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STORIA DELL'ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO

DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI

CORREDATA DI TAVOLE LITOGRAFICHE E NARRATA

COLL'ESPOSIZIONE DEI DOCUMENTI ORIGINALI

da far seguito alla Guerra d'Italia del 1859

DELL'AVVOCATO DOMENICO VALENTE

SECONDA PARTE - CAPITOLI XVIII - XXVI

NAPOLI

STAMPERIA DI A. MORELLI

Strada S. Sebastiano».11

1862

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CAPITOLO XVIII

La restaurazione dello Statuto del 1848.

SOMMARIO

Il governo napoletano credeva tuttavia alla impotenza del partito liberale — Invece la stessa repressione mostrava il contrario — Ma le illusioni del governo dovevano cominciare a sparire — Esso chiede l'intervento delle Potenze, delle quali aveva disprezzato i consigli — Si dirige a Napoleone — La stampa austriaca accresce lo sgomento dei legittimisti — Censura il governo napoletano — Risultamento della missione di De Martino — Consiglio di Ministri e di famiglia — Brenier insiste presso del Re — Atto sovrano del 25 giugno — Come è accolto — Manifesto del Comitato centrale — Difficoltà di comporre il nuovo ministero — Programma Ventimiglia — Altro proclama del Comitato nazionale — Giudizio su di esso — Articolo della Gazzetta austriaca — Considerazioni politiche — Come si pensasse in Vienna sulle cose di Napoli — Opinione pubblica in Europa sulle concessioni napoletane — Ne risulta la previsione della caduta della Dinastia — Si possono dire quelle concessioni anticipate — La forza materiale del governo era soprafatta dal sentimento delle popolazioni — Nuovo ministero — Giudizio sulle persone, che lo componevano — Loro coraggio civile — Nella transizione dal vecchio al nuovo ministero Napoli rimane in balia di sé stessa — Cause del risentimento popolare — Fatti del 27 luglio. Avvenimento Brenier — Fatti del 28 luglio — Lo stato di assedio è proclamato in Napoli — Dimostrazioni ed indirizzo a Brenier — La riparazione era completa — Lettera di Brenier — Manifesto di Romano Prefetto di Polizia — Altro proclama dello stesso — Valevano a mantenere la tranquillità ma non a destare la confidenza — Il nuovo ministero si occupa dei bisogni dello Stato — Amnistia del 30 giugno — Rapporto al Re sull'attuazione dello Statuto del 48 — Lo stato di assedio è tolto il 2 di luglio — Però le condizioni politiche non miglioravano — Le persone dell'antica Polizia pensano a salvarsi — Componimento popolare sulla Polizia.

 Comunque l'insurrezione di Palermo cominciasse già a fare avverare le previsioni, che così reiteratamente erano state sottoposte al Re, questi non vedeva ancora il pericolo, che incalzantemente lo minacciava. In fine, si diceva intorno al Re, in Palermo non era avvenuto, che un tentativo d'insurrezione, ch'era stato immediatamente represso; la truppa si era mostrata fedele ed energica, ed il governo poteva contare su di essa. L'odio della popolazione di Palermo era direttamente contro la polizia, questa non andava a sangue neanche alla truppa, e non pertanto quando si è trattato di reprimere la popolazione, la truppa ha fatto causa comune con la polizia. E non erano questi ineluttabili argomenti della impotenza della fazione liberale? Eppure anche nella repressione era facile di scorgere la forza del partito, che insorgeva, e la fragilità dei mezzi di resistenza. Quegl'insorti, che usciti di Palermo, così tenacemente si mantenevano in quei dintorni, e molestavano la forza regia; gli eccessi, che questa aveva commessi, e la indisciplina, che si manifestava tra essa, erano indizii non molto tranquillanti sul carattere della lotta, che era insorta. Una insurrezione, che non riesce nel nascere, non ha speranza di più riuscire; ma in Palermo e nei suoi contorni l'insurrezione si manteneva, ne vi era giorno, che non tribolasse i soldati. Bisognava dunque spiegare questo fatto straordinario, e la spiegazione non poteva esser altra, che il favore e lo spirito delle popolazioni. È molto probabile, che senza l'intervento di Garibaldi e dei 1010 Italiani, la insurrezione sarebbe stata repressa, ma questo intervento si doveva ritenere come certo, perché la insurrezione non era siciliana ma italiana, e perché il suo stesso perdurare era pruova, che attendesse quel soccorso, senza del quale quella sarebbe stata una inutile perseveranza.

Nulladimeno le illusioni del governo dovevano cominciare a poco a poco a dileguarsi, o per lo meno dei dubbii e dei timori dovevano cominciare a sorgere. Nel narrare i falli della Sicilia abbiamo detto quello, che facesse il governo di Napoli nei 38 giorni decorsi dal nascere dell'insurrezione sino allo sbarco a Marsala. In tutti un'alternativa di speranze e di timori, ma in generale la confidenza era nelle popolazioni, e la sfiducia cominciava ad essere nel governo. L'edilizio attaccato era vecchio, minacciava rovine da ogni paí te, e queste rovine erano state da tutti da più tempo vedute ed additate. Dippiù era rimasto isolato, ed era quindi assai più probabile, che cadesse, anziché resistcsse. Gli elementi, chc avevano iniziata la rivoluzione, erano indigeni.»on erano stati importati da fuori, ed i pochi, che di là erano venuti, erano stati efficacissimi, anzi decisivi, ma come un aiuto, che si attendeva, e sul quale si contava. L'insurrezione dunque stava nel cuore dello Stato, nelle cause preesistenti di dis soluzione, ed era l'organismo sociale, che si dissolveva per decrepitezza onde riprodursi sotto le nuove condizioni organiche della vita delle nazioni.

Queste considerazioni incoraggiavano gli uni, deprimevano gli altri; i prodigiosi successi della rivoluzione dallo sbarco di Marsala in poi avevano finali mente fatto cadere le illusioni del Re e dei suoi consiglieri. ed era pur d'uopo che si rassegnasse ad invocare l'intervento di quelle medesime potenze, i cui consigli si erano con tanta ostinazione disprezzati. Abbiamo già narrata la riunione diplomatica provocata da Carafa ed il risultamento, che se ne ottenne (). Allora il Re credè di dirigersi personalmente all'Imperatore Napoleone.

Nell'Imperatore dei Francesi, cosa singolare! erano riposte tutte le speranze dei legittimisti, perciocché se il volgo di costoro si faceva ancora illusione su di un intervento austriaco, il solo omogeneo e veramente salvatore, le notabilità di quel partito apprendevano dalla stampa austriaca come fosse distrutta ogni speranza e sostituitovi lo scoramento. Taluni giornali francesi avevano pubblicato, che sulla dimanda d'intervento fatta all'Austria dal governo di Napoli essa aveva risposto di non potere per lo momento intervenire, ma la Nuova Gazzetta di Prussia aveva soggiunto, avere il Gabinetto di Vienna assicurato il Re di Napoli, ch'ei metterebbe a sua disposizione 20000 uomini, se Garibaldi invadesse la terra ferma, e che la Russia e la Prussia avevano approvato questo linguaggio dell'Austria. La Gazzetta Austriaca smentì categoricamente l'una e l'altra notizia. e disse che la Prussia e la Russia non avevano potuto approvare il preteso linguaggio dell'Austria, perché niuna dimanda di tal natura l'era stata fatta. E pochi giorni dopo in sul cominciare della seconda metà di giugno leggevasi nella Gazzetta Universale di Augsbourg: — «Quanto ad un intervento dell'Austria in favore di Napoli, non n'è quistione. Sebbene il nostro governo sia sempre disposto ad adoprare la sua influenza morale ed il suo appoggio in favore dell'indipendenza di ogni Stato Sovrano, nulladimeno non si può decidere d'intervenire in un modo attivo in favore di Napoli, il che non ha fatto ne per la Toscana ne per Modena.

«Del resto il nostro governo non ha certamente ragione di essere soddisfatto del regime napoletano.

«Da più di 12 anni ha inutilmente adoprata tutta la sua influenza per decidere il governo di Napoli a fare delle opportune riforme. Anche nel 1848, quando il Principe Schwarzenberg lasciava Napoli, recando con lui gli archivii della legazione, disse, dirigendosi al capitano del vapore, ed additandogli le ceste, che contenevano gli archivii: Se quelle ceste potessero parlare, proverebbero quanta cura si è data il nostro governo, ma inutilmente, per decidere il governo napoletano a cambiare di sistema.

«Così le cose sono rimaste le stesse sin ora. Egli è per fermo rincrescevole, che forzato da Garibaldi, si facciano ora, e forse troppo tardi delle concessioni, che si è ricusato di farle in tempo opportuno. malgrado i consigli di una grande Potenza amica, che ha renduto dei così grandi servigi alla Casa Reale di Napoli

In Austria la stampa non era libera, ed un articolo il quale esponeva il pensiero del governo in una materia così delicata, doveva dire il vero, se non veniva riprovato; e non fu riprovato. Di tal che il governo di Napoli era giunto a meritare la riprovazione sin anche di quel governo, per lo quale aveva cosi ostinatamente parteggiato.

Il Commendatore De Martino inviato a Napoleone, era stato ben accolto dall'Imperatore, ma era stato incaricato di dire al Re non dover egli ormai cercare altro sostegno, che nelle libertà costituzionali ed in un franco accordo col Piemonte, e che se egli entrava lealmente in questa via, poteva contare su i buoni offici della Francia. Il 20 di giugno De Martino recava al Re la risposta dell'Imperatore, ed immediatamente veniva convocato un consiglio di Ministri e di famiglia. I conti d'Aquila e di Trapani come la maggioranza dei Ministri si pronunziarono per un cambiamento di sistema, ed insistettero sulla urgente necessità di agire prontamente. De Martino ricevé l'ordine di partire immediatamente per Roma nello scopo, dicevasi, di ottenere dal Papa la dispensa di trattare col Re scommunicato. Da questo momento comincia una serie di atti incerti, di tergiversazioni, d'indecisioni, che s'intendeva spiegare con una lieve malattia del Re, ma che non era altro che l'ondeggiamento del Principe tra le due opposte influenze, che se lo contendevano. La Regina Madre, Ferdinando Troia, Monsignor Galli, alcuni dicono anche Murena, tuttoché più non fosse ministro, e molti vi comprendono con moltissima probabilità anche il Generale Filangieri, sostenevano la negativa. Questa negativa incontrava il gusto e le opinioni del Re, il quale se non ancora l'aveva egli stesso accettata era pei timori, dai quali non poteva liberarsi; ma nella lotta tra questi e le proprie inclinazioni, la vittoria rimase a queste ultime, ed il Re dichiarò non volere sentire più parlare di concessioni, e giunse sino a non ricevere più gli zii, i quali si avvisarono di porre in giuoco altri agenti. I conti di Siracusa e dell'Aquila corsero a Castellamare e pregarono il Ministro Brenier di venire ad interporre i suoi buoni offici. Il Ministro francese si recò immediatamente in Napoli; Napoleone era il solo, sul quale il Re di Napoli poteva in qualche modo contare, epperò sarebbe stato assai sconvenevole ed in pari tempo molto pericoloso di ricusare di ricevere il suo rappresentante. Brenier quindi fu ricevuto, tuttoché S. M. stesse a letto, e tanto egli disse per ricondurre il Re a determinazioni più conformi alla gravezza delle circostanze, che quegli cedendo al cospetto del pericolo, dal quale la sua corona era minacciata, pubblicò il 23 di giugno 1860 il seguente atto sovrano:.

«Desiderando di dare ai nostri amatissimi sudditi una testimonianza della nostra sovrana benevolenza, abbiamo deciso di accordare al Regno il regime costituzionale è rappresentativo in armonia coi principii. italiani e nazionali, onde garentire in avvenire la sicurezza e la prosperità, e nel fine di stringere dippiù i legami, che ci uniscono ai popoli, che là Provvidenza ci ha chiamato a governare qual effetto abbiamo preso le determinazioni seguenti:

«1° Accordiamo amnistia generale per tutt'i reati politici commessi sino a questo giorno.

«2° Abbiamo incaricato il Commendatore D. Antonio Spinelli della formazione di un nuovo ministero, che completerà nel più breve tempo possibile gli articoli dello statuto sulle basi delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali.

«3° Un accordo sarà stabilito con S. M. il Re di Sardegna relativamente ai comuni interessi delle due corone dell'Italia.

«4° La nostra bandiera sarà d'ora innanzi ornata dei colori nazionali italiani disposti in tre fasce verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra Dinastia.

«5° Quanto alla Sicilia accorderemo delle istituzioni rappresentative analoghe di natura da soddisfare ai bisogni dell'isola ed uno dei Principi della nostra Casa reale ne sarà il nostro ViceRe.

«Portici 25 giugno 1860.

«Firmato — FRANCESCO II.»

Queste concessioni, che fatte un anno prima, avrebbero destato un entusiasmo universale e salvata la Dinastia, furono accolte assai freddamente. Fu quello un fatto di un immenso significato politico; quelle popolazioni alle quali era stato conceduto un regime rappresentativo, e poi violentemente strappato; che avevano tanto sofferto per esso, e Io avevano avuto per queste medesime sofferenze più a caro, se lo veggono adesso restituito, e rimangono indifferenti! È apatia, è indifferentismo politico? No; guardate la gioia, che brilla negli occhi di tutti nel vedere sventolare sulle castella i colori nazionali, ed a quella commozione, che giunge sino alle lagrime, vi accorgerete, che ben altro che indifferenza vi è nell'animo dei Napoletani. Quei colori sono divenuti l'oggetto del loro culto, ed in essi si concentrano tutte le loro speranze, ma quei colori non sono quelli del Principe, che li fa innalzare, ed egli vi è ricorso soltanto, quando ogni altra via di salvezza era finita. Ciò sapevano i Napoletani, e ne diffidavano.

Intanto il Comitato centrale in quel medesimo giorno 25 di giugno pubblicava il seguente manifesto:

«Sui desiderii, che ci sono stati espressi da molti uomini generosi di questa città, d'insorgere immediatamente in Napoli a mano armata, cosi imitando i nostri fratelli di Sicilia.

«Considerando, che questo generoso suggerimento è nel momento prematuro, che menerebbe ad una troppo grande effusione di sangue, turberebbe il regolare cammino degli avvenimenti, il cui sviluppo è stato da noi regolato e disposto, e conseguentemente lungi dal favorirlo ritarderebbe il trionfo diffinitivo e completo della gran causa italiana; prescriviamo:

«1° Sino a nuovo editto la più grande tranquillità dovrà regnare in questa capitale.

«2° Si conserverà un'attitudine degna e severa, e si eviterà scrupolosamente ogni collisione con gli agenti del governo; i 3° Ogni apparente concessione strappata dall'urgenza dei tempi e destinata a ritardare la soluzione piena ed intiera dell'idea nazionale, sarà molta con disprezzo.

«Napoli 25 giugno.»

IL COLONNELLO TELEKI.

SBARCO A MARSALA (11 MAGGIO 1860)

Dall'altra parte il Commendatore Spinelli durava fatica a comporre il suo ministero; Ferrigni, Buonanna, Manna, Ventimiglia ricusavano di accettare, perché aduno prestava fede alla sincera conversione del Re al regime costituzionale. Ventimiglia metteva per condizioni l'esilio dei più influenti della Camariglia, la destituzione di tutti gl'Intendenti conosciuti per le loro opinioni controrivoluzionarie, là sospensione della Magistratura per un mese onde depurarla, rinvio di 30, 000 uomini di truppe in Piemonte per es. sere cambiati con altrettante truppe piemontesi in Napoli () questo almeno era il programma conosciuto sotto il nome di programma Ventimiglia; nel fatto il ministero non potè completarsi, e le condizioni di quel programma, vero o immaginato che fosse, erano trovate giuste, ed erano indubitatamente l'espressione della sfiducia del pubblico nelle concessioni, ch'esso credeva strappate al Re, non da lui spontaneamente e con fermo proponimento di mantenerle consentite. Il rifiuto del Re, ritenuto generalmente come certo, di accettare quel programma doveva semprepiù raffermare la diffidenza, che aveva già tanti titoli per sostenersi.

Epperò il 27 di giugno il Comitato Nazionale faceva girare il seguente proclama:

«Napoletani!

«Bombardando Palermo Francesco II diceva addio ai suoi popoli, si separava dal mondo incivilito; metteva in pratica il suo programma del 23 maggio 1859, cioè la continuazione della politica sanguinaria e volpina di suo padre, politica, che in un solo anno gli ha meritato il nome di Bomba II.

«Abbandonato dall'Inghilterra e dalla Francia, abbandonato anche dall'Austria, infine da tutti, il maligno! egli è ricorso ora a quella costituzione tante volte violata dai suoi antenati, ch'è stata sempre da lui odiata e detestata, costituzione, ch'egli dà ai suoi popoli unicamente nella speranza di salvare il suo trono, che crolla. Egli la dà per ingannarli oggi e tradirli domani.

«Napoletani; le arti dei Borboni vi sono oramai conosciute, e però siate attenti. Accettare una costituzione dal Borbone è un tradire i nostri fratelli di Sicilia, un tradire la patria, un tradire l'Italia. Guardiamoci dalle imboscate, che ci tendono; guardiamoci dalla vergogna, che ei minaccia. Garibaldi dev'essere il nostro capo; Garibaldi dev'essere la nostra stella polare. Ohimè! Il nostro sangue non scorse su i campi lombardi ne sulle barricate dell'eroica Palermo..

«Non macchiamo almeno la dignità dell'opinione. Non ci rendiamo complici dei Borboni, assassinando questi generosi fratelli italiani, che sono venuti sulla nostra terra per combattere e morire con noi. Adunque il nostro grido sia «Viva Garibaldi! Viva l'indipendenza! Viva Vittorio Emmanuele Re d'Italia!»

Da parte lo stile di questo documento, che risponde alla sua origine, le idee esposte sono vere. Nei supremi momenti della Dinastia di Napoli la stampa austriaca non le si era mostrata affatto amica. Abbiamo citato un articolo della Gazzetta universale di Augsbourg; qualche giorno dopo la Gazzetta Austriaca scriveva:

«Gli avvenimenti, che succedono in Napoli prendono una piega, della quale bisogna indagare la causa, non già nella natura delle cose, ma nella incapacità degli uomini, che dirigono i destini di questo paese.

«L'anno scorso, in mezzo delle tempeste rivoluzionarie e bellicose, la tranquillità non è stata turbata ne in Sicilia ne in Terra ferma. Il Re morendo, ha potuto tuttavia conservare la sua attitudine altiera verso il Piemonte. Ora in piena pace un avventuriere, disponendo di un pugno di uomini, è riuscito ad imporre alle truppe napoletane una umiliante capitolazione.

«I Siciliani, così restii alla dominazione napoletana, sono divenuti annessionisti piemontesi. Il popolo di Napoli non osa più difendere il governo. Il Piemonte rifiuta l'alleanza, che Napoli gli offre. Si predica apertamente, non la pretesa politica italiana, la costituzione in Napoli, ma la decadenza dei Borboni. Tutto ciò si fa in uno Stato, che ha un'armata di 100 mila uomini, una marina considerevole, e buone risorse finanziere, uno Stato, in cui la popolazione rurale non sa nulla delle tendenze nazionali, e nel quale la nobiltà è in gran parte dinastica e realista.

«Questi fatti provano, che se certi uomini riescono a mantenere per qualche tempo un sistema contrario alla corrente del tempo ed alle tendenze del secolo, questo sistema raramente sopravvive ai suoi autori. Ogni macchina si arresta, se il motore si guasta. La minima perturbazione fa volare in pezzi tutta la costruzione.

«Il Re Ferdinando di Napoli, come l'Imperatore Nicola, aveva per principio di non fare veruna concessione allo spirito del tempo. Ogni progresso era per essi la stessa cosa della rivoluzione. Questo sistema fu per lungo tempo esaltato a Berlino come a Parigi, sull'Elba, come sul Danubio. Il Ministro del Commercio in Austria potrebbe dirne qualche cosa. Il fu signor de'  Bruck ha fatto per molto tempo degli inutili sforzi per pervenire alla conclusione di un trattato postale, e quando n'erano regolate le condizioni materiali, si obbiettarono considerazioni politiche.

«La stabilità è utile solamente, quando è una forza moderatrice del progresso; passalo allo stato di principio assoluto, annulla ogni forza d'impulsione. Un uomo immobile sente intorpidirsi i suoi piedi, come una macchina, che non lavora, s'irrugginisce.

«Il successore dell'Imperatore Nicola ha abbandonato in tempo questo sistema: La guerra di Crimea aveva infranto il vecchio sistema. L'Imperatore Alessandro comprese che la Russia doveva entrare in altre vie, e conciliarsi le simpatie delle nazioni europee per distruggere le prevenzioni, che l'Europa intera nutriva contra di essa.

«In Napoli la morte di Ferdinando II indicò la fine del suo regno. Egli era stato molto abile per comprendere, che la popolazione era apatica, e che la popolazione operaia gli era attaccata. Sapeva, che le sue truppe si condurrebbero bene, se potessero raggrupparsi d'intorno un solido centro, gli Svizzeri. Questo corpo era dunque il punto di appoggio di tutto il meccanismo. Ma dopo della sua morte proseguendosi la medesima strada, si è privato di quest'appoggio, ed i reggimenti svizzeri furono disciolti.

«Si pretende, che questa misura fosse stata consigliata dal Gabinetto delle Tuileries, il che spiegherebbe molte cose.

«La prima rotta ha demoralizzato l'armata, la quale era formata di giovani truppe, senza spirito di corpo, senza punto di onore, senza tradizioni, e sopratutto senza un giovane capo, che avesse potuto rigenerarle anche in mezzo ai rovesci.

«Ma a Napoli il governo non ha saputo far nulla di quanto era d'uopo per elettrizzare la massa inerte; ed ha mostrato una debolezza, che doveva essere fatale. Cedendo a delle pressioni ignote, ha dato goccia a goccia le sue concessioni, non ha avuto altro movente, che la paura. Il convincimento di essergli serrate le antiche strade e la ripugnanza di entrare in una nuova hanno paralizzato la sua azione. Egli non ha promesso, che delle mezze misure, una specie di assolutismo costituzionale sul modello francese.

«I suoi avversarii l'hanno veduto debole, ed osano tutto; i suoi amici hanno veduto le sue esitazioni, o temono.»

È inutile di ripetere, che le massime e le opinioni della stampa periodica in un governo assoluto non possono manifestarsi opposte a quelle dello stesso governo. Intanto il giudizio della Gazzetta Austriaca era severo, e comunque trapelasse il risentimento per la defezione anche forzata del governo di Napoli, era vero quello, che il Comitato nazionale napoletano diceva nel suo manifesto di essere stato quel governo abbandonalo anche dall'Austria. In Vienna si era sorpreso di quanto era avvenuto. — «Non si attendeva, scriveva una corrispondenza da quella Città, nelle nostre alte regioni di vedere l'armata napoletana soccombere alla prima scossa, e molto meno si credeva, che le masse abbandonassero la famiglia reale.»

Come le illusioni si dileguavano!

«Nel punto, in cui sono gli affari, scriveva l'Ostdeutsche-Post, è permesso di sperare, che si stabilirà in Sicilia un ordine di cose più durevole che nel regno di Napoli, ove le più larghe concessioni arrivano troppo tardi. La costituzione napoletana non modificherà la situazione.

Codesta opinione era pressoché europea; era espressa più o meno vivacemente, ed in questo i fogli clericali e legittimisti non erano forse i meno diffidenti di tutti. Il Monde, dopo di avere fatto una classifica della stampa, ed aver della, che gli ottimisti, dicono forse è troppo tardi, i rivoluzionarli è troppo tardi, ed i conservatori troppo presto, vi avea soggiunto: — «Il governo napoletano ha creduto di fare delle concessioni; dev'eseguire lealmente le sue promesse, ma dopo di avere dato alla rivoluzione ciò che dimandava, deve mostrarle, che non otterrebbe più da esso altra cosa. Ecco il possibile. Ma ciò è probabile?

«Le ultime notizie annunziano, che il nuovo sistema adottato dal governo napoletano non ha disarmato i suoi nemici, ma solamente ha raffreddato lo zelo dei suoi amici; nondimeno le concessioni sono larghe e generose..

«perché tolto questo? Perciò per governare gli istinti de'  popoli, bisogna presentirli, indovinarli lungo tempo prima, e non attendere, che siano in contraddizione con Le istituzioni; perché sono fatali quei sistemi di governo, che invece di vedere da lontano ciò, che può alterare le disposizioni dei popoli, si lasciano sorprendere dai cambiamenti consumati, ed aspettano il rovesciamento delle leggi per intraprendere di riformarle.

Queste osservazioni faceva l'Unione in un articolo sulle concessioni del Re di Napoli; non le attribuiva direttamente a questo governo, poiché quel foglio non avrebbe potuto farlo. ma esponendo quelle verità politiche nell'articolo succitato, le rendeva necessariamente applicabili al governo sopradetto, e cedeva suo malgrado alla forza di un vero, che lo colpiva ().

Or bene questo giudizio unanime dei nemici e degli amici sul troppo tardi non Implica forse il giudizio unanime della caduta della dinastia, e non ne attribuisce la responsabilità ad essa stessa?

Però vi è il troppo presto dei conservatori, spiegato nel senso di un atto di debolezza del Principe, che lo ha perduto. Questa è quistione storica non politica, perché deve risolversi coi fatti, che sopravvennero; questi fatti hanno forse provato, che le concessioni indebolirono le forze di resistenza del governo napoletano?

Al 25 giugno era poco men di un mese, da che la Sicilia era del tutto perduta; il poco, che ne restava, si manteneva a stenti, ed al primo urto cadde. L'armata nazionale, che aveva fatto sorgere qualche speranza da un lato, qualche timore dall'altro, che non si sarebbe battuta contra del popolo, si era battuta; ma in qual modo? La rapacità e la indisciplina ne avevano scoperto due grandissime piaghe. Il Re ne aveva commesso il comando a persona di sua fiducia, e ben poco pensiero si dava del parere ed anche delle rimostranze del ministero costituzionale nel trasmettere a quel generale gli ordini, che credeva opportuni. Per questa parte specialmente la direzione non cambiò per nulla. Rimanevano sempre presso del principe le stesse persone per la trasmessione degli ordini all'armata, e di queste persone egli si avvaleva. Le fazioni militari non solo.»on furono paralizzate dalla costituzione, ma furono sempre immaginate con la speranza, che si potesse per mezzo di esse giungere a vincere la rivoluzione. La costituzione non impedì per certo l'assembramenio delle truppe e le disposizioni militari nelle Calabrie. Il 10 di giugno fu disposto un corpo di armata sotto gli ordini del Maresciallo di campo D. Alessandro Nunziante composto di 12 battaglioni di cacciatori, armati di carabine, di quattro reggimenti di linea armati di fucili rigati, di sette squadroni di cavalleria, sei batterie di artiglieria, zappatori, pionieri, gendarmeria, guide ecc. Il 18 di giugno questo corpo ripartito in tre divisioni, fornito di ambulanza, servizio amministrativo, viveri e munizioni, ebbe l'ordine di tenersi pronto a partire per la Puglia, la Calabria, ed il Cilento. La costituzione non ne sospese la marcia, ma.non calmò neppure lo spirito pubblico, che da si lungo tempo si era pronunziato contro del governo. I proclami dei comandanti territoriali in quelle provincie ne attestano l'agitazione. Il generale Ritucci, quello stesso, che formò parte del primo ministero costituzionale, enuncia in uno di questi le precauzioni prese per garantire la tranquillità pubblica; egli ha mobilizzato delle guardie urbane con pagamento per coadiuvare le truppe regie in caso di bisogno, e nulla ha omesso delle paterne cure del nostro angelico Sovrano. E non per tanto le popolazioni accolgono festose Garibaldi, e le truppe si sciolgono, o si ritirano innanzi a lui.

Noi teniamo conto a Francesco II di avere lasciato Napoli. e di avere cosi impedito, che un conflitto vi fosse nato, ma dal conflitto nulla avrebbe egli potuto sperare, ne quello avrebbe arrestato la marcia trionfale del Generale italiano. Il Re usci di Napoli col proponimento di dare battaglia, ed invece si ritirò in Capua. Garibaldi entrò in Napoli, passando solo di sotto ai forti, che le artiglierie borboniche tuttavia tenevano, e non si tirò un sol colpo. Le truppe, che si erano sbandate, si riunirono in Capua, e poi in Gaeta. Che cosa significa tutto questo, se non che e gli artiglierì dei forti e le truppe erano convinte del sentimento delle popolazioni, e lo misero a calcolo nelle loro operazioni? Questo sentimento ne impose ai comandanti dei forti, e ne abbiano lode, e questo sentimento ancora fece sbandare i soldati, quando si tenevano esposti al doppio attacco dei garibaldini e delle popolazioni, e li fe riunire nelle piazze forti, ove nulla avevano a temere dalle seconde. Sembra impossibile che si possa contraddire questa proposizione e non ammettere l'altra, che le truppe temevano, non le popolazioni, ma i garibaldini; ed allora non si potrebbe sconfessare, essersi già tanto debole, che il cedere era divenuta una necessità.

Ora riprendendo dopo questa digressione necessaria a stabilire il vero carattere della rivoluzione napoletana, la interrotta narrazione, diremo, che il 21 di giugno riuscì finalmente al commendatore Spinelli di comporre il ministero. Esso commendatore Spinelli era Ministro Segretario di Stato Presidente del Consiglio dei Ministri. Il commendatore De Martino Ministro degli Affari Esteri. Il cavaliere Federigo del Re Ministro Segretario di Stato dell'Interno e della Polizia. Il principe di. Torella Nicola Caracciolo Ministro Segretario di Stato degli Affari Ecclesiastici. Giovanni Manna Ministro Segretario di Stato delle Finanze. Il Marchese Augusto la Greca Ministro segretario di Stato dei Lavori Pubblici. Gregorio Morelli Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia. Il Generale Ritucci Ministro Segretario di Stato della Guerra, ed il Retro Ammiraglio Francesco Saverio Garofalo Ministro Segretario di Stato della Marina.

Noi non esitiamo a dire, che quel Ministero riuniva le più desiderabili condizioni di probità e molte d'intelligenza, e questa è l'espressione dell'opinione generale in Italia non solo, ma fuori. Citiamo per pruova la biografia, che ne pubblicò l'Opinion nationale, cui non si può fare appunto di difetto ne di liberalismo ne di italianità, nella quale biografia se si nega a qualcuno il colore politico, che produce l'energia del carattere richiesto dalla situazione, a tutti largamente si concedono le doti di probità e di civile intelligenza. Quel medesimo foglio aveva scritto: — «Se fosse possibile di supporre ora il Re di Napoli in buona fede, bisognerebbe affrettarsi di applaudire alla sua concessione, per quanto tardiva essa sia. Ma questa buona fede è probabile? È pure possibile? Allevato nelle tradizioni del più puro assolutismo, figlio di un padre assolutista, dominato da una madrigna assolutista, che fa in questo momento Francesco II? Tenta con una disperata manovra di ritenere sulla sua testa la sua vacillante corona, cede agli avvenimenti, è vinto, ma non convertito.... Egli chiama dei ministri liberali per farsene uno scudo contro la rivoluzione. Ma che un avvenimento favorevole all'Austria si riproduca in Italia; che il Piemonte perda una battaglia sul Mincio, che la Francia si trovi impedita d'intervenirvi, e Francesco II manderà il Ministro Spinelli a prendere nel Bagno il posto lasciato vuoto dal signor Poerio, l'antico Ministro di suo padre.»

Questo concetto colpisce energicamente la mente di tutti; chi avrebbe potuto dirlo assolutamente non vero? Ebbene, senza cedere ad esso, quel ministero ebbe il coraggio di presentare al Re il rapporto, che precede la restaurazione dello Statuto, e che da qui a poco riferiremo.

Nel frattempo dal ritiro del vecchio ministero sino alla composizione del nuovo, Napoli si può dire essere rimasta in balia di sé stessa; ed erano quelli i giorni di maggiore eccitamento delle passioni. L'atto sovrano del 25 giugno non aveva fatto niuna impressione, ma l'inaugurazione dei colori nazionali italiani ne produsse una fortissima. Non solo i cannoni dei forti e di tuti i legni in rada nazionali ed esteri, ma tutti i cuori napoletani li salutarono col più vivo trasporto. Neppure nel 48 quei colori avevamo potuto vederli nella loro disposizione nazionale, e r indomani sentivansi già intuonare dal gaissimo popolo di quella città ed in tutte le strade di essa espressivi versi in dialetto napoletano, che attestano il vero sentimento popolare. Il vessillo nazionale italiano, inalberato il 21 giugno su tutti i forti della capitale, atteso che il dispotismo brutale, che per tanti anni aveva tormentato tutte le classi della popolazione, era alla pur fine caduto.

Sarebbe stato un miracolo di saggezza e di moderazione, se in quella condizione degli animi e nel totale abbandono del governo, al popolo si fosse limitato a salutare col canto gli amati colori italiani. Ma gran parte de'  popolani erano stati obietto dei più brutali maltrattamenti da parte degli agenti della polizia, turpissima gente, rotta ad ogni specie di vizio, e che sapeva di dovere cercare solamente nel terrore la propria salvezza. Quei poveretti, che non avevano altra colpa, che di essere liberali, erano stati umiliati, carcerati, battuti, trascinati, colpiti nelle loro più care affezioni, e quella trista genia di guardie di Polizia mostravasi ancora nell'esercizio delle sue funzioni quando era venuto il tempo, in cui il fremito degli oltraggi ricevutine non era più frenato dalla forza materiale, che per io stesso suo abuso si era spezzata.

Noi non ci faremo per certo gli apologisti dei fatti del 27 e del 28 luglio, ma diremo che come reazione contro un potere conculcatore di ogni legge di giustizia e di morale, essi furono minori di quelli, che bisognava attendere, e che la cura, che gli stessi aggressori ebbero di spogliare le loro aggressioni di ogn'imputazione di furto o di rapina, serbarono loro il carattere di una pura e semplice reazione politica scnz'attentato alle proprietà private, arrestatasi da sé medesima, quando l'obietto della reazione fu ottenuto.

La sera del 27 luglio una pattuglia di polizia mista di uomini di polizia e di gendarmi fu aggredita nella strada Toledo, e propriamente nel largo della Carità, e pregati i gendarmi a rimanersi da parte, le guardie di polizia furono disarmate e malmenate. Nel tumulto, che ne nacque, la carrozza del Barone Brenier trovavasi per caso, avanzando passo passo, in quel medesimo punto, ed il Ministro di Francia ricevé due violenti colpi di bastone, uno dei quali gli fe cadere il cappello, e l'altro lo ferì, facendo una piaga nell'osso frontale. I suoi domestici ricevevano contemporaneamente due altri colpi. Gli autori di questo vile attentato s'involavano immediatamente,, e si confondevano, nella folla. Il Ministro rientrò in sua casa, ove fu assistito dagli uomini dell'arte, e ricevé la visita di due dei Principi della famiglia reale, e di altri personaggi eminenti. Tutta la Città fu commossa a la notizia di quel fatto.

La mattina del 28 tutti i Commissariati di polizia furono contemporaneamente assaliti, le guardie disarmate, la mobiglia, le porte, le finestre, le carte bruciate; le armi furono recate all'arsenale, i Crocifissi furono depositati nelle Parocchie o nelle Chiese più vicine; non si permise, che si asportasse una sedia, e, due degli stessi assalitori, che tentarono di farlo, furono battuti. Si racconta, che nel largo della Carità mentre bruciava la mobiglia di uno dei commessariati una povera vecchia voleva sottrarne ed appropriarsi un piccolo e meschino tavolino; rimproveratane, rispose, che lo faceva, perché non aveva dove mangiare: — Ebbene, le disse un popolano, compratelo, e le diè una moneta, ma questa roba maledetta dev'essere bruciata.

Mentre duravano queste operazioni, la Città era senza forza, e se tutte le masse dei popolani, che avevano assalito i dodici quartieri della capitale, si fossero ingrossate della gente dedita al bottino ed al saccheggio, Napoli avrebbe potuto soffrire gravissimo danno. Ma no; quelle diverse schiere di popolani, dopo di avere distrutto il rispettivo commessariato, si fermarono, e ne imposero col loro contegno a chi pensava di saccheggiare. Le pattuglie di truppe non cominciarono ad uscire, che al mezzo giorno. Vi furono degli agenti di polizia uccisi o per vendetta particolare o per resistenza opposta. Lo stesso giorno 28 fu proclamato lo stato di assedio.

«Visti i gravi disordini sopravvenuti nella capitale nei giorni di ieri ed oggi, abbiamo giudicato necessario conformemente alle leggi in vigore di proclamare lo stato di assedio a fin di avere la possibilità di mettere in pratica le nuove istituzioni è di stabilire una guardia cittadina per proteggere l'ordine e la tranquillità pubblica. Le disposizioni più urgenti sono di già prese affinché il Sindaco e gli Eletti procedano alla formazione delle liste in ogni quartiere.

«Napoli 28 giugno 1860.

«Il Ministro dell'Interno

FEDERICO DEL RE

Da parte sua il Comandante della Piazza pubblicava:

«Per ordine del Ministero in conseguenza del tumulto e degli avvenimenti di ieri sera è dichiarato lo stato di assedio in questa capitale in conformità degli articoli della reale ordinanza di Piazza, che avranno il loro pieno vigore dal momento della pubblicazione del presente atto.

«Dovendo prendere il comando generale in qualità di comandante della piazza, sono sicuro, che tutti gli abitanti di questa nobile capitale nel loro sublime incivilimento e con la loro energia già mostrata concorreranno al bene del paese con tutti i loro mezzi e tutta la loro buona volontà, e che si conformeranno alle prescrizioni della legge, alla quale ogni buono cittadino deve obbedienza.

«Per conseguenza sono state prese da me le seguenti disposizioni:

«10 E vietato ogni attruppamento di più di dieci persone e coloro, che ne formeranno, saranno immediatamente dispersi dalla forza.

«20 È vietata l'asportazione delle armi da fuoco e delle armi bianche; coloro, che saranno sorpresi in contravvenzione della presente disposizione, saranno giudicati militarmente.

«30 E vietata l'asportazione di grossi bastoni, che saranno considerati come armi.

«Finalmente le vociferazioni ed i gridi sediziosi, e gli altri mezzi di produrre tumulto saranno repressi in conformità delle precitate regole ed i loro promo tori o esecutori saranno arrestati.

«Napoli 28 giugno 1860.»

«Il Comandante delta Provincia e delle Piazze

EMANUELE CARACCIOLO, maresciallo

Preoccupavansi intanto tutte le classi della popolazione di Napoli a testificare al Barone Brenier il rammarico dell'iniquo attentato commesso su di lui, e l'interesse, che tutta la popolazione prendeva alla Sua sollecita guarigione. Un notevole numero di persone si recava al palazzo dell'ambasciata per informarsi della salute del Ministro e lasciarvi 11 proprio nome; secondo la Gazzetta di Genova la lista delle persone di ogni grado e di ogni condizione, ch'erano andate a farsi inscrivere, non conteneva meno di 12 mila uomini. Inoltre un indirizzo coperto dalle firme della classe popolare dei 12 quartieri della capitale, venne presentato al Ministro; e diceva:

«Il popolo napoletano fortemente commosso e rattristato pel deplorabile fatto, che vi è avvenuto, sente il bisogno di protestare altamente, e di testimoniare a V. E. ed all'augusto personaggio, che voi rappresentate, che questo attentato non è per certo dovuto, se non ai miserabili, che dopo di avere per sì lungo tempo oppresso ed oltraggiato il nostro paese, hanno voluto per malevolenza ricorrere ad infami estremità.

«Il popolo napoletano, che ci ha incaricato di rappresentarlo, comprende tutto il debito della riconoscenza, che ha contratto verso l'E. V. che tanto ha. contribuito ai suoi vantaggi, come verso la Francia e del suo augusto Imperatore, che insieme al Be Vittorio Emmanuele ha inaugurato su i campi di battaglia il risorgimento d'Italia; e questo popolo è pronto a versare tutto il suo sangue per discolparsi da ogni sospetto di cooperazione ad un fatto, che basterebbe da se solo a disonorarlo.

L'attentato di alcuni tristi, che sorpresi nel fatto, difficilmente si sarebbero sottratti dal furore popolare, non poteva essere più nobilmente riparato da una in fiera popolazione. Il popolo napoletana aveva ceduto per alcune ore ai consigli non saggi delle sue passioni, ma padrone di sé stesso, si era fermato non appena si avvide di potere oltrepassare i confini di un pensiero prettamente politico, ingiustificabile dal lato dell'ordine e della legalità, ma scusabile per le provocazioni dirette a rendere irritabilissime tutte le più furti passioni. Il suo contegno verso il Ministro di Francia compiva la pruova del sentimento, ch'egli aveva, del suo onore e dei suoi doveri.

Epperò il Barone Brenier, non appena rimesso, e quando doveva già impiegare buona parte del suo tempo a ricevere visite ed anche deputazioni, si affrettò a rispondere all'indirizzo del popolo con la lettera, che trascriviamo. e ch'ei diresse a coloro, che glielo avevano presentato.

«Napoli 4 luglio»

«Signori;

«Sono profondamente riconoscente dell'indirizzo, che mi avete fatto l'onore di rimettermi. Nulla tocca dippiù dell'espressione del sentimento popolare commosso all'aspetto di una viltà e di una ingiustizia. Io non aveva bisogno di queste testimonianze d'interesse per essere convinto, che la popolazione di Napoli rispetta il rappresentante di un Sovrano, che ha fatto memorabili cose pel bene dell'Italia, e ch'essa riprova ciò, che verso di me si è fatto la sera del 27.

«Conserverò questo, indirizzo come un titolo di onore personale e di famiglia, e sono felice, o signori, dopo di avere passato molti anni della mia vita in Italia, dì essere trattato con tanta distinzione da una delle più belle e delle migliori città di questo nobile paese.

«Vogliate gradire la nuova assicurazione del mio sentimento di gratitudine e di, attaccamento.

«BRENIER.»

L'avvocato Liborio Romano era stato nominato Prefetto di polizia, ed il 28 di giugno si manifestò al pubblico ne termini che seguono:;

«Le nuove istituzioni. che promettono e garentiscono al nostro bel paese un avvenire di prosperità, non possono ragionevolmente produrre buoni e radicali effetti, se il popolo non prova di averli meritati, aspettando con pazienza le nuove leggi, e che siano messe in esecuzione, rispettando l'ordine pubblico, le persone, e le proprietà, in fine conducendosi con quella prudenza, ch'è la più solida testimonianza del l'incivilimento di un paese.

«Così si consolidano, si assicurano, e si accrescono la prosperità personale e pubblica; con la pratica delle virtù civiche, con la moderazione, con l'obbedienza alle leggi, o non con delle parole insensate, de'  tumulti oltraggiosi, non con l'intemperanza dei ragunamenti incivili, non con gli attruppamenti intempestivi, atti soltanto ad inspirare dei dubbii e poca confidenza nella buona causa.

«Questi atti sono il fatto dei tristi, che cercano di migliorare la loro sorte, suscitando passioni personali, l'intolleranza, e tumultuose dimostrazioni.

«Per lo contrario il portamento tranquillo, degno di un popolo eminentemente civile, distingue ed onora l'immensa maggioranza degli abitanti di questa metropoli.

«Coloro, che per inconsiderati debordamenti osano spingere a provocazioni e dimostrazioni sovversive delle leggi, nocive ai dritti di proprietà, turbatrici dei consigli del governo, pericolose per la nuova organizzazione della rigenerazione comune, sono una eccezione.

«Preposto alla salvaguardia della sicurezza pubblica, reggo in questi momenti la necessità di dirigermi ai buoni Napoletani degni del nuovo regime, e d'invitarli di concorrere al mantenimento dell'ordine e della tranquillità, mettendo adesso da parte ogni fermento di odio e di rancore personale.

«In virtù di questo principio e nello scopo di evitare ogni disordine son vietati sin da questo momento gli attruppamenti ed ogni grido di natura da ingenerare tumulto.

«La forza militare avrà l'incarico di proteggere l'ordine pubblico, dissipando in una convenevole maniera le riunioni tumultuose, che potessero farsi.

«Confido, che questa esortazione sarà ben accolta dai buoni cittadini, che col loro portamento moderato non vorranno obbligare la forza militare ad agire, ritenendo coloro, che saranno sordi a quest'esortazioni.

«Sottoscritto — Il Prefetto di Polizia

LIBORIO ROMANO.»

E l'indomani un secondo proclama diceva:

«Cittadini;

«Nella pienezza delle emozioni, che mi aveva fallo provare l'alta e difficile missione, alla quale l'Augusto Monarca si è degnato di chiamarmi, ho espresso sotto la dettatura del mio cuore i sentimenti, che avete letto nel mio precedente proclama. Rassicurato ora dall'attitudine degna e tranquilla, che avete serbato dopo le mie esortazioni, debbo rendervene le mie più segnalate azioni di grazie, ed ho la intiera confidenza, che vorrete continuare la potente cooperazione della vostra sapienza civile. Onde la vostra confidenza nel nuovo ordine di cose possa tranquillamente riposarsi sugli sforzi del governo per organizzarsi, vi annunzierò con gioia, che la costituzione promessa dall'atto sovrano del 25 di questo mese sarà quella del 1848. Continuate, cittadini, ad accordami il vostro concorso affinché nella calma delle deliberazioni sia messa rapidamente l'ultima mano all'atto sublime, che deve elevare ad una vera grandezza la patria comune, il nostro augusto monarca, ed il nome napoletano.

«Il Prefetto di Polizia

Liborio Romano.»

Tutte queste esortazioni e promesse giovavano a serbare la tranquillità pubblica, che non fu più turbata dopo gli avvenimenti della sera del 27 e del 28 giugno, ma non a destare l'interesse e la cooperazione, che dovevano essere il segno dell'accettazione delle regie concessioni. E cosi generale e così radicato era il sentimento della diffidenza della conversione del Principe ai principii liberali, che gli spaccia tori per le pubbliche strade dell'atto sovrano del 25 giugno avevano credulo necessario di gridarlo la vera costituzione per allusione alle parecchie altre, che erano rimaste false. E per contropposto di questa vera costituzione, che si vendeva, distribuivansi gratis due lettere di Carlo Poerio, impresse clandestinamente, con le quali quell'impareggiabile martire della libertà napoletana dichiarava agli elettori di Livorno e di Arezzo la sua piena e completa adesione al principio dell'unità italiana. Quale associazione d'idee poteva destare quel nome illustre, che si mischiava allo spaccio delle concessioni cosi stentate di Francesco II?

Il Comitato nazionale invitava intanto il popolo alla quiete, ed all'amore ed al rispetto per l'armata com posta di fratelli, che l'illustre Garibaldi ha egli stesso chiamato valorosi. Allora si sperava ancora sulla cooperazione dell'armata al risorgimento italiano, o si contava per lo meno di non averla nemica. Il popolo si serbava calmo e tranquillo.

Nel decorso di tre giorni il nuovo ministero si era occupato degli urgenti bisogni della pubblica amministrazione, e nel 30 di giugno venne pubblicato un decreto di vera è larga amnistia. Era abolita l'azione penale per tutt’i prevenuti di reati politici, e conseguentemente era vietato ogni ulteriore procedimento contro i detenuti o gli assenti per fatti anteriori al giorno 25 giugno. Del pari veniva rimessa ogni pena principale o accessoria, che restava da espiarsi per tali reati, compreso l'esilio perpetuo dal Regno, anche per coloro, ai quali era stata inflitta per commutazione di altre pene. L'amnistia giovava anche a coloro, che si trovavano già condannati in contumacia per reati politici; e quelli, che per disposizioni di precauzione erano usciti dai regno per motivi politici, ave vano facoltà di ritornarvi. Rimanevano salve le azioni o riparazioni civili e pel ricuperamento delle spese giudiziarie in quanto concerne soltanto le parti civili, perocché per l'amministrazione generale delle finanze e lo Stato quelle azioni non avrebbero avuto più corso ne Ulteriore esecuzione.

Quindi il Ministero si diè a cercare come potesse meglio adempire all'affidatagli missione della compilazione dello Statuto. L'indifferenza, con la quale la nazione aveva accolto la promessa sovrana, imponeva il debito di cercare la via di guadagnarne il favore, dotandola di una costituzioni, Che le potesse essere cara; e qual altra meglio di quella del 1848 poteva offrire questa condizione ed avere maggiore attrattiva? Oltreché dicendosi quello statuto per istraordinarie circostanze sospeso, si attenuava il numero degli statuti conceduti e distrutti dalla Dinastia. Per la qual cosa il Ministero sottopose all'approvazione sovrana il 1° di luglio il seguente rapporto:

«Sire;

«Con un memorabile atto del 25 giugno V. M. annunziava ai suoi popoli due grandi idee, cioè quella di mettere in vigore nei suoi Stati il regime costituzionale; e quella di entrare in accordo col Re Vittorio Emmanuele pel maggiore vantaggio delle due Corone in Italia. Queste sublimi parole, che indicano per V. M. e pel suo regno il principio di. un'era grande e gloriosa, hanno risuonato in tutta l'Europa ed aperti alla gioia i cuori del vostri sudditi, che attendono dalla virtù e dalla lealtà del loro. Re il compimento della grand'opera. Contemporaneamente V. M. si è degnata di chiamare al poterei sottoscritti per comporre un consiglio di Ministri, nel quale Ella riponeva la sua confidenza per la pronta esecuzione della sua volontà, e l'ha incaricato della redazione dello Statuto per questa parte del Regno. Ma il vostro Consiglio, o Sire, consacrandosi all'adempimento dell'ordine sovrano, ha considerato, che uno statuto costituzionale esiste nel dritto pubblico del regno, quello cioè che fu conceduto dal fu augusto vostro padre Ferdinando II. Se questo statuto dopo qualche tempo si è trovato sospeso in seguito di deplorabili avvenimenti, che non è a proposito ora di ricordare, esso non pertanto non è stato mai abrogato, com'è avvenuto in qualche altro Stato europeo. Sembra ai sottoscritti, che sia una idea semplice e logica, che questo statuto sia rimesso in vigore; il che facendo, V. M. trova bella e facile l'opera, della quale vuole, che i suoi Stati raccolgano i benefizii. Lo straniero ammirerà in quest'alta disposizione la sapienza del Sovrano ed i vostri popoli, senz'attendere una nuova compilazione, sapranno con la maggiore sollecitudine quali sono le loro franchigie, e riceveranno con riconoscenza questo nuovo pegno del Re per l'inaugurazione del regime costituzionale.

«Napoli 1 luglio 1860.»

Sottoscritto — De Martino — Principe di Torella — Francesco Saverio Garofalo — G. Ritucci — Federico del Re — G. Morelli — Marchese Augusto la Greca — A. Spinelli.

Al quale rapporto seguiva il decreto, il cui primo articolo diceva:

«La costituzione del 10 febbraio 1848, conceduta dal nostro augusto padre, è rimessa in vigore.»

Il secondo articolo conservava in vigore l'art. 88 della detta Costituzione relativo agli stati discussi.

Questo decreto aveva la medesima data del I luglio 1860, e tre altri decreti con quella stessa data provvedevano:

«1.° Alla convocazione del parlamento nazionale da seguire in Napoli pel 10 del seguente settembre. I collegi elettorali per la elezione dei Deputati erano con vocati pel 19 agosto. In mancanza di una legge elettorale diffinitiva, le elezioni si sarebbero fatte in conformità della legge elettorale provvisoria del 29 febbraro 1848 e del decreto del 24 maggio detto anno.

«2° Ai provvedimenti sulla stampa. Sinché sarà sanzionata e pubblicata la legge diffinitiva sulla stampa, saranno provvisoriamente osservale le disposizioni contenute nei decreti dei 25 maggio 1848, 27 marzo 1849, e 6 novembre 1849.

«3° Alla formazione di due commissioni, ciascuna di quattro membri, la prima sotto la dipendenza e presidenza del Ministro dell'Interno per preparare i progetti della legge elettorale, della legge sulla guardia nazionale, della legge sull'organizzazione amministrativa, della legge sul Consiglio di Stato, della legge sulla risponsabilità ministeriale. La seconda commissione era istituita sotto la dipendenza e la presidenza del Ministro dell'Istruzione pubblica per preparare il progetto della legge sulla stampa.

Inoltre era annunziato dal Giornale uffiziale, che per serbare l'ordine nelle Città del Regno, il Ministro dell'interno avrebbe redatto e pubblicato un regolamento per la formazione delle guardie nazionali provvisorie, e che di già vi si provvedeva nella capitale.

Tranne le disposizioni sulla stampa, che richiamavano in vigore i decreti pubblicati nel 48 e 49 dopo le reazione e conseguentemente in quel tempo in cui si volle soverchiamente imbrigliare la stampa periodica, tutt’i provvedimenti emanati erano quali si poteva desiderare che fossero, ed attestano la buona fede e le rette e ferme intenzioni del Ministero. Se non che mancavano della condizione del tempo, di questo elemento essenzialissimo della politica, onde l'insuccesso, che ebbero, si deve unicamente a questo attribuire.

Proclamata la riattazione dello statuto del 1848 il 2 di luglio fu pubblicata in un proclama del nuovo Comandante della Piazza generale Conte d'Aragona Cutrofiano un'ordinanza del Consiglio dei Ministri che diceva:

«Il Consiglio dei Ministri Segretarii di Stato;

«Vista l'ordinanza del comandante della provincia e piazza di Napoli del 28 giugno ultimo, che stabilisce lo stato di assedio nella Capitale;

«Considerando, che la tranquillità pubblica è ristabilita, e che la restaurazione dello statuto costituzionale e dei decreti, che lo sieguono, da una parte, e dall'altra il buon senso nazionale dei savii abitanti di questa capitale, uguale a quello degli altri popoli d'Italia, sono una garantia, che l'ordine pubblico non potrà essere ulteriormente turbato;

«Certo d'altronde della forza del governo per ristabilirlo in ogni caso in virtù delle leggi e dei regolamenti di piazza in vigore;

«Dispone:

«1° Che lo stato di assedio della capitale sia tolto;

«2° Che sin quando la guardia nazionale provvisoria non sarà formata per la città di Napoli, la truppa continui a prestare i suoi servigi per la protezione dell'ordine pubblico.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

.

ACCAMPAMENTO DI MULTE SOLDATI

DELL'ARTIGLIERIA SICILIANA

nel fossato del faro

Ed il Generale annunziava, che lo stato di assedio era tolto, e si mostrava pieno di confidenza, che l'ordine pubblico non essendo più turbato, si renderà inutile ogni specie di ritorno alle misure straordinarie, che per la protezione dei buoni abitanti han no potuto essere momentaneamente adottate.

Non ostante però tutte queste forme concilianti e tutti gli sforzi del Ministero per destare la fiducia del pubblico nel governo, questa fiducia non veniva. Si teneva conto personalmente ai Ministri dell'opera loro, ma si riteneva sempre il Re per principii avverso alle concessioni, ch'era forzato di fare. Si diceva, che De Martino avesse per ben due volte offerta la sua dimissione al Re, che non voleva accettare il rapporto del Ministero sulla restaurazione dello Statuto, e questo fatto, o vero o falso, che fosse, veniva facilmente credulo, perché rispondeva alle massime ed alle abitudini del Principe ed alle opinioni del pubblico. Per tal modo le condizioni politiche non miglioravano.

Gli uomini dell'antica polizia cercavano con ogni studio di mettersi in salvo. Aiossa fu condotto dalla legazione francese a bordo dell'Eylau, d'onde poi fu trasportato sull'Ermus per essere menato in Francia.

Appena giunto sul legno e vedutosi in salvo, voleva dare la mancia al Segretario ed all'attaccato della detta legazione, che l'avevano accompagnato ()!! Niente meglio di questo dipinge il carattere, le massime, le abitudini dell'antico ministro della polizia.

Morbillo, Campagna, De Spagnolis e gli altri si nascosero e si salvarono come meglio poterono, mentre circolava per Napoli un componimento, che in una forma non elegante, ma uniforme alla fervida immaginativa dei Napoletani, esprimeva con energia e verità il pensiero e l'irritazione della popolazione.

«La partenza detta Polizia.

«La polizia è partita per l'altro mondo.

«Essa ha fatto il suo testamento ieri sera.

«Ha legato i suoi peccati agl'infami ed ai nemici della nazione, e questi sono incaricati di pagare i suoi debiti.

«La polizia si è messa in viaggio a mezzanotte.

«Il diavolo si è incaricato di trasportarla.

«Avendo vestito l'uniforme di Morbillo, il gilèt di Campagna, i calzoni di De Spagnolis, ed il cappello di Mensurati, il diavolo ha cominciato a guidare la sua carrozza.

«La carrozza si è messa in cammino in una strada bagnata del sangue della povera gente.

«Le ruote screpitavano, tritando le ossa delle vittime.

«Il vento, che soffiava, era prodotto dai sospiri degl'infelici.

«Il diavolo, che ha il cuore durissimo, non ha potuto resistere, e mi si assicura, che intenerendosi, abbia detto:

«La polizia napoletana è anche più cattiva di me!

«E pronunziando queste parole, il diavolo diè un calcio al veicolo, e fece precipitare nell'abisso l'ignobile e defunta polizia napoletana.

«Ciò fatto il diavolo si mise a ridere, ed esclamò:

«Vivano le brave genti! Vivano i valorosi.»


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CAPITOLO XIX

La nuova amministrazione costituzionale

— L'alleanza piemontese.

SOMMARIO

Atti di barbarie dell'antico governo svelati dall'amnistia — Attanasio Drammis — Il detenuto misterioso — Queste scoperte accrescevano la sfiducia nella sincerità del Re — La situazione si complicava — Non era colpa ne delle istituzioni ne degli uomini, che componevano il ministero, ma dell'essersi trascurato l'elemento del tempo — Articolo del Constitutionnel — Considerazioni politiche su di esso — L'opinione pubblica in Italia si pronunziava contro l'alleanza napoletana — Parole di Guerrazzi nel Parlamento piemontese — Condizioni, in cui si trovava il governo piemontese — Articolo dell'Opinione di Torino — II Re di Napoli si comportava ben diversamente da quello, che si desiderava in Torino — Il partito costituzionale si dirige al Corpo diplomatico — Commessioni pei diversi progetti di leggi — Riorganizzazione della polizia — Nondimeno la situazione politica non si cambiava — La quistione ritornava sempre alla lega piemontese — Altro articolo dell'Opinione di Torino — Per esso gli elementi della quistione erano chiaramente stabiliti — Osservazioni politiche su di essi — Anche il partito costituzionale dinastico aveva delle diffidenze — Il passato governo era. condannato anche dalla stampa austriaca — Ma i suoi giudizii non erano esatti — Ed aveva la stampa austriaca il dritto di censurare? — Invio di due Ministri a Torino ed a Parigi. Loro istruzioni — Posizione di Manna e Winspeare in Torino — Terzo articolo dell'Opinione — Gl'inviati napoletani si adoprauo intanto caldamente pel disimpegno del loro mandato — Acquistano la stima di tutti — Ma l'alleanza diveniva sempre più difficile — Tanto più che le cose interne di Napoli non procedevano bene — Tentativo del 15 luglio — Mancò per la prudenza della popolazione — I Ministri dimandano dei provvedimenti, che non sono adottati dal Re — Proclama del Re alla Nazione — Altro all'armata — Proclama del Ministro della Guerra — Proclama di Romano divenuto Ministro dell'Interno e Polizia — Proclama del Comitato centrale — Organizzazione della Guardia nazionale — Formazione delle liste elettorali per la elezione dei Deputati — Sistema di astenzione — Vizio di questo sistema — Proroga per la chiusura delle liste — Stato dei partiti in Napoli.

 L'amnistia del 30 giugno nell'aprire le porte delle prigioni aveva messo a nudo degli atti di barbarie, che avevano rafforzato il sentimento nazionale contra del governo. Citando una corrispondenza del Nord da Napoli con la data del 10 di luglio 1860, crediamo di attingere ad una sorgente, che non può essere tacciata di esagerata: — «La recente amnistia, essa dice, nell'aprire le porte delle numerose prigioni ha messo a giorno gli orrori, che vi si passavano, e lo stato nel quale erano tenute, stato che sorpassa di molto la spaventevole descrizione, che ne aveva fatto il signor Gladstone. Molti sventurati, che ne sono usciti, facevano paura a vedersi, talmente erano dessi emaciati, inselvatichiti, malproprii, e nudi. Una capellatura, una barba, e delle unghie, che da parecchi anni non avevano più goduto del benefizio delle forbici, rendevano spaventevoli queste povere vittime della ferocia dell'antica polizia. Sarebbe troppo lungo di fotografarvi tutti quasi infelici, e mi limiterò a parlarvi di quelli, che ho veduto coi miei proprii occhi. Quattordici giovani erano detenuti da 4 anni nelle segrete, e la loro sola colpa era di essere stati compagni di collegio di Agesilao Milano, che non pertanto n'era uscito già da sci anni quando attentò ai giorni del defunto Re. Molti di loro, comunque non abbiano ancora raggiunto il sesto lustro, hanno tutti i capelli grigi ().»

Passa quindi a parlare dello sventurato Attanasio Drammis, gendarme amico del sopradetto Agesilao Milano. Niun elemento esisteva, che avesse potuto farlo condannare come complice di quel mancato regicidio, imperocché altro non vi era, che delle lettere amichevoli scritte da Drammis a Milano senzaché si potesse inferirne, che il primo conoscesse il disegno dell'altro. Nulladimeno per quattro anni quello sventurato aveva subito i più crudeli ed inumani trattamenti. insino al punto, che fu generalmente assicurato, che messo in libertà, egli non poteva tollerare la luce.

Però uno spettacolo atroce superò tutti. Nei sotterranei della Vicaria fu ritrovato un uomo che imprigionato da sette anni, aveva smarrita la ragione; il suo nome era ignoto, ed egli non sapeva dare niuna notizia sulla sua persona. Si diceva, che per qualche notizia trovata nei registri della polizia poteva presumersi, che quell'infelice dopo di avere subito tre anni di prigionia in Roma, era stato rinchiuso in Napoli in quei sotterranei a richiesta del Cardinale Antonelli. Bisogna aggiungere per altro, che dopo taluni giorni di questo individuo misterioso non s'intese più a parlare.

Era generale e radicata la opinione, che il manifesto del nuovo Re nell'ascendere il Trono fosse il più sincero atto della famiglia Borbone, e che i concetti, con quello manifestati, stessero così saldi nella mente e nel cuore del nuovo Principe, che a niun costo si sarebbero cambiati. Il perché le tristissime impressioni, ch'emergevano dai fatti narrati e da altri simili spargevano una tinta molto fosca sulla sincerità del giovane Re, che nei primi trasporti del suo animo divenuto sovrano aveva dichiarato di voler essere, ed era stato, sinché aveva potuto, il continuatore della politica di suo padre, della quale vedevansi così orribili e spaventevoli effetti.

Così la posizione diveniva più difficile, e l'azione del governo incagliava ad ogni passo. L'alleanza col Piemonte era una condizione essenzialissima di esistenza per la Monarchia napoletana; essa sola poteva dar vita e moto alla macchina amministrativa, ma quell'alleanza dimandava la stabilità degli ordini costituzionali, la forza e l'energia amministrativa, l'appoggio della pubblica opinione, le quali cose mancavano del tutto al governo napoletano, non per difetto degli ordini politici o degli uomini, che componevano il ministero, ma per essersi trascurato l'elemento importantissimo del tempo.

Le più sante e generose cause, scriveva a questo proposito il Constitutionnel, finirebbero con essere compromesse, se non si sapesse trovare a tempo uno scioglimento pratico, imperocché in politica quello, che più importa, è di sapere finire. La causa dell'indipendenza italiana, dopo di avere passionata l'Europa, ora la defatiga più che non l'occupa, comeché si vorrebbe quasi, che si tagliasse rapidamente in uno o in un altro modo questa interminabile quistione.

«In Napoli il Re Francesco II, aprendo in fine gli occhi, ha testé fatto all'imperiosa necessità le concessioni. che la previdenza avrebbe dovuto indicargli da molto tempo; egli accorda ai suoi popoli l'indomani di un grande scacco le riforme, che la saggezza delle due grandi potenze occidentali gli consigliava di concedere la vigilia. Egli va pure al di là, e sin dal primo colpo oltrepassa il segno, che si osava appena indicargli. La costituzione del 1848, succedendo senza veruna transizione al precedente regime, è più d'una riforma, è una completa rivoluzione.

«Si ricordano a questo proposito delle riflessioni molto sensate, che Luigi Filippo qualche giorno prima della sua caduta dirigeva a Ferdinando II. Il vecchio re conosceva Napoli a fondo, e trovava, che una costituzione, ch'esagerava di molto la carta del 1830, era per quel paese un tentativo più che pericoloso: Bah! bah! esclamò Ferdinando, eglino hanno voluto la libertà, ne abbiano una indigestione.

«L'indigestione qualche mese più tardi era completa, e si sa quali energici rimedii il monarca napoletano somministrò egli stesso ai suoi sudditi ammalati.

«Avverrà lo stesso questa volta? Non vogliamo dubitarne. In politica le mediocri commedie non si rappresentano due volte, e d'altronde ci ripugnerebbe di sospettare così dapprima un secondo fine in questo giovane Principe, che alle prese con una eredità, che forse non credeva cosi imbarazzata, ha fatto pruova almeno di coraggio civile e di regia risoluzione.

«D'altronde che cosa avverrà di questo nuovo saggio della costituzione del 1848? Per verità è molto delicato di pronunziarsi su questo punto, ma in ogni caso abbiamo il convincimento, che non si potrà mai tentare una così folle reazione come quella di Ferdinando II, perocché, sopra tutto quando si tratta di resistenza, un governo veramente degno di questo nome è obbligato di non ripetersi. Che più tardi e dopo esperimento vi sia luogo a certe modificazioni costituzionali è possibile, ma è tuttaffatto improbabile, che si ritirino completamente le concessioni, ora accordate con tanta liberalità, checché ne pensino talune esagerate diffidenze..

«dopo di avere portate le sue riflessioni sulla Sicilia, ed asserito, che Garibaldi non fosse ivi meno imbarazzato di Francesco II in Napoli, perché i Siciliani avevano sempre aspirato alla propria autonomia e ad un Parlamento proprio, termina consigliando la confederazione italiana come il mezzo più pronto e più efficace per risolvere la quistione italiana.

I principii e le deduzioni del riferito articolo erano ben diverse dalle aspirazioni e dalle opinioni degl’italiani, ognuno dei quali avrebbe trovato molto da contraddire nel ragionamento di quel redattore, e nondimeno quanti e quali non erano i dubbi di lui sullo svolgimento del governo costituzionale? La costituzione del 48 era troppo pei Napoletani, e delle modificazioni dettate dall'esperienza si dovevano ritenere come possibili; ed intanto in fatto di governo si sa pur troppo, che la esperienza si volge sempre a profitto del potere, che domina. In una parola quello, che al giornalista sembrava improbabile, si era soltanto l'annullamento completo delle concessioni fatte.

Sarebbe stato difficile, che Francesco II fosse divenuto sinceramente così liberale come il partito rappresentato dal Constitutionnel, ma anche in tal caso si sarebbe trovato molto discosto dai desiderii e dagl'interessi nazionali; il perché l'opinione pubblica in Italia si mostrava sempre più restia all'alleanza delle due estreme monarchie della Penisola. Le ultime notizie di Napoli vi erano state accolte con moltissima freddezza, e Guerrazzi sin dal 27 giugno aveva pronunziato nella Camera dei Deputati le seguenti parole:

«Voi avete strappato dalla corona di Savoia la perla di Nizza, voi non potete ricusare di rimpiazzarla con la perla di Sicilia. Bisogna profittare del miracoloso favore della fortuna, e non attendere, che il nemico abbia rifatto le sue forze.

«Ho la confidenza, che Garibaldi invierà ben tosto degli ambasciatori per offrire la Sicilia a Vittorio Emmanuele, che bisognerà ben chiamare Re d'Italia. Se voi sapete separarvi dagli uomini, il cui solo nome è un sospetto, voi accetterete.

«Se Napoli offre una mano insanguinata tinta del sangue della Sicilia, respingetela.»

Queste parole erano state coperte d'applausi.

Intanto il governo piemontese si trovava messo tra due estremi, che doveva del pari evitare; esso non poteva accettare in contraddizione dell'opinione pubblica l'alleanza napoletana, e non poteva rifiutarla neppure recisamente senza un giusto motivo; il perché pare, che il governo sardo abbia fatto precedere all'accettazione dell'offerta alleanza le seguenti domande:

1° S'era possibile pel Re di Napoli di rompere non già solamente in apparenza ma in realità tutt'i legami, che lo stringono all'Austria.

2° S era possibile di dare e di fare accettare gli stessi consigli alla Corte di Roma.

3° Se gli era possibile di adottare non solo in apparenza ma in realità una politica italiana, avente per iscopo la completa indipendenza dell'Italia e la sua costituzione sopra basi nazionali.

4° Finalmente se la mano, che Francesco II offriva a Vittorio Emmanuele, fosse anche la mano dei suoi popoli e non già quella, che li combatte.

A tali condizioni il Governo sardo si sarebbe reso responsabile della politica del governo napoletano, ed avrebbe potuto correggere e raddrizzare la pubblica opinione. Una nota in questi sensi veniva analizzata dal Courrier du Dimanche, ed un articolo dell'Opinione, foglio semiufficiale, faceva credere vere le condizioni sopradette.

«Il Ministero Spinelli, scriveva il citato foglio, è abbastanza solido per proporre delle alleanze? Le popolazioni sono disposte ad accettare le concessioni? Come il paese si prepara a goderne? La costituzione sarà un pegno di riconciliazione tra la dinastia ed il popolo? La Sicilia sarà libera, ovvero Napoli riprenderà le ostilità? In quest'ultimo caso la lotta non sarà più tra il Re e la Sicilia, ma tra Napoli e l'Isola, e sarà quindi più grave e più dolorosa.

«Solo l'avvenire può rispondere a tutte queste quistioni. Nelle circostanze attuali non si possono fare, che delle ipotesi più o meno probabili, ma non si può prendere delle decisioni, che le eventualità possono contrariare.

«Bisogna dunque attendere, che il movimento si sviluppi, bisogna esaminare i fatti, che chiariranno la situazione prima di prendere un partito. Il governo dev'essere incrollabile nella idea di mantenere il principio nazionale; egli deve ricusare ogni alleanza capace di esporlo al pericolo di essere gettato fuori della via, che ha sempre seguita, o d'impegnarlo in quistioni, alle quali deve rimanere estraneo.

«Il temporeggiare ci sembra nell'affare di Napoli una necessità pel nostro Gabinetto; quest'attitudine di espettativa ha inoltre il vantaggio di neutralizzare l'attività dei diplomatici, che pensano, che per salvare la dinastia napoletana la Sardegna debb'accettare una alleanza, che nulla potrebbe giustificare, e che d'altronde non sarebbe in alcun modo ammessibile in presenza dell'opposizione dell'opinione pubblica.

Ed il Re si comportava in Napoli ben diversamente da quello, che si sarebbe desiderato a Torino. I Ministri trovavano sempre una grandissima resistenza ai progetti di decreto, quando si trattava di destituire persone notoriamente compromesse e surrogarvi altre appartenenti alle nuove opinioni. I provvedimenti per l'armata incontravano anche maggiori difficoltà, perocché il Re si ricusava di porla sotto la dipendenza del Ministro della guerra e voleva serbare sulla stessa un potere diretto, inconciliabile con gli ordini costituzionali. I Bavaresi, ch'erano in Portici, disgustavano ed allarmavano le popolazioni, ed i loro stessi uffiziali ne diffidavano; ed intanto il Re si negava o temporeggiavava ad adottare i provvedimenti per allontanarli; insomma di dieci decreti il Re ne firmava due. Non ostante le promesse fatte bisognò insistere molto tenacemente per la guardia nazionale in Napoli; il Ministero dimandava 800 uomini per ogni quartiere, il Re voleva darne 200, il che non avrebbe data che una forza di 2400 uomini per la intiera capitale, forza insufficientissima per mantenere il buon ordine. Epperò un corrispondente della Presse, uno dei fogli più officiosi per la dinastia borbonica, scriveva:

«La confidenza non viene; ne vi è che un mezzo per inspirarla e sostenerla quando si concede una costituzione, e sopratutto quando la concessione è forzata, ed è di mettersi alla testa del movimento e condurre il suo popolo. Ora è un poco il contrario quello, che si vede qui.»

Quindi la notabilità del partito costituzionale si dirigeva al Corpo diplomatico, e lo richiedeva del suo intervento, onde il nuovo sistema politico si svolgesse realmente e sinceramente nel regno; essa chiedeva, che i Ministri esteri s'interponessero, affinché le promesse riforme seguissero; che la bandiera nazionale fosse immediatamente spedita a tutta l'armata; che la guardia nazionale più completamente si organizzasse; che delle garentie fossero concedute, onde le truppe estere al soldo del governo napoletano non presentassero verun pericolo pel sistema costituzionale. Ed i Ministri esteri non si ricusavano, ma pregavano di non essere impazienti in una situazione nuova e necessariamente complicata; essi sopratutto si adopravano a riconciliare col Piemonte il governo napolitano.

Intanto formavansi le diverse commessioni destinate a compilare i progetti di leggi organiche. Giuseppe Colonna di Stigliano, Giuseppe Aurelio Lauria, il marchese Rodolfo d'Afflitto, e Costantino Crisci componevano quella, che sotto la presidenza del Ministro dell'interno era incaricata di elaborare la legge elettorale, quella sull'amministrazione civile, la terza sul Consiglio di Stato, e la squarta sulla responsabilità ministeriale. I signori Baldacchini Saverio, Tarantini, Toraldo, e Lucarelli formavano l'altra commessione, che sotto la presidenza del Ministro degli affari ecclesiastici, incaricato provvisoriamente del portafoglio della Istruzione pubblica, doveva compilare il progetto di legge sulla stampa. E finalmente una terza Commessione sotto la presidenza del signor Manna, che aveva accettato il Ministero delle Finanze, era incaricata di elaborare diverse leggi finanziere, tra le quali quella sulla istituzione della Banca di credito mobiliare ed immobiliare, sulla formazione dei depositi di mercanzie con la facoltà di asportarla, e sull'ingrandimento del porto commerciale di Napoli.

Un decreto del 6 luglio riorganizzava la polizia; ogni precedente disposizione era rivocata, le attribuzioni della polizia ordinaria erano limitate alla prevenzione dei reati, al mantenimento dell'ordine pubblico, ed alla sicurezza dei cittadini, restituendo alla autorità dell'ordine giudiziario di Napoli le attribuzioni relative all'istruzione dei processi. Eccettuati i casi di flagranza o di quasi flagranza, gli agenti della polizia ordinaria non avevano facoltà di procedere a degli arresti senza un mandato dell'autorità competente ai termini delle leggi di procedura penale.

L'organizzazione della polizia ordinaria doveva essere immediatamente ricomposta, aggregandovi quei soli degli antichi funzionarii ed impiegati, che per la loro morale e la loro irriprovevole condotta non hanno demeritato della pubblica opinione, ed aggiungendovi altri l'una onoratezza e d'una capacità sperimentata.

Tutto ciò era l'opera del Ministero, e torna indubitatamente a lode della sua sincerità ed operosità, ma ciò malgrado la situazione politica non si cambiava.

Il Re, scriveva una corrispondenza del Nord, si pasce tuttavia d'illusioni, che bisognerà bene fare sparire. Dall'altra parte l'attitudine del pubblico, abbandonato a sé stesso e non contenuto da veruna polizia, è lodevolissima. Non gli si può imputare, diceva la già citata corrispondenza, verun disordine ne verun eccesso dopo le sevizie contro la polizia. Per lo contrario continua ad accogliere tutt'i passi del governo nella nuova via con la stessa freddezza glaciale. La diffidenza sistematica relativamente al governo sussiste sempre, ne subisce veruna modificazione. In una parola quest'attitudine calma, meditata e ferma della popolazione è un sintomo minacciante, perché rivela un partito saldamente preso ed una seria riunione delle tendenze ostili alla dinastia; e lo stesso avviene nelle provincie ()».

La quistione ritornava dunque sempre al medesimo punto, all'alleanza od alla lega piemontese, e su di ciò le opinioni in Italia non erano punto cambiate. Il Re Vittorio Emmanuele era stato il primo ad offrire la mano al giovane Re di Napoli non appena ebbe salito il Trono, ma i passi dati a questo obbietto dal signor Salmour inviato straordinario, e più tardi dal signor Villamarina erano rimasti senz'alcun risultamento, tuttoché non si annettesse altra condizione all’infuori di quella di un cambiamento di sistema. Un anno dopo le parti erano cambiate, ed il Re di Sardegna si trovava costituito nella impossibilità di accettare la mano, che aveva respinta la sua, non per risentimento, ma per le esigenze politiche e la forza della pubblica opinione.

 «La prima condizione di un'alleanza, scriveva l'Opinione di Torino nel numero del 10 luglio, è la omogeneità dei principii e l'uniformità delle tendenze tra i due Stati, che vogliono legarsi. Questa omogeneità esiste tra Napoli e Torino? Niuno indizio lo fa credere. Il governo di Vittorio Emmanuele ha una politica aperta dichiarata, decisa, cioè la politica fondata sul principio nazionale, e sul dritto popolare, il perché non potrebbe negoziare col governo di Napoli, se prima questo non soscrivesse a questa politica ed ai principii, che la reggono; e le conseguenze di questa politica di rimpetto a Napoli non possono essere, che le seguenti: «Che la Sicilia sia libera di scegliere il governo, che meglio le converrà; 2° che il governo di Napoli adotti per rispetto a Roma ed a Vienna la stessa attitudine del Piemonte.

«Il nostro governo nel porre queste due condizioni come preliminari delle negoziazioni per l'alleanza non ha fatto, che seguire la sua politica; e difatti non è il Piemonte ma Napoli, che deve cambiare di politica, non il Piemonte deve avvicinarsi a Napoli, ma bensì Napoli al Piemonte. Nulladimeno le condizioni succennate comunicate officiosamente a Napoli non sarebbero le basi di un'alleanza, ma solamente i preliminari delle negoziazioni. Il governo di Napoli le accetta? Il principe d'Ischitella, che si diceva incaricato di recare in Torino le offerte dell'alleanza, è tuttavia in Napoli, ne si annunzia, che deve partire. Questo ritardo dev'essere probabilmente attribuito alle incertezze del governo napoletano, alle sue esitazioni relativamente all'accettare o rifiutare le succennate condizioni. Inoltre per sua parte il nostro governo deve attendere di vedere come le cose si dispongono in Napoli. Un nuovo ordine di cose è comparso; un nuovo regime politico è stato stabilito; quali sono le disposizioni delle popolazioni del regno di Napoli? Accettano esse le concessioni? Il governo è desso sicuro del loro appoggio? Secondo l'attitudine della stampa periodica vi è luogo a dubitarne. Aspettiamo, che l'opinione pubblica si spieghi, che il voto delle popolazioni si manifesti, che il regime costituzionale sia in vigore. Allora il nostro Ministero avrà dei dati sufficienti per deliberare sul cammino da seguire nelle diplomatiche negoziazioni concernenti questa grave e difficile quistione, la cui soluzione dipende più dal popolo napoletano, che dal nostro Gabinetto.

Per tal modo gli elementi della quistione erano chiaramente messi. In generale la politica del Piemonte doveva essere adottata senza riserve dal governo napoletano, che avrebbe dovuto mettersi relativamente all'Austria ed a Roma in quelle stesse relazioni, nelle quali il Piemonte si ritrovava. Questo è quello, che il governo avrebbe dovuto fare; ma ciò non era tutto; bisognava inoltre, che il governo si ribattezzasse, e che divenisse il prodotto della volontà nazionale, ripetendo da essa il legittimo dritto della sua esistenza.

Erano giuste queste condizioni? Noi crediamo di si; per la prima niuno per certo poteva pretendere, che il governo piemontese modificasse la sua politica, che era così bene riuscita, per accostarsi alla politica napoletana, che era riuscita cosi male da precipitare la Dinastia; bisognava dunque, che la prima avesse avuta la prevalenza, e fosse accettata come la politica generale italiana; per la seconda, essendo il governo sardo un governo nazionale, non poteva allearsi col governo napoletano, se non dopo che fosse cessato l'antagonismo tra esso e la nazione, e fosse divenuto anch'esso nazionale.

Esisteva indubitatamente in Napoli un partito liberale, che si atteneva alla dinastia regnante ed all'autonomia napoletana; ma esso stesso non sapeva liberarsi dalla sfiducia, che Francesco II inspirava; era evidente per tutti, che le inclinazioni di questo Principe erano ben altro, che liberali, le sue simpatie ben altrove volte, che a Torino, le sue avversioni a tutt'altro dirette che a Vienna ed a Roma; il perché anche per quel partito la soluzione del problema stava nel porre Francesco Il nella necessità di subire esso stesso un governo nazionale e così fortemente impiantarlo, che si rendesse impossibile di poterlo scuotere. Questa soluzione era ardua, e per ottenerla bisognava assolutamente il concorso dell'Italia; e nel tempo, del quale parliamo, l'Italia non vi si prestava. Il corso delle idee politiche era allora compiuto, ed era ben difficile, che in quelle circostanze si salvasse una Dinastia, che aveva sin allora così pertinacemente sconosciuto tutt'i dritti, al cui trionfo si applaudiva, ed il cui impero s'intendeva di assicurare. Allora invece le colpe commesse erano anche dagli amici della Dinastia deplorate ed enumerate.

«Evvi in Napoli, scriveva il Débats, un partito liberale sin da ora legato alla conservazione della Dinastia e dell'autonomia napoletana. L'irritazione del giornale annessionista di Palermo, l'Annessione, contro il municipalismo delle provincie di terra ferma è un non equivoco segno della formazione di questo partito. Ma questo non è, che un partito, che nasce, che diffida di sé stesso, dell'avvenire, della costituzione, di ogni cosa. Il Re Francesco II raccoglie i sospetti, che suo padre ha seminato. I liberali dinastici, che giusta la loro propria espressione si consolano di non essersi più ritrovati il 26 di giugno al mattino con le catene alle mani dopo di essersi addormiti la sera più schiavi degli schiavi del bey di Tunisi, non sono senza inquietudine su quella, che potrà essere la loro situazione il 26 di giugno del prossimo anno.

Come coloro, che a causa di malattia sono stati per lungo tempo privati dell'uso delle loro membra, eglino si meravigliano di camminare, e temono sempre, che una subitanea paralisi nuovamente non gli arresti. Se il giovane Re di Napoli è destinato a conservare il suo Trono, non sarà, lo speriamo, una lezione senza profitto per lui, lo spettacolo di questa inquietudine prolungata di un popolo, che non osa risolversi a credersi libero. Francesco II vede adesso ogni giorno quel che fruttano le reazioni senza misura, i dritti individuali violati, le costituzioni arditamente lacerate, le vittorie in apparenza le più solide del dispotismo sullo spirito di libertà. Così crudelmente colpito dal corso delle cose per colpe, delle quali è innocente, imparerà nell'interesse della sua razza a non commetterle da parte sua.

Queste osservazioni non erano giuste; la nazione napoletana e l'Europa non avevano rovesciato su Francesco II le colpe dei suoi maggiori; lo avevano invece chiamato a purgarsi di quelle colpe, a sdebitarsi di quei debiti, rifiutando quella fatale politica e ponendosi sulla strada, dalla quale coloro si erano sempre tenuti lontani; fu sua colpa di avere disdegnosamente rifiutato l'invito; fu sua colpa di aver voluto rendersi ostinatamente solidale delle colpe dei suoi maggiori. Nè coloro, che a questo lo avevano spinto, mancavano di rimproveri per lui. —

«Sventuratamente, scriveva la Gazzetta Austriaca dopo di avere detto che il governo napolitano voleva in ogni caso assicurarsi la benevolenza della Francia, Napoli, in gran parte per sua propria colpa, non ha più scelta. Questa è la sorte di quei governi, che non vogliono comprendere la loro epoca, e che isolati dalla migliore alleanza, sono forzati di chiedere i favori e l'appoggio dello straniero. Napoli pare dover anche dimostrare per esperienza, che la benevolenza dello straniero costa più caro ed ha meno valore della forza del proprio popolo, che non si è voluto consultare e lasciar prendere il suo partito..

«chi aveva sempre prestato i suoi consigli ed il suo appoggio, onde i Re di Napoli si dividessero dai loro popoli e li conculcassero?. L'esperienza era compiuta, e l'alleanza austriaca aveva costato la perdita della Dinastia; mancava soltanto, che il rimprovero venisse dalla stampa austriaca!! Ma la storia non ammaestra, perché negli uomini deboli le passioni sono più forti della ragione, e Francesco II, esule a Roma, non è meno devoto all'Austria di quanto lo era mentre sedeva sul Trono, che ha perduto, e di quanto il sarebbe, se avvenisse mai di ricuperarlo.

Preoccupavasi intanto il governo costituzionale della alleanza piemontese, ed a tal fine poco prima della metà di luglio due ministri il marchese La Greca ministro dei lavori pubblici ed il signor Manna ministro delle finanze venivano spediti il primo a Parigi con l'incarico di andare quindi a Londra, ed il secondo a Torino. Accompagnava questo il Commendatore Winspeare rappresentante napoletano a Costantinopoli. Dicevasi, che le loro istruzioni fossero:

1° Presentare officialmente il programma delle concessioni, che il Re offriva alla Sicilia, concessioni, che S. M. era risoluta di spingere sino all'ultimo limite, a condizione però di serbare la sua dominazione, fosse pure nominate.

2° Di sondare le vere intenzioni dei tre gabinetti su questo lato.

3° Stabilire a Torino le basi fondamentali di un accordo.

40 Sollecitare l'assistenza ed il concorso delle due potenze occidentali.

La missione del marchese La Greca aveva da percorrere una via più indiretta; e comunque potesse coadiuvare la missione degl'inviati a Torino, era difficile, che potesse riuscire, se quella mancava. Quanto a Manna ed a Winspeare allorché presentarono le loro credenziali al Conte Cavour, il combattimento di Milazzo era già avvenuto, e già cominciavano le notizie anticipate dello sbarco di Garibaldi sulle coste della Calabria. Pochi giorni prima l'Opinione di Torino, giornale semiofficiale, rilevava nuove difficoltà per l'alleanza piemontese. — «Le negoziazioni, diceva, tra Torino e Napoli incontrano una insormontabile difficoltà nelle attuali condizioni del regno di Francesco II.

«Questo governo non è ancora consolidalo; è esposto a mille pericoli, ne si potrebbe dire, che ne sarà sbarazzato prima del giorno, in cui la costituzione avrà ricevuto la sua esecuzione mercé la convocazione delle Camere. Queste camere si riuniranno..

«Ammettiamo, che da ora a settembre nulla venga ad attraversare questa riunione, non è men vero, che per lo momento le negoziazioni non possono avere verun risultamento.

«Il governo napoletano non potrebbe insistere sull'alleanza sotto il pretesto di essere minacciato dalle potenze straniere; niuna potenza gli ha dichiaralo la guerra, il perché insiste soltanto per incatenare da un lato il partito liberale di Napoli e per compromettere dall'altro il governo sardo.

«Non concludiamo da tutto ciò, che il nostro Gabinetto debba provocare l'unificazione contro la volontà delle popolazioni o seguire una politica di agitazione, ma deve tener fermo a che la volontà nazionale si manifesti liberamente in Napoli, e non deve né influenzare né paralizzare questa manifestazione, contraendo un'alleanza, le cui basi ci sembra tuttavia ben difficile di stabilire.

Frattanto i signori Manna e Winspeare non desistevano dall'adempiere esattamente la loro missione. Dopo del loro arrivo in Torino non passava giorno senza qualche conferenza con Cavour, il quale molto si lodava delle maniere e delle tendenze del signore Manna. Il Re, che sin da una settimana era alle acque di Valolieri, non aveva potuto ancora ricevere i plenipotenziarii napoletani; e questi, ch'erano giunti in Torino preceduti da una grande impopolarità, avevano saputo coi loro modi dissiparla, e guadagnarsi personalmente il favore del pubblico. Manna specialmente si era conciliata la stima di tutti. Nei primi giorni del loro arrivo nella Capitale del Piemonte essi si erano affrettati a rendere visita ai più notabili dei rifugiati napoletani, i quali l'avevano loro immediatamente restituita; e questo scambio di buone relazioni tra gl'inviati del governo napoletano e coloro, che n'erano stati le vittime, guadagnava l'opinione pubblica verso le persone almeno dei detti inviati. Però tra questa buona disposizione del pubblico per le persone dei plenipotenziarii ed il buon successo della loro missione intercedeva grandissima distanza, comeché il pubblico semprepiù si pronunziava contro il trattato di alleanza.

«Gli onorevoli rappresentanti del governo di Napoli, scriveva l'Opinione, che noi citiamo spesso come organo del gabinetto di Torino, hanno potuto nei pochi giorni, che hanno passato in Torino, valutare meglio che in Napoli la situazione dell'Italia, le tendenze dell'opinione pubblica, ed i doveri, che incombono al nostro ministero. Siamo convinti, ch'eglino non si fanno illusione sulla riuscita della loro missione né sulla situazione del regno di Napoli e del suo governo. Noi non abbiamo ragioni per sospettare della buona fede del ministero napoletano; esso è pervenuto al potere con la costituzione e vuol governare con quella. Ma ha potuto vedere non essere facile di dirigere l'opinione pubblica in mezzo la lotta dei partiti, che combattono tra loro. Non si conoscono le forze rispettive di questi partiti, non essendosi presentata veruna occasione, nella quale avessero potuto misurarsi. Probabilmente i partiti stessi sono disordinati e si trovano in uno stato d'incertezza, che paralizza la loro azione; attendono essi un avvenimento interno od esterno, che provochi una manifestazione regolare, tale da permettere di valutare le forze, delle quali dispongono.

«In tali circostanze è impossibile di conchiudere un'alleanza. Chi può prevedere quello, che avverrà in Napoli? La telegrafia reca ogni giorno notizie, che indicano l'instabilità del potere, l'agitazione, che si distende, e il progressivo esaltamento degli spiriti. Il ministero Sardo ha dovuto vedere certamente con soddisfazione il governo di Napoli entrare in una via liberale ed italiana, ma non può prevedere quali ne sa ranno le conseguenze e qual °retine di cose uscirà da questo confuso miscuglio di partiti e d'interessi. Noi non pensiamo, che le negoziazioni siano peranche aperte, ma se si aprono veramente, è facile di prevedere quale ne sarà il risultamento. Non può avvenire che ciò, che abbiamo preveduto, vale a dire, che non si farà l'alleanza.»

E per verità le faccende interne del regno non procedevano con l'accordo, che sarebbe stato da desiderarsi.

La Domenica 15 di luglio avrebbe potuto divenire un giorno di lutto per tutta la capitale. Verso le 7 p. m. di quel giorno dei granatieri e volteggiatori della Guardia reale insieme a dei soldati della fanteria di marina e delle guide, si mossero da Porta-Capuana con le sciabole sfoderate, gridando ed obbligando a gridare Viva il Re, tirando alla cieca addosso ai cittadini, e percuotendo e rompendo i vetri e gli utensili delle botteghe e dei caffè. Percorsero Napoli sino al largo del Palazzo reale senza che alcuno dei loro stessi uffiziali potesse contenerli, e dopo tutte quelle violenze e molte ferite, rientrarono forsennati e tumultuosamente nei loro quartieri.

GIORGIO TRIVULZIO PALLAVICINO

Evidentemente era quella una provocazione del partito reazionario, che mancò per l'ammirabile prudenza del partito liberale. Vi volle molto per contenere i lazzaroni, ch'eransi preparati per dare addosso ai soldati; nell'esaltazione ed esasperazione degli animi Dio sa quello, che ne sarebbe riuscito! Però l'indegnazione era nell'animo di tutti; quanto maggiori erano i mali, che ne potevano derivare, tanto più profondo e più generale era quel sentimento d'indegnazione contro coloro, che avevano destato quel gran pericolo.

I Ministri si unirono immediatamente in consiglio; non meno indegnati del pubblico, si pronunziarono energicamente per lo rinvio dalla capitale di quei reggimenti, pel licenziamento dei battaglioni esteri, ch'e rano in opposizione della costituzione, e pel diffinitivo allontanamento dei più influenti membri della camariglia. Nè una di queste deliberazioni fu adottata nel momento; fu commessa una istruzione giudiziaria, ed il Re si recò nei quartieri della guardia reale per farle giurare la costituzione, ch'egli aveva di buon grado accordata; accolse però le scuse dello zio D. Francesco di Paola comandante di quel corpo, che sosteneva i soldati essere stati provocati, il che se invece di essere falso fosse stato vero, non avrebbe per certo scusale le violenze commesse. Alcuni giorni dopo la guardia fu allontanata da Napoli.

«dopo quelle violenze, come sempre avviene, si ebbero i proclami. Il primo il Re Io diresse ai suoi reali Stati:

«Dopo la pubblicazione del nostro atto sovrano del 25 giugno ultimo, col quale abbiamo conceduto ai nostri popoli uno Statuto sulle basi nazionali ed italiane come ancora un'amnistia generale per tutti gli accusati politici, ed abbiamo enunciata l'intenzione d'intenderci col Re Vittorio Emmanuele per l'interesse delle due corone in Italia, e dopo il nostro atto ulteriore del 1° di questo mese, per lo quale rimettiamo in vigore per questa parte dei nostri Stati lo Statuto promulgato il 10 di febbraio 1848, l'attitudine ed il sentimento politico di tutte le nostre provincie di terra ferma e di questa capitale si sono mostrati nobili e grandi.

«Per essi l'Europa incivilita ha potuto convincersi, che i popoli dei nostri Stati erano a livello degli altri Stati italiani, che sono pervenuti alla rigenerazione politica ed all'unità dei principii. Se questi ultimi Stati dopo tanti secoli nel corso dei quali il ridestarsi dell'Italia fu da cieche passioni paralizzato, hanno saputo elevarsi ad una sì grande gloria, sormontando ostacoli di ogni natura, ciò non ha potuto avvenire, che per la piena ed intiera sommessione, di cui han dato pruova, e per la direzione data dagli uomini illustri ai grandi interessi nazionali ed alla gloria della Penisola.

«I popoli di questi Stati si sono proposti di non mostrarsi inferiori agli altri Italiani, dapoiché lungi dall'abbandonarsi in queste gravi congiunture agli errori, che soventi sono fatali alla libertà, e macchiano l'istoria delle nazioni, essi per lo contrario attendono nella più mirabile calma da noi e dal governo dello Stato la realizzazione della grand'opera, ch'è stata loro promessa.

«La nostra aspettativa adunque non è stata delusa, e rendendo grazie ai nostri popoli di un'attitudine così nobile e gloriosa, noi siamo altamente incoraggiati a condurre a buon fine con la maggiore perseveranza il gran disegno, dal quale debbono risultare la intiera felicità, la grandezza e la gloria dei popoli inciviliti, che la Provvidenza ha confidato alla nostra sollecitudine.

«E ciò che aumenta ancora la gioia del nostro real cuore è il pensiero, che chiamati dagl'impenetrabili decreti della Provvidenza a governare le Due Sicilie in età così giovanile, noi ci troviamo di buon'ora iniziati a questo sistema rappresentativo sul quale oggi riposa il dritto civile di tanti Stati inciviliti.

«Siamo del pari felici, che applicandoci alla difficile arte di governare, il compito ci sarà spianato e facilitato dai lumi di una stampa saggia e veramente nazionale non meno che dal concorso di tutti gli uomini di senso politico e civile, che siederanno nelle Camere legislative.

Per tal modo prontamente abituati alla pratica del sistema novellamente inaugurato, abbiamo piena confidenza, che con l'aiuto di Dio queste belle provincie continentali, che formano una parte dei nostri Stati, compiranno gli alli destini della grande nazione italiana, e sapranno in poco tempo conseguire la potenza, la grandezza, e la prosperità, il conseguimento delle quali forma il più ardente voto del nostro real cuore.

«Napoli 15 luglio 1860».

Firmati — FRANCESCO».

SPINELLI».

Ed a questo primo seguiva un altro diretto all'armata:

«Noi abbiamo conceduto al Regno di nostra piena, libera, e spontanea volontà il regime costituzionale e rappresentativo in armonia coi progressi dell'incivilimento e coi bisogni dei popoli, che la Provvidenza ha confidato alle nostre cure.

«Voi entrerete lealmente in questa nobile e gloriosa via, e vi unirete al patto costituzionale, che ci lega in una sola famiglia. Voi sarete campioni della giustizia, dell'umanità, della disciplina, dell'amore della Patria. Speranza dei vostri concittadini, sarete nel tempo stesso il solido sostegno del Trono e delle nuove istituzioni e l'istromento della grandezza e della prosperità nazionale.

«Il ricordo con tenerezza e riconoscenza di quanta fedeltà ed obbedienza siete stati sin oggi capaci, e ricevetene le più vive azioni di grazie come testimonianza della mia soddisfazione.

«Niuno più del vostro Sovrano può accordare le lodi dovute ai vostri meriti, che i deplorabili errori di qualche spirito traviato dall'ignoranza o da cattive e sozze insinuazioni non possono depreziare. Conviene ora, che onorevoli per la vostra dignità e la vostra moderazione, voi facciate del vostro braccio sostegno al nuovo ordine di cose e ad una nuova politica ferma e conciliante, che possa fortificare la confidenza delle popolazioni e dissipare le apprensioni della diplomazia, che ha veduto rovesciato l'equilibrio europeo. Per tutto ciò il vostro passato mi è garante dell'avvenire.

«Soldati, nuovi destini ci chiamano a rilevare la dignità della nostra patria italiana. Siate fieri di questo mandato. Il popolo, che per due volte ha fatto rivivere la civilizzazione in Europa, non sarà al di sotto del difficile compito di riconquistare con la sua indipendenza quell'alto grado che la sua posizione geografica, la forza delle armi, e l'istoria gli assegna no. Voi siete una gran parte di questo popolo, e voi dovete d'ora innanzi sostenerne la gloria e la grandezza.

«Napoli 15 luglio 1860».

Le medesime firme del precedente proclama.

In quel medesimo giorno del tentativo di reazione il Generale Pianelli era stato chiamato ad assumere il Portafoglio della guerra; egli emise il seguente or dine del giorno:

«Chiamato dalla confidenza del Re al grave e difficile carico di Ministro della guerra, ne assumo tutta la responsabilità con la confidenza della cooperazione di tutti, ma sento il dovere e l'obbligazione di esprimere dapprima e con ogni franchezza quale sarà d'ora in poi la mia ferma condotta.

«Il regime costituzionale e rappresentativo conceduto da S. M. (D. G.) vuole, che d'ora in poi in tanto che ne sarà bisogno, i legami dell'armata e del po polo si stringano dippiù, e che la truppa obbediente e disciplinata, protegga contemporaneamente i più vitali interessi del Trono e della nazione. Deciso ad evitare sempre ogni discordia intestina e fratricida, l'armata, chiamata a lottare, avrà sempre tutt'i mezzi e tutta la forza per combattere e trionfare.

«Che l'armata adunque abbia confidenza nei suoi capi e quella obbedienza passiva, ch'è la base di ogni truppa regolare, e ch'ella assicuri così la rigenerazione italiana. La ricompensa dovuta al merito, al valore all'attaccamento al Re ed alle nuove istituzioni sarà proporzionata alla grandezza dello scopo proposto.

«Per contrario l'inadempimento dei rispettivi doveri, la tolleranza, e la negligenza relativamente ai subordinati, la tiepidezza verso le nuove istituzioni saran no biasimate e punite.

«Che gli uffiziali generali e subalterni, che i sottuffiziali e soldati abbiano sempre presente allo spi rito, che il Re costituzionale, che l'alleanza italiana, che la propria autonomia, la bandiera italiana ci riuniscono ormai come una sola famiglia per provare, che siamo attaccati alle nuove istituzioni giovevoli a tutti e specialmente a coloro, che marciano nella gloriosa carriera delle armi.

«Napoli 15 luglio 1860».

Pianelli».

Liborio Romano sulla dimessione del signor del Re, che aveva voluto ritornare alla sua carica nella Tesoreria, aveva preso il portafoglio dell'Interno e della polizia; anch'egli il 16 di luglio emise un proclama:

«Cittadini;

«Nelle gravi circostanze, nelle quali sono stato chiamato alla Prefettura di Polizia di questa nobile capi tale, ho fatto al vostro buon senso civile un appello, che non è stato inutile. Lo spettacolo, che avete dato alla nostra Italia ed all'Europa di un popolo degno per la sua saviezza e la sua moderazione dei suoi nuovi destini, m'incoraggia fortemente nelle difficili e penose congiunture, in cui ci troviamo. Io vi rin grazio della vostra civica prudenza; ma se l'amore dell'ordine, la riflessione, che calma l'ansietà dello attendere, la concordia degli spiriti, aiutano a sormontare le prime difficoltà inseparabili da ogni transizione politica, non vi è, che la perseveranza in queste virtù civili, che possa efficacemente cooperare a consolidare le libere istituzioni, a fecondare i generosi principii: a fare uscire da una libertà ben ordinata un popolo di cittadini veramente degni. Non è necessario di rammentarvi tutto questo. Constanti nel bene ed uniti per far faccia al pericolo, voi mi darete, ne son certo, una nuova e più grande occasione di ammirarvi ora, che la Corona va a circondarsi di nuovi consiglieri. Chiamato dal mio augusto Sovrano al Ministero dell'Interno e della Polizia, troverò nella co stanza della volontà, nella lealtà dei principii, nei lumi degli onorevoli uomini miei colleghi, e sopratutto nella confidenza del pubblico la forza sufficiente per dare una direzione all'altezza delle circostanze ed una impulsione vitale ad un ministero destinato a mettere in armonia nei limiti dei poteri costituzionali ed in mezzo lo sviluppo della tranquillità pubblica il meccanismo dell'amministrazione civile col nuovo regi me. Aiutatemi dunque del vostro concorso, affinché alla prontezza ed all'efficacia delle intenzioni corrispondano pronti e durevoli risultamenti, alle antiche speranze di una vita politica forte ed italiana succeda una pronta realizzazione,

«Intanto vi annunzio, che il Ministero va a completarsi con dei nomi, che vi sono noti per la fermezza del loro carattere e pel loro amore per la comune patria. Appena sarà integralmente costituito, darà il programma della sua condotta per impegnarsi poi inamovibilmente nella via, i cui termini saranno indicati dalla prosperità pubblica, la rinascenza, l'onore, la grandezza della nazione.

«Napoli 16 luglio»

«Il Ministro Segretario di Stato dell'Interno

e della Polizia generale,

LIBORIO ROMANO».

Per ultimo vi fu anche un proclama del Comitato centrale:

«Napoletani!

«I dispiacevoli avvenimenti di ieri hanno provato quanto voi meritate l'approvazione dei popoli inciviliti per la vostra prudenza ed attitudine. Voi avete evitato delle collisioni, che per la negligenza del governo avrebbero potuto divenire gravissime, e vi siete mostrati pel vostro buon senso ben superiori a coloro, che ora reggono lo Stato. Molti uffiziali e soldati hanno espresso il profondo dispiacere, che gli avvenimenti di ieri han fatto loro provare, e voi continuerete ad amare l'armata, ch'è composta di vostri fratelli e perdonerete ad alcuni disgraziati, che hanno osato di provocarvi con gravi misfatti. È nulladimeno necessario, che vi sovvenghiate sempre, che l'ordine è oggi il primo dei vostri doveri. Ricordatevi, che la rivoluzione dell'Italia centrale è stata pura di sangue, che il poco, che in Parma è stato versato, ha sveglia to in tutta l'Europa un sentimento di orrore. Voi avete vinto la miserabile polizia degli antichi giorni e Fa vele distrutta; non abusate della vittoria, fate pruova di saggezza, e che d'ora innanzi ogni turbamento cessi nelle vie.

«Se per la sua colpevole esitazione il governo non trova mezzi da evitare i torbidi, che niuno almeno possa dire, che siamo caduti nei lacci, che i nemici della Patria non cessano di tenderci.

«Napoli 16 luglio 1860

Segnato — Il Comitato Centrale.»

Attendeva intanto il governo all'organizzazione della guardia nazionale ed alla formazione delle liste elettorali, ma e l'una e l'altra cosa procedeva con difficoltà. Le liste della guardia nazionale erano state formate, rivedute, corrette nel senso del governo; da esse si erano formate le compagnie, poi nominati gli uffiziali; ora la maggior parte dei nominati avevano ricusato; niuno credeva alla stabilità degli ordini nuovi, ognuno prevedeva delle collisioni, e quindi moltissimi non si fidavano di assumere la responsabilità di una compagnia composta di 110 a 150 uomini, che non si conoscevano, e che non potevano guidarsi con le regole ed i provvedimenti della disciplina militare. Ciò in Napoli. Nelle provincie la cosa andava anche peggio. perché mancavano le liste, o vi erano notate le antiche guardie urbane, che non inspiravano veruna fiducia, e lasciavano un campo aperto agl'intriganti; per lo che la faccenda per altro importantissima della guardia nazionale procedeva in Napoli mediocremente e giornalmente migliorava pel patriottismo dei cittadini, ma nelle provincie andava male.

Quanto alla formazione delle liste elettorali incontravano esse anche maggiori difficoltà della guardia nazionale. Il partito dello astenersi era generalmente prevaluto come quello, che materialmente si coordina va alla indifferenza per le nuove politiche istituzioni.

Ma era evidente, che questo calcolo era falso, dapoiché se poteva ritenersi come molto probabile la caduta della Dinastia, niuno poteva però essere certo del tempo, in cui ciò sarebbe accaduto, e neanche di qualche eventualità, che poteva allontanarla. D'altronde era sempre di gravissimo interesse di avere un Parlamento italiano, mentre lo astenersi dal farsi in scrivere nelle liste elettorali, non avrebbe già fatto mancare le elezioni, ma avrebbe dato vinto il campo ai Borbonici ed ai Municipalisti. E difatti in Napoli specialmente avveniva, che il Clero e l'Aristocrazia si presentava tutta a chiedere la inscrizione nelle liste elettorali, mentre il partito nazionale italiano se ne asteneva.

Alla pur fine le esortazioni, i ragionamenti, i rimproveri anche degli uomini più intelligenti e più prudenti di quest'ultimo partito prevalsero; si ottenne una proroga per l'affissione e la chiusura delle liste, e se gli avvenimenti, precipitandosi, non avessero preceduto la convocazione dei collegi elettorali, è da credere, che il partito nazionale italiano avrebbe avuto il di sopra nelle elezioni.

In una lettera diretta al Nord da Napoli con la data del 17 luglio e con la firma Adolfo Courier, si trova un giudizio sullo stato dei partiti politici in Napoli, che ci sembra molto sano, e che perciò riassumiamo:

«Il paese può ora dividersi in tre categorie. La prima è quella dell'antico sistema, che con mene aperte od occulte combatte per l'assolutismo. Questo partito è nemico di ogni libertà e del nome d'Italia. Circonda ancora il Re, l'assiste dei suoi consigli segreti, l'assedia di mille maniere, e gl'impedisce di subire l'influenza dei liberali. Così avviene, che il Re dopo di avere preso delle risoluzioni di concerto coi suoi ministri costituzionali, le ritira, e si rifiuta di farle eseguire.

«Benché questo partito retrogrado non abbia più verun apparente potere, esso è ancora compatto per la comunione degl’interessi e per l'apprensione di una imminente caduta. È potente per l'influenza, ch'esercita sulla Corte e su i capi dell'armata. Non ha perduto la speranza di rilevarsi e conta tuttavia su di prossime eventualità. che verrebbero ad aiutare e favorire le sue vedute. Esso mette tutto in opera per tenere la nazione in effervescenza mercé i segreti conciliaboli degli antichi agenti della Polizia, e per mezzo dei capi dell'armata si sforza di eccitare i soldati contra del popolo. Semina del danaro in questo scopo, e lavora costantemente sullo spirito dell'armata, consigliandola a tenersi pronta a rivendicare i dritti strappati dalla forza al Sovrano. I principali fautori di queste mene sono il Generale Nunziante, Scaletta, il Colonnello Barbalonga col concorso del gran numero di uffiziali sanfedisti, di cui l'armata è piena. Le scene del 15 corrente lo provano molto.»

Descrive l'avvenimento del 15 luglio, dà in pruova di un piano combinato, che nei paesi vicina Napoli, Capua, Aversa, Maddaloni, Nocera, Portici ec. era avvenutolo stesso sempre nella speranza di una resistenza, che avesse potuto dare il dritto ad una repressione da parte della truppa; indi continua:

«Un altro partito è quello dei costituzionali, il quale s'indebolisce e si attenua di giorno in giorno. Questo partito vedeva nell'atto sovrano del 26 la speranza di un migliore avvenire, e cominciava a pensare, ingannato come nel 1848, che il governo era di buona fede ed entrava risolutamente in una novella via. Egli è vero, che i migliori spiriti di questo partito, cioè il maggior numero, sono persuasi di non potersi ottenere una libertà solidamente assisa senza un rinnovamento completo, che non potrebbe aver luogo, che col trionfo della idea, ch'è adesso nel pensiero di tutti; ma spaventato dalla grandezza di questa idea rigeneratrice, o temendo per Io momento di troppo eccitare la suscettibilità della diplomazia, vorrebbe aggiornare questa quistione ad un prossimo termine, ammettendo un'epoca di transizione. A questa frazione del partito costituzionale appartengono taluni dei membri dell'attuale ministero.

«Il partito, che forma la vera maggioranza, e che conta i più distinti uomini per la loro posizione sociale, è composto di coloro, che credono impossibile la libertà senza l'indipendenza italiana, e non credono l'indipendenza assicurata senza l'unità nazionale.

«Questo partito, ch’è considerevole nella capitale, è il solo, ch'esiste nelle provincie, ove quasi non si trovano costituzionali dell'atto sovrano, ed è ciò facile a spiegarsi. Le provincie, che sono state schiacciate sotto il giogo per tanti anni, abborriscono il nome dei Borboni. Dall'altra parte non si trovano come nella Capitale delle persone, che occupano degl'impieghi alla Corte, non che degli aspiranti a portafogli ed alle nuove funzioni, di cui i costituzionali si considerano come i legittimi eredi. Epperò le provincie non hanno, che un'aspirazione ed un voto, l'unità nazionale. Si forma in generale nell'estero una falsa idea dell'opinione del nostro paese giusta le corrispondenze, che si ricevono dalla Capitale. Siate assicurati, che i sei milioni di Napoletani non hanno, che una sola parola d'ordine,. ed è quella, ch'è stata data dall'altra parte del faro. Essi non attendono, che un segnale per sollevarsi e proclamare l'unità italiana. Sarà questo l'affare di alcuni giorni. Voi vedrete, che a questo momento presiederà una sola volontà, un solo pensiero. Niuno crede a questa nuova politica dei vecchi Borboni. Borboni e libertà sono due cose, che non possono conciliarsi. Ferdinando 11 lo ha detto, e tutti lo sanno; sarebbe stoltezza il volersi fare illusione a tale riguardo, Il governo ha lavorato dodici anni per condurci a questo convincimento, ch'è divenuto universale, e bisogna, che adesso ne subisca le conseguenze. Per quello, che ci concerne, Signore, voi avete ben sovente ed inutilmente nel vostro giornale preveduto e messo in luce le cose, che oggi appariscono. Noi intanto vi preghiamo di prestare la vostra pubblicità alle idee, che questa lettera contiene, affinché si sappia bene qual è attualmente il vero stato dell'opinione nel nostro paese.»


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CAPITOLO XX

Inutili sforzi del governo di Napoli per salvare la Dinastia.

SOMMARIO

Una politica veramente liberale ed italiana avrebbe potuto salvare la dinastia — Ma era tenuta incompatibile col carattere e le massime del Principe — E questo nuovo concetto era fondato — Parole di Giuseppe Ricciardi — Da che venivano determinate — Atti del Ministero — Riforma dei Municipii — spiegazione del Decreto emesso — Provvedimenti per la Guardia Nazionale. Riflessioni sullo stile della circolare — Lo stato morale e politico del regno non era rassicurante — Le notizie del convegno di Tcoplitz animavano i reazionari — Contegno dei Vescovi. Articolo del Nomade — Giudizio sull'Esercito napolitano — Combinazione mancata del Portafoglio della Guerra per Ulloa — Ordine del Giorno del Ministro Pianelli — Dimessioue del Generale Nunziante — La cagione n'è ignota — Lettera al Ministro della Guerra e documenti posteriori — Ragione di esserci intrattenuti su questo incidente — Dispaccio del Ministro dei lavori pubblici per l'abolizione delle legnate, e la riforma del sistema penitenziario — Circolare del Ministro dell'Interno per le opere pubbliche — Però continuavano sempre le stesse doglianze e la stessa sfiducia — Agitazioni pei beni demaniali — Circolare del Ministro dell'Interno — Curioso espediente nell'anniversario della nascita della Regina Vedova.

 Coloro, che affermavano la soluzione della quistione napoletana stare in Torino, non si apponevano al vero, perocché essa stava non solo a Torino, ma anche in Napoli, dapoiché se le nuove istituzioni si fossero ben rassodate nelle provincie napoletane col sincero concorso delle popolazioni, la quistione diplomatica si sarebbe trovata assai meno complicata in Torino, e forse l'opinione pubblica in Italia si sarebbe relativamente ad essa modificata. Supponete i collegi elettorali affollati di elettori ed una Camera di Deputati. che senza rinunziare all'autonomia del reame di Napoli, si fosse mostrata animata da aspirazioni e sentimenti veramente italiani; che abbandonando la Sicilia ai voti ed ai desiderii dei Siciliani, avesse senza restrizioni adottata la politica del Gabinetto di Cavour, solennemente dichiarato la Venezia dovere appartenere all'Italia, e fatte proprie le rimostranze di quel Gabinetto alla Corte di Roma, diveniva impossibile al Piemonte di ricusare l'alleanza, che in nome dell'indipendenza e della libertà italiana gli veniva richiesta.

Ma questo concetto appunto di una politica sinceramente italiana, avversa all'Austria, ed informata da principii perfettamente opposti a quelli professati dalla Corte di Roma, era tenuta incompatibile col carattere e le massime del nuovo Principe; di tal che comunque la gran maggioranza dei liberali vedessero le gravi difficoltà di conseguire immediatamente l'unità italiana, che pur era l'obietto finale delle toro aspirazioni e la foratola diffinitiva del loro sistema politico, pure scorgendo le difficoltà anche maggiori di avere nel regno i diversi poteri dello Stato sinceramente concordi in una politica veramente costantemente italiana, ricusavano se non altro il loro appoggio ad un ordine di cose, dal quale altro non si avrebbe potuto attendere, che di allontanare per alcun tempo la caduta di una dinastia, resa ormai incompatibile coi bisogni e gl’interessi italiani.

La quale incompatibilità non era poi la visione di una mente offuscata dalle passioni di partito, e neppure la fallace diffidenza di un animo che altra volta crasi illuso, ma un calcolo esatto di una fredda e ragionata meditazione. — Lo diciamo con convinzione e senza passione, scriveva Leinoine in sul finire di luglio in un interessantissimo articolo del Giornale des Débats, non ci associamo agli udii ciechi ed innocuii, che perseguitano i Borboni; non abbiamo avuto che rispetto per la prima famiglia reale del mondo, ed è per noi doloroso, ch'essa non abbia assunto in Italia la gloriosa parte della Casa di Savoia; ma vi è incontestabilmente una fatale incompatibilità tra il regime napoletano e la causa della nazionalità italiana.

«S'ha un bel fare, v'hanno tendenze irresistibili, invincibili correnti, che non si possono fuorviare a mezzo di nessuna convenzione officiale: malgrado tutte le costituzioni e tutt'i giuramenti possibili il Re di Napoli sarà sempre naturale alleato dell'Imperatore d'Austria. Napoli sarà sempre nel mezzogiorno d'Italia il punto d'appoggio e d'equilibrio del quadrilatero austriaco del Nord. Per quanto si faccia non si persuaderà mai alcuno ne in Italia ne in Europa, che al Re di Napoli non piaccia meglio di vedere gli Austriaci a Roma, a Bologna, a Firenze, ed anche a Torino, che vedervi Francesi e Piemontesi. Affermando inutile ogni riforma tentata a Napoli, non vogliamo applicare il proverbio rivoluzionario — è troppo tardi. — 1 un gran prezzo, ch'è troppo tardi!

«Era appena tempo quando questo Re fanciullo sali o cadde sul Trono, e quando il Re Vittorio Emmanuele, richiamando la memoria della sua buona madre principessa di Savoia, rispettata anche in Roma come una Santa, gli offerse un'alleanza nazionale, e per risposta non n'ebbe, che un insultante silenzio. Ma oggidì chi mai può affidarsi a queste concessioni strappate dal pericolo? Passato il pericolo, o solo sospeso, le naturali tendenze riprenderanno il loro irresistibile corso.»

Eppure verso quella medesima epoca un Napoletano, non amico dei Borboni e non appartenente neppure al partito liberale moderato, emetteva un giudizio meno assoluto sulla impossibilità di consolidarsi le nuove istituzioni.

Giuseppe Ricciardi il 27 di luglio scriveva sull'Iride le seguenti parole:

«Sopra cento persone, cui m'è accaduto dacché son qui d'interrogare intorno al presente Ministero ed alla Costituzione, novantanove mi hanno risposto con un sorriso sardonico ed un'alzata di spalle. Ed in vero chi mai tenere potrebbe come buono e durevole un ordine di cose così contrario alla logica quale si è quello, che abbiamo sottocchio? Chi non essere offeso dalle anomalie, che s'incontrano ad ogni passo? Le quali lungo e fastidioso troppo sarebbe il volere discorrere per minuto, oltre di che niuno è, che non le conosca. A fare sparire le quali almeno in parte, a procacciare. che l'universale cominciasse a credere alle rette intenzioni di chi siede al timone della pubblica cosa, adottare dovrebbonsi senza il minino indugio i provvedimenti qui appresso:

«1° Cacciata dell'esercito dei mercenarii stranieri.

«2° Scioglimento della guardia reale.

«3° Disarmo nelle provincie dei così detti Urbani.

«4° Riforma radicale per via di elezione del personale dei Municipii.

«5° Rimozione dai pubblici ufficii degl’istromenti della passata oppressione.

«6° Consegna del Forte S. Elmo alla Guardia nazionale di Napoli.

«Se i provvedimenti infrascritti venissero tosto attuati cominciare potrebbesi a credere alla sincerità del governo.»

Ond'è, che un uomo animato da sentimenti di stima per la Dinastia dei Borboni ritenga assolutamente incompatibile con Francesco II° la causa nazionale italiana, ed un uomo proscritto da quella Dinastia e di opinioni ultraliberali la crede compatibile sotto date condizioni? Questo problema può avere più d'una soluzione; noi diremo, che il primo vede le cose quali sono, ed il secondo quali desidera che fossero per indurne, che nel successivo memorabile rivolgimento, che ha deciso dei destini dell'Italia, i popoli delle provincie napoletane furono diretti non dall'odio verso una Dinastia, dalla quale avevano pur tanto sofferto, ma dal calcolo politico; furono diffidenti, perché le passate e le presenti cose gl'invitavano ad esserlo; non appoggiarono il Ministero nei suoi sforzi per radicare le istituzioni liberali, perché si avvidero, che non potendo esse surrogare il movimento rivoluzionario per ottenerne risultamenti praticamente italiani, avrebbero con l'arrestarlo nociuto alla causa nazionale.

Nulladimeno il Ministero proseguiva nel duplice scopo della riorganizzazione interna e degli appoggi esteri.

Quanto alla prima il personale dei municipii riscuoteva le principali cure del governo, laonde un rapporto diretto al Re dal Ministro dell'Interno diceva:

«Sire,

«Le norme per la nomina dei Decurioni, Sindaci, primi e secondi Eletti, come di ogni altro agente municipale sono prescritte nella legge del 12 dicembre 1816, e si hanno a rispettare insino a che una legge novella al proposito non sarà votata dalla Camera e sancita dalla M. V.

«E perciò il Ministero, conscio delle attribuzioni proprie del potere esecutivo, confidava di assolvere il proprio compito con l'elaborazione di un progetto di legge sull'organizzazione amministrativa per presentarsi al Parlamento che provvide col decreto, con cui nominò un'apposita commissione.

«Ma una trista esperienza ha dovuto convincerlo, che ciò non bastava, imperciocché buona parte degli uffiziali municipali attualmente in esercizio sonosi dimostrati poco propensi a porre in atto le novelle istituzioni rappresentative, mostrandosi cosi non ancora disavvezzi da un passato, che non può più fare ritorno. E varii Intendenti sono stati costretti per taluni comuni, la mercé del telegrafo, a chiedermi di ottenere di fatto la surrogazione di probi cittadini agli attuali Decurioni, Sindaci, ed Eletti.

«Ciò premesso è evidente, che motivi altissimi di pubblica utilità richieggono imperiosamente. che si deroghi in questo momento alle norme dell'anzidetta legge dei 12 dicembre 1816 circa la nomina dei funzinarii dell'amministrazione comunale, e che si accordino provvisoriamente agli Intendenti poteri straordinarii ed eccezionali, perché possano celeremente e nel modo il più convenevole adempiere a tali nomine.

«Tali nuove e straordinarie norme non si avranno ad applicare alla Città di Napoli per due gravissime considerazioni, cioè in primo perché anche la legge amministrativa dei 12 dicembre 1816 stabilisce speciali norme per la capitale del Regno, ed in secondo perché tutte le autorità municipali della medesima, e segnatamente il Sindaco, hanno prestato il più attivo ed efficace concorso all'attuazione dei novelli ordini rappresentativi.

«Mosso da cosiffatte considerazioni è l'annesso progetto di decreto, cui prego la M. V. di voler apporre la sua soscrizione.

«Il Ministro Segretario di Stato dell'Interno

LIBORIO ROMANO.»

Il Decreto, che venne emesso in seguito del riferito rapporto, venne da taluni ritenuto come una disposizione tendente all'assoluta rinnovazione del personale delle rappresentanze municipali senza distinzione tra i buoni ed i cattivi. Epperò il 26 di luglio si diè luogo ad un'altra ministeriale, che diceva:

«Signore;

«Il real decreto del 23 corrente sulla parziale ricomposizione dei Decurionati e sulla nomina del Sindaco non ha avuto altro scopo, che quello di vedere occupate le cariche comunali da persone probe, intelligenti, ed animate da sentito affetto pei vigenti ordini rappresentativi. Se dunque negli attuali funzionarii di qualche Comune si trovassero i predetti requisiti, ella non dovrebbe, che confermarli, essendo già bello e raggiunto lo scopo della legge.

«Sono sicuro, che dopo la presente dichiarazione Ella col suo consueto zelo darà opera ad un'applicazione leale e sincera di quel Decreto e conforme allo spirito, che lo ha informato.

«Il Ministro Segretario di Stato dell'Interno

«ROMANO.»

Venivano dopo i provvedimenti per la giustizia, ed il 25 di luglio il Ministro della Giustizia spediva ai Procuratori generali e Procuratori del Re nelle Gran Corti civili e Criminali e Tribunali civili la seguente circolare:

«Napoli 25 luglio 1860.»

«Signori;

«Il più gran dono, che uscir possa dalla regia mano, è indubitatamente quello di accomunare ai sudditi l'eccelso potere della legislatura; e questo dono appunto noi abbiamo ricevuto dalla munificenza dell'augusto Monarca Francesco II°, che ha rianimata la costituzione del 1848.

«Ma che sono le leggi non pure giuste ma sante, se corrotte, viziate, o pollute per via, vadano miseramente a metter foce nell'abisso di un'esecuzione dannata? Tutto dalla capacità e dalla rettitudine degli ufficiali pubblici dipende la riuscita del nuovo reggimento, massime nel concetto della porzione maggiore del Popolo, la quale non legge codici, non entra in accademie, non si briga di astrazione e principii, e governasi con l'impressione di ciò, che vede, di ciò che ode, di ciò, che tocca.

«Dei quali uffiziali pubblici sempre i magistrati sono i più responsabili, perché appunto ad essi la sovrana sapienza commise l'applicazione delle maggiori leggi e la punizione delle loro violazioni.

«Epperò chi non avesse il gusto del patto giurato, o non volesse o non potesse concorrere ad attuarlo sinceramente, anzi con nobile slancio, durar non potrebbe nel posto affidato senza incaglio e turbazione di tutto il sistema governatorio.

«Ma voi, o generosi, avete fede nel Re, voi amate la patria, voi sentite i bisogni del secolo, voi siete capaci di nobili sagrifizii, e voi aiuterete con tutte le vostre forze la navicella dello Stato, sempre assalita nell'abbrivo da due furie opposte, che reprimer dovete incessantemente, una delle quali vorrebbe retrospingerla, e l'altra finirebbe con l'inabissarla nel mare. Siate dunque forti, vigili, operosi, insomma uguali, se non superiori alla ragione dei tempi correnti, ed avrete il merito di avere cooperato ai più gran passo della prosperità del paese.»

Antommaria Lanzilli.»

 STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

IMBOSCATA DE' NAPOLETANI NELLA BUCA DEI LUPO

(assedio di Gaeta)

Ed una seconda circolare di quella medesima data diceva:

«Signori;

«Altamente confidato nella sapienza delle Corti e Tribunali dei Regii domini di qua dal Faro, ne invoco fervidamente il soccorso nella compilazione dei progetti legislativi, che ho l'obbligo di presentare al Parlamento nazionale. Conformandomi quindi all'insigne metodo tenuto dalle più grandi nazioni di Europa per la formazione di simili lavori scientifici, ho l'onore di porgere alle SS. LL. le seguenti norme:

«1° La Corte Suprema di Giustizia prenderà nota di ogni miglioramento legislativo di qualunque specie, che meriti doversi proporre in preferenza.

«2° Il notamento sopradescritto sarà comunicato per mezzo di questo Real Ministero a tutt'i Collegi giudiziarii per corredarlo delle proprie osservazioni, e sarà pubblicato nel giornale costituzionale delle Due Sicilie per apprezzare convenientemente le impressioni del pubblico, spesso rappresentato da casto e temperato giornalismo.

«3° Il lavoro tanto della Corte Suprema di Giustizia quanto di tutti gli altri corpi giudíziarii inferiori sarà consacrato in un processo verbale, in cui verranno riassunte le ragioni non solo della maggiorità, ma benanche di ogni singolo voto discrepante, ed il primo processo verbale sarà compilalo nel termine di un mese a contare per la Corte Suprema dalla data della presente, e per le altre Magistrature dalla data della comunicazione del lavoro della Corte Suprema.

«Io non ignoro l'enorme peso dei loro affari ordinarci; non ignoro neppure, che alle menti capaci e fervide non manca mai tempo di aiutare la prosperità del paese per la gloria della Magistratura napoletana.»

Antommaria Lanzilli.»

Ed in quel medesimo giorno 25 di Luglio un'altra circolare spediva il Ministro dell'Interno per la Guardia Nazionale:

«Signori;

«Sono assordato dai giusti reclami dei più zelanti cittadini di tutte le provincie, perché ne si è data opera con quell'alacrità, che si conveniva, alla formazione della guardia nazionale, ne all'armamento della medesima. E ciò, che ha eccitato proprio la mia indegnazione, è stato il conoscere, che non è agevole ad intendere per quale ragione non si sieno neanche distribuite alla Guardia nazionale le armi, di che era fornita la Guardia urbana, di cui giusta le precedenti disposizioni di questo Ministero ha dovuto la medesima essere spogliata, e le quali tutte debbono servire alla guardia nazionale. Sono queste armi proprietà dello Stato, ed il non adoperarle al servizio della tutela della pace e della tranquillità pubblica è delitto di lesa maestà patria, è tal turpitudine, che non ha l'uguale, e che non può meritare la benché minima scusa.

«In generale, signor Intendente, ponga mente, che ora non si tratta di sciupare il tempo in futili discussioni o scrupoli vani, ma sibbene si tratta di salvare il paese dall'anarchia, in cui lo vorrebbero gittare pochi tristi impudenti. Ad un così sublime scopo ogni mezzo è opportuno e legittimo, poiché al di sopra della legge, e della costituzione vi è la società, per la quale leggi e costituzione sono istituite. Ella s'inspiri nel decreto in data dei 14 corrente, in cui per la suprema salvezza del momento si è fatto ricorso a mezzi straordinarii. Si ricordi e voglia ricordare a tutti l'antica massima: Salus populi suprema lex esto.

«Che se la giusta coscienza, che ogni uomo deve avere di sé stesso gli facesse sorgere nell'animo, non pur la certezza, ma il semplice dubbio di non essere pari all'altezza delle attuali supreme circostanze, non dovrebbe esitare un solo istante a dare la sua dimissione, poiché la sua presenza al potere potrebbe consumare la perdita del paese.

«A rigore di posta mi risponderà su tutto, e segnatamente sul primo capo dell'armamento della guardia nazionale, e curerà intanto di trasmettere in istampa questa mia lettera circolare a tutte le autorità, che da lei rilevano, ninna esclusa.

«Pel Ministro Segretario di Stato

Il Direttore GIACCHI.»

Lo stile di quest'officio fa sorgere una riflessione. Il ministro dell'interno non era convinto dello zelo, della capacità, delle opinioni ancora dei governatori delle provincie sino al punto d'ingiungere loro di comunicare alle autorità loro dipendenti una circolare, che per certo non era lusinghiera. Noi non diciamo già, che tutti i quindeci Intendenti delle provincie fossero in questa categoria, ma dimandiamo; erano i più o i meno? Se i più, l'amministrazione non poteva assolutamente progredire; se i meno, bisognava esonerarli, e non rovesciare su tutti il biasimo, che la parte minore soltanto aveva meritato. Aggiungeremo, che la indifferenza delle popolazioni per le nuove istituzioni politiche doveva di necessità paralizzare gl'Intendenti, perciocché gli amici del nuovo regime ne rimanevano scoraggiati, ed i nemici serbavano la speranza di ritornare al sistema rovesciato.

E per vero lo stato morale e politico del regno di Napoli non era rassicurante.

«I concetti, scrivevasi in una lettera da Napoli del 27 luglio, sono ancora sul formarsi e tenzonanti; tutta la macchina amministrativa è in mano dei vecchi uomini; si teme l’anarchia, e mentre alcuni tuttora forte difendono le idee del nuovo ministero, i più stanno guardando al nord ed al sud, ed aspettano, che verrà, che farà lui, s'intende Garibaldi.»

Giravano poi in quei giorni le varie notizie del convegno di Teoplilz. Le vere, o per dir meglio le più probabili, non si conobbero, che dopo la metà di agosto, ma prima ciascun partito accettava per veri i proprii desiderii o le proprie speranze. Per lo che il partito reazionario sí manteneva unito, cospirava, avversava il ministero, ed attendeva in un giorno o in un altro la rivincita di quanto aveva perduto. Fra gli altri la maggior parte del clero con i vescovi alla testa si era messa in aperta opposizione dei nuovi isti Cuti politici, e li proclamava una usurpazione su i dritti del principe ed un attentato contro la religione. Molti vescovi lasciarono o furono obbligati a lasciare le proprie diocesi dopo di avervi compromesso l'ordine pubblico, ed il Nomade con verità scriveva:

«L'attitudine, che han preso alcune autorità ecclesiastiche dal giorno 25 giugno è dispiacevole e tale da compromettere l'ordine pubblico e farle divenire potentissimo ausiliario della reazione. Noi ben prevedevamo, che in gran pqrte codesti uomini sarebbero stati avversi alle nuove istituzioni, perché quasi tutti coloro, cui veniva affidata la cura delle anime, erano scelti fra quelli, che maggiormente si distinguevano per servigi importanti resi all'onesto regime, ormai, grazie a Dio, caduto. Speravamo però, che venuti meno coloro, coi quali avevano la tresca, avessero taciuto, facendosi scudo del loro carattere sacerdotale; ma c'ingannammo. Sacerdoti, profanatori del tempio di Dio, eccitano apertamente alla rivolta; Vescovi con lettere pastorali si fanno lecito di predicare le massime più empie e sacrileghe. È d'uopo dunque, che finisca siffatto scandalo, e che il governo vi apporti rimedio. Dobbiamo però dichiarare ad onore del vero, che la grande maggioranza del clero di Napoli non ha parte in tali scandali, e che intendiamo rivolgere le nostre rampogne segnatamente alle autorità ecclesiastiche di alcune provincie.» — Noi per verità non sappiamo, se i fatti posteriori abbiano giustificato questa gentile eccezione a favore della grande maggioranza del clero di Napoli.

Quanto all'esercito napoletano, argomento cotanto importante in questi ultimi rivolgimenti, crediamo merito dell'opera riferire per intiero il giudizio del signor Francesco de'  Renzis, perché la storia, che ne narra, ed i concetti, che ne forma sono in generale veri; e diciamo in generale, perché di taluni particolari, che non ci constano, non possiamo essere mallevadori.

«Nel momento supremo, dice il signor de'  Renzis, in cui l'Europa ansiosa attende il fine di una lotta tremenda tra un popolo, che vuole la libertà a prezzo del proprio sangue ed un giovane Re, ch'altro non ereditò dal Padre, che un nome abbominato, vedesi un esercito non di stranieri, ma di figli del popolo combattente, pugnare contro il popolo stesso.

«Questo esercito, che avrebbe nella campagna del 1859 forse decisa la liberazione della Venezia, perché, atteso dai prodi, che sacrificarono la loro vita pel riscatto comune, non istese la mano amica ai combattenti fratelli, e rimase freddo spettatore di avvenimenti, che sì dappresso il riguardavano?

«Perché mai nel cuor di quelli, che lo compongono, le voci di patria carità, di libertà, di fratellanza col popolo, dal quale essi nascono, non si fanno sentire?Perché sorridono di sdegno al primo trionfo della libertà in faccia d'una secolare oppressione? Perché con quanto v'ha di forza, e di ferocia in essi si scagliano contro il proprio paese?

«Questo fatto — mistero per molti — non lo è pel Napoletano, il quale con occhio vigile ha seguito gli avvenimenti, che da settant’anni a questa volta l'ultima parte di questa bella patria comune han tribolato.

«È istoria del regno di tre Borboni!

«Prima della rivoluzione francese e dell'eco infruttuosa, che s'ebbe in Napoli, l'esercito napoletano componevasi di poche milizie, le cui cariche elevate, chiuse al valore ed alla scienza, si occupavano esclusivamente dalle classi privilegiate. Nelle file di questo esercito però la rivoluzione trovò affiliati, trovò braccia valorose, trovò capi, e trovò vittime, allorquando tornarono i fuggitivi principi dietro le bande armate del Cardinal Ruffo.

«Rafforzatosi Ferdinando sul trono insanguinato dei cadaveri dei Cirillo, dei Pagano, dei Conforti, ricompose alla meglio un esercito, e di quello furono capi i più feroci sanfedisti, occuparono cariche, e s'ebbero onori i capimasnada ed i ladri e gli assassini. Questo esercito fedele ai proprii principii ed a quelli di tirannide, che vale lo stesso, seguì in Sicilia gli esuli Borboni, allorché dalle armi della Francia incalzati, fuggirono di nuovo dal reame.

«I superstiti della reazione, quelli, che videro nella conquista francese la mano della civiltà, che l'Italia faceva risorgere a vita novella, formarono l'esercito del Re Giuseppe e quello di Gioacchino Murai, e questi prodi, che tanto lustro dettero al nome napoletano e tanta gloria acquistaronsi sovra i campi di Spagna, di Prussia, di Russia, d'Italia, decimati da tante battaglie, alla caduta del grande impero furono raccolti commiserantemente dal Borbone, tornato per gli avvenimenti del 1815 a governare il regno. Implicati però quasi tutti nella rivoluzione del 1820 come carbonari e liberali, videro ricompensato per la maggior parte il loro valore e la loro vita immacolata con una legge barbara, che li riduceva alla mendicità.

«Quanti vi erano di animi nobili e di soldati di onore dallo scrutinio furono designati alla carcere ed all'esilio, e l'esercito rimasto spoglio di quei bravi, fu comandato e diretto di nuovo da capi o vecchi sanfedisti o giovani reazionarii.

«Il breve regno di Francesco fu una vicissitudine di paure e di patiboli per alcuni, di favori e d'impieghi per gli altri. L'esercito segui le sorti del paese, e vidersi reggimenti interi formati da galeotti, e gradi di sottotenenti, di capitani, di comandanti, comperati per poco denaro dai favoriti pei loro figliuoli in fasce.

«Ferdinando II, giovane astuto, salì al trono accattando la fiducia del popolo, e poggiando la sua popolarità sulla sua finta clemenza verso i liberali. Egli vide lo stato miserando, ov'erano cadute le milizie dello Stato, e volle, senz'allontanare i vecchi, ridurre ad esercito quei corpi, che fino allora erano stati masse. Ne cambiò gli uniformi, ne cambiò le ordinanze... ma erano i principii, che bisognava cambiare, e questi rimasero gli stessi.

«La tirannide di questo Re or mascherata, or fatta a viso aperto ai popoli, che il destino gli aveva dato a governare, non è mio intento dipingere. Egli però vide di bel principio, che bisognavagli un esercito, sul quale potesse contare, e nei trent'anni del suo regno l'esercito fu il suo principale pensiero. In trent'anni egli ne conobbe gl'individui uno per uno, ne seguì i principii ed i movimenti, e degli uomini nuovi coi favori e coi castighi sviò le nobili aspirazioni.

«La delazione ed il ladroneccio posti con processi a chiara luce, ma non puniti anzi premiati. L'invidia secondata con la ricchezza dei favoriti, intanto che il duello per vendicare l'offesa dell'uomo era punito negli uffiziali inesorabilmente con la galera.

«La vita delle lunghe ed oziose guarnigioni ammazza lo spirito del militare, lo infeminisce, lo stanca; e Re Ferdinando, che ben lo sapeva, ha mantenuto dei reggimenti per dieci anni in uno stesso paese. Egli ben sapeva, che il soldato innamorato della quiete e dell'ozio, non avrebbe giammai mormorato contro un governo, che cosi bene gli conveniva.

«La miseria è grande nemica dell'onore. Re Ferdinando lo sapeva di lunga mano, ed i suoi uffiziali ed i soldati del suo esercito avevano abitualmente il permesso e molte volte l'ordine di ammogliarsi con fanciulle senza dote. Costoro immiseriti dalla figliolanza e dallo scarso soldo, e molte volte quindi aiutati dalla regia elemosina, potevano altrimenti essere, se non istromenti di tirannide?

«Mentre che nei paesi inciviliti si eleva il soldato a nobili aspirazioni, Re Ferdinando per bocca dei suoi uffiziali generali ordinava pubblicamente ai suoi reggimenti schierati odio contro il popolo, il bottino e la carnificina dei proprii fratelli. E non ha guari si ricorda di un generale, il quale ad alta voce ed in pubblico, non ebbe vergogna di promettere denaro, gradi, onori al soldato, al sottuffiziale, all'uffiziale, che scordando ogni principio di morale, svelasse al superiore il nome di un compagno, che avesse sentimenti italiani.

«Re Ferdinando aveva ben da scegliere tra otto milioni di sudditi uomini. d'ingegno, militari di onore, ministri coscienziosi; ebbene, che cosa fece egli mai? Si circondò mai sempre d'ipocriti, e dette cariche di suo aiutante di campo ad uffiziali, i quali pubblicamente vendevano il favore di accostarsi al sovrano, e dividevano coi mendici la regia limosina ricevuta.

«La noncuranza nelle militari amministrazioni, il furto organizzato, egli ben il conosceva. Ma nessuno amministratore infedele fu mai punito, ne videsi mai un ladro riconosciuto non amico del Re.

«Demoralizzato in tale maniera, l'esercito riducevasi inutile a difesa dallo straniero. Ma Re Ferdinando ben sapeva, che l'Europa l'avrebbe difeso dalle conquiste. Egli non aveva bisogno, che di gente armata, senza principii, e capace di tutelargli il trono contro il popolo. Questo volle, e l'ebbe.

«La truppa napoletana lo ha mantenuto sul trono, e gli ricuperò nel 1848 la Sicilia perduta.

«Non faccia dunque meraviglia, se il soldato napoletano non è patriota, se egli manifesta avversione alla libertà.

«Chi gli ha mai parlato d'Italia? di Patria?

«Chi gli ha fatto mai comprendere ciò, che vi ha di nobile, di generoso, di grande nel difendere il paese natio? Chi gli ha mai parlato di libertà?

«I vecchi capi han lasciato morendo una storia di disonore premiato dalle largizioni sovrane; i giovani senza coltura non hanno avuto che cattive istigazioni e tristi esempi da seguire. Il soldato in ogni scontro ha diviso l'oro e le suppellettili saccheggiate all'amico, al compagno, al fratello.

«Ma il soldato napoletano, quello stesso, che scagliavasi a Palermo sulla donna inerme e sul fanciullo, commettendo orrori da selvaggio, e che in faccia ad un pugno di prodi ha abbassato le armi, il soldato napoletano è bravo.

«Egli docile per natura, nato sotto un ciclo, che spira l'amore, e da una terra lieta e dilettosa, ha il cuore temperato a nobili sentimenti.

«Guidato in ispugna da prodi generali, e non avendo per meta che la gloria, egli non fu secondo al soldato francese, al cui fianco combatteva. In Prussia, in Russia, a mille miglia dal suo paese, combattendo contro ad un valoroso esercito nemico e contro agli elementi scatenati contro di lui, egli fu prode, fu vincitore, e pagò generosamente della sua vita gli encomii di quel gran condottiero, che lo sacrificava sull'altare della sua ambizione.

«Dalle file del napoletano esercito sono pure usciti quel pugno d'uomini, che a Curtatone ed a Goito, guidati da capi valorosi, respinsero l'oste austriaca; ed a Venezia, lo dice l'istoria, non meritarono essi il nome d'Italiani?

«In quelle file, che il mondo ha tanto deprecato, vi hanno uomini probi, vi hanno uffiziali di onore, soldati di coraggio. Vi hanno generali dal bianco crine, la cui storia non fu mai macchiata da fatti vergognosi. Vi hanno colonnelli, uffiziali di ogni grado, che mai sempre mostraronsi avversi ed a viso scoperto alle bassezze. Vi hanno numerosi uomini d'ingegno. uffiziali d'armi, dotti degni di rispetto, e di questi ve ne han molti. Ve ne han molti infine anche fra quelli, che combattono pel Borbone valorosamente.

«E se questi militari di onore, veri figli della patria, gente onesta e coraggiosa, saran capi od uffiziali dell'esercito, il soldato napoletano da loro guidalo rinnegherà la sua storia passata, e volenteroso corre rà su i campi dove or trincierato è raccolto il nemico d'Italia.

«Oh! allora riuniti gl'Italiani al grido d'Italia faranno vedere al mondo attonito, che a Napoli non è peranco estinta la vecchia razza latina.»

Secondo un carteggio della Nazione, andandosi in traccia di un Ministro della guerra, il Conte dell'Aquila propose il generale Ulloa. Questa proposizione sarebbe stata determinata da talune conferenze avute dal detto Conte col Principe della Rocca. Esule questi in Toscana aveva avuta l'occasione di conoscere le opinioni politiche di Ulloa, il quale nota credeva possibile l'unità italiana, e propugnava invece una forte confederazione dei diversi Stati della Penisola. Era proprio l'uomo a proposito; il Generale Ulloa ne fu avvisato telegraficamente dallo stesso Principe della Rocca, ed egli senza por tempo in mezzo da Firenze moveva verso Napoli.

Ma nel frattempo sorgevano delle difficoltà; la combinazione ministeriale era stata accolta mal volentieri dai generali napoletani, dapoiché non solo vedevano Ulloa, partito Capitano, ritornare Generale, ma lo avevano ancora a capo del Ministero della guerra. Eglino quindi rappresentarono, che questo provvedimento avrebbe fatto sorgere del malumore tra il Ministro della guerra e l'armata, la quale avrebbe avuto a disdoro, che si fosse andato a chiedere fuori delle sue fila un uomo, cui potesse affidarsi il portafogli della guerra. Così quel proponimento non ebbe seguito.

Invece il Generale Mandi nominato Ministro della Guerra dirigeva all'Esercito il seguente ordine del giorno:

«Liberi, spontanei, magnanimi sensi facevano dare al nostro angusto Sovrano ordini costituzionali e rappresentativi al regno, e noi giuriamo fede innanzi a Dio ed agli uomini a questo novello ordine di cose ed alla Bandiera. che la Maestà Sovrana faceva sventolare a malleveria degli alli destini, a cui chiama i suoi popoli.

«Noi saremo potente istromento di questa generosa impresa. che ha le simpatie ed i voti del mondo incivilito.

«Avrete in ausilio a questa grande opera la guardia nazionale, nobile istituzione, che chiama i vostri padri, i vostri fratelli, i vostri figli a difesa di quelle famiglie, da cui siete usciti, e di quella patria, in che nasceste. Rispondete con gratitudine a questo santissimo ministero. Se il grido di guerra si eleverà da un capo all'altro, se l'ora suprema delle battaglie richiederà l'olocausto delle nostre vite, la Guardia Nazionale tutelerà le proprietà, le nostre più care affezioni e quanto di più sacro le lega alla terra natale.

«Onorate questi pacifici cittadini posti a difesa del Trono costituzionale e dei comuni interessi; essi ne sono degni per altezza di uffizio ed individualità. Imperocché empiono le loro file uomini conosciuti per la loro dottrina, chiari nelle arti, onorevoli per le industrie, che sostengono. Non obliate questi sensi; inflessibile nei miei proponimenti e premiatore delle vostre virtù militari, io attendo da voi quella obbedienza, quella fiducia nei capi e quella disciplina, che conducono alla sicurezza ed alla vittoria. Seguite que sta via di lealtà e di onore, e l'ammirazione delle civili nazioni e dei vostri concittadini onorerà la vita ed il nome del soldato, che non rinnegò la sua patria.»ella solenne ora della necessità e della gloria.

«Napoli 25 Luglio 1860.

«Il Ministro della Guerra»

«Firmato — PIANELL.»

Quando si pensa, che quest'ordine del giorno era diretto a quei medesimi soldati, che avevano combattuto in Sicilia, non si può non rimanere sfiduciato dell'effetto, che avrebbe prodotto.

Alcuni giorni prima di quest'ordine del giorno, un uomo, che aveva occupalo un posto molto distinto nell'armata napoletana, e ch'era stato molto addentro nella grazia del defunto Re, si adoperò con ogni studio a manifestare dei sentimenti, direttamente contrarii a quelli. che sino allora la pubblica opinione gli attribuiva. Il 17 di luglio il Generale Ales sandro Nunziante faceva pervenire al Re la seguente lettera:

«SIRE!

«Poiché V. M. si è indugiata sino a questo momento di concedermi quella dimissione. che sin dal 2 del corrente sentii il bisogno di dimandarle, il rispetto medesimo, che sento per V. M. e per me stesso, mi costringe a rinnovare la già data preghiera.

«Se ciò non facessi, mi parrebbe quasi di non respingere con bastante indignazione le incivili e basse calunnie, che come a tutti gli uomini retti ed onesti vengono dalle due fazioni estreme, le quali sono sempre le più pericolose nemiche dei Troni e degli Stati.

«Militare io non aveva dritto ed obbligo altro, che quello di formare eccellenti soldati a V. M. ed alla Patria; e se i miei lunghi e coscienziosi sforzi siano pervenuti a conseguire un tal fine, spero, che l'abbia chiarito bastevolmente al Mondo ed anche alla M. V. la tenuta marziale, la rigorosa disciplina, ed il coraggio veramente italiano dimostrato in tutte le occasioni dai Corpi dei Cacciatori, che ho avuto l'onore di organizzare e di comandare per sì lungo spazio.

«Ma ove mai la M. V. si fosse talvolta inclinato a domandare alcun mio consiglio, che mi sarei ben guardato di sottometterle non richiesto, io ho l'intimo e profondo convincimento di averle sempre rassegnati quei pensieri e quei divisamenti, che potevano più menare alla stabilità ed alla prosperità di V. M. fondate sulla prosperità e l'amore universale dei suoi popoli.»

Noi non conosciamo la vera ragione, che spinse il Generale Nunziante a quella determinazione. Se potesse trarsi un concetto dal documento, che abbiamo riferito, parrebbe, ch'egli fosse stato accagionato o di non aver dato al Re alcun suggerimento o di averne dati dei cattivi; però quel passo della sua lettera sembra molto oscuro: Militare, egli dice, io non aveva dritto ed obbligo altro, che quello di formare eccellenti soldati a V. M. ed alla Patria. Sin qui egli non doveva impacciarsi della politica o dell'amministrazione. Però soggiugne: — Ma dove mai la M. V. si fosse talvolta inclinata a domandare alcun mio consiglio, che mi sarei ben guardato dal sottometterle non richiesto, io ho l'intimo e profondo convincimento di averle sempre rassegnati ecc. Ora la prima parte di questo periodo accenna ad un fatto, che poteva avvenire, ma che non era avvenuto, e la seconda, ch'è il compimento della prima, accenna invece ad un fatto avvenuto, e che s'intende giustificare. Per la prima parte egli avrebbe dato dei consigli, se ne fosse stato richiesto; per la seconda li aveva dati di fatto, e li aveva dati buoni.

Obbligati quindi a rimanere nel buio su i motivi di questo cosi profondo disgusto, vediamo però, che s'intristisce procedendo. Il giorno 22 rispondendo alla partecipazione del Ministro della guerra di essergli stati accordati dal Re il ritiro ed il permesso di recarsi all'estero, il Generale Nunziante risponde:

«Signor Ministro.

«Quando vi è speranza di combattere per l'onore e per la gloria della Patria, un militare, qual io mi pregio di essere, non dimanda mai il suo ritiro. E cosi dimissione e non ritiro è stata quella, che io ho avuto da lungo pezzo l'onore di domandare a S. M.; domanda ch'ella finalmente ha degnato di credere opportuna. La prego dunque di compiacersi proporre che un tale per me gravissimo errore sia corretto. Nella intelligenza, che dove (il che non voglio augurarmi) ella non si prestasse a questa mia giusta dimanda, io, che in fatto di dignità non mi sento punto capace a transigere, intendo, che questo mio motto debba valere di protesta da essere annessa ai precedenti, protesta, la quale, io le annunzio sin da ora, farò pubblicare per le stampe.

E con quella medesima data scriveva al Presidente del Consiglio dei Ministri:

«Al Signor Ministro Presidente;

«Non posso più portare sul mio petto le decorazioni di un governo, il quale confonde gli uomini onesti, retti e leali con quelli, che meritano soltanto disprezzo. Io ho dimandata la dimissione e non il ritiro, e però non accettando questo, ed insistendo sulla prima mia richiesta, le restituisco i diplomi de'  varii ordini a me conferiti, pregandola ad accusarmene ricevuta.

Nel giorno medesimo la moglie Duchessa di Mignano scriveva al Re:

«SIRE;

«Il posto di Dama di Corte non mi appartiene; e però restituisco a V. M. il brevetto di nomina.

«Napoli 22 Luglio 1860.

«Duchessa di Mignano.»

Infine con due ordini del giorno diretti uno ai battaglioni Cacciatori e l'altro alla Divisione mobile manifestava la presa determinazione, prendeva commiato da quei corpi, ed inculcava sentimenti patriottici ed italiani.

Potrebbe sembrare, che un incidente relativo ad un semplice particolare non meritasse di occupare una parte di queste istorie; ma quest'incidente scuopre la dissoluzione delle più intime parti della macchina, così accuratamente costrutta dal defunto Re; il suo successore è abbandonato e pubblicamente con disprezzo criticato da coloro, che ne dovevano essere il principale sostegno, e che tanta parte avevano avuto nelle speranze e nei favori dell'estinto Monarca. La forza materiale, il solo elemento di quella illogica ed impolitica combinazione, successivamente si dissolveva.

Proseguiva non però il Ministero nelle riforme e nei miglioramenti voluti dai nuovi ordini politici. Un lungo dispaccio del 2 di agosto del Ministero dei lavori pubblici attestava come il Re nel Consiglio ordinario di Stato del 10 di luglio aveva abolito la pena disciplinare delle legnate e le Commessioni istituite per applicarle, pena e giudici brutali, che respingevano la società ai più tristi tempi della sua vita, che deturpavano l'uomo, e lo inferocivano, e che distruggendo in lui ogni sentimento di dignità, lo rendevano l'essere più abietto della natura, il quale per allora curvava sotto le sferzate di una forza maggiore, ma che se un giorno fosse divenuto alla sua volta potente, avrebbe reagito con maggior ferocia e con ispaventevole abbrutimento. Il Ministero dei lavori pubblici rifiutava ogni partecipazione ai regolamenti di quelle pene, e specialmente al Rescritto del 10 giugno 1826, provocato e messo in atto dal Ministro di Polizia, col quale questo dei lavori pubblici nulla ha di comune per tal fatto. E provvedendo non solo a non pervertire ma a migliorare anzi la condizione dei detenuti, quel rapporto accennava avere il Ministro rappresentato a S. M. due essere le vie a tenersi per rimuovere le cagioni di pervertimento dei detenuti, la istruzione ed il lavoro, che migliorano i costumi, ma siffatto miglioramento non si ottiene che per gradi. La società deve cospirare a tale scopo, senza isconoscere il bisogno ancora di temperamenti di diversa energia quando una condizione momentanea e di fatto ne chiegga. Vi ha talvolta tale anormalità in qualche detenuto, che solamente può vedersi in frenala col timore di maggior pena. Consegue da ciò il non potersi far senza di provvedere anche alla parte punitiva adottando però quelle misure, che possono rispondere con rigore non riluttante ai volgenti nostri ingentiliti costumi.

Discorre poi il Ministro dei sistemi penitenziarii, e dice essere risultato più fecondo di risultamenti il carcere di Sing Sing in Nuova Jorck, ove con l'isolamento in tempo di notte, fu mantenuta di giorno la vita comune per spendersi nella istruzione morale e nel lavoro. Aggiunge un sistema consimile non potersi impiantare presso di noi, che mercé la costruzione di un apposito novello edilizio, ove non fosse riducibile quello già cominciato in Avellino, modellato sul sistema di Auburn, ormai riconosciuto pericoloso, e l'altro, che pure si costruiva in Aversa col sistema comune.

Pensa quindi, che per riuscire in opera si importante debbasi nominare una commessione di tre ingegnieri probi ed istruiti di tale specie di costruzione, onde nel minor tempo possibile presentassero i progetti, e fosse loro delegata l'esecuzione. Per tal modo la prigione di S. Francesco resterebbe per quella parte già destinata alle arti ed ai mestieri, e per l'altra sarebbe addetta ad esclusivo ospedale dei detenuti. Nell'edilizio di castel Capuano rimanendo abolito l'attuale carcere con le costruzioni, che si stavano eseguendo, il nuovo da eseguirsi dal lato est, formandosi col sistema cellulare, sarebbe rimasto per custodia dei giudicabili e detenuti di passaggio.

«Ma a quella parte, che concerne la spedita punizione di quei colpevoli, che van noverati nel real rescritto del 10 giugno 1826, è mio avviso: — Che rimasta proscritta la pena delle legnate, debba questa essere sostituita dall'altra dell'assoluto isolamento del delinquente per lo spazio da dieci a non oltre trenta giorni. — Che questa pena sia determinata dal Procuratore generale della Gran Corte Criminale, il quale rimaner deve esclusivamente delegato a conoscere della opportunità della sua applicazione sui rapporti, che gli perverranno dal personale economico addetto alle prigioni, aggiungendo altresì, che in caso di recidiva possa il magistrato medesimo ordinare pure, che il delinquente venga trattato con solo pane ed acqua durante i. isolamento. — Che la polizia non debba più avere ingerenza nelle prigioni, rimanendo queste affidate al ramo economico e giudiziario giusta il real decreto dei 21 giugno 1848, il quale sarà modificato soltanto nell'articolo secondo, che riguarda la custodia e sicurezza esterna, la quale rimaner deve affidata al ramo di guerra, rispondendone la forza, cui vengono le prigioni affidate.

«Ho quindi pregata la M. S. di benignarsi approvare le proposizioni suddette, alle quali crasi pure uniformato il consiglio dei ministri. E la lodata M. S. nella conferenza dei 31 andante si è piaciuta di approvarle.

«Io quindi nel real nome ne do comunicazione all'E. V. (il ministro di grazia e giustizia), del pari che ne ho fatta comunicazione a S. E. il ministro dell'interno (ramo polizia), pregandola di partecipare siffatte sovrane determinazioni a tutti i procuratori generali della G. C. Criminale per il debito adempimento in quella parte, che concerne il loro ministero.

«Il Direttore

CARBONELLI.»

Un'altra circolare poi dello stesso di 2 di agosto diretta dal ministro dell'interno agl'Iniendenii provvedeva alle opere pubbliche. Inculcava, che fra le importanti e gravi incumbenza, che essere dovevano a cuore degl'Intendenti, non ultima fosse stata 'attivazione delle opere pubbliche.

«Ed in vero queste mentre talune aggiungono lustro e decoro al nostro reame, ed altre, come le novelle vie, tornano di grandissima facilitazione all'industria ed al commercio, producono sempre un utile immenso, quello di apprestare lavoro alla classe degli operai.» — Rileva quindi il ministro l'interesse di tenere occupato un gran numero di persone, ed esorta l'Intendente a fare i pubblici lavori in ciascun Comune del regno e della provincia da lui amministrata, eccitando semprepiù l'alacrità dei sindaci, onde con aumentare il numero degli operai, spingano con la maggiore possibile attività i lavori in corso.

Discorrendo particolarmente della città di Napoli, raccomandava talune opere speciali, tra le quali quelle nella contrada fosse del grano, costruendo le novelle vie state già approvate, e circoscrivendo le aree pel nuovo palazzo municipale e per gli altri edifizii privali da costruirvisi. Inculca di spendersi immediatamente Duc. 15 mila, che vi erano disponibili, e promette di fare versare dalla Tesoreria per opere pubbliche altri Due.300, 000.

Purtuttavia continuavano sempre le medesime doglianze e le stesse difficoltà. Nelle provincie come in Napoli avevasi sempre la stessa sfiducia nel governo, ch'era imputato di non attuare di fatto la nuova organizzazione amministrativa, che esisteva di dritto. In quelle come in Napoli si ripetevano gli stessi reclami contro gl'individui, che perduravano nel potere, ed attendevano alla gestione della cosa pubblica — «i quali non potendo o non volendo svestire quelle abitudini, che pel lungo volgere di tempo si fecero in essi natura, si adoperano, come se nessuno mutamento fosse avvenuto nel sistema governativo, come se non fosse stato evocato uno statuto costituzionale ()».

Ed era naturale che continuando questi signori le loro abitudini dispotiche, la popolazione se ne irritasse, e spesso venisse poi a vie di fatto inconciliabili con l’ordine e la libertà. D altronde non mancavano mai delle perfide insinuazioni, e verificasansi di tanto in tanto de'  piccoli sussulti reazionarii, suscitati per lo più, od almeno indirettamente, dai preti; moti che non riuscivano non per difetto di attività e di zelo dei provocanti, ma pel buon senso e la unanime opinione delle popolazioni.

Il riparto non ancora eseguito dei beni demaniali, questo tema costante di coloro, che vogliono promuovere delle agitazioni, era il mezzo, che maggiormente moveva i proletarii, e che per certo non era lasciato da parte onde fu mestieri, che il 4 di agosto fosse diretta dal ministero dell'interno agli intendenti una circolare con la quale menzionndosi dei disordini avvenuti in alcuni Comuni, si ordinava agl'intendenti di assicurare le popolazioni con tutti mezzi legali, dei quali potevano disporre, — «che la importante operazione della ripartizione dei demanii comunali tra i cittadini poveri di ciascun Comune, già iniziata nel corso della passata amministrazione sarà il più sollecitamente portala ora al suo compimento; che sì fatta operazione di tanto grave, interesse dei quotisti non può eseguirsi, se non. dall'autorità, che la legge delega e nelle sole forme da essa prescritte; e che il ministero prenderà i più energici e severi provvedimenti contro tutti coloro, i quali, in onta alla legalità ed al potere costituito, pretendessero compierla tumultuariamente per vie di fatto ed a clamore di plebe».

Cosi il ministero non tralasciava quello, che nelle difficilissime circostanze, in cui si rattrovava, gli era permesso di fare; ed un fatto di terz’ordine prova in quale anormale posizione si trovasse, ed a quali espedienti talvolta fosse obbligato di ricorrere.

Il giorno 31 di luglio ricadeva l'anniversario della nascita della regina vedova, e giusta il costume vi doveva essere in tutti i teatri grande illuminazione. In un punto si ammala in ciascuno dei teatri di S. Carlo, Fiorentini, Teatro nuovo, S. Carlino, la Fenice, e sino nelle Fosse del grano, un attore principale, e verificatesi legalmente dal fisco tutte queste malattie. i teatri restano chiusi!


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CAPITOLO XXI

Continuazione — Gli Agenti Diplomatici —

I Comitati elettorali — Gli avvenimenti precipitano.

SOMMARIO

Programma del Ministero — Fece poco frutto nel Regno — Commenti del giornale l'Italia, che tratta la quistione dell'annessione o della confederazione — Riflessioni politiche — Difficoltà della confederazione — Difficoltà di un programma ministeriale, che incontrasse l'assentimento pubblico — La stampa italiana ed estera sul Programma ministeriale — Situazione politica del Regno nel cominciare di Agosto 1860 — Corrispondenza del Nord su questo stesso argomento — Da quel! epoca le voci di sbarco nelle Calabrie divengono quotidiane — Dispaccio del Generale Salazar al Conte dell'Aquila — Corrispondenza della Patrie da Messina — Non pertanto non si tralasciava di provvedere alla elezione dei Deputati — Concorso dell'Aristocrazia e del Clero alle liste elettori. Primo comitato elettorale — Circolare del Comitato elettorale ai Sindaci — Petizione ai Ministri di un altro Comitato Elettorale per la dissoluzione dei Corpi esteri — Ragioni opposte dei Ministeriali — Altra quistione sui Pari del 1818 — Gl'inviati Napoletani a Parigi, a Londra, a Torino — Lettera da Parigi del Segretario del Principe di S. Cataldo inviato di Garibaldi — Il Times sulla missione del Marchese la Greca — La missione dunque mancava a Parigi ed a Londra — A Torino gl'inviati napoletani erano colmati di gentilezze, ma lo scopo della missione veniva meno — Note di Cavour e degl'inviati napoletani — L'Opinione di Torino in risposta alla Revue des deux Mondes — Circolare del Ministro dell'Interno del Piemonte ai Governatori ed Intendenti — Partenza di volontarii da Genova — Voci su di una pretesa nota austriaca al Gabinetto piemontese — La situazione sembrava grave — Articoli di due Giornali austriaci — Queste notizie alimentavano speranze e timori — Tentativi di reazione in Napoli e nelle provincie — Allontanamento del Principe dell'Aquila — Lo stato di assedio è rimesso in Napoli — Si conoscono le notizie del convegno di Teoplitz relativamente all'Italia — Proclama di Garibaldi Le notizie della Calabria proseguono ad essere allarmanti — Provvedimenti del governo in Calabria — Armamento a Torino — Speranze e timori dei popoli.

 Per delineare un po meglio i termini della politica ministeriale il Ministero credè di dovere nel di agosto pubblicare un Programma. Quest'atto diceva:

«Cittadini!

«Allorché con la proclamazione del Ministro dell'Interno fu data promessa di un programma sull'indrizzo politico del Governo, era dessa la espressione unanime del Consiglio della Corona, alla quale ora il Ministero non crede porre altro indugio nel momento, in cui la nazione si prepara a mandare i suoi rappresentanti al primo Parlamento.

«Uopo è, che il Paese conosca le norme generali, con cui lo Stato cammina, sappia i principii, che il governo intende affidare al presente come al cemento dell'avvenire, vegga il primo ordito del nostro essere nazionale libero ed indipendente. Per tal guisa la pubblica opinione illuminata dagli atti e dalle intenzioni, procederà all'esercizio del dritto elettorale con calma fiduciosa nella fermezza dei nuovi ordini, e con coscenziosa deliberazione nella scelta dei suoi deputati.

«Una delle prime cure del Ministero, convinto come è, che non possa esservi prosperità nazionale, se non sia basata sui principii incrollabili della Religione e della morale, sarà quella di proteggere con fermezza il culto dei padri nostri, espressione grande, solenne, imperitura di quel Vangelo, che primo proclamò la fratellanza degli uomini, la emancipazione dei popoli.

«All'interno poi l'attuazione piena e sincera della Costituzione del 10 febbraio 1848, e la forte e legale repressione di ogni avverso conato, formeranno il sostrato immutabile del governo. Nel lavacro salutare dei dritti e dei doveri ivi consecrati, vuolsi rinvenire la rigenerazione politica del paese, il quale giustamente aspetta di vederne trasfusa la virtù animatrice in tutte le singole parti dell'organismo governativo, cosa alla quale intenderà il Ministero.

«E cominciando dalle riforme cardinali di principii legislativi, il governo va preparando per soggettarli al Parlamento analoghi progetti in varie brani lie di pubblico interesse, e precipuamente per fondare nel Comune una vita nuova più rispondente alte istituzioni politiche; per richiamare la beneficenza a principii di più ordinata amministrazione, e che mentre ne spandono il sollievo per le classi veramente miserabili, le aiutano a migliorarsi nei sentimenti morali, sottraendole alla inerzia ed alla improbità; per involgere l'attivazione dei lavori pubblici in quell'ampiezza di misura, che prometterà lo stato dei fondi provinciali e finanzieri e con metodi semplici e rapidi; per liberare il pubblico insegnamento dai legami, che il costringono, e renderlo altamente educatore, consono al novello vivere di cittadino e comune ad ogni condizione sociale; per istabilire le forme generiche di un più felice avviamento di tutti gl'interessi materiali, le quali mirino da un canto a restaurare le finanze coi metodi più utili allo Stato e men gravosi all'universale, e dall'altro a promuovere quanto è possibile i commerci. le industrie, le grandi intraprese, specialmente delle vie ferrate, produttrici di quel'immensi vantaggi che tutti sanno.

IL CARDINALE ANTONELLI

«Discendendo poi ai miglioramenti secondarii, che rientrano nei poteri esecutivi del governo, esso non farà, che proseguirli con animo pronto e deliberato.

«Nella giudiziosa e buona scelta dei pubblici uffiziali stando in gran parte l'arra dei tempi migliori, il governo ha tolto e serberà a regola del conferimento degl'impieghi la capacità e le provale virtù cittadine, certo che dove esse albergano si troverà amore di giustizia, di retti infine e di ordinata libertà, non mai sconoscimento dei doveri o dispetto del regime costituzionale. A quale proposito il governo eccita il patriottismo di quanti vi hanno uomini onorandi ad agevolarlo con l'opera loro, e rii orda le parole di un grande Italiano: — Non dicano gli uomini: Io non feci, io non dissi; perché, comunemente la vera laude è poter dire: io feci, io dissi.

«Per l'esterno la condotta del governo è chiaramente delineata. Esso è deciso ad ogni costo a tenere alla e ferma la bandiera italiana, che il giovane principe affidava al patriottismo ed alla devozione del valoroso e nazionale esercito. Una missione del governo sta in Torino per negoziare la lega col Piemonte, ed il ministero ne proseguirà con ogni sforzo le trattative nel doppio scopo di vedere presto congiunte da vincoli indissolubili le sorti della grande Italia, e questa nobile regione abbandonarsi secura, fidente e senza ostacolo di nemiche passioni all'asseguimento dei suoi novelli destini.

«Nel governo pari alla lealtà è il dovere costante, che spiegherà per vincere le difficoltà dei tempi, fondare e compiere le sorti della patria comune sulle basi di libertà e più ancora di nazionale indipendenza, pensiero supremo di tutti gli animi italiani. Onde il ministero è pronto e deciso a tutto intraprendere, tutto operare per raggiungere il grande scopo del consolidamento della monarchia costituzionale della italiana indipendenza.

«E frattanto sostenuto dalla coscienza dei suoi doveri, spera gli sarà continuato l'appoggio della pubblica confidenza e dell'ordine, e che nelle prossime elezioni nobile e viva gara sorgerà in tutte le classi degli elettori per fare sortire dalla nazionale rappresentanza l'opinione legale della vera maggioranza, cui solo è dato sperdere definitivamente le incertezze, annullare fin l'eco importuna del passato, e farsi guida delle giuste e legali aspirazioni.

«Napoli 4 agosto 1860

Firmato — Spinelli De Martino, Garofalo, Principe di Torcila — Pianelli — Romano — Lanzillì.»

Questo programma fece poco frutto nelle Provincie napoletane, ove non si riesca ad inspirare fiducia nella buona fede del Principe; ed un foglio ministeriale, l'Italia, che prese a commentarlo in un articolo col titolo Napoli, il Piemonte, e la Lega, trattò la quistione a viso scoperto, ed espose tutti gli argomenti più forti contro l'annessione. Appunto per questo ne riferiremo i principali brani.

«La quistione dell'annessione o dell'alleanza dei due regni è si alla e vitale per questa lieta e possente parte d'Italia, non che pel restante del bel paese da doversi risolvere meno con l'entusiasmo che colla riflessione, meno col fervore della poesia che col senno e la ponderazione politica, da trattarsi insomma non già sotto l'influenza delle passioni irose, che dopo lunghe ed immeritate sciagure fremono in fondo al cuore, ma nella calma e fredda considerazione del maggior bene o del maggior danno, che derivar potrebbe dal suo scioglimento in un senso o nell'altro.

«Noi ci propenghiamo questo esame, e batti ma ascolta. diremo ad un partito estremo ed intollerante, al partito dell Annessione ad ogni costo, cui i successi di Sicilia hanno cotanto inasprito ed esaltato da non ammettere neanco l'ombra del dubbio, neanche il sospetto del periglio. Per questi uomini, ai quali peraltro portiamo rispetto, otto secoli di Monarchia napoletana sono sospinti da dura necessità di fatto a perire come olocausto al risorgimento di una grande Italia; Ruggiero e Carlo III queste elette figure storiche son condannate a dileguarsi innanzi all'Eroe savoiardo. Bene; se Iddio e l'Europa lo vogliono, soggiaceremo a questa necessità nazionale, ma innanzi che la patria di Vico e di Genovesi diventi ancella di altra provincia italiana, abdicheremo l'indipendenza del pensiero. ch'è supremo debito del libero cittadino di serbare incrollabile? Non mai: e se le nostre parole esser den seme, che nulla frutta agl'intelletti decisi, la moltitudine degl'incerti terrà almeno argomento di vedere verso qual parte la ragione consiglia di far pendere la bilancia. Questo è il nostro scopo. e lo crediamo santificalo dalla carità del luogo natio.

«Dopo la pace di Villafranca le speranze di ridurre la intiera Italia sotto la Croce Sabauda caddero dall'altezza raggiunta per le gloriose vittorie delle armi alleate; risorsero dopo i fatti compiutisi nell'Italia di mezzo; divennero culminanti dopo l'arditissima impresa di Garibaldi in Sicilia. Il prestigio del nome e la fortezza dei concetti militari, congiunta alla fulminea prontezza del braccio cd allo splendore di libertà, che lo precede, scossero fortemente la monarchia di Napoli; il Faro siciliano divenne per essa il fatale Rubicone, dalla cui sponda un nuovo Cesare minacciavala. Allora il giovine Re, vinte, mercé la preveggenza di Francia e d'Inghilterra, le suggestioni del partito detestabile, in mezzo al quale era cresciuto sin dall'infanzia, ridonò la costituzione del 1848: ma gli animi del popolo fortemente eccitati dall'eco dei fatti siciliani e dalla vicinanza di Garibaldi, a tutt'altro erano disposti, che a fare lieta accoglienza alle regie concessioni. Si credettero una insidia per iscarnpare dal turbine rivoluzionario, un ultimo dado gittato nel giuoco fatale, in cui l'ostinarsi nella falsa politica aveva sospinta la dinastia. Timori, ansie, dubbii, odio, anziché gioia o fiducia, furono le impressioni dei primi giorni, aumentate non poco dagli stupidi tentativi della fazione contraria. Nondimeno l'onesta e patriottica operosità del Ministero prevalse a scongiurare i primi pericoli, ad attenuare in gran parte le pretensioni, sicché mentre giornalmente esso ottiene dal Re novelli pegni di lealtà e di persistenza nelle vie prescelte, le menti si rendono più proclivi a comprendere, che la quistione dell'annessione si è trattata male e leggiermente, 1° perché si è riguardata dal solo lato delle aspirazioni e non da quello della possibilità; dell'aspetto interno e non dell'aspetto europeo; 2° perché relativamente ai mezzi si è creduto, che quelli, che conducono all'abbattimento della Dinastia, menino altresì all'annessione.»

L'autore ammette la idea della nazionalità come sublime e miracolosa, ma aggiunge, ch'essa non consiste nella necessità di un unico reggimento, e come era facile a dedurne si spiega esplicitamente per una federazione, asserendo, che non si verificherebbero gl'inconvenienti lamentati in Germania, non potendo farsi paragone tra i 36 Stati germanici ed i due Stati, in cui probabilmente sarà divisa l'Italia.

Esamina poi la quistione, se l'annessione fosse conforme agl'interessi di Napoli, a quelli dell'Italia del nord e del centro, a quelli finalmente dell'Europa, e trova, che non è conforme a nessuno di questi tre interessi.

«La sorgente di tali aspirazioni (le annessioniste) è nel nostro passato. La Casa Borbone, dopo sottratto il paese dalla dipendenza spagnuola ed acquistato il più bel titolo alla gratitudine di un popolo, fu balestrata dagli avvenimenti della rivoluzione francese a diffidare della libertà ed a chiedere la sicurezza del Trono alla maggiore nemica d'Italia.

«Da qui una serie di sventure ineffabili e la rottura della reciproca fiducia tra popolo e principi; il popolo cospira e si ribella il principe lo comprime e lo schiaccia. Dal 1799 al 1860 questa trista vicenda coperse di squallore il paese, seminò l'odio ed il timore. Non fu che una fatale conseguenza di questi fatti il contegno osservato dalla Corte di Napoli nella guerra della indipendenza italiana. Senza tali precedenti un Borbone, un discendente di Enrico IV alla testa del maggior esercito italiano, avrebbe potuto emancipare l'Italia, raccogliendo l'eredità di un pensiero, che fu napoletano prima di essere piemontese sotto Federigo lo Svevo, sotto Ladislao, sotto lo stesso Murat nel 1811. Ora ascoltando quest'odio, sia pur meritato, si può giocare la sorte di un paese? Si può spegnerne la vita, negletta sinora, ma in cui esempi vecchi e nuovi dimostrano esservi fecondissimi germi di egregia virtù e di gloria?»

E continua parlando degli infiniti interessi personali sacrificati alla preponderanza dell'elemento piemontese; del danno, degl'interessi materiali per la configurazione geografica della penisola; della iattura, che proverebbe Napoli dal cessare di essere Capitale. sì che invalso il costume di assentarsene il reame si troverebbe ridotto alla condizione delle campagne irlandesi, e Napoli sarebbe visitata dagli stranieri come Palmira, Tebe, Pompei ed Ercolano.

«Si parla di Roma, dell'alma Città dei Cesari, capitale del mondo e centra del Cristianesimo. Oh! sì, ognuno volentieri s'inchinerebbe al Re, che piantata in Campidoglio la bandiera dei tre colori, raccogliesse intorno ad essa tutte le genti italiane. Ma se credete, che il Cristianesimo ha bisogno di un centro di dottrina e d'un'aureola di maestà, la Città di Roma dovrà essere sempre del Papa, anziché divenire la Capitale di un regno italico. Roma, poiché inalbera il vessillo di Cristo, appartiene all'universo, e non soltanto ad un popolo.

«L'annessione poi non converrebbe neppure al Piemonte ed all'Italia centrale, pecchè Napoli, quartiere generale della reazione assolutista da sessant'anni, non conferirebbe elementi di stabiliti alla monarchia piemontese, ma la minaccerebbe sempre, rannodando intorno a sé tutti gl'interessi offesi, tutto il partito repubblicano. Il Piemonte con l'annessione di Napoli farebbe forse sorgere una Vandea

«Da ultimo l'Europa non permetterebbe l'annessione. Tralasciando le Potenze ostili, per l'Inghilterra non è desiderabile, che il Mediterraneo divenisse lago italiano, tanto più sul procinto di aprirsi l'istmo di Suez strada per le Indie inglesi; la Francia non cambierà la sua politica tradizionale, o nol farebbe senza compensi, cioè senza un'altra maggior parte del suolo italiano; le potenze del Nord non saranno mai aiutatrici della impresa, e se rimanessero con le armi al braccio spettatrici dell'espulsione della Casa regnante, le armi stesse rivolgerebbero per impedire, che il reame fosse assorbito dal Piemonte, e forse nei colloquii di Baden questa ipotesi non rimase impreveduta.

«Epperò ne derivava, che la tolleranza dell'Europa non altro permettesse sperare, che un mutamento dinastico dopo un combattimento ultimo sangue, con cui la Casa Borbone difenderebbe certamente suoi dritti secolari. Il nuovo Principe recherebbe con sé uno sciame di baroni stranieri, ai quali i Napoletani dovrebbero obbedire, e che avrebbero il monopolio degli alti uffizii dello Stato e la direzione segreta dei Consigli della Corona, si che i Napoletani sarebbero o turba riverente o ribelli; se il nuovo Re fosse un napoleonide, si ripeterebbero le scene dell'Olanda Del 1810; se un Leuehlenberg sarebbevi oscillazione fra la Francia e la Russia; se un Coburg Gotha il reame diverrebbe una colonia inglese.

«E tutta quest’alea la correremo per odio, per vendicarci di un giovane Re, ch'è sul Trono da un anno solo? Non gli si perdona l'ultimo decennio di reazione consumata sotto il regno paterno, tenebra sanguinosa, con che si vuole ad ogni costo oscurare lo splendore della sua corona. Non si ripete abbastanza la guerra siciliana, il lusso degli eccidii palermitani. Ma giusto Dio! Dimenticheremo, che l'eredità degli odii non segue l'eredità del sangue? Guglielmo il Malo e Guglielmo il Buono erano padre e figlio. A ciascuno la storia dispensa la infamia o la gloria delle opere proprie, non delle altrui.

«E si commette pure una grande ingiustizia: mentre dal popolo s'invocano gli effetti di una costituzione non mai abolita, si rifiutano al Principe. Il male, che si è fatto durante il governo reazionario di Ferdinando II, ed entro questi dodici mesi del nuovo regno, dee ricadere sulla testa dei Ministri, che consigliarono la Corona, e ratificarono le suggestioni del partito nero, da cui era circondato il Monarca. È puerile intemperanza chieder conto di tante opere scellerate a chi educato dapprima ad una metodica estraneità agli all'ari, alla sponda del letto funebre di suo padre trovò pronta a ghermirlo una Camerilla impudica e senza fede, di cui fu egli la prima vittima. Ma oramai la Provvidenza il soccorse, e noi, non superiori alla Provvidenza, non possiamo negargli lo sperimento dell'avvenire, ne contrastargli l'ingresso nelle nuove vie di lealtà e di onore. Per fermo un anno di cattivo consiglio non potè chiudere una giovane mente alla luce della verità, ne serrare il cuore all'affetta santissimo della sua terra natale. Perché negare a Francesco II più giovane, ma non più colpevole, il dritto di ribattezzarsi nella libertà e nella gloria del nome italiano?

«Svincolandosi dai meretricii abbracciamenti di Roma e di Austria, sollevandosi all'altezza dei tempi, può ancor egli scuotere l'antico giogo clericale, annettere al suo libero regno le oppresse provincie pontificie, collocando il Papa nella solitaria majestà di Roma, e quindi alla testa di centomila valorosi correre a liberare insieme all'eroe di Palestro e di S. Martino la straziata Venezia, senzaché la sua liberazione ci facesse piangere la perdita di un altro brano d'Italia. Allora nel comune risorgimento avrebbero ancora essi Napoletani contribuito la loro pietra, e se crediamo alla mente profonda del Macchiavelli, la pietra angolare. In questa e non in altra guisa, e senza rompere alcuna fede giurata, l'esercito certamente desisterà da una guerra fratricida, ed in battaglie combattute per l'Italia farà dimenticare le battaglie combattute contro.

«Una volta compiute queste splendide opere, non saranno che vane fantasime le paure e le preoccupazioni di coloro, che dagli antichi spergiuri prevedono spergiuri nuovi. Mutate le condizioni di Europa, cessata la speranza di un intervento, sradicata la reazione, e colpita come sarà per fino nei suoi simboli cavallereschi, italianizzalo l'esercito, garentite le interne libertà dalla lega col Piemonte, Francesco II sarà più interessato del popolo al nuovo stato di cose, ed il giorno, in cui un genio infernale Io tentasse ad un colpo di stato, il suo trono andrebbe irremissibilmente in frantumi, senza l'illusione di un momentaneo trionfo, senza neppure la compassione di Europa. Di lui non potrebb'essere altrimenti, che d'Isabella di Spagna succeduta a Ferdinando VII; invano i partii ostili alla libertà si agitano intorno ad essa, che rimane ad onta delle occasioni e dei consigli attaccata alla Costituzione come all'estrema ancora di salute.»

Quest'esposizione, che noi dovevamo riferire per narrare quale fosse l'opinione della frazione liberale non annessionista e dinastica, ha perduto molto del suo vigore dopo gli avvenimenti, che si sono succeduti. Non però fece in allora molto rumore, comeché fu accettata come simbolo della loro credenza da tutti coloro, che sia per interessi, sì per abitudini, sia per convincimento della incompatibilità di carattere delle diverse famiglie italiane, noci credevano all'unità italiana. Eppure neanche allora i principi propugnati da quell'articoo) potevano reggere ad un'analisi logica; vi si scorgeva troppo municipalismo, ed assai poca italianità; traspariva una certa contradizione tra il valutare il regime rappresentativo in un regno d'Italia ed il valutarlo in un reame di Napoli; appariva in fine uno studio accurato nel trattare delle difficoltà, che lo stesso autore vedeva gravi. Se il grande, il supremo interesse d'Italia chiede il trionfo del principio dell'unità italiana, se questo principia dà più forza, più autorità, più compattezza alla nazionalità italiana; se meglio di ogni altro le assicura il posto, che le spetta tra le Potenze Europee e le disavvezza dalla secolare influenza, che hanno avuto nella Penisola, che importa, che la monarchia fondata da Ruggiero e restaurata da Carlo III venga a fondersi nel regno italico? E che forse la Repubblica di Venezia ha una storia meno brillante del reame di Napoli, o che pure uno dei più ingiusti atti della diplomazia cambia la quistione per riguardo ad essa? Forse non è anche illustre l'istoria degli altri singoli Stati italiani? Forse Vico e Genovesi si sarebbero vergognati di essere cittadini italiani anziché napoletani? E forse il pensiere dell'unità italiana concepito dalla mente di Federigo di Svevia, di Ladislao, di Murai valeva più che non valga quando è abbracciato dalle menti concordi di tutt'i popoli italiani? È poesia tutto questo?

Il fatto ha dimostrato di no, ma prima che il fatto si compisse, la gran maggioranza delle popolazioni delle provincie meridionali, la parte più sana, più intelligente, quella, che meno si fa trasportare dall'ardenza delle passioni politiche, se non si dissimulava la difficoltà dell'unificazione, non tralasciava di ritenerla come la sola vera soluzione della quistione italiana. Il vincolo di una confederazione avrebbe dovuto essere assai stretto, e cementato da un'assoluta uniformità di vedute, d'interessi, e di aspirazioni dei Principi sovrani italiani per rispondere alle vere ed indispensabili condizioni di affrancamento e d'indipendenza della Penisola. Un solo agente del pensiero e della volontà doveva sempre e tenacemente determinare il giudizio sull'interesse e l'azione italiana, a fin di dare a questo pensiero ed a questa volontà la robustezza e la coesione di una forza di resistenza, contro della quale venisse ad infrangersi ogni tentativo d'influenza estera. Ed il giovane Principe, che succedeva sul Trono di Napoli non solo non aveva fatto nulla per ismentire una giusta diffidenza, che la sua educazione inspirava, ma aveva fatto quanto era d'uopo per accreditarla. Non era più tempo di ulteriore esperimento quando l'esperimento poteva fare mancare l'occasione. che in politica è un elemento essenzialissimo, ch'è grave fallo il trascurare. Niuno avrebbe potuto commettere il grande e suprema interesse dell'Italia alla politica incerta e vacillante di un Principe, che era stato despota ed Austriaco, e fedele imitatore di suo padre, bebè aveva potuto; e quando alla pur fine incalzato dagli avvenimenti, che rapidamente procedevano; era stato astretto ad accettare le forme liberali e rappresentative, non aveva saputo neppure allora svincolarsi dalle sue precedenti tendenze, ne deliberatamente informarsi in una politica riparatrice, energica, risoluta e spedita come i fatti, cui doveva ostare, diametralmente opposta ai principii, alle aspirazioni, agl'interessi sino allora seguiti, in una politica cioè schiettamente e recisamente italiana.

Tali furono i concetti, che si opposero all'articolo surriferito.

Del rimanente il Programma ministeriale, come già lo abbiamo detto, fece pochissima impressione. Nella predisposizione degli animi era ben difficile di formulare un programma, che avesse potuto contentare l'opinione pubblica, e quello pubblicato, raggirandosi su combinazioni generali di pubblica amministrazione, fu trovato vago. Per le ragioni ripetutamente accennate il Programma ministeriale, atto a soddisfare le esigenze delle popolazioni napolitane, doveva essere molto esplicito sugli obietti particolari della politica estera ed interna. Bisognava dichiarare, che le provincie venete appartenevano e dovevano a qualunque costo appartenere all'Italia; che le provincie degli Stati Romani, che si erano annesse all'Italia superiore, avevano esercitato un loro dritto naturale. e che le altre rimaste dovevano essere ammesse ad esercitarlo del pari. Che questo stesso di ritto apparteneva ai Siciliani. Che nell’organizzazione interna bisognava operare una completa rivoluzione nei principii e nelle idee, ed allontanare recisamente ed immediatamente tutti coloro, che avevano consigliato o contribuito a serbare l'antico sistema amministrativo, che bisognava vituperare e stigmatizzare. Ora era mai possibile un programma di tal fatta? No! — La situazione si riproduce sempre sotto il medesimo aspetto, perché i fatti non si cambiano, ed i fatti erano più innanzi delle concessioni.

É inutile il dire, che i commenti dei fogli italiani non furono favorevoli al Programma ministeriale. Quanto alla Francia, una corrispondenza della Presse diceva:

«E’ impossibile di dire più poca cosa in tante parole. D altronde questo programma indica quello, che si avrebbe voluto fare; è una critica del passato, non già un impegno per l'avvenire.» — Questo giudizio non ci sembra esalto. Gli altri giornali riferirono il programma senza comentarlo.

Tre giorni dopo la pubblicazione di quel Programma un Giornale napolitano moderatissimo, esistente già da molti anni nel Regno, l'Omnibus, scriveva il di 7 di agosto: — «La situazione politica è oggi qual era nei trascorsi giorni, perciocché verun avvenimento è venuto a modificarla sostanzialmente, e sempre v'ha in essa alcun che d'incerto, di vago, d'indeterminato, che sfugge d’innanti misteriosamente... Posto in mezzo alle esigenze di una parte ed alla resistenza dell'altra, il ministero fa il possibile per vincer, le attuali gravi difficoltà, e durare per altro tempo ancora, laddove gli avvenimenti non precipitino. Nei giorni passati si parlò di una crisi ministeriale per effetto di ordini, che sarebbero stati dati a varii navigli di guerra di recarsi sul Faro, a distruggere la grossa batteria ivi eretta da Garibaldi, ordini che ora si dicono disdetti; ma se questa crisi è cessata, esistono però sempre quella indecisione, quell'esitanza, quell'incertezza, che sono le conseguenze delle enormi difficoltà del momento.»

Un corrispondente del Nord, che appartiene a ben altro partito che Unitario, e che nelle sue corrispondenze anteriori aveva preso sempre, il partito della truppa napoletana nei diversi scontri con Garibaldi, scriveva lo stesso giorno 7 di agosto a quel giornale:

«Non è più tempo di riflessioni, di deduzioni, o di previsioni, ma bensì dei fatti, che ne sono il complemento. In questo stato di dissoluzione di tutto l'organico governamentale, per non cadere in ripetizioni, mi permetterete di farvi assistere allo scioglimento del nostro dramma, registrando giorno per giorno i fatti, che avvengono.

«La situazione come il nostro procedere verso la crisi preveduta vi sono ampiamente noti per le mie lettere precedenti; epperò non vi ritornerò; vi basti di sapere, che l'esplosione non è più che una quistione di tempo, e dipende intieramente dal giorno e dall'ora, che saranno scelti da Garibaldi. Il partito unitario, preso ardire dalla vicinanza del Dittatore, agisce allo scoperto. Conta le sue forze, ne recluta delle nuove, e si tiene pronto a secondare ed appoggiare l'atteso movimento. La debolezza e lo scompiglio del governo gli lasciano una libertà di azione, della quale profitta. Il comitato centrale di Napoli è in relazioni quotidiane con quelli delle provincie in generale, e particolarmente con le Calabria, ove si trova di già Stocco. Degli avvisi che emanano dal Comitato sono pubblicamente affissi per eccitare l'ardore della nazione. Altri manoscritti indicavano ieri il Palazzo Cavalcante come il punto di riunione di coloro, che volessero arruolarsi per essere diretti verso la Calabria. Tutt'i mezzi sono messi in opera per fare scoppiare qui e nelle provincie dei movimenti antidinastici. II partito reazionario lavora dal suo lato, ma con molto meno successo.

«Il momento è grave. Noi siamo alla vigilia di una catastrofe imminente, Preparatevi a registrare delle notizie decisive e fatali. I vostri lettori mi renderanno la giustizia di aver io adoperato tutt'i miei deboli sforzi per prevenire, quando ancora n'era tempo, queste terribili conseguenze di un regime, che doveva far nascere lo spettacolo desolante, al quale assistiamo.»

Dal cominciare di agosto le voci dello sbarco di Garibaldi in Calabria divennero quotidiane; si scriveva da Palermo, che 12 mila uomini erano concentrati fra Torre del Faro e Messina, che barche e vapori si radunavano incessantemente. Un articolo dell'Opinione di Torino accresceva l'opinione della probabilità di questo sbarco. — «Se lo sbarco dei soldati di Garibaldi non è stato ancora mandato ad effetto, si crede però in generale ch'esso non sia per essere ritardato di molti giorni.»

L'Iride del 4 aveva un dispaccio telegrafico, che diceva: «Garibaldi è a Torre di Faro con 17 o 18 mila uomini. Nel Faro si vede grandissimo numero di a barche cannoniere.»

E si conobbe inoltre il seguente dispaccio da Reggio:

«Il Generale, Salazar al Conte di Aquila

ed al Ministro della Guerra.»

«Il Fieramosca dovendo mettere il trinchetto bisogna, che venga in Napoli unitamente alla Maria Teresa, ch'è anche inutile: quest'ultimo potrebb'essere rimpiazzato dalla Sirena.

«Le batterie a Torre del Faro sempre più s'ingrossano, e sono di sacchi di arena con pezzi di grossissimo calibro. Se noi manderemo a terra le batterie, la mattina ne ritroteremo più grandi.

«Garibaldi ha ricevuto dal Piemonte 4 Corvette, due ad elice e due a vela, e sette legni mercantili a vapore. Compariscono avanti di noi 120 a 4 60 barche cannoniere. Si prega mandare subito forza, acciò potessi fare resistenza in caso di un sicuro e sollecito attacco.

«Reggio 6 agosto 1860, ore 8, e 30 pom.»

Ed il 4 di agosto scrivevasi da Messina alla Patria, che Garibaldi proseguiva con la maggiore attività i suoi preparativi di sbarco in Calarla, che una numerosa flottiglia di barche erasi riunita nel Faro all'entrata dello stretto di Messina; accennava poi alle batterie elevale, tali da rendere impossibile ai legni napoletani di passarvi senza esporsi ad una perdita sicura, o per lo meno a delle gravi avarie. Soggiungeva, il Generale essere finalmente riuscito ad organizzare un'artiglieria. Era questa la parte più debole della sua armata.

«Ora egli possiede molte batterie di pezzi di campagna, di obici di montagna, e di cannoni da sedici; tolti sono ben montati, ben provveduti di attrezzi e di animali, e manovrati meglio di quello, che si poteva sperare da soldati. la più parte dei quali ignoravano sino a pochi giorni prima il maneggio del cannone; i pezzi sono tutti di una buonissima scelta.»

Così da per lutto lo sbarco di Garibaldi era ritenuto, come diceva il corrispondente del Nord, una quistione di tempo più o meno prossimo.

In tutte queste perturbazioni non si tralasciava di provvedere all'elezione dei Deputati. Il concorso in Napoli dell'aristocrazia e del clero per farsi inscrivere nelle liste elettorali aveva fatto comprendere al partito degli astenenti quanto importasse di non lasciare libero il campo delle elezioni a coloro, che non caldeggiavano l'unità italiana. La invasione di Garibaldi era una quistione di tempo ma appunto per questo niuno poteva con certezza affermare, che sarebbe seguita prima della riunione del Parlamento; e d'altronde niuno poteva sconoscere la suprema importanza di un Parlamento nazionale. Si formarono quindi diversi comitati elettorali. Il primo si riunì nella casa del Barone signor Gennaro Belletti; fu conferita la presidenza al signor Pietro Leopardi. Fu stabilito di eleggersi un comitato elettorale composto dei più egregi uomini, il quale mettendosi in comunicazione coi comitati esistenti o da crearsi nelle provincie e nei distretti, promuovesse la elezione dei Deputali più adatti alle condizioni politiche del tempo. E prima di procedersi alla composizione del Comitato. sorse una discussione inspirata dalla necessità di farvi entrare tutte le diverse frazioni del partito liberale; alcuni pensavano, che questi diversi colori si dovessero andare a cercare nella Camera dei Deputati del 1849, altri ritenevano, che pel decorrimento di II anni così pieni di svariate vicende, non fosse quello un elemento sicuro della scelta, ed avesse quindi a starsi piuttosto alla realità presente che a quelle reminiscenze. Si procedé quindi alla elezione del Comitato, e si stabili, che avrebbe tenuto le sue sessioni nella casa del Marchese di Bella signor Camillo Caracciolo. Dall'altra parte il Cardinale di Napoli diresse una circolare sotto forma di pastorale alla sua Diocesi, con la quale citando diversi passi del Vangelo raccomandava di eleggere uomini moderati, onesti, ed amici della fede dei loro Padri.

Il 3 di Agosto il Comitato elettorale dirigeva ai Sindaci del Regno la circolare seguente:

«Signore;

«Chiunque è dotato di spiriti italiani dee di presente adoperarsi a fare, che la rappresentanza di questa parte della Penisola esca dalle urne elettorali degna degli alli e immancabili destini serbati dalla Provvidenza all'Italia, patria comune di quanti nacquero e vivono tra le Alpi e l'Etna.

«Quindi è che il Circolo elettorale di Napoli pubblica il suo manifesto, che il comitato elettorale da esso prescelto trasmette a tutt'i Comuni del Regno, pregando l'autorità municipale, cui l'indrizza, di dargli la maggiore pubblicità possibile, onde i comitati elettorati ora esistenti o da formarsi immediatamente in ciascun capo luogo di distretto si compiacciano indicare senza perdita di tempo i nomi dei loro candidati, e così agevolare al Comitato centrale la formazione della lista generale da raccomandarsi ai collegi elettorali. E ciò fare con la massima alacrità, acciocché la mancanza del tempo non ponga il comitato nella necessità di non giovarsi dei loro utilissimi ragguagli.

«È quasi superfluo, che il comitato si faccia ad esporre le doti, a cui nelle presenti condizioni debbano più riguardare coloro, che intendono proporre i candidati per la rappresentanza del paese; nondimeno stima suo dovere di ricordare essere opinione generale e giusta, che la nuova Camera debba comporsi di uomini, che per specchiato amore alla causa della nazionalità e della indipendenza italiana e per costante probità di vita più siano riveriti. Nè sarà inopportuno l'avvertire, che gioverà non poco scegliere tali uomini tra tutte le classi sociali, in modo che tutte le forze vive del paese siano nella futura Camera effettivamente rappresentate.

Sieguono le firme.»

E due giorni dopo un altro comitato elettorale presieduto dal professore Oronzio Gabriele Costa votava una petizione come appresso:

«Ai Ministri responsabili del Reame di Napoli.

«Il Comitato elettorale di Napoli presieduto dal professore Oronzio Gabriele Costa nella sua seconda seduta ha avuto occasione di fare disegnare la seguente petizione:

«Il dì, in cui il popolo di questa parte d'Italia dovrebbe accorrere ai comizii ed eleggere i suoi rappresentanti, è ben vicino; ma le liste elettorali sano sparute, i cittadini ritrosi ad attuare il prezioso dritto ed obbligo insieme, a cui la Patria li chiama. E perché ciò? Forse per odio o indifferenza alle libere istituzioni? Quando si pensa, che in pochi anni 100mila Napoletani morirono di varia e gloriosa morte, propugnando la santissima causa in tutte le contrade di Europa, questo sospetto non può allignare in nessuna anima onesta. Dunque hen altra è la ragione. Il popolo, memore del recente passato e dotto da tante sventure, paventa che quelle liste oggi di elettori ed eligibili, domani potessero tramutarsi in liste di proscrizione, ed essere fondamento di nuovi tormenti e nuovi tormentali.

«S'inganna per avventura il buon senso del popolo? Esso ha ragione di credere così quando ha veduto delle sbrigliate milizie gittare lo spavento nella capitale; dei feroci contadini aizzati in tenebrose congreghe aggredire i pacifici cittadini amanti delle novelle istituzioni; dei preti sediziosi sostituire alle parole di pace e di amore quelle dell'odio e della guerra civile; quando da ultimo vede tuttavia biechi e minacciosi quei medesimi militi stranieri, che furono arrollati per estinguere col sangue ogni aspirazione liberale e stare alle spalle dei nostri soldati, affinché non avessero tentennato ad uccidere i fratelli, i parenti, gli amici. I fatti di Napoli, di Gaeta, di Avellino, di Venafro, di Reggio, e di quasi tutti i paesi del Regno sono troppo noti e troppo eloquenti, perché sia lecito dubitare dell'effetto, che producono sugli animi dei costernati cittadini. Questi soldati stranieri sono una minaccia permanente, continua, una flagrante violazione dello Statuto; e chi ne lacera una pagina può fare altrettanto del resto.

«Se dunque si vuole davvero, che le novelle istituzioni si consolidino, che il parse mandi i suoi rappresentanti alla Camera, fa mestieri, che senza por tempo in mezzo si diano le più ampie garentie della buona fede, che fu tanto raccomandala al nostro governo. E la maggiore e la più solenne di queste garentie consisterà nello sciogliere e rimandare alle loro case questa milizia straniera, e sia qualunque il sacrifizio pecuniario, che occorre all'uopo.

«Senza di ciò un comitato elettorale, e sia pur composto dei nomi più cari alla patria, avrà ben duro calle a percorrere, trovandosi di fronte alla immensa ragionevole sfiducia dei concittadini.

«Siavi quindi a cuore, o Ministri responsabili, di fare che la fiducia rinasca, esaudendo questo ardentissimo voto delle popolazioni, se veramente amate, che la Camera si costituisca, e volete, che a ciò cooperino gli onesti cittadini riuniti in comitato elettorale.

«Napoli 5 agosto 1860.»

Opponevano i ministeriali, essere questa una gravissima misura, che implicava un forte peso per le finanze del Regno, e che il Ministero avrebbe compromessa la sua responsabilità, se in un'epoca così prossima alta riunione del Parlamento nazionale, avesse da sé medesimo proceduto a sciogliere quei corpi e fissarne le corrispondenti indennità. Nè si può negare. che l'obiezione non fosse fondata, dapoiché se la dissoluzione di quei corpi era indubitaraimente una misura, che avrebbe incontrato l'applauso generale, la liquidazione delle indennità era tale materia, da potere incontrare una severa censura. Per altro quei corpi davano una grandissima apprensione, e nelle provincie come nella capitale non ispiravano altro, che timore per gli elementi, dei quali si componevano.

Ed un'altra quistione in quei medesimi giorni sollevava l'Omnibus. — «Mentre il paese si apparecchia alle elezioni, che fanno gli antichi Pari, e per meglio dire, che pensano di fare? Quando tutti gli ordini della cittadinanza comprendono le difficoltà dei tempi e si sforzano di superarle, ove pur sia possibile, agli uomini onorevoli, che furono investiti della Paria nel 1818, crediamo dover rivolgere franche e leali parole».

E dopo di avere osservato, che ben pochi furono i Pari, che non sottoscrissero le petizioni dirette al Trono, perché fosse abolita la legge fondamentale dello Stato, e meno ancora quelli, che rimasero estranei al sistema governativo, che distrusse nel fatto almeno, se non nel dritto la costituzione, soggiugne:

«Che faranno oggi quei Pari, che nuovamente trovansi investiti di una dignità, alla quale rinunziarono volenterosamente? Ritorneranno a sedere in quella Camera, che era (secondo il loro concetto) un inciampo al pieno esplicamento della prosperità del paese? Ricompariranno nell'aula augusta, della quale chiesero fossero per sempre chiuse le porte?

Ed espressa l'opinione, che ciò non sarebbe accaduto. termina col consigliare quei Pari a dimettersi. I tempi che volsero precipitosamente, non permisero di scorgere, se questo consiglio sarebbe stato accettato. Peraltro era quella una delle tante gravi difficoltà della situazione.

Che cosa intanto facevano gl'inviati napoletani a Parigi, a Londra, ed a Torino?

A Parigi il Marchese la Greca ricevuto coi riguardi, oche il suo carattere e le sue qualità personali gli meritavano, non aveva in sostanza conseguito nulla. Tranne il carattere officiale, egli trovavasi quanto al successo della sua missione al livello del principe di S. Cataldo invialo di Garibaldi. Abbiamo una lettera del segretario del detto principe da Parigi il 26 di luglio al Corriere Mercantile, che ci pone a giorno della situazione:

«Onorevole Signor Direttore;

 «L'Unione del 23 corrente, oggi giunta a Parigi, reca nelle sue ultime notizie le linee seguenti:

«A Parigi l'Imperatore Napoleone rifiutò di ricevere all'udienza il principe di S. Cataldo inviato di Garibaldi. Il signor Thouvenel stesso gli fece annunziare, che non poteva riceverlo; per cui ci dovette riporsi in viaggio senza potere consegnare all'Imperatore la lettera del Dittatore».

«Probabilmente il signor Bianchi Giovini ha attinto questa notizia da qualche altro giornale, che parlava di cose, cui ignorava. Tali voci sparse nel pubblico potendo indurlo in errore, io sono in misura di smentirle.

«L'inviato di Garibaldi non poteva vedersi rifiutata dall'Imperatore un'udienza, cui non aveva dritto. Ministro di un governo non riconosciuto in Francia, egli non poteva aspirare ad essere riconosciuto officialmente. Sollecitò invece un'udienza dal signor Thouvenel, che questi affrettossi di accordare dietro ordine diretti da S. M. Venne pure onorato d'udienza dal principe Napoleone, che mostrò molto interesse per le notizie di Sicilia. Vide e conversò a lungo con molti dignitarii, ed egli ha motivo di credersi soddisfatto della sua difficile missione. Quanto poi al suo preteso riporsi in viaggio il principe di S. Cataldo non sa cosa voglia dire, ove non si debba chiamare viaggio il passaggio, ch'egli ha fatto dall'Hòtel de'  Bade, ove aveva alloggio provvisorio all'Avenue Matignon, ove prese un appartamento diffinitivo.

«Nel pregarla di voler accogliere nel suo pregiato giornale queste poche linee, ho l'onore di riverirla distintamente.

Devotissimo suo C. Ferrariis.»

Se questo aveva ottenuto il principe di S. Cataldo, il marchese la Greca non aveva potuto conseguire lo scopo del suo mandato.

«Londra la sua missione era stata anche più difficile. Il Times ne dava conto in questo modo:

«Che la Corte di Napoli conti con poca speranza sugli effetti delle sue truppe, ciò è evidente giusta la missione del Marchese la Greca. Quest'inviato è stato spedito per intendersi coi governi di Francia e d'Inghilterra. La sua lettera a lord John Russell indica sufficientemente la natura delle istruzioni del signor della Greca, ed inoltre sono esse chiaramente definite da un dispaccio da Parigi. La risposta di lord John Russell al signor Griffith portava, che l'inviato aveva proposto al governo di S. M. d'interporre la sua mediazione tra il Re delle Due Sicilie e Garibaldi, e che se questa mediazione nello scopo di ottenere un armistizio e di prevenire ogni attacco contro la terra ferma non fosse da Garibaldi accettata, sarebbe adoprata la forza dai due governi della Gran Brettagna e della Francia a fine d'imporgli questo a armistizio.»

«Il governo di S. M. ha detto lord Russell, ha ricusato di accettare questa proposizione.»

Il signor della Greca nella sua lettera di spiegazione modifica leggerissimamente questa affermazione:

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

TENDA DI CAMPO OFFERTA DALLE SIGNORE NAPOLETANE

A S. M. IL RE VITTORIO EMMANUELE

— «Quello, ch'io ho dimandato al governo di S. N. Britannica si è stato di essere molto buono, onde esercitare di concerto con la Francia e col Piemonte una pressione su Garibaldi all'obietto di ottenere una tregua reale di sei mesi, affinché i negoziati per un'alleanza col Piemonte potessero essere terminati, e che la riunione della rappresentanza razionale potesse aver luogo.»

Ora quantunque l'inviato napoletano dica, che la idea d'impiegare direttamente la forza contra la Sicilia non sia mai entrata nel suo pensiero ne in quello del suo governo, abbia da dirci in qual modo egli propone di esercitare una pressione su Garibaldi senza qualche uso di forza. Sembra chiarissimo, che se le grandi Potenze si risolvono a questa politica, una pressione materiale dev'essere adoprata, se una pressione morale non ha effetto. Dippiù abbiamo ora una delle proposizioni del signor la Greca pubblicale con esattezza; cioè che una squadra anglo-francese incroci tra la Calabria a Napoli per impedire una invasione di Garibaldi.

«Sembra, che il governo francese non sia stato ostile a questo intervento. Napoleone Imperatore ha in sé molto del sovrano per vedere con inquietudine il sollevamento di un popolo e lo scuotimento di un trono. Non ha inoltre verun desiderio speciale di vedere estendersi ancora i dominii di Vittorio Emmanuele. Adesso, che si è acquistala una certa riputazione militare, e che ha contrattato pel potere una nuova locazione, combattendo per l'Italia, l'Imperatore dei Francesi è divenuto conservatore, e desidera di vedere gl'Italiani tranquilli, sia sotto un Absburg, sia sotto un Borbone. Ma la missione dell'Inghilterra è qualche poco differente. La nostra Politica nella quistione italiana è una politica di convincimento. Il principio ch'è stato adottato per guida dalla nazione, è quello del non intervento. Il più che possiamo intervenire, è solamente pei nostri consigli e pei nostri voti, e questi non possono avere, che uno scopo solo; — assicurare gl'Italiani, che rimarranno padroni di accomodare i loro affari a modo loro. Questa massima è stata così sovente ripetuta, che può sembrare triviale, ma quando la vediamo sì presto obliata da altre nazioni, e vediamo quanto poco l'inviato di Napoli ha creduto, che noi agiamo su questo principio, non vi è male a ripeterlo. E conseguentemente non possiamo dispensarci dall'accordare a lord John Russell tutti i nostri elogi per la sua politica degna e costante.

«Ricusando di venire in aiuto del governo vacillante e spaventato di Napoli, egli non ha in verun modo espressa una opinione favorevole all'invasione di questo paese. Per lo contrario il Gabinetto Britannico è stato in generale di accordo con quello di Torino per pensare esser meglio, che Garibaldi si astenesse di attaccare il territorio continentale del Re di Napoli. Su questo punto noi siamo stati di un'opinione contraria, ma adesso non è questa la quistione. Può essere da desiderare, che il generale siciliano si contenti per lo momento della conquista dell'isola, e lasci fare alla rivoluzione, che la sua semplice vicinanza può fare nascere in Napoli, i proprii affari, ma se si decide a marciare sulla Capitale, non v'ha nulla nelle nostre relazioni con l'una o l'altra parte, che ci forzi ad intervenire, o che possa giustificarci di farlo. »

Adunque la Francia e l'Inghilterra ricusavano di aderire alle proposizioni del Governo di Napoli; il che era danno gravissimo, perché per verità quelle proposizioni mostravano la poca solidità di quel governo e la poca o niuna confidenza, che aveva nelle proprie forze. L'opera di Ferdinando II si dissolveva tutta di un tratto quale un edilizio elevato sopra fondazioni incerte e vacillanti. La sua forza tinto decantata era fittizia.

In Torino gl'inviati napoletani erano stati colmati di attenzioni e di riguardi non solo dai Ministri e dalle notabílità piemontesi, ma anche dai Diplomatici esteri. Il 28 luglio il sig. James Hudson, Ministro d'Inghilterra, diè loro un pranzo, cui azsistivano il Conte di Cavour ed il Corpo diplomatico; qualche giorno dopo Brassier de'  Saint-Simon Ministro di Prussia ne diè loro un altro del medesimo genere. Però lo scopo della loro missione, l'alleanza, era già allora completamente mancato.

Secondo il Constitutionnel il Conte di Cavour avrebbe dichiarato, che Garibaldi, prevalendosi della indipendenza di fatto, nella quale le circostanze l'avevano messo, ricusava con un rispettoso ma nettissimo linguaggio di cedere ai consigli di moderazione, che il Re nella sua alta sollecitudine per la conservazione della pace nella Penisola aveva creduto opportuno di dovergli dare, e manifestava chiaramente la sua intenzione di non arrestarsi nel corso delle sue azzardose intraprese.

La conseguenza di ciò, avrebbe aggiunto lo stesso Ministro, si è l'essere obbligato a riconoscere nelle attuali condizioni delle cose un grave ostacolo alla buona riuscita dei negoziati intrapresi tra le due Corti. Ma quanto doloroso potess'essere per lui di vedere l'inefficacia dell'opera di conciliazione, ch'era stata intrapresa, il governo del Re non potrebbe uscire dalla sfera dei consigli e della persuasione. E sopra tutto deve astenersi dal prender parte in una guerra tra Italiani, che d'altronde altamente de7 plora.

Il Conte di Cavour avrebbe terminato, dicendo, vedersi astretto di attendere, che nuove circostanze forniscano al Reale Governo una più favorevole occasione di esercitare con migliore successo la sua azione moderatrice e conciliante, e per questo continua a contare sulla cooperazione degl'inviati napoletani.

Tale sarebbe stato il senso di una nota rimessa dal Conte di Cavour, alla quale sarebbe stato risposto con un'altra nota degl'Inviati napoletani. Approfittando abilmente della dichiarazione di doversi astenere il governo del Piemonte di prendere parte in una guerra fra Italiani si dimandava, che venissero messi degli ostacoli alle incessanti partenze per la Sicilia dei volontarii di quel Reame. A che cosa mai tendono le spedizioni? Quali nemici vanno a combattere? Non ha ora Napoli delle istituzioni liberali? Che cosa si vuole sostenere con queste spedizioni? La idea rivoluzionaria non è idea italiana. L'interesse d'Italia, l'interesse del Piemonte e di Napoli vogliono, che questi due paesi, così differenti di condizioni politiche e civili, non siano tra loro riuniti se non dai legami di una semplice ma stretta alleanza, della quale l'opera si è iniziata.

Questa nota degl'inviati napoletani avrebbe avuto la data del di 8 agosto.

Ma il progresso del tempo, oltrepassando il segno delle quistioni agitate nei tempi precedenti, aveva sostituito alla quistione delle istituzioni liberali la quistione dinastica. Epperò la Revue des deux mondes trattò la quistione vera, e disse essere dovere del governo sardo di salvare la monarchia napoletana dalla sua rovina; al che l'Opinione di Torino. foglio officioso, rispose risentitamente:

«Quello, che noi vorremmo sapere da questi consiglieri, sarebbe, come mai, anche volendolo, il nostro governo potrebbe venire in aiuto del governo di Napoli che crolla e qual è il partito, che in Napoli vuole la conservazione del governo attuale. Ciò che risulta dalle corrispondenze, dalle lettere, dai giornali, che giungono da questa città, si è per verità, che vi sono delle persone, che deplorano le concessioni fatte dal Re, e vorrebbero ritornare al regime assoluto, ma che non se ne incontra alcuna, che voglia profittare di queste concessioni per innalzare sulle stesse un ordine di cose durevole. Il ministero è rispettato, perché lo si sa composto di uomini di merito e degni di stima, ma niuno crede alla sua missione, ed esso ha molti rapporti con quei governi provvisorii, che s'improvisano ordinariamente nei Palazzi municipali il giorno delle rivoluzioni, e che sono destinati a durare il piccini tempo necessario allo stabilimento di un ordine diffinitivo.

«A Napoli s'invoca pubblicamente la venuta di Garibaldi, si acclama alle sue vittorie, si fanno delle collette pei feriti garibaldini, e la Rivista dei due Mondi vorrebbe, che il paese, d'onde sono partiti i valorosi campioni che hanno inalberata la bandiera l'Italia e Vittorio Emmanuele, mostrasse per loro minore simpatia della terra, sulla quale hanno diretto la loro avventurata intrapresa.

«Il nostro Sovrano ha scritto a Garibaldi per arrestarlo nella Sicilia. Con ciò ha largamente soddisfatto alla deferenza, che ha sempre avuto per le due grandi Potenze occidentali, e pei doveri, che gl'incombono come membro della famiglia delle dinastie europee, ma pretendere dippiù sarebbe esigere la maggiore impossibilità morale, che mai vi sia stata.

«La base della soluzione. che si vuole tentare nella quistione italiana è, senza dubitarne. l'annessione del nuovo Stato all'antico Piemonte, ma indipendentemente dal sentimento patriottico, che i governanti sentono al pari dei governati, la fredda ragione basta ad indicare l'unica via politica, che dobbiamo seguire. Qui né dei trattati né un'ambizione dinastica uniranno le diverse parti dello Stato, ma la sola volontà dei popoli, la virtù di un sovrano, il gran nome d'Italia, nel cui seno popolo e sovrano si sono uniti. Indubilatamente la esperimentata fede del nostro governo gli dà il dritto di costituirsi moderatore del movimento di emancipazione, ed i popoli non si rifiutano a questo freno salutare, ma sarebbe insensato chi pensasse di potere cambiare la direzione di questo movimento o arrestarlo. Questa base, che crediamo solidissima, e sulla quale si può già ritenere assicurato l'edifizo politico, che gli stranieri non hanno saputo mai elevare in Italia. sarebbe scossa, l'edilizio crollerebbe prima di essere coronato e l'Europa sarebbe nuovamente condannata alle inquietudini che le hanno periodicamente cagionato le nostre interne rivoluzioni.»

Non però il Governo Piemontese credè di doversi dirigere alle autorità provinciali per impedire dei preparativi di attacco contro gli Stati vicini.

Il 4 di agosto Bertani aveva fatto un appello ai popoli italiani.

«Il momento è supremo, egli aveva detto; la lotta prosegue sempre vittoriosa, ma bisogna finirla presto, altrimenti la diplomazia ci ruberà il frutto degli immensi sacrifizii già ottenuto. I nemici nostri sgomentati ci chiedono tempo, ragione di più per indurci a far presto».

Queste ed altre simili frasi, che ritraevano il carattere dell'autore e la natura del subietto, eccitavano la gioventù italiana ed incendiavano una materia già per sé stessa molto facilmente accensibile. Quelle voci penetravano sin anche nell'armata, e tuttoché Garibaldi con apposito proclama avesse caldamente raccomandato ai soldati di non disertare le proprie bandiere, pure in questo non era stato udito. Pare dunque, che per questa ragione. e forse anche per concedere qualche cosa alle esigenze della diplomazia, il signor Farini Ministro dell'Interno diresse colla data dei 13 di agosto una circolare ai Governatori ed Intendenti Generali.

«I Siciliani, egli diceva, essendosi sollevati tre mesi addietro per ricuperare la loro libertà, ed il Generale Garibaldi essendo accorso in loro aiuto con un piccolo numero di bravi, l'Europa è stata piena della rinomanza delle loro vittorie. Tutta l'Italia è stata commossa, e l'entusiasmo è stato grande in questo regno, ove la libertà delle leggi e dei costumi non pone alcun impedimento alla manifestazione dei sentimenti della coscienza pubblica.

«D'onde le generose offerte di danaro ed i numerosi volontarii partiti per la Sicilia.

«Se nei tempi meno turbati si sono lodati i popoli. che diedero favori e soccorsi alla liberazione delle nazioni straniere, e se i governi, obbedendo all'autorità del sentimento universale, hanno favorito apertamente, o almeno permesso di soccorrere l'America, la Grecia, il Portogallo, la Spagna, che combattevano per la indipendenza e la libertà, bisogna credere, che l'Europa incivilita porti un equo giudizio sulla condotta tenuta dal governo del Re in questo irresistibile movimento nazionale.

«Ora la Sicilia è in situazione di esprimere liberamente i suoi voti; il governo del Re, che deve serbare intatte tutte le prerogative della Corona e del Parlamento, e che deve anche adempire quel dovere di suprema moderazione del movimento nazionale, che gli appartiene, e per le prove, che ha fatto e per lo pubblico consentimento ha il debito di moderare ogni azione irregolare e d'impedire l'ingerenza illegittima negli affari dello Stato di coloro, che non ne hanno la responsabilità morale e costituzionale, che esso ha gravissima verso la Corona, il Parlamento e la Nazione, altrimenti potrebbe avvenire, che per lo consiglio e per l'opera di coloro, che non hanno ne mandato ne responsabilità politica, lo Stato e la fortuna d'Italia fossero messi in pericolo. E come negli Stati liberi l'ordine e la disciplina civile hanno maggiore impero del rigore delle leggi, v'invito a dare a questa circolare tutta possibile pubblicità.

«Molle volte ho avvertilo, che non si poteva ne voleva tollerare, che si facessero nel regno dei preparativi di violenza contro i governi vicini, ed ho ordinato d'impedirsi ad ogni costo.

«Spero, che l'opinione pubblica basterà per reprimere delle intraprese inconsiderate; ma in ogni evento mi riposo sulle autorità civili e militari per la pronta esecuzione degli ordini, che ho dato.

«Raccomando soprattutto, che si discuoprano con la maggiore diligenza, e si puniscano con tutto il rigore delle leggi coloro. che cospirando contro l'onore nazionale, e facendo traffico della disciplina militare, si fanno fautori e promotori di diserzione.

«Debbo completare l'organizzazione delle guardie nazionali mobili e preparare la formazione de'  Corpi di volontarii della guardia nazionale, che la legge ha stabilito, e non voglio permettere, che altri facciano il reclutamento di soldati volontarii.

«Concludendo il sottoscritto deve dichiarare, che se il governo del Re è deciso a ricevere il leale concorso di tutt'i partiti politici, che vogliono la libertà, l'unione, e la grandezza del Paese, è del pari deciso a non lasciarsi dominare da coloro, che non hanno ricevuto ne dal Re ne dalla Nazione il mandato e la responsabilità del governo.

«L'Italia deve e vuole appartenere agli Italiani, ma non alle sette».

«Il Ministro

«FARINI».

Tre giorni prima di questa circolare, il 10 di agosto, 3000 volontarii erano partiti da Genova su due vapori; l'imbarco era durato dalle sette p. m. a mezzanotte; vi si contavano de'  giovanetti, che non avevano più di 11 in 15 anni, ma si vedevano molti uomini al di là de'  30; vi erano oltre trenta Francesi. In quello stesso dì parti per la Sicilia anche Bertani; molte congetture si facevano sui motivi della sua gita.

Si era sparsa la voce di una energica nota rimessa dall'Austria al Gabinetto di Torino pel caso di una invasione di Garibaldi sul continente napoletano, e la partenza di Bertani per la Sicilia si legava con questa nota. Dopo le prime voci si disse che invece della nota austriaca eravi stata una comunicazione da parte del Governo di Francia di una nota dell'Austria, a lui diretta, e relativa agli affari d'Italia. La stampa francese non era però di accordo sull'esistenza di questa nota. L'Opinion Nazionale scriveva:

«L'esistenza di questa nota serve a spiegare il ripigliarsi de’ lavori e degli armamenti siraordinarii da parte del nostro Stato; forse essa servirà a spiegare la impreveduta partenza del signor Bertani per la Sicilia. Devesi forse a questa minaccia, conosciuta qui primaché fosse formolata nella nota del signor di Rechber, il ritardo messo dal dittatore della Sicilia ad effettuare la sua discesa sul continente. Questo ritardo si convertirà mai in una rinunzia diffinitiva a suoi piani di attacco contro il Re di Napoli? Sembra ben difficile, che le cose possano risolversi, dapoiché Garibaldi si trova talmente impegnato, che gli sarà impossibile di arrestarsi a.

Il Pays al contrario non ammetteva la nota:

«Noi non crediamo punto a questa nota, che non si riferirebbe affatto al piano generalmente attribuito all'Austria. che consiste semplicemente a difendersi, se è attaccata; e la discesa di Garibaldi sul territorio napoletano non sarebbe un attacco all'Austria.

«D altra parte si sa la voce corsa, che le truppe degli Stati Romani non attenderebbero la realizzazione del Programma ben noto del Dittatore, e preverrebbero i suoi attacchi, correndo in soccorso nel Re di Napoli. È questa anche una considerazione che, dicesi, abbia pesato nella bilancia, e fattala piegare ad un prudente temporeggiamento».

Da ultimo il Débats non sapeva se la nota esistesse oppur no, ma vedeva grave la situazione:

«Noi non sappiamo qual fondamento queste voci possono avere, che giusta le stesse corrispondenze avrebbero prodotto in Torino una commozione facile a comprendersi. Sarebbe questo grave incidente l'obietto della missione officiosa, che il Gabinetto Piemontese avrebbe incaricato Bertani di adempire presso del Dittatore. In pari tempo un'altra corrispondenza parla di una comunicazione fatta dall'Imperatore Napoleone al Re Vittorio Emmanuele per chiamare la sua attenzione sulla gravità della sua situazione attuale relativamente all'Austria. Dobbiamo aggiungere, che giusta la nostra corrispondenza particolare di Torino il rappresentante della Russia avrebbe ricevuto dal suo governo delle istruzioni poco favorevoli sul medesimo subietto. Se tutti questi rumori fossero fondati, si spiegherebbe facilmente, perché Garibaldi si trovava tuttavia a Messina l'8 ed il 9 di agosto, mentre molti lo credevano di già sbarcato sulla terra ferma e padrone di Napoli».

A rendere probabile nell'opinione pubblica l'esistenza della nota o per lo meno un'attitudine meno pacifica dell'Austria influivano due articoli di due Giornali austriaci, che se non ritraevano il pensiero del governo, adombravano almeno il concetto generale, sotto del quale vedevansi a Vienna le cose dell'Italia:

«Lo sbarco di Garibaldi, scriveva l'Ost-Deutsche-Post, sulla terra ferma del Regno delle Due Sicilie apre una fase novella della rivoluzione italiana.

«Gli avvenimenti della Sicilia non erano, che un episodio. Questa impresa rassomigliava da principio alla Campagna di Egitto incominciata da Napoleone 10 per fare la guerra aglinglesi. Ma Garibaldi fu più fortunato dell'eroe delle Piramidi, e la sua escursione nella Sicilia portò dei frutti, ch'esso sta per raccogliere adesso sul continente. In cospetto della condizione deplorabile e della completa disorganizzazione, di cui la monarchia dei Borboni in Italia offre adesso lo spettacolo al mondo meravigliato, non havvi più il minimo dubbio, che il tentativo di Garibaldi su Napoli non sia per riuscire.

«L'armata e la flotta sono disordinate ed avvilite; si fece tavola rasa di ciò che esisteva, e nulla si creò di nuovo: il Re, giovane, senza esperienza, zimbello di consigli contradittorii, e manifestamente abbandonato dalle Potenze europee, e designato come vittima della Francia e dell'Inghilterra, mentre che la Sardegna appoggia politicamente il condottiero, che non riconosce ufficialmente. Come la dinastia di Napoli potrebbe resistere a tanta tempesta? A meno di un miracolo la Sardegna comincerà prima di sei settimane la sua annessione a Napoli. Il regno delle Due Sicilie non è soltanto una ricca conquista, come i ducali del centro; è un arsenale pieno d'armi, di denaro, di vascelli e di soldati. Dal momento che passasse nelle mani della Sardegna, questa diventa una gran Potenza di fatto: l'effettivo del suo esercito non sarà guari inferiore a quello dell'esercito prussiano, la sua flotta sarà più numerosa di quella della nuova grande Potenza della Spagna, o di quella del Regno di Scandinavia. La Sardegna, riunendo l'esercito e la flotta dei due regni, sarà una potenza, con cui si dovrà contare. Noi non abbiamo bisogno di nominare la Potenza, contro cui da prima rivolgerà le sue armi.

«Garibaldi Dittatore, Luogotenente riconosciuto o non riconosciuto di Vittorio Emularmele nel Regno delle Due Sicilie non significa, che una breve pausa nella storia della guerra italiana. Il trionfo della politica Sarda nella Italia meridionale è maggiore pericolo per l'alta Italia e per la Dalmazia dell'annessione dell'Italia centrale Al giorno precedente a quello, in cui Garibaldi sarà sbarcato in Calabria sarà l'ultimo negli annali della pace europea».

E la Gazzetta Austriaca esclamava:

«Noi sapremo ben tosto, se il governo napoletano avrà tentato uno sforzo supremo, se ha trionfato, o se ha soccombuto gloriosamente, ovvero se è caduto. Se Garibaldi rimane padrone sul continente, ci troveremo in presenza d'importanti quistioni. Che tutti i governi legittimi veglino ed avviano! Naturalmente l'Austria deve la prima raccogliersi e prepararsi ad ogni eventualità».

Queste notizie e questi articoli di giornali animavano le speranze degli uni, rendevano più cauti e più antiveggenti gli altri. In quel tempo le notizie sul risultamento del convegno di Teoplitz vagavano tuttavia incerte, abbandonate alle aspirazioni ed ai desiderii dei diversi partiti, per lo che gli attori ed i vagheggiatori dell'ordine politico caduto dalle riferite notizie e dai trascritti articoli desumevano, avere la Prussia promesso il suo aiuto, all'Austria, e nelle loro speranze e nelle loro previsioni vieppiù s'infiammavano. Sotto di questo aspetto il momento era favorevole per tentare qualche cosa.

E difatti minacce di reazione verso il compiersi della prima terza parte di Agosto si fecero sentire in Napoli, sì che la Guardia Nazionale e la Polizia ebbero in forti drappelli a perlustrare le strade. In quella occasione l'ex Ministro Murena fu scortato dalla gendarmeria sino ai confini. In Tocco, Provincia di Abruzzo citeriore, la vecchia guardia urbana disarmò la guardia nazionale, e tolse la bandiera tricolore. Un altro. tentativo reazionario fu fatto in Castel di Sangro, ma fu represso immediatamente, e dei disarmi promossi per lo più dai villici, avvennero in S. Apollinare, in Mina, ed in Morrone.

Una misura energica del Ministero si fu l'allontanamento del Conte d'Aquila, zio del Re e Grande Ammiraglio della Marina Reale. Si disse, che delle Casse sorprese in Dogana abbiano messo la Polizia sulle fila di una cospirazione, della quale, come sempre avviene, la voce pubblica disse estese le fila e sanguinoso il proponimento. Probabilmente c era della esagerazione in quelle voci, ma le rimostranze fatte al Re ed i documenti esibiti dal Ministro dell'Interno e da quello degli Affari Esteri lo indussero ad acconsentire all'immediato allontanamento del Principe zio. Il Generale Palomba fu incaricato di recargli nella sua Villa di Posilipo i passaporti e recargli gli ordini della sua partenza. il Principe protestò della sua fedeltà alle istituzioni costituzionali, e sollecitò un colloquio col nipote. Ma il Generale Palomba mancava d'istruzioni per assentirvi; disse a S. A. elle ogni resistenza sarebbe stata inutile, e che la sua partenza era stata giudicata indispensabile per evitare una effusione di sangue. Gli fu offerto lo Stromboli per imbarcarsi, ma egli ricusò e si recò a bordo del suo yacht di piacere ove passò tutto il giorno 14. La Principessa sua moglie ed i due suoi figli s'imbarcarono sulla fregata brasiliana Isabella. Negli ultimi tempi di Ferdinando II il Conte d'Aquila si era unito al partito liberale e aveva sempre consigliato il nipote a soddisfare ai voti nazionali; ma non erano stati sempre questi i suoi principii politici, e la sua conversione politica aveva fatto molta sensazione come un cambiamento, che i suoi antecedenti non facevano sperare. Nella cospirazione gli s'imputava di volere usurpare un vicariato generale. Il Principe si recò in Parigi, ed ebbe forse in pensiero di fare pubblicare una giustificazione, che non sappiamo, che sia stata pubblicata.

Ma con l'allontanamento del Conte d'Aquila il Ministero credè di rimettere in Napoli lo stato di assedio, e vietare tutte le riunioni, per lo che i comitati elettorali furono disciolti. Ciò avveniva verso la metà di agosto, e gli avvenimenti posteriori resero nel fatto inutile l'opera di quei Comitati, perché non si riunirono i collegi elettorali.

Verso quel tempo si conobbero notizie più precise sul convegno di Teoplitz. Niun protocollo era stato redatto, e g! impegni rispettivi sarebbero stati consacrati in una corrispondenza tra Vienna e Berlino. Relativamente agli affari d'Italia il Principe Reggente di Prussia avrebbe riconosciuto, che il possedimento della Venezia è di una importanza reale per l'impero austriaco, ma avrebbe declinalo ogn'impegno relativo, sinché il movimento italiano si restringesse tra i soli Italiani. Se per lo contrario una Potenza straniera vi prendesse parte, il Principe Reggente si sarebbe impegnato a prestare all'Austria l'appoggio delle forze prussiane (). Così la politica del non intervento era semprepiù raffermata, e le speranze ed i timori, che l'Austria si avesse a muovere coadiuvata dalla Prussia si dileguarono.

Stringevano intanto le cose della Calabria. Sin dal 6 di agosto Garibaldi, aveva pubblicato il seguente proclama:

«Alle popolazioni del continente napolitano.

«L'opposizione dello straniero interessato al nostro abbassamento e le interne fi azioni impedirono l'Italia di costituirsi.

«Oggi sembra, che la Provvidenza abbia posto un termine a tante sciagure. L'unanimità esemplare delle provincie tutte — a la vittoria sorridente dovunque alle armi dei figli della libertà — sono una prova, che i mali di questa terra del Genio toccano al termine.

«Resta un passo ancora, e quel passo non mi spaventa. Se si paragonano i poveri mezzi, che condussero un pugno di prodi sino a questo Stretto, coi mezzi enormi, di cui noi disponiamo oggi, ognuno vedrà, che l'impresa non è difficile.

«lo vorrei però evitare fra Italiani lo spargimento del sangue — e perciò mi dirigo a voi — figli del continente napoletano.

«Io ho provato, che siete prodi ma non vorrei provarlo ancora. — Il sangue nostro noi lo spargeremo insieme su i cadaveri del nemico dell'Italia — ma tra noi.... tregua!

«Accettate, generosi, la destra, che non ha mai servito un tiranno — ma che si è incallita al servizio del popolo… A voi chiedo di fare l'Italia senza l'eccidio dei suoi figli.... e con voi di servirla o di morire per essa.

«Messina 6 agosto 1860.

«G. Garibaldi

Le notizie, che venivano dalla Calabria proseguivano ad essere allarmanti. Il Giornale Ufficiale pubblicava, che nella notte degli 8 al 9 era stato rotto il filo del telegrafo a Bagnara, e che il Comandante di Altafiumana avvisava vedersi nelle pianure di Matiniti sopra Cannitello delle masse nemiche. Che alle 2 p. m. si era riattivata la linea elettrica, e che le tentate invasioni erano state respinte. Però un dugento riusciti a sbarcare e penetrare nell'interno erano fatti segno della ricerca della truppa, che si era data ad inseguirli con decisa energia e disperderli.

Ma le notizie particolari, che giungevano dalle Calabrie, sullo spirito delle popolazioni, non erano così tranquille come le diceva il Giornale Ufficiale. Si scriveva da molti punti, essere la opinione popolare in tale grado di esaltamento, che alla più leggiera voce di uno sbarco proromperebbe in un'aperta in surrezione. Il Maresciallo Vial in un suo dispaccio telegrafico diceva: — «Tutte le montagne della Calabria sono gremite di armati». Eppure sino al 13 di agosto non erano sbarcati in Calabria, che pochi drappelli di Garibaldini. — «Finora, si scriveva da Messina il detto di 13 di agosto, non passarono sulla terraferma che pochi drappelli, qualche centinaio di uomini in tutto. Qui tutto è ordinato ed in attesa di prossimi fatti; il maggior nucleo dei volontarii è pronto ad agire.»()

Ma quelle poche centinaia si erano unite alle bande calabresi, ed avevano occupate le cime dei monti, ove si tenevano in buona guardia difese dalla natura dei luoghi e dall'assoluta mancanza delle strade.

Il governo intanto prendeva in Calabria i provvedimenti voluti dalle circostanze. Tra Reggio, Catona, Villa S. Giovanni, e Scilla vi erano 8 in 9 mila uomini e ve n'erano in tutta quella Regione da 20 a 25 mila disposti a scaglioni, e che si congiungevano a piccole distanze. Vi erano inoltre a Reggio quattro vapori in crociera nel canale per osservare ogni piccolo movimento, che si facesse nel Porto di Messina. Si diceva, che l'armata nelle Calabrie sarebbe stata portata sino a 50 mila uomini, ma questo era impossibile nello stato d'indisciplina e di demoralizzazione, in cui l'esercito napoletano si rattrovava.

L'Europa adunque era nell'aspettativa di grandi fatti verso la metà di agosto 1860. La missione degli inviati napoletani era fallita; nulla avevano ottenuto a Torino, nulla a Parigi ed a Londra. L'Austria ripeteva le sue assicurazioni di non intervento, ma riserbava i suoi dritti, e si serbava severa e minacciosa. Il Piemonte proseguiva con attività i suoi armamenti. La Francia aveva ceduto a prezzo ridotto 50 mila fucili rigati, e doveva cederne anche degli altri, nonché un certo numero di cannoni di grosso calibro, polvere, e munizioni. Le fonderie della Svezia, del Belgio, dell'Inghilterra come le più rinomate fabbriche dell'Europa lavoravano per commissioni piemontesi; le fabbriche nazionali se ne occupavano esclusivamente. Si erano costruiti tre nuovi equipaggi di ponti; i magazzini erano pieni di munizioni, l'artiglieria ben provveduta, infanteria e la cavalleria ben organizzate, le piazze forti ben munite. Tutto dunque era disposto per opporre una energica resistenza. La Francia e l'Inghilterra, specialmente questa seconda, proseguivano a proclamare e sostenere il principio del non intervento; le altre Potenze osservavano ed attendevano gli avvenimenti; i popoli erano pieni di ansia, di speranze, e di timori.


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CAPITOLO XXII

Sbarco nelle Calabrie — La rivoluzione si compie —

Francesco II parte da Napoli.

SOMMARIO

Lo sbarco di Garibaldi nelle Calabrie non era intervento ma cooperazione — Il movimento nelle Calabrie si disegna nettamente — Sbarco vicino Reggio — Conseguenze nelle popolazioni — Governo provvisorio in Potenza — Tentativo reazionario in Bari — Sanguinosa reazione in Bovino — Moti in Sanseverino — Governi provvisorii in Altamura, in Sala, in Ariano — Diserzioni nelle truppe — Resa del Castello di Reggio — Combattimento del Piale — Resa delle due Brigate Briganti e Melendez — Assassinio del Generale Briganti — Lo Stato Maggiore ed i Soldati napoletani fatti prigioni sono mandati in Napoli — Rapporto del Ministero per prorogare la convocazione dei Collegi Elettorali e del Parlamento — Giuste illazioni che se ne ricavano — Ordine del giorno dei Comandanti la Guardia Nazionale — Loro indrizzo al Ministero — Loro Lettera al Direttore del Giornale Ufficiale — Provocazione dei Tiragliatori della Guardia contro i Bersaglieri Piemontesi — Stato di Assedio in Napoli — Divieto di spedire armi alle Guardie nazionali nelle Provincie — Circolare del Ministro degli Affari Esteri ai Ministri Esteri — In quel giorno le sorti della Dinastia erano decise — Lettera del Conte di Siracusa — Articolo del Nazionale — Il 28 agosto la Guardia Nazionale prende il servizio di Piazza — Il Ministero rimane riunito sin ad ora avanzata della notte — Era l'ultimo periodo della Dinastia — Il Ministero si dimette — Inutili tentativi per surrogarlo — Le cose precipitano — Partenza del Conte di Siracusa — Telegrammi dei Comandanti militari — Parole del Re ai Comandanti della Guardia Nazionale — Suo proclama — Sua protesta — Amnistia — Il Re parte — Telegramma da Salerno — Proclama del Prefetto di Polizia — Considerazioni politiche sulla caduta della Dinastia e sullo stato in cui lasciava il regno.

 A. coloro, i quali dicevano, che lo sbarco di Garibaldi nelle Calabrie dovesse aversi come intervento, la stampa amica della Italia rispondeva, che se l'Italia doveva essere degli Italiani, non si poteva logicamente impedire a costoro, che vi cooperassero. Il perché la loro era cooperazione e non intervento. E cosi era in effetti, perché i fatti già avvenuti nel Regno di Napoli provavano, che le più larghe riforme non bastavano ad allontanare la rivoluzione, dapoiché la quistione era dinastica, e gl'Italiani del Mezzogiorno avevano le stesse opinioni e professavano gli stessi principii di quelli dell'Italia centrale e del settentrione. Come adunque si avrebbe potuto impedire, che coloro, cui si era detto: costituitevi come credete — , non si aiutassero a vicenda nel conseguire la realizzazione di questo comune pensiero? Infatti il movimento cominciava nettamente a disegnarsi nel Regno. ll Giornale uffiziale non poteva fare a meno di pubblicare gli sbarchi nelle Calabrie ed i Bollettini del Comitato unitario, che si diffondevano a migliaia di copie davano più esatte notizie dei fatti, che vi si commettevano. Il 19 agosto alle 10 p. m. Garibaldi si era recato al Faro ed all'una rientrava in Messina. Alle 5 parti per Giardino ad ispezionare la Brigata Bixio, ed alle 9 tutte le truppe erano imbarcate su due Vapori il Torino ed il Franklin; si dicevano 5000 uomini. I due Vapori partirono, facendo mostra di bordeggiare alla volta di Catania, e verso le 10, visto il passaggio non sorvegliato, il Franklin con bandiera americana si portò a tutta macchina verso un paese alla dritta di Reggio, lasciando il Torino in osservazione.

Il Generale osservata la spiaggia deserta fu il primo a portarsi a terra. In meno di mezz'ora lo sbarco del Franklin era compiuto. Però due vapori si avvicinavano a tutta forza, ed il Torino ebbe il segnale di operare immantinenti lo sbarco alla sua volta, ma i due vapori giunti a tiro di cannone, cominciarono il fuoco, mentre il comandante del Torino, ignorando i siti, affettò. Operavasi intanto con difficoltà lo sbarco quando fu veduto di lontano un altro vapore; i Regii lo credettero legno garibaldino, e per non essere messi tra due fuochi, andarono a fare una riconoscenza; il nuovo vapore apparteneva alle Messaggerie Imperiali, ed al loro ritorno i Regii trovarono lo sbarco del tutto compiuto. Il Franklin lavorava per salvare il Torino, ma vedendo ritornare i Regii, inalberò la bandiera inglese, e ritornò a Messina. Il povero Torino fu cannoneggiato.

Tali erano le notizie degli additati Bollettini, e non è da dire l'effetto che producevano. Da quel momento la rivoluzione si manifestò nelle varie provincie del Regno. Oltre i governi installati dalle truppe sbarcate il primo governo provvisorio sorto per l'iniziativa delle popolazioni fu in Potenza, e la truppa che da Salerno era spedita su quella città, giunta in Auletta, non volle oltrapassarla. Il 19 di agosto i Prodittatatori Mignogna ed Albini pubblicarono un Editto, col quale dichiaravano legittima la insurrezione, provvedevano ai mezzi per dilatarla, ponendo a carico della Giunta Municipale la conservazione dell'ordine pubblico, ed il rispondere ai bisogni della insurrezione.

In quello stesso giorno per lo contrario dei tentativi reazionarii si facevano in Bari. La mattina dei ragazzi e delle donne avevano gridato: Viva il Re; abbasso la Costituzione, e la sera dei facchini riuniti in una delle strade principali avevano ripetute le stesse grida. Si riunì alla meglio quella Guardia nazionale, che si potè, e gridò: Viva la truppa! — al che i Carabinieri risposero: Viva la Nazione! — Così fu tutto quietato. Si scopri, che quella gente era stata pagata, e si disse quei moti procurati da due persone, una creatura di Aiossa e l'altra dei Gesuiti. In Bovino invece un movimento reazionario avvenuto il 25 fu truce sanguinario.

In Sanseverino anche prima del 19 vi era stata una dimostrazione, nella quale erasi mischiata la Guardia nazionale e parte della truppa. Si era gridalo: Viva Vittorio Emmanuele, ed il Vescovo, un Cancelliere del Giudicato, il Giudice supplente e qualche altro avevano creduto di allontanarsi, o vi erano stati obbligati. E per non ritornare su questo argomento tra il finire di agosto ed i primi tre giorni di settembre parecchi altri governi provvisorii si erano foratati, e specialmente in Altamura in Terra di Bari, in Sala nella Provincia di Salerno, in. Ariano nella Provincia di Avellino. D'altronde la defezione delle truppe e la loro indisciplina ogni di più ingrossava.

Che cosa intanto era avvenuto nelle Calabrie? Il 21 di agosto il castello di Reggio si era reso. La guarnigione uscì coi soli fucili e col bagaglio personale; rimasero in potere di Garibaldi circa 30 pezzi di artiglieria di diverso calibro, due mortai di bronzo, 500 fucili, molti viveri, carbon fossile, muli ecc. (). Il Giornale Uffiziale pubblicava quella guarnigione essersi riuniti alla Brigata Briganti, cui appartenevano, che tanto questa Brigata quanto l'altra Melendez avevano occupata una vantaggiosa posizione militare nel Piale. Senonché il 22 quelle due Brigate dopo un attacco energico da parte dei Garibaldini si resero a discrezione. — «Siamo padroni, diceva il secondo dispaccio del Dittatore, delle loro artiglierie, armi, animali, e materiali, e del Forte del Pozzo.»

Il Generale Briganti, che in quel combattimento, avendo veduto da vicino il Generale Garibaldi e trattato con lui dopo la resa, ne parlava con ammirazione, venne ucciso da tredici colpi di fucile tiratigli addosso dagli stessi suoi soldati. Questi erano gli elementi di forza, coi quali si pretendeva di mantener saldo un trono, che da ogni parte cadeva in rovine. Invece il 27 agosto si vedeva giungere in Napoli un legno garibaldino con Bandiera parlamentare, e recava lo Stato Maggiore napoletano fatto prigioniero negli ultimi fatti d'armi, e che il Dittatore restituiva. Già qualche giorno prima erano giunti anche restituiti 58 uffiziali circa 2000 soldati senz'armi. E non era con ciò evidente, che la civiltà stava da una parte, la barbarie dall'altra? Che il guasto, il corrotto si sfasciava recando con se i danni della dissoluzione?

Il sentimento pubblico Io aveva da gran tempo avvertito, ma in quegli ultimi periodi questo sentimento non era più occultato, e lo stesso Governo il manifestava. Il 20 di agosto un Rapporto del Ministero al Re per prorogare la convocazione dei Collegi Elettorali e del Parlamento nazionale faceva scorgere la vera situazione del Paese. — «I Ministri di V. M. vi si diceva, nulla hanno trascurato per recare ad atto il più sollecitamente che si potesse gli ordini rappresentativi richiamati in vigore coll'atto sovrano del 25 giugno ultimo. E sopratutto è stata in cima ai loro pensieri la convocazione dei Collegi Elettorali, sì che il paese potesse al più presto essere legalmente rappresentato.

«Ma questa rappresentanza nazionale indarno potrebbe sperarsi in questi momenti, quandoché il Paese nuovo all'esercizio dei suoi dritti costituzionali, trovasi in uno stato di ognor crescente trepidazione per la guerra, che arde al di là del Faro, che ora si trova trasportata sul continente, principalmente nelle Calabrie, che non ha risparmiato finanche il golfo di Napoli, e sopratutto pci movimenti incomposti e di diversa natura, che si sono prodotti in varie città delle Provincie, ove se tutto si opera con successo, che non può mancare per calmarli, non è men vero, che rendono impossibile in atto la tranquilla riunione dei Collegi Elettorali.»

E la convocazione di questi collegi fu prorogata al 30 di settembre, e la riunione del Parlamento Nazionale al 20 del successivo ottobre.

Le illazioni, che si ricavano dal Rapporto surriferito erano generali e fondate. I Ministri ne dicevano quanto bastava per inferirne, che le condizioni del reame erano divenute men che precarie, e visti gli elementi d'immoralità, di brutalità, di furto, ell'erano specialmente in Napoli, si viveva con una certa trepidazione, comunque ciascuno fosse parato a ben adempiere nella parte del cittadino il proprio dovere.

Perciò sin dal 12 agosto i dodici Comandanti della Guardia Nazionale di Napoli avevano esposto in un Ordine del Giorno diretto ai Militi le attribuzioni ed i doveri di quel corpo. Dicevano in sostanza, che nel periodo di transizione, in cui il paese si rattrovava, e nella mancanza di una Rappresentanza Nazionale l'officio della Guardia cittadina si limitava alla tutela dell'ordine, della proprietà e delle famiglie. Che a conseguire questo intento era indispensabile bandire le discussioni politiche, essere disciplinati„ed obbedire alle autorità superiori; così facendo la Guardia nazionale avrebbe con sè, la truppa ed il popolo, ed eviterebbe una responsabilità, che non le spetta, e ch'è superiore alle proprie forze. Circostanze particolari non aver permesso la elezione delle cariche; tollerassero ancora poc'altro tempo, ed obbedissero alle cariche nominate dal Governo.

Ed il di dopo quei Comandanti presentavano al Ministero il seguente indrizzo:

«Non illusione, non idee esagerate, non racconti fantastici, ma fatti permanenti tengono vive le apprensioni della più bella città della carissima Italia, che il più malnato lavorio di Satana la destini alla desolazione ed al sangue.

DUCA DI MODENA

«La riunione di Legioni straniere in disprezzo delle regole costituzionali alle porte del paese, la organizzazione di convegni di trista gente, che cospira sotto alte aspirazioni contro ogni maniera d'istituzioni liberali; le impudenti singolari provocazioni, che contro la milizia cittadina si operano da sozzi satelliti del dispotismo; la compra voce di qualche sconsigliato ecclesiastico, che a disonore del Pergamo maledice alle strappate franchigie, e danna all'interdetto chiunque veste la tunica dell'onore o cinge la sciarpa della libertà, non sono che flagranti pruove di una sleale macchinazione.

«La Guardia nazionale esercita la sua influenza per forza morale non per forza bruta;la simpatia della sua instituzione, la tenacità dei vincoli, che la stringono colla massa dei cittadini, la comunione d'interessi, che divide con essi, la rendono imponente nella vista e negli atti più semplici. Destinarla ad affrontare collisioni, a scontrarsi con masse armate per libidine di sangue, significa dannarla al macello. Non è questo al certo il suo uffizio.

«I suoi rappresentanti hanno il supremo debito di reclamare col coraggio, che deriva dalla santità del dritto e dalla robustezza della ragione, che si ovvii ad ogni possibile inconveniente; si sciolgano i corpi di milizia straniera, la cui presenza tanta onta reca all'onorato esercito dei nostri fratelli, che per valore e fede:là alle nuove istituzioni ha dato le più ineffabili ripruove; si mostri più fiducia nella Guardia nazionale, non tenendola tuttavia scarsa di armi e di munizioni; si dia bando ai malnati artifizii ed alle insidie codarde; si sventino le conventicole reazionarie; si cessi dal mostrare, che i bellici apparecchi siano diretti sulla infelice Napoli, e si smetta ogni più lontano pensiero di volere sciogliere o disarmare la Guardia nazionale. E se a tanto non si ottempera, il Governo si prepari a vedere ritirati in massa i suoi comandanti ed affrontare le conseguenze, che da tanto fatto debbonsi aspettare.»

Un giornale aveva pubblicato questo indrizzo, ed il Giornale Uffiziale lo smentì, asserendo, che non fu presentato né poteva esserlo, perché i corpi armati non fanno rimostranze. Però i Comandanti della Guardia nazionale scrissero al Direttore di quel foglio con richiesta di pubblicazione essere vero l'indrizzo e vera la sua presentazione al Direttore dell'Interno nella sera del 13 agosto, essendo il Ministro in Consiglio; se non che per le rassicurazioni date dal detto Direttore sulle misure già prese dal Ministero, rimase d'accordo convenuto, che dell'atto non si fosse fatto uso uffiziale.

Non mancavano per altro di tanto in tanto dei disordini in Napoli provocati dai Reggimenti della Guardia. Nelle ore pomeridiane del 21 di agosto tre Bersaglieri piemontesi andavano tranquillamente a diporto. Incontratisi sul Ponte della Sanità con buona mano di Tiragliatori napoletani, costoro cominciarono a beffarli, sl che venutosi a briga, e dalle parole passati ai fatti, fu d'uopo, che il posto di Militi nazionali di Santa Teresa intervenisse, e conducesse arrestati al corpo di guardia e Piemontesi e Napoletani. Altri Tiragliatori si presentarono a dimandare i loro compagni, ma la fermezza del Comandante del posto, che fe schierare tutto il distaccamento Innanzi al posto di guardia ne impose a quei perturbatori dell'ordine pubblico. Questi fatti agitavano gli animi, e si era conturbati su quello, che potesse accadere. Napoli era quindi messa in istato di assedio, ed una Ordinanza del Comandante della Provincia e Real Piazza di Napoli, colla data dei 21 di agosto, dichiarando essere necessario di continuarsi lo stato di assedio, ordinava, che gli attruppamenti oltre dieci individui fossero disciolti con invito per due volte e cortesemente ripetuto, dopo i quali, se non volontariamente dispersi, la forza era autorizzata a far uso delle armi.

Che coloro che fossero sorpresi asportatori di armi vietate senza permesso, sarebbero stati arrestati e giudicati militarmente.

Che ogni riunione costituente attentato contro lo stato costituzionale era proibita, ed i componenti sarebbero stati arrestati e giudicati militarmente.

Che così anche sarebbero stati trattati gli allarmisti, gli spargitori di voci tendenti ad alterare lo spirito pubblico, ed i propagatori di stampe clandestine.

In quegli stessi giorni assicuravasi, che un ordine del Ministro della Guerra colla data del 27 agosto vietasse espressamente la distribuzione delle armi alle Guardie nazionali delle Provincie. Sia che si temesse del personale di quella milizia, sia che si dubitasse, che in una data circostanza quelle armi avessero potuto essere tolte ai militi e servire ad armare i nemici della Dinastia, in entrambi i casi riusciva verissimo, che quella istituzione principalissima del regime costituzionale, quell'elemento potentissimo di ordine e di libertà era stato grandemente trascurato, o che si temeva dello spirito delle popolazioni. Questa seconda ipotesi era la vera, e da essa emergeva vera anche la prima.

In quei tempi le stragi della Siria e gli armamenti dell'Inghilterra tenevano preoccupata la Diplomazia europea. Non pertanto gli affari d'Italia erano sempre gravi, ed il Ministero Napoletano credè richiamare l’attenzione delle altre Potenze sugli avvenimenti del reame. Il 21 di agosto il Ministro degli affari Esteri diresse ai rappresentanti delle Potenze Estere accreditate presso il Re la seguente circolare:

«Il Generale Garibaldi dopo di avere invasa la Sicilia, non contento di avere usurpato la Bandiera reale di Sardegna ed intestato tutti i suoi atti col nome del Re Vittorio Emmanuele, per decreto del 3 andante ha messo in vigore lo Statuto Piemontese, ed obbligato tutti gl'impiegati e le Municipalità nominate dalla rivoluzione di prestare giuramento e fedeltà al Re Vittorio Emmanuele.

«Il governo di S. M. Siciliana si crede nel dovere di portare alla conoscenza di tutte le Potenze queste nuove usurpazioni e questi attentati, che conculcano nuove più evidenti della sovranità, i principii inconcussi della ragione delle genti, e fanno dipendere le sorti di tutto un popolo dal capriccio arbitrario di una forza straniera.

«Il Governo di S. M. volendo a costo dei più grandi sacrifizii evitare l'effusione del sangue sin dalla promulgazione dell'atto sovrano del 25 giugno, nel desiderio di armonizzare la sua politica con quella della Sardegna pel mantenimento della pace in Italia, ha sperato la soluzione della quistione siciliana nelle sue lunghe e persistenti trattative.

«Delusa quest'ultima speranza, il Governo di S. M. per organo del sottoscritto si vede nell'imprescindibile obbligo di denunziare a S. E. il sig………. questi attentati, che si commettono sotto la pressione di una forza straniera in Sicilia, di protestare fermamente entro tutti gli atti, che tendono a negare o indebolire i legittimi dritti del Re, e dichiarare, che non riconosce ne riconoscerà alcuna delle loro conseguenze, essendo fermamente deciso a mantenere le ampie istituzioni liberali promesse specialmente a quell'Isola, e a non transigere mai sul principio poggiato sulla storia e sul dritto pubblico Europeo, che riunisce sotto la Real Casa di Borbone i due regni di Napoli e di Sicilia».

Pure in quel giorno le sorti della Dinastia erano decise. Due giorni dopo di quella nota quello stesso Statuto Piemontese, di cui essa parlava, era promulgato nelle Calabrie insieme alla pubblicazione del Regno di Vittorio Emmanuele, precedute da un Editto, in cui manifestavasi la vittoria ovunque compiuta e l'entusiasmo delle popolazioni. Il corriere delle Calabrie giungeva in Napoli col lasciapassare firmato in Reggio da Garibaldi e vistato a Cosenza dal Comitato. Niuno più dubitava dell'avvenire di queste Provincie, quantunque non si fosse tranquilli sui disordini, forse gravissimi, che avrebbero potuto succedere in Napoli. Di essi preoccupavasi la stampa seria ed anche un Principe della famiglia reale. Questi, il Conte di Siracusa, dirigevasi al Re. Egli circa cinque mesi prima (il 3 di aprile 1860) aveva esposto al nipote lo stato dell'Italia e dell'Europa, i pericoli gravissimi, dai quali la Dinastia era minacciata, il solo rimedio a salvarla, la politica nazionale, che riposando sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente il reame del mezzogiorno d'Italia a collegarsi con quello dell'Italia superiore.

«Così solo, diceva il Principe, V. M. sottraendosi a qualsivoglia estranea pressione, potrà unito politicamente col Piemonte essere generoso moderatore dello svolgimento di quelle civili istituzioni, che il rinnovatore della nostra Monarchia largiva quando, sottratto il reame al vassallaggio dell'Austria, lo creava sui campi di Velletri il più potente Stato d'Italia.

Questi consigli non furono allora uditi, e per vero j'aure, che circondavano il Principe, le influenze, che subiva, le sue abitudini, i suoi principii di religione di politica li avversavano del tutto. Pertanto i fatti preveduti si avverarono forse più presto di quello, che si credeva, ed il 24 di agosto quello stesso Principe era astretto a dare ben altri consigli al suo augusto nipote.

«Sire;

«Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli, che sovrastavano alla nostra casa e non fu ascoltata, fate ora che presaga di maggiori sventure trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvido e più funesto consiglio.

«Le mutate condizioni d'Italia ed il sentimento dell'unità nazionale fatti giganti nei pochi mesi, che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al Governo di V. M. quella forza onde si reggono gli Stati e rendettero impossibile la lega col Piemonte. Le popolazioni dell'Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero coi loro voti gli Ambasciatori di Napoli, e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privati di alleanze, ed in preda al risentimento delle moltitudini, che da tutti i luoghi d'Italia si sollevarono al grido di esterminio lanciato contra la nostra Casa, fatta segno alla universale riprovazione. Ed intanto la guerra civile, che già invade le provincie del continente, travolgerà seco la Dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III Borbone; il sangue cittadino inutilmente sparso inonderà ancora le mille città del Reame; e Voi, un di speranza ed amore dei popoli, sarete riguardato con orrore unica cagione di una guerra fratricida..

«Sire, salvate, ché ancora ne siete in tempo, salvate la Nostra Casa dalle maledizioni di tutta Italia! Seguite il nobile esempio della nostra Regale Congiunta di Parma, che, allo irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dalla obbedienza, e li fece arbitri dei proprii destini. L'Europa ed i nostri popoli vi terranno conto del sublime sagrifizio, e Voi potrete, Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'alto magnanimo della M. V. Ritemprato nelle sventure il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della Patria, e Voi benedirete il giorno, in cui generosamente vi sagrificaste alla grandezza d'Italia.

«Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m'impone, e prego Iddio che possa illuminarvi e farvi meritevole delle sue benedizioni.

Questo diceva un Principe della famiglia reale, che altro non aveva da temere tranne che essere obbligato ad uscire dal Regno; ma gli stessi consigli e con più energici modi erano dati al Ministero dalla stampa periodica:

«Ebbene, nei supremi momenti, che corrono, il Ministero responsabile come si governa? Pensa forse in sul serio di perseverare nella cieca ed improvvida resistenza? — No — questo è assurdo, è illogico, è inonesto, e non sarà. Non sarà, ne abbiamo certezza, perché ci ha un confine ad ogni atto umano, che offende le leggi eterne della morale e della coscienza popolare; non sarà, perché il Ministero non va giudicato colanti) oblioso della sua responsabilità e dei doveri suoi inverso il paese. Il Ministero sa bene, che la legittima difesa di un governo assalito a dritto o a torto va giustificata entro certo limiti, i quali limiti sono segnati dal potere e dalla salute pubblica, suprema legge dei governatori e dei governali.

«Posta dunque l'impotenza a difendersi da un canto dall'altro, la immensità dei pericoli sovrastanti alla società civile, la scelta non è più dubbia; la resistenza ostinata si fa delitto, ed il paese rientra nel dritto di chiedere severissimo conto al Ministero responsabile dei consigli infesti ai grandi interessi dell'ordine sociale e delle politiche libertà ().

Il 28 di agosto la Guardia Nazionale prese quasi tutto il servizio di Piazza, meno quello della Gran Guardia, dell'Edifizio dei Ministeri, del Palazzo reale dei Castelli. La rivoluzione era dunque compiuta; la Dinastia era caduta; questo fatto era cessato di essere un mistero; il Re si era mostrato il 30 al passeggio di Chiaia, cosa insolita e quindi affettata, vi era stato veduto indifferentemente, ed il Ministero era stato riunito sino ad ora avanzata della notte, e si era di nuovo riunito nelle prime ore della mattina del 31. Si seppe, che il Generale Cutrofiano doveva essere sostituito nel comando della Piazza dal Generale Vigila, e che il Generale Desauget avrebbe rimpiazzato nel comando della Guardia Nazionale il Principe d'Ischilella. Si diceva pure che il Conte di Trapani, i cui sentimenti antiliberali erano noti, avrebbe anch'egli lasciato Napoli. Intanto l'emozione era grandissima, tutta la guardia nazionale era sotto le armi nei rispettivi quartieri, ed il foglio uffiziale taceva; non aveva notizie ne atti del governo; erano quei solenni momenti, nei quali estinta già quasi del tutto la vita, si attende nel raccoglimento dei diversi affetti, che sono commossi, l'ultimo anelito, che all'uomo sostituisce un cadavere.

Il 1° di settembre voci diverse si sentivano per Napoli; dapprima si disse il Ministero avere dichiarato al Re come non fosse più possibile, ch'egli rimanesse in Napoli; più tardi, che si era venuti ad una composizione per la quale si sarebbero allontanati da Napoli Cutrofiano, Ischitella, ed il Cardinale Arcivescovo, ed il Ministero si sarebbe provato a difendere il regno: infine si conobbe, che il Ministero si era dimesso, che la sua dimissione era stata accettata sotto condizione di rimanere al potere sin che si formasse un nuovo ministero, che il signor Pietro Ulloa n'era stato incaricato, e ch'essendosi diretto a talune persone onorevoli del paese, ne aveva ricevuto un rifiuto. I dodici comandanti della Guardia nazionale erano stati chiamati il di innanzi nel Ministero, ed essi avevano esposto senza titubanza e con energia lo stato della Capitale. Finalmente il 4 di settembre il Giornale Uffiziale annunziava la dimissione dei Ministri e dei Direttori e l'accettazione del Re pel tempo, in cui sarebbe formato un nuovo Ministero. Il Re dava inoltre le sue disposizioni per la parata di Piedigrotta, che doveva seguire il di 8.

E di vero sin dal 26 di agosto il Ministero aveva sottoscritto e presentato al Re un indrizzo, che lo consigliava a partire. Quel documento onora la probità ed il coraggio civile degli uomini che componevano quell'amministrazione; essi soddisfacevano un debito verso del Principe e della Nazione, ma sapevano per certo di urtare le suscettibilità del Re; e sapevano ancora, che consigli di tal fatta quella famiglia non dimentica mai.

Esposta l'inesorabile necessità di libere e franche parole il Ministero prosegue:

«Per un cumulo di cagioni deplorabilissime, sulle quali ne piace di gettare un velo, la gloriosa Dinastia fondata dal Magnanimo Carlo III, continuata per 126 anni fino alla M. V. il cui animo è fregiato di tanto fiore di virtù morali e religiose, ora la veggiamo per fatalità di tempi e per tristizie di uomini venuta a tai termini da rendere non che difficile, impossibile il ritorno e lo scambio di confidenza tra Principe e Popolo. Noi non intendiamo, che rilevare cotesto fatto sociale, il cui giudizio appartiene alla posterità ed alla storia.

«Ma poiché è pur forza riconoscerne l'esistenza, e né a noi Ministri della Corona né ad altri sarebbe concesso il modificare o raddrizzare il sentimento pubblico, ci rimane solo la trista necessità di rivelarlo alla M. V. con libera e dolente parola.

«Ci sarà forse permesso di tenere in poco conto questa universale espressione della pubblica sfiducia che scoppia da tuta i pori del corpo sociale, e che sciaguratamente si va travasando e nelle masse e, quel ch'è più grave. in una parte altresì dell'armata di terra e di mare, che fu e sarà sempre la suprema guarentigia dei Troni come dell'ordine sociale?

«Noi sentiamo, Sire, la fermissima convinzione, non esser punto in poter nostro né il modificare né il disprezzare il sentimento pubblico, perciocché nei tempi, che corrono, la forza bruta rimarrà sempre inefficace e nulla, ove la pubblica opinione non la sorregga e la giustifichi.

«Nè questo è tutto, ché alle interne difficoltà inestricabili si aggiungono le gravissime complicazioni esterne. Noi ci troviamo in presenza dell'Italia, che si è lanciata nelle vie della rivoluzione col vessillo della Casa di Savoia, il che vuol dire colla mente ed il braccio di un governo forte, ordinato, rappresentato dalla più antica Dinastia italiana; ecco il pericolo e la minaccia, che si aggrava fatalmente sul governo della M. V.

«Nè poi il Piemonte procede isolato e spogliato di appoggio. Le due grandi Potenze occidentali, Francia ed Inghilterra, per fini diversi stendono l'una e l'altra il loro braccio protettore sul Piemonte, sì che Garibaldi veramente non è, che l'espressione e l'istromento di cotesta.

«Poste tali condizioni esaminiamo quale sarà la via da tenere, perciò sia salvo l'onore, la dignità e l'avvenire dell'Augusta Dinastia, che la M. V. rappresenta».

E messa prima l'ipotesi della resistenza, i Ministri dimostrano non avere nessuna probabilità di successo. La marina è in piena dissoluzione, l'esercito ha rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica; gli esteri sono un'accozzaglia di gente armata senza sentimento di onore militare, abborrita da tutti gli onesti, perciò minaccia tutti e non assicura niuno.

«Poniamo pure, prosegue l'indrizzo, il caso della vittoria momentanea dello esercito e del governo. Sarebbe questa, o Sire, ci si permetta il dirlo, una di quelle vittorie infelici, peggiore di mille disfatte, vittoria comprata a prezzo di sangue, di macelli e di rovine; vittoria, che solleverebbe la coscienza universale dell'Europa, che farebbe rallegrare tutt'i nemici della vostra Augusta Dinastia, e che forse aprirebbe veramente un abisso tra essa e i popoli affidati dalla Provvidenza al vostro cuore paterno.

«Rigettando adunque, come a noi pare nella onestà della nostra coscienza, il partito della resistenza, della lotta, e della guerra civile, quale sarà il partito saggio, onesto, umano, e veramente degno del discendente di Enrico IV?

«Quest'uno noi sentiamo il dovere di proporre e di consigliare a V. M.: Che la M. V. si allontani per poco dal soglio e dalla Reggia dei suoi Maggiori. Che investa d'una Reggenza temporanea un Ministero forte, fidato, onesto, a capo del quale Ministero sia preposto non già un Principe Reale, la cui presenza per motivi, che non vogliamo indagare, ne farebbe rinascere la fiducia pubblica, ne sarebbe garantia solida degl'interessi dinastici, ma bensì un nome cospicuo, onorato, da meritar prima la confidenza della M. V. e del paese; che distaccandosi la M. V. dai suoi popoli, rivolga ad essi franche e generose parole da far testimonio del suo cuore paterno, del suo generoso proposito di risparmiare al paese gli orrori della guerra civile; che ne appelli al giudizio dell'Europa, ed aspetti dal tempo e dalla giustizia di Dio il trionfo dei suoi legittimi dritti.

«Ecco, o Sire, il partito, che noi sappiamo e possiamo consigliare alla M. V. con sicurezza di coscienza onesta. Noi portiamo fiducia, che la M. V. non vorrà disdegnare i nostri rispettosi e schietti consigli diretti all'onore ed al decoro della sua dinastia, non che alla tutela dell'ordine pubblico pericolante.

«Che se per disavventura V. M. nell'alta sua saggezza non istimasse accoglierli, a noi non rimarrebbe altro partito, che il rassegnare l'alto ufficio, di che la M. V. ne onorava, riconoscendo a noi mancata la sovrana fiducia».

Le cose intanto precipitavano. In Reggio dopo lo Statuto si erano pubblicate le leggi sulla Guardia nazionale e l'Amministrazione civile. Il 31 di agosto Garibaldi aveva telegrafato al signor Matina Prodittatore in Sala:

«Restate fermi ed organizzate la vostra rivoluzione; non fa bisogno venirmi all'incontro; sarò io, che verrò quanto prima tra di voi; dite al mondo, che ieri coi miei prodi calabresi feci abbassare le armi a dieci mila soldati comandati dal Generale Ghio. Il trofeo della resa furono dodici cannoni da campo, diecimila fucili, 300 cavalli, un numero poco meno di muli, ed immenso materiale di guerra. — Trasmettete in Napoli ed ovunque la lieta notizia. Addio — Parto per Rogliano.»

In quel medesimo giorno il Conte di Siracusa, avendo ricevuto alle 5 a. m. un dispaccio da Torino, s'imbarcò immediatamente sulla Fregata piemontese, la Costituzione, e partì. Dal suo palazzo sino alla spiaggia della Villa volle essere scortato da un drappello di Guardia Nazionale. Al 10 settembre Garibaldi telegrafava di essere giunto in Castrovillari, ed il medesimo giorno alle ore 10 e 30 p. m. il governo provvisorio di Castrovillari segnalava al Comitato di Sala:

«Ordinerà al Maestro di Posta di codesto rilievo spiccare sei cavalli al rilievo di Casalnuovo ed altri sei in Lagonegro con guarnimenti e buoni postiglioni per trovarsi pronti alle ore 10 a. m. dovendo servire per l'illustre Dittatore Generale Garibaldi.

Di tutto questo il Re era informato prima del pubblico. Il 4 di settembre alle 8 p. m. il Maresciallo Rivera telegrafava da Salerno al Re:

«Il filo elettrico da Eboli a Salerno è rotto — Due sottuffiziali provvenienti dalle Calabrie hanno detto, che le masse dei rivoltosi e Garibaldi colle sue genti e colla brigata Caldarelli è giunto ad Auletta. Si spediscano subito altre truppe ai siti stabiliti. Mando colla ferrovia due sottuffiziali, Neamburgo del 15° di Linea, e Guida del 4°, dirigendoli al Colonnello Anzani.»

E cinque ore e mezzo più tardi, val dire all'una e mezzo a. m. del 5, il corrispondente del Times, signor Gallenza, credendo che Ulloa facesse parte del Gabinetto e che vi stesse alla testa, gli telegrafava da Eboli la defezione della brigata Caldarelli, lo sbarco a Sapri di altri 4000 uomini capitanati da Turr; che altri sbarchi sarebbero seguiti in punti più vicini a noi — . «Tutto perduto da parte vostra. Vi avviso da amico privato, quantunque vostro nemico politico.»

E da Napoli alle 2 a. m. il Comando Generale rispondeva a Rivera «concentrasse a Nocera tutta la truppa, ch'era a Salerno passando per la Cava, e mettendola subito in movimento, col tenere occupata con due battaglioni la posizione di Cava. Attenderà l'arrivo dell'altra divisione.»

Precedentemente alle 11 p. m. del 4 lo stesso Comando generale aveva scritto al Generale Comandante in Avellino:

«Nel caso, che la posizione esigesse imperiosamente di ritirarsi innanzi a forze maggiori, passerà ad occupare le gole di Monteforte, d'onde essendo forzato da gravi perdite, ripieghi per Nola a Nocera.»

Il 5 alle ore 8 a. m. Rivera telegrafava ad Anzani: — «Il Generale Bosco assicura, che il suo stato di salute è talmente aggravato, che domanda istantemente recarsi in Napoli per curarsi.»

Così fu che il Re dopo di avere chiamato i Ministri dimissionarii al Palazzo nella notte del 4 al 5 settembre, e di esservi quelli rimasti sino alle 3, la mattina del 5 fece chiamare i Comandanti dei Battaglioni della Guardia nazionale, e loro disse:

«Ringrazio la Guardia nazionale della sua condotta.

«Ho dato ordini alla truppa di rispettare la capitale.

«Il vostro.... e nostro D. Peppino è alle porte.

«Io mi ritiro in forza di una capitolazione diplomatica.»

Ed il di seguente pubblicò un proclama, che conteneva promesse e sentimenti, che sventuratamente i fatti posteriori hanno smentito.

Nella fine, come in tutto il corso di quell'amministrazione, le massime e le promesse appartenevano al Ministero, la volontà di adempierle doveva essere nel Principe.

«Fra i doveri prescritti ai Re, diceva il Proclama, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi.

«A tal uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore.

«Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante ch'io fossi in pace con tutte le potenze europee.

«I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali ed italiani non valsero ad allontanarla; ché anzi la necessità di difendere la integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti, che ho sempre deplorato. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l'età presente e la futura.

«Il Corpo Diplomatico residente presso la mia persona seppe fin dal principio di questa inaudita invasione da quali sentimenti era compreso l'animo mio per tutti i miei popoli e per questa illustre Città, cioè garantirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello, che forma il patrimonio della sua civiltà, della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo.

«Questa parola è giunta ormai l'ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della Città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dello esercito, trasportandomi là dove la difesa dei miei dritti mi chiama. L'altra parte di esso resta per contribuire in concorso dell'onorevole guardia nazionale alla inviolabilità ed incolumità della Capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del Ministero. E chieggo all'onore ed al civismo del Sindaco di Napoli e del Comandante della stessa Guardia cittadina risparmiare a questa patria carissima gli orrori dei disordini interni ed i disastri della guerra vicina; a qual uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e più estese facoltà.

«Discendente da una Dinastia, che per 126 anni regnò in queste contrade continentali dopo averle salvate dagli orrori di un governo viceregnale, i miei affetti sono qui. Io sono Napoletano, ne potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatriotti.

«Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri di cittadino. Che uno smodato zelo per la mia corona non diventi face di turbolenze. Sia che per la sorte della presente guerra io ritorni in breve fra voi o in ogni altro tempo, in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al Trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni, di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello, che imploro da ora è di vedere i miei popoli concordi, forti e felici.»

Accompagnava questo proclama una protesta firmata dal Re e dal Commendatore de'  Martino, nella quale leggevasi:

«Dacché un ardito condottiero con tutte le forze, di cui l'Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccato i nostri dominii, invocando il nome di un Sovrano d'Italia, congiunto ed amico, Noi abbiamo con tutt'i mezzi in poter nostro combattuto durante cinque mesi per la sacra indipendenza dei nostri Stati. La sorte delle armi ci è stata contraria. L'ardita impresa, che quel Sovrano nel modo più formate protestava sconoscere e che non pertanto nella pendenza di trattative di un intimo accordo riceveva nei suoi Stati principalmente aiuto ed appoggio, quella impresa, cui tutta Europa dopo di avere proclamato il principio di non intervenzione assiste indifferente, lasciandoci soli lottare contro il nemico di tutti, è sul punto di estendere i suoi tristi effetti fin sulla nostra Capitale. Le forze nemiche si avanzano in queste vicinanze.

«D'altra parte la Sicilia e le Provincie del Continente da lunga mano in tutt'i modi travagliate dalla rivoluzione, insorte sotto tanta pressione hanno formato dei governi provvisorii col titolo e sotto la protezione nominate di quel Sovrano, ed hanno confidato ad un preteso Dittatore l'autorità ed il pieno arbitrio dei loro destini.

«Forti sui nostri dritti, fondati sulla storia, su i patti internazionali e sul diritto pubblico europeo, mentre noi contiamo prolungare finché ci sarà possibile la nostra difesa, non siamo meno determinati a qualunque sacrifizio per risparmiare gli orrori di una lotta e dell'anarchia a questa vasta Metropoli, sede gloriosa delle più vetuste memorie e culla delle arti e della civiltà del reame.

«In conseguenza noi moveremo col nostro Esercito fuori delle sue mura, confidando nella lealtà e nello amore dei nostri sudditi pel mantenimento dell'ordine e del rispetto alle autorità.

«Nel prendere tanta determinazione sentiamo nel tempo stesso il dovere, che ci dettano i nostri dritti antichi ed inconcussi, il nostro onore, l'interesse dei nostri eredi e successori, e più ancora quello dei nostri amatissimi sudditi, ed altamente protestiamo contro tutti gli atti sinora consumati e gli avvenimenti, che sonosi compiuti o si compiranno in avvenire. Riserbiamo tutt'i nostri titoli e ragioni sorgenti da sacri, incontrastabili dritti di successione e dai trattati, e dichiariamo solennemente tutt'i mentovati avvenimenti e fatti nulli, irriti e di niun valore, rassegnando per quel che ci riguarda nelle mani dell'Onnipotente Iddio la nostra causa e quella dei nostri popoli, nella ferma coscienza di non aver avuto nel breve tempo del nostro regno un sol pensiero, che non fosse stato consacrato al loro bene ed alla loro felicità. Le istituzioni che abbiamo loro irrevocabilmente garentite ne sono il pegno.

«Questa nostra protesta sarà da noi trasmessa a tutte le Corti, e vogliamo, che sottoscritta da Noi, munita del suggello delle nostre armi reali, e contrasegnata dal nostro Ministro degli Affari Esteri, sia conservata nei Nostri Reali Ministeri della Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Grazia e Giustizia come un monumento della nostra costante volontà di opporre sempre la ragione ed il dritto alla violenza ed all'usurpazione.»

Pubblicò in fine un'amnistia. La pena dei condannati all'ergastolo era ridotta a quella di 20 anni di ferri. Le pene delle condanne ai ferri, tanto ai bagni che nel presidio, della reclusione, e della relegazione venivano ridotte al terzo di quello, che il condannato doveva espiare. Le pene correzionali e di polizia erano condonate a tutti coloro, che all'epoca del Decreto si trovavano ad espiarle. Non si leggeva niuna delle consuete eccezioni pei reati di furto, di falsità ed altri, la cui turpitudine rende l'autore immeritevole di ogni grazia. Per lo che Napoli e le Provincie andavano ad essere ingombrate da questa trista genia, che dell'ottenuta libertà profittava a danno della proprietà altrui.

Ed alle 5 p. m. di quello stesso di 6 settembre 1860 il Re, imbarcatosi su di un Vapore da guerra spagnuolo, partiva per Gaeta scortato da un altro vapore austriaco. L'immensa popolazione di Napoli quasi non se ne avvide. Essa preoccupavasi di un dispaccio, che da Salerno giungeva in Napoli alle ore 12 mer. e che conteneva:

«Giunge il Generale Garibaldi, Io seguono le Divisioni di Cosenz e di Turr, che marciano con carrozze, carroccioli, vetture ed altri mezzi somministrati dalle popolazioni. Lo segue Fabrizi colle numerose bande degl'insorti della Basilicata e del Principato. Numerosi sbarchi si effettuano su diversi punti del golfo di Salerno e della baia di Napoli.»

Un proclama dal Prefetto di Polizia nell'annunziare la partenza del Re, raccomandava l'ordine pubblico, il rispetto delle persone e delle proprietà, e dichiarava vicino il giorno, in cui uscendosi dai timori e dalle perplessità, si sarebbe conseguita colla libertà dei cittadini l'indipendenza della nazione.

Così fu rovesciata una Dinastia, che nell'impiantarsi sul trono ebbe a titolo legittimo del suo principato l'affrancamento di questa parte d'Italia dalla dominazione austriaca, non ostante, i trattati che gliel'avevano data, e il rafforzò mettendo per principii fondamentali della pubblica amministrazione la indipendenza del potere civile dalle antiche pretensioni di Roma, e la rivendica a pro dei Comuni e delle popolazioni dei diritti inprescritibili, che il potere feudale aveva usurpato. Ma quando prevalendo l'analisi nelle concezioni dell'uomo, fu analizzato anche il principato, e nuove teorie politiche invasero l'Europa, quella Dinastia negò i principii, che aveva professato, ed in ammenda di essere stata essa stessa innovatrice, si tenne obbligata di essere più violentemente, più inesorabilmente avversa agl'innovatori, allora scambiò il dritto colla forza, l'arbitrio colla legge, ebbe spavento dell'istruzione del popolo, lo demoralizzò, ne fecondò le più insociali passioni per più facilmente asservirlo, e giunse perfino a persuadersi essere essa incompatibile colla libertà e collo spirito del secolo. — «I Borboni, diceva Ferdinando II, non sono di questo secolo; sarebbero ridicoli, se divenissero liberali ().»

Il perché ciechi sugli avvenimenti, che si compivano d'intorno a loro, sordi ai suggerimenti dei congiunti e degli amici, inaccessibili agli ammaestramenti dell'esperienza, cassarono un secolo dalla vita del mondo, sentirono fugacemente le impressioni delle immense scoperte, che di tanto cambiarono le relazioni sociali, e credettero, che mentre tutto si mutava nell'uomo, che mentre le sue sensazioni, le sue nozioni, i suoi bisogni, i suoi desiderii si trovavano del tutto cambiati, che mentre insomma l'uomo intellettuale, l'uomo sociale, il commerciante, l'industriale era tutt’altro di prima, l'uomo politico rimanesse lo stesso, val dire che mentre si erano strappati alla Natura i proprii segreti, ed i più potenti od indocili elementi di essa si erano incatenati, perché servissero ai bisogni dell'uomo, solo il potere del principato, smodato, incomposto, assoluto dovesse rimaner saldo sull'antica base anche dopo che questa era già rimasta scrollata per la rovina del potere feudale, che servendo come di contrappeso, operava che quell'autorità nel dritto illimitata, trovasse nel fatto degli ostacoli, che la contenessero.

Francesco II° aveva ereditata questa trista eredità dei suoi maggiori, ed era meno di tutti capace di sostenerla. Non gli mancarono né i suggerimenti né i consigli, ma gli mancò il discernimento per separare i buoni consigli dai cattivi, e sopratutto gli mancò la forza d'animo indispensabile per disingannarsi sulle illusioni di un potere, che di buon'ora aveva creduto nella sua origine divino, incrollabile nella sua durata. Egli lasciava il regno in uno stato deplorabile.

La sfiducia e la diffidenza dei popoli nei grandi poteri dello Stato; la corruzione e l'immoralità nelle masse, la superstizione in luogo della Religione, l'abitudine di cercare i mezzi di vita non nello sviluppo delle proprie facoltà, ma sulle soglie di un Ministero o di una pubblica amministrazione, mentre ammiserita la Finanza, presentava un deficit di ducati 62,146,373:67 (), pari a Lire 264,540,474:45. senza computare il numero esorbitante degl'impiegati, assegnatarii, e pensionisti che stabilivano una enorme spesa oltre quella preveduta nei bilanci. () Tal è il conto, che la Dinastia dei Borboni nella sua caduta deve al regno di Napoli. Stando all'imponibile della contribuzione fondiaria, quel deficit rappresenta la metà del valore della proprietà immobiliare di queste Provincie. Essa era stata sciupata nello spazio di meno di 12 anni!

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

VITTORIO EMMANUELE OSSEQUIATO

DAL CONFALONIERE AL SUO ARRIVO IN FIRENZE


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CAPITOLO XXIII

Garibaldi in Napoli. Sua amministrazione —

Pallavicino ProDittatore.

SOMMARIO

Il 7 settembre 1860 — Telegrammi di Garibaldi — Proclama di Romano — Falli, che avevano determinato il telegramma di Garibaldi — Essi provano la rivoluzione compiuta — Ricevimento del Dittatore — Suo proclama — Si reca al Palazzo della foresteria — Sue parole dal balcone — Prende alloggio nel palazzo d'Angri — Composizione del nuovo ministero — Le navi da guerra aggregale alla flotta Sarda, — Lettera di Garibaldi al Sindaco dimesso — Fiducia che il cambiamento politico inspirava al commercio — Provvedimenti amministrativi — Soppressione dell'ordine dei gesuiti — Proclama di Garibaldi all'armata napoletana — S. Elmo consegnato alla Guardia Nazionale — Reazione in Ariano — Si pubblica lo Statuto Piemontese nell'Italia meridionale — Si provvede all'amministrazione delle provincie — Si duplica la Guardia Nazionale di Napoli — Commessione per la indigenza — Scoperta di una forte rendita inscritta dei Borboni occultata — L'amministrazione però procede con difficoltà Lettera di Garibaldi a Brusco — Trista impressione, che fece — Il ministero si dimette in parte — Nuovi Ministri — Il Cardinale Riario è mandato via — Anche Spaventa — Antitesi di queste disposizioni — Mazzini in Napoli — Probabile motivo dell'allontanamento di Spaventa — Lungo articolo di Mazzini — Somiglianza dei concetti propugnati in quest'articolo e quelli del Proclama di Garibaldi ai Palermitani — La opinione della gran maggioranza della Nazione era diversa — La difficoltà dell'amministrazione era aumentata dalla diversità delle opinioni de'  ministri e di coloro, che circondavano Garibaldi — Indrizzo al Re — Due indirizzi al Dittatore — Partenza di Bertani — Lettere di Cordova — Crispi prende la firma della Segreteria generale — Il 1° di ottobre. Battaglia del Volturno — Commissione affidata al marchese Pallavicino — È nominato Prodittatore — Indrizzo del Municipio al Re — Altro a Garibaldi — Lettera di Pallavicino a Mazzini — Risposta di questo — Considerazioni — Piano del partito di azione nell'invasione della Sicilia e di Napoli — La sua non riuscita fu un altro atto provvidenziale per la rigenerazione italiana.

 Il di 7 di settembre era destinato ad essere per Napoli e per l'Italia meridionale uno dei più solenni, che la storia ricordi. Sin dalle prime ore della mattina vedevansi affissi in tutte le strade della vasta Città i seguenti due documenti: Italia e Vittorio Emmanuele.

«Appena qui giunge il Sindaco ed il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli, che attendo, verrò fra voi.

«In questo solenne momento vi raccomando l'ordine e la tranquillità, che si addicono alla dignità di un popolo, il quale rientra deciso nella padronanza dei proprii dritti.

Salerno 7 settembre 1860.

Ore 6, 30 a. m.

«Il Dittatore

G. GARIBALDI.

ALL’INVITTISSIMO GENERALE GARIBALDI DITTATORE

DELLE DUE SICILIE LIBORIO ROMANO.

«Con la maggiore impazienza Napoli aspetta il suo arrivo per salutarla redentore d'Italia e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato ed i proprii destini.

«In quest'aspettativa io starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica; la sua voce da tue già resa nota al popolo è il più gran pegno del successo di tali assunti.

«Mi attendo gli ultimi ordini suoi, e sono con rispetto ecc.»

Ed a quei due documenti era aggiunto un Proclama dello stesso sig. Romano, col quale s'inculcava l'ordine e la tranquillità, che il Dittatore aveva raccomandato.

Il Telegramma di Garibaldi era stato determinato da fatti precedenti. Il 6 di settembre il Sindaco di Napoli ed il Comandante della Guardia Nazionale avevano spedito il signor Rendina Decurione ed il signor di Lorenzo Maggiore del 1° Battaglione della Guardia Nazionale per chiedere con lettera al Dittatore in qual giorno li avrebbe ricevuti. Questi Signori avvisarono con telegramma, che il Dittatore li avrebbe ricevuti in Salerno ed al più presto, di tal che il Sindaco ed il Comandante sopradetti, partiti a buon'ora del 7, ebbero a giungere in Salerno poco dopo le 6 a. m. giacché a quest’ora Garibaldi diceva di attenderli. Ricevuti dal Dittatore ed esposti loro i voti della Città, il Generale. dichiarò, che si sarebbe recato sull'istante in Napoli, quantunque non avesse truppe, ed avesse solo con sé pochi suoi uffiziali; ma la presenza del Sindaco, del Comandante della Guardia Nazionale, e di parecchie altre notabili persone, che spontaneamente eransi recate in Salerno per unirsi alla spedizione, era pruova evidente, che la rivoluzione era compiuta, e che niuno avrebbe osato di opporsi colla forza alla decisa volontà di una numerosissima popolazione presa già dall'entusiasmo per quell'uomo, che nella piena dei suoi affetti attendeva impaziente per salutare come suo salvatore. Guai a colui, che gli avesse tocco un capello!

E veramente la misura di quell'entusiasmo sta nel ricevimento del Dittatore. e questo ricevimento è indiscrevibile. Erano sparite le età, le condizioni, i sessi. Tutti indistintamente erano frenetici per la gioia, tutti erano nel delirio dell'ammirazione, tutti erano assorbiti in una sola idea, e da essa trasportati in un vortice di applausi e di acclamazioni. Eppure non avvenne un solo disordine. Cosa mirabilissima e degna di notarsi nella storia delle rivoluzioni; una popolazione di 400 mila persone si raccoglieva per grandissima parte in una sola strada da mattina a sera, a piedi, in carrozza, in gruppi più o meno numerosi, tutti nell'eccitamento dell'ebrezza della gioia ed elettrizzandosi a vicenda, e l'ordine più perfetto era mantenuto! popolo e guardie nazionali si stringevano da potere appena camminare, ma le file non si rompevano; e quando ad una data ora della sera si diffuse la voce, che Garibaldi dormiva, in un momento e come per incanto le acclamazioni cessarono, quella immensa popolazione, stridula per indole e per abitudine, divenne mutola, e la folla a poco a poco si diradò e si sciolse!

Il Generale aveva fatto affiggere il seguente Proclama:

«Alla Cara Popolazione di Napoli.

«Figlio del popolo, è con vero rispetto ed amore, che io mi presento a questo nobile ed imponente centro di popolazioni italiane, che molti secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare ne ridurre a piegare il ginocchio al cospetto della tirannia.

«Il primo bisogno dell'Italia era la concordia per raggiungere l'unità della grande famiglia italiana; oggi la Provvidenza ha provveduto alla concordia con la sublime unanimità di tutte le provincie per la ricostituzione nazionale: per l'unità essa diede al nostro paese Vittorio Emmanuele, che noi da questo momento possiamo chiamare il vero Padre della Patria Italiana.

«Vittorio Emmanuele, modello dei Sovrani, inculcherà ai suoi discendenti il dovere per la prosperità di un popolo, che lo elesse a capitanarlo con frenetica devozione.

«I sacerdoti italiani conscii della loro missione hanno per garentia, del rispetto, con cui saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, il contegno veramente cristiano dei numerosi loro confratelli, che, dai benemeriti monaci della Gancia ai generosi sacerdoti del continente napolitano, noi abbiamo veduti alla testa Ilei nostri militi sfidare i maggiori pericoli delle battaglie. Lo ripeto, la concordia è la prima necessità dell'Italia. Dunque i dissenzienti di una volta, che ora sinceramente vogliono portare la loro pietra al patrio edilizio, noi li accoglieremo come fratelli. Infine rispettando la casa altrui, noi vogliamo essere padroni in casa nostra, piaccia o non piaccia ai prepotenti della terra.

Salerno 7 settembre mattina 1860.

«G. GARIBALDI.»

Il Dittatore si era recato al Palazzo della Foresteria, ove aveva ricevuto molte persone; e dal balcone aveva parlato al popolo: —

«Bene a ragione, aveva egli detto, avete dritto di esultare in questo giorno, in cui cessa la tirannide, che v'ha gravati, e comincia un'ora distinta.

«E voi ne siete degni, voi, figli della più splendida gemma d'Italia.

«Io vi ringrazio di questa accoglienza non per me, ma in nome dell'Italia, che voi costituite nell'unità sua mediante il vostro concorso; di che non solo l'Italia ma tutta l'Europa vi dev'essere obbligata.» —

Indi andò a prendere alloggio nel Palazzo d'Angri.

Intanto fu formato il nuovo Ministero, rimase Romano Ministro dell'Interno; il Generale Cosenz fu incaricato del Dipartimento della Guerra, Giuseppe Pisanelli di quello della Giustizia, i signori de'  Cesare e Giacchi rimasero alle loro rispettive direzioni delle Finanze e dell'Interno. Scialoja fu incaricato del Dipartimento delle Finanze, il Marchese d'Afflitto di quello dei lavori pubblici, il sig. Antonio Ciccone ebbe la Direzione dell'Istruzione pubblica. Conforti ebbe il Portafoglio della Polizia, ed Arditi ne rimase il Direttore; il Tenente Colonnello de'  Sauget fu nominato rettore della guerra. Non vi fu un Ministro ne un Direttore della Marina, perché tutt'i legni da guerra ed anche i mercantili appartenenti allo Stato, gli Arsenali, e materiali furono aggregati alla squadra del Re d'Italia Vittorio Emmanuele comandata dall'Ammiraglio Persano.

Il Sindaco essendosi dimesso il Cavaliere Andrea Colonna gli venne dato per successore. Due giorni dopo Garibaldi scrisse al Sindaco dimessionario sig. Principe di Alessandria la seguente lettera:

«Signore;

«Il Decreto, con cui ho provveduto alla nomina del suo successore nell'officio di Sindaco di questa Capitale è stato un omaggio, che ho dovuto rendere alla sua politica delicatezza.

«So che l'opera sua a giudizio dell'universale è riuscita utilissima al Municipio, e di ciò, che la onora, io pure le rendo grazie. Confido, che non sia lontano il momento, in cui io possa rivederla in qualche pubblico ufficio degno di Lei.

«Soddisfo poi ad un bisogno del mio cuore, manifestandole la mia viva riconoscenza sul modo veramente patriottico, con cui Ella ha adempito nel giorno 7 del corrente alla missione affidatale assieme al Comandante della Guardia Nazionale. Ella così operando ha potentemente contribuito, perciò la transizione del vecchio al nuovo ordine di cose sia stata per ogni classe di abitanti di questa capitale una vera festa civica. Napoli 10 settembre 1860.

«Il Dittatore»

«G. GARIBALDI.»

Questa lettera fu pubblicata nel Giornale officiale, e prova quale fosse il concetto politico del Dittatore.

Un argomento poi ineluttabile della fiducia, che il cambiamento politico ispirava al Commercio fu un aumento di 5 punti e mezzo sulla rendila inscritta, la quale lasciata dal Borbone al 8 ½ si chiuse al 93 all'entrata di Garibaldi.

Si emanavano frattanto i provvedimenti, che si credevano più urgenti. Si vietava la cumulazione dei soldi, ove il cumulo eccedesse una data misura. Si ripristinava ih modo assoluto il divieto del sotterramento dei cadaveri in Città, annullandosi i numerosi Decreti e Rescritti, che vi avevano introdotto una folla di eccezioni.

«Considerando — diceva il Decreto — che il fanatismo religioso da una parte e l'orgoglio aristocratico dall'altra avevano indotto il caduto governo a stabilire eccezioni anche pei cadaveri.»

L'ordine dei Gesuiti fu soppresso, ed i beni furono dichiarati nazionali, e proseguendosi una cattiva abitudine, divenuta per altro grandemente popolare, fu ordinata la restituzione dei pegni fatti nel Banco, che non eccedevano duc. 3. Questa disposizione ha sempre importato una spesa gravissima alla Tesoreria, ed è tornata utile a ben altri, che ai veri poveri. Inoltre i pegnoranti sono quasi tutti esclusivamente Napoletani, ed i fondi della Tesoreria sono forniti dai pubblici pesi, che venivano corrisposti da tutti gli abitanti del regno.

Due giorni dopo il suo ingresso in Napoli Garibaldi credè dirigere un proclama all'armata napoletana:

«Se voi non sdegnate Garibaldi, egli disse, per compagno armi, egli ambisce solo di pugnare al vostro lato contro i nemici della Patria.

«Tregua dunque alle nostre discordie, secolari sciagure del nostro paese.

«L’Italia calpestante i frantumi delle sue catene ci addita al settentrione la via dell'onore verso l'ultimo covile dei tiranni.

«lo non vi prometto altro, che di farvi combattere.»

Se questo proclama fosse stato ascoltato, chi sa di quali avvenimenti saremmo stati testimonii in Italia. Cessò intanto una preoccupazione della popolazione napoletana. Il forte S. Elmo, ch'era tuttavia nelle mani dei soldati dell'esercito borbonico, fu consegnato, e fu affidato alla Guardia nazionale.

Mentre festeggiavasi in Napoli l'arrivo di Garibaldi, una sanguinosa reazione aveva luogo in Ariano in quello stesso giorno, in cui Garibaldi entrava in Napoli. Un governo provvisorio si era formato in quella città, ove da più tempo si lavorava ad organizzare una reazione. Si persuase ai contadini, che s'intendeva togliere loro le effigie dei Santi e delle Madonne, e coloro, gente rozza, sanguinaria, dedita al furto, si unirono, e fecero man bassa sui liberali. Buon numero di giovani, che si recavano in Ariano per assisterei, governo provvisorio, s'incontrarono con quei selvaggi e furono sacrificati. ll moto però venne represso, e la giustizia ebbe celeremente il suo corso. D altronde numerose adesioni delle diverse Provincie del Regno pervenivano giornalmente al Governo.

Il 14 di settembre un Decreto del Dittatore conteneva: 1.° Lo Statuto costituzionale del 4 marzo 1848 vigente nel Regno d'Italia è la legge fondamentale di questa Italia meridionale. — 2.° Un apposito decreto dittatoriale determinerà l'epoca, in cui lo Statuto medesimo sarà attuato. — 3.° Diunito al presente Decreto esso sarà pubblicato in ogni comune e nel Giornale Officiate di Napoli.

Rendevasi intanto urgente di provvedere all'amministrazione delle Provincie, e con un Decreto del 17 settembre ampliavansi i poteri dei Governatori delle medesime. Oltre le facoltà attribuite agl'Intendenti dalle disposizioni anteriori si dava loro facoltà di proclamare lo stato di assedio, di sospendere tutti gl'impiegati dell'ordine politico ed amministrativo, di proporre al rispettivo ministro l'impiegato di un posto divenuto vacante, di mobilizzare la Guardia nazionale, di delegare i loro poteri in caso di urgenza fuori del Capoluogo a persona di loro confidenza, che assumerebbe il titolo di Commessario governativo straordinario. Era loro specialmente raccomandato di provvedere alla ripartizione dei demanii e curare la riscossione delle pubbliche imposte.

I battaglioni della Guardia nazionale di Napoli furono raddoppiati, e furono chiamati a farne parte tutt’i cittadini dai 17 ai 50 anni.

Fu formata una Commessione di dieci persone presieduta dal Sindaco per distribuire dei soccorsi a coloro, che ne fossero meritevoli. — «Considerando, diceva il Decreto, che prima cura di un libero governo è distruggere la funesta piaga del pauperismo, che sempre si lascia dietro la tirannide a. — E venivano messi a disposizione della Commessione 70mila duc. una metà presa dai beni incamerati di Casa reale, ed un'altra metà dai beni incamerati dei Gesuiti. Si prescrisse, che la sudditata somma non che le altre, che si fossero potute raccogliere dalle offerte particolari, dovesse distribuirsi fra tue mesi dalla data del decreto, La Commessione non era obbligata ad esibire ricevi, ma bensì a tenere un registro in piena regola, ed unicamente ad essa spettava il giudizio sull'ammessione o il rigetto delle petizioni e sulle proposte di ciascuno dei suoi membri. La Commessione composta tutta di uomini probi, intelligenti. penetrati della importanza dell'officio loro affidato e convinti della propria responsabilità, adempi conscienziosamente il suo incarico, ma molte distribuzioni riuscirono falsate, perocché dovendo necessariamente la Commessione fidare ad altri almeno una parte degl'informi su i richiedenti, coloro o per deferenza o essi stessi ingannati verificarono male o falsamente riferirono i bisogni dei potenti. Così molti poveri non ebbero nulla o ben poco, e parecchi dei beneficati avrebbero dovuto essi beneficare. Tanto è vera la gravissima difficoltà di cosiffatte distribuzioni, specialmente in una Città, nella quale niuno ha onta di dimandare l'elemosina.

Una importante scoperta erasi fatta dal Signor Conforti come Ministro della Polizia. Sapeva egli, che i Borboni imitando coloro, che tendono ad occultare le proprie ricchezze, facevano intestare ad altri della rendita inscritta propria. Seppe particolarmente di un Gaetano Rispoli impiegato di Casa Reale, e verificò aver egli intestava una rendita di 184.608 ducati annui. Era impossibile, ch'egli in proprio nome fosse proprietario di circa quattro milioni in rendita inscritta. Epperò il Conforti senza por tempo in mezzo si recò accompagnato da taluni commissarii in casa Rispoli. e ne ottenne la dichiarazione appartenere quella rendita a Francesco Il. Il perché so quella dichiarazione la rendita fu trasferita alla Tesoreria.

L'amministrazione procedeva peraltro con moltissima difficoltà. Garibaldi aveva proclamato Vittorio Emmanuele, ma gli nomini di sua confidenza ed egli stesso erano ben lontani dal partecipare alla politica del Ministero Piemontese. Essi anzi erano avversi non solo alla politica del gabinetto di Torino, ma anche agli nomini, che lo componevano. Garibaldi il 15 di settembre si era data la pena di scrivere a Brusco per ismentire di essere di accordo con Cavour e suo amico. — «Voi mi assicurate, diceva la lettera, che Cavour dia ad intendere di essere di accordo con me ed amico mio.

«lo posso assicurarvi, che disposto come sono stato sempre a sacrificare sull'altare della patria qualunque risentimento personale, non potrò riconciliarmi mai con uomini, che hanno umiliato la dignità nazionale, e venduta una provincia italiana.»

Questa lettera fu pubblicata e fece una tristissima impressione. Mai più evidentemente il risentimento ha offuscato l'intelletto. Chi mai avrebbe potuto dire di Cavour di avere umiliata la dignità italiana? La concordia, l'unione si predicava nelle parole, ma violentemente si rifiutava nei fatti. In Napoli stesso il Ministero non era di accordo con Bertani Segretario generale della Dittatura cd il Dittatore deferiva per l'uno piuttosto che per gli altri. Delle disposizioni eran prese senza l'intelligenza dei Ministri, senzaché costoro ne sapessero anche nulla. La maggior parte dei governatori della provincie appartenevano al partito di azione, al quale i Ministri non appartenevano. Perciò la cosa non poteva andare, ed il Ministero si dimise. Se non che non fu accettata la dimissione di tutti.

Con un Decreto del 27 settembre il Dittatore accettava la dimissione dei signori Romano, Pisanelli, Scialoja, d'Afflitto, Ciccone, e nominava all'Interno Conforti, che già aveva la Polizia; ai lavori pubblici Giura, alla Giustizia Scura, alla Marina Angnissola, e Direttore della pubblica Istruzione de'  Sanctis. Cinque giorni prima il cardinale Riario Sforza Arcivescovo di Napoli era stato rilevato con una carrozza del principe d'Angri da un Commessario di Polizia e condotto al palazzo d'Angri, ove era pregato d'imbarcarsi per Civitavecchia. E nello stesso giorno del cambiamento del Ministero il signor Spaventa era espatriato.

L'antitesi di questi due esilii non può essere più marcata. Sin dopo il 25 di Giugno la condotta del Cardinale lo aveva reso impopolare, ed abbiamo veduto, che tra le voci, che correvano in Napoli sulle condizioni messe dal Ministero al Re per la continuazione della loro amministrazione, vi era stata quella dell'allontanamento del Cardinale. La voce poteva essere falsa, ma essa provava il sentimento pubblico. Ma per Spaventa la cosa era diversa. Mazzini era in Napoli, e la sua presenza non era gradita dal partito moderato, ch'era la maggioranza della popolazione; perciò in una dimostrazione si era gridato — Morte a Mazzini, — e Garibaldi dal balcone della Foresteria se n'era doluto col pubblico, dicendo, e con ragione, che non bisognava gridar morte a nessun Italiano, ma aveva pure chiamato Mazzini suo amico, e non è difficile, che Spaventa, al quale s'imputava di adoprarsi a tutt’uomo, onde si dichiarasse l'annessione, ed al quale si attribuiva un indrizzo, di cui da qui a poco parleremo, fosse stato anche incolpato, se non di avere fomentato, di avere almeno indirettamente influito su quelle grida.

Intanto Mazzini pubblicò un lungo manifesto. Disse, che i Repubblicani, che non avevano creduto alla rigenerazione della Patria per mezzo di armi straniere, si erano però sinceramente uniti ai regii quando trattavisi dell'unità italiana; ch'essi avevano accettalo il programma di Garibaldi, e per corrispettivo ne avevano avuto calunnie e diffidenze. Che non si volevano accettatori ma propugnatori della dottrina del giorno, e ciò era impossibile, perché la loro è fede; possono tacerla per un tempo, rinunziare ad ogni tentativo di attuarla, non mai rinnegarla e dirla falsa per l'avvenire. Che le file di Garibaldi erano piene di Repubblicani, che generosamente morivano pel suo programma. Che accanto di un repubblicano vi era un monarchico, e che entrambi combattevano per la medesima causa, senzaché l'uno diffidasse dell'altro. Perché non poteva e doveva essere lo stesso nelle cose civili? Tutti hanno il dritto di lavorare per l'unità, e questo dritto importa dritto di consiglio, e di questo dritto intendere essi di usare liberamente; non esservi contesa sul fine di oggi, esservene bensì sui mezzi a raggiungerlo. Pertanto chiedere essi libertà per dire non già che la repubblica sia il migliore dei governi, ma che 25 milioni d'Italiani debbono essere padroni in casa loro; che tra il programma di Cavour e quello di Garibaldi sceglievano il secondo; che senza Roma e Venezia non v'è Italia; che senza la guerra del 1859 provocata dalla Russia e sostenuta dalle armi francesi a prezzo di Nizza e Savoia, eccettuata l'invasione delle provincie romane, provocata dalla necessità, ch'essi avevano creato, niuna iniziativa di emancipazione italiana appartiene al programma Cavour; che non si fonda la patria libera ed una, annettendo una o altra provincia al Piemonte, ma confondendo Piemonte e tutte provincie nell'Italia, in Roma; che l'annessione immediata delle provincie conquistate a libera vita arresta il moto, toglie le forze del Paese dalle mani di chi vuole usarle per darle a chi vuole condannarle all'inerzia, e cancella per un tempo l'idea dominatrice.

È impossibile di non iscorgere la somiglianza dei propositi in quanto all'opportunità dell'annessione tra questo manifesto ed il proclama di Garibaldi ai Palermitani. —

«A Roma, diceva Garibaldi il 17 di settembre, noi proclameremo il Regno italico, e là solamente santificheremo il gran consorzio di famiglia tra i liberi e gli schiavi ancora della stessa terra.

« A Palermo si volle l'annessione, perché io non passassi lo stretto.

«A Napoli si vuole l'annessione, perché io non possa passare il Volturno.

«Ma fin quando vi siano in Italia catene da infrangere, io seguirò la via o vi seminerò le ossa.»

Ma tale non era la opinione della gran maggioranza delle popolazioni. Nelle file di Garibaldi ognuno vedeva giovani capaci di prodigi di valore, e, quel ch'è più, animali da tale entusiasmo pel loro condottiero, che avrebbero falli miracoli sotto la sua direzione. Ma quell'esercito mancava di amministrazione ed era destituito di tutti mezzi materiali, che rendono potente un esercito; senza genio, senz'artiglieria, senza cavalleria i militi di Garibaldi erano esclusivamente abbandonati alle loro proprie forze, e dovevano supplire col loro valore, colla loro abnegazione alla mancanza di quei potentissimi aiuti militari. Codesta condizione era grave; le forze fisiche hanno i loro confini segnati dalla natura anche quando sono essi estesi dal concorso della forza morale di una idea predominante. D'altronde in quelle fila la disciplina era quale poteva essere, ed i brillanti successi ottenuti vi avevano introdotto degl'intrusi, animati da aspirazioni e sentimenti diversi. D'altronde le forze borboniche erano per numero potenti, le provincie erano scoperte, ed un corpo di 10 in 12 mila uomini avrebbe potuto produrre una pericolosa diversione. La partita poi era di una importanza capitale, perché gli uomini di riflessione avessero potuto e voluto lasciar qualche cosa all'eventualità.

Nè la condizione dell'amministrazione era migliore di quella delle cose militari. Alla gravissima difficoltà, che aveva per sé stessa si aggiungeva l'altra non meno grave, che derivava dalla diversità dei concetti del Ministero con quelli delle persone, che circondavano il Dittatore, e che per la somiglianza delle abitudini e dei sentimenti ne avevano pure la confidenza. Il Ministero dimesso era stato supplito da un altro, che aveva le stesse opinioni politiche, e mirava al medesimo scopo. Perciò il pubblico s'inquietava, e com'era naturale si rivolse là ove trovava maggiore stabilità e più garentie.

Così dopo il volgere dei due terzi di settembre, quando erano già noti i dissidii del primo Ministero col signor Bertani, e non si arano ancora corsi i pericoli del 1° ottobre, era giralo per Napoli ed era stato spedito nelle provincie un indirizzo al Re, che non ostante le pratiche del partito di azione ed il dubbio, che potessse dispiacere al Dittatore, si copriva di firme. Si predava, si scongiurava con calde parole il Re a venire in Napoli e ad estendere quivi i benefizii di un governo, che compendiava nel nome del Re tutt'i principii d'ordine, di libertà, di progresso, e di avvenire. Questo fu l'indrizzo, che tra altri fu attribuito a Spaventa.

Due indirizzi poi presentò il Municipio al Dittatore, l'uno sottoscritto dal Sindaco e dagli Eletti, l'altro dal Sindaco e dai Decurioni. Con diversità di locuzione il concetto politico di entrambi era lo stesso. La città era inquieta per le discordie nell'amministrazione. Epperò pregavasi, che Garibaldi compisse l'opera, ed affrettasse la proclamazione del Regno italico.

Bertani partì nella fine di settembre, e si disse per andare ad occupare il suo posto di Deputato. Da Torino invece si scrisse essere stato egli allontanate per un ordine da lui diretto ad un certo Tripodi comandante ai confini di opporsi anche colla forza all'ingresso delle truppe piemontesi nel Regno. Non v'ha pruova di questo fatto; chi; anzi Bertani giunto a Torino pubblicò una dichiarazione, ch'energicamente lo smentiva, e negava pure di essersi opposto all'annessione. Però è innegabile ch'egli Piegasse il Dittatore a delle misure violente anche verso i più benemeriti Italiani.

II 29 di settembre Cordova scriveva a Garibaldi:

«Generale;

«Voi mi avete chiamato da Palermo e senz'avermi veduto né ascoltato mi fate ordinare dal vostro Segretario Bertani di lasciare fra 24 ore l'Italia meridionale. Dichiaro partendo, che cedo alla sola forza. perché non vi è ragione di governo assolutissimo, fosse anche la vostra dittatura, che possa colpire senza ascoltare.

«Cedo alla forza, perché l'azione, che mi è imputata nell'affrettare l'annessione della Sicilia al Regno Italiano di Vittorio Emmanuele non passò giammai oltre il chiedere e il pregar voi nella persona del vostro Pro Dittatore con petizioni di cittadini o di Comuni, e il chiedere e il pregare non fu mai colpa.»

E molto probabile quello, che si disse, che sulle rimostranze di Bixio Garibaldi si decidesse ad allontanare il suo segretario, e forse l'apertura del Parlamento a Torino ne offrì la occasione. Crispi prese la firma della Segreteria generale.

Il 1° di ottobre fu per Napoli una giornata di grande ansietà. Un grande attacco era stato fatto dai borbonici per rompere le linee Garibaldine ed aprirsi la strada verso Napoli. Affrettandoci di giungere al compimento di questo nostro lavoro, non narreremo quei fatti d'arme gloriosissimi pel giovane esercito meridionale, nei quali da un lato agivano tutt'i mezzi materiali della guerra ed il numero, e dall'altra il solo valore prodigioso di un pugno di uomini, che sotto alla mitraglia e nel nome invitto di Garibaldi si lanciavano alla baionetta. Quel giorno avrebbe potuto essere ben fatale all'antica Metropoli del Regno; ché tutti eran parati a ricevere condegnamente l'esercito borbonico, decisi piuttosto a lasciare la vita su di una barricata, che farsela inonoratamente strappare da sbrigliata soldatesca, che ardentemente desiderava il saccheggio, l'incendio, le rovine. Però alle 5 ½ di quel giorno un telegramma del Dittatore al Ministro della Guerra diceva: — Vittoria completa in tutti i punti. — La città allora fu spontaneamente illuminata, e n'era ben ragione. Tutte le troppe piemontesi, ch'erano in Napoli, compresa l'artiglieria, mossero la stessa sera verso Capua. Una colonna di Borbonici, ch'era rimasta fuori la Piazza in Caserta vecchia, fu attaccata e battuta il dì 2. In quel giorno giungevano in Napoli i prigionieri; scortati dalla stazione della ferrovia dalla Guardia nazionale, il pubblico correva a vederli, ma seppe rispettare la sventura del vinto. In quella occasione la Guardia Nazionale napoletana si mostrò uguale a sé stessa.

I fatti, che abbiamo narrato sulla manifestazione dell'opinione della gran maggioranza della popolazione decidevano forse Garibaldi a chiamare il Marchese Pallavicino Trivulzio per adempiere una missione presso il governo del Re. Egli venne in Napoli, vide Garibaldi, e si recò immediatamente in Torino, ove ebbe un'udienza dal Re ed un'altra da Cavour. L'Opinione di Torino, foglio allora officioso, ci fece sapere essere tale la sua missione, che si avrebbe potuto facilmente prevedere, che il governo del Re non avrebbe potuto transigere, ma che però nell'adempirla il Marchese Pallavicino aveva fatto pruova di quei sentimenti di conciliazione, che distinguono l'uomo illustre per l'incontaminato patriottismo e per le sofferenze sopportate per la causa della indipendenza nazionale.

Ebbene, il Marchese Pallavicino fu con decreto del 3 ottobre nominato ProDittatore in luogo del Generale Sirtori, che si dimise volontariamente per attendere alle faccende della guerra. Questa nomina consolò e rassicurò tutti, perché a buona ragione fu ritenuta come un'arra di conciliazione e di ritorno dell'amministrazione a principii più veri e più pratici della politica, dell'ordine, e della libertà.

In quel tempo il Municipio di Napoli aveva già redatto un indrizzo al Re, che aveva rimesso a Garibaldi con un altro indrizzo per lui.

Nell'indrizzo al Re si diceva:

«Sire;

«Noi siamo i più nuovi, ma vorremmo essere, e ci sentiamo già sin da ora i più costanti ed i più fedeli dei vostri sudditi.

«Di fatti, o Sire, a nessuna delle popolazioni italiane, che si raccolsero sotto il vostro scettro, ed alle quali l'abilità dei vostri uomini di Stato o l'ardire dei vostri Generali ha dato modo di palesare il loro animo, il vostro nome suona una maggiore fortuna ed una più grande liberazione.

«Per Voi, o Sire, noi cambieremo una patria, se troppo favorita dalla natura, troppo oltraggiata dagli uomini, in una patria gloriosa, potentissima, e tale, che noi ci sentiamo orgogliosi di appartenerle, come gli altri saranno guardinghi ad offenderla.

«Sire, Voi siete già il Re nostro, e nel nostro regno non v'ha altro nome, che suoni ordine e pace, che il vostro. Se il Dittatore Garibaldi, alla cui fortuna ed ardire l'Italia dovrà il compimento dei suoi destini, ha proclamato Voi e i discendenti vostri a Re d'Italia, gli animi nostri impediti a manifestarsi dalla più dura delle tirannidi, vi avevano già prima proclamata tale sino dal gio, no, che voi avete assunto il nome di primo soldato della indipendenza italiana; e per questa Italia, che amate di un santissimo ed efficace amore, avete messo a repentaglio trono e vita su i campi di Palestro e di S. Martino.»

E nell'indirizzo a Garibaldi il Municipio diceva:

«Dittatore;

«Noi ci presentiamo innanti a Voi non interpreti del sentimento pubblico, che h i è già troppo dichiarato di per sé solo, ma perché la gratitudine dei cittadini possa per mezzo nostro trovare una voce e lasciare un documento, che vi intesti quanta riconoscenza vi hanno di tanta e così subitanea liberazione da una tanta e si dura tirannide. Generale e Dittatore Voi avete compiuto con una miracolosa energia d'animo e di mente una impresa, che ad altri avrebbe potuto parere impossibile. Ma voi avete avuto fiducia nella santità della nostra cauta, nella onnipotenza d'una idea e nel concorso dei popoli, e la vostra fiducia non si è trovata ingannata.

«Generale e Dittatore, al beneficio, che voi avete fatto al Regno, Voi avete aggiunto un beneficio particolare alla nostra città, della quale noi siamo i rappresentanti. Restituendole dei dritti, il cui profitto era stato ingiustamente tolto dal passato governo, ()

«Voi le avete dato modo di migliorare le sue condizioni e cooperare al maggiore sviluppo dei lavori pubblici, cosicché il popolo non resti inerte, e la città debba riconoscer da voi il principio di un avvenire più splendido.

«Ricevete dunque da noi l'assicurazione, che il nostro ossequio e la nostra gratitudine per voi non potranno non essere eterni. E vogliate da parte nostra presentare a Vittorio Emmanuele, che voi, interpretando il lungo e tenace desiderio dei nostri cuori, ci avete proclamato Re nostro e d'Italia, cotesto indrizzo, che vi lasciamo, e che gli attesti quanta già sia la nostra devozione per lui, e quanto noi interamente e compitamente accogliamo il concetto, di cui vi siete fatto banditore ai popoli d'Italia Una sotto lo scettro costituzionale di Casa Savoia.»

E per compiere quest’ordine d'idee anticiperemo, dicendo che alcuni giorni più tardi essendosi deciso, che una Deputazione del Municipio partisse per Ancona a presentarsi al Re, il Sindaco si recò da Garibaldi per prendere la sua venia, ed il Generale dopo di averlo ringraziato dell'essersi incomodato, disse: — «La Deputazione parta pure per Ancona, ch'io ne resto contento.

Intanto Pallavicino cominciò energicamente la sua amministrazione, scrivendo a Mazzini, e pregandolo ad allontanarsi.

«L'abnegazione fu sempre, scriveva il Marchese, la virtù dei generosi. lo vi credo generoso, ed oggi vi offro una occasione di mostrarvi tale agli occhi dei vostri concittadini. Rappresentante del principio repubblicano e propugnatore indefesso di questo principio, voi risvegliate, dimorando tra noi, le diffidenze del Re e dei suoi Ministri. Però la vostra presenza in queste parti crea imbarazzi al governo e pericoli alla nazione, mettendo a repentaglio quella concordia, che torna indispensabile all'avanzamento ed al trionfo della causa italiana. Anche non volendolo, voi ci dividete. Fate dunque atto di patriottismo, allontanandovi da queste provincie. Agli antichi aggiungete il nuovo sacrifizio, che vi domanda la patria, e la patria ve ne sarà riconoscente.

«Ve lo ripeto; anche non volendo, voi ci dividete; e noi abbiamo bisogno di raccogliere in un fascio tutte le forze della nazione. So che le vostre parole suonano concordia, e non dubito, che alle parole corrispondano i fatti. Ma non tutti vi credono, e molti sono coloro, che abusano del vostro nome col proposito parricida d'innalzare in Italia un'altra bandiera. L'onestà v'ingiunge di metter fine ai sospetti degli uni ai maneggi degli altri. Mostratevi grande partendo, e ne avrete lode da tutti i buoni.

«Io mi pregio dirmi

 «Vostro Devotissimo

GIORGIO PALLAVICINO».

«Mazzini rispose il 6 di ottobre:

«Credo d'essere generoso d'animo, e per questo rispondo alla vostra lettera del 3, che oggi soltanto leggo nell'Opinione Nazionale, con un rifiuto. S io non dovessi cedere, che al mio primo impulso ed alla stanchezza dell'animo, partirei dalla terra, ch'io calco per ridurmi dove, la libertà delle opinioni è sacra, dove la lealtà dell'onesto non è posta in dubbio, dove chi ha operato e patito pel paese non crede debito suo di dire al fratello, che ha egli pure operato e pa tito: partile.» E diceva ragioni del suo rifiuto, perché non si sentiva artefice di macchinazioni ne di pericoli al paese; perché Italiano in libera terra italiana doveva sostenere il dritto di vivere nella propria patria, ne soggiacere ad un ostracismo non meritato; perché dopo di avere contribuito ad educare il popolo italiano al sacrifizio, gli pareva tempo di educarlo alla coscienza della dignità umana; perché esiliandosi volontario, gli sarebbe sembrato di offendere il suo paese, disonorandolo come reo di tirannide; il Re, che non può temere un individuo senza dichiararsi debole e mal fermo nell'amore dei suoi sudditi; gli uomini di parte Pallavicino, perché non possono senza smentirsi irritarsi della presenza di un uomo da loro dichiarato solo ed abbandonato; perché il desiderio non viene dal paese, che pensa, lavora e combatte intorno alle insegne di Garibaldi, ma dal Ministero Torinese, verso del quale non ha debito alcuno e credeva funesto all'unità della Patria, da faccendieri e gazzettieri senza coscienza di onore e di moralità nazionale, e dal volgo dei creduli, che compiange; finalmente perciò scendendo ebbe dichiarazione non pur rivocata dal Dittatore di essere libero in terra di liberi.

COLONNELLO FABRIZI

Soggiunse avere già compiuto il maggiore dei sacrifizii, che per lui si poteva, accettando la monarchia, purché formasse l'unità italiana, ed assicurando, che se si credesse un giorno in coscienza obbligato a risollevare la vecchia bandiera, lo avrebbe anzi tratto pubblicamente annunziato a nemici ed amici. Se non si credeva alla sua lealtà, gli uomini leali dovevano adoprarsi a convincere chi ne dubitava, ma l'ingratitudine degli uomini non è una ragione, perché egli dovesse soggiacere volontariamente alle loro ingiustizie e sancirle.

E si sottoscriveva:

Vostro con sensi di stima

GIUSEPPE MAZZINI.

Ne sembra, che di tutte le ragioni indicate nel riassunto documento la più praticamente vera sia quella di non aversi ragione a temere di lui, dichiarato debole ed abbandonato, dapoiché il suo rifiuto fu innocentissimo, il sentimento pubblico, coadiuvato dalla nuova amministrazione, fendé liberamente celeremente al suo scopo. e Mazzini ebbe ad abbandonare la terra, che intendeva dirigere coi suoi consigli, quando si convinse che niuno li accettava e neppure li sentiva. D altronde l'annessione cambiava ipso jure la condizione di lui, perché divenuto il territorio napoletano parte della Monarchia Italiana, ed essendo questa retta dalle leggi e dagli atti della Monarchia sarda, Mazzini si trovava sotto la forza di una condanna in Napoli come in Genova o in Torino.

Era perciò, che gli uomini di quel partito intendevano di fare precedere all'annessione una Costituente napolitana, che ne fermasse i patti e stabilisse le leggi. I soccorsi prestati alla rivoluzione di Sicilia e l'invasione delle Provincie napolitane non erano stati ideati nello scopo di una annessione al Piemonte. Si sperava trovare in Napoli un'armata con tutto il suo materiale, e con questa, accresciuta dei volontarii, si sarebbero discacciati i Francesi da Roma e gli Austria. ci da Venezia, ossia si sarebbe fatta la guerra alla Francia ed all'Austria, le due potenze militarmente più forti di Europa; così la redenzione italiana si sarebbe purificata; forze sole italiane avrebbero reso l'Italia libera ed indipendente, e forse allora Mazzini avrebbe sentito il debito di cedere al grido della sua coscienza ed inalberare la sua antica bandiera. Ma il soldato napoletano non volle saperne nulla; egli era stato a tutt'altro educato che ai generosi pensieri di unità e d'indipendenza italiana. Non è già, che non vi fossero state delle onorevoli eccezioni, ma noi parliamo delle masse, e ne parliamo dopo la guerra di Sicilia, che aveva miseramente demoralizzato l'esercito e mostrato alla scoperta che cosa poteva attendersi da lui.

Ben è vero però, che se il soldato napoletano avesse per un momento risposto all'invito di Garibaldi e si fosse arrollato sotto la sua bandiera, avrebbe assai facilmente cambiato di sentimenti e di aspirazioni. I suoi vizii non derivavano dalla sua indole; la sua natura è buona, è generosa, capace di bei concepimenti e di grandi azioni; ve ne sono di molti esempi, ed il più incontrastabile è la riuscita del soldato napoletano delle nuove leve nell'esercito italiano. Epperò gli uomini del partito di azione forse contavano sulla probabilità di questa conversione; sotto di questo aspetto il loro piano non può essere tacciato d'illogico, ma non tennero conto dei tristi effetti del pervertimento, delle pessime abitudini, delle false idee distillate con accuratezza e con perseveranza nelle loro menti. Ed è stato questo appunto che ha salvato l'Italia. Noi non intendiamo di accusare nelle sue intenzioni il partito sopradetto; egli vuole quello, che tutti vogliamo, ne sono soli repubblicani coloro, che conta quel partito; essi s'ingannano ne mezzi, ma intendiamo di fare rilevare, che il nuovo ordine delle cose italiane è talmente provvidenziale, che le cause ad esso contrarie hanno prodotto effetti per esso favorevolissimi.


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CAPITOLO XXIV

Insurrezione nelle Marche e nell'Umbria — Fatti d’arme delle truppe piemontesi —

ll Re si dispone ad entrare nel regno.

SOMMARIO

I fatti di Napoli e di Sicilia si propagano nell'Umbria e nelle Marche — Voci di occupazione degli Stati della Chiesa — Nota di Cavour ad Antonelli — Lettera di Fanti a Lamoricière — Risposta del Cardinale Antonelli — Telegrammi di Bologna — Proclama della Giunta provvisoria di governo di Urbino — ll Re riceve la Deputazione delle Marche e dell'Umbria — Proclama del Re alle truppe — II Ministro di Francia lascia Torino — Ordine del giorno di Cialdini — Considerazioni politiche — Ordine del giorno di Fanti — Resa del Forte di Pesaro — Battaglia di Castelfidardo — Gran numero di prigionieri — Lamoricière si chiude in Ancona, è assediata — Memorandum del Governo piemontese — Lettera, che un Giornale disse scritta dal Re a Napoleone — Vera o no, il concetto n'era vero — Stampa francese — Il Ministro piemontese lascia Parigi — Proteste di Antonelli — Resa di Ancona — Capitolazione — Ordini del Giorno all'armata di Terra e di Mare — Apertura del Parlamento in Torino — Accoglienza fatta a Persino — Comunicazioni del Governo — Proposta della Legge di annessione — Esposizione di Cavour sulla politica del Ministero — Chiede nell'approvazione della legge un voto di fiducia — Approvazione all'unanimità di un ordine del giorno proposto dalla Commessione — La legge dell'annessione è approvata quasi all'unanimità. — Il Re prende il coniando dell'armata. Suo proclama — Partecipazione al Ministro di Napoli dell'occupazione del Regno — Nota e protesta del Ministro Napoletano — Considerazioni su di esso.

 Gli avvenimenti delle provincie meridionali, continuando il moto di progressione dell'idea politica, che aveva a compiere il giro della Penisola, lo propagarono nel rimanente della curva, per la quale doveva raggiungere il punto, dal quale era partito. Però si avrebbe torto a credere, che ciò fosse avvenuto senzaché l'iniziativa di Cavour avesse avuto la sua parte. Dicevasi da parecchi giorni ed annunziavasi da giornali, che il governo piemontese si era protestato col governo pontificio della vociferala unione delle truppe di Lamoricière colle napolitane, ma nel 7 di settembre l'Espero si credè autorizzato a rettificare questa notizia, e disse, che se esso era ben informato, la nota ad Antonelli consisteva in una intimazione di sciogliere i corpi dei mercenarii esteri da lui assoldali e ritenuti come il peggiore dogi interventi; il che non facendo, le truppe piemontesi anderebbero ad occupare le Marche e l'Umbria. Si seppe posteriormente, che il conte della Minerva era stato spedito a Roma con un ultimatum, e che il Papa non aveva voluto riceverlo.

Sin dal 6 settembre correvano in Torino voci di occupazione dello Stato Romano. Si diceva, che due corpi di armala, uno comandato da Fanti e l'altro da Cialdini sarebbero entrati nello Stato Romano. Che vi sarebbe stato un terzo corpo di riserva comandato dal generale della Rocca. Che così 60 mila uomini sarebbero entrati nello Stato pontificio, ed avrebbero resa impossibile ogni resistenza da parte di Lamoriciére. E tutto ciò in seguito del rifiuto di aderire alla dissoluzione dei corpi dei mercenarii esteri.

E queste voci erano vere. Il i di settembre una nota di Cavour ad Antonelli conteneva, il governo di S. M.»on potere vedere senza grave rammarico la formazione e [esistenza dei corpi di truppe mercenarie straniere al servizio del governo pontificio; l'ordinamento di siffatte truppe formate di gente di ogni lingua, nazione e religione offendere profondamente la coscienza pubblica dell'Italia e dell'Europa; l'indisciplina, l'improvvida condotta dei loro capi, le minacce provocatrici de'  loro proclami suscitare e mantenere un fermento pericoloso; essere sempre viva negli abitanti delle Marche e dell'Umbria la memoria delle stragi e del saccheggio di Perugia; questa condizione di cose essere peggiorata dopo i fatti di Napoli e di Sicilia, sì che la presenza dei corpi stranieri, che ingiuria il sentimento nazionale ed impedisce la manifestazione dei voti dei popoli, doveva produrre immancabilmente la estensione dei rivolgimenti nelle provincie vicine.

«Gl'intimi rapporti, scriveva il Ministro, che uniscono gli abitanti delle Marche e dell'Umbria con quelli delle provincie annesse agli Stati del Re e le ragioni dell'ordine e della sicurezza dei proprii Stati impongono al governo di S. M. di porre per quanto sta in lui immediato riparo a questi mali. La coscienza del Re Vittorio Emanuele non gli permette di rimanersi testimone impassibile delle sanguinose repressioni, con cui le armi dei mercenarii stranieri soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione di sentimento nazionale.»

Significava dunque, che le truppe del Re avevano incarico d'impedire, che i corpi mercenarii pontificii reprimessero con violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria. Invitava inoltre il Cardinale a dare l'ordine immediato di disarmare e disciogliere quei corpi, la cui esistenza era una minaccia continua alla tranquillità d'Italia.

E due giorni dopo, val dire il 9 del medesimo mese il generale Fanti scriveva da Arezzo a Lamoricière, il Re aversi dovuto necessariamente preoccupare degli avvenimenti delle Marche e dell'Umbria; non ignorare, che ogni repressione della manifestazione del sentimento nazionale fatta do truppe straniere presso la frontiera meridionale del suo regno produrrebbe inevitabilmente un controcolpo funesto in tutt'i suoi Stati. Per tali motivi avere ordinato una concentrazione di truppe alle frontiere delle Marche e dell'Umbria, delle qual avere a lui affidato il comando. Inoltre avere l'ordine di significare a S. E. che quelle truppe occuperebbero immediatamente le Marche e l'Umbria in ciascuno di questi tre casi:

1.° Se truppe sotto il comando del Generale facessero uso della forza per comprimere una manifestazione nel senso nazionale.

2.° Se delle truppe avessero ricevuto ordine di marciare contra una delle città delle dette provincie, ove avesse avuto luogo tale manifestazione.

3.° Quando essendo seguita tale manifestazione, ed essendo stata repressa dalle truppe medesime, queste non ricevessero immediatamente l'ordine di ritirarsi, lasciando la città libera di esprimere i suoi voti.

Il cardinale Antonelli rispose il dì 11. Cominciò dall'osservare, che astraendo dal mezzo, del quale il Ministro Sardo si era avvalso per fargli pervenire la sua nota, ebbe a fare ben violenza a sé stesso per portare con calma la sua attenzione sul contenuto di quella. E per vero i nuovi principii di dritto pubblico esposti in quella nota dispensarlo da ogni risposta. Essere però tocco al vivo dalle incolpazioni al governo pontificio; essere odiosa ed infondata la taccia contro le truppe recentemente ordinate da quel governo; inqualificabile l'affronto, che gli vien fatto nel disconoscere in lui il dritto a lutti gli altri governi comune di avere truppe straniere, quandochè essendo il Pontefice padre comune di tutt'i fedeli non gli si può impedire di accogliere nelle sue milizie quanti gli si offrono dalle varie parti dell'Orbe cattolico. Falsissima ed ingiuriosissima essere l'imputazione alle truppe pontificie dei disordini avvenuti negli Stati della Santa Sede; la storia aver registrato i fatti: e relativamente alle incolpazioni per Perugia sarebbe stato più logico attribuirle a chi promosse la rivolta dall'estero, ed il signor conte di Cavour ben se lo sapeva. Calunniavansi adunque e le milizie ed i loro capi.

«Dava poi termine, proseguiva il Cardinale, alla sua disgustosa comunicazione l'E. V. coll'imitarmi in nome del suo Sovrano ad ordinare immediatamente il disarmo e lo scioglimento delle suddette milizie, e tal invito non andava disgiunto da una specie di minaccia di volersi altrimenti dal Piemonte impedire l'azione di esse per mezzo delle regie truppe». — E diceva il ministro del Papa essere questa una quasi intimazione, che si asteneva di qualificare, ma che la Santa Sede respingeva con indegnazione, conoscendosi forte del suo legittimo dritto ed appellandosi al gius delle genti, sotto la cui egida ha sin qui vissuto l'Europa.

Intanto due telegrammi dell’8 e 9 settembre da Bologna annunziavano, che l'insurrezione era scoppiata in Montefeltro, Urbino ed altre città circostanti, che avevano inalberata la bandiera tricolore al grido di Viva Vittorio Emmanuele, o che gli abitanti di Pergola e dei Distretti rivoluzionati di Sinigaglia ed altri accorrevano in armi per aiutare il movimento. Si seppe pure, che monsignor Bella pervenuto a Pesaro da Urbino, aveva mandato a chiedere aiuti a Lamoricière, ch'era in Perugia, che Cagli e Sassoferrato erano insorte, che Fossombrone erasi pronunziata, Urbino fortificata, e che da tutt'i punti delle Marche giungevano drappelli ad appoggiare il movimento; che le truppe pontificie si ritiravano senza resistenza, commettendo atti di ferocia; che lo stato di assedio era stato proclamato a Fano, Senigallia, e Pesaro; indi si conobbe il proclama della Giunta provvisoria di governo di Urbino:

«Cittadini!

«Sorta nuovamente questa città al grido di Viva Italia, Viva Vittorio Emmanuele, e rimasta senz'autorità, che ne reggesse il governo, noi che fummo l'altra volta per decreto del Municipio e per volontà del popolo costituiti in Giunta provvisoria, crediamo oggi debito di buoni cittadini riassumere con sicura coscienza e fermo proposito quella rappresentanza, di cui la forza delle circostanze interruppe allora l'esercizio.

«Lo stesso voto di annessione, che oggi pronunciamo; e nella maturità dei nazionali destini sarà esso immancabilmente esaudito. A questo fine supremo furono già rivolte le cure del provvisorio nostro reggimento. Voi, o cittadini', rendeteci forti del vostro concorso e della vostra fiducia per conservare inalterato l'ordine pubblico e mostrare all'Europa, che siete degni della libertà e del nome Italiano.

«Viva l'unità e l'indipendenza nazionale! Viva Vittorio Emmanuele nostro Re!

«Urbino 8 settembre 1860.

Berardi. Giammartini.»

Finalmente il 12 di settembre un Supplemento alla Gazzetta Ufficiale del Regno annunziava avere il Re in quella stessa mattina ricevuta la Deputazione venuta dalle Marche e dall'Umbria, ad invocare la sua protezione a favore delle loro provincie esposte alla ferocia di mercenarii d'ogni nazione.

Soggiugneva il foglio, che S. M. profondamente commossa dallo stato di quelle popolazioni e dai pericoli loro, ne aveva accettata la protezione, ed aveva dato ordine alle sue truppe di entrare in quelle provincie a tutelarvi l'ordine e ad impedirvi la rinnovazione dei lutti di Perugia, dirigendo alle dette truppe il seguente proclama:

VITTORIO EMMANUELE II

«Soldati!

«Voi entrate nelle Marche e nell'Umbria per restaurare l'ordine civile nelle desolate città e per dare ai popoli la libertà di esprimere i proprii voti. Non avete a combattere potenti eserciti ma a liberare infelici provincie italiane dalle straniere compagnie di ventura. Non andate a vendicare le ingiurie falle a me ed ma ad impedir, che gli odii popolari rompano a vendetta della inala signoria. Voi insegnerete colf esempio il perdono delle offese e la tolleranza cristiana a chi stoltamente paragonò all’islamismo l'amore alla patria italiana.

«In pace con tutte le grandi potenze ed alieno da ogni provocazione, io intendo a togliere dal centro dell'Italia una cagione peranco di turbamento e di discordia.

«Io voglio rispettare la Sede del capo della Chiesa, al quale son sempre pronto a dare in accordo colle Potenze alleate ed amiche tutte quelle guarentigie d'indipendenza e di sicurezza, che i suoi ciechi consiglieri si sono indarno ripromessi dal fanatismo della setta malvagia cospirante contro la mia autorità e la libertà della nazione.

«Soldati!

«Mi accusano di ambizione. Sì: ho una ambizione, ed è quella di restaurare i principii dell'ordine morale in Italia e di preservare l'Europa dai continui pericoli della rivoluzione e della guerra.

«11 settembre 1860.

«VITTORIO EMMANUELE.

«Cavour — Farini»

Tre giorni dopo la data di questo proclama il Moniteur di Parigi annunziava che in presenza dei fatti compiutisi in Italia, l'Imperatore aveva deciso, che il suo Ministro avrebbe lasciato immediatamente Torino, e che un Segretario rimaneva incaricato degli affari della legazione di Francia.

Già sin dal di 11 settembre Cialdini era partito da Rimini per mettersi alla testa delle truppe, che dovevano passare il Tavullo. Di là aveva pubblicato il seguente ordine del giorno.

«Soldati del quarto corpo di armata!

«Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi.»

«Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicarii, e per mano vostra sentano l'ira di un popolo, che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza.

«Soldati! L'inulta Perugia domanda vendetta, e benchè tarda, l’avrà.»

«Cialdini.»

L'Austria dichiarò la guerra al Piemonte, perché questi non volle prestarsi all'ingiunzione di sciogliere il corpo di volontarii italiani. Nel dritto internazionale dell'Austria e dei suoi aderenti, tra i quali il governo pontificio, quella domanda era giusta, e giusta la guerra, che pel suo rifiuto fu fatta. Dunque giusta era la domanda del governo piemontese, e giusta la guerra, che per essere stata rifiutata ne venne. Ma nella vera ragione delle genti evvi confronto tra le due dimande? L'Imperatore d'Austria chiedeva sciogliersi i volontarii italiani, che preoccupandosi della liberazione della propria patria, erano corsi a Torino per dare l'aiuto del loro braccio quando ne sarebbe venuta l'occasione; giovani onesti, ardenti di carità patria avevano incontrato per sé molti pericoli, ma non ne avevano fatto correre e neppure minacciato veruno a chicchessia. Il governo piemontese voleva si dissolvessero e si allontanassero uomini stranieri senza fede, senza principii, animati da un solo interesse, quello del guadagno, che non trovavano a casa loro, perché non prestavansi ad onesto lavoro; uomini, che pagati per opprimere le infelici popolazioni italiane, opprimevano per conto di chi li pagava e per conto loro, perché l'oppressione significava terrore e compressione pel governo del Papa, estorsioni e lucro per essi. Non eran Tedeschi, che dimandavano, si allontanassero Italiani da suolo italiano, ma erano Italiani, che chiedevano si allontanassero stranieri, che uccidevano, saccheggiavano, derubavano Italiani.

Questo concetto per l'appunto era espresso nell'Ordine del Giorno di Fanti emanato dal Quartiere Generale di Arezzo il di 11 settembre.

«Bande straniere convenute da ogni parte di Europa sul suolo dell'Umbria e delle Marche vi piantarono lo stendardo mentito di una religione, che beffeggiano.

«Senza patria e senza tetto essi provocano ed insultano le popolazioni, onde averne pretesto per padroneggiarle.

«Un tale martirio deve cessare, ed una tale tracotanza ha da sopprimersi, portando il soccorso delle nostre anni a quei figli sventurati d'Italia, i quali sperarono Uniamo giustizia e pietà dal loro governo.

«Questa missione, che il Re Vittorio Emmanuele ci confida, noi compiremo; e sappia l'Europa, che l'Italia non è più il convegno ed il trionfo del più audace o fortunato avventuriere.»

Non entra nel disegno di quest'opera, ne i limiti, che ci siamo imposti il consentirebbero, di narrare i fatti militari dell'invasione dei Piemontesi negli Stati pontificii. Ci limiteremo quindi a dire, che a Pesaro un corpo di Tedeschi, forse 1200 uomini, capitanati da Monsignor Bella furono attaccati da Cialdini; espugnate dopo poche ore di fuoco le mura, si ridussero nel forte, ma non appena piazzale le artiglierie, il forte si rese a discrezione; Monsignore fu mandato a Torino; i soldati rimasero tutti prigionieri di guerra. Il di 11 Cialdini era in Urbino, il dì 13 entrava in Fano; Fanti marciava sopra le Fratte.

Ma l'azione più importante, quella, che decise della sorte della campagna e distrusse in un punto tutte le illusioni dei Pontificii e dei Borbonici fu la battaglia di Castelfidardo avvenuta il 18 di settembre. La lasceremo narrare dallo stesso rapporto di Cialdini al Generale Cucchiari pubblicato dal Monitore di Bologna.

«Osimo 18 settembre 1860.

«Il Generale Lamoricière questa mattina alle 10 attaccò le mie estreme posizioni sul contrafforte, che partendo da Castelfidardo, e passando per le Crocette, va a morire presso al mare. Ma i prigionieri asseriscono, ch'esso avesse 11 mila uomini e 14 pezzi di artiglieria, avendo riunito alle truppe di Foligno tutto quanto aveva in Terni, Ascoli, ed altrove. Fece concorrere all'attacco una colonna di 4000 uomini usciti d'Ancona.

«Queste truppe attaccarono con vero furore. Il combattimento fu breve, ma sanguinoso e violento. Fu mestieri prendere le cascine d'assalto ad una ad una, ed i difensori dopo simulata resa assassinavano con pugnali i nostri soldati, che entravano di buona fede. Molti feriti han dato colpi di stile ai nostri, che si avvicinavano per soccorrerli.

«I risultati della giornata sono i seguenti: Si è impedita la riunione del corpo di Lamoriciére colla piazza; si sono fatti 600 prigionieri, tra i quali più di 30 uffiziali, di cui alcuni superiori; si sono presi 6 pezzi di artiglieria, due dei quali regalati da Carlo Alberto a Pio IX nel 1848, molti cassoni, carri da bagaglio, una bandiera, un'infinità d'armi e zaini dei fuggenti. Tutti i feriti dell'inimico, tra i quali il generale Pimodan, che dirigeva le colonne di attacco, sono rimasti in mia mano, ed un numero considerevole di morti.

«La colonna uscita d'Ancona ha dovuto retrocedere, ma ho molta speranza di prenderne gran parte stanotte. Ogni momento arrivano nuovi prigionieri e disertori.

«La flotta è giunta ed ha preso il suo fuoco contro la piazza di Ancona.»

ll rapporto non diceva la perdita dell'armata Sarda, ma il Pungolo credeva sapere, che ammontasse tra morti e feriti a 1000 uomini, tra i quali 11 uffiziali, di cui 4 capitani morti ed un maggiore ferito. Il numero dei soldati non corrisponde a quello degli uffiziali e ciò prova quanti fossero i soldati assassinati dopo il combattimento.

Ma il numero dei prigionieri si accrebbe oltre misura dopo il rapporto, dapoiché un bollettino officiale firmato Farini, e pubblicato in tutte le principali città dello S:ato, diceva:

«In seguito dalla battaglia di Castelfidardo per le disposizioni prese dal Generale Cialdini 4000 dell'esercito pontificio, la maggior parte stranieri, sonosi resi prigionieri. Il Generale Cialdini divinando i generosi sentimenti di S. M. Vittorio Emmanuele, concedeva loro gli onori di guerra, e furono tutti spediti a Torino per essere mandati nei rispettivi paesi.»

Mille sudditi austriaci furono restituiti all'Austria. Cosi gl'Italiani rispondevano alle pugnalate dell'assassino.

Frattanto la note del 18 il Generale Lamoriciére seguito da pochi cavalieri, abbandonava l'esercito e per le strette gole della marina andava a chiudersi in Ancona, della quale il 19 il Generale Persano cominciava l'attacco per la via di mare. Dell'esercito pontificio oltre la guarnigione di Ancona, rimanevano forse un 2000 uomini dispersi per le montagne. Dall'altra parte il Generale Fanti procedeva sull'altro versante degli Appennini, ed il 18 aveva il suo quartiere generale a Tolentino.

Il 12 di settembre il Governo piemontese aveva creduto di dirigere un Memorandum alle Potenze Europee.

Comincia il Memorandum dal rilevare come la pace di Villafranca confermando agl'Italiani il dritto di disporre di sé stessi, costoro si avvalsero di tale facoltà per sostituire a governi retti da influenze straniere il governo nazionale di Vittorio Emmanuele, e come quel rimutamento si operasse con un ordine mirabile e senzaché un solo di quei principii, su cui è stabilito l'ordine sociale, venisse scrollato. Perù quel rimutamento essere stato parziale comeché la Venezia e le provincie del centro e del mezzo giorno d'Italia non vi avevano partecipato.

Osserva il Ministro la quistione della Venezia essere essenzialmente legata alla tranquillità ed alla pace dell'Europa; sinché essa rimarrà sospesa, l'Europa non potrà godere d'una pace durevole e sincera; non dimeno è giuoco forza rimetterla al tempo. Qualunque sia la simpatia giustamente inspirata dalla condizione infelicissima dei Veneziani, l'Europa si lascia tanto spaventare dagli effetti non prevedibili di una guerra, tanto sente il bisogno irresistibile della pace, che sarebbe stoltezza non rispettarne la volontà. Non essere per altro lo stesso per le quistioni riguardanti il centro ed il mezzogiorno dell'Europa.

«Devoto ad un sistema tradizionale di politica, il quale non è tornato meno funesto alla sua famiglia che al suo popolo, il giovine Re di Napoli come sali sul trono si pose in aperta opposizione coi sentimenti nazionali degl'Italiani e con quei principii, che informano gli Stati civili. Sordo ai consigli della Francia e dell'Inghilterra, repugnante agli stessi avvisi, che gli venivano da parte di un governo, di cui non poteva rivocare in dubbio l'amicizia costante e sincera, e l'affetto al principio di autorità, egli respinse pel corso intero di un anno gli sforzi del Re sardo, che voleva indurlo ad abbracciare una politica più conforme ai sentimenti dei popoli italiani.

«Ciò che la giustizia e la ragione non potettero conseguire il consegui la rivoluzione. Rivoluzione prodigiosa, che ha riempito di stupore l'Europa pel modo quasi provvidenziale con cui è avvenuta, e l'ha compresa di ammirazione per quel guerriero illustre, di cui le gesta gloriose rammentano ciò, che la poesia e la storia narrano di più meraviglioso.»

Tocca della legittimità del mutamento avvenuto nel regno di Napoli, e rileva, che posciaché Napoli e Sicilia andranno a far parte della grande famiglia italiana, gl'inimici dei troni non avranno più alcun possente argomento da far valere contro i principii monarchici, ne le fazioni rivoluzionarie un campo aperto, in cui poter tentare le loro intraprese. Epperò si potrebbe pensare, che l'Italia potesse infine rientrare in una fase pacifica, atta a dissipare le preoccupazioni dell'Europa, se le grandi regioni del nord e del mezzogiorno non fossero separate da Provincie. che versano in una miserevole condizione.

Descrive la politica del governo romano; in conflitto coi popoli, che non sono ancora riusciti a sottrarsi dalla sua dominazione, calunniando il movimento italiano, rivolgendosi al fanatismo, è riuscito a formare un esercito composto esclusivamente di gente straniera non solo agli Stati pontifici ma a tutta l'Europa.

«Spettava agli Stati romani di porgere nel nostro secolo lo strano spettacolo di un governo ridotto a mantenere la sua autorità sui proprii soggetti per opera di stranieri mercenarii acciecati da fanatismo o infervorati da promesse, che non potrebbero altrimenti effettuarsi, che gittando nella miseria intere popolazioni.»

Osserva il Ministro come tali fatti eccitassero grandemente l'indegnazione degli Italiani divenuti liberi, e com'essi altamente manifestassero la volontà di accorrere in soccorso dei loro fratelli delle Marche e dell'Umbria. Come il governo del Re sebbene partecipasse a quei vivi e penosi sentimenti, pure credè suo debito impedire ogni tentativo disordinato per riscattare i popoli dell'Umbria e delle Marche senza però dissimularsi, che la crescente irritazione dei popoli non potrebbe a lungo contenersi senza ricorrere alla forza ed a misure violenti.

Da un'altra parte avendo la rivoluzione trionfato in Napoli, poteva mai arrestarsi ai confini degli Stati Romani? Ai gridi degl'insorti della Marche e dell'Umbria Italia tutta si è commossa, ne alcuna forza potrebbe impedire, che migliaia d'Italiani accorressero dal mezzogiorno e dal nord della Penisola.

Se il governo del Re rimanesse impassibile in mezzo di quel movimento universale, si metterebbe in opposizione con la nazione intera, ed in tal caso sarebbe probabile, che quel movimento sin ora sì ordinato, rivestisse il carattere della violenza e della passione. Qualunque sia l'efficacia delle idee di ordine nei popoli italiani, v'hanno provocazioni, cui i popoli più civili non sanno resistere. L'istoria c'insegna, che dei popoli, che sono oggi a capo della civiltà, han commesso sotto l'imperio di cause meno gravi eccessi deplorabilissimi.

Se il governo del Re lasciasse la penisola in balia di tali danni, sarebbe colpevole verso l'Italia e più verso l'Europa. Verso la prima, perché gl'Italiani hanno sempre accolto i consigli di moderazione venuti da Torino, ed hanno confidato a quel governo l'alta missione di dirigere il movimento nazionale: verso la seconda, perché ha assunto l'obbligo morale di non permettere, che quel movimento si snaturasse nel disordine e nell'anarchia.

Per adempiere appunto a questi due debiti, il governo del Re accordò la sua protezione ai governi insorti dell'Umbria e delle Marche, tostoché ne venne richiesto, e spedì a Roma un agente diplomatico per chiedere l'allontanamento delle legioni straniere. Sul rifiuto della Corte di Roma il Re ha dato ordine alle truppe di entrare nell'Umbria e nelle Marche per ristabilirvi l'ordine e concedere alle popolazioni la facoltà di manifestare i loro voti.

Le regie truppe rispetteranno scrupolosamente Roma ed il territorio, che la circonda; se v'ha d'uopo, concorreranno a preservare la residenza del S. Padre da ogni attacco e da ogni minaccia, onde conciliare semprepiù i grandi interessi dell'Italia col rispetto dovuto al Capo augusto di quella Religione, cui è sinceramente devota la Penisola.

In cosiffatto modo il governo del Re ha la convinzione di non offendere i sentimenti di quei Cattolici illuminati, che non confondono il potere temporale, accidentale in un periodo della storia, col potere spirituale base incrollabile della Santa autorità religiosa.

«Ma le nostre speranze, terminava il Memorandum, vanno ancora più lungi. Noi confidiamo, che lo spettacolo dei sentimenti unanimi e patriottici, che oggi si manifestano in tutta la Penisola, ricorderà al Sovrano Pontefice, ch'egli fu, ora è qualche anno, il sublime ispiratore di quel gran risorgimento italiano. Il velo, che alcuni consiglieri, mossi da mondane mire, han tirato sopra ai suoi occhi, cadrà, e ravvisando, che la rigenerazione dell'Italia è nei disegni della Provvidenza, egli ritornerà il padre degli Italiani come fu sempre il padre augusto e venerabile di tutti i fedeli.»

Il Courrier du Dimanche pubblicò una lettera confidenziale di Vittorio Emmanuele a Napoleone, della quale tutta la stampa lasciò a lui la responsabilità. Insomma rilevava il Re la necessità d'intervenire nello Stato Romano. Garibaldi non aveva voluto arrestarsi nella Sicilia, e dichiarava di voler andare assolutamente in Roma. Un conflitto tra i Garibaldini ed i Francesi sarebbe immensamente pericoloso all'Italia, ed il Re ed il suo governo non avendo più dritto a contare sulla obbedienza di Garibaldi, era indispensabile, che la bandiera Sarda si frapponesse tra la bandiera di Garibaldi e la francese.

Vera ad apocrifa siffatta lettera, il concetto, che contiene è vero, ed è evidente, che se le popolazioni dell'Umbria e delle Marche non avessero incontrato la protezione del Re, esse si sarebbero rivolte a Garibaldi, il quale avrebbe potuto trovare in esse un appoggio ai suoi arditi disegni. Per Io che il partito, che adottò il governo piemontese quanto era raccomandato dalla morale altrettanto lo era pure dalla nuda e secca politica, checché ne dicessero sia sinceramente sia a disegno i Diarii officiosi francesi, ai quali la stampa italiana non mancava di rispondere, attenendosi all'autorità delle stesse parole dell'Imperatore, quando aveva esortato gl'Italiani ad unirsi per essere soldati oggi e liberi cittadini di Stato indipendente domani. Però non era lo stesso della stampa seria ed indipendente della Francia. — «La rivoltura degl'ltaliani delle Marche e dell'Umbria, scriveva il Débats, era preveduta dal Mondo politico; l'intervento piemontese prestabilito e reclamato dalla prudenza. La conquista delle due Sicilie e delle Marche avrebbe fatto della rivoluzione un torrente da trascinare nel vortice delle sue acque lo stesso Piemonte, e chi sa quali altri paesi avrebbe allagato.»

Intanto il Ministro Piemontese lasciò Parigi, e, come a Torino, il primo segretario ebbe l'incarico degli affari della Legazione. Il 18 di settembre il cardinale Antonelli. comunicò le sue proteste ai Diplomatici esteri. È la ripetizione delle medesime cose; sono sempre violenze, che si commettono al più pacifico dei Sovrani, al capo augusto della Chiesa. La resistenza non dà speranza di riuscita; tutto cede innanzi alle armi piemontesi ed ai volontarii; alla Santa Sede rimangono le proteste, ed il ministro le fa e per proprio dovere e per espresso comando avutone da Sua Santità.

Undici giorni dopo di queste proteste la cittadella di Ancona si rese: bombardata da mare dall'ammiraglio Persano ed attaccata vivamente per la parte di terra la cittadella si rese il 29 di settembre in virtù di una capitolazione sottoscritta da commissarii destinati dai rispettivi generali, cioè dal generale Fanti comandante in capo l'armata di S. M. il re di Sardegna nelle Marche e nell'Umbria, e dal generale De Lamoricière comandante in capo le truppe pontificie. L'intiera guarnigione rimaneva prigioniera di guerra, ma usciva cogli onori militari da Porta Pia in direzione della Torretta, ove si costituiva prigioniera di guerra. Gli uffiziali avrebbero fatto l'atto di consegnare la loro sciabola al comandante dei corpi piemontesi, il quale li avrebbe invitati a ritenerla. Gli uffiziali sarebbero stati imbarcati per Genova, la bassa forza per Alessandria, ma il generale Fanti s'impegnava di ottenere dal governo del Re, che fossero tutti spediti alle rispettive case sotto la parola di onore degli uffiziali di non combattere per un anno contro le truppe di S. M. il Re. Tutti gli (iniziali potevano condurre con loro il rispettivo bagaglio ed i cavalli di loro privata spettanza in ragione del grado. I feriti rimanevano in Ancona sotto la garanzia del governo di S. M. e gli uffiziali potevano conservare le rispettive ordinanze. Sino al rinvio alle proprie case gli uffiziali generali ricevevano lire 10 al giorno, gli uffiziali superiori lire 5, i capitani, luogotenenti, e sottotenenti lire 3, la bassa forza riceveva giornalmente una razione viveri, e 20 cent. se sottouffiziale, 10 cent. se caporale o soldato. Lamoricière volle rendersi a Persano, il quale gli spedì la propria lancia, e fece prendere le armi a tutto l'equipaggio, perché rendesse al generale gli onori militari. Di quest'atto di cortesia egli fu fortemente tocco. Persano inoltre gli diè il suo appartamento a bordo la nave dell'ammiraglio, ove rimase sinché si potè imbarcare sul battello il Conte Cavour, che lo condusse direttamente a Genova.

La resa di Ancona compì la campagna delle Marche e dell'Umbria. In quello stesso giorno 29 settembre due ordini del giorno furono con giusta ragione diretti uno all'armata di terra, l'altro a quella di mare. Il primo diceva:

«In 48 giorni voi avete battuto il nemico in campo, preso i forti di Pesaro, di Perugia, di Spoleto, di S. Leo, e la fortezza di Ancona, a cui ebbe gloriosa parte il raro ardimento della nostra squadra.

«L'armata del nemico ad onta del suo valore fu intieramente sconfitta e prigioniera, meno un'accozzaglia di gendarmi e di fuggitivi di ogni lingua ed armi, raccolti da Monsignor Merode, che campeggiano ancora, ma per breve, nella Comarca di Velletri.

«Io non so, se debba più in voi ammirare il valore nei cimenti, la sofferenza delle marcie o il contegno amoroso e disciplinato verso queste popolazioni, che vi benedicono per averle liberate dal martirio e dall'umiliazione.

«In nome di Vittorio Emmanuele io vi ringrazio, e mentre la Patria vi ricorderà con orgoglio, S. M. compenserà largamente, come suole, coloro fra voi, ch'ebbero l'occasione di maggiormente distinguersi.

«Abbiate la più viva riconoscenza di chi ha l'onore di comandarvi, e col cuore pieno di gioia ripetete con me: Viva il Re! Vira l'Italia!»

Quello all'armata di mare diceva:

«Ogni volta, che avete sparato il cannone contro il nemico, vi siete distinti.

«L'armata di terra vi guardava; volevate emularla.» Ho l'onore di dirvi, che avete pienamente conseguito il vostro intento.

«In meno di due ore con due fregale e due corvette avete annientate tutte le fortezze, che difendono Ancona dal lato del mare.

«II generale Lamoricière mandò alla marina proposte di capitolazione.

«Il vostro ardire, la vostra perizia hanno sorpreso tutti.

«Il Ministro della Guerra comandante generale si degnava esternarmi la sua soddisfazione.

«Il generale Cialdini, alle cui mosse strategiche si deve il termine della guerra in sì breve tempo, mandavaeni congratulazioni.

«Il generale della Rocca, che prese i monti Pelago e Polito, vi complimentava.

«Evviva dunque a voi.

«Io vi ringrazio, e di che cuore voi, che mi conoscete, ben lo sapete.

«Dio vi benedica, e benedica il nostro Re, primo affetto di ogni cuore italiano.

«Evviva Vittorio Emmanuele! Evviva l'Italia!»

Così compiuta quella campagna, il 2 di ottobre aprivasi il Parlamento a Torino. Le Tribune erano affollatissime, i Deputali presenti in gran numero. Aperta la seduta e mentre si procede al sorteggio degli uffizii, entra l'ammiraglio Persano. Non appena è veduto, che caldi, fragorosi evviva scoppiano in tutti punti della sala, e colla violenza dell'elettricismo si comunicano alle Tribune. Per alcuni minuti tutto quell'edilizio echeggia di meritati applausi all'Ammiraglio ed alla marina militare; la più bella, la maggiore ricompensa, cui possa aspirare un cittadino.

Calmati gli applausi, succede pieno ed imponente silenzio. Cavour solo fa sentire la sua voce prima per annunziare, che il Re dovendo partire e condurre seco il Ministro della Guerra già assente e l'altro dell'interno, aveva nominato Luogotenente generale del Regno il principe di Carignano, ed incaricato del portafoglio della guerra il presidente del Consiglio, e dell'Interno quello di Grazia e Giustizia, e poi per presentare un progetto di legge composto di un solo articolo:

«Il governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali Decreti l'annessione allo Stato di quelle provincie dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente per suffragio diretto universale la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra Monarchia Costituzionale.»

Cavour imprese poi a fare la relazione della politica del gabinetto. Attribuì i mirabili fatti d'Italia allo svolgimento della politica iniziata da Carlo Alberto, al genio iniziatore dei popoli, e per Napoli e Sicilia al generoso concorso dei volontarii e sopratutto al magnanimo ardire del loro capo generale Garibaldi. Espone per la Venezia e per Roma il pensiero del Governo. Per la prima la quistione bisogna risolverla colla spada, ma bisogna prima costituire una Italia forte. Per la seconda la quistione non è di quelle, che si possono risolvere colla sola spada. Ella incontra nella via ostacoli morali, che le sole forze morali possono vincere; o presto o tardi questa vittoria sarà conseguita. Ma quando anche questo pensiero fosse falso, la sola presenza delle truppe francesi a Roma basterebbe ad allontanare ogni disegno eziandio remoto di schierarsi colle armi in pugno innanzi quella città.

Ma se per ora non si è in istato di adoperarsi per Venezia e Roma, non è così per le altre parli d'Italia, le quali sebbene già rivendicate a libertà, sentono d'uopo d'immediati ed efficacissimi provvedimenti.

E dopo di avere rilevato, che la simpatia acquistata alla causa italiana era da attribuirsi all'ordine mirabile serbalo dai popoli italiani; dopo di avere osservato che con questa concordia, con questa fermezza incrollabile di proposito i popoli della Toscana e dell'Emilia riuscirono a persuadere la diplomazia sull'attitudine degl'Italiani a costituire un vasto regno fondato sopra principii largamente liberali, soggiugne:

«Le cose debbono procedere ugualmente nell'Italia meridionale. Guai se quei popoli avessero a durar lungamente nella incertezza del provvisorio; le perturbazioni e l'anarchia, che poco tarderebbero a scoppiare, diverriano cagione di danno immenso e d'immenso disdoro alla patria comune. Il gran moto nazionale uscendo dall'orbita regolare e meravigliosa, che ha trascorso finora, farebbe correre supremi pericoli così alle provincie testé emancipate quanto a quelle, che sono da oltre un anno fatte libere ed indipendenti. Ciò non deve succedere. Il Re, il Parlamento non vi possono acconsentire.

«Il principe generoso, che l'Italia intera proclama iniziatore e duce del risorgimento nazionale, ha verso i popoli del mezzogiorno d'Italia speciali doveri. L'impresa liberatrice fu tentata in suo nome; attorno al suo glorioso vessillo si raccolsero, si strinsero i popoli emancipati. Egli è dinanzi all'Europa, dinanzi ai posteri risponsabile delle loro sorti.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

ARRIVO DI V. EMANUELE II NEL PALAZZO REALE DI NAPOLI

«Non già che Re Vittorio Emmanuele intenda perciò disporre a suo talento dei popoli dell'Italia meridionale, ma incombe a lui il debito di dare a quelli opportunità di uscire dal provvisorio, manifestando apertamente, liberissimamente la volontà loro.

«Quale sarà il risultamento del voto? a La risposta giace nell'urna elettorale.»

E prosegue il Ministro, dicendo, che come Italiano desidera quella risposta pari a quella degli altri popoli italiani; come Ministro di un Re scevro di ambizione, dovea fermamente pronunziare in suo nome, che qualunque sia per essere il voto di quei popoli, esso verrà religiosamente rispettato.

Crede il Ministero, che anche la Camera convenga in tale pensiero. — Tutti vogliamo recare a compimento il grande edilizio dell'unità nazionale. Ma esso debbe sorgere mediante lo spontaneo consenso dei popoli, non per atto alcuno di costringimento e di forza.

Queste sono le ragioni della legge proposta. Niun dubbio sulla forma del voto; come nell'Emilia e nella Toscana i popoli verranno invitati ad esprimere nettamente se vogliono o no congiungersi al nostro Stato senza però ammettere verun voto condizionale. Come il Ministero era deliberato a non imporre il voto di annessione ad alcuna parte d'Italia, così era d'avviso non doversi ammettere annessioni subordinate a condizione speciale: —

«Ciò sarebbe, o Signori, dar facoltà ad una o più provincie italiane d'imporre la volontà loro alle provincie già innanzi costituite, e d'inceppare l'ordinamento futuro della nazione, introducendovi un vizio radicale ed un germe funesto d'antagonismo e di discordia. Noi non dubitiamo d'altra parte di significare, che il sistema delle annessioni condizionate è contrario all'indole delle moderne società, le quali se possono in certi peculiari congiunture ordinarsi convenientemente sotto la forma federativa, non ammettono più il patto deditizio, vera reliquie del medio evo, modo d'unione poco degno di Re e di Popolo italiano.

Dichiara quindi il Ministro non essere ne federalista ne accentratore, però non esitare a preferire il sistema federale o quello del compiuto accentramento ad un assetto politico, per cui le provincie benché unite sotto un medesimo scettro, permanessero nelle più importanti materie legislative autorità indipendenti dal Parlamento e dalla Nazione.

Accenna poi il Ministro al pensiero di coloro, che accettavano in massima l'annessione, ma opinavano doversi quella differire sinché non siano sciolte le quistioni di Roma e di Venezia.

Il Ministero crede essere quel disegno capace di conseguenze funeste. Perché mantenere Napoli e Sicilia in uno stato anormale? Un solo motivo si potrebbe addurre, quello di servirsi dell'opera rivoluzionaria per compiere la rivoluzione d'Italia. Ebbene, sarebbe questo un errore gravissimo. —

«Nel termine, in cui siamo giunti, e quando è in nostra facoltà di comporre uno Stato di 22 milioni d'Italiani, uno Stato forte e concorde, il quale potrà disporre d'innumerevoli specie di mezzi così materiali come morali, l'era rivoluzionaria dev'essere chiusa per noi; l'Italia deve iniziare con gran franchezza il periodo suo di ordinamento e di ordinamento interiore. In altra guisa l'Europa avrebbe ragione di credere, che per noi la rivoluzione non è un mezzo ma un fine, e ci torrebbe a buon dritto la sua benevolenza. L'opinione pubblica stataci insino al di d'oggi tanto favorevole, dichiarerebbesi contro di noi, e diverrebbe ausiliaria dei nostri nemici. Tutte le quali cose renderebbero senza dubbio non solo malagevole ma forse anche impossibile il compimento della impresa italiana.

«Rivoluzione e governo costituzionale non possono coesistere lungamente in Italia senzaché la loro dualità non produca un'opposizione e un conflitto, il quale tornerebbe a solo profitto del nemico comune.»

Tali eventualità, osserva il Ministro, non essere affacciate alla mente di quel generoso patriota, che sin'ora contrastò l'annessione di Napoli e di Sicilia; ma dopoché le Marche e l'Umbria hanno riunito il mezzodì al centro ed al Nord della Penisola, quel sistema ritarderebbe inutilmente il progresso dell'idea nazionale. V ha una logica di fatti, che trionfa delle più gagliarde volontà, e contro la quale non valgono le migliori intenzioni. Permanga la rivoluzione in Napoli ed in Palermo, ed in breve tempo l'autorità e l'impero trapasseranno dalle mani gloriose di chi scriveva sul proprio vessillo: Italia e Vittorio Emmanuele, in quella di gente, che a tal formola pratica sostituisce il cupo e mistico simbolo dei sellarli: Dio ed il Popolo.

E concludeva il Ministro, l'attuale condizione delle cose dovere cessare in Napoli; non potere Vittorio Emmanuele acconsentire, che Provincie italiane fiero in suo nome governate come paesi di conquise, e senzaché il popolo adunato nei liberi comizi avesse espresso con solenne legalità di voto la sua volontà. Perciò sperava il Ministero, che il Parlamento accogliesse la legge proposta. Ma ciò non bastare; era mestieri di un'approvazione compiuta dei suoi atti e della sua politica, di un voto di fiducia, tanto più che una voce giustamente cara alle moltitudine palesò alla Corona ed al paese la sua sfiducia.

Il Ministero ne fu penosamente commosso, ma non si rimosse dai suoi propositi. La parola di un cittadino, per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla patria, non può prevalere su i grandi poteri dello Stato. Però il Ministero aveva l'obbligo d'interrogare il Parlamento per sapere s'egli è disposto a sancire la Sentenza profferita contro di lui. Quest'effetto uscir deve dalla discussione, cui darà motivo la presente proposta di legge.

La discussione fu lunga ma calma, dignitosa ed ordinata. Cavour fu l'ultimo degli oratori; constatò la dissensione tra il Ministero e Garibaldi, ma disse non averla il primo provocata, ed essersi sempre prestato ed esser pronto a prestarsi a giusti componimenti; non esser niente del Ministero nel chiedere un voto di fiducia provocare un giudizio su Garibaldi; rendergli invece i maggiori omaggi, che si possono rendere ad un cittadino; negò ogni patto di nuova cessione di territorio: — «fate l'annessione, e ad una nazione di 22 milioni non si domanda cessione di territorio.» — Roma dev'essere la Capitale dell'Italia per effetto di una rivoluzione morale, ed un giorno le Potenze ci permetteranno di rivendicare Venezia.

Si domandò passarsi ai voti. Fu prima proposto l'ordine del giorno della Commessione:

«La Camera dei Deputati mentre plaude altamente allo splendido valore dell'armata di terra e di mare e al generoso patriottismo dei volontari', attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all'eroico Generale Garibaldi, che soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli della Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emularmele restituiva agl'italiani tanta parte d'Italia.»

Questo fu approvato all'unanimità Ira gli applausi generali. La legge fu approvata con 290 voti su 296 volanti. Sei voti furono i contraili; il risultamento della votazione fu accolto da fragorosi applausi. La legge passò con non minore favore nel Senato.

In colai modo la quistione era stata risoluta dalla rappresentanza nazionale; la facoltà di accettare le annessioni era passata nel potere esecutivo, ma pura, incondizionata, e lasciando al Ministero la facoltà di continuare la politica sino allora eseguita.

ll Re aveva preso intanto il coniando dell'armata.

«Soldati, aveva egli detto, sono contento di voi, perché siete degni Italiani».

«I vinti, che rimando liberi, parleranno dell'Italia e di voi alle genti straniere. Essi avranno imparato. che Dio premia chi lo serve colla giustizia e colla carità e non chi opprime popoli, e conculca dritti e ragione. Dobbiamo fondare nella libertà la forte Monarchia italiana. Ci aiuteranno i popoli colf ordine e colla concordia.

«L'esercito nazionale accrescerà semprepiù la gloria, che da otto secoli splende sulla croce di Savoia.

«Soldati, io piglio il comando. Mi costava troppo non trovarmi prima là deve può essere il pericolo.»

Il Re riceveva in Ancona ov'era arrivato il 3 di ottobre, le prime deputazioni del Regno; ed il giorno 7 un telegramma da Ancona di Farini a Villamarina diceva:

«Il Re ha ricevuto le vostre lettere. Noi partiremo di qua dopodimani.

«Oggi s'imbarcano le truppe. Per la via di terra le altre già si avanzano.»

Il Re dunque si avanzava per oltrepassare le frontiere del regno; ogni rapporto diplomatico coll'antica monarchia delle Due Sicilie si era infranto. Il conte Cavour manifestava con una nota del 6 di ottobre al Barone Winspeare la risoluzione di mandare nel regno un corpo di armata, risoluzione determinata da molti indrizzi ricoperti di numerose firme per implorare aiuto da quel Sovrano, cui la Provvidenza affidò la missione di pacificare e costituire l'Italia dopoché Francesco II aveva abbandonata la sua Capitale in guisa che la popolazione doveva giudicare aver egli abbandonato il trono. Tal era il concetto della nota.

Diveniva cosi indispensabile la partenza del Ministro napoletano da Torino, ed il giorno i fu essa con un'altra nota partecipata al Ministro degli Affari Esteri piemontese.

Il barone Winspeare si mostrava sorpreso di un fatto così apertamente contrario alle basi di ogni legge e di ogni dritto, e che gl'intimi ed antichi vincoli di parentela e di amicizia tra i due Sovrani rendevano tanto straordinario quanto nuovo nella Storia delle Nazioni moderne, di tal che lo spirito generoso del Ile, suo augusto padrone, non sapeva risolversi a crederlo possibile. L'anarchia aveva trionfato negli Stati di S. M. Siciliana in conseguenza di una rivoluzione invaditrice; ed in quell'ora fatale, in cui uno Stato di 10 milioni difende colle armi in mano gli ultimi avanzi della istorica sua autonomia, era inutile indagare chi avesse quella rivoluzione sorretta tanto da diventare un colosso. —

«Quella Provvidenza Divina, della quale V. E. ha invocato il santissimo nome, pronunzierà, prima che scorra gran tempo, le sue decisioni all'ora del combattimento supremo; ma qualunque sia per essere questa suprema decisione, la benedizione del Cielo non discenderà sicuramente sopra coloro, chi si apprestano a violare i grandi principii dell'ordine sociale e morale, facendosi credere gli esecutori di un mandato di Dio.

«La coscienza pubblica dal canto suo, quando sovra di essa non peserà più il giogo tirannico delle passioni politiche, saprà determinare la vera indole di una impresa usurpatrice, cominciata coll'astuzia e terminata colla violenza.»

Osservava il Ministro, che le cortesi accoglienze fattegli da quella popolazione non gli permettevano di criticare più addentro e più severamente gli atti di quel governo, ma non essere più possibile la sua presenza in Torino. Epperò protestava contro l'occupazione militare del regno; riservava al suo augusto padrone il libero esercizio del potere sovrano, che gli spetta, di opporsi con ogni mezzo a queste aggressioni ed usurpazioni ingiuste, non che di fare gli atti pubblici e solenni, ch'egli stimerà più utile di compiere per la difesa della sua reale corona, e si apprestava ad abbandonare quella residenza non appena avrebbe terminato di porre in ordine alcuni affari particolari di S. M. relativi alla successione dell'augusta sua madre di Santa memoria.

Tal è l'ultimo atto, che chiuse le relazioni diplomatiche tra le due più. potenti Case sovrane d'Italia, e che contiene l'ultima espressione dei dritti della Dinastia, che cessava di regnare. Esso è l'esposizione della dottrina, che fa dei popoli l'eredità ed il retaggio dei Principi, e che attribuisce a costoro così inerente la facoltà di rappresentare la volontà nazionale, che chiama Stato composto di 10 milioni qualche decina di uomini, oltre i militari, racchiusi in Gaeta per interessi individuali. Sotto questo rapporto quel documento era logico qual emanazione delle regole di dritto del governo, che rappresentava.


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CAPITOLO XXV

Il Re entra nel Regno — Avvenimenti in Napoli — ll Plebiscito —

Il Re in Napoli — Termine della Dittatura.

SOMMARIO

Proclama di Pallavicino — Decreto pei Plebiscito — Circolare sull'obbietto — Pallavicino ed i Ministri si dimettono — Riunione presso Garibaldi. Pallavicino ed i Ministri ritirano le loro dimessioni — Proclama di Garibaldi — Pure si era inquieti sulle opinioni del Dittatore — Lettera di Ferrari a Bertani — Que principii non erano accettati dalla gran maggioranza dei Napoletani — Dimostrazione annessionista — Parole di Garibaldi e di Con. forti — Proclama di Pallavicino — Altre del Generale Turr — Una Deputazione del Municipio si presenta al Re — Parole del Re — Egli varca le frontiere del Regno — Preparativi pel Plebiscito — Commessioni in ogni quartiere della Città — Decreto di Garibaldi per l'annessione — Suo significato — Il Plebiscito — Proclamazione del risultamento della votazione — II Re prosegue il suo viaggio. L'armata marcia contro i Borbonici — Tele gramma di Cialdini a Garibaldi — Primo combattimento tra i Piemontesi ed i Borbonici Secondo combattimento sul Garigliano — Mola di Gaeta in potere dei Piemontesi — Una colonna di Napoletani si rende ai Francesi — Capitolazione di Capua — Lettera di della Rocca a Garibaldi — Il Re riceve in Sesso il risultamento del Plebiscito — Entra in Napoli — Accoglienza, che riceve — Suo manifesto — Ricevimento solenne del Re — Atto dell'unione. Il Prodittatore ed i Ministri rassegnano i loro poteri — Decreto di benemerenza della Guardia nazionale — Decreto Organico delle Provincie meridionali — Relazione al Re dal Luogotenente — Lettera del Luogo tenente a Pallavicino Garibaldi rifiuta le offerte del Re — Sua partenza — Suo addio ai compagni d'armi — L’Opinione di Torino sulle domande di Garibaldi — Provvedimenti pei Garibaldini Spese per l'armata meridionale — Uffizio del Luogotenente al Comandante la Guardia Nazionale — Abolizione di taluni dazii di consumo — Atto di beneficenza del Re.

 Mentre il Re si approssimava alle antiche frontiere del regno, per quindi varcarle, e quando le sue armi imprendevano già a combattere i borbonici, importanti avvenimenti si svolgevano in Napoli.

Sin dal 6 di ottobre Pallavicino nell'imprendere la sua amministrazione aveva detto con un proclama:

«Cittadini;

«Chiamato dall'eroe, che vi redense con una serie di miracoli, io vengo a dividere con voi le fatiche ed i pericoli, che accompagnano la grande impresa da noi assunta in pro dell'Italia. Incanutito nelle battaglie della libertà, io avrei dritto a quel riposo, che suol concedersi al soldato dopo lunga e laboriosa milizia; ma la Patria mi chiama, ed io non fui mai sordo all'appello della Patria: Cittadini! «In nome del Dittatore io vi prometto uno splendido avvenire; prometto a queste nobili provincie, regnando Vittorio Emmanuele, l'ordine colla libertà.

«E ciò significa, o Cittadini, amministrazione imparziale della giustizia, base d'ogni governo civile, sollecito riordinamento dell'esercito o della flotta; accrescimento e migliore organamento della Guardia Nazionale; scuole popolari, strade ferrate, incoraggiamenti d'ogni maniera all'agricoltura, al commercio, alle industria, alle arti, alle lettere ed alle scienze; rispetto alla Religione ed ai suoi Ministri, ove costoro siano da vero gli Apostoli di Cristo e non del. Borbone.

«Ma sopratutto il nuovo governo promuoverà l'unificazione, bisogno supremo d'Italia. Non salverà l'Italia la fiducia nel patrocinio straniero, non la sonora ciancia delle sette impotenti, ma la concordia e le armi italiane. Armiamoci dunque ed uniamoci sotto il vessillo tricolore colla Croce Sabauda, che densi inalberato dal Salvatore delle Due Sicilia; ecco l'orifiamma, ecco il palladio della Nazione. Rannodiamoci d'intorno ad esso, gridando: Viva Garibaldi! Viva il Re galantuomo! Viva l'Italia! Italia una ed indivisibile! Italia degl'Italiani!

E due giorni dopo con decreto del dì 8 ottobre il popolo delle provincie continentali dell'Italia meridionale veniva convocato pel 21 di quel mese in comizii per accettare o rigettare il seguente Plebiscito:

«Il Popolo vuole l'Italia una ed indivisibile con Vittorio Emmanuele Re costituzionale, e suoi legittimi discendenti?.

Il voto doveva essere espresso per o per No col mezzo di un bollettino stampato.

Una circolare ai Governatori delle Provincie firmata dal Prodittatore e da tutti i Ministri aveva seguito d'appresso questo decreto. Con essa ricordavasi quale fosse lo stato infelicissimo di queste Provincie, che componevano il Reame di Napoli, e come fossero state esse liberate dall'eroe Garibaldi. Ch'era mestieri fare comprendere ai popoli di dette provincie, come stesse ad essi di accertarti per sempre la sua redenzione e quella dell''Olia, e come la sentenza, che uscirà dall'urna il 4 di ottobre rivelerà alle nazioni, se la terra del Sannio e della Magna Grecia sia degna di far parte della grafi famiglia italiana. Mentre il Ministero aveva fiducia, che le genti napoletane non si sarebbero mostrate minori di quelle dell'Emilia e della Toscana, i Governatori erano invitati a prendere i più efficaci provvedimenti affinché fosse rispettato il dritto, che hanno tutte il opinioni di manifestarsi liberamente. — «Impedisca qualunque violenza, che sotto qualsiasi pretesto possa turbare la coscienza dei cittadini, né permetta con minaccia ipocrite o faziose sia alterato l'atto solenne».

E dopo di avere manifestato, che il Re magnanimo era alle nostre porte, rilevava, che la bella accoglienza, che gli si potesse fare, era di proclamarlo con libero ed unanime suffragio Re d'Italia.

Però qualche giorno era appena decorso, e la sera dei 9 ottobre Pallavicino si dimetteva nel Quartiere Generale. Il di seguentte Garibaldi veniva in Napoli, e convocava in sua presenza il ProDittatore ed il Ministero. Si mostrò dispiaciuto di due cose; la prima, di essersi esonerati dal governo di talune provincie uomini d'azione, suoi compagni negli ultimi gloriosi fatti; la seconda di non esserglisi spediti colla dovuta sollecitudine i fondi richiesti pei bisogni dell'esercito e della guerra. Alla sua doglianza rispose il Ministro dell'Interno, dixxxco, ch'egli con suo rincrescimento aveva dovuto rixxxcare alcuni governatori, perché si erano mostrati poco esperti nei loro ufficii, o perché nello stato, in cui si trovava il paese, era condizione e necessità suprema riordinare subito tutte le amministrazioni. Alla seconda doglianza rispose il Ministro delle Finanze, affermando non avere in alcun modo tardato a dare i fondi richiesti. Ma poiché, il Dittatore si mostrava dubbioso, Conforti osservò, che sembrando, che il Ministero non aveva più la fiducia del Dittatore, conveniva, che si ritirasse. Al che assentì Garibaldi, e le demissioni furono scritte, firmate ed accettate, ma i Ministri vennero pregati di rimanere ai loro posti sinché non si formasse il nuovo Ministero.

Il dì seguente il Marchese Pallavicino fu invitato di recarsi alle 2 in casa Angri, e vi si recò con Conforti, perché avendo chiesto, se potesse condurlo con sé, gli si era risposto, che anzi si desiderava.

A quell'ora vi erano i signori Cattaneo, Crispi, Saliceti, de'  Luca, ed il Generale Turr.

«Si discute, disse il Dittatore, se convenga convocare dopo il Plebiscito un'assemblea napolitana, come si è convocata in Sicilia. Alcuni opinano pel si, altri pel no; vorrei, che si cercasse un mezzo di conciliazione tra i pareri opposti.»

Pallavicino e Conforti dichiararono, che la conciliazione cercata era impossibile; che essi, avendo consigliato l'atto, che chiama il popolo a decretare, se vuole l'unione di queste provincie al regno italiano, rimanevano fermi, ove si volesse convocare una assemblea, nella già data dimessione.

Cattaneo e Saliceti sostennero essere l'Assemblea necessaria per istabilire le condizioni dell'unione, ma Pallavicino confutò con molti argomenti codesto parere. Ebbe compagno Conforti, che osservò, non potervi essere assemblea, soprastante la sovranità del popolo, che si manifesta con suffragio universale e diretto; ogni assemblea essere delegata e mandataria del popolo, epperò non poter disfare e giudicare quello, che il popolo ha decretato. Essere le condizioni, che si volevano imporre al governo di Vittorio Emmanuele, il pomo della discordia gittato nel campo italiano, che avrebbe resa l'unificazione dell'Italia se non impossibile, assai difficile, e soggiunse:. —

«Noi opporremmo Parlamento a Parlamento; chi non prevede, che il Parlamento di Torino vota la proposta di non accettare annessioni condizionate ()? Saremo dunque noi creatori di scisma italiano? Eterneremo il provvisorio, e darem ragione agli stranieri, che ridono delle nostre discordie? No, noi Napoletani non dobbiam fare condizioni, che sono cose da medio evo. Noi non ci diamo ad una Potenza straniera, a cui sia necessario imporre dei patti; noi ci diamo a noi stessi, alla nostra gran Patria, che fu il sospiro di tanti secoli, alla Italia una ed indivisibile. Dall'altra parte gl'Italiani dell'Emilia e della Toscana, di quella gentile Toscana, che vanta sì nobili memorie, non posero condizioni, ma si preoccuparono solo di riunire le sparse membra dell'Italiana famiglia. Questa, questa è l'idea grande, che dee dominare tutte le altre. Perché non dobbiamo imitare i nostri fratelli? Quasi non fossimo figli della medesima Patria»? — E conchiuse: —

«Noi Napoletani non consentiremo giammai a quest’onta, che alcuni ci vorrebbero imporre; noi che fummo tanto calunniati nel mondo, noi non vorremo certo colle nostre pretese municipali tramutar le vecchie calunnie in novelle accuse; noi non vogliamo altro, se non che si faccia l'Italia e presto. E mi meraviglio come una quistione siffatta si possa tanto agitare in presenza del Generale Garibaldi, ch'è la personificazione dell'unità italiana.

Alle quali parole il Dittatore esclamò con forza: —

«Non voglio assemblea; si faccia l'Italia.»

Ed il giorno appresso Garibahli pubblicava anch'esso un proclama, annunziando la venuta del Re:

«Domani. egli diceva, Vittorio Emmanuele, il Re d'Italia, l'eletto della Nazione infrangerà quella frontiera. che ci divise per tanti secoli dal resto del nostro paese, ed ascoltando il voto unanime di queste brave popolazioni, comparirà qui tra noi.

«Accogliamo degnamente il mandato della Provvidenza, e spargiamo sul suo passaggio, come pegno del nostro riscatto e del nostro affetto, il fiore della concordia, a lui così grato ed all'Italia così necessario.

«Non più colori politici! non più partiti! non più discordie!.. L'Italia una, come la segnano saviamente i popolani di questa Metropoli, ed il Re Galantuomo siano i simboli perenni della nostra rigenerazione e della grandezza e della prosperità della Patria.

Nondimeno non si era dal tutto tranquilli sulla influenza delle persone, che prevalevano sulle opinioni di Garibaldi. Bertani era partito, ma Cattaneo e Crispi ne dividevano i sentimenti e le aspirazioni; e gli uni e le altre emergevano chiarissimi da una lettera, che il 23 di settembre Giuseppe Ferrari aveva scritto al detto Bertani. L'annessione, egli diceva, è la sconnessione dell'Italia; s'insegni alle plebi, che da esse deve sorgere e per esse vivere la nuova Italia invocata dai nostri tempi, aspettata da tutte le Nazioni; guerra di popoli e non di regolari esercito… «e se corrispondiamo all'aspettativa generale, se i mezzi, di cui disponiamo, reggendo otto milioni di abitanti sono impiegati a profitto delle idee disconosciute dai capi dell'alta Italia, state certi, che invece della scempia idea di sottomettere Napoli e Palermo alla scarsa Torino, vedrete i Lombardi, i Toscani, gli Emiliani, gli stessi Piemontesi diventar vostri. sciogliendosi da una falsa unione di Stati per costituire una vera nazione, nella quale tutti i popoli saranno reciprocamente annessi gli uni agli altri, e non tutti sforzati di diventare l'appendice di un unico Stato».

E dopo di avere rilevato. come sia vero, che i più grandi, i più illustri Italiani si professarono sempre avversi alla fede razione, vuole, che si lasci la storia nelle tombe, la metafisica nei libri, i calcoli nelle scuole, e si proclami il dritto della rivoluzione superiore a tutte le forme; — «regni solo l'unità dell'idea, e sieno sospese le leggi stesse dell'economia politica, che misura il peso della città, fatta astrazione dalla giustizia. »

Ma abbiamo già visto, che a queste opinioni non partecipava la gran maggioranza dei Napoletani; ninno intendeva di essere appendice di un altro Stato, ma non voleva neppure affidarsi alla rivoluzione. Tutte le parti dell'Italia dovevano costituire uno Stato, ma ordinato con più solide e più pratiche leggi, che non son quelle predicate dagli Apostoli della rivoluzione indefinita.

Gli animi quindi non erano rassicurati in Napoli, non ostante quanto era avvenuto, ed il di dopo del proclama di Garibaldi una dimostra:ione successe nella piazza di S. Francesco. Garibaldi parlò dal balcone della Foresteria. Disse, che i assensi ed i tumulti erano fomentati da coloro, che gli avevano impedito di combattere con 43 mila volontarii gli Austriaci, e che l'anno innanzi gli avevano impedito di venire a liberare Napoli con 25 mila volontarii; che avevano mandato Lafarina a Palermo, e volevano la pronta annessione per impedirgli di passare lo stretto e discacciare Francesco II; che in caso di dissensi si mandassero a lui deputazioni non di marchesi e principi ma di semplici popolani; che agiva già il di precedente annunziato, che il Re sarebbe entrato nel regno, ed ora aveva sue lettere; che il giorno 10 truppe piemontesi avevano varcato le frontiere, e che fra pochi giorni si vedrebbe il Re. Si passasse dunque con calma, con prudenza, con moderazione questo stato transitorio... Parlò anche Conforti, e nell'assicurare la popolazione sulla politica del Governo, accertò, ch'esso resterebbe al suo posto, sinché una suprema necessità non lo costringesse a lasciare il potere.

E due giorni dopo due proclami vennero pubblicati. Uno di Pallavicino agli Uffiziali e Militi della Guardia Nazionale diceva:

«Ieri tutto commosso per affettuosa dimostrazione, onde vi piacque onorarmi, non seppi esprimervi con parole la gratitudine, che sento vivissima nel fondo dell'anima. Io vi ringrazio, Cittadini, della prova di stima e d'affetto, di cui foste cortese, e vi assicuro, che il vostro plauso mi sarà sprone a proseguire animosamente in quella via, che dee condurci alla meta dei nostri desiderii. Noi vogliamo una patria armata e forte; noi vogliamo l'Italia una ed indivisibile, — e noi l'avremo.»

«Ora cessino le popolari dimostrazioni, le quali, se continuassero, sarebbero inopportune ed anche pericolose. Calma ed ordine. Che se individui o sale si ardissero turbar l'ordine, io, da voi spalleggiato, saprei imbrigliare e punire i felloni, essendo fellonìa l'agitare e dividere i cittadini, che sono chiamati a votare l'unificazione dell'Italia.

«Continuate ad avere fiducia in me; io sento di meritarla e di meritar quella del Dittatore, che volle temporaneamente affidarmi le sorti di queste nobili provincie. Ancora pochi giorni, e l'Italia sarà in gran parte del Popolo italiano. Ecco dunque, o signori, l'opera nostra felicemente iniziata e proseguita; al tempo il terminarla.»

«Intanto mi piace ripetervi le parole del Dittatore: morte a nessuno e viva l'Italia.»

«15 ottobre 1860.»

Il secondo proclama era del Generale Turr Comandante la Città e Provincia di Napoli:

«Il nostro Dittatore Garibaldi col suo discorso di ieri l'altro ha detto, che quando il popolo desidera qualche cosa da lui, gl'invii una deputazione. Perciò il popolo di Napoli consideri come nemici della libertà coloro, i quali cercano di riunirlo per fargli gridare abbasso i castelli, o di spingere ad altre dimostrazioni. Per ciò che riguarda S. Elmo Garibaldi ha promesso, che sarà sempre in mano della forza nazionale, e il Re galantuomo manterrà certamente questa promessa.»

«Garibaldi è figlio del Popolo, e come tale non farà mai altro che il bene del popolo. Fidatevi pertanto intierameute di lui.

«15 ottobre 1860.»

Intanto il Municipio aveva spedito una deputazione al Re pria che varcasse le frontiere del Regno, e trovatolo a Grottamare ed espressi i sentimenti dei Napoletani, il Re rispose:

«Essere gratissimo ai Napoletani dei sentimenti benevoli, che per mezzo della Deputazione gli dimostravano. Una cosa egli potere promettere, ed era, che sarebbe sino alla fine rimasto fedele alla causa italiana. per la quale aveva lavoralo tutta la sua vita, desideroso quanto ogni altro cittadino della indipendenza e della libertà italiana. Egli non avere ambizioni, non volere nulla per sè, ma volere ad ogni modo compiere i voti dei popoli italiani. Sapere essere una risoluzione ardita quella, che per soddisfare gli espressi voti dei Napoletani aveva dovuto prendere d'entrare nel regno; ma volerlo la salute dell'Italia, la necessità di raggrupparne ed ordinarne le forze, giacche egli amava meno di chi si sia i raggiri della politica, ma amava più di chi si sia i benefizii dell'ordine. Se gl'Italiani avevano fiducia in lui, egli non ne aveva meno in loro. Averli visti ormai tutti alla prova, e trovatigli tutti del pari bravi e valorosi. I Lombardi essersi mostrati di un eroico coraggio e non da meno dei suoi vecchi Piemontesi; i Toscani aver fatto prove di valore senza pari nell'ultima campagna delle Marche; i Romagnoli avere confermata l'antica loro riputazione di bravura, ed i Napoletani — «gli ho veduti combattere al mio fianco nel 1848 a Goito: quali soldati si avrebbero potuto condurre meglio di quello, ch'essi fecero allora?.»

Con prudenza, concordia ed ordine il voto del popolo italiano sarebbe pago. Quanto a lui sapere di avere molti nemici in Europa, e che a parecchi avrebbe potuto essere cagione di nuove inimicizie il partito, al quale si era dovuto appigliare. Ma egli aveva promesso. che mai si sarebbe arretrato avanti a nessuno impedimento per giungere a soddisfare il giusto desiderio degl'Italiani… L'amore dei popoli essere tutta la sua politica, e la sua unica contentezza quella di vedere persone felici e liete d'intorno a sé... Essersi egli persuaso, che la verità e la lealtà sono le migliori delle politiche; e la migliore delle furberie il non essere punto furbi.

Ed il giorno 16 ottobre 1860 egli oltrepassò le frontiere ricevuto dal Governatore Virgilii alla testa di Deputazioni di Abruzzesi; le popolazioni lo acclamavano, e lo festeggiavano lungo la strada, che per correva.

Frattanto il giorno 21 si approssimava, ed i necessarii preparativi precedevano l'atto solenne della espressione sovrana della volontà nazionale. Nella vasta Napoli ove alberga un popolo, ch'educato al dispotismo, ignora i più semplici concetti della politica, si credè necessario istruirlo anticipatamente sulla importanza ed il significato dell'atto, che doveva emettere. Ciascuno dei 12 quartieri della Città fu diviso in rioni, e ad ogni rione fu destinata una Commessione nominata dal Municipio, la quale ebbe incarico di compiere per mezzo dei suoi membri il giro di tutte le abitazioni del proprio rione, e raccorre le singole volontà degli abitanti di concorrere oppur no al plebiscito. Le Commessioni avevano principalmente la missione di fare comprendere al popolo l'indole e la importanza dell'atto, cui era chiamato; spiegare soprattutto, ch'esso era essenzialmente libero e spontaneo, che chi voleva astenersi era padrone, e che il voto essendo segreto, ciascuno poteva votare pel sì o pel no senzaché altri il sapesse. E questa missione fu esattamente adempita, e le Commessioni ebbero a rimanere meravigliate del buon senso, che trovarono nel nostro popolo e massime nelle donne. ()

Sin dal 15 ottobre, con un Decreto datato da S. Angelo, Garibaldi aveva detto:

«Per adempiere ad un voto indisputabilmeule caro alla nazione intiera,

«Decreto,

«Che le Due Sicilie, le quali al sangue italiano devono il loro riscatto, e che mi elessero liberamente a Dittatore, fanno parte integrante dell'Italia una ed indivisibile con suo Re costituzionale Vittorio Emmanuele ed i suoi discendenti.

«Io deporrò nelle mani del Re al suo arrivo la dittatura conferitami dalla Nazione.

«I prodittatori sono incaricati dell'esecuzione del presente decreto.»

Il Giornale Uffiziale nel pubblicare codesto decreto ebbe cura di osservare, esso non innovar nulla sullo stato delle cose, rimaner ferma pel 21 di ottobre la manifestazione della volontà nazionale, ed altro non essere quel decreto, che la solenne manifestazione del voto del Dittatore.

E difatti il 21 ottobre il popolo si raccolse in comizii, e quella funzione fu imponente e solenne. In Napoli la votazione durò dalle 8 a m. sino alle ore inoltrate della sera, e le urne non poterono essere suggellate, che dopo la mezzanotte, e recate sotto scorta di Guardia Nazionale nell'uffizio centrale del Municipio Napoletano. L'affluenza del popolo fu straordinaria. Si desiderava in Napoli di dare maggiore imponenza a quell'atto di sovranità popolare facendo suonar le campane, che fossero quasi conte la voce di Dio, che parlasse nel cuore di ogni cittadino nel momento, in cui andava ad esercitare la più bella delle prerogative, di cui il Creatore ha dotalo l'uomo, la ragione, applicata alla base fondamentale dell'ordine sociale. Ma il Cle ro si ricusò, e non per questo fu menomato il significato morale e politico di quell'atto. Il segreto disparve dalla votazione; torme di popolani, presi da entusiasmo, si presentavano proclamando Vittorio Emmanuele, e chiedendo ove si dovesse andare per pronunziare il Sì, che il loro cuore metteva sulle loro labbra prima che la loro mano lo riponesse nell'urna. Questa non è un'esagerazione; io come membro della Commessione di uno dei più popolati quartieri di Napoli ho assistito alla votazione dal principio alla fine; ebbene io rendo esattamente quello, che ho veduto, e sia pur stato, come si pretende, l'eccitamento della fervida immaginativa e dello squisito sentire di un popolo vesuviano, il fatto, che attesto è esattamente vero. Si videro degli uomini decrepiti, degli ammalati, degli storpii farsi condurre al luogo della votazione per deporre il loro nell'urna; ed è indubitato, che senza tener ragione della prima volta, che il Re fu in Napoli, quando una pioggia dirottissima impedì. o attenuò di molto ogni dimostrazione popolare, nella sua seconda venuta, seguita circa 18 mesi dopo del Plebiscito, l'accoglienza entusiastica, che il popolo di ogni ordine o di ogni classe gli fece, diè a divedere, che i sentimenti, che determinarono il risultamento del Plebiscito, furono ben altro che passaggieri.

A 3 di novembre 1860 la Corte Suprema di Giustizia proclamò il risultamento del voto. — I votanti erano stati 1,312,376; di questi votarono pel 1,302,064; votarono pel no 10,312, vale a dire, che sopra 1000 volanti meno di 8 votarono pel no. Si dirà forse, che ciò prova l'intimidazione? Noi vi abbiamo già risposto parlando della votazione nell'Emilia e nella Toscana. Gli elettori inscritti furono 1,409,364 su di una popolazione di 6,843,335; se n'erano quindi astenuti 96,988. Fra astenenti e negativi ve ne furono dunque 107 mila, e questa cifra basta a dinotare, che chi volle astenersi o essere negativo potè farlo liberamente.

Nel contempo il Re proseguiva il suo viaggio verso Napoli, e la sua armata si avanzava per attaccare i Borbonici.

Sin dal 2 di ottobre Cialdini telegrafava da Isernia a Garibaldi:

«Spinga pure la di lei colonna domani all'alba verso Boiano: dal canto mio manderò una riconoscenza fin oltre Pettoranello. Non più lontano, perché ho le truppe stanche. Il generale borbonico Scotti volle prevenirmi questa mattina al Macerone con cinque o seimila uomini. Ho fatto prigioniero lui, 50 ufficiali, 7 in 800 soldati (la maggior parte del 1.° di linea), una sezione di artiglieria ed una bandiera. Il resto fu disperso sino al Ponte del Volturno verso Venafro.

«Trasmessa la notizia in Napoli.

«Faccia pubblicare, che fucilo tutti i paesani armati, che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe.

«Oggi ho cominciato.

«Domani all'alba farò partire la colonna da qui.»

MINGHETTI

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

ENTRATA DI GARIBALDI IN NAPOLI (7 SETTEMBRE 1860)

Alcuni giorni dopo di questo dispaccio le truppe piemontesi s'incontravano colle borboniche tra Cascano e Sessa poco lungi da Bellona, villaggio sito sulla riva destra del Volturno alle falde del Monte Pioppitella; si disse allora essere i Piemontesi 8000, i borbonici 23, 000, ma queste cifre non hanno nulla di officiale; una corrispondenza da Gaeta del 26 ottobre diceva, che il 25 erano state mandati a Sessa 20 mila uomini, ed il combattimento essendo seguilo nel di seguente, è probabile, che queste siano state le truppe venute alle mani coi Piemontesi. In ogni mode le truppe borboniche furono disfatte, e lo furono nuovamente il 2 di novembre al Garigliano, tuttoché fossero di numero sei volte maggiore, solidamente trincerate nella formidabile posizione di Mola, fortissima per natura ed arte (), sì che il generale Fanti s'impadronì di Mola di Gaeta e di Castellone, potentemente coadiuvato dalla flotta. Per l'impeto dell'attacco furono leggiere le perdite dei Piemontesi, comunque ebbero a sormontare colla baionetta le successive barricate e prendere d'assalto l'entrata del paese. Alcuni pezzi di artiglieria e molti prigionieri rimasero in potere del vincitore; dei rimanenti parte furono spinti verso Gaeta e parte verso Itri.

Verso questa 2a città il 5 di novembre il generale de'  Sonnaz moveva colla sua divisione per inseguire ed attaccare la colonna napoletana. Il 6 il generale piemontese era in Fondi colla precisa intenzione di attaccare le truppe napoletane ovunque le avesse raggiunte e quale ne fosse la forza. Spedì quindi due squadroni di cavalleria verso Terracina, e seppe la strada essere sgombrata, e 12 mila e più uomini essersi rifugiati nelle provincie pontificie; sventolare sulla città bandiera bianca. E difatti poco da poi giungeva al quartiere generale in Fondi un parlamentare con invito al generale de'  Sonnaz di recarsi in Terracina per ricevere la proposta di capitolazione delle truppe napoletane. Ed il generale accompagnato da un aiutante di campo vi si recava in carrozza di posta. Vi trovò il generale Ruggiero comandante in capo il corpo d'armata napoletana riunito in Terracina ed un capitano di stato maggiore francese aiutante di campo del generale Govon. Aperte le trattative de'  Sonnaz offri a quelle truppe di entrare a far parte dell'armata italiana sotto larghe condizioni, ma esse pretesero doversi comprendere gli stranieri, e doversi concedere agli uffiziali 15 giorni di tempo per decidersi. Il generale piemontese ricusò ed uscì, ed immantinenti il generale napoletano firmava e rimetteva al capitano francese un atto, dice il ripetuto generale de'  Sonnaz nella sua relazione, che seguiamo, «un atto indegno di uomo italiano col quale formalmente si impegnava di far marciare nella giornata stessa alla volta di Velletri le sue truppe, ed ivi deporre «le armi tra le mani delle autorità francesi o pontificie.»

«Appena ebbi conoscenza, prosegue il generale, di tale ignominia, partii immediatamente ed andai a render conto dell'avvenimento al quartiere generale principale».

Posteriormente gli uomini furono consegnati, ma le armi rimasero in discussione.

Nello stesso giorno, in cui seguiva il combattimento del Garigliano, Capua capitolava dopo di essere stata bombardata. Alle 3 p. m. del 1° novembre scendeva dal Monte S. Angelo il Generale Garibaldi acclamato da tutti colle grida — Viva il nostro Papà Garibaldi! — Alle 4 sotto il comando del Re ed alla presenza del Generale della Rocca cominciò il bombardamento. Il giorno 2 la piazza capitolava. Il Generale della Rocca accordava gli onori militari alla guarnigione, che andava a deporre le armi sugli spaldi della Porta di Napoli. — «Le truppe tutte, diceva il Generale nel suo dispaccio a Cavour, tanto del mio corpo di armata che del Dittatore Generale Garibaldi meritano i maggiori onori.» — Si ebbero 10500 prigionieri con se; Generali, 290 cannoni in bronzo, 160 affusti, 20090 fucili, 10000 sciabole, 80 carri, 240 metri di ponte, 500 cavalli e muli, altre munizioni di ogni genere e grandi magazzini di vestiario. Il bombardamento aveva prodotto relativamente pochi danni. Un solo ragazzo era morto, due o tre case di particolari erano state guaste, era stata danneggiata pure la Sacrestia del Duomo. Il 3 di novembre il Generale della Rocca scriveva dal Quartiere generale di S. Maria al Dittatore Generale Garibaldi in Caserta la seguente lettera:

«Il Re Vittorio Emmanuele con un telegramma inviatomi questa notte m'incarica di esternare l'alta sua soddisfazione alle truppe comandate dall'E. V.

«Io sono lietissimo di essere prescelto a portare a conoscenza dell'E. V. tali sovrani sentimenti, e sono tanto più lieto quantochè fui in questi pochi giorni testimonio dell'eccellente spirito militare, che regna nell'esercito meridionale.

«Il pronto successo ottenuto si deve in gran parte alla coraggiosa longanime operosità di un esercito, che perseverando nel combattere giornalmente le forze nemiche, le prostrava in modo da farle cedere al primo urto.

«Debbo poi personalmente ringraziare l'E. V. per la cordiale ed efficacissima cooperazione prestatami in questa circostanza dai suoi generali e dalle sue truppe.

«Spero, che le buone relazioni tra i due eserciti si faranno ogni giorno più intime. La concordia di tutti gl'Italiani è l'arma più sicura del trionfo della causa nazionale.»

Cosi cadeva il primo dei due baluardi, ch'eran rifugio dell'espulso Principe. Ora convien narrare del viaggio del Re. Egli il 26 di ottobre trovavasi alla testa di quattro divisioni a Monte Croce. Ivi s'incontrò col Dittatore e passò in rassegna parte dell'esercito meridionale; la sera S. M. era a Teano, il Dittatore a Calvi; il Re prosegui il suo viaggio pel campo di Sessa, ove ricevé il Prodittatore Marchese Pallavicino ed i Ministri, che gli recarono il risultamento del Plebiscito. Il giorno 7 di novembre il Re entrò in Napoli, dopo di essersi trattenuto in Caserta, e si disse di essere stato dal Municipio pregato di ritardare di qualche giorno la sua venuta, onde si avesse il tempo di compiere i grandi preparativi del ricevimento. E difatti questi preparativi, su larga scala grandiosi, non furono del tutto compiuti, anche a causa del tempo, che si serbò pessimo; nondimeno, non ostante la pioggia dirottissima, immensa fu la popolazione, che accorse, e che si affollava per le strade e sui balconi. Il Re in carrozza aperta avendo con sé il Generale Garibaldi ed il Prodittatore Pallavicino, si condusse dalla Stazione al Duomo, d'onde per la strada Toledo si recò a Palazzo; indi seguiva numerosissimo ricevimento. Nobili furono le parole, che il Re disse al Corpo Universitario: — «So quanto ingegno e quanti studii abbiano sempre fiorito in questa parte meridionale d'Italia, non ostante che siano stati contrariati dal passato governo. Conosco altresì, che i giovani qui sono ardenti, e promettono di avanzare la gloria del paese.»

Ed al Vicepresidente, che osservava, essere stato qui il sapere individuale ed essere mestieri, che ora scendesse ad illuminare le classi inferiori, il Re visibilmente commosso, rispose: — Sì, è indispensabile, che ciò avvenga, e che l'istruzione si diffonda fino alle ultime classi della società.».

La sera nel Teatro S. Carlo gli applausi furono entusiastici e ripetuti. E per verità Napoli dopo di aver tanto sofferto, tanto temuto, e tanto speralo, vedeva alla pur fine un Re, ch'ella stessa aveva prescelto.

Il real manifesto diceva:

«Ai Popoli Napolitani e Siciliani.»

«Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili provincie.

«Accetto quest'altro Decreto della volontà nazionale non per ambizione di regno ma per coscienza d'Italiano.

«Crescono i miei, crescono i doveri di lutti gl'Italiani. Sono più che mai necessarie la sincera concordia e la costante annegazione. Tutti i partiti debbono inchinarsi divoti dinanzi alla Maestà dell'Italia, che Dio solleva.

«Qua dobbiamo instaurare governo, che dia guarentigia di viver libero ai popoli e di severa probità alla pubblica opinione. Io faccio assegnamento sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge ha freno il potere e presidio la libertà, ivi il governo tanto può pel pubblico bene, quanto il popol o vale per la virtù.

«All'Europa dobbiamo addimostrare, che se l'irresistibile forza degli eventi superò le convenzioni fondate nelle secolari sventure d'Italia, noi sappiamo ristorare nella nazione unita l'impero di quegl’immutabili donami, senza dei quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta ed incerta.

«VITTORIO DIMMELE.»

La mattina seguente alle ore 11 a. m. il Re nella gran sala del Trono, circondato dai grandi dignitari della Corona, dal suo Stato maggiore, e dal cavaliere Farini suo Ministro di Stato, riceveva il Dittatore Garibaldi ed il Ministero della Dittatura. Il Dittatore si avanzava verso del Trono, ed il Ministro dell'Interno e della Polizia signor Conforti pronunziava le seguenti parole:

«Sire;

«Il popolo napolitano raccolto nei Comizii ad immensa maggioranza vi ha proclamato suo Re. Nove milioni d'Italiani si uniscono alle altre provincie rette dalla Maestà vostra con tanta sapienza, e verificano la vostra solenne promessa, che l'Italia dev'essere degli Italiani.»

Al che il Re rispose con altre brevi, nobilissiine, ed italianissime parole. Quindi venne rogato nelle debite forme l'atto solenne dell'unione. Allora il Prodittatore e tutti i Ministri coi Direttori rassegnarono nelle mani del Re i loro poteri. Il Dittatore lo aveva già:fallo precedentemente.

Lo stesso di 8 veniva pubblicato il seguente decreto «In nome di S. M. Vittorio Emmanuele Re d'Italia. «Considerando, che la Guardia Nazionale di que ste provincie ha reso segnalati servigi al paese durante la Dittatura del generale Garibaldi, il governo

«Decreta

«Art.1. La Guardia Nazionale ha ben meritato della patria.

Ed eran firmati — Pallavicino, Conforti, Cosenz, de'  Sanctis, Coppola, Scura.

Fu questo l'ultimo decreto della cessata amministrazione dittatoriale, ed esso espresse realmente un sentimento dei Napoletani.

La nuova amministrazione italiana impiantavasi mercé un decreto organico, che il Re: sin dal giorno 6 aveva sottoscritto in Sesso.

Un luogotenente generale nominato dal re era incaricato di reggere e governare queste provincie in nome del re, ed alla sua immediazione, allorché egli vi sarà presente.

Egli era inoltre autorizzato ad emanare sin che il parlamento fosse adunato ogni specie di atti occorrenti a stabilire e coordinare l'unione delle suddette provincie col resto della monarchia, ed a provvedere ai loro straordinarii bisogni.

Agli Affari Esteri, alla Guerra, ed alla Marina sarebbe stato direttamente provveduto dal governo centrale. Però a quella parte degli Affari Esteri, che concerne gl'interessi internazionali dei privati, sarebbe stato provveduto dal luogotenente generale.

Con quello stesso decreto il cavaliere Farini era nominato Luogotenente generale.

Questo decreto fu pubblicato immediatamente, ed il Farini con un suo decreto del giorno 8 istituiva un consiglio di luogotenenza composto di consiglieri incaricati di uno o più dicasteri, e di non più di tre consiglieri senza incarico di dicasteri. Il consiglio avrebbe avuto un segretario. Un altro decreto di quella medesima data istituiva un dicastero di Agricoltura e Commercio. Così i dicasteri giunsero a sei; 1. Interno e Polizia; 2. Grazia, Giustizia ed Affari Ecclesiastici; 3. Finanze; 4. Istruzione Pubblica; 5. Lavori Pubblici; 6. Agricoltura e Commercio.

E tale decreto segui immediatamente una relazione del luogotenente generale al re, ch'era il programma della sua amministrazione. Il cavaliere Farini comincia dal dichiarare, ch'egli prenderà per guida le massime espresse dal re nei suoi manifesti ed avrà ad esempio i modi di governo con tanto generale plauso seguiti nelle antiche provincie. Disse come conoscessero già gl'Italiani quale sia l'esercizio di quell'autorità, che s'intitola nel nome di Vittorio Emmanuele; essa chiama in aiuto la libertà e la civiltà, perché la patria nostra tanto più presto sarà prospera e forte quanto maggiore sarà il progresso morale e sociale del popolo. Essa è sollecita dell'istruzione e dell'educazione religiosa del detto popolo, non che degl'incrementi dell'industria e dei traffici. Essa fa opera costante per rinnovare in tutta l'Italia la tradizione e vivificare lo spirito militare, che non è soltanto un elemento di forza, ma si ancora d'educazione morale, perché tempra le nazioni alla virtù della disciplina ed al culto del dovere.

Ma l'ordinamento di un governo liberale e civile non basta agl'Italiani, imperocché essi debbono inoltre consociare in unità di stato le sparse membra della comune famiglia.

La vita italiana fu lungamente divisa, e creò tradizioni ed interessi speciali. Essi debbono essere rispettati in tutto ciò, che non offende ne debilita l'unità.

L'Italia sa di non potere trovar pace e prosperità, se non sia unita sotto la dinastia sabauda: ma essa è da un provvido istinto avvertita di conservare come una guarentigia di civiltà e di libertà contro le usurpazioni di una centralità soverchia il tradizionale sviluppo della vita locale.

Questo duplice intento della politica italiana in nessuna parte si mostra cosi spiccante come nelle provincie napoletane, si che appare manifesto, che se il governo, che s'instaura nel nome e per l'autorità del re deve pigliare l'indrizzo da sommi principii, ai quali s'informa il suo principato civile, l'assetto terminativo di queste provincie nell'ordinamento generale d'Italia appartiene di dritto alle decisioni ed alle deliberazioni di quel parlamento, che rappresenterà la nazione. Nè sarà difficile alla intelligenza ed al senno pratico degl'Italiani il costituire ordini, pei quali le grandi provincie d'Italia rimangano libere di amministrare i particolari interessi loro, pur conservandosi strettamente collegate nella forte rappresentanza dello Stato. Però questa è l'opera riserbata al parlamento, e che il solo parlamento può compiere.

Intanto l'autorità luogotenenziale sarà esercitata nell'intendimento di compiere le preparazioni necessarie onde queste provincie sieno nel più breve tempo possibile convenientemente ordinate per l'atto solenne delle elezioni; di rassodare l'ordine morale e materiale, scosso meno dalle mutazioni politiche, che dell'opera corrompitrice della caduta signoria, e saran sicurtà di giusto ed onesto governo quelle guarentigie di pubblicità e di libertà, che non tolgono ma accrescono forza ad un'amministrazione riparatrice. Grandi essere i bisogni di un paese, ove gli stessi materiali interessi vennero negletti per avere balla maggiore di impedire lo sviluppo intellettuale e morale. Ad alcuni di essi si potrà riparare prontamente; altri benefizii bisognerà attenderli dallo sviluppo spontaneo delle nuove istituzioni, dalla libertà, dalla virtù operosa dei popoli. Saran tosto studiati i disegni delle grandi opere pubbliche e delle strade, ed i modi, pei quali va riformata la pubblica istruzione popolare. Sarà volto il pensiero alla pubblica beneficenza, che non è degna di questo nome, se non dispensa al povero insieme col pane l'educazione morale ed il sentimento dell'umana dignità.

«Io non sarei, dice il cavaliere Farini, il degno interprete delle intenzioni di V. M. se nel rispetto di tutte le coscienze e di tutte le oneste opinioni non informassi il mio governo a quello spirito di concordia, che a nessuno può essere più caro, che a Voi, o Sire, che siete il simbolo della concordia italiana.»

Ed ebbe questa relazione l'approvazione del Re.

Al marchese Pallavicino dovevasi principalmente, se delle triste complicazioni non erano venute a turbare il felice compimento dei sorprendenti mutamenti italiani; epperò degli attestati di riconoscenza erano un debito del governo e della nazione, per lo ché egli già insignito dell'Ordine della SS. Annunziata e nominato Senatore del Regno ricevé dal ripetuto cavaliere Farini colla data del 9 novembre 1860 la seguente lettera:

«Eccellenza;

«La virtù dell'animo e la fermezza dei propositi con cui Ella rimuovendo gravi ostacoli secondava l'ardente desiderio, che avevano queste popolazioni di pronunziare il voto di unione alla rimanente Italia, hanno avuto ed avranno gran parte al finale compimento di questa meravigliosa impresa. L'Italia ne serberà grata memoria, ed io son lieto di significarle in nome del Re l'alta sua soddisfazione per ciò, che Ella ha con tanto zelo ed affetto operato a pro della patria comune.

«Ella si compiacerà altresì di esprimere a nome di S. M. simili sensi ai Ministri della Dittatura per la parte, che loro spetta nello avere cooperato coll'Eccellenza Vostra al conseguimento del lodevole fine, che ora è raggiunto coll'universale compiacimento dell'intera Nazione.

«È per me una buona ventura quella di farmi interprete dei sentimenti di S. M. e di aggiungerle l'espressione della particolare mia stima ed osservanza.» Garibaldi ringraziò il Re del grado di Maresciallo, suprema dignità militare, che sarebbe stata creata appositamente per lui, e del gran Cordone dell'Annunziata; e non ostante le istanze fattegli dallo stesso Re la notte dell'8 a 19 novembre abbandonò Napoli, e sul vapore il Washington si diresse a Caprera. La mattina leggevasi affisso sulle mura della Città il seguente addio:

«Ai miei compagni d'armi.

«Penultima tappa del risorgimento nostro noi dobbiamo considerare il periodo, che sta per finire e prepararci ad ultimare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il di cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.

«Sì, giovani! L'Italia deve a voi una impresa, che meritò il plauso del Mondo.

«Voi vinceste; — e voi vincerete — perché voi siete ormai fatti alla tattica, che decide delle battaglie.»

«Voi non siete degeneri da coloro, che entravano nel fitto profondo delle falangi macedoniche e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell'Asia.. «A questa pagina stupenda dell'Istoria del nostro paese ne seguirà una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruotato, che appartenne agli anelli delle sue catene.

«Allarmi tutti! — tutti; e gli oppressori — i prepotenti sfumeranno come la polvere.

«Voi, donne, rigettate lontani i codardi — essi non vi daranno che codardi — e voi, figlie della terra della bellezza, volete prole prode e generosa.

«Che i paurosi dottrinarii se ne vadano a trascinare altrove il loro servilismo, le loro miserie.

«Questo popolo è padrone di sé. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi colla fronte alta, non arrampicarsi, mendicando la sua libertà — egli non vuoi essere a rimorchio d'uomini a cuore di fango. No! No! No!

«La Provvidenza fece il dono all'Italia di Vittorio Emmanuele. Ogni Italiano deve rannodarsi a lui — serrarsi intorno a lui. Accanto al Re galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi I Anche una volta io vi ripeto il mio grido: all'armi tutti! tutti! Se il marzo del 61 non trova un milione d'Italiani armati, povera libertà, povera vita italiana... Oh! no: lungi da me un pensiero, che mi ripugna come un veleno. Il Marzo del 61, e se fa bisogno il febbraio, vi troverà tutti al vostro posto.

«Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di Castelfidardo, d'Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non codardo, non servile, tutti serrati attorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l'ultima scossa, l'ultimo colpo alla crollante tirannide!

«Accogliete, giovani volontarii, resto onorato di dieci battaglie, una parola di Addio! Io ve la mando commosso d'affetto dal profondo della mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L'ora della pugna mi ritroverà con voi ancora — accanto ai soldati della libertà italiana.

«Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati dai doveri imperiosi di famiglia, e coloro, che gloriosamente mutilati, hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno ancora nei loro focolari col consiglio e coll'aspetto delle nobili cicatrici, che decorano la loro maschia fronte di venti anni; all'infuori di questi, gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.

«Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero, noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.

«Napoli 8 novembre 1860.

«G. GARIBALDI.»

L'Opinione di Torino, giornale allora semiofficiale pubblicò un articolo, che diceva:

«Alcuni giornali elevano dei dubbii intorno ad un fatto narrato dal Movimento e più lungamente dal Journal des Dèbats, che cioè il Generale Garibaldi avrebbe per rimanere in Napoli posta a S. M. il Re la condizione, che gli venisse accordata la Luogotenenza Generale delle Due Sicilie con pieni poteri civili e militari per un intiero anno.»

«Noi crediamo di potere assicurare, che il fatto è esattissimo. Se la domanda del Generale non ha potuto essere da S. M. ssecondata, lo si deve al profondo rispetto, che il Re in ogni occasione conserva agli ordini costituzionali, ai quali partecipano ora anche le provincie meridionali.»

E difatti ciò importava prolungare per un altro intiero anno la Dittatura, e ritornare nella fase, dalla quale si era usciti.

Si provvide frattanto ai garibaldini, che volessero rientrare nelle loro famiglie, ed il generale Della Rocca partecipò al generale Sirtori avere S. M. determinato, che i sottouffiziali, caporali, e soldati dell'esercito meridionale, che rientrassero nelle loro famiglie, riceverebbero la indennità di un semestre di paga invece di un trimestre, coni era dichiarato in un Ordine precedente. Fu inoltre invitato lo stesso generale Sirtori a fare le proposte per ricompensare mediante medaglie al valor militare e decorazioni dell'ordine militare di Savoia a quelli fra gli uffiziali di ogni grado, sottouffiziali, caporali, e soldati, ell'ebbero occasione di maggiormente distinguersi nelle diverse fazioni dell'ultima guerra. Mille e dieci garibaldini prigionieri a Gaeta furono restituiti contro altrettanti borbonici; il loro stato era miserevole; erano stati trattati inumanamente in disprezzo della carità e della civiltà dei tempi. Comunque debbasi tener conto delle privazioni e dei bisogni di una piazza assediata, pure quei miseri soffrirono molto al di là dei limiti, che queste circostanze imponevano.

Un decreto del di 11 di novembre provvide al riordinamento dei volontarii tuttavia sotto le armi. Essi formavano un corpo separato dall'esercito regolare. La durata della ferma della bassa forza era di due anni; gli uffiziali avevano la speciale loro scala di anzianità e di avanzamento. I vantaggi e gli obblighi dei soldati e degli uffiziali erano del tutto pareggiati a quelli dell'esercito regolare. Una commessione mista avrebbe determinato i gradi e l'anzianità degli ufficiali del corpo dei volontarii avuto riguardo ai servigi da loro resi ed a loro precedenti. Il governo si riserbava di fare passare nell'esercito regolare uffiziali del corpo dei volontarii in modo da rispettare i dritti acquistati dagli uffiziali dell'esercito regolare. Non rimanevano dispensati degli obblighi civili e militari, che i volontarii potessero avere verso lo Stato.

Tali furono i provvedimenti, che per lo momento si presero per l'esercito meridionale. Questo esercito, al quale l'Italia indubitatamente deve moltissimo, ebbe però una pessima amministrazione. Dallo sbarco a Marsala sino a novembre 1860 la spesa era ascesa a duc. 6,140,000, pari a lire 26,095,000. Sotto il rapporto dell'obietto conseguito questa cifra è una frazione infinitesimale; sotto il rapporto amministrativo è eccessiva.

Anche la Guardia Nazionale ebbe la sua parte nelle lodi e nei ringraziamenti del re. Un nunzio diretto dal luogotenente generale al comandante in capo della detta Guardia espresse, come il re appena entrato in queste provincie udisse da ogni parte i maggiori elogi della guardia nazionale, e come egli stesso vedesse in qual modo per l'opera di lei sia stato difeso l'ordine pubblico e guarentita la libera manifestazione dei voti del popolo. Che giunto quindi il re in Napoli ebbe a persuadersi con suo grandissimo compiacimento quanto grandi fossero qui stati i meriti delle armi cittadine, provvedendo esse sole per più mesi alla mancanza di ogni forza pubblica, e grandemente contribuendo a che una grave crisi politica fosse superata in un gran centro di popolazione senz'alcun disordine o scompiglio. Per lo che manifestava il luogotenente al generale la soddisfazione e la riconoscenza del re per gl'infaticabili ed importanti servigi resi dalle milizie cittadine.

Ma un provvedimento importante ebbe luogo per la città di Napoli. I Napoletani pagavano sul grano, il granone, la farina, il fiore, il pane le paste ed altre derrate, di cui il popolo minuto principalmente si alimenta, dal 10 al 20 per % del loro valore nominale. Questa imposizione dava in termine medio circa ducati 630 mila all'anno, cioè più di carlini 15 a testa, e quindi circa due.8 per ogni famiglia ritenuta ciascuna di 5 individui. E poiché delle derrate gravate usa maggiormente la povera gente, cosi quella proporzione diveniva maggiore per questa.

Nè di questo dazio comunale profittava il comune di Napoli; il dazio si esigeva dal governo, il quale dava al comune in linea di transazione sull'intiero dazio di consumo due.360 mila, più il decimo di sopraimposta, che montava in media a due.150 mila, per modo che il comune riscuoteva su di una imposta, che produceva lordi due.1,680,000 soli due.510 mila.

Ora era chiaro, che ridotta la cifra del dazio a ducati 1,030,000, detraendosi i sopraddetti due.630,000 per dazio sulle materie summentovate, e detraendosi pure il 30 per % per ispese di amministrazione e di esazione, rimanevano netti al comune due.735, vale a dire due.225 mila dippiù di quello che aveva.

In questi sensi fu diretto un rapporto al Luogotenente dai Consiglieri pei Dicasteri delle Finanze e dell'Interno, in seguito del quale venne abolito il dazio di consumo sul grano, granone, farina e fiore di grano, farina di granone, semola, pane e biscotto, paste lavorate, riso, farro, spella, ceci, e fave.

Venne inoltre prescritto di rivedersi le tariffe sui generi diversi dai sopradetti nel duplice scopo di metterle in armonia colla nuova tariffa doganale e di ridurre per quanto fosse possibile i dazii snile materie, che sono più utili alla buona alimentazione del popolo. A qual effetto i Consiglieri per l'Interno e per le Finanze si sarebbero messi di accordo col Municipio di Napoli.

La riscossione dei dazii di consumo sarebbe stata fatta dal Governo per conto della Città di Napoli; più tardi la riscossione fu intieramente restituita al Comune.

In siffatto modo mentre si alleviava del dazio la classe meno agiata della popolazione, si accresceva di quasi il 50 per 100 i proventi, che il Municipio ritraeva dal dazio comunale.

Inoltre il Re colla data de'  14 di novembre dirigeva al Luogotenente Generale la seguente lettera:

«Mio caro Farini;

 «Giunto in questa città, volli essere informato intorno alle condizioni ed ai bisogni delle classi meno fortunate, e fui dolorosamente commosso nel sapere come sieno stati finora poco curati gl'Istituti d'educazione popolare.

 «L'istruzione, l'educazione religiosa e civile del popolo furono l'assiduo pensiero del mio regno. Io so, che per essa si aumenta l'operosità e la moralità di tutta la nazione. Le istituzioni liberali largite da Mio Padre, e da Me custodite, per essere utili a tutti, devono essere intese da tutti e far del bene a tutti.

«Sono sicuro, ch'Ella sarà interprete fedele delle mie intenzioni. Ma all'incremento dell'educazione popolare, che mi sta tanto a cuore, voglio io stesso concorrere personalmente.

«Per questi motivi dispongo, che dalla mia borsa particolare sia presa la somma di 200 mila lire italiane da distribuirsi in questa beneficenza delle menti e degli animi.

«Nell'impiego di questa somma Ella vorrà avere presente il vantaggio, che deriva in una grande città dalla istituzione degli asili popolari per l'infanzia.

«Ella darà inoltre le opportune disposizioni, perché anche nelle Provincie sia studiato il grave argomento della educazione del popolo. Desidero, che i rappresentanti del Governo, le autorità municipali, le associazioni cittadine siano per opera sua incoraggiate ed aiutate nel promuovere quest'opera di progresso cristiano e civile, alla quale e come nomini e come governanti dobbiamo ogni più sollecita cura.

«VITTORIO DIMMELE.»


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CAPITOLO XXVI

Votazione nell'Umbria e nelle Marche — Il Re in Sicilia —

Resa di Gaeta — Il Parlamento Nazionale.

SOMMARIO

Votazione nell'Umbria e nelle Marche — Ricevimento delle rispettive Deputazioni — Consiglio di Stato in Sicilia — Deputazione Siciliana al Re — Il Re in Palermo — Suo proclama — Soccorso del Re all'istruzione popolare — Decreti per le annessioni di Napoli, Sicilia, Umbria, e le Marche — Partenza del Re da Napoli — La Camera dei Deputati è disciolta — Convocazione dei Collegi elettorali — Dimessione di Farini — Il Principe di Carignano Luogotenente. Suo proclama — Dimessione dei Consiglieri di Luogotenenza — Elezioni dei Deputati — Nomine dei Senatori — Decreto pel Corpo dei volontarii meridionali — Operazioni di Gaeta — Promesse di Francesco r ai Siciliani — Truppe discacciate da Gaeta — Bombardamento — Cortesi esibizioni di Cialdini — Partenza della squadra francese — Resa e Capitolazione di Gaeta — Il Parlamento Nazionale — La redenzione dell'Italia è compiuta — Considerazioni politiche — Lettera del Re a Francesco 2° — Dispaccio di Francesco 2° agli Agenti Diplomatici — Lettera di Garibaldi ai Napoletani — Articolo di Lemoine.

 La votazione nell'Umbria e nelle Marche era riuscita come da per ogni dove; nelle Marche si erano avuti 138,785 voti affermativi contro 1212 voti negativi, e nell'Umbria vi erano stati 97010 voti affermativi contro 380 voti negativi, sì che il 22 di novembre 1860 il Cavaliere Valerio Commessario Generale delle Provincie delle Marche ed il marchese Pepoli Commessario Generale per le Provincie dell'Umbria insieme alle rispettive Deputazioni venivano in solenne udienza ricevuti dal Re, e presentavano lo spoglio delle due votazioni eseguite in Ancona ed in Perugia. Il Cavaliere Valerio disse:

«Sire, alla vostra corona italica si aggiunge ora una piccola ma preziosa gemma. Le sei Provincie delle Marche col loro milione di abitanti offrono il sangue e gli averi a Voi, per la cui virtù si compone la grande famiglia italiana, di cui vogliono far parte. O Sire! Voi nelle Marche avete operosi cittadini, soldati valorosi, Italiani degni di Vittorio Emmanuele.»

Ed il Marchese Pepoli soggiunse:

«Alla M. V. presento il voto dei popoli dell'Umbria. Essi vogliono appartenere alla gloriosa Vostra Dinastia, nella quale è già identificata l'Italia. Voi troverete sempre i popoli dell'Umbria devoti alla M. V. ed alla Patria.»

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

TOMBA DI CICERONE DEPOSITO DELLE AMBULANZE PIEMONTESI

(assedio di Gaeta)

Ed il Re rispondeva: Ringraziare le Deputazioni delle Marche e dell'Umbria pei voti a lui recati e pei sensi espressigli. La sua vita intiera essere consacrata all'Italia ed alla causa nazionale. Avere vivo desiderio di visitare i paesi ora novellamente congiunti allo Stato. I popoli delle Marche e dell'Umbria avere fatto anch'essi opera di senno e di virtù, dichiarando di voler essere riuniti in un solo grande Stato per formare la Nazione Italiana. Quindi venne redatto il relativo processo verbale, nel quale il Re nell'accettare per sé e pei suoi legittimi discendenti il risulta mento del Plchiscito, esprimeva quanto gli fosse gradito, che col concorso di queste altre ragguardevoli Provincie si costituisse ad unità di Stato la Nazione italiana, e le sorti della patria comune fossero ornai indissolubilmente collegale con quelle della sua casa e strette al medesimo patto di libertà e di fede.

In Sicilia il Prodittatore Mordini con un decreto emanato il 19 di ottobre aveva nominato un Consiglio straordinario di Stato incaricato di studiare ed esporre al Governo quali sarebbero nella costituzione della gran famiglia italiana gli ordini e le istituzioni, su cui convenga portare attenzione, perché rimangano conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell'unità e prosperità nazionale. Nei considerando osservavisi, che una fra le grandi missioni, a cui il Parlamento della Nazione Italiana verrà sollecitamente chiamato, quella sarà di provvedere al migliore assesto delle varie Provincie, di cui essa componesi. — Che può essere sommamente utile lo apparecchiare sin da ora il maggior numero possibile di elementi alle &liberazioni costitutive del Parlamento. — Che a così utile intento possono efficacemente contribuire i lumi di uomini prescelti fra i più capaci del paese ed al paese più noti per il loro affetto verso la patria comune e verso il loro luogo natale. — Che la Sicilia è una fra le parti d'Italia, in cui le condizioni topografiche e storiche presentano taluni caratteri distinti meritevoli di studio particolare.

Ed il Consiglio di Stato emise il suo parere; prescelse un largo sistema regionale con un parlamento per gl'interessi locali, ma ritenne, che le deliberazioni del Parlamento siciliano nelle materie di sua competenza dovessero venire approvate dal Luogotenente, e che in caso di dissenso si appartenesse al Parlamento generale Nazionale di pronunziare sul disparere.

Intanto una Deputazione di Siciliani, composta di cospicui cittadini, e professori di quell'isola, noti tutti per persecuzioni sofferte o per parte attiva presa nella rivoluzione, presentavasi al Re per offrirgli l'omaggio del popolo siciliano ed esprimergli il desiderio di vederlo presto in Sicilia, sottomettendogli un indrizzo coperto da 15mila firme di tutte le classi. Il Principe di S. Elia nell’offrire al Re il volume, che conteneva indrizzo sopradetto dichiarò, che tutti i Siciliani lo avrebbero firmato, come quello, che manifestava un desiderio antico, un desiderio ardente di vedere trionfare anche tra loro una causa, che gli aveva finalmente salvati da una secolare oppressione. Al che il Re rispondeva amorosamente, rilevando come la Sicilia sia un'antica amicizia per la Casa di Savoja, e come il popolo siciliano dal 48 al 60 non aveva mai cessato di mostrarsi coerente a sé stesso.

Il 1° di decembre il Re si recò a Palermo. Un dispaccio del Ministro Cassinis al Luogotenente in Na poli partecipava come il Re fosse stato ricevuto con entusiasmo indescrivibile. Il popolo volle tirare la sua Carrozza, ed ogni opposizione riuscì vana. Una immensa popolazione, accorsa da tutte le parti dell'Isola, ingombrava le piazze e le vie; si calcolava ad oltre 400mila persone. Il Re si recò direttamente al Duomo, ove fu solennemente ricevuto dal Cardinale Arcivescovo; indi andato al Palazzo, ricevé i corpi costituiti e più tardi le Deputazioni dei Municipii dell'Isola. Tutto il popolo era in festa.

«Popoli della Sicilia.» — disse il Re col suo proclama:

«Coll'animo profondamente commosso io metto il piede in quest'isola illustre, che già quasi augurio dei presenti destini d'Italia ebbe per Principe uno degli Avi miei; che ai giorni nostri elesse a suo Re il mio rimpianto fratello; e che oggi mi chiama con unanime suffragio a stendere su di essa i benefizii del vivere libero e dell'unità nazionale.

«Grandi cose in breve volgere di tempo si sono operate; grandi cose rimangono ad operarsi, ma ho fede, che con l'aiuto di Dio e della virtù dei popol i italiani noi condurremo a compimento la magnanima impresa.

«Il governo, che io qui vengo ad istaurare, sarà governo di riparazione e di concordia. Esso, rispettando sinceramente la Religione, manterrà salve le antichissime prerogative, che sono decoro della Chiesa Siciliana e presidio della Podestà civile; fonderà un'amministrazione, la quale ristauri i principii morali di una società bene ordinata, e con incessante progresso economico facendo rifiorire la fertilità del suo suolo, i suoi commerci e l'attività della sua marina, renda a tutti proficui i doni. che la Provvidenza ha largamente profusi sopra questa terra privilegiata.

«Siciliani! a La vostra Storia è Storia di grandi gesta e di generosi ardimenti: ora è tempo per voi come pedata gl'Italiani di mostrare all'Europa, che se sapemmo conquistare col valore l'indipendenza e la libertà, le sappiamo altresì conservare colla unione degli animi e delle civili virtù.

«Palermo 1° decembre 1860.»

E con una lettera poi diretta al Luogotenente di Sicilia il Re, osservando come il favorire e promuovere l'istruzione popolare è fra i primi ed i più essenziali doveri d'ogni civile governo; come nel suo breve soggiorno nell'Isola vide, che se la natura dotò largamente quelle generose popolazioni di svegliato ed acuto ingegno, in essa la istruzione del popolo richiede attenta vigilanza, direzione, soccorso; come ebbe pure a convincersi, che per moltiplici cagioni, fra le quali non ultime le passale vicende politiche, non poche persone trovavansi ridotte a dolorose strettezze; e notando, che a questi bisogni stava provvedendo con lodevole gara la cittadina beneficenza, disse associarsi ad essa. Dava quindi dalla sua cassetta privata 200 mila lire italiane per essere distribuite in aiuto della popolare istruzione, ed in opere di beneficenza, tenendosi special conto delle eccezionali condizioni, in cui versavano alcuni degli istituti pii di Palermo a norma delle istruzioni, che aveva particolarmente manifestate.

Incaricava inoltre il detto Luogotenente di studiare colla massima sollecitudine i più urgenti bisogni di tutte le Provincie dell'Isola e di presentargliene quanto prima un'apposita relazione.

«Egli è difatti, diceva il re, che mediante un'accurata e profonda cognizione dello stato morale ed economico delle provincie stesse; egli è coll'imprimere all'agricoltura, all'industria, al commercio un vigoroso impulso, egli è vivificando in somma tutti i naturali fondi di pubblica e di privata ricchezza onde quest'isola cotanto abbonda, che il mio governo sarà in grado di procurarle insieme ai benefici del vivere libero e dell'Unità nazionale quella ancora della generale prosperità.

«Ella sarà presso i buoni Siciliani, che qui accorrendo da ogni parte in numerose deputazioni mi resero men grave il rammarico di non potere per ora visitare l'isola tutta, interprete dei sentimenti d'affetto, ond'è compreso l'animo mio verso di loro per le commoventi accoglienze, ch'io mi ebbi, e delle quali serberò incancellabile memoria.

«Non dubito infine, ch'ella sarà per fare quanto starà in lei, perchè i sovraccennati miei propositi sortiscano il loro pieno effetto.

Stando il re in Palermo pubblicò nel 3 di decembre la legge delle annessioni, già approvata dal Parlamento Piemontese, e ritornato in Napoli, pubblicò nel 17 dello stesso mese quattro simili decreti, coi quali visto il plebiscito sottoposto al suffragio universale e diretto delle provincie... convocate in comizii il....

Visto il processo verbale di presentazione e di accettazione di tale plebiscito.

Vista la legge del 3 corrente (quella sulle annessioni).

Udito il Consiglio dei Ministri;

Decretava, che le Provincie Napoletane, le Siciliane, quelle delle Marche, e quelle dell'Umbria (ciascuna con separato decreto) fanno parte integrante dello Stato Italiano dalla data di quel decreto; e che l'art. 82 dello statuto, con cui è stabilito, che fino alla prima riunione delle due Camere il Governo prov vederà al pubblico servizio con sovrane disposizioni, sarà applicabile alle provincie suddette sino alla riunione del Parlamento nazionale, fermi rimanendo i poteri prima d'ora da noi conferiti al nostro Luogo tenente generale delle Provincie Napoletane, Siciliane, ecc.

Da molto tempo a provvedere al caro del grano il Municipio dispensava parecchie migliaia di biglietti, pei quali si aveva il pane a prezzo minore del corrente. Nella vigilia e nel giorno di Natale di quell'anno 1860 il Re li fece dispensare gratis pagandone egli l'importo, e due giorni dopo, il 27 di notte, partì da Napoli per la via di terra. Nel suo ritorno ricevé da per tutto gli applausi, che aveva avuto nel venire. Il giorno 29 giungeva a Torino, ed era ricevuto solennemente e tra le acclamazioni universali.

Intanto il 28 la Camera ed il Senato erano stati convocati; sentiva ciascuno di quei due corpi legislativi la relazione delle rispettive Commessioni incaricate di presentare in Napoli al Re il rispettivo indrizzo.

Quindi udivano la lettura del decreto, col quale veni va chiusa la sessione del Senato e della Camera dei Deputati per l'anno 1860. Il giorno seguente pubblicavasi il Decreto di scioglimento della Camera dei Deputati, ed il 3 di gennaio 1861 erano convocati i Collegi elettorali di tutto il Regno pel 27 di quel mese; occorrendo una seconda votazione, essa avrebbe avuto luogo il 3 del seguente febbraio ed il Senato e la Camera dei Deputati erano convocati pel 18 di quel medesimo mese.

Dimessosi il cavaliere Farini, il principe di Carignano fu nominato Luogotenente delle Provincie Napoletane. Giunse in Napoli il 14 di gennaio accompagnato dal cavaliere Nigra segretario di Stato, e vi fu ricevuto cogli onori dovuti al suo rango ed al suo grado. Il suo proclama espose il programma della sua amministrazione.

«Italiani delle Provincie Napolitane;

«Il Re mi affida il governo di questa parte del Regno Italiano.

«Accetto il grave incarico mosso dall'amore della patria, dall'obbedienza al Re, dalla fiducia nella vo stra leale cooperazione.

«Queste Provincie, separate da lungo tempo dal resto d'Italia, manifestarono con unanime suffragio la ferma volontà di far parte indivisibile della patria comune sotto lo scettro costituzionale della Dinastia di Savoia. Spetterà al parlamento di dare l'ultima sanzione all'ordinamento amministrativo del regno italiano, ma intanto è compito nostro spianargli la via primachè esso si raduni, continuando e sollecitando l'applicazione a queste provincie di quelle misure legislative, che non si potrebbero differire senza nuoce re all'unità ed all'assetto costituzionale di tutta la monarchia.

«L'unificazione, in quanto possa essere immediatamente applicabile, sarà dunque il primo concetto, che informerà gli alti del Governo.

« Ma perchè i nuovi ordini possano mettere radice, e perchè il popolo possa provare i benefici effetti di libero reggimento, prima e necessaria condizione è il mantenimento dell'ordine, l'osservanza della legge.

«Il paese può essere convinto, che il Governo non verrà mai a transazione col disordine, e che ogni tentativo d'agitazione illegale sarà prontamente e severa mente represso. Dove non regnano la sicurezza e l'ordine, ivi non può allignare la libertà. Per compiere questa parte principale del mio mandato, faccio assegnamento sul retto senso di tutta la popolazione e più specialmente sul patriottismo della Guardia Nazionale, che già rese grandi servigi al paese, e che sin dai suoi primordii mostrò disciplina e contegno, degni di un popolo, che ha la coscienza dei suoi dritti e dei suoi doveri.

«Per la stretta ed universale esecuzione delle leggi e per la repressione d'ogni loro infrazione io conto in particolar modo sulla cooperazione energica ed imparziale della magistratura, che in ogni paese liberamente ordinato deve essere la fedele custode della legge e l'espressione della pubblica moralità.

«È intenzione del Governo che la Chiesa ed i suoi Ministri siano rispettati, e che nessuno incaglio sia posto al libero esercizio del culto. Ma nel tempo stesso egli si ripromette dal Clero l'obbedienza al Re, allo Statuto ed alle Leggi.

«Il governo volgerà tutta la sua attenzione sulla condizione economica del paese, e sul modo di migliorarla, sullo sviluppo, di cui sono suscettibili le grandi risorse dell'agricoltura, del suo commercio, e della sua industria, e sui lavori di pubblica utilità, ai quali sarà posto mano senza indugio.

«Sarà pure principale sua cura il promuovere il pubblico insegnamento e soprabito l'insegnamento popolare e tecnico. Istruzione e lavoro sono le due fonti della moralità e della ricchezza, i due cardini, su cui si appoggiano le società libere e civili.

«La finanza di questa parte del Regno Italiano, scomposta dai rivolgimenti politici e da esigenze straordinarie, abbisogna di un pronto ordinamento. Intanto, che si preparano gli clementi di un regolare bilancio da presentar, i al parlamento, farà apportare a questo servizio economia e pubblicità. Nobile ufficio della stampa sarà quello d'indicare al governo con calma e schiettezza gli abusi da togliere, le riforme da introdurre in questo come in ogni altro ramo dell'amministrazione.

«L'Italia si sta facendo, ma non è ancor falla. Al finale compimento di quest’opera sublime, che fu il sospiro di tante generazioni, occorrono tuttavia grandi sacrifizii. Voi accoglierete, ne seri certo, con lieto animo tutti questi provvedimenti. che il governo centrale ed il Parlamento stimeranno necessarii ad accrescere, riunire, e disciplinare le forze di terra e di mare della nazione.

«L’appoggio di lutti gli nomini onesti, il rispetto universale alle leggi, la concordia degli animi risponderanno, spero, alla fiducia posta in voi dal Re e dalla nazione. Tutta l'Europa tiene in questo momento fisso lo sguardo su questa parte d'Italia, gloriosa per antichissime tradizioni di civiltà e di sapienza e per gran di sventure patite per indomabile affetto alla libertà. Voi potete col solo vostro contegno rendere alla patria comune un servizio forse più grande di quanti le siano stati resi in altre provincie con sacritizii molti di uomini e di denaro. Io mi chiamerei fortunato, se caduto in breve, come non dubito, l'ultimo propugnacolo della Signoria Borbonica, io potrò dire al re ed all'Italia: — «Se vi occorrono le guarnigioni e le leve delle Provincie Napoletane, chiamatele pure ai nuovi cimenti; questa parte d'Italia può anch'essa al pari di ogni altra governarsi senza soldati.»

Cessata per la dimessione di Farini quell'amministrazione, i Consiglieri di luogotenenza si dimisero anch'essi, continuando però nelle loro funzioni sino alla nomina dei nuovi. Il signor Liborio Romano, Giovanni d'Avossa, Paolo Emilio Irnbriani, e Silvio Spaventa accettarono l'incarico di formare colla cooperazione del signor Poerio la nuova amministrazione.

Mentre dai diversi collegi elettorali procedevasi alla elezione dei Deputati un decreto del re nominava 67 Senatori, la maggior parte appartenenti alle nuove Provincie annesse. Garibaldi aveva costantemente ricusata la candidatura di Deputato offertagli da diverse Provincie Italiane, ma venne nominato in Napoli nel primo Collegio Elettorale di S. Ferdinando, i cui Elettori intesero fare non un atto politico ma un atto di giustissima riconoscenza in nome di tutte le Provincie meridionali, ritenendosi delegati a quell'atto come il primo Collegio della già capitale di esse.

Provvedevasi pure ai Volontarii Meridionali. Un decreto del 16 Gennaio 1861 sciolse pel 1° Febbraio il Comando generale del Corpo dei Volontarii nell'Italia Meridionale. Dispose che a contare dal 16 Febbraio quel Corpo sarebbe stato considerato per le paghe e competenze sul piede di accantonamento, alla qual epoca tutti gli uffiziali, truppe, e servizii diversi, che lo componevano, dovevano trovarsi nelle rispettive sedi indicate nello stesso Decreto, cioè Torino, Pinerolo, Veneria, Casale, Mondovi, Asti, D'ella, e Vercelli. La Commissione di scrutinio pei titoli degli Ilfliziali trasferiva la sua sede da Napoli a Torino. Conteneva inoltre il Decreto disposizioni di dettaglio pel trasporto degli uomini, dei cavalli, e dei materiali, e dichiarava, che tutti coloro, che sen, za giustificare un legittimo impedimento non si trovassero per l'indicato dì ne luoghi rispettivamente assegnati, sarebbero cancellati dai ruoli del Corpo, e si avrebbero come rinunzianti ai diritti ed alla posizione, che potessero loro competere in quel Corpo.

Intanto le operazioni per l'assedio di Gaeta proseguivano alacremente. Francesco II si era rivolto ai Siciliani, ed aveva fatte loro delle promesse particolari. Il 16 di gennaio aveva loro regalato un proclama, cui erano unite le basi di uno Statuto Siciliano, che dicea riprodurre lo Statuto anglo-siculo del 1812. Ammetteva il proclama essere stato il giovane Principe vittima di pessimi consigli; ma però con un piede in Gaeta ed un altro nella cittadella di Messina, sembra militarmente e politicamente un colosso di Rodi, sotto cui passano le discordanti navi di una diplomazia estera da tartarughe.

Prometteva il re di rimanere quattro mesi in Sicilia col corpo diplomatico, i ministeri e la corte; in sua assenza vi sarebbe stato un principe reale da viceré con pieni poteri.

L'Europa minacciava una coalizzazione del 1815; bisognava non lasciarsi illudere da comprati sanguinosi ciarlatani di libertà. Erano i Siciliani sull'orlo di un precipizio spaventevole. Rientrassero in sé stessi, si affratellassero, accettassero i dieci articoli dello statuto, dessero spontaneo asilo ad una derelitta ma imperterrita e speranzosa real famiglia, tremendamente educata alla sventura. Una aureola di gloria patria li coronerebbe.

Queste erano le promesse, che quella reale famiglia pel corso di tre generazioni aveva sempre fatte e mai mantenute. La quarta generazione non aveva avuto il tempo di ripetere l'esempio dei suoi maggiori, però non mancavano delle induzioni per temerlo. Verso la metà di novembre 1861 r investimento di Gaeta essendo compiuto, trovavasi tra gli assedianti e la piazza un corpo di varie migliaia di soldati borbonici, i quali essendo inutili in Gaeta, n'erano stati messi fuori. Costoro chiesero a Cialdini di essere ricevuti come prigionieri di guerra, ma Cialdini ricusò, e rispose loro di rivolgersi al proprio sovrano. Essi allora si diressero a Gaeta, e Francesco II fece loro intendere, che ivi non vi era luogo per loro, e che si fossero aperti un passaggio colle armi alla mano, onde trovare da mangiare. Quegl'infelici ridotti alla disperazione, tentarono un colpo, ed ottennero il loro intento, perciò rimasero tutti prigionieri (). Ognuno comprende la crudele necessità di un assedio, ma ricusare del pane a coloro, cui si è tutto promesso per ottenerne in propria difesa sostanze e vita, abbandonarli alla fame dopoché avevano diviso le fatiche, gli stenti, le privazioni, i pericoli della guerra e di due assedii, è inspirare assai poca fiducia nell'osservanza dei più sacri impegni. V’ha degli esempii in tempi assai meno civili, che delle popolazioni sono state cacciate da una piazza assediata, ma dei soldati non mai. Quando la guarnigione manca di viveri, la piazza si rende. Se quelle promesse fatte ai Siciliani fossero siate di loro gusto e conformi alle proprie aspirazioni, eglino avevano il dritto di ricusarvi fede quando vedevano che promesse assai più positive, obbligazioni ben più importanti venivano manomesse. Ma i Siciliani fecero anche dippiù; ritennero quelle promesse, com'erano in effetti, cose da giuoco.

Resistette ancora Gaeta per circa altri tre mesi, perocché quando lutto fu apprestato, cominciò il bombardamento, e partita la flotta francese, la piazza si trovò bombardata da terra e da mare. Nei primi giorni di febbraio due riserve di polvere ed un deposito di granate cariche scoppiarono nel giro di 36 ore. Queste tre esplosioni produssero molti guasti, e rovesciarono parte della batteria a sega compresa tra il bastione S. Antonio e la cittadella. Il numero delle vittime fu considerevole. La piazza chiese un armistizio di 48 ore per seppellire i morti e disotterrare alcuni disgraziati tuttavia vivi sotto le rovine. E comunque negli usi della guerra tali proposizioni non si accettino, perciò possono compromettere la riuscita delle operazioni militari, pure Cialdini, seguendo le istruzioni del Re, accolse la dimanda a condizione, che non si fossero rifatte le opere danneggiate, ed offrì pure dei chirurgi per medicare i feriti. Cialdini mantenne la sua promessa; Francesco II non eseguì la condizione dell'armistizio.

Ma la piazza si riduceva ogni di più agli estremi; la mattina del 12 di novembre uscì da Gaeta una commessione di Stato Maggiore con bandiera parlamentare, e chiese di Cialdini. Ricevuta immediatamente dal generale, ell'era nel suo quartiere generale di Mola, chiesero a quali condizioni si potesse trattare la resa della fortezza, perocché Francesco II per sentimenti di umanità aveva deciso di desistere dal combattimento, ed era disposto a cedere, purché ciò fosse a condizioni onorevoli per lui e pei suoi soldati; domandava, cessasse intanto il fuoco, che da due giorni proseguiva senza interruzione.

Cialdini rispose, aver egli offerte le condizioni onorevoli il 19 gennaio, e Francesco II averle rifiutate con modi, che non convenivano alla sua posizione; avere esso Francesco 11 disconosciuti tutti gli atti di generosità, che gli si erano usati, sino al punto di violare poc’anzi patto apposto ad un armistizio concesso per far luogo al trasporto dei feriti e degli ammalati fuor della fortezza, e quindi non istar più in potere del generale assediante il concedere altre condizioni fuori di quelle, che le leggi della guerra assentivano. Che il fuoco assolutamente non sarebbe cessato fuorché a dedizione sottoscritta e guarentita.

 E poiché i parlamentari insistevano perché il fuoco cessasse, osservando ciò volere le leggi della guerra, Cialdini ripigliò con vivacità: — «Anzi lo farò raddoppiare: ho dato a Francesco II ed ai suoi soldati prove di generosità, a cui essi non avevano alcun dritto; conosco abbastanza le leggi della guerra per sapere quali dritti conferiscono.» — Nè disse altro.

I Parlamentari si ritirarono, ma in quello stesso dì altri ne vennero, recando una lettera del generale Ritucci comandante la piazza. La lettera era concepita in termini poco misurati, e rimproverava il generale piemontese di sconoscere le leggi della umanità col non ordinare la cessazione del fuoco. E Cialdini allora rispose: Le leggi dell'umanità calpestarle chi aveva voluto prolungare con tanta ostinazione una lotta, che non aveva più speranza, non aveva più scopo; egli aver anche troppo accondiscèso ai sentimenti di umanità accordando un armistizio quando si trovava già in grado di dare l'assalto alla fortezza; aver posto per sola condizione dell'armistizio, che non si rattoppasse la breccia aperta dallo scoppio della polveriera, e questa condizione era stata violata, come ne facevan fede le botti di terra, che si potevano tuttora vedere, colle quali si tentava di chiudere quello squarcio delle mura di circa 25 metri di larghezza. Finiva col dichiarare, non avrebbe avuto col Ritucci altre trattative.

La commessione ritornò con tale risposta, ed il fuoco degli assedianti continuò a disseminare le rovine e le morti. La piazza era ridotta a tale stato, che si poteva dare con probabilità di successo l'assalto, l'assalto fu fissato pel 15 di febbraio.

Ma il giorno 13 nuovi, parlamentari sono spediti. Il generale Ritucci si era dimesso, ed il generale Milon lo aveva rimpiazzato. Allora Cialdini dettò le condizioni della resa, alla quale i parlamentari controposero le proprie. Cialdini credè di abbreviare la discussione, dicendo: Oltre le dettate non avere altre condizioni da dare; avere in pronto tre nuove formidabili batterie vicinissime alla piazza in un punto, ove gli assediati non sognavano neppure si potesse osare di drizzare dei cannoni; da esse la piazza in poche ore sarebbe ridotta un mucchio di rovine: ad ogni ora i bersaglieri mandavangli a dimandare, se potessero montare all'assalto. La mattina seguente le tre batterie non ancora scoperte avrebbero fatto fuoco: se gli assedianti avessero risposto, non si sarebbe più parlato di capitolazione, ne egli avrebbe fatto più concessioni; se non rispondessero, si riterrebbe essere questo il segno dell'accettazione delle condizioni già dettate.

E difatti la mattina del 14, cadendo un muro della villa Albano in capo al borgo di Gaeta, si scoperse una tremenda batteria, distante solo un 200 metri dalla porta di terra della fortezza ed anche meno dalla trincea esteriore. Al punto stesso su due mameloni detti della Trattina, che soprastavano quasi perpendicolarmente al borgo e prospettavano tutto il lato settentrionale al nordest della fortezza si scoprirono altre due batterie di grossi pezzi, ed una anche di cannoni Cavalli. Tutte erano state costruite con grandissima maestria, conducendovi le artiglierie di notte e per cammini coperti di paglia, onde gli assediati non avessero potuto sentire il rumore.

Estremo fu il terrore nella fortezza quando si accorsero di quelle opere così vicine ai punti più danneggiati della città, e del terribile fuoco, che facevano; ne la fortezza aveva più pezzi ben montati da opporre. Quindi le batterie degli assedianti attesero invano la risposta degli assediati; le condizioni dunque della resa erano accettate.

Gli articoli della capitolazione furono:

La piazza da Gaeta con tutto il materiale e gli oggetti di spettanza del governo siano militari o civili sarà consegnata all'uscita della guarnigione alle truppe di S. M: Vittorio Emmanuele. Tale consegna seguirebbe la mattina seguente. Tutta la guarnigione della piazza compresi gl'impiegati militari usciranno cogli onori militari e colle bandiere, armi e bagagli. Resi gli onori militari, deporranno le armi e le bandiere soll'istmo ad eccezione degli uffiziali, che conserveranno le loro armi, i loro cavalli bardati e tutto ciò. che loro appartiene, e potranno anche conservare presso di loro i trabanti rispettivi. Gli ammalati, i feriti, ed il personale sanitario dell'ospedale rimarranno nella piazza; tutti gli altri militari dovranno esserne usciti per l'ora stabilita sotto pena di essere ritenuti come disertori di guerra. Tutte le truppe componenti la guarnigione rimarranno prigioniere di guerra sino alla resa della cittadella di Messina e della fortezza di Civitella del Tronto. Dopo saranno rese alla libertà. I militari stranieri non potranno rimanere nel Regno e saranno trasportati nei rispettivi paesi, assumendo l'obbligo di non servire per un anno contro il governo. Agli uffiziali, sottouffiziali. e soldati appartenenti agli antichi cinque corpi svizzeri veniva accordato tutto quanto a cui avevan dritto per le capitolazioni ed i decreti sino al 1 settem. 1860. Gli uffiziali, sottouffiziali, e soldati esteri, che avevano preso servizio dopo l'agosto 1859 e sempre prima del l settembre 1860, conservavano quello, che i decreti di formazione loro accordavano. A tutti gli uffiziali ed impiegati militari capitolati venivano accordati due mesi di soldo considerati in tempo di pace. Avevano essi due mesi di tempo a contare dalla data in cui sarebbero stati messi in libertà o prima per dichiarare se intendevano prendere servizio nell'esercito nazionale, o esser ritirati. o rimanere sciolti da ogni servizio militare. A coloro, che avessero scelto di servire, sarebbe stato applicabile come agli altri uffiziali del già esercito napoletano il decreto dei 28 novembre 1860.

Quanto agl'individui di bassa truppa coloro, che avevano compiuto il loro impegno, avrebbero avuto il congedo assoluto; gli altri un congedo di due mesi, classi i quali avrebbero potuto essere chiamati sotto le armi; a tutti indistintamente venivano accordati due mesi di paga ossia di pane e prestito per ripatriare. I sottuffiziali e caporali, che volessero proseguire a servire nell'esercito nazionale sarebbero stati accettati, purché avessero avuto le condizioni richieste.

Tutti i vecchi, gli storpii o mutilati militari, qualunque essi fossero e senza tener conto della nazionalità, venivano accolti nei depositi degl'invalidi militari, ove non avessero preferito di ritirarsi in famiglia col sussidio quotidiano a nomi del già regno delle Due Sicilie.

E tutti gl'impiegati civili si napoletani che siciliani racchiusi in Gaeta ed appartenenti ai rami amministrativo o giudiziario veniva confermato il dritto al ritiro in corrispondenza del grado, che avevano il 7 settembre 1860.

Tutte le famiglie dei militari esistenti in Gaeta venivano provvedute dei mezzi di trasporto. Tutti gli uffiziali ritirati, chi erano nella piazza, avrebbero conservato le loro rispettive pensioni, purcliò conformi ai regolamenti. Alle vedove ed agli orfani dei militari di Gaeta venivano conservate le pensioni, che avevano, e veniva riconosciuto il dritto in quelle, che non le avevano, di dimandarle ai termini della legge.

Niuno degli abitanti di Gaeta poteva essere molestato nelle persone e nelle proprietà per le opinioni passate.

Le famiglie dei militari di Gaeta, ch'erano nella piazza, erano messe sotto la protezione dell'esercito del Re Vittorio Emmanuele.

Ai militari nazionali di Gaeta, che per motivi di alta convenienza uscissero dallo Stato, venivano applicate tutte le precedenti disposizioni.

Rimaneva convenuto che dopo la firma della capitolazione non vi doveva rimanere nella piazza veruna mina carica; se ve ne fosse alcuna, la capitolazione sarebbe rimasta annullata e la guarnigione resa a discrezione. Sarebbe stato lo stesso, se le armi o le munizioni si fossero distrutte o guaste a bella posta, salvo che l'autorità della piazza consegnasse i colpevoli, che sarebbero stati immediatamente fucilati.

D ambo le parti sarebbe stata nominata una commissione per la consegna della piazza.

Seguiva l'elenco delle persone, che partivano con Francesco II, ed erano 23, e seguiva pure l'indicazione dei luoghi, ove durante la prigionia di guerra sarebbero stati diretti i capitolati di Gaeta. Essi erano: — Nisida, Castello di Baja — Procida — Capri — Ischia — Ponza — Piano di Bagnoli. Gli esteri erano rimandati a Genova. I marinai e gl’invalidi svizzeri rimanevano in Gaeta.

Tale fu la capitolazione, che Cialdini impose, e che per non essere stata accettata nella prima proposta produsse molte altre morti e molti altri guasti nella piazza.

Quattro giorni dopo la resa di Gaeta, il 18 di febbraio 1861, l'Italia vide la grande solennità dell'apertura del primo parlamento italiano. Torna inutile di descrivere l'entusiasmo destato da quella festa che ha lasciato ormai una impressione incancellabile nelle menti e nei cuori italiani. Era la rappresentanza di tutto un popolo, che diciassette secoli avevan tenuto diviso, rendendolo obietto d'insulti e di umiliazioni da parte dello straniero, di partiti e d'ire tra gli stessi suoi concittadini, di lunghi ed acerbi dolori da parte di tutti, e che ora rigenerato ed indipendente veniva inamovibile e maestoso a rivendicare il posto, cui per la sua civiltà antichissima e per la sua prisca classica storia giustamente aspira.

Riunita l'adunanza, il re vi si recò e disse:

«Signori senatori, signori deputati.

«Libera ed unita quasi tutta per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli, e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra. A voi appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto. Nello attribuire le maggiori libertà amministrative ai popoli, che ebbero consuetudini ed ordini diversi, veglierete perchò la unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata. L'opinione delle genti civili è propizia; ci sono propizii gli equi e liberali principii, che stanno prevalendo nei consigli dell'Europa. L'Italia diventerà per essi guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà efficace istromento della civiltà universale. L'Imperatore dei Francesi, mantenendo ferma la massima del non intervento, a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu ragione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della nostra gratitudine ne la fiducia del suo affetto alla causa italiana. La Francia e l'Italia, che ebbero comune la stirpe, la tradizione, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo, che sarà indissolubile.

«Il governo ed il popolo dell'Inghilterra, patria antica della libertà, affermarono altamente il nostro dritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli ufficii, dei quali durerà imperitura la riconoscente memoria.

«Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli mandai un ambasciatore a segno di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica; la quale, io spero, verrà semprepiù nella persuasione, che l'Italia costituita nella sua unità naturale non può offendere i dritti ne gl'interessi delle altre nazioni. Signori senatori, signori deputati, io sono certo, che vi farete solleciti a fornire al mio go, verno i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Cosi il regno d'Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragione dell'opportuna prudenza. Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo savio consiglio osare a tempo come lo attendere a tempo. Devoto all'Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona, ma nessuno ha il dritto di cimentare la vita e le sorti d'una nazione.

«Dopo molte segnalate vittorie l'esercito italiano, crescendo ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria, espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero, che là si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili. L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta, che rivivono in Italia i marinari di Pisa, di Genova e di Venezia. Una valente gioventù condotta da un Capitano, che riempì del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto, che ne la servitù, ne le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani. Questi fatti hanno ispirato alla nazione una grande confidenza nei proprii destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento italiano la gioia, che ne sente il mio animo di re e di soldato.»

In un'altra seduta fu solennemente proclamato essere Roma la capitale del regno italiano, e fu riconosciuto in Vittorio Emmanuele il titolo di Vittorio Emmanuele II re d'Italia.

La redenzione dell'Italia è compiuta. Quell'alto decreto della Provvidenza, che metteva fine al servaggio immeritato di un popolo, dotato di sì ricche doti e messo su di un terreno feracissimo e circoscritto da limiti prettamente naturali, era stato eseguilo. Il nostro lavoro è dunque compiuto, se non che, a raffermare semprepiù il concetto di questo grande rivolgimento italiano, giova chiudere questa nostra narrazione con taluni documenti, che provano quali sieno stati veramente i principii, ove hanno attinto le proprie aspirazioni il Principe, ch'è salito al soglio dell'Italia tutta, e l'altro ch'è disceso dal trono della più ampia parte di essa.

Ai 15 di aprile 1860, più di due mesi prima del tempo, in cui Francesco II fu costretto dagl'incalzanti avvenimenti di richiamare in vigore Io statuto, ch'era stato così violentemente lacerato, e quando già le grandi vittorie di Magenta e di Solferino facevano presagire l'esito di quella campagna, Vittorio Emmanuele diresse a Francesco II la lettera seguente:

«Caro Cugino;

«Sarebbe inutile, che vi facessi rimarcare la condizione politica della penisola dopo le grandi vittorie di Magenta e di Solferino, che hanno messo termine alla influenza dell'Austria nei nostri paesi. Gl'Italiani non possono ormai essere condotti dai loro Sovrani come trent'anni fa a simiglianza di un branco di pecore. Essi hanno piena conoscenza dei loro diritti, e dippiù possedono la saggezza e la forza necessaria per difendersi.

«D’altra parte l'opinione pubblica ha sancito il principio, che ogni nazione ha incontrastabilmente il dritto di governarsi come le piace. Schiacciata una volta l'influenza tirannica dell'Austria, era affatto naturale, che gl'Italiani si sbarazzassero dei loro Sovrani d'ordine secondario, e che cercassero di costituirsi in nazione forte ed indipendente.

«Siamo arrivati ad un'epoca, in cui l'Italia deve essere divisa in due stati potenti, uno al nord, l'altro al sud, la cui missione sarà quella di prestare il proprio concorso, adottando una politica identica alla grande idea, che predomina in Italia, all'idea, di unità. Ma per ciò io credo assolutamente necessario, che V. M. abbandoni immediatamente la fatale politica seguita fino ad ora.

«Se resistete a questo consiglio, che mi è inspirato unicamente, credetelo, dalla sincera affezione, che nutro per voi, e dall'interesse, che prendo alla prosperità della vostra dinastia, se rigettate la mia proposizione di amico, potrebbe venir tempo, in cui io mi trovassi nella terribile alternativa o di compromettere gl'interessi più sedi della mia corona o di diventare il principale istromento della vostra perdita. Il principio del dualismo stabilito con successo e messo in pratica onestamente assicura la felicità nostra e quella del nostro paese, e può ancora essere accettato senza ripugnanza dagl'italiani.

«Se lasciate scorrere alcuni mesi senza profittare del mio amichevole avviso, secondo ogni probabilità voi sentirete l'amarezza di queste parole — è troppo tardi — come la senti nel 1830 un membro della vostra famiglia. Gl'Italiani concentrerebbero allora in me tutte le loro speranze, e ci sono dei doveri, che da un principe italiano debbono soddisfarsi assolutamente per quanto dolorosi potessero riuscire. Adopriamoci assieme ad un'opera nobile, insistiamo presso il S. Padre sulla necessità di accordare riforme, congiungiamo i nostri Stati rispettivi con un legame di amicizia effettiva, che originerà indubitatamente la grandezza della patria.

«Accordate ai vostri sudditi una costituzione liberale, riunite attorno a voi gli uomini stimati sopratutto per avere sofferto di più a pro della causa della libertà, dissipate i sospetti del vostro popolo, e una eterna alleanza sia cementata fra i due più potenti Stati della Penisola.

«Allora ci studieremo assieme di assicurare al nostro paese il controllo dei proprii destini. Voi siete giovane, e generalmente, l'esperienza non è l'attributo della gioventù; permettetemi dunque d'insistere sulla necessità di seguire l'avvertimento, che vi do in qualità di parente prossimo e di sovrano italiano.

«Aspetto ansiosamente da V. M. una risposta soddisfacente al ritorno del corriere confidenziale, che è incaricato di ricapitare questa lettera. Credetemi di V. M.

«L'Affezionatissimo Cugino

VITTORIO DURAMELE (). »

Quello che Francesco II rispose è da argomentarsi dalla politica, ch'egli segui per altri due mesi, e dai consiglieri, dai quali tuttavia si fè circondare. Gli avvenimenti precipitarono anche più di quello, che si poteva prevedere; non erano ancora decorsi tre mesi, e Francesco II andava a mendicare quell'alleanza, che aveva ricusato, e che avverandosi te predizioni della lettera di Vittorio Emmanuele, era divenuta impossibile, perché le concessioni fatte due mesi prima sarebbero state accolte ben diversamente da quello, che due mesi dopo lo furono, e perché sopratutto il rifiuto fatto in un tempo, in cui si credeva avere la libera disposizione delle proprie azioni, dava giusto dritto a diffidare della spontaneità e sincerità della richiesta quando veniva imposta dall'inesorabile necessità della propria conservazione.

Epperò dei due principi, l'uno si trovava già in una via, che bisognava soltanto proseguire, l'altro messosi in una strada falsa, non volle cambiarla; l'uno fu sincero, vide ch'egli sarebbe stato chiamato ad estollersi sulle rovine dell'altro, e glielo avverti, gli espose il pericolo, che correva, e la inevitabile alternativa, in cui egli stesso si sarebbe trovato o di sconoscere i suoi costanti principii o di assidersi sul soglio dell'altro. Il primo raccoglieva il frutto di una politica illuminata, onesta, preveggente eperseverante; l'altro giungeva là ove la via prescelta lo menava; n'era avvertito quando il precipizio già si manifestava, e sordo e cieco disdegnava l'avvertimento, e continuava. Aveva egli dritto ad accusar altri che se stesso?

Eran giuste le sue doglianze contra di chi lo aveva avvertito. ed era stato rigettato? Ma tale si fu sempre il sistema prescelto; contrariare la potenza dei fatti e rovesciare poi sugli altri la responsabilità delle proprie colpe. Cialdini, come abbiam narrato, aveva accordato senza difficoltà una sospensione di ostilità per seppellire i morti e dissotterrare i feriti ed aveva puranco offerto degli aiuti per questi; egli vi aveva messo una soia giustissima e ragionevole condizione, e questa condizione fu violata. Indegnato, non si vuol prestare ad ulteriore sospensione di ostilità, ma offre una capitolazione come quella, che abbiamo riferita, dichiarando non averne altra, e questa capitolazione è rifiutata. Ebbene, il generale Casella scriveva agli agenti diplomatici presso le nazioni estere: —

«Ma i fatti, che da parte dei Piemontesi hanno accompagnati i negoziati hanno un carattere, che importa di segnalare. Il generale Cialdini ha ricusato di sospendere le ostilità duranti i negoziati. Per tre giorni copri la piazza di bombe e d'obici. Tutte le condizioni erano fissate; non mancava, onde la capitolazione fosse compiuta, che la copia del testo di questo lungo documento e le formatità della sottoscrizione, e le batterie piemontesi spandevano ancora la morte in Gaeta, e lo scoppio di un'altra polveriera seppelliva sotto le sue rovine officiali e soldati.»

Ma v'ha forse negoziato quando una delle parti dice di non volere negoziare? E la risposta affermativa incondizionata dell'accettazione dell'ultimatum irretrattabile dato dal generale piemontese venne forse prima, che quelle nuove rovine non si fossero verificate? Forse il generale piemontese aveva taciuto su quelle formidabili batterie, che produssero i danni, contro i quali si declamava? L'ultimo atto della caduta della dinastia dei Borboni ebbe lo stesso carattere di tutta la lotta, che sostennero. Essi vollero lottare cogli elementi morali assai più forti di loro, vollero essere contro i tempi, che presumevano di vincere, perché essi non si volevano cambiare, e caddero sconoscendo anche quando eran vinti gli elementi morali, ed i tempi; proclamaronsi vittima della violenza e del tradimento, mentre avevano essi violentemente urtato contro ostacoli, che dovevano di necessità rovesciarli, ed avevano traditi sé stessi quando avevano, rigettati coloro, che dell'inevitabile pericolo li ammonivano.

Ben altra si era stata la condotta del partito, cui ebbero a cedere. Esso fece l'opposto di quello, che la caduta Dinastia aveva fatto; prese a guida gli elementi morali ed i tempi. Forte già per essi, lo divenne ogni giorno dippiù per gli errori e l'ostinazione dei suoi avversarii. Chiudendo le orecchie alle proprie passioni, agli eccitamenti del loro amor proprio, a le seduzioni del loro stesso potere quando poteva rimanerne compromessa la causa, che difendevano, si vide lo stesso Garibaldi negarsi alle istanze di alcuni Napoletani o non Napoletani dimoranti in Napoli, che lo eccitavano a ritornarvi. — «Se allontanandomi da voi, egli scriveva, provai dispiacere, lo sa Iddio. Ciò non ostante la mia missione presso di voi era terminata e dovetti prender congedo. Lo feci col cuore infranto.

«Ora colle vostre lagnanze aumentate il mio dolore, e mi richiedete di ritornare in mezzo a voi. Io non lo posso, amici miei, perché promisi a me medesimo di non fare ostacolo colla mia presenza alla vostra felicità, alla vostra prosperità, che si compiranno sotto lo scettro del re galantuomo.

«Sì, voi siete liberi, e la mia presenza in mezzo a voi non sarebbe d'alcun profitto, sarebbe un ritardo al vostro miglioramento. Voi foste ancor più felici degli altri, poiché vi sono Italiani tuttora nella schiavitù.»

Tale si fu la posizione, che le due parti contendenti si formarono; il giudizio di uomini competentissimi la conferma:

«In mezzo a quella serie di fatti, scriveva il Lemoinne nel febbraio del 1861, che da due anni vanno svolgendosi sotto ai nostri occhi, vi ha un fatto predominante; la regolarità, l'unanimità, e per così dire il movimento naturale di gravitazione, con cui tutte le parti separate d'Italia si aggruppano successivamente intorno ad un centro comune. Egli è impossibile, che un movimento si generale sia soltanto il prodotto della necessità del momento; esso è l'espressione di un bisogno nazionale, che da lunga pezza esisteva latente e compresso, e che appena gli veniva dischiuso uno spiraglio irrompeva con una forza irresistibile. Ogni giorno si vede più chiaro non esservi che una costituzione, che possa convenire alla nuova Italia, e questa è l'unitaria.»

FINE.

________

NOTE

 1 V. VIVENZIO, DELLE ANTICHE PROVINCIE DEL REGNO DI NAPOLI i LORO

GOVERNO, Vol.1. Annotazione VIII. Ediz. di Napoli del 1808.

2 Moisè, Storia dei dominii stranieri in Italia, lib.3. cap.2.

3 Per non interrompere la narrazione dei fatti, che precedettero l'insurrezione in Palermo, daremo il testo

della Costituzione del 1812 in una nota in fine del 3.° Capitolo.

4 Recueil des Traités, Conventions, et Actes diplomatiques concernant l’Austriche et l’Italie

— Paris 1859, pag.147.

5 Moisè, Storia dei Dominii stranieri in Italia, lib. 3.°, Cap 2.º

6 Corrispondenza del Corriere Mercantile, 2 luglio 1859 n° 219.

7 Corriere Mercantile del 18 luglio 1859, n. ° 248.

8 Corriere Mercantile del 14 marzo 1860, n. 62.

9 Corriere Mercantile del 31 luglio 1859, u.° 272.

10 Corriere Mercantile del 1. 0 febbraio 1860, n. ° 26.

11 La cuffia del silenzio è una cinta di ferro con vile a pressione che stringe la testa nella parte. anteriore

passando sotto il mento e sul cranio.

12 Strumento angelico, dicono i birri siciliani, una manetta con vite a pressione, che fa cantare o

confessare i colpevoli meglio che gli angeli.

13 Corriere mercantile del 20 marzo 1860, n. 67.

14 Il Nord del 1° giugno 1860 n. 153, riproducendo dall'Opinion Nationale.

15 Nord del 15 aprile 1860 — n 106.

16 Corrispondenza del Nord sopracitata del aprile alle 7 della sera.

17 Corriere Mercantile del 14 aprile 1860 n. 89.

18 Corriere Mercantile del 17 aprile 1860. n. 91.

19 Corriere Mercantile citato.

20 Nord del 7 aprile 1860, n. 98.

21 Nord del 10 e 12 aprile, n. 101 e 103.

22 Nord del 13 aprile 1860. n. 101.

23 Marc Monnier — Garibaldi, histoire de la conquéte dea Deux Siciles, pag. 121. Paris 1861.

24 Corriere Mercantile del 27 aprile 1860, n. 100.

25 Per ordine di data, questa lettera è anteriore alla precedente.

26 Pag.23, §. XXII.

27 Il Mondo Illustr. di Torino – Anno III, n. 1 7 lugl. 1860.

28 La spedizione di Garibaldi in Sicilia — Memorie di un volontario — Cap. 2. in fine.

29 Il Nord del 14 maggio 1800 — num. 135

30 L'Ostdelitsche-Post.

31 Sublime pensiero, ch'esso solo basterebbe a mostrare i danni delle funeste divisioni italiane.

32 Borghese—I sessantacinque giorni della rivoluzione di Palermo del 1860. Palermo presso Domenico

Maccacone, p. 66.

33 Memorie di un volontario, Cap. 6, pag 59.

34 Annessione del 12 legno 1860.

35 L'Unità Italiana di Palermo scriveva:

Sappiamo da vani giornali di Sicilia, che i feriti alla campagna di Milazzo alloggiati nell'Ospedale di

Barcellona cominciano a passeggiare le vie della città, e volgono a guarigione.

È a lodarsi immensamente la solerzia e amor patriottico di tutte le donne e gli uomini di quel paese; i

quali sono accorsi a visitarli ogni giorno, apprestando loro farmachi, bende, filacce, e tutto quello, che può

ispirare l'affetto del più caro tra i parenti in simili circostanze.

VALENTE — STORIA DELL'ITALIA CENTRALE — PARTE II — CAPITOLO I 622

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È a lodarsi immensamente la solerzia e amor patriottico di tutte le donne e gli uomini di quel paese; i

quali sono accorsi a visitarli ogni giorno, apprestando loro farmachi, bende, filacce, e tutto quello, che può

ispirare l'affetto del più caro tra i parenti in simili circostanze.

36 Histoire de' la conguète de' Deux Siciles. Parigi 1861, pag. 60.

37 Il Constitutionnel riportato dal Nord del 25 agosto 1859, n. 257.

38 Mare Monnier di pag. 20.

39 Opinione di Torino 1839 — n. 162.

40 Garibaldi – Storia della conquista delle Due Sicilie, num. 3.

41 Garibaldi – Histoire de la conquète des Deux Siciles, pag. 99. Paris 1861.

42 Pag. 102.

43 Vedi il Cap.12.

44 Alcuni aggiungevano il rinvio della Regina-Madre, ma pare, che questa condizione non vi fosse.

45 Vedi il Nord del 5 di luglio 1860, n° 187.

46 V. il Nord del 7 luglio 1860, n° 189. Corrispondenza della Presse di giugno.

47 Nord del 18 luglio 1860, n.200.

48 Nord del 14 luglio 1860, n° 196.

49 Il Nomade.

50 Il Nord del 16 e 17 agosto 1860, numeri 220 e 230.

51 Corriere Mercantile del 17 agosto 1860, n.° 193.

52 Dispaccio di Garibaldi.

53 Il Nazionale del 28 agosto 1860.

54 V. la lettera a Luigi Filippo riportata nella Parte 2.° Cap. IV. — pag.47.

55 Disavanzo del 1848 e 1849…………………………..….31,610,460,64

Per ricavato da alienazione di rendita ed impiegato

in ispese non prevedute nei bilanci………………………...4,377,137,81

Disavanzo del Semestre dal 1.° gennaio

al 30 giugno 1860………………………………………………..6,516,330,35

Resta di cambiali da soddisfarsi per

la compra dei grani……………………………………………...1,171,531,98

Liberanze in sofferenza………………………………………..1,200,009—

Differenza dei debiti su i crediti verso la Tesoreria……..7,222,746,76

Resta del debito verso il Banco

e la Cassa di Sconto………………………………………..…... 2,201,294,70

Prestito al Governo Pontificio……………………………...1,000,000,00

Disavanzo dal 1.° luglio al 7 settembre 1860……….... 6,913,868,43

62,246,373,67

56 Sacchi — Il Segretario generale delle Finanze di Napoli rag.49 e 52.

57 Parla del Dazio di consumo, che si esigeva dalla Tesoreria.

58 Il voto era stato emesso in quello stessa di 11, e la notizia si era ricevuta in Napoli alle 9 p. m.

59 Questa è una impressione, che ricevei personalmente come membro di una di tali

Commessioni.

60 Relazione del generale de' Sonnaz.

61 Corrispondenza da Mola di Gaeta del 13 novembre 1861 riportata dal Corriere Mercantile.

Fatto verificato.

62 Lettera pubblicata dal Daily News nel principiare di gennaio 1861.

INDICE

PARTE PRIMA


PARTE II

ILa Sicilia sino alla proclamazione della Costituzione del 1812 1.
II Dalla proclamazione della Costituzione del 1812 sino alla rivoluzione del 184810
IIIDal 1848 sino alla insurrezione di Palermo del 1860 16

Costituzione Siciliana del l 812  28
IV I primi moti in Palermo 46
V Impressioni dell’insurrezione di Sicilia in Europa — Fatti di Messina  57
VI L'insurrezione sì mantiene ne' dintorni di Palermo e nell’interno dell’Isola68
VII Garibaldi in Sicilia, Sbarco a Marsala 76
VIII Prosieguo della spedizione — Salemi — Vita — La spedizione si conosce in Europa 83
IX  Impressioni di lla spedizione di Sicilia in Europa 93
X La battaglia di Calatafimi — La ritirata dal Parco 104
XI Garibaldi a Palermo 116
XIIInfluenza della presa di Palermo sul rimanente della Sicilia — Opinione pubblica ili Europa — Riordinamento interno127
XIII Continuazione ilei riordinamento in-terno 139.
XIV Continuazione — Combattimento di Milazzo — Sgombro della Sicilia  153
XV Il Governo di Napoli negli ultimi tempi dì Ferdinando II 171
XVI Francesco II sino all’insurrezione Svizzera  182
XVII Continuazione del regno di Francesco II dall’insurrezione svizzera sino alla riabilitazione dello Statuto195
XVIILa restaurazione dello Statuto del 1848207
XIX La nuova amministrazione Costituzione — L’alleanza piemontese  - 219
XX Inutili sforzi dei Governo di Napoli per salvare la Dinastia230
XXI Continuazione — Gli Agenti Diplomatici — I Comitati elettorali — Gli avvenimenti precipitano 240
XXII Sbarco nelle Calabrie — La rivoluzione si compie — Francesco II parte da Napoli 255
XXIII Garibaldi in Napoli Sua amministrazione — Pallavicino Pro-Dittatore265
XXIVInsurrezione nelle Marche e nell’Umbria — Fatti d’armi delle truppe piemontesi — Il Re sì dispone ad entrare nel Regno274
XXVIl Re entra nel Regno — Avvenimenti in Napoli — Il Plebiscito — Il Re in Napoli — Termine della Dittatura 284
XXVIVotazione nell’Umbria e nelle Marche — Il Re in Sicilia — Resa di Gaeta — il Parlamento Nazionale   295


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