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Storia politico-militare del brigantaggio… di Angiolo de Witt - HTML 01
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STORIA POLITICO-MILITARE

DEL BRIGANTAGGIO

NELLE PROVINCIE MERIDIONALI D'ITALIA

SCRITTA DA

ANGIOLO DE WITT

Già Ufficiale del R. Esercito

FIRENZE

Girolamo Coppini, Editore

1884


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CAPITOLO IX

Compagnia in colonna mobile

Ritornati dalla perlustrazione, fatta nei pressi di Sepino e sul Matese unitamente ad altri drappelli del 45° fanteria, ci giunse la dolorosa notizia, che il nostro beneaffetto colonnello de la Roche, cessava di comandare la zona militare di Campobasso, perché destinato al comando di quella più estesa, che aveva sede in Foggia.

La inattesa perdita più di un amico, che non di un superiore, dispiacque all'intiera cittadinanza di Campobasso, ed indistintamente a tutti i militi di quel presidio; purnonostante riusci di conforto ad ognuno il sapere, che veniva rimpiazzato da altro ufficiale superiore, il quale, per meriti di patriottismo, e per prerogativa di soldato, poteva ritenersi come degno successore del conte Mazé.

Il colonnello Bartolommeo Galletti di Roma, uno dei gloriosi avanzi del 1° esercito nazionale, che nel 1848 e 1849, tenne alta la fama dell'italo valore, fu sostituito al comando di Campobasso, con poteri discrezionali perciò che riguardava la repressione del brigantaggio.

Intanto, per essere giunto il maggiore Dalmasso, come comandante il battaglione, il capitano Crema riprese il comando della 16a nostra compagnia; e sotto la diluì dittatoria direzione, fummo mandati a Casalciprano per ripristinare la pubblica sicurezza.

In quell'epoca era tale e tanto il timor panico degli abitanti di quei paesi, che intiere popolazioni dalle due alle quattromila anime (siccome erano quelle di Baranello, Macchiagodena, Spineto e Frosolone) tolleravano che pochi briganti, non solo passeggiassero impunemente pelle loro contrade, ma che ricattassero i grandi proprietari, e dileggiassero in tutti i modi gli stemmi nazionali italiani, o quanto altro aveva l'impronta del novello stato di cose.

Infatti pochi giorni prima della nostra partenza per Casalciprano, alcuni gregari della banda capitanata da Nunzio di Paolo, avevano invaso quel paese in pieno meriggio, ed ivi, non solo avevano voluto gozzovigliare senza nulla spendere, ma si erano, altresì, condotti alla casa del Sindaco, per burbanzosamente imporgli di abbassare le armi di Casa Savoja, che in nome dell'unità italiana erano state collocate sulle soglie dei pubblici dicasteri.

In tal guisa, a poche miglia di distanza dal capoluogo di quella provincia, i reazionari dei boschi, cominciavano ad imporre una violenta restaurazione a quei popoli, che oltre essere impauriti pel moltiplicarsi dei briganti, avevano allora sufficiente ragione di diffidare circa l'avvenire dell'italiano stato unitario.

E sia lode al vero, in quell'anno 1862 erano molto dubbie le sorti della nuova Nazione italiana, ché all'infuori della Francia napoleonica, nessuna altra potenza appoggiava con fatti il nuovo stato di cose della penisola; ed" anzi l'Austria, la Spagna, la Prussia, la Baviera, ed il Belgio, non solo ricusavano di riconoscerci, ma per soprassello inviavano i loro più sfegatati legittimisti al Papa-Re di Roma, ed i più audaci avventurieri all'esercito raccogliticcio di Francesco II, ex-re di Napoli, che dalla città eterna, si dedicava a suscitare ogni orrore di brigantaggio nelle provincie meridionali d'Italia.

Intanto il nunzio pontificio faceva credere alle corti europee, che il grande partito cattolico italiano, era stato mistificato dalla politica piemontese, e che l'animo delle fedeli popolazioni d'Italia fosse sempre affezionato alla teocrazia papale, ed al vecchio ordinamento dei piccoli stati.

Tali menzognere delazioni diplomatiche venivano però sbugiardate dalla ferma politica del gabinetto Ricasoli, il quale, dopo avere bene organizzato tutte le forze vive del paese, faceva paralizzare tali gratuite asserzioni dell'apostolica ambasceria, da delle imponenti dimostrazioni antipapiste ed antiseparatiste, fatte sorgere per ovunque d'Italia, e più specialmente a Firenze, della quale città, si sarebbe voluto dare a credere, che il partito guelfo si desse a mene federaliste.

Frattanto l'Elvezia e la Grecia avevano formalmente riconosciuta la nuova Italia, e le spavalde minaccie dell'imperatore d'Austria, che dopo aver passato in rivista tutte le sue truppe di Mantova e di Verona, brindava in onore del prossimo ricupero della Lombardia, dell'Emilia, e della Toscana, venivano rese frustranee dalle note diplomatiche del governo francese, il quale dichiarava ritenersi come casus belli qualunque, sebben minima, violazione fosse stata fatta al principio di non intervento, da esso governo proclamato a Villafranca.

E così, appoggiata dai soli deputati della destra parlamentare, la politica estera del gabinetto Ricasoli (politica che era allora una sors una mens con quella della Francia democratica) mentre procurava di guadagnar terreno all'estero, e di dare opera al progressivo ordinamento dell'Italia una, col promulgare leggi liberali, coll'abbattere i vecchi confini e coll'arricchire la penisola di una grande rete ferroviaria, veniva minata da un partito di opposizione, accozzato col mostruoso connubio dei deputati conservatori piemontesi e dei sinistri onorevoli di tutte le Provincie.

Nel tempo stesso il cosidetto partito d'azione, che si faceva esclusivamente suo il gran nome di Garibaldi, e che aveva, per meta un lontano ideale politico, e per stendardo dei suoi moti interni, le sospirate conquiste nazionali di Roma e di Venezia;

trascurando di riflettere che alla nostra necessaria capitale, per allora non si sarebbe potati andare senza fare la guerra alle nazioni cattoliche,  né che tampoco da soli eravamo in grado di contendere colle armi il Veneto all'Austria, invadeva mercé le sue spesse e pubbliche agitazioni gran parte del campo amministrativo.

Onde ne avvenne che si videro molti municipi delle più cospicue città italiane, mandare indirizzi al pontefice, invitandolo, nientemeno, che a sgombrare volontariamente dal Vaticano, (1) e si udirono i più autorevoli apostoli del partito rosso, fra le popolari effervescenze dei comizi, eccitare il popolo alla sommossa, solo perché il governo aveva ordinate severe misure di repressione, ed aveva tratto in arresto pochi generosi sconsigliati, che da Sarnico miravano a fare una spedizione contro l'Austria, compromettendovi il nome glorioso dell'eroe dei due mondi.

Tali moti sovversivi dell'ordine interno dovevano, come difatti avvenne, motivare i necessari provvedimenti per parte del governo di allora, ed uno schema di legge, presentato alla camera elettiva dal ministero Ricasoli, legge con la quale si sarebbe dovuto temperare le riunioni popolari fatte a scopo politico, fece sì che i più striduli organi della progresseria gridassero all'incosti, tuzionalità di quel gabinetto, caratterizzando tutti i liberali che sedevano a destra per antiliberali.

Ma era poi vero che fossero tali retrogradi i conservatori di destra?

Se si debba giudicare sotto l'impero della storica imparzialità, io ritengo che non sia vero.

Infatti, fossero pure, come si dice, stati eccitati dalla sinistra, ma è cosa indiscutibile, che sotto i ministeri di destra furono promulgate leggi effettivamente liberali, e compiti gli avvenimenti più importanti del nostro patrio risorgimento.

(1) In questo tenore fu mandato al Papa un indirizzo Armato dalla giunta municipale di Livorno.

Durante il regime della destra furono pensionati i Mille di Marsala, ed incorporati nell'esercito circa duemila ufficiali garibaldini — fu istituito il matrimonio civile — posto in essere l'imprestito forzoso, che salvò le nostre finanze — e messa in esecuzione la socialistica legge dell'incameramento dei beni ecclesiastici.

Sotto il governo di destra fummo riconosciuti da tutto il mondo come Nazione, avemmo il Veneto malgrado la sconfitta delle nostre armi di terra e di mare, ed il cannone italiano apriva impunemente la breccia di Porta Pia, quando uomini di destra regolavano la nostra politica estera.

Tali cronologiche verità distruggono tutte le maligne insinuazioni, che furono fatte a carico di quel liberale consesso che fu la destra storica.

Ma all'epoca cui si riferisce il presente capitolo, il gabinetto Ricasoli era caduto, e l'amministrazione politica dell'Italia era diretta da Urbano Rattazzi, cosicché in ogni angolo della penisola si gridava o Roma, o morte.

In quella circostanza più inferociva la reazione brigantesca, e mentre nelle disgraziate provincie dell'irredento Veneto, le ingenti tasse, imposte dall'austriaco governo, ammontavano al settanta per cento sulla rendita reale, molta truppa era impiegata nel mezzogiorno di Italia, dove tuttodì scaturivano nuove bande di cosmopoliti masnadieri.

I quarti battaglioni d'ogni reggimento italiano, per numero, erano insufficienti a presidiare tutti i paesi assediati o invasi dai briganti, ed i reggimenti che si trovavano nell'alta Italia o in quella centrale, non potevan mandarci rinforzi di uomini per rimpiazzare i morti, attesoché, per far fronte alle minacce dell'Austria ed a quelle interne del partito d'azione, avevano allora un personale numericamente piccolo.

I dolorosi fatti di Aspromonte posero termine al melodramma politico, che si era svolto nella penisola, e noi intanto, quasi all'oscuro di quanto avvenisse nella nostra patria lontana, attendevamo invano nuovi drappelli.

Intanto tutti i paesi del Molise chiedevano al comando di quella zona militare distaccamenti di milizia regolari, ché ove non erano essi, i reali carabinieri, quando non venivano massacrati, da soli erano impossibilitati a tutelare le vite e gli averi dei cittadini.

Onde è che il saggio colonnello Galletti, dopo avere ordinate in colonne mobili, diverse compagnie del 36° e del 45° fanteria, nonché un intiero battaglione di bersa glieri, ordinò ai singoli comandanti di quelle colonne di supplire alla deficenza numerica delle truppe col costringere le guardie nazionali a dar la Caccia ai briganti, e coll'esercitare un certo rigorismo su quelle apatiche popolazioni.

Simile consegna data al capitano Crema, comandante la nostra compagnia, valeva lo stesso che invitaré (come suol dirsi) la lepre a correre; onde egli, che nei mesi allora decorsi, aveva terrorizzato su quelle popolazioni a segno tale, che dovette essere più volte richiamato all'ordine dal colonnello, non capiva più nella pelle per avere riavuto l'autorità ed il mezzo di frustare ben bene chiunque avesse avuto il nome o l'apparenza di reazionario, come chiunque altro avesse dimostrato una condannabile indifferenza di fronte ai mali che colpivano quei paesi.

Il capitano Crema era un vecchio soldato del ducato di Parma; colla sua eterna virilità mostrava una quarantina d'anni, ma infatti ne aveva circa sessanta.

D'aspetto imponente, perché alto e tarchiato della persona, aveva sulla faccia dei lunghi mostàcchi e pizzo nero; di quel nero che dura quanto la tinta del parruchiere.

Aveva, oltre di ciò, lo sguardo sinistro, come hanno tutti coloro che sono affetti da strabismo; nonostante ci raccontava, che nella sua vita aveva reso molte belle, vittime del suo amore.

Non starò a dire quanto valesse come uomo di coraggio individuale; il lettore dal fatto di Colletorto può facilmente arguire che di quello ne aveva poco, ma posso però affermare che di coraggio civile ne aveva assai, ognivoltachè con soli novanta uomini era capace di provocare in tutti i modi una intiera popolazione.

Mi rammento che in uno dei rari giorni in cui ci fosse dato di passeggiare lungo le vie di Campobasso, per avere egli diretto parole poco convenienti alla graziosa sorella del duca F... fu mandato a sfidare da uno dèi di lei fratelli, e che egli per tutta risposta gli fece sentire, che, se il giovane duca non ritirava la disfida, lo avrebbe fatto ammanettare dai suoi saldati, per poi farlo consegnare all'autorità politica come reazionario.

Un'impudenza di questo genere non indica ardire in chi la commette, ma a mio modo di vedere credo, che ad osar tanto ce ne voglia del coraggio, forse più di quanto ce ne possa occorrere per attaccare alla bajonetta.

Tutto sommato è un fatto che Crema era un prepotente, ma un ameno prepotente, che colle sue sortite serioumoristiche dal tragico cadeva spesso nel ridicolo.

In onta al regolamento esigeva quattro ordinanze per solo suo uso, delle quali due erano destinate al di lui servizio personale, una per il suo cavallotto morello, a cui aveva dato il nome di Solferino, e la quarta aveva l'incarico di governare la sua animalesca famiglia, composta di cani, gatti, agnelli, cinghialotti, pappagalli, canarini, ed altri volatili, di cui faceva incetta da molto tempo; dimodoché quando la sua compagnia cambiava sede di distaccamento, si vedeva in coda della medesima quella strana processione di bruti, chq faceva ridere i viandanti.

Nella marcia che facemmo sotto i suoi ordini, da Campobasso a Casalciprano, egli, per vieppiù imporre suggezione agli agricoltori di quella campagna, dispose la sua unità tattica, come se si fosse trattato di una brigata.

Mandò circa duecento metri avanti di noi mezza squadra di militi scelti e comandati da un sergente, coll'ordine di avanzarsi tenendo sempre il fucile alla posizione di pronti; egli ne seguiva a cavallo circondato da una intiera squadra di soldati con bajonetta innastata, ed a me dette l'ordine di farmi avanti col restante della compagnia in doppie file aperte, nel tempo stesso che ordinò al sottotenente Bacci di prendere con sè una ventina di uomini e con questi guardarci le spalle, e spingere innanzi lo stuolo dei suoi bruti.

In questa comica guisa, arrivammo ben presto a Casalciprano, dove trovammo gli abitanti dediti alle loro occupazioni, non curanti di noi, e poiché Crema nell'entrare in quel piccolo paese aveva ordinato ai quattro trombettieri, che suonassero un inno patriottico, così egli pretendeva, che tutte a quel suono le autorità del paese venissero ad incontrarlo, come dicesi che ai tocchi armoniosi della magica lira di Orfeo, tutte le orecchiute querci gli andassero incontro.

Invece il solo bidello municipale si presentò a lui, offrendogli i nostri biglietti d'alloggio, ed indicandogli la chiesa, dove avrebbe potuto fare accasermare la bassa forza.

Crema irritato per la poca impressione, che il suo arrivo aveva fatto negli abitanti di Casalciprano, incominciò dal prendere a frustinate quel disgraziato di bidello, che non aveva colpa alcuna, e poi così gli disse:

— So ben che scherzi, o mascalzone: torna dal tuo sindaco e digli, che se nel termine di mezz'ora non viene a mettersi ai miei ordini, lo vado a prendere io stesso con un buon bastone. —

Inaugurato così il di lui ingresso, fece fare alto alla compagnia nella più vasta piazza che si trova al centro di quel paese, ed ivi, fàtto aprire a viva forza l'unico caffè che vi fosse stato, frustò come si deve ancora il proprietario di quello, perché al giungere della truppa italiana aveva chiuso il suo negozio; e dopo tutto ciò dettò al foriere il seguente proclama, che redatto in più copie, fece affiggere a tutte le cantonate di Casalciprano.

Così diceva il famoso proclama di Crema:

IN NOME DI

VITTORIO EMANUELE Re eletto dalla Nazione

Il sottoscritto, comandante la colonna mobile,  incaricata dal superiore governo di ripristinare l'ordine in questo mandamento, avvisa indistintamente tutti gli abitanti di Casalciprano e dei suoi contorni, che da oggi fino a nuove disposizioni, saranno posti in esecuzione i seguenti rigori di legge eccezionale:

«1° Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato.

«2° Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato.

«3° Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per la campagna con provvigioni alimentarie superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato.

«4° Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande, non sarà sollecito di avvisarne il sottoscritto, verrà considerato per manutengolo e come tale fucilato.

«Oltre di ciò la sottoscritta autorità politico-militare ordina quanto appresso:

«1° Che tutti gli impiegati civili e municipali, nonché i graduati di ogni milizia, da oggi fino a nuove disposizioni si portino tutti i giorni alle ore dieci di mattina all'abitazione del Sindaco (dove il sottoscritto stabilisce la sua dimora) per ivi ricevere gli ordini opportuni.

«2° Che i signori ufficiali della milizia cittadina nell'ottemperare a tale ordine, vestano la completa uni. forme del loro grado.

«3° Che gli esercenti industrie, commerci, o professioni si guardino bene dal chiudere i loro esercizi prima delle ore nove di sera.

«4° Che da domani in poi tutti coloro, che dai ruoli resulteranno appartenere alla guardia nazionale, intervengano armati alla chiamata, che sarà fatta loro per mezzo dei trombettieri della truppa, i quali a tale oggetto suoneranno l'assemblea per le pubbliche vie. «Qualunque inadempimento o infrazione ai surriferiti ordini, sarà punita col carcere militare, coll'applicazione dei pollici e con altre più severe pene per la persona che la commetterà.

Dopo avere pubblicato un così marziale proclama, il capitano Crema chiamò a rapporto noi ufficiali, e ci ordinò di tenere la compagnia per metà libera, e per metà di picchetto, tanto per essere pronti a qualunque evenienza;

dimodoché Bacci ed io ci alternammo il servizio di vigilanza per sei ore ciascuno, distribuendo eguale repartizione di turno fra il primo e secondo plotone.

Così disposte le cose i quaranta uomini di picchetto stavano notte e giorno al pied'arme dirimpetto alla chiesa, egli altri quaranta riposavano nell'interno della medésima.

I residuali dieci individui di bassa forza, compresi i nostri attendenti, insieme ai reali carabinieri avevano avuto l'ordine da Crema di perlustrare tutte le vie interne e suburbane del paese durante la notte, e di riposare nel giorno, cosicché se il più lieve all'arme di notte tempo ci fosse stato, un ufficiale ed oltre cinquanta uomini erano sempre pronti ad accorrere dove il bisogno lo avesse richiesto.

Non era un bel vivere  né per noi  né per la truppa, ma era necessàrio adottare tale sistema per impedire, o almeno far fronte ad ogni possibile sorpresa dei briganti, che in numero considerevole si annidavano nei boschi prossimi a quell'aperto paese.

L'indomani, dopo aver riposato, in casa del capitano della guardia nazionale, dalle ore quattro di notte fino alle nove del mattino, fui dal medesimo invitato a colazione.

Mi presentò alla sua famiglia, e fra un bicchiere e l'altro di un eccellente vino, quell'uomo di circa quaranta anni, dalla folta capigliatura, e dalla ispida barba, mi confessò, che la nomea, ed il proclama del mio capitano gli avevano messo addosso una paura maledetta.

Mentre di lui si parlava, Crema, per mezzo dell'uomo di foreria ci mandò ad avvisare, che avrebbe dato rapporto, non più all'abitazione del sindaco, ma invece sulla stessa piazza, ove era schierata la truppa.

Mancavano venti minuti alle dieci, ed il grosso capitano della milizia cittadina mi prego di assisterlo, mentre con qualche difficoltà si accingeva per la prima volta a monturarsi.

La tunica era bella e nuova, ma dacché l'aveva comprata, egli era divenuto più grasso, onde senza l'aiuto della signora, di me, e della mia ordinanza, non avrebbe potuto indossarla per essergli divenuta stretta.

Il povero capitano (di cui non ricordo il nome) sudava ghiaccio per non poter capire nell'uniforme, si restringeva, si comprimeva l'epa, ed alfine, mercé il nostro aiuto, o meglio le nostre fatiche, potè abbottonarsi sin l'ultimo bottone.

Allora divenuto gonfio e rosso in viso, per la stretta alla gola che gli dava il colletto, cosi disse alla consorte:

—Maria pigliami il cinturino e la sciabola, che è di là nel mio studio, appesa alla parete mediante un chiodo. —

Ritornò la bruna signora col cinturino di cuoio rivestito da triple liste in argento, per uso del poco guerriero marito; ma quell'oggetto era stato comprato da lui senza prima misurarselo, e mancavano ancora quattro dita di lunghezza per tutta ricingere la voluminosa circonferenza del di lui ventre.

—E adesso come si fà? — mi disse tutto impensierito l'infelice civico. —

Io allora mi accorsi, che la placca era affibbiata al secondo ordine di occhielli, e calcolai che mettendola, al primo si sarebbero potute guadagnare tre o quattro dita di lunghezza.

E così, tira tu, ché tiro io, potemmo alla meglio agganciargli r inesorabile cinturino; ma — vedi fatalità — questi all'estremità non era rinforzato dall'anima di cuoio come lo era all'intorno, onde, appena quei povero uomo, commise l'imprudenza di starnutire, si ruppe la poca pellicina rossa che era in cima al cinturino, si schiantarono gli occhielli, ed il brando, colla sua ricca buffetteria rotolò irreparabilmente per terra.

Erano vicine le ore dieci, ed il buon uomo, intimorito dalle comminate pene, se per disgrazia avesse dovuto ritardare, si disperava per non poter fare atto di presenza nella forma prescritta dal militare invito, perocché, imbarazzato da così piccola sciagura, si rivolse a me per un ripiego.

—Disgraziato me — mi diceva — che aggio a fà? Ditemmello voi, signore ufficiale, che aggio a fà? —

Allora per tranquillizzarlo gli dissi che venisse pure come si trovava, ché io stesso avrei procurato di raccontare il caso successo al capitano Crema.

Infatti così rinchiuso nella sua uniforme e provveduto di colossale canna d'india, il pacifico ospitaliero venne insieme a me per porsi agli ordini di Crema, il quale con viso torvo, stavasi seduto in mezzo alla sua milizia, parodiando un console romano, che dall'alto del suo vallo, attendesse gli omaggi delle vinte schiere.

Appena Crema scorse andargli incontro quella figura anfibia di ufficiale e di borghese — Mascalzone! — urlò — ed alzato il suo frustino, gli si fugò addosso onde percuoterlo; ma io corsi a trattenerlo, ed a raccontargli la imprevedibile disgrazia del cinturino rotto.

Allora il feroce Crema sogghignò, e col suo solito intercalare, mi disse ad alta voce:

—So ben che scherza: veda che razza di bestie nascono in questi luoghi; comprano un oggetto senza prima accertarsi se va al loro personale! —

Il capitano della guardia nazionale, contento di essersela passata così liscia, e ricevendo in santa pace gli epiteti di mascalzone e di bestia, se ne andò al suo posto, cioè fra gli altri ufficiali della sua milizia, i quali come lui erano in uniforme, ma provveduti di sciabola.

Il proclama di Crema aveva fatto effetto in tutto, menoché nel far venire sotto i suoi ordini i militi cittadini; costoro, un poco per la paura di compromettersi dirimpetto al capo brigante Nunzio di Paolo, terrore di quelle contrade, ed in parte per indolenza, rimanevano sordi alle chiamate delle nostre trombe, che da più di un'ora giravano invano pel paese suonando a raccolta.

Erano le undici passate da venti minuti, e meno un trentinajo fra militi, caporali, e sergenti della guardia nazionale, nessun altro aveva obbedito all'ordine del proclama, onde, riscontrato che fu da noi, come i ruoli assommassero a circa centosessanta gli individui, che come appartenenti alla milizia cittadina, avevano in quel paese ricevuto dal governo fucile e munizioni, fu da tutti convenuto che gli abitanti di Casalciprano non volevano saperne di organizzarsi militarmente, per far fronte ai briganti.

A tale imprevisto inconveniente, Crema, che per certe contingenze aveva degli espedienti tutti suoi particolari, domandò al sindaco, che cosa ne avessero fatto dei fucili consegnati loro dal governo, e poiché il capo del municipio lo ebbe assicurato, che le armi governative erano custodite nelle proprie abitazioni dalle stesse guardie nazionali, egli adottò immediatamente tale efficace temperamento.

Chiamò a sè il sergente Palmieri, e lo mandò con quattro soldati a togliere dallo stecconato di un prossimo giardino quanti bastoni o pali più potesse prendervi, e ciò fatto, divise il 2° plotone in otto squadriglie di cinque uomini ciascuna, le quali, fatte comandare dai caporali più anziani e dai sergenti, furono provvedute dei suddetti bastoni.

Allora ordinò ai capi squadriglia di suddividersi per le diverse strade del paese, di entrare nelle case, ed ivi, quando avessero potuto ritrovarvi un qualche fucile da guardia nazionale, domandassero chi era lo iscritto nei ruoli, e, saputolo, a suon di bastonate lo forzassero di armarsi e condursi sulla piazza per rispondere alla chiama.

Un'ora dopo che fu impartito tale ordine, si rese scenico il vedere scaturire da tutte le viuzze di quel paese, dei branchi di cafoni, con cappello a cono in testa e con sandali ai piedi, i quali mentre tenevano in mano un arrugginito fucile da munizione, muti e gesticolanti ricevevano delle legnate sul dorso, quali di tanto in tanto i nostri soldati gli applicavano.

Crema stava ad attendere loro sul piazzale, ed a misura che arrivavano, consegnava ad essi delle buone frustate sulla faccia, cosicché quei poveri diavoli, percossi in più parti della persona, nel mettersi a rango procuravano di nascondersi uno dietro dell'altro.

Appena che gli indolenti abitanti di Oasalciprano si accorsero che la corte (1) entrava per le case a costringere i militi della guardia nazionale di rispondere all'appello, per evitare le busse, quasi tutti si affrettarono di adempiere volontariamente al loro dovere, ma quando giungevano sulla piazza vi trovavano Crema, che, col suo pezzo di ippopotamo in mano, trattava loro siccome in parte si meritavano.

Tutto era andato bene; vi era stato qualcheduno di quei cafoni, che aveva tentato di reagire con rivolgere la bajonetta ai soldati, ma da questi era stato prevenuto con una buona calciata di fucile sulla testa.

Erano indescrivibili il fracasso, gli urli, ed il casa del diavolo che facevano le donne; quelle muliebri jene, più audaci degli stessi uomini, si avventavano contro i soldati armate dei lunghi spilli d'argento coi quali sogliono tenere raccomandate alla nuca le voluminose chiome, ma i soldati italiani non le percuotevano, sibbene le racchiudevano nelle varie stanze, dopo averle legate fra loro colle lunghe treccie dei disciolti capelli.

In fin dei conti circa centocinquanta militi cittadini risposero alla chiama, fatta con voce tremante dal capitano mio ospite, ma quando si trattò di condur loro nel vicino bosco, quei pusillanimi trovarono il pretesto di non avere munizioni, perloché Crema mi ordinò di far togliere dalla nostra portatile santa Barbera (che era un grosso cassone pieno zeppo di cariche) trecento pacchi cartucce, e farle distribuire a ragione di due pacchi per ogni guardia nazionale.

Quei villici, di costumi quasi primitivi, si allietarono tutti per tale loro nuova dovizia di munizioni, e senzaché ne avessero ottenuto il permesso spiegarono i pacchi e misero le cartuccie into a sacca per esser più pronti a caricare la scoppetta.

(1) Così chiamavano in quei luoghi la truppa.

Le autorità del paese e gran parte delle guardie nazionali, sebben costrette dalla forza, avevano ottemperato agli ordini del proclama; solo il caffettiere era mancato, e non contento delle busse ricevute il giorno avanti, ancora questa volta si era rinchiuso entro il proprio caffè, nonostanteché rivestisse il grado di sergente.

Questa seconda infrazione alla legge eccezionale da lui commessa, e come milite, e come esercente negozio, indi, spetti il capitano Crema in modo che volle dargli una tremenda lezione.

Mandò a chiamare alla chetichella un magnano, e gli ordinò di aprire con glimaldello la porta serrata a chiave per di dentro; ciò eseguito con pochissimo rumore fu dischiusa la porta, ed il capitano, seguito da me e da due bassi-ufficiali entrò, nel caffè ove non trovò anima vivente; ma dietro al banco vi era un usciolino per mezzo del quale si poteva accedere ad una stanza appartata; ivi penetrati, con grande nostra sorpresa trovammo il caffettiere, il quale, sebbene avesse in capo il bonetto di sergente della guardia nazionale, se ne stava spensieratamente a fare il giuoco della scopa con un vecchio sessuagenario.

Crema, divenuto furibondo, a tal vista gli si scagliò addosso e con un colpo di frustino fortemenente applicatogli sulla faccia, gli fé quasi schizzare fuori dell'orbita l'occhio sinistro.

Al lamento spasmodico di quell'infelice, ed alla vista del sangue che sgorgò copioso dalla profonda ferita, un urlo d'indignazione fu da noi tutti mandato, e poiché l'inferocito Crema seguitava a percuotere quell'infelice, io gli trattenni il braccio così dicendogli:

—Capitano, non dobbiamo mica rinnovare le gesta dei briganti?!

—So ben che scherza — mi rispose, e si ristiè dal percuotere. —

Ai gridi strazianti del ferito, molte guardie nazionali ed anche qualche soldato entrarono nel caffè;

mi accorsi che a tanta inumanità il sindaco fremeva, e gli stessi fantaccini della compagnia nel veder trasportare a casa il ferito sergente, battevano a terra i calci dei fucili, e guardavano in faccia il terribile Crema, minacciandolo di una sommossa.

Egli però, fidando nella disciplina dei suoi soldati ed indifferente ai segni di generale disapprovazione, montò a cavallo e con voce raucotonante cosi comandò:

— Guardie nazionali e truppa fianco destrodestr — e poi ordinato che ebbe alle trombe di suonare la marcia al campo, condusse la colonna verso il vicino bosco.

Giunti per due miglia fuori di Casalciprano, ed arrivati all'altezza del macchioso monte, che comunica con quella serie di colline che si estendono fino alla montagna del Matese, ordinò alle guardie nazionali di penetrare nel folto di quella selva, ed a noi di seguire i passi loro con la consegna di far fuoco addosso a chiunque di quei cafoni avesse tentato di fuggire.

Mezz'ora dopo che con tale ordinamento eravamo entrati in quel forte bosco, le prime guardie nazionali si imbatterono nella banda di Nunzio di Paolo, composta allora di novanta masnadieri, parte a piedi e parte a cavallo.

Costoro da primo, nel riconoscere i loro amici di Casalciprano, non se ne fecero maraviglia alcuna, e credettero che fossero andati loro incontro per combinare un qualche ricatto o alcuna dimostrazione ostile al governo piemontese; ma quando si accorsero che i supposti amici erano armati, e sentirono dipoi ronzarsi intorno le prime schioppettate, si nascosero dietro le piante ed i cespugli, ed ancora essi aprirono un vivo fuoco di moschetteria contro le guardie nazionali.

Nunzio di Paolo, sorpreso che quella gentaglia di reazionari, colla quale, pochi giorni addietro, aveva egli cioncato assieme, osasse di muovergli contro, sospettò che il tutto fosse opera della milizia regolare, e prima che noi si avesse potuto avere il tempo di circondarlo, girandogli ai lati, egli, insieme alla sua banda, si dette a precipitosa fuga,

lasciando nelle mani della guardia nazionale una giovane e magnifica giumenta carica di due barili (1) di vino bianco, di venti mazzi di sigari virginia, di molte forme di cacio cavallo, e di altri oggetti consistenti in camicie di finissima tela per far bende o fi lacci e, in più risme di carta per comporre cartucce da fucile, ed in varie pellicine di capra conciate, delle quali si servivano per dormirvi sopra quando erano costretti di pernottare sull'umido terreno.

Appena preso dalle guardie un tal bottino, fu tantosto consegnato al comandante la colonna, capitano Crema, il quale ordinò che il vino ed i sigari venissero equiparati fra i militi della guardia nazionale e quelli della truppa, e la giumenta con tutto il resto fu li per li venduto ad un ricco speculatore, che era fra gli ufficiali di quella guardia nazionale, per il prezzo di ducati cento, i quali, mediante tanti piccoli boni a vista, vennero ripartiti fra i soli militi della guardia cittadina.

Quei centocinquanta cafoni, lieti per la riportata vittoria sui temuti masnadieri, e contenti di avere guadagnato qualche carlino, nonché esilarati pel vino bevuto, incominciarono a sparare fucilate in aria come per segno di gioja, nel tempo stesso in cui gridavano evviva Vittorio, evviva Garibalda.

Ritornati in Casalciprano furono rotte le righe, ma Crema avanti di ciò ordinare, volle da quelle guardie nazionali là promessa che l'indomani alla stessa ora sarebbero ritornate col fucile ripulito dalla ruggine: ed invero le più di costoro mantennero la data promessa.

Quel movimento cosi disposto in un paese che aveva il nome di essere reazionario, da un punto di vista lo si può ritenere per azzardato, da un altro punto è logico il dire che fu di molto profitto per la estirpazione del brigantaggio.

Assai azzardato perché esporre una sola compagnia in mezzo a centocinquanta guardie nazionali armate e di dubbia fede, ed a novanta o più briganti, era cosa che toccava l'imprudenza:

(1) I barili di quei posti contengono circa cento litri.

fu di molto profitto per la repressione del brigantaggio perché, coll'indurre quella gente di Casalciprano, indisciplinata e poco o punto tenera della rivoluzione italiana, ad attaccare il fuoco contro i briganti, il Crema fece sì, che fra i cafoni ed i masnadieri sorgessero sentimenti di antipatia, di ostilità e di reciproca diffidenza, sentimenti che col tempo educarono quella guardia a dare da sola la caccia a tutti i disturbatori della sicurezza pubblica e specialmente ai briganti.

Ma Crema eccedè nella misura col ferire cosi spietatamente il mal consigliato caffettiere, e quel suo brusco ed inumano modo di malmenare la gente, fu cagione che dopo due o tre giorni, venisse richiamato a Campobasso e messo agli arresti per eccesso di misure repressive.

Quando il prelodato capitano si divise dalla compagnia e ne cedè a me il comando, per verità dispiacque a tutti la di lui partenza, ma da un altro lato ciascuno di noi giudicò in cuore, che quel suo modo di trattare i borghesi veniva a sostituire un malandrinaggio legale a quello illegale.

Nella nuova mia qualità di comandante la colonna mobile, rimasi arbitro di dirigere la nostra marcia verso dove meglio avessi creduto, essendomi ancora stata accordata la facoltà di prelevare da tutte le esattorie o casse governative l'occorrente per i viveri e per il soldo della mia truppa.

Onde ne avvenne che quando riconobbi come a Casalciprano la milizia cittadina era arrivata al punto di potere da sè stessa difendere il proprio territorio, partii da quel paese e mi diressi alla volta di Spineto, ove da un rapporto dei reali carabinieri ebbi sentore, che la solita banda di Nunzio di Paolo, oltre esercitare ricatti e requisizioni di viveri e di contanti, tentava impadronirsi dello stesso paese.

Oltre la banda di Nunzio, altre piccole squadriglie di briganti, che venivano dalla Capitanata, si annidavano fra i gerbidi e le selve che si estendano dai paese di Frosolone sino a quello di Spineto, onde giudicai che se noi ci si fosse diretti verso Spineto, passando dalla parte dellamasseria cosi detta delle macchie, le vedette a cavallo dei briganti sparsi per quei sentieri ci avrebbero veduti ed avrebbero avvisato Nunzio del nostro arrivo.

Bisognava piombar loro addosso dall'alto dei selvosi monti che sovrastano la parte di quel territorio che si appella le serre, ovvero prendere dalla parte di S. Giovanni.

Per così fare il lunedi mattina, avanti giorno, finsi di ritornare a Campobasso, tanto per deludere la sorveglianza delle spie, di cui erano sempre provviste le bande brigantesche: ma percorso da noi il quarto miglio di quella simulata marcia retrograda, tagliai col cammino sulla nostra sinistra e guadato il Biferno condussi la mia compagnia per un cammino disagioso e frastagliato che doveva condurci inosservati sino al promontorio di Spineto; ed infatti alle tre dopo mezzogiorno, da una altura che noi guadagnammo dopo dieci miglia di salita, io diressi la compagnia verso il sottostante paese, per, ivi giunto, girare al di fuori ed attaccare i briganti, i quali mai più si sarebbero aspettati una nostra sorpresa da quella parte.

Divisi la truppa in due sezioni, delle quali, quella comandata da me la feci avanzare su due righe in linea di battaglia, e l'altra sotto gli ordini del sottotenente Bacci, la feci distendere da sinistra a destra in tante quadriglie di cacciatori.

Calcolai che dal punto in cui eravamo, ai boschi pròspicienti il lato nord di Spineto, poteva corrervi una distanza di circa sei miglia, e giudicai, che, dovendo scendere lentamente atteso il boschivo e dirupato sentiero, avremmo impiegato circa tre ore di cammino, cosicché mossi la colonna alle tre e tre quarti per giungere verso rimbrunire addosso ai briganti.

Ed infatti il mio piccolo piano di attacco sarebbe stato coronato da felice resultato, se, proprio allora quando eravamo per passare a guado il piccolo torrente Croce, il quale ci separava dalle macchie di Spineto, un giovane pastore, che pascolava le sue capre nella sommità di una rupe, con degli urli, dei schiamazzi, e coll'agitare delle braccia come un ossesso, non avesse avvertito i briganti della nostra presenza.

A tale imprevedibile inciampo, tutti noi ci internammo a passo di corsa nella selva ove erano i briganti, ma percorse in tal modo poche centinaia di tese, scorgemmo in lontananza i novanta masnadieri, che avvisati dal pastore del nostro arrivo, montarono due per cavallo, cioè uno in groppa e l'altro in sella, e così galoppando se la svi. gnarono prendendo la direzione di Baranello.

Dirigemmo loro qualche colpo di fucile, ma a quell'ora si mantenevano sempre fuori di tiro, onde feci cessare il fuoco per risparmio di munizione.

Perduta di vista la brigantesca banda, ordinai alto alla compagnia, e per infliggere la meritata punizione allo spione, mandai il tromba Ingaramo ed altri quattro militi alla di lui volta per arrestarlo, ed a me condurlo.

Infatti quei cinque soldati, di macchione in macchione gli piombarono tosto addosso, e lo trascinarono suo malgrado a renderci conto del suo operato; quei soldati quando mi condussero il giovane pastore mi raccontarono, che appena egli ebbe visto avvicinarsi il tromba, voleva darsi alla fuga, ma accortosi che Ingaramo lo prendeva di mira col suo fucile, si fermò ad un tratto, affettando indifferenza.

Quel pastorello di appena diciassette anni, era vestito di pelle di agnello, come usano i pastori delle Puglie ed aveva in mano un piffero di legno, col quale richiamava a sè le sue caprette, aveva dei lunghi capelli neri, ed una fisionomia chiusa ed arcigna, sicché indicava ferocia superiore alla sua età.

Noti il lettore che, come già ho raccontato nel primo capitolo, pochi mesi avanti di quel giorno, una banda di circa settanta giovanetti dai quindici ai sedici anni, aveva massacrato, per lo stradale di Campobasso due novelli sposi che erano dietro ad inaugurare il viaggio di nozze sebbene, nel vedere la faccia indifferente e maliziosa di quel caprajo, avrei giurato che egli avesse fatto parte di quello scellerato manipolo delle guardie della speranza brigantesca.

Poiché l'avemmo bene frugato in dosso, però senza nessun resultato, gli domandai per qual ragione egli si era preso la briga di avvisare i briganti che noi eravamo loro d'appresso; ed egli in modo rozzo così mi rispose: — lo non aggio avvisato nisciuno, ed in così dire mi fece una spallata. —

Mi dispiaceva fucilarlo, e ne avrei avuto non solo il diritto, ma il dovere, purnonostante, sperando di poter ritrovare nel di lui operato un qualche attenuante, insistetti ad interrogarlo circa l'interesse che egli poteva avere avuto nell'avvisare i briganti.

Costui con una impudenza, tutta propria di quei testardi montanari, mi negò di aver fatto cenni, e di aver dato luogo al minimo schiamazzo.

Non vi era più dubbio, costui era, o una spia, o un brigantello, e forse un affiliato segreto alla stessa banda di Nunzio; questa idea fu condivisa da tutti i miei soldati, perloché credetti di non commettere cosa indoverosa nello stramazzarlo al suolo con un colpo della mia sciabola che gli aprì il cranio e lo lasciò ivi più morto che vivo.

Si era fatta vicina la notte, onde ci incamminammo affamati, assetati, ed affranti da fatiche superiori a forze umane, verso Spineto.

Gli abitanti di quel grazioso paese che è situato in vetta ad una amena collina, dopo aver veduto, che i briganti ci erano miracolosamente scappati di mano, vennero in molti ad incontrarci, facendoci festosa ed anche entusiastica accoglienza.

E ne avevano ben ragione, ché da vari giorni, nessuno di loro era potuto più uscire dal paese, mentre, a qualche trainante, che erasi azzardato di andar fuori, quei masnadieri gli avevano fracassato le costole, solo perché non aveva in dosso sufficiente danaro.

Nunzio di Paolo aveva tentato, due giorni prima il nostro arrivo, di impossessarsi di Spineto, ma appena si era avanzato colla sua banda allo scoperto, la popolazione trincerata in massa dietro i muri degli orti, lo aveva fatto indietreggiare con una fitta scarica di buone fucilate, ma il male era che gli assediati abitanti di Spineto cominciavano a difettare di munizioni, talché se non si arrivava noi, molti di essi erano inclinati di venire a patti col capo brigante.

Tutto ciò considerato, è facile farsi una ragione dell'entusiasmo che si era risvegliato in quella popolazione al nostro apparire, ed infatti la riconoscenza verso noi di quegli abitanti giunse fino al punto che la intera compagnia, meno una squadra che lasciai di guardia all'entratura del paese, fu ospitata dalle famiglie dei benestanti, cosa, che in altre località si usava fare per i soli ufficiali.

S'immagini il lettore se gli stomachi di quei fantaccini, avviliti per il lungo digiuno, si rifecero come si deve.

Il sottotenente Pietro Bacci, nativo del mio stesso paese, giovane allora di ventisei anni, soldato in tutta l'estensione del termine, e di umore sempre gajo, aveva un appetito per tre, e quando gli ottimati del paese ci trattenevano col farci un'infinità di proteste di riconoscenza egli rispondeva seccamente — faresti meglio a darci da mangiare. —

Il marchese Imperatore, che appunto allora stava per andare a pranzo, ci obbligò di dividere seco lui la mensa e l'alloggio, cosicché nei giorni susseguenti quando ritornavamo dalle perlustrazioni che si estendevano sino a Baranello, ed anche fin sotto Macchiagodena, trovavamo nella cordiale accoglienza della famiglia Imperatore, bastevole refrigerio alle sofferte fatiche.

Il nobile ospite di me e del sottotenente Bacci, era un vecchio aristocratico, che volentieri parlava di politica e del lustro degli avi suoi; aveva due belle e giovani figlie per sue uniche eredi, quali signorine non ci era permesso

di mai vedere, altroché all'ora del pranzo, e vi era ancora nella di lui casa un certo monsignor De Capua, ricco prelato di Frosolone, il quale per esser andato nell'allora decorso luglio a visitare l'amico marchese in Spineto, quando ivi fu giunto, venne richiesto da Nunzio di Paolo della somma di ducati sessantamila a titolo di ricatto e di salvacondotto, per poter ritornare al proprio paese.

La lettera minatoria del predetto capobrigante, che si. firmava — generale delle truppe borboniche — e che fu a monsignore mandata per mezzo di un vetturale, non ammetteva dilazione di oltre due giorni, onde il povero prelato si rassegnò a non più tornare a casa sua, per il timore d'incontrare lungo il tragitto, olo stesso Nunzio, o qualche squadra dei suoi gregari, sicuro, siccome era, che in tal caso lo avrebbero consacrato a tormentosa morte.

Per tal ragione quel dovizioso prete, desideroso di vivere ancora, per oltre due mesi, se ne rimase sequestrato in casa del marchese, mandando di tanto in tanto un qualche spedito al di lui amministratore di Frosolone.

Il giorno avanti del nostro arrivo, monsignor De Capua, spinto da urgente necessità di rimpatriare, mandò ad offrire a Nunzio la somma di diecimila ducati in tante ònze d'oro, ma egli le ricusò, facendogli intendere, che al punto a cui erano arrivate le cose, non era più del di lui denaro che egli sentiva il bisogno, ma del suo sangue.

Da tuttociò è facile arguire, che se mai non si fosse noi giunti a Spineto, non mai il prelodato De Capua sarebbe potuto ritornare al proprio paese, dove tutti gli interessi di un vasto patrimonio erano affidati ad un suo gerente.

Allorché stavamo per prendere congedo dalla famiglia del marchese Imperatore, ed incamminarci verso Macchiagodena, nei di cui dintorni aveva posto le tende la numerosa banda di Nunzio, il prelodato monsignore mi pregò di scortarlo fino al proprio paese, allora soltanto dicendomi che aveva in animo di venire con noi (1): io gli risposi che volentieri mi sarei assunto quest'incarico, e che anzi avrei pernottato in Frosolone per appurare se quella guardia nazionale funzionasse come doveva.

Allora il grosso e grasso monsignore dalla contentezza non capiva nella pelle, e ripensando forse, che senza quella fortunata combinazione a nessun prezzo avrebbe più potuto rivedere i propri lari, mi abbracciò a più riprese e mi baciò in fronte.

Infatti l'indomani mattina, accompagnati da molto popolo, alla di cui direzione era il marchese Imperatore, partimmo alla volta di Frosolone, e quando avemmo percorso il primo miglio, gli abitanti di Spineto retrocederono entusiasmati di noi, e monsignor De Capua ci seguì a piedi perché in quella guisa si credeva meno esposta ad una possibile scarica dei briganti.

Sul primo aveva assai paura, seppure protetto da novantatrè armati, ma poi si fece un poco più di coraggio, e vestito della sua zimarra paonazza e col capo coperto dalla triade si mischiò fra noi come un secondo Bichelieu.

Perché stesse più tranquillo d'animo lo feci circondare dai soldati più alti della compagnia, ed esso, che in ogni pianta mossa dal vento travedeva un brigante, si rannicchiava della persona il più che potesse, per ascondersi dietro una vivente barriera.

Tanto io quanto il sottotenente Bacci procuravamo di tenerlo allegro il più che fosse possibile, e lo meritava perché era un monsignore liberale ed abbastanza patriotta; ma egli aveva altra voglia che quella di dividere la nostra allegria, sinché non si fu arrivati alla distanza di un miglio da Frosolone, allorché si ringalluzzì tutto, e certo ornai di essere arrivato a salvamento, così mi disse:

(1) Porse non me lo aveva voluto dir prima, per timore che i briganti lo potessero risapere.

— Questa sera e per quanti giorni vorrete, tutta la truppa ed i suoi degni ufficiali in casa mia.

10stentai ad accettare per la bassa forza, supponendo che la di lui abitazione, fosse, presso a poco, come la canonica di un parroco cioè cinque o sei stanze ed una specie di orto.

Quanto m'ingannai!

Appena arrivati a Frosolone, il buon prelato ci condusse verso di un vasto fabbricato in pietra viva, che aveva tutta l'apparenza di un ricco monastero.

La porta d'ingresso era larga e rinforzata da chiodi come sono presso a poco tutte quelle del medioevo, e la scalinata una serie di levigati mattoni per taglio, che offrivano il mezzo agevole di salire sul primo piano, a meglio che sei persone disposte in linea.

Ivi entrati, la truppa rimase alloggiata negli anditi e nelle stanze terrene, ove ogni sorta di sofà, di letti, e di materassi offrirono a quei soldati un soffice modo di riposarsi; ai bass'ufficiali furono assegnate tre comode stanze ai mezzanini, ed a noi ufficiali due arieggate alcove, che comunicavano col gran salotto di ricevimento, vero santuario di romita eleganza.

Non vi era ricercatezza immaginabile che non fosse stata impiegata nell'ammobiliare quei ricchi appartamenti.

Dipinture in affresco di gran valore, quadri di autore appesi alle pareti, porcellane finissime di Vienna e di Capodimonte, vetri e specchi di Venezia, vasi Sevres e dell'epoca etrusca-sannitica, bronzi ossidati dei tempi romani, od inargentati dell'epoca di mezzo, una quantità di volatili impagliati sotto superbe campane di vetro, (dal cigno all'uccello di paradiso), statuette e gruppi di alabastro, di bronzo, di marmo e di porfido, strumenti musicali di diversa epoca e forma, cembali costosi, ed infine quanti altri oggetti può insegnare l'arte di bene corredare una  sala, tuttociò era in quel quartiere, e più specialmente nel salotto, con maestrevole simetria disposto.

Il sotto tenente Bacci, che, a quanto disse, non erasi mai ritrovato a vedere case cosi riccameute ammobiliate, si era fermato ad osservare alcuni quadri dalle dorate cornici, nelle quali erano accolti certi arazzi siciliani, trapunti in seta ed in oro, ed ove, meglio che col pennellor erano stati riprodotti con finissimo ricamo alcuni fatti della sacra scrittura; e tanto più ei ammirava quei castigati lavori, inquantoché non credeva che fossero trapunti, ma sivvero dipinti.

Nel rimanere a bocca aperta pella vista di quei rari arazzi, scappò detto al Bacci — come sono belli. —

A tale espressione, siccome in quelle provincie si usa dire per puro complimento, monsignore cosi replicò — sono vostri. —

Il Bacci non intese a sordo, e montato su di una seggiola, ne staccò due, e li consegnò al suo attendente, affinché procurasse di ben custodirli.

In quei paesi, quando si loda alcuna cosa, è tanto invalso l'uso di rispondere per solo rito di galanteria, — è vostra — che anche ad encomiar loro la moglie, sogliono rispondere — è vostra. —

E Bacci si prevalse di questo uso in modo, che quando vedeva un oggetto raro di piccola mole, si metteva a lodarlo, finché monsignore non rispondesse col solito complimento; complimento che egli accettava al primo abbordo.

Dopo i quadri di seta, venne la volta dei piccoli piatti di Capodimonte; per questi ancora quel capo ameno aspettò la scena del — sono vostri — e se li appropriò realmente.

Ma fu l'ultimo poco conveniente scrocco da lui fatto, poiché io fui costretto di vietarglielo, altrimenti sarebbe stato tomo di spogliargli la intiera casa.

Terminata questa poco piacevole spogliazione, o abuso di confidenza per parte del mio d'altronde egregio sottotenente, egli in altro modo continuò a prevalersi della gentilezza e liberalità di monsignore.

A pranzo, quando il Bacci dopo la minestra ebbe gustato un bicchiere di vino prelibato, così detto sciampagnino, volle pasteggiare con quello, trovando la scusa che l'altro eccellente vino nero da pasto non andasse al suo gusto.

Il generoso prèlato, tutto contento che don Pietro (tal nome aveva Bacci) non facesse complimenti,  né avesse riguardo di sorta, incitava me ancora a fare altrettanto, ma io non volli accettare le di lui gentili esibizioni, tanto per fargli capire, che ancora nella ufficialità italiana vi era chi conosceva i doveri di convenienza e di discrezione.

Prima del caffè monsignore, che si era intrattenuto meco delle cose del giorno, mi confidò che in Frosolone la sicurezza pubblica era poco tutelata, atteso i dissapori, che da un pezzo, regnavano fra lui stesso, il capitano della guardia nazionale, ed il sindaco, dissapori che erano nati per pettegolezzi locali, ma che pure distruggevano quella solidarietà fra cittadini che allora era indispensabile per far fronte al comune nemico.

Capii allora a che cosa approdava questa sua rivelazione, e domandatogli se aveva alcuna difficoltà di ricevere in sua casa i prelodati signori; mi rispose, che anzi per parte sua avrebbe desiderato una completa riconciliazione.

Non mi rimase che mandare a quelle autorità il caporale foriere con due inviti ufficiali, perché sì il capo del municipio, come il comandante la milizia cittadina si recassero immediatamente alla casa di De Capua, dove io era ad attender loro per comunicare ai medesimi ordini governativi, siccome avevo detto negli inviti.

Vennero tutti e due guardandosi in cagnesco l'uno coll'altro, ma poiché li ebbi simultaneamente ricevuti nel magnifico salotto, ove monsignore fece distribuire rin. freschi in profusione, feci capir loro, che era in animo del prefetto e del comandante supremo delle truppe presidiaci quella zona, di far cessare ad ogni costo i dispareri insorti fra costoro, e feci inoltre intendere a quei esacerbati spiriti che una novella armonìa fra loro avrebbe dato incoraggiamento a quella popolazione per riunirsi e difendersi dalle devastazioni dei briganti.

Essi allora per un poco parlarono fra loro in dialetto  serrato e poi, come Dio volle, si strinsero le destre facendo un brindisi all'unità della patria ed al Re. Finita tale conversazione, e ripacificati gli animi, pregai  il capitano della milizia cittadina di sortire da allora in poi a perlustrare il territorio di Frosolone con dei drappelli di guardie nazionali, cosa che mi promise di fare, e che fece di fatto.

Venne sera e dissi al foriere, che l'indomani mattina alle quattro, la truppa si trovasse pronta alla partenza per ignota destinazione; intanto fu disposto l'occorrente pel rancio, ed il buon prelato, dal suo castaido fece distribuire alla compagnia due some di eccellente vino, col quale i soldati, dopo avere bevuto a sazietà, ebbero di che empire le proprie borracce.

Mentre già mi avviavo per andare a dormire, quel pazzo di Bacci pregò monsignore di obbligarmi a restare con loro per fare una partita al piattello.

Io non avevo voglia di giocare, ma monsignore mi esortò ad esser condiscendente, tanto per contentare don Pietro; e così dovetti anch'io perdere del dena per mera condiscendenza.

La scommessa cominciò con un carlino, ed al solito finì col divenire una piastra; fra Bacci e monsignore il puntiglio e l'azzardo si pronunziarono a segno che il buon prelato fini col prendersi un'imboscata di trenta piastre, quali don Pietro s'intascò, senza alcuna esitazione, sonanti e ballanti, e dicendo a monsignore, — giacché non ci è riuscito dare imboscata ai briganti, ho pensato bene di darla a lei. —

Mi opposi allora a che proseguisse il giuoco, e nell'andare a letto rimproverai il mio sottotenente per essersi mostrato così rapace ed interessoso, verso persona che tanto gentilmente ci aveva ospitato; ma Bacci mi chiuse la bocca col rispondermi in tal modo:

— Sarò stato sempre più discreto di Nunzio, che voleva da lui sessantamila ducati. —

Da Frosolone a Macchiagodena in linea retta vi corrono poche miglia di distanza, ma previdi che la nostra marcia sarebbe riuscita di almeno venti miglia, perché per sorprendere la banda di Nunzio, dovetti simulare il nostro ritorno a Spineto, cosa che fu seriamente creduta da tutti i soldati, come pure dal sottotenente Bacci.

Dimodoché ai primi albori del giorno veniente, accompagnati per oltre un chilometro da una compagnia di milizia cittadina, da monsignore e dal sindaco, ci dirigemmo verso Spineto incresciosi di lasciare quell'incantevole paese.

Quando facemmo alto per congedarci da quei signori, vidi che Bacci si accingeva a montare su di un Cavallo morello riccamente bardato: mi feci a lui dappresso e così lo interrogai:

—Dove hai preso questo destriero?

—Me lo ha regalato monsignore — rispose egli. —

—Ma come regalato? — soggiunsi io. —

—Eccomi a spiegartelo: questa mattina di pertempissimo sono andato insieme a monsignore nella sua scuderia, e quando sono arrivato al punto dove era questo vispo morello, gli ho detto — che bell'animale — ed egli, al solito, mi ha risposto — è vostro — onde io ho ordinato all'uomo di stalla che gli mettesse la miglior sella e me lo conducesse fuori del paese per cavalcarlo; e se vuoi — soggiunse Bacci — lo monteremo un poco per ciascheduno.

A. tanto marcata sfacciataggine sentii in me un poca di stizza, onde recisamente e per la prima volta in tuono da superiore così gli dissi:

—Restituisci quel cavallo a monsignore.

—Ma perché — rispose egli — se me lo ha regalato?

—Restituisci, e subito il cavallo al suo proprietario — soggiunsi io — ché quello non può riguardarsi come un regalo, ma come un prezzo della fattagli scorta sino a Frosolone; e d'altronde il regolamento vieta agli ufficiali di fanteria di valersi della cavalcatura.

Pietro, allora (che in fondo era un buon diavolaccio) a malincuore si decise a rimandare pel suo soldato il cavallo a monsignore, il quale, nel riceverlo, prima fece le sue maraviglie, e poi montatovi sopra se ne servi per ritornare al paese.

È Macchiagodena un paese di circa quattromila abitanti, che si trova in cima ad un promontorio rivestito di glauchi oliveti e di ridenti vigne; fa parte della provincia di Molise, ma è più vicino ad Isernia, che non a Campobasso.

Il suolo di questo pittoresco paese è roccioso, ed in alcuni punti apparisce talmente frastagliato che delle rupi tufacee in forma di cono spezzato, si schierano l'una dirimpetto all'altra, come altri e tanti giganteschi fantasmi della creazione.

Dall'alto di una di quelle roccie la banda di Nunzio taglieggiava in quell'epoca la male intenzionata ed inerte popolazione di Macchiagodena.

Si era stabilito fra il minuto popolo di quel paese e gli audaci gregari del sedicente generale borbonico Nunzio di Paolo, un modus vivendi, che consisteva nel tollerare, che i malandrini della selva entrassero in paese a requisire viveri ed altre cose occorrenti, e che i ricchi di quel mandamento ne pagassero il costo, scontando alla pari i boni rilasciati dai briganti.

Onde è, che entro il paese si viveva in apparenza sotto un regime di governo, ed in campagna se ne adottava un altro;  né deve ciò farci specie, ché tutti i paesi circostanti ad Isernia fino dal 1860 avevano dato un nume' roso contingente alla reazione borbonica ed avevano massacrato molti militi regolari e garibaldini.

Necessitava far vedere agli abitanti di quei paesi, che il governo di Vittorio Emanuele, aveva dei soldati, i quali, all'occorrenza, seppure in pochi, sapevano mettere a segno i ribelli.

Tale idea mi conduceva ad entrare in Macchiagodena non a suono di tromba, ma quello di moschetto, procurando di sorprendere fuori le mura i tollerati briganti: perciocché, dopo aver percorso nel nostro cammino il quarto miglio,

feci entrare la compagnia nei campi che si estendevano a vista d'occhio sulla nostra sinistra, ed arrivati alla località denominata S. Maria in Pantano, accennai dirigermi verso il paese di Cantalupo, ma in effetto, passando dalla masserìa di Mozzone, mi avviavo ad un piccolo promontorio che si trovava alle spalle della posizione allora occupata da Nunzio di Paolo.

Ad un dato punto ci apparve una stretta convalle, percorrendo la quale si vedevano da lungi le brune rocce che fanno corona a Macchiagodena.

In quella romantica vallata facemmo breve sosta per avere il tempo di consumare quanto ne restava di viveri secchi e di vino.

Ad un tratto scorgemmo, che alle falde dell'opposto monte, per angusto trottojo sfilavano circa cento uomini a cavallo, ricoperti da lunghi mantelli neri, e che ci lasciavano vedere di sopra i loro conici cappelli, dei lunghi fucili dalle terse canne, ove si rifrangevano i raggi di un morente sole.

Avevo presso di me un eccellente canocchiale binocolo, e con questo potei accertarmi, che erano briganti per la ragione che se fosse stata cavallerìa, le canne dei corti moschetti non avrebbero potuto di tanto oltrepassare i corpi dei cavalleggerì,  né si sarebbero potute scorgere certe bianche bisacce di tela, quali solevano portare le bande brigantesche a cavallo in luogo del portamantò.

Codesti masnadieri requisivano le loro cavalcature per le campagne, impossessandosi ancora delle giumente brade, e quando avevano rimediato una sella qualunque, sovrapponevano sulle groppe dei loro cavalli due tasche di tela da sacco, entro le quali riponevano tutto il loro bisognevole.

In mancanza di sproni si servivano dei coltelli per punzecchiare sulla spalla i loro animali#equini, i quali quando erano ben rifiniti, venivano da loro abbandonati alla ventura.

Abbiamo trovato molti cavalli giovani da loro lasciati, ed erano talmente avviliti che non si reggevano più sulle gambe; alcuni altri avevano sulla spalla sinistra una cancrenosa piaga, prodotta dalle ripetute ferite dei coltelli briganteschi, dimodoché quelle povere bestie per quell'inumano modo di spingerli avanti, spesso dovevano morire per effetto del cancro.

La lunga fila di briganti, ancora essa fece alto dirimpetto a noi, e messisi dietro le loro cavalcature stavano ivi a guardarci come se fossero indecisi di volerci attaccare o no.

In mezzo a tanti ronzini di pelame scuro, si scorgeva un magnifico cavallo storno, che col suo cavaliere in sella galoppava per diverse direzioni; dal luccichio dei bottoni di metallo, che si avvertiva su quella specie di brigantesca uniforme da capobanda, e dalla maestria colla quale tale cavalcatura caracollava, si capì che quello doveva essere il famoso cavallo di Caruso, della di cui speciosità se ne parlava in quei luoghi come di cosa da destare maraviglia.

Per pochi minuti noi stavamo spiando le loro mosse, ed essi le nostre; alfine veduto che costoro non avevano in mente di muovere contro di noi, disposi la compagnia su quattro righe, e messi in capofila i soldati più anziani, feci prendere dal centro la distanza di cacciatori in ordine aperto.

Cosi disposti in venti quadriglie e con un nucleo di riserva, a passo ordinario ci avanzammo verso di loro, ed appena fatto da noi tanto tragitto per quanto ne occorreva per arrivare allo scoperto, una generale scarica ci venne diretta contro da quei briganti.

Ma eravamo troppo lontani ancora, onde avvenne che i loro fucili, i quali, più che altro erano da caccia, ci spinsero addosso dei projettili stanchi così, che appena potettero procurarci una qualche contusione.

A questa apertura di ostilità per parte di quei masnadieri, feci suonare dal tromba il segnale in linea e subito dopo quello di fuoco in avanti; a tali comandi, ripetuti dalle trombe, tutti i soldati misero ginocchi a terra e fecero una generale fucilata, dopo la quale si rimisero in fila per far fuoco avanzando.

Ma pare che i nostri colpi mettessero un certo disordine frai briganti, perché a misura che i soldati si facevano sotto, costoro rimontavano in sella per disporsi alla fuga.

Per non dare loro tempo di ciò fare, ordinai con apposito segnale l'attacco alla baionetta, ma non ci attesero un minuto di più, ché a questo movimento corsero a carriera spiegata verso la valle sottostante al paese di Cantalupo.

La notte si avvicinava, ed ancora quattro miglia ci separavano da Macchiagodena, perloché compiuta da noi una celere e faticosa marcia, verso le ore 10 di sera arrivammo al preaccennato paese, dove ravvisammo un vero e proprio squallore.

La banda di Nunzio, o avendoci veduti, o avvisata dai soliti segnali delle spie, si ritirò verso il nord di Macchiagodena, e così senza avere avuto con ella alcun conflitto, arrivammo alla nostra nuova destinazione, mentre quella popolazione era in braccio al notturno riposo.

Yi è sulla più eminente spianata di quel paese una specie di antico castello, che contiene una serie di capaci stanze a volta reale; ivi pernottammo alla meglio sul nudo ed umido mattonato.

Avevo messo ad un miglio fuori del paese due posti avanzati, perché ci avvisassero di qualche possibile tentativo di sorpresa che si sarebbe potuto verificare durante la notte, ed infatti le sentinelle di quei piccoli corpi di guardia furono obbligate di far fuoco più volte contro alcuni briganti, che col fevore delle tenebre tentavano di assassinarle.

Era doloroso e tetro il vedere un paese così popolato, rimanere indifferente al rimbombo dei colpi di fucile, che quasi alle porte si scambiavano i nostri fantaccini con gli assassini delle selve, ed era più tetro ancora il sentire pei macchiosi spechi, che stavano attorno a quella ridente terra, il sibilo dei masnadieri avvisare i dormienti della loro vigilanza.

Poco o nulla si potè riposare durante quella nottata, ed ufficiali e militi, dovemmo essere quasi sempre colle armi in pugno, sinché tarda non spuntò l'aurora.

L'indomani mattina vennero da mè il sindaco ed il capitano della guardia nazionale per avvisarmi che fra poco sarebbe arrivata la paglia occorrente per la truppa, ed un poca di mobilia per uso della foreria e dei nostri alloggi che d'accordo con essi, stabilimmo in quello stesso castello.

Giacché erano venute a trovarmi, condussi quelle due autorità in una stanza separata per fare secoloro le mie maraviglie come un paese di quattromila abitanti tollerasse che Nunzio di Paolo ed i suoi seguaci passeggiassero perle contrade e tenessero le tende nelle vicine campagne.

Eglino allora mi confessarono che nel popolo minuto di Macchiagodena, quel capobrigante aveva un forte partito, e che non potevasi fare assegnamento alcuno sulla guardia nazionale, perché essendo per lo più composta di campagnoli, questi erano dovuti venire a patti con quel brigante se non volevano vedere tutte le loro possessioni incendiate, ed i loro armenti rinchiusi in una stalla, ed ivi con poche frasche asfissiati.

Risposi loro che un tale scandalo doveva essere terminato, e che gli abitanti di Macchiagodena, pensassero bene di far senno, ché in caso diverso avevo ordine dal superiore comando di bruciare lo stesso paese, come fu fatto a Pontelandolfo; intanto dissi al capitano della milizia cittadina, che mandasse invito a tutte le guardie nazionali, per venire l'indomani a subire una rivista delle armi, che avevo l'incarico di passar loro.

Purtroppo era vero che quel paese minacciava di volgersi intieramente alla reazione, onde giudicai che ivi, più che in altra località, vi era tutto da fare.

Intanto appena fui arrivato a Macchiagodena il sindaco di Frosolone con sua ufficiale del 22 settembre, mi invitava di ritornare in quel paese perché (come lui diceva) la montagna prossima era piena di brigantiil comandante di una stazione della settima legione carabinieri mi pregava di accorrere al bosco S. Rocco perché diverse bande vi si erano fatte vedere, — ed il comandante della guardia nazionale di Baranello, ancora egli con sua lettera dei 24 settembre mi esortava di condurmi nel suo comune, dove più squadriglie di nuovi briganti ivi arrivati, non si sapeva da dove, imponevano ricatti, uccidevano gente, ed incendiavano casolari, senzaché alcuno tenesse loro in rispetto;

e così mentre mi si reclamava insieme alla compagnia da altri e tali paesi, a MacchiaModena etessa, malgrado la nostra presenza, tutti i momenti arrivavano vetturali o campagnoli colle ossa rotte dai briganti di Nunzio di Paolo, i quali, da poche miglia di distanza, si facevano impunemente vedere da noi.

Onde risolsi di non lasciare Macchiagodena, senza prima dare una completa caccia agli assedianti masnadieri; ma, come era da aspettarselo, alla prima nostra sortita la banda di Nunzio si allontanò dal paese e facendosi inseguire, ci condusse di monte in monte fin verso il confine della provincia a solo oggetto di stancarci; e quando poi vedeva che per la spossatezza, non eravamo più in grado di seguitare il loro cammino, allora prendeva una forte od elevata posizione da dove si burlava di noi.

Giudicai pertanto che senza l'appoggio della guardia nazionale che era pratica di quei posti non avrei mai potuto ottenere un utile resultato.

Ma come fare se di oltre duecento individui iscritti nella milizia cittadina, soli quaranta risposero colla loro presenza all'invito del sindaco e del capitano?

L'indomani mattina appena ritornato dalla prima perlustrazione procurai di fare buon viso alle quaranta guardie nazionali, che erano venute alla rivista, e poiché mi dissero di non aver munizioni sufficienti per affrontare i briganti, ordinai al foriere di somministrare loro tre pacchi di cartuccie per ciascuno, pregandoli inoltre di dire ai compagni, che se il giorno veniente essi ancora fossero venuti alla rivista delle armi, avrebbero in egual modo fruito di tale distribuzione di oartucce.

Tale adescamento fece sì, che il secondo giorno dell'ordinate riviste, altre cento guardie nazionali vennero a porsi in rango, e poiché l'ebbi tutte riunite sulla spianata prospicente la nostra caserma, per mezzo del sottotenente Bacci mandai a prendere la compagnia dei nostri militi regolari, dei quali il primo plotone lo feci mettere alla sinistra della guardia nazionale ed il secondo a destra, di guisaché il fronte di battaglia della milizia cittadina rimanesse incassato fra i due plotoni.

Quei cafoni credevano che avessi mandato à prendere la truppa per facilitar loro il modo di apprendere le diverse manovre, e quando misi in movimento l'intiera colonna 3'immaginarono che volessi condur loro fuori del paese, sinché non avessero imparato il modo di marciare con ordinamento militare:

Ma all'opposto di quanto essi si credevano li condussi per oltre quattro miglia fuori di Macchiagodena, ed ivi giunti, feci salire la colonna mista sopra una collinetta isolata, dove ordinai alle guardie nazionali di ivi rimanere, sinché noi della truppa non fossimo ritornati dal vicino bosco, nel quale mi accingevo ad entrare colla sola truppa per snidarne i briganti.

Costoro credettero alla sincerità delle mie assserzioni, e si accamparono sul vertice di quella collina, da dove noi ci dirigemmo nel sottoposto bosco per entrarvi da una parte e sortirne dall'altra.

Avevo la compagnia digiuna, perché appunto mentre si cuoceva il rancio, l'avevo mandata a prendere, onde risolvetti di ricondurla in paese per poterci tutti sdigiunare, calcolando inoltre, che le guardie nazionali rimanendo così esposte alla vista di Nunzio e dei suoi briganti, avrebbero avuto l'apparenza di voler fare ai medesimi atto di ostilità, ciò che avrebbe potuto motivare un utile attacco fra guardie e briganti.

Le mie previsioni non andarono fallite, ché un'ora e mezza dopo che si fu ritornati a Macchiagodena, si avvertì uno scampanìo delle chiese ed un urlìo generale per le vie di quel paese.

Il sindaco, premuroso ed ansante corse a dirmi — che erano arrivati due cafoni tutti pesti e contusi, perché per miracolo erano potuti scappare dalle mani dei briganti, e che prima di poter fuggire avevano veduta la banda di Nunzio circondare i militi della guardia nazionale, sortita insieme a noi dal paese quella stessa mattina; — ciò dettomi mi protestò, che se la truppa non fosse sollecitamente, accorsa in loro ajuto, tutti quei disgraziati padri di famiglia sarebbero stati fatti a pezzi.

— Così va bene — gli risposi io — in tal modo i superstiti si abitueranno a difendersi da sé stessi. —

Dopo avere ciò esternato al sindaco, lo pregai di andare a rassicurare la popolazione, la quale, con dei di. scorsi, voleva accorrere in massa a proteggere i compromessi parenti, ma con fatti non si decideva a così fare.

Allora era propriamente di noi che occorreva l'intervento, onde divisa la compagnia in due plotoni, dei quali uno sotto il mio comando in ordine serrato, e l'altro sotto il comando del Bacci in ordine aperto, ci incamminammo a passo di carica lungo la valle che si racchiudeva fra quelle rocce, sopra una delle quali avevamo lasciato la guardia nazionale.

A misura che ci avvicinavamo alle diverse colline dove si era impegnato il conflitto, i briganti ci bersagliavano in modo tale che sentivamo i projettili rasentarci il viso.

Le guardie cittadine ormai atterrite, non rispondevano più al fuoco dei briganti, altroché quando si facevano sotto tiro per salire la pendice, dove elle erano, ragione per cui di quei cento uomini, ché avevano già consumato gran parte delle munizioni, non se ne poteva fare più assegnamento.

Giudicai allora dall'efficacia dei loro tiri, che i briganti scaricando sopra di noi dall'alto al basso avevano un effettivo vantaggio, onde il plotone del Bacci lo feci avanzare verso la posizione occupata dai nostri avversari, raccomandandogli di cuoprirsi con tutte le accidentali pretuberanze del terreno, ed io stesso col primo plotone salii su di una roccia, che era quasi al livello di quella dove erano i briganti.

Ivi giunto, disposi dietro un piccolo rialto la mezza compagnia, e feci aprire un vivo fuoco di Ala contro la banda di Nunzio.

Quei feroci combattenti, vedendo allora, che il mio secóndo plotone si era avanzato fin sotto la roccia ove essi tenevano posizione, e che i tiri del primo plotone facevano loro effettivo danno, ci abbandonarono il campo e si condussero in un'altra roccia ancora più ripida di quella.

Noi però non cessammo dall'incalzarli, ed unitisi a noi ancora le guardie nazionali, che avevano ripreso coraggio, facemmo loro sloggiare da due altre posizioni, dove ci fu dato trovare delle lunghe e larghe tracce di sangue armi, ed oggetti da loro ivi lasciati, per la fretta di fuggire.

Al giungere della notte perseguitammo quei ribaldi sino entro i consueti loro nascondigli, ed al chiaror della luna, rinnovando contro di essi un incessante fuoco di fila, potemmo vedere molti di quei masnadieri trascinarsi seco i feriti ed i morti (1), lasciando a noi gran parte dei loro bagagli.

Durante sì accanita pugna, che si protrasse sino alle undici di notte, in paese si trepidava per la nostra comune sorte; ma quando quella popolazione vide tornarci tutti incolumi, meno qualche leggera scalfittura, e carichi di bottino preso ai briganti, fu una festa generale ed un godi godi indescrivibile.

In mezzo degli evviva all'Italia, al Re ed a Garibaldi, il sindaco fece dispenserò molto vino ai militi ed alla folla dei popolo, che fatta indissolubile alleanza coi nostri soldati, se la tripudiò fino all'indomani mattina, allora quando ciascuno ritornò alle abituali sue occupazioni, e la truppa alla caserma.

Due giorni dopo l'accaduto si seppe che i resti della banda di Nunzio, per quel fatto sbaragliata, si erano incamminati verso le Puglie, involando dalle percorse campagne quattro fanciulle, che a caso trovarono durante la loro fuga.

Da allora in poi il sedicente generale borbonico coi suoi gregari mai più si avvicinò al territorio di Macchiagodena, la di cui popolazione incoraggiata da tale avvenimento» seppe da sè spazzare le sue campagne da ogni disturbatore della pubblica quiete.

(1) Noti bene il lettore che i briganti avevano l'abitudine di trascinar seco loro i cadaveri degli uccisi nel conflitto per poi cremarli all'oggetto che non fossero riconosciuti.

Pochi mesi prima di questo piccolo risveglio, cui, come testé ho raccontato, fu possibile alla mia compagnia ottenere dalla milizia cittadina del Molise; nella vicina Capitanata, e più specialmente nel distretto che comprende i paesi denominati la Pietra di Monte Corvino — S. Agata — Monte S. Angelo — Rodi — Biccari — S. Paolo — Apricena — Torre Maggiore — S. Giovanni Rotondo — Carlantino — Rignano ed altre piccole borgate, tutte quelle guardie nazionali con nobil gara facevano prodigi di valore, combattendo al fianco dei RR. Carabinieri o dei soldati del 14° reggimento fanteria, e spesse volte da soli in piccole squadriglie, parte a cavallo e parte a piedi e composte dei soli patriotti di quelle popolazioni, senza distinzioni di casta.

Era bello vedere il proteiforme esercito delle guardie cittadine di quella provincia, composto di possidenti, di professionisti, di cacciatori di professione, di artigiani, di coloni e di pastori, quali armati con carabine di precisione o di fucile a doppia canna, quali con il fucile a munizione e il porta cartucce a bandoliera, quali infine con dei fucili a tromba, carichi di ogni sorta di munizione, ricercar per le folte selve e nei più oscuri antri gli acquattati ladroni.

In vedere quei militi sui loro veloci destrieri, scorrere colla carabina in pugno gli interminabili gerbidi della Capitanata, si sarebbe tosto detto che la nazione intera si ribellasse armata, mano agli orrori del brigantaggio.

Basti il sapere che dalla sola milizia cittadina, dei pochi surriferiti comuni in meno di quattro mesi, senza contare i molteplici feriti, furono uccisi quindici briganti, quattro ne furono catturati ed alcuni altri costretti a costituirsi.

Tanta encomiabile emulazione, che si verificava nel perseguitare i briganti fra i cittadini militi, i RR. carabinieri edi soldati del nostro esercito, riempiva gli animi dei sinceri liberali e di tutti gli onesti, di eterna gratitudine.

È giusto altresì affermare che tale progresso della guardia cittadina lo si dovette in molto, non solo al crescente spirito patriottico, che incominciava ad animare a buono tutte le classi di quelle vivaci popolazioni, ma ancora alle remunerazioni in danaro alle famiglie dei morti in conflitto, o in onorificenze ai superstiti, cose tutte che d'allora in poi, sulle proposte di quel Prefetto De-Ferrari e del generale Mazé de la Roche, vennero date dal R. governo a tutti coloro che presero parte più attiva alla estirpazione del malandrinaggio.

Non posso chiudere questo capitolo, consacrato intieramente alla storia brigantesca, senza designare all'ammirazione dei posteri i nomi di coloro che combattendo valorosamente, soccombettero nell'impari pugna, nonché quelli che corsero quelle contrade per difendere colle armi in pugno i pericolanti penati, e per contribuire col sangue e col sudore della fronte al conseguimento della patria una e libera.

Comincerò dal pagare un tributo di meritata immortalità alle cadute vittime, e per ciò fare, sia eterno gloria a Mingerulli Niccola e Quitadamo Pasquale, entrambi di

Monte S. Angeloa Settembre Antonio, di Apricena —

a Di Donato Saverio e Capece Matteo di Torre Maggiore — a Fiorentino Giuseppe di S. Giovanni Rotondo — a €odianni Vincenzo, di Carlantino — a Gallo Matteo e Bove Giuseppe, di Biccari, tutti coraggiosamente estinti per tormentosa morte durante i diversi attacchi.

Sia pure gloria ai superstiti sigg. Di Sabbato padre e figli, che in tante occasioni condussero i loro bravi al difficile combatto, nonché ai militi cittadini Venditti Giovanni — Leo Baldassarre  — Ippolito Vincenzo — Ventimiglia Antonio — Di Ruberto Vincenzo — Mollica Raffaele — Di Sabbato Alberto — Cardillo Giovanni — Russi Giuseppe — Tazzi Domenico, tutti della Pietra di Monte Corvino,

nonché ai militi De Majo Raffaele — Martelli Gabriele — Pania Vincenzo — Martelli Niccola — Piccirilli Vincenzo — Di Fiore Antonio — Caruso Vincenzo — Farraccino Luigi — Di Fiore Giovanni — Martelli Matteo — Montesani Matteo — Tardia Matteo — Francovilla Antonio — Cisolfi Francesco — D'Expertis Liborio — Caggiano Luigi — De Majo Matteo, di Nunziante — Boccolo GaetanoMartelli Pasquale — Falcone Pietro — De Lillo Pietro — Villani Gabriele — Pantonio Luigi — Battista Michele — Carpino Vincenzo — Fania Niccola — Del Vecchio Michele Antonio — Gisolfi Giovanni — Danza Giovanni fu Matteo — Gentile Lorenzo di Michele, tutti militi e bassi uffiziali di Rignano.

Sia pure elogiato il contegno dei militi ed ufficiali Giagnorio Michele e Belardi Vincenzo, tutti e due di S. Paolo, nonché dei sigg. Fratta Giacinto — Tosches Pasquale — Cannelli Raffaele e Tosches Antonio uffic. e caporali della guardia di Casal Vecchio, di Quintadomi Pasquale della guardia nazionale di Monte S. Angelo, di De Vivo Gaetano della Pietra, — di Lombardi Matteo — Fracasso Raffaele e Falconi Matteo i quali, tutti di Monte S. Angelo, rimasero feriti nel combattimento della masseria descritto nel capitolo precedente, nonché di Ferrandino Giovanni — G uiffreda Celestino  Giordano Paolo — Eremita Pasquale — Negri Niccola e Frotta Leonardo tutti o caporali o militi della guardia nazionale del suddetto paese, che in molto cooperarono all'uccisione di 3 briganti.

Sia infine lode speciale a Lombardi Michele di Monte S. Angelo, il quale da solo uccise i due masnadieri Grosso Michele Antonio e Gallo Antonio di Carpino.


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CAPITOLO X

Costanza a Napoli

Quando Michele Squillace ebbe sacrificato ad un'idea, amorosa tutto il suo sereno avvenire, per stordirsi, e per tentare di allontanare dalla sua mente ogni memoria dell'infelice passione, si dette in braccio agli effimeri piaceri di una vita rumorosa, e sebbene fosse semplice soldato nel terzo battaglione cacciatori di guarnigione a Napoli, pure potè trovare il modo di otteneré soventi volte il permesso serale, per andare al teatro, o in altre società ricreative.

Nell'armata borbonica spesso accadeva che il cosidetto sergente maggiore avesse moglie e figlioli, perloché quando nella compagnia vi si trovava qualche milite appartenente a famiglia agiata, era tollerato dai superiori, che quel bassufficiale, d'altronde bisognoso, mediante un qualche regaluccio, concedesse al preferito milite alcuni permessi serali, che apparivano rilasciati dalla maggiorità per tali o tali altre immaginarie esigenze di servizio.

Michele nel partire da Castropignano aveva portato con sè un rilevante peculio particolare, che aveva messo assieme col lavoro nei primi anni della sua pacifica professione di procuratore legale, cosicché poteva figurare quanto un cadetto.

Era benveduto da tutti i graduati del battaglione, un poco per la dolcezza del suo carattere, ed in parte perché faceva sovente dei piccoli imprestiti ai bassufficiali, perocché le di costoro buone informazioni a di lui vantaggio, gli avevano cattivato l'animo del proprio capitano, il quale, in vista della buona condotta di Michele, gli aveva per. messo di sostituire alla grossolana tunica di ordinanza, altra uniforme di finissimo panno, ed alle rozze scarpe di soldato, la più fine calzatura.

Per tal modo aveva la possibilità di vestire distintamente dagli altri, e fare elegante mostra di sè in tutti i luoghi ove interveniva.

Al teatro, alla passeggiata di Chiaja, al caffè di Europa, ed in ogni altra località, ove era solito ritrovarsi il mondo galante di Napoli, appariva Michele, sperando di rivedere la sua Costanza, quale già riteneva essere venuta ad abitare quella città; ma per tre lunghi mesi invano la cercò, ed ogni giorno di più rimaneva deluso nella nutrita speranza.

Molte damigelle, ed ancora qualche lasciva dama ritrovavano in lui il polo positivo della loro simpatia; egli se ne accorgeva, ma gli sembrava di offendere la sacra me. moria df Costanza, col fare su di elle ancora il più lieve peccato di desiderio; e quando i suoi occhi s'incontravano a caso cogli elettrizzanti e provocatori sguardi di qualche donna capricciosa, egli provava un senso di avversione tale, che lo metteva di cattivo umore.

Un materialista direbbe che Michele, sebbene giovane, avesse avuto di già ottusi i sensi della virilità; ancora questo è un errore della materia, ché non vi è alcuno il quale abbia i sensi assai eccitabili, come gli ha un innamorato; però questa di lui eccitabilità si limita al solo oggetto amato.

Non so, o lettore, se tu provasti in vita tua quel genere di affezione, che non ha per primitivo scopo l'appagamento dei sensi, e che gli antichi chiamarono amore aristotelico; se lo hai già provato son certo che non troverai improbabile l'affetto di Michele, se poi fosti esente da tale affezione,

sappi allora che fra gli uomini esiste un trasporto, un amore, una follia (chiamala come vuoi) che ci fa sembrare tutto l'altro bello, che non sia quello dell'oggetto amato, siccome rivestito di orride forme, e ci fa sentire come nauseante e revulsivo tutto quanto non emani da colei, che ha per sempre fatto suo il nostro pensiero.

Onde avviene che il vigore del corpo, la fantasia della mente, la speranza del cuore, e la espansività dell'anima, essendo simultaneamente riconcentrato nell'idea predominante, verso la quale è rivolta tutta la nostra potenza psichica, non ci è dato apprezzare cose estranee all'oggetto amato.

A tale punto di affezione era giunto Michele; egli non aveva potuto stordirsi, ed avendo saputo dalla signora Alena, che Costanza dopo un viaggio di due mesi sarebbe venuta ad abitare Napoli, voleva sodisfare la crescente ansia del di lui cuore col procurarsi la gioja di rivederla.

Che cosa è mai vedera una donna?

Quale più modesto ed innocente piacere di quello, che consista nel fissare i propri sguardi su di un essere come noi mortale?

A primo giudizio questo atto della nostra volontà sembra frivolo e di nissuna importanza; in effetto poi egli diventa una vera sodisfazione di segnalato valore. . Ed infatti quando il nostro io sente in sè il bisogno di pascolare l'avido pensiero colla vista di certe forme, che per tanti motivi ci sono divenute care, in tal caso il solo vedere un oggetto amato, vale lo appagare il più sentito appetito dell'anima.

Infatti Squillace, per troppo pensarvi sopra aveva dimenticato le care sembianze di Costanza, e mentre si era rassegnato di renunziare al di lui possesso materiale, il perderne ancora la rimembranza delle forme lo affliggeva assaissimo.

Da qui il di lui immenso desiderio di rivederla.

Gira oggi, indaga domani, e cercato che ebbe in tutti i luoghi dove si accalcava la gaja popolazione napoletana, una sera alfine al teatro San Carlo, dove Michele assisteva all'opera la Favorita, si aprì un palco nel 2° ordine, il più vicino al proscenio, e Costanza vi apparve con suo marito.

La romanza della donna tanto a perfezione eseguita dalla Galletti, destò nello scelto ed intelligente pubblico napoletano, una fragorosa ammirazione, onde un forte ohimè, proferito da Squillace, venne coperto dai tanti battimano della folla plaudente.

La bella figura della giovane duchessa di Castropignano, vestita in rosa, tutto l'assieme della di lei dolce fisonomia, ed il languido volgere dei suoi espressivi occhi cerulei, suscitò nel pubblico, avido sempre di nuove beltà, un certo bisbiglìo.

I binocoli dei palchi, e di quasi tutta la platea si rivolsero a quella sopraggiunta stella del fulgido olimpo teatrale, e poiché fu circolata la voce che ella fosse la giovane duchessa di Castropignano, andata ad arricchire il patriziato partenopeo di una preziosa gemma di più, tutto l'interesse della società galante si rivolse alla bella Costanza.

Michele, divenuto pallido in volto, e con il cuore traboccante di cari ricordi, nel vederla inorgoglì del di lui sacrifizio, e si compiacque con sè stesso di avere contribuito a renderla talmente ricca, splendida e felice.

Costanza ancora lo riconobbe col di lui appariscente uniforme da cacciatore, e laddiomercè, dopo il lamentoso addio, i loro sguardi s'incontrarono un'altra volta per tutto perdonarsi, e tutto dirsi quanto si amavano ancora.

Per quei due esseri predestinati al sacrifizio, od al ricco infortunio, il teatro, i cantanti, il pubblico, i profumi, le abbaglianti toelette, e le mille faci non esistevano più, ché le loro anime ed i costoro pensieri si erano smarriti ed astratti da quel ritrovo d'incanti, per ricercarsi il cuore nell'espressione degli occhi.

Per quasi un quarto d'ora si fissarono l'uno coll'altra muti e felici, di poi s'intesero, incrociarono i loro fluidi, e palpitarono di ringiovanito amore: pareva che un angelo invisibile a tutti, menoché ad essi, ricoverasse le loro persone sotto le di lui grandi ali di paradiso.

Il marito di Costanza nel vedere la propria sposa tenere immoti gli sguardi verso la platea, ed ivi rivolgersi nulla curando la rappresentanza teatrale, la scosse nel braccio cosi dicendole:

—Bene mio, che cosa mai ti ha tanto colpito per sino dimenticare che io ti sono qui presso?

Ella allora con la più certa sicurezza di sè, accennando Michele, così rispose allo sposo:

—Che corpo è quello? a quale arme appartiene quel militare vestito di tanto ricca uniforme?

—È un cacciatore, — rispose il marito — è un semplice comune del corpo scelto fra quelli della fanterìa del nostro esercito, sul genere dei tirolesi dell'armata austriaca, e dei bersaglieri del Piemonte.

—Va bene, va bene, adesso capisco, ma una uniforme da semplice soldato così sfarzosa, non l'avevo veduta mai, ed ero incerta'  se fosse invece un ufficiale estero.

Con questa scusa il contegno di Costanza fu sufficientemente giustificato.

Prima che cessasse lo spettacolo, Michele era già sul foyer per vedere più da vicino il suo ideale; ed infatti quando la giovane duchessa, trascinata a braccio dal suo sposo, passò dal peristilio per andarsene, Michele celato dietro una colonna, potè scorgerla tanto da accorgersi, che ella con un leggero muover del capo lo salutava.

Squillace allora, Dio sa con qual cuore, la seguì in disparte, tenendosi qualche passo indietro di lei, cosicché ebbero tutto il tempo di sorridersi e di bearsi insieme.

Fuori del teatro un elegante landau attendeva la coppia dei ricchi sposi, e Costanza mentre posava il sottile piede nella staffa della carrozza fecegli colla mano il segno di addio.

Il caro Michele, ridivenuto pazzo per la gioja di sapersi tuttavia riamato, entrò ratto in una delle tante carrozzelle, che per solito stanno fuori San Carlo, e così disse al vetturino:

—Segui quella carrozza padronale, e ti pagherò ciocché vuoi. —

—Ma i cavalli di sangue del duca di Castropignano avevano un trotto steso, molto più concludente di quello della rozza, che trascinava la pubblica vettura, onde è che il lucente equipaggio, entro di cui si trovava l'unico bene di Michele, quale adirato demonio, si perse fra le oscure penombre della vasta piazza di San Ferdinando.

L'infelice ma pure lieto Squillace aveva già molto guadagnato nell'essere certo che ella fosse in Napoli, ma questa semplice soddisfazione rassomigliava ad un raggio di luce nel tonebroso oceano dei suoi desiderii.

Ritornato in quartiere pensò come in quell'ora medesima ella sarebbe stata fra i tripudii di un legittimo amore, ed egli, in vedersi%ivi solo come sterile rupe nella nebbia del verno, celò il capo sotto le grossolane lenzuola del suo letto, e pianse di nascosto, soffocando più che potè i propri singhiozzi.

L'indomani si trovò colmo di gioja, o. punto di dolore?

Non lo sappiamo, e nemmeno lui lo sapeva, ché di costui il cuore e la mente, erano inva si da tale tempesta di affetti, che neppure egli sapeva discernere quale fosse il vento predominante, se l'aquilone della procella, o il maestrale della calma.

Costanza si era poco o nulla divertita durante il di lei viaggio di nozze; Milano, Firenze, Roma, Parigi e Londra, le erano apparse come dei squallidi deserti, e tutti i più divertenti aneddoti di quel lungo pellegrinaggio conjugale, le erano sembrati insulsi e scoloriti, perché in cima a tutti i suoi pensieri vi era un'idea fissa, l'idea di Michele.

D'altronde è mai possibile che si diverta chi non si sente felice?

Il premuroso marito le spiegava tutte le esilarau ti gioje della gran vita parigina, ed ella, nel fingere di ascoltarlo, pensava invece ai semplici, ma pur tanto beati viottoli del di lei giardino, e la memoria delle ore ivi sedute al fianco del suo primo amante, nella sua mente non cedevano una linea di posto a qualsivoglia artificiale illusione.

Insomma l'incubo amoroso non l'aveva mai più abbandonata, dal giorno in cui la signora Alena le consegnò la lettera di Michele, scrittale prima di partire; quella lettera, come cara reliquia di un primo ed ultimo amore fu da lei nascosta in un angolo di un suo baule da viaggio, dove ella a bella posta vi aveva fatto praticare un doppio fondo.

Quando Costanza fu ritornata dal di lei viaggio di nozze, si può dire che avesse cambiato di carattere; si mostrò allegra e sodisfatta di passare la sua nuova vita in Napoli, e poiché fu arrivata al suo comodo e ricco palazzo di via Chiatamone, allargò il cuore con un lungo sospiro, e per la prima volta così disse allo sposo:

—Ora si che mi sento felice!

—Nè mentiva, ché non era l'affascinante fasto della sua splendida dimora quello che le allietava l'animo, non il pensiero di una vita rumorosa e piena di tripudi, quale erale preparata, non le lusinghe di essere corteggiata dai più seducenti ganimedi di Napoli, ed invidiata dalle meglio decantate patronesse della moda; era invece la speranza di poter rivedere il suo Michele, quella che la rendeva ricolma di contentezza.

Non avrebbe più ( né lo avrebbe voluto per non trasgredire ai doveri di moglie) avvinto colle sue braccia tremanti il robusto collo di Michele, non le sarebbe più concesso di scarmigliargli, eppoi ricomporgli la chioma, non di bevergli il sospiro, non di gustarne i cari emozionati accenti, non fargli più sorprese, non dividere incanti da soli a soli, ma vederlo, salutarlo, amarlo, perdio, ecco quale era l'apice d'ogni di lei desiderio.

Il marito di Costanza, sebbene non avesse ancora diritto di farsi chiamare duca, perché era sempre vivente il vero titolare del ducato di Castropignano, pure gonfiava in modo alla sonorità di quel titolo, che fece dipingere e scolpire per ogni angolo ed in qualunque oggetto della ricca magione, le armi ducali.

In tal modo tutti i domestici e gli artigiani, impiegati ad arredare il suo magnifico palazzo, erano obbligati di trattarlo coll'ambito Eccellenza.

Appena si stabilì in Napoli questa doviziosa famiglia, le di cui ricchezze, come sèmpre accade, erano state raddoppiate dalla fama, molte case dell'aristocrazia napoletana ed estera, vollero procurarsi l'onore della di lei conosceLza; e se si aggiungano poi tutte le antiche relazioni del duca padre, sarà cosa facile il farsi un'idèa, che la casa di Costanza era in preda ad un continuo viavai di noiose visite di formale etichetta.

Costanza esternò il desiderio di limitare a poche famiglie il circuito delle loro relazioni, ma lo sposo le fece capire, che, come eglino rappresentavano gli eredi di un grande casato, non potevano vivere nella oscurità, ma che anzi trovava necessario il diffondere in tutti i modi la nomea della nobiltà loro.

In tal modo Costanza fu obbligata di partecipare alle debolezze dello sposo, e condannata a vivere fra le finzioni e le maldicenze reciproche della società dorata: onde avvenne che per seguire l'andazzo della moda, fu costretta di ricevere, almeno una volta per settimana, i consueti adoratori, quei tali che per avere ereditato un titolo, o delle ricchezze, qualche volta problematiche, si credono autorizzati a riempire il ruolo delle loro conquiste, con i nomi delle più oneste dame, per poi abbandonarle derise vittime del loro finto affetto.

Ma Costanza fu sempre un osso duro per costoro; ella sentiva troppo del suo decoro, ed era abbastanza fiera della sua pura ed elevata origine, per cedere al fascino di un bello artificiale o dei blasoni.

Lo sfarzo dei ricchi equipaggi, il decantare la gloria dei propri avi, l'adornarsi di ogni favore del sarto e del profumiere, la casuale ricchezza, nonché molti altri doni della fortuna, non erano i requisiti che preferiva Costanza; era ella troppo bennata per cedere il di lei cuore, o all'illusione di un illustre albero genealogico, o alla attrazione della dovizia;

fu a questa sacrificata dalla cupidigia altrui, ma quando si fosse trattato di spontaneamente donare ad un altro il di lei cuore, ella non cercava l'uomo, ma voleva in esso trovare l'amore, e questo lo aveva già rinvenuto nobile, disinteressato, ed eterno nel suo Michele.

Ciononostante, siccome esigono le leggi della galanteria, era obbligata di rispondere con apparente premura alle continue attenzioni, che le venivano fatte, in modo assediante, dai soliti frequentatori, e spesso scrocconi.

Il marito era geloso se Costanza guardava con preferenza qualche persona a lui sconosciuta, o che non entrasse nel novero degli amici, da lui erroneamente stimati tali; in senso inverso poi la contornava di assidui cortigiani di ogni ritmo, e di ogni gradazione sociale, dimodoché ai diceva per Napoli, che a voler fare la corte alla duchessa bisognava farla prima al di lei marito.

Costui, meno che mediocre in tutto, strimpellava qualche arietta sul piano, ed ecco farsi più che amico di casa un sedicente professore pianista, ed ecco obbligare la bella Costanza ad usare verso di lui ingiustificabile familiarità.

Egli imbrattava qualche tela col pennello, ed ecco offrire la sua più sviscerata intimità ad un pittore senza genio, ed ecco esporre le gentili sembianze della sua leggiadra metà a modello di quel riquadratore di stanze seudoartista.

Si piccava di letteratura, e via farsi suo il più immorale articolista, che, pell'esaurito estro delle sue lepidezze aveva bisogno di un Mecenate.

Sapeva incrociare un fioretto, e cerca un esimio tiratore, che parlasse d'armi al suo desco, e che gli dasse ad intendere il modo più spedito di spacciare un rivale.

Insomma quello sciocco di marito aveva la smania di divenire un uomo alla moda, e non si avvedeva che era invece tutto occupato a rendersi ridicolo: i di lui falsi intimi si erano già accorti che la duchessa non poteva essere del tutto compresa dall'affetto di così nullo marito, e quasi tutti se ne prevalevano per rapirle il cuore;

ma Costanza capiva bene che costoro non erano degni nemmeno della di lei considerazione, ognivoltaché per giungere a conquistarla, calpestavano il più sacrosanto diritto, il diritto della ospitalità inviolabile.

Malgradociò ella era forzata a tollerare quei vagheggini fino a che, capacitatisi essi dai continui infelici successi, si ritiravano dal campo della difficile conquista.

Vi era un giovane principe che si mostrò sempre il più ostinato Dell'attorniare e nel volere in tutti i modi sedurre la duchessa, e siccome di questo gran titolato,  né il marito,  né il vecchio duca dimostrava sentire alcuna gelosia, cosi tutti i servitori di casa, come i meno sospettabili e seri frequentatori di quella famiglia, lo favorivano in tutti i modi perché trionfasse sulla onestà di Costanza.

Il principe Xgiovane di appena 25 anni, nativa di Bulgaria, era un mingherlino non troppo simpatico, che tutto aveva imparato a fare, menoché ad imitare, anche in minime proporzioni, le glorie degli avi suoi.

Era ricco quanto bastava per consacrarsi ad un altolibertinaggio, ma povero di lettere e di utili azioni.

Costui era già stato causa che una bella donnina del patriziato napoletano, illusa dalle promesse da lui fattele di eterna fedeltà, avesse contaminato il talamo nuziale e gettato nel fango il di lei onore, nonché quello del fiducioso consorte.

E così il nostro libertino principe, non contento di aver sedotto quella infelice quanto leggera donna, ed altre signore di Napoli, col prestigio del suo nome e col fasto del suo vivere, sebbene inetto, misero nelle forme, e monco di fantasia, dava luogo ai più occulti intrighi per rendere vittima del suo sensualismo, ancora la bella ed onesta Costanza.

A Napoli nel vedere il principe X... frequentare di continuo la casa dei duchi di Castropignano, fu creduto, che ancora la duchessa fosse per entrare nel numero delle ricche Messaline, ché il principe, arrivato molto in là nelle apparenze di una di lei conquista, con immodesta ipocrisia, si dava ad ostentare le gioie di un mentito trionfo.

 

Ma il vizio favorito non vinse la virtù di Costanza; non perché si sentisse inclinata a mantenersi fedele al marito, ormai dedito a varie basse tresche e malsano in salute, ma a riguardo del proprio decoro e dell'amore del suo Michele che non meritava essere tradito.

Notte e giorno ella volgeva i suoi pensieri, alla di lui memoria, e quando rifletteva che solo per lei egli aveva tutto sacrificato, cioè patria, libertà, ed avvenire, provava rimorso anche a conversare con chiunque altro le avesse dimostrato affezione.

Era troppo distinta la nobile e colta Costanza per essere ingrata, e sentiva intuitivamente che l'amore umano non può finire con questa vita, per contaminare il suo per Michele, con altro pretendente.

Nonostante, ancora lei dovette essere vittima di false apparenze, e per quanto avesse respinte molte dichiarazioni che le erano state fatte dai più distinti e bei giovani di Napoli, pure ancora ella dovette avere la sembianza di donna colpevole.

In un giorno di estate di quell'anno 1856, dopo avere più volte riveduto Michele o al passeggio, o al teatro, o dal terrazzino del di lei stesso palazzo, Costanza si trovava insieme a suo marito sulla spiaggia di Santa Lucia, là dove i napoletani sono soliti fare i bagni marini.

Ella cercava nella superfice del Mediterraneo il miraggio del di lei passato affetto, ed il pensiero, afflitto ma speranzoso, di un migliore avvenire, veleggiava fra le onde cristalline del delizioso golfo.

Improvvisamente senti come un brivido correrle perla persona, ed una scossa elettromagnetica che la forzò a rivolgere il capo verso il suo lato destro.

L'uniforme di un cacciatore spiccava a qualche passo di distanza da lei; era Michele che guidato dalla fida stella della sua costante affezione, era stato ivi attratto per contemplarla.

Qual gioja fu quella di Costanza nel vederselo inopinatamente accanto, può solo immaginarlo colei che abbia amato per una sola volta.

Il mare divenne per essa un oceano di luce, le aride arene della spiaggia si tramutarono in oasi di refrigerio, e cielo, e mondi le sembrarono parlare di speranza, che ormai il tanto cercato miraggio lo aveva trovato in una soave realtà, — egli era lì — ed in quell'incantevole: luogo, dove la natura spesso sorride al suo Creatore, essi ancora si sorrisero a vicenda.

Ma chi è destinato a soffrire non può avere mai una gioja completa; lottano male coloro che su sei punti ne hanno quatto sfavorevoli nel giuoco dell'avverso destino.

Il di costoro affetto perdurante quei felici momenti, s'ingigantiva, si consolidava nel bene, e si indiava sempre di più per quella innocente sodisfazione, alla quale avevano diritto per essersi tanto amati.

E d'altronde nessuno sfregio ne avveniva all'onore dello sposo per quella beata estasi delle anime sole.

Tutto era onesto e solo regnava il bene!

Ma non si fece attendere a lungo il male, e lo recò il bifronte demonio della gelosia, che fece si che presso Costanza giungesse l'indiscreto principe X...

Come si usa nella così detta buona società, il marita deve lasciar posto all'amico di casa, appena egli intervenga nelle cordiali conversazioni dei coniugi, tantoché se la debole donna si sentisse disposta a cadere in qualche leggerezza, l'amico abbia tutto il tempo e l'agio di spingercela coll'arte diabolica della sua seduzione.

Ossequente a tale principio, il duca Giacomo, poco dopo arrivato quell'aristocratico birichino, si alzò per andarsene, cosi dicendo al principe:

—Riccardo (tale era il nome del Sig. X...) arrivo qua al caffè, fammi intanto il piacere di tener compagnia alla duchessa, ché fra pochi minuti sarò di ritorno.

—Fortunatissimo — rispose Riccardo, accompagnando tale espressione con una delle sue solite smorfie. —

Il duca Giacomo diceva a tutti, che egli aveva illimitata fiducia della sua signora, e che non avrebbe avuto alcuna difficoltà di farla viaggiare insieme ad un suo amicò: a Costanza poi raccomandava di non mostrarsi insensibile alle. gentilezze di nissuno dei nobili frequentatori della sua casa, ciocché equivaleva a dire che desse retta a tutti, perché era un fatto che tutti le facevano la corte.

Tanto il duca era tenero per i propri amici!?

Intanto l'assiduo pretendente di Costanza, rimasto solo con essa, e credendo di non essere osservato da alcuno, si assise meglio che pótè al di lei fianco, intavolando una troppo amichevole conversazione.

Nella loro posizione vi era tutta la somiglianza di un amoroso colloquio, o meglio di un prestabilito convegno, uno di quelli che hanno sempre le più criminose conseguenze.

A tal vista Michele inorridì, e come l'angelo ribelle fu precipitato dal cielo sui peccati della terra, indi divenuto furente, disperato e disilluso, fece atto di slanciarsi sul fortunato vagheggino per strangolarlo, ma una. occhiata fieramente datagli da Costanza, potè tanto in lui da trattenerlo.

Dipoi riflettè che lo scandalo sarebbe ridondato tutto a svantaggio di Costanza, e tale riflessione gli mise la tormentosa cuffia del silenzio al capo e le ritorte alle mani.

Allora si che davvero cominciò a disistimare la sua amante, e disposto di darle col suo silenzio ancora un'ultima prova d'affetto, si allontanò da lei, risoluto di non mai più vederla.

Ma Costanza era innocente; ella subiva la corte del principe X... perché così volevano il marito e le esigenze dell'etichetta; però, il di lei giglio non perdette mai l'innato candore,  né per lui  né per alcun altro — era onesta davvero. —

L'infelice Squillace si pentì di avere per tanto tempo amato siffattamente una simile donna, (la credeva sleale) e ritornato alla sua caserma, dopo lungo pianto, fece un nuovo giuramento; quello di non avvicinar più donna alcuna!

Allora, dato fondo in pochi mesi a tutti i suoi risparmi, divenne volentieri povero, e visse del rancio e del tenue soldo, come molti de' suoi camerati; indi rivestita la rozza uniforme di ordinanza, si tenne lontano dai luoghi dove vi era la probabilità d'incontrare il suo ideale di un giorno.

La buona e però sventurata duchessa questa volta trovò giusto il risentimento di Michele, onde è che più ardente divampò l'occulta fiamma del cuore: maledì il destino che l'aveva fatta nascere e vivere in quella corrotta società, e per la seconda volta invidiò le villane delle di lei compagne.

Trascorsero ancora quattro mesi, durante i quali ella mai più volle avvicinare il principe X. , ma non avendo altrimenti riveduto Michele, temeva che egli ignorasse la da lei presa risoluzione di allontanare dalla sua casa colui, che aveva cercato di comprometterla con delle false apparenze.

Povera Costanza, sentiva l'imponente bisogno di giustificarsi di faccia a quello che più le premeva, ma non ne aveva il mezzo, ed il pensiero di essere da lui maledetta come leggera ed incostante, notte e giorno le angustiava il cuore a segno tale, che dopo aver parlato al proprio padre di una separazione dal marito, cadde ammalata in modo inquietante.

Ma il tempo mitigò il suo malore, e la convalescente Costanza dopo avere soventi volte bagnato il lenzuolo di notturne lacrime, chiamò a sè il suo desolato genitore, perché le avvicinasse l'occorrente per scrivere.

Se Cupido infelice si fosse fatto pittore, egli solo avrebbe potuto dipingere al vero quell'interessante quadro.

Una ricca camera, a malapena illuminata dagli smorti guizzi di luce che si partivano da argenteo lume da notte,

—il letto ricoperto da un cielo di bronzo dorato, da dove, in forma di cortinaggio piovevano i più preziosi arazzi

—un ammasso di trine, che come strato di neve, ricuoprivano il più bel corpo di una ammalata d'amore — ed un vecchio duca, padre canuto, nonché segreto e fido amico dell'unica figlia, la serviva dell'occorrente per esarare l'apologia della propria innocenza: tutte queste cose avrebbero fornito l'ampio soggetto per un'opera di dipintura immortale.

Costanza non volendo a nessun costo rimanere sotto l'apparenza di rea al cospetto di Michele, si alzò a metà della persona sui morbidi cuscini, e cosi scrisse all'amica Anna Alena in Castropignano:

«Amica mia,

«Essere abbandonata per la seconda volta dall'uomo che tanto si ama, pazienza; ma perdere la di lui stima, è questa tale immeritata punizione alla quale non potrei sopravvivere.

«Ritrovai Michele, e con lui gran parte della mia vita; non gli parlai, ma mi feci intendere che sempre l'amavo; cosi egli a me.

«Ero felice con tale certezza, ed anche là non improbabile speranza di potere un giorno divenir tutta sua, mi confortava il pensiero.

«Ma mio marito mi fé vivere in una falsa società, dove un mondo d'insulsi pretendenti insidiavano la  mia fierezza ed il mio candore.

«Tu sola puoi giudicare se io sia stata forte nel respingere le loro seduzioni, perché tu sola conosci tutto l'animo mio.

«Or bene; in uno dei soliti infausti giorni, la più fa«tale combinazione mi fece assumere agli occhi di Michele l'aspetto di donna infida.

«Che Iddio mi maledica se io non sono innocente!!

«Intanto sappi che gemo da più giorni in un fondo dilètto ammalata per la somma di tanti dolori, e colui che fu causa di farmi perdere la stima del mio primo ed unico amante, non mai più mise il piede sulla soglia del mio palazzo,  né mai in eterno sarà da me avvicinato.

«Michele ignora tutti questi fatti, e mi crede ingrata, ed infedele, mentre non è vero, ché fu sempre egli solo, colui che io ebbi adorato.

«Scrivigli, o amica mia; esso milita nel 3° cacciatori; scrivigli e digli che non l'ho mai posposto ad altri, che vivo per lui, e che adesso, più che sempre, sento d'idolatrarlo davvero.

«Perdonami se tanto oso chiederti, ed abbimi per la tua

Sventurata

«Costanza. »

Terminata la lettera, la sigillò, vi fece l'indirizzo, e la consegnò al padre, affinché egli stesso di buon mattimo la impostasse.

Quando il duca Carlo ebbe letto nella soprascritta il nome di Anna Alena, allontanò da sè ogni sospetto ed eseguì a puntino l'incarico affidatogli dalla propria figlia.

A quei tempi perché una lettera avesse il suo recapito da Napoli a Castropignano, occorrevano otto giorni almeno, (1) perciò, prima che la lettera fosse in possesso della signora Alena, la duchessa ebbe il tempo di rimettersi completamente in salute; intanto il di lei marito, minacciato di una separazione, fece senno, ed in due cose cambiò sistema, in quella di pretendere che la moglie ricevesse tanta gente, e nell'altra di mantenere certe di lui tresche che non gli facevano punto onore.

Allorquando la signora Alena fu in possesso della lettera di Costanza, e mentre si accingeva ad eseguire la commissione ricevuta di scrivere a Michele, le giunse, quasi contemporaneamente, la notizia che egli era compromesso nel complotto del regicidio, perloché credette bene, almeno per allora, di non porre ad effetto il ricevuto incarico.

(1) Perché le corrispondenze per Castropignano andavano prima ad Isernio, poi a Campobasso, ritornando indietro, e da Campobasso per mezzo di postini a piedi venivano spedite a Castropignano.

Cosa avvenne a Michele in: tale frattempo, il lettore già lo sa, onde aggiungerò soltanto che la signora Alena, la quale appunto ai 17 di decembre si era fatta condurre a Napoli dal suo consorte, andò da Costanza per sentire a voce come doveva contenersi

Poiché quelle due sviscerate amiche si ebbero ricambiata un'infinità di baci, la duchessa condusse l'amica, depositaria dei suoi dolorosi segreti, nella camera più nascosta dei suoi appartamenti.

Ivi, saputo dalla signora Alena come non avesse avuto il tempo di scrivere a Michele, le aprì tutto il suo animo e le raccontò per filo e per segno quanto erale accaduto da che era stata sposa — come Michele avesse ragione di crederla leggera, mentre in realtà gli fu sempre fedele — quanto ella aveva in quei giorni fatto per salvarlo dal patibolo — ed infine le confessò che ormai non era più possibile per lei lo scordarsi di lui e lo amare il proprio marito.

La signora Alena la esortò di rassegnarsi al fato, dicendole che aveva già molto fatto per Michele con sottrarlo alla pena di morte, e che se fosse stato scritto nelle pagine degli eterni volumi, che un giorno ella dovesse divenire la consorte di Michele, nessuna forza al mondo avrebbe potuto impedire tale avvenimento.

Inquanto all'avversione, che dissele di sentire per il proprio consorte, la consolò coll'assicurarla, che questa si sarebbe cangiata in affetto al primo figlio, che ella avesse potuto dare alla luce.

Costanza fu grata all'amica di tali onesti consigli, ma le rispose che non poteva lusingarsi di aver prole da un uomo, che non amava, e che era di troppo gracile costituzione; inquanto poi al rassegnarsi di vivere senza una relazione vera o propria con Michele, le disse che si sentiva la forza di farlo, ma riguardo a perdere ancora la di lui stima, era tal cosa a cui non era mai possibile che ella si adattasse; per tali ragioni la scongiurò di tosto scrivere in proposito a Michele.

In quel giorno stesso la signora Alena apri la sua corrispondenza e come intermediaria, con Michele, il quale da pochi giorni, sempre disistimando Costanza, era partito per Palermo.

Appena si aprì a Squillace la prigione per sostituirgli l'esilio, egli si trovò contento di aver risparmiato, colla ottenuta liberazione due intensi dolori al di lui padre ed a Costanza, alla quale, quantunque da lui ritenuta infedele, pure voleva sempre un bene immenso.

Dopo la brutta scena del principe X..  egli trovava necessario lo imporsi il sacrifizio di mai più non vederla  né avvicinarla, ma gli riusciva nullameno di sollievo il respirare la stessa aria da lei respirata.

Finalmente dovette partire per Palermo insieme ad altri militi del suo nuovo battaglione; e quando, a notte avanzata, il fumivomo naviglio squarciava il seno al Tirreno, filando rapidi nodi, egli volgeva il capo verso la costa di Napoli, ripensando alle sventurate sue passate vicende.

Pallido, muto e riflessivo, pensava ancora alla sua inattesa assolutoria dalla pena di morte o dall'ergastolo, ed in essa ravvisava un provvidenziale decreto, onde tale momentaneo bagliore della di lui offuscata stella, in quegli alti silenzi, gli faceva nutrire nuove lusinghe per altri desiderii; ma quando meglio allargava il cuore ad improvvise illusioni, gli appariva alla fantasia la sardonica faccia del principe X... come quella del più indegno ladro del suo amore e della sua felicità.

Arrivato al suo nuovo destino in Palermo, si tenne estraneo ad ogni cospirazione politica, visse la rigorosa vita del soldato; e fu avanzato al grado di caporale; ma un giorno, attaccata rissa con altro graduato, perché lo trattava con modi poco urbani, sapendolo già cospiratore, venne degradato, sebbene avesse tutta la ragione possibile; egli allora capi che sotto quel regime, per lui non vi era carriera possibile, onde pregò il capitano della sua compagnia a volergli permettere di ultimare la sua ferma di servizio, sempre come semplice soldato.

Questo è per ciò che riguardi le fasi della sua vita militare.

Inquanto poi agli stadi della sua passione, dirò, che giunto da due o tre giorni nella capitale dell'isola di Sicilia, egli si trovò isolato, perduto da ogni speranza, e come trasognato, per quel genere di vita nuova per lui.

Erasi per quel misero mortale ormai scolorita l'esistenza; viveva macchinalmente col solo conforto dei ricordi dei passati tempi, e nelle poche ore di libertà che erangli concesse, se ne andava a passeggiare solitario sull'amena spiaggia della conca d'oro, per ivi contemplare i più ridenti occasi; e quando 1 astro luminoso baciava cogli ultimi suoi raggi il continente napoletano, egli ancora inviava note di pianto alla sua terra natia.

Sempre giovane e robusto, e più bello ancora perché coperto di soave malinconia, in vederlo, le vezzose albanesi della Piana dei Greci, lo invitavano a vagheggiarle colle melodiche loro cantilene; ma egli le guardava insensibile, come si farebbe a delle automatiche bellezze.

Povero Michele, in Costanza aveva tutta esaurita la sua possibilità di amare!

Le feste del Natale da tanti milioni di cattolici sono sempre riguardate come la più vera ricorrenza di giubbilo, ed il mendico come il dovizioso serbano per quel giorno tutto quanto può rendere più completa la gioja.

Era la vigilia di quella solenne pasqua, e mentre i duecentomila abitanti di Palermo, in nome del divino pargoletto di Bethelem, preparavano tutto quanto può rendere giuliva la vita di quei giorni, Michele solo si trovava angustiato dai più crudi disinganni.

— Che male feci io — diceva al cielo — per essere tanto infelice? Ma dunque è colpa avere castamente e con tanta passione amato un essere mortale? —

Intanto volgeva i passi suoi per le corsie della caserma, ed agitato in quel modo per la disperazione, malediva l'alba dell'indomani, che doveva essere foriera di letizia a tutti, meno che a lui.

Mentre era in preda a tanto tetri pensieri, fu chiamato in maggiorità per ritirare una lettera al suo indirizzo, proveniente da Napoli.

—Chi mai — disse a sè stesso Michele — può da Napoli scrivermi?

Vide un carattere di donna, a lui sconosciuto, e trepidò pel grande dubbio.

—Sia lei?... ma no — riflettè disilluso — Chi sarà mai?

Alfine con mano tremante squarciò la busta e corse coll'occhio a leggerne la firma.

Scorse il nome di Anna Alena;, l'amica, la confidente di Costanza?! — Oh Dio — esclamò — che sarà mai accaduto?!

Si fece coraggio, lesse interamente il contenuto di quella lettera e divenne indescrivibile.

£i passeggiava in su ed in giù per le diverse camerate, rideva, o si faceva serio, si stropicciava gli occhi per rileggere la lettera, e di tanto in tanto sussurrava frasi sconnesse; per un momento fu dai suoi compagni ritenuto per folle.

Non era tale, ma riviveva invece di una vita novella, quella della speranza!

—Ella innocente — diceva — innocente la mia Cos... e qui taceva il resto perché glie lo impediva il pianto, poi così riprendeva:

—O Dio, tu ci sei, e sei clemente. —

Come felice sopraggiunse a lui il giorno di Natale!!

Tutto ormai aveva riguadagnato con quella lettera, in essa vi aveva ritrovato la fidanza, l'amore, l'illusione della vita, e la prosperità, ché a suo modo di vedere col riconoscere onesta la sua Costanza egli era divenuto ricco, glorioso, forte, giovane, ed invidiabile da tutti i mortali.

Il giorno veniente che era quello di Natale volle solennizzare il ritorno della sua modesta felicità col rendersi ebro, e l'indomani rispose alla signora Alena, che egli viveva certo della fedeltà di Costanza — che mai più avrebbe aperto l'alma ad ingiuriosi sospetti, — che sarebbe rimasto sempre fermo nel proprio sentimentalismo per la duchessa, e che nissuna altra donna avrebbe ottenuto da lui nemmeno un soave pensiero.

Eguali assicurazioni gli fece fare in altra lettera la fida Costanza, ed entrambi sicuri ormai l'uno dall'altra, dall'anno 1856, fino al 1862, così passarono la vita i nostri innamorati.

Quando Michele ebbe finito di fare la campagna del 1860 con Garibaldi, ritornò prima fra i sbandati, andando coi medesimi al campo di S. Maurizio, e poi al deposito di Dogliani, dove fu promosso al grado di caporale: durante tale periodo di tempo rimase privo affatto di notizie della sua cara amante.

Il lettore conosce già le avventure che gli accaddero da Dogliani a Campobasso, ma ignora ciocché gli avvenne al di lui arrivo in Napoli, onde mi accingo a narrarlo.

Ritornato dopo 6 anni in quella rumorosa città, il primo ed unico pensiero che occupò la mente di Michele, fu quello di ricercare della sua Costanza; perciò fu, che appena egli si trovò libero dagli obblighi di servizio, se ne andò a passeggiare sotto le finestre del palazzo dei duchi di Castropignano, il quale, come già si è detto, era situato nella via di Chiatamone.

Michele camminava lungo quell'aristocratica strada cogli occhi rivolti in alto, e fra i balconi di quel magnifico stabile, cercava ansioso le sospirate sembianze dell'amica dei sogni suoi.

Era un semplice caporaluccio, nessuno gli badava, ed esso si valse di tale inconsideratezza a suo riguardo, per fare più minute le proprie indagini.

Non era guari che ei si trovava ivi girellando, allorché si aprì la persiana di un balconcino del primo piano, e da quella vennero fuori due giovani sposi apparentemente belli tutti e due, ma sostanzialmente lei sola; entrambi però sotto la maschera di un'apparente felicità.

Dal punto in cui si era soffermato Michele, al terrazzino sopra il quale la coniugale coppia stava a godersi il fresco di un' incipiente serata estiva, riccorrevano circa trenta metri di distanza, onde è che la duchessa, nel vedere dal verone un bell'uomo in uniforme di fanteria italiana, spinta da femminile curiosità, si fece ad osservarlo minutamente.

A misura che ne considerava la persona, cresceva nel di lei petto il desiderio di meglio distinguerlo, cosicché dovette alla fine cedere all'inatteso ed incantevole sogno col persuadersi che era Michele.

Allora frenò come più le fu possibile la interna emozione, e si sentì un'altra volta felice, molto più ché, nel ravvisare sulla di lui faccia più marcati tratti di virilità, trovò in essi nuove fonti di crescente simpatia.

Michele se lo aspettava quel prestigio, e nel poterla rivedere per la prima volta dopo sei lunghi anni, bandi dalla mente ogni altro pensiero, per rivolgere tutta la sua facoltà pensante a quel novello fascino.

Nel guardarsi l'uno con l'altro gli occhi, viemmaggiormente divamparono le fiamme dei loro cuori; ormai si erano daccapo intesi, piaciuti e con nodi più indissolubili sposati nelle alme pudiche.

In quel frattempo la duchessa con uno di quei ripieghi, che sole le donne innamorate hanno pronti per la circostanza, inosservata dal marito, prese di sul tavolo dell'attigua stanza il giornale Lo Pungolo, e poiché con lapis rosso ne ebbe sotto segnate le due parole teatro Fondo, che erano nella rubrica spettacoli, ritornò sul terrazzo, e come per sbadataggine si fece cadere di mano quel periodico.

Abbandonato così a sé stesso il foglio, dopo che ebbe per più minuti secondi svolazzato fra l'aria e la terra, sarebbe certamente andato a cadere sulla via, se Michele non fosse accorso a prenderlo prima che toccasse il lastrico.

Allora ei comprese a perfezione che in quel giornale Costanza doveva avervi fatto un qualche segno, o trascritta alcuna indicazione, perloché, appena lo ebbe in suo possesso, si allontanò da quel luogo per avere l'agio di minutamente esaminarlo.

Infatti entrato nel primo caffè che incontrò durante il suo cammino, si fece a leggere attentamente tutte le colonne del periodico sinché non ravvisò le sottolineate parole.

In tal momento gli fu facile convincersi che quello era un avviso fattogli da Costanza, perché egli ancora intervenisse al teatro Fondo, dove l'avrebbe potuta incontrare.

Squillace fino dal mattino aveva dato parola di prendere parte ad una cena, che quella sera stessa gli offri, vano alcuni suoi vecchi conoscenti di Napoli, ed egli a tale effetto aveva rilasciato la sua razione viveri ad altro soldato, ed aveva ottenuto dal capitano Dimier il permesso serale.

Non mantenne la data parola d'intervenire alla cena per la sola ragione, che all'ora medesima in cui doveva questa cominciare, aveva principio la rappresentazione teatrale del Fondo.

In quell'epoca egli era povero, e quella sera tutta la sua ricchezza pecuniaria consisteva in tre lire, che, coi risparmi sul soldo giornaliero, in due anni aveva potuto mettere assieme.

La di lui famiglia da molto tempo non gli aveva più mandato denaro, perché suo padre ormai invecchiato, dipendeva in tutto e per tutto dalla volontà del di lui primogenito figlio, avvocato Leone, il quale si valeva della assenza del fratello minore, per farsi esclusivamente suo lo intiero patrimonio paterno.

Diguisaché due sacrifizi gli costava il piacere di solo rivedere Costanza; il primo era quello di rimanere digiuno fino all'indomani, ed il secondo quello di restare senza un soldo, perché la piccola somma da lui posseduta bastava per l'appunto a pagare l'ingresso ed il posto distinto al teatro.

Ma che cosa non avrebbe subito quell'onesto appassionato, per potersi beare colla vista dell'angelico sembiante?

Entrò fra i primi nel teatro, prese un posto riservato nel bel mezzo della platea, ed ivi si collocò tutto raggiante di felicità.

Vi era prosa al Fondo, e non era ancora ultimato il primo atto della Gerla di pappà Martin, quando la duchessa, assieme al marito, entrò nella di lei loggia, che si trovava a pochi passi di distanza dalla poltrona ove era Michele.

È facile lo immaginarsi che nessuno dei due innamorati capì di che si trattasse in quella produzione; il più bel melodramma avvenne invece fra loro, quando con un continuo ricambiarsi di segni e di furtive occhiate, si elettrizzavano le fibre, quei due esseri privilegiati.

Lo spettacolo era presso al suo termine, onde Costanza fece segno a Michele di uscire, ed egli andò nel corridojo dei palchi, dove incontrando la sua amante seguita dall'assonnacchiato marito, si valse della prevalente oscurità di quell'andito, per stringerle con effusione la destra.

Ella in ricambio, senza volgere il capo, ed a fior di labbra, tali parole potè dirgli: —a Castropignano presso la siepe, se potrete venire in licenza. —

L'indomani a sera Squillace, insieme a noi partì da Napoli per Maddaloni, e durante la marcia da Solopaca a Campobasso, nel raccontarmi tutte le sue avventure, dissemi essere divenuto più contento da due giorni a quella parte, onde il lettore che adesso sa ciocché in qei giorni era avvenuto può facilmente arguire quanto avesse ragione di essere lieto.

Che cosa accadde alla Abbadia di San Severo, durante il fortuito incontro fra Costanza e Michele in gran parte ò già a cognizione del lettore.

Soggiungerò che in quel vasto possedimento, il quale in un'epoca remota fece parte del fondo ducale di Castropignano, e che poi in seguito fu rivendicato operapia, ed in ultimo ricomprato coll'oro dei signori Lo-Giudice, erano andati gli sposi per divertirsi colle diverse specie di caccia, di cui erano ricche quelle terre.

Il giorno precedente a quello del nostro arrivo alla Abbadia, la vezzosa Costanza, vestita con abito chiaro, corto fino al ginocchio, con brache di panno color lilla, con stivaletti alla polacca di bianco vitello, e con in testa un cappello di paglia di Firenze, elegantemente guarnito da larghe fettucce di velluto in seta nero, ancora essa era andata alla caccia delle quaglie, ecclissando per gusto e leggiadrìa la stessa mitologica Diana.

Il giorno dopo alla nostra partenza dall'Abbadia, ella disse sentirsi stanca, e mandò a cacciare il di lei sposo, rimanendo sola e padrona del suo maniero per un'intiera giornata.

Allora pensò al suo amore, e coadiuvata dal di lei fido cocchiere particolare Antonio Ferrara, scese nel piazzale, ed ivi, fatta levare da sotto al mattone la lettera di Michele, con indescrivibile avidità si fece a leggerne il contenuto.

In essa Squillace l'assicurava dell'immutabilità della sua affezione, ed in premio del suo travagliato e lungo affetto, le chiedeva un semplice abboccamento, ultimando il suo scritto colle seguenti frasi:

— Non vogliate che io abbandoni questa terra senza prima avere il bene di farmi da voi ripetere gli armoniosi vostri accenti. —

Costanza non volle essere tanto ingrata da negargli così modesta sodisfazione, e per mezzo del suo cocchieret gli inviò un biglietto, ove laconicamente rìspondevagli — che a giorno sarebbe andata a Campobasso insieme a suo marito — che avrebbe preso alloggio alla locanda provinciale, e più specialmente in alcune stanze del piano terreno, le quali corrispondevano in una chiusa ad uso di vendita di piante e fiori — che stesse egli sull'intesa del loro arrivo, avvenuto il quale, andasse nella preaccennata località, ed ivi, col pretesto di voler fare acquisto di piante, attendesse l'aprirsi di una delle tre finestre, dalla quale ella avrebbe potuto parlargli durante il tempo che il suo sposo fosse stato intento a farsi radere la barba.

Appena Michele ebbe ricevuto il desideratissimo messaggio, la nostra 16a compagnia era in procinto di partire per Casalciprano, onde per tale e tanto imprevedibile combinazione, sarebbe riuscito impossibile a Michele lo andare all'amoroso convegno; per tal ragione il solerte caporale

Squillace, per la prima volta durante la sua ferma di servizio, si dette come ammalato.

Era stato sempre troppo premuroso nell'adempiere ai propri doveri, perché quella prima volta il medico non prestasse fede al di lui inesplicabile male interno; fatto si è che gli riuscì ottenere dalla visita sanitaria di essere passato per quindici giorni all'infermeria del battaglione, onde ivi riposarsi insieme ai convalescenti ed ai feriti.

La libera sortita dei militi che si trovavano in stata valetudinario, più che altro per le sofferte tifoidi, che imperversavano endemiche in quelle campagne, era appunto dalle undici del mattino alle due pomeridiane, onde Michele ebbe tutto l'agio di potere indagare quando fossero arrivati in Campobasso i duchi di Castropignano.

Il lunedì susseguente a quello della nostra partenza in colonna mobile, un caporale del 36° reggimento fanteria, emaciato in volto per le patite sofferenze morali, passeggiava lungo la via retrostante alla locanda provinciale di Campobasso.

Quando fu dirimpetto alla porta d'ingresso della chiusa, destinata all'industria dei fiori, si soffermò, fece prima, una piccola ricognizione; e di poi entrò in quella specie di giardino botanico, per ammirarne i virgulti e le piante più rare.

Ivi introdottosi, come appassionato ed intelligente floricultore, parlò col giardiniere dei diversi modi d'innestare i tulipani, di moltiplicare le cardenie e le peonie, e di rendere variegate le. camelie, cosicché, chiacchierando sempre, si addentrò fra le fiorite ajole, da dove potè bene scorgere le finestre dell'albergo, delle quali parlava la lettera della duchessa.

Ad un tratto se ne aprì una, e Michele, che aveva già fatto acquisto di un pesante vaso di camelie, pregò il giardiniere di portarglielo immediatamente alla foreria della sua caserma, ove allora egli era occupato come scrivano.

Al negoziante di fiori non sembrò vero di smaltire la propria merce; ed, appena intascatone il prezzo, si allontanò per eseguire la commissione di Michele, lasciandolo ivi solo.

Dietro la inferriata di cui era provvista la finestra, allora spalancata, apparve tosto il viso di Costanza, vergato in liste rosee, per la provata emozione.

Ivi ebbe luogo il secondo loro abboccamento, dacché Costanza fu sposa, abboccamento che durò quasi mezz'ora.

Prima di rivolgersi la parola l'uno coll'altra, il viso di Michele da dietro i ferri della inferriata, si avvicinò a quello di Costanza per baciarle amorosameute la bocca: Costanza impallidì.

Di poi, si dissero alla lesta tutti i reciproci pensieri e progetti, si scambiarono due nomi convenzionali per un ulteriore carteggio a mezzo postale, si strinsero fortemente le destre, e quando il rumore, prodotto dai passi del reduce negoziante di fiori, si fece sentire più da vicino, i baci appassionati di Michele un'altra volta ancora si posarono sulle infuocate labbra della duchessa, per poi dividersi.

Prima di dirsi in questa guisa addio si giurarono scambievolmente di presto vivere insieme, o di assieme morire: — ormai ambedue anelavano a momenti di piaceri più positivi.

Da quanto Costanza avevagli raccontato in quel breve colloquio, Squillace potè arguire che il duca Giacomo era irreparabilmente ammalato, e che presto ella sarebbe rimasta vedova.

La duchessa non gli disse chiaramente tuttociò, ma nel raccontargli, che il di lei sposo era affetto da male acuto, gli fece capire che non sarebbe trascorso molto tempo, senza che ella non fosse passata in altro stato, per la quale ragione lo esortò ad attendere e sperare.

Michele dal canto suo le fece intendere, che l'uomo non può tanto vivere, per quanto egli si sentiva la forza di as pettarla, mantenendosi a lei sempre fedele; ma prima di c onvenire con essa circa un possibile futuro volle da Costanza la promessa, che, se un giorno ella fosse rimasta libera, prima di passare in seconde nozze con lui, restituisse ai più prossimi parenti dei signori Lo-Giudice tutte le ricchezze da loro male acquistate, e che gli concedesse così l'ambito onore di lavorare per lei.

Costanza non solo acconsentì a tale condizione, ma le arrise all'amor proprio di donna tale disinteressata proposta, onde assicurò Michele, che quando Iddio avesse decretato di rendergli entrambi felici, ella si proponeva di ritornare al suo palazzo natio, ed ivi vivere con esso ed il di lei genitore, in una beata condizione di mediocre agiatezza.

Talmente onesti erano i progetti di quei nobili figli della sventura!

Costanza partì collo sposo per Castropignano, e Michele, allora appunto quando divisava darsi per ristabilito in salute, e riprendere il suo posto nella 16a compagnia, fu mandato a chiamare dal maggiore Dalmasso per fargli leggere un telegramma del colonnello Canavassi, col quale (sic) «da Spoleto veniva richiamato il caporale Squillace per essere stato assegnato al 1° battaglione, in quella città accantonato. »

Sul primo, per l'impressione ricevuta, Michele dimenticò il suo dovere di passiva obbedienza, e rispose al maggiore, che non poteva partire per essere incomodato; ma quando sentì che gli sarebbe stato somministrato un mezzo di trasporto sino alla stazione ferroviaria di Maddaloni, allora scongiufò quell'ufficiale superiore, affinché gli concedesse almeno tre giorni di licenza, onde avere tempo di andare a Castropignano, per dire addio al suo vecchio padre.

Ma il Dalmasso era un rigoroso ufficiale, che non ammetteva repliche da parte dei suoi sottoposti, e che per tutta risposta chiamò a sè il foriere maggiore, in tal modo ordinandogli, gli disse —

— Prepari il foglio di via fino a Spoleto per questo caporale, gli procuri un traino per farlo trasportare a Maddaloni, essendo egli indisposto, e perché venga eseguita tale mia consegno, gli assegni una scorta di sei uomini ed un sergente.

— In pari tempo abbassi ordine al capoposto della guardia alla caserma, di npn farlo più uscire dal quartiere sino alla di lui partenza, che sarà impreteribilmente per domani mattina avanti l'alba.

Ecco come lo sciagurato Michele dovette, per amore o per forza, abbandonare quei luoghi, allora appunto quando gli erano ridivenuti tanto mai cari.


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CAPITOLO XI

Il massacro di Santa Croce di Magliano

Dopo il fatto d'armi di Macchiagodena, nell'alto Molise la sicurezza pubblica cominciava a ristabilirsi e la guardia nazionale di quei montuosi paesi incominciava a difendersi dai pochi briganti, che in quei luoghi erano rimasti In quell'epoca tutto il forte del brigantaggio si gettò in due punti; nel cosidetto piano di cinque miglia, e nel bosco della Grotta.

In quei luoghi selvosi, cavernosi, ed assai estesi (che il solo bosco della Grotta ha una periferia di oltre cinquanta chilometri) si dettero convegno le bande di Crocco, di Fuoco, di Caruso, di Tamburini, di Morgante e Cascione, di Nunzio di Paolo, di Luca Pastore, e di Angiolo Maria del Sambro.

Diguisaché, verso i primi dell'allora prossimo ottobre, l'intiero 4° battaglione del 36° reggimento, fu richiamato a Campobasso, per poi inviarlo contro i nuovi quartieri d'inverno, che in quei boschi si erano procuratile diverse coalizzate orde bringantesche.

E mentre pel Molise erano destinati un battaglione bersaglieri ed un altro del 45° fanteria, i quali avrebbero continuato a fare perlustrazioni insieme alle guardie nazionali di quei variati e graziosi paesetti; mentre (come in altro capitolo ho accennato) nelle Calabrie era già di molto diminuito il brigantaggio, dimodoché, ivi allora si potesse riguardare come piccolo e privato malandrinaggio;

nel tempo medesimo infine che nella provincia di Aquila ogni giorno si costituivano spontanei i briganti, ed in Basilicata invece come nell'Abruzzo Citeriore si combatteva ad intervalli una lotta accanita fra la truppa regolare e le diverse bande dei soliti assassini, entro il territorio che si racchiude fra il basso Molise e la Capitanata (territorio fiancheggiante la strada postale che da Napoli conduce a Foggia), il reggimento cavalleggeri di Lucca, che era allora scaglionato dalla provincia di Terra di Lavoro sino a Foggia, subiva forti perdite e serie peripezie, nei scontri che ebbe a sostenere con i masnadieri, al punto che, o per errore di comando, o per qualche malinteso di alcuna autorità politica, in una certa oscura notte del mese di agosto, due distaccamenti dei surrammentati cavalleggeri si batterono fra loro con armi da fuoco e da taglio.

Ecco come andò il fatto:

A due diversi squadroni, che per comodo della descrizione chiamerò 1° e 2, ° mentre erano distaccati in masserie, abbastanza distanti l'una dall'altra e che costeggiavano lo stradale percorso dalla corriera postale, pervenne in pari tempo notizia, che alla masseria denominata Stornatila, era solita condursi, notte tempo, una banda di briganti a cavallo.

Icomandanti dei due suddetti distaccamenti, non appena furono di ciò informati, con pari gara ed attività, si condussero a quella masseria per sorprendervi i briganti, proprio allora quando in essa fossero arrivati; onde è, che alle 10 di sera, dai luoghi dove essi eran soliti pernottare, mossero all'indicata volta i loro cavalli.

IIcielo era coperto di dense nubi, ed un'oscura notte copriva quell'aperta campagna.

Il 1° squadrone dei cavalleggeri era comandato dal bravo ufficiale Lenci (allora tenente), ed il 2° da altro ufficiale di pari abilità e di non dissimile valore (1).

(1) Essendo incerta cosa il potere affermare chi si fosse questo signore Ufficiale, ho creduto bene non declinarne il nome.

Quando all'una dopo la mezzanotte gli squadroni si avanzavano alla chetichella, e con i moschettoni in pugno si avvicinavano verso il punto preso di mira, si l'uno come l'altro, sbagliò i propri compagni per i ricercati briganti, ed entrambi gli squadroni per tale equivoco, si fecero fuoco addosso, a breve distanza.

A questa prima scarica generale, non pochi cavalleggerì rimasero o morti o feriti, e da ciò ne avvenne, che sì l'uno che l'altro squadrone si slanciarono i cavalli addosso per caricarsi a vicenda.

Fu tremendo l'urto, e fra l'incessante cozzar dei brandi, lo squadrone del Lenci, che al primo attacco ebbe maggiori perdite, a carriera spiegata, prese il largo per ricaricare i corti moschetti, e con questi far fuoco contro l'incalzante nemico.

Dopo questa seconda scarica, ancor essa micidiale, sempre a briglia sciolta, ritornarono alla mischia roteando le lampeggianti sciabole.

Lo squadrone comandato da Lenci fu quello che meglio resistè all'urto della seconda carica, e questa volta fu il 2° squadrone, che indietreggiò, per il danno ricevuto dai projettili, ma quei bravi, decisi a morir tutti piuttosto che cedere il campo ai supposti briganti, serrarono le righe, resero compatto il manipolo, e cacciati gli sproni in corpo ai loro cavalli, con le sciabole in resta si precipitarono sul 1° squadrone, ratti come folgore.

Tale secondo attacco fu più lungo, più accanito, più tremendo del primo.

Non si sentiva più una voce, non un urlo, non un lamento,  né una bestemmia sola; era il cozzar dei brandi ed il rumore dei fendenti, che rompeva quell'affannoso silenzio, a cui si erano votati i belligeranti drappelli.

Ma le file si diradavano, i feriti cominciavano a dolersi per lo spasimo dei larghi e profondi tagli, ed i cavalli, con irti i crini, erano ornai sordi agli incalzanti freni ed in sensibili alle punture degli sproni:

il sangue di quei destrieri si mischiava con quello dei loro valorosi cavalieri; i gridi dei capi non valevano più ad animar la pugna, la notte si faceva sempre più oscura e tetra, ed i trafelati drappelli non ebbero più la forza di proseguire la pugna, ma per opposte vie, ripararono in luoghi lontani da quel sanguinoso campo di fraterna pugna.

Spuntato il sole del veniente giorno, quando i coloni, per condursi al luogo dei consueti travagli, passarono dalla masseria di Stornarella, inorridirono alla vista di quei deformati cadaveri, e furon solleciti di sollevare da terra i morenti guerrieri.

Raccolsero tutti i feriti, per l'urto smontati dai cavalli e li ricoverarono nella vicina masseria, prodigando loro le più possibili cure. Soltanto fra gli spasimi dell'agonia seppero i moribondi, che uccisero, e che furono uccisi dai propri compagni, ed ivi dove credevano di cogliere allori, pel sangue perduto nell'accanita lotta, resero rosseggiante il suolo.

O portento d'italiano valore; o sangue di cari figli inutilmente versato; o anime tradite da perverso fato! Chi mai avrebbe potuto dirvi, che colà dove credevi trovare dei vigliacchi assassini, avresti invece trovati i fratelli d'armi, per dividere con voi l'onore della pugna, il valore, e la morte?

Quelle schiere pugnaci, che sommavano ad appena centoventi individui, ebbero, fra morti e feriti, quaranta cavalleggeri fuori di combattimento.

Il grido di tanta disgrazia giunse sino alla città di Nola, dov'era allora il colonnello Balzani, comandante quel reggimento; egli, uomo di cuore siccome era, pianse per la morte dei suoi bravi, quanto, avrebbe potuto piangere per perdita di figli; ne riferì con rapporto speciale al generale La Marmora di Napoli, il quale diramò tosto ordine a tutte le autorità di quella provincia, che si tenesse occulta l'avvenuta disgrazia,  né che se ne facesse carico ad alcuno dell'imprevisto equivoco: tale temperamento fu forse allora adottato dal general prefetto, a riguardo del nome e della fama dell'esercito.

Il bravo colonnello dei cavalleggeri, a male in cuore, ingoiò l'amara pillola, e cessò dall'iniziata inchiesta, per arrivare a scoprire chi fosse stato l'incauto che avesse contemporaneamente informati dell'arrivo dei briganti i due diversi distaccamenti, ma ossequente ai voleri superiori, chinò il capo, e nel suo interno giurò di trarre aspra vendetta dell'accaduto a ridosso dei briganti.

Ed infatti, nel sopravveniente settembre, il prelodato colonnello Balzani potè appurare, come nei pressi di Nola, e precisamente alla masseria di Canestrelle (provincia di Terra di Lavoro) soggiornasse una comitiva di circa 200 briganti a cavallo.

Quell'ufficiale superiore ansioso siccome era di vendi, care i soldati caduti nel notturno assalto fra loro, prese con sè 40 cavalleggeri nonché 40 bersaglieri, e con questa mista colonna, si diresse verso la già rammentata masseria di Canestrelle.

Ibriganti nel vederlo da lungi, niente affatto desiderosi di ingaggiare battaglia, montarono tutti in sella, ed al galoppo, si diressero verso Mezzane, villaggio che si trova a circa 15 miglia da Canestrelle.

IIColonnello Balzani non se ne dette per inteso, e come se non si fosse accorto di cosa alcuna, seguitò la sua rotta per il luogo lasciato dai briganti; ed ivi giunto, dopo lunga e disastrosa marcia, ordinò l'alto, tanto per dar tempo ai suoi cavalleggeri di potere affienare ed ab. biadare i cavalli, ed ai bersaglieri di poter cuocere il rancio per tutti.

Intanto, strada facendo, aveva requisito un'intera famiglia di cafoni, della quale scelse l'individuo più robusto e più svelto, e lo inviò dietro le tacche dei briganti, affinché verso sera spiasse dove eglino si fossero andati a pernottare.

Disse al cafone tali precise parole: — Se tu tornerai e mi servirai bene, ti donerò alquanti carlini, se mi tradirai o non tornerai più a me, sarò costretto di fucilare la intiera tua famiglia.

La stessa sera ad ore 8, l'affaticato cafone ritornò a Canestrelle, e riferì al colonnello che da un'altura, dove si era messo a scoprir terreno, aveva potuto scorgere che i briganti si erano fermati al villaggio di Mezzane, dove senz'altro credeva, che avrebbero pernottato.

Infatti dalla carta topografica che avea con sè il Balzani, egli giudicò, come l'asserto del Cafone era molto probabile, atteso la direzione che ai mattino avevano preso i briganti, onde fatto montare, sopra una giumenta l'ornai stanco cafone, ed i 40 bersaglieri sulle groppe dei ben nutriti cavalli del suo squadrone, verso le ore 9 mosse alla volta di Mezzane.

Quando fu a circa 2 miglia di distanza da quel' luogo, vide che il villaggio era tutto in fiamme: i briganti colà giunti, avevano acceso dei fuochi di gioia e si erano dati in braccio a notturna orgia, divisa fra loro e le più impudiche donne di quelle campagne.

Nella via di mezzo del villaggio, intere botti di vino offrivano gustose libazioni ai festanti masnadieri, ed intorno a quelle, i più giovani di essiloro si consacravano ad ogni atto di lascivia, ed alle più voluttuose ridde, intantoché nel vicino prato i cavalli briganteschi si satollavano di strame e di erbe.

La festa scellerata era lunga e completa, ma il momento della penitenza a grandi passi si avvicinava, ché il bravo colonnello Balzani fece mettere piede a terra ai quaranta bersaglieri, e dispostili in due righe aperte lungo la siepe della via, ordinò loro di avanzarsi fino al punto da dove avessero potuto aprire un efficace fuoco in avanti.

Così avvenne, e non appena le prime fucilate dei bersaglieri andarono a disturbare la gioia di quei profani, tantosto, i 200 briganti come un sol uomo, si fecero a rispondere al fuoco della truppa, con una vera grandinata di proiettili.

Ingaggiata la prima battaglia con tali fucilate, passando in mezzo alle aperte righe dei bersaglieri, il valoroso colonnello Balzani, coi suoi 40 cavalleggeri piombò addosso ai briganti, facendo fare ai suoi soldati micidiali molinelli colle affilate sciabole.

I combattenti briganti che [si trovarono a piedi, non mai più si aspettavano questa semispecie di gastigo di Dio, e senza avere il tempo di poter ricaricare i fucili si trovarono a ridosso quei bruni cavalieri che coi celeri e fulminanti brandi, a molti di loro procurarono mortali ferite.

In tal frattempo sopraggiunsero i bersaglieri a baionetta spianata, ed ancora essi senza più sprecare una sola cartuccia a colpi di baionetta incalzarono quella canaglia: I più dei briganti si posero in fuga, i meglio animosi combatterono corpo a corpo, e le loro concubine con le armi dei caduti, fecero prodigiosi, ma inutili sforzi, nel rintuzzare l'impeto delle milizie.

Fu un urlìo generale, uno strepitoso gridìo di disperazione che echeggiò nelle vicine selve: ben 19 briganti caddero morti per molte ferite di sciabola, una donna nell'oscurità della pugna rimase estinta al fianco del suo drudo, e 15 dei briganti che non poterono fuggire perché gravemente feriti, rimasero prigionieri della truppa.

È straordinario l'avvenimento che con ottanta soli uomini, il coraggioso colonnello Balzani potesse sbaragliare 200 briganti e altrettanti coloni di quel villaggio, che combatterono al fianco dei medesimi, ma ciò che è più strano si è il fatto, che non uno dei soldati componenti quella colonna d'attacco, avesse ricevuto una ferita di rilievo, come ciò potesse accadere non so, ma quando penso, che i nostri soldati difendevano una causa giusta, ravviso in tale fenomeno un decreto della provvidenza.

Comunque andasse la cosa, è in tal modo che il colonnello Balzani pose ad effetto i propositi di vendetta, da lui fatti dopo il doloroso avvenimento della masseria di Stornarella.

Appena giunto a Campobasso venni a cognizione dei fatti che ora ho riferito, e fu allora, quando dal capoluogo di provincia fui mandato colla mia compagnia a Casacalende, per ivi prendere in consegna e scortare fino alle prigioni di Campobasso trenta detenuti per delitti di camorra e di malandrinaggio.

Quando il Sindaco di Casacalende  fece aprire le prigioni per consegnarmi quei brutti ceffi di uomini, fui costretto di domandargli un mezzo di trasporto per la ragione che quattro dei miei soldati erano caduti improvvisamente ammalati: infatti il solerte capo di quel municipio mise a mia disposizione un comodo carro, tirato da due robuste mule.

La strada che dovevamo percorrere era fiancheggiata da monti selvosi, e siccome era quella medesima che avrebbero dovuto necessariamente fare i briganti nel loro passaggio dal Molise alle Puglie, così era molto probabile per noi l'essere fatti segno ad una imboscata.

Ed invero, circa un anno avanti, a Centocelle, campagna ad uso di osteria, che si trova a metà di quello stradale, il toscano sottotenente Guerri, ed un bassufficiale, ancora esso del 36° reggimento, caddero in un agguato di briganti, i quali, dopo che ebbero loro in molti terribili, ed osceni modi seviziati, li trucidarono entrambi.

Il giorno, in cui dovevamo percorrere quel periglioso cammino, era assai cattivo tempo, ed una fitta pioggia a vento, mentre ci spruzzava il viso di gelida acqua, dalle inzuppate uniformi trapassava sino alle nostre membra, che incominciavano ad irrigidirsi.

Ciononostante, per circa a sei miglia, fu da tutti eseguita una marcia regolare, ma quando fummo arrivati poco meno che in vetta ad una scabrosa salita, ai di cui lati erano forti macchie, i trenta nostri prigionieri, tutti in un tempo medesimo, si gettarono per terra protestando di non potere, per la stanchezza, proseguire il loro cammino.

Noi non eravamo obbligati di prestar fede a quanto essi dicevano circa la loro insufficenza di forze fìsiche, ognivoltaché l'apparente robustezza, e la ingenita malafede di uomini nefandi come costoro, ci induceva ad opinare tutto il contrario di quanto eglino cercavano asserire.

Eppoi era facile il capire, come, col dichiararsi inabili a proseguire la marcia, epperò col sostare ivi alquanto di tempo, costoro rendevano possibile l'unica probabilità di salvezza o di evasione, che loro rimanesse; la probabilità di un nostro scontro con i briganti, i quali nell'attaccarci da vari punti, con quell'improvviso parapiglia avrebbero potuto agevolare loro il modo di darsi alla fuga.

Perciocché, malgrado le forti spinte, nonché le spesse e sonore nerbate, che per mandarli avanti venivano loro asinescamente consegnate, costoro con sinistro intendimento si fingevano lassi ed avviliti in modo da starsene a giacere sull'umida terra.

Sembra impossibile a credersi, ma neppure qualche spunzecchiatura, che venne loro fatta colle punte delle baionette, valse a rimoverli dalla presa determinazione di infingersi ammalati.

Intanto la stagione imperversava, ed un accumularsi di nubi, sempre più vicina ne minacciava la tempesta; malgrado ciò essi perseverarono a simulare così bene l'apparenza di un deliquio, che prendevansi sulla pancia quella pioggia, come se fossero stati corpi mummificati.

L'impazienza incominciava ad impadronirsi di noi, il tempo passava, la sera si approssimava, e ci trovavamo ancora lontani dalla meta del nostro itinerario.

Come rimediare?

Il sottotenente Bacci mi esternò il di lui parere, che era quello di lasciarli ivi a buono, passando loro per le armi; ma io non volli addossare alla mia coscenza tale delitto, non trovandomi legalmente autorizzato a dar loro la morte.

All'improvviso una felice idea, non so da quale arcana intelligenza, mi venne suggerita, Ecco quale: —

Il carrettiere aveva portato con sè due lunghe funi, ed un canapo per servirsene ad assicurare sul carro il carico di mercanzie, che si era proposto di fare nel suo ritorno a Casacalende.

Ordinai allora ad alcuni dei miei soldati di legare con una di quelle corde i detenuti a due per due, e di poi fattili assicurare al grosso canapo, con l'altra corda feci attaccare mediante una cappia l'estremo capo della canapella alla traversa posteriore del carro.

L'operazione fu eseguita con precisione e sollecitudine, ed i maleideati prigionieri si fecero annodare i polsi senza proferire una parola.

Quando tutto fu in pronto, ordinai al vetturale di frustare le mule, cosa che egli fece immediatamente, ed infatti con facilità quegli animali smossero il carro, sebbene trattenuto da tale ammasso di carnaccia.

Quelle gagliarde mule dovettero lottare con la forza opposta di trenta uomini robusti, che avevano dalla loro il vantaggio di una ripida salita; ma ciononostante poterono prendere il mezzo trotto, e quando furono arrivati alla discesa, divenne comico il vedere i corpi di quei finti ammalati, trabalzare fra i radi ciottoli della via. come balle di cotone.

A questo brutto scherzo, che non si aspettavano, quei malandrini così gridavano:

— Per san Gennaro, trainante ferma, che aggiamo a cammenà. —

Frattanto tentavano di alzarsi in piedi, ma non era possibile, onde si incrocicchiavano le gambe, si tiravano pedate a vicenda, sempre invocando l'aiuto della Maronna e di san Gennaro.

Feci passeggiar loro in così disagevole guisa per un centinajo di metri, e fortuna per essi che ordinai alto a tempo, poiché in caso diverso sarebbero passati sulla ghiaja sparsa nella strada, ed in tale ipotesi non troppo facilmente avrebbero potuto da se stessi risollevarsi dal suolo.

Allorché, fra le risate dei militi fu fermato il traino, costoro, sebbene contusi, indolenziti, e completamente graffiati nelle angolose facce, tutti e trenta, come per scatto di molla, in un tempo solo si alzarono da terra; e quando domandai loro se si sentivano in grado di proseguire la marcia, con un collettivo e sonoro sì, tutti quanti mi assicurarono che mai più non avrebbero rinnovato simili scene.

La nostra gita non ebbe altro inconveniente all'infuori di quello ora narrato; arrivammo prima di notte a Campobasso, ed ivi, dopo avere consegnato al direttore delle carceri quei delinquenti, andammo alfine ad asciugarci, ed a prendere il necessario riposo.

Sul declinare dell'anno 1862 tutte le speranze della reazione borbonica si posavano sulle instabili sorti delle diverse bande brigantesche.

Gran parte di esse si erano ritirate nel territorio che si rinchiude fra i fiumi denominati il Fortore, il Biferno, ed il Trigno o Cigno: ivi, talvolta si frazionavano in squadriglie, tal'altra si nascondevano in certi sotterranei da pochissimi conosciuti, e non mancava occasione in cui i più di loro acquattassero le armi, ed indossassero le vesti di pastori o di bifolchi.

Intanto ancora il famoso Borjes unitamente allo scarso drappello dei suoi seguaci di avventure, fra Tagliacozzo e quel di Matrice, fu catturato e passato per le armi da una colonna mobile di bersaglieri.

Cosicché fra il Molise, la Capitanata, e le Puglie di Foggia, si aggiravano circa seicento briganti a cavallo — sul monte Gargano altri duecento a piedi capitanati dal famoso bandito Gatta, orbo da un occhio — e sul versante adriatico in quel che si estende sino all'Abbruzzo Citeriore, un'altra banda di circa trecento masnadieri comandati dal famigerato Angiolo Maria del Sambro, da Crocco e Luca Pastore.

Altre piccole frazioni di briganti a piedi scorazzavano dalla Basilicata agli Abruzzi, e talvolta si avanzavano entro la provincia di Terra di Lavoro; onde girando alle nostre spalle avevano il doppio scopo di richiamarci in lu o ghi macchiosi e disagevoli, e di farci allontanare dalle aperte campagne e dalle pianure, dove le grosse bande a cavallo tentavano decisivi colpi di mano.

Non si anderebbe molto lontani dal vero se si giudicasse, che in quell'epoca per le province di Molise, Abruzzo, e Puglie, si annoveravano circa duemila uomini che tenessero ancora la campagna.

Nè era più possibile loro, come lo era stato negli anni decorsi, che nuove reclute del brigantaggio potessero arrivare a loro dalla frontiera pontifìcia, ogniqualvoltaché,

lungo i confini dell'ex-Stato Romano, vi era un valido cordone di truppe francesi, le quali, non solo impedivano il passaggio della frontiera alle persone sospette, ma spesse, volte facevano delle perlustrazioni sino entro il territorio italiano, cercando d'inseguire le bande brigantesche che avessero accennato di riparare nelle apostoliche macchie.

Ed infatti, dopo che l'intiera Italia ebbe dimostrato vero senno politico nel rimanere impassibile allo svolgimento dei lamentevoli fatti di Sicilia, che ebbero termine colla sciagura di Aspromonte, l'impero francese sempre più si pronunziò con fatti per la politica unitaria italiana.

Laonde, tranquillizzate le nordiche e centrali province della penisola, e perciò cementata la fede nazionale ancora nelle popolazioni meridionali, alle nostre truppe non rimaneva altro compito che quello di distruggere le poche centinaja di sanguinari briganti, i quali, avvedutisi in quell'epoca che gli abitanti dei paesi non volevano più saperne dei tentativi di reazione, avevano messo in pratica una nuova tattica, quale era quella di suddividersi in piccole bande oggi, per piombare domani in grandi masse su qualche isolato distaccamento di truppe, e massacrarlo.

Ma che tipo avevano quei masnadieri?

La descrizione fattane dai novellisti circa le bizzarre fogge di vestire che essi adopravano, sono, più che altro, effetto di una feconda immaginativa.

Costoro non indossavano costumi strani e fantastici, ma procuravano invece di essere provveduti di quel meglio che potesse loro far comodo nel rigido inverno.

Ve ne erano alcuni completamente vestiti di panno nero, con lungo mantello di simile stoffa, e con in testa certi cappelli duri a larghe tese, sopra le quali spiccava attorno un rosso nastro; e questi, che erano i più uniformi, portavano appesa al petto una piastra d'argento coll'effige dell'ex-re Francesco II.

Ve ne erano poi di quelli così privi di vestiario, che si trovavano in maniche di camicia e cavalcavano a bisdosso, come ve ne erano alcuni che apparivano vestiti delle tuniche o dei cappotti dei soldati e carabinieri da loro uccisi.

In fine dei conti poteva ritenersi, che, quanto più lungo era il tempo da che facevano lo scellerato mestiere, tanto meglio fossero equipaggiati.

Nè tutti si trovavano egualmente bene armati, ché se alcuni, forse i più, erano provveduti di eccellenti fucili a doppia canna o di carabine a percussione, ve ne erano però molti che portavano addosso dei pessimi fucili ad una canna di corta portata.

Si distingueva in essi un vero mosaico di colori nel vestire, ed un disparato modo di armamento, cose che stavano a denotare la loro raccogliticcia provenienza.

Come già ho detto le bande a cavallo avevano una sola cosa, che stava a dimostrare certa tal quale uniformità, ed era la bianca bisaccia a doppie tasche, che tenevano sulle groppe delle loro cavalcature.

Quella specie di sacco in tela dialona, era l'indispensabile compagno delle loro avventure, e serviva ad essi come di ripostiglio per tutto quanto poteva occorrere loro per i bisogni della vita, come per tutto ciò che potevano carpire, svaligiando or l'uno or l'altro passeggiero.

Da alcuni briganti fatti prigionieri si potette avere una chiara idea dello strano miscuglio di cose che erano riposte in quel sacco di rapina; vi si contenevano alla rinfusa libri, candele, filacce, pane diseccato, formaggio, polvere da schioppo, stampini da projettili, lastre di piombo, carta per cartucce e per scrivere lettere minatorie, lapis, calze, camicie da donna per fare bende o filacce, posate d'argento, monete di diverso metallo, calzature di varie forme, fusciacche, nastri, necessario per scrivere, bottoni, filo, forbici, e molti altri bizzarri oggetti che completavano gli articoli del brigantesco corredo.

Ancora il bel sesso fra costoro era caratteristicamente rappresentato, ché molte drude e più figlie o mogli fuggiasche seguivano i loro diletti, seppure fossero ribelli alle leggi: la più leggendaria fra tutte fu la famosa amante del capobanda Caruso, la quale fece graziare della vita un soldato della 13a compagnia, il quale, come vedremo in appresso, insieme ad altri quindici soldati del 86° reggimento, rimase per qualche tempo in mano dei briganti.

Ecco quanto ci raccontavano di questa brigantessa, il sergente Sista ed i suoi compagni quando a noi ritornarono.

«In uno dei piccoli paesi del versante adriatico, in quello che si chiama Casalvecchio, nacque nel 1845 una donna, che da zitella fu di carattere dolce, ma risoluto, amante ma intollerante il giogo dell'amore, affezionata, ma fiera.

Aveva la carnagione olivastra, gli occhi scintillanti, la chioma nera e cresputa, le ciglia folte, il naso aquilino, le labbra prominenti, il profilo greco.

Questa vezzosa albanese (1) fii dalla famiglia data in sposa ad un impiegato civile addetto alla cancelleria dei tribunali.

Erano opposti di carattere, ché quell'uomo di tavolino era tutto ordine e tranquillità, e mentre dimostravale molta affezione, era sempre geloso, ancora senza giusti motivi: ella invece era indipendente, non curante di lui ed amante del disordine.

La Filomena (che tale era il di lei nome di battesimo) abitava collo sposo la città di Foggia, e più specialmente una modesta casa dei suburbi.

Nelle lunghe ore, durante le quali ella rimaneva sola in casa, per essere il di lei marito confinato all'ufficio, non poteva affacciarsi alla finestra nemmeno per un momento, senzaché, saputolo il di lei sposo, non la rimproverasse, e qualche volta non la percuotesse; non poteva andare alla messa, al teatro, o al passeggio altroché ad occhi bassi, come sogliono camminare le monache.

(1) Si chiamano albanesi quelle che nascano nei paesi lungo l'Adriatico che sono di origine grecoalbanese.

Insomma ella, che si intendeva assai del bello e del buono di chi incontrava o conosceva, non poteva impunemente guardare in faccia alcuno.

Era per lei un vero martirio!

Vi fu un giorno in cui la tormentata moglie venne dal marito battuta solo perché le scappò detto, che un tale a lui inviso, e che le faceva un'innocente corte, era un uomo simpatico.

Otello le mise al solito, con poco garbo, le mani sul viso, ma questa volta Desdemona si tolse fuori dalla chioma il lungo spillo d'argento, e lo ficcò per due volte nella gola al tiranno marito, il quale cadde sul pavimento intriso nel proprio sangue.

La Filomena, senza volerlo, perché accecata dall'impetuosità del proprio carattere, divenne omicida, onde è che, per non marcire in una prigione, fuggì per la aperta campagna, così come si trovava per casa.

Andò errando per due giorni di casolare in casolare, finché non le fu dato internarsi nel bosco di Lucerà; ivi dormì sotto un cielo umido la intiera notte, sdraiandosi sopra un monte di secche foglie di albero.

L'indomani avvertì il sibilo dei briganti, e non tremò; ne vide luccicare i moschetti, e dirigersi verso di lei coi galoppanti cavalli,  né si spaventò per tutto questo.

Filomena non era una Pantasilea, ma del coraggio ne aveva.

La vagabonda beltà si imbattè nella banda di Caruso, e fu da quei masnadieri tratta prigione.

In dosso non aveva cosa alcuna di costo,  né poteva pagare il proprio ricatto, e l'argenteo spillo, unico monile da lei posseduto, lo aveva lasciato confitto nelle fauci del suo affezionato persecutore.

Caruso la vide, e la seppe sì ferocemente leggiadra: era la donna che ci voleva per lui; se ne innamorò.

Egli era vecchio di fronte a lei,  né era bello. — Non importa, appariva robusto, e Filomena lo amò nel modo stesso che avrebbe amato un avvenente giovane.

— A me un cavallo — gridò la brigantesca Giunone — e sottomessasi al corpo la gonna, ne inforcò uno dei più indomiti, per caracollare al fianco del suo nuovo e temibile compagno.

Le tede di quel secondo suo letto furono i crepitanti incendi dei casolari colonici, che non servivano la reazione, e la diletta metà dell'estinto cancelliere passò a seconde nozze, bevendo sangue e vino nel teschio di un bersagliere da poche ore trucidato.

Alla prova di tanta crudeltà, ciascun gregario della banda di Caruso le prodigò tutte le cure immaginabili, e nei momenti felici per quegli assassini, e terribili per le sciagurate vittime del brigantaggio, i più giovani masnadieri in segno di trionfo, con pifferi e nacchere, ballavano la tarantella, per tenerla allegra. .

Appena si faceva notte quegli uomini feroci, tramutati a di lei riguardo in cortesi cavalieri, disponevano sopra ad un monte di strame varie pelli di agnello e di capra, per preparare un caldo e soffice letto a donna Filomena.

E quando la loro signora aveva volontà di cibi delicati, ciascuno di essi briganti, a rischio della propria vita, andava a requisirli nei villaggi più esposti alle visite della truppa.

Insomma era ella divenuta la vera regina delle selve, ché ognuno dipendeva dai di lei cenni, e nessuno si azzardava di farle una proposta meno che onesta: le volevano tutti indistintamente un gran bene, ma un bene da fratelli, e non da briganti come erano.

Costei dal canto suo sapeva farsi ben volere; era a cognizione di tutti gli intrighi amorosi dei giovani seguaci del suo Caruso, e volentieri ne mitigava gli ardori, come ne consigliava la prudenza, e quando quelle verdi speranze della reazione tornavano a lei malconci dai projettili dei scomunicati militi piemontesi, ella ne curava le ferite sovramettendovi una sottilissima lamina di piombo, delle filacce e delle bende.

Ancora Crocco era innamorato della Filomena; Caruso lo sapeva, ma sapeva altresì, che l'amore del suo collega era un selvaggio sentimentalismo politico.

Crocco era più giovane e più bello di Caruso, ma quando il primo faceva la corte a donna Filomena, protestava di non amare in lei la femmina, ma l'eroina della buona causa.

Caruso stava a sentire queste proteste del suo compagno d'armi con animo sereno, ma quando qualche lampo di sospetto gli si affacciava alla mente, tantosto la di lui mano, come, per moto involontario, correva all'elsa del ricco pugnale di Toledo, che teneva fra le spire della fusciacca turchina, di cui aveva ricinta la taglia.

Un tal giorno la banda di Crocco svaligiò fra Foggia e Lucera certo disgraziato merciajo, che tra le altre cose, portava alla fiera di Foggia una cassa contenente molte papaline di panno rosso e con nappa turchina, come si usano in Egitto.

Tutti i componenti la masnada ne presero una per ciascheduno, e se la misero in capo, in luogo dell'incomodo cappello cosi detto a scosciacavallo.

In mezzo a tutte quelle berrette, ve ne era una di pari forma e di eguale stoffa, ma che era trapunta all'intorno con ricchi arabeschi, fatti con filo dorato, e che invece della nappa di seta ne aveva una in fili d'oro.

—Questa e pel generale — dissero unanimi tutti i briganti. —

Ma Crocco la ripiegò in quattro, e ricopertala con foglio di carta velina, se la mise nella carniera, cosi rispondendo ai suoi seguaci:

—No! Questo sarà invece il dono, che io farò a donna Filomena. —

Infatti appena la brigantesca comitiva fu ritornata nel bosco della Grotta, ed ivi si riunì alla banda di Caruso, il cortigiano Crocco andò dalla Filomena per offrirle tal prezioso presente.

Ella si mostrò lieta di accettar e il dono, ma, prima di ciò fare, guardò in viso il proprio amante, per scrutarne l'impressione.

Di minuto in minuto la fisonomia di Caruso si fece più torbida, sinché divenuto furente per gelosia, snudò il cangiar e si pose in guardia, ravvolgendo il mantello intorno al braccio sinistro.

Ancora Crocco fece lo stesso, e fortuna per essi contendenti che avevano lasciato sull'erba, a qualche passo di distanza, le loro armi da fuoco.

—Io non aggio paura di te — cominciò Caruso. —

—E io t'aggio a accidere — rispose Crocco.

Intanto si stendevano sulle agili membra, e si indagagavano vicendevolmente i moti ed i passi, per scagliarsi l'uno sopra dell'altro.

In questo frattempo Filomena gridò all'ajuto, entrando in mezzo ai combattenti come pacera, ed insieme ad essa intervennero nella briga meglio che ducento braccia di ferro, che tennero a forza discosti l'uno dall'altro i litiganti.

Impallidì la brigantessa, e resa la papalina a Crocco così gli disse:

—Riprenditi il tuo regalo, non voglio che tale oggetto sia causa di discordia fra voi. —

Venne riconsegnata al proprietario la berretta ricamata in oro, ed egli per la stizza la fece, coi denti, in minuti brani.

Allora donna Filomena volle ad ogni costo che si riconciliassero, ed alle di lei preghiere tutti e due vi si prestarono volentieri: fu manomesso all'uopo un intiero barile di eccellente vino bianco, del quale, tanto Caruso quanto Crocco, ne bevvero in tale dose, da divenirne ubriachi.

Quando furono completamente in tale stato, passarono loro le idee di gelosia, e subentrarono quelle del primato nel valore individuale.

—Io ho più coraggio di te — diceva l'uno. —

—Di te ne prenderei dieci — rispondeva l'altro. —

—Sei una carogna. —

— Sei un vile. —

E via di seguito si offendevano e si rampognavano a vicenda, fino al punto di ritornare ai lunghi pugnali. Allora interloquì Filomena cosi esprimendosi:

—Siete tutti e due valorosi, ma non dovete mica dar prova del vostro coraggio l'uno a danno dell'altro; fa d'uopo invece dimostrare ai piemontesi, che nissuno di voi due ha timore di costoro.

—E come far ciò? — domandarono balbettando gli ebri capibriganti. —

—È cosa facile — rispose la brigantessa; e poi così riprese:

—Su al paese di Santa Croce di Magliano vi è oggi una compagnia del 36° reggimento; adesso sono circa le quattro pomeridiane, e la truppa sarà a zonzo per Santa Croce; malgrado ciò dovete andare assieme sino al giardino dei signori De Matteis, ed ivi cogliermi un fiore per ciascheduno. — Questa si chiamerebbe una vera prova di coraggio. —

La brigantessa non ebbe finito di proferire tali parole, quando i due capibanda montati che furono in sella, misero le loro cavalcature alla carriera spiegata, e si diressero, rapidi come il vento verso Santa Croce di Magliano, paese del tutto sprovvisto di mura.

Alle ore quattro e mezza, le strade sterrate di quello scosceso paese offrivano uno strano spettacolo.

Due forsennati cavalieri montavano dei focosi destrieri, che, sebbene grondanti sangue da più parti del corpo, nonostante saltavano sopra tutti gli ostacoli che si frapponevano a loro.

Come i mitologici centauri avrebbero corso per le selve di Malea, cosi quei cavalieri traversarono celeri la via centrale di quel paese» dopo essersi soffermati appena un minuto nel giardino De Matteis.

Un nuvolo di fumo, ed una vera grandinata di projettili avvolgevano ed incalzavano loro; ma da dovunque fossero stati ad essi diretti i colpi di moschetto, o dalle finestre, o dalle botteghe, dalle porte delle case, o dagli abbaini, nissun colpo dei novanta soldati, sparsi per quelle contrade, fu esiziale per essi.

Gli audaci guerriglieri poterono in tal guisa riguadagnare il dirupato sentiero, che da Santa Croce conduce fino al bosco della Grotta;

qualunque altra cavalcatura nel correre fra quei precipizi si sarebbe fracassate le ossa, ma quei cavalli scelti in mezzo a centinaja, e così bene da essi ammaestrati, in pochi momenti divorarono incolumi le tre miglia di ripida discesa.

Crocco e Caruso, sempre brilli, ritornarono presso la diletta loro Filomena; ambedue le depositarono in grembo tanti fiori, per quanti ne sarebbero entrati in un canestro, ma le bianche foglie delle cardenie erano macchiate in rosso dal sangue, che si versava dalle molte eleggere loro ferite.

Furono quelle ferite prima ben lavate col vino, e poi medicate dalla brigantessa, divenuta già abile infermiera; ciò fatto, in mezzo ad una generale allegria, fu brindato all'amore ed al valore dei difensori della legittima causa. »

Ai diciassette ottobre avrei dovuto partire per la mia nuova destinazione insieme al capitano Crema, che ancora questa volta aveva rimediato la faccenda, ed aveva ripreso il comando della 16 compagnia; ma un incidente del tutto nuovo, mi costrinse ad abbandonare per sei giorni il mio posto.

Si trattava di dovere scortare sino a Napoli un certo ufficiale di piazza, che era sotto processo per favoreggiamento al brigantaggio.

Di questo servizio straordinario il maggiore Dalmasso domandò a tutti noi subalterni, chi se ne volesse prendere l'azzardoso incarico, servendosi di tali precise espressioni:

«Io domando che qualche ufficiale di buona volontà fra i signori luogotenenti e sottotenenti del mio battaglione, faccia più del proprio dovere, accompagnando a Napoli il detenuto politico signore V... luogotenente a questo comando di piazza.

«Nè posso nascondere a colui che si sobbarcherà a tale straordinario servizio, come, dovendo egli percorrerere circa sessanta chilometri di strada infestata dai briganti, molto facilmente correrà il rischio di essere catturato da qualche piccola banda. Ma ad estremi bi«sogni occorre supremo ardire, onde mi lusingo, che alcuno di loro sarà per darmi prova di tanto zelo e coraggio.»

Quando il Dalmasso ebbe terminato di cosi esprimersi, di quindici ufficiali subalterni del battaglione, sortì fuori il sottotenente Borgomanero di Milano (che era già stato uno dei mille di Marsala) il quale si esibì per tale accompagnatura.

Tuttociò avvenne alle 10 del mattino, ma alle 2 pomeridiane il predetto sottotenente avea mandato al maggiore un suo biglietto, dove si dichiarava ammalato, (e difatti lo era) e quindi impossibilitato di adempiere all'assuntosi incarico.

Alle quattro pomeridiane di quello stesso giorno incontrai per Campobasso il maggiore, tutto imbarazzato per tale imprevedibile malattia sopraggiunta al Borgomanero: e nell'accompagnarmi verso la caserma dove io ero diretto, mi fece capire, che la sua posizione era molto compromessa di fronte al comando generale di Napoli, a cui aveva già telegrafato, che 1 indomani mattina il detenuto tenente sarebbe stato, senz'altro, tradotto in quella città, per essere messo a disposizione del tribunale militare accompagnato da un solo ufficiale del 36°.

Il mio maggiore, col farmi tali proteste, in certo qual modo mi invitava a supplire nell'incarico già affidato a Borgomanero, e per quanto non potessi essere obbligato a fare ciocché con bel modo mi chiedeva, volli esibirmi spontaneo a tale pericolosa missione.

Infatti alle sei e mezza di quella stessa sera, una carrozza chiusa, tirata da tre buoni cavalli, si trovava alla porta di casa mia, ed un quarto d'ora dopo, accompagnato dal capitano dei carabinieri e da un altro ufficiale di piazza, giungeva il tenente V... che era in uniforme, ma disarmato.

Io ero vestito in borghese e nell'interne tasche del mio soprabito tenevo il revolver d'ordinanza, che molto facilmente avrebbe dovuto servire prima per il mio prigioniero, e poi per me.

Feci mettere il captivo ufficiale nel posto di dietro della vettura, ed io mi collocai sul davanti a lui dirimpetto, e poiché ebbi fatto ben chiudere gli sportelli dal di fuori, ordinai al vetturino di trottare verso Maddaloni.

I cavalli spiccarono un concludente trotto, e la nostra vettura, in mezzo a nuvoli di polvere, si addentrò rapida nelle selve del Molise, percorrendo la via provinciale che da Campobasso arriva fino a Maddaloni.

Quando mi trovai a quattrocchi col collega di grado, affidato alla mia custodia, così gli dissi:

—Prega Iddio che i briganti non si accorgano di questo nostro viaggio, ché se dovessimo aver da fare con essi, tu, o amico mio, dovresti precedermi di qualche minuto secondo nel grande transito; — ed in così dire gli feci vedere la canna del mio revolver, sopra all'impugnatura del quale tenevo sempre posata la mia mano destra.

Egli mi rispose che confidava nella di lui innocenza, e che quanto me aveva da temere di un fatale incontro coi briganti: al che in tal modo io gli risposi:

—Se quei signori fermassero la carrozza, a me toglierebbero la vita, quando in ciò non prevenissi loro, ed a te darebbero la libertà. —

Egli allora replicò:

—Non credo che anderebbe liscia nemmeno per me, perché, con questa uniforme addosso, sarei forse il primo ad essere taccareato. —

—Ma se tu sei daccordo con loro — gli feci osservare. —

—Menzogne, — egli mi rispose — tutte menzogne state dette e scritte nelle false denunzie a carico mio.

—Dio voglia che sia cosi — finii col dirgli — intanto stattene buono e tranquillo lì nel tuo posto, ché al primo accenno di fuga, che mi darai, son qui a farti saltare in aria le cervella.

—Non ve ne incaricate — mi rispose il reazionario, e ciò detto, o finse dormire, o si addormentò di fatto.

Era molto probabile incontrare una qualche banda di briganti, ma ormai mi ero messo l'animo in pace, e se ciò disgraziatamente fosse accaduto, non mi rimaneva altro da fare, sennocché scaricare nelle tempia dell'ufficiale un pajo di colpi, e con i residuali della mia rivoltella suicidarmi.

Rimaner vivo in mano ad una banda di quegli assassini, sarebbe stato lo stesso che offrirmi a tanti martirii, per poi morire tra gli spasimi; lottare da solo contro di essi sarebbe stata cosa inutile, come meglio adunque sortire da quella funesta posizione, se non con un suicidio?

Tutte le volte che per l'incontro di altri trainala vettura doveva soffermarsi, mi sentivo una stretta al cuore, e fattomi a guardare da dietro i vetri degli sportelli, quale si fosse il temuto incontro, soprapponevo il mio indice al grilletto dell'arme, per porre ad effetto la tremenda risoluzione,

Ancora il mio prigioniero trasaliva ad ogni rumore che avvertiva farsi all'esterno della vettura, e fedele alla promessa fattami se ne rimaneva ivi immobile, contentandosi di domandarmi — che cosa è mai? —

Io gli rispondeva — nulla per ora — ma era un vero miracolo se fino a quel punto eravamo scampati dalle grinfie dei briganti.

A Morcone il vetturino aprì lo sportello della carrozza, e mi disse essere necessario di trattenersi ivi una ventina di minuti, per far ribadire i ferri ad uno dei cavalli, che nel trottare più a lungo malferrato siccome era, si sarebbe tagliato nei garetti: io gli dissi che facesse tale necessaria operazione, ché del tempo ne avevamo ancora a sufficienza per arrivare al primo treno da Maddaloni a Napoli.

Quei pochi minuti di tempo che noi perdemmo per la riferratura di uno dei cavalli, furono quelli che ci salvarono la vita ad ambedue.

Infatti, quando sul far del giorno fummo arrivati al magnifico ponte di ferro sul fiume Volturno, che si trova prima di giungere all'altezza di Solopaca, rinvenimmo ivi i morenti resti di un largo fuoco, fatto in modo da potervisi riscaldare in più persone.

Domandai alla guardia del ponte, ad uso di chi era servita quella semispenta pira, ed egli mi rispose che era stata fatta da ventiquattro briganti a cavallo, i quali quindici minuti prima del nostro arrivo, dopo essersi bene riscaldati a quelle fiamme, si erano incamminati verso la montagna del Matese prendendo pel trottojo che era sulla nostra sinistra.

Ed ecco come spiegasi che, se non era la nostra accidentale fermata a Morcone, non sarebbero stati certamente scritti tali ricordi.

Ordinai allora al vetturino di proseguire il nostro viaggiò con la più possibile celerità, ed in fatti prima delle sette del mattino ci trovammo alla stazione ferroviaria di Maddaloni. dove montati in uno scompartimento di 2 classe, espressamente a noi destinato, potemmo miracolosamente giungere sani e salvi al gran comando militare di Napoli.

Vi trovai il capitano di stato maggiore Mocenni, il quale mi pregò di accompagnare il detenuto ufficiale fino sul forte di Sant'Elmo; cosa che compi lamia straordinaria missione, per la quale non mi è mai stato fatto nemmeno un semplice ringraziamento.

Dopo due giorni, durante i quali rimasi in Napoli, per mezzo della diligenza che percorreva lo stradale del Molise, ripartii alla volta di Campobasso, incontrando a Maddaloni il sottotenente Guerrino che era stato assegnato al mio battaglione.

Costui era un uomo mingherlino, nel viso del quale si erano già da molto tempo perdute le tracce di una problematica età.

Mi disse essere nativo di Palermo, provenire dagli ufficiali garibaldini, aver moglie e quattro figli, e però trovarsi fuori del suo posto, nel vedersi destinato alla repressione del brigantaggio.

In quell'epoca appunto furono assegnati ai diversi reggimenti gli ufficiali che venivano dal disciolto esercito dei volontari di Garibaldi; fra questi ve ne erano dei valorosi ma non vi mancava un qualche bello originale sulla specie del famoso tenente Fabbricatore, che prima di essere promosso a quel grado, faceva il cantante.

Costui era una buona pasta d'uomo, ma egli stesso conveniva con noi, che alla sua avanzata età di oltre i cinquanta anni, non gli era più possibile lo imparare il mestiere delle armi.

Infatti non so se messo di mezzo dai sarto, o da qualche burlone, ma è un fatto che si fece confezionare un cappotto di panno bianco, e con quello in dosso si presentò al rapporto.

Sembrava un ufficiale degli Ulani, cosicché nel vedere quell'ameno collega in quello stato, fu un generale riderci di lui; e come poteva essere diversamente?

Non conosceva, nemmeno i principj delle istruzioni militari, dimodoché il maggiore Dalmasso, in quei due o tre giorni, che precedettero la mia partenza per Santa Croce di Magliano, mi pregò di formare un plotone composto degli aggregati e dei convalescienti, che si trovavano ancora in Campobasso, all'oggetto di insegnare al prelodato Fabbricatore i primi rudimenti della scuola di plotone.

A tale oggetto gl'imprestai il mio libro della teoria affinché lo studiasse e si preparasse per le esercitazioni.

Alle ore sette del mattino egli venne a casa mia e mi disse che era completamente al caso di comandare il plotone.

Io mi congratulai seco lui, e gli suggerii di incominciare dal fare aprire e serrare le righe, e quindi comandare il maneggio delle armi.

Fabbricatore denudò il suo brando e cominciò nel modo che gli avevo suggerito, ma nel dare i dovuti comandi, mise fuori una strana cantilena, che fece ridere tutti i soldati; ordinava il presentat'arme collo stesso tono di cui un tenore si sarebbe servito per cantare un pezzo d'opera.

Allora dovetti convincermi che la sua abitudine di cantare sul teatro era talmente inveterata in lui, che non gli sarebbe stato possibile di ordinare i movimenti con quella vibratezza che si usa in piazza d'armi, perloché lo pregai di prendere il comando della la squadra, ché le evoluzioni della mezza compagnia le avrei comandate io stesso.

Ma egli non sapeva quale fosse il posto di comandante la la sezione, onde girava in qua ed in là, senza sapere dove posarsi e domandando ai soldati — dove m' aggio a mettere. —

Fu collocato al suo posto, e mentre se ne stava impettito e sospettoso, attendendo i diversi comandi, cercava di apprendere dai soldati che gli stavano più vicini, quale sarebbe stato il suo dovere in un movimento qualunque.

Mi accorsi che non era ancora al caso di potere comandare la sua squadra, e mi condussi da lui per istruirlo di ciò che doveva fare in un movimento: egli così mi rispondeva: — aggio capito a sufficienza — ma in realtà non aveva capito nulla.

Volevo mettere il plotone in colonna di squadre, ed appena ebbi ordinato un tal comando di prevenzione, bisognò che prendessi per un braccio Fabbricatore e lo collocassi avanti la sua sezione.

Al comando marche la prima squadra fece da sè stessa il di lei quarto di conversione, ma Fabbricatore che vide i soldati muoversi contro di lui, alzò in aria la sciabola e cominciò a fuggire per la piazza d'arme gridando alto, alto!

A tale incredibile ma pure verissima scena, i borghesi che assistevano alla nostra manovra, ed indistintamente tutti i militi e graduati, risero a crepapelle.

Per quel giorno furono cessate le esercitazioni un'ora prima del solito; quella bizzarra avventura aveva bandita da noi là necessaria serietà, e ritornati in caserma riferii il tutto al maggiore, dichiarandogli, che quell'ufficiale nuovo venuto non era suscettibile di educazione militare.

Il maggiore allora persuaso che quell'eccellente cittadino non avrebbe mai potuto portare alcuna utilità alla repressione del brigantaggio, ne scrisse in proposito alla divisione, e dopo pochi giorni il caro Fabbricatore fu ben lieto di sapersi traslocato ad un comando di piazza.

Profittando della scorta, che mi offriva un drappello della 13a compagnia, il quale nell'andare a Larino per la via più breve, passava da Santa Croce di Magliano, raggiunsi la 16 compagnia distaccata nel predetto paese di Santa Croce.

Ritrovai ivi il capitano Crema eccitatissimo, ed in collera con tutti; era dolente di non potere terrorizzare a suo beneplacito, come avrebbe voluto, ma gli riusciva di conforto la idea di potere far fucilare un altro brigante, onde appena arrivato cosi mi disse:

— Domani col 2° plotone io mi porterò alla masseria Melanico presso il bosco della Grotta, ed ella si recherà col primo plotone a San Giuliano per fucilare un brigante che nella decorsa notte fu preso dalla guardia nazionale.

Se il turno di servizio assegnatomi dal ridetto capitano, non fosse stato faticoso, lo avrei pregato di dispensarmi dal medesimo, ma poiché si trattava di dover fare in un solo giorno oltre trenta chilometri di strada, si sarebbe potuto credere, che io trovassi quella scusa per avere il comodo di riposarmi.

A male in cuore l'indomani mattina da Santa Croce mi posi in camolino verso San Giuliano, da dove poi dovevo raggiungere il 2° plotone alla ridetta masseria Melanico.

Dopo tre ore di marcia arrivai allo scosceso e ridente paese che si trova fra le Puglie ed il Molise, e che però viene distinto col nome di San Giuliano delle Puglie.

Ivi giunto pregai il sindaco che mi facesse condurre il brigante, che doveva essere fucilato da noi, e non dalla guardia nazionale, perché la medesima temeva, per parte dei di lui parenti, l'eredità della vendetta.

Quando il giovane malandrino fu al mio cospetto, vidi che egli era più disgraziato che colpevole, onde volli bene indagare dentro i fatti accadutigli, per vedere di ritrovarvi un qualche attenuante da sottrarlo a così immatura morte.

Mi fu condotto da due guardie nazionali al secondo piano dell'ufficio comunale, dove io ero ad attenderlo, e fattolo passare in una sala, ordinai che mi si fosse lasciato solo con lui.

Il brigante aveva un braccio forato da parte a parte da una palla di fucile di una guardia nazionale che era stata appostata come sentinella di un piccolo corpo di guardia, che vegliava all'ingresso del paese.

Quel masnadiero era in groppa del suo cavallo, e di nottetempo si accostava al paese di San Giuliano per potere riabbracciare di nascosto Carmela sua, quando fu fatto segno a quel colpo di fucile che lo gettò a terra, dove fu raggiunto da più militi cittadini, e catturato.

Allorché si riebbe dal dolore della ferita, e da una specie di svenimento avvenutogli pel sangue perduto, avrebbe voluto fuggire, ma era tardi, ché a quell'ora l'intiero paese gli era addosso, sebbene fosse notte avanzata.

Appena trovatomi faccia a faccia con lui, lo feci sedere vicino al tavolo dove io ancora ero seduto, e lo interrogai sul come si era fatto brigante, o su chi ne lo avesse istigato.

Egli mi raccontò che un tal giorno per gelosia della sua Carmela aveva ucciso un amico, e che però era fuggito alla macchia, dove aveva trovato un certo Nardella, che gli aveva procurato un posto di brigante nella banda Crocco.

Gli feci capire che così lisce non potevano essere andate le cose, e gli domandai se alcune persone autorevoli del paese lo avessero spinto a tale malpasso, promettendogli inoltre, che se mi avesse veridicamente denunziato un qualche favoreggiatore del brigantaggio, gli avrei risparmiato la vita.

Ma egli con nobile fermezza sempre così mi rispondeva:

—Nisciuno ci ave colpa, autro che la malvaggità mia. —

—Se così è — gli dissi — preparati a morire. —

Egli allora guardò la finestra a noi più vicina, e poi.

con un supremo sforzo tentò di rompere la cordicella colla quale aveva avvinte le braccia dietro la schiena, agognando forse di potersi gettare nell'orto sottostante, e da lì guadagnare la campagna; ma io lo trattenni e cavata fuori dal fodero la mia sciabola, in tal modo gli dissi:

— Se fai ancora un altro movimento, con questa punta ti caccio via gli occhi dall'orbita. —

A tali parole, accompagnate da atti assai significanti, egli mandò fuori dal petto un sospiro tale, che rassomigliava un ruggito.

Veduto che non potevo rilevare da lui nulla di concludente, per sottrarlo alla morte, bisognò che mi accingessi a compierle il doloroso ufficio, ma prima di ciò fare, gli domandai che cosa desiderava innanzi di andare al supplizio.

Egli mi chiese un piatto di maccheroni, ed una bottiglietta del liquore chiamato centerbe.

Per mezzo del sindaco, che era nella prossima stanza, gli feci portare e gli uni, e l'altra.

Egli mangiò con impareggiabile avidità la sua ultima cena, e trangugiò di un fiato la spiritosa bevanda; di poi, chinato il capo, con voce rauca mi disse: — songo pronto. —

Era un bel giovinotto di circa venti anni, e teneva appesi al collo un breve della madonna, ed una ciocca di nerissimi capelli; a suo modo di vedere per quella immagine aveva combattuto, ed in realtà per quei capelli andava a morire.

Lo feci mettere in mezzo a due righe dei miei soldati, che camminavano ad inclinat arm volevo farlo sostenere da due guardie nazionali, ma esso dopo averle guardate fieramente in faccia, così parlò loro — non ho bisogno di voi, cammino da me. —

Poiché fummo arrivati un miglio fuori del paese, dove era concorsa quasi tutta la popolazione di San Giuliano, feci fare sosta all'espiatorio drappello, ed il moritura, quando si accorse che era quello il suo ultimo momento, guardò il cielo col sorriso sulle labbra. — Si vedeva chiaramente, che gli era stata assicurata la gloria del paradiso. —

Mentre stavo per farlo mettere di fronte ad un piccolo promontorio ed ivi fucilarlo, sopraggiunse un sacro convoglio di preti che accompagnavano il santissimo viatico: sospesi l'esecuzione e feci presentare le armi, come il regolamento prescrive.

Il prete si trattenne per qualche tempo col brigante; gli parlò più volte all'orecchio, e di tanto in tanto gli additava il cielo, mettendogli la destra sul capo, indi lo comunicò, lo unse, ed infine lo abbandonò ai nostri moschetti.

Il compunto sacerdote sene ritornava verso la sua chiesa, cantando le consuete salmodie, e dopo pochi istanti, otto colpi di fucile, tirati sul dorso di quel brigante, lo rendevano cadavere.

Tostoché mi fui assicurato che egli non era più, mi avviai col mio plotone verso il bosco della Grotta, ed il sindaco volle accompagnarmi per oltre mezzo miglio fuori del paese.

Ad un tratto mi si presentò una donna di circa quaranta anni, più somigliante ad una furia, che non ad un essere vivente.

Ella mi chiedeva l'eredità del brigante fucilato, cioè i di lui stivali e gli abiti; io gli domandai perché ella voleva tali oggetti, e con qual diritto, a tali mie domande essa così rispose: — Songo la madre dello brigante, e voggio i panni, per rifarli allo piccirillo fratello sojo. —

Pregai il sindaco di far passare le richieste spoglie a quella snaturata madre, prima che fosse inumato il cadavere del brigante; quindi, congedatomi da quel gentile capo municipale, seguitai il mio cammino.

Era sera inoltrata, e lungo il fiume Fortore mi avviavo coi miei soldati verso il bosco della Grotta; avevo domandato al sindaco una cavalcatura, perché a vero dire, fa quella una delle poche circostanze in cui mi sentissi veramente stanco; ed infatti potetti avere a nolo un eccellente cavallo, sulla groppa del quale me ne andavo passo passo lungo il difficile, oscuro, e scosceso sentiero che dovevamo percorrere.

Avevo al lato sinistro della mia cavalcatura certo caporale Ponzio della valle di Aosta, il quale strada facendo mi narrava le sue avventure della passata vita borghese, diceva che ai suoi paesi, egli viveva da signore col contrabbando che faceva dal Piemonte in Francia,

di più mi raccontava che nel fatto d'armi di Macchiagodena era entrato il primo nei nascondigli dei briganti, e che ivi penetrato, aveva potuto impadronirsi di una grossa lucerna di ottone, cui l'indomani aveva potuto vendere per il prezzo di undici lire; insomma mi faceva capire che trovava un gusto matto nello spogliare gli stessi briganti.

Mentre egli era così intento a farmi simile professione di fede, vedemmo una persona che dalla via da noi percorsa, fuggiva pei campi che si trovavano sul nostro lato sinistro, come se avesse voluto schivarci.

A tale vista Ponzio sospese il suo dire, ed io spronai il mio cavallo per metterlo alla corsa in direzione del fuggente.

Avevo percorso appena un centinaio di metri quando si udì una forte detonazione di arme da fuoco, e contemporaneamente fu da me avvertita come una vampa infocarmi la faccia.

Allora trattenni il mio cavallo, e misi piedi a terra impugnando il revolver, ed infatti appena si dileguò il fumo, vidi ai momentanei bagliori di luna, in parte velata di nubi, che in quel campo maggesato, come un' isola in mare, vi era un solo macchione, dietro del quale mi sembrò che si fosse nascosto quel misterioso individuo, dopo avere sparato il suo fucile contro di me.

Intanto il caporale Ponzio mi aveva raggiunto, e dissemi che aveva veduto il fuggente posarsi nell'indicato macchione, onde egli unitamente a me si avanzò verso il fuggiasco col fucile alla posizione di pronti, ed a cane inarcato.

Io ancora feci lo stesso col mio revolver, e quando ci fummo avanzati di pochi piedi di distanza, scorgemmo la figura di un uomo sortire dall'avvertito nascondiglio; e venire tranquillamente nella nostra direzione.

Ponzio voleva fargli fuoco addosso, ma lo trattenni, ed infatti, ognivoltaché costui non tentava di fuggirci, era inutile lo ucciderlo, senza prima sapere chi veramente egli fosse.

Quando il predetto caporale ebbe pronunziato l'alt chi va là, codesto individuo cosi rispose:

—Ah. siete militari?! Guarda mo che sbaglio! —

—Chi siete voi, e per chi ci avete preso — domandai io. —

—Songo lo guardiano di don Vincenzino Colagrossa, e vi avevo presi per briganti — in tal modo rispose il sedicente guardiano, sempre più avvicinandosi a noi.

Frattanto era giunto il resto del plotone, onde pensai di condurlo con noi alla masseria di Melanico, fosse stato un guardiaboschi, come diceva, o qualche cosa di peggio.

Riprendemmo il nostro cammino; e dopo un quarto d'ora incontrammo un giovane spaccalegne, che col suo somaro carico di frasche da ardere, se ne andava a San Giuliano.

Feci fare alto al drappello, e messo al confronto dei predetto spaccalegne il nostro prigioniero, vidi, che il primo, nel bene osservarlo alla luce di alcuni cerini. ch, e furono a bella posta accesi, cosi esclamò atterrito:

—Maronna mia. isso è Majello (1). . —

Gli domandai allora chi era questo famoso Majello, e quel giovane lavorante dello selve mi rispose:

—È uno birbante che ha acciso a mogliera a colpi di petra, e che mò s'è dato alla campagna. —

Riconosciuto in tal modo per quel furfante che era, gli feci applicare i pollici dal sergente Palmieri, il quale glie li seppe cosi bene serrare, che qualche goccia di sangue spillò dalle di lui dita, e dopo di ciò lo feci tradurre dai miei soldati alla masseria Metanico.

Quando lo ebbi consegnato a Crema, questi si divertì con quella nuova preda, che gli avevo recato, come un gatto suole divertirsi col topo prima di dargli la morte.

(1) Non ricordo precisamente il nome: mi sembra Majello, ma il fatto così avvenne.

Lo legò ad una mangiatoja, di tanto in tanto gli con. segnò delle buone nerbate, lo fece stare una ventina di ore digiuno, e poi lo fece scortare al proprio paese dove venne fucilato.

Ci era venuto l'ordine di passare per le armi i briganti nei loro stessi paesi, e quando a San Giuliano fu fucilato quell'incettatore di briganti ed autore di molti atroci delitti, fu una vera festa popolare;

Egli era brutto, aveva il naso camuso, la bocca storta, e senza un pelo di barba in viso; il di lui sguardo era sinistro come quello dell'iena, la di lui pelle untuosa come l'epidermide di un ippopotamo; nonostante ancora quel mostro amava, ché quando noi lo incontrammo era diretto al suo paese per rivedere la di lui istigatrice allo ussoricidio, che era la bella e versatile Concetta, fattucchiera in amore.

Quasi tutti i giorni, durante i quali rimanemmo a Metanico, tanto io quanto il sottotenente Bacci avemmo delle strane avventure, a descrivere le quali, occorrerebbe empire un intero volume.

Mi limiterò a narrare la seguente:

Premetto che la nostra era una fiera guerra senza quartiere, e quando ci trovavamo petto a petto coi briganti, eglino avevano su di noi ufficiali il vantaggio dell'arma lunga da fuoco, e sui soldati la facilità di schivarli colle loro cavalcature; talché spesso avveniva che due o tre dei più audaci masnadieri si avanzassero alla chetichella fino sotto le nostre fazioni per sparare contro elle i propri fucili, e poi darsi alla fuga.

Tali considerazioni indussero noi pure a provvederci di cavalcature e di carabine, e così ai 20 ottobre tanto io quanto il Bacci, facemmo venire da Santa Croce due

buoni cavalli per inseguire con questi quei tali malandrini che erano soliti venire a provocare la truppa.

Erano le undici del mattino, e la sentinella che a bella posta avevamo appostata dietro il camino del tetto, ci avvisò che a tre tiri di fucile si scorgevano due individui a cavallo, i quali si avanzavano guardinghi, ed avevano l'apparenza di voler fare recognizione.

A tale avviso il capitano Crema mise in ordine la compagnia per venire in nostro aiuto se fosse sopraggiunto il grosso della banda, ed intanto Bacci ed io inforcammo i nostri destrieri, che tenevamo già bardati e pronti nel chiostro della masseria.

Montati in groppa portàvamo le nostre carabine orizzontali e tenute ferme sul davanti della bardella dalla compressione delle nostre stesse cosce.

In tal guisa ci incamminammo verso il punto indicatoci dalla fazione, ed appena potemmo scorgere i briganti, a briglia sciolta volgemmo contro di loro i nostri cavalli. .

Quando quei masnadieri ci videro correre alla loro direzione, ancora essi misero le loro cavalcature a corsa spiegata per fuggirci, e così nel trottojo, che da Melanico fiancheggia la sponda sinistra del Fortore, inseguimmo loro per circa tre chilometri.

I nostri cavalli avevano maggior lena dei loro, ed avevamo guadagnato molto di quello spazio che sul primo ci divideva da essi, cosicché eravamo arrivati a tiro di carabina.

Ma nel fare uso dell'arme da fuoco, il sottotenente Bacci perse l'equilibrio e rotolò per terra: il sentiero era angusto, ed io che seguiva il Bacci a pochi passi, nel vedere il di lui corpo vicino agli zoccoli del mio cavallo, con una forte stratta di redini gli ruppi il tèmpo, talmenteché tanto io, quanto il mio cavallo capitombolammo assieme per non breve tratto.

I briganti non si dettero per intesi di quanto accadeva dietro di loro, e seguitarono a fuggirci, senza nemmeno voltarsi per vedere ciocché era avvenuto, e quando furono ad un dato punto si gettarono, così a cavallo coi né erano, nel fiume Fortore, il quale dopo aver loro ricoperti del tutto con i suoi gorghi, ce li fece rivedere natanti come damme.

Riavutomi dalla caduta, io impugnai la mia carabina e feci fuoco contro di essi; lo stesso fece il Bacci, ma  né i briganti,  né i di costoro cavalli furono da noi colpiti in modo da impedir loro di guadagnare l'opposta riva.

Non ottenemmo cosa rilevante coll'inseguire in tal guisa quegli audaci masnadieri, ma da quel giorno in poi nissuna ricognizione fu più fatta intorno alla masseria ove eravamo noi.

Ai 25 ottobre ritornammo a Santa Croce di Magliano, ed il capitano Crema, che in quel giorno era di pessimo umore, appena arrivato al paese, per futile motivo, prese a frustinate sulla pubblica piazza il sindaco Fallocco ed il brigadiere dei RR. carabinieri.

Non lo avesse mai fatto; fu subito richiamato a Napoli, e fatto scortare sino a Portoferrajo ove fu messo agli arresti in fortezza, come in attesa di giudizio.

Rimasi un'altra volta comandante la 16 compagnia, ed essendo capo di distaccamento, potevo fare e disfare come meglio avessi voluto: mi ero accorto che i briganti proseguendo nel loro sistema di fingere d'attaccarci e poi darsi alla fuga, avrebbero fatto morire di fatica tutti i miei soldati,  onde pensai di togliere loro i mezzi di sussistenza.

A tale oggetto proibii a tutti i coloni circostanti al bosco della Grotta di portare indosso oltre un rotolo (1) di pane, e nel tempo stesso mi accertai che nei casolari dei mio mandamento non vi fossero viveri soverchi.

Ed in quell'epoca infatti, dopoché il capitano del 35° reggimento fanteria, signor Ulisse Morelli, con soli 40 soldati, da Rovisondoli aveva tenuto fronte alle bande di Tamburini e di Crocco; tali orde erano state senza posa inseguite dal generale Chiabrera, il quale colle sue numerose e valenti milizie le aveva cacciate verso le Puglie di Foggia, dove. il conte Mazé de la Roche avevate ricevute a cannonate ed a scatole di mitraglia, onde è che si erano tutte intanate nel bosco della Grotta, località che offriva loro molti nascondigli, ma pochi mezzi di sussistenza.

(1) Un rotolo equivale quasi ad un chilo.

Da quanto ho testé esposto é facile capire, che le vettovaglie a loro necessarie, non potevano essere requisite nei boschi di Romitello, della Grotta, o di Cinque Miglia, dove esse si accampavano o raggiravano.

Per tali ragioni la misura che io avevo incominciato ad adottare, quale era quella di combatterli con la fame, avrebbe dato degli ottimi resultati, ma mentre ero intento a metterla in pratica, un incidente imprevedibile mi fece allontanare da Santa Croce di Magliano.

Vi erano in quel paese circa 20 detenuti già affetti da tifo, ed il sindaco Fallocco pretendeva che facessi scortare loro dai miei soldati, mentre come convalescenti sarebbero usciti dalle prigioni, per prendere aria.

10gli risposi che poco mi importava della salute di quei delinquenti, e che non avrei permesso, che per fare la guardia a costoro, ancora ai miei soldati si fosse attaccata quella contagiosa malattia.

Il sindaco, un poco reazionario, a tale mia negativa scrisse di nascosto al maggiore Dalmasso in Larino, affinché mi facesse avere il cambio, non essendo io troppo a lui rimissivo.

E così la mattina del 3 novembre, cioè un mese prima dell'epoca stabilita, giunse in Santa Croce il capitano Rota della 13 compagnia a darmi la muta di distaccamento.

Quel capitano avea con sè un solo plotone, composto di 42 individui di bassa forza, e di un luogotenente, certo marchese Perrino di Napoli.

Il capitano Rota nativo di Como era un giovane e coraggioso ufficiale: nel 1859 era disertato dall'armata austriaca per venirsi ad arruolare nelle truppe italiane, dipoi nel 1860 era andato in Sicilia colla prima spedizione dei mille, ed aveva acquistato il grado di capitano nella divisione Bixio; sapeva poco di tattica militare, e poca pratica aveva dei nostri regolamenti; ma era intelligente, attivo ed ardito.

Mi domandò che sistema tenevo io nell'andare contro i briganti, al che gli risposi, che il mio prevalente sistema era quello di non fidarmi degli abitanti di quel paese, perché fra costoro vi erano molti reazionari, e che nelle mie perlustrazioni ero solito di condurre meco un sufficiente numero di guardie nazionali.

La mattina del 4 novembre il luogotenente Ferrino si alzò dal letto alle ore cinque, ed alla sua padrona di casa, che gli preparava da colazione, disse di non avere voglia di cibarsi atteso un brutto sogno che aveva fatto in quella stessa notte.

Perrino era un uomo sui trenta anni; come tutti i meridionali era bruno di carnagione, lento nei suoi movimenti, piuttosto amante di propri comodi, ed abitualmente malinconico.

Veniva dall'armata borbonica, ma non era affatto privo di sentimenti patriottici, tantoché fu fra i primi ufficiali napoletani che facessero adesione al nuovo stato rivoluzionario italiano.

La sera del 3 novembre l'ex-tenente borbonico era di, umore allegro e niente faceva prevedere in lui la disgrazia che lo sovrastava.

Appena andato in letto si addormentò di un sonno tranquillo, ma (come lui raccontò ai suoi padroni di casa) a notte inoltrata gli si offrì un sogno, dove gli sembrò di essere stato legato, in un colla sua ordinanza; e tutti e due assicurati ad un albero, essere ivi fucilati dai briganti.

Protestò che egli non aveva mai creduto ai sogni, ma che cotesta volta credeva che vi fosse qualche cosa di vero, perché quando gli si mostravano le funeste fasi di quella notturna visione, egli si accorgeva di essere nella pienezza dei sensi.

I di lui ospiti ed il capitano Bota risero di cuore al suo racconto, e gli dissero al solito:

… Che i sogni della notte,

Son immagin del dì guaste e corrotte.

Però questa volta il fatto provò, che non sempre i sogni sono immagini guaste del giorno. — Ecco infatti cosa avvenne:

Quella mezza compagnia, che aveva per guide due carabinieri, si avviò verso la masseria Melanico (quartiere generale dei briganti ) per fare la consueta perlustrazione giornaliera.

Doveva accompagnare quei 42 militi ed i suoi ufficiali, ancora una compagnia di guardie nazionali, ma il capitano De Matteis saputo, che i dintorni del bosco della Grotta rigurgitavano di inferociti masnadieri, insieme a centocinquanta guardie nazionali, fece sosta un miglio fuori del paese, e pregò il capitano della truppa di fare altrettanto.

Rota non gli volle dar retta, e col suo scarso drappello andò ad affrontare forze nemiche, numericamente, dieci volte superiori alle sue.

Delle campagnole che ritornavano a Santa Croce si inginocchiarono avanti il cavallo del capitano per scongiurarlo di retrocedere, e di non volere essere vittima dei numerosi briganti, che a due miglia da quel punto si affollavano presso il bosco.

Ma Rota, ansioso siccome era di misurarsi con i famigerati malandrini, anziché tornare indietro accelerò il cammino dirigendosi verso il luogo già designato.

Quando fu arrivato ad un dato punto scorse sopra un promontorio quattro uomini a cavallo che erano le vedette delle coalizzate bande brigantesche,  le quali in numero ragguardevole accampavano dietro quel promontorio.

Per giungere a quella sommità, il capitano ordinò al suo plotone di traversare un campo lavorato, dove atteso le cadute pioggie dei giorni precedenti, vi era un terreno fangoso e disadatto al cammino dei soldati.

Egli ed i più svelti militi del suo drappello avevano percorso un lungo tratto di quel campo; il luogotenente Perrino invece, ed i più deboli camminatori, erano cimasti impantanati sino al ginocchio, e si trovavano assai più indietro della squadra, che aveva seguito la cavalcatura del capitano Bota.

In quel momento il Perrino si era fermato in un piccolo tratto di terreno sodo, che era in mezzo di quel campo e dove trovavansi ancora tre o quattro piante di querce.

Tutto il terreno maggesato era rinchiuso fra colline e prati tenuti a pascolo, dalle quali località, che erano in posizione più elevata, si poteva facilmente dominare quel fondo melmoso dove si trovava la truppa.

All'improvviso scaturirono dalle laterali colline, dieci. squadriglie di briganti a cavallo, composte di circa quaranta uomini ciascuna, le quali, quasi simultaneamente, aprirono fuoco di riga contro la sparpagliata truppa, accostandosi alla medesima per spararle contro le armi, ed allontanandosi da quella per sortire fuori tiro, ed avere il tempo di ricaricare i fucili.

Iquarantadue soldati nonché i valorosi carabinieri, e più i due ufficiali, che in tutti occupavano uno spazio di quasi un miglio, formarono diversi gruppi nel modo stesso come si trovavano, e risposero dal basso all'alto ai spessi colpi dei fucili briganteschi.

Ma dopo lunga ed inutile resistenza vennero tutti, un gruppo dopo l'altro, circondati, bersagliati, presi, straziati, ed uccisi.

Il primo gruppo a cadere in mano dei briganti fu quello del luogotenente Perrino, ed infatti egli e la sua ordinanza, poiché furono catturati vivi ed incolumi, vennero legati assieme ad una pianta di quercie, ed ivi in un tempo solo furono ambedue fucilati. — Ecco il sogno verificato. —

Poi toccò al gruppo del sergente Casini di Pisa; ancora questo esiguo manipolo fu trucidato, ed al valoroso sergente, che ne aveva il comando, furono recise le dita, che vennero messe in bocca al di lui cadavere in segno di dileggio.

Soli tre individui di quella mezza squadra furono risparmiati dai briganti, perché ancora essi nativi delle Provincie meridionali, ed amici di due disertori del 36° reggimento, che già da molto tempo erano passati fra i briganti; e così per questo riguardo di nazionalità fu accordato quartiere ad altri tredici soldati di tutto il plotone.

Venne la volta del gruppo comandato da Rota; egli vide con sereno ciglio cadere tutti i suoi per morte sanguigna, e poiché si trovò solo colla sua ordinanza, ordinò a questa di attaccarsi alla coda del suo cavallo, che mise alla corsa, tentando un possibile scampo.

Ma la brigantessa donna Filomena, nonché lo stesso Caruso, che avevano migliori cavalcature, gli furono tosto addosso: Rota, già ferito mortalmente al fianco, nel vedersi prossimi quegli assassini, si tirò un colpo di revolver nella tempia sinistra e cadde estinto dal suo cavallo; il di lui attendente, un bel giovanotto toscano, fu preso vivo, e poiché fu in mano di quei briganti, gli furono cavati gli occhi belli, prima di metterlo a morte.

La brigantessa avrebbe voluto divertirsi coll'avere in proprio potere il valoroso Rota, e però gridava come un'ossessa: — A me il capitano — ma egli era già divenuto freddo cadavere, quando quella muliebre pantera, gli tolse di capo il bonetto e di mano il revolver, per fregiarsi col primo l'impudico sembiante, e per armarsi col secondo a prò del delitto.

Pochi morti in quel fatto d'armi ebbero i briganti, e quei pochi furono messi in una pagliaja, ed ivi cremati, all'oggetto sempre che non fossero da noi riconosciuti.

Tutti i cadaveri dei nostri bravi soldati, mezzi denudati, ed irriconoscibili perché trasfigurati dalle molteplici ferite e mutilazioni, furono dai briganti ivi abbandonati alla voracità delle fiere.

Tanto era successo al plotone che poche ore prima mi aveva dato il cambio, e la stessa notte del 4 novembre, appena fui arrivato a Larino, venne a svegliarmi l'ajutante maggiore Gervino per raccontarmi l'accaduta disgrazia e per invitarmi ad andare subito dal nostro maggiore.

Io mi alzai in fretta ed in furia, e mi recai alla caserma dove tutti i miei soldati erano in braccio al riparatore sonno della stanchezza.

Ed il maggiore, che era dietro a fare inteso dell'accaduto il comandante della zona, mi disse tali precise parole: — se io non le davo la muta di distaccamento questo luttuoso fatto non sarebbe avvenuto, e se l'imprudente capitano Rota non fosse rimasto vittima anche egli, lo avrei messo sotto consiglio di guerra.

Ciò detto, non so con quanta giustizia, mi ordinò di mettere in pronto la compagnia, per immediatamente ripartire alla volta di Santa Croce, dove le bande brigantesche accennavano d'impadronirsi della posizione.

I militi della 16 compagnia molto svogliati, e non tutti risposero all'assemblea col venire in rango,  né avevano tutti i torti, ché si chiedeva loro fatiche superiori a forze umane, e dopo una disagiosa marcia con arme e bagaglio di oltre trenta chilometri, avrebbero voluto compire almeno il loro sonno fino all'ora della sveglia.

Ma quando feci loro sapere il massacro della 13 mezza, compagnia, accaduto a Santa Croce, tutti come un solo uomo, ed anche due di essi, che si erano dati per ammalati, 'si alzarono di sulla paglia per correre a vendicare gli sciagurati compagni.

Alle undici di quella buja notte partimmo da Larino col maggiore alla testa, col capitano dei carabinieri, e con quattro carabinieri a cavallo; vagammo incerti per quel tenebroso cammino, sempre pronti e decisi ad attaccare una inevitabile pugna; oltre mezzo migliaio di briganti nascondevaosi nelle selve, che avevamo ai lati, e ad ogni movere di foglia, inarcavamo i cani dei nostri fucili per vender loro assai cara la vita.

Avanti le sette del mattino arrivammo sul montuoso paese di Santa Croce di Magliano; ivi giunti trovammo la guardia nazionale che ironicamente ci rendeva gli onori.

Tutti eravamo indignati contro quella popolazione, perché aveva presenziato l'ineguale pugna, e non era accorsa in aiuto dei nostri soccombenti soldati, onde in vedere quei civici far mostra di inutili armi, prendemmo loro, a calci nel sedere.

Poco dopo di noi arrivarono a Santa Croce, la 15 compagnia del nostro reggimento, ed un battaglione bersaglieri, milizie tutte che scortavano il tenente-colonnello Galletti ed il maggiore del distretto di Larino, signor Sebastiano Lapi.

La mia. compagnia fu destinata di andare sulla faccia del luogo ove era avvenuto il conflitto, per raccogliere

icadaveri, e caricatili su tante mule condurli a soma fin sopra al paese.

Mentre stavamo per raccogliere quei straziati corpi, cortuno dei miei soldati disse che un estinto aveva mosso il piede; a questo strano caso, il sottotenente Bacci corse a verificare la cosa, e ritrovò che quel soldato non era stato come gli altri ucciso, ma caduto durante il combattimento, sotto un ammasso di diversi cadaveri, era rimasto ivi come morto, perché privo di sensi.

Appena quel milite venne cavato fuori dalla sua difficile posizione, nella quale rimase per quasi ventiquattro ore, non riacquistò subito la conoscenza, ma dopo averlo discinto, ed avergli fatto bevere un bicchierino di grappa, a poco a poco ritornò nella sua primitiva pienezza dei sensi.

Sembrava che si fosse riavuto da un funesto incubo, e tutti gli svariati particolari dei principii della lotta erano nell'impero della sua memoria; però quello che avvenne dopo la di lui caduta, era per lui coperto di oblio.

Nel tornare a Santa Croce lo feci caricare sulla groppa di una mula, perché i briganti che avevano tolto le scarpe dai piedi di tutti i cadaveri, le avevano tolte ancora a lui, credendolo morto, perloché, scalzo siccome era, non avrebbe potuto camminare fra i sterpi di quei campi.

Quando condussi questo soldato sano e salvo alla presenza del maggiore Dalmasso, esso, nel rivedere in lui un morto resuscitato, così dissemi:

— E adesso dove lo metteremo costui, se nella situazione della forza e nel giornale delle variazioni, figura già come estinto? —

Allora il colonnello Galletti ne telegrafò in proposito al generale La Marmora, il quale, per non vedere rinnovarsi il miracolo di Lazzaro, ordinò che gli si accordasse il congedo assoluto.

Furono resi meschini onori ai corpi di quegli eroi, che vennero sepolti in quel cimitero senza nemmeno le consuete casse di legno; seppi in seguito che per sottoscrizione provinciale campobassana, nel luogo stesso ove avvenne il massacro, fu eretto con degno monumento che rammenti ai posteri i nomi di quei forti. — Sia lode ai soscrittori.

Tutti i 16 soldati delle province meridionali, che erano passati nelle file dei briganti, per aver salva la vita, dopo poche settimane fuggirono da quelle masnade per tornare a noi, così come si trovavano vestiti da briganti; fra questi vi era ancora un sergente di cognome Sista.

Da costoro io appresi tutti i particolari dei costumi briganteschi che ho qui descritti; da essi seppi che l'armaiolo della compagnia rimasto vivo in mano ai briganti, sebbene fosse nativo della Lombardia, fu salvato dalla brigantessa Filomena, perché, essendo egli un bell'uomo, entrava nelle simpatie di quella donna fieramente capricciosa.

Tale infelice soldato fu più volte fatto inginocchiare per essere fucilato, e quando a cagione di tali ripetute minacce di morte, egli ebbe perduto del tutto la ragione, ad intercessione di donna Filomena, fu lasciato libero, come cosa inutile.

Costui un bel giorno ci apparve vestito da brigante, cogli occhi stravolti, con ispida barba e scapigliata la chioma: a noi tornando con passo incerto cantava, rideva, e piangeva; quel povero uomo era divenuto folle, e però fu anche esso mandato in congedo assoluto.

Cosicché del drappello comandato da Bota, che rimase massacrato nei pressi di S. Croce e che sommava a 42 soldati della 13 compagnia del 36° reggimento a due carabinieri reali e a 2 ufficiali, in tutti a 48 individui, trenta di essi rimasero morti e gli altri si poterono miracolosamente salvare, cioè 2 di essi, l'armaiuolo e l'altro soldato che fu mandato in congedo, per dato e fatto di strane combinazioni, e gli altri per esser passati durante il combattimento nelle file dei briganti.

Quei sedici militi già facenti parte dei sbandati napoletani per avere abbandonato il loro posto non saprei come meglio chiamarli e caratterizzarli, se col nome di disgraziati o di vigliacchi. La storia ci offre già il verso di giudicarli quando per mezzo di essa, si venga a conoscere che a metà del quindicesimo secolo, milleottocento cittadini di Schwitz (dal qual paese ne venne poi il nome di Svizzeri) poiché furono andati per difendere la propria confederazione, ad affrontare i terribili Armagnacchi, che furono anche chiamati gli scorticatori, e che erano in numero venti volte maggiore a quello dei soldati svizzeri, vi rimasero tutti morti nella ineguale battaglia durante la quale quegli eroi battendo fortemente le mani gridavano — l'anima a Dio ed il corpo agli Armagnacchi. (1)

Ebbene di quella schiera di forti soli sedici furono i superstiti, e quando questi furono ritornati al campo di Farnsbourg vennero tutti e sedici pubblicamente dileggiati perché ancora essi non erano rimasti vittime insieme ai soccombenti compagni. — Tale esempio storico mi sembra che combini molto bene col fatto di S. Croce per ciò che riguarda i soldati meridionali che non seppero morire al fianco dei trucidati commilitoni.

Due di costoro che mi sforzerò a chiamare prigionieri di guerra, il dì 9 novembre, cioè sei giorni dopo il luttuoso avvenimento, in provincia di Terra di Lavoro e specialmente nel bosco di Petacciato, furono liberati dal capitano Berti, il quale, con una colonna mista di carabinieri,

(1) Vedi Ségub, Storia della Svizzera.

bersaglieri e cavalleggeri, potè in tale località attaccar pugna con una frazione della numerosa comitiva, che aveva già massacrato la mezza compagnia nei pressi del bosco della Grotta.

Ed il bravo capitano Berti non solo costrinse quell'orda di sanguinari assassini ad accettar battaglia, ma ne uccise due e ne catturò altri tre, quali fu sollecito di fucilare, incominciando cosi una giusta rappresaglia.

Gli altri quattordici sedicenti prigionieri, come già ho detto poterono fuggire dalle mani dei briganti ad uno alla volta e ritornarsene al loro corpo dove si presentarono con faccia fresca come se avessero fatto un qualche eroismo.

Ma la disgrazia e il tradimento toccato al drappello di Rota, fu causa che venissero ordini severi per un più esteso spiegamento di forza armata in tutte le zone, e fu altresì cagione che tutte le guardie nazionali di quelle provincie, da allora in poi dimostrassero maggiore energia ed insolita attività nel combattere i briganti; e ciò si spiega inquantoché l'atterrita popolazione di S. Croce di Magliano dopo aver visto coi propri occhi trucidare i nostri militi, ebbe di che impensierirsi per potersi difendere da un'invasione di quei cannibali, che si fecero più sotto il paese quasi per dimostrare la gioia del trionfo.

Due giorni dopo a quel fatto colla nostra divisione del trentaseesimo reggimento composta dalla quindicesima e sedicesima compagnia, nonché con un intero battaglione di bersaglieri ci facemmo ad inseguire le bande di Crocco e di Caruso, che per quindici giorni furono da noi senza posa perseguitate in quel di Larino e nei pressi di S. Severo di Tiriolo e di Lucera, cosicché percorrendo una media di oltre trenta chilometri al giorno senza una sosta di un solo dì e per un mezzo mese continuato, riducemmo quelle bande talmente incerte nel loro itinerario che le costringemmo a riparare nella località di Petrulli, che trovasi ad otto miglia di Lacera,

laddove si imbatterono in altra colonna di milizie regolari e di numerose guardie nazionali di Foggia, qual colonna le sbaragliò e le battè in modo, che ventidue dei briganti di Caruso rimasero morti e molti altri feriti.

È un fatto incontrastabile che all'avvicinarsi dell'inverno di quell'anno 1862, tutte le milizie cittadine dell'exreame dr Napoli col loro contegno davano sicure prove di essersi sinceramente associate alla buona sorte dell'Italia una, e completamente dedicate a combattere il brigantaggio, ché a Voltulino di Alberone (provincia di Capitanata) la guardia nazionale di quel paese, unitamente a pochi militi della truppa regolare, sbaragliava una banda di briganti uccidendo il famoso assassino Giacomo Albanese e ferendone altri, ed a S. Martino del Molise, quando la banda di Cicogna, forte di 80 masnadieri a cavallo, si fece a circondare la masseria Bevilacqua per incendiarla, tutte le guardie nazionali di quel piccolo paesetto, nonché l'in, tiero popolo, senza distinzione di età e di sesso, e con ogni genere di armi, corsero ad affrontare quegli invisi masnadieri, i quali sbigottiti a tali e tante dimostrazioni ostili, se la dettero a gambe ritornando nelle Puglie.

Insomma eravamo arrivati ad un punto tale che ciascun giorno in ogni piccolo paese o villaggio, si del Molise, come della Basilicata, della Terra di Lavoro, di Capitanata e della provincia di Aquila, si verificavano continue scaramucce fra briganti e guardie nazionali, nelle quali scaramucce la peggio toccava sempre ai briganti, che non potevano mai cavarsela senza lasciarvi morti alcuni di loro.

Era questa la famosa goccia continua che doveva, prima o poi scavar la tomba della reazione e del brigantaggio.

All'opposto della guardia nazionale che seguitava ad inseguire e distruggere le piccole bande, la nostra truppa distaccata o mobilizzata valeva a tenere a freno ed occorrendo a tagliar fuori le numerose bande riunite, che più qua e più là di tanto in. tanto cercavano di imporsi.

Infatti ai primi del mese di novembre due compagnie del 17° bersaglieri comandate dal maggiore Keichemburg, sorprendevano nel bosco di Tremolito (presso Avellino) la banda di Pedrozzi, una delle più agguerrite e meglio armate bande di quell'epoca, e dopo un'ora di continuo fuoco da«una parte e dall'altra, durante il quale rimasero uccisi quattro dei soliti ladroni, quei bersaglieri a passo di corsa si fecero loro addosso per attaccarli alla baionetta, e siccome gli impauriti briganti allora si misero a fuggire, i bersaglieri gli incalzarono sempre, perseguitandoli per oltre quattro miglia.

In quel giorno stesso i bravi carabinieri di Caserta avevano un conflitto colla comitiva del sanguinario brigante di nome Crescenzio, e poiché quei pochi e valorosi soldati dell'arma politica furono rinforzati e coadiuvati da pochi militi della guardia nazionale, poterono mettere in completa rotta quella banda, soverchiante per numero, ed uccidere due briganti nel punto medesimo in cui erano per ritirare il prezzo di un ricatto che era da loro stato imposto ad uno di quei più ricchi proprietari di quel distretto.

Tutto sommato può ritenersi che, al sommo grado a cui erasi allora elevato lo spirito di patriottismo di quelle popolazioni, le quali finalmente erano state sottratte dalla forza degli avvenimenti alle incertezze di ambigue credenze politiche, fosse divenuta ineffettuabile qualunque colpevole speranza dei partigiani del cessato governo borbonico, onde è che ancora il secondo sistema di brigantaggio anarchico, suggerito ai briganti dai comitati di Roma, dava pessimi resultati coll'inasprire sempre di più l'animo di quelle popolazioni ormai stanche degli orrori briganteschi.

E così noi della milizia regolare, che fummo per primi destinati a combattere questo nuovo ed aspro genere di guerra, quando le bande brigantesche erano compatte, numerose ed audaci perché sostenute da tutti i peggiori elementi della popolazione agricola di quelle provincie,  coi fatti valemmo a menomare la fama che essi briganti si erano scroccata di valorosi combattenti, ed in tal modo non solo potemmo scongiurare i sinistri effetti del brigantaggio reazionario, ma in pari tempo ci fu agevole sventare le loro mire nefande, quali, sui primordi, erano quelle di mettere a fuoco e fiamma tutto il mezzodì d'Italia, e cosi rendervi impossibile qualunque governo.

La guardia nazionale invece, come qualunque altro ordine di milizie borghesi mobilizzate valsero a scompigliare ed a distruggere del tutto i resti delle bande brigantesche: da qui è che, volendo riassumere la storia vera del brigantaggio, può asseverarsi, che questo proteiforme flagello fu strenuamente combattuto dall'esercito, e sminuzzato siccome si era, fu facilmente vinto dalle guardie nazionali di quelle province.


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CAPITOLO XII

Il brigante nero

Quando Michele Squillace fu arrivato a Napoli, venne aggregato al 1° reggimento granatieri, ed ivi dovette rimanere per tre giorni in attesa d'imbarco per Livorno.

Egli non poteva comprendere in che modo il colonnello del 36° reggimento aveva voluto richiamarlo al 1° battaglione, e così allontanarlo dalla sua diletta Italia meridionale.

In tutto ciò vi travedeva un certo mistero, o meglio un inesplicabile intrigo; ma da chi questo si partisse, ed a qual fine fosse ordito, non poteva immaginarlo.

Trovandosi libero per più ore, nella bella e rumorosa Napoli, che allora, quando ne era assente Costanza, per lui rassomigliava alla più squallida necropoli, gli venne in mente di andare a far visita ad un suo amico d'infanzia, certo Ernesto Coccoluto, nativo di Castropignano, e che in quell'epoca era sergente scrivano addetto al gran comando militare.

Quando fu entrato nella stanza degli scritturali, ed andò per abbracciare l'amico da tre anni non mai più riveduto, si accorse che Ernesto lo guardava con una certa aria di mistero, quasi gli facesse specie in vederlo cosi tranquillo dopo una disgrazia tanto forte che gli era accaduta, quale era quella della recente morte del di lui padre avvocato Maurizio.

Michele, dopo avere ricambiato il bacio di amicizia con Ernesto, si accorse che egli aveva da dirgli qualche cosa di nuovo, ma non sospettò mai così enorme sventura quale era quella di sapersi per sempre privo del proprio genitore.

Allora Ernesto allontanò ogni frainteso, e gli domandò in brevi termini come il di lui padre aveva lasciato le cose sue.

A tale domanda Squillace comprese tutta la ragione delle reticenze già fatte dall'amico, e colpito nel cuore da cosi inattesa sciagura, pianse amaramente prima di rispondere parola.

Altro acuto e sentito dolore si accoppiò all'angoscia che già gli dilaniava il petto per doversi allontanare da Costanza; ma in questo lo consolava la speme di poterla rivedere, appena ultimata la sua ferma di servizio, mentre lo affliggeva senza posa l'idea che non avrebbe più potuto riabbracciare suo padre, perché passato ad altra vita.

Si adagiò su di una seggiola a singhiozzare, e poiché ebbe inzuppata di lacrime la rozza pezzuola di ordinanza, con animo pacato per momentanea rassegnazione, volse il pensiero alla cara lusinga di rivedere in cielo il padre 8UO.

Domandò ad Ernesto di che male era decesso, da chi lo avea egli saputo, e da quanto tempo; Ernesto gli rispose che già da cinque o sei giorni egli avea saputo come l'avvocato Maurizio, di lui padre, fosse morto per fiera sincope.

Allora Michele gli tornò a dimandare da qual parte gli era giunta tale notizia, e l'amico gli rispose, che lo aveva saputo dal di lui stesso fratello Leone Squillace, il quale due giorni dopo a quello della morte del suo genitore, si era condotto a Napoli, ed era andato a quel gran comando militare, dove si era trattenuto a lungo in udienza particolare col generale La Marmora.

In quel modo soltanto Michele potè ritrovare il filo che doveva condurlo fuori dallo oscuro laberinto, in cui era stato misteriosamente gettato; e fra le penose strette al cuore, che sempre più accentuate si sentiva per la perdita del benaffetto autore dei giorni suoi, gli balenò alla mente l'idea del vero intrigo che aveva causato il di lui improvviso richiamo a Spoleto.

— Tutto ciò — disse Michele a sè stesso — deve essere opera nefanda di mio fratello Leone. —

Nè aveva torto, che, appunto in quei giorni quando il caporale Squillace stava in infermeria come convalescente e si era trattenuto in Campobasso per ivi attendere Costanza, il suo più che sessantenne padre era stato colpito da apoplessia fulminante, che gli aveva concessi soli pochi istanti di agonia.

Di tale disgrazia fu avvisato in Campobasso il di lui fratello avvocato Leone, con incarico al medesimo di passare il doloroso annunzio ancora a Michele.

Ma l'avvocato Leone, che aveva bisogno di trovarsi solo a raccogliere tutta l'eredità paterna, nulla disse al fratello, ed egli alla sordina parti per Castropignano, dove giunto disse agli amici, ed ai lontani parenti, che Michele da due giorni era stato mandato ai battaglioni di Spoleto, e che a quell'ora già trovavasi centinaja di miglia lontano da loro.

E perché si verificasse quanto aveva dato a credere a riguardo di suo fratello Michele, l'avvocato Leone appena fu data sepoltura alla salma dell'universalmente compianto suo padre, con espressa vettura tirata da tre buoni cavalli partì per Napoli, e provveduto di autorevoli raccomandazioni per il prefetto generale La Marmora, si presentò a quella autorità, e le dipinse il proprio fratello siccome un pessimo soggetto, come un occulto manutengolo di briganti, quale un emerito reazionario, ed anche come il più pericoloso camorrista.

Si provvide di falsi attestati e di mendaci denunzie dei pochi nemici che Michele aveva lasciato in paese, e con tali documenti alla mano, tanto disse, e tanto fece, che indusse il prelodato La Marmora ad ordinare l'allontanamento dalle province meridionali del di lui fratello caporale Squillace.

La Marmora sul primo non voleva prestar fede a tante accuse, fatte sul conto di quel caporale, e fece telegrafare al maggiore Dalmasso per sentire quale era la condotta di Michele come milite e come cittadino.

Dalmasso rispose a quel general comando, che il caporale Michele aveva tenuto sempre, come militare, una irreprensibile condotta, ma che circa i rapporti, cui avesse potuto avere con i borghesi, egli declinava ogni responsabilità, essendo su di ciò completamente all'oscuro.

A tale risposta il generale prefetto fu per un poco dubbioso se doveva appagare o no la richiesta dell'avvocato Leone, ma, riflettendo poi che egli aveva prodotto attestati di altre persone, che calunniavano sino al verosimile, la vita passata di Michele, risolvette di allontanarlo dal Molise, persuaso che in ciò fare non avrebbe procurato alcun danno a quel caporale, il quale in fine dei conti avrebbe passata miglior vita in guarnigione, che non era quella di correre dietro ai briganti.

Per tali considerazioni La Marmora fece telegrafare in proposito al colonnello del 36° reggimento, che dal canto suo (come già si è detto) ordinò telegraficamente al Dalmasso che facesse subito partire per Spoleto il caporale Squillace.

Quale scopo avesse avuto l'avvocato Leone nel fare allontanare il fratello, decesso appena da pochi momenti il comune padre, è facile immaginarsi, quando si venga a conoscere, che il vecchio Maurizio Squillace, per tutelarsi dalle possibili sinistre conseguenze di una grossa mallevadoria, cui incautamente aveva prestato ad un amico, pochi mesi avanti di morire, donava al suo primogenito figlio avvocato Leone, l'unico possesso di valore che fosse nel loro patrimonio, e che era la ricca masseria di Frosolone:

ora, siccome tale donazione inter vivos era apparente, inquantoché il padre Maurizio si era fatto fare dall'avvocato figlio un controfoglio, o meglio una dichiarazione, che caratterizzava quell'atto come di nissun valore, così il malizioso, imbroglione e rapace fratello di Michele, sentiva la necessità di trovarsi solo all'apertura della successione paterna, per due ragioni, anzitutto per fare sparire dalle carte contenute nell'archivio di famiglia la sua dichiarazione, e così prendersi per sè solo il migliore stabile del patrimonio, ed in secondo luogo per appropriarsi a suo talento i più preziosi, e meglio inviolabili oggetti dell'eredità.

Michele che conosceva quanto era inclinato al furto il di lui fratello maggiore, fece presto a formarsi un'idea di tutto l'intrigo che aveva reso egli stesso inconsapevole della morte di suo padre, ed il poco onesto di lui fratello arbitrò di fare e disfare come meglio gli fosse piaciuto, circa le cose costituenti l'eredità.

Già da lungo tempo fra Michele, e l'avvocato Leone vi era una certa freddezza, che a poco per volta aveva esacerbato gli animi loro in modo, che da qualche anno nemmeno più si parlavano.

Ed infatti nei pochi mesi in cui il caporale Michele fu distaccato in quel di Campobasso, mai non venne ricercato da Leone, il quale lo sorvegliava di nascosto per vedere se nella sua condotta vi fosse un qualche lato condannabile, e denunziabile ai di lui superiori, ed alla autorità giudiziaria, quando fosse occorso.

Viceversa poi, allorché l'avvocato Leone andava a Castropignano per visitare il padre, raccontava a questi, che il suo diletto fratello, e rispèttivo figlio minore, stava benissimo di salute, che voleva seguitare la carriera delle armi, e che presto sarebbe corso a Castropignano per abbracciarlo; ma che non gli facesse specie se non rispondeva alle sue paterne lettere, perché, essendo continuamente in colonna mobile ad inseguire i briganti, non aveva  né il tempo  né il modo di mantenere alcuna corrispondenza.

Il povero vecchio Maurizio credeva ciecamente alle fanfaluche di quell'intrigante, ed ogni giorno di più, fino a quello della di lui morte, si aspettava il tanto desiderato arrivo del suo Michele, già da lui pianto per morto.

Il caporale Squillace si meravigliava assai di non mai ricevere lettere dal padre suo, e non sapeva rendersene una ragione, ma sicuro come egli era, che da un giorno all'altro sarebbe andato in Castropignano per baciargli la fronte, poche ricerche faceva alla posta, lontano quale era dal potere ideare, che il desiderato carteggio gli venisse intercettato da Leone.

Ma quanto gli aveva raccontato l'amico Ernesto, aveva squarciato quel velo, di cui era per esso ricoperto un tale mistero.

Egli ormai tutta comprese la scelleraggine fraterna, e divenuto impaziente di vendicarsi, nonché di riparare al suo interesse manomesso, si congedò dall'amico Ernesto, si allontanò dal gran comando, ed incamminatosi prima per via Toledo, e poi per Foria, si spinse sin fuori Porta Capuana, dove giunto prese per l'aperta campagna, singhiozzando e fremendo, in causa delle tante disgrazie che lo avevano colpito.

La veniente sera, alla caserma dei Granili fu più volte chiamato il caporale Squillace, ne fu fatta ricerca nelle camerate dove erano i letti degli aggregati; ma tutto fu inutile, ché il caporale Michele, il quale l'indomani mattina, con apposito trasporto militare, avrebbe dovuto partire per Livorno, non rispose all'appello.

Egli invece, cosi come si trovava, col cappotto, colla daga, e col kepy, si incamminò alla volta di Maddaloni, traversando gerbidi, boscaglie e tutto quanto fiancheggia la via, che da Napoli conduce a Capua.

Dopo avere camminato tutto quel giorno, e la veniente notte, al sorgere dell'aurora dell'indomani si trovò nello stesso punto, dove da caporale degli sbandati (come già ho raccontato) aveva tanto bene menato le mani contro i rivoltosi.

Allora gli ci volle molta circospezione per non cadere nelle grinfie dei briganti o nelle mani della truppa, la quale, trovandolo così solo in quei luoghi nascosti, certamente lo avrebbe arrestato, come sospetto disertore; onde, appena si imbattè in una folta selva, si internò in essa e camminò lungo tempo fra i cespugli e le piante della medesima, procurando di tenersi sulla direzione della montagna del Matese, dove aveva in animo di rimanere nascosto per qualche giorno, all'oggetto di meglio scuoprire come erano passate le faccende dell'eredità.

Dopo avere camminato un pezzo, alfine trovò una capanna di carbonaro, socchiusa tanto, quanto impedisse alle fiere di ivi introdursi; ma egli intromise la sua mano fra gli spiragli della malferma porta, e girandone la nottola interna, si aprì l'adito a quella capanna.

Vi trovò pochi e semispenti tizzi di brace entro un camino che era in mezzo al suolo della medesima, formato da quattro mattoni per taglio, vi rinvenne inoltre alcuni arnesi del mestiere, ed una semispecie di giaciglio, composito di una balla da carbone ripiena di paglia e posata orizzontalmente su poche tavole.

Intanto aveva trovato come mettersi al coperto, il modo di riposarsi, ed anche quello di dissetarsi, ché in quella capanna si trovava una secchia quasi piena di limpida acqua potabile: ma il cibo per ristorarsi lo stomaco digiuno non ve lo trovò, perloché si fece a fiutare per ogni cantuccio, sperando di potere rintracciare un qualche ripostiglio di viveri.

Poiché ebbe cercato inutilmente in ognipunto della capanna, senza trovarvi nemmeno un tozzo di pane, senti che il suo appetito era diventato molto somigliante alla fame, onde pensò di scongiurare questa coll'addormentarsi, e per ciò fare volle capovolgere la balla, che doveva servirgli da incomodo letto.

Ma vedi grata sorpresa: appena ebbe sollevato dalle tavole quell'affumicato facente funzione di materasso, vi trovò sotto una pizza di farina gialla, che dal padrone di quell'eremo, era forse ivi nascosta, perché destinata a completare la di lui frugale cena.

Michele aveva in suo possesso qualche diecina di lire, e calcolò, che ritornato il carbonaro, avrebbe preferito del denaro a quel suo solito pasto, simile al quale gli sarebbe stato facile procurarsene ancora, onde il digiuno nostro disertore, con lupesca voracità, mangiò quella focaccia, e si sentì satollo.

Quando sopraggiunse il viso nero del lavorante di carbone, Michele aveva già finito il suo sonno, e gli andò incontro per tranquillizzarlo circa l'arbitrio che si era preso.

Fecero tosto amicizia fra loro, e quando l'avido carbonaro si accorse che Michele parlava la sua stessa lingua e numerava la sua medesima moneta trasse fuori di sotto il nascondiglio, che era nel ceppicone di una grossissima pianta di cerro, quanto poteva occorrere per una seconda e più gustosa refezione.

Un pajolo ed. una padella di rame, della farina di granone, una cartata di zibibbo, del formaggio grasso, ed un earaffone di vino bianco, furono le cose levate di sotto terra dal carbonaro, il quale, veduto che il suo ospite pagava bene, sovrappose il pajolo ad una grossa fiammata e diede mano con alacrità alla sua boschereccia cucina.

Michele intanto gli domandava quante miglia ancora era lontano il Matese. e se quella sua località, per solito, era frequentata dalla truppa o dai briganti.

Il lavoratore delle selve, allora per la prima volta guardò il suo ospite con un certo sospetto, ma avvedutosi, che egli usava di modi gentili e da galantuomo, (1) volle essere cortese di dargli tutti quanti gli schiarimenti ri. chiesti.

Dissegli, che il Matese era distante da lì circa a quattro miglia, che i briganti, sarebbero potuti arrivare da un momento all'altro, ma che la truppa non era cosa facile che per quel giorno ripassasse in quei dintorni, perché aveva già traversato quei boschi avanti l'alba, prendendo la direzione del Monte Taburno.

(1) Galantuomo in quelle provincie significa persona agiata.

Michele argomentò che quella frazione di truppa doveva appartenere al 45° fanteria, che era distaccato in quella zona, e da tale raziocinio dedusse la conseguenza logica, che sarebbe stata cosa imprudente per lui il trattenersi ulteriormente in quel sito, onde, dopo aver preso parte anche esso al pasto frugale del carbonaro, aspettò che fosse sera inoltrata, e per il trottojo indicatogli, si incamminò verso la montagna del Matese.

Fu presto fatto notte, ed intenso era il freddo, onde il cammino frastagliato e bujo riempiva di terrore l'animo di Michele; e cosi, mentre il gemito sconfortante del cuculo rompeva gli squallidi silenzi di quella solitudine, e le strane ombre dei macchioni e delle fronzute piante, che a filari si schieravano in tenebrosi manipoli, sembrava che arieggiassero una ridda di demoni, l'afflitto Michele s'incamminò verso ignoto destino.

Fece presto a raggiungere le falde della nevosa montagna del Matese; ivi si inerpicò fra i primi gioghi della medesima, e salì, salì sempre, senza luce e senza via, fra i dirupi e le scoscese pendici, come un cervo battuto dai cani.

Desiderio di vendetta per la patita offesa, amore di riavvicinarsi alla donna sua, timore di essere preso dalla soldatesca e fucilato, orrore di trovarsi in mezzo ai briganti, tutti questi sentimenti gli procuravano ali ai piedi e lena al cuore.

Quando il giorno fu chiaro, l'afflitto Squillace si trovava poco meno che all'estrema vetta del Matese, là dove sono perenni le nevi, rigogliose le piante, e spaziosa la vista.

Un campicello biancheggiante per brine, ed a cui sovrastavano minacciose le valanghe, fu il luogo da esso prescelto per la sua prima sosta.

Ivi si trovò solo col cielo e con i suoi mesti pensieri, ivi misurò tutto il baratro della sua posizione.

— Qui starò — disse — sinché non potrò ideare un mezzo sicuro di avvicinarmi a lei, e vendicarmi con lui.

Intanto prese un fascio di frasche e di secche foglie di albero colle quali, mediante un fiammifero, suscitò un circoscritto incendio; si riscaldò, e all'azione di quel fuoco, i ghiaccioli della sua veste si liquefecero, ed il sangue gli ribollì nuovamente nelle vene.

In quell'eccelso eremo, nuovo alle orme dei mortali, Michele si trattenne più giorni; ivi stava contemplando il cosmico panorama, e distingueva i navigli, così quando salpavano dal porto di Napoli, come quando veleggiavano nei paraggi di Termoli.

Un pescatore di trote, che era solito andare ogni giorno a tendere le sue reti nel di poco sottostante lago, gli recava il necessario cibo giornaliero, e di notte egli vegliava intorno ad un mucchio di carboni che teneva accesi in un avvallamento di terreno.

Spesse volte gli accadeva di vedere, quando più oscura era la notte, gli occhi fosforescenti del lupo; quei punti luminosi gli dicevano che non era solo ad alitare in quella tetra solitudine, ma egli che conosceva come quell'animale di rapina, quando è spinto dalla fame, suole attaccare ancora l'uomo, ne seguiva tutti i movimenti, e denudata la daga, stava sul pronti per squarciargli le fauci.

Si adattava rassegnato a quella rigorosa e difficile vita, ma per il figlio della sventura non v'ha tregua nei dolori. le poche lire che Michele avea indosso, allorché era disertato da Napoli, furono da lui quasi del tutto spese; oltre di ciò sentiva il bisogno di cambiarsi di biancheria e di sostituire ai suoi abiti militari quelli da borghese, ma per ciò fare erano indispensabili due cose; quella di avvicinarsi all'abitato, e l'altra di rimediare qualche poco di denaro.

Ma tutto ciò era compito assai difficile per Michele, che si trovava in una scabrosa posizione sotto tutti i riguardi.

Gli venne però una felice idea; ed, ecco quale:

Si rammentò che al paesetto di Molise abitava un suo vecchio amico e compagno di studi, col quale, ne' suoi primi anni, aveva diviso la vita e la fortuna.

Tale suo consorte delle avventure giovanili, si chiamava Pasquale Olivieri; e quando Michele fu di poco arrivato a Campobasso, lo aveva già incontrato, sempre egualmente suo affezionato compagno, e col quale dopo essersi baciati, si era trattenuto un intiero giorno per gozzovigliare insieme.

Risolvette di dirigersi a lui, molto più che, come si è già detto, il piccolo paese di Molise, sebbene abbia il titolo di città, è un luogo disabitato e segregato dal consorzio civile, e però privo di truppa e della stazione dei BR. carabinieri.

Onde avvenne, che, dopo circa un mese di quella esistenza primitiva, che egli passò alla meglio nella più elevata sommità del Matese, una certa sera, stanco di vivere ramingo e mancante di tutto, si incamminò in direzione della valle di Bojano, ed indi si avviò verso Cantalupo, da dove poi, rasentando Macchiagodena, Spineto e Casalciprano, verso la setta del veniente giorno, e dopo avere camminato per oltre 24 ore, arrivò fin sotto le antiche mura di Molise, dove si nascose in una casa colonica, aspettando che fosse notte oscura per andare difilato all'abitazione del suo amico.

Pasquale Olivieri in quell'epoca aveva circa a trenta anni, era  né ricco  né povero, né bello  né brutto, ma colto, forte, generoso, e fido in ogni cosa.

Aveva la propria casa all'estremo lato sinistro del paese, per mezzo di un orto, annesso alla medesima, e che comunicava colla via mulattiera, che è la più breve per colui che da quel paese si conduca a Campobasso, entrava ed usciva da Molise senza essere avvertito.

Quando Michele in uno stato compassionevole per ciò che riguardava il di lui vestiario, entrò in casa dello amico Olivieri, questi a prima vista non lo riconobbe, ché la barba gli si era allungata, e gli strapazzi, nonché i dispiaceri sofferti, avevano impresso indelebili tracce di deperimento nella di costui gioviale, e nel tempo stesso sentimentale faccia di un giorno.

Ma appena lo ebbe potuto ravvisare, (come suol dirsi) gli mise la casa in collo; fu più che il benvenuto, e quanto di meglio racchiudevano il suo guardaroba e la sua dispensa, tutto fu cordialmente messo a disposizione di lui.

Poiché Squillace ebbe indossato gli ambiti abiti di velluto nero del compagno di studi, molto simile a lui nel personale, e dopo aver fatta pulizia del viso e della chioma si condussero entrambi nella sala da pranzo per confortare gli stomachi.

Alla fine di quella fraterna cena, Michele, parodiando Enea nel 2° libro di Virgilio, narrò all'amico Pasquale le sue passate vicende, tacendogli soltanto il punto che riguardava la di lui leggenda amorosa con Costanza.

Olivieri che voleva un bene matto al suo compagno di studi, si interessò per lui, e venuto a cognizione dei suoi affari di famiglia, gli domandò come pensava di fare per rimediare al suo interesse manomesso.

Michele gli rispose che non aveva ancora presa alcuna determinazione, perché ignorava a qual punto si trovassero le cose riguardanti la paterna eredità.

Allora il sincero amico si esibì di andare l'indomani a Castropignano, per tutto appurare; cosa che eseguì di fatto lasciando Michele come padrone di casa.

Il caro Olivieri per indagare il tutto con sicurezza e circospezione, si dovette trattenere due giorni in Castropignano, ma al suo ritorno fu completamente al caso di informare Michele circa le più minute cose.

Ecco quanto aveva egli potuto sapere per mezzo del cancelliere di quel tribunale col quale da molto tempo era in relazione più che amichevole.

«Appena morto il vecchio Maurizio Squillace, il tribunale castropignanese, nell'interesse di un coerede assente, fece applicare i sigilli alla casa dei signori Squillace, per poi inventariarne i mobili, le masserizie e gli oggetti preziosi.

«Ciò eseguito, fece scrivere al comando del 4° battaglione del 36 reggimento, affinché fosse fatto pervenire avviso ài caporale Squillace della morte repentina di suo padre — e perché fosse mandato in breve licenza, per presenziare l'inventario — ed in caso che ragioni di militare servizio si opponessero a ciò, perché si fosse fatto da lui delegare persona a legalmente rappresentarlo.

«Dopo 15 giorni, il prelodato comando del 4° battagglione, rispose, che il caporale Squillace erasi allontanato dalla milizia, e che quando non fosse rimasto vittima di un qualche agguato nella stessa città di Napoli, si aveva tutte le ragioni di crederlo disertore, e come tale fuori della legge.

«Allorché il giudice delegato a curare gl'interessi della «successione del fu Maurizio, ebbe in mano tale lettera col l'unito vi certificato, ordinò la remozione dei sigilli, e consegnò le chiavi della casa Squillace all'unico erede presente avvocato Leone, salvo poi a tutto inventariare nei giorni seguenti. Per tal modo l'avvocato, rimasto solo ed arbitro di maneggiare tutte le carte riflettenti la paterna eredità, prima di ogni altra cosa frugò nell'archivio e si impossessò. della sua dichiarazione, ché, come si è già detto, stava ad annullare l'atto di donazione della predetta masseria, fattale dal defunto padre.

«Ed infatti appena quel controfoglio fu in di lui possesso venne consacrato alle fiamme, e dopo consumata tale sottrazione di quel documento, fece regolare denunzia di ogni rimanente dell'eredità, che in tutto ascendeva appena a quattromila ducati, eredità sulla quale sarebbe spettata la parte al fratello minore quando già non fosse decesso.

«Ma Leone presentiva che il di lui fratello Michele non era morto, ed assicuratosi il possesso reale della masseria di Frosolone, fu sollecito di venderla a pronti contanti, temendo per quella, ulteriori molestie da «parte del fratello.

«Quel tenimento di terre prative, boschive, ed olivate, per cura di Leone era stato liberato da ogni ipoteca, onde, constatato che fu, come l'atto di donazione era stato fatto in buona forma, il compratore di quel possesso sborsò in tanta buona moneta all'avvocato Leone i ventimila ducati che ne formavano il prezzo.

«Con quel bottino in dosso l'usurpatore avvocato Squillace, un mese dopo la morte del di lui padre, si era definitivamente stabilito a Campobasso, ove già da molti anni aveva acquistato una casa ad uso di temporanea abitazione. »

Tale fu il racconto delle cose successe a Castropignano, e che Pasquale potè appurare.

Quando Michele, (che durante il racconto era rimasto muto e pensieroso), venne a conoscenza di tali infamie cosi si espresse coll'amico:

—Bisognerebbe che in segreto tu mi facessi avere un magnano o fabbroferraio ed anche un pugnale.

—E perché farne del pugnale? — domandò Olivieri—

—Per avere la mia parte di eredità!

—Forse con un assassinio?

—Non credo che occorrerà giungere a tanto.

—Ma io potrei essere compromesso come complice!?

—E chi saprà mai, che fui da te ospitato?

—Michele, mi raccomando alla tua amicizia.

—Vivi sicuro, o amico, che del sangue non se ne spargerà. —

Dopo questo breve dialogo, Olivieri che ormai si era di tanto interessato per la disgraziata sorte del compagno di giovinezza, gli imprestò uno dei suoi corti ed affilati pugnali, e mandò il fabbroferraio da lui, cosi ordinandogli — andate in casa mia, mettetevi a disposizione di un signore forestiero, che vi troverete, e l'opera vostra sarà da me pagata. —

L'indomani mattina il fabbroferraio si condusse ia casa Olivieri ed ivi, sotto la direzione di Michele, fabbricò alcuni ordigni, cui egli credette destinati all'usò di un nuovo genere di caccia

Michele nel 1854 era stato per qualche giorno a Campobasso in casa di suo fratello, onde sapeva bene che la di costui abitazione, era uno stabile di due piani, situato nella strada esterna di Campobasso nuovo, e provveduto di un orto recinto da muro.

Conosceva inoltre che il primo piano di quella casa abitata dal fratello, aveva due finestre che corrispondevano sull'orto; cosicché gli era sempre rimasta abbastanza bene impressa nella memoria la posizione di quello stabile, e specialmente del primo piano, che costava di una sala da pranzo, di uno scrittoio,

di due camere da letto, e di una spaziosa cucina, nel di cui mezzo vi era una botola, per mezzo della quale si accedeva al sottostante gallinajo, che riceveva aria da una angusta finestra praticata alla sommità della parete esterna.

Era parimente a cognizione di Michele, come il diffidente avvocato Leone non volesse che alcuna persona di servizio rimanesse a dormire nel suo appartamento, e come per domestica si servisse della moglie del pigionale che aveva in affitto il secondo piano, la qual donna, dopo avergli ripulito il quartiere, e preparato l'occorrente per alimentarsi, andava a dormire di sopra con suo marito lasciando in tal modo solo al primo piano, l'avvocato Squillace, che durante la notte era solito rinchiudersi di dentro il di lui quartiere.

Dieci giorni dopo, dacché Michele si era ricoverato in casa dell'Olivieri, una bella sera, tutto ravvolto in un nero mantello, s'incamminò alla volta di Campobasso.

Allo scoccare delle ore nove, già si era appiattato nell'orto del suo snaturato fratello; ivi stava attendendo che le finestre del primo piano si aprissero, come era da supporsi atteso la bella serata che invitava chiunque a serenare per alcun poco tempo di sotto la celeste volta, tutta cosparsa di fulgenti stelle.

In tale aspettativa Michele se ne stava impalato dietro uno dei due pilastri di mattone, che erano presso al pozzo, e da quel punto spiava inosservato quanto poteva accadere nella casa di Leone.

Dal riflesso di alcuni lumi, che erano nella sala da pranzo, potè capire che ivi Leone era a compiere la sua serale refezione.

Ed in vero dopo pochi minuti, nei quali egli ivi si trattenne ad osservare dal difuori ciocché poteva internamente avvenire, una finestra fu dischiusa, ed apparve da quella la brutta figura del suo persecutore.

L'avvocato Squillace poiché ebbe riempito di cibo lo stomaco, sentì il bisogno di rinnovare l'aria nel suo appartamento, ed a tale oggetto lasciò aperta una delle due finestre della sala da pranzo, ritirandosi egli nell'interno della casa.

—Ora a me — disse Michele — e gettato a terra il mantello, si fece sotto la finestra spalancata, e verso il davanzale della medesima, lanciò una fune, in cima alla quale erano assicurati due ganci di ferro, foderati di stame, affinché nel cadere sulla pietra non facessero rumore.

 I rampini dei ganci rimasero aggrappati alla mensola di quella finestra, e poiché Michele tirando fortemente a sè la fune, si fu assicurato che avevano solidamente fatto presa, per mezzo di diversi nodi, che aveva fatto a bello studio lungo la fune, si tirò su a braccia, e per tal modo potè agevolmente entrate nella casa dell'avvocato, procurando di fare meno strepito che fosse possibile.

In punta di piedi si avanzò sin verso lo scrittojo, e vide che suo fratello stava ivi leggendo al fioco chiarore di un antico lume di argento, che da più di cento anni era appartenuto alla di lui famiglia.

L'avvocato Leone gli voltava le spalle, e nulla aveva avvertito, onde Michele, denudato il bitagliente pugnale, di un lancio gli fu addosso, e colla destra gli mise la punta del pugnale alla gola, mentre colla sinistra gli afferrava i capelli.

Leone (voltatosi tanto da riconoscere Michele) voleva gridare aiuto, ma sentita la gelida lama minacciargli la carotide, si avvili il codardo, e così esclamò:

—Pietà fratello mio, che vuoi da me?

—Nulla — rispose Michele — solo che tu non gridi, e non faccia schiamazzi, se ti è cara l'esistenza. —

Esterrefatto, avvilito, terrorizzato dalla sua stessa nera coscenza, l'avvocato Leone, tanto audace nel delitto, divenne un coniglio, e tutto tremante nella voce, così disse al fratello:

—Farò tutto quello che vuoi, purché tu mi salvi la vita. —

Allora Michele così si espresse:

— A me le tue mani e riunisci i tuoi diti. —

Ciò ottenuto da Leone, lo incatenò applicandogli i pollici alle mani; dipoi gli impose di aprire la bocca, e quando Leone, obbediente e rassegnato, ebbe spalancato la sua fetente caverna del volto, vi intromise un ordigno di ferro,

che aveva un dado a vite nel suo mezzo, girando il quale, si apriva in tanti pezzi adunchi, che in quella guisa formavano un globo della grossezza di un piccolo pugno, il quale obbligava il paziente di rimanere a bocca aperta, e ad essere così impossibilitato di emettere il minimo suono di favella. — Era la. cosidetta Pera del silenzio. —

Quando lo ebbe acconciato in quella strana guisa, gli levò di tasca il mazzo delle chiavi, e quindi lo condusse nell'attigua cucina, sul di cui camino, alcuni resti di un morente fuoco mandavano tali sprazzi di luce da illuminarne l'ambiente.

Ivi giunto il vindice ed assassinato caporale Squillace, aprì la botola che era in mezzo della cucina, e fatto scendere Leone nel gallinajo mèdiante una scala a pioli, tirò fuori la medesima, ed incatorciò sul di lui capo lo sportello della tramoggia.

Nessuno dei vicini si era accorto di ciò che era avvenuto, e per tal modo Michele rimase solo e padrone di quell'appartamento, dove gli oggetti più preziosi gli rammentavano la sua passata vita di famiglia.

Vi era uno scrigno incastonato nel muro: senz'altro — pensò Michele — Leone deve ivi tenere stipato il prodotto della sua continuata frode.

Ritrovò poi nel mazzo delle chiavi quella che si adattava al rammentato forziere, e lo aprì colla massima facilità.

Quando lo sportello di ferro si fu schiuso avanti gli occhi di Michele, fece ravvisare ad esso tutto il bottino della fraterna rapina, per tanti anni consumata a di lui carico.

Riconobbe gli orecchini di brillanti della defunta madre, la tabacchiera smaltata del nonno, il medaglione di oro massello, col quale egli ancora era stato portato al sacro fonte battesimale, il quadretto di Salvadore Rosa d'immenso valore, e molti altri oggetti della sua prosapia: Michele ancora una volta contemplò quei cari ricordi, e pianse in rimembrarsi dei passati tempi di famigliare felicità; né volle appropriarseli quegli oggetti; si limitò a prendersi un reliquiario d'argento con catenella d'oro, dove erano custoditi i capelli neri della madre sua, ed i bianchi crini del padre — due care esistenze che non erano più.

Ma non era degli ereditari giojelli ohe cercava Michele; ei voleva ritrovare la somma, cui Leone aveva retratto dalla vendita della masseria; e vi riuscì, ché in un angolo di quello scrigno rinvenne un grosso involto di carta, ripieno di più e varie cartelle di rendita italiana al portatore, e di fedi del banco della SS. Annunziata di Napoli, delle quali cartelle i numeri progressivi li trovò trascritti in un foglio, a parte che era lì vicino al pacco dei valori.

Michele prima di ogni altra cosa bruciò quel foglio, e poi riscontrato che ebbe, come quei titoli di credito assommassero per l'appunto a ventimila ducati, ne prese la metà, e quindi, dopo avere rinchiuso lo scrigno, tirò a sè di sul banco un pezzo di foglio, e così lasciò scritto al fratello:

«Ti ho ritolto ciocché mi avevi rubato... che Iddio ti renda migliore. — Io parto per la nuova Oceania, non mi rivedrai più.» —

Ciò eseguito, per mezzo della solita fune si calò nell'orto, ed un'altra volta indossato il mantello, sparì fra le dense ombre della notte, ivi dipinte dal grave e nubi. toso ammanto, di cui era ricoperto il viso della vergognosa luna.

L'indomani mattina la donna di servizio dell'avvocato, ripetute volte scese giù dal suo padrone, ma sempre invano, ché malgrado i replicati bussi da essa dati all'uscio, nessuno rispose.

Alfine, quando l'ora fu tarda, lo credette ammalato o morto, onde ne avvisò la Questura, la quale, fatta ab. battere la porta, vi fece entrare i suoi agenti.

Si cercò l'avvocato Leone da per tutto, ma non si potè trovare; tracce di sangue non ve ne erano per sospettare un assassinio, la porta di strada era stata trovata chiusa dal di dentro e. perciò non si poteva supporre che egli fosse uscito di buon mattino.

— Che cosa sia dunque tale mistero? — si domandavano l'uno coll'altro. —

Ma quando per caso fu veduto sul tavolo il foglio di carta dove Michele aveva scritto quelle poche linee, fu da tutti convenuto che poco lungi doveva essere l'avvocato.

La donna di servizio, dalla scala della botola che trovò in cucina appoggiata ad una parete, arguì che il suo padrone dovesse essere nel gallinajo; infatti l'agente di polizia e la serva scesero a ricercarlo fra i polli, e ve lo trovarono, ma in uno stato miserando: non poteva far cenni colle braccia, non gli era dato parlare, ed era per l'umidità tutto ammuffito negli abiti, e lordo di gallinacei escrementi.

Fu tirato fuori, e poiché gli furono tolti la mordacchia dalla bocca, ed i pollici dalle mani, egli si precipitò sul mazzo delle chiavi che trovò abbandonate sul tavolo, e corse ad aprire lo scrigno.

L'ingordo avvocato Leone, nel vedere dimezzato l'involto dei valori, si mise una mano fra i capelli, e gettando bava dalla bocca, così gridò:

— Sono stato assassinato. —

E poi letto che ebbe lo scritto lasciatogli dal fratello, soggiunse: — e l'assassino fu mio fratello. — Dopo di ciò si condusse al telegrafo per dispacciare a tutte le # questure dei porti di mare del regno, perché arrestassero il ladro, supponendo che ancora non si fosse potuto imbarcare pel nuovo mondo.

Leone ferito nel vivo della sua insaziabile cupidigia dell'oro, per i primi giorni mitigò il di lui cordoglio colla speranza che suo fratello Michele venisse arrestato, ed anche impiccato; ma quando seppe che tutte le ricerche in proposito erano riuscite infruttuose, e che Michele a quell'ora doveva essere già arrivato in luogo sicuro, dal dolore che lo colpi, divenne talmente pazzo, che fu condotto come matto furioso allo stabilimento di Aversa, dove finì malamente i suoi giorni.

Leone Squillace era di una maligna ed egoistica natura!!

Il nostro battaglione aveva passato l'inverno in quel di Lari no ed in quel di Foggia dove venticinque notti del mese venivano da noi consumate a dormire sub jove, ed altri e tanti giorni ad inseguire le fuggenti bande a cavallo.

Ma nella primavera del 1863, la nostra 16a compagnia fu mandata in distaccamento a Castropignano: al mio giungere in quel paese tutti mi parlarono delle gesta del cosidetto brigante nero; mi fu raccontato che questi era moro nel viso come gli ovas del Madagascar — che appariva da per tutto, come una demoniaca visione — che fornito del dono dell'ubiquità come Sant'Antonio, oggi si vedeva in Castropignano, e dopo pochi minuti lo si incontrava a quindici miglia di distanza — che spesso regalava ai poveri rilevanti somme di denaro — e che, quando qualche disgraziato, sperso per la montagna del Matese, capitava nelle mani di Nunzio di Paolo, egli di proprio ne pagava il ricatto.

Insomma si narravano sul di lui conto storielle tali che ad uno scrittore avrebbero offerto materia sufficente per comporne un romanzo.

Dicevasi che quando qualche disgrazia colpiva alcuna famiglia di quei luoghi, essa invocava il soccorso del brigante nero, il quale non si faceva attendere a lungo per riparare al male e consolare gli afflitti.

Fui alloggiato in casa dei signori Alena, ed anche donna Anna, dopo avermi raccontato tutte le fasi del primo amore di Michele, allora creduto lontanissimo, mi entrò poi nel famoso brigante nero, che compendiava colla sua fama tutti i discorsi e le conversazioni del giorno.

Lo stesso don Tommaso Aliprandi mi descrisse alcuni atti di filantropia del misterioso brigante, e fra i tanti mi narrò quello che più mi fece sensazione e che mi accingo a ripetere.

Una povera famiglia di fittajoli, malgrado il continuo di lei lavorare, aveva tale maledizione in casa, che da più anni non le era riuscito di mettere assieme tanto, quanto occorreva per pagare il canone d'affitto.

Onde, miseria, squallore, salute malferma, e generale deperimento, regnavano sovrani fra gli individui di quella famiglia, quando come corollario a tanti mali, sopraggiunsero le minacce di licenza per parte del padrone del fondo locato: seppe tutto ciò il brigante nero, e senza porre tempo fra mezzo, regalò a quella famiglia duemila ducati a patto che ne rendessero grazie alla divina provvidenza.

Era giusto adunque che la nomea di quel brigante tenesse occupata in senso favorevole l'intiera popolazione.

In quella stessa epoca vi era in Castropignano la famiglia dei duchi, la quale si era ivi portata da Napoli, così per passarvi la primaverile villeggiatura, come per consumare i primi mesi di lutto grave, che portavano per la morte del vecchio don Antonio Lo-Giudice, avvenuta in Napoli nell'allora decorso inverno.

Mentre Bacci ed io passeggiavamo per le strade di quel paese incontrammo il duca Giacomo, il quale, avendoci riconosciuti, ci invitò di andare tutte le sere in casa sua a prendere il the.

Ancora la signora Alena mi esortò di andarvi, assicurandomi che, all'infuori del prete Aliprandi, nessun'altra persona faceva parte di quella conversazione, d'altronde familiarissima.

Il sottotenente Bacci fanatico pel giuoco del pitocchetto, dopo che ebbe avuto da don Tommaso la promessa, che avrebbero fatto la cacciata (1) di almeno due lire, vi andò subito la prima sera del giorno in cui fummo invitati.

La seconda sera vi andai ancora io, e per verità, in quella ricca e nobile famiglia vi ritrovai una cordiale accoglienza.

(1) Cacciata, termine ad uso dei giocatori di data, e che significa scommessa.

La duchessa Costanza nel rivedermi, e però nel ripensare alla scena avvenuta tra lei e Michele alla Abbadia di San Severo, divenne rossa in volto. Io mi aspettavo di ritrovare quella bella signora in uno stato di afflizione, atteso la lontananza del suo Michele, (poiché tutti lo credevamo già in Oceania) ma vidi invece, che ella era abbastanza tranquilla, e direi quasi felice.

In tale circostanza, dal di lei contegno mi feci un brutto concetto della ingratitudine e della instabilità femminile. —. Ma mi ingannai. —

Una sera eravamo nel salotto grande della duchessa, dove ad un tavolo si era impegnata una partita al pitocchetto fra il duca, don Tommaso, ed il mio sottotenente: io stavo ragionando colla duchessa del più e del meno; ella, che era di umore gajo si divertiva a raccontarmi i fasti della sua briosa vita di Napoli, e di tarato in tanto faceva qualche epigramma sui tanti e profumati suoi adoratori.

Mi fece intendere ohe ai dilettava di trascinarli tutti a delle arcadiche illusioni ma che quando essi azzardavano di troppo, metteva loro in quarantina: infine, si sarebbe detto, che quella dama fosse una donna leggera ma non era tale, sebbene fosse stata troppo esposta da suo marito.

Mentre la nostra conversazione toccava l'apice delle più eccentriche avventure, si udì un canto, che dal vicino bosco arrivava sino a noi.

lira una soave e malinconica cantilena, cui ci tramandava una robusta voce baritonale, accompagnata dal suono di una chitarra.

Udire tali serenate nell'Italia meridionale non fa specie, sono cose di tutti i giorni, e direi quasi di ogni momento.

Ma quella voce non fu nuova per me, e mi convinsi che difatti mi era, nota, quando fissando in volto la duchessa vidi che ella cambiò di colore; tanto quell'armonia poteva nel di lei cuore da farle apparire la più accentuata impressione sui lineamenti del di lei viso. Come la musica serve a ridestare gli affetti!

Dicesi che Saul allorché era attaccato da furori o da rimorso, tosto si calmasse se a lui giungevano tocchi di armoniosa lira; a Costanza così quelle note rinverdivano la speranza d'amore, dissipandole qualche nube che le offuscava la fronte.

Mi rammento di queste sole strofe:

Tu nata ricca

graziosa, bella,

crescevi pura

nobil zitella

avevi in viso

il paradiso.

A te, bellezza

dal capo biondo

fuor de' rumori

del falso mondo,

io fui vicino

nel tuo giardino.

Ma fu l'invido

nume dell'oro,

che obliato

suo disdoro

ti straziò il cuore,

con finto amore.

A questo punto della canzone il viso di Costanza non aveva più color deciso; il sangue le appariva e spariva dalle guancie, incominciò a balbettare ed a dare delle sconnesse risposte alle mie domande: si sarebbe giudicata fuori di mente.

Ad un tratto come guidata da idea improvvisa si alzò, si affacciò alla finestra, che dava sul giardino, e dopa aver preso comiato da tutti noi, si ritiro nelle sue stanze che erano al piano terreno.

La mattina seguente il brigadiere dei carabinieri mi avvisava, che sulla strada di Frosolone si era visto di notte tempo avvicinarsi a Castropignano un uomo armato, che aveva tutta l'apparenza di un brigante, e mi soggiunse che egli avrebbe trovato ben fatto, appostare in quella via alcune sentinelle per poterlo sorprendere.

L'indomani ordinai al furiere di comandare un tale servizio, ed infatti la veniente sera un posto avanzato di sei uomini ed un sergente, si appostò presso la siepe del giardino del duca, rasente la quale era la strada che conduceva a Frosolone.

Alle ore dieci e qualche minuto eravamo secondo il solito a passare la serata in casa del duca Giacomo, e co testa sera avevo ritrovato la duchessa talmente allegra, che ella per la prima mi pregò di voler fare qualche partita all'ecarte con lei.

Nell'altro tavolino vi era partita al pitocchetto in quattro, ché ancora il padre di Costanza volle in tale occasione fare un'ora più tardi del solito.

Il duca Giacomo aveva guadagnato un piattello relativamente considerevole, e fra le allusioni sardoniche al brigante nero, egli se la rideva, contento come un santo Ermolao.

All'improvviso si sentirono diverse detonazioni prodotte da arme da fuoco, e che venivano dalla parte del giardino.

Un ohe generale interruppe a tale rumore quella lieta conversazione, e tanto io quanto Bacci corremmo subito verso il luogo dove erano avvenute tali esplosioni.

Io, avanti ogni altro, raggiunsi il posto avanzato, e trovai in mezzo alla via che conduce a Frosolone, un brigante morto, disteso per terra, e che aveva sulla faccia una nera pezzuola di seta, nella quale erano praticati i diversi buchi, degli occhi, del naso, e della bocca, come se si fosse trattato di una visiera da maschere.

Uno dei soldati era corso a ricercare di un lume, ed infatti al chiarore di quello potei meglio discernere tutti i particolari del famoso brigante nero, che aveva al suo lato sinistro la chitarra, ed a quello destro il moschetto, il quale fu di poi costatato esser carico a sola polvere,

Vietai ai militi di frugarlo nella persona ché già mi ero immaginato chi egli potesse essere, onde sollevatogli dal viso la pezzuola, riconobbi Michele Squillace, che aveva ricevuto una palla in fronte, ed era morto sul tiro guardando il cielo, col sorriso sulle labbra.

Egli per una serie di fatali circostanze che mi farò a raccontare si era fatto brigante, e quella sera si era av vicinato al giardino di Costanza, ignorando che vi fosse un agguato dei suoi camerati di un giorno; e poiché non aveva risposto al chi viva, fu mortalmente bersagliato per finire una vita di pianto e di amore.

Gli tolsi dal collo il reliquario, entro di cui erano stati collocati altri capelli biondi, e dopo di questo gli levai ancora una borsettina di seta, dove erano rinchiusi alcune lettere, dei fiori appassiti, ed un ritratto; tali oggetti li custodii gelosamente presso di me.

Il giorno di poi fu data sepoltura al cadavere del brigante nero nel cimitero municipale, e quando tutti lo riconobbero per Michele Squillace, sempre più fu universalmente compianto.

E ne avevano ben ragione, ché quel disgraziato, ma generoso mortale aveva consumato la intiera di lei quota, ereditaria, ripresa all'usurpatore di lui fratello, in tante elargizioni ai poveri, ed in molteplici atti di cristiana carità.

Costui quando fu costretto da imprevedibili accidenti di entrare nel numero dei briganti, non menò stragi, ma le impedì meglio che potè, non impose, ricatti, ma li pagò del proprio per liberare altri, non agognò mai di ricollocare sul trono un potere sovrano, che era caduto per decrepetezza,

ma procurò il più che gli fu possibile, di italianizzare e ridurre nel retto sentiero alcuni di quei briganti, che per dato e fatto suo dopo la di lui morte si costituirono spontanei all'autorità; infine Michele quando fu obbligato di prendere sembianza di reo, si dedicò invece corpo ed anima a sollevare i tapini.  E adesso che il lettore conosce come il brigante nero altri non fosse se non ché lo stesso Squillace, quanto più in succinto mi sarà possibile, racconterò per quali strane combinazioni dovette farsi brigante, ed entrare nella banda di Nunzio di Paolo.

Appena Michele potè, per quel mezzo audace ed ingegnoso, che già il lettore conosce, riavere la sua quota «ereditaria sul patrimonio paterno, si ricondusse tosto al «piccolo paese di Molise, in casa dell'amico Pasquale Olivieri, al quale raccontò come era andata la faccenda, e mostrò i valori, che da sè stesso si era presi per rifarsi del prezzo a lui spettante sulla masseria usurpata dall'avvocato Leone; dipoi fattosi anticipare su di una fède di credito circa 100 ducati, fu sollecito anzitutto, di mandare a chiamare il fabbro ferraio che aveva costruiti gli Ordigni già descrìtti, e con quella sommetta di danaro, che relativamente all'artigiano poteva considerarsi come vistosa, si assicurò del di lui silenzio su qualunque sospetto fossegli potuto venire.

Ciò fatto, nella veniente mattina pregò l'àmico ed ospite Olivieri di condursi a Napoli, all'oggetto di poter cambiare i titoli di credito in tante ome d'oro o in marenghi, e nel tempo stesso di acquistargli per conto suo una larga cin. tura di cuoio a quattro fibbie che da lui cinta sulla nuda carne dall'ascella al corpo era destinata a nascondere e  contenere le tante monete d'oro ricavate dal cambio dei titoli.

Infatti il caro Pasquale Olivieri quel giorno stesso montò sul suo cavallo baio, del quale si serviva come di eccellente cavalcatura, e su di esso si avviò alla vicina Campobasso.

Colà giunto seppe che un drappello di bersaglieri, appunto quella mattina, partiva per Maddaloni, onde si accompagnò ai medesimi, e così scortato, in una notte ed in un intero giorno di continuato cammino, percorse tutto lo stradale, che già tante volte ho in questo racconto descritto.

Quando fu arrivato alla stazione di Maddaloni s'informò dall'ufficiale comandante il drappello del come e del quando sarebbero ritornati a Campobasso, e poiché fu stabilito che ciò sarebbe avvenuto allo spirare del terzo futuro giorno, gli affidò il di lui cavallo ad un suo conoscente e per mezzo della via ferrata si trasferì a Napoli.

Come il lettore ben rammenterà, Michele, nel prendere i titoli al portatore da dentro al forziere, fu premuroso di distruggere il foglio sopra al quale erano annotati i numeri progressivi e quelli della serie designata nelle cartelle, onde, senza esporsi a nessun rischio, Olivieri potè vendere a più è diversi cambiavalute le nominali fedi di credito, ed i titoli al portatore.

D'altronde, se anche Leone si fosse potuto ricordare di qualche numero, la polizia non poteva avere avuto il tempo di avvisare tutti i cambiavalute d'ogni città d'Italia, allorquando la di lei incalzante premura era quella di potere avere nelle grinfie il fuggiasco disertore.

Per tali motivi l'operazione del cambio fu da Pasquale fatta con tutto agio e senza pericolo in un giorno solo, cosicché comperato che ebbe la cintura per Michele, se ne ritornò a Maddaloni con quel gruzzolo di belle monete d'oro.

Ivi arrivato, appunto quando il plotone dei bersaglieri Affrettava la di lui partenza per Campobasso, mise entro le bisacce il piccolo tesoretto da lui precariamente posseduto, e rimontato in sella, senza alcun brutto incontro se ne ritornò d'onde era partito.

In quei quattro giorni impiegati da Olivieri per andare a Napoli e ritornarne, Michele era rimasto nascosto in casa dell'amico, e ad ogni incomoda visita che fosse stata fatta in quella abitazione, egli si ritirava nella sua camera rinchiudendosi dalla parte di dentro.

Quando Olivieri ebbe eseguito, da fido ed onesto amico la commissione affidatagli, e che insieme a Michele dette luogo alla mattinale refezione, Squillace nel momento in cui l'amichevole conversazione toccava i più elevati gradi di reciproca cordialità, così disse ad Olivieri: —

—Amico mio, non ho parole  né modo di esprimerti la millesima parte della gratitudine che sento a tuo riguardo, per quello che hai fatto e tutt'ora fai per me; mi proverò a dimostrartela in minima parte facendoti la seguente professione di fede.

—Io credo — soggiunse — che quando ad un uomo sia toccata la disgrazia di avere un fratello maggiore malvagio quanto lo è il mio, sia decreto della provvidenza che egli debba incontrare un amico, che riunisca in sè tutte le buone prerogative di benevolenza, di fratellanza e di amistà, quali avrebbe dovuto avere il di lui perverso germano.

Onde, siccome in natura tutto si compensa, così l'odio, la persecuzione e la spogliazione, che mio fratello ha esercitato a carico mio, vengano adesso controbilanciate dal tanto amore e dalle immense premure, che tu mi hai dimostrate coi fatti, offrendomi il mezzo di scongiurare in parte la mia avversa fortuna.

A tanto affettuose parole, molto intese d'interminabile riconoscenza, l'affezionato Olivieri, prima gli strinse con effusione la destra, e poi in tal modo gli rispose:

—Caro fratello di amistà, quel poco che io ho potuto fare per te nella tua critica posizione, non è stato altro che un piccolo tributo, cui mi è stato caro pagare all'amicizia che da tanti anni ci lega; e tu, o amico mio, non puoi mostrarmi la tua gratitudine in miglior modo, se non in quello di metterti in posizione tranquilla, ed in luogo sicuro, onde io sarei di remissivo parere, che tu dovessi, sotto altro nome, procurarti un passaporto per l'estero, e così porti in salvo non solo, ma trànquillizzare ancora me circa la tua incerta e critica situazione.

—A tali parole Michele stralunava gli occhi, del che accortosi Olivieri, così soggiunse:

—Immaginati con quanto piacere io dividerei tutta la mia esistenza con te; figurati di qual consolazione non mi sarebbe l'idea di averti ospite, consorte dei miei affari, ed indivisibile compagno per sempre; ma rifletti, o amico mio, che pesa sul tuo capo una denunzia di aggressione a mano armata, e più tremenda ancora una condanna in contumacia come disertore. Se per una di quelle imprevedibili combinazioni, cui mente umana non sa immaginare, si venisse a scuoprire che tu sei qui rifugiato, e che però tu dovessi esser tradotto in potere della giustizia, quale infelice sorte ti toccherebbe mai? Qual dolore, quale afflizione sarebbe la mia, nel vederti perduto?

Michele comprese allora che l'amico Pasquale aveva perfettamente ragione, e dopo qualche minuto di seria e solenne riflessione, cosi si fece a rispondergli:

—Purtroppo dici bene, o mio compagno d'infanzia, i tuoi consigli e i tuoi giusti apprezzamenti mi scendano al cuore come la voce di un angelo che voglia ad ogni costo salvarmi, come la intuizione di uno spirito tutelare che aneli veder migliorata la mia esistenza; ma prima che io mi accinga ad allontanarmi dall'Italia, fa duopo che io ti renda depositario di un gran segreto, e t'incarichi di una missione che sola può decidere della mia tranquillità.

Fu in questo punto quando Michele raccontò per filo e per segno all'Olivieri tutte le fasi della fatidica passione per Costanza, e poiché gli ebbe potuto far comprendere quanto smisurata era sempre la sua affezione per lei, lo scongiurò, per il bene che a vicenda si volevano, di procurargli, o almeno di volergli indicare persona segreta e fidata per poterla inviare a Castropignano in traccia di certo Antonio Ferrara, cocchiere particolare della duchessa Costanza: ed in pari tempo gli fece capire che la duchessa gli aveva raccomandato di non valersi del mezzo postale sinché non fosse ritornata a Napoli.

Appena per tali rivelazioni Olivieri fu al caso di penetrarsi della causa vera di tutte le peripezie accadute al suo amico d'infanzia, capì tosto di che si trattava, e fornito siccome era di animo gentile e sensibile, ancora essoprese vivo interesse al disgraziato, ma nobile amore di Michele,

ed il suo interesse giunse di subito a tal punto che in un eccesso di entusiasmo così gli rispose:

—E chi vuoi, che io possa trovare più fido e più segreto di me stesso?

A tal prova di affetto e di sacrifizio personale dell'Olivieri, Michele si stemprò in lacrime, ed alzatosi dalla sua scranna, andò ad abbracciare a più riprese così impareggiabile amico; indi, come trasportato da un eccesso di gratitudine per lui, gli prese la destra e glie la coprì con cento baci.

A tale espressivo e spontaneo atto di incontestabile riconoscenza, Pasquale Olivieri, commosso anch'esso fino alle lacrime, gli restituì caldi baci sulla fronte, e poi così soggiunse:

Tutto farei per te, purché potessi giungere a renderti la tranquillità e la sicurezza della vita. —

Dato in tal modo termine a sì commovente colloquio, fu fra essi convenuto che l'indomani mattina Pasquale sarebbe andato a Castropignano per rintracciaré il cocchiere di Costanza, onde consegnargli la seguente lettera, già scritta e preparata da Michele. In essa così si esprimeva:

«Adorata Costanza,

«Dacché ebbi il piacere di inviarvi per il noto mezzo l'ultima mia, nuove e più disgraziate vicende mi hanno amareggiato l'esistenza.

«Appunto allora, quando mi ero ripromesso al cuore di non vivere mai più lontano da voi, uno scellerato quanto nero intrigo di mio fratello Leone, mi costrinse a subire la più grande sciagura che poteva colpirmi, quale era quella di dovermi allontanare dai luoghi, che voi sola rendete deliziosi per me colla vostra presenza.

«Ma mi sarei assoggettato alla dura prova di passare lungi da voi i pochi mesi che mi legavano al militare servizio, se nel soggiornare a Napoli, per poi condurmi a Spoleto, dov'ero stato misteriosamente traslocato, un mio amico non mi avesse informato della improvvisa, quanto dolorosa perdita di mio padre, e del come il mio trasloco fosse del tutto dipeso da alcune denunzie fatte a carico mio, dal mio iniquo fratello.

«Il pensiero dell'onta, ed anche del danno materiale da me sofferto per causa delle bugiarde delazioni fatte a mio carico da chi più di ogni altro mi accosta per  legami di sangue, suscitarono nel mio cuore un senti«mento nuovo per me; quello di una giusta vendetta.

«Onde è che, eccitato da tale imponente desio e guidato come sempre dall'irresistibile ansia di respirare nel medesimo ambiente dove voi respirate, smarrii la rare (pone, e fuori di mente come mi trovavo, mi detti alla campagna qual disertore.

«Vagai, o mia Costanza, di dirupo in dirupo, misero, affranto e fuggente, sinché raggiunto un eremo sconosciuto a molti, fra i rigori di un algente inverno ed in mezzo alle più terribili privazioni, vissi per oltre un mese alla discrezione degli elementi.

«Quando sull'estrema vetta del Matese, solo, mal coperto. infreddolito ed affamato, io ricercavo fra i pochi ardenti tizzi di fuoco, novello calore del corpo, quasi assiderato, il pensiero di voi. apriva alla vista della mia mente un incantevole orizzonte cosparso di future gioje! Ma, oh Dio! dopo pochi istanti la tetra realtà cacciava lungi da me quelle beate visioni, e mi spiegava dinanzi agli occhi, tutti i freddi orrori della morte.

«Costanza; Dio sa quanto male avrete inteso dire di me; la bugiarda fama mi avrà a voi dipinto siccome un aggressore o un vagabondo che nemmeno fu buono a terminare la sua ferma di servizio.

«Ma sappiate ch'io sono invece tanto sventurato quanto onesto, e che se solo con mezzi violenti rivendicai i miei diritti di natura, manomessi da snaturato fratello, ciò avvenne pel solo scopo d'impiegare la mia. fortuna in tante opere di beneficenza.

«E voi che da tanti anni vedeste svolgersi tutte le dolorose pagine della mia fatidica storia, dove sin ora  altro non si legge se nonché dolori e sventure, voi in«fine che conoscete quanto fui sempre disinteressato, voglio sperare che non vorrete condannarmi; e se voi, voi sola o Costanza, vi degnerete chiamarmi giusto e riguardare il mio operato siccome una necessaria vendetta o una riparazione, ai danni miei, ciò significherà che per vostro mezzo Iddio mi ha perdonato; ciò basterà perché io possa dirmi del tutto riabilitato al bene. Che cosa d'ora innanzi sarà di me, non potrei esprimervelo; nel mio avvenire tutto è oscurità, incertezza e sconforto: forse seguiterò a qui tenermi celato, forse dovrò fornirmi di passaporto sott'altro nome per andare a morire in remote spiagge. Una vostra sola parola che accenni a consiglio sarà quella che mi farà prendere l'estrema risoluzione.

«Purtroppo vedo che dovrò rinuziare per sempre alla tanto sospirata felicità di possedervi. — Il cielo non permise che il nostro amore si traducesse in fortunati nodi, perché l'affetto di noi è troppo sublime per essere appagato in questa terra di mendaci passioni e di scusati vizi 0 Costanza del pianto. mio, o angelo delle notti insonni, nello squallido deserto della vita vi è un'oasi di celesti speranze; affidiamoci a quella, ed amiamoci in eterno.

«Anelo avere una vostra replica, ove io possa ravvisarvi una parola di conforto, una speranza, una nuova promessa d'amore; desidero oltre di ciò che mi giuriate come io ve lo giuro, di essere la mia fedele, ancora quando sarò lungi da voi, e che non mai trascurerete dal salvarmi la vita coll'inviarmi, ovunque dovrò riparare, i vostri da me tanto desiderati caratteri.

«Michele, che tanto vi ama»

L'indomani mattina, dopo che Squillace ebbe aperto interamente l'animo suo al compagno d'infanzia, questi prese con sè la lettera di Michele, e si condusse al vicino paese di Castropignano, ove dovette soggiornare un pajo di giorni per avere il modo non solo di ritrovare, ma ancora di procurarsi una certa confidenza col cocchiere di Costanza, e poi consegnargli la lettera.

La sera del giorno in cui Pasquale era partito per Castropignano, Michele stanco ormai di starsi rinchiuso in quella casa, e profittando di una certa oscurità del cielo, che in quella sera si verificava, usci di casa, passando dalla porta segreta dell'orto, ed andò a passeggiare inosservato più qua e più là dell'aperta campagna.

Girellando in tal modo fra gerbidi e vigneti raggiunse la strada, che da Baranello conduce al paese di Molise.

Codesta sera Michele era come al solito vestito di velluto nero, aveva in testa un cappello nero a cencio, con fibbia di bianco avorio, ed avvolta al collo una larga pezzuola di seta nera; sul braccio sinistro portava il suo mantello di panno, del quale si proponeva ricuoprirsi in caso di pioggia, e colla destra impugnava una mazza di cerro, dove invece del pomo vi era adesa una piccola ascia d'acciajo che andava poi a finire in acuta punta, dimodoché quel tal bastone così forte e pesante poteva all'occorrenza servirgli di terribile arma.

Si era soffermato in un sito pittoresco, che è alle falde di selvoso monte denominato la caverna di S. Giovanni.

Silenziosa era la notte, e sembrava che nessun lamento o canto di gioia dovesse troncare l'alta solitudine di quei neri monti, quando all'opposto di quanto si aspettava, Michele udì un acuto urlo mandato da voce femminea, e che molto rassomigliava ad un grido di naufrago, implorante soccorso.

Squillace a tale urlo si riscosse tutto e per prestarvi maggiore attenzione tese meglio l'orecchio, tanto da distinguere se quello fosse stato ringhio di strea, o voce di mortale.

Non guari tempo dopo sentì ripetersi più prolungato un tal lamentio, e dalle sconnesse parole di questo, che invocavano il divino aiuto, potò comprendere che tali invocazioni dal timbro di voce vibrato ed argentino, erano proferiti da giovane e gentil donna.

Chi mai sarà? — pensò Michele. — Come mai una giovin dama in queste selve ed a quest'ora?... Ma le frasi pronunziate erano di distinto ed aristocratico eloquio!... chi dunque potrà mai essere?

Nell'improvvisa confusione di mente che a tale imprevedibile ca' 90 8'impossessò di lui, gli sembrò di ravvisare nel suono di tale voce, quella della sua Costanza, ed a tanto crudele dubbio fattosi dimentico dello stato eccezionale in cui si trovava, corse a precipizio verso il luogo. da dove erano a lui giunte quelle voci, per meglio sincerarsi.

Quando tutto ansante pel troppo correre potè raggiungere la cima di un agevole promontorio, che lo separava dal punto dove qualcosa di insolito avveniva, egli potè scorgere due uomini dal costume cafonesco di quei paesi r che mal trattavano un a giovane signora, la quale, dal chiaro abito, allora di moda altrove ed inusitato in quei paesi, e dalla taglia lanciata, si presentava come una signora d'alto rango.

A tal vista Michele sempre più sospettò che fosse la sua Costanza (d'altronde sapeva essere ella, a Castropignano distante da quella località poche miglia) onde in un baleno mille dubbi gli si affacciarono alla mente e prima di tutti quello più tremendo di un possibile di lei rapimento.

Il lettore può gi£ immaginarsi che cosa poteva avvenire allo svolgersi di questa scena romanzesca. Infatti Michele non pose tempo di mezzo e con pochi passi di corsa, piombò addosso ai due sconosciuti, che con due terribili e celeri colpi dell'adunco o tagliente manubrio del suo randello, stramazzò a terra già feriti a morte.

In così fare disse: — Ribaldi, guai a voi se torcerete ancora un capello a questa signora. —

Ma mentre Michele credeva di averla del tutto liberata dalle strette di quei masnadieri, e si faceva a rianimare l'atterrita signora, da un grosso foro che comunicava nello spazioso antro, che trovavasi in quel monte, scaturirono fuori oltre 80 briganti, i quali attorniatolo e messogli i moschetti alla faccia gli dissero in orrendo coro:

— Faccia a terra.

A forze tante volte maggiori Michele dovette arrendersi, ed insieme alla incognita dama fu dai briganti fatto entrare a forza nel vicino antro, dove trascinato fra strette, scoscese, e dirupate gole di monti, si trovò bentosto in mezzo ad una spelonca, sovra la quale appariva di tanto in tanto qualche lembo di cielo.

Ma chi era mai quella mal capitata dama? (sento domandarmi dal cortese lettore).

Mi faccio a spiegarlo in tutti i suoi dettagli a condizione che mi sia perdonata una troppo lunga digressione.

Nel 1860 si effettuarono in Roma illustri nozze fra il principe di Altavilla, giovane di circa 27 anni, e la contessina De Agostinis, che varcava allora di pochi mesi il suo ventiduesimo anno.

Di tale matrimonio per molto tempo se ne parlò nell'alta società romana, e più a lungo ancora nella numerosa colonia straniera, dove la giovane sposa, da zitella  godeva di un bel nome.

D'altronde il principe Altavilla apparteneva ad un'antica casa della Lombardia, che si era da pochi anni domiciliata a Roma, dove gli Altavilla vissero con sfarzo e lusso meglio che principesco, ed in pari tempo la contessina De Agostinis, per leggiadria, per squisita educazione e per il di lei abituale brio, era ritenuta per una delle più preziose gemme del patriziato romano.

Tale matrimonio fu effetto di una prima impressione, molto favorevolmente ricevuta sul conto della De Agostinis, dal principe Carlo di Altavilla, in un ballo dell'ambasciata francese, dove gli sposi, poco tempo avanti del loro matrimonio, per la prima volta si erano incontrati e conosciuti.

Il repente affetto che guidava Carlo nell'affrettare tali sponsali era prodotto piuttosto da un sensuale trasporto giovanile, che non da una profonda e matura affezione.

A confronto di Altavilla la De Agostinis non era ricca, ma era molto spiritosa, abbastanza colta in tutto e di nobile casato, onde poche difficoltà si frapposero all'effettuazione del loro imeneo.

Fece spece a tutti gli appartenenti al mondo elegante il vedere che in poco più di tre mesi si ponesse in essere questo nuovo parentado; ma le impazienze di Carlo furono abbastanza giustificate dai tanti meriti della contossina Ada De Agostinis.

Quando i fidanzati si appressarono all'altare matrimoniale, se la contessina fosse innamorata del principe, rimase sempre un'incognita; quello che è più noto si è, che ritornati i novelli sposi dal viaggio di nozze, apparivano come la più felice coppia di tutto il mondo.

Dove vi sono le ricchezze e la gioventù, è cosa facile che sui primi tempi del loro coniugio, i coniugi trovino la contentezza e la felicità: per essi la difficoltà consiste nel sapersela conservare.

Dopo che Ada ebbe dato alla luce il primo figlio, ella teneva tale un contegno, che destò l'ammirazione della gran società; infatti, senza essere la moglie di Ulisse,  né avere le dita molto adatte ad ordire la leggendaria tela, poteva ritenersi per una buona madre di famiglia, almeno per quello che faceva la piazza.

Non fu così del gaudente marito; egli poiché ebbe appagato quei tali appetiti, che soli lo spinsero a sposare Ada. si dette in braccio prima ad occulto e poi a palese libertinaggio.

Costui passava mesi e mesi lontano dalla moglie: e frequentando per solito il tavolo del 30 e 40 di BadenBaden, si lasciava andare in braccio di donne perdute e venali, per le quali trovava sempre quelle tali carezze ché aveva del tutto obliate a riguardo della sua consorte.

La principessa Ada sapeva queste sregolatezze di suo marito, ed è facile immaginarselo se tali affronti al di lei amor proprio di donna ogni giorno di più diminuissero la di lei affezione per lo sposo.

Quando il principe andava a Roma, teneva per poco tempo la regolare condotta di marito e di padre, e poiché la di lui sposa talvolta gli rimproverava le sue lunghe assenze dalla famiglia, egli cosi le rispondeva: —

—È inutile, o amica mia, Roma non è città per me, la trovo troppo monotona, non posso trattenermivi a lungo. —

—Ma ci hai la tua casa e la tua sposa — rispondeva la poco soddisfatta Ada. — Che non la conti nulla l'affezione di tua moglie che ti vuole cosi bene? E non senti, o ingrato, il bisogno di veder tutti i giorni la tua creaturina?

—Ma sì, ma sì, — soggiungeva il principe Carlo — ti voglio bene e molto ne voglio ancora alla mia creatura, ma d'altronde sono sempre giovine e robusto, e sento il bisogno di viaggiare e di distrarmi al giuoco; infine dei conti poi nulla ti manca a completare la tua sodisfatta esistenza; tu hai un bellissimo palazzo, possiedi di che comprarti le più belle acconciature, nei migliori teatri sono a tua disposizione le più ben situate logge, hai pariglie di cavalli e cocchi, che per eleganza e per costo non la cedono a quegli di nissuno, hai cocchieri e staffieri gallonati, hai servi e cameriere che prevengono ogni tuo desiderio ed ogni tuo bisogno, hai infine un'eletta di frequentatori delle tue serate di ricevimento, che ogni dì si aumentano, e che tutti senza distinzione ti fanno la corte... Cosa puoi dunque desiderare di più?

A questa lunga enumerazione di favori e piaceri a lei rinfacciati, la principessa si morse leggermente le labbra, divenuta pallida per lo interno dispetto, e muta, ma se vuoi troppo eloquente, fissò i di lei languidi occhi sulla cinica faccia del suo ingiusto e disamorato consorte.

Accortasi allora che aveva oramai perduto l'affetto del di lei marito (ché amore non s'impone) accettò tutte le gioie che egli le offriva in compenso del di lui abbandono e l'idea della rappresaglia le arrise alla mente.

Il marito ripartì per le solite imprese di dovizioso discolo, ed ella, la principessa Ada, incominciò ad accettare davvero la corte dei frequentatori della sua casa.

Le giovini dame della gran società, che per un certo raffreddamento di affezione verso il marito, o per il poco rispetto che portano a sè stesse, vengono designate col nome di donne libere, hanno inventato un termine per scusare le loro ripetute leggerezze.

La parola capriccio sta di fronte alla costoro elastica coscienza quasi direi come un legittimo adulterio, scusabile a riguardo della sua stessa brevità e comoda variabilità.

Di questo genere di velate infedeltà i mariti alla moda non si mostrano gelosi, e se talvolta rimproverano alla moglie un qualche di lei malpasso, zittiscono subito, se ella è pronta a rispondere — Fu un capriccio!!

Laonde l'ormai perduta principessa Ada, senza ritegno alcuno, folleggiò di caprìccio in caprìccio con tutti i suoi più simpatici, a segno tale che quasi ogni giorno la si vedeva percorrere sola, a piedi, ed in ore disadatte, le lunge vie di Roma, ovvero la si faceva scorgere dai curiosi quando nelle più solitarie vie della città. entrava in appartamenti di sconosciuti abitatori, ed infine destava più volte l'ammirazione del vicinato, allorché ella stessa, due ore dopo la mezzanotte, schiudeva a misteriosi convegni la porta segreta del suo giardino.

Faceva male; ma il di lei marito non faceva forse di peggio?

Insomma quella signora era giunta a tal punto. di discredito nella fama, che quando con i suoi magnifici cocchi, tirati da superbi palafreni, interveniva al passeggio, la gente seria, nel vederla con provocante civetteria fissare i suoi occhi castagni chiari sui suoi passati, presenti e futuri amanti, così esclamava:

— Guardate mo quella nobile etera come è prodiga del di lei onore e dei suoi favori!?

Ma lei poco si curava dei critici di ogni ceto, e di ogni sesso, e proseguiva per l'intrapresa via di godersi la vita trascinando nel fango il suo onore e quello della famiglia.

Il marito quando per momenti ritornava a Roma, si mostrava contento nel vedere che la sua consorte non avesse distinzione o preferenza per alcuno dei suoi amici, e da ciò ne traeva la conseguenza logica che nissuno di essi, sino ad allora, avesse potuto interessarla.

L'illuso pretendeva che, mentre egli si trovava in mezzo ad ogni genere di orgie e di tripudi, la c asta moglie fosse rimasta in casa a filare colla rocca al fianco, o tutto al più si contentasse di parlare di mode, di teatri e di feste una sola volta alla settimana e con i soli frequentatori della di lei cerchia.

Ma ella all'opposto tutte le notti si tratteneva in più che amichevole conversazione con sempre nuovi drudi, e senza avere per alcuno dei medesimi una durevole preferenza, cicaleggiava con essi tutti, ricordandosi di tanto in tanto che ancora ella era giovane dama.

Però è provato che quando l'indole di una donna non è portata al sensualismo, ma che siavisi data in braccio o per un concorso di cause indipendenti dalla di lei inclinazione, o per puntiglio, o per avere letto troppi romanzi immorali, la nausea dei fugaci piaceri non può tardare ad impossessarsi di essa, ed in tal caso il pensiero del proprio decoro riprende facilmente l'impero dell'anima sua; — è questa la reazione che si procura il bene a scapito del male. —

Ada cominciò a seriamente riflettere che quel genere di vita disonorava l'intiero suo casato, e preparava al figlio un tristo avvenire; ed a tali pensieri di resipiscenza, procurò di mutare contegno; cosicché certa ormai di essersi presa ampia rivalsa sulle intemperanze dello sposo, ogni giorno di più restringeva il numero dei di lei amori.

Enavi nel numero dei frequentatori della casa Altavilla un uomo sotto la quarantina, certo Ernesto De Raynal nativo del Belgio, che già aveva fatto parte col grado di tenente della legione estera ai servizi del papa.

Costui era mediocremente avvenente della persona, di carattere serio e reflessivo, e fornito di una bella coltura; talché nella repubblica letteraria di Roma, i suoi scritti occupavano un posto eminente.

Circa la di lui posizione sociale se ne dicevano delle belle e delle grosse; vi era chi sosteneva che vivesse coi favorì della vecchia viscontessa di S. Leuce, la quale spiccava allora fra le più sfegatate legittimiste di Roma. — E d'altronde non era niente improbabile una tale ipotesi, chè se ne vedono tanti di questi favoriti, i quali, sebbene invecchiati, ritinti e tutti impasticciati sul viso, pure fanno professione di amorosi colle Messaline e qualche volta colle più mature beltà della ricca aristocrazia.

Vi era inoltre qualcuno che lo supponeva un segreta confidente della polizia,  né mancava chi gli attribuisse rare prerogative nel moderare al giuoco i rigori della avversa fortuna.

La verità poi era che egli mensilmente riceveva dal Belgio un assegno di lire cinquecento, colle quali, corretto e misurato siccome era nelle sue spese, faceva sempre bella figura nella società che frequentava.

Il De PayPal era un assiduo nelle conversazioni della principessa; ma, siccome egli non ammetteva che vi potesse essere amore senza fedeltà reciproca, cosi si era sempre tenuto estraneo ai capricci di Ada, cui sebbene in cuore non stimasse affatto, pure sentiva di volerle un poco di bene, quel tal bene che generalmente si prova per quelle donne che loro malgrado, furono trascinate nel peccato.

Si può dire che Ernesto De Raynal nei ritrovi della rincipessa facesse le veoi del di lei penitenziere, ché si mostrò sempre inclinato a far capire alla capricciosa Ada, come certe sue follie di un momento non si addicessero a gentil donna, alla quale sarebbe solo scusabile, una nobile passione, o meglio una temperata relazione di semplice sentimentalismo.

Dapprima tali poesie platoniche facevano ridere di cuore la graziosa Ada, ma poi a sangue freddo e sotto l'influsso della sazietà dei folli piaceri, cominciò a persuadersi che

il grave e filosofico Ernesto aveva ragione, onde una certa sera, la principessa gli diresse tali parole:

— Signor De Raynal potrei avere il piacere di avervi dimani mattina come compagno e cicerone in una visita, che mi sono proposta di fare agli orti Farnesiani, dove mi si dice che vengono scavate delle rarità archeologiche?

— Riconoscente di tale distinzione — rispose Ernesto — altro non mi resta che pregarvi ad indicarmi l'ora in cui dovrò trovarmi al vostro palazzo.

 — Dalle dieci alle dieci e mezza — rispose Ada. —?

— Resta convenuto per quell'ora. — Così soggiunse il De Raynal, e si congedò da lei.

L'indomani mattina all'ora stabilita, ed in una vettura chiusa, tirata da due pittoreschi cavalli friulani, la principessa Ada, ed il signor De Raynal si dirigevano a trotto spiegato verso gli orti Farnesiani.

Quella mattina, la principessa, sia per il suo umile abbigliamento, sia per il ritorno in lei di meno disoneste tendenze, aveva un aspetto più nobile e quasi direi melanconico.

Quando scesero di vettura, e si trovarono al cospetto di tutti i tesori d'arte dell'epoca di Tiberio, di Caligola, di Nerone e di Domiziano, e poiché ebbero visitato il magnifico palazzo dei Cesari sul monte Palatino, l'animo ed il pensiero della cólta principessa Ada si elevò sino alla maestà di quei remoti tempi, e per conseguenza il di lei presente si rimpicciolì dinanzi a tanta gloria passata.

Ernesto se ne accorse, e ritornate alla di lei memoria le gesta di Lucrezia e di Virginia, fece sì che sempre più nero ella ravvisasse l'abisso del suo presente, ponendolo in raffronto con tali peregrine virtù.

Tutto sommato può ritenersi per certo che il modo di trattare riservato, nonché la dottrina del signor De Raynal, destarono nell'animo di Ada, un sentimento per lei del tutto nuovo.

Essa diceva a se stessa: questi sì che è il mio disinteressato amico; questi sì che saprebbe amarmi e stimarmi come avrei desiderato che mi avesse amato e stimato mio marito; esso è infine il solo che alla lunga saprebbe farmi ritornare nella mia primitiva indole.

Ernesto intanto nel passeggiare insieme a lei per i giardini Farnesiani gli parlava delle voluttà dell'anima, della futura vita del cielo, dell'ebrezza di sapersi l'uno dell'altro fedele, e dell'estasi in amore che sogliono provare due esseri che si intendano e si uniscano con nodi eterni sicuri l'uno dell'altro; le spiegò in brevi termini tutte le gioje del platonismo, e le spiegò ancora in succinto quanto Seneca intendeva dire nella sua morale quando scriveva de contemnendis affectionibus, ecc.

Ada stava a bocca aperta ad ascoltarlo, e sempre più aggravava il di lei rotondo braccio sul braccio di Ernesto.

Quando il De Raynal ebbe accompagnato la principessa sino al di lei palazzo, che era posto in via Flamminia, e le augurò la felice sera, promettendole che l'indomani mattina, se ella le permetteva, sarebbe ritornato a visitarla, Ada si trovò ad un tratto innamorata cotta di lui, onde quella sera stessa fece dire alle visite che andavano da lei per ivi trattenersi sino a notte avanzata, che da allora in poi ella non avrebbe più ricevuto alcuno, salve rare eccezioni.

Fu uno stupore generale per questa risoluzione da lei presa, e più grandi ancora si fecero le maraviglie di quel mondo di gaudenti, quando ai primi balli che furono dati nell'occasione delle caccie, la brillante principessa Ada fu notata per la di lei assenza.

In fatti, tutta compresa di quel nuovo e santo amore di riabilitazione, chiusi che ebbe i suoi circoli, si astenne di intervenire ai balli, a teatri ed ai passeggi, e frattanto, sempre insieme a De Raynal, consacrò le sue ore alla  lettura di libri storici e scentifici.

Il marito ritornò secondo il solito dalle sue escursioni di libertino impenitente, ma questa volta gli fu giocoforza trattenersi: il mutato contegno della sua sposa, l'assiduo frequentare di Ernesto in casa sua, e più di ogni altra cosa una lettera anonima, che gli fu scritta, (non si seppe mai da chi) lo resero per la prima volta diffidente e geloso.

Cominciò dal trattare con modi villani la principessa sua sposa, e dall'imporle di riaprire le sue sale alle solite conversazioni.

Ada vi si oppose, ed allora il principe Carlo, cosi si espresse seco lei:

— Giacché vuoi fare vita segregata da tutti, tale segregazione deve essere completa: da oggi in sù ti proibisco di ricevere il signor De Raynal. —

La principessa si ricusò a tutta possa di commettere tanta villania, e mentre per tale motivo avveniva un forte litigio fra marito e moglie, giunse un biglietto di Raynal, mediante il quale, atteso un viaggio di pochi giorni che ci si proponeva di fare, con bel garbo si congedava da loro.

Dieci giorni dopo tale accaduto, per tutto Roma si seppe che i coniugi Ada e Carlo, prìncipi di Altavilla, si separavano legalmente fra loro per incompatibilità di carattere; e nel tempo stesso si notò che il principe Carlo, prima congedò tutte le sue persone di servizio, e poi mise in vendita tutte le ricche suppellettili, nonché il costoso corredo delle sue scuderie.

Contemporaneamente fu veduta la principessa Ada abitare il modesto appartamento dove era nata, e vivere insieme alla madre ed al figlio in condizione di mediocre Agiatezza.

Quando quella fiera anima di donna percorreva modestamente vestita le strade di Roma, e volgeva i suoi sguardi smarriti verso l'azzurro cielo della città eterna, quasi avesse voluto rintracciare fra i ceruli spazi, un caro pensiero o un soave ricordo dell'amico lontano, nella sua faccia vi si ravvisava il ritorno di un onore per poco tempo perduto a prezzo di un tradimento talché sembrava che cadendo si fosse rialzata.

Ma Ada De Agostinis, aveva una volontà,  né poteva più accettare le offerte di riconciliazione che poco dopo le vennero fatte dal marito: quando egli ritornò pentito a lei, chiedendogli perdono ed offrendole in contraccambio tutte le agiatezze che momentaneamente le aveva tolto, ella in tal modo gli rispose:

— Tenetevi le vostre dovizie, i vostri titoli, e tutto il vostro splendore, io per tali cose non provai che effimere felicità, adesso sento bisogno di andare incontro a letizia più positiva, e quella che io cerco voi per me non la potete più possedere.

Due giorni dopo che Ada si espresse in tal modo col marito, si diffuse la notizia per Roma, che la principessa non era più in quella città; infatti dopo che fu al possesso di tutto il re tratto dei suoi giojelli venduti, e poiché finì di ritirare dal suo notajo i propri assegnamenti do. tali (per spedire il tutto al suo banchiere di Napoli) ella una tal mattina, dopo aver raccomandato il figlio alle cure della di lei madre, entrò avanti giorno in una comoda vettura da viaggio, tirata da quattro buoni cavalli, uscì inosservata da Roma e condottasi a Chieti si uni ad Ernesto De Raynal, col quale in tal modo trovatisi soli e beati, per la via che porta ad Isernia si diressero a Napoli, dove giunti intendevano d'imbarcarsi sulle Messaggerie Francesi, per riparare nella Grecia.

Ma l'uomo propone e Dio dispone; ché quando furono a poche miglia da Isernia s'imbatterono nella banda di Nunzio di Paolo, e siccome non avevano in dosso la somma richiesta loro dai briganti a titolo di ricatto, fu fra essi ed i briganti convenuto, che Ernesto sarebbe andato a Napoli a prendere il denaro occorrente, e che intanto Ada sarebbe rimasta in ostaggio presso quei masnadieri, dei quali dieci aspettavano il ritorno di Ernesto e della somma imposta sulla strada d'Isernia, e il restante di loro condusse la giovine principessa nella caverna di San Giovanni.

Quando Michele ebbe riconosciuto, che la signora da esso iu quel modo liberata dalle violenze dei masnadieri, non era la sua Costanza, tosto si tranquillizzò, e sebbene per quel fatto corresse rischio di essere fucilato dalla banda di Nunzio,

nonostante non si pentì di aver fatta tale opera buona, o meglio quell'atto eminentemente cavalleresco. Squillace dopo che fu a stretti nodi legato con una resistente funicella, e cosi assicurato ad un albero nell'interno della caverna, potè appena avvertire qualche parola di ringraziamento, che in passare a lui d'accosto gli diresse la principessa Ada, e dopo forse mezz'ora che egli si trovava nel modo ridetto avvinto all'albero, per esser poi giudicato da Nunzio, allora intento ad una partita di zecchinette con altri danarosi suoi compagni, vide che circa dieci briganti a piedi, dai cappelli a cono, dai rossi panciotti come usano nell'alto Molise e dai piedi calzati con sandali, come sogliono portare i così detti Zampini, trascinavano nella caverna un uomo completamente bendato negli occhi.

Poiché la bella figura di quel gentiluomo dal tipo nordico, e dal portamento distinto, si fu delineata con pallide tinte fra le penombre ed il tenue bagliore di quell'antro, si udì un'esclamazione di grata sorpresa, proferita con accento vibrato dalla captiva gentildonna, la quale, come Michele, si accorse del nuovo arrivato.

Nè poteva essere a meno, ché il sopraggiunto signore altri non era sennonché lo stesso Ernesto De Raynal, il quale ritornato da Napoli con i trentamila ducati, in tante monete d'oro, richiesti dai briganti per pagamento sulla taglia imposta loro, si faceva a numerare tal somma nelle mani del capo banda Nunzio di Paolo, il quale nell'incassare tale danaro ordinava ai suoi dipendenti di sorvegliare se nella contazione del medesimo egli fosse rimasto al disotto di qualche aurea moneta.

Appena pagata la taglia, fu restituito al De Raynal la bella principessa; e quei due innamorati dopo essersi più volte baciati ed abbracciati in segno di gioja per lo scongiurato pericolo, si affrettarono di raggiungere la vettura, che era ad attenderli sullo stradale d'Isernia.

I medesimi briganti che avevano accompagnato Ernesto, questa volta fecero loro scòrta d'onore e di sicurezza, e per diverso sentiero, che pure comunicava in quell'antro dopo aver condotti sulla strada quei signori, vollero accompagnar loro sin quasi due miglia prima di arrivare a Isernia.

Cosicché il povero Squillace rimase ivi solo e disanimato in attesa di un terribile brigantesco giudizio.

Dei due briganti, che avevano ricevuti sulla faccia i tremendi colpi d'ascia, vibrati con forza da Michele, uno era già morto, e l'altro versava in grave pericolo di vita, onde il disgraziato Michele si vide presso a morire, e così dar termine ai tanti dolori che lo affliggevano.

In quei solenni momenti che precederono la sua condanna di morte, la quale sempre più credeva inevitabile per l'ingordigia che dimostravano i briganti dell'oro, che nel frugarlo gli avevano trovato in dosso, ma cui nissuno si azzardò di manomettere, Michele volgeva i suoi ultimi pensieri di amore infinito e di riconoscenza ai soli due esseri per i quali rimpiangeva la vita; a Costanza ed a Pasquale Olivieri.

Questi, mentre il di lui sviscerato amico era nelle mani degli assassini, aveva già eseguita la sua commissione; aveva ritrovato Antonio Ferrara, e condottolo seco ad una osteria solitaria, posta nella via che da Castropignano conduce a Macchiagodena, si era seco lui esternato in modo che aveva allontanato dall'animo del cocchiere qualunque dubbio, di guisaché l'indimani mattina alle prime ore del giorno, Costanza potè avere la inesplicabile gioja di rileggere i caratteri del suo fido amante.

Non così nell'arido deserto dell'Arabia, l'assetato pellegrino, gode dell'aria nuova e della benefica pioggia, come l'animo di Costanza si riebbe dal più acuto ed occulto dolore, in sapere che il fratello delle sue notti di amore era poco da lei distante; ella lesse e rilesse venti volte le desideratè frasi di Michele suo, e poiché l'ebbe ripiegate e nascoste sul palpitante seno, così rispose ad Antonio Ferrara:

«Dirai al signore che ti ha consegnato tale lettera, che sorvegliata tutti i momenti come qui adesso sono, non posso subito scrivere una lunga risposta che racchiuda in sè tutto quanto l'anima mia desidera esternarc a Michele, ciocché nonostante farò in questi giorni; e che appena la mia responsiva sarà in pronto, tu stesso andrai al Molise per consegnarla nelle proprie mani a Michele.

«Intanto raccomanda a quel gentiluomo suo amico di «indurre Squillace a subito procurarsi, come dice nella sua, un passaporto pell'estero, e di tranquillizzarlo sul conto mio, col dirgli, che non appena sarò ritornata a Napoli e che avrò contezza dalle di lui lettere, spedibili allora per mezzo postale, del dove siasi egli riparato, mi darò a procurargli valevoli raccomandazioni affinché egli possa ottenere dal regio governo la commutazione della pena di reclusione in quella dell'esilio per il titolo della diserzione, e che pell'altro reato di aggressione si sottoponga pure ai giudizio del tribunale, inquantoché io credo, che nessun coscenzioso giudice possa ravvisare un delitto in quella sua rivendicazione dei propri diritti. »

Presso a poco così era la risposta verbale che, per mezzo dell'Olivieri, Costanza mandò a Michele.

Il caro Pasquale, tutto contento di portare all'amico tanto lieto messaggio, il giorno susseguente a quello della di lui partenza per Castropignano, ritornò a casa sua, dove trovò la sua governante ed il servitore tutti impensieriti per l'improvvisa ed inqualificabile assenza di Michele.

Olivieri rimase più che sbalordito a tale annunzio,  né seppe che cosa pensarsi della condotta di Squillace, cui in quel momento di bizza credette ingiusto, sconsigliato, e sconoscente; aveva torto, perché se Michele non era tornato a lui, non ne aveva colpa, per la ragione che non dipendeva dalla di lui volontà, ma era impossibilitato di ciò fare.

Egli nella medesima ora in cui Pasquale nell'interno del suo cuore lo malediva, o per lo meno disapprovava r inesplicabile, contegno da lui tenuto verso di esso, era sempre in ostaggio dei briganti, ed ecco che cosa gli era accaduto al sorgere del giorno veniente.

Per ordine di Nunzio il capobanda, da un certo sanguinario brigante a piedi, che aveva il nome di Salta macchioni, Michele fa trascinato alla presenza di Nunzio.

Ed il ridetto brigante nel presentarlo ai suo capo, cosi si espresse, per metà in dialetto e per metà in brutto italiano:

—Chisso messere, che ave nascosto sotto la giacca molto denaro in oro, jeri sera, mentre Orlando e Marucco (nomi dei due briganti feriti da Michele, ) stavano pazzeando (1) colla signora, fu loro addosso, e con questa sorta di arme (in cosi dire mostrava il bastone in forma d'ascia già descritto) ave ucciso Orlando, e ave taccareato Marucco, che mo mo se ne muore. —

SI detto, dopo breve pausa, così riprese:

—Ditencello voi sor Generale, l'aggiamo a scoppetteà chissu mariulo?

Nunzio di Paolo, che ancora non aveva squadrato bene il condannabile prigioniero, in tal modo rispose a Salta macchioni, che faceva le parti di avvocato fiscale:

Perché lo vuoi tu uccidere subito? a ciò fare vi è sempre tempo; intanto se ha molto danaro in dosso significa che deve essere un ricco proprietario, e senza prima vedere bene chi esso sia, tu lo vorresti spacciare? Vediamo prima se per mezzo di un ordine da lui scritto e firmato si potesse avere dalla sua famiglia un'ancora più ragguardevole somma, e poi se sarà il caso lo metteremo a morte. Però — soggiunse Nunzio di Paolo, che aveva una certa tal coltura — se dovessi fucilarlo per vendicare Orlando e Marucco, mi guarderei bene da farlo, per la ragione che avevo già proibito a tutti indistintamente di molestare quella signora, ed invece quei due ribaldi, profittando dell'occasione che io tenevo banco a zecchi netto» se la volevano godere per forza.

Oh mariuoli — fini col dire il capo brigante — meglio per voi che questo messere vi ha mandato al diavolo, ché se io mi accorgevo della gherminella che mi volevi fare, facevo della vostra pelle cuojo da scarpe.

Nunzio in cosi dire sempre più si inferociva, cosicché era divenuto di una tal terribile bel lezza da innamorare un pittore.

(1) Nome che in dialetto corrisponde a trastullarsi.

E poi, 'quando lo si fece ad interrogare Squillace, chi egli si fosse — che cosa cercasse a quell'ora — e di qual paese fosse nativo — domande tutte alle quali Michele non rispondeva altro che con tali parole: — Nulla so, uccidetemi pure. — si accostò molto a lui, di guisaché a misura che lo stava più da vicino osservando, più marcata gli si dipingeva in volto la 'sua sorpresa.

Ad un tratto Nunzio, abbracciò Squillace e dopo ripetati amplessi, così gli disse:

— Voi qui, don Michele!?

Tutti i briganti rimasero storditi di questa uscita del generale, e di subito immaginarono che Michele fosse un qualche altro capo brigante, o almeno un emissario del Borbone.

Niente di tutto ciò; Squillace, che era nativo dello stesso distretto ove era nato Nunzio di Paolo, lo aveva poi nell'anno 1855 rincontrato a Napoli, dove quel famigerato capobanda, sedicente generale borbonico, in quell'epoca era caporale nel corpo dei cacciatori a cavallo.

Essendo quasi compaesani, avveniva spesso il caso che Nunzio, il quale era costretto a vivere del misero soldo del caporale di cavalleria, ricorresse a Squillace per avere un qualche sussidio; e Michele che era in quell'epoca abbastanza provveduto di mezzi propri, non trascurava di elargire all'amico e compatriotta, ripetuti sussidi in danaro.

Talché il caporale Nunzio, che oltre una vera amicizia, aveva ancora molta deferenza per il milite Squillace, atteso la sua più elevata condizione di famiglia, nel ricevere i di lui benefizi, spesso gli diceva: — Don Michele, io non vi sto a ringraziare, ma quando possiate avere bisogno di me, servitevene pure come di cosa vostra.

Quando Squillace fu assegnato alla guarnigione di Sicilia, Nunzio col suo squadrone venne mandato in distaccamento a Caserta, e nel 1860 si trovò alla battaglia di S. Maria, dove, insieme ai suoi, caricò più volte le sparpagliate legioni garibaldine.

Sbaragliato e vinto l'esercito borbonico, Nunzio di Paolo non volle sottomettersi al governo italiano, ché i di lui sentimenti erano effettivamente reazionari: ed è però, che datosi alla campagna, formò poi quella banda che fu da prima chiamata la squadriglia di Caporal Nunzio, e poi la comitiva del generale borbonico Nunzio di Paolo.

Se avesse egli potuto realmente avere da Francesco II la n omina effettiva del grado di generale, è un' incognita; ma che Nunzio possedesse già sino dal 1862 un brevetto di colonnello borbonico, è cosa che mi fu accertata da un mulinaro, che fu costretto ad ospitare per più giorni quel capobanda nella circostanza in cui la sua masnada venne fugata e dispersa dalla mia compagnia.

Fatto è che Nunzio, appena riconosciuto Squillace, ordinò a tutti i suoi di scioglierli i lacci, di rispettarlo e di subito offrirgli il necessario per farlo rifocillare; e dopo essersi per più ore trattenuto con lui rammentandosi reciprocamente i beati tempi in cui a Napoli avevano fatto guarnigione assieme, gli propose di rimanersi per sempre colla di lui banda, offrendogli, se voleva, il grado di capo squadriglia, e promettendogli di fargli avere da Roma un brevetto di capitano borbonico.

Michele rise di cuore a tali proposte, ma ripensando poi, che anche se avesse potuto ottenere un passaporto per l'estero, gli sarebbe troppo rincresciuto il doversi allontanare da Costanza, e calcolando inoltre, che con la condanna in contumacia di disertore, quale era stata già pronunziata a sua carico, eragli impossibile di rimanere nel Molise, molto più poi perché Pasquale stesso non avrebbe a lungo accettato la responsabilità di ospitarlo, risolvette di rimanere fra i briganti, e così rispose al suo vecchio amico e commilitone Nunzio di Paolo:

— Accetto la proposta  che tu mi fai di rimanere nella tua comitiva, ma come semplice gregario, e a due condizioni:

—Don Michele ditemi quali — rispose Nunzio premuroso di contentarlo. —

—1° Alla condizione che io mi possa cuoprire il viso con questa pezzuola nera, sovrammettendola al volto come se fosse una visiera.

—2° Che io possa erogare il denaro che ho addosso in tante opere di beneficenza per i poveri di questo distretto, e per liberare quei ricattati che non avessero sufficienti mezzi di sborsare il prezzo del loro riscatto.

A tali strane premesse, un generale scoppio di riso si fece udire di fra i briganti.

—E allora torna a fare lo galantuomo — esclamarono alcuni di quelli assassini, che non avevano mai compreso il significato della parola beneficenza.

Ma se a tali proposte tutti si misero a ridere, non rise Nunzio di Paolo, la di cui banda, tre mesi dopo si sminuzzò e si assottigliò in modo, che si credeva sparita dal teatro del brigantaggio.

Ancora egli ad esempio di Squillace sentivasi inclinato di ritornare al bene!

Michele corse le campagne del Molise e della Capitanata sotto aspetto di brigante, ma in rea procurando il più che poteva di ritornare a meno scellerate esistenze quei deviati coloni; nelle sue escursioni, che spesso a rischio della vita, chiedeva di fare da solo, prediligeva i dintorni di Castropignano, dove prima trovò largo compenso alle patite peripezie, e poi una gloriosa morte, che fu seguita da un generale compianto quando fu da tutti saputo chi si fosse il famoso brigante nero.

In un dei giorni che di poco precedettero il nostro arrivo al ridente paese di Castropignano, la duchessa Costanza era nel suo giardino tutta afflitta e pensierosa, per la sorte che fosse potuta toccare al suo sempre diletto Michele; la lettera che gli aveva già inviata per mezzo del cocchiere le era stata riconsegnata in un colla dolorosa notizia della sparizione di esso: onde ella stava ivi a lambiccarsi il cervello con mille strane ma pure possibili ipotesi circa l'accaduto;

era il doloroso momento in cui il terribile pensiero di un di lui suicidio la faceva trasalire in modo, che qualche lacrima si vedeva irrigarle le guancie.

Ad un tratto — hai troppo all'improvviso — Michele non prima si fece vedere che non le fu fra le braccia.

Vestiva il costume brigantesco, ma avanti di lei non portava sul viso la serica maschera nera; invece, le appariva con tutta la nudità della di lui interessante fisonomia.

—Tu abbracci un disertore, un aggressore ed. un brigante — cominciò a dirle Michele — ma malgrado tutto un onest'uomo. —

Costanza dapprima provò una certa ripugnanza e ne inorridì; ma poi vinta dall'affetto e dalla stima che aveva sempre nutrito per lui, gli baciò a, più riprese la faccia, e poi cosi risposegli:

—Niente di tutto ciò, io non ravviso in te altri che il mio Michele.

Che cosa accadde dopo questo breve scambio di parole, lo ignoro; so soltanto che i capelli biondi aggiunti nel reliquiario di Michele, dimostrano che di essi fu prolungato e molto espansivo quell'incontro.

Adesso che il lettore conosce tutta la dolorosa storia del brigale nero {alias Michele Squillace) necessita che io termini il mio libro col descrivere quale fu la fine dei più significanti personaggi del mio romanzo, e per ciò fare è necessario riprendere il filo del racconto.

La sera dell'uccisione, attesa l'ora tarda, non ritornai altrimenti in casa del duca, ma condottomi invece alla mia abitazione, vi trovai una lettera pressante del sottoprefetto di Larino, signor Breganze, il quale con essa mi ordinava di partire immediatamente alla volta del paese di Ururi, dove le solite bande accennavano fare un colpo di mano.

E così, senza potere rivedere la signora Alena, perché andata da qualche ora in letto, bisognò che mi mettessi in marcia per l'indicato paese.

Come era da prevedersi, al nostro avvicinarci da una parte i briganti fuggirono dall'altra; nonostante quella gita ci tenne lontani dalla sede del distaccamento per giorni tre, spirati i quali, ritornammo a Castropignano.

Appena potei rivedere la signora Anna, e dopo esserci scambievolmente espresse le nostre maraviglie circa la stranezza del caso successo, fui premuroso di domandarle notizie della duchessa Costanza.

La signora Anna, prima di darmi i richiesti ragguagli, premesse, che la duchessa desiderava vedermi appena fossi arrivato, e poi mi raccontò quanto era avvenuto dal momento della uccisione di Michele.

Mi narrò che appena Costanza ebbe udito la fatale detonazione, divenne trepidante, e che quando poi ebbe saputo da un suo famiglio, che era rimasto ucciso il brigante nero, ella cadde svenuta in terra, e fu attaccata da forti convulsioni, le quali ripetutesi più volte, l'avevano ridotta in tale stato di debolezza da far temere dei di lei giorni — Che da quel momento in poi non aveva più potuto prendere altro che pochissimo cibo, edera rimasta sola, piangente, e prostrata nel proprio letto, ricusando ogni soccorso, ed i rimedi della medicina — Che il medico aveva riscontrato in quella ammalata un'allarmante affezione al cuore, dipendente da forte dispiacere.

Di poi mi soggiunse, che tutti d'accordo, cioè il di lei padre, don Tommaso, il medico, ed anche lei stessa, avevano concordato di dire al Duca Giacomo, che l'improvviso deliquio della di lui sposa era dipeso da uno sconvolgimento di sangue, causato dalla inattesa esplosione di armi da fuoco che era avvenuta sotto il di loro palazzo.

Istruito che io fui di come erano andate le cose, feci un poca di pulizia nel mio vestiario, e mi condussi al palazzo dei duchi di Castropignano.

Quanta desolazione regnava in quella ricca dimora!!

Appena entrato il padre di Costanza mi prese per mano e mi condusse presso il letto della figlia, quale trovai pallida in volto, ed estenuata come se fosse sortita da lunga malattia. Ad un di lei cenno il duca padre si tirò in disparte, cosicché potrei dire di essere per quei brevi momenti rimasto solo con lei.

Mi guardava in faccia con quei suoi larghi ed appassionati occhi cerulei, quasi avesse voluto implorare da me un detto consolante, un possibile raggio di speranza; ella forse lusingavasi che tutti i suoi avessero voluto mistificarla circa l'uccisione di Michele: ma io non potevo darle nessuna confortante assicurazione, onde essa, quando mi ebbe7 compreso, mandò fuori dal bel petto un lungo sospiro, e poi cosi esclamò: — Morto... morto dunque davvero?

— Pur troppo — le risposi io — ma morto da forte.

Allora la duchessa compose le mani a fervente preghiera, e dopo brevi istanti così mi domando: — E cosa gli fu trovato in dosso?

—Tali oggetti, o signora — ed in così dire le consegnai il reliquario e la borsettina contenente gli amorosi ricordi. Ella prese tali oggetti e dopo averli ricoperti di cento caldi baci, me li restituì, in tal modo dicendomi: — Sia tanto cortese di consegnarli alla amica Anna, ché ella penserà a far seppellire con me queste reliquie di un infelice amore. —

Tali furono le ultime parole, cui io potei intendere da quella sventurata, la quale, ciò dettomi, si rivolse sul suo fianco sinistro per piangere inosservata.

A questo punto il di lei padre si avvicinò a me con in mano una tazza di cordiale, pregandomi a volere indurre l'ammalata d'amore, a prenderne qualche cucchiaiata; io mi vi provai con ripetute istanze, ma ella, poiché m'ebbe per l'ultima volta mostrata la lacrimosa faccia, mi fece segno col capo di non potere condiscendere alle mie preghiere.

Dopo una settimana fummo mandati nei pressi di Foggia, dove in seguito fui attaccato da una fiera tifoide, che per otto giorni mi tenne in serio pericolo della vita.

Per farmi rimettere completamente in salute, il mio colonnello mi fece ottenere la carica di ufficiale di matricola al deposito, allora residente in Empoli.

Ivi arrivato, dopo un'assenza di quattro mesi da Castropignano, ero ansioso di sapere come aveva finito la malattia della duchessa, onde ne scrissi in proposito al mio ospitaliero don Lorenzo Alena, il quale cosi mi rispose

«Pregiatissimo Signore,

«Mi affretto, ancora a nome della mia consorte, di renderla edotto della disgraziata fine che ebbe la rispettabile famiglia dei duchi di Castropignano.

«La duchessa Costanza perseverò a ricusare i rimedi della scienza medica, onde pochi giorni dopo la loro partenza, ricevuti che ella ebbe i conforti della religione, passò a miglior vita.

«Si spense, perdendo una alla voltale sue forze vitali,  come un lume perderebbe le proprie faville per difetto di alimento: infatti quella donna affettuosa, pia, e costante era nata per amare un solo uomo, e poiché questi fu ucciso, mancò il necessario alimento alla face della di lei esistenza.

«Le furono resi larghi tributi di universale compianto: i suoi funerali furono splendidi, e degni delle di lei virtù; tutte le giovani zitelle di Castropignano, vestite in gramaglie, l'accompagnarono all'ultima dimora, spargendo funebri corone lungo il luttuoso cammino. Il di lei padre all'epoca dell'avvenuta disgrazia sembra invecchiato di venti anni; è tutto ricurvo della persona, né ha mai potuto avere nemmeno il sollievo del pianto: oggi si è ritirato a finire i suoi giorni in un convento di Carmelitani presso Baranello, dove mi si dice che faccia continue penitenze in suffragio dell'anima della figlia tradita, ed in espiazione del suo implacabile odio passato.

Il duca Giacomo, appena rimasto vedovo, ripartì per Napoli, dove mi vien detto, che meni una vita di tripudi!! — Che le dirò di più?!

«Qui a Castropignano, quando in giorno di festa i nostri popolani si conducono al cimitero, sogliono spiecare un fiore dalle ajuole che ricuoprono la tomba della duchessa, così esclamando: — questo è il fiore di nostra donna Costanza, che morì per obbedire il padre. —

«Ed il giardiniere del palazzo ducale asserisce, che verso l'imbrunire, nel giardino del suo padrone, si odono dei canti melodiosi e delle sonore risate di esseri invisi«bili, e che quando annotta del tutto, gli sembra di vedere aggirarsi per quei viottoli due lieti fantasmi, avvolti entrambi in un solo candido paludamento.

«Che siano i beati spiriti di Costanza e di Michele, tornati dal cielo a visitare il luogo dove nacque il loro immortale amore?... Ma io mi dilungo in poetiche immagini, e mi dimentico che la mia Anna mi ha incaricato di salutarlo distintamente, cosa che io faccio ancora per conto mio, nel tempo stesso che mi dichiaro

«Suo devotissimo amico

«Lorenzo Alena. »

RIASSUNTO STORICO DEL BRIGANTAGGIO

E DELLA POLITICA ITALIANA

L'Italia sorse a libertà per un concorso di fortunate combinazioni, nello svolgersi delle quali si ravvisano molti decreti della Provvidenza.

Gli uomini più saggi e meglio eruditi di tutta la penisola, sul cominciare del morente secolo, si consacrarono con fede ispirata in Dio a preparare i tempi dell'italiano risorgimento, onde tanto sangue versato dall'eroico popolo d'Italia, nelle guerre del primo Impero sino a quella di Crimea valse ad interessare l'Europa liberale a vantaggio delle sorti di tale nazione latina, a cui nemmeno i di lei oppressori poterono mai negare il vanto di essere stata la culla della prisca civiltà mondiale.

. Essa fu completamente mistificata e mercanteggiata dalle nordiche potenze nei trattati del quindici; in èssa si fecero sparire gloriose repubbliche che da secoli esistevano a libertà di comune, con essa si appagarono mire ambiziose di regnanti già spodestati dei mal governati troni; insomma si poteva dire che nel vergognoso convito delle nazioni europee, quale fu l'esecrato trattato del 1815 la povera Italia, apparisse come misera ancella, destinata ad appagare tutte le voglie dei di lei odiati conquistatori.

Da qui, ne venne l'itala schiavitù, e tutti i suoi piccoli Stati, che un giorno, non ancora remoto, da soli furono richiesti come alleati nelle controversie fra re ed imperatori, tutti in un fascio furono abbandonati alla tracotante politica di Metternik, che all'oppressione univa il dileggio col proclamareurbi et orbi, essere l'Italia una espressione geografica.

Ma spuntò l'astro benefico che guidar doveva a miglior fortuna la povera ancella, e così quando la gentile nipote del conte Camillo di Cavour domandava allo zio ministro — Che aneleremo in Crimea? (1) — quel grande omiciattolo si calcava gli occhiali d'oro sul naso camuso e dopo aver mandato un grosso sospiro le rispondeva: — Nipote mia credo che vi andremo. — Il buon genio vendicatore degli oppressi guidava la mente di Cavour, come in seguito avvalorava il braccio dell'emulo degli Argonauti; onde la piccola ma valorosa armata piemontese prese parte splendida alla spedizione di Crimea, e la battaglia di Cernaja dava al Piemonte il diritto di avere un posto nel congresso europeo di Parigi.

Ormai il buon destino d'Italia e quello della di lei gloriosa ed inseparabile dinastia si maturava; onde l'imperatore di Francia, d'origine italiana, e tutta la democrazia francese infrangevano gli esecrabili trattati del dispotismo, ed ancora a noi italiani schiudevano una nuova era di libertà e di indipendenza.

Alla prima riscossa della nostra civile rivoluzione, tutti i pretori austriaci, fossero duchi o duchesse, assieme ai loro giannizzeri, abbandonarono le ridenti contrade del

Bel paese che Appennin parte

il mar circonda e l'Alpe;

e l'eterno nemico d'Italia, l'Austria, dagli spalti di Verona preconizzò trionfi e rivendicazioni che coi fatti le vennero meno.

(1) Bianchi Nicombdb. Vita, scritti e pensieri di Cavour.

Intanto dai nostri fratelli latini ed alleati di Francia, ci vennero poderosi eserciti, che uniti all'agguerrite armate piemontese, toscana e dell'Emilia, dopo sanguinose ma pur vittoriose battaglie, poterono circoscrivere nei loro baluardi i sempre battuti croati.

Quante care esistenze si spensero in quei conflitti ve lo dicon gli ossari di Magenta e di Solferino; ma era guerra di umanità quella che allora si combatteva perché destinata a fare sparire dalla civile Europa ogni preponderanza di razza, ed ogni segno di schiavitù, onde era bello veder nei giorni del meritato trionfo i cari figli di Francia vivere in mezzo a noi come facenti parte delle stesse nostre famiglie.

Infernale politica di soggiogatrici tendenze non aveva ancora seminato fra i popoli latini i germi della più accanita discordia: guai ai fautori di tale politica se la concordia tornerà fra loro.

Ma non tutti i figli d'Italia avevano preso parte attiva al nazionale riscatto; vi era la più ricca ed aprica parte della penisola che gemeva in ceppi siccome schiava del più callido console austriaco qual era il Borbone.

Tale tiranno aveva abbrutito l'animo di gran parte delle popolazioni del suo regno in modo, che i napoletani si erano già dimenticati di essere i nepoti di Masaniello e di Giovanni da Procida.

Nonostante in Sicilia il sacro fuoco di libertà divampava mandando fuori rivoluzionari faville, e come nissuna forza potrebbe frenare l'eruzione dell'Etna, cosi l'austriacante politica di resistenza del secondo Borbone, non potè trattenere i patriottici slanci dei siculi insorti.

La campana della Grancia coi suoi tocchi di vendetta di morte, invitava i palermitani a muoversi in armi, e dopo pochi giorni i monti più vicini alla Conca d'oro erano gremiti di sudditi ribelli.

A questo punto penna umana non potrebbe descrivere più epica leggenda di quella di Garibaldi coi suoi milleduecento guerrieri.

Da Marsala a Calatafimi fu prodigiosa marcia di celesti cherubini; a Calatafimi ed a Palermo fu pugna di giganti, ché l'eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi alla testa del suo scarso popolo armato, vinse ad esuberanza le numerose schiere dei regi, e non a prezzo di tradimenti, come i suoi detrattori vorrebbero dare a credere, ma col sacrifizio di molto sangue versato dei più cari figli d'Italia.

O mistificatori della storia e della stampa di oltre alpi, rammentatevi che dei mille di Marsala, soli 600 rimasero in vita, e che molti virgulti dei siculi promontori cuoprirono vittime di guerra, che mai figurarono in alcuno ruolo, e di cui la statistica ignora l'eroismo e la morte; ricordatevi inoltre che Milazzo, il Paro di Messina, le pianure di Capua, il Monte S. Angelo, Maddaloni, Caserta e S. Leuce, racchiudono in sè tanti sepolti quanti appena ne rimasero in vita fra tutti i combattenti di quella campagna.

E tu, o spirito superiore del valoroso De Flott, (1) che a me non lungi cadesti a Selano, vittima del piombo borbonico, sorgi dall'avello, ed a nome della tua nobile patria, smentisci il teutone quando calunnia la fama di Garibaldi e dei suoi seguaci: digli, o spirito di martire, che adesso ancora se soli centomila di quei soldati potesse riavere l'Italia, chi sà se le di lui spavalde minacce rimarrebbero impunite.

Ma Garibaldi vinse l'esercito dei regi, e l'Italia meridionale tutta lo acclamò liberatore: bisognava assistere alle feste di Napoli dopo l'incontro dell'augusto Re Vittorio Emanuele col Gran Cittadino nizzardo, per giudicare se quelle erano officiali manifestazioni di popolo conquistato, ovvero espressioni di entusiasmo e di gioja dei fratelli redenti dalla schiavitù; lo sappia il cimbro ed il boema che fu una follia universale, un giubbilo sincero del quale in ogni dove di quella vasta e popolosa città si manifestava spontaneo, sincero, interminabile segno.

(1) Il francese signor De Flott nel 1849 già membro dell'assemblea francese, e sempre affezionato alla causa italiana, morì a Selano di una palla in fronte mentre andava alla carica coi suoi.

Dopo la disfatta di Capua il Borbone si asserragliò a Gaeta, e tutti i reazionari lo seguirono così in quella fortificata città, come nel di lui ultimo refugio, che istigata dall'Austria, ed anche dalla Prussia, offrì a lui in Roma la Santa Sede.

La Roma papale che sembrava di esser tenera della politica francese, ma che in effetto si uniformava sempre ai dettami delle nazioni nemiche d'Italia, quali in quell'epoca erano le potenze teutoniche, riunì nel suo seno tutti i più sfegatati legittimisti d'Italia e di Europa, e divenne presto il focolare, donde si partivano le faville, che dovevano poi incendiare col brigantaggio e colla reazione l'intiero mezzodì d'Italia.

Un sovrano potere allora caduto di recente, e che aveva per tanti anni tenuto il dispotico governo di un vasto reame, quale era quello di Napoli, coadiuvato dall'ignoranza delle infime classi dei suoi sudditi, nonché dalla potente cooperazione dell'alto clero, e con i mezzi pecuniari di cui poteva esso disporre, nonché di quelli che gli venivano mandati dai comitati legittimisti del mondo intiero, doveva, come difatti avvenne, mettere in campo una nuova armata di partigiani, sotto il metuendo nome di briganti.

Da ciò è facile farsi una ragione che tutti quei sudditi, che non avevano fede nel nuovo ordine unitario italiano, tutti i beneficati dal caduto governo borbonico, tutti i credenti della formula medioevale ex deo rex ex rege lex, nonché tutti quelli che o per delitti comuni si trovavano fuori della legge, o per passione di rapina anelavano alla guerra civile ed al saccheggio, andarono ad ingrossare le file del brigantaggio e della reazione.

Intanto la leggiadra ex regina di Napoli, che nelle conversazioni private, malediva la sua sorte, invidiando quella di una particolare, coi suoi pellegrinaggi ai diversi santuari sempre più interessava il gran partito cattolico, onde è che a Berlino, a Madrid, a Bruxelles ed a Vienna dai sanfedisti neri si parlava di lei come della più sfortunata eroina di Gaeta; ed anche fra i loro monti si congiurava per spingere i costoro governi a formare una lega  contro la nuova Italia.

I reazionari di tutto il mondo capivano bene che, sinché l'Italia meridionale era infestata da numerose bande di briganti e da molti reazionari, le grandi potenze di Europa non trovassero giusto il riconoscerla, per la ragione che, brigantaggio, reazione e partigianeria persistenti, il movimento italiano appariva come artificiale ed i suoi principi siccome spodestati non dalla maggioranza e dal voler dei sudditi, ma da una audace e fortunata demagogia, che si sarebbe imposta all'intiera nazione sotto l'usbergo e la protezione del Piemonte e della Francia.

Ma la Francia era là per difendere a mano armata i nostri diritti, ed in pari tempo l'Inghilterra, come la Grecia e l'Elvezia col riconoscerci ancora esse si mostrarono propense ad impedire che nella penisola si distruggesse il già fatto dell'impero francese in nome della civiltà e della eguaglianza delle genti.

Onde i comitati borbonico-legittimisti, che sapevano bene come il numero dei partigiani di Francesco II per la sua esiguità nelle province meridionali non stava in confronto a quello stragrande dei liberali, ed avvedutisi inoltre che con elementi locali le orde brigantesche quando avessero potuto assommare a diecimila, era il massimo che potessero raggiungere, sotto la inesplicabile tolleranza dei respettivi governi si dettero a reclutare nella Spagna, nel Belgio, in Baviera ed in Austria un numero non indifferente di avventurieri, per inviarli ad ingrossare le bande di quegli assassini, che si vantavano difensori del trono e dell'altare.

Infatti vedemmo schierarsi contro di noi i Bories, i Tristany e tanti altri di meno nota fama, che fuggenti fra le selve ci fecero soventi volte sentire voci di barbaro idioma.

Non guari tempo dopo i fatti e gli eroismi distruggevano gli intrighi della retrograda diplomazia, e la politica dei conservatori liberali, così bene compendiata prima dal gabinetto Ricasoli, e poi da quello Rattazzi, sempre più fece mettere salde radici all'unità italiana.

Accortasi di ciò la Prussia, in quell'epoca potenza di second'ordine, incominciò a vagheggiare l'idea d'invocare la nostra amicizia per affrontare l'Austria allora divenuta di lei nemica, e così iniziare il di lei vasto disegno dell'impero e dell'unità germanica.

Per tal veduta cotesta nazione non solo impedì ai suoi sudditi che inviassero al brigantaggio soccorsi in uomini e in denari, ma invece si fece a riconoscere l'Italia come nazione; ed in tal modo soltanto per sue mire d'interesse politico, tolse agli spodestati ogni speranza di ajuto per parte sua.

Quando sul declinare del 1865 per la potente cooperazione della guardia nazionale, per le savie disposizioni di alcune autorità prefettizie, per le facilitazioni offerte ai briganti circa la loro spontanea presentazione, fu possibile alla nostra truppa di estirpare il brigantaggio dalle Provincie meridionali, e che consolidata l'unità italiana tutti i migliori elementi della penisola si uniformarono volenterosi al nuovo governo di Vittorio Emanuele, tutte le primarie potenze di Europa, meno l'Austria, si affrettarono a riconoscerci seguendo pure una volta alfine l'esempio della nostra alleata la Francia; e la Prussia nel 1866, col profittare di questa nostra nuova esistenza politico-militare, per dividere le forze dell'impero austroungarico, se inaugurò così brillantemente il corso delle sue vittorie, e se ebbe vinta la battaglia di Sadowa, lo dovette a noi, che pei diritti molto più giusti dei suoi, le levammo di dosso metà delle forze nemiche.

Al punto di solidità e di fermezza dove eravamo giunti col nostro nuovo organamento amministrativo e militare, era, cosa conseguenziale che i comitati legittimisti non solo dovessero abbandonare la causa del detronizzato Borbone e di ogni altro ramo dei decaduti sovrani, ma che eziandio si preparassero un poco per volta a subire in pace l'allontanamento di Francesco li da Roma; e questo fatto di alta considerazione politica, che lo si deve pure alla liberale, seppur cattolica, diplomazia francese,

era l'ultimo tracollo che ricevevano tutti i fautori del cessato governo borbonico; era inoltre l'ultima spinta che induceva molti degli ormai lassi e perseguitati briganti a sottoporsi, con spontanea presentazione, alle leggi punitive dei nostri codici criminali.

Da qui ne avvenne che ogni giorno alle locali autorità di Aquila, di San Marco in Lamis, di Potenza, di Foggia, di Bari, di Chieti e di Campobasso, si costituissero, previa promessa di aver salva la vita, numerosi briganti, che finirono poi nei bagni penali e negli ergastoli del regno.

Non tutti però vollero arrendersi al loro maledetto destino, ed i più animosi fra loro, come Caruso, Nunzio di Paolo e tanti altri, cui sarebbe lungo il decifrare, sebbene ridotti agli estremi, vollero morire combattendo, piuttosto che sottomettersi ai rigori della giustizia punitiva di un governo, da loro non mai riconosciuto. Ciò sta a dimostrare che gli italiani, ancora quando seguono le orme del delitto, mantengono sempre una certa fermezza di propositi non comune in altri popoli.

Alcuni di quei masnadieri, che durante i quattro anni di esercitato malandrinaggio, poterono mettere assieme rilevanti somme di danaro, sotto altri nomi, e cambiatisi di apparenza, di vestiario, e di modi, si refugiarono in lontani paesi, dove finirono la vita sconosciuti e però stimati ed apprezzati come i nostri taccagni capitalisti, dei quali non erano diversi, altroché nel modo di esercitare la rapina.

Altri di loro andarono a fare il mestiere di assassini, pel quale avevano una speciale inclinazione, in paesi lontani dall'Italia meridionale; ed infatti il famoso Morgante, capobanda del bosco della Grotta, quando vide che tutti i suoi o fuggivano, o morivano, o rimanevano prigionieri, se ne andò a fare il brigante nelle nostre Maremme, dove solo ed armato sino ai denti, seguitò a fare ricatti, ed a mandare lettere minatorie.

Insomma, quando l'Italia nel 1866 si mise tutta in armi per redimere dal prepotente dominio austriaco una delle più belle e nobili nostre provincie, quale è il Veneto, si può dire che il brigantaggio non esistesse più, e la memoria di tale flagello,

mentre ci occupa la mente con dolorosi ricordi, nel tempo stesso è là per attestare alle potenze che volessero soggiogarci, come in Italia, armata come oggi si trova, quando pure si fosse vinto e sbaragliato l'intiero esercito, vi è un altro genere di guerra cui dovrebbe combattere tutto a suo scapito il malcapitato straniero, ed è la disperata guerriglia dei partigiani; perloché se disgraziatamente le nostre milizie regolari fossero battute, ed espugnati i nostri baluardi, tutte le itale selve, e tutte le piante delle nostre ubertose colline nasconderebbero un insorto, sempre pronto a bersagliare l'inviso straniero.

Concludo, adunque, che la guerra del brigantaggio d'Italia, sebbene in gran parte fatta fra italiani ed italiani, nonpertanto riempie di gloria molte pagine della nostra storia militare, non tanto per i molteplici e sanguinosi conflitti, sostenuti con perseverante coraggio per oltre quattro anni, quanto per le indescrivibili fatiche e privazioni d'ogni genere, alle quali si sottoposero volenterosi i nostri bravi soldati ed i non mai abbastanza encomiabili carabinieri reali — che le perdite effettive di uomini avute dall'esercito mobilizzato per la repressione del malandrinaggio, nelle proporzioni superano quelle di qualunque guerra, quando si venga a conoscere che del solo battaglione, di cui io feci parte, e del 1° battaglione parimente del 36° reggimento (in tutti appena seicento uomini) durante le diverse impari pugne rimasero morti quattro ufficiali, e sono Bacci di Livorno, Gruerri di Firenze, Rota di Como e Perrino di Napoli, nonché settanta individui di bassa forza, e così in tutti settantaquattro combattenti, — che due ufficiali, cioè il medico militare De Angelis di Palermo ed il capitano Leoni di Milano perirono nel teatro dell'azione, per disagi e fatiche superiori alla loro possibilità fisica, — che altri venticinque soldati, o lasciarono la vita nelle scomode ed insufficenti infermerie dei diversi distaccamenti come nei civici spedali, ovvero vennero riformati quali inabili al servizio;

— e che infine altri due ufficiali, cioè Borgomanero di Milano e Bacci di Orbetello dopo poco tempo dovettero passare a miglior vita per terribili malattie artritiche, acquisite durante gli strapazzi di quella lunga e disagiosa campagna.

Vengano adesso a dirci, i cimbri, i teutoni, gli slavi, ed i boemi, che gli italiani sono poco o punto valorosi; vengano a calunniarci le nostre più spiccate personalità politiche e militari, e vedranno che l'universo intiero sarà là per così risponder loro:

— Bugiardi!! La stirpe di Mario non è del tutto spenta. —

INDICE

Prefazione Pag.
Capitolo I. — La prima prova degli sbandati 7
Capitolo II. — Un mazzo di sigari a Milazzo 25
Capitolo III. — Odio fra padri e amore fra figli 53
Capitolo IV. — Chi era il Sacerdote Aliprandi? 71
Capitolo V. — Sposai un altro ma amai te solo 89
Capitolo VI. — Gli sponsali 117
Capitolo VII. — Il complotto 149
Capitolo VIII — Dalla Reggia al Brigantaggio 175
Capitolo IX. — La 16a compagnia in colonna mobile 209
Capitolo X. — Costanza a Napoli 251
Capitolo XL — Il Massacro di Santa Croce di Magliano. 281
Capitolo XII. — Il brigante nero 329
Riassunto storico del brigantaggio e della politica italiana 385

Finito di stampare il 30 Giugno 1884.

Tip. del Vocabolario di G. De Maria e G. Coppini.

















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