principe Metternich era tornalo grandemente utile di metter in giro tal linguaggio, avvegnaché mirabilmente gli serviva ad assodare il trionfo che era pervenuto a conseguire in quei dì sulla politica dello czar Alessandro. Un grande mutamento avea avuto luogo nell’animo di questo monarca. Quelle idee liberali, di cui erasi mostrato sì caldo favoreggiatore, più non lusingavano la mente sua mobilissima. Al contrario trovavasi signoreggialo da un nuovo subbietto di operosità ambiziosa, quello cioè del grande compito di salvare l’intiera società cristiana minacciata da una vasta tempesta politica, accagionata dalle sovversive opere d’empii perturbatori, i quali facilmente potevano riuscire a fondar in Europa il malvagio regno dell’empietà sulle ruine de’ troni e degli altari, ove i Sovrani non s’associassero nel sacro dovere di resistere ad ogni costo. L’autore principalissimo di tale cambiamento era stato Metternich, il quale aveavi speso attorno tutto il suo sagace ingegno. Egli stesso addì 22 novembre di quell’anno 1820 scrivea da Troppau al cardinale Consalvi:

L’imperatore di Russia è convinto oggidì degli influssi pericolosi delle società segrete, politiche o mistiche. La sua ardente immaginativa lo conduce a sorpassare facilmente i limiti d’un calcolo severo. Così egli addebita alle medesime non solo ciò che loro spetta, ma eziandio ciò che loro punto non appartiene. Il liberalismo, che sì gran numero d’agenti e di viaggiatori russi ha predicato e predica tuttavia in Europa e principalmente in Italia, si collega non tanto all’attività delle società segrete, quanto all’incuria colla quale il governo russo ha trattato questo male. L’imperatore Alessandro è più prossimo oggidì a varcare i limiti dell’utile che non a mantenersi al di qua del necessario. Non si può compiutamente dire lo stesso di tutti i suoi consiglieri. Ma i consiglieri in Russia sono assai poca cosa: l’autocrazia nel gabinetto si mostra nella sua maggior evidenza.

Mi riservo di scrivere a Vostra Eminenza alla prima occasione, per seco entrare in dettagli d’alta importanza alla religione in Russia. Mediante alcune pratiche ben ponderate si verrà a scartarvi tutti i falsi apostoli, come La Laudel ed altri di tal risma, i quali non tendono che a corrompere il cattolicismo, e trascinarlo frammezzo agli errori, cui cotesti fanatici si abbandonano. In tale faconda io reclamo i soccorsi di Vostra Eminenza nella mia qualità di buon cattolico e in quella d’uom distato. L’errore in materia di religione conduce sempre a tutti gli altri errori. Una sola Potenza regge il mondo morale, e ogniqualvolta questa viene assalita, si preparano perturbazioni. Ecco una professione di fede, alla quale Vostra Eminenza mi ha trovato sempre costante.

L’imperatore annette un alto valore all’andamento che il Santo Padre seguirà verso i Carbonari. Questa setta, composta assai più di ciechi che di chiaroveggenti, dev’essere assalita contemporaneamente da ogni lato. Tutto ciò che Vostra Eminenza potrà dirmi degli intendimenti di Sua Santità sopra questo argomento importantissimo, ci servirà di guida e di luce preziose, e per parte mia sarà considerato in particolare come una prova di confidenza che certamente non andrà perduta per la buona causa.

Non però il Consalvi si lasciò trarre a quest’esca, in cui le grandi preoccupazioni religiose della Santa Sede venivano abilmente usufruitale per accalappiare il papa e il suo primario ministro in quella stessa rete, nella quale con blandimenti opposti evasi allacciato l’autocrata moscovita. In Roma duravano per anco altri e fondati sospetti sulla buona fede dell’Austria.

IV

Mentrecchè Metternich adoperavasi a diffondere la persuasione che l’agitazione rivoluzionaria serpeggiante per l’Italia era opera delle sètte, fomentate ne’ loro intendimenti da agenti russi agguantisi per l’Europa a disseminarvi idee liberali, altri diplomatici non ristavano dal porre in mostra la vera cagione precipua di quella stessa temperie d’animi. Il conte San Martino d’Agliè, il quale da Londra erasi portato a Parigi per scandagliare le intenzioni de’ ministri del re Luigi XVIII, scriveva a Torino:

Nei vari colloqui che ho avuto coi ministri francesi e con altri diplomatici accreditati presso questa Corte, ho cercato costantemente di far considerare l’attuale Stato d’Italia sotto il suo vero aspetto, vale a dire che il focolare del malcontento è nelle provincie italiane soggette all’Austria, e che esso è — 27 meno l’effetto delle società segrete dì quello che lo sia della presenza della dominazione straniera, e dei modi con cui questa medesima dominazione si esercita. A fine di scartare ogni sospetto d’intendimenti d’interesse e d’ambizione per parte nostra, ho aggiunto che io non vedeva alcun rimedio al male principale, perchè dipendente da accomodamenti, sui quali non erasi più in tempo di rinvenire. Ma ho aggiunto che, tanto nell’interesse dell’Austria quanto in quello de’ suoi vicini, era necessario che da essa si cercasse di raddolcire un giogo per sua natura cosi gravoso, abbandonando un sistema di governo che piuttosto potrebbesi appellare spogliazione anziché reggi me savio e rischiarato (26).

La dominazione straniera! Certo sì che questa era la cagione prima, onde nel seno dell’irrequieta Italia sobbollivano le passioni settariche e rivoluzionarie. Tutte le diverse fratellanze politiche italiane d’allora, per quanto diversificassero d’istituti e di riti, nullameno miravano concordi a un identico fine, a quello cioè dell’indipendenza della patria comune dalla dominazione straniera. I Carbonari e i Liberi Muratori erano stretti insieme al patto di togliere il dominio temporale al pontefice, e di scacciare gli Austriaci dall’Italia. I Guelfi portavano bandiera di federazione repubblicana, presieduta dal papa.

I confederati divisavano principalmente di strappar di mano all’Austria la Lombardia e la Venezia, onde formare nell’Italia settentrionale una libera e forte monarchia costituzionale sotto lo scettro di Casa Savoia.

Ma se là dominazione straniera, come a buon diritto notava il conte d’Agliè, inevitabilmente alimentava in Italia le passioni rivoluzionarie, ergevasi inoltre ad insormontabile impedimento a che la penisola s’acquetasse tranquilla nel soddisfacimento de’ suoi legittimi bisogni. Questo lato della quistione italiana poneva sottocchio al suo governo il conte Colli di Brusasco, che a quei dì stava in Pietroburgo ambasciatore pel re di Sardegna; e così egli scrivea in un suo dispaccio al conte San Marzano il 27 gennaio 1821:

La Corte di Vienna ha perduto il momento favorevole. Ora essa non potrebbe più tornare addietro senza esporsi a maggiori pericoli. Conseguentemente debbe mantenere il sistema addottato, che però io credo non abbia mai pensato a mutare.

In conformità di tale sistema è dell’interesse dell’Austria lo spegnere ogni scintilla d'energia negli abitanti delle sue provincie italiane, d’annientare tutto ciò che potrebbe risvegliare in essi gli spiriti d’indipendenza, di ridurli finalmente allo stato d’intiera nullità morale onde poterli dominare con facilità maggiore. Il governo austriaco non ha trascurato di fare tuttociò sin d’ora, ne trascurerà certamente di praticarlo nell’avvenire. Le istituzioni che verranno accordate alle provincie lombardovenete, non avranno quindi mai per loro fine quello di sviluppare le doti morali della nazione; appena si limiteranno a dare qualche imperfetto assestamento all’amministrazione provinciale.

L’Austria ha in Italia un altro grande interesse, quello d’impedire agli Stati italiani d’acquistare una forza morale che essa non può crearsi nel Lombardo-Veneto. Tal interesse è evidente. L’incremento della forza reale dei potentati italiani sarebbe un decremento della forza relativa dell’Austria, e anche di forza reale in modo indiretto, a cagione degli influssi morali che le istituzioni introdotte negli altri Stati italiani potrebbero esercitare nelle provincie che le appartengono. Infatto le condizioni imposte dall’Austria aire di Napoli, e che avrebbe voluto imporre agli altri principi italiani, provano ch’essa opera dietro tale principio. Che se la Corte di Vienna si dovesse decidere a dare istituzioni liberali alle sue italiane provincie, non tralascierebbe alcun mezzo per allacciare con trattati i principi italiani in guisa ch’essi non potessero concedere ai loro sudditi più di quanto fossero per ottenere i Lombardo-Veneti.

L’Austria cosi operando conosce i proprii interessi. Egli è sperabile che i principi italiani, e massime Sua Maestà il re nostro, non misconoscano i vantaggi loro particolari; è desiderabile che giammai consentano a porsi nell’impotenza di profittare di tutti i mezzi che possono aumentarli di forza, e formare la prosperità de’ loro popoli.

Questi mezzi venivano dal diplomatico piemontese residente a Pietroburgo indicali dov’erano davvero usabili.

Che il re Vittorio Emanuele, continuava a dire il conte Colti, a far sua quella corona di ferro che per tanti titoli sembra destinata alla sua Casa, ed a riacquistare in Italia quello stato di potenza che già i suoi avi possedevano, si faccia datore a’ suoi popoli d’istituzioni d’indole schiettamente italiana, atte a mantener vivi gli spiriti militari del suo popolo, ad inspirare il sentimento dell’indipendenza, a favoreggiare gli incrementi del paese nelle scienze, nelle arti, nelle industrie, nei commerci.

Rispetto alla rivoluzione di Napoli il Colli entrava nelle considerazioni seguenti:

Ristabilito che sia l’ordine in Napoli, non vi sarà tuttavia assicurato il riposo generale. Non basta reprimere le sedizioni, bisogna prevenirle, e fa d’uopo pertanto cercar il rimedio nella stessa natura del male.

Ora, se attentamente s’entra nell’esame dello stato morale in cui trovasi l’Europa, sarà agevole riconoscere che gli spiriti non possono più esser guidati da una podestà esercitata conforme a massime determinate ed immobili.

Istituzioni in armonia colla civiltà del secolo e modificate secondo i bisogni e le particolari condizioni di caduna nazione, sembrano l’unico mezzo di calmare questa sorta di febbre morale che spinge di nuovo i popoli nei vortici della rivoluzione, e in pari tempo di paralizzare l’opera delle società segrete, e di consolidar i troni. Tali istituzioni debbonsi mirare da due differenti punti di vista, o come mezzo di preservare gli Stati dal flagello rivoluzionario, o come mezzo d’accrescere la potenza dei governi per l’indirizzo e il buon andamento che essi possono imprimere allo spirito umano. Considerate sotto il primo aspetto, sono indispensabili agli Stati minacciati da politiche commozioni; sotto il secondo, sono utili a tutti i governi indistintamente ove siano con maestria architettate (27).

Salutari moniti eran questi, e in essi soltanto stavano riposti i germi della tranquillità d’Italia. Sventuratamente la caparbietà e la prepotenza di coloro che tenevano le redini pubbliche, li disprezzavano con arroganza.

2.CAPITOLO SECONDO

Sommario

Modi usati dall’Austria per ragguagliare le Corti italiane dell’apertura del Congresso di Laybach — Istruzioni date dal re di Sardegna al conte San Martino d’Agliè, inviato presso i Sovrani congregati —Impegni presi a Laybach dal conte di San Marzano ministro sopra gli affari esteri del re di Sardegna — Speciale incarico affidato dalla Corte di Roma al cardinale Spina inviato al Congresso — Commissione segreta data al plenipotenziario toscano — Proposte del duca di Modena — Contegno ignobile e fedifrago di Ferdinando I di Napoli — Continuazione della discordanza di procedere nella diplomazia francese — Politica inglese Tendenze della politica russa — Prima conferenza sulla questione napoletana — Dichiarazione fatta al Congresso dal principe Ruffo — Avvertenza — Dichiarazioni dei plenipotenziari francesi — Comunicazione fatta al Congresso da lord Stewart In qual modo i plenipotenziari delle Corti di Roma, di Firenze, di Modena e di Torino vennero chiamati ad assistere alle conferenze — Grave dichiarazione fatta dal cardinale Spina — Effetto e risposte date alla medesima — Replica del legato • apostolico —< Dichiarazione dei plenipotenziari delle Corti di Torino, Firenze e Modena — Nuova conferenza sulla questione napoletana — Discorso tenuto dal principe di Mettermeli — Il duca del Gallo a Lubiana — Proposte dell’Austria per l’intervenzione armata nel regno delle Due Sicilie — Dichiarazione pubblicala dalla Corte di Vienna — Rimostranze dei plenipotenziari francesi — Varietà di desideri! e d’opinioni del gabinetto francese Contegno dell’Inghilterra — La questione napoletana innanzi al Parlamento britannico — Proposte di riordinamento del governo napoletano — Proposta del conte Capodistria — Maneggi in contrario Progetto austriaco Suggerimenti vandalici del duca di Modena — Dubbii messi innanzi dal conte Capodistria, e suo colloquio con il principe Mettermeli— Pratiche del cancelliere imperiale presso l’imperatore Alessandro — Colloquio tra Nesselrode e San Marzano — Tranelli austriaci — Ignobile contegno del re di Napoli —Tentativo fatto dal marchese de La Ferronays di salvaguardare l’indipendenza della corona napoletana — Pareri manifestali dai plenipotenziari italiani — Discussione tra il marchese de La Ferronays e il principe Metternich — Chiusura del Congresso — Modi tenuti dal governo costituzionale napoletano nella politica esteriore — Subitanee deliberazioni prese a Laybach rispetto alla rivoluzione piemontese — Carlo Felice alla Corte del duca di Modena — Contegno assunto dal governo francese—Confidenziali negoziali tra l’ambasciatore russo in Torino e la Giunta costituzionale — Dichiarazione pubblicata dai tre Sovrani d’Austria, Russia e Prussia prima di partire da Laybach — Avvertenza.

I

Addì 24 dicembre 1820 il principe Metternich ragguagliò le Corti di Roma, Firenze, Modena e Torino delle intenzioni, con cui le Potenze alleate stavano per congregarsi a Laybach. Era detto che il fine principale di quelle conferenze stava riposto nell’accordarsi onde sostanzialmente rimediare alle condizioni interiori del regno delle Due Sicilie, assicurare i diritti e gli interessi di quella reale famiglia, e il benessere de’ popoli a lei sottomessi. E poiché tutto ciò strettamente collegavasi cogli interessi degli altri Sovrani d’Italia, le Potenze alleate erano venute nella deliberazione di far simultaneo invito alle Corti di Roma, Firenze, Modena e Torino che volessero deputare ciascheduna una persona di propria confidenza a Laybach per vantaggiare di consigli e di dilucidazioni l’opera comune (28) ).

Il gabinetto di Pietroburgo volle maggiormente avvalorare queste sollecitazioni presso la Corte di Torino facendo accertare il conte San Marzano che i negoziati, cui venivano chiamate le Corti italiane, sommamente ambiti dall’imperatore Alessandro, non doveano mirare che al salutar fine di porre il re di Napoli in istato di governare i suoi popoli senza il concorso di truppe straniere (29).

La Corte di Torino avea prevenuto questo desiderio.

Il conte San Martino d'Agliè era già stato prescelto a portarsi a Laybach munito delle seguenti istruzioni. — Qualunque siasi transizione con il governo costituzionale di Napoli dovea valutarsi pericolosa sia per sé stessa, sia pel funesto esempio che somministrerebbe ai rivoluzionarii. In quanto alle condizioni interiori degli Stati sardi, il re avea terminativamente fissate le intenzioni sue; le quali si riducevano a vegliare con iscrupolosa diligenza al mantenimento dell’ordine esistente, e a togliere ai sudditi qualsivoglia pretesto di voti contrarii alla giustizia, gratificandoli spontaneamente di tutte le migliorie richieste dai tempi. Non sarebbesi però il re giammai piegato a dar forma costituzionale al proprio governo, avvegnaché con un tal mutamento si distruggerebbe la pietra fondamentale dell’edifizio della politica tradizionale della sua Casa. Le ragioni addotte eran queste:

Non bisogna acciecarsi al segno da non credere che una costituzione rappresentativa, in qualsivoglia modo venga imposta, non toglierebbe a questi Stati l’importanza loro. Questi in effetto sono costituiti di elementi eterogenei, di cui la fusione sin ora è stata impedita dalla natura e dalle circostanze. È solo in forza dell’unità del potere che i Savoiardi ed i Nizzardi disgiunti dalle Alpi e dalla favella, che i Sardi segregati dal mare, che i Genovesi divisi da recenti ricordi co’ Piemontesi, possono formare uno Stato. Gli interessi di ciascheduno di questi paesi non sono identici, che anzi sono contrarii gli uni agli altri. Ove pertanto il regno avesse forme di governo costituzionale, bisognerebbe rinunziare alla speranza d’avere, non che unanimità di voti, neppure sufficiente maggioranza d’assensi nei deputati per guarentire la tranquillità interna. La discordia che inevitabile sorgerebbe nella Camera, si propagherebbe con rapidità grande frammezzo al popolo; e nessun uomo può prevederne i funesti effetti, resi meno frenabili dal frastagliato potere legislativo.

Queste considerazioni vi siano presenti sempre nelle conferenze, che avrete coi Sovrani e^oi loro ministri a Laybach (30).

Il conte San Marcano, che allora dirigeva in Torino il ministero sopra gli affari esteri, volle eziandio avvertire il conte d’Agliè di tenersi in guardia e diffidare de’ suggerimenti dei plenipotenziari francesi, a motivo che la Francia, non sanata dalle passate sventure,era pur sempre agitata dallo spirito di conquista. Anco vegliasse sul procedere della Russia, la quale per avventura poteva mostrarsi arrendevole a transigere col governo costituzionale di Napoli per diffidenza ed avversione verso la Corte di Vienna. A ciò massime doversi badare, perocché al primo scoppio della rivoluzione napoletana il conte di Stakelberg avea scritto a Pietroburgo, che bisognava mettersi in guardia per stornare i tentativi, cui l’Austria avrebbe posto mano onde usufruttare a vantaggio della propria potenza le condizioni fatte all’Italia dai casi di Napoli (31).

Poco tempo appresso,a soddisfare il desiderio manifestato dall’imperatore Alessandro, il conte San Marcano si portò anch’egli a Laybach. Di colà scrisse ben tosto al re Vittorio Emanuele d’essersi dato cura di prendere i più formali impegni per la conservazione inviolabile della forma di governo. Eragli anche abbisognalo, soggiungeva, dissipare sospetti in ordine ad occulti intendimenti che la malignità propagava si nutrissero nella Corte di Torino (32).

II

Per la Corte di Roma andarono alle conferenze di Laybach il cardinale Spina e monsignor Muzio. Tenevano istruzioni di mantenersi nella più stretta neutralità rispetto all’intervento armato nel regno delle Due Sicilie. Ed ove non tornasse possibile di sfuggire il passaggio degli Au> striaci verso Napoli, si cercasse almeno d’impedire che una parte di essi si fermasse nelle Legazioni o in Ancona (33).

Conscio della mala fede e delle occulte ambizioni dell’Austria, andò al nuovo Congresso per il granduca di Toscana don Neri dei principi Corsini. Egli pure teneva commissione di salvare possibilmente la Toscana dall’occupazione austriaca. A meglio riuscire in ciò il granduca Ferdinando III lo fece portatore d’una sua lettera autografa, nella quale si davano le più esplicite ed assicuranti guarentigie sulla interiore tranquillità della Toscana (34).

Il duca Francesco IV di Modena da prima deputò a rappresentarlo il marchese Molza, suo ministro sopra gli affari esteri; ma poi, sollecitato dal principe di Mettermeli (35), si portò egli stesso a Laybach. Giunto colà, il duca pose nelle mani de’ Sovrani congregali un suo scritto, nel quale proponevasi che tutti i principi d’Italia concertassero insieme i modi di venire ad un accordo formale per trasportare forzatamente nelle Americhe quanti dei loro sudditi si mostrassero turbolenti e settarii. Doveano inoltre vicendevolmente impegnarsi a non recar mutamenti gravi nelle forme de’ proprii governi, senza darsene preventivamente l’avviso.

Sin dal primo giorno del giuralo mutamento di governo, Ferdinando I avea deliberato di tradire il suo popolo, e di fuggire dal regno per tornarvi dopo l’occupazione straniera. In verità che al tribunale della storia appare oscena la figura di questo re. Sul partire per Laybach egli non ommise alcun mezzo per ingannare il figlio, gli amici, i ministri, il paese in ordine alle sue intenzioni. —Io farò, dicea da Napoli, tutti gli sforzi per salvare la costituzione giurata. — Poi vistosi in sicuro, spudoratamente dichiaravasi sopraffatto dalla rivoluzione, e invocava quella stessa invasione straniera che avea promesso al suo popolo di tener lontana come il peggiore dei mali. Laonde l’ambasciatore sardo scriveva da Firenze a Torino sotto il 23 gennaio 1821 le seguenti cose udite dal ministro d’Inghilterra:

Il ministro lord Burghersch trovandosi particolarmente in buoni rapporti con Sua Maestà il re di Napoli, è stato invitato da lui ad una particolare conferenza. Sua Maestà gli ha dichiarato che la violenza sola gli strappò le fatte concessioni e tutti gli impegni che contratto avea co’ rivoluzionari di Napoli, e che quindi non li considerava per nulla obbligatorii, mentrecchè sapeva che, se vi si fosse rifiutato, l’avrebber colpito di pugnale. Quanto poi all’occupazione militare del regno che presentiva gli si domanderebbe, non solo l'ammetteva, ma la sollecitava come il solo mezzo convenevole alla sua condizione.

Da Laybach poco appresso il conte San Marzano scrivea al re Vittorio Emanuele:

Sua Maestà il re di Napoli si è degnato di conversar meco al minuto sugli affari occorrenti. Trascorsi i primi mesi della rivoluzione ne’ suoi Stati, egli avea trovato modo di corrispondere co’ suoi fedeli ministri; e i Sovrani possedono i suoi protesti contro tutto ciò che facevasi nel suo regno e quotidianamente gli facevan fare. Tale corrispondenza avea luogo per l’intrammezzo del conte Blacas (36).

Ferdinando avea mostrato il maggior desiderio d’aver Seco a ministro nelle conferenze di Laybach il duca del Gallo, che ei trattava con somma famigliarità. Ma di mano propria avea scritto in Vienna al principe Ruffo, invitandolo a portarsi al Congresso, dove riceverebbe la sua regia plenipotenza:— Vieni tosto (citiamo testualmente), né darli pensiero di trovar qui quell’imbecille del duca del Gallo (37).—

III

I conti Blacas e di Caraman ed il marchese de La Ferronays si trovarono in Laybach investiti della plenipotenza del re di Francia. Continuava nel gabinetto di Parigi la lotta delle idee politiche propugnate dai due partili, che tenevano in Francia il maneggio della pubblica cosa. De Villèle e De Corbière, entrati nel consiglio di Luigi XVIII a rappresentarvi il pretto legittimismo, consigliavano una franca e pronta alleanza coll’Austria per isradicare dall’Italia la rivoluzione. Pasquier, ministro sopra gli affari esteri, capitaneggiava invece l’altra opinione, di lasciare che la Corte di Vienna assumesse nella penisola maggiori influssi co’ suoi interventi armati, assentiti dall’Europa. Saputo quindi che i tre Sovrani congregati a Laybach in un protocollo preliminare aveano determinato in massima il diritto d’intervento, e come corollario l’occupazione militare del regno delle Due Sicilie, egli negò a tale deliberazione l’assenso della Francia, e scrisse ai plenipotenziari francesi:

Sin ad ora eransi conosciute la guerra e la conquista. L’occupazione militare è una novità, che si vuol introdurre nel diritto delle genti. Il primo esempio è stato dato in Francia. Ciò che è avvenuto a nostro riguardo, è un argomento senza replica per non farci ammettere un principio, l’attuazione del quale fu per noi cotanto dolorosa, e che al solo rammentarla il sentimento nazionale bolle di sdegno. La Francia, ahimè! ha subito il giogo della forza, ma ne riconobbe giammai il diritto; e se la diplomazia francese si prestasse a favorirlo, perderebbe in perpetuo il suo credito.

Nobili propositi erano questi, ma che in breve doveano esser abbandonati. Il menzionato accostamento delle Corti italiane all’Austria, e il timore quindi nato nel gabinetto francese di vedersi privato d’ogni influsso nella penisola se si mantenesse saldo nell’osteggiare l’intervento armato nel regno delle Due Sicilie, condussero i ministri di Luigi XVIII a prendere un partito più concorde ed arrendevole. Il conte di Pralormo, che stava allora in Parigi pel re di Sardegna, dava notizia di tal mutamento così:

Tre anni d’esperienza e d’osservazione m’hanno condotto a credere che la politica del gabinetto francese, per quanto sia vaga ed incerta, tuttavia dal ristauro in poi s’aggira su due tradizioni dell’antico governo regio. E sono la diffidenza verso l’Inghilterra da un lato, e dall’altro la gelosia verso l’Austria. Il re stesso è predominato da tali idee, le quali sono il perno su cui volgono le sue conversazioni politiche, e le istruzioni che alcuna volta si degna dare di viva voce a’ suoi ambasciatori.

Ma, alla notizia dell’appello fatto dall’Austria alle Corti italiane, il governo francese ha capito che il giudizio di queste Corti era troppo esplicito sul sistema politico da seguirsi in Italia, per lasciargli speranza d’impedire che i principi italiani si gettassero fra le braccia dell’Austria ov’esso persistesse nel contegno assunto a Troppau. Volendo quindi ad ogni modo paralizzare l’azione della Corte di Vienna in Italia, il gabinetto di Parigi ha compreso che l’unica via rimastagli aperta era quella di farsi anch’esso a favoreggiare le idee politiche dei governi italiani. Adottando un tal modo di procedere, assai più prudente e conforme ai veri interessi della Francia, questi ministri non hanno tuttavia compiutamente smesso le antiche loro idee, e il progetto di lasciar una porta schiusa ai negoziati coi ribelli, e d’introdurre nel regno delle Due Sicilie un regime che s’accosti a quello della Francia. Il duca di Richelieu ieri sera ancora favellava in questo senso col barone di Binder (38).

IV

Il gabinetto inglese rimaneva impassibilmente saldo alle sue idee avverse al governo costituzionale napoletano. Un pensiero solo preoccupava la mente dei ministri britannici, ed era quello di traviare la pubblica opinione con ingannevoli appariscenze, e di salvaguardarsi in cospetto del parlamento. In seno perciò a Castlereagh cuoceva che la Corte di Vienna non avesse seguito il datole consiglio di schiacciar da se sola la rivoluzione napoletana. Scriveva pertanto a Gordon ed a Stewart inviati inglesi a Laybach:

Pur sempre penso che Metternich ha molto indebolita la sua causa rendendo l’affare napoletano una questione europea, invece di tenerlo ristretto ad una questione puramente austriaca. Egli avrebbe ugualmente conseguito l’appoggio dell’Europa, se avesse fondato l’intervento austriaco sopra un motivo più facile a comprendersi. Sovratutto nel nostro paese l'opinione pubblica sarebbe stata per lui ove si fosse limitato ad allegare l’indole ostile ed offensiva d’un governocarbonarocontro tutto ciò che esiste, anziché imbarcarsi nell’oceano sconfinato, in cui ha prescelto d’avventurarsi. Se Metternich avesse fondato arditamente le sue operazioni sopra basi affatto austriache, mentre tenevane sottomano delle cosi solide, la Russia e la Prussia avrebberoinfusol’interesse europeo nelle loro dichiarazioni di aderimento, senzadilavarela questione al punto da stenderla ad interessi cosi remoti. Ma il nostro amico Metternich, con tutto il suo merito, preferisce un negoziato complicato ad un colpo rapido e ardito (39).

Così, anziché condannare od opporsi all’intervenzione d’uno Stato negli affari interiori d’un altro, il ministro dirigente la politica esteriore dell’Inghilterra nelle confidenziali manifestazioni de’ suoi pensieri approvavala nella forma più brutale e più contraria al diritto internazionale.

V

Lo czar Alessandro, come fu da noi detto, caduto sotto il predominio di Metternich, crasi portato a Laybach colle intenzioni più ostili contro il reggime costituzionale napoletano. E sempre eccessivo ne’ suoi modi di pensare e di procedere, dicea al conte San Marcano:— Torna assolutamente necessario distruggere in Napoli l’attuale stato di cose, e bisogna andar diritti a questa mira senza alcun timore di veleni o di pugnali (40).

—Per quanto però lo czar avesse abbandonato la causa della libertà de’ popoli, tuttavia non erasi per anco accomodato a puntellare il despolismo assoluto dei re. Specialmente il conte Capo d’istria adoperavasi a mantenerlo almeno in tal disposizione d’animo, ultimo avanzo di speranze ormai irreparabilmente svanite. Il conte San Marzano, che avea la mente ottenebrata da eccessive avversioni alle forme di governo rappi esenta li vo, scriveva da Laybach su questa tendenza della politica russa:

L’opinione dell’imperatore Alessandro e del conte di Nesselrode è in sostanza eccellente; essa non ammette alcuna transazione con un ordine costituzionale di cose. Ma l’uno e l’altro sono convinti che la monarchia pura trovasi oggidì nel bisogno d’appoggiarsi sopra istituzioni, le quali, senza ledere il diritto sovrano, gli diano agevolezza di raggiungere il fine che si deve proporre ogni buon governo, quello d’evitar gli abusi dell’amministrazione inferiore. Così da questo lato le idee dell’imperatore Alessandro lasciano qualche addentellato a’ progettale conseguenze dei quali potrebbero tornar disgustose nello stato attuale di cose.

Sembra che il conte Capo d’Istria, ammettendo lo stesso principio, vi dia però una tale latitudine da lasciar supporre che inclini alle idee costituzionali. Quest’uomo di Stato fonda la scienza governativa sovra principii astratti e metafisici, dai quali, se così si vuole, tira conseguenze a fil di logica, ma che nell’applicazione sono molto incerte (41).

VI

Addì 12 gennaio 1821 il principe di Metternich manifestò ai plenipotenziari delle maggiori Potenze congregate i confidenziali accordi che aveano preso tra loro i Sovrani alleati e il re di Napoli dopo il suo arrivo in Laybach. Egli aggiunse che, avendo il principe Ruffo ricevuta la plenipotenza del re Ferdinando, nella seduta susseguente presenterebbesi a manifestare le intenzioni di quel monarca (42). Ciò ebbe luogo tre giorni appresso. Il plenipotenziario napoletano lesse un messaggio, nel quale si ringraziavano i monarchi congregati delle sollecitudini loro per ricondurre a tranquillità il regno delle Due Sicilie, e loro chi e devasi una franca e compiuta dichiarazione di quanto pensavano praticare a conseguirla (43).

Metternich fu incaricato di rispondere. Egli disse — che la rivoluzione napoletana pe’ suoi mezzi e pe’ suoi fini avea disseminato lo spavento nell’intiera penisola italiana. I monarchi pertanto,' che eransi assunto il sacro dovere di vegliare alla pace del mondo, aveano rivolto ad essa i loro sguardi. E ben tosto aveano potuto conoscere che quella rivoluzione, anziché isolata, era un prodotto dello spirito di sovvertimento, che per sì lungo tempo avea agitato l’Europa, ed il quale, mentre credevasi spento, era anzi ripullulato sotto forme più micidiali all’ordine pubblico.

I monarchi alleati non doveano pertanto in alcun modo rimaner inoperosi al cospetto d’un sovvertimento operato dal delitto, e minaccioso alla pace mondiale. Conseguentemente chiedevano la volontaria annullazione del governo costituzionale di Napoli; ed ove a ciò non si giungesse per mezzi persuasivi, verrebbero adoperali i violenti. Tale deliberazione era immutabile (44). — Terminato questo discorso, la conferenza si sciolse senzachè il plenipotenziario napoletano facesse parola di risposta.

Fu nella conferenza del 19 gennaio che il principe Ruffo si sdebitò di tal incarico così parlando: — Il re mio signore, dopo aver udita la mente dei grandi Potentati, non può illudersi sul vero stato delle cose in ordine alla sua corona ed al suo regno. E poiché essi hanno deliberato di far cessare nelle Due Sicilie il reggime costituzionale, non torna più possibile alcun altro negoziato che non s’accomodi a questo fine. Pertanto, il solo e vero servizio che in circostanze così sciagurate egli può rendere al suo paese essendo quello di salvarla dai mali della guerra, accetta l’uffizio di mediatore per una volontaria sottomessione de' Napoletani alla sovrana volontà delle Potenze alleate (45).

Queste dichiarazioni, fatte nelle conferenze in cospetto di lutti i plenipotenziari, in sostanza erano dirette per artifizj menzogneri massime a palliare gli imperiosi comandi e i disonesti accordi che aveano luogo nelle segrete adunanze dei monarchi congregali a Laybach. Era in esse che il re Ferdinando I s’abbandonava alle più schifose proteste di devozione ai principii della Santa Alleanza, e udivasi insolentemente imporre la legge dall’imperatore austriaco (46). Poi Metternich e Ruffo si portavano alle conferenze dei plenipotenziari a farvi i menzionati discorsi antecedentemente architettati tra loro. I plenipotenziari francesi, uditi che gli ebbero, dichiararano che, a dare testimonianza solenne di quella, concordia cui i maggiori Potentati doveano rimaner fedeli, essi assumevano per intiero la responsabilità d’assentire a lutto ciò che erasi stabilito negli antecedenti protocolli, e conseguentemente avrebbero inviato all’agente di Francia in Napoli istruzioni tali da renderlo cooperatore operoso della volontà dei monarchi che aveano deliberalo di rimettere il governo delle Due Sicilie nelle forme antiche. Operando in tal guisa essi intendevano mostrare quanto fosse vivo il desiderio del re di Francia e del suo governo di concorrere a ritornar l’Italia in tranquillità, e l’Europa in quello stato di confidente sicurezza altamente richiesta dai comuni interessi.

Lord Stewart dichiarò che le istruzioni sue gli vietavano d’apporre la propria firma ai protocolli delle conferenze, a motivo che il re e il governo della Gran Bretagna non giudicavano convenevole d’associarsi alle deliberazioni prese dalle Corti di Berlino, Vienna e Pietroburgo rispetto ai modi di procedere verso il governo costituzionale napoletano. Tuttavia egli era incaricato di dichiarare che il governo inglese vedeva con sollecitudine penosa i procedimenti d’una rivoluzione, la quale manifestamente portava in sè i caratteri di cospirazioni settariche e d’una ribellione soldatesca contro un governo mansueto e paterno (47).

VII

In tal modo calpestata l’autorità della corona napoletana c l’autonomia del regno delle Due Sicilie, si chiamarono

ad assistere alle conferenze i plenipotenziari delle Corti di Roma, Firenze, Modena e Torino. Metternich, ragguagliatili delle massime stabilite e delle deliberazioni prese dai Potentati alleati, si fece a chieder loro se, in conformità dei poteri che essi tenevano dai loro Sovrani, intendessero di prestare il proprio assenso a quanto erasi operato.

Primo a rispondere fu il cardinale Spina ne’ termini seguenti: — I Sovrani alleati per l’intermezzo de’ loro ministri residenti in Roma sollecitarono il Santo Padre d’inviare a Laybach una persona in possesso della sua sovrana confidenza, onde cooperare a guarentire al popolo napoletano un governo stabile, e per fissare nel regno delle Due Sicilie un ordine di cose valevole a non turbare la tranquillità degli altri Stati italiani. Conseguentemente le istruzioni di cui trovomi fornito, non risguardano alcun altro oggetto. Non sono quindi autorizzato a manifestare veruna opinione sulle cose trattate e risolute nelle conferenze. Una tal circospezione mi viene massimamente raccomandata dal proposito di Sua Santità di mantenere il suo principato temporale nei termini della più stretta neutralità. Non poteva tuttavia il Santo Padre non essere profondamente grato ai monarchi alleali per le sollecitudini loro ad assicurare la tranquillità d’Italia. E neanco, nella sua qualità di Padre comune di tutti i credenti in quel Dio, di cui egli è vicario sulla terra, poteva trattenersi dal sollevare i più fervidi voti affinché la pace e l'ordine rifiorissero prontamente nelle Due Sicilie. Mi è pertanto prescritto, conchiuse il cardinale, d’offrire la mediazione di Sua Santità al fine di conseguir pronto e pacifico accordo d’intendimenti tra il regno delle Due Sicilie e gli altri stati europei. —

A questa dichiarazione inaspettata successe un profondo silenzio. Primo a romperlo con vivacità fu il conte Capodistria.— Ammesso anche, diss’egli, che Sua Santità abbia delegato a Laybach Sua Eminenza il cardinale Spina col solo mandalo di prender parte alle deliberazioni dirette a stabilire nel regno delle Due Sicilie un ordine di cose compatibile colla pace dell’Europa, sembra che per quest’unico fatto il Santo Padre riconosca eziandio che i mutamenti politici compiutisi in quel regno sono contrarii alla tranquillità comune. Ma non è egli per avventura dietro tal convinzione che le Potenze alleate aveano consegnato nel giornale protocollo delle conferenze le loro salutari e concordi deliberazioni? Per qual motivo dunque il plenipotenziario pontificio non vuol convalidarle del suo assenso? —

Sir Stewart soggiunse: — Penso che il conte Capodistria abbia piena ragione. Quantunque a me pure fosse prescritta la maggior riserbatezza di procedere, tuttavia non ho tralasciato di dare quell’assenso, cui pare restìo il plenipotenziario pontificio. —

La Spina, lasciata in disparte ogni discussione, con moderate parole espresse il desiderio che ne’ protocolli delle conferenze rimanesse scritto che Sua Santità avea creduto di potere, senza offendere la neutralità che intendeva seguire, inviare a Laybach un suo legalo per compartecipare a conferenze destinale a stabilire nel regno delle Due Sicilie un governo compatibile colla quiete d’Italia. Ma poiché in quelle stesse conferenze erasi deliberalo di por mano ad espedienti alti a generare aperte ostilità, egli più non si credeva autorizzato ad assistervi.

Il conte San Marzano fece la seguente dichiarazione: — Sua Maestà il re mio signore al primo scoppio della rivoluzione napoletana giudicò che, ove la distruzione di essa non si facesse in modo compiuto, né si prevenissero i malvagi effetti che ne seguirebbero, sarebbesi incorso nell’inevitabile sovvertimento dell’intiera penisola, e quindi dell’Europa. Essa Maestà Sua credette perciò salutarissimo il pronto marciare in Italia d’un esercito austriaco; ed ora per mio mezzo manifesta il pieno suo soddisfacimento per l’accordo perfetto e le ottime intenzioni spiegate dalle Potenze alleate. Mentre quindi il re mio signore dava il suo assenso a quanto si è deliberato, palesa la convinzione sua sulla necessità d’un intervento armato dell’Austria onde riporre il regno delle Due Sicilie in un assetto politico capace di tranquillare l’Italia. —

Il principe Corsini, dopo aver dichiarato che il granduca di Toscana disapprovava nel modo il più reciso la rivoluzione napoletana, e s’associava a quanto sulla medesima aveano statuito le Potenze alleate, conchiuse cosi: — Il granduca mio signore vide con la maggior soddisfazione giungere in Italia un grosso esercito austriaco, avvegnaché esso valse ad impaurire coloro che nella Toscana macchinavano per avventura di turbar il paese. —

Il marchese Molza in nome del duca di Modena, approvando tutto ciò che nel Congresso erasi stabilito a’ danni del governo costituzionale napoletano, espresse il vivo desiderio del suo Sovrano di veder sradicata la pestifera pianta della rivoluzione (48).

VIII

Ottenute queste dichiarazioni dai principi italiani, amici di nome e servi di fatto aU’Auslria, fu chiamato a Laybach il duca del Gallo da Lubiana ov’era tenuto a confine. E tosto, correndo la sera del 30 gennaio di quell’anno 1821, ebbe luogo una conferenza, cui furono invitali ad assistere, ascoltatori forzatamente silenziosi, i plenipotenziari delle Corti italiane. Metternich dapprima vi lesse le deliberazioni già prese dai Sovrani alleati, la lettera che re Ferdinando avea scritto per essere spedita al figlio suo duca di Calabria, le istruzioni che stavasi per inviare agli agenti dell’Austria e della Russia in Napoli; poi soggiunse: — Signor duca, ho l’incarico di manifestarvi i voli che fanno i Sovrani alleati, e con essi quanti sono i membri di questa grande alleanza, di pace e vicendevole benevoglienza, la quale è la saldissima base della politica europea. Questi voli sono, che gli abitanti del regno delle Due Sicilie ascoltino la voce paterna del loro re, e che per un franco e sincero ravvedimento mettano Sua Maestà in condizione di fondare la loro felicità futura su basi conformi ai loro veri interessi, e quindi alla sicurezza e tranquillità degli Stati vicini. Ove il regno delle Due Sicilie rientri per tal modo nel seno dell’alleanza generale, non troverà nelle Potenze d’Europa che amici dediti al suo benessere. Nell’ipotesi contraria, coloro i quali, spinti da cieco fanatismo o per motivi ancora più colpevoli, avranno affascinato gli occhi d’un popolo leale, saranno soli responsabili dei mali che tireranno sulla loro patria, e di cui senza dubbio diverranno le prime vittime. —

—Ho udito, rispose con voce sommessa il duca del Gallo, le deliberazioni manifestatemi. Tosto domanderò al re mio signore gli ordini suoi, e farò ogni mio sforzo per corrispondere a’ suoi augusti voleri ed a quelli de’ suoi alleati (49). —

Uscito dalla conferenza, il duca del Gallo si portò subito dal re. Come Ferdinando lo vide, gli andò incontro e disse: — Ebbene, caro Gallo, hai udito quanto Metternich ti ha detto. Bada che io son d’accordo con lui, e confermo tutto. Parli quanto più presto puoi, chè io non ho più bisogno di te (50).— Così favellava questo re infame.

IX

Fu nell’undicesima conferenza che Metternich fece note le proposte dell’Austria relative all’intervenzione militare nel regno delle Due Sicilie. L’esercito d’occupazione sarebbe costituito di truppe austriache. Un esercito russo rimarrebbe apparecchialo ad ogni evento. Ove i napoletani da per sè stessi distruggessero il governo costituzionale, e si sottomettessero ai voleri degli alleali, non verrebber aggravati da taglie di guerra. Ma se l’uso delle armi divenisse necessario, tutte le funeste conseguenze graviterebbero sui popoli delle Due Sicilie (51). Tutto ciò assentirono i plenipotenziari congregali, laonde Metternich ne diè avviso per iscritto al reggente ed al governo di Napoli in termini che toglievano ogni speranza di pacifico accomodamento.

A coonestare l’ingresso nelle Due Sicilie di un esercito austriaco, la Corte di Vienna pubblicò una dichiarazione, nella quale, dopo avere a modo suo narrato i casi della rivoluzione napoletana e l’andamento delle conferenze di Troppau e di Laybach, concludeva col dire bugiardamente che i monarchi alleati miravano soltanto a salvare il riposo del mondo, i diritti de’ troni, e la vera libertà dei popoli.

Questa dichiarazione grandemente spiacque ai plenipotenziari francesi, causa l’adulterazione d’alcuni fatti. Non però credettero di farne lamento in modo pubblico;si contentarono d’indirizzare nel 20 febbraio 1821 una nota verbale al principe Metternich, la quale è prezzo dell’opera qui riferire, segnatamente per le notizie che porge alla storia:

La dichiarazione relativa agli affari di Napoli, ultimamente pubblicata dalla Corte di Vienna, contiene un passo che ha chiamato a sè l’attenzione del governo di Sua Maestà cattolica. Laonde i sottoscritti si trovano nell’assoluta necessità d’entrare in alcune spiegazioni per togliere ogni dubbio sul contegno e sugli intendimenti del gabinetto di Sua Maestà il re Luigi XVIII. Il gabinetto austriaco, esposto lo stato di cose prodotto dagli avvenimenti succeduti nel regno delle Due Sicilie, notifica che nelle conferenze di Troppau si è trovato d’accordo in ogni questione discussa colle Corti di Russia e di Prussia, frattanto che argomenti di gravissimo peso tolsero al governo d’Inghilterra d’assentire in tale accordo, e posero il governo di Francia nella necessità di non accedervi se non con alcune riserve.

Ora interessa al governo francese di porre iù sodo il significato preciso di queste ultime espressioni. Le deliberazioni di Troppau ebbero per oggetto primario di stabilire un sistema di principii generali, diretti a fissare il diritto d’intervento vicendevole negli affari intorni degli Stati, e secondariamente a farne l’applicazione alle cose di Napoli.

La Francia, come l’Inghilterra, è rimasta estranea alle discussioni che ebber luogo intorno al primo dei menzionati punti, mentr’essa poi non ha mai direttamente nè indirettamente assentito a tale sistema d’interventi. Che se il governo francese non avea creduto di seguire in ciò l’esempio del governo inglese col manifestare al pubblico l’opinione sua, tuttavia non avea tralasciato di farla conoscere a’ suoi alleati. Dover aggiungere di non poter prevedere alcun caso che lo conducesse ad addottare tale sistema qual perno della sua politica esteriore.

Quanto al secondo punto, giacché la Francia erasi rifiutata d’ammettere il principio, non poteva equamente dedurre dal suo modo di comportarsi in ordine alle faccende di Napoli, che essa ne ammettesse le conseguenze. Il governo francese sin da principio erasi posto per tutt’altra via. Persuaso dei vantaggi che avrebber susseguito ad amichevoli e pacifiche pratiche, erasi creduto in dovere di cooperare a tutti quegli spedienti, che si presentavano forniti di tal natura. Conseguentemente Sua Maestà il re Luigi XVIII erasi fatto premura d’appoggiare le sollecitazioni indirizzate al re di Napoli perchè si recasse in— 49 —persona a Laybach; e non avea del pari tralasciato d’impegnare il Sovrano Pontefice ad assumere l’incarico d’una mediazione pacifica, se il re di Napoli si fosse trovato nell’impossibilità d’abbandonare i suoi paesi.

Queste e non altre furono le determinazioni, cui prese parte la Francia a Troppau. A Laybach essa ha manifestato le stesse massime conciliative. Che se i suoi plenipotenziari assunsero la responsalità di aderire alle ultime pratiche iniziate dalle tre Corti di Vienna, Berlino e Pietroburgo in Napoli, ciò fecero unicamente sperando di scorgervi un mezzo atto a risparmiare al regno delle Due Sicilie i mali della guerra, ed a guarentire i beni della tranquillità al rimanente della penisola italiana. Simili intendimenti del francese governo non erano per nulla mutati. Ove pertanto il flagello della guerra fosse per affliggere il regno delle Due Sicilie, esso cercherebbe nella neutralità impostale da’suoi principii direttivi i modi per addolcirne i rigori e per abbreviarne la durata.

Ma frattanto l'Italia stava per cadere in piena balìa dell’Austria. A Parigi non se ne mostravano scontenti i ministri Villèle e Corbière, che aveano costantemente insistitoaffinchéa Laybach la Francia fosse entrata con grande animo e con aperti propositi nella Santa Alleanza. Se ne palesava invece schiettamente contristato il duca Richelieu, che vedeva messa al disotto la sua politica di pacifico ed amichevole intervento per un componimento convenevole tra il re ed il popolo nelle Due Sicilie. Il barone Pasquier, che nei consigli di Luigi XVIII avea sempre propugnato tal modo di procedere, non avea perfin ommesso di biasimare in termini risentiti i plenipotenziari francesi, perché, a 6uo dire, eransi lasciati andare ad una soverchia arrendevolezza col prender parte alla conferenza, nella quale erasi chiamato il duca del Gallo a udire il discorso di Metternich (52). Ma poi in definitiva, come abbiam accennato, nulla erasi concluso che valesse a salvaguardare gli interessi permanenti della politica francese in Italia,In quanto al governo della Gran Bretagna, esso non avea un solo istante ondeggiato fra partiti contrari. Deliberalo di lasciar libera la mano all’Austria di soffocare nel sangue la rivoluzione napoletana, lordCastlereaghnon avea in realtà badato se non che a salvare le apparenze, ed a condurre le cose in modo da tener celala al parlamento quella sua politica liberticida, la quale, conosciuta nella sua nudità, l’avrebbe inevitabilmente sbalzato dal seggio ministeriale. E vi riuscì a meraviglia, così che in quel tempo ne ancora lui mancò l'immeritato vanto di solerte difensore della causa liberale in Europa! A prender nel laccio la pubblica opinione valse sovratutto a Castlereagh un dispaccio circolare, da lui indirizzalo agli agenti dell’Inghilterra all’estero, nel quale stavano le seguenti massime di diritto pubblico. Ciascheduno Stato trovasi nel possesso dell’incontrastabile diritto d’intervenire nelle faccende interiori d’unaltroStato, quando le mutazioni succedute in esso pongono in grave compromesso gli essenziali interessi e l’immediata sicurezza propria. Ma questo diritto d’intervento debb’esser giustificato dalla più assoluta necessità, né si può indistintamente applicare a tutti i moti rivoluzionarii; e molto meno accettar come base d’un’alleanza, e comprendere nell’ordinario andamento della diplomazia degli Stati (53).

Il principio del non intervento trovò poco dopo gagliardi propugnatori nei parlamento britannico: lord Landsdowne nella Camera dei Comuni mise innanzi la proposta di ringraziar la Corona per le dichiarazioni fatte da Castlereagh, e di manifestare l’universale soddisfacimento per l’avuta notizia che il governo inglese erasi rifiutato d’associarsi a provvidenze contrarie alla legge fondamentale dell’Inghilterra, e distruttive delle più certe norme di convivenza tra le nazioni. La Camera dei Comuni volesse pertanto, concludeva Landsdowne, esprimere il desiderio suo di vedere il governo inglese porre in moto tutti i suoi legittimi influssi per dimezzare almeno gli effetti di deliberazioni minacciose alla tranquillità dell’Europa, e le quali, accoppiate alle dottrine professate per legittimarle, divenivano uno dei più pericolosi esempi contro l’indipendenza dei governi e la sicurezza dei popoli (54). Benché siffatta proposta, messa a partito, non riuscisse vincitrice, pure nell’una e nell’altra Camera del parlamento inglese a quei dì si palesò prevalentel'opinioneche negli affari del continente europeo l’Inghilterra doveva serbarsi neutrale. Ma neanco questa era la vera e degna politica che conveniva a una grande libera nazione, frattanto che il mondo vedeva un eccesso così superlativo d’autorità regia rivolto a calpestare l’indipendenza interiore ed esteriore dei popoli. Certamente non si può esigere che uno Stato, all’infuori dei suoi immediati interessi, si costituisca il patrono delle buone cause impotenti a riuscire se scompagnate dall’aiuto altrui: ma d’altronde, per vivere senza digradarsi e senza cessare d’esser grande, un popolo non può chiarirsi indifferente e inoperoso quando vede manomesse le massime cardinali della giustizia scambievole delle nazioni.

Un maggiore scandalo dieder in quei giorni il governo e il parlamentò inglese. Lord Guglielmo Bentinck, voglioso per avventura di purgare la propria fama del procedere dell’Inghilterra nell’anno 481U verso i Siciliani, nel giugno del 1821 pose innanzi il partito nella Camera de’ Comuni, che il governo procurasse almeno la restituzione alla Sicilia delle rapitele franchigie costituzionali. Recisamente rifiutando di accoglier per buona una tale proposta, in mancanza di valide ragioni Castlereagh s’appigliò a una di quelle spudorate menzogne, le quali tornerebbero incredibili se non s’incontrassero registrate nelle più accertate pagine degli annali parlamentari dell’Inghilterra. Egli dichiarò che prima dell’anno 1812 la Sicilia non erasi mai trovata in possesso d’un governo rappresentativo, e che nell’anno 1815 lo stesso parlamento siciliano erasi rivolto al re Ferdinando per pregarlo di riformare la costituzione a piacer suo. Invano Mackinstosk colla storia alla mano sorse a chiarire che lordCastlereaghscientemente mentiva: sessantanove voti contro trentacinque si manifestarono favorevoli alla politica del governo, dando torto alla storia, e decretando che la Sicilia stava benissimo sotto il tirannesco governo borbonico (55).

X

Pretestando interessi d’ordine europeo, i monarchi congregati a Laybach aveano decretato l’intervento armato nel regno delle Due Sicilie. Di ciò non abbastanza soddisfatti, vollero eziandio arrogarsi la facoltà d’un ingerimento imperatorio nel ristauro del governo assoluto di Napoli, il principe Ruffo a tal fine presentò a Metternich uno schema d’organamento amministrativo, nel quale, d’accordo col conte San Marzano e il principe Corsini,erasi studiato di togliere ogni apparenza di concessioni liberali (56).

Le proposte del plenipotenziario napoletano non riuscirono acc.ette. Del qual fatto destramente si valse il conte Capodistria per un ultimo tentativo a prò di quella politica, che ormai nel Congresso non avea più fautori. E disse, — che non si poteva né doveva risolvere a Laybach la questione del riordinamento del governo napoletano. Perché il re di Napoli abbia modo di far ciò convenevolmente, bisogna che si trovi circondato da probi ed oculati consiglieri napoletani. Essi soli possono suggerirgli il meglio da fare per la felicità ventura del suo regno. — Tutti si tacquero, disgustati altamente d’una tale proposta. Solo il generale Pozzo di Borgo con ironico sorriso disse: — Se entriamo per una tal via, finiremo col vedere i Napoletani dettarci la legge. —Usciti dalla conferenza, i plenipotenziari che maggiormente astiavano la proposta di Capodistria, non si stettero colle mani alla cintola. Il conte San Marzano che era nel novero di costoro, scriveva a re Vittorio Emanuele:

Se la proposta del conte Capodistria fosse stata adottata, avrebbe senz’altro dato luogo allo stabilimento d’un governo costituzionale. D’altra parte una tal discussione fatta in Italia, nelle presenti circostanze, sveglierebbe ogni sorta d’intrighi; si giungerebbe ad ammortire le buone disposizioni della Francia, e tutto andrebbe in perdizione. Conseguentemente mi sono col maggior calore adoperato a spaventare il principe Metternich, il duca di Modena, il conte Bernstorff, il generale Vincent. Il principe Corsini e il conte Blacas hanno operato similmente. Alla perfine Metternich s’è appigliato al partito di dar mano egli stesso ad un progetto modellato sullo schema presentato dal principe Ruffo (57).

Tale progetto comprendeva le seguenti due proposte. Deputazioni provinciali, nominate dal re, e poste sotto la tutela governativa, presiederebbero agli affari amministrativi delle singole provincie. Una consulta di Stato, formata di consiglieri provinciali scelti dal re, darebbe voto consultivo sopra quei soli affari, che sarebbe di regio aggradimento comunicarle, dopo la discussione fattane nel gabinetto del re, costituito dai ministri segretari di Stato.

Ma prima d’introdurre nelle conferenze de! Congresso queste sue proposte, Metternich pensò di tasteggiar l’animo di coloro che doveano discuterle. San Marzano che le conobbe pel primo, le approvò compiutamente. Non così tornarono accette al duca di Modena: egli avrebbe voluto che s’usuffruttasse quell’occorrenza per risospingere gli Italiani presso che al medio evo. Nè per lui si ristette che ciò non avvenisse. Conformemente giudicava Francesco IV di Modena: — La mancanza del sentimento religioso, la diminuzione del clero, l’abolizione delle confraternite, l’annientamento delle corporazioni d arti e mestieri, le quali tenevano disgregate tra loro le classi sociali e sottoponevanle a una salutare disciplina, il pareggiamento di tutti in faccia alle leggi, la soverchia spartizione delle ricchezze, favoreggiata anzi che inceppata dai governi la libertà della stampa, la via aperta a tutti indistintamente alle carriere dei pubblici uffizi, l’eccessiva considerazione accordata agli uomini di lettere, il troppo conto in cui eransi tenuti gli scienziati, la moltiplicità delle scuole, il libero passo accordalo a tutti d’imparare a leggere e scrivere, ecco, diceva il vandalico duca in un suo memoriale porto ai Sovrani congregati, le cagioni precipue che innestarono all’Europa i germi rivoluzionari. Volete sterparli con risoluta mano? tornate in vita, ed attuate con piena autorità tutti quei salutari principii di governo.

I plenipotenziari francesi ed i russi dichiararono che, se il re di Napoli giudicasse di suo aggradimento quanto proponeva il principe Mettermeli, essi non avrebber sollevato difficoltà in contrario. Capodistria, riservandosi di riferirne allo czar Alessandro, chiese se l’imperatore d’Austria era deliberato davvero a non assentire nel governo di Napoli nulla che avesse una qualche attinenza col sistema rappresentativo. Visibilmente sorpreso a tale domanda, Metternich, dopo un istante di silenzio, rispose: — L’imperatore mio signore anzi che assentirvi, farebbe piuttosto la guerra. — Ma, richiese Capodistria, se il re di Napoli volesse di sua spontanea volontà adottare un tal sistema di cose? — L’imperatore farebbe la guerra ai re di Napoli, replicò il cancelliere imperiale. — I due ministri si lasciarono senza scambiar più alcun’altra parola.

Ma Metternich chiese tosto un’udienza all’imperatore Alessandro. Conveniva ad ogni costo ammortire gli influssi, che sull’opinione dello czar poteva ancora esercitare Capodistria. Non abbiam documento per narrare le cose dette dal cancelliere imperiale al monarca russo in quel colloquio. Ben è certo che il ministro austriaco riuscì nel suo intento. Il conte San Marzano di fatto scriveva a Vittorio Emanuele:

Ilprincipe di Metternich è riuscito compiutamente. L’imperatore Alessandro gli disse che adottava il suo progetto, ed ' ha soggiunto che non intendeva di venire in alcun modo a transazione coi sistemi liberali, e che quindi ultimasse pure l’opera incominciata senza prendersi fastidio d’opinioni particolari (58).

Più probabilmente fra le ragioni messe in campo dal principe Metternich onde far aggradire il suo disegno da Alessandro, primeggiò quella dell’assenso dato al medesimo dai principi italiani. Invero, nella sera di quello stesso giorno il conte Nesselrode fecesi a chiedere al conte San Marzano se realmente credesse che il disegno austriaco valesse a contentare la parte savia degli Italiani. Il plenipotenziario piemontese rispose: — L’opinione mia è che non si debba far nulla per metà. Attualmente una monarchia pura con forme rappresentative varrebbe a porre i partiti di faccia gli uni agli altri, a nutrire le speranze dei liberali, ed a rattizzare più che mai l’incendio. La gente onesta, che è quanto dire la grande maggioranza degli Italiani, desiderano in Napoli il ristauro della monarchia assoluta, fortificata di quei sostegni consultivi, i quali valgono a rischiarare la mente del Sovrano senza poter inciampare giammai le sue volontà. Se si voglia dipartirsi da tale modo di procedere, s’aprirà il varco a mille disordini. — Nesselrode ripigliò: — Quel che voi dite, mi sembra giustissimo. L’imperatore brama soltanto uno stato di cose, che somministri alcuna guarentigia che il Sovrano venga illuminalo sui veri interessi de’ suoi popoli. Io trovo tale guarentigia compiutamente assicurata nel progetto di Metternich (59).—

Concertate tra loro le riforme da introdursi nel governo delle Due Sicilie, i monarchi alleati le fecero conoscere a Ferdinando, il quale non tardò a muovere le ' più calorose istanze onde introdurvi una correzione, che egli affermava necessaria per togliere ogni sospetto di concessioni liberali. Consisteva nell’annullare i due paragrafi dello schema, che si riferivano all’obbligo per la corona di scegliere in ciaschedun ripartimento del regno consiglieri amministratori delle cose provinciali, e consultori di negozi governativi. Metternich, che nel fondo dell’animo suo avea caro che i sudditi degli altri governi in Italia fosser retti peggio di quello che lo erano i popoli della Lombardia e della Venezia, si manifestò inclinevolissimo ad annuire. Ma Capodistria e Pozzo di Borgo si tenner fermi nel diniego. Per il che Ferdinando dichiarò di cedere, contro la convinzione propria, all’opinione altrui (60).

Ma l’Austria voleva invece che rimanessero possibilmente cancellate tutte le traccie della coazione esercitala sulla volontà del re di Napoli. Laonde Metternich avendo dapprima raccomandalo il più assoluto silenzio in ordine ai fatti summenzionati, architettò il seguente modo di procedere. Il progetto austriaco verrebbe presentalo ai ministri plenipotenziari delle cinque Potenze dal principe Ruffo, mediante una nota che lo qualificherebbe lavoro suo proprio. Il conte San Marzano, che era a giorno di questi tranelli, scrivea da Laybach: — Così operando, si è avuto in mira di far palese per mezzo d’un documento diplomatico, primieramente che Sua Maestà siciliana in tal negozio avea assunto l’iniziativa, ed in secondo luogo che, annunziando basi generali di governo, riservavasi di dar loro uno svolgimento compiuto come si fosse trovata in mezzo a’ suoi consiglieri ordinari. In tal modo aversi anche speranza più fondata di vedere i plenipotenziari francesi manifestare l’opinione che da essi desideravasi (61). —

Condotte le cose a simili termini, il 20 febbraio 1821 i plenipotenziari delle maggiori Potenze si radunarono per udire le proposte messe in mano da Metternich al principe Ruffo. Egli le lesse con affettata serietà, e conchiuso raccomandandole all’approvazione della conferenza, siccome quelle che provenivano dalla libera volontà del re delle Due Sicilie. All’approvazione loro per parte dei plenipotenziari raccolti Sorse un ultimo inciampo, e fu il seguente, che troviamo narrato dal San Marzano così:

Il marchese della Ferronays al fine della seduta del 20 fece fece un’osservazione, la quale svegliò maggior meraviglia in quanto che apparve ch’egli la metteva innanzi senza l’assenso de’ suoi due colleghi, i signori Blacas e Caraman. Consisteva nel preteso vantaggio che si sarebbe ricavato dal lasciar in sospeso qualsiasi deliberazione sull’ordinamento a darsi al governo di Napoli, fintantoché non fosse chiara l’opinione dei consiglieri che Sua Maestà siciliana si compiacerebbe di scegliere. Tutta la conferenza ha creduto di riconoscere in tal proposta un supremo tentativo del conte Capodistria, del quale è strumento il marchese della Ferronays. Ma il principeMetternichfece giustamente osservare che, se tale proposizione si dovesse menar buona, si troverebbero di nuovo messe in dubbio le deliberazioni già prese (62).

XI

Ultimi sempre, e non mai interrogati se non quando le cose aveano già ricevuto il loro assettò terminativo, si presentarono, convocati da Metternich, a manifestare il giudizio che essi facevano sul progetto menzionato, i legati delle Corti di Roma, Firenze, Modena e Torino. Con brevi parole il cardinale Spina se ne mostrò pago. Il conte San Marzano volle che nel protocollo della conferenza si scrivesse che il re di Sardegna pensava che la miglior guarentigia della tranquillità d’Italia trovavasi nella conservazione del principio monarchico, e che, ond’esso non trovasse inciampi nel suo attuamento, il sistema consultivo doveasi mantenere in termini assai ristretti. Ove si procedesse per tal guisa in ordine alla consulta napoletana da istituirsi, essa potrebbe produrre buoni frutti.

Il plenipotenziario toscano disse di non incontrare nello scritto letto dal Ruffo nulla d’avverso alle forme governative che si trovavano impiantate in Italia, e soggiunse: — Il granduca mio signore è nella convinzione che sua Maestà il re delle Due Sicilie non vorrà in alcun modo dipartirsi da quelle forme di governo monarchico, che mostra di tenere attualmente per le migliori. —

Ilmarchese Molza, legato, o piuttosto servile riferitore al Congresso di ciò che pensava il duca di Modena, disse che il suo signore era persuaso che, nel ristauro del legittimo governo monarchico in Napoli, s’avrebbe cura di togliere alla fazione rea, che colà erasi impossessata del maneggio della cosa pubblica, ogni appiglio per credere che si fosse venuto con essa a transazione; si badasse bene che ciò basterebbe a compromettere nell’avvenire la tranquillità d’Italia. Fatte che furono tali dichiarazioni, il marchese de La Ferronays chiese di parlare, e rivoltosi a Metternich, lo interpellò se il re delle Due Sicilie era obbligato davvero a riordinare il suo governo in conformità delle massime stabilite nel Congresso dalle Potenze alleate. — Certo che sì, rispose il cancelliere imperiale; sul valore d’un tale impegno non può cader dubbio. — Ma, riprese il plenipotenziario, a quali spedienti s’avrà ricorso ove Sua Maestà siciliana ricusasse di tenerlo per obbligatorio?— È discussione questa, replicò Metternich, nella quale non potrei entrare senza aver prima interrogato gli altri plenipotenziari. Ben posso rinnovare la fatta dichiarazione, ch’io considero al tutto formale e obbligatorio l’impegno assunto da Sua Maestà il re delle Due Sicilie (63).

Correndo il 25 febbraio del 1821 le conferenze di Laybach furono dichiarate chiuse, dopo d’avere riconfermata la deliberazione di congregarsi di nuovo nell’anno susseguente per esaminare le condizioni del regno delle Due Sicilie, e vedere se convenisse protrarre o mantenere nei termini stabiliti il tempo fissato all’occupazione militare. I soli plenipotenziari francesi si dichiararono sforniti della necessaria facoltà d’assentire a tal risoluzione (64).

Il governo costituzionale napoletano dapprima erasi maneggiato per dar ad intendere con ragionamenti più sottili che veri che il mutamento avvenuto nel regno doveasi ascrivere non a sedizione di soldati, ma a spontaneo volere del re. In appresso, assalito da ogni parte da fierissime accuse per parte del gabinetto di Vienna, esso erasi adoperato a scolparsene, cercando in pari tempo di guadagnarsi i benevoli uffizi della Francia, e di ottenere efficaci aiuti dalla Spagna. Visto che l’edifizio crollava da ogni lato, il reggente e i ministri gittaronsi nelle braccia del parlamento; il quale, udite le deliberazioni del Congresso, lette le note degli ambasciatori e il foglio scritto di mano del re Ferdinando, dichiarò questo prigioniero in terra straniera, rifiutò di scendere a sommessione, e decretò la guerra, che dovea riuscir così breve e vergognosa da lasciare di sé impressa una trista ricordanza negli annali delle nostre patrie storie.

XII

Mentreccbè nelle Due Sicilie la libertà stava mettendo il rantolo della morte, soffocala dalle mani dei soldati austriaci, i novatori del Piemonte alzavano la bandiera della rivolta, e inducevano Vittorio Emanuele ad abdicare lacorona, affidando temporariamente le redini dello Stato al giovane principe di Carignano. Tale inaspettata notizia giunse in Laybach la sera del 13 marzo, destandovi una profonda costernazione. Lo stesso Metternich, poco prima sì lieto e confidente nel facile successo dell’opera delle sue mani, mostrossi prostrato d’animo. Egli temeva specialmente che le truppe austriache in Italia, avviluppate per ogni lato dagli assalti delle insorte popolazioni, venisser vinte dagli eserciti napoletano e piemontese. Laonde spuntava appena l’alba del 1U di quel mese quando i due imperatori di Russia e d’Austria, d’accordo coi plenipotenziari prussiani, deliberarono di render gagliardo, quanto più presto potevasi, di novantamila uomini l’esercito austriaco stanziato in Lombardia, mentrecchè l’esercito russo, forte di centomila uomini, e già agglomeralo sulle frontiere dell’impero, porrebbesi in grado di giungere in Italia dopo sessanta giorni.

Il nuovo re di Sardegna slava ospite nella Corte del duca di Modena. In balìa compiutamente dei consigli di Francesco IV, egli non tardò a cassar il decreto che avea istituito reggente il principe di Carignano; e recandosi in mano la somma della potestà sovrana, chiese il soccorso di quindicimila soldati austriaci ai monarchi riuniti a Laybach. L’aiuto venne assentito addì 22 marzo in seguito d’una deliberazione, nella quale era detto che le Potenze alleate, anziché lasciarsi smuovere dallo scandaloso esempio dato dalle truppe piemontesi, esempio che per la quarta volta in un anno affliggeva l’Europa, erano irrevocabilmente risolute a non riconoscere in Piemonte l’opera del tradimento e della sedizione militare, e fermamente determinate invece d’usare tutti i mezzi per ristabilirvi la piena autorità del re loro alleato.

Mentrecchè a riversare l’ordine di cose stabilitosi in Piemonte dietro la rivoluzione del marzo 1824 preparavasi tanto gagliardo nembo di guerra, il governo di Luigi XVIII con occhio irrequieto volgeva anch’esso l’attenzione sua alle cose subalpine. In Parigi massime, temevasi che, al credibile ingresso degli Austriaci in Piemonte, il partito liberale prorompesse in Francia ad aperta sedizione (65). Pertanto il duca Richelieu e il barone Pasquier trovaronsi d’accordo nell’offrire al re Carlo Felice l’opera della mediazione francese onde assicurargli il possesso della piena autorità regia. E come seppero che il nuovo re di Piemonte erasi invece rivolto all’Austria per chiederle aiuto armato, non tralasciarono di muovere le più vive istanze allo czar Alessandro affinché volesse far antecedere all’uso delle armi il tentativo d’un pacifico componimento di cose. L’autocrata russo assentì; il conte Mocenigo, suo ministro plenipotenziario in Torino, ebbe a tal fine gli ordini e i poteri necessari.

Intavolate confidenziali trattative tra il legato russo, l’abbate Marentini, presidente della Giunta di Torino, e il cavaliere Ferdinando Del Pozzo reggente degli affari interiori, si venne alla conclusione che sotto forma di voti, da raccomandare alla paterna bontà del re Carlo Felice nell’atto dell’immediata sommessione a’ suoi sovrani voleri, chiederebbesi amnistia piena ed onorevole per tutti coloro, i quali aveano partecipato al succeduto mutamento politico; preservazione guarentita dall’occupazione straniera; concessione regia d’uno statuto conforme ai bisogni e ai desiderii della nazione. Frattanto, a dar palese testimonianza di pronta e schietta sommessione alla regia volontà, s’adoprerebbero dai governanti tulli i migliori spedientiaffinchéle cittadelle di Torino e d’Alessandria fosser consegnate alla custodia delle truppereali rimaste estranee al moto costituzionale. Ove s’eccettui il conte Santorre di Santa Rosa, tutti i governanti torinesi accettarono e soscrissero questi patti, co’ quali il conte di Mocenigo partì da Torino (66). Cotesta amichevole intervenzione della Russia era essa guidata da leali e schietti intendimenti, o piuttosto altro non era che un astuto maneggiarsi per tener in sospeso e abbindolare tanto il governo francese quanto quello di Torino? Non abbiam documento da recare in mostra per toglier il dubbio; ma crediamo che si possa tener per vero il secondo anzi che il primo dei due supposti. Come in fatti il conte Mocenigo fu in Novara, ed ebbe comunicazione dal conte Della Torre d’una lettera intercetta del Santa Rosa, in cui davansi premurosi ordini di militari apprestamenti, egli si servì di tale pretesto per inviare a Torino il barone di Moltke con un dispaccio per la Giunta di governo, nel quale, lasciate affatto in disparte le cose concertate, introducevansi nuove proposte, che in sostanza erano le seguenti. Immediata consegna alla milizia cittadina delle fortezze d’Alessandria è di Torino sin tanto che arrivassero a presidiarle le truppe regie stanziate in Novara; indulto per i soldati e i sott’uffìziali, che aveano aderito alla rivoluzione. I capi della ribellione spontaneamente emigrerebbero, forniti di danaro dalle regie autorità. La Giunta di governo farebbe atto di piena sommessione a Carlo Felice, e per pubblico bando annunzierebbe alla nazione di cessare qualsiasi connivenza con tutti coloro, i quali perdurassero ne’ loro propositi di rivolta. In pari tempo costoro verrebbero esortati a togliersi da un tale stato, minacciandoli, se ostinali, di giudicarli responsabili di tutte le conseguenze che piomberebbero sui loro capi, e consacrandoli all’indignazione ed alla vendetta della patria e del re (67).

Tornava per vero impossibile il negoziare su così fatte basi. La Giunta di Torino si restrinse quindi a mostrare che l’operato del conte Santa Rosa nulla avea di sleale o di valevole a togliere la speranza di buona riuscita alle intavolate pratiche. In quanto alla consegna delle fortezze d’Alessandria e di Torino, essa dichiaravasi impotente ad ottenerla quandanche la volesse. La pubblicazione d'un bando accennante a incondizionata sottomessione all'autorità reale di Carlo Felice, getterebbe il paese in preda all’anarchia. Che se volevasi davvero venire alla conclusione d’un pacifico accordo per la benevola mediazione dell’imperatore Alessandro, s’ottenesse dal nuovo re la promessa di quelle civili istituzioni, che la progredita civiltà dei tempi domandava, e si salvasse il paese dall’invasione straniera (68). — Sterili voti, perocché la violenta morte del governo costituzionale piemontese era già stata decretata a Modena ed a Laybach. Addì 8 aprile del 1821 la bandiera austriaca sventolò sulle piemontesi terre, apportatine ai Subalpini di domestica servitù, alla Casa di Savoia di micidiale vassallaggio.

Prima di lasciare Laybach, i tre Sovrani d’Austria, Russia e Prussia vollero dar contezza a tutti gli altri principi di quanto aveano operato per la pace e il ben essere dell’Europa, di fronte alle rivoluzioni napoletana e piemontese. In quella loro dichiarazione era detto che — perversi uomini aveano architettato un disegno di sovvertimento universale. In tale opera distruttiva i cospiratori piemontesi aveano un compito particolare. Essi eransi sollecitati a compierlo, basandosi su false dottrine e su conventicoli iniqui e speranze scellerate. Costoro, soffocando il sentimento che negli umani cuori nutre il verace amor della patria, ai doveri conosciuti aveano surrogato indefinibili e arbitrarii principii, atti soltanto a produrre mali senza termine. Se non chela divina Provvidenza avea colpito di terrore subitaneo le temerarie coscienze d’uomini così rei, e fatte cader loro di mano le armi (69).— Ma pur sempre dissolto l’involucro d’un linguaggio così volgarmente collerico, e tanto svergognatamente calunniatore, trapelavano i segni del proposito de’ guidatori scettrati della Santa Alleanza d’opporsi ad ogni rinnovamento civile e politico dell’Europa, e l’orgogliosa pretensione loro d’esser quasi per mandato divino investiti del diritto d’ingerirsi nelle faccende e nelle commozioni interne di tutti gli Stati, senza alcun ritegno di rispetto alla libertà ed alla indipendenza de’ popoli. —

3.CAPITOLO TERZO

Sommario

Relazioni tra l'Austria e i Governi italiani negli anni 1820 e 1821 — Politica illiberale di Carlo Felice — Sua indole — Sue segrete querimonie contro il procedere dell'Austria — Controversie tra le Corti di Torino e di Vienna intorno all'occupazione austriaca nel Piemonte — Accordi — Impiantamento di un'occulta polizia austriaca negli Stati sardi — Maneggi del duca di Modena e del gabinetto di Vienna onde impedire al re Vittorio Emanuele di far ritorno a Torino — Prepotenze austriache nel granducato di Toscana — Nobile contegno del granduca Ferdinando IH e del suo governo — Intervento austriaco negli Stati della Chiesa in contraddizione alla volontà del papa — Prepotente e assoluto predominio dell'Austria sul governo napoletano — Inumana proposta del duca di Modena e del principe Metternich — Nuova violazione flagrante del diritto positivo europeo per parte dell’Austria — Tentativi diplomatici del principe Metternich a scartare compiutamente la sorveglianza e gli influssi del governo francese in Italia — Mostruosa proposta austriaca, non attuata per l'opposizione dei governi di Firenze e di Roma —Pressure de' maggiori Potentati sulla Svizzera intorno ai rifugiati politici — Relative proposte dei due gabinetti di Vienna e di Torino — Nuovo tentativo per una Confederazione austro-italica.

I

Ora il filo del racconto ci conduce a dar contezza delle relazioni che si vennero stabilendo tra l’Austria e i Sovrani italiani nel mezzo e susseguentemente alle rivoluzioni del 1820 e 1821. Carlo Felice non lardò a manifestar sentimenti al tutto inclinevoli al gabinetto di Vienna. In effetto il primo atto della sua cancelleria diplomatica agli agenti della Sardegna all’estero fu una circolare, nella quale s’ammonivano i diplomatici piemontesi a non lasciarsi accalappiare dai maneggi de’ nemici implacabili

—67 —della pubblica quiete e della legittimità dei troni, i quali nel loro odio verso l’Austria s’erano adoperali per l’addietro e tuttavia s’adoperavano a spargere le diffidenze tra le due Corti di Vienna e Torino, incolpando la prima di subdoli intendimenti, e di voler esercitare una supremazia indebita nelle faccende interiori degli Stati italiani (70).

In altre riservatissime istruzioni al conte Pralormo, suo ambasciatore presso la Corte di Vienna, Carlo Felice prescrivevagli di tentar ogni sforzo per rendere persuaso l’imperatore Francesco che la Sardegna intendeva di mettersi ne’ più intimi accordi coll’Austria, e seco camminare senza diffidenza e senza reconditi fini a muover guerra alla rivoluzione, ed a conservare la tranquillità della penisola (71).

Un tale linguaggio, che non ammetteva incertezze, indicava la prevalenza assoluta nella politica di Casa Savoia di que’ illiberali spiriti, che dal 181U in poi l’aveano principalmente fermata e sviata nello svolgimento delle sue idee nazionali. Ed esse rimarranno per alcun tempo dimenticate in un volontario obblio, chè la bella pianura del Po non risvegliava per nulla nell’animo di Carlo Felice quelle italiche ambizioni, che eransi fatte tradizionali nella sua real Casa. Indifferente alla gloria militare, per inveterate abitudini pigro e voglioso di svagamenti, alieno dalla pratica degli affari, questo re non possedeva alcuna delle più squisite qualità di sua nobile e guerresca stirpe, di cui egli stava sul trono, ultimo nella linea primogenita senza speranza di prole. Ciò che in realtà primeggiava nell’animo di Carlo Felice era un superlativo concettodell’autorità sovrana, e un’avversione senza limiti a tuttociò che negli ordini statuali avea aspetto d’innovazioni liberali: nel che egli andava così agli estremi da rimanerne perturbato nell’animo a segno di non iscorgere nel suo regno e in coloro stessi che Io servivano con devozione, che un orrido cumulo di tutti quei pervertimenti politici, di tutte quelle infermità governative, che conducono i regni a perdizione; laonde rivolgevasi all’Austriaaffinchéseco cooperasse a puntellare coll’uso della forza l’edifizio de’ troni e degli altari (72).

Ma l’Austria non perciò tralasciava di far sentire a Carlo Felice grave il peso degli aiuti prestatigli. Egli stesso era astretto a darne in parte notizia al fratello Vittorio Emanuele, così scrivendogli:

Bubna si è impossessato della cittadella d’Alessandria in nome mio, ma ne ha poi inviate le chiavi all’imperatore facendomi dire che avea ciò fatto per darmi il piacere di riceverle dalle sue mani imperiali. Per quanto grave disgusto io ne abbia provato, tuttavia simulai. Ma avendo poi letto che di un tal fatto erasi dato notizia nella Gazzetta, ne sono stato dolentissimo prevedendo il cattivo effetto che tale notizia produrrebbe nel pubblico dopo che io avea dichiarato, fondandomi sopra le dichiarazioni dei due imperatori, che gli Alleati sarebber entrati in Piemonte senza nutrire alcun’idea d’acquisto. D’Agliè, che è assai onesto come ministro, voleva che io m’appigliassi al partito di far rumore. Ma siccome ho pensato che da Vienna non mi si darebbe soddisfazione alcuna a motivo che Bubna trovasi troppo ben aggrappato, cosi ho preso l’espediente di testimoniargli io stesso direttamente la mia sorpresa e il mio malcontento (73).

Nè questa era la sola manifestazione del mal talento dell’Austria. Nel regolare i patti dell’intervento austriaco in Piemonte i commissari austriaci assunsero un farearrogante, e si diedero ad allegar pretensioni eccessive. Il conte Crosa di Vergnano, che in Modena teneva la reggenza della segreteria per gli affari esteri di Carlo Felice, scriveva al l’ambasciatore sardo in Firenze:

Il nostro commissario è di nuovo qui. I commissari! austriaci gli danno a torcere del filo per bene. Sventuratamente i negoziati non si mettono in buone condizioni per noi. L’Austria vuol farci pagare caramente i soccorsi che ci da, e dei quali essa per avventura raccoglie i migliori vantaggi in ordine alla sicurezza delle sue provincie italiane (74).

Per parte sua il conte Simonetti, che in Pietroburgo stava legato del re di Sardegna, ragguagliava che, avendo tenuto discorso col conte di Lebzelten di siffatte durezze, l’ambasciatore austriaco aveagli risposto con arrogante alterezza, svogliata d’ogni temperamento d’equità (75). La contestazione verteva sovra i punti seguenti. La Corte di Torino dichiarava bastevoli alla tranquillità interiore del Piemonte dodicimila soldati austriaci: la Corte di Vienna voleva invece che l’ammontar loro fosse di quindicimila. Chiedevano i ministri dì Carlo Felice che a lui rimanesse riservato di determinar il tempo convenevole per la cessazione dell’occupazione straniera, mentre il gabinetto di Vienna pretendeva che tal diritto spettasse alle Potenze alleate. Controvertevano eziandio i due governi di Vienna e Torino sui modi di pagare il presidio austriaco, che il primo pretendeva al di là di quanto il secondo credevasi in debito di dare. Infine, dietro l’amichevole intromessione della Russia, restò fissato a dodicimila il numero delle truppe austriache che temporariamente stanzierebbero in Piemonte; il governo di Torino impegnavasi di provvedere al loro soldo e mantenimento nei modi usati in tempo di guerra; intanto stabili vasi che l'occupazione si prolungherebbe al settembre del susseguente anno 1822, nel qual tempo i Sovrani alleati, riuniti in Congresso, esaminerebbero d’accordo col re di Sardegna se le interiori condizioni del Piemonte consigliassero a prolungarla oppure a decretarne il termineL’Austria non era contenta di comandare militarmente negli Stati del re di Sardegna, ma volevaaltresìesser istrutta a pieno di tutto ciò che politicamente pensavano ed operavano governanti e governali. Su di che il conte Pralormo scriveva da Vienna al ministro sopra gli affari esteriori in Torino:

Debbo informare Vostra Eccellenza che la Corte di Vienna ha moltiplicati negli Stati di Sua Maestà, per quanto ha potuto, i mezzi di conoscere tutto ciò che vi si sa in ordine alle tendenze morali e politiche del governo del Piemonte e de’ suoi abitanti. Oltre la Legazione austriaca in Torino, il generale Bubna a Milano, i generali divisionarii stanziati in Vercelli ed a Casale, tutti incaricati di ragguagliare intorno a tal materia, la Corte di Vienna stipendia agenti segreti presso che in ogni primaria città del regno. Di più, essa manda in Piemonte altri suoi agenti straordinarii ogniqualvolta avvenga qualche fatto, che sembri degno d’essere particolarmente valutato. Laonde con mio grande stupore conobbi che il gabinetto di Vienna trovasi in possesso in modo davvero sorprendente de’ più minuti fatti e delle più dettagliate notizie intorno all’indole, alle abitudini e alle tendenze politiche di molti dei nostri (76).

L'imperatore Francesco intrommeltevasi personalmente in coteste poliziesche ricerche (77), le quali sotterraneamente serpeggiavano per le Corti italiane, e vi sorprendevano i più intimi pensieri e i più occulti desiderii. Tutto spiando e su ogni cosa vegliando in Italia, il gabinetto di Vienna sapeva che, mentre in Piemonte era odiatissimo il nuovo re, il nome di Vittorio Emanuele rimaneva presso l’universale in affettuosa riverenza. E perché questo re,volontariamente disceso dal trono, giammai erasi mostralo ligio all’Austria, così, come l’imperatore Francesco seppe che ei desiderava far ritorno in Torino, si pose all’opera insieme col principe Metternich per arrestargli il passo. Da prima fu posto innanzi il duca di Modena; ma visto che le insinuazioni di questo principe e quelle di Carlo Felice a nulla valevano per distogliere Vittorio Emanuele dal fatto proposito (78), Metternich aprì una pratica diplomatica coi gabinetti di Pietroburgo e Berlino. Una nota austriaca pertanto venne fuori a dichiarare che i rivoluzionari italiani manifestavano le maggiori speranze pel ritorno a Torino di Vittorio Emanuele, frattanto che ne erano afflittissimi tutti i più sinceri amici della legittimità, avvegnaché temevasi molto che il nuovo re, il quale di mal animo portava la corona, non si risolvesse a cederla di nuovo al fratello (79). Ciò massime cuoceva a Vienna, perchè sarebbe sorto un ostacolo quasi insuperabile a vantaggiare gli interessi ambiziosi del duca di Modena. Mentre pertanto la diplomazia austriaca teneva l’occhio fisso onde fermare ad ogni costo il passo alla volta di Torino di Vittorio Emanuele, ovunque erano agenti austriaci formicolavano le più calunniose dicerie sul conto del principe di Carignano (80).

II

Non contenta di prepotentare negli Stati italiani, nei quali era militarmente intervenuta, l’Austria, veleggiando a gonfie vele, tenevasi eziandio padrona di percorrere coi suoi soldati a talento la penisola. Metternich indirizzava quindi al conte di Bombelles, ministro austriaco in Firenze, queste istruzioni:

Sua Maestà l’imperatore si è degnata conferire a’ suoi due generali in capo in Italia l’onorevole mandato di mantenere la tranquillità interiore della penisola intiera. Essi pertanto non solo sono autorizzati a prestar soccorso d’armi ai governi posti nel bisogno di chiederlo, ma eziandio di prendere per determinazione propria tutte le precauzioni militari che a tal fine giudicassero necessarie. Conseguentemente, nel caso che il conte Bubna venisse nella risoluzione d’alcune mosse militari entro i confini della Toscana per l’interesse della difesa e della sicurezza comune, egli non tralascierà di darne avviso in tempo utile all’Eccellenza Vostra, e d’indicarne i motivi, ond’Ella possa comunicarli al governo toscano. Se ciò avvenga, Ella lascierà al conte Bubna piena libertà d'azione (81).

Effettivamente, a dispetto delle contrarie sollecitazioni del granduca e de’ suoi ministri, gli Austriaci entrarono in Toscana, e si diedero a scorrazzarla. Laonde il ministro di Francia in Firenze scriveva a Parigi il 29 luglio 1821:

Ciò che qui da ogni parte trapela, è la forzata soggezione in cui il gabinetto viennese ora tiene questa povera Toscana, da ogni lato cinta di truppeaustriache, le quali spicciolatamente la percorrono e la occupano.

Questa soldatesca arroganza si fece più gravosa al governo granducale dietro all’intrommettente e altiero contegno che assunse il conte di Bombelles. Di che il marchese de La Maisonfort dava notizia al barone Pasquier nei termini seguenti:

Per quanto il cavaliere Fossombroni sia destro e circospetto, tuttavia nel calore d’una lunga ed animata conversazione non ha potuto dissimularmi che la pressione esercitata dal ministro d’Austria in molte circostanze supera ogni misura (82).

Ma è debito di storica verità raggiungere che né il soldatesco intervento, né l’insultante diplomatico procedere dell’Austria a quei dì in Toscana, valsero a spingere il granduca e i consiglieri suoi sulla via della violenta riazione. Mansueti essi procedettero nel governare, ad onta delle insistenze contrarie di Vienna; e quando il principe Metternich, come si narrerà a suo luogo, propose ai governi italiani di venire ad un accordo per cacciare al di là dell’Atlantico lutti coloro che aveano partecipato agli ultimi rivolgimenti italiani, FerdinandoIII non solo negò il suo assenso, ma volle che il mite cielo della Toscana confortasse della perduta patria alcuni cospicui Italiani proscritti d’altri governi della penisola per colpa di amata libertà.

III

Pio VII e il cardinale Consalvi eransi di mala voglia piegati a concedere agli Austriaci avviati alla volta di Napoli il passaggio per gli Stati della Chiesa. Costretti però a cedere, vollero far pubblica dichiarazione di neutralità; e nelle pratiche diplomatiche rimasero saldi nel pretendere si pattuisse che Ancona non verrebbe occupata, e rimarrebber fissati i luoghi e la durata del conceduto passaggio (83). Tutto ciò era stato combinalo a Laybach. Ma il gabinetto di Vienna ben tosto avea mostrato di non curarsene, così che l’ambasciatore sardo in Roma avea scritto a Torino sotto la data del 22 agosto 1820:

Nonostante l’assicurazione positiva e officiale data alla Santa Sede che le truppe austriache non sarebbero entrate nella fortezza d’Ancona, un corriere spedito in tutta fretta da quel delegato portò la notizia al cardinale Consalvi, che alcuni commissari! di guerra austriaci gli hanno dichiarato che verso il 16 o il 17 del corrente mese un corpo di truppe austriache sarebbe entrato in Ancona per rimanervi sino a nuovo ordine. Il cardinale Consalvi immediatamente ne ha ragguagliato il papa, e l’uno e l’altro se ne sono mostrati indignatissimi. Subito dopo i comandi ricevuti da Sua Santità, il cardinale Consalvi ha indirizzato querele all’ambasciatore austriaco, e gli ha in pari tempo dichiarato che stava per ordinare al delegato d’Ancona di portarsi all’incontro del corpo dell'esercito austriaco diretto ad occupare Ancona, per far intendere a chi lo guidava che, se persistesse ad avanzarsi, le autorità pontificie chiuderebbero le porte della città, alzerebbero i ponti, e non permetterebbero l’ingresso se non coll’uso della forza. Che ove ciò avvenisse, le stesse autorità pontificie pubblicherebbero una protesta solenne contro la violazione di patti di si fresca data. Realmente un corriere è partito, latore di tali comandi (84).

Il delegato d’Ancona incontrò gli Austriaci in prossimità di Sinigaglia. Chiesto a chi li guidava ragione del progredire a quella volta, costui rispose che teneva l’ordine d’occupar Ancona. Il delegalo pontificio fece allora la dichiarazione indirizzatagli dal cardinale Consalvi; e valse a fermare l’occupazione tentata. Non però il gabinetto di Vienna ne depose il desiderio. Tolto il pretesto della susseguita rivoluzione piemontese, Metternich, assicuratosi dapprima l’appoggio della Russia e della Prussia, mosse domanda formale al Consalvi della temporaria occupazione per parte degli Austriaci della fortezza d’Ancona. Consalvi tentò d’eludere la domanda, vantaggiandosi del fatto della vinta rivoluzione napoletana per rispondere che, essendo cessate le necessità che aveano suggerito un tale provvedimento, cui non poteva restar indifferente il Sovrano territoriale, il Santo Padre era nella certezza che i sovrani alleali più non pensassero di metterlo in atto. Infruttuoso tentativo anche questo.

L’ambasciatore austriaco in Roma dichiarò per iscritto al Consalvi che i Sovrani alleati giudicavano tuttavia necessario che Ancona fosse presidiata da truppe austriache; volesse pertanto il governo papale dare con sollecitudine gli ordini opportuni. Fu forza piegar il capo alla prepotenza, non senza però farla manifesta agli ambasciatori che stavano accreditati presso la Santa Sede, affinché, Come avvisava il Consalvi, non si desse da chicchessia una falsa interpretazione all’ingresso di duemila soldati austriaci nella fortezza anconitana (85).

Non avendo potuto impedire agli Austriaci di stabilirsi negli Stati della Chiesa, Consalvi volle manegggiarsi onde almeno vi rimanessero il più breve tempo possibile. Ma neppur ciò gli riuscì. Gli Austriaci non dieder ascolto alle legittime sollecitazioni del governo romano, ed occuparono le Legazioni fino a che lo credettero convenevole ai loro interessi con fedifrago contegno (86).

IV

Nel <8 ottobre 1821 i plenipotenziari d’Austria, Prussia e Russia sottoscrissero col marchese Circello, plenipotenziario napoletano, una convenzione regolatrice dei modi che aver dovea l’occupazione austriaca. Qui pure la Corte viennese avea tenuto fermo nel prepotentare. Indarno il governo napoletano, ponendo innanzi l’argomento della rovina inevitabile delle finanze del regno se non si concedesse, erasi fatto a chiedere che fosse assottigliato il corpo d’occupazione, e che ai soldati, di cui era composto,fosse assegnato il soldo ordinario degli anni di pace (87). Fu pertanto stabilito che rimarrebbero nel regno quarantaduemila soldati austriaci, i quali sarebber ridotti a trentamila come si potessero ritirar quelli che erano in Sicilia. Quando poi l’esercito napoletano si fosse trovato abbastanza riordinato, cesserebbe l’occupazione: frattanto rimaneva inteso che pel corso di tre anni venticinquemila Austriaci stanzierebbero nel regno; il governo napoletano darebbe loro gli alloggi, le vettovaglie, cinquantasettemila fiorini al mese; pagherebbe inoltre tutte le spese fatte dall’esercito d’occupazione dal dì che avea passato il Po fino al suo tornare negli Stati imperiali; a questo fine il re di Napoli verserebbe nel tesoro dello Stato in. Vienna quattro milioni di fiorini in cinque rate, dal mese d’agosto a quello di gennaio del 1822 (88).

I monarchi alleati a Laybach aveano decretato che al ristauro del governo assoluto dei Borboni di Napoli presiederebbero i loro commissari: ma in realtà l'Austria non avea tardato a prendere sulle faccende interiori di quel regno una prevalenza assoluta. Era in Vienna anzi che in Napoli che si studiavano e determinavano i modi giudicati più acconci a ricomporre il governo napoletano. Di che fa testimonianza il seguente brano d’un dispaccio del conte Solaro della Margherita, a quel tempo agente del re di Sardegna presso la Corte napoletana:

Molte cose che riguardano questo regno, la maggior parte anzi delle determinazioni a prendersi sull’amministrazione ulteriore, sì sulle misure relative al consolidamento dell’ordine monarchico, sì a prevenire le più remote macchinazioni, partono da Vienna. Il prolungato soggiorno del conte di Fiquelmont, le sue conferenze col principe don Alvaro Ruffo e colprincipe di Metternich circa gli affari delle Due Sicilie, hanno per iscopo di stabilire quanto si dovrà qui semplicemente attuare (89).

Grande aiutatore alla Corte di Vienna nel travaglio di tenacemente radicare in Italia l’austriaco patronato, era divenuto il duca di Modena. Sempre tirannescamente violento ne’ suoi pensieri e ne’ suoi atti, egli, sull’entrar dell’aprile del 1822, propose ai reggitori viennesi di farsi iniziatori d’un negoziato diretto a condurre tutti i governi d’Italia nella deliberazione di far imprigionare in un dato giorno quanti nella penisola erano impegolati di liberalismo, onde su di essi stabilire sommariamente un’inquisizione giudiziaria. Metternich esternò la soddisfazione sua per tale proposta, e di sua mano scrisse al duca inquisitore che frattanto inviasse alle Corti di Torino, Napoli, Roma, Firenze e Parma le requisitorie dei tribunali statarii modenesi; l’Austria intanto s’adoprerebbe a promuovere nella penisola la proposta inquisizione giudiziaria in ordine alle macchinazioni settariche rimaste occulte (90).

Già fin dal 1814 padrona degli Stati di Parma, dove regnava l'austriaca Maria Luigia, la Corte di Vienna abilmente si servì del pretesto dei pericoli in cui era corsa la tranquillità d’Italia negli anni 1820 e 1821, per terminarvi un antico suo disegno, rimasto insoddisfatto nelle stipulazioni degli ultimi trattali europei.

Per quello conchiuso a Parigi nel luglio del 1817 tra l’Austria, la Spagna, l’Inghilterra, la Francia, la Prussia e la Russia, erasi stabilito che, offrendo la fortezza di Piacenza un grande vantaggio alla difesa della penisola italiana, l’Austria avrebbe in essa conservato il diritto di guarnigione puro e semplice fin al tempo delle reversioni, estinto che fosse il ramo spagnuolo dei Borboni di Parma. Rimanevano però esplicitamente riserbati al futuro Sovrano di Parma i diritti regali e civili su di Piacenza; e l’ammontare della soldatesca austriaca, destinata a presidiare quella fortezza in tempo di pace, dovrebbesi determinare all’amichevole tra le due parli interessale (91). Ma giunto il marzo del 1822 l’Austria gittossi alle spalle siffatti accordi, e di proprio arbitrio impose all’arciduchessa Maria Luigia una convenzione particolare, per cui furono stabiliti e ratificali i seguenti patti. Nell’avvenire rimarrebbe in pieno arbitrio dell’imperatore austriaco di fissar il numero delle truppe che in qualsivoglia tempo giudicasse opportuno d’acquartierare in Piacenza. Che se sovragiungesse l’occorrenza di mettere questa fortezza nelle condizioni di stato d’assedio, in tal caso temporariamente vi cesserebbe l’esercizio delle autorità ducali, e soltanto il governo parmense potrebbe conservarvi un suo speciale commissario, il quale, sotto la dipendenza del comandante della fortezza, presiederebbe all’amministrazione civile.

In ordine alle truppe proprie, che il governo di Parma poteva mantenere in Piacenza, il numero di esse doveva essere stabilito dal generale in capo dell’esercito austriaco in Italia. Venivano inoltre per tal convenzione rimessi a perpetuità e senza indennizzo veruno al governo austriaco i casamenti destinati agli alloggi della guarnigione imperiale, e quelli ad uso delle artiglierie e delle vettovaglie. Che se tali acquartieramenti non bastassero al sopragiungere di casi straordinari, provvederebbe il Comune piacentino. Erano poi irrevocabilmente dati ad uso del genio militare austriaco tutti i fortilizi di Piacenza, e i terreni sui quali erano stati eretti. Che ove sorgesse bisogno d’allargare la cerchia della difesa, rimaneva obbligatoria pei loro possessori la cessione di nuovi terreni, dietro il prezzo convenuto da una giunta. Il governo di Parma cedeva in fine a perpetuità ogni suo diritto d’imposta, contribuzione, pedaggio sui casamenti passati all’Austria, ed anche sugli altri che nell’avvenire fosse da questa giudicato occorrerle a ringagliardire la difesa di Piacenza. Così l’Austria continuava a rispettare in Italia il gius europeo! (92).

Mentre questa andava impiantando qua e là il suo predominio politico, e senza ritegno inlrommettevasi nelle più gelose appartenenze della sovranità, Metternich, fedele a una vecchia sua massima, s’adoperava a far credere il contrario alla diplomazia delle maggiori Potenze. E poiché ben vedeva che, se potea sorgere un qualche inciampo al libero esercizio degli influssi austriaci in Italia, ciò soltanto verrebbe dalla Francia, si studiò d’indurre il governo di Luigi XVIII a sonnecchiare sbadatamente sulle cose italiane. Pertanto il cancelliere imperiale si fece a tenere per iscritto il seguente ragionamento al visconte Montmorency capo del ministero legittimista, succeduto al l'amministrazione del duca di Richelieu. — I fautori delle cospirazioni e delle sollevazioni in Italia dicono che l’Italia deve costituire uno Stato indipendente, in conformità dei limiti che la natura le diede. Attualmente l’Austria pratica nella penisola una politica invaditrice, diretta a ridurre sotto il suo vassallaggio gli stati di cui si compone. Siffatta preponderanza è ingiuriosa alla Francia. Questa Potenza non deve addormentarsi dirimpetto a un simile pericolo, mentre i suoi interessi la consigliano impossessarsi d’un contrappeso per dissiparlo. Tale impresa non presenta difficoltà, avvegnaché per compierla, basta che il governo francese aiuti gli Stati che costituiscono la penisola, a modellare le forme dei loro governi sulla francese.

Ma siffatte suggestioni, chi ben le considera, sono l’opera più artifiziosa e maligna de’ rivoluzionari; e l’interesse comune della causa della legittimità esige che il concetto di un contrasto d’idee e d’influssi tra l’Austria e la Francia in Italia, concetto fattizio, immaginato dai fautori della rivoluzione per servire d’alimento ai loro disegni, venga combattuto con energia e costanza dai due governi.

Se il governo francese per un momento si deve trovar nel caso di non fare sicurtà sui nostri intendimenti in Italia, e voglia aprirci l’animo suo, noi ascolteremo le sue osservazioni, e ci adopreremo a togliere i suoi sospetti. Ma dal nostro lato dobbiam vivamente desiderare che ciò che non può nè deve esistere, non venga più a lungo messo in credito da una rea fazione a detrimento di due Potenze e della tranquillità dell’italiana penisola. Tale è il nostro voto, il quale è tanto europeo e francese, quant’è austriaco.

Posta la questione così, proseguiva a scrivere Metternich, non mi sembra difficile render persuaso un ministro francese legittimista, che quanto l’Austria vuole, la Francia dee pure volerlo; né mi pare scabroso di mostrargli che ciò che i falsi politici segnalano all’attenzione del governo francese, vale a dire lacosiddettapreponderanza politica cui per avventura mirerebbe l’Austria in Italia, e il rispondente dovere della Francia d’opporvisi, in sostanza altro non è se non la manifestazione d’un voto rivoluzionario, al quale il governo di Parigi dee volgerl’attenzione con diligenza pari alla nostra.

E tuttavia questo voto quotidianamente si riproduce, risuona dall’alto della tribuna parlamentare, e trovasi al fondo d’una risma di politiche diatribe. Sventuratamente neanco il vecchio ministero francese seppe respingerlo, conforme richiedeva l’interesse suo proprio e d’Europa.

L'attuale governo francese vuol egli servire una causa, che è pure la sua? vuole sventar imprese architettate contro la sua stessa esistenza? Dia un andamento esplicito alla sua politica; ordini a’ suoi agenti in Italia di mantenersi costantemente fedeli agli interessi del riposo generale, e sodi contro le suggestioni perfide che punto non sarebbero accolte dal gabinetto parigino. Che una volta per sempre gli agenti francesi in Italia si facciano compagni ai legati delle altre maggiori Potenze nel propugnare i principii conservatori. E se la fazione dovesse imputare a delitto alla Francia di non sostenere la causa del falso liberalismo, che essa per tutta risposta sappia che la Francia non si sente punto proclive a proteggere fuori de’ suoi confini quelle rivoluzioni, contro cui sorgerebbe in armi ove si manifestassero sul proprio territorio.

Da un simiglievole linguaggio molte colpevoli speranze verranno sfiancale. Egli è bensì vero che il governo francese, comportandosi in tal modo, non potrà evitare nuovi assalti da un’opposizione che ormai nulla vale a disarmare. Ma d'altronde appar manifesto che coloro, i quali mirano ad usare della regia egida per allacciare, come mostrano di voler fare, la politica italiana alla Francia, in realtà non tendono che a suscitar un fomite rivoluzionario all’infuori delle frontiere francesi. E di tali faziosi non uno solo schiettamente pensa di dar agli Stati italiani le istituzioni governative, che oggi reggono la Francia. Il concorde loro disegno si è quello di riversare queste medesime istituzioni coll’opera di sostegni esteriori, e di preparar la caduta della dinastia francese, abbattendo intorno d’essa tutti i troni dell’illustre Casa Borbone.

Non è punto col visconte di Montmorency, continuava Metternich, ch’io sento il bisogno d’entrare in maggiori dettagli sopra un soggetto, al quale certo ha consecrato l’attenzione sua. Anzi io porto convinzione che egli sia pure persuaso degli argomenti che invitano il governo francese ad associarsi al gabinetto di Vienna nelle parole e nelle opere in ordine alla politica italiana, e a dichiararsi quindi contro coloro, che soltanto la nostra unione può arrestare nella via de’ loro delittuosi disegni (93).

Scartare dall’Italia l’incommoda sorveglianza della Francia, accalappiar la buona fede del ministro legittimista francese a segno da renderlo cooperatore operoso dell’assodamento in Italia del patronato austriaco, e togliere nei principi e nei popoli della penisola ogni speranza di vedersi sorretti dal braccio della Francia se fossero entrati per la via delle assennate riforme governative, era per verità un assunto che nell’interesse della politica austriaca, siccome l’intendeva il principe di Metternich, meritava lo sfoggio del sofistico linguaggio da noi riferito. Ma frattanto che la Francia doveva chiuder gli occhi e lasciar libera la mano all’Austria in Italia, qual era poi la politica cui intendeva attenersi il gabinetto di Vienna? La è questa un’importante investigazione storica, che qui appresso dobbiam fare colla scorta dei documenti diplomatici di quel tempo.

VI

Il sistema del non intervento non poteva addottarsi dall’Austria in Italia. Essa dovea uscire dai limiti geografici del suo territorio ogniqualvolta venisse turbato l’ordine stabilito in qualunque altra parte della penisola. E per quanto la Corte di Vienna avesse riconosciuto nella Germania forme costituzionali di governo, ponendole eziandio sotto la sua tutela, pure essa dovea sempre combatterle in Italia, avvegnaché, mentre nel primo caso esse erano compatibili coll’ordine pubblico e coll’esistenza dell’Austria, non lo erano invece nel secondo.

Così pensava Metternich, il quale soggiungeva:

Il sistema rappresentativo con le istituzioni che ne formano il corredo, non è confacevole ad alcun paese della penisola italiana. Se in altre parti d’Europa questo sistema deve sormontare tante difficoltà per non degenerare in una sorgente di sovvertimenti interminabili, in Italia condurrebbe inevitabilmente a tal risultato. La prima conseguenza del suo attuarsi nella penisola italiana sarebbe l’unificarla in un solo stato repubblicano; la seconda, concomitante della prima, sarebbe lo svolgersi di spaventose discordie tra le eterogenee parti componenti cotesta repubblica, parti delineate dalle varietà dei popoli abitatori dell’Italia (94).

Il che era quanto pensare che il maggior benessere politico che procurar si potesse agli Italiani, era quello di tenerli in perpetuo sotto la tutela del principato assoluto. Ora rimane a vedere dietro quali massime Metternich intendeva si dovessero comportare i governi italiani. Eccoli qui appresso, nella loro autenticità, i concetti e i consigli in tal proposito dell’uomo di Stato che in quei dì era giunto non solo a padroneggiare la politica degli stati italiani, ma ad essere il diplomatico più autorevole in Europa. Ragionando sulle italiane cose col conte di Pralormo, ambasciatore piemontese in Vienna, nel febbraio del 1822 Metternich così diceva: — L’avvenire d’Italia presenta gravi difficoltà. La principale si è quella dell’organamento difettoso dei governi italiani. Il governo napoletano sta in questa scala primo, e conforme ad esso, oppure suo immediato compagno si mostra il pontificio. Le qualità morali del re di Sardegna hanno sensibilmente migliorato il vostro governo. Ma un tal miglioramento sta lutto riposto nella sua persona, avvegnaché in Italia gli istrumenti governativi sono fracidi ovunque. Se sopragiungesse il caso di doverli aver per sostegni, e dar loro una tensione un po’ gagliarda, si spezzerebbero totalmente, e l’edifizio crollerebbe. Per fortuna la corruttibilità è meno operosa in Italia di quello che lo sia altrove; laonde si può sperare di portar rimedio al male in tempo utile, dando ai governi un gagliardo organamento, connettendone tutte le compagini, e chiamando al maneggio della pubblica cosa uomini stimati e capaci.

lo sono ben lontano dall’ammettere che le medesime leggi possano convenire a tutti i popoli d’Italia. Essi hanno tra loro varietà tali, da reclamare diversità d’ordini legislativi. Ma comunque ciò sia, le leggi da darsi agli Italiani debbono basare sopra un comune principio, ed esser fatte in modo che nessuna delle popolazioni della penisola abbia ad invidiare le condizioni legislative delle altre. Eccovi il punto sul quale conviene agire d’accordo e presto, essendoché potrebbero sorgere eventi tali da compromettere la stessa esistenza del vostro governo; e quindi dovete prepararvi a far uso di tutte le vostre forze per conservarvi. Lo stato precario e convulsivo in cui si trova la Francia, le condizioni cui sono giuntigli affari d’Oriente, sono indizi della gran tempesta, contro della quale, bisogna ammanire i ripari per non restarne travolti. Rispettoall’andamento parziale di ciascheduno Stato, sarebbe ora impossibile preventivamente determinarne le norme. Ogni istante genera avvenimenti che scompigliano i calcoli più studiati: ma i principii rimangono invariabili; importa pertanto tenersi stretti ad essi, e dedurne le conseguenze a misura dei bisogni. L’attaccamento incrollabile di ciascheduno Stato alla grande alleanza, la conservazione e l’ammiglioramento di ciò che legalmente esiste, il rispetto all'indipendenza di ciascheduno Stato, l'intima unione delle singole forze fisiche e morali per combattere la rivoluzione, ecco le massime cardinali che ci debbono servire di scorta. Esse saranno sempre sufficienti per dirigerci sul nostro cammino, anche ne’ casi più difficili ed ingarbugliati (95). —

Ma fino a qual segno potevano giungere le migliorie governative consigliate agli stati italiani dal principe di Metternich? S’ascolti il conte di Pralormo, che da Vienna scriveva in quei dì a Torino:

Il gabinetto viennese crede che non si debba per nulla patteggiare con ciò che appellasi spirito del secolo. Esso è convinto che la guerra fra la monarchia e il liberalismo, fra l’ordine sociale e il disordine demagogico, sia una guerra a morte, e debba terminare per l’annientamento dell’una o dell’altro. È convinto che ogni idea di transizione sia assurda, e che ogni Sovrano, il quale si spogli d’una parte di sua autorità, prepara le armi che debbono togliergliela tutta. Pertanto dai pensieri e dai desideri]’ dello stesso gabinetto è affatto estraneo quello di vedere gli Stati finitimi alle provincie imperiali entrar in riforme dirette a debilitare la pienezza della podestà sovrana. Al contrario desidera vivamente che questa podestà venga viemmeglio consolidata sui sacri principii della giustizia, della felicità pubblica, e colla conservazione di quanto esiste (96).

Se poi il nostro lettore brama di conoscere eziandio i consigli e gli eccitamenti che da Vienna allora venivano ai principi italiani sui modi di tener imbrigliati i popoli, legga le seguenti istruzioni che Metternich nell’aprile del 1821 mandava da Laybach all’ambasciatore austriaco in Firenze:

La Provvidenza ha permesso che in meno di cinque settimane le due rivoluzioni, scoppiate ai due limiti dell’Italia, siano rimaste schiacciate dai nostri sforzi immediati, e dall’appoggio morale degli alleati dell’imperatore. Ma se un pronto e compiuto successo ha pel momento allontanato i pericoli, di cui era minacciata l’Italia intiera, ed oggidì offre confortevoli speranze di salute, tuttavia noi non ci possiam dissimulare che tale successo altro non è che un primo passo verso il bene, e che per completare l’opera nostra ci rimane per avventura a fare assai più di quello che abbiam fatto sin qui.

Sarebbe in effetto un abbandonarsi a pericolose illusioni ove si credesse che lo spirito rivoluzionario, che ha generato i sovvertimenti di Napoli e del Piemonte, sia rimasto al tutto annientato dai nostri successi militari. Il male non è che compresso, ma esiste in tutta la sua intensità; ed ove non si voglia trar vantaggio delle attuali favorevoli circostanze per isradicarlo compiutamente, non tarderemo a vederlo rialzar il capo, e a riprendere la sua operosità perniciosa.

È pertanto la pronta e compiuta repressione di questo male che oggi debbono aver di mira tutti i governi della penisola; ed è verso tal fine che devono tendere assiduamente le loro cure e i loro sforzi. Egli è grandemente a desiderare che alla perfine essi si rendano persuasi d’una tale verità, e che non lascino sfuggire il tempo favorevole per agire con sicurezza di buon esito. Veggano pertanto d’avvantaggiarsi della prossimità delle nostre truppe per assalire vigorosamente nei loro Stati lo spirito rivoluzionario, e per estirpare questo male che rode la loro amministrazione, e mina la loro esistenza (97).

Alle sollecitazioni per una repressione violenta succedevano identiche proposte. L’ambasciatore del re sardo inVienna scriveva nell’aprile del 1822 al conte Della Torre che in Torino reggeva gli affari esteri:

Debbo ragguagliare Vostra Eccellenza che il principe Metternich ha concepito l’idea di stabilire in Italia, d’accordo coi governi della penisola, una commissione d’inchiesta a somiglianza di quella di Magonza. Dev’essere costituita d’individui scelti da ciascheduno dei principi italiani tra l’alta magistratura. Le attribuzioni sue sarebbero unicamente d’inquisire d’accordo sui fatti che si riferiscono alla vasta cospirazione italiana, di chieder l’imprigionamento di coloro che risulterebbero colpevoli, e destituirne poscia le procedure. Allorché la colpabilità di cotestoro fosse pienamente accertata, e da essi si fossero spillate tutte le possibili notizie in ordine alle macchinazioni settariche, verrebbero in seguito consegnati ai tribunali ordinarli dello Stato cui appartengono, per la condanna.

Il principe crede a ragione che questo sia l’unico mezzo per mettere in pieno accordo le diverse procedure che attualmente sono in corso in Italia, e per conseguire un utile e compiuto risultato (98).

Carlo Felice, acciecato com’era da un violento odio contro le idee liberali, assentì con sollecitudine a questa mostruosa proposta austriaca. Gli stretti legami che univano il principe di Metternich e il principe Ruffo ambasciatore napoletano in Vienna, facilitarono l’assenso del re Ferdinando 1. Conseguito così l’appoggio dei due maggiori potentati italiani, il cancelliere imperiale fece intendere a Torino ed a Napoli che conveniva cavar profitto delle stupende indagini e dalle utilissime scoperte compiute in ordine alle macchinazioni settariche dal duca di Modena, e quindi portare in quella città la sede della commissione. Colà essa avrebbe pieno agio d’innestare le proprie indagini inquisitive a quelle già condotte a termine dal tribunale statario modenese, e di raggruppare in un sol fascio tutte le notizie che i governi italiani el'Austria già possedevano sull’esistenza, i modi d’agire e i fini delle sètte rivoluzionarie (99).

La cosa non ebbe seguito, e fu buona ventura per l’abbastanza flagellata Italia; chè a quei giorni in Modena si sindacavano e condannavano fino i più innocui pensieri e le più legittime speranze di libertà, e per trovar rei ad ogni costo, impudentemente violavansi le ordinarie forme de’ processi e de’ giudizi, si ministravano ai prigionieri farmachi acconci ad alterarne la ragione, e si commettevano altre turpitudini da rimanerne in perpetuo vergognosa l’umana razza. Gli impedimenti vennero dalle Corti di Roma e Firenze. Il cavaliere Fossombroni, giudicando pericoloso Posteggiar di fronte una proposta fatta dal gabinetto di Vienna e assentita dai due maggiori governi italiani, chiese tempo per riflettervi sopra. Il cardinale Consalvi s’appigliò a un partito pressoché simile; ei dichiarò che, prevedendo d’incontrar opposizione in alcuni cardinali allacciati soverchiamente alle formalità giuridiche, desiderava aver agio di stendere un memoriale per capacitarli e condurli ad assentire (100). Metternich fece rispondere al segretario di Stato di Pio VII che già occupavasi a redigere un memoriale, nel quale contava di toglier forza a tutte le obbiezioni che potevansi muovere alla sua proposta (101). A suo luogo ritorneremo su questo argomento, che tanto profondamente stava a cuore del gabinetto di Vienna, e che pertanto non doveva lasciar in disparte se non quando mancò ogni speranza di riuscita.

VII

Fuggenti le ire e le vendette dello straniero e del domestico despotismo, molti Italiani eransi ricoverati nell’ospitale Svizzera. Vedevali colà ai sicuro con torbido sguardo l’Austria paurosa; onde non tardò a porsi all’opera per isnidarli da quel rifugio. A tal fine, pur sempre ipocritamente pretestando imperiose ragioni, sacri doveri d’interesse europeo, il gabinetto viennese non tardò a guadagnarsi la cooperazione dalla Russia e della Prussia. Singolare per eccessiva intemperanza di linguaggio fu la nota, che al Direttorio svizzero indirizzarono i tre governi nordici per indurlo ad espellere dal territorio della Confederazione i proscritti Italiani. Essi erano uomini infidi, perseguitati della vendetta pubblica d’una patria, di cui senza pietà aveano immolato il riposo per le più ree ambizioni rivoluzionarie. Colali ribelli viveano uniti di principii e d’intendimenti con quanto eravi di più malvagio in seno dell’Europa. E la Svizzera era ben degno asilo per costoro, essa che mantenevasi freddamente indifferente a tuttociò che non considerava tornarle vantaggioso. Sapessero e volessero scolpirselo ben in capo i reggitori suoi, che l’Europa non era per nulla disposta ad acquetarsi a sì grave scandalo. Russia, Austria e Prussia pertanto chiedevano perentoriamente che la Svizzera allontanasse dal suo territorio quanti erano i fuorusciti e i proscritti Italiani che vi soggiornavano, senza veruna eccezione o scusa (102).

Il governo svizzero piegò il capo. I raminghi figli d’Italia si videro forzati a cercar altrove un palmo di terra ospitale. Non però si tenne abbastanza soddisfatta l’austriaca persecuzione: bisognava percuotere, anzi flagellare senza pietà e senza posa, e perseguitare fin all’ultimo esterminio i rivoluzionari; era stato il consiglio di Metternich ai principi d’Italia. E voleva mostrare che a’ suoi consigli sapeva accoppiar le opere. Un truce pensiero gli balenò, e fu quello d’applicare ai proscritti italiani quelle medesime durezze che nel 1815 eransi stabilite contro coloro che avean dato il voto di morte ai re Luigi XVI. Sapendo di trovare la desiderata arrendevolezza, il cancelliere imperiale fece tasteggiar dapprima Carlo Felice. Il quale si mostrò dispostissimo; laonde tra i due gabinetti di Vienna e di Torino si venne alla conclusione d’indirizzare una nota separata, ma identica, alle primarie Corti europee, eccettuata quella di Madrid, per invitarle ad accordarsi nel comune interesse ad espellere dall’Europa i fuorusciti liberali di qualsiasi nazionalità. 1 sollecitatori viennesi e torinesi avvertivano, — che trent’anni d’esperienza aveano già abbastanza chiarito dell’impossibilità d’emendarsi in cui trovavansi i rivoluzionari. La mala riuscita de’ loro delittuosi disegni, anziché iscuorarli, diveniva al contrario per costoro uno stimolo quotidiano ad architettare nuove opere scellerate. Non esservi paese per quanto tranquillo, non esservi governo per quanto paterno, il quale si potesse credere al sicuro da’ tentativi di tal genìa, la quale avea per ultimo scopo lo sterminio universale. —

L’esperienza avea eziandio dimostrato, continuavano a dire Metternich e il conte della Torre, che, se sventuratamente i germi rivoluzionari erano più o meno sparpagliali per tutta Europa, tuttavia essi venivano posti e mantenuti in fermento e sviluppo dall’operosità de’ rivoluzionari fuorusciti, da coloro in ispecie che avendo perduto ogni cosa, o non mai posseduto nulla, non potevanose non pescare nel torbido. L’imperatore d’Austria e il re di Sardegna giudicavano pertanto che non vi fosse nel continente europeo alcun paese, ove senza pericolo potessero abitare i fuorusciti: proponevano quindi che la loro espulsione forzata dall’Europa fosse la base fondamentale degli accordi che andavansi a prendere contro uomini, i quali eransi posti in ostilità flagrante contro la società europea (103).

A queste smodate sollecitazioni venne meno allora l’assenso di tutti i governi; non però esse furono del tutto abbandonate, e noi le incontreremo di nuovo calorosamente consigliate dal principe di Metternich nel congresso di Verona. Neanco ip quei giorni il gabinetto di Vienna potè afferrare uno di que’ migliori istrumenti, che da tempo cercava per assodare la sua padronanza inquisitiva negli Stati italiani. Stando in Laybach, il conte di San Marzano avea scritto al marchese BrignoleSale ambasciatore per la Sardegna a Firenze:

Tutti gli intrighi della Corte di Vienna provano all’evidenza che vorrebbe trarre a sè tutta la corrispondenza postale degli Stati d’Italia, per potere così influirvi a talento (104).

Veramente, tra gli occulti concetti della politicaaustriacaa Laybach, stava eziandio questo di poter mettere a piacimento le mani entro tutta la corrispondenza postale degli stati italiani. Assentiva nel 1822 il duca di Modena; ma rifiutò questa volta di trovarsi d’accordo col gabinetto di Vienna quel di Torino. Nell'agosto dello stesso anno in effetto il conte della Torre scriveva a Firenze al marchese Brignole-Sale che, anziché disapprovare il suo colloquio col Fossombroni, egli commendava gli argomenti usati per dissuadere la Toscana dal prestar orecchio alleproposte dell’Austria (105). Alquanto tempo prima il conte Barbaroux, ministro sardo in Roma, avea ricevuto le più calorose sollecitazioni di vegliare sui maneggi che l’Austria faceva per avere la corrispondenza postale dell’Italia mediana e meridionale (106). Il ministro Consalvi non tardò a volgere l’attenzione sua a tal nuovo tranello austriaco; e quando vide l’insolente procedere di quel gabinetto andare tant’ollre da sviare a modo suo la corrispondenza degli Stati pontifici! senza neanco prevenirlo, fece sapere a Torino che il governo romano era pronto ad associarsi al piemontese per agire di conserva a salvarsi, sono sue parole, dall’inquisizione austriaca (107).

Così in que’ dì rimase incagliato il disegno d’una lega postale austro-italica, che il gabinetto di Vienna con intendimenti di assoluta supremazia voleva condurre a termine. Non però ne smise il pensiero; chè anzi con maggior tenacità si diede ad alimentarlo negli anni susseguenti. Il che dovendo formar oggetto di posteriore racconto, ora la serie degli eventi ci chiama a narrare i pensieri e le opere della Russia, della Prussia, dell’Inghilterra e della Francia sulle cose italiane dalla chiusura delle conferenze di Laybach all’apertura del congresso di Verona.

4.CAPITOLO QUARTO

Sommario

Mutamento compiuto nelle idee politiche dello czar Alessandro — L’Italia lasciata dalla Russia in piena balìa dell’Austria — Uguale procedere della Prussia e dell’Inghilterra — Morte di lord Castlereagh — Avvertenza — Nuova politica inaugurata da Canning — Riaccostamento della politica francese alla Santa Alleanza — Sollecitudini e pratiche del re Luigi XVIII e del suo governo per salvaguardare il regio diritto ereditario del principe di Carignano dai maneggi dell’Austria e del duca di Modena.

I

Lasciammo l’imperatore Alessandro totalmente convertito alla politica retriva del principe Metternich. La rivoluzione compiuta dai Greci per viver liberi e cristiani, l’universale e profonda simpatia da essa risvegliata nella Russia, non aveano bastato a toglier l’animo dello czar da quelle preoccupazioni, in cui era giunto a ingolfarlo il cancelliere imperiale. Guerreggiare fin allo esterminio la rivoluzione ovunque essa osasse alzar il capo, rimaneva pur sempre il concetto signoreggiatore della nuova politica d’Alessandro. Laonde egli diceva al marchese Saluzzo, giunto a Pietroburgo a rappresentarvi il re Carlo Felice: — Le presenti macchinazioni rivoluzionarie sono di gran lunga più pericolose di quelle, che riversarono l’antico ordine di cose. Esse infatti trovansi disseminate

dovunque, e sono tra loro unite per nodi così sottili ed intimi, che appena si possono scorgere (108). — Dominato da tali idee, e convinto del dover suo di mantenersi nei più stretti accordi co’ suoi alleati a salvare l'Europa da quella ruina di cui egli vedeva in ogni dove i segni precursori, lo czar avea terminato per mettere in disparte tutti gli antichi rancori, tutti i sospetti verso il gabinetto di Vienna, lasciandogli piena libertà d’azione nelle italiane cose. Un tal mutamento non era più un mistero per le Corti italiane; e da Vienna l’ambasciatore sardo scriveva a Torino:

Il gabinetto russo ha abbandonato tutti gli affari d’Italia alla direzione esclusiva dell’Austria. Ecco ciò che io stesso ho letto in un dispaccio del conte di Nesselrode relativo a Napoli. Presentemente noi non dobbiamo dimenticarci che il concetto favorito, il cavallo di battaglia dell’imperatore Alessandro si è quello di combattere la rivoluzione. Importa pure riflettere che la persona che lo accompagnerà al Congresso, la sola ad aurei è il conte di Nesselrode, che deve al principe Metternich più che la vita, giacché gli deve la vittoria sul partito greco, l’allontanamento e il discredito d’un formidabile rivale (109).

Ciò era vero, e l’assicurata prevalenza del partito tedesco nei consigli dello czar Alessandro costituiva la forza e la sicurezza della politica austriaca in Italia. Già sin dall’epoca del Congresso di Laybach sir Gordon avea dovuto scrivere a lord Castlereagh: — L’Austria non avrebbe potuto parlare in modo più assoluto, se la Russia si fosse tramutata in una provincia del suo impero (110). — Siffatta eccessiva deferenza erasi venuta sempre più aumentando. Nel riordinamento del governo napoletano il commissario russo non d’altro erasi brigato che d’appoggiare le istanze e le proposte del commissario austriaco. In seguito la Legazione russa in Napoli erasi tenuta al tutto lontana da qualunque ingerimento nell’amministrazione interna di quel regno, lasciando libero il passo all’Austria d’esercitarvi l’incontrastato suo predominio (111). All’ambasciatore pel re di Sardegna in Vienna, chiedente i benevoli Uffizi del gabinetto di Pietroburgo per conseguire il pronto sgombero degli Austriaci dal Piemonte, Nesselrode rispondeva che l’imperatore Alessandro facevasi sacro obbligo di riserbarsi a trattar le questioni italiane in Italia d’accordo co’ suoi Alleati (112). S’aggiunga che il principe Mettermeli era pervenuto, per mezzo di quel suo inesauribile sistema di calunnie e di maligne esagerazioni, ad offuscare il criterio dei ministri dello czar sulle cose italiane in modo singolarmente strano (113).

Eravi tuttavia un argomento gravissimo, sul quale non per anco l’abilità di Metternich avea trionfato. Alessandro non s’era piegato a creder reo di fellonia verso il re Carlo Felice il giovine principe di Carignano, il quale avea tenuto le redini della reggenza in Torino all’epoca del governo costituzionale. Il sospetto di maneggi fatti dalle Corti di Vienna e di Modena per tentare l’innovazione della legge di successione al trono di Sardegna, erasi venuto maggiormente aumentando nell’animo di Alessandro da varie autorevoli testimonianze. Quindi non solo lo czar avea fatto dichiarare al gabinetto di Vienna che conveniva aspettare la convocazione del nuovo Congresso per decidere sulle future sorti del principe di Carignano, ma avea aggiunto che tali deliberazioni non doveano poinè potevano esser contrarie ai legittimi diritti successorii dell’erede della corona di Sardegna (114).

Anch’essa la Prussia nelle cose italiane andava tranquillamente a rimorchio dell’Austria. Benché il ministero prussiano portasse il più svantaggioso giudizio sopra tutto ciò che facevasi dal ristaurato governo borbonico, pure non davasi alcun pensiero d’arrestare il corso delle male opere (115).

II

L’Inghilterra, del pari che la Russia e la Prussia, non manifestava alcuna voglia d’intrommettersi nelle faccende interne del regno delle Due Sicilie. Perlocchè il conte Solaro della Margherita scriveva da Napoli al suo governo:

La Corte d’Austria ebbe necessariamente una certa padronanza in tutto il tempo che l’armata d’occupazione rimase nello Stato; ma era ben lungi dal pareggiare quella della Gran Bretagna, e dal 1818 al 20 essa era poi in tal modo diminuita, che avrebbe potuto chiamarsi quasi nulla. La rivoluzione del 1820 ha fatto cambiar aspetto alle cose, e dopo il ristabilimento dell’autorità reale legittima la Corte britannica non ha più ripigliata la menoma parte della sua influenza. Nel primo tempo che segui il ritorno del re, e che i commissari delle Corti d’Austria, Russia e Prussia tenevano conferenze per mandare ad effetto le deliberazioni del congresso di Laybach, sir a’ Court si astenne dalle medesime, e non prese alcun’ingerenza circa l’amministrazione interna dello Stato. Essendo egli partito, sir Hamilton si è posto in una situazione affatto nulla, che dura tuttavia. Ora l’Austria esercita un supremo dominio sulle cose di questo regno (116).

Un sistema identico di politica d’astenimento eresi dato a praticare il governo inglese in ordine alle cose del Piemonte, nel quale era soddisfatto di vedervi perdurare l’occupazione austriaca. Di questo desiderio del gabinetto di. Londra il conte d’Agliè potè avere sufficiente testimonianza nell’agosto del 1822. Portatosi infatti in quel tempo da lord Castlereagh per impegnarlo ad appoggiare nel Congresso, che stava per aprirsi, la domanda del re di Sardegna d’esser alleggerito dal peso delle truppe d’occupazione, s’udì rispondere: — Veramente io mi aspettava da voi e per parte del vostro governo una domanda affatto contraria. In Napoli la mancanza di forze militari nazionali tiene vivo il desiderio che vi perduri l’occupazione austriaca. Forse che invece il vostro re ha egli già un esercito suo sufficiente per far a meno dello aiuto austriaco? — L’ambasciatore piemontese si fece con lungo discorso a persuadere il ministro inglese che nel Piemonte esistevano tutti i migliori elementi per la conservazione della tranquillità, senza che punto vi fosse più bisogno alcuno d’aggravare le finanze dello Stato del pesantissimo onere dell’occupazione austriaca. Non però Castlereagh diede segno di persuasione, contentandosi di rispondere seccamente: — Sta bene; ma per ora non posso dirvi altro, se non che mi torna impossibile di pregiudicar in nulla le consultazioni, che sulle cose d’Italia avranno luogo nel prossimo Congresso.—Nel dare notizia al suo governo di questo colloquio, il conte d’Agliè soggiungeva:

Questo governo sente profondamente quanto sia assurdo di voler applicare la medesima forma di governo a tutti i paesi indistintamente, e punto non dissimula i mali che le imitazioni della costituzione inglese hanno prodotto. Laonde esso è ben lontano dall’addottare quello spirito di propaganda, che sembra costituire la mania di un gran numero d’abitanti di questo paese, ed eziandio degli agenti diplomatici inglesi all'estero,i quali spesso tengono un linguaggio contrario ai sentimenti e alle intenzioni del proprio governo (117).

Il gabinetto di Vienna non avea pertanto alcun argomento da preoccuparsi della presenza e del contegno che avrebbe tenuto Castlereagh nel prossimo Congresso. Invece Metternich era così sicuro dell’appoggio illimitato che il governo britannico darebbe alla sua politica, che risolse di tenere preventivamente in Vienna alcune intime consultazioni collo czar Alessandro e lord Castlereagh per intendersi sui modi di padroneggiare il Congresso. Ma ad impedire questo convegno s’intromise la mano della morte. Nel mattino del 13 agosto 1822 per le sterminate vie di Londra i venditori delle effemeridi politiche facevano eccheggiare questo grido selvaggio: —Buona e gloriosa novella per l’Inghilterra; Castlereagh si è segato la gola. — Così era accaduto. L’erede della politica di Guglielmo Piti, colui che attraverso alle più dure prove avea mostrato di possedere nel più allo grado il coraggio, la pazienza, la tranquilla sagacità che meglio convengono ad uno statista, il degno gentiluomo, rinomato nel suo paese per singolare eleganza e squisitezza di maniere, in un eccesso di pazzia, appena giunto al cinquantesimosecondo anno di vita, crasi ucciso. L’amorosa passione che per tutta la vita aveagli signoreggiato il cuore, divenuta infelice, i disgusti politici, l’eccessivo lavoro erano state le precipue cagioni d’una fine sì deplorabile.

Con la scomparsa dalla scena del mondo del marchese di Londonderry ebbe principio un grande mutamento nella politica esterna dell’Inghilterra. Esso era già maturato al segno, che se anche lord Castlereagh fosse vissuto e rimasto al maneggio della cosa pubblica, sarebbesi ugualmente compiuto, in modo più lento sì, ma non meno inevitabile. I grandi motivi che aveano indotto l’Inghilterra a tenersi stretta alla grande alleanza, eransi già del tutto dileguali; né era possibile che il sentimento nazionale britannico sopportasse più a lungo un governo, che camminava di conserva colla Russia e coll’Austria per imporre ai riluttanti popoli l’obbedienza cieca ai principii del diritto divino, assoluto, indefettibile delle corone. Fu la manifestazione, per quanto si voglia brutalmente selvaggia, di questo sentimento represso che in quel paese di vecchie libertà fece considerare come un giorno di festa nazionale la tragica morte d’un uomo di Stato, che pure avea reso alla sua patria servizi eminenti.

E fu questo medesimo sentimento, sorretto dalla forza della pubblica opinione, quello che, ad onta dell’avversione del re Giorgio e della maggior parte de’ suoi ministri, portò al posto occupato da Castlereagh ne’ consigli della corona britannica l’uomo che così a lungo erane stato il più acerbo avversario politico, Giorgio Canning. Egli con mano ardita non tardò ad infrangere i legami che tuttavia allacciavano il gabinetto di Londra alla Santa Alleanza delle monarchie assolute. Da quel felice istante l’Inghilterra quasi permanentemente entrò nella via d’una politica liberale nelle sue relazioni esterne. Ma affinché poi questa stessa politica liberale inglese nel corso dei quarantanni, che dal presente punto restano ancora a percorrere alla nostra storia, non sia mal compresa e ingiustamente giudicata, importa non dimenticare che, se un governo d’un grande paese ha solenni doveri da compiere verso l’intiera società cristiana, tuttavia la savia politica insegna che, prima di vantaggiare i popoli forestieri della potenza di cui esso trovasi investito, dee religiosamente valutare gli interessi permanenti della nazione che ha l’onore di reggere, badando all’obbligo, primo di tutti, di non farne versar il sangue ne’ campi di guerra, e di non. turbarne il benessere interiore, se non quando lo esige una necessità assoluta e presenziale.

III

La politica esterna del governo francese era entrata in un andamento contrario a quello impresso da Canning all’inglese diplomazia. Fintanto che il duca di Richelieu era rimasto a capo dei consiglieri del re Luigi XVIII, la diplomazia francese non avea tralasciato di dare savi consigli di moderazione ai principi ed ai popoli, e per quanto le era stato possibile non s’era risparmiata a toglier giù di credito il principio dell’intervento armato. Ma ottenuto che ebbero il sopravvento i partigiani a principio monarchico, essi non tardarono a spingere il ministero che li rappresentava, a perdere man mano ogni rispetto al principio del non intervento, e ad associarsi invece alla Santa Alleanza onde perseguitare dovunque le idee liberali. Alla domanda quindi fatta dagli ambasciatori austriaco e sardo in Parigi in ordine al menzionato progetto di bandire dha generale crociata contro tutti i fuorusciti politici che stavano in Europa, il visconte di Montmorency rispose—che il governo francese vedeva in una tale proposta il mezzo validissimo per assodare dappertutto la tranquillità pubblica; e farebbe pertanto ogni sforzo per venire ad un accordo cogli altri governi interessati (118).

Alle promesse aveano preceduto i fatti. I fuorusciti piemontesi, che aveano cercato ospitalità in Francia, in confarono per parte del governo duro ed ingiusto contegno. Dopo averli fatti tormentare con inquisizioni minute e prolungate, il visconte di Montmorency e il ministro per gli affari interni De Corbière ordinarono al direttore della polizia parigina di tenere fedelmente e quotidianamente ragguagliato l'ambasciatore del re di Sardegna del modo di comportarsi dei profughi piemontesi (119).

Sdegnati di vedersi duramente sorvegliati in ogni loro minuto andamento, i più ragguardevoli di costoro chiesero al governo facoltà d’uscire dai confini. Il ministero non diede alcuna risposta; bensì il ministro sopra gli affari interni si fè lecito di dichiarare alla Camera dei Deputati che i fuorusciti italiani mostravansi grati alla protezione del governo, e riconoscenti alla benevoglienza del re. Uomo di gagliardo e dignitoso sentire, il conte Santorre di Santa Rosa volle degnamente castigare l’audace menzogna di De Corbière, e consegnò alle stampe una lettera, ove con dignità narravansi i mali trattamenti che il governo francese avea fatto patire ai più tranquilli tra coloro, i quali eransi affidati all’ospitalità della Francia, aggiungendo che a tutti indistintamente erasi negato il diritto di passare in Inghilterra (120).

A cosiffatte rivelazioni la indignazione pubblica grandemente si manifestò in Parigi. Del che scottato nel vivo De Corbière spiccò l’ordine che Santa Rosa fosse condotto dalla gendarmeria regia a un porlo della Manica, e imbarcato alla volta dell’Inghilterra. Ma ciò non quadrava per nulla all’ambasciatore sardo, che quindi corse dal direttore generale della polizia per rammentargli che un tal procedere era contrario agli impegni formali che il ministro De Corbière avea seco assunto. — Che cosa vuole mai, signor conte? rispose il signor Franchet; per parte mia nella massima confidenza posso assicurarle d’aver fatto ogni sforzo ad impedire una tale determinazione. Faccia ella un ultimo tentativo, e vada dal presidente del gabinetto. — Il marchese Alfieri non indugiò a seguire il consiglio. Egli trovò il signor De Villèle impegnato a presiedere il consiglio dei ministri; fattolo tuttavia chiamare, gli espose le sue recriminazioni. Visto l’ambasciatore sardo fortemente turbato, il presidente del consiglio lo pregò di calmarsi e d’attendere per un istante, mentrecchè egli si porterebbe a saggiar l’opinione del signor De Corbière. Il quale non lasciatosi smuovere da alcun argomento, tenne fermo nel sostenere che, dopo la pubblicazione della lettera del conte Santa Rosa, il governo francese comprometterebbe gravemente la propria riputazione se continuasse ad impedire ai fuorusciti politici di lasciar la Francia. Nel riferire tali cose al conte Alfieri, De Villèle soggiunse: — Se così volete, essi non andranno in Inghilterra; ma, di grazia, riflettete che se prescelgono di recarsi in quel paese, noi li faremo sorvegliare in modo da potervi dire giorno per giorno ogni loro azione.— Ciò non mi soddisfa, riprese l’ambasciatore sardo; il signor De Corbière si è meco impegnato a non lasciar partire ad ogni costo per le coste dell’Inghilterra i fuorusciti piemontesi stanziati in Francia, ed io pretendo che si mantenga l’impegno assunto. — Ma ditemi voi a qual partito ci dobbiam appigliare, riprese De Villèle. — Voi dovete dichiarar loro, rispose gravemente l’ambasciatore sardo, che ov’essi non stiano tranquilli ne’ luoghi in cui soggiornano, saranno richiesti per la estradizione dal governo di Torino. Intanto, secondo le mie istruzioni, m’oppongo formalmente alla loro andata in Inghilterra. Che se non potrò ora ottenere da voi la promessa che verranno ritirati gli ordini per la partenza del Santa Rosa, io torno in casa a chiedervi officialmente la estradizione sua d’obbligo di reciprocanza per la concessione di tal natura da noi fatta alla Francia or è un anno appena. — Stretto da tale argomento il presidente del consiglio promise che farebbesi quanto desiderava il rappresentante del re di Sardegna (121). Questi minuti dettagli non è stato fuor di proposito il qui riferire, avvegnaché essi varranno al lettore di guida per meglio scorgere il successivo miglioramento del diritto d’asilo presso le più libere nazioni europee nel secolo xix.

Relativamente alle cose interiori del regno delle Due Sicilie il conte di Blacas, che a Napoli rappresentava la maestà di Luigi XV11I, dopo essersi mostralo avverso ai modi di ristauro colà concertati dal governo assoluto di Ferdinando I (122), v’avea poi lasciato piena balìa d'operare al commissario austriaco, benché vedesse e non tralasciasse di confessare ne’ suoi dispacci che, continuando le cose ad esser maneggiate in tal modo, il predominio della Corte di Vienna ne) regno delle Due Sicilie porrebbe radici inestirpabili (123). Al principe Metternich era sommamente gradita la presenza in Napoli del conte Blacas, e per ciò non avea tralasciato di far sapere a Parigi che, se Luigi XVIII mantenesse in Italia ambasciatori suoi di tal fatta, in ogni occorrenza i due governi austriaco e francese sarebbonsi più facilmente intesi. Ma tuttavia venne giorno, in cui fu forza pensare a sostituire presso la Corte di Napoli il conte Blacas. Questo fiero propugnatore del diritto divino delle corone non sentivasi però proclive a rispettare altri diritti più sacri e legittimi. Una tresca amorosa con una giovane gentildonna, sposa ad un amico del re, conosciuta nella reggia e per la città di Napoli; venne nel maggio del 1822 ad aggravare d’incancellabilc scredito il rappresentante di Luigi XVIII (124). Conosciuta la necessità di richiamarlo, il visconte di Montmorency desiderava sostituirlo col duca di Lavai suo cugino: ma al re di Francia tornò più accetta la scelta indicata dal signor di Villèle, per la quale dando il posto d’ambasciatore di Francia in Napoli al signor De Serre, allontanavasi da Parigi un uomo sul quale non potevasi sicuramente contare, avendo rifiutato di rimanere al maneggio della pubblica cosa in quel dì, in cui erasi costituito il nuovo ministero.

Assai meno sbadatamente il governo francese teneva l’attenzione sua rivolta al Piemonte. Laonde nelle istruzioni date ai plenipotenziari prescelti per compartecipare al Congresso di Verona, stavano le raccomandazioni seguenti:

Se il re di Sardegna reclamerà che l’Austria tolga i suoi presidii dal Piemonte, la Francia deve appoggiare una tal domanda. Probabilmente l’Austria assentirà a siffatto sgombro, sotto la clausola di conservare una guarnigione propria in Alessandria. Cotesta occupazione sarebbe sconvenevole sotto due aspetti, cioè essa tornerebbe gravosa alle finanze piemontesi, e priverebbe il re di Sardegna di tutti quei vantaggi morali che può ripromettersi da uno sgombro totale.

Altre difficoltà sorgeranno sul ritorno del principe di Carignano. Senza prestar fede a tutti gli ambiziosi disegni che si possono supporre nella Corte di Vienna, si sa tuttavia da buona fonte che esso desidera continui l’allontanamento del principe di Carignano, a motivo che tal condizione incerta e raminga che si associerebbe all’esistenza del principe, senza punto distruggere la legittimità della successione, lascierebbe all’Austriaun’altra preponderanza nel Piemonte, e nell’avvenire potrebbe metterlo in condizioni tali da imporre duri patti allo stesso principe di Carignano. È dell’interesse della Francia di opporsi a tutto ciò.

Questo per iscritto; a voce Luigi XVIII fece più vive raccomandazioni al visconte di Montmorency affinché nel Congresso di Verona i diritti ereditari del principe di Carignano non patissero offesa. Realmente era questo uno de’ disegni che erano rimasti più operosi e più costanti negli andamenti della politica francese dal 181U in poi. Eravi di mezzo l’interesse francese nel tener salvo il Piemonte dal cadere sotto la padronanza diretta o indiretta dell’Austria; laonde gli agenti diplomatici di Luigi XVIII non aveano mai trasandato di vegliare e scandagliar i maneggi e le secrete macchinazioni delle Corti di Modena e Vienna per danneggiare l’erede della corona di Sardegna. Di più il gabinetto presieduto dal duca Richelieu avea in tal proposito indirizzate vive rimostranze alla Corte di Pietroburgo (125). Saliti che furono al governo della Francia gli uomini i quali rappresentavano il partito monarchico eccessivo, la politica francese si fece bensì in Italia arrendevolissima alla austriaca, non però giunse ad abbandonare a’ suoi nemici il principe di Carignano. Anche Montmorency in tal punto di politica esteriore si tenne sul sentiero in cui erasi posto il barone Pasquier. Il documento diplomatico che qui si pubblica, non ammette contraddizione; esso è un brano letteralmente volgarizzato d’un dispaccio dello stesso visconte al marchese della Maisonfort sotto la data di Parigi 22 dicembre 1821:

Continuate, signor marchese, ad usare tutta la vostra influenza sia per mantenere il re e la regina nelle disposizioni d’animo in cui gli avete trovati, sia per servire gli interessi del principe di Carignano, che sono pur quelli della monarchia sarda, massime tenendo fermo questo principe nel contegno finora da lui praticato in Toscana, contegno che deve condurre a riconciliarlo totalmente colla Corte di Torino. Già sembra che il tempo abbia cancellato alcuni risentimenti; l’azione sua inevitabile farà anche di più, e l’interesse dello Stato ultimerà sifatto riavvicinamento. Io osservai la premura vostra a prepararlo, ed amo confessare che, se si travede qualche miglioramento nelle condizioni del principe, i vostri buoni uffizi e savi consigli hannovi potentemente concorso.

In tal modo negli occulti disegni della Provvidenza maturavansi gli eventi!

1

Dispaccio in cifra dell’ambasciatore sardo a Parigi; 23 agosto 1820.

2

Dispaccio in cifra Rossi, Vienna 16 agosto 1820.

3

Rapporto del conte San Marzano al te Vittorio Emanuele; Laybach 13 gennaio 1821.

4

Rapporto del conte San Marzano al re Vittorio Emanuele, Laybach 15 gennaio 1821.

5

Correspondence, Despatches and other Papers of viscount Castlereagh.

6

Correspondence, Despatches and other Papers of viscount Castlereagh.

7

Dispaccio Rossi al ministro degli esteri in Torino, Vienna 9 agosto 1820.

8

Nota confidenziale rimessa dai ministri d'Austria alle Corti di Roma, Firenze, Modena, Lucca, Parma e Torino, Vienna 23 luglio 1820.

9

Appunti manoscritti sulla vita del Fossombroni.

10

Annesso in cifra al dispaccio del 21 agosto 1820 del conte Barbaroux ambasciatore del re di Sardegna presso la Santa Sede.

11

Nota Consalvi del 2 agosto 1820.

12

Annesso in cifra al dispaccio del 9 agosto 1820.

13

Lettera del 5 agosto 1820.

14

Dispaccio al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 26 luglio 1820.

15

Dispaccio del 27 agosto 1820 al ministro degli affari esteri in Torino.

16

Dispaccio San Marzano al conte Rossi, Torino 22 agosto 1820. — Dispaccio Rossi al conte San Marzano, Vienna 27 agosto 1820.

17

Lettera del principe Metternich al conte Rossi, Vienna 25 agosto 1820.

18

Questo dialogo è tolto letteralmente da un dispaccio del conte di Caraman al duca Richelieu sotto la data di Vienna del 29 agosto 1820.

19

Dispaccio in cifra del conte Rossi al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 29 luglio 1820.

20

Sunto del giornale delle conferenze di Troppau. — Dispaccio in cifra del marchese Simonetti al ministro degli affari esteri in Torino, 8 ottobre 1820.

21

Giornale delle conferente di Troppau.

22

Dispaccio in cifra del conte Rossi 5 settembre 1820.

23

Lettera del conte Bernstorff, Troppau 22 novembre 1822.

24

Dispaccio circolare delle Corti d’Austria, Russia e Prussia, Troppau 8 dicembre 1820.

25

Gervinus,Storia del secolo XIX, vol. I e II.

26

Dispaccio del 19 settembre 1820 al ministro degli affari esteri in Torino.

27

Dispaccio del 29 gennaio 1821 al conte di San Marzano.

28

Dispaccio circolare agli agenti austriaci presso le Corti di Roma, Firenze ecc.

29

Dispaccio Nesselrode al ministro russo presso la Corte di Torino, Laybach 25 dicembre 1820.

30

Istruzioni del conte San Marzano al conte d’Agliè inviato presso i Sovrani alleati a Laybach, Torino 14 dicembre 1820.

31

Dispaccio confidenziale in cifra del 19 dicembre 1820.

32

Rapporto secondo al re Vittorio Emanuele, Laybach 9 gennaio 1821.

33

Dispaccio in cifra Barbaroux al ministro degli affari esteri in Torino, Roma 28 dicembre 1820.

34

Lettera del 3 gennaio 1821.

35

Lettera di Metternich del 5 gennaio 1821.

36

Rapporto secondo al re Vittorio Emanuele, Laybach 9 gennaio 1821.

37

Dispaccio in cifra del conte Rossi, Vienna 30 dicembre 1820.

38

Dispaccio confidenziale del 20 febbraio 1821.

39

Lettera del 5 gennaio 1821.

40

Rapporto secondo al re Vittorio Emanuele, Laybach 9 gennaio 1821.

41

Rapporto secondo al re Vittorio Emanuele, Laybach 9 gennaio 1821.

42

Giornale delle conferenze, Conferenza del 12 gennaio.

43

Ivi, Conferenza del 13 gennaio.

44

Giornale delle conferenze, Conferenza del 16 gennaio.

45

Ivi, Conferenza del 19 gennaio.

46

Lettera in cifra San Marzano al re Vittorio Emanuele, Laybach 2 febbraio 1821.

47

Giornale delle conferenza, Conferenza del 25 gennaio.

48

Giornale delle conferenze, Conferenza ottava e nona.

49

Giornale delle conferenze, Conferenza decima.

50

Dispaccio in cifra Corsini al Fossombroni.

51

Giornale delle conferenze, Conferenza del 2 febbraio.

52

Dispaccio in cifra del conte di Pralormo al ministro degli affari esteri in Torino, Parigi 30 marzo 1821.

53

Dispaccio circolare ai ministri di S. M. britannica presso le Corti estere, Londra 19 gennaio 1821.

54

Hansard’s Parliamentary Debates, tom. XXX.

55

Tornata della Camera dei Comuni del 21 giugno 1821, Hansard’s Parliamentary Debates, tom. XXX.

56

Dispaccio Corsini, Laybach, 8 febbraio 1821.

57

Relazione sulle pratiche preparatorie per il regolamento del governo napoletano.

58

Rapporto quarto del conte San Marzano al re Vittorio Emanuele.

59

Rapporto quarto del conte San Marzano al re Vittorio Emanuele.

60

Relazione San Marzano sulle pratiche preparatorie per il regolamento del governo napoletano.

61

Rapporto quinto del conte San Marzano al re Vittorio Emanuele.

62

Giornale delle conferenze, Conferenza del 20 febbraio.

63

Giornale delle conferenze. Conferenza del 21 febbraio.

64

Giornale delle conferenze, Conferenza del 25 febbraio.

65

Dispaccio Pralormo al signor Pozzi reggente l’uffizio degli affari esteri in Torino, Parigi 21 marzo 1821.

66

Mémoire de la Junte de Turin sur les propositions du corate Mocenigo ministre de Russie, Turin 31 mars 1821

67

Instruction du comte Mocenigo par M.r le baron de Moltke chargé d’affaires de Russie, Novare 2 avril 1821.

68

Risposta della Giunta di Torino alle proposizioni del barone di Moltke, 3 aprile 1821.

69

Dichiarazione pubblicata a nome delle Corti d’Austria, Prussia e Russia alla chiusura del Congresso di Laybach, 12 maggio 1821. —Dispaccio circolare Metternich, 12 maggio 1821.

70

Circolare Della Valle agli agenti del re di Sardegna all’estero, Modena 29 luglio 1821.

71

Istruzioni al conte Pralormo a Vienna, Torino 22 gennaio 1822.

72

D’affermar ciò alla storia non cortigiana danno pieno diritto le lettere di Carlo Felice a suo fratello Vittorio Emanuele del 16 e 21 aprile, 17 ottobre 1821, 26 gennaio e 9 maggio 1822.

73

Lettera da Modena del 16 agosto 1821.

74

Lettera del 5 luglio 1821.

75

Dispaccio del 22 luglio. 1821.

76

Dispaccio in cifra del 5 agosto 1822.

77

Dispaccio Pralormo al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 9 febbraio 1822.

78

Dispaccio Pralormo del 2 maggio 1822.—Lettera di Carlo Felice a Vittorio Emanuele del 7 maggio 1822.

79

Dispaccio del conte di Saluzzo al ministro degli affari esteri in Torino, Pietroburgo 8 luglio 1822.

80

Dispaccio del marchese De la Maisonfort ministro di Francia in Firenze al barone Pasquier ministro degli affari esteri in Parigi, 15 novembre 1822.

81

Dispaccio Metternich del 29 aprile 1822.

82

Dispaccio del 15 novembre 1821.

83

Editto dell'8 febbraio 1821.— Circolare del cardinale Consalvi ai cardinali Legati delle provincie, 9 maggio 1821.

84

Annesso in cifra al dispaccio Barbaroux del 22 agosto 1820 al ministro degli affari esteri in Torino.

85

Nota verbale Consalvi, dal Quirinale 9 maggio 1821.

86

Lettera del cardinale Spina legato di Bologna al cardinale Sanseverino, 24 giugno 1822.

87

Giornale protocollo della convenzione per l'occupazione militare nel regno.

88

Convenzione tra l’Austria, la Prussia, la Russia e il re delle Due Sicilie, conclusa dal 6 al 18 ottobre 1821.

89

Dispaccio dell’8 aprile 1822 al ministro degli affari esteri in Torino.

90

Dispaccio Pralormo al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 2 e 12 aprile 1822.

91

Articolo 3.

92

Convenzione conclusa a Piacenza addi 14 marzo 1822 dai plenipotenziari conte Bubna, conte di Neipperg e conte Nasalli per la guarnigione e le fortificazioni di detta città; e ratificata a Vienna il 22 maggio, a Piacenza il 10 maggio successivo.

93

Dispaccio del principe Metternich al barone Vincent ambasciatore austriaco presso la Corte di Francia, Vienna 6 marzo 1822.

94

Dispaccio Metternich al barone Vincent a Parigi, 6 marzo 1822,

95

Dispaccio Pralormo al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 3 febbraio 1822.

96

Dispaccio al ministro degli affari esteri in Torino, Vienna 6 agosto 1822.

97

Dispaccio del principe Metternich al conte di Bombelles a Firenze, Laybach 29 aprile 1821.

98

Dispaccio del 12 aprile 1822.

99

Dispaccio Pralormo al ministro degli affari esteri in Torino, Baden 3 luglio 1822.

100

Dispaccio Pralormo, Baden 3 luglio 1822.

101

Dispaccio Pralormo, Vienna 6 agosto 1822.

102

Nota del 19 maggio 1822.

103

Note Metternich e Latour del 20 settembre 1822.

104

Lettera del 22 febbraio 1821.

105

Dispaccio del 31 agosto 1822.

106

Dispaccio Della Torre, 8 giugno 1822.

107

Dispaccio Barbaroux, Roma 12 ottobre 1822.

108

Dispaccio Saluzzo al ministro degli affari esteri in Torino, Pietroburgo 16 marzo 1822.

109

Dispaccio Pralormo, Vienna 6 agosto 1822.

110

Dispaccio del 31 maggio 1821.

111

Dispaccio del conte Solaro della Margherita al ministro degli affari esteri in Torino, Napoli 3 gennaio 1823.

112

Dispaccio Pralormo, Vienna 27 settembre 1822.

113

Dispaccio Saluzzo al ministro degli affari esteri in Torino, Pietroburgo 19 agosto 1822.

114

Annesso in cifrasi dispaccio Alfieri, Parigi 22 novembre 1821. — Dispaccio Sirnonetti, Pietroburgo 7 luglio 1821. — Annesso in cifra al dispaccio Sirnonetti del 22 gennaio 1822.

115

Dispaccio in cifra del conte di Sales al ministro degli affari esteri in Torino, Berlino 4 febbraio 1822.— Dispaccio del conte Solaro della Margherita allo stesso, Napoli 3 gennaio 1823.

116

Dispaccio del 3 gennaio 1823.

117

Dispaccio d’Agliè al ministro degli affari esteri in Torino, Londra 11 agosto 1822.

118

Dispaccio confidenziale del conte Alfieri al ministro degli affari esteri in Torino, Parigi 18 agosto 1822.

119

Dispaccio Alberi, Parigi 1 maggio 1822.

120

Lettera del conte Santarosa al signor De Corbière, Alenvon 14 agosto 1822.

121

Dispaccio Alfieri, Parigi 3 settembre 1822.

122

Dispaccio del conte Solaro della Margherita, Napoli 17 febbraio 1822.

123

Dispaccio del marchese de la Maisonfort al barone Pasquier ministro degli affari esteri in Parigi, Firenze 10 dicembre 1821.

124

Dispaccio del conte Solaro della Margherita, Napoli 14 maggio 1822.

125

Dispaccio Simonetti al ministro degli affari esteri in Torino, Pietroburgo 7 luglio 1821.












Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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