Eleaml - Nuovi Eleatici


Valente fu presidente di una commissione elettorale per il plebiscito a Napoli. Egli era, quindi, un liberale, avverso ai Borbone.

A differenza, però, di altri libri dell’epoca che trasudano odio per i re napoletani, Valente cerca di dimostrare come essi fossero fuori dalla storia e che fossero pertanto destinati a soccombere. Di fronte all’incalzare dei tempi nuovi, densi di elementi morali superiori.

La sua opera, documentatissima, descrive bene l’opera di emarginazione prima e di sostituzione poi dei vecchi governanti da parte dei Savoia, in centro Italia prima e nelle provincie meridionali poi.

Ovviamente lo mostra come una conseguenza del loro essere lontani dallo spirito dei tempi e quindi incapaci di resistere all’urto dei movimenti di opposizione che anelavano alla unità d’Italia.

Si guarda bene dal riferire che quei movimenti furono finanziati se non diretti da agenti pagati da Cavour; dai suoi resoconti, però, si intravvede esattamente come un meccanismo - ben oliato che si basava sulla votazione e pubblicizzazione dei cosiddetti “indirizzi” a favore di una annessione al Piemonte – sia stato il grimaldello per spianare la strada alla costruzione di una Italia sabauda.

Ovviamente, per l'autore, il Regno delle Due Sicilie fu sordi ai buoni consigli provenienti dal Piemonte.

Citiamo alcuni stralci per darvene una idea:

Epperò dei due principi, l'uno si trovava già in una via, che bisognava soltanto proseguire, l'altro messosi in una strada falsa, non volle cambiarla; l'uno fu sincero, vide ch'egli sarebbe stato chiamato ad estollersi sulle rovine dell'altro, e glielo avverti, gli espose il pericolo, che correva, e la inevitabile alternativa, in cui egli stesso si sarebbe trovato o di sconoscere i suoi costanti principii o di assidersi sul soglio dell'altro. Il primo raccoglieva il frutto di una politica illuminata, onesta, preveggente eperseverante; l'altro giungeva là ove la via prescelta lo menava; n'era avvertito quando il precipizio già si manifestava, e sordo e cieco disdegnava l'avvertimento, e continuava. Aveva egli dritto ad accusar altri che se stesso?

Eran giuste le sue doglianze contra di chi lo aveva avvertito. ed era stato rigettato? Ma tale si fu sempre il sistema prescelto; contrariare la potenza dei fatti e rovesciare poi sugli altri la responsabilità delle proprie colpe. Cialdini, come abbiam narrato, aveva accordato senza difficoltà una sospensione di ostilità per seppellire i morti e dissotterrare i feriti ed aveva puranco offerto degli aiuti per questi; egli vi aveva messo una soia giustissima e ragionevole condizione, e questa condizione fu violata. Indegnato, non si vuol prestare ad ulteriore sospensione di ostilità, ma offre una capitolazione come quella, che abbiamo riferita, dichiarando non averne altra, e questa capitolazione è rifiutata. Ebbene, il generale Casella scriveva agli agenti diplomatici presso le nazioni estere: —

«Ma i fatti, che da parte dei Piemontesi hanno accompagnati i negoziati hanno un carattere, che importa di segnalare. Il generale Cialdini ha ricusato di sospendere le ostilità duranti i negoziati. Per tre giorni copri la piazza di bombe e d'obici. Tutte le condizioni erano fissate; non mancava, onde la capitolazione fosse compiuta, che la copia del testo di questo lungo documento e le formatità della sottoscrizione, e le batterie piemontesi spandevano ancora la morte in Gaeta, e lo scoppio di un'altra polveriera seppelliva sotto le sue rovine officiali e soldati.»

Buona letture.

Zenone di Elea - Agosto 2017

STORIA DELL'ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO

DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI

CORREDATA DI TAVOLE LITOGRAFICHE E NARRATA

COLL'ESPOSIZIONE DEI DOCUMENTI ORIGINALI

da far seguito alla Guerra d'Italia del 1859

DELL'AVVOCATO DOMENICO VALENTE

PRIMA PARTE - CAPITOLI I - IX

NAPOLI

STAMPERIA DI A. MORELLI

Strada S. Sebastiano».11

1862

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01 - HTML - PRIMA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
02 - HTML - PRIMA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
03 - HTML - SECONDA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
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PREFAZIONE

La tregua di Villafranca iniziò per l'Italia un periodo di vita politica, che merita di essere esattamente descritto e profondamente meditato. Sino allora le armate collegate del di qua e del di là delle Alpi avevano conquistato la indipendenza del Milanese, e data opportunità all'Italia centrale di ordinarsi in armonia con le aspirazioni e col movimento generale italiano. D' allora in poi fu mestieri, che questa stessa Italia centrale, abbandonata ai suoi soli mezzi, non solo provvedesse da sé sola a premunirsi contro i pericoli, che minacciavano il suo nuovo organamento, ma che assumesse inoltre tale energica attitudine nella espressione dei suoi bisogni, de'  suoi interessi, e della sua volontà, e così perseverantemente e con tanta sagacità resistesse alle arti dei Principi spodestati e della diplomazia, che chiarisse l'Europa ed i contraenti stessi dei preliminari di Villafranca e del trattato di Zurigo, essere oramai diplomaticamente impossibile l'adempimento delle clausole di quelle convenzioni, tendenti alla restaurazione delle famiglie sovrane, che il voto nazionale aveva dichiarato decadute.

Spesso l'Austria ripete la protesta di riserbarsi il dritto di esigere il completo adempimento del Trattato di Zurigo. Ma forse le stipulazioni di quel trattato legavano le parti contraenti ad usare la forza per imporre alle popolazioni le dinastie, ch'esse avevano creduto incompatibili con la loro libertà ed indipendenza? No; trattavasi solo di fare valere dei mezzi morali, di seguire le vie dalla persuasiva, d'indurre quelle popolazioni ad accettare volontariamente un ordine politico, che esse per le prime dovevano ritenere come buono ed adatto ai loro bisogni. Questi mezzi morali sono stati esauriti, e lo stesso Gabinetto di Vienna non ha potuto fare a meno di riconoscerlo. I Toscani, i Modenesi i Parmegiani, i Romagnuoli non hanno potuto persuadersi, che convenisse loro meglio di vivere sotto il principato di Arciduchi d'Austria o del vecchio ed immutabile regime clericale, che sotto un governo libero di un Principe italiano, che aveva saputo per tanti titoli cattivarsi l'affezione dei suoi popoli e la stima di tutte le nazioni. Le clausole adunque delle convenzioni di Villafranca e di Zurigo hanno avuto l'esecuzione, di cui erano capaci: l'opera promessa è stata compita: che altro rimane da fare? Ricorrere forse alla forza? Ma se l'uso della forza non solo non era in quelle stipulazioni, ma n'era espressamente escluso, adoprarla sarebbe non eseguire ma violare i trattati.

L'istoria dunque dell'Italia centrale dopo i preliminari di Villafranca ha una triplice importanza. È il complemento necessario della guerra della indipendenza dell'Italia; è la pruova manifesta delle aspirazioni, dei bisogni, della sapienza politica, della costanza dei popoli italiani; è la dimostrazione ineluttabile della completa esecuzione dei trattati di Zurigo.

Il governo dell'Italia meridionale si era serbato accuratamente straniero al movimento italiano. Nella guerra per la indipendenza e la libertà della Penisola quel governo si era dichiarato neutrale, ma niuno ignorava, che di accordo con la Corte di Roma ardentemente desiderava il trionfo dell'Austria. Da qui l'accrescimento del malcontento di quelle popolazioni, e quel mal essere, che ingenerava la opposizione, sempre progressiva, tra popoli e principe. Le popolazioni siciliane furono le prime a dare il segnale dell'insurrezione. Il rimanente dell'Italia comprese essere quella una insurrezione d'interesse generale; ed il riscatto italiano dopo di essere passato dal periodo delle armi a quello della politica, ritornò al periodo delle armi per far entrare le provincie del mezzodì nell'ammirabile rivoluzione italiana..

Questo terzo periodo del nostro risorgimento è per sé solo un trattato di politica sperimentale; vi si scorge chiaramente quali siano le vere condizioni di fermezza e di ordine di un governo, e quanto riescano fatali quelle, che si scambiano per esse; come il tempo e l'opportunità siano elementi essenziali della politica, come infine gli uomini anche dotati d'ingegno, di probità, di buona fede vengono meno al loro còmpito, quando le circostanze hanno oltrepassato il tempo, nel quale la loro missione sarebbe stata efficace.

Tutti questi fatti sono accaduti sotto i nostri occhi, tutti li abbiamo veduti, vi abbiamo assistito, ma non tutte le cause, ond'emanano, sono note; fatti di un ordine più elevato, che sono stati cause efficienti o occasionali di altri fatti avvenuti innanzi a noi, sono tuttavia ignoti, e completeranno fra alcuni anni la vera storia politica del risorgimento italiano.

Intanto scrivendo una istoria contemporanea,noi siamo stati compenetrati dalla necessità di esporre non solo gli avvenimenti, ma anche il modo com'erano veduti, giudicati, accettati, o rifiutati, in una parola le impressioni, che hanno prodotto. Abbiamo creduto, che il lettore si dovesse trovare trasportato nel luogo e nel tempo di quelli avvenimenti, e dovesse sentire e vedere tutto ciò, che accadeva, e conoscere le emozioni, che ne derivavano. Anche un fatto non vero, ch'era stato ritenuto per tale, ed aveva esercitato una indubitata influenza nei sentimenti o nelle aspirazioni del pubblico, doveva trovar posto nelle nostre istorie del pari di quelli, che avendo poca importanza individuale, determinano o spiegano i concetti della pubblica opinione. Noi abbiamo scelto a nostri collaboratori gli organi della stampa più accreditati nei paesi, ove vengono alla luce, e sempreché lo abbiamo potuto, ne abbiamo indicato le tendenze ed i colori. Ci è sembrato, che non si potesse meglio e più fedelmente riprodurre il quadro dei fatti, che si compivano, i quali si trovano così descritti con tutto il corredo della loro parte di azione sugli agenti politici e morali dell'opinione pubblica. Nei tempi in cui la stampa ha una così larga parte nella vita dell'uomo, ed è l'espressione dei diversi concetti, che prevalgono, nonché un elemento importantissimo delle speranze e dei timori dei cittadini, è indispensabile di chiamarla a parte della redazione di una Storia contemporanea tra perché trovansi in essa i documenti, e perché espone le vere situazioni delle impressioni del giorno, che sono poi di tanto rilievo per ispiegare le cause il progresso e gli effetti degli avvenimenti, e per stabilire la vera fisonomia e lo spirito del tempo. Chi legge i pensieri, le opinioni, le aspirazioni, i giudizii del giorno vive nel tempo e nel luogo, ch'è il teatro degli avvenimenti. I giornali sono gli autori rigorosamente contemporanei dei fatti, che descrivono.

Ma questi autori sono veridici, sono imparziali, sono disinteressati? No il più delle volte, ma una sana critica può supplirvi. Se un fatto è affermato da più giornali di diverso colore, che lo attingono a sorgenti diverse, è difficile che il fatto non sia vero, o almeno può ritenersi come molto probabile; se un fatto importante è pubblicamente affermato da un giornale, e non è smentito dalla stampa del partito contrario, si può accettarlo senza gran pericolo d'ingannarsi. In quanto poi alle impressioni la stampa riproduce sempre fedelmente, e spesso determina quelle del proprio partito. Insomma la stampa contemporanea è uno dei fonti istorici più rilevanti, comunque si abbia bisogno di molta critica per non ingannarsi.

Queste sono le considerazioni, che ci hanno fatto prescegliere il metodo, che abbiamo seguito.

La ripartizione poi in due parti con una paginazione distinta ci è stata imposta dalla necessità di soddisfare alla curiosità del pubblico, che sotto la impressione dei fatti della Sicilia, desiderava sentirli narrati immediatamente; la materia inoltre ottimamente si prestava a questa ripartizione, perciocché comprende due fasi ben distinte dell'emancipazione italiana; il periodo politico e diplomatico, ed il secondo periodo delle armi, esclusivamente nazionali.

PARTE PRIMA

L'ITALIA CENTRALE


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CAPITOLO PRIMO

Le prime impressioni dei preliminari di Villafranca in Piemonte ed in Toscana.

SOMMARIO

La guerra d'Italia era finita inaspettatamente — — Parole di Lord Derby sui preliminari della pace — La sapienza civile degl'Italiani ha allontanato le previsioni del Capo del Partito Tory — Nuovo Ministero in Piemonte — Suo programma in una circolare del sig. Rattazzi — Altra circolare del Ministro delle finanze — Questo programma non scoraggiava gl'Italiani, i quali però non potevano non commuoversi alle prime notizie di un fatto inatteso — In Toscana alle prime voci successe un Dispaccio telegrafico — Ma quattro giorni dopo fu pubblicato un manifesto del Governo — La popolazione non si calmava — Manifesto del Municipio — Altro della Prefettura — Già cominciano le mene dei tristi — Si riunisce la Consulta di Stato; suoi provvedimenti — Si riunisce il giorno seguente per la legge municipale — Circolare del Ministro dell'Interno — Si spedisce un Commissario a Torino. Suo dispaccio telegrafico. Gli animi si tranquillavano. Dimostrazione distornata in Livorno. Però sieguono le deliberazioni per l'annessione — Organizzazione della Guardia Nazionale — Si richiama in vigore la legge eletorale del 1818 — Si spediscono Commessarii a Parigi — Articolo del Monitore Toscano sulle parole dell'Imperatore dei Francesi — La popolazione toscana assume un contegno ammirabile.

La guerra d'Italia era inaspettatamente finita. Una corrispondenza da Valeggio alla Gazzetta di Milano assicurava, che la mattina del 27 giugno l'Imperatore alla presenza di molti dello stato maggiore e dell'autore stesso della corrispondenza aveva detto: «Bravi, bravi, ancora un mese e la guerra sarà finita, e noi torneremo in Francia fra le benedizioni degl'Italiani e gli evviva dei nostri compatriotti.» Ed il corrispondente soggiugne: i Era appunto nel 27 dopo tenuto questo discorso, che incominciarono le ambasciate, i telegrammi, i discorsi, gli andirivieni di messi, di araldi, di lettere, di dispacci tra il campo dell'Imperatore e quello degli Austriaci, fino a che si seppe, che il generale Fleury era portatore di una lettera del nostro Imperatore a quello d'Austria, e subito si sospettò di qualche mal'avventura.» In un banchetto dato dal partito conservatore inglese nel luglio 1859 ai signori Derby e Disraeli, il primo disse: «Per ora la guerra è terminata, ed ogni amico dell'umanità deve gioire nello scorgere arrestata l'effusione di torrenti di umano sangue, di cui sono ancora fumanti i campi di Magenta, di Solferino, e di altri luoghi. É troppo presto per ragionare delle condizioni della tregua o della pace sopraggiunta. Debbo però confessarvi, che giusta i ragguagli, che sono a nostra conoscenza, io riguardo lo stato delle cose, che risulta dalla pace, come più critico e periglioso di quello, che fosse anteriormente.»

 Pel capo del Gabinetto, che governava la Gran Brettagna nel tempo in cui l'Austria invase il territorio piemontese, la guerra italiana non era stata una lotta di principii e d'indipendenza, ma il frutto della ambizione del Gabinetto di Torino; eppure anche per lui la pace, se era un avvenimento consolantissimo nell'ordine umanitario, era un fatto critico e periglioso nell'ordine politico. E perché? «Perché sarebbe prematuro, diceva il nobile lord, di emettere una opinione relativamente al probabile effetto della confederazione, ma havvi un risultato, che è, e sembrami di poterlo affermare inevitabile: si è che gli amici della libertà, e sopratutto quelli dell'estrema, le cui speranze furono eccitate dall'intervento della Francia e della Sardegna, saranno doppiamente ingannati dal successo, che n'emerse.

«Meglio sarebbe stato non far nascere speranze, che incoraggiarle, eccitarle con estero intervento per quindi strappare la tazza dalle labbra di un popolo eccitabile con le possibili contingenze del disinganno.» Ed è vero; le contingenze del disinganno potevano essere gravi, ma il popolo italiano seppe allontanarle. Nel rimaner fermo in quelle aspirazioni ed in quei proponimenti, che la guerra aveva legittimato, esso non disconobbe né i grandi doveri, che i sublimi destini della nazione gl'imponevano, né le difficoltà della sua nuova situazione: senza essere ingrato, seppe non obbliar mai di essere italiano, sì che diè prova di fermezza bensì, ma di sapienza civile, di prudenza, e di moderazione, le quali virtù o escludono la eccitabilità dichiarata dal conte Derby, o sono per essa più meritorie, perché più difficili ad esercitarsi. La pace non riuscì né critica perigliosa; i fatti, ne' quali dovevano convertirsi le ipotesi della pace, non si avverarono; la combinazione politica messa dai preliminari di Villafranca mancò, ma l'altra, che ne prese il luogo, e che più esattamente e più rigorosamente rispondeva allo scopo della guerra, si formò per lo svolgimento ammirabile della concordia e della perseverar). za nel partito italiano, per le illusioni e la caparbietà del partito opposto.

E per verità se i preliminari di Villafranca turbarono per alcun 'tempo le menti italiane, esse si raccolsero immediatamente. In Piemonte Urbano Rattazzi, proposto al Re dallo stesso Cavour, prese le redini dello Stato. Le condizioni dell'amministrazione erano difficili; il Piemonte si accresceva di una magnifica regione, e la sua popolazione aumentava dippiù della metà, ma la sua missione in Italia mancava, e l'allea to di Montebello, di Palestro, di Magenta, e di San Martino si cambiava in suo avversario, relativamente alle aspirazioni dei popoli italiani, su i campi della diplomazia. Nondimeno il ministero piemontese non mancò ai suoi impegni verso l'Italia, ed in una recente celebre tornata della Camera dei deputati Italiani () il commendatore Rattazzi ha dichiarato, chiamandone a testimoni i deputati delle diverse regioni italiche. ch'ivi sedevano, aver egli sempre in quel suo ministero stesa la mano a tutti coloro, che promuovevano l'unità della penisola. Erano colleghi del Rattazzi in quel ministero, costituito il 19 di luglio 1859, il generale Lamarmora presidente del Consiglio e ministro di guerra e marina; il generale Giuseppe Dabormida ministro degli affari esteri; il commendatore Giovanni Ovtana ministro delle finanze, l'avvocato Giovanni Miglietti ministro di grazia e giustizia, ed il marchese Pietro Monticelli ministro dei lavori pubblici. Dei sei ministri due sono senatori, Lamarmora e Dabormida; gli altri quattro erano deputati al parlamento nazionale.

Il programma di questo Ministero è contenuto in una circolare, che sei giorni dopo la installazione del nuovo Gabinetto il signor Rattazzi dirigeva ai governatori ed agl'intendenti generali delle provincie del regno.

«Signore,

«L'indole degli avvenimenti, in mezzo ai quali si è compila l'annessione della Lombardia al regno subalpino ha dato occasione agli esimii uomini, che formavano II consiglio della corona di rassegnare il loro mandato. Ma tale cambiamento non induce veruna seria variazione nell'indirizzo politico, che con tanta sapienza e fermezza essi mantennero finora al governo dello stato.

«I sentimenti, che legano il re ed il paese al glorioso imperatore ed alla grande nazione, di cui regge le sorti; la necessità di assicurare e di lealmente eseguire nell'interesse della comune patria le condizioni della pace; la opportunità di fare partecipare quanto prima le provincie annesse alle franchigie, di cui sono in possesso le antiche; lungi dal rimuovercene devono persuaderci sempre di più della convenienza di rimanere fedeli all'indirizzo, che da oltre due lustri ci assicura, nell'accordo dell'ordine con la libertà, tutt'i benefizii del nostro reggimento politico.

«Eppertanto il nuovo consiglio continuerà a promuovere quanto più largamente lo svolgimento dei grandi principii, che il magnanimo largitore dello statuto poneva a base del nostro diritto pubblico per l'avanzamento dei suoi popoli ed a salvaguardia dei destini, la quale troverà nelle riforme compite e nelle libertà praticate a nostro esempio via a conseguire senza scossa quella indipendenza, che il voto dell'Europa in una colle ragioni della giustizia e della civiltà reclamano a vicenda.

«L'opera, che il nuovo ministero è chiamato a condurre a termine in breve stadio, è altrettanto ardua, quanto sono importanti gli effetti, che devono derivare al paese intero. Esso ha perciò mestieri del concorso franco e della cooperazione intelligente di tutti gli ufficiali preposti alla pubblica azienda nelle diverse parli del regno. II sottoscritto si rivolge quindi a quelli, che dipendono dal suo dicastero, invitandoli ad agevolargli con ogni studio l'adempimento del mandato, che gli è imposto dalla fiducia della corona.

«A questo fine si faranno solleciti di calmare gli animi troppo presto sconfortati, di rialzare le depresse speranze, di assodare la fede nel dritto e nella libertà, di togliere di mezzo tutte le cagioni di dissidio, di afforzare dovunque le condizioni dell'ordine, di rannodare infine intorno al trono costituzionale del re tutti gl'interessi, tutte le aspirazioni, tutte le influenze legittime della nazione.

«Il governo del re vuol essere sempre il governo di tutto il paese e non mai quello di un partito. E se egli è proprio degli ordini liberi, che la nazione vada divisa in partiti, egli è parimenti una condizione essenziale di questi ordini stessi, che le potestà, onde emana direttamente la guarentigia dei dritti e degl'interessi dei cittadini, rimangano aliene da ogni spirito di parte.

«L'autorità morale dei pubblici uffiziali si accrescerà di tanto quanto si mostreranno più compresi dei loro doveri a simile riguardo.

«Nè vuolsi tampoco dimenticare dai rappresentanti del potere centrale nelle diverse provincie, che secondo lo spirito delle nostre istituzioni essi sono in pari tempo e per molti rispetti i rappresentanti delle provincie medesime verso questo potere stesso, e che sono ivi costituiti per proteggere, secondare, afforzare nei termini della legge l'azione locale sì pubblica che privata, e non per negarla, soffocarla, impigliarla a profitto esclusivo dell'azione governativa. Non si deve per fermo scalzare presso di noi l'ordinamento decentrativo, che costituisce la forza dei grandi Stati moderni; ma non si può senza pericolo di scemarne l'efficacia esagerarlo, giacché ciò riuscirebbe a scapito dell'energia, che si svolge naturalmente nella cerchia comunale e provinciale ed in quella delle private associazioni, onde di tanto cresce la potenza politica ed economica delle nazioni..

«E siccome è mente del governo di proporre riforme, che le libertà comunali e provinciali allarghino e più ampiamente traducano in atto il concorso della nazione con tutt'i poteri dello Stato, gli uffiziali avranno cura di secondarlo, preparando per quanto loro tocca, le popolazioni, cui sono preposti, a questa estensione delle pubbliche malleverie.

«Nelle provincie dove l'istituzione rappresentativa non è peranco in vigore, essi procureranno di anticipare sul momento, in cui ne saranno dotate, cercando di conoscere per conformarvisi, secondo la ragione pubblica il consentirà, il voto delle popolazioni loro affidate, circondandosi aquesto fine degli uomini che pei lumi, per la moralità, e per le altre qualità sono tenuti come i rappresentanti naturali della contrada. In questo stesso intento avranno cura di rimuovere dagli uffizii le persone, che non godono della pubblica considerazione.

«Il governo del più leale dei Re deve non solo essere, ma altresì parere agli occhi di tutti il più onesto ed il più morale dei governi. La Nazione ha dritto di apparire degna delle sue libertà. Epperò tutti i funzionarii pubblici non lasceranno sfuggire alcuna delle occasioni, che si affacceranno loro, di rendere omaggio alla moralità civile.

«La sicurezza pubblica dovrà infine attirare in supremo grado la loro attenzione. Accade spesso dopo le grandi guerre o le forti emozioni politiche, che l'ordine sia a questo riguardo più o meno gravemente compromesso; essi dovranno quindi con l'aiuto delle autorità municipali e della guardia nazionale, che avrassi ad ordinare in ogni Comune, provvedere in guisa, che tutte le persone, qualunque sia la loro natura, abbiano a tenersi sicure sotto la tutela pubblica, avvertendo ch'egli è essenzialmente da ciò che con ragione i popoli misurano e riconoscono la bontà e la forza del governo.

«In questi termini lo scrivente si ripromette da tutti gli ufficiali, che tanto nelle antiche quanto nelle nuove provincie dipendono dal suo dicastero, l'operosità ed il concorso necessario al compimento dell'opera, che gli è assegnata.

«Torino 25 luglio 1859.

U. RATTAZZI.

Due giorni prima un'altra circolare era stata diramata dal Ministro delle Finanze ai suoi impiegati: «Lo strepito delle armi vittoriose, vi si diceva, è cessato appena, e le industrie ed i commerci aspettano, che la calma si rassodi prima di riprendere alacramente il loro corso. Ond'è, che mentre dall'un canto la finanza ha tuttora bisogno di grandi sussidii. dall'altro la fonte, da cui può attingerli, è che è pur quella, d'onde deriva l'universale ricchezza, continua ad essere scarsa e ristretta.» E dopo di avere rilevato conie questa condizione di cose rendesse più arduo l'uffizio del Ministro delle Finanze, e come l'aggregazione delle nuove provincie alle antiche, venendo a compiere coll'unità del governo quella corrispondenza di aspirazioni e di sentimenti, che già da gran tempo congiungeva i cuori e le menti, preparasse un còrnpito assai difficile a chi deve sopraintendere alla pratica effettuazione di questa unità nei valli rami dell'amministrazione pubblica, soggiugne: «Chiunque ha cognizione della moltiplicità dei particolari, che concernono l'amministrazione finanziaria, intende facilmente come questi debbono di necessità diversificare, fino ad un certo segno, tra le vecchie e le nuove provincie, sia per la materia, su cui versano, sia per la forma loro, sia per gli abiti amministrativi. e sopratutto per certi peculiari procedimenti, favoriti da tradizionale opinione, la quale essendo più tenace negli uffiziali più esperti per antica pratica, mentre merita perciò maggiore considerazione, rende più difficile i mutamenti.

Oltreché l'uniformità, ch'è tanto necessaria nell'amministrazione e tanto utile alla semplicità ed alla speditezza della sua azione. non che all'unità del suo intento ed all'armonia dei suoi risultamenti, è uno scopo al quale non si può pervenire di slancio e colla prevalenza imperiosa di un sistema preconcetto in tutte le sue menome parti.

e L'amministrazione finanziaria deve più che ogni altra muovere da certi principii e da certe norme generali e comuni; ma la loro applicazione non deve impedire quei particolari miglioramenti e quelle modificazioni, che l'esperienza sola può suggerire nell'ordine pratico amministrativo.

e L'esperienza però anziché giovare a questo sviluppo, qualche volta lo contraria, se coloro, che sono chiamati a procacciarlo, non hanno l'occhio che alla sola ed esclusiva loro esperienza personale. Imperocché in questo caso I. esperienza confondesi con l'abitudine, e l'abitudine non fa più avvertire gl'inconvenienti, che derivano da certe pratiche lungamente ripetute, e di cui si fu lungamente testimoni.

e L'esperienza veramente proficua è l'esperienza comparata, la quale dà materia alla disamina ed occasione al giudizio di discernere il meglio dal peggio per via di ragionati confronti.

«Nel rendere uniforme l'amministrazione finanziera delle provincie nuove e delle antiche, il sottoscritto avrà sempre presenti alla mente queste considerazioni. Ond'è, ch'egli sarà disposto ad accogliere senza prevenzione i suggerimenti, cui può dare occasiode il ravvicinare tra loro quegli ordini e quelle procedure diverse, che dovranno ridursi ad unità, purché sia chiarito, ch'essi abbiano per effetto il perfezionare le ruote amministrative ed il renderne sernprepiù spedito, più sicuro e più concorde il movimento.» Il resto è esortazione ai funzionarii dell'ordine finanziero.

Questo era dunque il programma del Gabinetto succeduto a quello del Conte di Cavour; esso non iscoraggiava gl'italiani, ma questi non potevano non commuoversi ed agitarsi alle prime notizie di un fatto assolutamente inatteso. In Piemonte, ove esisteva già fermamente costituito un governo nazionale, ed ove non avevasi a temere il ritorno ad un passato in antitesi con l'opinione nazionale; ove se la guerra non aveva soddisfatta tutta l'aspettativa delle popolazioni, aveva però indubitatamente cambiata di gran lunga la condizione dello Stato, la commozione fu minore, né vi si trovarono impegnati quella quantità e varietà d'interessi, ch'era nelle altre parti dell'Italia, ove gli antichi governi erano stati rovesciati.

In Toscana alle prime voci della tregua, vaghe, confuse, varie, incredule, che si sparsero nel pubblico, successe una notizia officiale, che attenuava la trista impressione di quel fatto, e gli dava una fisonomia diversa: Il Monitore Toscano pubblicò il seguente dispaccio telegrafico:

«Torino 9 luglio.

«Al Regio Commissario in Firenze.

«Il Re nel partecipare l'armistizio; puramente militare, conchiuso sino al 15 agosto, raccomanda di aumentare l'esercito con energia, e con sollecitudine.

«C. CAVOUR».

Però quattro giorni più tardi il Commissario straordinario ebbe a proclamare un manifesto in questi termini.

«Toscani!

«Le nuove di avvenimenti, che troncano le più belle speranze, addolorano tutti i cuori.

«Il governo partecipa alla vostra costernazione: Ma noi non dobbiamo abbandonarci a questa; dobbiamo aspettare di avere notizia dei fatti non per anco conosciuti nei loro particolari; dobbiamo stringerci insieme per mostrare colla nostra fermezza, che siamo degni di essere cittadini di una patria indipendente e libera. Finché ci rimanga questa fermezza, non avremo perduto tutte le nostre speranze.

«Già sono per partire i nostri inviati a Torino all'oggetto di sapere la vera condizione delle cose. Ora anche la manifestazione del dolore non sarebbe, che un aggravio del male. Conserviamo l'ordine, ch'è più che mai necessario alla salvezza della patria.

«Domani si adunerà la Consulta: con essa il Governo alzerà la voce della Toscana a Vittorio Emmanuele, in cui riposa ogni nostra fiducia.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

 ATTACCO DEL VASCELLO NAPOLETANO IL MONARCA

dal Tuckerj nel porto di Castellamare

«La Toscana non sarà contro il suo volere cd i suoi dritti, riposta sotto il giogo dell'influsso austriaco.

«Firenze 13 luglio 1859.

Il Commissario straordinario

del Re Vittorio Emmanuele

durante la Guerra dell'Indipendenza

Boncompagni.

Seguono le firme dei Ministri

e del Segretario Generale.

Pur tuttavolta la popolazione non si calmava; il passaggio era stato troppo violento, e le aspirazioni ed i sentimenti, cl:' erano stati cotanto esaltati, non potevano, che irritarsi nel vedersi così presto delusi. Perciò al proclama del Governo succedeva un Proclama del Municipio, che diceva: «Cittadini; «Alla voce del Governo, che in questi momenti di solenne aspettazione a Voi chiede tranquillità, concordia, e fede nella causa d'Italia e nella lealtà del Re Vittorio Emmanuele. unisco la mia voce.

«La Città fu commossa ieri sera dalle notizie, che inaspettate ci giunsero; l'agitazione. che per quelle nacque, lo sgomento, che s'impadronì degli animi vostri, sono prove evidenti della generosità de'  vostri sentimenti, dell'amore, che nutrite per l'Italia, del desiderio, che tutti vi anima di vedere fatti realtà i vostri voti, che da lungo tempo formaste.

La ragione temperi ora quello sconforto: mo stratevi degni della gravità del momento. questo il tempo, in cui maggiore si fa la necessità di stare uniti, di avere tutti una volontà sola. Dal senno e dalla temperanza vostra possono dipendere i nostri destini; dall'amore e dalla fiducia nel Re Vittorio Emmanuele la sicurezza, che non rivedremo una Dinastia, che si rese da sé stessa inconciliabile coi più sacri sentimenti della Nazione Italiana.

«Firenze 14 luglio 1859.

«Il Gonfaloniere

«Ferdinando Bartolomei.

«E più tardi la Prefettura pubblicava anch'essa un manifesto così concepito:

«Cittadini!

«Mentre il governo provvede con ogni suo potere, onde i voti più sentiti ed i più vitali interessi della Toscana siano salvi e soddisfatti, alcuni turbolenti agitano il popolo con false ed allarmanti notizie, e lo eccitano a dimostrazioni disordinate e violente.

L'Autorità si affida nel senno degli onesti e buoni cittadini, i quali debbono comprendere come ogni dimostrazione non faccia, che scomporne le forze e dividere gli animi per dare potenza ai partiti estremi, il cui solo scopo è il sovvertimento dell'ordine.

«E sicuro della coadiuvazione e dell'appoggio dei veri patriotti, porrà in opera ogni suo potere per rendere vane le mene dei tristi e procurare la loro punizione.

«A questo effetto si rammenta che, ogni radunata di persone nei pubblici luoghi, per le vie, e per le piazze intesa a manifestare disapprovazioni o desiderii, è vietata dal Codice vigente e severamente punita; e la pubblica forza ed Autorità hanno obbligo di intimarne lo scioglimento.

«La Toscana deve mostrarsi all'Europa degna di essere ascoltata nei suoi Consigli, di essere esaudita nei suoi voti, ne’ suoi desiderii. Il Governo conosce e divide questi voti e questi desiderii, e saprà con ogni suo mezzo sostenerli e propugnarli.

«Il Prefetto — A. Bossini.

Già si vede come i tristi cercassero di profittare della commozione delle popotazioni per servire ai loro particolari interessi. Qui comincia ad essere messa a pruova la sapienza civile dei Toscani,e si scorge cum'essi docili alle insinuazioni dei pubblici Magistrati, cui avevano affidata la cura dei loro interessi, resistono ai perversi suggerimenti dei partiti, e sanno contenere le loro passioni politiche, che veggono così inattesamente deluse.

Si adunava intanto la Consulta nello stesso giorno 14 per provvedere alle necessità del momento. Il suo obietto era di soddisfare ai voti legittimi della nazione, e provvedere ad un modo legale di manifestazione, onde tagliar corta la via a coloro, che se ne facevano un mezzo di agitazione, imperocché quando il paese vedeva legalmente espressi i suoi desiderii e le sue determinazioni, non poteva fare a meno di sentire la inconvenienza di ogni altra dimostrazione illegale, la quale denigrando la dignità nazionale, toglieva ai rappresentanti della nazione l'autorità, di cui tanto bisogno avevano per investirne le deliberazioni é le rimostranze loro. La Consulta adunque deliberò: «La Consulta, udite le comunicazioni del governo, persuasa, che il ritorno della caduta Dinastia, come qualunque altre assetto, che fosse contrario al sentimento nazionale, sarebbe incompatibile col mantenimento dell'ordine in Toscana. e getterebbe in Italia il seme di nuovi sconvolgimenti, opina, che il Governo

«Faccia i più premurosi ufficii presso S. M. l'imperatore dei Francesi, e si adoperi anche presso le altre grandi Potenze, perché nel determinare la sorte di questa parte dell'Italia si abbia riguardo alla libera manifestazione dei suoi legittimi voti.

«2.° E perché questi voti siano legalmente manifestati a suo tempo da un'assemblea di rappresentanti del paese, ponga in esecuzione la legge elettorale. del 1848, ed ordini frattanto la formazione delle liste elettorali.

«3. 0 Si rivolga a S. M. il Re Vittorio Domarmele, perché gli piaccia conservare il protettorato della Toscana anche dopo la conclusione della pace e fino all'ordinamento diffinitivo del Paese.

«A di 14 luglio 1859.

«Deliberato ad unanimità di voti nell'adunanza di questo giorno

«Per il presidente

«UBALDO() PERUZZI

Il Vice-Presidente.

La consulta approvò inoltre il progetto di legge per la Guardia Nazionale, proposto dal governo e modificato dalla stessa Consulta. Sin dal giorno precedente, poiché la Città si mostrava molto commossa, molti onorevoli cittadini col consenso del governo si armarono ed unirono spontaneamente, e fu tale l'affluenza a quell'appello istantaneo e patriottico, che molti non trovarono luogo di rendere i loro servigi. Questo tranquillizzò la città. Il governo si mostrò solerte ed operoso. Il giorno seguente la Consulta si riunì per udire il rapporto della Commissione incaricata dell'esame della legge municipale e per deliberare intorno alla medesima, ed il Ministro dell'Interno diresse ai Prefetti e Sottoprefetti la circolare qui appresso:

«Illustrissimo Signore;

«La notizia telegrafica sulla pace conchiusa tra S. M. l'Imperatore dei Francesi e S. M. l'Imperatore d'Austria sebbene parli di una federazione italiana, non ne dice i particolari. È ben naturale, che su ciò siano per formarsi molte supposizioni. Finché queste siano mosse dal desiderio, che tutti abbiamo del bene della Italia, Ella non vi scorgerà alcun pericolo per l'ordine pubblico. Ma cosi non potrebbe essere quando i partiti ne facessero un pretesto di discordia e di turbamento. Ella prevenga ogni tentativo, assicurando, che il Governo riposa nella lealtà del Magnanimo Protettore Re Vittorio Emmanuele e nella saviezza dei Potentati, che devono intervenire per regolare le conseguenze della pace secondo le necessità ed i voti dell'Italia. Il Governo ha creduto opportuno mandare a Torino persone di sua fiducia per conoscere il vero essere delle cose e per procedere in ogni cosa di accordo col governo del Re.

«Il Paese ha ora il più alto dei suoi doveri, quello di serbare dignitosamente il suo senno e le sue forze. per l'assetto difinitivo della Italia. Ogni atto d'impazienza e molto più ogni disordine sarebbe atto di pessimo cittadino, nemico della Patria. Il governo, quanto più sono gravi i momenti, tanto più è fermo nell'allontanare ogni pericolo delle perturbazioni di qualunque siasi specie e da qualunque parte venissero.

«Ella seguiti queste determinazioni con costante operosità. Dia subito le istruzioni necessarie ai suoi subalterni, si concerti con le persone notevoli, e faccia con tutt'i modi penetrare in ogni classe di cittadini la persuasione, che l'opera diretta ad ottenere condizioni da rendere la pace, quanto più è possibile, vantaggiosa alla Nazione, sarebbe interrotta dalle più piccole improntitudini.

«Ho l'onoro di ripetermi ecc.»

Era partito per Torino il signor Celestino Bianchi Segretario Generale del Commissario Sardo con missione del Governo Toscano; egli spedì da colà il 15 di luglio un dispaccio telegrafico, che annunciava:

«Se la Toscana sa mantenersi nel suo buono e vero spirito italiano, è sempre padrona dei suoi destini; e disponendo di se italianamente, gioverà immensamente al compimento dei destini d'Italia».  — Egli dopo lungo abboccamento avuto con Cavour, ne ebbe un altro con lo stesso Re Vittorio Emmanuele.

Per tal modo gli animi in Toscana si tranquillavano, e si raffermava la fiducia nel governo, che ne diveniva per questo più forte. In Livorno si era preparata una forte dimostrazione per manifestare al governo il voto unanime della popolazione per la immediata annessione, ma merce l'opera energica dei più prudenti si giunse a distorla quando già era cominciata, proponendosi, che una Deputazione tolta dal seno dei rimostranti si sarebbe recata dal Governatore per udire la ferma volontà del Governo di opporsi alla restaurazione della Dinastia di Lorena. Il Governatore pubblicava un proclama, e tutto rientrava nell'ordine. Intanto le Città dello Stato procedevano alle rispettive deliberazioni per l'annessione, e concordi si decidevano per i. affermativa. Il Magistrato di Lucca nel 14 di luglio deliberava: «Vista la deliberazione in data dei 21 caduto giugno, colla quale venne nominata una commessione con l'incarico di ricevere dai cittadini le firme esprimenti il voto per la immediata unione della Toscana al Regno costituzionale di S. M. il Re Vittorio Emmanuele II, e di sottoporre indi le noie relative alle ulteriori e diffinitive deliberazioni del Collegio.

«Viste le note autentiche contenenti le citate norme ed i registri dello spoglio fattone per ordine alfabetico del Deputati,'da cui risalta, che la maggior parte delle firme stesse appartengono alle classi più distinte per capacità, censo commercio, ed industria.

«Considerando che tale spontaneo. e numeroso concorso di soscrittori; mentre risponde in modo non equivoco all'appello del Magistrato; mentre consuona al votò già espresso da molti fra i principali Municipii della Toscana, è al tempo stesso un'assoluta e definitiva protesta contro il passato ordinamento politici); è l'espressione solenne del desiderio di una parte libera, grande, potente; è un alto di gratitudine e di fiducia verso quell'unico Monarca italiano, che ha fin qui rappresentato e propugnato i principii di libertà, d'ordine, e d'indipendenza;

«Associandosí con intimo convincimento al voto dei suoi concittadini».

Ha deliberato e delibera:

«Il Municipio di Lucca fa albi di piena adesione per l'immediata unione della Toscana agli altri Stati italiani governati dal Re Vittorio Emmanuele II»

A questa presso a poco erano simili le deliberazioni degli altri Comuni della Toscana.

La Consulta opinava, che si accordasse, ed il Goremo accordava al Ministro dell'Interno la facoltà di formare per ordinanza una guardia nazionale ovunque lo giudicasse necessario alla sicurezza ed alla quiete pubblica. La migliore difesa, aveva osservato quel corpo politico, è lo stesso paese, che veglia indefessamente alla quiete interna ed accorre con le armi cittadine a reprimere coloro, che tentassero di turbarla. La Guardia Nazionale così formata aveva tutte le prerogative della forza pubblica. Componevasi di possidenti di beni stabili, esercenti professioni o arti liberali, capì di negozii o di bottega immuni da ogni condanna criminale, non sottoposti a vigilanza di polizia e dell'età di 21 ai 50 anni compiti. La Guardia Nazionale doveva avere l'uniforme o il distintivo prescritto dal regolamento da compilarsi dal Ministro dell'Interno, e la bandiera nazionale, che sulla lista bianca doveva avere lo stemma del Comune, cui apparteneva. Gli ufficiali erano nominati dal Commissario straordinario di governo sulla proposizione del Ministro dell'Interno; i bassi uffiziali dal Prefetto del rispettivo compartimento sulla proposizione del Gonfaloniere del Comune.

Ed altro importante provvedimento nel 15 di luglio prendeva il Governo della Toscana.

«Considerando, che tra i pareri dati dalla Consulta al Governo, avvi pur quello. che debbasi attivare la Legge elettorale del 3 maggio 1818, procedendo alla formazione immediata delle liste elettorali.

«Considerando, che tale parere ha per iscopo di provvedere il paese di un'Assemblea di Rappresentanti, la quale possa emettere un voto legittimo sulla sorte diffinitiva della Toscana.

«Considerando, che le dichiarazioni fatte da S. M. l'Imperatore Napoleone III e quelle emesse nel Parlamento inglese dai Ministri della Regina assicurano, che si terrà conto dei voti espressi nei modi legittimi dagl'Italiani.

«Considerando, che a questo solo provvedimento non si arresta il Governo, il quale ha inviate, i ed invierà Rappresentanti alle Corti di Europa per fare valere i bisogni ed i dritti della Toscana..

«Considerando, che tutto ciò resterebbe inutile, se non fosse religiosamente conservato l'ordine pubblico, poiché qualunque siasi perturbamento scemerebbe l'importanza del voto da emettersi, e ci toglierebbe l'assistenza, sia da parte del Re Vittorio Emmanuele, il quale non mancherà di fare quanto potrà in favor nostro, sia per parte degli altri potentati, che non possono volere disgiungere l'assestamento dell'Italia dalla pace europea.»

«Decreta:

«Art.1. "— La legge elettorale del 3 maggio 1848 è applicata per la elezione dei rappresentanti della Toscana, che devono emettere il voto sopra la sorte, futura dello Stato.

«Art.2.1 prefetti procederanno immediatamente ad ordinare ai gonfalonieri di formare senza ritardo le liste elettorali.

«Art.3. — Un successivo decreto stabilirà tutto ciò che riguarda i termini e le norme per una sollecita formazione delle liste elettorali.

«Art.4. "I1 ministro ecc.

Dato ai 15 luglio 1859.

«Il Commissario straordinario

C. BONCOMPAGNI.

«V. Il Ministro dell'Interno

B. RICASOLI.

Affidava inoltre la Consulta al cavaliere Ubaldino Peruzzi ed al professore Carlo Matteucci la missione di recarsi a Torino, ed ivi unitisi al marchese Laiatico, procedere tutti e tre per Parigi e per Londra. Il Peruzzi ed il Matteucci partirono di Firenze verso la metà di luglio.

Nel contempo il Monitore Toscano, si adoprava a stabilire il senso delle parole dell'Imperatore Napoleone.

«L'Imperatore Napoleone III, esso scriveva, annunziò nel suo proclama, che l'Italia diverrà per la prima volta una nazione, e che la riunione della Lombardia al Piemonte crea alla Francia un potente alleato. Egli aggiunge, che i governi rimasti estranei al movimento o richiamati ai loro possedimenti com.. prenderanno la necessità di salutari riforme. Queste parole non possono riferirsi a ristorazioni imposte, ma a voti dei popoli, che richiamino spontaneamente i principi. Ipotesi, aggiungeva il foglio, che in Italia non si può prevedere possibile, ma che all'estero si ammette da quelli, che ignorano le condizioni nostre, e che forse l'Imperatore non poteva apertamente escludere senza suscitare i mali umori di una fazione, purtroppo ancora potente.» — E proseguiva, dicendo, come appartenesse agl'Italiani di provare col senno e con la concordia, che così fatte ristorazioni non sarebbero possibili, se non venissero imposte da tal forze, cui la resistenza fosse impossibile; che quest'uso della forza sarebbe una violenza da non potere cadere nell'animo dell'Imperatore, quando a consolare l'Italia dal dolore di vedere la Venezia lasciata sotto lo scettro austriaco, l'assicurava, che cominciassero per lei sorti migliori, e quando al Piemonte, salutato come alleato naturale dalla Francia, assicura un incremento di potenza. «Sarebbe questa, diceva il foglio, una derisione crudele, se si condannasse a essere spettatore di restorazioni imposte ai popoli, che dichiararono di volersi unire con lui. Quella sinistra interpretazione delle parole dell'Imperatore ripugnerebbe alla solenne promessa fatta nel proclama di Milano di assicurare la espressione delle volontà popolari, ripugnerebbe alla dichiarazione fatta da lord Russell, che si terrebbe conto dei voti regolarmente espressi dai popoli italiani; ripugnerebbe al principio riconosciuto da tutta l'Europa, quando esplorò i voti degli abitatori dei Principati Danubiani. Durerebbe una condizione di cose che fu dichiarata incompatibile con la quiete d'Italia, e che la guerra combattuta da Vittorio Emmanude e da Napoleone III intese a distruggere per sempre; quella cioè, che tenne finora una parte d'Italia sotto governi, che non reggendo senza gl'interventi stranieri, diedero continua occasione alle rivoluzioni.» Queste considerazioni logicamente erano vere; e ciò bastava per rafforzare il diritto, nel quale il governo e le popolazioni si affidavano, il perché con la fiducia rinascevano semprepiù la concordia e la calma, e la Toscana si preparava a dare all'Europa l'imponente spettacolo d'una nazione, che costante nei suoi desiderii, ferma nel suo proponimento, confidente nel suo governo, sa essere libera ed indipendente il giorno appresso a quello, nel quale ubbidiva alla volontà assoluta ed illimitata di un principe, che andava anche esso a cercare le sue aspirazioni e le norme della sua volontà in un Gabinetto straniero.


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CAPITOLO II

Impressione dell'Armistizio nelle Romagne e nei Ducati.

SOMMARIO

Proclama della Giunta centrale Provvisoria di Governo in Bologna— Manifesto di d'Azeglio"Esso crebbe la sorpresa dei preliminari di Villafranca — Il Monitore di Bologna — Il proponimento dei Romagnoli è dedotto nel Tribunale della pubblica opinione — La Giunta di Governo rassegna i suoi poteri al Commessario straordinario — Dichiarazione del Sig. d'Azeglio nell'accettarli — Suo manifesto — D'Azeglio va a Torino — Le popola zioni cominciano a rassicurarsi — Il Monitore di Bologna 11 partito da prendersi dai Popoli delle Romagne era stabilito — Ritorno di Pepoli da Torino — Nomina dei Commessarii nelle Provincie Loro manifesti alle popolazioni — Consiglio di Stato. I Municipii sono disciolti. Armamento "Manifestazione del voto popolare — Manifesto del Comitato instituito a tale oggetto — Firme numerose— Le stesse cose avvenivano ne' Ducati "Manifesto del Municipio di Modena — Dimostrazione popolare — Discorso di Farini "Applausi "Indirizzi diversi — Espressione del voto popolare in Reggio — Osservazioni — Indrizzo al Re "Inviati in Torino, Parigi, e Londra — Parma e Piacenza — Indrizzo al Re — Dimostrazione popolare — Manifesto dell'Intendente generale — Visita della Guardia nazionale di Parma e Reggio a Modena — Restituzione della visita a Parma — Voto di annessione in Carrara — Così l'Italia centrale rispondeva ai preliminari di Villafranca.

 Il di il di luglio 1859 la Giunta centrale provvisoria di governo pubblicava in Bologna il seguente proclama:

«Popoli di Bologna e delle Romagne unite;

«I voti, che i vostri deputati portavano ai piedi di Vittorio Emmanuele ora sono esauditi. Massimo d'A zeglio, eletto commissario straordinario di S. M. Sarda per le Romagne, giunge questa sera in Bologna. Uomo più leale, Italiano più illustre, più generoso soldato della causa nazionale non poteva inviarci il Re galantuomo, il campione magnanimo della santa guerra d'indipendenza.

«Qual nome più glorioso e più caro a queste contrade di Massimo d'Azeglio, che id tempi tristissimi dipingeva all'Europa commossa ed attonita i dolorosi casi della Romagna, e poscia in mezzo alle file della romagnola gioventù spargeva il sangue suo sui Berici colli?» «E Massimo d'Azeglio predilige le Romagne, perché terra di robuste braccia, di petti gagliardi, con cui si formano le schiere dei soldati vittoriosi. I pochi dei nostri, che combatterono a S. Martino ci meritarono già gli encomii di Vittorio Emmanuele e del suo grande alleato, ed il commessario, che oggi ce li reca, ben s'impromette da noi, che saranno seme a raddoppiare il nostro entusiasmo a riempiere le fila dei combattenti. Oggi adunque accogliete l'inviato illustre col giubilo di un popolo affettuoso e riconoscente, e domani rinnoviamo più forti i vincoli già stretti seco lui col battesimo di sangue versato a Vicenza.

«Popolo delle provincie unite! «Se vogliamo essere liberi ed Italiani anche noi insieme ai nostri fratelli piemontesi, lombardi, toscani, e veneti, il tempo è questo. Pensiamo, che l'Europa si apparecchia a farci i destini, che ci sapremo meritare.

«Entusiasmo assennato, virilità di propositi, e numerosi soldati Massimo d'Azeglio si ripromette da noi. E questa Giunta centrale di governo è ben certa, che Bologna e le Romagne non saranno minori di sé stesse, né verranno meno all'aspettazione dell'Europa, che attenta ci guarda.

Firmati

Pepoli, Malvezzi, Montornari, Casarini, lanari.

Il giorno seguente il Monitore di Bologna pubblicava il manifesto di d'Azeglio.

«Popoli delle Romagne;

«La vittoria v'ebbe liberati appena dall'occupazione austriaca, e voi, pronti sempre alla lotta ed al sacrificio, non tardaste un momento ad offrire il vostro braccio all'Italia.

«Il Re Vittorio Emmanuele, che a fianco del nostro grande alleato l'Imperatore dei Francesi combatte ora le ultime battaglie dell'indipendenza, udiva la vostra voce, ed egli mi manda suo commissario tra voi.

«lo non vengo a pregiudicare questioni politiche o di dominio, oggi intempestive, vengo a porre in opera in queste elette provincie il sapiente consiglio non mai abbastanza ripetuto e lodato di Napoleone III:fatevi oggi soldati, se volete domani diventar liberi ed indipendenti,

«Le nazioni non si rigenerano nei canti e nelle allegrezze, ma nei travagli e nei pericoli.

«Volle Iddio, che l'indipendenza e la libertà. supremi beni, costassero all'uomo supremi sacrificii.

«lo dunque non v'invito a pace od a riposo, ma a guerra e fatica. Non a gioia né a feste, ma a sacrificii e patimenti. Non vi porto licenza, ma ordine e disciplina.

«lo non vengo nuovo tra voi.

«Da un pezzo mi dolgo dei vostri mali, ed ammiro la vostra fermezza nel soffrirli, la vostra costanza a mantenere viva nei cuori la fede nello avvenire del Sangue Latino. So bene, che a voi non si convengono lusinghe, ma virili e franche parole, ed io franco vi parlo.

«Se saprete ubbidire, saprete combattere e vincere. Se avrete disciplina quanto avete coraggio, sarete tra i primi soldati del Mondo.

«Ma la disciplina e l'ordine non possono mettere radici dove ardono le discordie.

«Voi già le sapeste vincere; più non n'esiste traccia, tra voi.

«Lo sa Italia, e ne gode: Re Vittorio ve ne ringrazia.

«Siano dunque bandite per sempre.

«Iddio fece l'uomo libero delle proprie opinioni, siano politiche, siano religiose. Chi si volesse fare arbitro delle altrui colla violenza, usurperebbe il più ricco dono fatto all'uomo dal suo creatore, imporrebbe la più abbietta delle schiavitù.

«Obblio sulle amare memorie del passato. Datevi tutti la mano come fratelli, e pensate, che nel volersi fare libera e di propria ragione, tutta l'Italia è concorde in un solo volere.

«Sia questa la vittoriosa risposta degl'Italiani alla antica accusa, che li dichiarava incapaci, perché discordi, di divenire popolo libero ed indipendente.

«Concorrete a smentirla, e mostrate, che non siete come gridavano i vostri nemici insofferenti di legge e di freno, ma insofferenti soltanto dell'ingiusto e vergognoso giogo straniero.

«Viva Vittorio Emmanuele e l'indipendenza italiana.

«Bologna 11 luglio 1859.

MASSIMO D'AZEGLIO.»

Questo grido di guerra crebbe la trista sorpresa dei preliminari di Villafranca; e se si pon mente quanto importasse pei Romagnoli il non ritornare sotto il governo pontificio, si sarà obbligati a riconoscere, che violentissimo era stato il passaggio dall'ordine delle idee contenute nel trascritto manifesto del commessario straordinario a quello, che dai preliminari di Villafranca veniva stabilito. Pure, ad onta di una fortissima commozione, ad onta, che non mancasse buon numero di coloro, che avevano interesse di soffiare nel fuoco, e vi soffiavano, l'ordine pubblico non fu turbato. Il Monitore di Bologna con molto senno politico scriveva:

«Quando il Piemonte dopo la funesta giornata di Novara sottoscriveva un armistizio, in cui lutto perdeva fuorché l'onore, gl'Italiani più assennati non disperarono delle sorti della nazione; e dieci anni più tardi essi potevano smentire col fatto coloro, che deridevano la loro fede. Eppure in quel tempo pressoché tutta l'Italia ricadeva in balia dell'Austria, eppure il Piemonte nulla aveva acquistato al prezzo del proprio sangue fuorché l'esperienza. Ed ora, che il Piemonte estende i suoi confini sino al Mincio, ora che una grande parte d'Italia è in grado di potere manifestare liberamente il suo voto, vorremo noi riguardare la nostra causa come perduta?»

E dopo di avere detto, che la nazionalità italiana era assicurata, e reso impossibile ogn'intervento straniero, sì che le sorti del paese stavano nell'attitudine ferma e tranquilla del paese stesso, soggiungeva:

«Per ciò, che concerne questi paesi la via da seguirsi è pienamente tracciata. Noi non cesseremo un istante di volgere gli occhi al Piemonte, e di riporre in esso la nostra speranza ed il nostro avvenire. Intanto protestiamo di continuo ed in ogni possibile modo al cospetto dell'Europa, che l'abuso della forza soltanto può vincolarci di nuovo ad un ordine di cose, che l'esperienza e la ragione dimostrano essenzialmente incompatibile coi nostri voti legittimi, coi nostri più sacri dritti, e non dimentichiamo giammai, che i nostri futuri destini dipendono quasi intieramente dal senno, dall'attività, dal fermo ed irremovibile proposito, con cui sapremo operare.

Così la gran lite era contestata nel tribunale cosmopolita della pubblica opinione, e le popolazioni dite Romagne ferme, costanti, tranquille si preparavano a sostenerla, decise a non cedere nulla dei loro dritti, ed a renderli più augusti, più imponenti, più forti col concentrare tutte le loro volontà in una sola e col non deviare giammai dalla via legale.

Con un manifesto del 15 di luglio la Giunta centrale provvisoria di governo faceva l'istoria della rivoluzione delle Romagne, e rendeva conto degli alti della Giunta sino all'arrivo del commessario straordinario. Dichiarò quindi, che giunto appena il detto commessario straordinario, essa ritenne compito il suo mandato, e giudicò di rendersi l'interprete del pubblico voto, rassegnando nelle mani di lui i suoi poteri e la propria autorità,— «essendo questo l'unico mezzo in «tali supremi momenti di tutelare l'ordine pubblico ti ch'è il primo bisogno di ogni società.

«Aggiunse, che sebbene il commessario avesse replicate volle dichiarato non essere a questo autorizzato, pure costretto dall'evidente urgenza della situazione, aveva provvisoriamente accettato. La Giunta dunque dichiarava abbandonare il governo, e l'abbandonava, rammentando al commessario l'incompatibilità del dominio temporale dei Papi colle tradizioni, colle abitudini, i colle aspirazioni e colla civiltà di questi paesi, e al i pari di essi raccomandava le altre provincie dello Stato, ché a noi fecero atto di adesione, e le quali conculcate da forze mercenarie, hanno lo stesso «dritto con noi alla libertà ed alla indipendenza.

«Cittadini!» — terminava il manifesto; «Noi vi ringraziamo del concorso, che ci avete prestato, della fiducia, che in noi avete riposto, dell'ordine, che avete mantenuto. Noi siamo lieti e superbi di. potere contrapporre agli eccidii di Perugia la generosa moderazione del nostro popolo.»

Il risorgimento italiano era magnifico; di tali documenti gl'Italiani sono con buona ragione superbi.

Il signor d'Azeglio manifestò da parte sua la necessità, che l'aveva indotto ad accettare l'autorità delega tagli. — «La Giunta centrale provvisoria di governo, la quale aveva preso sì generosamente a reggere sin qui Bologna e le provincie unite, ha stimato ora, che necessità di ordine pubblico la forzasse altresì a cessare dal suo officio e rimettere nelle mie mani quel potere, del quale essa aveva sapientemente usato.

«Costretto da una tale necessità di mantenere innanzi tutto l'ordine pubblico, ho dovuto provvisoriamente accettare questo potere, ed ho stimato, sempre In via provvisoria, di nominare a gerente la sezione delle finanze il signor marchese Gioacchino Napoleone Pepoli; degli affari interni e di pubblica sicurezza il signor professore Antonio Montanari; di grazia e giustizia il signor avvocato Luigi Borsari; dei lavori pubblici e commercio il signor conte,Ippolito Gamba; dell'istruzione e pubblica beneficenza il signor conte Cesare Albicini; della guerra il signor Errico Falicon.

«Ciascuno di questi signori dovrà provvedere alla spedizione degli affari ordinarii e regolari della sezione, alla quale è nominato; gli affari più gravi e straordinarii dovranno discutersi tra loro riuniti, e le decisioni saranno riportate al commessario straordinario, onde provveda.

«Si riconforti il pubblico. La pace non ha in nulla pregiudicato le quistioni politiche di queste provincie. Quanto a me voi conoscete il mio carattere; sapete, che siamo vecchi amici: fin dove possono l'ingegno e le forze io le impiegherò tutte a vostro vantaggio.

«Bologna 15 luglio 1859.» E più tardi e con un altro manifesto di quella medesima data annunziava, che volendosi fondare sulla opinione illuminata del paese, circondandosi degli uomini più probi. più intelligenti, e più interessati al mantenimento dell'ordine pubblico, onde tutelare e garentire l'ordine stesso, il commessario straordinario aveva dato le disposizioni per procedersi nel più stretto tempo necessario alla compilazione di una legge elettorale per la formazione dei consigli municipali, dai quali dovranno poi costituirsi i consigli provinciali ed in fine una rappresentanza centrale, quando il tempo e le assettate condizioni delle cose il consentiranno. Annunziava inoltre avere già decretata la formazione di un consiglio di Stato, composto di uomini, che rappresentano l'opinione del paese, e che sarebbero stati nominati dal foglio officiale. Le attribuzioni del consiglio di Stato sarebbero state stabilite da un decreto speciale.

Ciò fatto il giorno 16 di luglio Massimo d'Azeglio parti per Torino, ivi chiamato dal Re. Il colonnello Falicon incaricato degli affari della guerra, prendeva durante l'assenza del commessario straordinario l'esercizio delle sue funzioni. Anche il marchese Pepoli si recava a Torino a patrocinare presso il suo congiunto l'Imperatore Napoleone la causa delle Romagne e dell'Italia tutta.

Andavansi intanto rassicurando le popolazioni, affidandosi nel pensiero, che avrebbero avuto facoltà di esprimere liberamente i loro voti nei comizii popolari. «Il proclama dell'Imperatore francese a Milano"scriveva verso la metà di luglio il Monitore di Bologna", e le assicurazioni pubblicamente date alle Camere dai ministri inglesi ci dicono, che potremo esprimere liberamente i legittimi nostri voti colla certezza, che saranno ascoltati. Bella e grande missione è quella, che dobbiamo compiere! L'Italia è resa a sé stessa in quasi tutta la sua estensione! La voce di queste popolazioni, soffocata e repressa da tanti anni, può liberamente proclamare sentimenti, che bollono nel cuore di tutti! In breve noi ora viviamo!» Le quali parole tranquillavano le popolazioni e le animavano. Enumerava il foglio la longanimità dei Romagnuoli nel tollerare un governo, che li straziava, li ammiseriva, e li umiliava, e non curavisi di adempiere le fatte promesse. — «Ognuno ha presente, diceva il foglio, il famoso Memorandum del '10 maggio 1832. firmato dalle cinque grandi potenze e le proteste dell'Inghilterra del 7 settembre 1832, quando dopo 14 mesi d'inutile aspettativa, che il governo romano eseguisse il contenuto del Memorandum, come lo aveva promesso, il ministero inglese stanco di sì lunga mistificazione, diede ordine al suo ministro di ritirarsi dalla conferenza di Roma e di renderne pubbliche le ragioni.» Così erano giustificati i popoli delle Romagne, se stanchi di tanto soffrire, protestarono con un voto unanime, che fu irrevocabile, eterno il divorzio, che ebbe luogo il 12 giugno fra loro e la corte di Roma.

«Precorriamo adunque, conchiudeva quell'articolo al voto legale, che sarà più innanzi espresso dai Comuni convocati a tal uopo, esternando un voto popolare, che avrà una forza morale immensa. Che ogni città piccola o grande delle quattro provincie unite abbia un centro di azione, il quale diriga ordinatamente le popolazioni nella legittima espressione della loro volontà: che ognuno adempia a questo dovere; che tutti e coll'esempio e colla parola usino della loro influenza, perché nessuno trala,ci di esercitare questo diritto, ch'è una delle basi del governo, cui vogliamo essere uniti, sì che il raggiungere la meta dei nostri fervidissimi desiderii sia stata opera nostra, ed ognuno per l'avvenire possa dire con nobile orgoglio: "n anch'io ho contribuito all'emancipazione politica, alla prosperità, alla grandezza della patria comune. a In cotal modo il partito da prendersi dai popoli delle Romagne era stabilito; trattavasi di manifestare chiaramente e nelle forme legali la volontà nazionale; ' a ciò ciascuno dovevi attendere, e dismettere ogni altra preoccupazione, tanto più che in quel tempo già si scorgeva avere il governo pontificio dismesso ogni 'pensiero di ricuperare con la forza le provincie insorte. Un buon nerbo di truppe (che si diceva raggiuniere il n di 10 mila uomini) marciava da Bologna per la difesa dei confini, e si sapeva che il Papa non avesse oltre a 6000 Svizzeri. Non tralasciava per altro il Pontefice le sue riserve negli atti, che pubblicava, ma accostandosi più dappresso al suo ministero,all'uso delle armi sostituiva l'uso delle preghiere. In un autografo diretto al Cardinale Patrizi vicario generale di S. S. a fin di disporre le preghiere in rendimento di grazie per la pace seguita, leggevasi: — «Ma il seguitare la preghiera è un vero bisogno, giacché varie provincie dello Stato della Chiesa sono ancora in preda dei sovvertitori dell'ordine stabilito; ed è in queste provincie stesse ove in questi giorni da un'usurpatrice autorità straniera si annunzia, che Iddio fece l'uomo libero delle proprie opinioni. siano politiche siano religiose, dimenticando così le autorità stabilite da Dio sella terra, cui si deve ubbidienza e rispetto: dimenticando del pari la immortalità dell'anima, la quale quando passa dal transitorio all'eterno, dovrà rendere conto speciale anche delle sue opinioni religiose al Giudice Onnipotente, Inesorabile, imparando allora, ma troppo lardi, che uno è Dio, una la fede, e che chiunque esce dall'Arca dell'Unità sarà sommerso nel diluvio delle pene eterne. n — Aveva quest'autografo la data del 15 luglio 1859.

Il 19 luglio o in quel torno il marchese Pepoli ritornò da Torino dopo di avere avuto udienza dal Re e dall'Imperatore, ed il suo ritorno ebbe semprepiù a raffermare l'indirizzo del governo e l'Alare le popolazioni.

Provvedendo al governo delle altre provincie il Commessario regio straordinario nominava commessario per Ferrara il marchese Giovanni Antonio Migliorali incaricato di S. M. nei Paesi Bassi; per Forlì l'avvocato Ara Casi miro deputato al parlamento sardo; per Ravenna il marchese Emmanuele di Rorà deputato al parlamento nazionale sardo; ciascuno di questi commessarii aveva un segretario particolare anche nominato dal Commessario regio straordinario. Al Commessario era corrisposto l'annuo assegno di lire 10 mila, e si davano lire 2500 al segretario.

Immediatamente i commessarii nominati si recavano nelle rispettive provincie, e con appositi proclami si presentavano alle popolazioni; quello del Commessario di Forlì con la data dei 20 di luglio diceva: «Popoli della provincia di Forlì.

«Con tutta confidenza convengo tra voi, che per fama conosco generosi, amanti dell'ordine, liberali.

«Accettai con premura l'onorevole missione, che mi venne affidata, essendomi noti i sentimenti, che la vostra deputazione esprimeva a S. M. il Re Vittorio Emmanuele II mentre su i campi lombardi in compagnia del suo alleato Napoleone III con pericolo della sua preziosa esistenza teneva alto quel vessillo tricolore, pel quale palpita il cuore di ogni Italiano.

e Benché il mio ingegno sia inferiore alle circo stanze divenute da qualche tempo più gravi per voi, tuttavia appoggiato alle simpatie, che voi tutti avete pel Piemonte, pel suo leale sovrano,'e pel regio commessario Massimo d'Azeglio, mi lusingo di supplire al difetto colla buona volontà, se, come spero, avrò la vostra cooperazione sincera e l'appoggio delle autorità locali, ed otterrò una pronta, una severa, ma giusta osservanza della legge.

«Nel parlamento sardo seguii sempre con tutta l'anima la politica della nostra italiana indipendenza.

«Francamente dunque voi dovete avere fede in me, come io l'ho in voi: ma è indispensabile per me, per voi, per!lidi prudenza ed energia.

«Popoli di Forlì, son certo, che voi vorrete secondarmi nel mantenere l'ordine e la pubblica sicurezza, che sarete energici nel combattere i nemici della libertà ed indipendenza del vostro paese senza distinzione di ceto, che concordi farete di buon grado tutt'i sacrifizii, dei quali sarete richiesti dalla patria nelle solenni circostanze, in cui versa.

«Io non posso dirmi vostro amico vecchio, come il regio Commessario straordinario al quale voi tutti ben a ragione professate la più alta stima ed il più sincero affetto: ma mi sarà lecito dichiararmi di cuore da questo momento vostro amico nuovo, e richiamarmi alla memoria i consigli, che Massimo d'Azeglio sino dal 1848 dava agl'Italiani. — Pensiamo, egli esclamava, ad acquistar forza di concordia, forza di disciplina, forza d'ordine, forza d'attività, forza di sacrifizio, forza morale, forza materiale, forza civile, forza militare, che unite insieme, formano la forza tutta di una nazione.

«Evviva l'Italia; evviva Vittorio Emmanuele II; evvivano i popoli di Forll. n Il 22 di luglio il commessario di Ferrara pubblicava il suo proclama in Ferrara, ed il 24 di luglio quello di Ravenna lo pubblicava in quella città. Vi si svolgono i medesimi concetti, s'inculcano le stesse massime, e si fanno le stesse esortazioni.

Veniva pubblicato in Bologna dal funzionario da commessario straordinario il decreto sulla formazione del consiglio di Stato; erano sciolti i municipii, e nominavansi dal governo commessioni municipali provvisorie per amministrare i comuni sino alla nomina dei consigli municipali.

Proseguivasi l'armamento, e si disse, che oltre i 10 mila uomini, dei quali più innanzi abbiamo fatto parola, s'istruivano altri 4000 volontarii. ed organizzavasi così una forza, alla quale il governo pontificio nulla poteva contraporre ().

Perciò ogni giorno semprepiù raffermava, che senza l'intervento di una forza estera la riconquista da parte del Papa delle provincie insorte era divenuta impossibile.

Questa certezza di non poter essere sottomessi dalle sole armi del governo, dal quale quelle popolazioni si erano divise, le faceva semprepiù insistere sulla manifestazione del proprio voto, onde venne stabilita ed accettata una formola di questo voto, da presentarsi alle ed allo Imperatore, ch'era così concepita:

«Rivendicatesi queste provincie in proprio dominio, i sottoscritti nelle presenti gravi circostanze esercitano il più sacro dei dritti, alzando la voce dinanzi all'Europa per esprimere solennemente i proprii voli.

«L'avvicendarsi costante delle rivoluzioni e delle ristaurazioni, compiute e mantenute sempre per forza straniera in ques!e contrade, ha per lunga e durissima pruova dimostrato come la coscienza universale riconosca l'assoluta incompatibilità del governo pontificio coll'ordine pubblico, coi civili progressi, e colla vita nazionale di questi popoli.

«Laonde i sottoscritti, unanimi e risoluti dichiarano, che la restaurazione del governo pontificio sotto qualunque forma è dalla volontà del paese altamente e chiaramente respinta.

«Dichiarano ancora, che queste popolazioni con desiderio vivissimo aspirano ad essere unite al regno sardo; a quel regno, che retto da un Principe leale e magnanimo e da libere istituzioni, seppe, superando ogni ostacolo, tenere alto e glorioso il vessillo italiano; a quel regno, che libero e forte può stabilmente assicurare il loro avvenire ().

«Un comitato composto dal principe Rinaldo Simo netti, dal dottore Francesco Ramponi, da Giovanni Zoboli, dal dottore Federigo Brusoni, e da Augusto Aglebert costituivasi in Bologna a promuovere la sottoscrizione di quel voto. Il comitato annunziavasi ai cittadini, con un manifesto, che diceva:

«Cittadini!

«La manifestazione del voto generale sull'ordinamento della cosa pubblica è natural dritto di ogni popolo.

«Questo dritto venne proclamato solennemente dall'Imperatore de'  Francesi al cospetto del mondo come la vera base del dritto pubblico.

«Nelle attuali gravi circostanze, in cui le sorti di Italia vittoriose sui campi di battaglia sono rimesse anche una volta nelle mani della diplomazia, a questo dritto Italiani debbono con fiducia ricorrere e palesare ordinatamente i loro voti.

«Che se la forte gioventù degli Stati Romani versò anch'essa valorosamente il sangue per la causa nazionale. illustrando il nome italiano, questo nobile sangue sarebbe versato indarno, se ogni cittadino, che lo può liberamente, non accorresse al compimento dell'opera, col manifestare la propria volontà intorno al futuro reggimento di questi popoli.

«Modena, Parma. Toscana alzarono la voce dinanzi all'Europa. e protestarono contro ogni pensiero di restaurazione.

«Protestate voi pure, o cittadini, e dite francamente ciò che volete. ciò che bramate.

«Una dichiarazione esplicita di voto pubblico, con che respingendo il passato, si aspira ad essere Italiani con Vittorio Emmanuele, è pronta, e vi aspetta.

«Cittadini, che consentite con noi, accorrete a firmare, ed a migliaia a migliaia si contino i vostri. suffragi.

«La storia recente: dei Principati Danubiani c'insegna, che nel consiglio dei potenti il voto del popolo è ormai anch'esso ascoltata.

«Bologna,22 luglio 1859. n Ed il Monitore di Bologna di quello stesso di 22 attestava, che già allora migliaia di persone &ogni classe l'avevano firmata.

Nè nei durati procedevano diversamente le cose. Le prime impressioni dell'armistizio e dei preliminari di Villafranca furono come altrove; destarono dapprima le stesse ansie. gli stessi timori, cui poi seguirono gli stessi virili costanti unanimi proponimenti. Il governo, le autorità municipali, gli uomini dabbene si adopravano a calmare le ansie ed i timori, a distrugere le esagerazioni date menti esaltale od ippocrite, a stabilir meglio la situazione, e le popolazioni a morto a mano si rassicuravano, e fiduciando nel governo e nelle persone più influenti e píù sagge, si prestavano ai loro consigli, e si attuavano a far pre. valere con l'ordine, la legalità, il raziocinio i loro voti ed i loro interessi.

Il 16 di luglio il municipio di Modena si diresse ai suoi concittadini, e loro disse:. «Gli avvenimenti testè compiuti lasciano libero alle popolazioni di spiegare il loro voto nella scelta di un governo. In questo stato zii cose nessuno di voi, cittadini, porrà esitanza a confermare quello, che faceste nel 1848, quello che rinnovaste ora sono pochi giorni, di aderire cioè al governo di quel generoso, che non ha risparmiato sacrifizii per redimere la patria dalla schiavitù, di quel prode, che ha sparso il suo sangue per la indipendenza italiana, di quel grande, Ch'è capo della nostra nazionalità. Nol nessuno di voi esiterà a proclamare nuovamente suo re l'augusto discendente di Casa Savoia, il primo soldato d'Italia, il glorioso Vittorio Emmanuele II.

«Napoleone III ha detto: «L'Italia è diventata nazione. — Mostriamoci degni di esserlo; ma meglio non possiamo farlo, che restare uniti a quel regno, che unte° rappresenta questa nazionalità, che l'ha sostenuta con la guerra del 1848, che l'ha rappresentata colle armi in Crimea, coi suoi diplomatici nel congresso di Parigi, che in fine l'ha compiutamente acquistata a prezzo di sangue nelle battaglie di Montebello, cli,Palestro, di Magenta, di S. Martino.

«Concittadini, u Fin dal 1848 ci unimmo al Piemonte, dichiariamo in oggi per la terza volta, che vogliamo restarvi uniti a costo di ogni sacrifizio. La vostra rappresentanza vi porge l'esempio sottoscrivendosi per la pii ma, e dandovi avviso, che in una sala di questo municipale palazzo ed in molti altri luoghi tanto della città, che delle dipendenti agenzie, saranno immediatamente aperti registri' coll'assistenza di appositi delegati per raccogliere le vostre firme. Se amale conservare la libertà, che la Divina Provvidenza vi ha dato col mezzo degli eserciti alleati, unitevi, e sarete forti, e non dimenticate, che da voi soli dipende di non essere di bel nuovo oppressi.

«Sakimbeni Lucchi — Manzin Gresfori"rearbonieri— Sacerdoti"Bgggi.».

A questo invito immediatamente rispose la popolazione con una clamorosa dimostrazione. Il governatore Farini in quel medesimo giorno 18 luglio nel l'andare alla passeggiata era stato lungo tutto il suo cammino altamente salutalo dalla moltitudine, che lo incontrava, ma rientrando in casa sull'imbrunire, per tutto il tratto della strada, che dalla porta della città conduce al palazzo di sua residenza, scoppiarono lun ghi, reiterati, e vivissimi applausi, misti agli evviva al Re ed alle grida contra il cessato governo, ed una innumerevole moltitudine di popolo, quasi mossa in stintivamente dalla necessità di esprimere la piena degli affetti, che lo premevano, andava a riempire il piazzale del regio palazzo, calma, ordinata, ma animatissima.

Sin dalla mattina si era saputo, che il governatore desiderava s'intralasciassero queste clamorose dimostrazioni, epperò fu creduto necessario, che alcuni cittadini si recassero da lui, e gli rimostrassero, come la cosa fosse nata così spontanea. ed in un momento avesse preso per la unanimità dei sentimenti della popolazione così vaste dimensioni, ch'era stato impossibile di prevenirla o di contenerla, e che quindi non era rimasto alle persone influenti, che di secondaria.

Allora il governatore si presentò al balcone "«Non è possibile (dice la relazione, d'onde attingiamo questa narrazione) non è possibile descrivere l'entusiasmo, col quale fu accolto. Abbiamo veduto degli uomini gravi, dei vecchi pacifici dimenticarsi ed agitare i loro cappelli ed i loro fazzoletti, gridando anch'essi come tutti ad onore ed acclamazione del governo del Re, ed a detestazione del cessato dispotismo.

Il governatore ringraziò in nome del Re per la dimostrazione,che gli era pruova, come il popolo modenese volesse non coi tumulti disordinati, ma colla forza del volere, e se fosse d'uopo con quella delle armi, semprepiù e meglio confermare il voto di annessione al Piemonte ed all'eroico suo Re. Assicurò non avere il paese a temere, che un solo nemico, la discordia; ove questa non sia, nessun altro aversi da paventare, potendo egli star garante, che nessun piede straniero calpesterebbe più questa libera terra per ricondurvi l'antico sistema. Aggiunse, che quando Pure alcim esterno minacciasse quelle popolazioni, sinché egli si vedesse conservata là fiducia, che il paese gli accordava, sarebbe sempre col paese, e' non per dire andate, ma per, gridare seguitemi. 'Ricordò essere i Modenesi veri liberali, ed avere, quindi una causa così sacra e sicura da Don abbisognare di ricorrere alle prepotenze e violenze dei nostri nemici per farla trionfare; voler quei popoli per sé soli il dritto di esprimere il loro liberó voto; epperò si rispettasse l'opinione di tutti; nessuna coercizione si usasse neanche coi pochi nemici, i quali ove tentassero subdolamente adoprarsi per soffocare o intorbidare questa libera espressione, sarebbero allora, ma allora solo, meritevoli di ogni severo castigo, come colpevoli non tanto irt faccia alla giustizia ed alla patria, quanto in faccia alla stessa,dignità propria, al che egli vegliava longanime, moderato,, ma inesorabile.

Entusiastiche approvazioni interruppero più volte questo discorso, e commossero l'oratore, sinché salutato ripetutamente, e salutando, egli si ritirò, e la moltitudine, soddisfatta, quietamente si separò per ritornare alle consuete occupazioni.

Due giorni dopo un telegramma da Modena diceva: «Le sottoscrizioni di tutt'i corpi, compreso il clero, e di tutti gli ordini della città continuano in proporzioni imponenti. Piena confidenza nelle autorità. Il ristauro del duca senza sforzo di truppe straniere è impossibile. Il popolo vuole essere consultato ed esaudito nei suoi legittimi voti. a E per vero il 17 di luglio, forse sotto l'impressione ancora delle parole pronunziate dal governatore, un indirizzo gli era presentato dagli operai della città di Modena, che ricevuto da un notaio, portava il n° del protocollo 730 ":

«Mentre le attuati circostanze, vi si diceva, fanno trepidare il nostro cuore per la tema di essere di nuovo assoggettati al dominio di un principe, vassallo dell'Austria, che per tanti anni ha fatto la infelicità di queste provincie, ci porge non poco sollievo l'idea di prendere occasione da ciò per appalesare nuovamente la nostra ferma intenzione ed il vivissimo desiderio di essere governati dal magnanimo re galantuomo Vittorio Emmanuele.

ic Fatevi interprete, Eccellenza, di questi nostri voti' si presso lo stesso re, che presso qualunque lo crediate opportuno, affine di ottenere il compimento di tale nostro desiderio, tante volte ed in latiti modi esternato.

«Che il sangue dai nostri figli, dai nostri fratelli, dai nostri amici sparso sui gloriosi campi della Lombardia non sia stato inutilmente sparso.

«Che le vittorie di Palestro, di Magenta, di S. Martino non debbano servirci a ribadire le nostre odiose 'catene:» Ed un altro indrizzo dei facchini da grano era pubblicato dalla gazzetta di Modena, mentre la magistratura, l'ordine degli avvocati, il ceto dei causidici e dei notari manifestavano la loro inalterabile fede alla casa di Savoia, e rinnovavano il palio del 1848.

Nè meno energica era l'espressione del voto popolare in Reggio, ove il 17 di luglio ima vasta dimostrazione fu fatta innanzi il palazzo dell'intendente. il quale, uscito al balcone, disse franche e leali parole, che entusiasmarono la popolazione. Tutte 'celassi della città, tutte le corporazioni ed i collegi preparavano in'drizzi per la fusione col Piemonte, e su tutele porte o le botteghe vedevasi affisso un cartello, ov'era scritto: Viva Vittorio Emmanuele II nostro legittimo Re.

È vero, che i duchisti dicevano quei biglietti non manifestare nulla, perché la più parte della popolazione o tollerava, che altri li affiggesse, o li, affiggeva per timore; mai liberali rispondevano, quale pruova di ciò si adduce? L'entusiasmo della popolazione erasi manifestato per mille altre vie, e quei biglietti rispondevano a quelle indubitate manifestazioni. Oltre di che se i liberali sono i pochi e gli amici del duca i molti, come poi avviene, che i pochi contengono i molti, e li fanno parlare ed agire come loro? — Perché, si rispondeva, i pochi sono audaci, sfrenati, Instancabili nel parlare e nell'agire, mentre i molti sono gente tranquilla e dedita ai proprii affari. Ebbene, riprendevano gli altri, e perché questi molti non dànno opera al ritorno delle truppe del Duca, uniti alle quali non avrebbero per certe nulla a temere dai pochi? Che se poi le truppe del Duca credono non essere sufficienti ed attaccare i liberali, anche quando una parte della popolazione è per loro, allora è indubitato, che i liberali sono i molti e gli amici del caduto governo sono i pochi.

Questo dialogo si è ripetuto e si ripete in tutte le manifestazioni popolari, e si avrebbe torto ad ammettere in via di massima le conclusioni, degli uni e degli altri degl’interlocutori; ciascuna 'delle due parti può essere nel vero o nel falso secondo le circostanze diverse, ma in Modena senza dubbio i duchisti erano nel falso. L'indirizzo al Re diceva:

«Sire;

«La fede, che la Città di Reggio nell'anno 1818 giurò al Vostro Gran Genitore nel Tempio stesso dedicato alla Gran Madre di Dio dinanzi al quale ora, tutta raccolta, manifesta al Rappresentante del vostro Governo la risoluta volontà di mantenerla, è intatta.

«Qualunque siano le condizioni della, pace, esse non potranno mai toglierci a Voi, perché noi siamo vostri per antico affetto e per un sacro voto; e bene vel diranno le rinnovate innumerevoli sottoscrizioni, a cui anelante corre ogni ordine di cittadini, testimonio di nostra incrollabile costanza.

«Che se la nostra voce è troppo debole, perché possa giungere sino al magnanimo vostro alleato, voi, o Sire, fategli conoscere i nostri voti, e additategli la nostra,gioventù, la quale per, l'indipendenza e per l'unitine al vostro regno, disprezzando gli ostacoli opposti dalla 'tirannide, correva animosa sotto la vostra bandiera, dividendo con gli agguerriti soldati dell'esercito alleato i, pericoli e gli allori di Montebello, Palestro, e S. Martino.

«E Se l'antico dominatore di queste provincie volesse ora tentare di ricuperai le per forza d'armi, sappiate, p Sire, sappia l'Europa, che la città di Reggio, sebbene vedovata della sua più forte gioventù, saprà respingere gli sgherri della tirannide, e che sin d'ora tutte le provincie Modenesi sono pronte a sorgere come un uomo solo per difendere e mantenere il sacro patto, che a voi indissolubilmente le stringe.

«In questo frangente, voi, o Sire, non permettete, che' i vostri rappresentanti ci abbandonino; noi siamo vostri, voi ci dovete proteggere.

«Il rappresentante del vostro governo vi dirà, o Sire, se questa sia manifestazione spontanea dei sentimenti, da cui è animata la vostra città di Reggio».

«17 Luglio 1859.

Il cavaliere Giuseppe Malmusi, l'avvocato Luigi Carbonieri, ed il marchese Camillo Foutanelli, venivano inviati in missione straordinaria presso le Corti di Torino, Parigi, e Londra, onde esprimere i voti dei Modenesi di rispettarsi la loro solenne e volontaria sommessione a S. M. Vittorio Emmanuele.

In Parma e Piacenza procedevano le cose allo stesso modo. In Parma il 15 di luglio in seguito d'invito del Podestà radunavasi l'Anzianato verso il mezzogiorno, e deliberava inviarsi a S. M. Vittorio Emmanuele un indirizzo, che redatto, venne all'unanimità approvato. Circa le 7. p. il Podestà e gli Anziani lo presentarono al Governatore, ed il Podestà pronunziò le seguenti parole: «Eccellenza; e Il Municipio di Parma si reca a voi, onde pregarvi di fare pervenire a S. M. il nostro Re l'espressione dei leali sentimenti, di cui è animato questo popolo nella universale trepidazione per gli eventi, che si compiono inaspettatamente.

«Il governo di S. M. può tenersi sicuro, che niuno sforzo o sacrifizio potrebbe venirci richiesto per la sacra causa italiana da lui propugnata, che noi non fossili» pronti ad affrontare volenterosamente.

«Pregherei Vostra Eccellenza di ascoltare la lettura del nuovo indirizzo a S. M.»

E leggeva l'indirizzo così concepito; a Maestà;

«Nel momento supremo, in cui si librano le sorti d'Italia, i nostri cuori, che tanto hanno battuto per voi nei rischi delle battaglie, provano la necessità di rinnovarvi la manifestazione dei sentimenti di gratitudine d'ammirazione, d'amore. Sire, noi siamo con voi e per, voi, Re nostro, lo saremo sempre con la stessa risolutezza e,la stessa fiducia, superbi di partecipare alla fortuna,, che voi sublimate colle vostre virtù. Il municipio vi fa per tutti queste solenni promesse, che vorrete accogliere nella grande anima vostra».

Terminata la quale lettura il governatore rispondeva:. «Signori! a I generosi e patriottici sentimenti, che voi rappresentanti di questa forte città mi avete esternali„ avranno un'eco in tutt'i cuori italiani.

«Non sono i subiti entusiasmi quelli, che fanno un popolo degno di essere libero, sibbene la fermezza del volere e la perduranza del proposito. Questa soT leone manifestazione è conferma di quanto da voi si esprimeva e si operava dal primo giorno dell'italiano risorgimento, cd io ve ne ringrazio sin da ora in nome di quel Re, che raccolta su un campo di battaglia la paterna corona, non esitò un istante a perigliarla un'altra volta per rivendicare la nazionale indipendenza.

«A S. M. il Re Vittorio. Emularmele io rassegnerò senza ritardo l'indrizzo, con cui rinnovaste l'antico patto. Ed esso verrà con amore accolto dal principe leale e guerriero, perciò fra tutte le italiane provincie queste mirabilmente risposero alla sua chiamata.

«I vostri figli accorsero numerosi, sfidando le ire delle indigene e delle straniere polizie, ad arruolarsi sullo l'Italiano Vessillo. Non v'ha famiglia, che non abbia alla gran Patria comune pagato il suo tributo., come lo pagaste voi, signor Podestà, il cui figlio combatte semplice gregario le battaglie della nazionale indipendenza.

«Il voto di unione al Piemonte, che nel libero esercizio degli imprescrittibili vostri diritti con unanime slancio esprimeste or sono undici anni, e che la brillai forza straniera potè per qualche tempo frustrare, ma cancellare giammai, voi lo riconfermaste quest’anno coll’invio dei figli vostri nelle file dello italiano. esercito, e venne a Palestro ed a Solferino cimentato da quei generosi, che combattendo, versarono il loro sangue per la più giusta come per la 'più santa delle cause.

«La unione di queste alle 'piemontesi provincie è un fatto, su cui nessun dubbio poi) sollevarsi. Così, signori, potessi io del pari allegrarmi con altre provincie, che ad uguali prove ed n non minori sacrifizii si sottoposero, ed a cui fu dato solo intravedere il pieno compimento dei troppo legittimi loro voti! Ma anche per queste, ora sopratutto, che una nuova pagina ancor venne lacerata degl'infausti trattati del 1815, sorgerà una volta l'alba di un giorno migliore, e noi tutti la affretteremo, preparandola con virili propositi, con gli avveduti consigli, con,una forte moderazione.

«Io confido, o signori, nel concorde appoggio vostro in quello dell'animosa Guardia Nazionale, che ormai per ordine, disciplina, e numero pare antica istituzione, infine nel buon volere e nella cittadina virtù del popolo tutto.

«Stiamo uniti; taccia ogni pensiero, che di patria non sia; i grandi sacrifizii non bastano a fare risorgere una Nazione; sono pure necessarie concordia di voleri, fermezza di principii, energia di azione, fede inconcussa nella sovranità popolare, unica. legittima fonte di ogni potere civile. Se mai da qualsiasi parte setto qualsiasi bandiera sorgesse un grido disunitore, soffochiamolo sotto l'unanime sforzo di un popolo deciso a tutto, prima che sottostare ai mali dell'anarchia o ricadere sotto la verga di un governo, contro il quale riclaniano le conculcate ragioni della dignità umana».

Mentre queste parole pronunziavansi nel palazzo Ducate, la piazza innanzi di esso era gremita di una grande moltitudine di cittadini, che, conosciuta la deliberazione del municipio, volle associarsi a quella espressione dei sentimenti e dei desiderii della popolazione. Eravisi schierata anche la Guardia Nazionale sotto il comando dei suoi capi, e le grida di Viva il Re! Viva l'Unione col Piemonte! Viva l'Esercito! Viva il Conte Cavour! Viva il nostro Re Vittorio Emularmele 1 Viva il Governatore! echeggiarono con entusiasmo in dei punti. E quando poi il Governatore, uscito al balcone circondato dagli anziani con voce commossa ringraziò il popolo in nome del Re di quelle pruove di affetto e di patriottismo, allora crebbero gli applausi e le dimostrazioni, sino a che ritiratosi il Governatore, la folla si dissipò tranquillamente senzaché avesse a deplorarsi in tanto attruppamento di gente ed in tanta concitazione un solo disordine.

Due giorni prima il nuovo Intendente generale delle provincie di Piacenza aveva pubblicalo il manifesto seguente:

«Piacentinii!!!

«lo vengo fra voi chiamato dalla confidenza del governo del Re alla direzione politica ed all'amministrazione di questa importantissima provincia.

«Rappresentante di un libero governo, lo assumo con amore l'affidatomi mandato,

«Mi propongo di eseguirlo con mano ferma, nutrendo fiducia di poterlo compiere in modo condegno pari alla 'sua altezza.

«Tutt'i vostri interessi, vostri dritti di qualsivoglia natura, alla mia amministrazione affidati, saranno da me in ogni tempo e senza eccezione gelosa. mente tutelati e tenacemente difesi.

«Voi accordate a chi si dedica intieramente al vostro vantaggio tutto quell'appoggio e quella Cooperazione, che stanno in vostro potere.

«Piacentini!

«Io farei gravissimo torto al vostro senno, alla bontà e fermezza del vostro carattere, se un sol dubbio io movessi, che, turbata in qualsiasi modo, po tesse alle mie cure venir meno l'opera vostra.

«Piacenza. che seppe sopportare grandi sacrifizii durante la guerra, saprà ben anche approfittare della pace, di cui vennero firmati i preliminari.

«Abbiate piena confidenza nel governo e nella lealtà del prode e generoso Re, a 'cui voleste affidare i vostri destini.

«Piacenza 14 luglio 1859,

«L'Intendente Generale,

Visone.

«Come da per ogni dove in Piacenza si aveva grande fiducia nel governo e nel Re, e però quel manifesto incontrò i voti dei Piacentini.

Ed a vieppiù cementare i vincoli di concordia, che rendono si potente il voto di una nazione, le diverse frazioni del popolo italiano presero il partivo di visitarsi e fraternizzare tra loro. Il 18 di luglio si unirono alcune compagnie della guardia nazionale di Parma e di Reggio, e vollero rendere visita alla guardia nazionale di Modena. Erano circa 800 uomini, che in seguito di avviso del Municipio furono accolti in Modena e festeggiati con tutto il trasporto di quelle popolazioni, che sorte a vita novella, ed irremovibilmente decise a non retrocedere. sentivano il b,sogno di amarsi e di esortarsi a vicenda a permanere unanimi nel già preso e manifestato proponimento. Alcune brevi ma energiche parole del governatore Farini crebbero ancora quel generale concitamento, e nel modo entusiastico come vennero accolte, riuscirono a novella pruova della unità del pensiero e del desiderio italiano. Le mense preparate nei giardini pubblici, adornali dei colori italiani e francesi con lo stemma di Savoia, furono animate e brillanti, quali un popolo vivace sa renderle nell'ebrezza di un sentimento potentissimo, nel: quale tutti i cuori s'incontrano, e dal quale tutte le menti sono esaltate.

Sei giorni dopo la visita era restituita a Parma. La comitiva era più numerosa, poiché vi convenivano i cittadini di Piacenza, di Borgo San Donnino, di Reggio, di Modena,di Bologna, ed il ricevimento fu anche più solenne. Sin dalle prime ore della mattina immensa folla ingombrava i dintorni dello scalo della ferrovia, e quando vi giunsero il governatore generale degli Stati Parmensi, il Corpo Municipale, e la Guardia Nazionale cominciarono i soliti applausi e gli evviva, i quali si raddoppiarono al giungere dei Piacentini e dei Borghigiani, e toccarono il culmine dell'entusiasmo quando dopo breve tempo giunsero i Reggiani, i Modenesi, ed i Bolognesi. Dopo le prime amorevoli accoglienze il corteggio si ordinò per entrare in Parma.

Precedeva il corpo di città accompagnato da molte distinte persone; venivano poi i rappresentanti delle varie città raccolti In separate squadre, preceduta ciascuna di detta squadra da una banda musicale; la guardia nazionale di Parma numerosa ed in bella ordinanza chiudeva il corteggio. È superfluo il narrare come questa comitiva fosse accolta in città; bandiere, nastri, fiori,sventolavano e piovevano da tutte le parti. Dopo il meriggio gli ospiti furono introdotti nel giardino pubblico, ove laute ed ornate mense erano preparate. Ai quattro capi delle tavole da convito sorgevano quattro piramidi, sulle quali leggevansi le seguenti insorizioni.

«Al nostro Re Vittorio Emmanuele — Primo sol dato dell'Esercito d'Italia Al Re Galantuomo Campione della Italica Indipendenza.

«Un voto solo di perpetua fratellanza stringe i cittadini di Parami Piacenza, Reggio, Modena, e Bologna --Sarà sempre memorabile ai Parmegiani questo giorno 24 luglio 1859, in cui furono lieti di ospitare fraternamente i Piacentini, i Reggiani i Modenesi, i Bolognesi.

«Evviva ai prodi, pei quali saranno celebri Montebello, Frassinete, Palestro, Magenta, S. Martino. Pugnamno gli itallant'di fianco ai Francesi — Disse Napoleone III: gl’Italiani sono degni di pugnare a fianco dei Francesi.

«L'Italia avrà l'indipendente, ché per i popoli volere è potere. — I destini della Italia stanno nella concordia, nelle virtù cittadine, nel valor militare. "La concordia, che qui ci unisce, ci unirà del pari nel giorno del pericolo, e ci darà la vittoria. "Lo spavento maggiore ai nostri nemici sarà la nostra unione.

«I Modenesi a suggello del fratellevole accordo donarono a Parma un magnifico stendardo, ed il Podestà di Parma pronunziò queste nobili parole: a Parma oggi è lieta di accogliere fra le sue mura un sì eletto numero d'Italiani accorsi da città sorelle per iscambiare con nel le espressioni delle comuni speranze.

«Non è piena ed intera la nostra gioia pur troppo, o signori; né potemmo invitarvi a festeggiare, tripudiando, un bene perfetto; perché voi sapete come tutte non siano ancor 'vinte le prove, ed al senno italiano rimangono forse le più ardue da superarsi.

«Ben ci rallegriamo per questo, che vi conosciamo deliberati a farvi con noi cittadini di un solo stato; e qui veniste a render pubblica e solenne testimonianza, che come striugonsi le nostre destre, così sono uniti gli animi in quell'intento, e ferme le volontà nel proposito di conseguirlo.

Ed il giorno scorse presto In quello scambio di generosi ed amorevoli affetti; giunta l'ora della partenza, grinni musicali suonarono più rapidi e più incalzanti, mille armi e mille bandiere s'intrecciarono, e fra le grida di Viva il Re! Viva L'unione al Piemonte, tutti quegli armati profferivano santo e solenne giuramento di correre a difesa della città, che fosse minacciata.

Anche Carrara nella metà di luglio rinnovò il suo voto di annessione. Il Municipio riunì tutti i capi di famiglia in assemblea generale, e per acclamazione fu stabilito confermarsi l'atto di dedizione al Piemonte mercé sottoscrizione di tutt'i cittadini e con protesta cotta ogni qualsiasi restaurazione del cessato go vermi.

Così l'Italia centrale rispondeva ai preliminari di Villafranca. L'entusiasmo di quelle popolazioni si era manifestato in desinata città, sempreché si era presentata una qualunque occasione, ma si era smisuratamente accresciuto quando più popolazioni si erano unite. E che cosa aveva reso materialmente possibile riunione? — Le ferrovie; tanto è vero quell’armonica corrispondenza tra la vita fisica e la vita morale e politica dell'uomo; tanto è vero, che quando si sono sensibilmente modificate le relazioni sociali, è d'uopo ancora, che le relazioni politiche si modifichino ancor esse.


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CAPITOLO III

Fase diplomatica della quistione italiana dopo i preliminari di Villafranca. La Lombardia.

SOMMARIO

Dopo i preliminari di Villafranca la quistione diplomatica Italiana era divenuta delle più difficili Articolo del„ la Gazzetta Austriaca — Argomenti, che se ne traggono pel potere. temporale del Papa La confederazione inspirava timori a tutte le parti, che dovevano comporla — Articolo del Morning Post "Gli avvenimenti davano ragione alle previsioni di quel foglio — La stampa francese — Due fatti, che potevano solamente favorire la combinazione politica prescelta a Villafranca — Su quali basi si fondassero le speranze della diplomazia per l'adesione dei popoli alla restaurazione dei Duchi — Ma esse erano false per le mutate aspirazioni dei popoli — Difficoltà per un congresso Europeo — Opinione del Governo inglese — Opinione dei Tory ". Questa era'  quella del Governo Austriaco — Nulladimeno il Congresso era il solo espediente per completare la pace di Villafranca — Ma le opinioni delle grandi potenze europee erano divergenti — Ed intanto le popolazioni dell'Italia meridionale procedevano risolute nel loro intento — L'esempio della Lombardia le animava Contento di quelle popolazioni — Lettera del Re al Podestà di Milano — Manzoni Presidente Indirizzi dello Città lombarda Indrizzo dei Bresciani — Il sentimento patriottico dei Lombardi si espande in atti di beneficenza — Avviso della Congregazione municipale di Milano — Commessione per la istruzione pubblica — La Direzione presso il Ministero degli Affari Esteri d abolita — Decreti organici amministra tivi — Disposizioni legislative sulla stampa — I fatti di Lombardia influivano sul rimanente dell'Italia — In drizzo dei Veneti La quistione Italiana si rafforzava — Roberto d'Azeglio sulla restaurazione dei Duchi.

 

Dopo i preliminari di Villafranca la quistione italiana era divenuta per la diplomazia una delle più inestricabili. La soluzione proposta pel riordinamento della Penisola si manifestava ogni giorno più difficile ad attuarsi. impereineché ammesso pure, che si giungesse alla volontaria restaurazione dei principi spodestati, la confederazione italiana, che doveva essere la nuova combinazione politica diretta ad assicurare l'indipendenza dell'Italia, era trovata impossibile non solo quivi tua anche in Austria. Sin da principio l'Ost Deutsche Post aveva fatto intravedere le difficoltà pratiche dell'attuazione di quel progetto (), ma più tardi la Gazzella Austriaca scriveva a tale proposito: Fin dall'anno 1849 il governo austriaco aveva cercato di rendere plausibile ai governi d'Italia la proposta di una confederazione italiana. Questo progetto fu ripreso dalle potenze, che hanno conchiuso la pace, ed esteso a tutta la Italia. Questa combinazione sarà accettata in quanto si sarà costretti ad accettarla; gli Stati, che ponno resistere, vi si opporranno per quanto è possibile.

«Noi abbiamo sempre dubitato, che il Papa accettasse la presidenza, e ch'entrasse nella Confederazione. Oggi si dice, che rifiutò questo posto di onore. e noi comprendiamo perfettamente, ch'egli abbia per questo dei sufficienti motivi. Per essere capo indipendente della Chiesa Cattolica bisogna, che il Papa sia sovrano, ma egli perderebbe questa indipendenza, se fosse alla testa di una Potenza, che disponesse di una grande armata. Nelle quistioni europee bisogna, che sia neutrale, che non sia trascinato nel vortice delle querele dalla forza delle circostanze e dalla politica. Ma se a lato del bastone pastorale Roma avesse ancora una buona spada, se il Sovrano di Roma disponesse di varie centinaia di migliaia di baionette, non solo l'esistenza degli stati protestanti, ma l'indipendenza degli stati cattolici sarebbe in pericolo, ed una massa di nemici si alzerebbe centra la Chiesa di Roma per combatterla a vita ed a morte.

Papa come capo d'una Confederazione di 25 milioni d'anime. sarebbe un pericolo per l'equilibrio europeo e per la pace della Chiesa; il Papa come Presidente di forma, che non farebbe. che coprire del suo augusto nome le azioni d'altri, e firmerebbe le loro ordinanze, sarebbe leso nella sua dignità vincolata nelle elevate funzioni, la sua posizione sarebbe insostenibile. Si accorderebbe in tal guisa a poteri non ecclesiastici d'abusare de la chiesa in vista delle loro proprie mire ed anche col costringervela. A Roma, ove questo tatto politico non ha giammai mancato, si debbono non solo sentire queste difficoltà, ma prendere eziandio in considerazione, che tutto il dominio temporale del Papa si trova posto in quistione da questo aggiustamento. Sarebbe facile di trovare un pretesto per sequestrare il potere temporale del Papa, che volesse rimanere imparziale, ed alla Sardegna non mancherebbe giammai l'invidia di farlo.

«La Sardegna ín generale non cesserà di tendere all'egemonia, al dominio indiretto in Italia, la nomina di Rattazzi qual primo Ministro di Vittorio Emmanuele lo prova apertamente. Essa tenterà di realizzare questo progetto nella nuova confederazione, e non si dovrebbe restare in conseguenza, meravigliati, se Napoli per isfuggire a questa pressione ed a questi intrighi volesse rimanere estranea alla Confederazione.

«Le parti, che hanno conchiuso la pace, non hanno potuto in conseguenza incaricarsi di favorire la formazione di una confederazione di questo genere, perocché non è in loro potere di formarla efficacemente.» Quest'articolo offre un interessante argomento del concetto, che giusta le teorie in esso svolte bisogna formarsi del potere temporale del Papa. Il Papa dev'essere sovrano, ma tanto quanto basta alla sua indipendenza; s'ei lo fosse nel significato generale della parola, potrebbe abusarne e minacciare la indipendenza degli altri Stati. Presidente effettivo della confederazione, sarebbe troppo potente; Presidente di onore, sarebbe condotto ad agire suo' malgrado; insomma la sua sovranità dev'essere una forza di resistenza e non altro. Con un concetto come questo non si ha dritta ad argomentare contro quei temperamenti, che nel rimpiazzare il potere temporale del Papa, provveggono alla sua indipendenza e tolgono la contradizione di una sovranità speciale.

In ogni modo la confederazione inspirava timori a tutte le parti, che dovevano comporla, e ciascuna di esse credeva, che dovess'essere violentata dall'altra. Il che indubitatamente è manifestissinia pruova non solo della mancanza di quell'identità d'interesse, che e la esclusiva base di ogni confederazione, ma della esistenza ancora di vedute e di obbietti contrarli, che essenzialmente la escludono. Questo fatto si vede sempre riprodotto sotto forme diverse.

Il Morning Post, notissimo organo del capo del ministero inglese, aveva esaminata Ia quistione in un senso ben diverso della Gazzetta Austriaca, ed era giunto allo stesso risultamento della difficoltà pratica dell'attuazione di quella politica combinazione. Abbiamo citato nella Storia della guerra d'Italia (Cap.33) alcuni brani di quell'articolo; ora ne citeremo qualche altro, che ha uno più stretto rapporto con l'argomento, che trattiamo: L'obbiezione precedente (quella cioè che la confederazione presentava, astrazion fatta dalle restaurazioni dei principi detronizzati) concerne in genere l'assetto conchiuso. Ma vi sono delle difficoltà speciali in quanto è relativo al ristabilimento dei sovrani dei ducati di Toscana e di Modena. Gli abitanti di questi Stati hanno annunciato per mezzo di tutti gli organi pubblici e riconosciuti, colle dichiarazioni dei loro municipii, coi proclami delle loro truppe, cogli indirizzi officiali e colle professioni di fede individuali, che desideravano di essere riuniti al grande regno d'Italia settentrionale, ed hanno fatto conoscere il loro odio contro i despoti, che hanno espulso.

La rivoluzione toscana fu quasi una rivoluzione personale; essa è nata da una diffidenza inveterata contro il carattere e le intenzioni dell'arciduca austriaco. I capi del partito liberale, ora giunti al potere. hanno detto chiaramente al loro sovrano: «Noi non possiamo più fidarci di voi; voi ci avete già tradito una volta, voi ci tradirete probabilmente ancora. Portando la maschera di un principe italiano, non avete mai cessato di essere in segreto il vassallo e lo strumento dell'Austria; voi potete ancora giurare, che vi sta a cuore la causa d'Italia, ma i vostri sudditi non possono dimenticare, che foste già spergiuro.

«I sentimenti, che dettarono un simile linguaggio, e gli avvenimenti, che provocarono questi sentimenti, possono dessi cancellarsi dalla sera al mattino dalla memoria di tutto il popolo toscano e trasformarsi per l'effetto del trattato di Villafranca in uno spirito di sommessione?» E gli avvenimenti provavano, che invece di cancellarsi si rinvigorivano. Tutta la stampa francese era colpita dall'energia e dall'unanimità dei sentimenti degli abitanti dei Ducati. La Patrie rilevava le manifestazioni avvenute a Modena, a Parma, a Piacenza, nelle Romagne, e specialmente in Toscana, e concludeva per la soddisfazione dei voti, regolarmente espressi dalle popolazioni, imperciocché importa ai riposo dell'Europa intera, che sia creato in Italia un ordine di cose durevole, che prevenga nuove rivoluzioni. Il Débats e la Presse riportavano per intiere le dichiarazioni del Monitore toscano, che dichiaravano impossibile la restaurazione dell'antica dinastia, ed il Siècle rilevava come non vi fosse traccia di quell'implacabile pressione, della quale parlava l'Ami de la Religion.

 STORTA DELLA GUERRA DI SICILIA

TIPI DELL'ARMATA DI GARIBALDI

I voti dunque delle popolazioni non erano dubbii, ed era moralmente e politicamente impossibile, che la forza li comprimesse. Il perché due soli fatti rimanevano alla diplomazia per rendere ín qualche modo possibile l'attuazione della prescelta combinazione politica; il concorso dell'Europa da prestarsi in un congresso; la sperata adesione delle popolazioni. E siccome circa quest'ultima le concordi dimostrazioni dei Ducati ed i legali indrizzi delle autorità e delle popolazioni la escludevano tuttaffatto, è necessario di conoscere su quali fondamenti si poggiassero le speranze diplomatiche.

«Non bisogna dissimularsi, leggevasi in una corrispondenza del Nord da Parigi, il desiderio e gli sforzi della diplomazia tendenti alla ristorazione dei sovrani dei Ducati. Tale quistione è la più difficile a sciogliersi, perocché se i principi non possono contare sulla protezione effettiva delle potenze, come potranno essi rientrare nei loro paesi, ove la pubblica opinione si pronunzia ognora più contro di loro? «In presenza della disposizione degli animi in Italia un intervento armato avrebbe i più gravi inconvenienti; d'altronde la storia c'insegna quanto durano i poteri ristorati con l'aiuto di estere baionette. Nulladimeno credo potervi indicare sommariamente quali sono in questo momento le disposizioni della diplomazia. La Sardegna richiamerà i commessarii, ch'essa ha inviato negli Stati rimasti senza governo per mantenervi l'ordine ed organizzarli militarmente, essendo colla guerra cessato tale scopo.

«Si spera pertanto, che liberi a sé stessi ed assicurati, che il loro consenso alla ristorazione dei loro principi sarà accompagnato da costituzioni e riforme, ch'essi reclamano da lungo tempo, i Ducati finiranno col cedere. D'altronde il Piemonte in iscambio della concessione, che farebbe all'Europa, riguardo all'annessione, avrebbe il dritto di fare valere le condizioni di riforma, ch'egli presentasse, e queste condizioni diverrebbero quelle del congresso. In tal guisa le popolazioni italiane crederebbero soddisfatti i loro voti, senzaché ne risultasse un completo rimescolamento della costituzione. Ma il vizio di questo ragionamento stava appunto nell'ignoranza delle aspirazioni e dei sentimenti italiani, i quali erano rimasti completamente modificati dai fatti avvenuti negli ultimi dodici anni. I governi, che in questo periodo di tempo avevano avuto il potere in tutti gli Stati peninsolari, meno il Piemonte, avevano convinto le popolazioni, ch'esse non sarebbero state mai veramente libere, se non fossero divenute realmente indipendenti, di tal che le istituzioni rappresentative, che prima erano il fine dei desiderii degl'Italiani. erano poi divenute i mezzi per conseguire uno scopo più eminente, la indipendenza nazionale. Il Piemonte propugnava questa indipendenza, e serbava religiosamente il rispetto delle istituzioni rappresentative, per modo che l'annessione al Piemonte dispensava da un lavoro, che bisognava compiere, e presentava l'opera bella e compiuta. Com'era possibile il supporre, che non la si accettasse? Le persecuzioni e le umiliazioni sofferte avevano sanato gl'Italiani da quello spirito di municipalismo, del quale avevano fatto cosi tristi pruove anche allor quando si erano rivendicati in libertà. E se per conseguire la indipendenza fosse stato d'uopo d'un'autorità dittatoriale, gl'Italiani non avrebbero esitato ad accettarla, perché la loro grandezza ed il loro avvenire non l'avevano trovato nelle singole costituzioni più o meno larghe, ma dovevano trovarli nella loro indipendenza, mordi, la quale potevano divenire padroni a casa loro. Ora se gl'Italiani avessero anche accettato con la indipendenza un potere più assoluto, come avrebbero ricusato la indipendenza con franchigie sinceramente e largamente liberali? Le costituzioni e le riforme, che dovevano accompagnare il loro consentimento al ritorno dei principi spodestati, le trovavano già belle ed attuate da un principe, che non se n'era giammai discostato. Chi avrebbe scambiato il noto ed il certo per l'ignoto e l'eventuale? Forse l'affetto verso i Sovrani, che si erano separati dalla Nazione ed uniti ai nemici suoi, ovvero l'abitudine di rimanere Toscani, Modenesi, Parmigiani, Piacentini, Reggiani, Romagnoli anziché Italiani? Ma quell'affetto era una contradizione, e quest'abitudine una sorgente di miserie e di sofferenze. Ecco quello, che non vide la diplomazia, e che pur era chiarissimo.

Queste erano le difficoltà per l'adesione delle popolazioni; quelle per lo concorso dell'Europa da prestarsi in un congresso, se non erano gravi del pari, non erano neppure leggiere. Nella Storia della guerra abbiamo accennato quale fosse il concetto dell'Europa, e specialmente dell'Inghilterra sul congresso, ma dopo alcuni giorni pare, che l'opinione del gabinetto di S. Giacomo si fosse modificala, giacché il Morning Post, che prima aveva detto essere tutt'affatto superfluo un congresso per regolare le cose d'Italia, mutò d'avviso, e disse non essere secondo lui le difficoltà della pace punto minori di quelle della guerra, ed importare perciò, che i preliminari di Villafranca avessero la sanzione delle potenze europee.7ti Sarà quindi necessario, soggiungeva il foglio, che l'Inghilterra sappia categoricamente quali sono le basi reali, sulle quali è stata conchiusa la pace. È ora, se fu giammai, che l'alleanza anglo-francese dee mostrare al mondo la propria utilità. Si è ora, che dee fare sentire la sua influenza nei consigli dell'Europa e nelle decisioni, dalle quali dipenderanno I destini dell'Italia. Ma prima che l'Inghilterra faccia il benché minimo passo, prima che essa dia il proprio avvisò, è dovere del governo dl conoscere Inno quelle, ch'è stato convenuto ed adottato, ciò che riguarda l'avvenire d'Italia, tutto quello che si propongono di fare, ed in qual guisa, scranne messi in esecuzione i piani adottati. Allora quando il governo avrà ricevuto tutte queste istruzioni, allora si potrà agire»

Tale peraltro non era l'avviso del partito Tory, il quale, scorgendo quali sarebbero state le deferenze dei rappresentanti inglesi nel congresso, non potendo,favorire l'Austria,, sosteneva, che l'Inghilterra si dovesse serbare neutrale, perciocché la sua partecipazione ad un congresso, o anche ad una conferenza, le faceva assumere una responsabilità, per la quale in vista delle possibili eventualità dovrebbe accrescere le sue spese al di là di 70 milioni di sterline. Ciò disse Disraeli nella Camera dei Comuni, aggiungendo, approvar egli la pace o credere nella sincerità dei due Imperatori,che l'avevano conchiusa.

E questa opinione del partito Tory era precisamente quella del governo austriaco. La pace di Villafranca era per l'Austria la necessità del momento. Il giovane 'Imperatore r aveva ben detto al principe Napoleone quando nel firmare i preliminari gli aveva augurato df non essere mai in circostanza di firmarne del simili (). E d'altronde l'Austria avrebbe sempre meno conceduto all'imperatore dei Francesi, che all'Europa riunita in un congressi), tanto più che mentre le tendenze dell'Inghilterra erano note, le relazioni, nelle quali l'Austria si rattrovava con la Russia e la Prussia, non le davano molta speranza di un sostegno da parte di quelle due potenze. Nè era poi molto difficile il prevedere, che in ogni caso, attese le aspirazioni chiaramente manifestate dagl'Italiani e le dichiarazioni positive del governo inglese; attese pure le precedenti promesse dell'Imperatore Napoleone e le opinioni della gran maggioranza dei Francesi, il Congresso o non sarebbe riuscito ad alcun risultamento, o ne avrebbe dato uno per nulla favore vole alle idee ed i convincimenti austriaci.

Nulladimeno il congresso rimaneva sempre il solo espediente per completare in modo veramente diffinitivo la pace di Villafranca nelle sue conseguenze per l'assestamento dell'Italia. Il perché l'Opinione di Torino si affrettava a dichiarare, che il congresso dei plenipotenziarii di Francia, Austria e Piemonte a Zurigo non avrebbe avuto altro scopo fuorché di convertire i preliminari di Villafranca in un trattato di pace e regolare la cessione della Lombardia al Re di Sardegna. Le altro quistioni relative ai bucati, alla Toscana, alle Romagne, ai governi, ed ai popoli delle altre provincie italiane non potevano essere risolute nelle conferenze di Zurigo. Imperocché né alla Francia né all'Austria come grandi potenze, né al Piemonte come potenza italiana competeva il dritto di regolare da sé quistioni, le quali avendo attinenza coll'equilibrio europeo, richiedono l'intervento di tutte le grandi potenze, onde le stipulazieni, che ne sieguono, fossero da tutte quelle Potenze riconosciute e fatte rispettare.

Adunque delle cinque grandi potenze europee, tre di esse, la Francia, l'Inghilterra, e l'Austria, non si trovavano d’accordo su i principii, onde regolare la quistione italiana. L'Inghilterra ne professava dl quelli diametralmente opposti a quelli dell'Austria, e non solo la stampa semiofficiale, ma anche i ministri della Regina li avevano apertamente dichiarati, né tralasciavano occasione di ripeterli nell’istesso Parlamento. L'Imperatore Napoleone mostrava di avere opinioni, che non erano né le inglesi né le austriache; si accostavano alle prime per proscrivere ogni intervento armato e lasciare libera la manifestazione della volontà dei popoli; si accostavano alle seconde nel propugnare una confederazione italiana, sulla quale peraltro abbiamo veduto quale fosse il concetto austriaco, e nel desiderare la reintegrazione dei duchi spodestati, ma si allontanavano dalle une e dalle altre nel concetto politico del riorganamento italiano. Ma è evidente, che le Francia stesse molto più vicina all'Inghilterra, che all'Austria, dapoiché entrambe volevano, che non si violentassero gl'Italiani, comunque poi fossero discordi su i consigli da dare ad essi...

La Russia e la Prussia avevano prescelto una politica di aspettativa; esse. sentivano il bisogno di correggere l'errore dei trattati de11815, che avevano accordato all'Austria soverchia preponderanza in Italia, ma volevano, che fosse salvo il principio monarchico. né accettavano senza riserve la sovranità nazionale. Per la qual 'cosa iloongresso europeo veniva ammesso in principio come un omaggio da rendersi al compromesso, per lo quale le cinque grandi potenze si erano attribuito l'arbitrato dell'Europa,.,ma si scorgeva inattuabile nel fatto, perché se perduravano gli arbitrii, erano però cambiate le teorie e le, regole politiche, che avevano determinato sino allora i loro giudizii.

E mentre la fase diplomatica, in cui era entrata la quistione italiana, era necessariamente quella della aspettativa, i popoli dell'Italia centrale procedevano molto innanzi in una forte e risoluta organizzazione.

Noi li abbiamo veduti, non appena rivenuti dalla sorpresa dei preliminari di Villafranca, riprendere. animosi e con mirabile unanimità il loro lavoro.,Toscani, Modenesi, Parmigiani, Piacentini, Romagnoli, tutti manifestavano un identico voto, e tutti identicamente parlavano ed agivano nel senso di quello. L'Europa ne era scossa ed anche compiaciuta; ed il contegno calmo, ordinato; ma inamovibile delle dette popolazioni doveva alla pur fine pesare nella bilancia dei destini delle nazioni in un tempo., in cui la loro voce ed il loro interesse avevano preso posto nel linguaggio officiale.

Quello, che accadeva in Lombardia, animava ed infiammava semprepiù le popolazioni dell'Italia centrale. Ivi l'accorda tra il governo e la popolazione era mirabile, gl’indrizzi venivano da per ogni dove, e ciascuno esponeva quali fossero i miglioramenti da farsi nell'amministrazione. Si osservava per esempio che con una popolazione di quasi 3 milioni la Lombardia non avesse più di 9 provincie; mentre in Piemonte se no contavano 50 con una popolazione di poco più di 5 milioni, e si esternava il votai che nell'assimilazione del nuovo territorio del regno si fosse prescelto un termine medio tra la troppo ristretta e troppo estesa circoscrizione amministrativa; o si assicurava,che il ministero se ne occupasse. Si proponeva poi come pegno della spontaneità della unione al Piemonte, che si avessero in Milano a ribattezzare parecchie strade e piazze, surrogando i nomi di corso Vittorio Emmanuele al corso Francesco, di porta Venezia e porta Tosa, di piazza Napoleone alla nuova piazza alla scala, di contrada Cavour alla contrada Giardino. Si celebravano nella stessa Milano i funerali alla memoria di Carlo Alberto con si grande concorso, che il re credè di scrivere sull'obbietto una lettera al podestà di Milano; con la quale gli diceva:

«La testimonianza di pietoso rimpianto, offerta dal popolo di Milano il giorno 28 luglio alla grande anima del mio genitore, commosse profondamente il mio cuore. i Milanesi, associandosi spontanei al domestico lutto del loro Re, mostrarono come il vincolo, che a loro mi unisce, sia vincolo di amore, ed io ne sono pienamente soddisfatto: essi, onorando in modo inusitato la memoria di Carlo Alberto, significarono del pari come volgere d'anni e di casi non abbia pure scemato riverenze e gratitudine all’iniziatore della loro indipendenza, ed io ne li ringrazio anche a nome d'Italia.

«Quantunque io non avessi d'uopo d'altra prova, onde conoscere l'affetto e la lealtà dei miei Milanesi, essa tuttavia fu così consolante per me, che io sento il bisogno di attestare loro quanto io li abbia compresi.

«Codesto onorevole municipio facendosi interprete dei miei sentimenti presso i suoi concittadini, com pirà uno dei più cari voti dell'animo mio.

Torino 31 luglio 1859.

Sottoscritto— VITTORIO EMMANUELE.

L'illustre Alessandro Manzoni accettava dopo vive istanze del governo l'officio di Presidente dell'istituto di scienze, lettere, ed arti, avendo però un coadiutore, e recò molto piacere la notizia di essergli stato assegnato un compenso, giacché tutti sapevano, che la sua modestia ed il suo disinteresse lo avevano, col locato in una non agiata posizione.

Abbiamo parlato degl'indrizzi, che giungevano dalle' varie parti della Lombardia. Riferiremo il solo 'dei Bresciani come quello, che compendia i voti ed i sentimenti di tutt'i Lombardi, ed al quale presso a poco sono simili tutti gli altri.

«Sire!

«La vostra parola, che ci annunzia cessatele lagrime di nove lustri, compiuti i lunghi voti dei nostri cuori, suonò profondamente in ogni. petto lombarde.

«I Bresciani, primi già. nel voler essere parte della famiglia, ch'è fedele custode delle speranze d'Italia, esultano ora più di ogni altro di tale ventura.

«Essi benedicono, o Sire, la Vostra generosa cc' stanza, il Vostro valore, e del magnanimo Vostro alleato; benedicono I dolori e le fortune, che ci dànno alfine una patria, e stretti intorno a Voi, sperano non lontano il pieno trionfo della santa causa comune.

«I Bresciani, o Sire, si commettono a Voi con in tera fiducia. Accogliete la loro fede. Voi avrete pronti sempre e devoti ad ogni vostro invito, dovunque li &nona la prosperità e la gloria vostra e della patria italiane,.

«Brescia 15 luglio 1859.

Nè il sentimento patriottico dei Lombardi si arrestava in espressioni di attaccamento e di devozione al re, aia si espandeva in atti di beneficenza, o per dir meglio provvedeva alla soddisfazione di un debito di gratitudine verso i valorosi, che avevano sparso Moro sangue per l'Italia. Il 30 di luglio 1859 la Congregazione municipale della città di Milano pubblicava il segnane avviso.

«l,' esercito francese ha combattute eroicamente per la causa italiana, e gareggiando con, lui l'esercito nostro ha difesa ed illustrata la patria. Tutti coloro, che amano 11 nome d'Italia Consacrano già un tributo di ammirazione e di riconoscenza a quei valorosi, e sarà. culto imperituro.

«Ma un sangue prezioso ha pagato le splendide vittorie, sl che migliaia di famiglie sono orbate di chi validamente le sostenne, e molti prodi tornano mutilati alle case loro in giovane età, inetti al lavoro. Questi mali che seguono sempre il tremendo conflitto delle armi, più gravi oggi si manifestano dopo questa gran guerra di emancipazione,,nella quale accorsero volenterosi tanti che per debito di famiglia non avrebbero altrimenti cimentata la vita.

«I governi non lasciano certo in difetto di provvedimenti questi martiri dell'onore e della patria, ma ciò non isdebita punto i cittadini dal dovere di concorrere per quanto è da loro a lenire queste nobili sventure che sono nostre, perché incontrate per noi.

«Ha la privata carità in varie forme generosamente soccorsa elle ungenti necessità dei feriti, ed Iniziò ben anche misure dirette ad ottenere i mezzi necessarii per diminuire le lunghe sofferenze degl'invalidi e. del derelitte degli estinti.

«Ma per quest'opera occorrono mezzi grandi, perché molti sono gli infortunii da soccorrere, ed i provvedimenti, annullò d'indole temporanea, debbono corrispondere alla importanza dello scopo, D'uopo è dunque, che tutti gli sforzi della pietà pubblica e privata diretta a tale intento, abbiano a convergere in azione comune, solo modo per ottenere una larga affluenza di offerta ad una congrua applicazione dei sussidii.

«Il Consiglio comunale di Milano s'è fatto interprete di un pubblico voto, aprendo una sottoscrizione, onde formare un fondo appunto destinato a soccorrere ai bisogni degl'invalidi e delle famiglie derelitte degli eserciti alleati in questa guerra generosa.

«Esso iscrisse la città per lire 100 mila, e statuì che il prodotto della colletta sarebbe offerto alla Maestà del magnanimo ed amatissimo nostro re, perché ne disponga in questa pia causa, che certo sarà cara al primo soldato della indipendenza italiana.

«La congregazione municipale di Milano, dando vita al nobilissimo divisamento, si rivolge confidente ai cittadini milanesi, invitandoli a contribuire largamente a quest'opera doppiamente santa.

«Essa spera, che quei benemeriti, i quali con lodevole zelo già iniziarono collette analoghe, vorranno associarsi a questo programma, onde meglio ordinare l'applicazione dei sussidii mercé, le provvide disposizioni, che sarà per impartire l'augusto nostro Monarca.

«Persuasa questa Congregazione, che lutti vorranno corrispondere generosamente all'invito., tiene per certo, che la proposta avrà eco ovunque si onorano i sacrifizii fatti in pro della patria.

BELGIOSO PODESTÀ.»

Veniva istituita in Milano una commessione spe, gale incaricata di esaminare i. regolamenti della istruzione pubblica e privala e le condizioni, in cui si trovava l'istruzione elementare e tecnica, la ginnasiale, e la universitaria, e di proporre al governo le riforme e le modificazioni, che reputasse più urgente d'introdurre così nei regolamenti come in generale negli ordini e metodi scolastici, affine di migliorare la istruzione e di recare, nelle nuove provincie un sistema di assimilazione, con le antiche in tutto ciò, che concerne l'insegnamento pubblico e privato.

E per non trattenerci in maggiori dettagli diremo, che la direzione generale istituita presso il, ministero degli all'ari esteri per gli affari di Lombardia fu abolita. Furono rivocati i pieni poteri conferiti la via straordinaria al governatore di Lombardia, e fu disposto, che il detto governatore eserciterà tutte le:facoltà ed attribuzioni,, che già, competevano al cessato luogotenente a norma, del regolamento, di Amministrazione in vigore e specialmente dell'ordinanza del 30 marzo 1856. Gli affari che a tenore di tali disposizioni dovevano, dirigersi al governatore generale del Lombardo-Veneto ed ai dicasteri, centrali de’ ministeri austriaci, saranno indirizzati a ciascuno dei ministri, serbate le regole della loro rispettiva competenza.

Venivano pubblicate ed acquistavano vigore ín Lombardia le leggi ed i decreti sulla stampa, sostituendo alla citazione degli articoli del codice sardo quella degli articoli del Codice lombardo ed adattandovi le altre disposizioni locali, Cosi di mano in mano mutava l'ordine amministrativo in Lombardia, e si faceva italiano; il resto dell’Italia lo vedeva ed intendeva di seguirne l'esempio; nei Ducati e nelle Romagne questo intendimento si traduceva in fatti; nel regno di Napoli alimentava speranze, che le circostanze politiche, in cui quel governo si rattrovava, rendevano fondato; e nella Venezia si cambiava in desolazione, rattemprata alquanto del convincimento, che Italia non avrebbe mai abbandonata la più nobile dello sue parti, la cui sventura era uguagliata soltanto dalla sua gloria nei secoli decorsi, e dal pensiero, che lEuropa non avrebbe potute permettere, che nel risorgimento italiano Venezia rimanesse derelitta. La quale opinione inspirò un indrizzo dei Veneti agli ambasciatori di Russia, di Prussia, e d'Inghilterra in Torino, che presentato dagli emigrati veneti per mandato de'  loro concittadini, fu la parola di quelle popolazioni portata da coloro, che soli erano sottratti dalla pressione, che una mano, di ferro impediva di pronunziarla; né la storia deve ometterlo, perché è la manifestazione dei voti e la prelevata, di tutto un popolo. Questo indrizzo, che una deputazione di Veneti recò ai sopradetti ambasciatori, diceva:

«Eccellenza!

«Ad udire i patti di Villafranca grida di dolore e di disperazione proruppero dai popoli della Venezia.

«Gran numero di persone, cospicue per ingegno e per condiziono, e membri di municipii, appena n’ebbero sentore con raro ardimento distesero o di là mandarono un vigoroso,richiamo contro quei patti, incaricando noi di presentarle al governo,sardo ed ai ministri delle potenze estere qui residenti per invocarne l'aiuta e la,protezione

«Eccellenza! Noi ve lo presentiamo, e ci permettiamo di aggiungere alcune nostre parole.

«Sarebbe lungo il tesservi la dolorosa storia delle nostre tristi vicende. — Uditene un sunto.

«Le Venezia per tredici secoli indipendente, fiaccola di civiltà,nelle tenebre del medio evo, maestra nelle arti e nelle scienze, che promosse industrie e commerci, e fu baluardo contro l'invasione e la barbarie ottomana che per tanti anni minacciò l'Europa, la Venezia,travolta nel turbine, che infuriò sullo scorcio del secolo decimottavo, fu ingiustamente levata dal novero dette potente ›

«Non ci fermiamo su quel luttuoso passato!

«Il Congresso di Vienna, sconoscendo i meriti di quella illustre repubblica, senza udirla 0 per la sola ragione della forza, la diede in balia dell’Austria.

«E qui comincia la lunga serie delle prepotenze e delle oppressioni, di cui fu vittima.

«Un governo straniero imposto dalle baionette, inviso alla popolazione, non 'poteva regnare, che con la violenza e l'astuzia; e violenza ed astuzia furono i soli mezzi del suo dominio.

«Le tasse poste senza misura a suo beneplacito; le persecuzioni e le calunnie agli uomini d'ingegno; i patiboli e de carceri a chi si lasciava sfuggire. un dello di libertà e d'Indipendenza; ogni industrie e commercio intralciato o interdetto a profitto delle industrie e dei commerci delle oltre parti dell'impero; le scienze, che più favoriscono la libertà, impastoiate, Se non bandite; favoriti l'ozio ed il vizio; coscrizioni annuali depauperanti la popolazione della gioventù più robusta, tolta alle arti, alle industrie, all'agricoltura, o mandata nello più remote provincie dell'impero per opprimere altre nazionalità: ecco in pochi termini qual era il governo austriaco.

«Trentatrè anni di questo iniquo reggimento non valsero a frenare e corrompere un popolo integro 'ed amante della indipendenza.

«L'odio chiuso da principio nei petti, cominciò a poco poco a divampare. Fu represso, ma divampò di nuovo; e col tempo mano mano crescendo, si fece incendio nel 1848, e di tal impeto e vastità, che non potendo gli eserciti austriaci arrestarlo, ripararono a salvezza nelle fortezze.

«Liberi allora i Veneti per voto universale si unirono aifratelli di Lombardia e di Piemonte.

«Intanto nuovi aiuti crebbero le forze agli Austria ci, e gl'Italiani, lasciati a sè stessi, impari di forze e nuovi in gran parte all'arte militare, dovettero soccombere; ma caddero protestando con l'armi alla mano e col sangue.

«Le resistenze di Udine, di Treviso, del Cadore, di Vicenza e di Venezia, non vinta dal ferro e dal fuoco nemico, ma dalla peste e dalla fame, resteranno luminosi esempi dell'amore dei Veneti all'indipendenza e dell'odio loro invincibile alla dominazione austriaca.

«L'Europa assisté impassibile al nostro sacrifizio, e forse credette alla nostra morte.

«Vegga adesso se si è ingannata!

«Cademmo nel 1849 ma per risorgere e per ricominciare la lotta.

«Un brutale governo militare, che per più anni bistrattò le nostre provincie, volle soffocare il nostro amore d'indipendenza con quei supplizii di Mantova, che fecero inorridire Europa, e con le carceri di Josephstadt, popolate dai nostri patriotti. Misfatti inutili!

«Il sangue dei martiri ed i patimenti dei carcerati davano nuova vita alla resistenza dei Veneti.

«Vedendo, che la crudeltà non giovava, si ricorse alle blandizie.

«Arti vane! Le blandizie furono disdegnosamente respinte.

«Una voce frattanto risuonò da questo lato delle Alpi, misericordiosa alle grida di dolore d'Italia.

«Quella voce quale scintilla elettrica si propagò e scosse i petti della veneta gioventù, che numerosa ed eletta, abbandonati gli agi e sfidando i pericoli di viaggi lunghi ed alpestri, qui accorse, ed indossò il saio, e lieta si sobbarcò alla dura vita del soldato.

«Più tardi un'altra voce risuonò da Francia, e disse di voler rendere libera l'Italia dalle Alpi all'Adriatico. E nuova veneta gioventù a quella voce accorse, e si arruolò nell'esercito sardo.

«Caldi d'amor patrio, fidenti nelle promesse, i gio vani nostri fecero bella prova di sè nei campi di battaglia, e molti a Palestro, a Como, a Varese, a Rezza te, a S. Martino incontrarono la morte da prodi, confortati negli estremi dalla speranza, che la loro terra natale sarebbe anch'essa fatta libera. Oh delusione!

«ll giogo antico è invece nuovamente calcato sul collo della Venezia!

«Ma non creda Europa, che la Venezia vi si ras segni.

«Ora là la ferocia ed il dispotismo militare insolentiscono più che mai. Agli antichi oltraggi nuovi oltraggi si aggiungono: le tasse si pongono non in ragione delle facoltà, ma in ragione delle opinioni avverse al governo; si arrestano persone onorandissime, e senza processo di sorta si deportano a Josephstadt: donne d'illustri casati, agguantate da birri, di notte tempo si traducono nelle fortezze, e si assoggettano a giudizi di corti militari: le case s'invadono da turbe licenziose e violente di soldati, che cacciandone i padroni, o relegandoli nelle soffitte, dà di piglio agli averi, via portando le granaglie ed i bestiami; dapertutto spavento e terrore.

«Ecco, Eccellenza, lo stato delle nostre provincie.

«Tali nuovi fomiti alla giusta ira dei Veneti rende ranno la guerra ancora più accanita col nostro nemico.

«Oh sì! La Venezia tornerà da capo, se l'Europa non le viene in aiuto; tornerà da capo e più fiera ed indomita di prima, durerà nella lotta, finché non avrà l'indipendenza, che è suo dritto e suo supremo bi sogno.

«Eccellenza noi vi abbiamo descritte le sofferenze, e detti i propositi dei Veneti. Ora, permettete, che vi diciamo una parola nell'interesse della pace e dell'equilibrio europeo.

«Sono quarantacinque anni, che l'Italia è in rivoluzione, e che minaccia di continuo la pace d'Europa.

«Finché prevalsero le storte idee, che dettarono i patti del 1815, e fondarono la santa alleanza, durò il vezzo di prendersela coi popoli d'Italia, che di quando in quando alzavano il capo per dire le loro ragioni; e l'Austria ebbe l'assenso di altre potenze per ridurli, se fosse stato possibile, al silenzio ed alla quiete del sepolcro. Il tentò invano. e i «I moti repressi in un luogo scoppiavano in altri, e poco stante tornavano a rivivere là, dove erano stati repressi.

«Queste inutili repressioni; la fortuna che un principe di cara memoria, presa in mano la nostra causa, la propugnasse con le armi; la fortuna ancora maggiore, che il di lui figlio e successore se ne facesse il difensore intrepido e costante; la gelosia, che finalmente destò in Europa la preponderanza soverchia, che vi prese l'Austria mediante i trattati segreti cogli altri principi d'Italia e mediante il concordato con Roma; tutto ciò fece pensare l'Europa ai casi nostri ed alla necessità di togliere le cagioni per fare cessare gli effetti,

«Fu riconosciuta nell'Austria la vera causa del male, ed una guerra fu intrapresa da Francia e Pie monte per cacciarla d'Italia.

«La guerra terminò con la pace inattesa di Villa franca, che confermò il dominio dell'Austria sulla Venezia e sulle fortezze lombarde, che pattuì il ritorno del duca di Modena e del granduca di Toscana; e che forse lascerà, che le legazioni ed il ducato di Parma siano ricondotti sotto il governo di prima.

«Ai mali d'Italia non si portò dunque rimedio: se ne mantennero le cagioni, e si rinnoveranno gli effetti; ed i patti di Villafranca, se non saranno mutati, ecciteranno nuovi torbidi e nuove guerre.

«E l'equilibrio europeo fu dalla pace ottenuto?

«L'Austria, rimasta padrona della Venezia e del quadrilatero, cogli influssi, che le dànno la forza di un vasto impero, di cui è signora, e le parentele coi principi di Modena e di Toscana, ed i dritti, che vanta alla loro successione; l'Austria col concordato, che le fece Roma grata e devota e col suo governo assoluto, modello e norma degli altri governi d'Italia, tranne il Piemonte; l'Austria, diciamo, o rimanga sola o sia confederata, conserverà sull'Italia quella preponderanza, che fu cagione principale della guerra testè combattuta. Così se le cose rimanessero nei termini segnati a Villafranca, le sorti della Venezia sarebbero peggiorate, la pace più seriamente minacciata dalla rivoluzione, e l'equilibrio europeo alterato in favore dell'Austria. Una sola speranza tratterrà ancora la Venezia e le altre parti dell'Italia dal ricorrere ai mezzi estremi; la speranza, che un congresso delle potenze possa rimediare alla pace disastrosa di Villa franca, dando alla Venezia la indipendenza assoluta dell'Austria.

 «Eccellenza! con questa speranza i nostri concittadini distesero e mandarono l'indrizzo, che vi ab biamo presentato, e con questa noi ci siamo a voi ri volti.

«Ora vi preghiamo, che vogliate trasmetterlo con queste nostre parole al vostro governo, il quale ne abbiamo fiducia, vi darà ascolto per debito di umani tà, per osservanza al dritto, e per mantenere la pace e l'equilibrio europeo.

«Gradite, Eccellenza, i sensi del nostro ossequio.

«Giov. Battista Giustiniani da Venezia — Alberto Cavalletto da Padova — Sebastiano Tecchio da Vicenza"Prof. Giuseppe Clementi da Verona"Pro spero Antonini da Udine — Guglielmo nob. d'Onigo da Treviso — Bernardo Bernardi da Rovigo — Avv. Luigi de Steffani da Belluno-Avv. Giovanni Bomallo da Vicenza.

Per tal modo da un capo all'altro dell'Italia propugnavasi la quistione di moralità, di giustizia, e si annetteva a quella dei veri interessi e dell'equilibrio europeo. La voce di un popolo, che anche quando non esisteva politicamente, non aveva mai cessato di vi vere nelle sue storiche rimembranze, né aveva mai abbandonato il suo posto alla testa dell'incivilimento europeo, riusciva potente alla sbarra del tribunale della pubblica opinione, e diveniva efficace in un tempo, in cui e principi e governi sono obbligati a perorare la loro causa in quel medesimo, tribunale. E perciò se i popoli, ed erano rimasti padroni di loro stessi, proseguivano a rafforzare il loro buon dritto con la sapienza civile, la moderazione, la legalità, ed il buon ordine; se essi alla manifestazione di una volontà unanime e tenace,univano il contegno di un popolo; che sa usare della libertà senz'abusarne, e sa imporsi i sacrifizii dalle aspirazioni e degl'interessi individuali, che il patriottismo sovente, esige come soddisfazione della, propria quota associazione nazionale, diveniva pressoché impossibile di violentarne la volontà, cosi legittima nella sua origine e cosi retta»ella. sua espressione.

 Vedremo come le popolazioni dell'Italia centrale questo loro compito adempissero, ma me piace di terminare questo capitolo, riportando qualche brano che Roberto d'Azeglio, il più moderato fra i senatori piemontesi pubblicò verso la metà di luglio 1859:

«Per quanto ne sia imbecille il governo, odiosa e spregevole la condotta, la ragione sarà sempre dalla parte del principe, il torto da quella del popolo. (Allude alla diplomazia). Un principe rovesciato dal trono in una sedizione, vi è riportato in trionfo dai suoi stessi sudditi. In segno di grato animo quel principe annulla lo statuto, ch'egli stesso aveva dato e giurato, vilipende il nobile senso di nazionalità, che spinge il suo popolo alla difesa della comune patria, rinunzia all'alleanza di un potentato nazionale, e si lega col comune nemico; e perseguita sino oltre la tomba i difensori della nazionale indipendenza caduti sul campo di onore. Fatto segno all'odio pubblico, anziché ricredersi generosamente, trasportato da bestiale furore, egli ordina, che le bocche dell'artiglieria sian volte contro la città, ove nacque, contro il popolo, ch'egli era chiamato a difendere. Illuminato amore di patria faceva nullo l'efferato comando. Ed il principe fatto salvo dalla propria ignominia e dal pubblico disprezzo, ricovera fra le baionette nemiche.

«Sembra, che a meno di calpestare ogni senso di moralità l'uomo coverto, di tanto obbrobrio, dovesse arrossire di rimostrarsi ai suoi simili, non che a quel popolo, ch'egli volle ferocemente cannonare. Ma diplomazia e morale sono cose diverse! Il pudore umano appartiene soltanto alle basse regioni del mondo, e si svapora nelle alte sfere. L'inesorabile politica austriaca trarrà quel vile dal suo fango, e tutto lordo di brutture lo coprirà con manto di porpora, lo rizzerà di nuovo sul trono, e dirà al suo popolo: Ecco il nostro padrone - Ed il principe spergiuro perdonerà al suo popolo.

«In altra contrada italica un altro principino, degno emulo di Filippo II, è il prototipo coronato della dissimulazione e della ferocia. Egli governa lo stato in modo da farsi dei sudditi i suoi più gran nemici, Le sue carceri riboccano di prigionieri politici. I patiboli, che fanno peristilio alla sua reggia, mostrano qual sia il vincolo che unisce il principe alla nazione. Le speranze e la forza di sua piccola dinastia tutte sono poggiate sulle baionette austriache. Spaventato un giorno dal grido unanime d'Italia, egli si pone in salvo in mezzo ai suoi stessi oppressori.

«Moralità e giustizia l'avrebbero per sempre re spinto dalla terra, ove il suo nome è esecrando. Ma diplomazia e morale sono cose diverse. Io, g (La mano di ferro, che stringe la misera Italia, restituirà il principe all'amore dei suoi popoli ed i popoli alle paterne cure del loro principino.

«Chi ha in mano la forza può violare impunemente la giustizia. Ma, dice Grozio, fra i principi e le nazioni Dio, si riserbò tarda, occulta, inevitabile la giurisdizione Suprema. Egli delegò due giudici inesorabili, che presiedono alle azioni degli uomini, e che il più privilegiato dei colpevoli non evita mai; la coscienza di ciascuno, l'opinione di tutti. Questi due tribunali stanno aperti per coloro, a cui ogni altro venga meno, È a tali giudici, che gli oppressi si appellano contro gli oppressori. Avanti a questi coloro, che vinsero con la forza dell'uomo, sono vinti dalla giustizia di Dio.


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CAPITOLO IV

La Toscana — Cessazione del Governo Piemontese.

SOMMARIO

Il governo proseguiva a provvedere all'ordine pubblico ed alla manifestazione della volontà nazionale — Circolare del Ministro dell'Interno per la Guardia Nazionale — accolta con plauso — Altra circolare per meglio precisare il concetto del Governo — Provvedimenti per la manifestazione del voto nazionale — Abbreviazione dei termini per la formazione delle liste elettorali. Circolare dell'Interno nel comunicare il telegramma di Celestino Bianchi da Torino — Articolo del Monitore Toscano sulle elezioni — I popoli della Toscana erano sottoposti ad esperimento Prime voci della cessazione del governo Piemontese. Significato di questa misura — Indirizzo di BonCompagni all'esercito toscano — Relazione del Ministro dell'Interno al Commessario straordinario — I fatti riferiti sono eloquentissimi — Motivi d'onde procedevano — Documenti, che si pubblicavano contro i principi detronizzati — Impressioni sugli animi — Abdicazione del Granduca Leopoldo — Come venne accolta — Riflessioni del Siècle — Notizie dei Commessarii spediti a Parigi — Esse raffermavano il proponimento delle popolazioni — Decreto, che raddoppia il n.° dei Deputati "La stampa dirigeva il giudizio nazionale — Onde ogni elettore aveva la completa coscienza del proprio voto — Circolare dell'Interno sulle elezioni — Manifesto del Municipio di Firenze — Il Governo Piemontese richiama il Commessario straordinario — Convocazione della Consulta — Comunicazioni del Commessario — Indrizzo della Consulta"Deliberazione del Municipio di. Firenze — Proclama di BonCompagni — Sua partenza — In quel tempo voci allarmanti circolavano in Italia"Ordine del giorno all'Esercito toscano — Cosi i Toscani si preparavano alle elezioni.

 Proseguiva il governo toscano ad assicurare i due importantissimi obbietti di quella pubblica amministrazione, l'ordine pubblico e la solenne manifestazione della volontà delle popolazioni. Il ministro del. l'interno, che a provvedere al primo dei due indicati obbietti aveva ricevuto dal governo la facoltà di costituire la guardia nazionale ovunque stimasse necessario, dirigeva ai prefetti ed ai sottoprefetti una circolare con la data dei 16. di luglio 1859, colla quale raccomandava caldamente la organizzazione della milizia nazionale, onde in quei momenti di supremo interesse la quiete pubblica fosse mantenuta, dapoiché se la Toscana pretendesse di statuire i suoi futuri destini in mezzo ai tumulti, perderebbe ogni riputazione, ed i suoi voti non avrebbero alcun valore presso i potentati, che avranno a deliberare sulla pace e sull'assetto d'Italia.

Il fine, diceva il ministro dell'Interno signor Ricasoli, che vuolsi raggiungere, deve fare manifesta alla Signoria Vostra la necessità della buona composizione di una milizia, che acquista appunto la sua forza dai suoi componenti. Il vero patriottismo di tutti coloro, che hanno vagheggiato l'idea di un ordinamento nazionale, che desse soddisfazione ai voti più legittimi, è oggi messo alla prova; e se la guardia nazionale riuscirà quella, che il governo vuole, si sarà fatto molto per mostrarci degni di essere quelli, che vogliamo. Le condizioni generali della pace non è in poter nostro di mutarle, ma per tutto quello, che riguarda le quistioni secondarie, che i potentati dovranno risolvere, c'è una parte, che spetta a noi, e che noi dobbiamo compiere come si conviene a popolo civile, se non vogliamo, che tutta Italia ci vituperi. La Toscana dovrà a sé stessa le sorti, che le toccheranno, perché dobbiamo sperare, che ai voti espressi con calma, con fermezza, e con unanimità l'Europa non voglia resistere, interessata come è a non rinnovare i dolorosi periodi di turbamento, che sempre si deplorarono nello stato d'Italia.

Questa circolare fu accolta con plauso da per ogni dove; il concetto, ch'esprimeva, era verissimo; e la formazione della guardia nazionale era un desiderio generale, che si voleva vedere presto compiuto.

Se non che il Ministro dell'Interno con un'altra circolare del 25 di luglio credè necessario di precisare meglio il concetto del Governo su quella istituzione. "«Imporla moltissimo, diceva il Ministro, che tanto le autorità politiche, quanto l'universale dei cittadini sappiano le intenzioni vere, ch'ebbe il governo nell'istituire la guardia nazionale, ed agiscano di concerto in piena conformità di esse.

E dopo di avere ripetuto, avere il Governo pensato, non esservi miglior consiglio di quello di porre la tutela dell'ordine in mano agli stessi cittadini, ovunque se ne fosse riconosciuto il bisogno, sog,giugne:

«Fu in questo concetto, che il Ministero dell'Interno ebbe facoltà d'istituire la Guardia Nazionale ove meglio avess creduto; perché mentre la Guardia stessa può rendere grandi servigi, date certe condizioni di luogo e di fatti, estesa in un tratto a tutto lo Stato, oltre di essere di soverchio aggravio alle amministrazioni comunali, c'era pericolo, che riuscisse al fine opposto a quello, che volevasi raggiungere, come un'esperienza non lontana deve averci ormai dimostrato.

«Io dunque per questa parte sono risoluto di valermi delle facoltà concessemi dalla Legge, e d'istituire la Guardia Nazionale dove la crederò utile, senza lasciarmi vincere da istanze e premure locali, che spesso non muovono da altro, che da vanità municipali velate con l'apparenza del pubblico interesse.

«Sulla composizione della Guardia Nazionale mi occorre inoltre di spiegare chiaramente il concetto del Governo. La legge impone il dovere della Guardia soltanto a certe categorie di cittadini. Con questo la legge non ha inteso di fare esclusioni odiose, ma soltanto d'imporre un onere a quelli, che lo potevano sopportare senza grande sacrifizio dei loro interessi. Tutti quei cittadini, che vivono colle mercedi del lavoro quotidiano, non potrebbero assumere il servizio della Guardia Nazionale senza esporre sé stessi e le loro famiglie a dure privazioni, che la patria non può esigere da loro altro che in casi di estrema necessità. Ed ove mai a questo si venisse, sarà mia cura di ordinare una guardia nazionale di riserva, la quale si comporrebbe di tutti i cittadini, che possono dare pruova di loro probità senz'altra condizione. Non si apprenda dunque per esclusione odiosa ciò, che è mosso anzi da ragionevole riguardo. Il governo presente, che si fonda sul consenso dei cittadini, non solo non ha ragione di diffidare di alcuna classe di essi, ma chiede anzi il concorso leale di tutti, ed è sua forza e sua ambizione l'ottenerlo.

«Questi sono i concetti, che la S. V. vorrà fare intendere ai suoi amministrati, sia per distruggere maliziose insinuazioni sparse per turbare la nostra concordia, sia per sconsigliare dimande intempestive, alle quali dovrei rispondere con un rifiuto tutte le volte, che non le credessi sostenute da gravi motivi di pubblico interesse. Ed in questi casi, se la S. V. mi terrà informato di tutto, i miei provvedimenti non spetteranno di sicuro le domande, ma sapranno prevenirle.

Quanto poi alla solenne manifestazione del voto nazionale, il governo della Toscana vide l'urgenza di convocare l'assemblea nazionale, e per fare più presto abbreviò i termini assegnati dalla legge del 3 marzo 1818 per la formazione delle liste elettorali, ed il Ministro dell'Interno nel comunicare ai Prefetti, Sotto-Prefetti, e Delegati il Telegramma di Celestino Bianchi da Torino del 15 luglio, col quale assicurava, che la Toscana sarebbe stata padrona dei suoi destini, ed avrebbe immensamente giovato al compimento dei destini d'Italia, se sapeva mantenersi nel suo buono e vero spirito italiano, accompagnava quella comunicazione con la circolare seguente:

«Il paese si prepari a pronunziare dignitoso e fermo il suo voto italiano.

«Il governo ora come sempre si mostrerà quale i tempi ne richieggono; aprirà al voto nazionale del paese modi civili di manifestazione; combatterà il disordine, d'onde venga, perché il disordine è nemico di ogni buon pensiero come di ogni deliberazione generosa ed assennata, perché il disordine disfà le forze attive di un popolo, e le muta in suo proprio vituperio. Conta, che le autorità locali non faranno difetto alla fiducia del governo.

E qualche giorno dopo il Monitore Toscano, parlando del voto dell'Assemblea dei rappresentanti nazionali, diceva:

«Questo voto è cosa tanto seria, che per un popolo non ve ne può essere una più seria. Infatti di che si tratta? Si tratta di dire all'Europa: Noi non vogliamo né possiamo più volere la Casa Austriaca. Non la vogliamo più, perché è tanto contraria alla nazionalità italiana da essere andata a combattere a Solferino. Non possiamo volerla, perché è certo, che se tornasse qua macchiata dal sangue di Solferino, essa non potrebbe, che formare la eterna sventura nostra e turbare per sempre la pace della intiera Italia.»

È indubitato, che il popolo toscano era sottoposto ad esperimento; si voleva conoscere non solo se si rifiutasse alla ristaurazione della Dinastia di Lorena, ma se esso fosse inoltre fermamente deciso ad abbandonare la propria autonomia ed unirsi al Piemonte. Si voleva inoltre essere certo, se esso avesse il senno, la fermezza, e la maturità del consiglio di un popolo, che deve disporre di sé medesimo. Ben dunque a ragione si diceva, che i tempi erano supremi, e ben anche a ragione il Governo Piemontese intendeva di togliere ogni appicco al dubbio di una pressione piemontese. Epperò dopo la metà di luglio 1859 cominciavasi già a divulgare la notizia del richiamo dei Commessarii ed Amministratori dal Ducato di Parma e Piacenza,,dal ducato di Modena e dalla Toscana, ma si aggiungeva, che s'ingannerebbe a parte chi da questo richiamo intendesse argomentare della perdita di ogni speranza di annessione, imperciocché non era altro che una guarentigia di piena libertà nella espressione del voto nazionale. E difatti il signor Celestino Bianchi, ritornato da Torino assicurava, interessarsi i Savrani alleati alla sorte della Toscana, i cui voti, si poteva avere fiducia, che non, sarebbero stati disconosciuti quanto,il Paese, mostrandosi ordinato e tranquillo, desse all’Europa guarentigie della sua attitudine all’esercizio, dotta libertà costituzionale.

Intanto le truppe toscane si preparavano a ritornare in Patria. Il Commessario Buon-Compagni dirigeva loro il seguente indrizzo:

«Soldati dell'Esercito Toscano;

«Il Governo saluta con gioia il giorno del vostro non lontano ritorno. Se la fortuna invidiò al valor vostro, i pericoli della contesa ed i premii della vittoria, aprirà alla vostro disciplina. un altro campo non meno onorato nella Toscana stessa. Qui vi attende la Patria à rendere più angusta. la solenne manifestazione dei suoi voti. Le armi vostre non avranno da domare interni nemici. La Concordia cittadina, che non fumai turbata mercé vostra sarà resa più sicura ora, che a fare durevole la pace si vuole affidare la nostra sorte ad uno scettro, che non sia austriaco ma nazionale. Chiunque osasse offendere la maestà del popolo, che provvede Liberamente al suo migliore avvenire, chiunque minacciasse le nostre frontiere, sarebbe respinto da voi come il maggiore dei nemici. Questo gran bene aspettando da voi con affetto e fiducia, tutto il Paese vi onora altamente, perché vi riconosce custodi intrepidi della sua quiete solenne e della sua saggia libertà.

«Il Governo, o Soldati, vi affida insieme con la Guardia nazionale la tutela del più sacro dritto della Toscana quello di pronunziarsi liberamente, intorno ad un Principato, nazionale e costituzionale, che le conservi. antica civiltà, e le assicuri la nuova indipendenza.

Firenze li 22 luglio 1859,

Commissario Straordinario

C. BUON-CONPAGNI

Sieguono le firme dei Ministri

L’indomani di questo indrizzo il Ministro dell'Interno dirigeva al Commessario Straordinario la relazione qui appresso;

«Eccellenza;

«Fino dal giorno, in cui i Toscani, rimasti senza governo, ricorsero al protettorato di S. M. il Re Vittorio Emmanuele, perché sotto la sua generosa tutela si costituisse un reggimento nazionale, chiaramente mostrarono quali fossero i loro sentimenti per il propugnatore dell'Italiana indipendenza,e quali i, loro, voti per un definitivo assestamento delle cose d'Italia. Ma i Toscani non si tennero paghi a quella prima manifestazione; e mentre il governo temporaneo, che resse il paese durante la guerra, per giusti riguardi politici non credè di dovere provocare più aperte dichiarazioni, l'impazienza dei cittadini, mal soffrendo di rimanere in una inerte espettativa, si rivolse alle Rappresentanze Comunali, perciò si facessero interpreti dei pubblici voti, Il Governo non si oppose a queste sollecitazioni, dirette ai Municipii giacché per nna parte non poteva condannare il desiderio universale di uscire al più presto da una condizione di cose tutta provvisoria, o per l'altra parte gli sembrava, che fosse migliore consiglio lasciare, che si tenesse quella, via di manifestazione piuttostoché aprire il campo a tumultuarie dimostrazioni ed alla collisione dei partiti, mentre la calma ed un'ammirabile concordia regnavano in Toscana.

IL MARCHESE TRECCHI DI CREMONA

Ajutante di Campo di Garibaldi

BARONE RICASOLI

Che un paese condotto dalla forza delle cose in una condizione anormale, faccia ogni sforzo per uscirne e per determinare, finché lo può, le sue sorti, è atto naturale e di molto senno; e del pari è alto di grande senno politico il ricorrere per la espressione dei voti pubblici a quell'unica Rappresentanza, che il paese possiede. Se per altro il Governo della Toscana non si oppose a che si consultassero i Municipii, vegliò con fermezza onde nessuna violenza turbasse le loro deliberazioni, le quali, qualunque fossero, prescrisse, che a lui solo venissero trasmesse nelle forme ordinarie. E questo si operò.

«Queste deliberazioni sono oggi riunite presso il Ministero dell'Interno, ed io mi faccio un dovere di accompagnarle all'E. V., perché siano poste sotto gli occhi di S. M. il Re Vittorio Emmanuele. Da esse rileverà l'E. V. con quale unanime suffragio e con quanta eloquenza di affetto i Municipii Toscani abbiano espresso il voto di vedere il nostro paese riunito a quell'Italia, che sotto lo scettro nazionale dei Reali di Savoia,si sarebbe potuto costituire dopo la guerra. Le splendide vittorie delle armi ItaloFranche, le promesse magnanime dell'Imperatore Napoleone affidavano i Toscani ad esprimere questi voti, i quali a mio avviso conservano anche oggi tutto il loro valore, ed uniti agli altri più solenni, che emetterà tra breve l'Assemblea dei Rappresentanti, possono essere di gran momento per definire le condizioni della pace, lasciate in sospeso nei preliminari già sottoscritti.

«Ad accrescere autorità a queste manifestazioni dell'opinione pubblica toscana durante la guerra, due cose mi restano a fare rilevare all'E. V. La prima è che le deliberazioni municipali, che le accompagnano, furono emesse da quelle rappresentanze stesse, le quali sotto l'influenza del passato governo uscirono dalle borse, o furono scelte da lui. La seconda, che nessuna violenza, anzi nessun atto meno che onesto fu adoperato per ottenerle. Era preciso dovere del mio Ministero di tutelare la libertà dei Municipii nel l'aderire o nel rifiutarsi alle proposte deliberazioni, ed asserisco solennemente all'E. V., che nessun rap porto o reclamo mi è giunto, sia per parte delle rappresentanze comunali, sia per parte delle autorità governative locali, sia per parte dei privati, che mi possa fare minimamente dubitare della sincerità dei voti.

L'opinione pubblica si è pronunziata univoca, ed i Municipii se ne sono fatti interpreti; se questa è esortazione, ogni assemblea, che delibera in consuonanza colla nazione, si potrà dire, che deliberi sotto una pressione o terrore. Inoltre V.E. rileverà dalla stessa enumerazione dei voti singolari nelle deliberazioni non unanimi, che fu libero ciascuno di votare in senso favorevole o contrario senza che niuno gli chiedesse ragione del suo voto. E ciò tanto nelle maggiori Città dello stato come nei più umili villaggi.

«Le deliberazioni trasmesse sino al giorno d'oggi a questo Ministero, e che mi onoro di accompagnare a V. E. appartengono a nº 141 Comunità, tra cui si comprendono le Città di Firenze, Livorno, e le altre più cospicue Città della Toscana: sono state pronunziate tali deliberazioni con n.º 809 voti affermativi, e n.º 15 voti negativi, e rappresentano il voto e gl'interessi di n.° 1,135,863 abitanti.

«L'aspettativa dell'assemblea speciale, la cui elezione si sta apparecchiando, e il riguardo di non invaderne il campo, tratterrà forse dal pronunziarsi quelle rappresentanze comunali, che fin qui non emisero il voto; ma io son certo, che ove lo facessero, le loro deliberazioni compirebbero l'opera delle pri me, e la Toscana sarebbesi pronunziata alla unanimità.

«Tutte queste cose vado lieto di potere riferire al l'E. V., perché sono persuaso, che varranno ad avvalorare anche questa prima manifestazione dell'animo dei Toscani, la quale quando sarà confermata in modo anche più regolare e solenne dall'Assemblea Naziomale, che sta per convocarsi, non posso dubitare, che non sia presa in seria considerazione dai Potentati, che dovranno definire l'ordinamento dell'Italia.

«Ho l'onore di professarmi con distinta considerazione ed ossequio.

«Dell'E. V.

«Dal Ministero dell'Interno li 25 luglio 1859.

«Ossequiosissimo B. Ricasoli.»

I fatti riferiti nella trascritta relazione erano eloquentissimi: l'accordo tra il contegno delle popolazioni e le deliberazioni delle rappresentanze municipali era un fatto evidente, che rendeva indubitato il voto nazionale, il quale riusciva anche più positivo per una relazione pubblicata dal Monitore Toscano in sul finire di luglio, dappoiché ne risultava, che in quel tempo le Comunità, che avevano deliberato, erano state 176, rappresentanti una popolazione di 1,377,246 anime. I voti favorevoli erano stati 1013, i contrarii 21. Due Communità S. Miniato ed Incisa, avevano emesso voto sospensivo, e rappresentavano 18,902 abitanti. La sola Reggello aveva emesso con 5 voci un voto negativo, e rappresentava una popolazione di 10,063 abitanti.

A fronte di queste manifestazioni è malagevole il fare delle obiezioni per distruggere il significato po litico di quei due fatti, così armonicamente espressivi; bisogna assolutamente, che l'una o l'altra di queste due cose sia vera, o che manca ad una popolazione ogni mezzo di esprimere il suo voto, e che la espressione del voto delle popolazioni toscane fu verissima. E siccome la prima cosa è un assurdo in morale non meno che in politica, così rimane incontrovertibilmente vera la seconda, per la quale è manifesto, che il voto dei Toscani era stato formalmente espresso anche prima della deliberazione dell'Assemblea nazionale.

Nè potevano essere dubbii i motivi di quel voto. Co me bene l'aveva rilevato Roberto d'Azeglio, il Gran Duca Leopoldo era stato restaurato dalla Nazione, e non pertanto quando la nazione stessa gli aveva chiesto di mostrarsi italiano, aveva prescelto piuttosto di bombardare Firenze, che di aderirvi. Nella fine di luglio si pubblicavano dalla nazione in Firenze i documenti degli ordini di tale bombardamento. Erano tre lettere degli uffiziali, che si trovavano nel Forte S. Giorgio quando nel 27 di aprile la famiglia del Gran-Duca con l'Arciduca Carlo, meno il Gran Duca ed il figlio maggiore, ch'erano rimasti nel Palazzo Pitti, vi si ricoverarono. Queste lettere attestano concordemente la lettura del plico suggellato ed il rifiuto della guarnigione di prestarsi agli ordini, che vi si contenevano, protestando però, che la famiglia gran ducale sarebbe stata difesa da qualunque attacco. Pubblicavansi inoltre le istruzioni del Generale Ferrari contenute nel mentovato plico, le quali e per la loro sostanza e pel loro autore non potevano non destare una generale indegnazione, scorgendovisi con quanta perversità e sangue freddo si prendevano le più minute disposizioni per bombardare una Città come Firenze, lasciandone l'arbitrio ad un uomo del tutto austriaco come il Tenente Generale Ferrari. Le istruzioni avevano la data del 14 di agosto 1858 ().

Pubblicava inoltre la stessa Nazione la seguente relazione, la cui autenticità, diceva, non è a porsi in dubbio: lº si lib o altro i e Pochi giorni appresso alla battaglia di Solferino la divisione toscana occupò Volta Mantovano. Gli abitanti di codesto luogo assicurarono, che nelle ore po meridiane del giorno, in cui la battaglia avvenne, sopra una spianata, dietro il Palazzo Gorzaga, che do mina la pianura lombarda, trovavansi l'Imperatore d'Austria, l'Arciduca Ferdinando figlio di Leopoldo 2°, ed il Duca di Modena: su quella spianata rimasero, seguendo con dei cannocchiali i movimenti delle arma te, sino a che le sorti della giornata essendo decise, se ne allontanarono, dando non dubbii segni della più alta costernazione».

Noi narriamo il fatto, non già per affermare, che assolutamente sia vero, perché non ne abbiamo altro documento dell'accennato, ma per rilevare la impressione, che quei ragguagli dovevano fare sull'animo delle popolazioni in quei momenti di esaltamento del lo spirito nazionale, e per ricavarne un argomento dippiù della sincerità delle manifestazioni contrarie alla Dinastia.

In tale disposizione degli animi giungeva la notizia dell'abdicazione del Gran-Duca Leopoldo a favore di suo figlio il Principe Ferdinando. Si aggiungeva, che questi avrebbe data la Costituzione ed ammessa la bandiera nazionale Italiana. È facile d'immaginare quale impressione questa notizia facesse nel pubblico — «Ecco un Principe, scriveva l'Opinione, che ieri era nel campo austriaco, ed oggi promette lo Statuto e la bandiera tricolore». — E veramente dopo ché il figlio non meno del padre si era diviso dalla Nazione, dopoché il Municipio di Firenze e la Consulta di Stato avevano dichiarato decaduta la Dinastia di Lorena, quell'espediente non poteva conseguire verun successo, tranne che non si ritenesse come tale il tentativo di dividere gli animi, ed attendere da qual che disordine alcun vantaggio, ma i Toscani seppero scorgere i grandi doveri, che spettava loro di com piere. Il Siècle parlando di quest'abdicazione espresse un concetto vero, comunque se ne possano crede re le espressioni un po' dure:

«Il Granduca Leopoldo 2° abdicò; si è uno spingere un poco troppo lungi l'applicazione dei principii del dritto divino. Quando si è stati espulsi da una unanine popolazione, quando la sola idea della ristaurazione esaspera i Toscani, a che serve questa tarda abdicazione? I funzionarii destituiti usano essi di dare le loro dimissioni? Leopoldo 2" e la sua discendenza avrebbero potuto continuare a regnare tranquillamente, come l'hanno fallo da due mesi.

Invece il Marchese di Lajatico ed il cavaliere Ubaldino Peruzzi, ch'erano stati spediti in missione straordinaria in Parigi, scrivevano da lì di avere trovato ben disposto l'animo dell'Imperatore; il Marchese Laiatico si disponeva ad andare in Londra per rendere favorevole alla causa toscana il governo britannico. I Professore Matteucci rimaneva in Torino per rappresentarvi efficacemente il governo Toscano, il quale divisava inoltre di spedire altri rappresentanti presso gli altri importanti governi europei.

E queste rassicuranti notizie, che venivano di fuori, raffermavano il proponimento dei Toscani, e ne infiammavano gli animi; nè la stampa mancava al suo officio.

La Nazione uno dei più accreditati giornali di Firenze scriveva: «Costanti, forti, ed energici proseguiamo ad armarci: se Leopoldo o Ferdinando osassero riporre i piedi su questo suolo, donde furono cacciati, trovino di fronte ad essi la Toscana intiera, che colle armi suggelli la sua deliberazione; Austriaci sempre pugnarono contro l'Italia e per l'Austria: noi dobbia mopugnare per l'Italia e per noi contro di essi.

«Abbandonati da tutti nel 27 aprile, i Lorenesi non ebbero altra tutela se non la civiltà del popolo tosca no. Quella civiltà stessa, in cui in quel giorno menorando si raffidarono, sarebbe oggi la più grande nemica loro. Partirono rispettati, cedendo alla volontà del paese, tornando, sarebbero accolti come a Solferino essi accolsero i soldati dell'Indipendenza d'Italia.

Ma erano questi veramente i sentimenti della gran maggioranza dei Toscani? Noi lo vedremo nelle elezioni all'Assemblea nazionale.

Per rendere questa rappresentanza della Nazione più solenne, il Governo credè di raddoppiare il numero dei deputati.

«Considerando, diceva un decreto pubblicato a tal effetto, considerando, che i Toscani sono nella su prema necessità di deliberare sul diffinitivo assetto politico della Toscana.

«Considerando, che l'Assemblea convocata a que sto solo oggetto non esprimerebbe abbastanza i legittimi voti del paese quando fosse composta di rappresentanti nel numero stabilito dalla legge elettorale del 3 marzo 1848, la quale serve di base legale alle imminenti elezioni.

«Considerando, che un'altra ragione di crescere il numero dei rappresentanti emerge da ciò, che una sola è l'Assemblea, che deve pronunziare un atto così Solenne.

«Considerando, che raddoppiando il numero dei rappresentanti stabilito dalla legge elettorale, si viene a comporre un'Assemblea proporzionata alla estrema importanza del suo mandato popolare e sufficiente a dare le guarentigie, che nei casi ordinari vengono da un parlamento diviso in due Camere;

«Dispone, che ogni collegio di Elettori nomini due rappresentanti.

E la stampa si adoprava a dirigere questo grande giudizio nazionale. Essa faceva rilevare come nessun popolo fosse mai chiamato ad emettere i propri voti sulla sorte della Patria in momenti più solenni di quelli, in cui la Toscana si rattrovava. Osservava, che quando la Dinastia di Lorena disertò dal paese, ed abbandonando il potere nelle mani del caso, maneò alla precipua ragione della sovranità, ben poteva allora venire dichiarata nel dritto, come lo era nel fatto, decaduta dal trono. Ciò allora non si fece, nè giovava esaminarne il motivo. Sinché durò la guerra si visse Senza curarsi dell'avvenire, sorretti nell'incertezza de gli ordini politici, dalle grandi speranze, che venivano dalle vittorie di Lombardia; ma sopraggiunta la pace, la mancanza di un principio politico, che fosse scorta ed insegna dell'andare e del sentire, apparve con spaventosa evidenza, onde fu d'uopo di fare appello alla civiltà ed alla virilità nazionale, ed il governo chiese pazienza nel presente e fede nell'avvenire.

«La civiltà, diceva la stampa, non è mancata in noi; e come sapemmo già sopportare, senz'abusarne pur un momento la libertà, che, perfido dono, ci giunse inaspettata, così l'improvviso mancare di ogni nostro appoggio non ci atterrì, e placidi guardammo in faccia il destino; d'uopo sarebbe ora, che neppure la virilità facesse in noi difetto. Se fin adesso potemmo politicamente esistere senz'avere un principio, che informasse i nostri atti, e ci desse forza di fronte al l'estero, ora che la guerra dicesi smessa, e che col solo fine di provvedere a lei non può più amministrarsi il paese, è indispensabile assumere una massima di governo, che sia chiara, precisa, e stia di per sè, una massima, che ci appalesi come viventi socialmente, che c'imprima quel carattere di stabilità, per cui solo possono i governi come gli uomini fruire della vita.»

E proseguiva dicendo come l'apertura della Camera dei Rappresentanti fosse il modo da colmare quel vuoto; però fosse d'uopo di animo deliberato e di fer mezza di proponimento a fin di svelare la robustezza del proprio volere. Non bastare l'odio alla passata Di nastia nè la volontà di sbarrar la strada al suo ritorno. Essere questa una negazione non un affermativa, una premessa non una conclusione. Un popolo chiamato a fissare la propria forma di governo, e che ha spettatrice l'Europa, non doversi limitare ad emettere una negazione e lasciare l'affermativa nel buio, quasi sia timoroso di dire tutto il suo pensiero pria di sa pere che ne pensi l'Europa: — «questo non sarebbe agire virilmente, né così dai deboli s'impone moralmente ai forti il proprio volere.»

Epperò esser d'uopo, onde riescano utili le elezioni, che gli elettori, lasciando le usate timidezze e le inveterate diffidenze, si penetrino dell'importanza massima della loro missione, si formino una idea esatta di quel che è il bene del loro paese, e senza perdersi in personalità nominino quelli, che veramente rappresentano il loro desiderio. Essere un fatto certo, un assioma politico, che la Dinastia di Lorena non deve nè può rimontare sul Trono di Toscana; ma deve il Trono toscano continuare a sussistere? Ecco la do manda, che ciascun elettore deve fare a sè stesso, e farsela senza ambagi e rispondere senza reticenze, perché non si tratta ora di sapere quello, che vorrà l'Europa, ma sì bene quello, che vogliamo noi; nè si tratta impudentemente di forzare l'Europa a riconoscere la nostra volontà, ma sì d'esprimere questa tari to sonoramente, che l'Europa non possa fraintendere, e debba confessare d'averla conosciuta. — «Se angusti concetti non vincono la riconoscenza per il prepugnatore dell'Italiana indipendenza; se all'incontro la Toscana sa vedere le odierne necessità, e prova gratitudine per colui che rischiò per la Italia la propria Corona; se si sente amore per il Re. ch'è onesto quanto altr'uomo mai, e che si batte al pari di uno zuavo; se si vuole, che il regno di quel prode Sovrano sia baluardo della nostra nazionalità: che questa sia più che possibile una verità, allora a che trovare scuse e mendicare ragioni per frazionare la nostra terra, per non acclamare Re Vittorio a nostro Sire?»

Tali erano i concetti, tali gli argomenti, ch'erano esposti agli elettori, e per certo non si può dire che la quistione non fosse chiaramente e nettamente elevata. Gli elettori erano anticipatamente illuminati sull'indole del loro voto, e niuno poteva ignorare, che il rappresentante, ch'egli nominava, doveva pronunziare su i destini della patria, di tal che il mandato, che gli affidava, aveva un obietto certo e determinato, che ogni elettore aveva dovuto precedentemente con grandissima ponderazione analizzare e quindi risolversi. D'onde sorge spontanea ed ineluttabile la conseguenza, che l'assemblea dei Rappresentanti Toscani, avente indole e carattere di Assemblea costituente, era non solo una diretta emanazione del voto nazionale, ma una espressione non meno diretta della opinione e del concetto della popolazione.

- Nè il governo si stava dal promuovere il concorso degli Elettori e la libertà del voto. Il 27 di luglio il Ministro dell'Interno diramava ai Prefetti la circolare seguente:

«Illustrissimo Signore;

«Il tempo delle elezioni si avvicina ed il governo sente troppo la necessità, ch'esse riescano l'espressione piena e sincera della pubblica opinione per rimanersi dal raccomandare alle S. V. di darsi ogni impegno, perché il concorso degli elettori sia qual è richiesto dall'importanza del suffragio, che dovranno emettere. Il governo vuole lasciare intiera ai cittadini la libertà nella scelta dei loro rappresentanti, ma crede suo dovere l'ammonirli sulla gravità del man dato, che sarà da essi conferito agli eletti. Si tratta di fare manifesti all'Europa i voti della Toscana sopra i suoi futuri destini, si tratta di fare conoscere all'Italia come e quanto i Toscani vogliono essere Italiani.

Qualunque sia per essere il valore, che si darà a que sti voti, è però certo, che la loro autorità sarà tanto maggiore, quanto più spontanei e numerosi concorreranno gli elettori ai collegi elettorali. È questo un dovere civile, che ognuno deve soddisfare secondo la sua coscienza, perché da queste elezioni è interesse di tutti, che esca veramente la voce del paese e non la parola di un partito. Non è un ministero, che interroga gli elettori per sapere se possiede la loro fiducia; ma è la patria, che chiede il suffragio dei cittadini per recarlo là dove si libreranno le sorti dei vincitori e dei vinti, e si darà assetto alle cose d'Italia. Felicitiamoci di essere venuti a tempi, in cui questi voti sono possibili, ed hanno speranza di es sere esauditi. Nel 1815 le parti furono fatte senza questi consulti di popoli; se oggi i popoli mal rispondessero all'invito, e non sapessero esprimere con tranquilla fermezza i desiderii loro, sarebbero colpe voli, ancorché a quei desiderii non si volesse fare ragione contra ogni nostra aspettativa.

«La S. V. ponga ogni studio per fare comprende re questi concetti ai suoi amministrati, e col mezzo dei gonfalonieri ecciti gli elettori a concorrere nume rosi alle elezioni, ad intendersi fra loro sulla scelta dei rappresentanti per impedire la dispersione dei suffragi.

«Per assicurare poi la libertà delle elezioni con quell'unica forza pubblica che tutela senza sospetto, la S. V. procurerà, che pel giorno, in cui saranno convocati i Collegi Elettorali, la Guardia Nazionale sia in grado di prestare il servizio nelle Sale delle elezioni, affrettando per quanto è possibile il suo ordinamento nelle Città, ove fu istituita.

«Fidando, che la S. V. voglia tenermi informato di tutto quello, che si riferisce a queste elezioni, le quali sono ora il primo pensiero del governo, mi pregio di professarmi con tutto l'ossequio Di V. S. Illustrissima.

«Dal Ministero dell'Interno.

«Firmato — Ricasoli.

E pochi giorni dopo, e propriamente il 2 di giugno, il Municipio di Firenze ripeteva le medesime esortazioni, e rammentava come quello fosse il più solenne momento nella vita di un popolo, e come si trattasse dell'avvenire della Toscana, e quello che più importa dell'avvenire dell'Italia, onde fosse mestieri concorrere numerosi alle elezioni, essere concordi nei suffragi, e che l'ordine e la tranquillità accompagnassero la votazione.

Intanto il Governo Piemontese credeva necessario di richiamare il suo Commessario straordinario, che cessata la guerra, non aveva più veruna plausibile ragione di rimanere in Toscana. E veramente quel supremo Magistrato aveva potuto legittimamente ricevere dal Re di Sardegna la missione di governare ed organizzare la Toscana nel fine, che potesse essa concorrere alla guerra dell'indipendenza Italiana, ma questa finita, il popolo toscano doveva essere lasciato a sè stesso senza essere nè apparire soggetto a veruna specie di pressione e neppure d'influenza piemontese.

Onde la Consulta di governo fu convocata pel dì 1° di agosto per udire un messaggio, col quale il Commessario straordinario annunziava per ordine di S.M. il Re di Sardegna la cessazione delle sue funzioni, e la trasmissione dei poteri nell'attuale Consiglio dei Ministri.

E riunita la Consulta, il signor Bon-Compagni lesse il messaggio seguente:

«Signori;

«Ho l'onore di deporre presso il seggio della Presidenza:

«1° Un ufficio indirizzato al regio Commessario da Ministro degli Affari Esteri di S. M. il Re Vittorio Emmanuele, per cui cessano i poteri, che gli erano con feriti.

«2° Un decreto, per cui è stabilito, che questi poteri passino nel Consiglio dei Ministri.

«3° Un altro decreto, per cui il barone Bettino Ricasoli è nominato Presidente di detto Consiglio.

«Mi sento profondamente commosso nel compiere quest'atto, che mi separa da Voi. Mi sento profonda mente commosso allorquando paragono colla realità dei fatti presenti le speranze, che io salutavo il giorno, in cui venni ad inaugurare i vostri lavori. Tutta via a tanta angustia dell'anima non mancano i motivi di conforto. Al pari di me molti di Voi ricordano i tempi, in cui tutta l'Italia era sottoposta alla Signoria ed al predominio austriaco; in cui gli stranieri sorridevano al sogno di chi vagheggiasse un'Italia signora di sè; in cui molti Italiani moderati nelle opinioni, temperati nei propositi erano spinti a gettarsi nelle congiure, se non volevano restare inoperosi in pro della patria. Oggi la dominazione straniera, se non è distrutta, è profondamente scossa; i più nobili ingegni di tutto il mondo civile riconoscono, che la nostra patria debba aver luogo fra le nazioni autonome: gl'Italiani hanno mostrato una temperanza di propo sito, una disciplinatezza, un valore, che li provarono degni della libertà. Non siamo tuttavia, come credevamo di essere, al termine delle dure prove, che la Provvidenza impose all'Italia. Queste prove saranno Superate con quella perseveranza, che è pronta non solo alle fatiche ed ai dolori, ma anche ai tempera menti di opinioni, che siano necessari a salvare quei principii supremi di nazionalità e di libertà, che l'abbandonare è impossibile, perché sarebbe inonorato.

«Voi, o signori, in cui si raccoglie molta parte del senn0 della Toscana, vi adoprerete efficacemente al bene d'Italia, adoperando al bene di questa nobilissima parte di essa, verso cui riporto un affetto, che mi è ispirato dalle tradizioni domestiche, dalla me moria dell'età prima, dalla benevolenza di cui Voi ed i vostri concittadini mi onorarono.

Il Decreto poi diceva;

«Considerando, che l'ordinamento politico attuale della Toscana si fonda sulla volontà popolare e sulla necessità politica.

«Che il Re Vittorio Emmanuele, protettore della Toscana durante la guerra, sarebbe stato in dritto di conservare questa qualità finché la pace non fosse definitivamente stabilita, con che avrebbe aderito alle richieste della Consulta di Stato. E ne a «Che gravi considerazioni di convenienza politica avendolo impedito di aderire a queste richieste, diveniva necessario, ch'egli provvedesse in modo, che al Cessare del protettorato la Toscana non rimanesse senza governo.

«Che perciò con lettere dei 21 luglio, di cui fu trasmessa copia autentica alla Consulta di Stato, il Re Vittorio Emmanuele per mezzo del suo Ministro degli Affari Esteri prescriveva al suo Commessario quanto siegue:

«Ella rassegnerà la cosa pubblica in mano di una o più persone aventi la fiducia pubblica; cosicché cessando la protezione del Governo di S. M., le «sorti del paese rimangono affidate ai naturali suoi difensori;

«Che a cospetto di questa condizione di cose e del comando del Re, il Commissario non può a meno di dichiarare a chi debba lasciare il Governo dello Stato nell'atto, in cui cessano i suoi poteri;

«Che per rendere la mutazione meno sensibile, è opportuno, che il governo risieda nel Consiglio dei Ministri, che ha coadiuvato sinora il R. Commessario col consiglio e colla cooperazione;

«Decreta:

«Art. 1.º I poteri del Regio Commessario passano nel Consiglio dei Ministri, il quale gli esercita a nome del popolo toscano.

«Art. 2,º Il Presidente del Consiglio dei Ministri appone la prima firma nei decreti ed atti del Governo.

Nei decreti, che concernono il suo dipartimento, ap porrà la controfirma un altro Ministro...

«Art. 3.° La Consulta di Stato conserva tutte le sue attribuzioni.

«Art. 4.º La Segreteria Generale del Commessario prende la denominazione di Segreteria Generale del Governo, e passa sotto gli ordini del Presidente del Consiglio.....

«Dato in Firenze il 1 agosto 1859.

«Il Commessario Straordinario.

Bon-Compagni.».

Seguiva il decreto, che nominava il Barone Rica soli Presidente del Consiglio dei Ministri.

Dopo delle quali comunicazioni il Vice-Presidente della Consulta Cavalier Abate Lambruschini rispondeva al R. Commessario nei seguenti termini: «La Consulta ha sentito le comunicazioni, che le ha fatto il signor Commessario straordinario, e se Essa ammira e rispetta il sentimento di alta convenienza, che ha mosso S. M. il Re di Sardegna a richiamare nelle presenti congiunture Vostra Eccellenza, non può non esserne dolente, vedendo priva la Toscana di una protezione, che la rassicurava. Confida però la Consulta, che S.M. il Re non vorrà cessare di proteggerla di fatto e di adoprarsi, perché le sorti di questa bella parte d'Italia siano tali da renderla partecipe ed aiuto della italiana indipendenza e prosperità. Vostra Eccellenza, che conosce così bene i sentimenti dei Toscani, vorrà esserne interprete presso S. M., ed esprimerle a nome di tutti, e specialmente della Consulta, la no stra gratitudine, la nostra riconoscenza, e la nostra fiducia.

«Fra i favori, che S. M. il Re ci ha compartiti, noi riconosciamo quello di avere scelto per Commissario l'Eccellenza Vostra, la quale ha saputo così bene cor rispondere alle intenzioni di S. M., e si è saputa guadagnare la stima e l'affetto di tutti.

«Gradisca l'Eccellenza Vostra i nostri ringrazia menti per tutto quello, che ha fatto per noi, e sia certa, che la memoria di Lei resterà viva nei nostri animi, come se Ella fosse uno della Toscana famiglia.

Quindi la Consulta stessa, esaminati i documenti presentati dal R. Commissario, prendeva atto della regolare trasmissione dei Poteri, e ne dava avviso al detto Regio Commissario con la seguente partecipazione:

«Eccellenza»

«Ho l'onore di parteciparle, che la Consulta di Go verno, udite le comunicazioni fatte dall'E.V., e visti i due decreti in data di questo giorno, contenenti la trasmissione dei poteri, ha deliberato nell'adunanza di questo giorno: a La Consulta di Governo si chiama notificata degli Atti, in forza dei quali è stata da S. E. il signor Commessario straordinario, obbedendo agli ordini di S. M. il Re Vittorio Emmanuele II, operata la regolare trasmissione dei poteri nel Consiglio dei Ministri.

«Mi pregio dichiararmi con profondo ossequio e distinta considerazione.

«Dell'Eccellenza Vostra

«Dalla Residenza della Consulta il 1 agosto 1859.

Divotissimo Servitore

Il Consultore Segretario

LEOPOLDO GALEOTTI.

Ed inoltre la stessa Consulta votava all'unanimità ringraziamenti così all'Esercito francese che al sardo, Radunavasi frattanto il 2 di agosto il Municipio di Firenze, ed adottava all'unanimità il seguente provvedimento:

«Il Magistrato dei Priori di Firenze venuto a cognizione essere stato revocato il Protettorato della Tosca ma assunto dal Re Vittorio Emmanuele II., e conseguentemente richiamato il Commessario Sardo Cavaliere Commendatore Carlo Bon-Compagni.

«Considerando, che l'autorità governativa esercitata dal prelodato Commendatore Bon-Compagni ha dato splendide pruove del suo affetto per la Toscana, del suo senno politico, dei suoi principii nazionali.

«Considerando, che ogni dimostrazione di gratitu dine e di simpatia ad esso diretta non è solo un omaggio debitamente tributato alle sue virtù private, ma ben anche un nuovo attestato della fiducia, che il Paese ripone nel Re Italiano, da esso rappresentato; a Delibera:

«Il Commendatore Carlo Bon-Compagni, che ha ben meritato della Toscana, è ascritto sull'Albo dei cittadini fiorentini.

«E ciò è confermato con voti favorevoli 8, contrarii nessuno.»

Il Gonfaloniere

F. Bartolomei.»

RITIRATA TRUPPE NAPOLETANE DA SPADAFORA SOPRA GESSO

E contemporaneamente ed in quel medesimo giorno 2 di agosto il Bon-Compagni pubblicava questo proclama:

«Toscani!

«In mezzo alle varie impressioni, che produsse sugli animi l'annunzio di una pace, per cui l'Italia non acquistava ancora piena signoria di sè, il Re Vittorio Emmanuele non volle rendere più difficili le condizioni del Governo, separandosi immediatamente da voi. Oggi egli non potrebbe continuare nel protettorato senza dare un pretesto all'accusa di assumersi negli Stati Italiani delle ingerenze, che non gli spettano e d'influire in qualche modo su di un voto, che debb’essere liberissimo. Perciò egli mi prescrive di cessare dall'officio di Commessario straordinario, di cui mi aveva onorato.

«Nel separarmi da voi debbo soddisfare ad un voto del mio cuore, esprimendovi quanto io mi sia affezio nato a questa nobile parte d'Italia, quanto io vi sia ri conoscente della benevolenza e della fiducia, con cui mi agevolaste il disimpegno del grande officio. Voi continuerete ad agevolare l'assunto al Consiglio dei Ministri, in cui passa il governo dello Stato. Per sen no civile pari alla intemerata rettitudine essi sono meritevoli di tutta la vostra fiducia, ed a loro è dovuto, se io non venni meno ad un incarico troppo maggiore delle mie forze.

«Debbo nell'istesso tempo adempire ad un debito di giustizia, rendendo solenne testimonianza a quanto operaste per la causa nazionale. Sia lode all'esercito toscano pel generoso proposito di volere combattere contro lo straniero e per la fortezza, con cui sostenne le fatiche. Se gli venne meno l'occasione, non gli venne meno l'animo di gareggiare coi suoi fratelli di armi nelle fazioni campali. Sia lode ai 12 mila volontarii, che partirono a difesa d'Italia da questa sua provincia, che mostrava così di voler vincere gl'influssi delle male Signorie, che l'avevano divezzata dalle armi; sia lode alla rivoluzione dei 27 aprile, che rimossa ogni occasione di dissenso, riunì tutti gli animi nel comune intento di rivendicare colle armi l'indipendenza italiana, che con la temperanza dei propositi e con la dignità del contegno mantenne alla Toscana l'antica fama di civiltà; sia lode a tutti voi, che durante il tem po corso dal 27 aprile in poi manteneste l'ordine pubblico, raccomandato al senno dei cittadini più che alla forza dei costringimenti.

«Fra poco sarete chiamati a compiere un atto solenne, da cui dipenderà la sorte della Toscana ed in parte quella d'Italia: all'elezione dell'assemblea, che in nome vostro delibererà sulle sorti diffinitive dello Stato. I vostri suffragi siano liberissimi. Non li determinino nè opinioni pregiudicate nè ossequio servile alla potenza, nè spirito di parte: si ispirino alla coscienza del dovere, e si informino al più puro amore di pa tria. Siate più che mai solleciti di mantenere illeso l'ordine pubblico. L'esercito, la guardia nazionale, i cittadini tutti si mostrino pronti a propugnare i sacri dritti della Nazione. Il contegno di tutti sia tale da di mostrare al mondo, che l'Italia non abbisogna di tu tela straniera, e ch'essa è degna di sedere nel con sesso dei popoli liberi ed indipendenti. Avrete per voi l'opinione delle Nazioni più civili, la quale riprova i governi, che non si fondano sullo spontaneo assenso dei popoli: avrete per voi la parola del nostro potente alleato l'Imperatore dei Francesi, il quale a dì 9 giugno nei giorni delle nostre più belle speranze, indi rizzandosi agl'Italiani, riconobbe il dritto, che avevano di manifestare liberamente i loro legittimi voti; e dopo avere stabilite le basi della pace dichiarò a dì 12 luglio che l'Italia doveva essere ormai Signora delle sue sorti, e che nessun ostacolo l'avrebbe trattenuta dal progredire nell'ordine e nella libertà: avrete per voi il benevolo e leale patrocinio del Re Vittorio Emmanuele, il quale mi prescrive di dichiararvi, che sebbene non possa conservare la protezione, nondimeno raccomanderà caldamente e difenderà i giusti e legittimi voti dei Toscani dinanzi a quel consesso, «che dovrà determinare più particolarmente i capitoli della pace».

«Che se non ostante questi motivi, che v'inducono a sperare, le condizioni dell'Europa v'impedissero di ottenere tutto quel bene, che vagheggiate nell'animo ed a cui avreste pur dritto, Voi ispirandovi a quella prudenza, che prende consiglio dagli avvenimenti, ammetterete ogni temperamento, che giovi a salvare i principii supremi, da cui dipende il progresso civile dei popoli, la nazionalità, e la libertà costituzionale; e nelle dure prove a cui l'Italia è sottoposta, troverete un'occasione di educarvi alla virtù, che più di ogni altra fa grandi gl'individui e le nazioni: la persevetanza.

«Firenze 2 Agosto 1858.

«C. Bon-Compagni.»

Questi erano i consigli che il già Commessario straordinario porgeva ai Toscani nel momento di dividersi da loro; ed i Toscani li accoglievano con gratitudine, sì che la mattina del 3, quando il Bon-Compagni moveva dal Palazzo della Legazione per recarsi alla stazione della Strada Ferrata di Livorno, il popolo ansioso di salutarlo si premeva sul suo passaggio. Il corteggio procedeva lentamente in mezzo alla folla plaudente; le vie erano ornate di bandiere tricolori, e bandiere tricolori circondavano ed accompagnavano la carrozza del Commessario, il quale tutti salutando amorevolmente, appariva negli atti e nell'aspetto visibilmente commosso. Egli serrava la mano a tutti co loro, che si avvicinavano al suo legno, ove tra gli altri sedeva il Gonfaloniere. Questi aveva presentato al Bon-Compagni la deliberazione del Municipio, ed uni ta ad essa una lettera, che esprimeva il dolore di tutta la Toscana, e di Firenze specialmente, nel dividersi da un uomo, che tanto aveva fatto per la Toscana così nei giorni del dolore come in quelli della speranza.

Terminava esprimendo la brama che il Reale Commessario rendesse noto a S. M., che la Toscana confidava in lui e nella propria determinazione di divenire provincia del Regno; che contava sul suo patrocinio, e che non perdeva la speranza di essere guidata nel l'avvenire a nuove e più proficue vittorie contro i nemici d'Italia dal Duce stesso, che la Provvidenza Serbò incolume a nuove glorie pel giorno, in cui potrà conseguirsi la completa liberazione d'Italia.

Così terminava la missione di Bon-Compagni in Toscana in un tempo, in cui voci allarmanti circolavano per l'Italia centrale. Comunque il Monitore Toscano avesse pubblicato di essere stata la Consulta recente mente informata, che i suoi deputati avevano presentato gl'indrizzi al Re ed all'Imperatore, e ch'erano stati accolti con ispeciale benevolenza, ed incaricati di fare conoscere alla Consulta ed ai Toscani il pieno gradimento delle LL.MM. pei sentimenti in detti indrizzi espressi, pure il signor Reiset, che aveva avuto una par te importante a Torino negli avvenimenti del 1848 e 1849, era stato spedito in Italia con una missione officiosa per persuadere gl'Italiani ad accettare i Principi spodestati. Napoleone voleva naturalmente adempire i patti di Villafranca, usando la sua influenza morale, che aveva promesso all'Austria a favore dei Principi sopraddetti. Ma un corrispondente dell'Indépendance scriveva, che se quella missione non riusciva, poteva darsi, che la ristorazione dei Duchi si effettuasse con la forza delle armi, e si giungeva persino ad indicare la divisione Trochu come quella che sarebbe stata incaricata di occupare i piccioli Ducati.

Ma a queste voci i più costanti nella fede italiana opponevano le dichiarazioni di Russell nella Camera dei Comuni, che escludevano in modo assoluto l'intervento di qualunque forza estera nel ricollocamen to dei Principi sui troni, da cui erano decaduti. E veramente quelle dichiarazioni solenni fatte al co spetto dell'Europa davano alla missione Reiset un carattere del tutto pacifico e conciliativo. Non pertanto gli animi non erano tranquilli. In quel torno il Generale Ulloa leggeva in Modena all'Esercito toscano il seguente ordine del giorno:

«Soldati dell'Esercito toscano;

«In un momento solenne per la Patria vostra, nel momento, in cui il vostro Governo dà opera a costituire liberamente il paese, e si accinge a tener salda incontro a tutti la bandiera costituzionale, io sento il bisogno, o Soldati, di alzare la mia voce in mezzo a Voi, e rammentarvi quello, che faceste e quello, che siete per fare. Da Monarca straniero e da straniero Generale educati a politica di servitù, sdegnosi del giogo, voi sentiste essere nati Italiani, e con forte mano scuoteste la mal salda catena, con voi movendo in dignitosa e calma mutazione il paese voglioso di libertà. E correste su i campi lombardi, e con forte petto sosteneste le fatiche di lunghe e penose marce senza mandare un lamento, senz'altra speranza. Senz'altro desiderio, che quello di raggiungere le schiere nemiche e comprare col sangue alla patria vostra la a libertà per tanti anni negata. Vicini alla meta dei vo stri desiderii, schierati in faccia al nemico, pronti a misurarvi in battaglia, l'annunzio di un armistizio certo, poi d'una pace quasi stabilita vi chiamò sul labbro parole di dolore. La gloria del combattimento non coronò le vostre armi, ma nei cuori generosi ar deva il desiderio di libera morte in pro di libertà, e la coscienza d'avere fatto quanto era in poter vostro calmò l'ira raccolta ed il non sfogato sdegno guerriero. La lode del Principe Napoleone, poi quella del Generale Lamarmora vi scesero in cuore come dolce conforto nelle fatiche; il mormorio indistinto di pochi non eb be suono pel vostro orecchio, e passò disprezzato.

«Soldati, oggi la voce del vostro paese vi rende nuova e più cara giustizia. Liberata dal Governo di un Principe austriaco, e felice di riacquistare la propria indipendenza, la Toscana dichiarò Leopoldo d'Austria e la sua Dinastia decaduti dal Trono, e con ogni maniera di voti affrettò il momento di darsi in braccio al Re Galantuomo, al Re soldato, al Prode Vittorio Emmanuele, che conquistò su i campi di Magenta e di S. Martino la sovranità su i cuori italiani.

«Come noi chiamati a nuova e libera vita, questi Ducati temono tuttora gli sforzi dei detronizzati sovrani, e come noi si stringono militarmente insieme per essere pronti in ogni occasione a disperata difesa.

La Toscana ha fatto causa comune con loro, e qui ci siamo arrestati per difendere il comune dritto di questi popoli ad esprimere i loro liberi voti e per impedire per sempre il restauro delle austriache Dinastie.

«Soldati, la Toscana senza tumulti, senza sangue vendicata a libera vita, affida oggi alle vostre armi la sua salute e la sua sicurezza futura. I cittadini toscani, stretti tutti in un solo partito, si sono dichiarati altamente avversi al ritorno di vecchie cose e di vecchi sistemi, ed il paese sicuro e guardato dalle armi cittadine, si accinge ora a formare il nuovo governo costituzionale.

«Soldati, noi sosterremo finché avremo vita questa politica, ch'è la nostra, noi difenderemo la nostra bandiera contro ogni nemico, e sarà nemico chiunque volesse imporci un governo austriaco ed un monarca cacciato. E la patria fidata alla nostra custodia, attenderà tranquillamente alla espressione dei suoi liberi voti. E se nella santa missione avessimo ostacoli da superare, nemici da combattere, allora i vostri voti sarebbero compiuti, allora le armi toscane avrebbero avuto la loro parte nelle battaglie della libertà.»

«A 25 luglio 1859.

«Il Tenente Generale

«ULLOA.

Tra i fatti, che abbiamo narrati, i popoli della Toscana si predisponevano alle elezioni. Il loro contegno era stato ammirabile. Tutte le persone più autorevoli e più influenti, o che stessero nel Governo o nella Consulta o fuori avevano, preso una forte e no bile iniziativa, ed il popolo li aveva seguiti. Quasi senza forza pubblica ed in momenti, in cui tutte le passioni erano eccitate, l'ordine e la tranquillità non erano stati turbati, perciocchè la idea generale di resistere ad ogni austriaca restaurazione formava una forza invincibile di disciplina e di coesione.


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CAPITOLO V

Il Ducato di Modena, — le Romagne, Panna.

SOMMARIO

La cessazione del governo piemontese creduto mezzo per la restaurazione de'  Duchi — Proclama del cavaliere Farini in Modena — Circostanza particolare, che accresceva la popolarità di Farini — Proclamato Dittatore in Reggio — Lo stesso in Modena — Il Municipio di Modena si reca al Palazzo del Governatore— Farini accetta la dittatura; sue parole al popolo — Si ritira ed è richiamato al balcone. Altre sue parole— La popolazione acclama Ulloa ed i Toscani, e si ritira — Una Deputazione di Guastalla porta l'adesione di quelle popolazioni — Altri indrizzi ed adesioni — Il Dittatore divide l'amministrazione centrale in sei ministeri "Suo decreto contro i disturbatori dell'ordine pubblico— Nelle Legazioni le cose procedono allo stesso modo"Opuscolo di Roberto d'Azeglio sul potere temporale del Papa — Impressione nelle popolazioni — Il Governo procedeva quindi fermo e spedito — Si aboliva la procedura civile. Rimaneva la penale — Si richiamano at Tesoro tutte le tasse — Si ribassa il prezzo del sale — Il governo piemontese cessa nelle Romagne. Proclama del Ministero — Leonetto Cipriani è nominato Governatore generalo — Suoi proclami alle popolazioni, alla Guardia nazionale, ed alla Truppa — I volontarii reduci dal Piemonte sono arrollati, se lo vogliono — Sono istituiti gl'Intendenti — Convocazione dell'assemblea nazionale — L'opinione pubblica si rafforza sempre più nell'annessione — Dimostrazione a Falicon — Le medesime cose si ripetono nel Ducato di Parma — Comitato per raccogliere lo firme ad un indrizzo — Il governo Piemontese cessa nel Ducato — Proclama dal Governatore— Il governo provvisorio convoca l'assemblea nazionale — Legge elettorale"Il Podestà annunzia la sua partenza per Parigi — Reiset in Parma — Sono riconsegnate alla Guardia Nazionale le sue bandiere del ‘48 — Gl'Italiani avevano serbata la fede del loro risorgimento.

 Il corrispondente del Nord, che abbiamo già citato, aveva indicato il richiamo delle Autorità governative piemontesi come uno dei mezzi, pei quali la Diplomazia sperava di giungere alla volontaria restaurazione dei Duchi spodestati. Abbiamo narrato come il governo del Commessario straordinario piemontese cessasse in Toscana. Questo piano doveva proseguirsi pel rimanente delle provincie italiane, non già perché Vittorio Emmanuele si prestasse a quel tentativo di ripristinazione, ma onde torre, come lo abbiamo detto, ogni pretesto di esercitata pressione sulla espressione del voto nazionale. Epperò il 27 di luglio il cavaliere Farini fe' pubblicare il seguente proclama: Popoli delle provincie Modenesi; a Il governo del Re deve oggi lasciarvi piena ed intera la libertà di esprimere nuovamente e nei più spontanei e solenni modi i vostri legittimi voti.

«Giova a queste provincie, giova alla patria comune, che voi mostriate, come i mutamenti avvenuti in Italia durante la guerra d'indipendenza non fossero il frutto di un entusiasmo fuggevole né l'opera di nascosta ambizione.

«Lasciandovi padroni dell'avvenire, che saprete meritare, il Re mi dà il gradito incarico di assicurarvi, che nei consigli dell'Europa difenderà i vostri legittimi dritti. Voi sapete quanto valga la parola di Vittorio Emmanuele.

«Nei brevi giorni, in cui tenni il potere, voi foste ammirabili per concordia e per civile virtù. E come disciplinati così foste forti. Fra la gioia della vittoria e fra gli ardui doveri, che la improvvisa pace ha imposto agl'Italiani, rimase sempre uguale in voi la costanza dell'anima, la volontà dei sacrifizii, la coscienza del dritto.

«Io vi lascio liberi, ordinati, ed armati.

«Il vostro contegno mi assicura, che voi non confonderete mai le pure ragioni della libertà colle vane ebbrezze della licenza. A voi non si addicono i clamorosi tumulti di chi dubita e teme. L'Europa civile ha oramai riconosciuto il dritto delle nazioni a disporre dei loro ordini interni. Preparatevi a degnamente usare di questo dritto, sicuri che contro la volontà dei popoli virtuosi non si restaurano le signorie cadute per nazionale decreto. Ho certezza, che dalle provincie modenesi non sarà fornito nessun pretesto di calunnia agl'implacati calunniatori di questa povera Italia, perché nelle parole e negli scritti, nei consigli e nelle risoluzioni adoprerete tal forma, che non solo a voi venga lode e merito, ma onore all'intera nazione ed aiuto di buona fama a tutta la nostra stirpe.

«Popoli delle provincie Modenesi.

«lo ritorno in condizione di privato, e grazie all'onore fattomi dai Municipii delle due maggiori Città posso chiamarmi vostro concittadino.

«Concittadino, ho fiducia nelle vostre sorti e nella giustizia della pubblica opinione. Che se l'avvenire vi riserbasse qualche ardua prova, l'essere stato primo agli onori, mi darà il dritto di essere primo ai pericoli.

«Modena 27 luglio 1859.

FARINI.»

Una circostanza particolare accresceva la popolarità del cavaliere Farini. Suo figlio era tra i volontarii, che avevano preso parte alla guerra, e conducendosi valorosamente, era stato gravemente ferito nella gloriosa giornata di Solferino e di S. Martino. La madre corse al campo ad assistere il figlio, ed il padre rimasto solo e desolato, mostrava però il nobile carattere di chi sa soffocare nelle cure dei pubblici doveri le più forti e più legittime passioni private. Appunto due giorni prima del proclama or ora trascritto il valoroso giovane potè essere trasportato in Modena per curarsi presso i suoi genitori. La popolazione ne fu commossa, ed ebbe luogo una dimostrazione, al terminare della quale una deputazione della Guardia Nazionale si recò ad esprimere al cavaliere Farini in nome della detta Guardia e del paese quale ne fosse il significato.

Ma i Reggiani non si contentarono di semplici dimostrazioni, ed il 28 di luglio all'una e 30 minuti pomeridiani giungeva in Modena il seguente dispaccio telegrafico, che alle 12 meridiane era stato spedito da Reggio: a Pubblicato il proclama, con cui annunziavasi il ritiro del Governatore, la Guardia nazionale e la città proclamarono a Dittatore il loro concittadino Farini. Il Municipio confermò unanimemente il voto espresso dalle deputazioni del popolo e della guardia nazionale.

«Deputazioni del Municipio e della guardia nazionale sono partite per Modena a presentare il relativo indrizzo.»

Non appena questo telegramma si conobbe in Modena, si organizzò ed effettuò una grandissima dimostrazione nel senso stesso del telegramma. Si raccolse immediatamente la guardia nazionale, che si trovò al completo, e seguila da una compattissima folla di popolo, si recò sotto il palazzo municipale. Vennero elette due deputazioni una del popolo, della guardia nazionale l'altra, ed entrambe si presentarono al Municipio, chiedendogli, che a nome del paese volesse offrire all'illustre cittadino di Reggio e Modena la provvisoria dittatura di queste provincie. Il Municipio accolse con entusiasmo questa proposizione, e seguito da tutta quella moltitudine, si condusse al palazzo di residenza del governatore, il quale profondamente commosso, rispose, che accettava, indi si presentò al balcone, d'onde disse presso a poco le seguenti cose:

«Il vostro Municipio mi ha esposto i vostri voti; ad esso ho manifestato la mia gratitudine ed i miei sentimenti. Io accetto la temporanea autorità; dico temporanea, perché in questi supremi momenti, nelle gravissime risoluzioni da prendersi per la salute e la dignità del paese, bisogna dare all'autorità legittima base, cioè la larga e sicura base del voto popolare. Darò opera a convocare nel più breve tempo possibile i comizii. — Il governo qui caduto per pubblico disprezzo e per infamie di alleanze cogli oppressori d'Italia, non potrebbe essere ristabilito, che sulle ceneri delle nostre città. — Non ho bisogno di raccomandarvi tutte le civili virtù, delle quali deste si bello esempio. La concordia, virtù nuova negl'Italiani, ha per questo ragione a durare più salda. — Vi raccomando il rispetto alla religione, alle persone, ed alle cose sacre; chi non rispetta le leggi di Dio, piega più facilmente il collo alle leggi della tirannide. Voi mi conoscete; io sarò tutto per tutti. Terrò il potere con dignità, perciò io rappresento la dignità di tutti voi liberi cittadini; sarò sempre moderato, non molte, giusto ma inesorabile.

A nome del re Vittorio Emmanuele debbo dirvi ancora una volta, ch'egli ha a cuore voi e le vostre sorti, e che propugnerà i vostri legittimi voti nei consigli delle potenze d'Europa. Le provincie modenesi, così bella parte d'Italia, ricche d'antiche e recenti glorie, che diedero tante pruove di patriottismo e di costanza, non debbono dare alcun pretesto alle mormorazioni dei nostri nemici, continuando pur sempre il movimento nazionale, per la coscienza che l'Italia non può avere pace vera, finché non abbia assicurata pienamente la sua nazionalità e la sua libertà dal l'Alpi all'Adriatico.»

«Viva il Re! Viva l'Italia!

«Dopo le quali parole il cavaliere Farini si ritirò, ma siccome il popolo proseguiva in entusiastiche acclamazioni, egli comparve nuovamente al balcone, e disse:

«Le cure della cosa pubblica non mi permettono di trattenermi più a lungo con voi. Io spero, che avrò in ognuno di voi un aiuto alle cure civili, e se occorre un soldato alla nazione» — Sì, sì — gridarono, interrompendolo. — «Col coraggio e con la fermezza si assicurano i dritti dei popoli, si vincono i nemici, e se fosse da temersi assalto di nemici, ci conforti l'avere tra noi l'esercito di una delle vicine provincie italiane. Intendo parlare del prode esercito toscano, che così potente ebbe nell'animo il sentimento nazionale, che non accettò patti da una dinastia, che patteggiava coi nemici d'Italia, ai quali serviva. Si! La storia nelle sue più splendide pagine civili registrerà, che l'esercito toscano iniziò nell'Italia centrale quel nazionale movimento, che non avrà termine, finchò l'Italia non sia libera tutta quanta.»

La popolazione accompagnò prima il Municipio alla propria residenza, e poi si recò sotto la casa del generale Ulloa per testificare i sentimenti di gratitudine per l'ordine del giorno, che abbiamo riferito. Poi si condusse nel quartiere dei Toscani, e divise con essi i voti e le speranze degli Italiani.

Un giorno dopo arrivavano in Modena due deputazioni, una del Municipio di Guastalla ed un'altra di quella guardia nazionale per presentare l'omaggio di tutta la popolazione di quella provincia al proclamato dittatore cavaliere Farini.

Tutti gli altri Comuni dell'ex ducato votarono successivamente indrizzi per aderire alla dittatura. Fecero altrettanto gl'impiegati, i professori di arti liberali, gli artieri, la magistratura, le guardie nazionali, il clero di Carpi.

Il dittatore divideva intanto l'amministrazione centrale in sei ministeri — 1. Grazia e giustizia— 2. Interno — 3. Istruzione pubblica — 4. Finanze — 5. Lavori pubblici — 6. Guerra. La spedizione degli affari esteri si eseguiva dal gabinetto del dittatore da un'apposita sezione. Nominava i reggenti di questi diversi ministeri. Venivano mantenute le leggi ed i regolamenti in vigore; tutti i magistrati municipali, tutti i funzionarii pubblici erano conservati nei loro rispettivi gradi; pubblicavasi inoltre la legge elettorale: erano elettori tute i cittadini di 21 anno, che sapevano leggere e scrivere. Il numero dei deputati doveva essere di 73, e l'assemblea sarebbe stata convocata per costituire il potere esecutivo, per esprime re i voti sulla sovranità e sui futuri destini delle provincie modenesi nell'ordinamento nazionale. Quindi il IO di agosto il dittatore pubblicava il seguente decreto:

«Considerando, che le popolazioni delle provincie modenesi raccolte nei coniali popolari stanno per fare atto di sovranità e che chi offende in qualsiasi modo i dritti della sovranità, si rende reo di lesa maestà e di alto tradimento verso la Nazione;

«Dichiara: Tutti coloro, i quali contro i dritti della Sovranità Nazionale commetteranno alcuni dei delitti contemplati nel titolo 2° libro 2° del Codice criminale vigente in queste provincie, saranno giudicati e puniti come rei di lesa Maestà e di alto tradimento giusta le disposizioni contenute nel detto titolo del Codice criminale e nei precedenti edili], mantenuti in vigore col Decreto di promulgazione dell'editto stesso.

Pervenivano sempre ulteriori adesioni alla Dittatura di Farini.

Procedevano nelle Legazioni nello stesso modo le cose, e se il Papa con le sue Allocuzioni declamava contra la sfrenatezza dei popoli e la intemperante ambizione di un Re, illustri patrioti abilmente svolgevano le inconcusse teorie dei dritti dei popoli e dell'essenza del Papato. Roberto d'Azeglio scosso da un'Allocuzione pontificia scrisse un opuscolo, nel quale fra l'altro si leggeva:

«Se la giustizia è una, se non è in arbitrio dell'uomo alterarne l'immutabile natura, se il dritto, che una nazione ha di appartenere a sé stessa è imprescrittibile, come mai una si gran parte del sacerdozio può ella condannare ciò, che il sentimento di verità, insito nell'anima umana, dimostra giusto, ciò che tanti fatti della Storia antica e moderna dichiararono lodevole? Si può egli di buona fede in pieno secolo XIX credere, possa avervi tale fraseologia teologo-diplomatica, che sia capace d'invertire negl'intelletti l'idea della giustizia? I fatti crudeli, che la forza operò contro il dritto, hanno una eloquenza, che le parole sono inabili ad attutire per quanto ne sia la mansuetudine e la pastorale paternità. Una tale opposizione fra l'opera politica e la verità morale nella gerarchia ecclesiastica conturba ed oscura nelle menti l'idea di quell'armonia, che regna tra la virtù e le azioni generose; il giusto e l'ingiusto appaiono non più cose positive ma convenzionali, varianti col variar d'un'epoca, col cambiar di un meridiano; la credenza religiosa a poco a poco si cancella, ed il popolo, trovando una si gran parte dei sacerdoti avversi a quella stessa impresa, che i libri santi celebrarono nel popolo eletto, è pur troppo indotto a credere, che la religione altro non è, se non un'astuzia più raffinata della politica umana.

«Tutt'i cristiani, che convinti della politica rivelata dal Vangelo, fanno consolazione alle miserie dell'umana vita il meditarne la sapienza, furono profondamente costernati nel leggere la pagina fatale dettata da un Pio Pontefice, da un ministro della Religione più amico all'Austria che all'Italia, e l'Italia e la Religione gli chiederanno un giorno ragione dei mali, che ad ambedue ne derivarono. Noi. che ne siamo pur troppo consapevoli, invochiamo altamente e con piena fiducia gli uomini illuminati di tutte le genti, che professano la credenza cattolica, e gli scongiuriamo di dichiarare in buona fede, se una nazione, che si leva alla chiamata di due eroi, uno dei quali fra Principi spergiuri rivelò agl'Italiani avervi ancora un luogo, ove la lealtà era sul Trono, l'altro il cui genio eredita rio prima di farlo il liberatore d'Italia lo faceva il salvatore di Europa, se, diciamo, un tal atto abbia a definirsi come iniquo e rivoluzionario, senzaché un tanto insulto offenda nel più vivo dell'anima una nobile nazione, che straziata da 800 anni e fatta a pezzi da mille male arti politiche e da mille mani matricide, sorge ora al cavalleresco invito, e insieme unisce le sue armi a rivendicare la propria indipendenza.

«A chiunque conosca gli annali della Chiesa dee fare non poca meraviglia, che un suo Ministro, conscio dell'attuale coltura delle nazioni, abbia la confidenza di dichiarare al loro cospetto, essere alla S. Sede necessario il civile principato, perché senz'alcuno impedimento ella possa esercitare a bene della Religione la sua potestà. quando senza riandare i fatti antichi, e rammentandone alcuni più recenti, ognuno può convincersi essere appunto dall'infausta aggregazione del Principato temporale colla potestà spirituale che la religione e l'Italia debbono ripetere le congerie di malori, che per tanti secoli la manomessero. Sono ancora palpitanti i fatti della Polonia e le immani persecuzioni, con cui la Russia flagellava i cattolici senzaché Roma ne declinasse l'alleanza. E quando Gregorio XVI per difendere il dominio temporale minacciato dai Francesi in Ancona, dagli Austriaci in Romagna, abbisognava del protettorato e dell'esercito Russo, allora a dimostrare in che modo la Romana Corte esercitasse la propria autorità a bene della Religione, non si vide egli apparire, segno umiliantissimo di servitù a un potentato estero e, ch'è più, scismatico, il famoso Breve ai Vescovi di Polonia, che lo Czar imponea qual prezzo al lamentabile contratto? Tal era il modo, con cui la potenza temporale del Principe operava verso il consiglio spirituale del Pontefice. E allorché questi, per tutelare il suo dominio civile, si abbandonava più tardi in balla dell'Austria, esercitava egli la propria autorità, a bene della religione, quando Ravnau incarcerava e condannava al patibolo monsignor Bemer e monsignore Rudsmansk, vescovi ungheresi senzaché il Pontefice, stanti i bisogni del suo principato ed il predominio dell'Austria in Italia, facesse il minimo richiamo? In quel tempo medesimo però avveniva, ch'essendo stati condannati ad un semplice esilio, in virtù di legale sentenza emanata dai Tribunali piemontesi, due nostri Vescovi colpe voti d'insubordinazione allo Statuto, e la Corte di Roma non abbisognando di noi, perché appoggiata a potentato maggiore, il Segretario di Stato facesse suonar alto in Europa le sue proteste, e minacciasse al Re tutte le folgori del Vaticano.

«Sembra doversi attribuire alla fretta, con cui il Segretario di Stato si fa a confutare gli empii, che op pugnano la podestà civile della S. Sede, il difetto di memoria, che non gli fece tenerconto dei tanti fatti, che nella successione dei secoli compromisero l'azio ne temporale del Principe ecclesiastico; egli ha pure omessi molti argomenti sugli scandali derivati dalla riunione delle due podestà, proposti da una serie di dotti e santi personaggi da S. Pier Damiano al Dante ed al Petrarca, e da S. Bernardo sino agli scrittori moderni. Anzi nella foga, con cui il ministro pontificio si porta a dimostrare l'inconcusso dritto ed il continuato possesso dei beni della chiesa, egli mostra di non prendere in veruna considerazione le parole abbastanza chiare di un altro empio avversario del principato temporale posseduto dal successore di S. Pietro. S. Bernardo, luminare della religione cattolica nel secolo duodecimo, scrivendo al Pontefice Eugenio III, gli dicea queste notabili e semplici parole: Pietro non ha potuto dare ciò, che non aveva, l'impero; i Papi possono possedere dei beni temporali, ma non di dritto apostolico, perocché S. Pietro non ne aveva — (Del Potere dei Papi, pag.207). Ma quest'ardua materia essendo stata a lungo elaborata da celebri scrittori, eviteremo di parlarne oltre per non allungare di troppo il presente articolo.

«Diremo ancora una parola, e sia tale da tranquillare le anime oltremodo timorate. Ed è, che se la romana Corte, capitanata dal Ministro Segretario di Stato, condanna oggi l'impresa dell'italica redenzione, e se i voti e le opere di tanti illustri e benemeriti cittadini furono da lui delle mene turpissime e congiure scellerate contro i Be ed i Principi, la stessa nobile causa venne più conformemente alla carità cristiana, più conformemente ai nazionali dritti, giudicata dalla sapienza politica d'altri Pontefici in altri secoli, e che l'imparziale posterità, celebrandone le gesta d'una in altra generazione, assegnò a quei grandi uomini un tributo di laude, che ne eternò il nome nei fatti della Storia e nella gratitudine dei Popoli».

È agevole il concepire quanto questo scritto colpisse le menti degl'Italiani, e specialmente di quelli, che si erano sottratti al governo pontificio; la coscienza religiosa trovava modo di associarsi tranquillamente al sentimento politico, e vieppiù rafforzati ne uscivano le opinioni ed i propositi; gli antichi amici della libertà commentavano quelle teorie e quelle citazioni storiche, e le applicavano a'  casi particolari, facendone vieppiù risaltare la verità e l'armonia. che per esse scorgevasi tra le virtù cristiane e le politiche, sl che la religione e la libertà si trovavano tra loro strettamente connesse, e si vedevano procedere di accordo.

II Governo quindi procedeva risoluto e spedito nel suo cammino; proclamando i principii amministrativi, che avevano fatto il giro del mondo, ma ch'erano stati tenuti lontani dagli Stati del Papa, eseguiva itnpor tantissime riforme, vivamente desiderate dalle popolazioni.

«Considerando. diceva un decreto dei 28 di luglio 1859, che la varietà ed incostanza della legislazione è fonte d'incertezza di dritto e fornite di raggiri; it Considerando, che una legislazione raccolta in un sol corpo, uniforme, costante, ed inalterabile, è un bisogno universalmente sentito dalla civiltà e dalle aspirazioni dei popoli indipendenti; n Considerando, che la esperienza dei primi anni del corrente secolo ha bastato a convincere della opportunità per questi popoli del Codice Civile Napoleone come monumento di sapienza. ed ha fatto un desiderio e un bisogno universale della sua riattivazione;

«Decreta:

«Art.1.. Sono abolite tutte le leggi e Regolamenti civili e di Procedura vigenti, e viene ad esse sostituito e surrogato il Codice Napoleone Civile, Organico, e di Procedura.

Art.2. Il presente Decreto avrà effetto col primo di settembre 1859».

«Fatto in Consiglio questo giorno 28 luglio 1859.

«Pel Regio Commessario Straordinario

Colonnello Falicori.

Niuna innovazione portavasi nella legislazione penale; e di vero essendo questa più direttamente legata ai costumi, alle abitudini,ed al grado di civiltà del la parte infime di un popolo, non è opera di un buono amministratore di cambiarla senza un pieno e profondo esame delle circostanze particolari, nelle quali quella parte del popolo si rattrova.

Due giorni dopo della data del riferito decreto un altro anche importante veniva emesso dal Commessario straordinario. Noi crediamo di non potere meglio esprimere le ragioni e l'obietto di esso, che riferendone le considerazioni: a Considerando, vi si diceva, che non può esservi sistema più erroneo e contrario alla giustizia non meno che al pubblico interesse di quello praticato col dare in appalto pubblici impieghi. col mantenere impieghi inutili, e col mettere a favore di pochi un compenso indeterminato ed un lucro eccessivo, mentre gli altri ritraggono un compenso troppo inferiore alle rispettive incombenze e fatiche;

«Considerando, che il Governo ha dritto, che gli impiegati prestino un servigio esatto e passivo, cd ha pure il dovere di retribuirli con equità e di provvedere in modo, che le rendite pubbliche non siano di strane a fine diverso dal bisogno e dal servizio pubblico;

«Considerando, che gli accennati inconvenienti si possono, e quindi si debbono togliere immediatamente per ciò, che riguarda gli uffizii del Bollo, del Registro, e delle Ipoteche.

«E col dispositivo si sopprimevano le Prepositure del Bollo straordinario, e si dichiarava. che qualunque rendita per tasse, emolumenti, e multe ed ogni altro titolo sarà ad esclusivo profitto del pubblico Erario, retribuendosi gl'impiegati con determinato stipendio a carico dello Stato.

Con altro Decreto poi di quella medesima data si ribassava quasi di un quinto il prezzo del sale, il che fece nel basso popolo una favorevolissima impressione.

Due giorni dopo di questi provvedimenti il governo piemontese cessava nelle Romagne. Sin dal 28 di luglio Massimo d'Azeglio aveva scritto in Torino il seguente proclama:

«Popoli delle Romagne

«La pace conchiusa in Villafranca fra i due Imperatori ha fatto cessare il più importante dei motivi, pei quali il Re Vittorio Emmanuele mi aveva mandato suo Commessario fra voi,quello di chiamarvi alle sue bandiere per la Guerra d'Indipendenza.

«Egli m'imponeva al tempo stesso, che io mantenessi l'ordine in queste provincie, e vuole ora disponga le cose in modo, che in queste nuove ed impreviste condizioni esso non s'abbia a turbare. Per quanto era in me e per quanto lo concesse il tempo, cercai servire fedelmente a queste sue leali intenzioni.

«Ho l'incarico di annunziarvi, ch'egli sollecito sempre del vostro bene, impiegherà con premura caldissima tutt'i mezzi concessi dal dritto internazionale, onde ottenere dal concorso dei Governi Europei l'adempimento dei vostri giusti e ragionevoli desiderii.

«La presenza di un Commessario del Re ne potrebbe preoccupare la libera manifestazione,alla quale il sospetto d'interessate influenze toglierebbe fede e valore. Egli quindi mi richiama da questo officio, ed è mio dovere obbedire. Con qual cuore io vi lasci ve Io dica il cuor vostro. Ma vi dica insieme, che se non è dato all'uomo vincere la fortuna, neppure la fortuna può vincerlo, ov'egli nol voglia.

 È vostro dritto il proclamare al cospetto del mondo quali siano i vostri voti.

«Sappiatelo esercitare con dignità e con fermezza. Un solo pericolo vi minaccia; la discordia ed il di sordine. «Ascoltate il consiglio del vostro più vero ed antico amico. Chi fra voi porrà innanzi altre quistioni o è stolto, ovvero è mandato da chi vuole dividervi per perdersi.

«Coll'ordine, colla tranquillità vostra mostrate all'Europa, che il chiedere leggi giuste ed uguali per tutti, concesse in oggi ad ogni popolo civile, che il volersi fare indipendenti dal giogo straniero, ed il reclamare l'esecuzione di promesse tante volte violate, non è opera di rivoluzionari, ma che rivoluzionarii debbono dirsi invece coloro, i quali calpestando il principio cristiano e la retta ragione di Stato, impongono agli uomini pesi intollerabili, e li spingono a spezzare ogni freno, e gettarsi fra le braccia della rivoluzione.

«Massimo d'Azeglio.

Questo proclama fu pubblicato il 1° di agosto in Bologna, ed in quel medesimo giorno il Colonnello Falicon dirigeva ai Ministero la lettera seguente:

«Illustrissimi Signori,

«A norma degli ordini ricevuti ed a seconda del proclama oggi pubblicato dal R. Commessario Straordinario nelle Romagne, in nome ed in qualità di rappresentante del Cav. Massimo d'Azeglio io deggio rassegnare nelle mani di questo Consiglio, componente il governo delle Romagne, il potere, del quale egli Regio Commessario andava rivestito,acciò venga provvisto al reggimento di queste provincie sinché la rappresentanza Nazionale abbia potuto costituirsi e pronunziare.

«In tale stato di cose le SS. LL. Illustrissime giudicheranno, se non sia intanto il raso di eleggere un, Capo del Governo, il quale concentrandone maggiormente il potere, possa imprimergli quella massima energia, imperiosamente richiesta per il più perfetto mantenimento dell'ordine.

«Non saprei prendere commiato dalle SS. LL. Illustrissime senza caldamente ringraziarle dell'operoso concorso, con cui tanto efficacemente mi sorressero nel disimpegno delle mie funzioni pel breve tempo, che me ne spettò l'incarico, e senza esprimere la mia viva ammirazione pel sommamente decoroso ed esemplare contegno, ognora mantenuto da queste no bili popolazioni.

«Gradiscano le SS. LL. Illustrissime i sensi della mia massima considerazione.

Il giorno 2 il Ministero fece pubblicare questa lettera in un proclama, che dirigeva ai Popoli delle Romagne.

Vi si diceva essere ben doloroso pei membri dei governo il separarsi da un uomo, che si ben rappresenta la lealtà del Re Vittorio Emmanuele, il senno e la fermezza del popolo cisalpino; però Massimo d'Azeglio ne indicava nel suo proclama la ragione, e le Romagne, accettando i consigli del loro più vero ed antico amico, dovevano mostrare al Mondo quella virilità, che rende i popoli degni di libere istituzioni.

Avere i membri del governo assunto per breve tempo il poderoso incarico, cui niun cittadino può ricusarsi, quando necessità di Patria il dimanda, e nell'assumerlo avere immediatamente compreso, che due gravissimi doveri loro incumbevano: l'uno di eleggere un capo del governo a fln di dare al potere esecutivo l'unità e la speditezza indispensabili nei momenti difficili come i presenti; l'altro di convocare prestamente a somiglianza di Toscana e di Modena un'assemblea, che interprete dei voti del paese legalmente costituito, nomini stabile governo, che prenda cogli Stati vicini un assetto diffinitivo per rendere le popolazioni più forti contro la restaurazione dei governi passati, e renderne i voti più efficaci e più accetti davanti al Consesso di Europa.

Quanto al primo di codesti doveri aver essi eletto ad unanimità il Colonnello Lionetto Cipriani, uomo ben noto per l'energia dei suoi propositi e per la sua inalterabile devozione alla causa italiana. Quanto al secondo, vi si provvederà immediatamente.

«Concittadini delle Romagne.

NINO BIXIO

PRESA DI PALERMO

Terminava il proclama;

«Vi hanno nella Storia dei popoli momenti solenni, che decidono dei destini di lunghi e lunghi anni. Ben comprenderete, che uno di lai momenti supremi è questo. L'Europa si è persuasa, che l'Italia per essere tranquilla e felice ha mestieri di assetto e d'istituzioni, che rispondano alla civiltà dei tempi, alle esigenze legittime della Nazione.

«Quel grande, che s'intitolò primo soldato della indipendenza italiana, ci conserva la sua simpatia, e c'impromette di adoperarsi con tutti i mezzi a lui concessi per l'adempimento dei nostri giusti e ragione voti desiderii.

«All'opera adunque con alacrità, concordia, e fiducia. Manteniamo l'ordine, organizziamoci, esprimiamo legalmente e difendiamo risoluti i nostri dritti; camminiamo come un popolo uscito di minor età, che sa trattare e compiere i proprii negozii con senno e con calma. Così trionferemo di ogni ostacolo ed assicureremo a noì ed ai nostri figli la libertà e la indipendenza.

«Bologna il 2 agosto 1859,

Pepoli, Montanari, Gamba, Albicini, Martinetti.»

Così terminava nelle Romagne il governo piemontese, non diversamente da quello che nella Toscana e nel Modenese era avvenuto.

Il nuovo Governatore generale assumeva immediatamente le sue funzioni, e con tre diversi proclami si dirigeva a quelle popolazioni, alle guardie nazionali, ed alle truppe. Il primo di questi proclami con poche e dignitose parole diceva:

«Popoli delle Romagne! a La fiducia degli uomini, che vi rappresentano, mi ha chiamato ad assumere il governo di queste provincie, vegliare alla loro difesa, fare prevalere nel dritto pubblico Europeo i vostri disconosciuti e conculcati dritti.

«Mio primo dovere è convocare l'assemblea, che deve ratificare legalmente questo mandato; intanto richiedo, che tutte le autorità civili e militari continuino nel rigoroso adempimento dei loro doveri.

«Convinto, che l'avvenire di questo paese dipende dalla sua condotta e savia ed energica, ho piena fede nel successo dei nostri sforzi, quando a inc non sia per mancare il concorso, che invoco, di tutti i cittadini.

«ll Governatore Generale

LEONETTO CIPRIANI.

L'altro alle guardie nazionali conteneva: rt Guardie Nazionali delle Romagne!»

«Armate per la difesa della persona, della proprietà, delle leggi, dei magistrati, abbiate sempre ben presente, che l'essere armato è dritto d'uomo libero, ma che all'esercizio di questo dritto sono congiunti gravi doveri.

«Sono lieto di encomiare il modo, col quale gli avete disimpegnati fin qui.

«La vostra perseveranza contribuirà possentemente ad assicurare la prosperità del paese».

Bologna 6 agosto 12360.

«Il Governatore Generale

LEONETTO CIPIIIANI.

Il terzo all'armala così si esprimeva: e Governatore Generale di queste provincie, all'onore di reggerle aggiungo quello di avere voi sotto i miei ordini.

«Il soldato è il mallevadore dell'indipendenza e dell'ordine del suo paese. Ciò vi dica quanto aspetto da voi.

«Dal canto mio porrò ogni cura nel provvedere al vostro benessere ed al compimento intero della vostra organizzazione.

«Soldati!

«Nessuno verrà ad assalirci, ma chiunque venisse, sappia il paese, che può contare su noi».

Cipriani giungeva in Bologna in quello stesso giorno, in cui pubblicava tutti questi proclami. Già sin da due giorni prima il Gerente la Sezione di Guerra Colonnello tinelli avvertiva tutt'i volontarii nativi delle Romagne, che congedali dal!' esercito sardo ripatriavano, che, volendolo, sarebbero stati arrollati per un anno col proprio grado nei corpi componenti la Brigata Vittorio Emlarmele, vale a dire 21° reggimento fanteria, Batteria sarda, e Dragoni Vittorio Emmanuele, sempreché fossero stati riconosciuti di fisico idoneo alla carriera militare. Ed il Cipriani confermava questo, ed avvisava ad altri provvedimenti per completare ed estendere l'armamento di quelle provincie.

Nè egli trascurava per questo l'amministrazione.

«Considerando, diceva con un Decreto di quello stesso di 6 di agosto, che col Regio Commessariato centrale delle Romagne sono cessate pure le Regie Commessarie delle provincie di Ferrara, Ravenna, e Forlì.

«Decreta: 1° Nelle provincie di Ferrara, Ravenna, e Forlì sono istituite le Intendenze come nella provincia di Bologna.

2° «L'assegnamento annuo per gl'lntendenli ec.

Tre o quattro giorni dopo un altro Decreto convocava su larghe basi di elezioni un'assemblea per esprimere i voti delle popolazioni, ed immediatamente dopo, sulla considerazione, che l'uguaglianza di tutt'i cittadini innanzi alla legge è la base fondamentale di ogni libero ordinamento, si dichiarava, che nelle Romagne tutt'i cittadini senza differenza di culto sono eguali dinanzi alla legge e nell'esercizio dei dritti politici e civili.

In questo frattempo due fatti avvenivano, dei quali l'uno rafforzava semprepiù la pubblica opinione, l'altro n'è la misura. Il primo fu la pubblicazione della convenzione, che nel 1856 intervenne tra il Governo Pontificio e l'Austria. Il Papa alienava con quella a favore del governo austriaco i più preziosi dritti della sovranità nelle provincie di Bologna, Ferrara,Ravenna, Forlì, ed Ancona, non che nella delegazione di Pesaro. Tutti i reati politici colle loro più larghe attinenze; i reali di furto con violenza, il possesso o porto d'armi, di polvere, o di munizioni, ogni dimostrazione politica, ogni opposizione agli ordini delle autorità militari, pattuglie, o sentinelle erano di competenza eccezionale ed appartenevano alla giurisdizione delle autorità militari austriache; e quando un reato di competenza delle autorità pontificie concorreva con un reato della specie suindicata, la competenza era determinata dalla pena maggiore, la quale, come ben si comprende, era sempre quella della legge austriaca.

Indubitatamente questa convenzione era stata eseguita dal giorno della sua data, ma la reminiscenza dei mali, che si sono sofferti, fa sempre grandissima impressione quando si è sottratto al potere, che li ha imposti; laonde il vedere reso di pubblica ragione quel trattato quando la Romagna aveva scosso il giogo, sotto del quale era stata curvata, era una ragione dippiù per far detestare un governo, che aveva fatto un così tristo uso della sua autorità. Leggere e meditare quella convenzione quando si era liberi, importava sentire gagliardamente lo strazio e la vergogna di averla dovuto subire.

Epperò l'opinione pubblica reagiva semprepiù contro quel passato,che destava cosi dolorose reminiscenze, e maggiormente s'incarnava nel pensiero di adottare espedienti energici, onde non avesse più a tornare. Ed il più energico di questi espedienti si era l'unione con le altre parti d'Italia, che si erano anch'esse sottratte ad altre non meno odiate dominazioni, ed in diffinitivo l'annessione al Piemonte, per cui ogni occasione, nella quale si potesse dimostrare questo bisogno piuttosto, che voto nazionale, convertivasi sempre in una calda e patriottica espressione di esso.

Così come ad Azeglio furono anche diretti a Falicon le rimostranze dell'affetto e della riconoscenza di quelle popolazioni accompagnate dalle caldissime preghiere di patrocinarne e proteggerne la causa.

«Poiché, diceva l'indrizzo, il vostro fermo volere e ragioni di politica convenienza vi tolgono all'amore ed all'ammirazione di questo paese, ci sia almeno permesso di accompagnarvi con un saluto, che parte dal cuore.

«Voi lasciate fra noi il più vivo desiderio, perché degno rappresentante di Massimo d'Azeglio sapeste compensarci dell'assenza di lui e meritare la fiducia universale.

«Le circostanze non permettono, né a voi tornerebbe gradita, una clamorosa dimostrazione di stima e di simpatia a voi ed al governo, che rappresentate; perciò i sottoscritti a nome di lutti vi ringraziano di quanto avete operato fra noi.

«Dite al vostro Re, che questi popoli a lui solo han rivolto lo sguardo; in lui solo ripongono le migliori speranze dell'avvenire, e che a lui soltanto vogliono appartenere.

«E soggiungetegli, che gli Elettori di queste contrade commetteranno ai loro Deputati di fare valere queste legittime aspirazioni.»

Nel Ducato di Parma e Piacenza si ripetevano gli dessi fatti. In sul cominciare di agosto formavasi in Parma un Comitato per raccogliere le firme ad un indrizzo di annessione al Piemonte. Si osservava come il governo dei Borboni fosse stato imposto dalla forza, né ebbe mai la conferma del voto popolare. Come quel governo sminuisse il territorio e le ricchezze dello Stato, duplicasse il debito pubblico e le pubbliche imposte; introducesse i sequestri arbitrarii, le leggi eccezionali, le corti statarie, ordinasse ed eseguisse i giudizii e le sentenze capitali per reati politici. Come si mantenesse dal principio alla fine alleato della Casa d'Austria, ed a questa immolasse gl'interessi ed i sudditi dello Stato. Come d'altronde per l'esempio di Francia fosse riconosciuto nei popoli il dritto di eleggersi i governanti proprii.

E perciò si conchiudeva, essere quei popoli sciolti da ogni vincolo di devozione e di sudditanza verso i Borboni, essere pronti ad ogni sforzo, ad ogni sacrifizio piuttosto, che sottostare a quel governo; non volere altro Re che 'Vittorio Emulamele II, né altra patria, che la libera Italia, e solo una preponderante forza straniera potrebbe ristabilire e mantenere nei Ducato un governo reso incompatibile coi loro interessi, colle loro memorie, coi loro più caldi e più cari sentimenti.

E mentre quest'indrizzo si andava coprendo di soscrizioni, il governo piemontese cessava in quelle provincie, ed il Conte Pallieri Governatore di quel Ducato pubblicava il di 8 di agosto il manifesto qui appresso:

«Popoli di Parma e Piacenza!

«Le innumerevoli e solenni pruove da voi fornite di volere a prezzo di qualunque sacrifizio essere per sempre associati ai destini di quello Stato Italiano, che rappresenta i grandi principii dell'indipendenza nazionale e della libertà, il silenzio serbato nei preliminari di pace di Villafranca sulle sorti di queste provincie, e sopratutto le assicurazioni, che io ebbi da un illustre Ministro, il quale a sua volta poteva e doveva credersi autorizzato a darle, non mi lasciavano alcun dubbio, che i vostri desiderii non fossero irremovibilmente adempiuti, ed io ve ne dava con somma gioia il faustissimo annunzio.

«Pur non di meno tutte le vostre proteste ed i fatti più eloquenti non hanno ancora abbastanza persuaso qualche Potenza della sincerità ed universalità dei vostri voti e della incrollabile fermezza dei propositi vostri.

«È dell'interesse e dell'onore di queste nobili e valorose provincie, è dell'interesse e dell'onore italiano, che i vostri immutabili divisamenti si spieghino ancora una volta senza che alcun pretesto possa mettersi in campo da chicchessia sulla libera manifestazione della volontà del popolo, unica legittima fonte di ogni potere civile. Ed è per rendere nuovo omaggio a questo grande principio, per allontanare ogni sospetto di pressione o d'influenza, e disarmare la vigile insistente calunnia, che il governo del Re nella sua lealtà mi ritira quel mandato, di cui mi rese tanto facile l'esercizio il vostro immenso amor patrio, la vostra ammirabile saggezza, l'ordine perfetto costantemente da voi mantenuto.

Non potendo rassegnare all'istante questi poteri nelle mani del popolo, che solo ha dritto a riprenderli, io ritirandomi con le autorità piemontesi, li confido a persona, che per ogni rispetto gode meritamente la vostra piena fiducia, a persona, che venera al pari di me la sovranità popolare, che governerà in nome del popolo, e provvederà, perché esso possa liberamente, sinceramente, ed in modo inappellabile manifestare il suo volere a tutta l'Europa.

«Intorno a questo capo provvisorio, che unico io scelsi, perché i tempi difficili richieggono unità di direzione e d'impulso, intorno a questo animoso ed illuminato patriota, l'Avvocato Giuseppe Manfredi, vostro concittadino, stringetevi tutti, ponendo in cima ai vostri pensieri gl'interessi di queste forti provincie, gl'interessi d'Italia, che ansiosamente sopra di voi tiene fisso lo sguardo.

«Come concordi siete nel fine, siate pure nei mezzi; rimanete calmi in queste ardue ed ultime pruove; confidate nella vostra buona causa e nei veri principii di dritto pubblico, proclamati e sostenuti dal potente Imperatore dei Francesi, che a difendere le ragioni d'Italia guidò generosamente le invitte sue falangi. Con un contegno ammirabile per virtù, per senno e per costanza costringete anche i nostri nemici a chinarsi dinanzi alla volontà indomabile di un popolo, che ha giurato di volere risorgere, e che a forza di sacrifizii ha acquistato il dritto di far suonare altamente la sua voce nei consessi d'Europa.

«Popoli di Parma e Piacenza!

«Nell'indirizzarvi questi consigli, che il fratello sente bisogno di dare al fratello nei più solenni momenti della vita, io vi ringrazio con tutta l'anima del benevolo e costante appoggio, di cui mi foste larghi nell'adempimento del grave mio còmpito. Ve ne ringrazio anche a nome di quel Re tanto amato da voi, e che di pari affetto vi ama, di quel lealissimo Re, che per bocca mia vi promette di adoprarsi con ogni potere, affinché il vostro voto, qualunque pur fosse, venga sanzionato dalle grandi Potenze Europee; e confortato da tali speranze grido ancora una volta con voi:

«Viva l'Italia, l'indipendenza, la libertà! Viva Vittorio Emmanuele II!

Diodato Pallieri.

E con un decreto di quella medesima data 8 di agosto il Governatore provvisorio dispose: L'unanime votazione fattasi nel 1848 da queste italiane provincie; «La fermezza mirabile, con cui disprezzando le lusinghe ed i terrori di un governo instaurato dallo straniero, costanti si mantennero nel loro proposito; «Il nobile sacrifizio della vita fatto dai numerosi volontarii, che allo aprirsi della guerra accorsero nelle file dell'esercito italiano del leale Re Vittorio Emmanuele; «La irresistibile manifestazione del risentimento popolare, dinanzi a cui dovette cedere e ritirarsi il caduto governo; «Gli atti, con cui rinnovarono il patto d'unione gli anzianati tutti composti d'uomini eletti dal governo caduto;

«Le adesioni spontanee di tutti i corpi e di tutte le autorità costituite;

«Il giuramento al Re Vittorio Emmanuele da tutti i pubblici funzionarii prestatosi;

«Le popolari sottoscrizioni, che quantunque in pochi centri raccolte, raggiunsero in brevi giorni un altissimo numero;

«Sono questi altrettanti fatti, per cui irremovibile si appalesa il proposito di queste italiane provincie:

«Considerando tuttavia, che per togliere un ultimo pretesto agli eterni nostri avversarii, e far ancora consacrare il principio di unione dalla sovranità popolare, unica legittima fonte di ogni civile potere, è opportuna una nuova solenne votazione col suffragio universale;

«Decretava: Le popolazioni delle provincie Parmensi essere convocate solennemente in comizii il 1 4 del detto agosto per respingere od accettare il Plebiscito seguente; Le popolazioni delle provincie Parmensi vogliono essere mite al Regno di Sardegna sotto il governo costituzionale del Re Vittorio Emmanuele Erano chiamati a votare tutti gli abitanti maschi delle provincie Parmensi, che avessero l'età di 21 anno, e godessero dei dritti civili.

Seguivano le disposizioni per la formazione delle liste elettorali, per la votazione, e lo scrutinio dei voti. La numerazione generale veniva affidata ad una Commessione composta dal presidente e dal Regio procuratore Generale presso la Corte Suprema di Revisione, dall'Archivista dello Stato in Parma, dal presidente e dal Segretario della Camera Notarile di Parma.

Intanto il Podestà Linati annunziava la sua partenza per Parigi non appena compiuto il suffragio universale per andare a presentare all'Imperatore Napoleone i voti dei suoi concittadini. Ed il Podestà,diceva, ch'è l'eletto del suffragio universale non può non rispettare un voto simile a quello, ch'è il fondamento della sua sovranità. Quei Diplomatici, i quali sostengono essere il governo dell'ex Duchessa Reggente il più popolare d'Italia, non possono logicamente rifiutare questo esperimento, poiché se realmente è così, quel governo nulla deve temere dal suffragio universale, e deve invece desiderare di avere una cosi splendida e solenne conferma. Ma se per l'opposto il Plebiscito riuscisse nel senso dalla unione al Piemonte, la Diplomazia non potrebbe trovare nulla a ridire, e bisognerebbe assolutamente ritenere come vera l'una o l'altra di queste due cose: o che il governo, che ritenevasi come il più popolare d'Italia, fosse nondimeno cattivo, e la sua popolarità non da altro si desumesse che dal confronto con gli altri governi italiani, lutti straordinariamente, arbitrarli; ovvero, che l'unione al Piemonte soddisfacesse meglio agl'interessi ed ai bisogni di quelle popolazioni non ostante un governo popolare. In niuna di queste due ipotesi si poteva non solo moralmente ma neanche politicamente pretendere, che il prodotto del suffragio generale non fosse adempito.

Pur tuttavolta si ripeteva in contrario la stessa obiezione: la non libertà del voto. E questa obiezione durerà sinché durano gl'interessi o le passioni, che la inspirano! Reizet giungeva in Parma il giorno 5 di agosto; si abboccava col Governatore Pallieri e con diversi notabili della Città, ma il Popolo, che ne conosceva la missione, gli giltava nella carrozza un diluvio di bigliettini, ov'era scritto: Viva Vittorio Emmanuele nostro Re! — Il giorno 6 Reizet partiva per Firenze. Proseguivano da per ogni dove i voti, gli indrizzi, le manifestazioni di adesione. La Gazzetta pubblicava la lettera seguente

«Illustrissimo Signor Podestà!

«Il 1° gennaio 1849 facevasi solenne distribuzione delle bandiere tricolori ai cinque battaglioni, che componevano la Guardia Nazionale di Parma.

«Così al cospetto della guarnigione austriaca, imposta dall'avversità di quei tempi, addimostravasi quanto ardente fosse il desiderio dell'Italiana indipendenza.

«Depositario di quei vessilli, potei conservarli incolumi in mezzo ai calamitosi tempi percorsi, ed ora mi affretto di rimettere nelle mani della Signoria Vostra Illustrissima questo sacro deposito, siccome a quello, da cui dipende direttamente la ristabilita Guardia Nazionale di Parma.

«Adorni ora dello scudo di Savoia, potranno nuovamente sventolare fra le file della Guardia Nazionale Parmense, ed essere, come già furono, emblema dell'ordine e dell'amore alle libere patrie istituzioni.

«Gradisca le proteste della mia distinta considerazione.

«Della S. V. Illustrissima.

Devotissimo Servitore G. DALLA ROSA.»

Gl'Italiani avevano serbata la fede del loro risorgimento. Il decennio decorso dal 49 al 59 era stato un periodo di sofferenze mai scompagnate da una fiduciosa aspettativa.


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CAPITOLO VI

Il Ducato di Modena e la Toscana dopo cessato il governo Piemontese

SOMMARIO

Prosieguono le manifestazioni nel Ducato di Modena — Convocazione dell'Assemblea nazionale — Provvedimenti sulla forza pubblica — I volontarii reduci dall'Italia superiore sono invitati ad arrollarsi — Manifestazioni in Toscana — Proclama di Ricasoli — False voci che si spargevano — Circolare su tale obietto — Convocazione della Assemblea nazionale in Firenze— Proclama di Ricasoli la vigilia della pubblicazione del corrispondente decreto — Ordine del Giorno alla Guardia nazionale — Riunione dei Collegi Elettorali — Ordine e concordia delle elezioni — La deliberazione dell'Assemblea non sarebbe stata, che una conferma del già espresso voto nazionale— Riunione dell'Assemblea nel di 11 agosto 1859 — Messaggio del Barone Ricasoli Impressione nell'Assemblea e nel pubblico — Mancavano soli sei Deputati — Primo servizio reso dalla Guardia Nazionale — Il di seguente si elegge l’uffizio diffinitivo — Il giorno 13 Proposta Ginori per la incompatibilità della Dinastia di Lorena — Elementi dell'Assemblea nazionale — La maggioranza era formata dai possidenti del suolo — La Proposta è appoggiata da tutt'i Deputati — Rapporto del Relatore nella tornata dei 16 di agosto — La Proposta Ginori è approvata all'unanimità. Negli Stati di Modena si ripetono gli stessi voti — Lettera di Cialdini al Comitato elettorale di Reggio — Il 16 di agosto si apre l'assemblea costituente — Riunione dei Deputati — Il Cavaliere Farini entra nella sala — Suo discorso — Il Dittatore esce dalla sala — Proposta di un indrizzo a Napoleone e di un altro al Dittatore fatto nella tornata seguente — Progetto di questo secondo indrizzo — E approvato per acclamazione — Proposta per la decadenza della Dinastia regnante — Risposta del Cavaliere Farini — Lettura del progetto d'indrizzo a Napoleone — E approvato all'unanimità — Relazione e progetto del Decreto per la decadenza della Dinastia — Applausi — L'Assemblea decide di procedersi alla votazione pubblica prima dello squittinio dei voti segreti — La proposizione è approvata all'unanimità — Proposta per l'annessione — Tornata del 21 agosto. Relazione sulla proposta di annessione, e progetto del relativo Decreto Grandissimi applausi — Parole del Presidente — La proposta è accolta all'unanimità — Acclamazioni "Prolungamento della Dittatura Farini — Prestito — L'assemblea si proroga — Elementi dell'Assemblea Modenese.

 Le singole manifestazioni del voto nazionale proseguivano nel ducato di Modena. Il 'I di agosto le firme agl'indrizzi pubblicati ascendevano a 48,985, ed anche le donne modenesi avevano presentato il loro in drizzo coperto di 6064 firme, e le donne Sossolesi ne avevano presentato un altro con 300 firme.

Accanto a queste manifestazioni il Governo pubblicava il 5 di agosto il decreto per la convocazione dell'Assemblea dei Deputati. I collegi elettorali erano convocati pei 14 di agosto, e l'Assemblea era convocata in Modena il di 16 dello stesso mese. Il giorno 8 di agosto il numero degli elettori superava i 30,000. Quei Comuni si conducevano come se fossero liberi da un decennio, ed il movimento elettorale prendeva una magnifica direzione. Da per tutto si dava opera a restringere il numero dei candidati, e tutto il partito liberale si poneva facilmente di accordo sulle persone da prescegliersi. E veramente, trattandosi di un tempo molto breve, era d'uopo di non lasciarlo trascorrere in discussioni.

Provvedeva inoltre il governo alla forza pubblica. Un decreto del 3 di agosto ordinava, che tutt'i cittadini indistintamente, sia che appartenessero o pur no alla Guardia Nazionale sedentaria, e si trovassero nell'età dai 18 ai 30 anni compiti, si dovessero presentare fra cinque giorni a datare dalla pubblicazione di quel decreto presso i rispettivi municipii per l'iscrizione nei ruoli della guardia nazionale mobilizzata sotto pena di una multa da 50 a 500 lire, e di 10 a 50 giorni di carcere. Veniva formato un Consiglio di ricognizione per le esonerazioni ed esclusioni e per la divisione delle Guardie mobili in compagnie e battaglioni. I graduati nelle Guardie mobili erano fatti dalle elezioni, tranne gli uffiziali superiori, ch'erano nominati dal governo.

E con un avviso dél 5 detto mese di agosto, pubblicato dal Direttore del Ministero della Guerra, tutt'i volontarii reduci sia dall'armata piemontese, sia dai corpi dei Cacciatori delle Alpi e degli Appennini, venivano chiamati a presentarsi indilatamente al ministero della guerra nel locale di S. Eufemia, ove si sarebbe provveduto a quanto loro potesse occorrere.

Quei volontarii sarebbero stati immediatamente arrollati nei corpi regolari in formazione nelle provincie modenesi, imperciocché, terminava l'avviso, quei volontarii debbono sentire, che la patria ha ancora bisogno e più che mai bisogno del concorso di tutti.

Nel contempo proseguivansi nella Toscana gli atti per la legale manifestazione del voto nazionale mercé la elezione di un'Assemblea costituente. Il 5 di agosto il Monitore Toscano pubblicava il seguente proclama:

«Toscani!

«Le imminenti elezioni chiamano i Toscani all'esercizio della più alta prerogativa, che abbia un cittadino in paese libero; lo statuire su i destini della patria. Il governo ebbe conforti autorevoli per aprire alla Toscana questa via di salute; e se l'Europa non vuole macchiare la pace con opere di violenze, e perpetuare in Italia le cause delle rirluzioni, possiamo augurarci, che sarà dato ascolto ai nostri voti.

«Frattanto ogni cittadino faccia il dover suo, e concorrendo alle elezioni, scelga Rappresentanti autorevoli, che abbiano il coraggio di manifestare i legittimi voti del paese: l'antica nostra civiltà e la gravità delle condizioni presenti impongono a tutti obblighi sacri, che niuno potrà disconoscere impunemente.

Il governo, che resse il paese fino ad oggi, aiutandosi della mirabile disposizione degli animi a vincere difficoltà grandissime, non mancherà al debito suo nel grande atto, che la Toscana è per compiere. Lasciando ogni cittadino libero del suo voto, né proponendo candidati di sua scelta, il Governo vuole soltanto, che in questa grande occasione la Toscana si mostri degna di sé e degna dell'Italia. Lo vuole ed è dover suo di volerlo; e tutti coloro, che osassero turbare la concordia degli animi in questo solenne momento, sarebbero puniti dalla severità della legge e dalla riprovazione universale.

Alle accuse maligne di anarchia e di violenza di parti rispondano dunque i Toscani con una elezione ordinata e tranquilla e con un fermo e concorde volere, e sarà questa una vittoria civile, la quale avrà merito di quelle riportate sui campi di battaglia. Non siano indarno gli esempi dei nostri maggiori, che seppero col senno, con la parola, col sangue fortissimaMente propugnare l'indipendenza e la libertà della patria.

«Il Governo riposa sicuro sul senno dei Toscani; e confida, che le prossime elezioni porgeranno a Napoleone Imperatore un valido argomento per adempiere i suoi benevoli intendimenti verso l'Italia.

L'Europa desidera la pace; ma pace non avrà l'Europa, se i legittimi voti ordinatamente espressi dagli Italiani non saranno rispettati, né vorrà l'Europa, che questa sua elettissima parte, anziché strumento possente della felicità universale, sia minaccia perpetua e perpetuo pericolo.»

Firenze 4 agosto 1859.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri

Ministro dell'Interno B. Ricasoli.

«Le solite arti erano intanto adoprate per turbare gli animi dei cittadini e renderli perplessi sul concorso energico e pronto alle esigenze della causa nazionale. Si diceva, che dei disordini avvenivano in Firenze, e Che la tranquillità pubblica era più che mai compro messa. Laonde a smentire siffatte voci Ricasoli diresse ai Prefetti il 5 di agosto la circolare seguente: «Illustrissimo Signore, «Il Governo ha avuto occasione di notare come spesso nelle diverse città dello Stato si spargono voci allarmanti sopra supposti pericoli di disordini, che minaccerebbero la quiete della capitale. La S. V. è autorizzata a smentire ne,bmodo più formale queste dicerie, ed assicurare i suoi amministrati, che nessuna cagione di timori ha il Governo per l'ordine pubblico, il quale regna perfettamente in Firenze come in ogni altra parte dello Stato.

«La S. V. si tenga certa, che quando mai avvenissero fatti gravi in Firenze o in altra parte della Toscana, ne sarà dato pronto avviso alle prefetture da questo ministero, acciocché possano illuminare la pubblica opinione sul vero stato delle cose. Però quando la S. V. manca di notizie officiali, smentisca pure ogni notizia allarmante, che venisse divulgata.

«Mi pregio ecc.» 111 di agosto l'assemblea dei Rappresentanti era convocata: «L'assemblea dei Rappresentanti, diceva il corrispondente decreto, è convocata in Firenze pel giorno 11 del corrente mese. — Quest'assemblea ha per oggetto di esprimere i voti legittimi della popolazione toscana intorno alle sue sorti diffinitive.»

La sera del dl precedente erano stati affissi in Firenze un Proclama di Ricasoli alla Guardia Nazionale, ed un Ordine del giorno allo stesso corpo, che contenevano:

«Uffiziali, Sotto-Uffiziali

e Militi della Guardia Nazionale della

Toscana.

«In brevissimo tempo coscritta ed ordinata la Guardia Nazionale, si raccoglie oggi per la prima volta sotto la bandiera italiana, che per noi è simbolo sacro d'ogni concordia e d'ogni speranza. Occasione più solenne non poteva darsi, o cittadini, per inaugurare la vostra azione tutelare e benefica. Voi proteggerete i Comizii, ove gli elettori sono chiamati a dare il suffragio, dal quale forse dipendono le sorti della patria. Liberi voti non potrebbero essere meglio protetti che da libere armi.

«Io mi compiaccio, che l'istituzione della Guardia Nazionale siasi fatta in mezzo alla calma e senzaché dolorose cagioni d'interni dissidii la rendessero necessaria. A voi, o militi, sono affidate città concordi e tranquille; sappiate mantenerle tali, ed avrete ben me. ritato della patria. Ciascun di voi avrà figli o fratelli, che hanno combattuto le battaglie della indipendenza. Essi fecero il loro dovere sui campi dell'onore, facciamo noi il nostro nelle mura della città. Il senno civile compia oggi l'opera delle armi, e l'Italia ci sarà riconoscente di avere saputo resistere agli sconforti ed alle incertezze con serena fermezza, come fu già ammiratrice del coraggio spontaneo, col quale rispondemmo al primo grido di guerra nazionale.

Ricasoli.

L'ordine del giorno poi diceva:

«Militi della Guardia Nazionale!

«Chiamati dal nostro patriottico governo a tutela dell'ordine ed a difesa del nostro buon dritto, avete corrisposto con alacrità ammirabile. Lo zelo, che vi ha animati nell'accorrere all'istruzione militare, è degno del più grande elogio; è prova quanto ciascuno di voi sia penetrato della seria importanza della nostra missione.

«Domani incomincia il servizio della Guardia Nazionale: il momento è dei più solenni, poiché da questo dipenderanno in gran parte le nostre sorti e quelle dell'Italia. Chiunque si attentasse a disturbare l'ordine, è alleato dei nostri nemici, dei nemici d'Italia, poiché questi non hanno altra speranza fuorché nel disordine per tornare a soggiogarci. Io mi affido in voi, e sono convinto, che in ogni occasione saprete agire con decisione, energia, e severità contro chiunque osasse turbare la pubblica quiete sotto qualunque forma e da qualunque parte si presentasse.

Il Tenente Colonnello

Comandante CARLO FENZI.

Il giorno 7 di agosto si riunirono i collegi elettorali, e fu magnifico l'ordine e grande l'affluenza coi quali vi si procedè. La Campana di Palazzo Vecchio, cominciando dalle G a. m., suonando ad intervalli sino alle 8, chiamava i cittadini a quell'augusto ed importantissimo (inizio, ed ebbe a fare grandissima impressione nell'animo della popolazione, rammentando i giorni della fiorentina grandezza. Le elezioni furono quali si potevano desiderare. Vennero eletti tutti i Ministri e gli uomini più cospicui per intelligenza o per posizione sociale. Compiuta l'elezione, ciascuno si apparecchiava al giorno anche più solenne della riunione dell'assemblea nazionale. Quanto all'esprimere il voto delle popolazioni toscane sull'assetto politico di quella Provincia Italiana, assemblea nazionale doveva essere piuttosto una conferma, che la manifestazione di un voto, giacché si sapeva già per un elenco nominativo pubblicato dal Monitore Toscano, che sino al 9 di agosto 214 Comunità, rappresentanti in complesso una popolazione di 1,594,029, cioè '61 degli abitanti, avevano deliberato per l'unione della Toscana agli altri Stati d'Italia con voti 124.7 contro 43; e ricordiamo, che due soli comuni, rappresentanti in complesso 13480 abitanti avevano emesso, uno un voto sospensivo, l'altro negativo con soli 5 suffragi.

La deliberazione dunque dell'Assemblea Nazionale prendeva da questo precedente un carattere particolare; quei 214 comuni, che votando separatamente avevano proclamato il principio della Nazionalità italiana, ed i pochi ancora, che o non avevano votato o votato diversamente, si univano per mezzo dei loro Deputati al Parlamento toscano per ripetere in una forma più solenne e più solennemente proclamare al cospetto dell'Europa quel loro voto.

E difatti il giorno 11 di agosto del 1859 il Tempio di S. Maria del Fiore, già preparato per quella sacra e cittadina funzione, riuniva in apposite Tribune i Deputati del Popolo toscano, i quali dopo di avere assistito alla funzione religiosa, recavansi, traversando le strade tra gli applausi dei cittadini, alla sala dei Cinquecento. Gran numero d'invitati e gran folla di popolo riempiva quella storica sala, ma alla Tribuna diplomatica si vedeva non altri, che il Ministro di Francia, quello d'Inghilterra, e l'Incaricato di affari sardi. Alle 10 comparve il Governo, ed il Barone Ricasoli tra il più rigoroso silenzio degli astanti lesse il seguente messaggio:

«Signori Rappresentanti della Toscana!

«Il Governo è lieto di trovarsi al cospetto dei Rappresentanti legittimi del Paese, nominati per liberi suffragi in una elezione condotta con tanta calma e concordia da fare onore ad ogni popolo, che avesse oramai in costume gl'istituti di libertà.

«La Toscana in questa occasione solenne non ismenti sé stessa; il Governo si compiace di non aver posta indarno la sua fiducia nel senno dei cittadini.

«A che siano le condizioni nostre e quali voti oggi si richiedano alla vostra saggezza è a tutti manifesto, perché il Governo non ha osato mai di nascondere alcuna cosa, né di coprire artificiosamente il suo politico indrizzo.

«Inoltre quando Voi sarete per deliberare sulle sorti della Patria, il Governo si farà un dovere di sottoporre alla vostra considerazione le notizie particolari, che p otranno essere utili a rischiarare le opinioni. Intanto prima di affrontare l'avvenire, gettiamo un rapido sguardo sul passato e sul presente.

«La guerra nazionale affrettata coi voti di tutti gl'Italiani, e resa possibile dal generoso concorso dell'Imperatore dei Francesi, privò la Toscana di una Dinastia, che vi regnava da più di un secolo. Non fu cacciata, ma di sua scelta essa preferì di correre la fortuna dell'Austria, colla quale aveva stretto patti di vassallaggio, piuttostoché seguire il paese e soddisfare il sentimento nazionale. Non vi furono violenze, ma il Principe chiaritosi austriaco, ed il Paese volendo rimanere italiano, ciascuno prese la sua via.

«Rimasto Io Stato senza governo, il Municipio di Firenze provvide alla nomina di un reggimento provvisorio, che presto ebbe i consensi di tutta Toscana; e come gli sguardi e gli affetti erano volti al Re magnanimo, che apparecchiava sul Ticino le armi liberatrici, così egli fu spontaneamente invocato Dittatore con suprema podestà sulle cose civili e militari. Alte ragioni di Stato non consentirono fosse accettata la dittatura, ma sotto il protettorato di Re Vittorio Emmanuele si costituì in Toscana un governo regolare, che serbò il paese ordinalo e lo fece partecipare alla guerra della indipendenza. Un Commessario del Re tenne il supremo potere e lo esercitò in bendai° dell'universale, quietando gli animi e dando reputazione al Governo. Una Consulta da lui nominata gli assicurò l'appoggio della pubblica opinione. Forte di questo appoggio e ponendosi a capo del paese, anziché procedere rimorchiato da lui, il Governo provvide alla Finanza con la emissione delle Cedole comunali, riformò leggi, e preparò il riordinamento dello Stato sopra principii di libertà.

«Splendide vittorie degli eserciti italo-franchi coronavano la nostra impresa; magnanime promesse, e quali i popoli di rado sono usi ad udire, levarono alte le speranze degl'Italiani. Una pace inopinata, mossa da ragioni prepotenti, che dobbiamo rispettare, ignorandole, ruppe i disegni, sconfortò gli animi, sebbene la parola solenne dell'Imperatore dei Francesi raffidasse, che la causa italiana non sarebbe per questo abbandonata.

«Gli effetti della pace non potevano non essere fatali alla Toscana e agli altri Stati dell'Italia centrale. Con la pace cessavano i protettorati del Re, ed il Commessario straordinario ebbe a partirsi da Firenze, lasciando l'autorità nelle mani di coloro, che fino allora l'avevano esercitata sotto la sua dipendenza e col tacito consentimento dell'universale. Il ritirarsi dei poteri politici per forze maggiori di loro è sempre un doloroso ed umiliante spettacolo, e segna epoche critiche nella Storia degli Stati. La partenza del Commessario,da noi ebbe tutt'altro carattere; fu trionfo di gratitudine e di speranza, come l'addio di due amici, che sperano di rivedersi. I Toscani intesero a meraviglia le cagioni di quella partenza, e senz'alcun segno di turbamento si rassegnarono a questo necessario abbandono.

«Nulla intanto aveva pretermesso il Governo, che valesse a rischiarare la sorte dai preliminari di Villafranca riserbata alla Toscana. Innanzi che l'Imperatore uscisse d'Italia, un Legato nostro gli esprimeva i timori e le speranze, che in noi combattevano, ed egli con franche e benevole parole di due cose lo raffidava, che non sarebbero fatte intervenzioni armate, e che ai voti legittimamente espressi sarebbesi usato riguardo. Eguali conforti si ebbero dal Re Vittorio Emmanuele, il quale nel raccomandarci di serbare l'ordine interno e di non dar pretesti alle armi forestiere, concludeva, arditamente prendessero i popoli della inedia Italia esempio da lui, che chiuso in cruccio, aspettava intrepido il compimento dei destini d'Italia.

«Animato da cosi solenni dichiarazioni, ripetute ai nostri Legati a Parigi ed a Londra, e non scoraggiato dai timidi consigli, il Governo pensò subito a convocare la Rappresentanza Nazionale, che interprete dei pubblici voti, ne recasse l'espressione legittima all'Imperatore Napoleone, arbitro della pace e della guerra, ed a tutti quei potentati, che intenderanno a dare stabile assetto alle cose d'Italia. Come la Toscana abbia corrisposto alla giusta aspettazione, che di lei si aveva in questo solenne momento, lo dice la concordia mirabile delle elezioni e la vostra stessa presenza in questo luogo, tre giorni dopo che i vostri nomi furono proclamati nei Collegi Elettorali. La Guardia Nazionale in brevissimo tempo coscritta ed ordinata protesse la sacra libertà delle elezioni, come sarà pronta a proteggere la libertà dei voti, che emetteranno i Rappresentanti del paese.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

ENTRATA DEL GENERAI MEDICI E SUE TRUPPE IN MESSINA

«Ecco quello, che il Governo ha fatto appena ha potuto convincersi, che a malgrado dei preliminari di Villafranca, la sorte della Toscana e forse quella di tutta l'Italia centrale poteva dipendere da noi. Anzi come per molti rispetti le condizioni degli Stati della media Italia molto si rassomigliano, ed a tutti è forse riserbata una stessa sorte. Il Governo ha condotto pratiche per una lega militare, che accomuni le forze della difesa, e cominci a stabilire quella solidarietà nazionale, senza la quale gli sforzi dei singoli Stati riusciranno sempre manchevoli. Il nostro esercito, che se non ebbe la gloria, sopportò intrepido tutt'i disagi della guerra, saprà dare valore alle promesse della Toscana, ed ove occorra, combatterà le ultime battaglie della nazionale indipendenza.

«Ma queste ed altre provvidenze governative sarebbero state indarno, se il paese non avesse coadiuvato il Governo in modo più mirabile che singolare. Corrono ormai quattro mesi, che la Toscana è retta da un Governo, che trae la sua ragione d'essere dalla necessità delle cose, e che non si aiuta di forze, che non gli vengano dalla pubblica opinione; ed il paese non è stato mai più ordinato, più concorde, più unanime in mezzo a tante e così spesse tentazioni di tumulti. Se noi, che occupiamo questi seggi, sicuramente non invidiabili in così grave difficoltà di tempi, possediamo la fiducia dei nostri concittadini, siamo superbi di possederla, perché ci fa forti ad operare il bene della patria. La Rappresentanza nazionale consentendoci il suo concorso, e legittimando in quanto ne sia d'uopo per l'avvenire il nostro mandato, ci crescerà l'animo per mantenere coraggiosamente il paese in una ferma espettativa.

«Ciò è tanto necessario nelle congiunture presenti, che se avremo virtù di perseverare in un'attitudine, che valga a conciliarci la stima ed il rispetto dell'Europa, i voti, che voi siete chiamati ad emettere, abbiamo fiducia, che saranno ascoltati. In ogni caso noi avremo fatto il dover nostro, né la posterità potrà farci rimprovero. Che la ragione ed il buon dritto stiano dalla nostra parte; e si lasci pure alla violenza di compiere, se pure le sarà dato, l'opera sua.

«La violenza può distruggere, non edificare, né è pace vera quella, che lascia sussistere le cause dei conflitti fra Popoli e Governi.

«Signori Rappresentanti, non ci sgomenti la nostra picciolezza di Stato, perché vi sono momenti, nei quali anche dai piccioli si possono operare grandi cose, Ricordiamoci, che mentre in quest'aula, muta da tre secoli alla voce della libertà, trattiamo di cose toscane, il nostro pensiero deve mirare all'Italia. Il municipio senza la nazione sarebbe oggi un controsenso. Senza clamori e senza burbanza diciamo quello, che come Italiani vogliamo essere; e la Toscana darà un grande esempio, e noi ci feliciteremo di essere nati in questa parte d'Italia; né comunque volgano gli avvenimenti, dispereremo dell'avvenire della nostra patria diletta.»

Codesto discorso fu udito con un non interrotto silenzio, figlio di un'attenzione mai distratta. Il Barone Ricasoli con la dignità, che non deve mai scompagnarsi da ogni comunicazione officiale rilevava con verità le cagioni del rivolgimento toscano, la ragione del governo piemontese in quella provincia, la necessità della sua cessazione, l'ammirabile condotta del popolo toscano, il bisogno di un organamento basato sopra più legittime basi, e sopratutto la necessità di manifestare dignitosamente e risolutamente all'Europa la volontà di quelle popolazioni, ch'erano insorte per essere italiane, e che si mostravano logiche quando persistevano a volere rimaner tali, ed aspiravano a quei temperamenti, che sopra stabili fondamenta assicurassero la nazionalità. Tutte queste cose non solo erano verissime, ma erano come vere vedute e sentite da tutti, per cui quel discorso era veramente la espressione del pensiero di tutti i Toscani.

Installatosi l'uffizio provvisorio, e procedutosi all'appello nominale, si trovarono non presenti sei deputati, tra i quali Peruzzi Lajatico, Ginori trattenuti da occupazioni di pubblico servizio; indi si formarono gli uffizii delle nove Sezioni, in cui l'Assemblea si divise; si commise a ciascuna di esse la verifica de'  poteri dei Deputati, ed alle 12 '2 sciolta la seduta pubblica, i Deputati si riunirono negli uffizii rispettivi.

In quel giorno la Guardia Nazionale prestò per la prima volta il servizio della Città, e si riunì in solenne parata per la riunione dell'Assemblea Nazionale. Recava meraviglia il vedere come in brevissimo tempo, in soli olio giorni, quel Corpo avesse potuto organizzarsi, abbigliarsi, armarsi, ed istruirsi per modo da riscuotere nel presentarsi la prima volta al pubblico non già l'approvazione ma l'ammirazione di lutti. Era questo un altro ineluttabile argomento dei miracoli, che opera l'amore nazionale.

Nel dl 12 l'Assemblea attese ad eleggere l'uffizio diffinitivo. Il Consigliere Tito Coppi fu nominato Presidente. Il Coppi, dopo di avere esercitata con molta fama la professione di avvocato, entrò nella Magistratura, ove si distinse per le sue cognizioni e la sua probità; giunse ad essere Consigliere della Corte di Cassazione, ma per la mal ferma salute dimandò ed ottenne la dimissione; così si ritirò in Livorno, d'onde fu mandato all'Assemblea nazionale. Il giorno 13 l'uffizio della Camera fu completato, e non appena ciò fatto, il Deputato Marchese Lorenzo Ginori presentò la proposta per dichiararsi incompatibile la Dinastia di Lorena. Questa proposta era così concepita:

«Considerando, che i fatti preparati da più anni e maturatisi da più mesi hanno mostrato ad evidenza quanto sia fortemente radicato nei Toscani universalmente il sentimento della nazionalità italiana, l'amore per essa, ed il proposito di costituirla e di mantenerla.

«Considerando, che questi sentimenti e questi propositi si sono manifestati con straordinario concorso e con mirabile unanimità anche nella elezione dei Deputali all'Assemblea, chiamati dovunque in conformità. di questo principio.

«Considerando, che tutto ciò è stato fatto e si mantiene senza la minima turbazione dell'ordine pubblico, e che l'idea predominante sino nelle ultime classi della società è quella di mantenerlo.

«Considerando, che la Casa Austro-Lorinese, stata un tempo benemerita della Toscana, abbia volontariamente spezzati i vincoli, che la legavano a questo paese, e dopo la restaurazione del 12 aprile 1849 abbia con i suoi atti e colle sue dichiarazioni indetto negli animi la persuasione, che dove anche professasse ella di ristabilire lo Statuto fondamentale, che abolì, e di accettare la bandiera tricolore italiana, che fino a qui apertamente osteggiò, ella non potendo mai legare le sue sorti alla causa nazionale, non potrebbe nemmeno procurarsi la fiducia dei Toscani, né ottenere quella morale autorità, ch'è fondamento necessario d'ogni governo;

 «L'Assemblea:

«Dichiara, che la Dinastia di Lorena, la quale nel 27 aprile 1859 abbandonava da se la Toscana senza ivi lasciare forma di governo, e riparava nel campo nemico, sia resa assolutamente incompatibile con l'ordine e la felicità della Toscana; dichiara, che non conosce modo alcuno, in cui tale Dinastia possa ristabilirsi e conservarsi senza offesa ai sentimenti delle popolazioni, senza costante ed inevitabile pericolo di vedere turbata incessantemente la pace pubblica, e senza danno d'Italia. Dichiara perciò finalmente non potersi né richiamare né ricevere la Dinastia di Lorena a regnare di nuovo sulla Toscana.»

Prima di narrare la sorte di questa proposizione è utile di gettare uno sguardo sugli elementi dell'Assemblea. Da alcuni riscontri, che furono fatti sopra dati officiali desunti dalle liste elettorali di varii Co muri rurali, che servirono alla nomina di quei Deputati e sopra altri documenti statistici risultò, che la popolazione agricola figurava nelle liste elettorali per più della metà. E si osservò sin d'allora, che se tralasciata la base stabilita dalle leggi del 1848, si fosse adottata una delle due altre basi possibili, cioè la tassa personale o il suffragio universale, le popolazioni rurali nel primo caso si sarebbero trovate al di sotto della metà, e nel secondo non avrebbero raggiunto il sesto dell'intero numero degli elettori ().

Ciò rende ragione del perché la maggioranza dell'Assemblea era formata dai possidenti del suolo per modo, che potè dirsi, essere nell'Assemblea rappresentata per 2/3 la proprietà territoriale della Toscana. Rilevantissimo era pure il numero dei Patrizii, ed accrescevano per certo dignità e lustro a quell'Assemblea gli antichi nomi storici dei Ginori, degli Strozzi, dei Corsini, dei Della Stufa, dei Della Gherardesca, degl'Incontri, dei Mariscotti, dei Galilei, dei Ridol, dei Piccolomini, dei Torrigiani, dei Capponi, e molti altri. L'ordine degli avvocati era rappresentato da 37 avvocati, e 55 erano i Deputati qualificati di Dottori, nei quali naturalmente vi erano i Medici, i Naturalisti, ecc.; degl'ingegneri ve n'eran 5; dell'esercito 7; di professori 9, dei Magistrati 3; del Clero vi era 1 Abate, I Priore, ed 1 Canonico ().

I Deputati erano 171.

Tal era l'Assemblea, alla quale la proposizione Ginoni venne presentata. E quando il Presidente pria di rinviarla agli uffizii, domandò se fosse appoggiata, tutti i Deputati si alzarono simultaneamente come un sol uomo per appoggiarla.

Dopo questo primo esperimento non era dubbio l'esito di quella proposta; difatti i Deputati si unirono la sera negli uffizii, nominarono i loro rispettivi Commissarii, cui diedero il mandato di accettare in massima la proposizione, ma modificarne la redazione, e riunitisi quindi i Commissarii, nominarono a relatore l'avvocato Andreucci.

Nella tornata del 16 di agosto 180 centosessantotto Deputati erano presenti alla seduta. Dopo letti i verbali delle tornate precedenti, il Presidente invita l'avvocato Andreucci a dare lettura della sua relazione sulla proposta Ginori. Il relatore legge: «Signori Rappresentanti della Toscana; «La Commissione da voi eletta per l'esame della proposta presentata dall'onorevole Deputato signor Marchese Ginori Lisci, ha voluto conferire a me il grave onore di esserne il relatore.

«Vengo in suo nome a presentarvi il risultamento degli studii pacatamente istituiti. Vengo a dirvi la conclusione, cui ci hanno condotto, e le ragioni, che ci hanno guidato.

«La conclusione della Commissione vostra si è, che la proposta merita di essere approvata e adottata dall'Assemblea sì nella sostanza, che nella forma. «Quanto alla sostanza posso dire unanime il consenso di tutte le Sezioni: non s'è levala una voce, non che per negare, neppure per mettere in dubbio la verità di quella incompatibilità assoluta, che la Proposta v'invita a dichiarare e proclamare della Dinastia Austro-Lorenese coll'ordine e colla felicità della Toscana, e la conseguente impossibilità di richiamarla o riceverla a regnare nuovamente.

«Tutte le Sezioni sono state concordi nel riconoscere questa incompatibilità ed impossibilità non solo per sentimento proprio quanto per coscienza del sentimento generale del paese.

«Le dichiarazioni, che vi sono proposte, l'autorità vostra permetterebbe di sanzionarle e proclamarle senza espressione alcuna delle ragioni, che stanno a giustificarle.

«Ma se sarebbe sembrato incongruo un troppo esteso sviluppo, conveniente è sembrato, che dire le ragioni sommariamente si dovesse. È sembrato alla Commissione, che la Proposta tenesse in ciò una giu sta misura; per modo che la Commissione non v'ha indotto, che poche e lievi modificazioni od aggiunte; dalle quali avrebbe creduto potersi e doversi anche astenere, se l'onorevole proponente stesso non le avesse consentite ed accettate come consuonanti perfettamente col concetto e sistema della sua Proposta.»

«Del resto i motivi, che la Proposta contiene, sono apparsi sufficienti a giustificarla.

«Ed invero le ragioni della dichiarata incompatibilità si dicono completamente in poche parole, cioè: n «Che i Toscani, come naturalmente sono, così vogliono essere anco politicamente italiani.

«Mentre la Dinastia, che regnò fino al 27 aprile, non è, e non vuole né può essere che austriaca.

«Nelle sue considerazioni motiva la Proposta non dice in sostanza che queste due cose.

«Se non che vi aggiunge una compendiosa dimostrazione della loro verità, enunciando sommariamente i fatti principali, da cui risulta accertata. E alla Commessione vostra è sembrato,che tale enunciazione non sia da notare di difetto, benché si limiti ad un tempo piuttosto recente e ristretto, ed in sviluppi storici non si diffonde.

«Il tempo, che abbracciano le considerazioni giustificative della Proposta, non risale che al 1848 e a qualche anno antecedente.

«Con buona ragione è sembrato a noi, che a questo limite si restringono: poiché avanti quel tempo t i possono bene e cercare e trovare e segni per parte dei Toscani di nazionali aspirazioni, e segni altresì di tendenze austriache per parte della Dinastia, che regnava, ma questi non erano, per dir così, che germi del futuro dissentimento, né come fatti costituenti incompatibilità fra Popolo e Principe i potrebbero propriamente considerare. E conveniente luogo argomenti disputabili e di dubbio valore non potrebbero avere in un atto, come è quello, a cui è per procedere l'Assemblea, ed in cui deve mostrare fermezza insieme e moderazione, come conviene a chi è inspirato, come siamo e dobbiamo essere noi, da severo si, ma schietto spirito di verità e di giustizia.

«Il tempo, in cui voglionsi cercare i fatti costituenti e provanti quello stato di cose, che la proposta dichiara, non è il tempo, in cui la nazionalità italiana era una idea vagheggiata ed un desiderio coltivato dalle menti più elette e dagli animi più generosi.

È il tempo bensì, in cui divenne sentimento universale del popolo, e dall'intelletto passando nella volontà, prese carattere vero di attuale proposito.

«Ed in questo tempo soltanto si può e si deve cercare fatti e criterii decisivi per determinare a fronte del sentimento e proposito del paese il sentimento e proposito della Dinastia, che lo governava.

Ora che fortemente ed universalmente, come la proposta dice, sia radicato nei Toscani il sentimento della nazionalità italiana cd il proposito di costituirla ed assicurarla, se non molto prima del 1848, nel 1848 bensì si fece manifeslissimo, ed i recenti fatti del cotreale anno apertamente dimostrano, che quel sentimento e proposito per la decennale compressione non ha perduto né d'estensione né d'intensità; si è fatto anzi più universale e più energico.

«Superfluo sarebbe ricordare particolarmente una istoria, che a tutti è nota. Opportuno è per altro notare, come la proposta fa, ciò ch'è più caratteristico nel movimento nazionale della Toscana nell'occasione presente massimamente per accertare, come non sia apparenza artefatta per opera di sette, ma vero e reale sentimento del popolo; poiché ben lo accertano le considerazioni della proposta quando ricordano le migliaia de'  volontarii, che l'animosa gioventù nostra di ogni classe fornì all'esercito nazionale; ed il con corso numerosissimo dei cittadini chiamali ad eleggere quest'assemblea; e la mirabile unanimità nell'elezione dei Deputati, che ha rinnovato l'esempio di quella concordia, con cui nel 1848 s'iniziò faustamente la grande opera del nostro nazionale riscatto; e finalmente l'ordine stesso, che perfettissimo si mantenne sempre, e si mantiene senz'apparato di forze, e non ostante l'ansietà grande degli uomini per l'incertezza, che pende sulle nostre sorti.

«Il quale mantenimento dell'ordine a che si deve mai, se non al sapere di essere retti da un governo, che ama e vuole il paese, cioè il conseguimento e l'assicurazione della desiderata libertà nazionale? «Se per quanto breve materialmente il tempo consideralo nella proposta, pure fecondo, com'è stato, di grandi occasioni ed eventi, rende certo ed evidente l'universale e profondo sentimento e proposito della Italiana Nazionalità nei Toscani, basta altresì ancora con minor certezza ed evidenza a mostrare immutabilmente antinazionale ed austriaca la Dinastia, che in origine fu di Lorena.

«Ben è vero, che nel 1848 anche la Dinastia si professava solennemente di spirito nazionale ed italiano, molti suoi atti furono consentanei alle parole. Ma ciò mentre conferma la italiana nazionalità nostra, ed è sanzione della legittimità sua, non fa che crescere gravità ed importanza ai falli, che poi sopravvennero a spiegare una mutazione assoluta nelle parole e nelle opere del Principe restaurato; e costituirono un sistema contrario ed ostile alla nazionalità, che il paese tanto più amava, quanto più la vedeva barbaramente conculcata.

«Cercare indizii e segni di questa mutazione nel tempo intermedio fra le professioni nazionali del 1848 ed i fasti susseguenti alla restaurazione del 1848, non è sembrato conveniente alla Commissione vostra come non è sembrato all'autore della proposta. Non d'individuali opinioni e giudizii, ma dell'opinione e del sentimento e giudizio generale del popolo toscano dev'essere testimone ed interprete l'assemblea. E la restaurazione, con cui il popolo chiamava il fuggitivo Principe a risalire sul Trono di Toscana come Principe italiano e costituzionale, quale n'era disceso provò apertamente, che lo si credeva e sperava tuttavia costante e sincero nella già professata fede politica.

«Fu certo un grande inganno, ma non fa mestieri cercarne le prove in atti anteriori, che anche di fronte a rivelazioni sopravvenute possono essere tuttavia dubitabili.

«Esuberanza ve n'è nei fatti posteriori al 12 Aprile 1849. Dalla occupazione austriaca, con cui di tanta onta e di tanto danno fu ricambiata la lealtà dei Toscani, dalla occupazione austriaca del 1849 fino alla battaglia di Solferino la Storia politica della Dinastia, che credemmo nostra, è una serie di atti che cospirano tutti a mostrarla non d'altro spirito animato né di altro capace che austriaco.

«Anche qui, come la Proposta cosi il Rapporto, che ho l'onore di farvene, s'astiene dall'esposizione particolare di fatti, che sono ormai di storica notorietà non solo in Toscana ed in Italia, ma in Europa tutta.

«Chiunque ne ricorra col pensiero la serie, può di leggieri notarne i caratteri e giuridici e politici e morali, che ebbero; e vedere come le dichiarazioni, che ora vi sono proposte, ne risultino non meno giuste che necessarie.

«Giuridicamente considerati gli atti, con cui la Dinastia si mostrò apertamente austriaca, presentano violazioni molteplici di dritto pubblico dello Stato.

«Il chiamare o introdurre soldatesche straniere nel territorio era atto espressamente vietato dallo Statuto fondamentale. Gli Austriaci dichiararono di venire chiamati dal Principe, né il Principe gli smentì; li disse anzi e trattò come truppe ausiliarie.

«L'abolire lo Statuto, che aveva avuto irrevocabile sanzione, era rottura manifesta di pubblica fede, e che non aveva altra ragione che l'incompatibilità di un regime costituzionale con un governo antinazionale.

«Ricusare di assumere e sostenere la guerra, che il popolo voglia, come volevala il nostro per la sua nazionale indipendenza, che è sacro dritto riconosciuto e sanzionato da tutti, costituisce contravvenzione ad uno dei più essenziali doveri del sovrano ufficio di Principe.

«Abbandonare il paese e riparare nel campo dei nemici della sua indipendenza e starvi come alleato, è atto di ostilità, che potrebbe anche di più grave nome qualificarsi.

«E’ inutile il dire come tali atti potrebbero secondo il dritto pubblico delle genti legittimare e giustificare l'insurrezione del popolo contro il Principe per privarlo del regno, se tuttora regnasse. Ma poiché, come giustamente è detto nella proposta, il Principe stesso col suo volontario abbandono del paese spezzò di fatto quei vincoli, che a lui lo legavano, non può dubitarsi né che alcun legale ostacolo incontrino le proposte dichiarazioni, né che altro occorra di fare, poiché si tratta ora non di detronizzare un Principe, che regni, ma di richiamare o no sul trono chi non regnando più né di fatto né di dritto, non è realmente altro, che un pretendente.

«Considerati politicamente gli atti della Dinastia decaduta, dimostrano essersi ella siffattamente consacrata e vincolata all'Austria da rendersi indispensabile per sempre il sostegno suo; da ridursi perciò irreparabilmente sotto la sua dipendenza. assoggettandole insieme il paese; e da dovere inevitabilmenle seguire in qualunque evento il destino della sua dominazione in Italia.

«Imperocché fu chiarissimo,che rinunziando scientemente e volontariamente alla fiducia ed all'affetto del popolo, base di regno e fondamento di governo, essa fece non altro, che la forza materiale.

E per quanto si avvisasse di tentare l'esperimento di educazione e direzione austriaca pei soldati toscani, non potè mai la sua speranza riporre che nelle armi austriache o stanziate nel territorio o vicine e libere di potere accorrere da qualunque luogo a sua difesa.

«Ciò che siamo ora per dichiarare non è che naturale conseguenza della condizione, in cui di deliberato animo la Dinastia già nostra si pose, ed ostinatamente perseverò, sorda ad ogni leale consiglio di chi fedele tuttavia al giuramento, che altri infranse, non seppe separarsi dal Principe, se non quando fu assolutamente certo,che il Principe si separava dalla patria.

«Moralmente considerati gli atti della Dinastia austriaca nel decennio ultimo del suo regno presentano i seguenti caratteri.

«Ingratitudine alla fidente lealtà del popolo, che della operala restaurazione non ebbe in ricambio, che lo scorno ed il danno di essere umiliato e smunto da soldatesche straniere e nemiche.

«Insulti anche gratuiti al sentimento suo nazionale, come fu l'autorità concessa al soldato straniero di esercitare giurisdizione penale fra i cittadini ed applicare pene infami; il vestire e portare quasi in trionfo le divise della straniera milizia, ch'eran pur segno di straniero servaggio; gli scandali orrendi di Santa Croce, e per ultimo lo andare nelle file nemiche per mera mostra di ostilità.

«Incostanza finalmente di professione politica per variazioni inspirate soltanto da interesse, benché male inteso, di regno.

«Così dopo il 1849 si proscriveva come sedizioso e si condannava come delitto ciò, che per giusto e santo s'era professato e proclamato nel 1847.

«Cosi ultimamente nel 1859 prima alleanza austriaca, poi un'apparente neutralità; poi una momentanea adesione alla causa nazionale, poi fuga nel campo nemico, e di nuovo alleanza austriaca. Ed ora si sente dire di redivivo amore per la nazionalità italiana, ora che la speranza di regnare in forza delle armi austriache si vede (così Dio voglia) svanita.

«Il concorso di tante e cosi potenti ragioni non solo fa, che non sia da meravigliare che la contrarietà al ritorno della Dinastia Austro Lorenese sia generale e profonda in un paese offeso in tanti modi nel suo diritto, nella sua dignità, nel suo nazionale affetto e nel suo senso morale, ma quel che è anche più decisivo, non permette in modo alcuno né alla prudenza degli uomini di Stato né all'istintivo giudizio del popolo di concepire la lusinga non che la fiducia, che sia per essere sincera e costante la conversione, che ora la Dinastia dopo tante variazioni venisse pur professando alla causa nazionale.

«E dice con ragione la proposta, che né Statuto né bandiera tricolore non sarebbe da tanto, che la Dinastia Austro-Lorenese potesse legare alla causa nazionale le sue sorti; le quali, massimamente sinché la Casa imperiale di Vienna conservi una Provincia o uno Stato in Italia, non possono, che rimanere legate alle sorti dell'Austria.

«Spero, o Signori, che in questa esposizione delle ragioni, che stanno a giustificare l'incompatibilità, che vi si propone di dichiarare, niente vi sia, che abbia neppure l'apparenza di un odio, che non perdona.

«D'odio personale noi ci sentiamo libero l'animo affatto; altrettanto possiamo affermare del popolo no stro generalmente. Il contegno suo nobilissimo nello stesso di 27 aprile mostrò apertamente, che le persone egli non odiava, ma anzi anche mentre mostravansi piuttosto ostili che amiche alla causa nazionale, ei sapeva rispettarle.

«Non altro nei passati regnanti odiammo ed odiamo che la dominazione austriaca, di cui gli soffrimmo strumenti, e non possiamo non temere, che dovremmo soffrirli di nuovo, se ritornassero.

«Nè è da parlare di perdono; il perdonare consiste nel non volere vendicarsi, nel non voler male a chi male ci fece; ma altro è perdono, altro è fiducia. Non è una pena, che intendiamo d'infliggere, non è una vendetta, che intendiamo di fare. È denegazione di una fiducia, che l'esperienza rende impossibile nel presente, e che possibile non lascia precedere nell'avvenire, lo che pure nella proposta è dichiarato.

Tutti siamo lontani da qualunque sentimento men retto e giusto, né abbiamo pensalo a sopprimere ciò, che la proposta nota circa la benemerenza, che la Dinastia Lorenese, benché imposta dalla forza, potè acquistare per riforme operate da alcuno dei suoi Principi.

Si sarebbe potuto sopprimere come meno opportuno rispetto alla quistione politica e nazionale di che si tratta. Le benefiche riforme di cui possiamo lodarci, e dobbiamo essere riconoscenti, sono più che altro economiche, giudiziarie, amministrative. Nè questo fu bene, che la Dinastia ci facesse in quanto era o perché era Lorenese od Austriaca. Come Austro-Lorenese non sappiamo vedere qual bene ci facesse mai; non cosi sarebbe difficile dimostrare come dai suoi vincoli colla casa imperiale di Vienna ci venissero mali assai gravi, che con una dinastia indipendente ed italiana si sarebbero evitati. Politicamente il regno e governo della Dinastia Austro-Lorenese ebbe sempre questo carattere e proposito costante, togliere ogni freno e limite al potere regio, e renderlo onninamente assoluto.

«Tuttavia i Commessarii vostri facendosi organi dei rispettivi ufficii hanno lodato il pensiero del Proponente, come quello, che servirà a viemeglio mostrare la moderazione e la giustizia dell'Assemblea, ed accertare, che dalla caduta Dinastia non altro ci divide che la causa nazionale, e come innanzi ho ridetto, il suo essere austriaco e l'essere noi Italiani.

«E questa è divisione profonda, è diversità e contrarietà inconciliabile, poiché ne dipendono due cose essenziali nell'ordine sociale delle nazioni; cioè la indipendenza da esterna dominazione, che sarebbe sempre in pericolo, e la pace pubblica interna, che sarebbe impossibile a conservarsi.

«Provvedere a queste cose è dritto e dovere nostro per quanto è in nostro potere.

«Senti questo dovere e fu sollecito a soddisfarlo la Consulta di Governo, concorrendo anch'essa a fare fede del sentimento pubblico e provarne l'unanimità.

«E voi, Rappresentanza vera del Paese, vi provvederete più efficacemente, adottando le dichiarazioni motivate, che vi sono proposte.

«Vi provvederete, perché se vi è cosa in cui i voti di un paese siano legittimi, se vi è cosa, in cui rispettare si debbano, è questa.

«Non si tratta qui di tale o tal altro assestamento d'Italia, che in modo più o meno perfetto corrisponda al desiderio e concetto nostro di nazionale costituzione. Si tratta solo di non avere dominazione di Casa d'Austria; si tratta di evitare la più grande calamità, che possa colpire la Toscana anco a senso di quelli, in cui il sentimento nazionale è men vivo.

«Nessuno ha dritto d'esigere, che noi consentiamo alla nostra rovina.

«Non lo potrebbe neppure un congresso delle grandi Potenze di Europa, che è pure la sola autorità, che oggi eserciti il supremo arbitrio di statuire sull'incerto destino degli Stati minori, che si colleghi colla generosità dei politici interessi europei.

«ila per buona ventura coi generali interessi d'Europa l'interesse nostro nella presente quistione non è in conflitto per niente, anzi è in perfetta concordia.

«Se a noi interessa d'essere onninamente e sicuramente indipendenti dall'Austria, interessa ancora all'Europa, che cessi veramente una volta la usurpata preponderanza austriaca in Italia.

«Se interessa a noi avere condizioni ragionevoli di pace pubblica e d'ordine interno, anche all'Europa in teressa, che Italia non abbia a essere sempre agitata da commozioni rivoluzionarie, capaci di turbare per facile contagio anche altri Stati.

«E agevolmente deve intendere, che contrariare il voto nostro o non rispettare il nostro Velo non altro sarebbe, che traslocare quel centro e fornite di rivoluzione, che tanto desiderio si è mostrato di estinguere; non sarebbe, che renderlo più pericoloso, poiché mancherebbe forza d'armi straniere o presenti o vicine, che lo potessero comprimere.

«Non essendo pertanto da temere alcun ostacolo in contrarietà d'interesse Europeo, manca la sola ragione, che possa trattenerci dati' esercitare secondo la chiara volontà del Paese la nostra sovranità nazionale.

«Trattenere non ci possono i vociferati Preliminari di Villafranca. Noi, qualunque essi siano, quei preliminari non obbligano: come obbligatorii per noi non gli consentì, né poteva, né chi vi rappresentava nella guerra, né altri.

«Non ci debbono trattenere i consigli e le esortazioni, comunque premurose, che in nome di Napoleone III ci fa officiosamente la francese diplomazia.

«Ben vorremmo, che in nome del magnanimo e generoso Imperatore dei Francesi ci si proponesse e chiedesse cosa possibile per potergli mostrare quanta gratitudine e riconoscenza con tutta Italia gli professa Toscana. Ma cosa inconciliabile colla salute nazionale non v'è gratitudine o riconoscenza, che possa farla un dovere.

«Quando avrà conosciuto e ponderato tutte le ragioni, che concorrono a rendere assolutamente la casa d'Austria incompatibile colla Toscana, l'Imperatore Napoleone non solo non si offenderà della renitenza nostra, ma rendendoci giustizia l'approverà egli stesso come necessaria prudenza e costanza lodevole.

«Tanto più che a perorare la nostra causa non mancherà la voce benevola della Francia, che già pubblicamente parlò a pro nostro per la bocca di tutti quelli. che non servono ingenerosamente ad intrighi di pretendenti.

«Finalmente non ci deve trattenere il pericolo, che la restaurazione invano consigliata o ci s'imponga o ci si lasci imporre per forza. Di forza niuna minaccia ci venne fatta. Non abbiamo sinora ricevuto da qualunque parte, che dichiarazioni rassicuranti. L'uso della forza altresì nelle attuali condizioni d'Italia si presenta moralmente impossibile. Non è pericolo quindi, che si abbia a temere.

«Ma avvenga che può; esercitare il dritto nostro è dovere, e se la giustizia degli uomini ci fallisse, dovremo affidarci alla giustizia di Dio.

«E dal canto nostro avremo fatto per ogni evento quanto è da noi, quando francheggiando il patriottismo di chi regge la cosa pubblica, avremo sanzionato come volontà del paese non potersi la decaduta Dinastia né richiamare, perché torni, né se tornasse, riceverla.» Come ben si scorge, la relazione esauriva gli argomenti per l'adozione della Proposta, ed è difficile di non convenire della esattezza e della verità di essi, quando non si è preoccupati dalla passione o dallo spirito di parte.

A questa lettura segui la lettura della Proposta Ginori modificata dai Commissarii delle Sezioni. Avendo già riferita la proposta, aggiungeremo, che lievi erano le modificazioni fattevi, e tutte tendenti a renderla più energica coatta la Dinastia. Per esempio la Proposta modificata osservava, che la suddetta Dinastia era stata imposta dalla forza alla Toscana, benché poi stata un tempo benemerita per le riforme operate da alcuno dei suoi principi, e nel dispositivo aggiungeva non potersi quella conservare senza oltraggio alla dignità del paese.

Terminala la lettura, Gino Capponi propone la stam pa della Relazione, e la proposizione è all'unanimità approvata. Indi sorge il Marchese Bartolomei a di mandare, che giusta il regolamento del 1818. adottato dall'Assemblea, la proposta Ginori sia votata a voto segreto, la quale proposizione essendo stata appoggiata da un numero di Deputati maggiore di quello voluto dal Regolamento, è anche approvata.

Il Deputato Corsi dimanda, se una volta stabilita la votazione segreta, abbiano i singoli Deputati il dritto di dare palesemente il proprio volo. ed il Presidente risponde, essere ciò contrario agli usi parlamentari ed al regolamento adottato.

Quindi si procede alla votazione.

Il Segretario Cempini fa l'appello nominale, ed i Deputati mano mano che sono chiamati a nome. siappressano all'urna e vi depongono il loro voto.

Il Deputato Minulelli nel porre il voto nell’urna esclama: — e Ecco io do il mio voto per la decadenza della Dinastia di Lorena.» — Il Presidente lo chiama all'ordine, e tutta l'Assemblea dà segni manifestissimi di riprovazione.

Compiuto l'appello nominale, il Presidente comincia dal dichiarare essere i votanti 168 per assenza dei Deputati Peruzzi e Marchese Lajatico in missione all'estero, del Deputato Contrucci ammalato, e per non essersi ancora eletto il secondo Deputato del Distretto di Greve. Poi si procede allo spoglio dei voti, e 168 palline uniformi attestano essere stata la Proposta Ginori, modificala dalle Commissioni coll'assenso del Proponente, approvata all'unanimità.

Applausi clamorosi, prolungati, entusiastici irrompono nella sala. Il Presidente invano Lenta di richiamarvi l'ordine. Finalmente si cuopre, e la quiete ritorna.

In siffatto modo il voto solenne, unanime della Rappresentanza nazionale venne a ripetere al cospetto dell'Europa il voto delle popolazioni toscane ed a rafforzarlo di miti motivi, che lo rendevano non una aspirazione, ma un elemento indispensabile di ordine e d'indipendenza nazionale.


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CAPITOLO VII

Prosieguo degli atti dell'Assemblea nazionale toscana. L'Assemblea Modenese.

SOMMARIO

Proposta del Marchese Mansi per l'annessione — Otto altri Deputati, che la sottoscrissero — Simile proposizione del Deputato di Lucca — Sono rinviati agli uffizii convocati pel di seguente — Tornata del 20 agosto — Rapporto del Prof. Giorgini — È fragorosamente applaudito — Osservazioni del Deputato di Lucca — Si domanda e si ordina il voto segreto — Deputati mancanti — L'annessione è votata all'unanimità — Applausi entusiasti ci — Conferma dei poteri al Governo"L'assemblea è prorogata"Osservazioni su i Deputati mancanti Pubblicazione di un importante documento diplomatico, ell'ebbe ad influire nella unanimità del voto — Ostacoli che si opponevano a quella votazione — Articolo della Nazione di Firenze — Parole che si attribuiscono a Reiset e ad un interlocutore toscano"Concetto, che n'emerge"Dialogo tra Reiset e Capponi — Insinuazione di Poniatowskv — Lega tra i Toscani ed i Modenesi — Dimissione di Ulloa — Garibaldi nominato Comandante la Divisione toscana. Nel Ducato di Modena si ripetevano gli stessi voti dei Toscani — Lettera del Generale Cialdini al Comitato elettorale di Reggio— Apertura della Costituente in Modena "Discorso del Cav. Farini— Proposta di un indrizzo a Napoleone — Seduta del 19 agosto. Progetto d'indirizzo al Cav. Farini — È approvato "Progetto dell'indrizzo a Napoleone — Proposta Fontanelli — Tornata del 20 agosto — Risposta del cav. Farini — Si approva l'indrizzo a Napoleone — Progetto della legge della decadenza della dinastia — È approvato "Proposta dell'annessione al Piemonte"Tornata del 21 di agosto — Relazione sulla proposta di annessione"La proposta è approvata.

 Non era ancora finita la emozione che la deliberazione dell'Assemblea sulla proposizione Ginori avea prodotto nel pubblico, quando il Marchese Girolamo Mansi chiese al Presidente, che proclamava esaurito l'ordine del giorno,che gli accordasse una breve sospensione della seduta per formolare una proposta che insieme ad altri Deputati intendeva di presentare. Sospesa quindi la seduta e ripresa dopo 20 minuti, la proposta Mansi è deposta sul banco della Presidenza, ed è letta dal Deputato Cempini nei seguenti termini: «Coerentemente alle considerazioni e dichiarazioni espresse nella risoluzione dell'Assemblea del giorno 16 agosto corrente intorno alla Dinastia Austro-Lorenese, dovendo l'Assemblea medesima provvedere alle sorti future del Paese, dichiara, essere fermo voto della Toscana di far parte di un forte regno italiano sotto lo scettro costituzionale del Re Vittorio Emmanuele.

«A questo Re prode e leale, che protesse con particolare benevolenza il nostro Paese, raccomanda lo adempimento per quanto è in lui del voto della Toscana.

«Raccomanda all'alta protezione ed al senno magnanimo dell'Imperatore Napoleone III, alla saggia e benevola mediazione dell'Inghilterra, della Russia e della Prussia le sorti della Toscana.

«Incarica il Governo di promuovere l'adempimento di questi voti nei negoziati, che avranno luogo per lo assetto diffinitivo dell'Italia e di riferirne a suo tempo all'Assemblea».

Otto altri Deputati erano sottoscritti insieme con il Marchese Mansi, ed erano il Conte Ugolino della Gherardesca, il Conte Scipione Borghesi, il Cav. Francesco Franceschi, Pietro Augusto Adami, Principe Ferdinando Strozzi, Cav. Girolamo de Rossi, Conte Giovanni Guillichini, Conte Nicolò Piccolomini.

Un'altra proposizione simile nella conclusione e presso a poco simile nelle considerazioni era presentata dall'avvocato Massei Deputato di Lucca. Entrambe queste proposizioni furono mandate agli uffizii, che il Presidente convocò per lo giorno seguente.

Erano decorsi quattro giorni dalla seduta dell'Assemblea nazionale, nella quale la Dinastia di Lorena era stata dichiarata decaduta dal Trono della Toscana, perché incompatibile con gl'interessi e le aspirazioni di quei popoli, quando la stessa Assemblea fu chiamata a discutere le due proposizioni, che disponevano di quel Trono rimasto vuoto, e che avvisando allo stesso modo, non presentavano, che una sola quistione. Il Professore Giorgini era relatore. Egli disse, la proposta essere già stata approvata negli officii, salve poche modificazioni di forma, consentite dagli stessi autori: La Commissione proporne l'adozione, la quale veniva consigliata non solo da ragioni estrinseche, ma imposta inoltre da un fitto incontrastabile, imperciocché l'annessione al regno di Vittorio Emmanuele non emergeva soltanto dalla necessità di dare un governo qualunque alla Tos, ana, ma scaturiva dallo stesso sentimento d'Indipendenza e Nazionalità, che aveva motivato la decadenza della Casa Austro-Lorenese. Dimostra poi il relatore, come l'idea della federazione propugnata nel 49 e tanto dai popoli desiderata, oggi è da tutti rigettata, perda; il concetto di una federazione è troppo complesso, troppo scientifico, troppo astratto, per potere essere popolare; oggi l'Italia vede in Vittorio Emmanuele la sua nazionalità. Da che siegue, non essere questa unione l'opera di cospirazioni di partiti, come i nemici vorrebbero dare ad intendere, ed osserva, che se vi fu cospirazione, cospirarono pel Re Vittorio Emmanuele la sua lealtà, i suoi generosi e nobili fasti, i consiglieri degli altri Principi Italiani, che loro fecero tenere una via contraria a quella tenuta dal Re leale. La Toscana, soggiunge il Relatore, è troppo piccola per mantenere da sé la propria indi. pendenza. Le quali cose essendo vere, non essere mestieri di altre indagini per la deliberazione dell'Assemblea, perocché i Deputati della 'toscana si erano riuniti per dire quello, che il popolo toscano vuole,non quello, che la diplomazia desidera, oltre di che sarebbe un errore l'indovinare gli astrusi progetti della Diplomazia, che forse neppur essa non ha ancora formato.

Né questo voto ha nulla, di che la Diplomazia possa offendersi così per la sostanza come per la forma; non per la prima, perché la Toscana usando del suo dritto, non chiede nulla ad alcuno, non per la seconda, perciò esprimendo il proprio voto, i Toscani non vogliono imporre niente a chicchessia. Conchiuse in ultimo, che in tutt'i casi il voto dell'Assemblea costituente Toscana resterà come altra solenne espressione del sentimento nazionale d'Italia.

Fragorosi applausi accolsero questo rapporto, di cui si chiese la stampa, e vi annuì l'Assemblea.

GENERAL MEDICI

Sorse il Deputato di Lucca Massei, e chiedendo la parola, dimostrò come il voto dell'Assemblea costituente Toscana dovesse essere rispettato dall'Europa, perocchè era in migliori condizioni della Camera dei Comuni, che dichiarò decaduti gli Stuardi dal Trono dell'Inghilterra, dell'Assemblea francese del 1830, che scelse a Re Luigi Filippo, e dell'altra del 1848, che ne proclamò la decadenza.

Di poi 24 Deputati dimandarono il voto segreto, ed anche questa dimanda fu accolta.

Dopo di che si procedé all'appello nominale, e si trovarono mancanti oltre i quattro Deputati della precedente votazione del 16 anche Bazzanti ammalato. Si notava pure la mancanza di Montanelli e del suo amico politico Lupo Parra; Mazzoni si assentò nel momento della votazione, onde erano presenti 163 Deputati, e 163 voti affermativi si trovarono nell'urna. Il voto affermativo si prevedeva, ma l'unanimità non era attesa da alcuno, per lo che il resultamento della votazione, per questa parte inaspettato, provocò entusiastici applausi, che cessarono soltanto quando il Presidente si copri.

Proposta quindi la conferma dei poteri nell'attuale governo sinché non si effettuasse il voto emesso, venne pure all'unanimità approvata, ed il governo cosi legalizzato chiese la proroga dell'Assemblea, la quale si sciolse al grido cento volte ripetuto di — Viva il Re!

Mancarono dunque a quella solenne deliberazione otto Deputati; cinque mancarono per cause indipendenti dalla loro volontà, perché tre erano ammalati e due assenti per servizio pubblico. Tre soli si astennero volontariamente, Montanelli, Parra e Mazzoni. Parra, imitatore fedele e seguace divoto di Montanelli, si confonde nelle sue opinioni politiche con questo. Nel suo programma politico ai suoi elettori di Cascina egli non era stato ben compreso, sì che i Cascinesi non pare, che fossero rimasti contenti del modo, come il loro mandato venne eseguito. Quanto a Montanelli, si scusava dicendo non poter egli votare per un ordine di cose, che riteneva impossibile per le parole a lui dette dall'Imperatore; scusa al certo non patriottica e neppure logica e neanche indipendente, perciò, come bene il relatore aveva avvertito, trattavasi di emettere un voto secondo gl'interessi e le aspirazioni della Toscana non secondo la volontà dell'Imperatore, né era logico il ritenere, che la Toscana dovesse omettere di palesare la sua solenne volontà Europa unicamente perché Imperatore dei Francesi l'avversava. E poi meraviglioso il vedere come Montanelli credesse possibile la repubblica italiana nel 1848 ed impossibile l'annessione della Toscana al Piemonte nel 1859! Per altro si disse allora, ch'ei proponesse la candidatura del Principe Napoleone al soglio toscano. Intendiamo di registrare la voce, che ne corse, e non il fatto, che pare fosse per parecchie condizioni assai difficile.

Mazzoni invece era stato logico e conseguente, inperocché sin dal primo momento aveva dichiarato agli elettori di Prato, ch'egli, repubblicano, non avrebbe mai votato per l'annessione al Piemonte monarchico. Questo significa avere il coraggio e la indipendenza del proprio voto.

 Ed ecco le discrepanze politiche nei rappresentanti dei Toscani.

Nè pare, che sia stato indifferente all'unanimità del voto sull'annessione un importante documento diplomatico, che tre o quattro giorni prima della votazione pubblicò il Monitore Toscano. Era una nota, che l'Inviato straordinario sardo e Ministro Plenipotenziario Comm. BonCompagni presso il Gran Duca di Toscana rimetteva a quel Governo con la data del 21 di aprile 1859, cioè tre giorni prima, che accadesse la rivoluzione in Firenze. Conteneva la nota, avere l'Inviato ricevuto un telegramma dal suo governo, col quale gli si annunziava essere stata risoluta la guerra tra la Francia, quale alleata di S. M. il Re di Sardegna, e l'Austria, ed attendersi da un momento all'altro l'ultimatum austriaco. Esser egli, l'Inviato, incaricato di fare un ufficio presso il Ministro degli Affari Esteri della Toscana, a fin di richiedergli l'alleanza offensiva e difensiva del Governo toscano nella guerra, che sta per intraprendersi, domanda dettata da un sentimento di schietta amicizia verso quel Governo. Il qual sentimento poi scioglieva il rappresentante sardo da ogni rimprovero, s'egli parlava con tutta la libertà voluta dalla gravità delle presenti contingenze.

Il Plenipotenziario nota il contingente, che le popolazioni toscane avevano mandato nelle truppe, che si organizzavano per la guerra dell'indipendenza italiana; nota l'opposizione quindi sorta tra il governo della Toscana e la Nazione, ed osserva non potere questa opposizione durare indefinitamente; che perciò doveva cessare, o che il governo s'inducesse a secondare l'impulso del sentimento nazionale, o che cercasse domarlo per mezzo di compressioni, che ripugnano ai costumi dell'età nostra, alla civiltà del paese, alle sue abitudini, ed alle tradizioni del suo reggimento civile. E da questo secondo partito non può essere a meno, che non rifugga l'animo del Principe e dei suoi Ministri.

Ricorda il Ministro gli avvenimenti del 48, la volontaria restaurazione del Principe, l'umiliante occupazione di truppe straniere, l'oppressione delle gravezze, che questa impose, la perdita della libertà, le offese nella sacra memoria dei prodi, che avevano combattuto per l'Italia. — «Sarebbe vano, dice la «Nota, il dissimulare quanta amarezza quelle memo«rie abbiano lasciato, quanto ne sia stata turbata «l'antica e mirabile concordia tra Principe e Popolo». Il sottoscritto si asterrebbe dal rammentare queste luttuose memorie, se le contingenze presenti non gli dessero occasione d'indicare nell'alleanza da esso proposta il mezzo, per cui possono essere cancellate. «— E dopo di aver detto come oggi ogni Provincia Italiana rinsavita dagli errori passati pospone qualunque altro pensiero a quello dell'indipendenza nazionale, prosiegue

«Una guerra, combattuta sugli stessi campi di battaglia contro gli stessi stranieri, diviene principio di una concordia cittadina, di cui si debbono coltivare i germi. I dissensi tra Principi e Popoli si cancellano, la concordia si cementa, quando essi si consacrino ad una stessa causa, e sopratutto quando questa causa abbia le sue radici nei sentimenti più profondi e più sacri, che vivono nel cuore umano, qual è quello della indipendenza nazionale. La neutralità tra il Piemonte e l'Austria non potrebbe in alcun modo scampare la Dinastia ed il Governo toscano dai pericoli, che si possono temere in questi frangenti. Vi hanno due sistemi politici in Italia; quello propugnato dal Piemonte, il quale vuole tutto il territorio italiano libero da ogni dominazione, tutti i Principati liberi da ogni influsso straniero; e quello dell'Austria, che intende non pure signoreggiare alcune delle più belle Provincie della nostra Penisola,ma sovrastare a tutte, e quanto fosse tenace lo dimostrò testò, ricusando tutti i progetti dei Potentati, che desiderosi di pace, le proponevano di conservare i dominii, rimettendo la supremazia sugli Stati, che i Trattati dichiararono sovrani. Allorquando l'opposizione fra questi due sistemi prorompe in guerra aperta, uno Stato italiano, che non vi partecipi, cooperando all'impresa nazionale, per quanto si dichiari neutrale, si professa in modo implicito, ma pure irrecusabile, disposto ad accettare quegl'influssi austriaci, che suscitando invincibili ripugnanze, sono un germe di discordia, che durerà quanto quella dominazione odiosa a tutti gli Italiani».

Giustifica poi l'autore della nota le intenzioni del Piemonte. S' egli volesse procacciare popolarità a sé solo e profittare della guerra dell'indipendenza, non avrebbe che a secondare o a lasciare crescere i dissidii fra i governi ed i popoli. Ma esso ha concetti più modesti e più pratici. Esso rispetta l'autonomia degli Stati italiani, e nell'accingersi ad una impresa, che se riesce, sarà la più grande, di cui la Storia Italiana serbi memoria, esso ambisce non la propria preponderanza ma il vantaggio comune dei Principati e dei Popoli della Penisola.

Ed il Commendatore BonCompagni chiude la nota esponendo come siano illusorie le speranze di coloro, che credono, che il moto italiano si arresti: — «Esso ebbe il primo impulso sin dall'esordire del Regno «Lombardo-Veneto nel 1815. Proruppe nei moti militari del 1821; compresso, lasciò i germi di quella guerra del 1848, la prima in cui tutta la Italia sorgesse a rivendicare la propria indipendenza. Compresso di nuovo nel 1849, risorge ora più vigoroso dopo che tutta l'Europa ha riconosciuto che in Italia stava la più grave quistione, che dovesse occupare i suoi uomini di Stato "...»

Che se mai cessasse, conchiude il Ministro, l'agitazione dei Parlamenti liberi, non cesserebbe per poco l'agitazione degli animi, e darebbe luogo alle oscure trame delle società segrete, che, come dimostra un'esperienza ormai troppo lunga, germogliano dove è impedita ogni speranza d'indipendenza e di libertà; e che corrompono tutte le consuetudini della convivenza civile».

Niun documento poteva essere più opportunamente pubblicato, e niuno meglio di esso può provare la buona fede del governo piemontese, la brillante lealtà del Re galantuomo, e la cieca ostinazione del Principe austriaco, che regnava sulla Toscana.

Ma per bene apprezzare il voto dell'Assemblea toscana, e misurare da esso la robustezza e la fermezza del sentimento nazionale, è mestieri di narrare le condizioni, in cui si trovava allora il paese, né ciò può farsi meglio e con maggiore verità che riferendo un articolo, che due giorni dopo di quel voto pubblicava la Nazione di Firenze.

«La generosa deliberazione, che l'Assemblea toscana ha preso nella giornata del 20, acquista massima importanza, se si considerino la dubbiosa condizione del Paese e le subdole insinuazioni, che movendo da diverse parti, cercavano distorla dal solo provvedimento, che ragionevolmente si dovesse abbracciare.

«Taceremo le mene dei Dinastici, che ridotti a numero infimo e senz'alcun valore politico, dovettero mascherarsi sotto altre spoglie, cercando collo spargere diffidenze, coll'asserire di conoscere la mente di Napoleone III circa gli affari d'Italia, di giungere allo scopo, che direttamente non potevano conseguire.

«Taceremo pure le mene dei Municipali, che evocando il fantasma seducente di tempi ormai per sempre passati e da non ripetersi ancora, tentavano di rappresentare con neri colori lo stato di squallore, a cui un tal partito ridurrebbe la Toscana. Stolti! che non conoscono o non vogliono conoscere, come il concetto di Patria non sia più imprigionato in quelli stretti confini, a cui lo vorrebbero condannare, come la grettezza del sentimento sia costata al paese nostro lunghi secoli di continua e servile decadenza.

«Nè il debole partito mazziniano volle mancare al convegno, che i nemici della nazionalità eransi dato. Le dottrine della setta mazziniana intorno all'unità italiana furono presto dimenticate quando si vide, che il concetto unitario sarebbe progredito di qualche passo sotto il patrocinio del nome di Vittorio Emmanuele, e per odio all'immagine si tentò di abbattere l'altare. Il Pontefice della setta dichiarò nel suo giornale, che l'unione della Toscana al Regno italiano non aveva senso, perché Re nostro era l'Italia nascente; come se alcun senso fosse in questo pronunziato supremo.»

«Ma invero né dai dinastici né dai municipali né dai mazziniani originarono le maggiori dubbiezze. Nè maggiore valore ebbero le parole di coloro, che con gran sicurezza d'indovini e con certa alterigia d'iniziati ai misteri diplomatici, andavano ponendo innanzi, come accettati e voluti, i nomi di Principi esteri chiamati a coprire il trono vacante; come se una qualunque parte d'Italia, appena libera dallo straniero, non dovesse di dritto essere retta da quel solo, che valorosamente per la comune salvezza pugnò già per tre volte.

«I partiti in Toscana, è bene il ripeterlo, non ebbero mai numerosi adepti. Nè coloro, che si scindono dalla maggioranza, e fra loro si suddividono in diverse piccole Chiese, ebbero mai tanta autorità sol per un momento da padroneggiare l'opinione pubblica. Non l'ebbero colla persuasione, perché troppo chiaro splendeva a tutte le menti esservi un unico partito da prendere; non l'ebbero colla violenza o colla sorpresa, perché il paese era vigil guardiano di sé medesimo.

«Le più gravi fluttuazioni nell'opinione pubblica vennero d'altra parte. I molti partiti, le transazioni disonorevoli venivano porte coll'apparenza di amichevoli ed autorevoli consigli. L'intimo pensiero di quel grande, che nella quistione svizzera e nella Moldo-Vallacca fece trionfare il principio del voto popolare, da cui trae origine e forza,, veniva esposto stranamente adulterato rispetto ai popoli dell'Italia centrale.

«Come se le armi alleate non fossero state trionfanti, come se la Francia non avesse la missione d'intervenire ovunque è un giusto principio da difendere, si voleva insinuare negli animi dei Toscani, che la loro causa era perduta, che non potendoci la Francia porgere aiuto, non volendosi, che l'Austria qui riconducesse le sue armi, rapinando ed uccidendo, non restava altro, che riporre in. Trono da per noi stessi quel Principe, che odiando la nostra bandiera, era da noi fuggito, allorché la vide sventolare minacciosa all'Austria.

«La Toscana ed i suoi Rappresentanti conoscevano tali consigli di sconforto, tali insinuazioni di viltà; eppure questi non furono bastanti a vincere quel fermo proponimento, che ognuno aveva promesso a sé stesso di mantenere.

«La Toscana ed i suoi rappresentanti sapevano, che la fortuna non è sempre né sovente compagna alle magnanime risoluzioni, ma sapevano pur anco, che mal s'inaugura con una viltà il risorgimento di un popolo.

«Perciò la Toscana prescelse il partito, che l'onore, che il sentimento nazionale le suggerivano, non guardando né curando i pericoli, che potessero indi seseguirne.

«I rappresentanti della Toscana tornano adesso alle loro provincie. Essi vi tornano coll'intimo convincimento di avere interpretato esattamente il mandato dei loro elettori e di avere compiuto un atto di dovere al Italia.

«La loro condotta unanime e dignitosa è superiore ad ogni elogio, ed essi hanno dritto alla riconoscenza della Patria.

«E la diplomazia, innanzi alla quale si produrrà adesso questo documento della volontà nazionale, dovrà dare a questo un valore tanto maggiore, quanto più autorevoli e più insistenti furono le premure fatte, perché il magnanimo voto non fosse solennemente pronunzialo».

Così scriveva l'organo più importante della stampa toscana e con ragione alludeva alle insinuazioni degli agenti officiosi francesi. Già dieci o dodici giorni prima del voto di annessione l'Indipendente aveva notato come tutte le notizie, che giungevan dall'Italia centrale attestavano i suggerimenti di Reiset in tutt'i paesi, ch'egli percorse. Secondo quel foglio a tutti disse:

«Essere desiderabile, che la pace si consolidi, il ritorno dei Principi spossessati essere a tal fine il più sicuro mezzo; tornerebbero ammaestrati dall'esperienza e persuasi dai buoni consigli della Francia, si procurerebbe la promulgazione di ordini costituzionali, che assicurassero la libertà dello Stato; sarebbero affatto indipendenti, perché i trattati già conchiusi coll'Austria daì loro Principi fin d'ora sono come aboliti; l'Italia sarebbe nazione merci la federazione. Resistendo più a lungo, essere possibili i mali della guerra, se alcuno di quei Principi si muova con armi proprie, ma più ancora essere a temere il disordine e l'anarchia interna. Il dominio di quei Principi avere lasciato alcune radici in paese, e potersi temere, che nascano disordini e da questi peggio', nel qual caso potrebbe accadere, che intervenissero soldati forestieri per la tutela della quiete pubblica. Peraltro Napoleone III. Imperatore per il suffragio popolare, volere rispettata la volontà nazionale, cosicché se le popolazioni italiane emetteranno con calma i loro voti, e sappiano mantenersi unite, e non tollerino venga comecchesia turbato l'ordine interno, nessuna violenza verrà loro usata. E un ultimo Congresso Europeo statuirà intorno al diffinitivo assetto dell'Italia centrale».

Queste insinuazioni si possono ridurrei% questo concetto. Richiamate i Principi, perché saranno diversi di prima, e d'altronde non accogliendoli, si corre il pericolo di una guerra fatta con armi proprie dei detti Principi e di moti interni, che possono portare l'anarchia. Però se siete concordi, se siete forti, se sapete serbare l'ordine, emettete liberamente il vostro voto, e sarà rispettato. Ebbene in questo senso i pericoli della non restaurazione non eran altri che due; quello della guerra con armi proprie dei Principi spodestati, e questo non era grave, e forse neanche serio; quello d'una reazione, e questo era piuttosto immaginario che vero. Considerate sotto questo rapporto quelle insinuazioni dovevano fare poco frutto, ma erano sempre un appoggio pei dinastici e pei municipalisti, e d'altronde è probabile, che la stampa liberale annessionista desse alla seconda parte delle dette insinuazioni maggiori proporzioni, che non avevano.

E difatti si narrava, che il Reiset fosse stato il di 12 di agosto dal Capponi. e dopo di avergli detto con belle maniere, che l'Imperatore rispetterebbe i voti del Paese, soggiunse: — «Però non bisogna spingere trop«po oltre le cose, perché potrebbero provocare.... spiacevoli conseguenze.» — Ed il Capponi: "«Se ciò accadesse, mi dorrebbe pel mio paese, ma più ancora per l'Imperatore». Il Poniatowsk poi insisteva più particolarmente sulle restaurazioni, promettendo in compenso di formarsi della Venezia uno Stato indipendente sotto un Arciduca Austriaco. Affermavasi di avere egli detto ad un uomo di spirito toscano, che l'Imperatore parlando delle restaurazioni, aveva usato questa frase:"«È una lettera di cambio, che ho sottoscritto a Villafranca:» "Al che l'altro interlocutore rispose: — «Non lo credo. L'Imperatore conosce il Codice di commercio, sa che vi è un titolo sul protesto delle cambiali. Questa tratta su noi se noi non la pagassimo, il portatore non andrebbe forse contra di lui? E notate, che non abbiamo fondi per accettarla. L'Imperatore non può essersi gettato in una speculazione così. rischiosa.» — È probabile, che il dialogo sia inventato, ma la invenzione dipinge benissimo la situazione delle parti; ciascuna adempie il suo compito, e la Costituente Toscana,pronunziandosi dopo di quelle rimostranze, espresse un voto, ch'era stato preceduto da tutti gli elementi di una piena e ponderata convinzione. Eppure questo voto non fu creduto sufficiente, tanto erano inesatte le idee, che oltre le Alpi si erano concelte del carattere, dei sentimenti, e delle aspirazioni degl'Avevano intanto i Governi della Toscana e di Modena provveduto alla sicurezza dei rispettivi Stati, convenendo una lega offensiva e difensiva, ed affidando il comando delle truppe ad un uomo, il cui solo nome vale una vittoria. Garibaldi era stato in Firenze, e nel 24 di luglio il Generale Ulloa avea di mandato la sua dimessione; il 15 di agosto questa dimissione dall'uffizio sin qui lodevolmente compiuto venne accordata, ed in quello stesso di un decreto composto di un unico articolo disponeva — «Il Maggior Generale già al servizio di S. M. Sarda Garibaldi Cavalier Giuseppe è nominato collo stesso grado Comandante la 2' Divisione dello Esercito Italiano».

Un ordine del giorno di Ulloa alla sua divisione chiarisce meglio la causa di quella dimissione.

«Soldati!

«Non è ancora molto tempo passato, ch'io domandava al governo, ch'egli mi accordasse la mia dimissione.

«Una lettera del Ministro BonCompagni mi espresse il suo dispiacere per l'avanzata dimanda, ed io desistetti da quella, e restai al mio posto, persuaso di avere ottenuto una soddisfazione al mio decoro.

«Oggi il Governo, trovato a me un successore, mi partecipa avere fatto dritto alla domanda mia.

«II Generale Garibaldi, del cui nome è minore ogni elogio. mi succederà nel comando.

«La mia truppa sarà certo degna di lui; io la lascio fiducioso dell'avvenire, e riconoscente pei molti segni di benevolenza, ch'essa mi ha dato».

Cosi quando i Rappresentanti della Toscana espressero al cospetto dell'Europa quali fossero i sentimenti di quei popoli sulla loro nuova vita politica, la Toscana aveva un'armata, che sotto un capo come Garibaldi bastava a rendere impossibile ogni tentativo di restaurazione con le proprie armi dai Principi decaduti.

Negli Stati di Modena si ripetevano gli stessi voti che nel Gran-Ducato di Toscana, ed avevano anche maggior fondamento di ragione, perché quel Principe era anche più impopolare del Gran-Duca di Toscana. Le elezioni vi erano riuscite soddisfacentissime così pel concorso degli elettori, che pei deputati eletti. Il Generale Cialdini aveva ricusato la candidatura, che gli aveva offerta il Comitato Elettorale di Reggio pei motivi, che si leggono nella lettera, che il di 11 agosto 1859 il Generale diresse da Castenedolo al Presidente di quel Comitato.

«Illustrissimo sig. Presidente, «Sono oltremodo riconoscente dell'onore, che mi fa la Città di Reggio nel ricordarsi di me e nel desiderarmi suo deputato alla prossima assemblea di Modena.

«Ma alla sventura, che mi fece vivere sempre lontano dal mio paese, io debbo aggiungere quella pur anche di non poter essergli di alcuna utilità né colla spada né colla voce negli attuali momenti, trovandomi legato al Re ed al Governo Piemontese per dovere militare e per debito di gratitudine.

«Creda la S. V. I., e creda la Città di Reggio, che si largo ed antico posto occupa nelle mie memorie e nelle mie affezioni, che io sono afflittissimo di non potere accettare l'onorevole mandato, che le piaceva di affidarmi.

«La prego, signor Presidente, di credere all'assicuranza della mia distinta considerazione.

Della S. V. Illustrissima.

Devotiss. obblig. Serro.

ENRICO CIALDINI».

Ed il Comitato sentì come tutti la forza e la delicatezza di quei motivi di scusa, che coincidevano a rendere sempre più libero ed indipendente il voto dei Modenesi.

Il 16 di agosto era il giorno destinato all'apertura dell'Assemblea Nazionale. Tutto era moto in Modena: la vita sociale vi appariva rigogliosa e superba:il pensiero politico assorbiva tutti gli uomini, e si manifestava in tutte le cose. La Città era ornata a festa, tutta la popolazione era sulle vie, la Guardia Nazionale e la Truppa di linea erano sotto le armi, facendo echeggiare l'aria degli allegri concenti delle bande militari: il suono delle campane, il fragore del cannone annunziavano inaugurarsi in quel giorno la Costituente Modenese.

Nella Metropolitana una Messa solenne era officiata dall'Arcivescovo di Modena, cui assistevano tutt'i 63 Deputati. All'una eglino entravano nella gran sala del Palazzo nazionale, e vi prendevano posto. Quella sala conteneva tutti gli spettatori, dei quali era capace.

L'Assemblea procedè immediatamente a costituire l'officio provvisorio.

Pochi momenti dopo entra il Dittatore Cavaliere Farini tra mezzo a clamorose acclamazioni. II Presidente provvisorio gli cede il suo posto, ed egli pronunzia tra il silenzio di tutti il seguente discorso: «Signori, «Voi siete adunati a Parlamento per deliberare con sovrana autorità sulle sorti di questo popolo, del quale siete i legittimi rappresentanti.

«Egli è perciò debito mio il rendervi ragione dell'uso della somma podestà, che mi fu data per voto dei Municipi.

«Ma perché la nostra causa si va agitando nel Tribunale della pubblica opinione, che nella sua maestà giudica popoli e principi, parrai degna ed utile cosa lo accennare innanzi tutto le cagioni, per le quali le Provincie Modenesi vennero a questo termine a cui oggi sono:

«I Duchi d'Este regnarono qui per volontà dei liberi Municipii, che stipularono patti d'inviolabili prerogative.

«I Principi non tennero fede, e Dio fece ministro dei suoi castighi la Rivoluzione francese, che fu ridotta a disciplina di governo civile dal primo Napoleone. In quel tempo le Provincie Modenesi fecero parte del Regno d'Italia, il quale avendo istituti di genio latino, soldati e Magistrali proprii, iniziò il rinnovamento civile e la preparazione dei futuri destini della Patria.

«Allora questi popoli vissero in buona soddisfazione col governo, e diedero ottima riputazione di sè, dell'ingegno, e del valore italiano. Ma caduto Napoleone furono dati quasi bottino di guerra ad un Principe Austriaco, ch'era figliuolo dell'ultima Principessa Estense.

«Francesco IV abolì i Codici Napoleonici e tutti i nuovi ordini, dannò la tolleranza e l'uguaglianza civile, spregiò l'ingegno ed il sapere, ebbe cura l'ignoranza e la selvatichezza, mitriò l'ipocrisia, molto avere guadagnò; sola legge la sua cupida ed ostinata volontà. (Bene! Bravo I Applausi unanimi.)

«Taccio i giudizii aspri e repenti, i supplizii, i confischi, le confiscazioni a causa o pretesto di Religione e di Stato; taccio il Trono macchialo, profanalo l'altare per la privilegiata licenza della stampa, consigliera di vendetta in nome dell'Altare e del Trono, dispensiera di calunnie in nome della verità. (applausi prolungati). I popoli liberi sono clementi; perdoniamo a. (Benissimo! Bravo!)

«La mala signoria continuò, timida prima, temeraria poi nel regno di Francesco V. Il padre aveva governato coll'aiuto delle baionette austriache; il figliuolo pei trattati del 1847 diede i Popoli, lo Stato, sé medesimo in balla della Corte di Vienna; regnò o governò colle verghe austriache per la sua Casa d'Austria. (Applausi prolungatissimi). Nemico d'ogni civile incremento e della nazionale indipendenza, fu nel 1848 portato via dal turbine popolare. Riportato dalle armi austriache, in sulle prime pauroso, promise ordini liberi; passate le paure, mancò di parola. (Bene! Bravo!). Quali ne fossero la vocazione, l'intelletto, l'animo, il costume di governo, è chiaro pei documenti, che andiamo pubblicando. Ne giudichi l'Europa (Benissimo!).

«Ricorderò le sue ultime gesta.

«Incominciata la guerra dell'indipendenza, si mise in apparecchio d'armi contro il Piemonte, contro l'Italia, contro i suoi Popoli, i quali avevano mandato 4000 volontarii a combattere per la libertà della Patria comune (Sensazione generale).

«Al primo rumore delle nostre vittorie fuggi perseguitato dalla mala coscienza, non dalle schiere vittoriose, (Fragorosi applausi) trascinando nel campo nemico i poveri nostri soldati, ai quali aveva promesso e ripromesso di non costringerli mai a scellerata guerra civile (Sensazione). Fuggendo, portò via dal pubblico Tesoro 690,000 lire, e lasciò a pagare i frutti delle cedole dello Stato e gli accatti delle sue e delle truppe austriache;. portò via gli ori, gli argenti, le gemme della Corona, le gemme e le medaglie dei Musei, i preziosi Codici, i preziosissimi manoscritti delle Biblioteche (Movimento generale). Non avendo né animo né forza per mantenersi in istato, fece ribelle chi mancasse di fede a lui per servire alla Patria, e condusse nelle rocche austriache a trofeo di domestica gloria ed a trastullo dei forzati ozii ottanta e più infelici prigionieri di Stato, condannati dalle Commessioni militari, che, lui regnante, ne condannarono 443 (Moto generale d'indegnazione). Andò nel Campo Austriaco; non si battè; vide la sua sconfitta a Solferino.» (Benissimo! Applausi frenetici).

«Poniamo a riscontro le inclinazioni ed il costume civile di questi popoli. Nel 1831 essi fecero novità non vendetta; nel 1848 perdonate le antiche e le fresche ingiurie, cercarono libertà ed indipendenza, decretando per suffragio universale l'unione all'onesta Monarchia di casa Savoia» (Bene!).

«Nel 1859 raffermarono il voto con chiarissime dimostrazioni di concordia, e lieti vissero in riposato ordine civile senza presidio di soldati.

«Giunta, quasi incredibile, la notizia dei patti di Villafranca, gli animi stettero sospesi, ma non caddero; il popolo fece a sicurtà col proprio dritto, e rinnovò con 90,000 suffragi il patto dell'onore con Vittorio Emmanuele e colf Italia. (Benissimo! applausi e grida generali: Viva Vittorio Emmanuele!) e Non uso io a corteggiare il popolo, debbo oggi attestare, che posto qui alla dura pruova dell'incertezza, esso fu ammirabile per la compostezza delle menti, per la gagliardia dell'animo, e per la severità del contegno. E nel giorno dei comizii frequenti per ogni ordine di cittadini, tanta fu la civile sollecitudine e la concorde disciplina che niutia maggiore tra i popoli delle più civili nazioni. Oh! Non andò adunque perduto per la educazione degl'Italiani il lungo insegnamento della sventura, non andò perduto l'esempio decenne del libero popolo subalpino (Benissimo!).

«Il governo del Re di Sardegna durò quaranta giorni. Decretò l'egualità civile e la libertà dei Municipii; istituì la milizia nazionale; riordinò i Tribunali; restituì in molti Comuni le Giurisprudenze; abolì la pena del bastone; armò i cittadini, pagò gl'interessi del debito pubblico, non pose taglie, non turbò coscienza. (Benissimo! Viva Vittorio Emmanuele!

«Non ho mestieri di dire a voi, o signori, per quali motivi accettassi dai Municipii la suprema autorità popolare dopo avere esercitato l'ufficio di Governatore pel Re di Sardegna.

«Ma perciò forse taluno, di qua lontano, ha portato giudizio poco equo su quella mia deliberazione, amo renderne pubblica ragione.

«Come seppi scritti i capitoli di Villafranca, avendo io stimato, che questi popoli verrebbero in necessità di reggersi colla virtù e colla forza propria, mi risolsi subitamente a rassegnare la carica a S. M. per acquistare piena libertà del consiglio e delle opere mie. (Bravo!) E perciò Modena e Reggio mi avevano onorato della cittadinanza, sembrandomi cosa poco degna lo andarmene quando sopravvenivano le difficoltà ed i pericoli, feci il proponimento di rimanere, e nol tacqui agli amici. (Bene!) Allora mi fu offerta la dittatura. Poteva io dopo avere avuti gli onori e le consolazioni, onestamente rifiutarmi alle fatiche ed ai sacrifizii?

«Chi ha cuore mi giudichi; mi giudichi chi, al paro di me, si è. votato all'Italia, e l'ha servita dove nacque, dove migrò, dove fu sconosciuto, dove fu onorato, amandola così nei lunghi giorni della sventura, come nei brevi della gioia. Chi l'ha amata e servita sempre non l'ha adulata mai. (Applausi prolungati). Il rifiuto mi parve una viltà; presi consiglio dal cuore ed accettai. Accettai, avendo fede nella virtù dei popoli, nei destini dell'Italia, nella giustizia della pubblica opinione, nel patrocinio dell'Europa civile. Ecco i miei, ecco i nostri segreti. I (Benissimo! Fragorosi applausi.).

«Dittatore mantenni l'ordine insidiato da pochi servili, custodito da tutti gli amatori del vivere libero; adunai i Comizii; ordinai soldati, diedi a pubblicare i documenti del malgoverno, condussi a termine le pratiche di una forte lega militare colle altre provincie italiane, che hanno colla nostra comune il dritto di vivere libere e di unirsi e riposare in nazionale assesto (Benissimo! Bravo I)

«Signori, ora a voi si appartiene il pronunziare sulle sorti future di questo popolo, che rappresentate, ed il costituire legittimamente la pubblica podestà, che in mano vostra rinunzio, e raccomando. A noi tutti, quanti nell'Italia centrale siamo intenti nel sommo fine della libertà e dell'unione della Patria, si conviene oggi il perserverare ordinati e concordi nella dritta via dell'onore, il quale nei duri partiti così degli uomini come delle nazioni è il più sicuro consigliero. (Benissimo) Perseveriamo dunque longanimi ma fermi, grati ai benevoli ufficii, ma insofferenti di prepotenza, pronti alle pratiche, ma pronti alle armi, disposti a dare all'Europa ogni ragionevole e giusta malleveria di ordine e di pace a patto che la libertà sia sicura, e che l'Italia sia degli Italiani. n (Entusiastici e generali applausi).

Il Dittatore esce dalla Sala accompagnalo dai Direttori dei Ministeri e dall'uffizio provvisorio: Questo rientra, e Chiesi, Ministro di Grazia e Giustizia dichiara, l'Assemblea Nazionale delle Provincie Modenesi essere e rimanere aperta. Uno dei Questori a nome del Presidente invita i Deputati a riunirsi il dl seguente alle nove per la verifica dei poteri, che per la mancanza di talune notizie non poteva cominciarsi immediatamente.

Grimelli, Direttore del Ministero dell'Istruzione Pubblica, chiesta ed ottenuta la parola,propone un indrizzo di gratitudine e di ossequio all'Imperatore Napoleone, e questa proposizione riscuote applausi generali e prolungatissimi. Indi un Deputato chiede dei chiarimenti sulla rassegna de'  poteri fatta al Dittatore, volendo sapere presso di chi rimaneva il potere esecutivo, ed uno dei Questori fa osservare, che la rassegna dei poteri non può farsi che ad un'Assemblea costituita, e quella riunita non era ancora tale per la mancanza della verifica dei poteri.

L'adunanza si scioglie.

Nella tornata seguente, nel leggersi il processo verbale della precedente seduta, il Grimelli dichiarò, che la proposizione da lui fatta di un indrizzo a Napoleone non era diretta ad un'Assemblea costituita ma ad un'accolta di cittadini, ch'escono dal suffragio universale. Indi furono costituiti gli officii, ed i Deputati vi si riunirono per procedere alla verifica dei poteri.

Nella tornata del 19 Agosto il Deputato Tosi fu autorizzato a leggere il progetto dell'indrizzo al Cavaliere Farini; l'indrizzo era questo:

«Signore;

«L'Assemblea Nazionale si è ieri legalmente costituita. Il primo suo atto fu quello di votarvi il messaggio, che noi siamo lieti di recarvi, perché sentiamo il bisogno di esprimervi la profonda nostra gratitudine pel bene da voi operato a pro di queste Modenesi Provincie, nelle quali il vostro nome suona come di ottimo,di benemerito cittadino, e d'insigne uomo di Stato.

«Aggiungete, Signore, un nuovo merito ai tanti, che vi procacciarono la devozione e l'amore di queste popolazioni, conservando l'esercizio del potere esecutivo fino a che l'Assemblea abbia definitivamente costituita l'autorità suprema.

«Il paese ha dato ai suoi rappresentanti solenne attestazione di fiducia, e Voi potete fare assegnamento sul concorso spontaneo ed efficace di ciascuno di noi.

«Le opere vostre, il vostro nome illustre ci sono garanti, che voi sarete autorevole interprete dei liberi e fermi nostri propositi, e saprete per ogni mezzo farli valere.» Il Presidente propose, che si approvasse puramente e semplicemente il testo del progetto d'indrizzo, ed annuente la Camera, e posto ai voti il detto indrizzo, venne approvato per acclamazione, e destinato l'Uffizio della Presidenza per recarlo al Dittatore.

Grinielli depone sulla tavola del Presidente il progetto dell'indrizzo a Napoleone, ed il Presidente propose riunirsi la Camera negli uffizii per deliberarvi.

Immediatamente il Deputato Fontanelli, chiesta ed ottenuta la parola, disse:

«A nome mio e degli onorevoli Deputati Conte Ancini, ingegnere Giuseppe Campi, Avvocato Luigi Carbonieri, Conte Carlo Cvbeo, Professore Getniniano Grimelli, Conte Emilio Lazzoni, Conte Bonifazio Rangoni lesti, Cavaliere Professore Francesco Selmi, Cavaliere Diego Vallisnieri, Professore Prospero Viani, Avvocato Luigi Zini, Dottore Giacomo Sacerdoti, domando, che l'Assemblea pronunzi la decadenza in perpetuo della Dinastia d'Austria"d'Este e l'esclusione in perpetuo dal reggimento di queste Provincie d'ogni e qualunque Principe della Casa Asburgo"Lorena. (Vivissimi, e prolungati applausi).

E la Camera ad unanimità decise di riunirsi subito negli Uffizii per deliberarvi e farne quindi rapporto all'Assemblea.

La tornata del 20 di agosto ebbe una importanza grandissima. Il pubblico, prevenuto delle gravi materie, che si avevano da trattare, accolse i Deputati nell'entrare della sala con vivissimi applausi. Dopo letti i verbali della precedente seduta, il Presidente diè comunicazione della risposta, che il Cavaliere Farini aveva fatto al Messaggio dell'Assemblea: «Onorevoli Signori; Ho ricevuto il messaggio, del quale l'Assemblea Nazionale mi ha onorato. Esso è per me un gran premio, è un gran conforto; è premio, che supera ogni merito; è conforto, che allena ad ogni prova.

«Non istudio parole di riconoscenza; crescono i miei obblighi verso il popolo modenese, e mi proffero di gran cuore ai suoi rappresentanti,

Servitore devoto»

FARINI»

Ed il pubblico applaudi vivamente, e quegli applausi dinotavano la concordia del volere e del sentire del governo e dei cittadini.

Indi Grimelli diè lettura del progetto d'indrizzo l'Imperatore Napoleone.

«Maestà:

«I rappresentanti delle Provincie Modenesi appena congregati in Assemblea sovrana, hanno vivamente sentito il bisogno di rivolgersi alla Maestà Vostra in atto di ossequio, di gratitudine, di fiducia.

«L'assemblea, quanto più riconosce in Voi quel Magnanimo, che intende ognora alla tutela pel diritto del debole, tanto più si rivolge confidente e grata all'animo generoso della Maestà Vostra, ben degna di reggere quell'eroica Nazione, la quale cosi in pace come in guerra, trovasi sempre all'avanguardia del civile progresso.

«Di tal guisa quest'Assemblea invocando il potente vostro patrocinio, intende perseverare con irremovibile costanza nel rinnovamento politico di queste Provincie sopra le solide basi dei sacrosanti dritti delle Nazioni, oramai addivenuti pel genio della Maestà Vostra il vero giure delle genti.»

Essendo stata la lettura di questo documento seguita da prolungatissimi o vivissimi segni di approvazione, il Presidente disse: «Dopo questi unanimi applausi io intendo, che il progetto d'indrizzo a S. M. Napoleone III testò letto dati' onorevole relatore sia approvato all'unanimità; tuttavia dichiaro aperta la discussione, ed ove nessuno chiegga la parola, lo dichiarerò approvato.» E poiché nessuno chiese la parola, l'indrizzo rimase approvato.

Allora fu letta la relazione per la decadenza della Dinastia d'Este. Dopo di avere riportato il messaggio di Farini crediamo poterci dispensare dal riferire quel documento. Esso fu accolto dai soliti entusiastici applausi, terminati i quali, il Relatore a nome della Commessione conchiuse:

«L'Assemblea Nazionale delle Provincie Modenesi:

«Considerando, che il dritto imprescrittibile dei popoli di costituirsi, troppe volte disconosciuto, è oggi ammesso da tutte le Nazioni civili, e forma ormai parte del dritto pubblico europeo.

«Considerando, che le popolazioni Modenesi soggettate nel 1814 dalla forza delle armi alleate alla Casa d'Austria d'Este hanno per quasi mezzo secolo sofferto da parte degli Arciduchi Francesco IV e Francesco l'i dolori di una mala signoria.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

SBARCO SU LE COSTE DI CALABRIA DI 250 UOMINI

comandati dai maggiori Misori e Cattabeni

«Considerando, che in questo lungo periodo di tempo il pensiero fu compresso, la giustizia conculcata, offesa l'umana dignità colla pena del bastone e delle verghe, torturati, esiliati, dannati all'ergastolo, messi a morte dalle Commessioni militari, rese permanenti, ottimi cittadini; soppressa ogni franchigia municipale, ultima reliquia dell'italiana libertà, il destino dei popoli abbandonato all'arbitrio dell'Austria, strascinati nelle di lei prigioni i nostri detenuti politici, i nostri soldati contra la data fede condotti nelle schiere nemiche e spinti a guerra fratricida;

«Considerando, che tali atti ritornano il popolo nel pieno dritto di provvedere da sé alla futura esistenza politico-civile; a Considerando, che la Dinastia d'Austria d'Este dall'anno 1814, quattro volte cacciala da questi Stati e tre volle ricondotta dall'armi straniere, è incompatibile coll'ordine pubblico e col gran principio della nazionalità italiana; a Considerando, che non è nemmanco compatibile nelle stesse provincie il regno di chi per ragione di famiglia o di trattali pretendesse succederle, perché stranieri essi pure ed avversi alla indipendenza ed al bene della nazione italiana; a Decreta Francesco l'd'Austria d'Este è decaduto dalla sovranità degli Stati Modenesi.

«È esclusa in perpetuo dal reggimento di queste provincie sotto qualsiasi forma la Dinastia d'Austria d'Este e qualunque Principe della casa d'Asburgo Lorena. n È inutile il dire gli applausi, che seguirono questa lettura; quando essi cessarono, il Presidente annunziò esser aperta la discussione sulla proposta della Commessione, aggiungendo, che la metterebbe ai voti, se niuno chiedesse di parlare.

Sulla proposta di alcuni Deputati l'assemblea decise, che prima di devenirsi allo squittinio segreto si procedesse alla votazione pubblica per isquittinio di divisione. Dei 73 Deputati eletti erano assenti Fanti per ragione di servizio e Falloni. I 71 Deputati presenti approvarono, ed essendo sopraggiunto Falloni, approvò anch'egli. Quindi essendosi proceduto allo squittinio segreto,72 palle nere uguali ai 72 Deputati presenti furono trovate nell'urna. Non è da dire quali e quanti furono gli applausi, quando il Presidente ripeté solennemente: Francesco l'd'Este essere decaduto dalla Sovranità degli Stati Modenesi, ed esserne in perpetuo esclusa sotto qualunque forma la Dinastia d'Austria d'Este e qualunque Principe della casa d'Assurgo Lorena.

Ma le emozioni non erano cessate:

«Il Deputato Mararnotii, dice il Presidente, ha la parola» "; ed il Deputato Maramotti dichiara, che a nome suo e di quattordici altri Deputati proponeva all'Assemblea il seguente Decreto:

«L'Assemblea generale delle provincie Modenesi:

«Considerando, che il governo costituzionale di Vittorio Emmanuele II, Re generoso e leale, è quello, intorno a cui debbono stringersi tutti coloro, che vogliono l'indipendenza e la libertà dell'Italia; a Considerando, che l'unione a quel forte regno è consigliata alle provincie Modenesi anche dalla loro posizione geografica e dai materiali loro interessi;

«Considerando, che i voti universalmente espressi in mille solenni modi e con oltre 90,000 soscrizioni dalle provincie Modenesi hanno manifestato chiaramente come sia da tutti sentita la necessità di questa unione;

«Decreta «L'annessione delle provincie Modenesi al Regno Monarchico Costituzionale della gloriosa casa di Savoia sotto lo scettro del Magnanimo Re Vittorio Emmanuele II.» La proposta, presa in considerazione all'unanimità è rimessa agli uffizii per esservi discussa, e la Camera si aggiorna in seduta pubblica pel di seguente.

Nella tornata del 21 Agosto il Deputato Avvocato Bartolucci, relatore della Commessione, ottenuta la parola dal Presidente, si alza e dice:

«Signori!

«Dopoché l'Assemblea sovrana di queste provincie con mirabile unanimità di suffragi ha proclamato la decadenza della Dinastia Austro Estense, un nuovo importante dovere, o Signori, ci corre, di provvedere diffinitivamente e nel modo più sollecito al futuro nostro Reggimento. A questo tende la mozione, che l'onorevole Deputato Maramotti a nome anche di parecchi altri colleghi, ieri fece per l'annessione di questi Stati al Piemonte, e sulla quale la Commessione incaricata di farne l'esame mi diede l'onore di riferire all'Assemblea il suo parere.

«Se noi consultiamo la storia, il sentimento nazionale, i nostri interessi economici e politici, le nostre simpatie ed aspirazioni, l'amore e la riconoscenza, che ci lega ad un Re magnanimo e leale come Vittorio Emmanuele II, io credo che non vi sia da stare un momento in forse sul partito da prendersi.

«L'illustre ed antica casa di Savoia, italiana d'origine, fu e si mantenne sempre tale negl'interni ordinamenti del suo Stato e nelle sue relazioni all'estero. Le stesse guerre sostenute in antico avevano uno scopo nazionale italiano, quello dell'unione di popoli fratelli, che lo straniero studiossi mai sempre di tenere divisi e frastagliali, cosicché può dirsi, ch'ella fu anche nei remoti tempi il baluardo della nostra nazionalità.

«Dopo il 1815 le tendenze e le cure di questa casa non mancarono alle famigliari tradizioni ed al fermo proposito di rigenerare la nazione col farsene la legittima protettrice.

«La storia ha già registrato gli sforzi immensi della diplomazia sarda per frenare la cupida e prepotente influenza austriaca. E le gloriose, sebbene sfortunate guerre del 1818 1849, che diedero tanti martiri all'indipendenza, quella di Crimea, che procacciò alla Sardegna il merito di sedere nei Consigli delle primarie Potenze Europee, onde difendere e fare valere i dritti dell'Italia, e le ultime battaglie così splendidamente sostenute al fianco del generoso alleato di Francia, e i liberi ordini interni mantenuti saldi e progredienti di fronte a mille ostacoli di un partito reazionario, sono altrettanti argomenti irrefragabili dello studio, onde quella illustre Casa cercò la nostra politica ri. generazione e nazionale indipendenza.

«Sotto questo aspetto pertanto esaminata la proposta di legge, la Commessione non esitava dal dichiarare, ch'essa rispondeva egregiamente alla suprema. delle necessità dei popoli italiani ed in special modo delle provincie Modenesi.

«Ma per noi vi era dippiù. La pace di Villafranca, che venne a troncare in mezzo un'opera cosi gloriosamente iniziata, portò al Piemonte una delle più fertili e ricche parti d'Italia, la Lombardia. Prescindendo da ogni considerazione geografica che pure non è da trascurarsi nella formazione degli Stati, sono noli a tutti quali e quanti rapporti di sommo interesse territoriale e commerciale ci legano con questa nuova aggregazione a quel Regno, per tacere di quelli, che già preesistevano fra la popolazione di oltreappennino e la Liguria. Noi pure facciamo parte della ubertosa valle bagnata dal Po, ed il naturale sfogo dei prodotti, di cui abbondiamo, come l'emporio per procurarci i mancanti, lo troviamo nella Lombardia. Un diverso assestamento di cose sarebbe fatale alle nostre proprietà del pari che alle nostre industrie, che sentono estremamente il bisogno di progredire sotto il regime di larghe istituzioni, tosto che saremo immedesimati con un popolo, col quale si ha tanta comunanza di relazione e di affetti.

«Nulla dirò degli ordini liberali, che regnano nel Piemonte, e della sicurtà, onde ci saranno mantenuti, poiché fra i tanti governi italiani promettitori di libertà e sempre mancatori, egli solo, il Piemonte, si conserva irremovibile nelle date riforme e nella via del civile progresso, cosicché guadagnossi il rispetto delle Nazioni più potenti e la fama di Stato modello.

«Anche da questo lato dunque la Commessione non poteva, che proporvi l'adozione del progetto.

«Un convincentissimo argomento inoltre noi ab biamo nella volontà in mille modi manifestata da queste popolazioni. Ognuno ricorda come al grido della guerra d'indipendenza nel 1818, appena fummo abbandonati dal già Duca Francesco V, i nostri prodi volontarii e soldati si portassero al campo, affratellati ed uniti ai Sardi per combattere il nemico comune. Ognuno rammenta come spontaneo, universale e solenne fosse il patto di dedizione alla Dinastia Sabauda, che in quel tempo di libera vita pronunziarono questi popoli, sanzionato dalla presa di possesso per parte di quel governo, e riconosciuto dall'Austria stessa colla rinunzia, che volle strappargli dopo la fatale gior nata di Novara. Ognuno rammenta come al ritorno della tirannide quel palio si confermasse coi patimenti e coi patiboli, e come la brava e generosa gioventù nostra dal Gennaio scorso in poi accorresse in gran numero a reclutarsi nell'armata sarda, sfidando lo minacce ed i rigori delle pene. Tutti sanno in fine le centinaia d'indrizzi e le migliaia di sottoscrizioni di ogni classe della Società resi pubblici all'Europa in conferma di un voto ormai scritto indelebilmente nel cuore di tutti.

«La Commissione, o Signori, crederebbe di mancare ad un sacro ed insieme patriottico dovere, se in virtù di questi fatti non vi proponesse l'adozione della proposta di legge in esame nei termini qui sotto espressi, che richiamando a vita le precedenti dedizioni, portano la conferma di un voto ed il mantenimento ad ogni costo di un patto, che la giustizia di Europa vorrà rispettare pel bene e felicità di queste popolazioni, come crederebbe di violare un sentimento di riverente e profonda gratitudine verso il solo Principe Italiano benemerito della Nazione, il valoroso e magnanimo Eroe Vittorio Emmanuele II.»

E la legge proposta si era:

«L'Assemblea generale delle provincie Modenesi: «Considerando, che il Governo costituzionale di Vittorio Emmanuele II, Re generoso e leale, è quello, intorno a cui dobbiamo stringerci per ottenere la nostra indipendenza e libertà.

«Considerando, che l'unione a quel governo è consigliata alle provincie Modenesi dal bisogno di costituire un forte regno in Italia, dalla loro posizione geografica e dai materiali loro interessi:

«Considerando, che pei voti universalmente espressi dalle provincie Modenesi nel 1848 con un solenne alto di dedizione furono le medesime aggregate ed incorporate al Regno Sardo, e cessarono solo di farne parte per la prepotenza delle armi straniere;

«Considerando,che questi voti costantemente nutriti malgrado della più dura pressione e delle più sfavorevoli condizioni politiche furono nel 1859 manifestati in un modo anche più solenne ed irrefragabile coll'invio di migliaia di volontarii alla guerra della indipendenza e con oltre 90 mila soscrizioni;

«Considerando, che questi voti così splendidamente proclamati ebbero di nuovo il loro adempimento dalla metà dell'ultimo scorso giugno sino alla stipulazione dei patti di Villafranca, i quali rimettendo queste provincie in balia di loro medesime, le collocarono nella necessità di provvedere ai loro futuri destini;

«Decreta

«Di voler confermata e mantenuta a costo di qualunque sacrifizio l'unione delle provincie Modenesi al Regno Monarchico costituzionale della gloriosa casa di Savoia sotto lo scettro del magnanimo Re Vittorio Emmanuele II.

È inutile qui di ripetere come la sala rintonasse di applausi frenetici, prolungati, sinché il Presidente dichiarò aperta su quella proposizione la discussione, soggiungendo, che se nessuno avesse dimandata la parola, si sarebbe proceduto alla votazione: — «Però, prosegui, debbo rammentare al pubblico, che non può dare maggior saggio del suo senno politico e dell'amore sviscerato, che porta alle nostre nascenti libertà oltre a quello di assistere nel più profondo silenzio e senza veruna interruzione alle deliberazioni nostre. Comprima il pubblico, come ci sforziamo noi, suoi Rappresentanti, di comprimere la piena degli affetti, ed avremo una discussione solenne. Nessuno Deputato avendo chiesta la parola, si procederà alla votazione al modo adottato ieri dall'Assemblea. Quindi rimane inteso, che chi intende approvare il decreto di aggregazione alla Sardegna, risponderà all'appello colla parola — approvo; chi intende respingerlo, risponderà colla parola — respingo.» ". E chiamato l'appello nominale, tutt'i '72 Deputati approvarono. La votazione per squittinio segreto diè naturalmente lo stesso risultamento. Allora il Presidente alzatosi in piedi proclamò la deliberazione dell'Assemblea, ripetendo con forte voce le parole dell'articolo del Decreto, ed appena terminato, elevando il braccio destro, gridò: Viva il Re! Quel grido è istantaneamente ripetuto nella sala, nelle tribune, e migliaia di voci acclamarono coll'entusiasmo di un fervidissimo voto compiaciuto la deliberazione della costituente modenese.

Calmatasi la effervescente commozione del decreto di annessione, il Deputato Lucchi propose confermarsi Dittatore il Cavaliere Farini con pieni poteri e con facoltà di valersi di tute i mezzi, che saranno necessarii a mantenere intero tanto nell'interno che nell'estero il dritto della sovranità nazionale, di rappresentare degnamente l'autorità sovrana, e di fare ogni opera per conseguire il fine delle irrevocabili deliberazioni dell'Assemblea, e questa proposizione essendo stata presa in considerazione, l'Avvocato Zini ne fece un'altra, per la quale si dava facoltà al Dittatore di contrarre nei modi più opportuni sia all'interno che all'estero un prestito di cinque milioni. Codesta proposizione fu presa in considerazione come l'altra, ma sulla mozione dello stesso Zini la seduta pubblica fu aggiornata dopo due giorni onde si potesse maturamente deliberare negli unii coll'intervento del Ministro delle Finanze sul progetto del prestito. E nella tornata dei 23 di agosto l'una e l'altra proposta dopo relazione dell'Avvocato Folloni furono all'unanimità approvate, osservandosi nella relazione, che se nelle facoltà della dittatura era quella di contrarre il prestito, la esplicita dichiarazione dell'Assemblea ne rendeva più agevole la contrattazione, accrescendo la sicurtà dei prestatori.

Dopo tali deliberazioni l'Assemblea si prorogò per essere convocata quando il Dittatore lo credesse opportuno. o quante volte l'urgenza degli eventi lo rendesse necessario.

Tale fu il risultamento della Costituente Modenese.

Quei deputati erano stati nominati dalla quasi totalità degli elettori, perocché in 73 collegi elettorali e sopra 24508 Elettori iscritti 21918 presero parte alla elezione, vale a dire ne mancarono poco più del decimo, ed un declino ben può mancare per infermità, per grave età, ed altri fisici impedimenti.


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CAPITOLO VIII

La Costituente Romagnola. L'annessione delle Romagne.

SOMMARIO

Legge elettorale nelle Romagne — Notificazione dell'intendente di Bologna — Circolare dell'Interno — Il 28 di agosto è destinato per la riunione dei Collegi elettorali ed il I.° di settembre per la riunione dell'Assemblea. Manifesto del 2'l agosto — Le elezioni procedono calme ed affollate — Riunione dell'Assemblea Romagnola — Discorso del Governatore — Tornata del 2 di agosto. Relazione del Gerente l'Interno — Riscuote molti applausi — Minghetti è eletto Presidente. Suo discorso — Legge la proposta di sottrarsi le Romagne al governo temporale del Papa — È presa in considerazione all'unanimità — Nella tornata del giorno 6 è adottata — dichiarata l'annessione al Piemonte.

 Decorsa la prima decade di Agosto o in quel torno il Monitore di Bologna pubblicava la legge elettorale, per la quale si disponeva formarsi le liste elettorali in dipendenza del Decreto dei 20 Luglio 1859 relativo alle elezioni comunali. Vi sarebbe stato un Deputato per ogni 8000 abitanti, e l'Assemblea sarebbe stata riunita per costituire il potere esecutivo e per esprimere i voti delle Romagne sulle loro sorti future. E tre o quattro giorni dopo l'intendente della Città e Provincia di Bologna emanava la seguente notificazione.

«Se vi ha titolo di gloria, che dalla massa del popolo risalga agli uomini, che gli avvenimenti portarono a capo del governo, quello si è certamente di avere mantenuto intatto nel paese l'ordine più perfetto e di avere preservala la rivoluzione non solo da quegli eccessi, che dieci anni della più fiera oppressione avrebbero fatto temere, ma altresì da quelle turbazioni, che quasi sempre conseguitarono qualunque mutamento politico.

«Mentre tale splendido risultato, il quale fu testimonio del senno e della maturità civile di questo popolo, deve rassicurare completamente tutti coloro, che giustamente ravvisano nella conservazione dell'ordine il fondamento più solido della libertà, il Governo non deve riposare con troppo abbandono nella fiducia, che il paese gl'ispira, né perder d'occhio coloro, che per tristizia d'animo, per cieca passione o per semplice effetto d'ignoranza, valendosi della loro autorità e carattere, tendessero a perturbare gli animi o a sollevare dubbii e timori al fine d'intralciare o rendere inefficaci quegli alti, ai quali si dispone il paese colla scelta dei proprii rappresentanti all'Assemblea generale.

«E siccome importa altamente al Governo, che il paese stesso a ciò intenda nel modo più spontaneo ordinato e dignitoso, che far si possa, onde il voto di detta rappresentanza sia il più solenne ed autorevole in faccia a queste popolazioni ed all'Europa, così il governo è fermamente risoluto di agire con tutta la severità delle leggi vigenti contro i perturbatori dell'ordine e della più perfetta sollecita espressione del voto nazionale.

«A questo pertanto ognuno intenda con calma e con dignità, sicuro, che il Governo non risparmierà alcuno di quei mezzi, che ponno avere per effetto di assicurare a tutti indistintamente il pieno e libero esercizio di quei dritti, nei quali oggi è principalmente riposto il nostro avvenire.» Ma l'espressione più completa del concetto del Governo e dei sentimenti, che tentava di fare prevalere nelle elezioni sono espressi nella Circolare, che il Gerente la Sezione dell'interno colla data dei 22 di Agosto 1859 diresse agl'Intendenti, ai Sotto-Intendenti, ed alle Commessioni municipali delle Romagne.

«Signori;

«Ecco, che si approssima il giorno, in che le no. sire popolazioni hanno da compiere uno degli atti più gravi della loro rigenerazione. Hanno da eleggere i Deputali all'Assemblea, che sarà interprete e banditrice dei nostri fermi propositi, dei nostri sacrosanti dritti in faccia all'Italia ed all'Europa intera.

«Allorché le vittorie del Re Galantuomo e del suo poderoso alleato astringevano l'Austriaco oppressore ad abbandonare all'improvviso queste contrade, le Romagne si levarono come un uomo solo, e convertendo le mal represse e lunghe voci di dolore in grido di guerra allo straniero, le Autorità Pontificie, che durante la dura occupazione militare qui avevano retto solo di nome, tessero il posto stupefatte e confuse davanti a quel risorgimento unanime ed universale. Quella fu la prima, le immediata e spontanea protesta di queste provincie, le quali mentre inviavano la gioventù animosa alla guerra della indipendenza, dichiaravano cessata la mala signoria clericale, ed acclamavano l'adesione al regno subalpino.

«Varie ed arcane ragioni, che a noi non è dato di scrutare, fermarono gli eserciti in mezzo ai più splendidi trionfi, e troncarono il voto alla vittoria, che doveva piantare l'italico vessillo sull'Isonzo. Sbalorditi ed addolorati nel più vivo dell'animo rimasero gl'Italiani tutti, perché da anguste labbra era uscita la generosa parola: Clic non cesserebbe la guerra sino a che l'Italia dalle Alpi all'Adriatico, non fosse libera ed indipendente.

«Ma però in mezzo a quell'amara sorpresa gli Stati dell'Italia centrale compresero tosto, che le sorti loro non erano decise, e che grave e nobile còmpito era serbato al senno, all'energia e fermezza di queste popolazioni. Napoleone III aveva detto nel suo proclama di Milano: oggi tutti soldati per essere domani liberi cittadini. E quindi la prima idea, che si affacciava spontanea alle menti, e diffondevasi come elettrica scintilla nell'universale, fu quella di esprimere popolarmente con cittadine sottoscrizioni la incompatibilità dei dominatori passati ed il voto fermo e costante di queste contrade. Ciò che praticavasi in Toscana, a Parma, a Modena, aveva luogo anche nelle Romagne, e le centinaia di migliaia di firme, che si veggono nei registri, dicono abbastanza eloquentemente al mondo cosa pensino e cosa vogliano le nostre popolazioni. Quella votazione generale nazionale dell'indrizzo a Vittorio Emmanuele, a Napoleone III ed alle Potenze di Europa, cui sottoscrissero concordemente le città, i borghi, e le campagne, fu la seconda dichiarazione e protesta, che spressero le Romagne.

«Ma ora ci resta a compier la terza e più rilevante di tutte, che pigliando la forma di quella legalità, che si pratica tra i popoli civili e liberamente costituiti, ha da riuscire come la riprova, il suggello dei nostri fermi ed inalterabili proponimenti. E siccome questa riprova dev'essere solenne, deve avere un pondo grandissimo nei consigli di Europa, così importa, che da un lato sia coscienziosa ed assennata, dall'altro abbia il voto generale di ogni ordine di cittadini. Per questo il governo, come sapeva di rendersi interprete dell'opinione pubblica, chiamando a votare tutt'i cittadini atti ad intenderne l'importanza, così oggi fa appello alla stessa pubblica opinione perciò tutti i chiamati concorrano con frequenza nei Collegi elettorali a compiere il nobile mandalo.

«Oggi fra noi non vi può essere divisioni di classi o di partiti, mentre la generalità dei cittadini vuole la stessa cosa; cioè un governo libero e nazionale. Vi ha egli infatti un paese al mondo, dove i disordini, gli abusi, la dissennatezza del governo passato fossero più riconosciuti e detestati da ogni ceto, che non erano qui nelle Romagne? Vi ha un paese al mondo dove fosse divenuto impossibile al governo di durare senza stato di assedio ed occupazione straniera come queste provincie? Vi ha un paese, che abbia maggiori titoli alla libertà ed alla indipendenza nazionale di questo, dove dal 1815 in poi il grido di Patria e libertà riempì tante volte d'entusiasmo le popolazioni?

«Ebbene; conquistiamoci questa volta per sempre il diritto di essere liberi ed Italiani. Proclamiamo questo dritto altamente e solennemente in faccia all'Europa, che ora ha intenti gli occhi sull'Italia centrale e sulle Romagne; e le ragioni della giustizia della legge morale, dell'opinione pubblica trionferanno.

«I nostri deputati al campo udirono con orgoglio, dalla bocca del Re Vittorio Emmanuele e dall'Imperatore Napoleone, che la gioventù romagnola aveva colta la palma tra i più valorosi degli eserciti alleati. Un grande Ministro d'Inghilterra, lord Russell non ha guari nel Parlamento, encomiando l'ordine, la calma, la concordia di queste provincie dopo la loro emancipazione, dichiarava, che si resero degne dell'ammirazione dell'Europa. Or bene se il valore dei nostri giovani volontarii, se la compostezza delle nostre città si meritarono già un così invidiabile elogio, ora ogni cittadino col suo voto dimostri al mondo, che siamo maturi a libertà, che sappiamo esercitare il dritto più nobile di un popolo, quale si è di fondare il governo che vuole, e decidere delle proprie sorti.

«Mostriamoci al mondo dignitosi e fiduciosi, e rendiamoci ben certi, che i Potentati Europei ne apprezzeranno il valore. Passato è il tempo, in che la politica guardava solo ai titoli delle dinastie, e i dritti del popolo poneva in non cale. È passato, perché la civiltà moderna è pervenuta a tale, che i Protocolli e gli atti della Diplomazia non possono più evitare il giudizio della pubblica opinione. E d'altronde l'esperienza di mezzo secolo ha istruito gli uomini di Stato anche i più caparbii e ricalcitranti quanto mala prova abbiano fatto i Capitoli di Vienna. Mentre oggi comprendono anche i Regnanti, che l'Europa è stata un focolare di rivoluzione negli ultimi quarant'anni appunto perché in quel consesso del 1815 i dritti dei popoli vennero duramente conculcati. Per questi motivi noi abbiamo veduto la Diplomazia rendersi mano mano a far ragione ai dritti dei Belgi, dei Greci, della Penisola Spagnuola, e da ultimo anche dei Rumeni. Or via ciò, che due anni fa i potentati europei acconsentivano ai Principati Danubiani, vorranno negarlo alla patria delle arti belle, delle scienze, e del dritto? Alla madre della coltura e dell'incivilimento?

«E forse la Diplomazia e l'Europa ignorano i nostri giusti titoli e le nostre ragioni? La Diplomazia sin dal 1831 penetrandosi dei bisogni, dello spirito, della civiltà delle Romagne, domandava alla Curia romana riforme profonde e radicali, che furono promesse ma non mantenute. La diplomazia le reclamava di nuovo nel 1849, di nuovo a Portici venivano acconsentite, e poi erano delusi i popoli ed i Gabinetti nella loro aspettazione. La diplomazia nel 1856 al congresso di Parigi proponeva una separazione amministrativa e politica di queste provincie dal Governo clericale di Roma, e tale dimanda restava di nuovo senza effetto.

«Ed intanto l'occupazione straniera durava, e la condizione innormale dei nostri paesi, da tutta Europa riconosciuta, diveniva la scaturazione prima della guerra. La guerra è succeduta, la Francia e l'Italia hanno vinto, e dopo le nostre splendide vittorie dovrà la diplomazia acconsentire occupazioni militari novelle per sostenere colla forza materiale un ordine di cose incompatibile coi voti, coi bisogni, colla civiltà di questi popoli, riprovato dalla giustizia naturale, inconciliabile coi dettami del Vangelo? Sarebbe dessa una di quelle contradizioni, che offendono il senso comune, e che l'opinione pubblica non potrebbe ammettere né tollerare.

«Il governo clericale o non ha voluto o non ha potuto rigenerarsi non ostante le rivoluzioni più volte rinnovate; non ostante i consigli e gli stimoli più stringenti della diplomazia, non può sussistere senza l'occupazione delle armi straniere; non potrebbe mai colla sua forza rialzare il potere abolito nello Romagne; dunque l'incompatibilità di esso con queste provincie è ineluttabile e manifesta. Tale convinzione, che da parecchi anni è radicata negli animi di tutti qui nelle Romagne, si dilatava di già nella pubblica opinione europea, ed oggi entra anche nello spirito e nei concetti della diplomazia.

«Votiamo dunque concordi, animosi e fidenti, come facevano non ha guari i Toscani ed i Modenesi, e come faranno in breve i Parmigiani e Piacentini, votiamo numerosi e concordi, e poi a simiglianza dell'Assemblea fiorentina affidiamo il nostro voto alla protezione generosa di Napoleone III il quale non può dimenticare, che il suo trono fondavasi sulla base del suffragio popolare; alla simpatia dell'Inghilterra, ch'è patria antica del dritto individuale e della libertà cittadina; alla giustizia dell'Europa, la quale riconosce oggimai, che l'Italia ha dritto di sedere anch'essa al banchetto delle Nazioni libere ed indipendenti.

«Bologna 22 agosto 1859.

Il Gerente la Sezione dell'Interno

«A. MONTANARI»

Il di 1 di settembre era il giorno destinato per la riunione dell'Assemblea nel palazzo dell'Accademia delle Belle Arti. ed il giorno 28 di agosto si riunivano i Collegi elettorali; il giorno prima l'Intendente di Bologna pubblicava un proclama agli elettori, col quale ricordato come nel dl seguente si sarebbero uniti i Comizii elettorali ed avrebbero deciso della sorte del paese, ed avvertito come non v'ebbe mai momento più solenne di quello, e come quel popolo dopo tante angustie sofferte potesse alla pur fine manifestare la sua volontà all'Europa e fare udire la propria voce, soggiugne:

«Potrei dire ciò, che queste popolazioni respingono irrevocabilmente, e ciò, a cui aspirano con tutta la intensità di un volere concorde ed universale. Ma ben altro dovere a me spetta di compiere presso di voi, e quando l'Europa, ora indifferente, ora ingiusta, ora armata contro di noi, ci rivolge finalmente lo sguardo, e s'interessa del nostro avvenire, commossa da questo mirabile spettacolo di concordia e di unione, chi presiede al Governo non ha più che un solo ufficio da soddisfare; far sì che voi stessi compiate l'opera vostra, e provvedere in modo, che il voto pubblico scaturisca largamente e liberamente dalle viscere del paese.

«Ciò che potrei temere in questo momento come il più grave danno si è, che il paese stesso rimanesse al di sotto di sé medesimo; che i cittadini non abbastanza illuminati sul proprio conto, non accorressero tutti a deporre il proprio voto, e che una voce sola dovesse mancare a quella, che è per sollevarsi unanime e maestosa dalla massa intera di queste popolazioni.

«Ma ciò sarebbe un dimenticare il vostro passato, i ripetuti sforzi, i duri sacriflzii, i nobili intendimenti, pei quali oggi alla fine il mondo vi fa giustizia, e l'Europa civile vi accoglie amica e benevola fra le sue braccia. i «E l'Europa sanzionerà?opera vostra. Perché a voi dovrà questo novello benefizio di avere fatto scomparire da questa terra le ultime vestigie del medio evo; di avere mercé vostra, la vostra moderazione, ed il vostro senno, ricuperato all'età presente ed alla società moderna questa parte nobile, intelligente esfortwaatissima della famiglia italiana.

«Bologna 27 agosto 1859.

«L'Intendente A. Nanuzzi.»

Ed il 28 di agosto il Monitor annunziava come le elezioni procedessero calme e cri gran concorso di elettori: — «Bello e consolante, diceva quel Diario, oltre ogni dire è lo spettalo, che presenta in questo giorno la città nostra. — La popolazione si affrettava operosa ad accorrerei rispettivi collegi, e l'ordine pubblico non era in alcun modo turbato; quell'accordo dei cittadini in fatto, nel quale sono in giuoco le più forti passioni e i più vitali interessi, era indizio certissimo dell'unamità del pensiero e delle aspirazioni. Vedremo nel deliberazioni dell'assemblea quale fosse il prodotto di queste elezioni.

E difatti il 1° di settembre la Città era parata a festa. Alle 9 a. m. schierava sulla Piazza S. Petronio un reggimento di truppe di linea ed un buon numero di Guardie nazionali bella tenuta. Come nelle altre città d'Italia lo sparo delle artiglierie ed il suono delle campane annunziano i Deputati preceduti dal Corpo governativo procedere dal Palazzo pubblico alla Basilica Pretoriana gli applausi della popolazione. Compiuta la cerimonia religiosa, essi si avviavano in eleganti equipaggi l'accademia di Belle Arti ove già tutti coloro, che erano potuto procurarsi biglietti, avevano sempre il loro posto. Riunita l'Assemblea, il deputato Zanniini, il più vecchio di età, occupò la sedia della Presidenza, ed il Governatore Cipriani con brevi paro imprese a dire:

«Signori;

«I popoli delle Romagne po di avere data mirabile prova di saviezza civile col contegno tenuto in questi tre mesi, ne hanno la altra più grande di senno politico accorrendo i comizii elettorali. Spetta ora a Voi, legittimi rappresentanti del paese, l'esprimerne i voti. Il gerente l'Interno vi esporrà la buona condizione di queste provi e quanto esse debbano alle Giunte ed al Commesso del Re. Nel breve periodo del mio governo tal risultato è dovuto intera. mente allo zelo degli uomini, che mi chiamarono colla loro elezione. Dal canto mio nulla ho trascurato per corrispondere alla fiducia posta in me.

«Più specialmente mi sono applicato a provvedere alla difesa del paese contro qualunque aggressione, ed a tale scopo ho stretto vincoli difensivi coi paesi limitrofi.

«Signori,

«Manifestate sicuri ciò, che il paese vuole. Costituite il potere ed affidatelo a chi possiede la vostra intera fiducia, a chi possa identificarsi coi voti da voi espressi, ed adoprarsi a farli trionfare.

«Per questo egli dev'essere forte della forza, che proviene solamente dal consenso universale.

Terminato il Governatore di parlare l'assemblea decise, si procederebbe alla verifica dei poteri e si riunirebbe in seduta pubblica il giorno seguente. Il 2 di settembre il Gerente l'Interno professore Montanari lesse il Resoconto, che trascriviamo, come uno di quei documenti, che meglio di ogni narrazione e con maggiore autenticità esponei fatti ed i concetti degli uomini, ch'erano alla testa delle popolazioni romagnole.

«Signori Deputali;

«Il governo, che affrettava col più vivo desiderii questo giorno solenne, è orgoglioso di trovarsi ora tra voi, che eletti dal popolare suffragio, siete chiamati a deliberare sulle sorti future del nostro paese.

«Le condizioni politiche, nelle quali ora versa la Patria, derivano da svariate, profonde ragioni ben note a voi non solo, ma all'Italia ed al Mondo. Bologna e le principali città delle Romagne, quantunque sotto il dominio della Santa Sede, godettero in antico di franchigie municipali molto larghe. E dopo la grande rivoluzione francese, che in tanta parte d'Europa sostituiva agli ordini del Medio Evo un nuovo convitto sociale, queste Provincie fecero parte del Regno cr Italia, e quindi si assuefecero all'amministrazione regolare, ai Codici sapienti, all'uguaglianza civile, alla prevalenza del merito, che furono le prerogative di quel potere rigeneratore, e ché formano tuttavia la più grata reminiscenza dei nostri vecchi (Bravo!)

«Dopo la ristaurazione del 18151e Romagne furono rendute alla Corte Romana, la quale mentre lasciava in disuso i privilegi e le franchigie antiche dei nostri Comuni, ne toglieva a poco a poco altresì tutti i beni delle istituzioni novelle. Non tenendo conto dei bisogni mutati, dei progressi della coltura, della coscienza dei dritti individuali già ben radicata negli animi, il Governo di Roma sostituiva alla legge l'arbitrio, all'uguaglianza civile le eccezioni ed il privilegio, i progressi dell'incivilimento, pertinacemente avversava, il merito faceva ludibrio dell'ignavia e dell'intrigo (Applausi).

«Quindi esordiva il disaccordo profondo tra il governo e queste popolazioni, che poi riceveva incremento dalle idee di libertà e d'indipendenza nazionale, che si venivano maturando fra noi, come presso le altre Nazioni d'Europa. E da un lato il disaccordo fra le popolazioni fomentava le congreghe settarie e le rivoluzioni, così spesso nel breve spazio di 40 anni rinnovate, e dall'altro dava pretesto alle Commessioni militari, che insanguinarono tante volte le nostre desolate Città, ed alle occupazioni violente e dure delle armi straniere.

«Nè giovò, che l'Europa ad attutire il focolare di rivoluzioni, che i dissennati ordini di governo mantenevano accesi fra noi, interponesse i suoi ufficii per migliorare le sorti degli Stati Romani: né il Memorandum presentato al Governo Pontificio dalle Potenze nel 1831, né le conferenze di Portici del 1849, né i consigli dati dal Congresso di Parigi nel 1857 valsero punto a fare rinsavire il mal governo clericale.

«Sterili o piuttosto un ludibrio riuscirono le riforme del 1831; non fu neanche provata la pratica del motuproprio di Portici, dove alcune franchigie erano accordate ai Comuni; e le proposte della Francia dopo il Congresso di Parigi non erano neppure ascoltate.

«Un uomo solo parve comprendere un momento i bisogni di questo paese, l'indrizzo da dare al governo negli Stati Romani. Ed egli colle riforme, collo Statuto, e coi sensi di nazionalità, cui accennava inclinare, tirava a sé non solo I cittadini assennati, ma la moltitudine empiva di entusiasmo. Spettacolo più nobile e commovente di una nazione intera non si era visto mai, e quello certo esser doveva una prova solenne dello spirito pubblico e dei voti delle popolazioni. Ma fu un lampo! l'enciclica del 29 aprile piombò come fulmine a troncare le speranze di tutti gli Italiani. Gli eterni nemici della giustizia e del progresso avevano raggirato la mente del Sovrano, che vacillò da prima, e poscia si abbandonò interamente alle male suggestioni dei retrivi (Bravo). Quindi il disaccordo irrompeva di nuovo e più fiero di prima, perché in mezzo a passioni concitate e coi cuori esacerbati dal disinganno. E la vecchia perfidia di Corte attribuendo ad intemperanza di mente, a spirito sovversivo, a malignità di animo le improntitudini e gli eccessi di allora, ne pigliava pretesto a coonestare gli antichi abusi, a perseguitare chi ama la patria ed i progressi civili. E così mentre nell'Italia settentrionale rassodavasi e cresceva nell'estimazione dell'universale la monarchia libera nazionale del Re Vittorio Emmanuele, che tenendo alto il vessillo raccolto sui campi di Novara, offriva rifugio e speranza a tutti gli Italiani, qui per converso l'insolenza militare austriaca sparnazzava collo stato di assedio, collo sperpero delle fortune comunali, col libito della vita e del sangue dei cittadini, di cui qual conto facesse ben lo dicono le innumerevoli sentenze di morte in un decennio pronunziate (Applausi).

«È veramente incredibile a dire, che la Romana Curia, la quale si arrovella cotanto per la sovranità di queste provincie, non si accorga di avervi già da parecchi anni rinunziato, dacché i beni più preziosi, la roba, l'onore, la vita dei cittadini al libito di straniere soldatesche abbandonava (Bravo).

COLONNELLO SPANGARO

«Venne la guerre. Cli Austriaci incalzali dalle vittorie degli eserciti ideati lasciavano all'improvviso queste contrade, é l'autorità pontificia in un attimo si dileguava con essi; perchè le popolazioni con dimostrazioni pacifiche ma imponenti e generose dimandavano di essere italiane e d partecipare alla guerra nazionale. Rimaste per tal grisa le Romagne senza governo, i Municipii nominaroio Giunte provvisorie, che provvedessero all'ordine d ai voti delle popolazioni. Il primo bisogno, eli esse sntirono, fu quello della concordia e dell'unità, e quiidi facevano adesione alla Bolognese, che pigliandoli nome di Giunta Centrale, assumeva la direzione (Ala cosa pubblica in tutte le provincie emancipate.

«Siccome i voti precipui di questi popoli mettono a due capi specialmente, alla nazionalità e ad un governo ordinato e liberale così la Giunta centrale di Bologna comprese tosto il còmpito suo e l'indrizzo; che dare doveva ai negozi dello Stato novello.

«Prima condizione di ogni buono governo si è l'ordine pubblico, a preservare il quale se occorrono grandi sollecitudini in ogni tempo, se ne domandano molto maggiori nella commozione degli animi, ch'è inevitabile nelle grandi innovazioni politiche e morali.

«A questo furono rivolte subito le cure speciali del Governo; ordinò le guardie cittadine provvisorie, che si organizzarono in ogni città, e con grande abnegazione prestarono ai loro concittadini i più rilevanti servigi; alle vecchie corrile polizie provvide con ordinamenti e con uomini avelli; sciolse il corpo dei gendarmi, ed il nuovo dei Veliti organizzava. E siccome tali forze erano scarse all'uopo, cosi dell'influenza morale dei buoni sulle moltitudini si giovava. In tutto ciò poi era coadiuvato da ile compostezza e spirito moderato delle popolazioni che ben possiamo andarne orgogliosi. Sono ormai It mesi, che le Romagne vennero rette dalla forma novella di governo, e queste provincie,nonostante le così spesse agitazioni degli animi per casi della guerra, per la pace improvvisa di Villafranca, per le mutazioni del potere, che tra noi ebbero luogo, non furono mai più ordinate, più concordi, e tranquille (Applausi).

«L'esercito è uno dei fondamenti precipui di ogni governo forte e civile. Armi e soldati occorrevano a noi onde partecipare alla guerra nazionale; armi e soldati per la difesa delle Romagne. Partendo, lo straniero ci aveva lasciati inermi ed ignudi affatto di ogni difesa. Il Governo provvide tosto parecchie migliaia di fucili, somministrandoli alle città ed alle borgate per la tutela dell'ordine, e rifornendone i volontarii, ad organare i quali ricercò ed ottenne esperti uffiziali. Provvide in appresso munizioni in copia, artiglieria, e cavalli. Ora possediamo i corpi comandati dal Generale Mezzacapo, le colonne mobili del Roselli, il reggimento, che si sta organizzando a Bologna, la Cavalleria, il Genio, l'Artiglieria. Il modo di formazione, i casi varai occorsi nei mesi passati, la brevità del tempo non permisero certo d'improvvisare un esercito ben ordinato e composto, come le Truppe di Nazioni provette alle armi e di lunghe abitudini militari; ma si compone di una gioventù animosa e gagliarda, ardentissima di misurarsi col nemico. Ora poi mediante le cure della Direzione della Guerra si stanno ordinando tutte le forze nostre in quattro Reggimenti di linea ben provveduti di Uffiziali, in un Battaglione di Bersaglieri, in un reggimento di cavalleria, in due Compagnie del Genio, in due batterie di Artiglieria, in un Corpo del Treno e di Ambulanza. E così associando alla gagliardia dell'animosa gioventù romagnola la disciplina e l'arte, formeremo una milizia. che saprà emulare i prodi battaglioni piemontesi (Applausi).

«La Giunta centrale di Governo aveva sostituito alla disciolta Gendarmeria Pontificia un Corpo di Veliti, fissandone la forza a 300 uomini. Ora i bisogni delle provincie e l'esperienza avendo fatta manifesta l'opportunità di accrescere il personale di quel corpo importantissimo per tutelare la sicurezza pubblica, e di aumentarne l'influenza morale, dandogli nome ed uniforme più accetti alle popolazioni, il Governo decretava, che il Corpo di Veliti si denomini dal 1 settembre Corpo dei Carabinieri delle Romagne; che la forza di esso sia portata a 1000 uomini, '100 a piedi e 300 a cavallo, ed abbiano la regola, la disciplina, l'uniforme, che sono in vigore nel Regno Sardo. E per raggiungere presto lo scopo nostro si aprirà un arrollamento in tutte le Romagne, ed è nominata una Commessione apposita, che percorra le provincie, scegliendo gli uomini più acconci a tale servizio.

«Altro fondamento necessario all'ordine e prosperità degli Stati è la Finanza, perciocché quando i mezzi pecuniari' difettano, non si possono avere né buone armi né buona amministrazione. Laonde il governo, circondandosi subito di uomini riputati ed abili nella pratica economia, si dava cura di ben conoscere lo stato reale ed effettivo delle nostre finanze, di raccoglierne tutti gli elementi, e si studiava ad ogni potere di sopperire ai bisogni dello Stato coi mezzi ordinarii. Chi ignora oggimai come i provvedimenti straordinarii, i corsi coattivi, i prestiti forzosi, la sostituzione della carta al numerario siano odiosi alle popolazioni, nuocciano al regolare andamento dei traffici ed all'industria, seminino la diffidenza, e tolgano credito ai Governi, che ne fanno uso? E noi, o Signori, non ostante le ingenti spese della formazione e del mantenimento di un esercito numeroso, delle armi e munizioni acquistate, a niuno di tali espedienti avemmo ricorso. Onde (cosa rara e forse nuova nelle mutazioni politiche ed in tempo di guerra) le transazioni commerciali, gli scambii, il credito so no proceduti tra noi come nei tempi più pacifici e normali. Solo da ultimo il Governo ricorreva ad un prestito volontario di sei milioni di lire, del quale emetteva soltanto la metà per ora, e questo, ch'è ancora in corso, abbiamo fiducia, che basti a pareggiare il bilancio di tutto quest'anno.

«Inoltre considerando il Governo come della buona amministrazione finanziera, del savio riparto dei Dazii e delle Tasse si avvantaggino i redditi dello Stato, intantoché si rende giustizia ai diversi ordini di cittadini, e si alleviano le classi ultime del popolo minuto, così a varie riforme poneva mano. Per rendere più facili e più libere la introduzione e la estrazione delle carni, delle uve, dei vini, e dei cereali venne pubblicata una nuova tariffa, che diminuendolo fortemente, quasi ne abolisce il dazio. Per tor via le interessenze, che in alcuni impieghi sussistevano a danno dell'Erario e dei contribuenti, furono le prepositerie del Bollo straordinario aggregate a quelle del Bollo e registro; fu stabilito, che tutte le tasse del Bollo Registro ed Ipoteche entrassero nei redditi delle Finanze, e gl'impiegati venissero retribuiti con assegno fisso a carico dello Stato. Si è stabilita una diminuzione di dazio sopra 109 articoli di Tariffa Doganale, che sarà pubblicata fra poco. Ed a vantaggio delle classi ultime si sta maturando una riforma sulla Tariffa del Dazio di Consumo; come per uguagliamo il corso in tutte le provincie e per riparare una ingiustizia a carico delle classi povere, si diminuiva già il prezzo del sale.

«I lumi della scienza e l'esperienza storica quotidiana dimostrano come la centralità giovi all'ordine interno,all'armonia, ed alla forza degli Stati. Perciò il Governo ebbe cura di raccogliere e rannodare al centro di Bologna tutte le file della pubblica amministrazione. Ma la ragione e l'esperienza hanno dimostrato altresì come la centralità soverchia riesca a detrimento della vita, dell'energia, dello sviluppo delle membra. Onde come l'autorità a fine di essere salutare ha mestieri di venire colla libertà temperala, così all'unità dell'amministrazione occorre il contrappeso delle franchigie comunali e provinciali. Con questo intendimento il Governo pubblicava una legge pei Comuni la quale su due cardini principali s'imperna; l'uno della elezione popolare, l'altro della ragionevole ed equa indipendenza dei Comuni dallo Stato. Per le stesse ragioni di abolire la centralità soverchia e di sceverare ufficii, che per la sicurtà ed indipendenza dei cittadini debbono andare disgiunti, anche la distinzione delle forze è dimostrata oggimai utile e quasi necessaria; e perciò il Governo adottando la pratica delle grandi Nazioni, massime del Regno Sardo, la Guardia Nazionale, che da prima fu provvisoria soltanto, decretava in appresso come instituzione organica del Paese.

«Uno dei disordini più gravi e di cui maggiormente si risentissero le Popolazioni,si era quello della giustizia. Tra noi sotto il passato reggimento nelle mani dei Governatori si congiungevano insieme l'amministrazione, la polizia, la giustizia. Quali disordini arrecasse siffatta agglomerazione di poteri disparati si comprende di leggieri', e mostrò pur di frequente l'esperienza, e perciò il governo separava interamente la giudicatura dalla polizia.

«Nè riuscivano meno vergognose e moleste a questa età civile certe reliquie superstiti del medio evo, come era la degradazione degli scismatici e degli ebrei. Il Governo decretando l'eguaglianza di tutti, aboliva le eccezioni ed il privilegio tra gli uomini, qualunque siano le differenze di schiatta e di culto. Che diremo poi del viluppo e della congerie indigesta delle leggi per tempi, spiriti ed origini tanto diverse, onde le ragioni del cittadino rimanevano sempre incerte e mai sicure davanti ai cavilli ed ai lambicchi dei legulei? Ebbene; a tali inconvenienti studiavasi riparare radicalmente il governo, adottando il Codice Napoleone, che ora forma più o meno la base dei Codici negli altri Stati civili, che dalla Francia è stato chiesto più volte alla Corte di Roma, e che lasciò desiderio gran dissimo tra le nostre popolazioni, mentre fece così buona pruova durante il regno d'Italia.

«Tra i rami della cosa pubblica più negletti fra noi si era quello dell'Insegnamento, che dall'elementare al più alto richiede sostanziali riforme. Ma prima occorreva disciorlo dalla servitù clericale e restituirlo alla libertà, riserbandone allo Stato la giusta tutela. Questo praticava il governo, e mentre sta maturando una sana riforma negli studii, s'ingegna con ogni sollecitudine di rialzare le nostra Università Bolognese, dall'antico splendore cotanto decaduta.

«Anche la Beneficenza richiamava la sollecitudine del Potere; moltiplici sono fra noi gli stabilimenti pii e pingui i redditi di essi. Antico ed universale è il lamento intorno la loro amministrazione, perché i vantaggi, che ne traggono i veri bisognosi, sono ben lievi a petto delle rendite, e perché l'uso è disviato e non risponde alle condizioni mutate della società presente. Ebbene; il Governo decretava dapprima, che gli Stabilimenti di Pubblica Beneficenza venissero sottoposti alla tutela del potere governativo. E poscia stanziava, che verrebbero amministrati colle Congregazioni di carità, riducendo così tutte le amministrazioni parziali sotto la sorveglianza di una Commessione centrale, come già fu praticato nel regno d'Italia con tanto successo.

«I lavori pubblici, l'industria, ed il commercio attirarono anch'essi l'attenzione del Governo, e già si sta riparando all'ingiusta distribuzione delle tasse destinate a far fronte ai lavori, le quali ripartivansi in modo arbitrario con vantaggio di qualche provincia e ad aggravio di altre, ed in parte destinate a lavori non sempre eseguiti, rimanevano giacenti con gravissimo danno dei contribuenti non solo, ma anche del pubblico erario.

«Le strade ferrate, i canali, i porti, i telegrafi sono pure argomenti di studii per introdurvi le necessarie riforme sull'esempio degli Stati più civili. Così è apparecchiata una nuova organizzazione della Camera e del Tribunale del Commercio alla foggia di quelli del Piemonte, e questi miglioramenti alla soppressione di odiose privative, di dazii esorbitanti e fuori di ragione, al favore da accordarsi allo spirito di associazione, ai bendali del libero scambio, ai capitali posti in circolazione, ampliando le istituzioni di credito, avvieranno anche queste provincie a quella prosperità, cui sarebbero da natura destinate, e che da tanto tempo si desidera indarno.

«Tali si furono, o Signori Deputali, le cure e gli studii del governo nei rami diversi della pubblica amministrazione. Ai miglioramenti ed alle riforme interne, che vi ho accennate, diede opera non giù per preoccupare il compito di Camere Legislative, e di Governo stabile o rassodato, ma a soddisfare le esigenze più stringenti della pubblica opinione e ad ammonire il cammino a quelle istituzioni, cui sotto un governo libero ed italiano speriamo di conseguire.

«Ma voi sarete desiderosi d'intendere altresì l'indrizzo, che noi demmo alla politica esterna e le nostre relazioni cogli altri Stati d'Italia o coi Potentati d'Europa. Or bene, non appena questo governo centrale di Bologna erasi costituito, che rendendosi interprete dei voti di tutte le provincie emancipate, inviava una Deputazione a Napoleone III ed a Vittorio Emmanuele, chiedendo la dittatura del Re durante la guerra. Ci venne accordata la protezione ed un Commissario Regio a tutela dell'ordine pubblico e per organizzare i volontarii all'impresa nazionale. E quanto ciò tornasse accerto alle popolazioni ben si vide in quella se ra, che entrava fra le nostre mura il Cavaliere Massimo d'Azeglio. Bologna non ricordava da molti se coli un avvenimento, che destasse tanto tripudio ed un entusiasmo sì vivamente sentito. Dica chi lo vi de, se quella fu opera di un partito o di pochi, e non invece un moto istintivo, spontaneo dell'uni versale.

«I casi di guerra, l'armistizio ed i preliminari di Villafranca mutarono ad un tratto le condizioni poli litiche dell'Italia centrale; i Regii Commissarii Piemontesi venivano richiamati dalla Toscana, dai Ducati, e per conseguenza anche dalle Romagne. Fu quello un momento di trepidazione per questi paesi. Ma gli uomini assennati non caddero dell'animo; anzi com presero tosto. che ordine, calma, risolutezza ci vole va, e le sorti dell'Italia centrale sarebbero nelle nostre mani. Ciò comprendevano anche le popolazioni in appresso, e così queste provincie trapassarono dal l'autorità dei Commissarii regii alla presente senza quasi avvedersene; sì grande fu il buon senso generale, sì forte il proposito in tutti di dare all'Europa guarentigia di ordine e di fiducia.

«E qui ci gode l'animo di dichiararvi come questo successo veniva cementato dal senno e dalla prudenza del Governatore Generale. Il Commissario del Re Vittorio Emmanuele ed il suo illustre Ministro ce lo presentarono, encomiandolo altamente per la risolutezza dei propositi e per la sua inalterabile devozione alla causa italiana; e noi ci riputiamo avventurati che accettasse in quei momenti difficili di mettersi a capo del potere.

(Intanto il Governo mandava tosto Deputati al l'Imperatore ed al Re in Piemonte; incaricava spetta bili personaggi a patrocinare la causa del nostro Paese a Parigi ed a Londra; ed a somiglianza dei Toscani, Parmigiani, e Modenesi ne ritraeva parole molto con fortevoli e rassicuranti.

«Ci persuademmo allora di nuovo, che l'augusta parola pronunziata a Milano da Napoleone III non verrebbe meno, e che i voti delle popolazioni legalmente espressi sarebbero ascoltati. Quindi, siccome le con dizioni degli Stati centrali d'Italia erano presso che le medesime per tutti, come presso che medesimi so no i voti, così uno ed identico doveva essere l'indrizzo, vale a dire conservare ordine calma e compostezza; accrescere e completare i nostri mezzi di di fesa; convocare dal suffragio popolare assemblee per deliberare sui nostri destini.

A migliorare le nostre forze militari ed a pro muovere e da generare l'unione di questi paesi, quale provvedimento più acconcio di una lega, che accomunando gli eserciti alla difesa come agl'interessi dei diversi Stati, ci rende più sicuri all'interno e ci au menta considerazione e credito in faccia all'Europa? Ebbene, questa lega, che promossa dai tre Governi, venne già stretta e ratificata, acquista ora nerbo e prestigio tanto maggiore dall'annoverare fra i Generali il prode Garibaldi, e dalla fiducia, che assumerà il co mando supremo di tutte le forze Manfredi Fanti: due uomini, che non sentono altra gara fuor quella di servire la libertà e l'Italia (Applausi fragorosi).

«E circa l'Assemblea già l'Italia non solo ma l'Europa tutta conosce le dichiarazioni unanimi espresse dalla Toscana e dalla Modenese, ed attende con desiderio quelle della Romagna e della Parmense. Nè io, signori Deputati, verrò qui a magnificare i nobili esempi dati da Firenze e da Modena, mentre so bene, che non ne avete mestieri. È indubitato, che la nostra causa guadagna ogni dì più di considerazione e di credito in faccia all'Europa, come si può arguire dalla stampa libera ed indipendente delle Nazioni ci vili, e come il Governo ne viene rassicurato dalle corrispondenze di cospicui personaggi di Francia e d'Inghilterra. Questo conseguimmo già a motivo dell'ordine e della calma severa e dignitosa, che mostrano le Romagne in questi giorni. Ora noi, che siamo i suoi Deputati, che dobbiamo rappresentarne il senno e le virtù cittadine, certo non verremo me no all'onore del nostro paese ed alla comune aspettazione.

«Noi ricevemmo il mandato, a noi si appartiene il decidere sulle sorti future di questo popolo, che rappresentiamo; esprimiamo dunque questo voto con libertà assoluta ed intera, e pronunziandolo, abbiamo davanti all'animo, che le sorti nostre si legano alle sorti d'Italia intera, e massime delle Marche e del l'Umbria, che anelano ed hanno dritto a destini migliori (applausi). Bologna antica madre della libertà e degli studii, ristauri la sua fama nel mondo, mostrando, che agli spiriti fieri e robusti dei Romagnoli s'innesta ancora il senno antico. E così mentre le nostre città offrono all'Europa sì lodata malleveria di ordine e di pace, presentiamo noi quello della maturità dei propositi e della sapienza civile. Per tal guisa assicureremo a noi ed ai nostri nipoti istituzioni li bere ed un governo italiano.»

Questa esposizione fu coperta di applausi, e la tor nata si sciolse per riunirsi l'indomani. La mattina del 3 il Commendatore Miglietti fu eletto Presidente da 110 voti sopra 117, ed occupato il seggio presidenziale, disse:

«Non saprei con quali parole esprimere degna mente la gratitudine dell'animo mio per l'onore, che l'Assemblea mi volle fare. Io non l'attribuisco a me rito mio, ma alla devozione costante, che ho professato alla causa italiana ed alla ferma risoluzione manifestata in ogni tempo della mia vita di riguardare come indivisibili compagni la libertà e l'ordine.

«L'uffizio, che mi compete, di dirigere le discussioni e le deliberazioni dell'Assemblea, già difficile in sè stesso, è reso anche più difficile dal confronto col mio antecessore, al quale se l'età concedeva il dritto di essere il primo a presiederci, più ancora glielo dava il senno, l'esperienza, l'amore all'Italia (applausi).

«Tuttavia farò quanto sta in me per adempirvi se non con abilità, certo con zelo e con imparzialità.

Grande, signori, è il nostro mandato: esprimere il voto dei popoli delle Romagne con veracità, con semplicità, senz'ira, senza studio di parte.

«Io sono convinto, che le deliberazioni, che saremo per prendere, avranno un gran peso nei consigli di Europa, perchè se non siamo forti di numero e di potenza, siamo forti del buon dritto e dell'inalterabile fermezza dei nostri propositi (applausi generali e prolungati).

«Mi duole di dovere incominciare l'esercizio del l'onorevole carica col far eseguire il regolamento. Gratissimo per la dimostrazione di stima, che mi vien data, debbo avvertire, che secondo l'art. 69, durante la seduta, le persone, che non fanno parte dell'Assemblea, debbono astenersi da ogni segno di approvazione o disapprovazione (Sensazione ).

Indi il Presidente lesse la seguente proposta:

«Considerando, che i popoli delle Romagne dopo di avere avuto nei secoli passati statuti e leggi proprie e nel principio del secolo presente fatto parte di un regno civile, furono nel 1815 posti sotto il governo temporale pontificio contro i loro voti; (Considerando, che questo governo senza ripristinare le antiche franchigie, distrusse i buoni ordini del regno italico, e colla mala sua amministrazione, nota all'Europa, afflisse i sudditi;

«Considerando, che d'allora in poi la storia di queste provincie fu una dolorosa vicenda di rivoluzioni e di reazioni, tanto che alla perfine le misure eccezionali e gli stati di assedio divennero la regola ordinaria del governo; (Considerando, che ciò produsse grave danno della pubblica prosperità non solo, ma pervertimento del senso morale delle popolazioni con pericolo incessante della quiete d'Italia e d'Europa, «Considerando, che ogni tentativo di riforma fu vano, che tornarono inutili le preghiere dei popoli ed i consigli dei Potentati d'Europa, che le promesse furono sempre deluse.

«Considerando, che questo Governo si mostrò in compatibile colla nazionalità italiana, coll'uguaglianza civile, e colla libertà politica; «Considerando, che non seppe neppure difendere la vita e la proprietà dei suoi sudditi; (Considerando, che abdicò di fatto la sovranità, dandone le più nobili prerogative in mani di Gene rali Austriaci, che tennero per molti anni il Governo civile e militare di queste provincie, e ne fecero strazio;

«Considerando, che non può reggersi con forze proprie ma solo con armi straniere o mercenarie, per cui esso sarebbe impossibile colla quiete pubblica e l'ordine stabile;

«Considerando infine, che il governo temporale pontificio è sostanzialmente e storicamente distinto dal governo spirituale della Chiesa, cui non verrà mai meno la reverenza di questi popoli; - «Noi rappresentanti dei popoli delle Romagne con venuti in generale Assemblea, appellandone a Dio della rettitudine delle nostre intenzioni, dichiariamo:

«Che i popoli delle Romagne non vogliono più go verno temporale pontificio.»

Ed eran firmati oltre al conte Giovanni Bentivoglio altri nove Deputati, sette dei quali appartenevano al l'aristocrazia cioè cinque altri Conti, un Duca, un Marchese, e due erano professori.

La presa in considerazione ebbe luogo all'unanimità; la discussione e votazione furono stabilite pel 6 dello stesso mese.

E nella tornata del detto dì il Deputato Massimiliano Martinelli relatore della Commissione fece il suo rapporto all'Assemblea; quel documento è interessante per la storia del governo pontificio, ma i limi ti, che ci siamo imposti non ci permettono di riferirlo testualmente. (La storia di oltre 40 anni, dice va quella relazione, dispenserebbe ormai dall'accennare le prove della impossibilità di un governo, che non potè durare, fuorchè con forze mercenarie e straniere. ) — Indi accenna alle promesse di riforme fatte sin dal 1815, e rimaste sempre deluse. Ricorda la cessione all'Austria di quella parte della Provincia di Ferrara, ch'è sulla sinistra riva del Po, ed alla Francia di Avignone e del Contado Venosino, per concluderne, che i Papi possono cedere parte del territorio della Chiesa. Enumera le istituzioni del Regno Italico abrogate, le antiche franchigie ed i secolari privilegi dei Comuni distrutti sotto pretesto dell'uniformità. Tocca le condizioni, che accompagnarono l'origine della sovranità dei Papi su quelle provincie, e mostra come più che a Sovranità quei popoli mira vano a protezione della Santa Sede. Narra come sorto il governo dei sospetti, si punirono i pensieri, i desiderii, gli affetti, di tal che lo stesso Cardinale Con salvi ebbe a dolersene, perchè temeva il giudizio di Francia e d'Inghilterra. — «L'Austria sola ne gode a va; l'Austria non chiamata occupava le nostre provincie, ed all'Austria si consegnavano alcuni cittadini, immolandoli alle sue vendette ed accrescendo «per tal modo il numero dei martiri dello Spielberg. o E ricorda i privilegi, i fedecommessi, i maggioraschi, i dritti di asilo ampliati, aboliti i Tribunali collegiati, accresciuta la balìa degli Ecclesiastici negli affari ci vili, prescritto l'uso della lingua latina nel foro, nei collegi, nelle Università, ridotto l'insegnamento pubblico e privato alla disciplina clericale, ed invigorita la podestà del Sant'Uffizio. Rammenta 508 individui condannati da una sola sentenza ad ogni specie di pena, dalla pena capitale sino alle più ridicole, comechè taluni erano condannati a presentare ogni me se il certificato del Confessore ed a fare ogni anno tre giorni di esercizi spirituali in un convento! Mentre d'altronde impiantate le forche, i cadaveri rimaneva no esposti a terrore dei cittadini!

«Venne infine la rivoluzione, e poi la restaurazione per le armi austriache. Venne il Memorandum delle cinque grandi Potenze, senzachè una sola delle cose ivi raccomandate fosse stata eseguita. Invece occupazione austriaca e poi truppe mercenarie svizzere. Grave il peccato di amare la patria e la libertà; persecuzioni, odii, vendette, e il pugnale contro il pugnale; le fazioni popolari cozzanti colle sette governative; rivolte disperate e commissioni militari permanenti, senza nessuna guarentigia di processo e di difesa, esigli, carcerazioni, morti, confische.»

E parla della rovina delle finanze e del commercio; dei prestiti rovinosi, dei fondi dell'ammortizzazione dispersi, della proscrizione delle strade ferrate, dei telegrafi, dei congressi scientifici, degli asili infantili.

«La rivoluzione, continua la relazione, fremeva cupamente in queste provincie, quando una voce nuova annunziava pace e riforme, e benediceva all'Italia dal Vaticano. Ma contro la natura delle cose nulla varrebbe per troppo la più risoluta e ferma volontà. Un go verno di casta o si mantiene com'è, o si crede con dannato a perire. La resistenza della Corte di Roma ad ogni riforma e la violazione delle reiterate promesse sembrano dunque doversi accagionare più che a mal talento a necessità di sistema. Se ciò non fosse, come si potrebbe onestamente spiegare la vanità del consigli dati dal Congresso di Vienna nel 1815, dal Memorandum del 1831, ed in appresso dalla lettera ad Edgardo Ney e dal Congresso di Parigi? L'Europa lo sa; la Francia colle antiche e colle recenti prati che ne ha fatto una pruova più dolorosa contra la inveterata e tradizionale forza d'inerzia della Cancelleria romana… Non ci facciamo illusioni, scriveva Pellegrino Rossi a Guizot, Roma è sempre Roma. Finché voi starete in Italia sta bene, ma dopo? Vere garanzie costituzionali, dirette, positive, voi me vorrete, ma non ne potrete ottenere.

E dopo di avere parlato della inefficacia della Consulta del 1847, della inesecuzione dello Statuto del 1848, del niun effetto del Moto-proprio del 1849, proclama empia la dottrina, per la quale si condanna un popolo alla disperazione ed alla servitù; e si proclama, che per la indipendenza e la dignità della Chiesa è necessario, che tre milioni di uomini sieno offerti in olocausto ad una casta, la quale come per la sua indole è straniera ai bisogni ed agli interessi dello Stato, così per la sua educazione e per le sue abitudini è inetta a trattarli ed a comprenderli.

Ci duole di non potere protrarre più estesamente l'esposizione dei fatti e dei concetti contenuti in quel la storica narrazione. Quello, che ne abbiamo detto, basta ad indurne il concetto, ed è poi molto facile l'indovinare, che dopo quella relazione la proposta della decadenza della Sovranità del Papa già accolta con applausi, venne all'unanimità deliberata.

E non appena pronunziata la decadenza della sovranità del Papa venne proposta l'annessione. Gioacchino Rasponi nella tornata del 7 settembre ne fece la relazione. Vi è ritratta la storia della Casa di Savoia negli ultimi anni della vita politica italiana e conchiude, che dopo di avere emesso un voto contro il passato regime, era indispensabile di provvedere alla sorte delle provincie, che rimanevano senza governo: — «La proposta, che vengo oggi a nome della no stra commessione a sottoporre al vostro esame, v'indica un modo di provvedimento, ch'è nobile quanto la causa, che difendiamo, un modo, ch'è nei voti di tutti, perchè è nel convincimento di tutti, che l'annessione al Piemonte sia l'unica condizione di salute per le Romagne, le quali vogliono per sé ordine e sicurezza, vogliono un'Italia grande e forte. Usando la parola annessione, noi intendiamo l'unione piena ed intiera, senza riserva, senza condizione. L'Italia, diceva Napoleone a S. Elena, è una sola nazione. L'unità dei costumi, della lingua e della letteratura, la posizione geografica, che la separa dal resto dell'Europa, devono in un avvenire più o meno lontano unire tutti i popoli italiani sotto una sola bandiera. Un voto popolare avvalora opportunamente l'assunto e le nobili parole dei proponenti; da Ferrara a Rimini in breve lasso di tempo 82,145 v0ci chiesero per soscrizione pubblica l'annessione al Piemonte malgrado le male arti, che in alcuni luoghi tentarono scemare il numero dei soscriventi ().

Dopo della quale relazione fu letto il testo della proposta di decadenza concepito nei seguenti termini: Considerando,che il voto unanime e fermo di questi popoli è per un governo forte, che assicuri l'uguaglianza civile, la libertà, e l'indipendenza nazionale.» Considerando, che il loro primo bisogno è di posare in un assetto stabile e finale rispetto alla nazione, il quale chiuda l'Era delle rivoluzioni.»

Considerando, che il solo governo, che possa adempire queste condizioni, è quello di Sardegna per la forza, per le tradizioni, per la organizzazione, per le istituzioni e pei sacrifizii fatti alla causa italiana.

«Noi rappresentanti delle Romagne,

«Dichiariamo:

«Che i popoli delle Romagne vogliono l'annessione al Regno costituzionale di Sardegna sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele.

E la proposta fu all'unanimità approvata.

Nella tornata poi del giorno 10 l'assemblea in seguito di analogo rapporto con 117 voti bianchi ed uno nero decretava:

«1. Quelli che dal 12 giugno sino ad ora tennero il governo, hanno benemeritato della patria.

2. E’ ratificato in Cipriani il titolo di governatore generale di governare con ministri responsabili.

3. Sono conferiti al medesimo pieni poteri, pei casi, che giudicherà necessario usarne per l'ordine interno e per la difesa del paese.

4. Gli è commesso di fare ogni opera per l'adempimento dei voti dell'assemblea, ed a tal fine di procurare più intima unione colle altre provincie dell'Italia centrale, le quali si dichiararono per annessione al regno costituzionale di Sardegna.

5. La facoltà propria del seggio presidenziale di prorogare e riconvocare l'assemblea è data anche al governatore generale».

Sospesa la seduta, la presidenza recò al governatore generale il decreto dell'assemblea. Alle 3 la seduta fu ripresa; vennero votati ringraziamenti al Re ed al valoroso suo esercito, a Napoleone III, alla prode armata francese, ed un ricordo di affetto ai volontarii, che presero parte alla guerra d'indipendenza, e che nuovamente accorrevano sotto le armi a difendere il loro paese.

Indi l'assemblea fu prorogata, e si chiuse con vivissimi applausi al Re, e dalle tribune ai Deputati.


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CAPITOLO IX

ll Ducato di Parma e Piacenza.

SOMMARIO

Proclama del Governatore provvisorio degli Stati Parmensi — Suo uffizio al Sindaco di Parma — Deliberazione del Municipio di Parma — Offre la Dittatura al cavaliere Farini — Una deputazione si reca a Modena a tale oggetto— Proclama di Farini — L'Avvocato Manfredi è delegato per l'amministrazione delle provincie Parmensi — Osservazioni politiche sulla podestà conferita al Farini — Convocazione del collegi elettorali — Risposta di Napoleone al Podestà di Parma — Le elezioni riescono soddisfacentissime — Altro fatto, che accresceva l'entusiasmo delle popolazioni pel Re — Presentazione al Re della medaglia a ricordo delle parole da lui pronunziate nella sessione legislativa del 10 gennaio 1858 — Parole di Mamiani — Risposta del Re — Impressione, che producevano negli Italiani — In questa disposizione degli animi si approssimava la riunione dell'Assemblea dei Ducati — Risulta mento del precedente Plebiscito — Il 7 di agosto si riunisce l'Assemblea — Discorso del Dittatore — L'Assemblea decreta la decadenza della Dinastia dei Borboni ed un indirizzo a Napoleone — Nelle sedute successive de creta l'annessione al regno di Vittorio Emmanuele, il prolungamento dei poteri del Dittatore, la pubblicazione dello Statuto costituzionale — Risposta del Farini all'Assemblea nel ricevere il Decreto della Dittatura — Tornata del 15 agosto — Proroga dell'Assemblea.

Il dì 14 agosto 1859 il Governatore Provvisorio de gli Stati Parmensi Sig. Manfredi pubblicava il seguente proclama:

«Popoli degli Stati Parmensi;

«È venuto il momento opportuno di chiamare l'attenzione vostra sulle condizioni di queste provincie, e d'invitarvi a pensare al modo più acconcio di unirle alle altre contrade dell'Italia centrale per cooperare a forze unite e con efficacia maggiore alla vittoria del gran principio del diritto nazionale.

«Il cav. Carlo Luigi Farini, levato dal voto pubblico con mirabile consentimento all'ufficio della ditta tura nelle provincie Modenesi, ha dato di sè pruove splendidissime, sapientemente adoperando con quella risolutezza di voleri e con quella energia di provvedi menti, senza cui nella infinita complicazione degli u mani interessi la causa dei popoli non trionfa mai.

«E però natural cosa era, che già da tempo io vol gessi il guardo a quella parte, stimando di avere trovato nello storico illustre l'uomo, che meglio di ogni altro potrebbe accentrare in sè medesimo la suprema Dittatura politica e militare delle provincie, che trovansi con Modena in eguaglianza di condizioni, e presentarle all'Europa animale da un solo sentimento, stimolate da un solo impulso, regolate da una sola intenzione, dirizzate ad un solo fine, e quanto più compatte, tanto più tremende.

«Alle quali cose, appunto io alludeva pieno di belle speranze nel mio proclama di otto giorni fa.

«Laonde condotto dalla necessità delle cose ad assumere per breve ora il vostro governo, fu mia prima sollecitudine d'introdurre calde pratiche col Dittatore Farini per preparare la via ad aggiungere queste alla provincia da lui governata; ed oggi sono lietissimo di potervi annunziare, ch'egli con grande amore accolse le mie proposte, e una tanta e sì gagliarda pro pensione delle parti di una stessa Nazione a collegar si e stringersi con nodi ognora più saldi egli ragionevolmente pigliò come pronostico non dubitoso di destini migliori per tutti.

«Accade poi, che prestissimo, forse domani, il Municipio popolare di Parma sarà costituito. Voi a dunque, o figliuoli di questa Città italianissima, che avete sempre dimostrato tanto senno civile, tengo per fermo, che per mezzo dei vostri rappresentanti dare te seguito all'opera cominciata da me; verranno dietro al vostro autorevole esempio gli altri Comuni dello Stato; verranno dietro la Toscana e le Legazioni, e così fra tanti pregi onde si onora il vostro nome, non sarà ultima la gloria dell'avere iniziato un sistema, che può condurre do voglia Iddio ) col tempo alla massima unificazione dell'Italia nostra, a quella mela, ch'è l'aspirazione dei secoli ed il sogno dorato di tutti i preclari ingegni, che in questa Patria infelice, ma pur sempre grande, sortirono la vita.

«In quel medesimo giorno lo stesso Governatore dirigeva al Sindaco un uffizio, col quale lo invitava a convocare pel dì seguente il consiglio comunale di Parma per provvedere al regime di quelle provincie, ch' egli aveva provvisoriamente accettato nell'unico intento della tutela dell'ordine e della libertà. Principale obbietto da presentarsi alle considerazioni del consiglio municipale doveva essere la proposta unione di quelle province alle Modenesi sotto la Dittatura politica e militare del cavaliere Farini.»

«Da questa unione, diceva il Sig. Manfredi, parmi deriverrebbe innanzi tutto il vantaggio grandissimo di una forza militare imponente e più energicamente diretta; poi l'altro non meno considerevole di affidare gl'interessi nostri a personaggio di grande autorità all'estero ed abilissimo maneggiatore di cose diplomatiche, quale è il predetto cavaliere Farini.

Ed aggiungeva che la proposta unione presenterebbe all'Europa un tale atteggiamento di forte resi stenza e così fermo nel programma dell'italiana Unificazione da mettere più gravemente in pensiero chiun que dei potentati volesse osare una intervenzione.

Assicurava il Governatore, che le intelligenze da lui prese con Bologna e con Toscana lo assicuravano essere quei governi pronti e desiderosi di unirsi alle provincie Parmensi per la comune difesa. Più strette essere le relazioni col cav. Farini, che nei giorni de corsi, aveva gli offerto soccorso di truppe, perciocchè aveva egli già organizzata numerosa forza militare, sì che le provincie Parmensi prestando il loro contingente in denaro, potrebbero averne a loro servigio buona parte. Osservava in fine, che estendendosi a quelle provincie la Dittatura del Farini, se ne sarebbero vedute in poco tempo raddoppiate le forze, e si sarebbero scorti i vantaggi di un paese militarmente costituito, mentre col restare separati ogni ordinamento militare avrebbe dovuto cominciarsi.

Questi erano i suggerimenti, che il Governatore dava al Consiglio municipale, il quale, eletto in quel medesimo giorno dal suffragio popolare, riunitosi nel giorno appresso vi si trovarono presenti oltre del Sindaco 32 individui, che costituivano l'adunanza legale di quel corpo. Comunicatasi la proposta del Governatore, sorse un Consigliere, e disse, che innanzi di discutersi la proposta del Governatore Manfredi si avesse a dichiarare dall'intiero Consiglio decaduta la Dinastia Borbonica dal governo di quelli Stati, il che venne unanimemente accolto, e dopo breve discussione relativa alla forma della deliberazione e non al me rito di essa, il Consiglio votò:

«Il Consiglio comunale di Parma eletto ieri dal suffragio popolare riconferma per primo suo atto il voto ripetutamente espresso dal popolo, dichiarando la decadenza della Dinastia Borbonica non che l'annessione di questi Stati al Regno Costituzionale di S. M. il Re Vittorio Emmanuele II.

Ricorreva in quel giorno 15 agosto la festa di Napoleone III, onde il Municipio chiamato ad intervenire al Te Deum nella Chiesa della Steccata, interruppe la sua seduta. Ripigliatasi, fu messo il partito della Dittatura da conferirsi al Sig. Farini, alcuni l'avrebbero voluta limitata alla parte politica e militare, ma il Consiglio la conferì intiera, e la deliberazione fu concepita nei seguenti termini:

«Il Consiglio comunale conferisce al cav. Carlo Luigi Farini la suprema Dittatura delle provincie de gli Stati Parmensi, onde raccolti in sue mani tutti i poteri per reggerle e governarle, ne possa dirigere ed impiegare le forze ed i mezzi al conseguimento dello scopo, a cui tutti fermamente miriamo, cioè che sia mantenuta l'unione di questi stati al Regno costituzionale dell'alta Italia sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele II.

In prosieguo fu stabilito, che una deputazione di tre membri sarebbe andata in Modena a presentare al cav. Farini quel voto del Consiglio, e pregarlo della sua immediata adesione. E la Deputazione partì, ed il cav. Farini pubblicò il seguente proclama:

«Popolo di Parma e Piacenza;

«I liberi Municipii mi offrono in nome vostro la Dittatura. Grato dell'onore, consolato da questa nuova dimostrazione della comunanza di affetti e di pensieri fra le provincie Italiane, che hanno comuni le difficoltà ed i pericoli, io accetto per convocare i comizii, ai quali si appartiene d'istituire la pubblica podestà, che deve condurvi al compimento dei voli, che avete significato in tanti e così solenni modi. Accetto, perchè io sono risoluto ad ogni pruova in servizio della Patria comune, e perchè voi avete presa degna parte in questo mirabile moto italiano, nel quale tutti gli amatori di libertà cercano colla nuova virtù della disciplina di dirizzare al sommo fine della unione nazionale quello ardore, che è dono glorioso, ma sovente infausto, nella natura italiana.

«Non ricordo i vanti antichi: vi do ad emulare esempi vivi e presenti; la fortezza dei Subalpini, la fede dei Lombardi, la compostezza dei Modenesi, la sapienza civile dei Toscani, l'austera ed operosa calma dei Romagnoli.

«Ordinati, voi sarete temperanti nelle parole, sarete arditi, se occorre, nei fatti.

«Non ho mestieri di raccomandarvi la concordia; questa nuovissima e sacra ambizione degli Italiani.

Tutti oggimai siamo di un solo animo, e più che delle politiche parli abbiamo la concordia della intera congregazione civile. Qual è infatti lo sciagurato, che vo glia dirsi parteggiano dello straniero? Quale l'imbelle, che possa pensare a pompe cortigiane od a borie municipali quando ci sta dinanzi lo spettacolo di un po polo, che risorge? Quale il forsennato, che tenti profanare il sacro tempio della concordia per feroce di spetto ed insanabile orgoglio? e Popoli di Parma e Piacenza! (L'Europa ci guarda; mostriamo, che sappiamo reggerci a libertà colla virtù col senno colla forza mostra.

«Ottimo è pur sempre il consiglio di Napoleone III. Siate oggi tutti soldati per essere domani tutti liberi cittadini.

«Dato in Parma li 18 agosto 1859.

«Il Dittatore FARINI.

E nello stesso giorno pubblicò un decreto, che diceva:

«Nomina suo Delegato a reggere l'Amministrazione delle Provincie Parmensi il signor Professore Avv. Giuseppe Manfredi, riserbando a sè tutto ciò che risguarda l'Amministrazione militare e politica, per le quali il Delegato si limiterà a procurare la pronta esecuzione degli ordini del Dittatore.

Farini.

E ben disse il Farini, ch'egli accettava per convocare i comizii, cui spettava provvedere sulla politica autorità, dapoichè il Municipio di Parma non aveva da per sè solo facoltà di obbligare tutti gli altri Municipii dello Stato, ma trattandosi di convocare i Comizii quella deliberazione particolare del Municipio Par mense veniva ad essere accettata e riconosciuta da tutte le altre città del Ducato col prestarsi alle elezioni dei Deputati all'Assemblea nazionale, comunque poi nel fatto sia vero, che negli Stati per gran tratto di tempo retti a Principato assoluto, gli espedienti ed i provvedimenti adottati nella capitale hanno sempre ricevuto forza obbligatoria da per tutto per la tacita adesione del rimanente delle popolazioni e per la loro abitudine a ricevere gli atti di legislazione dalla Capi tale medesima.

TIPI DELL’ARMATA NAPOLETANA

Erano decorsi appena dodici giorni dalla data di quel Proclama di Farini quando un Decreto di questo col la data dei 30 di Agosto convocava i Collegi elettorali per la nomina dei Deputati all'Assemblea dei rappresentanti del Popolo nelle Provincie Parmensi pel di 4 del seguente settembre e convocava in Parma l'Assemblea pel dì 7 del medesimo mese.

Allora era già nota la risposta, che Napoleone III aveva dato al Conte Linati Podestà di Parma: — «Dite alle Popolazioni, aveva detto l'Imperatore, che (vi mandano a me, che le mie armi non faranno mai (forza al loro volere, e che non permetterò mai, che (ciò sia fatto da alcun'altra straniera Potenza.» — Parole, che rassicuravano gli animi, e gli avviavano ai collegi elettorali numerosi e decisi e consultare non altro che gl'interessi e le aspirazioni nazionali. E difatti le elezioni riuscirono nel senso prettamente nazionale, e niuno di coloro, che avevano preso parte nel nuovo ordine di cose, o che lo favorivano, venne ro omessi.

Ed avveniva anche in quei giorni un altro fatto, che accresceva il patriottismo e l'entusiasmo italiano. Una società d'Italiani appartenenti ai diversi Stati della Penisola aveva fatto coniare una medaglia a ricordo del le parole imperiture, che Re Vittorio Emmanuele pronunziò il giorno dell'apertura della sessione legislativa il 10 Gennaio 1859. Nel 21 di agosto 1859 una Deputazione composta dei Sig. Mamiani Terenzio, Melegari, Mancini, Ara Casimiro, Cordova, Bassero, Castiglioni, Picolli, veniva ammessa a presentare al Re alcuni esemplari di quella Medaglia, ed il Mamiani imprese a dire:

«Sire!

«Deputati da molti Italiani delle diverse provincie della Penisola, presentiamo alla M. V. alcuni esemplari d'una medaglia, che celebra quelle stupende parole, pronunziate da Voi nel dì 10 Gennaio del corrente anno: — Non siamo insensibili al grido di dolore, che da tante parti d'Italia si leva verso di noi.

«E tutte quelle parti, Sire, per la prima volta forse dopo i Romani tempi concordate ed unite dalla potenza del vostro nome sono nella medaglia simboleggia te da una sola augusta persona, perocchè una vera mente si è fatta e non più divisibile la nostra gran Patria comune. Essa con mente divinatrice porge a Voi suo primo soldato la corona dei forti, e presagisce gli splendidi allori, che testè avete colti sulla Se sia e sul Mincio, a Palestro, a Vinzaglio ed a S. Mar tino.

«Di rimpetto a Lei siete figurato non assiso in Trono ma ritto in piedi e con atto risoluto ed animoso, come vogliate significare all'Italia, che mai intendete di riposarvi insino a che non siano una dopo l'altra acquetate tutte le voci di dolore, che dal travagliato suo petto si esalano.

«Il libro aperto dello Statuto ed il vessillo tricolore spiegatovi sopra insegnano i tre soli mezzi, che Voi usate al magnanimo fine, Armi, Libertà, ed Unione.

«Sire, i cittadini nella cui persona vi parliamo, sperano, che Voi degnerete nel picciol presente di ravvisare un grande affetto e una immortale riconoscenza. Lungo tempo è, che i beneficii vostri nella Patria italiana oltrepassano ogni facoltà di giusto compenso e di adeguata rimunerazione. Oggi mai degni premia tori vostri non possono essere salvo che Dio e la gloria di tutt'i secoli).

Ed il Re rispondeva:

«Ringrazio assai del bene presente e delle parole, che l'accompagnano. Certo da quanto ho cominciato a poter fare alcuna cosa, sempre mi sono adoperato per la gran causa nazionale. Vi penso tutt'i giorni e tutt'i momenti; vivo in lei e per lei, e sento, che morrò in tale pensiero e in tale sentimento; io ne sono sicuro. Occorrono delle difficoltà e degl'infortunii, che conviene superare, e ciò si farà, perchè sono stato testimone del coraggio e della disciplina, di cui gl'Italiani sono capaci. Per il presente non si è potuto an dare più oltre, io certamente l'avrei voluto.

«Fra le passate amarezze mi è riuscito di gran conforto il vedere, che gl'Italiani mi hanno compreso e non hanno dubitato di me. Le moltitudini per troppa caldezza di animo talvolta travedono, ed io avrei com patito facilmente qualche loro sinistro giudizio, ma ripeto, che non mi hanno fatto verun torto.

«Sembra incredibile come in alcuni Paesi, che ci sono avversi non si comprenda o si finga di non com prendere, che non v'è nulla di nascosto e di artificio so nella mia politica. La franchezza, la rettitudine so la sua scorta, e l'andar dritto è forse ciò, che spiace.

«La quistione italiana è chiarissima, e perciò ap punto si vuole non intenderla.

«L'unione, l'ordine perfetto e la saggezza, che mo strano in questi giorni i popoli di Toscana, dei Duca ti, e delle Romagne è mirabile. Io non credeva certo, che l'Italia ne fosse incapace, ma l'atto, che mi sta sotto gli occhi, mi riempie di consolazione.

«Fidino pure in me, o Signori, e conservino certezza, che oggi e sempre farò per l'Italia qualunque e possibile cosa.

Pronunziate le quali parole con quel tuono di affabilità e di abbandono, che gli è abituale, si mise ad osservare diligentemente il lavoro, e voltosi al signor Ferraris incisore capo della Zecca, gli disse: — Ella (ha sempre faticato nell'arte con amore e con ardore; (non mi meraviglio, se questa volta l'argomento ha «cresciuto le sue forze ed il suo ingegno».

Si pensi, se la relazione di questa udienza riferita da tutti i giornali valesse ad accrescere l'affezione pel Principe, che già da tutti pel suo amore all'Italia era amato. Quest'amore riceveva semprepiù novella con ferma dalla semplicità e schiettezza di quelle parole, che si pronunziavano al cospetto dell'Europa per man tenere saldo il proponimento di formare dell'Italia una grande nazione. Quando nel 10 gennaio 1859 pronuziavasi la memorabile frase, cui Mamiani alludeva, si metteva sul tappeto una corona per giuocarla al giuoco delle sorti; e quando in risposta al predetto Mamiani profferivansi le parole surriferite, davasi a divedere, non essersi tocco dai vantaggi personali già ottenuti, ma voler correre la sorte comune dei popoli italiani, ed immedesimarsi con essi; la quale immedesimazione degl'interessi dei popoli e del Principe, accordo da secoli mancato in Italia, se togli qualche breve e rara eccezione, empiva i cuori di speranza e di coraggio, ed elevava le menti degl'Italiani ai sublimi principii di sociabilità, di libertà, di ordine, di dignità dell'essere, pel quale si pretende fatto tutto il creato, ma al quale poi per una strana contraddizione si è negato l'uso della eminente facoltà, che per sè sola lo distingue da tutti gli enti, che lo circondano.

In questa disposizione delle popolazioni dei Ducati si approssimava il giorno della riunione dell'assemblea nazionale, ma due giorni prima si poteva ben prevedere quale ne sarebbe stato il voto. Il dì 8 di agosto erasi pubblicato un Decreto, col quale le sopradette popolazioni erano invitate a votare sul seguente plebiscito: — . Le popolazioni delle provincie «Parmensi vogliono essere unite al Regno di Sardegna sotto il governo costituzionale del Re Vittorio Emmanuele II — ; e venne nominata una Commessione all'oggetto. Ora questa Commessione avendo fatto lo spoglio di quei voti, pubblicò nel 5 di settembre il risultamento delle sue operazioni. I voti affermativi erano stati — 63, 107 ed i negativi 504, ripartiti i primi:

Provincia di Parma — 23,222
di Piacenza — 17,254
di B.S.Domnino — 12,971
di Borgotaro — 4.675
di Pontremoli — 5,044
Totale... 63,167
ed i secondi:

Parma — 113
Piacenza — 255
S. Donnino —  68
Borgotaro —  49
Pontremoli —  19
Totale. 504

È da notarsi, che nello spoglio dei voti di Borgo taro si veggono annullati tre voti, perchè emessi da individui minori di 21 anno.

Qui dovremmo arrestare la narrazione dei fatti di Parma, e ritornare a quelli della Toscana, perciocché questi precedono gli altri, e la Deputazione toscana giunse a Torino, e fu ricevuta dal Re prima che si aprisse l'Assemblea Parmense. Ma ci è sembrato, che l'attenzione sarebbe stata distratta dal framettere altri fatti tra quelli, che sono intimamente fra loro legati senza però dissimularci l'influenza che i fatti non ancora narrati hanno potuto avere su quelli, che narriamo. Questa considerazione anzi ci ha fatto alcun poco esitare, ma è prevaluta la prima, e ci siamo decisi a proseguire nel racconto delle cose di Parma, avvertendo, che quando i fatti che andiamo a narrare, avvenivano, il Re aveva già ricevuto il voto dell'assemblea toscana, e vi aveva risposto.

Venne dunque il giorno 7 di settembre 1859. Mezz'ora dopo il mezzogiorno grandi applausi annunziavano i Deputati, ch'entravano nella sala dell'adunanza. Composto l'uffizio provvisorio, il Dittatore entra accolto da generali e prolungate acclamazioni, e recatosi al suo posto, imprende a dire: a Signori Deputati, a Allorquando gli oratori dei vostri consigli municipali mi ebbero persuaso ad accettare pii rispetti della civile concordia un ufficio, che per altri rispetti io era inchinevole a rifiutare, feci chiaramente intendere, com'io accettassi il mandato dei Municipii col solo fine di dare opera a stabilire un governo temporaneo, il quale pigliando dal suffragio popolare legittima e spettabile autorità,potesse primeggiare su tutte le parti, mantenere ferma la disciplina, e risoluto andare sulla via dell'onore alla mèta segnata dal voto universale.

«Astenendomi pertanto dal fare mutamenti e novità, furono mie sole cure lo adunare i comizii, lo accrescere gli armamenti, e lo stringere in lega queste provincie colle altre, che fortemente vogliono libertà ed unione.

«Ora sta a voi, o signori, il costituire la pubblica podestà in quella forma e con quelle prerogative, che stimerete acconce a mantenere i popoli in buona soddisfazione, ed a procurare, che ne siano esauditi i liberi voti, espressi in tanti e così solenni modi.

«A me pare si convenga oggi, rassegnando l'ufficio, il dare alla pubblica opinione qualche somma notizia dei nostri casi, perocché, o signori, vi sia manifesto, che se negli andati tempi, l'Europa poco curante del bene nostro e della pace sua, pensava all'Italia allora soltanto, che per qualche disperata prova addimostrava, che non era morta, né voleva lasciarsi morire, (Bravo! Applausi) oggi abbia in noi fissi gli occhi ed intenti i pensieri, persuasa oramai, che l'Italia vuole e può vivere di vita propria nel consorzio delle libere nazioni (Applausi prolungati). Per la qual cosa ogni buona testimonianza, che si rechi in pubblico della giustizia della nostra causa, pare a me, che giovi a spuntare le armi degli inimici, i quali per operosi procuratori si affaticano ad alterare e corrompere la verità (Benissimo! Applausi.)

Nel 1718 pel trattato della quadrupla alleanza il Ducato di Parma fu dichiarato feudo dell'Impero. La investitura data a D. Carlo, primogenito di Filippo l di Spagna, fu nel 1723 ratificata pel trattato di Vienna. Poscia pii preliminari del 1735 e pel rogito del 1738 fra l'Imperatore ed il Cristianissimo Parma e Piacenza furono cedute all'Austria. Ma nel 1718 per la pace di Aquisgrana esse furono con Guastalla restituite ai Borboni di Spagna.

«Incominciarono adunque i Borboni a regnare per imperial dritto feudale, mentre la Santa Sede, querelandosi, vantava anch'essa suoi feudali dritti; ai dritti dei popoli nessuno pensava (Applausi). I primi Borboni fecero mutamenti civili, come i tempi portavano, ed ebbero con Roma le contese, che allora avevano quasi tutti i Principi per accrescere la regia podestà, ed ora hanno quasi tutti i popoli per sicurare la civile libertà (Benissimo). Perdettero poi il Trono per la guerra della rivoluzione francese, avendolo la Spagna ceduto nel 1800 alla Francia, la quale pel trattalo di Luneville ricompensò i Borboni di Parma col Trono di Toscana, facendo di queste Provincie un suo Dipartimento, che prese nome dal Taro. Cosi erano palleggiati i popoli italiani dall'uno all'altro straniero, quasi aggiunto dei Troni e dote dei Principi (Bene! Bene!)

«La dominazione francese,come quella,che portava leggi ed istituti di tradizione e di genio latino, avviò qui pure il rinnovamento civile. Vinto Napoleone, Parma Piacenza e Guastalla furono nel 1811 pel trattato di Parigi date all'Imperatrice Maria Luigia: poi nel Congresso di Vienna il donativo fu ratificato sotto specie di vitalizio. — Fu poi stabilito nel 1817 pel rogito di Parigi, che alla morte dell'Austriaca Arciduchessa sarebbero restituiti alla Spagnuola Maria Luigia ed al figliuolo D. Carlo, i quali nel frattempo avevano avuto Lucca in usufrutto, fermi del rimanente sui dritti di riversibilità i capitoli d'Aquisgrana ed i patti stipulati fra l'Austria e la Sardegna nell'anno 1815.

«Il governo della vedova di Napoleone andò lodato a riscontro dei vicini, perché mantenute le leggi e gli istituti moderni, fu mite e tollerante, favoreggiò il sapere, compi molte opere di pubblica utilità. Vivente Maria Luigia il Duca Carlo di Borbone vendeva il Ducato di Guastalla al Duca di Modena sotto pretesto di dare sesto ai confini, nei fatti per avere di che pagare i suoi debiti, dacché barattando Guastalla con alcuni Comuni della Lunigiana, tirava a suo particolare comodo una rendita netta annuale di oltre 700 mila franchi. Il trattato conchiuso ai 28 novembre del 1844, fu tenuto celato sino alla morte di Maria Luisa: i popoli si ebbero dispetto e scandalo; l'Europa lasciò fare (Benissimo!)

«Questo danno allo Stato procurò Carlo II prima di salire al trono. Venuto a Parma in sul finire del 1847, stipulò nel febbraio del 1848 un trattato coll'Austria pari a quello, che il duca di Modena aveva conchiuso ad ingiuria e danno d'Italia. In quei giorni i popoli italiani andavano per nuove vie cercando dai Principi onesta libertà ed unione nazionale. Il Duca, che aveva trafficato coll'Austriaco di Toscana la cessione anticipata di Lucca e venduta Guastalla all'Austriaco di Modena, sgovernò Parma, servo di Vienna, pauroso di tutto. fuorché del dare esempio di paura indegna di cavaliere e di Principe. (Bravo! Bene! Applausi.) Scoppiata la civile tempesta, scuso›si coi popoli, promise libertà, e sparve. Almeno questi Principi di prestanza sapessero combattere! (Applausi e risa ironiche). Fuggi ed abdicò al figliuolo nell'agosto del 1848, pigliandosi sul tesoro una pensione annua di 200 mila franchi. Questa è la memoria, che Parma conserva di quel Principe, ch'ebbe regno vagabondo come la sua mente a (Applausi).

«Il figliuolo fu portato in Trono dalle truppe austriache; ché quando la fortuna d'Italia giace, allora si rappezzano questi Troni posticci! (Applausi). Carlo III preceduto da cattiva fama, superolla; (Sì, Si;) scapestrato, violento, inverecondo. (È verissimo). La pena del bastone si amministrava a Modena per legge barbara, qua per barbaro capriccio. (Sensazione). Nessuna guarentigia qui per la libertà individuale, nessuna per le offese, che sono più aspre della punta del ferro; (È vero; È vero.) nessuna per la proprietà. Cosa, che parrà incredibile; il Duca volendo sollevare passioni selvatiche contro. i proprietarii della terra, che stimava amatori del vivere libero, decretò nel 1850 non potessero a loro talento dare commisi° ai lavoratori: queste e somiglianti insanie sovversive dell'ordine sociale. Non offenderò la decenza, accennando gli scorsi di costume, che costarono all'Erario 2 milioni e 400 mila lire. Oh! quali tutori, quali educatori ci avevano dato! (Applausi). Lo scandalo fruttò ignominia, il bastone vendette. Il Duca fu morto! (Sensazione). La vedova accettò rassegnata il decreto della Providenza! (Applausi generali e prolungatissimí).

«In sulle prime essa diede intenzione di Governo civile, ma a breve andare i governanti fuorviarono, paurosi di libertà, pieghevoli all'Austria. Fu sparso il sangue pei giudizii repenti e per popolari vendette: violenza contro violenza: alle povere anime umane pensa il creatore! (Bene) Avvenne caso, che macchiò la fama dei governanti: saputo, che da pochi si tentava sedizione, non vollero prevenirla, vollero reprimerla, e se ne vantarono poi, imprudenti!

Millantando quindi l'ordine ristabilito, lasciarono far sangue e bottino nella tranquilla Città dai proprii e dai soldati austriaci. (Bravo!) È macchia, che resta. Gli Austriaci, soverchiando, imponevano una lega doganale, portavano a Mantova i rei di Stato, senz'aperta protestazione dei governanti, i quali forse mordevano il freno, ma non sentivano dignità di franco. Stato (Bene). Pure come fu colma la misura delle insolenze austriache, procurarono segretamente, che l'occupazione di Parma cessasse; segretamente, quasi fosse colpa di lesa maestà imperiale, quasi temessero di farsi un merito coll'Italia (Applausi). Ebbe poi lode un Ministro, che non volle rinnovare la lega doganale, ma il Governo fu sempre assiduo procuratore del sistema austriaco. (Benissimo).

«Vero, che pel trattato del 1818 l'Austria poteva correre lo Stato per suo, ma quando somiglianti trattati furono riprovati da tutte le civili Potenze, i reggitori di Parma non si riscossero, come avrebbero potuto senza pericolo, se avessero avuto animo alieno dall'austriaca servitù. (Benissimo).

«L'Austria, che pei trattati generali aveva il puro e semplice dritto (sta scritto cosi) di tenere guarnigione in Piacenza, vi costruiva fortilizii e trincieramenti; se ne querelava il Re di Sardegna custode della propria e vindice della indipendenza d'Italia,ma né se ne querelavano i Reggitori di Parma, né davano ascolto alle querele altrui; contenti di avere in casa una delle rocche del sistema austriaco.

«Hanno voluto poi dare ad intendere, che nella guerra d'indipendenza amavano contenersi in neutralità. Qui bisogna, che tutto il vero si paia a pro della Storia, posciaché anche Ia vedova di Carlo III ha confessato l'egualità de'  principi e dei popoli in cospetto della Storia.

«Lasciamo stare, che in una guerra d'indipendenza qual sia governo, che voglia essere neutrale, si fa reo di lesa nazione. Lasciamo stare, che questi popoli, i quali mandavano migliaia di volontarii a combattere per l'indipendenza, facevano veder chiaro, che se pure la neutralità fosse cara ed utile al principe, essa era opposta e contraria all'interesse ed al voto loro. L'ostinazione nel sistema austriaco,la cecità della mente, la passione dell'animo furono palesi a gran documento, allorquando fuggita la reggente ai primi di maggio, l'ebbero qui ricondotta per rea speranza di vittorie austriache ad incitamento di licenza soldatesca ed a ludibrio dell'autorità di regnante e della dignità di donna. t.; noto a tatti, che si preparava sul territorio, che si diceva neutrale, la invasione in Piemonte.

«I doveri della neutralità sono ben determinati nel Giure internazionale, non volgono in contrarie assottigliate ragioni, non provano opposte preconcette né postume supplicazioni lagrimose. I documenti diplomatici fanno vedere chiaro, come nel maggio fossero insincere le parole di neutralità, e quando possono essere oggi sinceri gli officii di osservanza al vincitore. (Bravissimo). Il Ministro sopra gli affari esterni teneva cordiali pratiche con Vienna prima e durante l'invasione austriaca in Piemonte. Nel carteggio del Legato borbonico a Vienna si trovano tali cose, che per fermo quel Ministro non avrebbe voluto, che l'Imperatore dei Francesi gliele ponesse sott'occhio quando andava a lui chiedendo mercé. (Applausi vivissimi e prolungati.) Che più? finché ebbe un filo di rea speranza il governo borbonico, cosi come l'Estense, fece istanza a Vienna per avere aiuto di truppe. Vienna rispose: = non poteva darne; rimetterebbe in Trono i principi dopo la vittoria. La quale risposta fu cosi amara al Legato borbonico, ch'egli scriveva al Ministro a Parma: — Valeva bene la spesa (traduco copiando da parola a parola) di conchiudere trattati coll'Austria per sentirsi dare somigliante risposta!

«Questa era la neutralità, che gl'innocenti professavano!

«Complici delle preparate offese al Piemonte come ebbero perduta la speranza dell'aiuto, declinando la fortuna delle armi austriache, mandarono oratori a Torino.

«Comoda cosa invero: fare a sigurtà colle forze dell'Austria contro il dritto nazionale, poi non volere star pagatori della sconfitta dell'alleata. Comodo invero il cercare compassione dal vincitore, al quale pochi mesi prima facevate ingiuria, impotenti a far guerra! (Benissimo! applausi generali.) É forse costume di cavalleria questo?

«Quali sono dunque i meriti della dinastia borbonica? Eccoli per corta somma. In dieci anni poco più di regno il mite costume del popolo alterato per mali esempi, per bandi feroci, per battiture, per supplizii, per giudizii repenti, per prepotenza di soldati stranieri, le imposte dirette cresciute di un milione e 100 mila lire; caricato l'erario di 4 milioni,663 mila e 200 franchi per debiti di Carlo II; di 2 milioni 401 mila e 421 franchi per debiti di Carlo III; un'ottava parte dell'entrata pubblica spesa annualmente per la famiglia regnante; la complicità coll'Austria contro il Piemonte, contro la Francia. Questi i meriti, or giudichi l'Europa. I popoli hanno pronunziato loro sentenza per suffragio diretto universale. Eglino vogliono vivere liberi nella loro Monarchia costituzionale di Casa Savoia, la quale si è immedesimata colla coscienza e col dritto della Nazione. (Scoppio di generali applausi e grida Viva Vittorio Emmanuele! Viva il Dittatore!) Protegge i popoli il buon dritto, li protegge il prode e franco Vittorio Emmanuele, Il protegge pur sempre il generoso Imperatore Napoleone, li proteggerà la giustizia di tutt'i potentati cieli, li proteggerà la coscienza, che l'Europa deve avere dei nuovi pericoli, a cui andrebbe incontro, se non ne rispettasse gli onesti voti, ma sopratutto la nostra virtù deve proteggerci. (Benissimo!). Superammo già gravi difficoltà e pericoli colla concordia, col senno civile e colla fortezza, ma per avere piena vittoria è necessaria quella costanza, che per tempo non cede, che per forza non piega, e nulla teme fuorché il disonore. (Bravo! Applausi).

«Aspetteremo tranquilli la sanzione terminativa dei nostri legittimi voti. Questi voti potranno forse a taluno parere ingiuriosi alla maestà della sventura. Ma se colla longanimità e colla moderanza noi acquistiamo qualche dritto alla estimazione dell'Europa, giova sperare, che le genti di cuore sentiranno come offendere ci debba il dubbio, che altri avesse della umanità e generosità dei popoli italiani. (Benissimo!).

«Chi ha compassione degli infortunii di una nobile vedova e degli orfani del Trono lasci agli Italiani il compiacimento di soddisfare i debiti della pietà, e si unisca a noi per istudiare qualche tempèramento alle miserie delle vedove e degli orfani, che in molta parte d'Italia le cadute signorie lasciarono derelitti anche del conforto di un nome, che ricordi ai posteri le glorie maestose e le maestose sventure.

Noi hon ci diffonderemo in dettagli sulle sedute del Parlamento Parmense, che potrebbero riuscire ripetuti. Diremo in breve, che l'Assemblea nella seduta degli 11 settembre dopo il rapporto della commessione votò all'unanimità ed a doppio scrutinio la decadenza della Dinastia borbonica e l'esclusione perpetua dal governo di queste provincie di qualunque principe di quella casa. Adottò pure all'unanimità un indrizzo a Napoleone III, e prese in considerazione le proposte seguenti: Annessione di queste provincie al regno Sardo sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emmanuele; confezione di una medaglia di argento per distribuirla a quegli abitanti delle provincie Parmensi, che presero parte alla guerra; erezione di un monumento, che ricordi i nomi dei compatriotti morti per l'indipendenza dopo il 1848. E nella seduta del giorno seguente votava le proposte leggi sulla medaglia ai volontarii parmensi,che combatterono nel 1848, 49, e 59, sul ringraziamento all'armata italica, che combatté per la indipendenza di tutti gli Stati italiani, sul Monumento nel maggior tempio di Parma agli estinti delle provincie Parmensi nelle guerre della Nazione, e finalmente sull'annessione al regno costituzionale di Vittorio Emmanuele. La votazione riuscì come altrove all'unanimità, e come altrove fu salutata da entusiastiche acclamazioni; una Deputazione di cinque persone fu incaricata di recare al Re il voto di quelle popolazioni, ed immediatamente furono presi in considerazione tre altri progetti di legge; il 1° per un sussidio agli emigrati veneti, il 2° per richiamarsi in vigore lo statuto costituzionale, il 3 per prolungarsi i poteri del Dittatore Farini. E difatti nella seduta seguente l'Assemblea proclamò all'unanimità la conferma della Dittatura Farini, e fu presa in considerazione e rinviata agli Cicli la proposta di autorizzarsi il Dittatore a contrarre un imprestito per una somma da stabilirsi.

Una Deputazione recò al Cavaliere Farini il Decreto dell'assemblea sul prolungamento dei suoi poteri dittatoriali, ed egli nello scopo di manifestare quale intendeva, che dovesse essere l'indirizzo politico dei Ducati rispose all'Assemblea nei seguenti termini:

«Signori;

«I rappresentanti del popolo unanimi mi hanno nuovamente conferito la podestà, che secondo il debito mio aveva rassegnato in mani loro.

«Questa testimonianza di fiducia, che io accolgo con animo grato, è pure un segno di approvazione, che mi conforta a proseguire nella via intrapresa.

«Il mio dovere è tracciato dai Decreti dell'Assemblea. Esso era già scritto nella mia coscienza. In quei giorni, nei quali lo spirito pubblico penava a raccogliersi dalle facili ed infinite speranze al concetto di nuove e laboriose lotte, i comandamenti della coscienza furono il mio solo consiglio. E forse questa fede nel dovere, questa fede nei destini d'Italia non fu inutile ad arrestare l'onda degli eventi contrarii.

«Proseguirò gli armamenti, perché la civiltà europea non è ancora giunta a segno, che il dritto inerme possa stare sicuro dalla violenza, e perché l'opinione pubblica fa giusto giudizio del fermo e libero volere nostro dalla sollecitudine, che poniamo a prepararci alle forti prove.

«Andrò esplicando gli istituti della Monarchia Costituzionale per recare ad effetto, per quanto è da noi, quella unione col Regno Sabaudo, la quale per rinnovato voto di popolo e di parlamento è diventata il dritto pubblico di queste provincie.

«Se questo è il voto universale ed il simbolo della nuovissima concordia italiana, camminando noi dritti al fine, torremo ogni pretesto alle gare ed alle pretensioni, che volessero coonestarsi di singolare zelo del pubblico bene. Essendo universale la conciliazione delle menti e degli animi, errano coloro, i quali nella nuova concordia vanno cercando le differenze tolte alla memoria degli antichi dissentimenti.

«Noi dobbiamo coi sacrifizii mostrarci degni dei popoli subalpini, dobbiamo mostrarci degni del Re colla costanza e collo schietto contegno. Qui si propugna non il dritto, non l'interesse solo di queste popolazioni, ma sibbene il dritto e l'interesse indissolubile e solidale di tutte le altre, che fortemente vogliono vivere libere ed unite in grande e franco Stato.

«Se tale non fosse stato il pensiero dei rappresentanti del popolo, essi non si sarebbero unanimemente in me confidati.

«Noi siamo forti in cospetto della coscienza dei popoli, perché rappresentiamo non già gr interessi di una Provincia, né pure soltanto quelli di una Nazione, ma i grandi principii di giustizia e di civiltà. La coscienza universale sente, che la fortuna d'Italia deve rialzarsi, perché la sua sventura sarebbe cagione di continuo turbamento nell'ordine Europeo. Teniamo dunque sempre in mente, che la nostra non è la causa di un partito ma di tutto un popolo; anzi la causa dell'ordine morale e civile, senza del quale gli Stati non possono avere fermezza, che la congregazione Europea indarno cerca equilibrio di forze e stabilità di Parma 19 settembre 1859.

Farini.

Nella tornata poi del 15 settembre l'Assemblea votava un prestito di cinque milioni ed autorizzava il cav. Farini a contrarlo; nominava una Deputazione di tre persone per presentare l'indrizzo di ringraziamento all'Imperatore dei Francesi,poscia l'Assemblea si prorogava con facoltà di convocarla al Dittatore, al presidente dell'assemblea medesima, o per dimanda motivata di 20 Deputati, che lo credessero necessario. Al grido di Viva il Re i Deputati si separarono.




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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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