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I MISTERI DEL FERRARI di Zenone di Elea - Dicembre 2022

I

MISTERI D’ITALIA

GLI ULTIMI SUOI SEDICI ANNI

(1849-1864)

DI

A. FERRARI

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VOLUME PRIMO

VENEZIA

PREMIATA TIPOGRAFIA DI GIO. CECCHINI EDIT.

1865

1865 01 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
1866 02 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
1867 03 I Misteri d’Italia - Gli ultimi suoi sedici anni (1849-1864) di A. FERRARI HTML ODT PDF
L’EDITORE - CAPITOLO I
Emigrazione italiana in Piemonte
CAPITOLO II
Politica del governo sardo verso la emigrazione italiana
CAPITOLO III
Anno 1849 - Vittime - Denaro
CAPITOLO IV
Anno 1850 - Proclama - Vittorio Emmanuele II
CAPITOLO V
L’anno 1851 - «Notificazione
CAPITOLO VI
L’anno 1852 - «Sentenza
CAPITOLO VII
L’anno 1853 - Agli abitanti del Regno
CAPITOLO VIII
L’anno 1854 - Ordinanza - Proclama
CAPITOLO IX
L’anno 1855
CAPITOLO X
L’anno 1856
«Camera dei Lordi
«Camera dei Comuni
NOTE

L’EDITORE

Sfrenate passioni, eroiche virtù, errori, delitti di popoli e di governi, guerriere gesta, lotte, conflitti e trionfi di principii politici e sociali, ecco la Storia d’Italia dal 1849 al 1864. Storia sorprendente, che tenne a sé rivolto lo sguardo di tutta Europa e che senza tema d’iperbole può dirsi formare l’epoca più memoranda del secolo decimonono.

Dotte ed oscure penne tracciarono gli avvenimenti di questa grand'epoca. Ma senza toccare i pregii od i difetti di questi lavori, non ci si darà l’appunto di temerarii se diremo che lo storico non sì di leggieri va immune da influenze che nocciono alla veracità della sua narrazione, se però non vogliasi applicargli l'antico motto che la Storia, come Clio che la presiede, è pronta per un obolo a prostituirsi.

L’autore dei presenti Misteri, non vincolato da alcun servile riguardo, non dominato da alcun pusillanime timore, non per invilirsi a piedi del potente o per lusingare partito alcuno, ma libero e indipendente nel suo sentire e nel suo giudicare, prese a descrivere que’ memorandi avvenimenti.

Egli, a differenza degli altri storici, i quali ci delinearono soltanto l’esterno de' popoli e de' governi, penetra nel loro più recondito interno, esaminando i moventi de' loro atti, le loro convinzioni, le loro speranze, i loro timori, i loro palpiti. E se gli altri scrittori ci diedero ritratti, il nostro autore ci presenta anatomie.

Se egli poi sia riuscito in questo difficile compito noi noi diremo; diremo soltanto che trattata in tal modo la Storia d’Italia di questi ultimi sedici anni, grande ammaestramento sarà per porgere sì ai popoli che ai governi.

LIBRO PRIMO

CAPITOLO I

EMIGRAZIONE ITALIANA IN PIEMONTE

Allorquando quasi bufera impetuosa, rapida ed indomita scoppiava nel 1848 la generale insurrezione italiana, che nel suo vortice travolgeva ogni freno opposto alla gagliardia di popolazioni, che anelavano alla comune indipendenza, l’Europa tutta si scosse dinanzi l’ardente vulcano, che minacciava abbattere i conati di una secolare politica, diretta a rintuzzare ogni slancio di nazionalità, che potesse mai pronunciarsi per l’ottenimento di un fine da tante età sospirato, e non poteasi cosi agevolmente supporre che nel giro di poche dune tanta sommossa potesse reprimersi.

Pur nullameno fiaccato ogni slancio di patriottismo dalla forza delle armate vincitrici, ed annichilita quasi ogni speranza di emancipazione futura, passavano in poter della storia, da più scrittori pertrattata, cosi di qua che d'oltr’alpe, i fatti gravissimi in quel periodo avvenuti; e chiudevansi le narrative, quasi col suggello dei sepolcri, non mai sospettando che dopo 40 anni, potesse ripristinarsi altrettanta tempesta.

E difatti firmato l'armistizio Salasco, il feld-maresciallo Radetzkv ritornò ad impadronirsi del Regno Lombardo-Veneto, tranne Venezia, la quale costituitasi in Governo provvisorio, proponevasi di resistere sino agli estremi.

Carlo Alberto, a motivo di quella inattesa sospensione delle ostilità e quindi del momentaneo obblio dell'atto di fusione dei popoli lombardo-veneti nel Piemonte, veniva sospettato da una parte dei popoli, ed in ispecialità dagli ultra-liberali e dai repubblicani, come poco ligio alla causa della indipendenza italiana, e dall’altra parte come una vittima della medesima indipendenza.

Le guerriglie volanti composte d’insorgenti accorsi da tutte parti dell'Italia all'appello del Piemonte, le schiere venute da altre provincie italiane, che avevano combattuto le guerre della indipendenza e della nazionalità, unitamente alle sarde, volontarii, i rivoluzionarii, i sollevatori del popolo, e tutti quelli insomma che direttamente od indirettamente avevano preso parte alla emancipazione della patria, fuggirono dalle provincie lombardo-venete. Dobbiamo però eccettuarne alcuni corpi, che ripararono a Venezia, ponendosi sotto gli ordini del generai Pepe. Ma in maggior numero si rivolsero al Piemonte, come a quel paese che, in virtù della fusione, aveva obbligo di accoglierli come fratelli, e dividere seco loro le conseguenze della sconfitta, se avevano divise poco prima le glorie del trionfo. Frattanto i repubblicani ed i nemici della fusione si sparpagliarono per la Toscana, pei Ducati, per le Romagne, per gli Abruzzi, per le Calabrie, per la Sicilia, per la Svizzera è per la Francia.

L’onore del governo sardo esigeva in quelle fatalissime emergenze, che i popoli lombardo-veneti e delle altre parti dell'Italia, che ripararono in Piemonte, non venissero considerati come emigrati politici, ma sibbene ottenessero un accoglimento fraterno. Imperciocché primieramente l’armistizio conchiuso col plenipotenziario austriaco non era certo una totale cessazione di guerra; in secondo luogo perché non dovevasi considerare perduta la causa italiana per le sconfitte sofferte; terzamente perché, vivendo ancora l’atto della fusione, quei popoli avevano acquistato incontestabili diritti verso il Piemonte: finalmente perché potevasi quanto prima riprendere l'offensiva, o per lo meno dovevansi preparare tutti gli elementi che servissero a mantenere sempre acceso sull’altare della patria in tutta la Penisola il fuoco della libertà, e della indipendenza, e della nazionalità. Per la qual cosa venivano creati in Torino una Consulta lombarda, nominata dalla camera nazionale, ed indi un Comitato generale dei soccorsi per la emigrazione italiana, e varii altri succursali diramati per le provincie, non che un Comitato generale d’insurrezione con molti altri figliali qua e là sparsi nelle città; in pari tempo che dalla camera nazionale veniva votato un soccorso di F.(chi) 200,000 che il Re Carlo Alberto approvava.

In progresso di tempo i reclami della numerosa emigrazione italiana in Piemonte, a mezzo di pubbliche dimostrazioni per la ripresa delle ostilità; gli sforzi usati dai circoli federativo-nazionali di Torino, di Casale e di Genova per lo stesso scopo; le vampe di fuoco, che nell’aula parlamentare la montagna vomitava sopra la politica del ministero PinelLi-Delaunav; i progressi della repubblica romana, della costituente toscana e della prodigiosa resistenza veneziana, fecero sentire altamente la democrazia in Piemonte. Per la qual cosa ebbero luogo normali cangiamenti; e le camere, il ministero e la corte venivano appellati democratici.

Le camere ed i circoli nazionali erano guidati dagli ultra-liberali e dai repubblicani, i quali con incessanti pubbliche dimostrazioni soffocavano le mire dei veri democrati, dei moderati ch'erano in piccolo numero, dei conservatori e dei retrogradi. Questi ultimi veramente resi impotenti per l’alto bollore di quei giorni concitati, lasciavano che i tempi corressero come volevano, sperandone di migliori, più conformi alle loro idee di pace e di privilegio. Nondimeno temendo la influenza degli ultra-liberali e dei repubblicani di Genova e delle provincie, non cessavano di lavorare con alacrità e clandestinamente onde la politica cangiasse di aspetto, e trionfasse l’aristocrazia e la causa dell'ordine.

Il ministero Gioberti-Rattazzi succeduto a quello Pinelli-Delaunay era un ministero democratico per istinto, per opportunità e consentaneità di principii e di professione di fede; e però poteva elevarsi al dissopra della mediocrità onde inaugurare in Piemonte le basi di una politica saggiamente liberale e preparare i semi di una futura italiana democrazia franca, leale, dignitosa.

Lacorte sabauda era addivenuta il tipo della più sincera democrazia, in forza degli avvenimenti scorsi, e della speranza che altri avvenimenti avessero, quando che fosse, a realizzare a favore di casa di Savoia il patto della fusione lombardo-sarda e l'accarezzata fondazione del regno dell'alta Italia.

I veri democrati intanto, ed i moltissimi democrati per forza, per illusione, o per proprio interesse, si affaticavano a proclamare necessaria la ripresa delle armi; mentre i conservatori, i ligii all'ordine, agivano in mille maniere onde renderla impossibile.

Laripresa delle armi avvenne bensì, ma la guerra fu impossibile. Imperciocché sursero le discordie, gl’inganni, le imperizie, la mala fede; scoppiarono i tradimenti, e la guerra terminò appena incominciata.

I frutti di quella guerra furono:

1. La perdita di diverse schiere italiane.

2. Lo scuoramento dell'esercito piemontese.

3. L’abdicazione del Re Carlo Alberto in favore di suo Aglio Vittorio Emanuele II.

4. L’esilio volontario e la morte in Oporto di Carlo Alberto, vittima dell'indipendenza italiana.

5. La caduta del ministero Gioberti-Rattazzi.

6. La riapparizione del ministero Pinelli.

7. La occupazione della cittadella di Alessandria per parte dei soldati austriaci.

8. La fucilazione del generale Ramorino.

9. La sollevazione di Genova.

10. Il bombardamento di quella città operato dal generale La Marmora.

11. Lo scioglimento della camera nazionale.

12. Lo scioglimento della consulta lombarda.

15. L’inaugurazione di una nuova politica più consentanea al mutamento dei tempi.

14. Il trionfo dell'ordine e dell'Austria.

Radetzkv intanto, come conseguenza dell'esito felice delle sue armi, usava dei diritti della vittoria; mentre andava di giorno in giorno sempre più aumentando la emigrazione italiana nello Stato sardo.

Alle scondite del Piemonte nel regno Lombardo-Veneto ed a Novara, seguirono ben presto quelle nella Toscana e nei Ducati. Imperciocché i soccorsi armati, che l’Austria inviò in quelle parti, spensero il fuoco repubblicano, sobbalzarono dal governo il Montanelli ed il Guerrazzi, e riposero al loro antico seggio Leopoldo II, ed i duchi.

Dalla Toscana quindi, da Lucca, da Modena, da Parma, da Piacenza e da Guastalla partirono moltissimi compromessi politici e si rivolsero al Piemonte e verso le Romagne. Il Piemohte però n’ebbe il maggior numero, pochi essendo stati quelli, che per via di terra e di mare poterono porre il piede sicuro a Civitavecchia ed a Roma.

Anche le due Sicilie, ove le città vennero più volte perdute, più volte debellate e bombardate, ove Messina procacciossi non poca fama, diedero per più riprese non pochi emigrati al Piemonte, i quali fuggivano dalle carneficine della loro patria.

Lacaduta in fine dell'eterna città e di Venezia, per opera l’una della Francia, l’altra dell'Austria, ambedue collegate insieme negli stessi principii, aumentò in modo straordinario il numero degli emigrati in Piemonte. É inoltre da osservare, che anche molti ungheresi e molti polacchi si ricoverarono in Piemonte fuggendo ai disastri ungarici’ e magiari.

Fra i motivi che indussero gl'Italiani ad emigrare in Piemonte, piuttostoché in altre parti dell'Europa, noi dobbiamo escludere quello della fusione. Imperciocché egli si fu un motivo particolarmente ed esclusivamente risguardante le popolazioni della Lombardia e della Venezia. Anche molti fra' lombardo-veneti, avversi a quel paese, non sarebbero colà giunti, se altra terra avesseli raccolti. Tutte le nazioni respingevano i compromessi politici dalle loro terre. La Grecia soltanto offriva ricovero agli emigrati di ogni paese, forse consigliata, o piucch’altro costretta dalle altre potenze. Gl’Italiani però non ne approfittarono che tardi, pochi essendo quelli che in allora conoscessero tale determinazione, essendo rese molto difficili le comunicazioni e le corrispondenze. Anche la maggior parte di quelli che la conoscevano, non poterono prevalersene, perciocché lunghi mari separavanli dalla terra ospitale, o meglio assai di deportazione.

Dobbiamo quindi conchiudere, che il Piemonte fu l’asilo, l'ancora di salvamento della maggior parte degl’italiani, e tale che le storie sarde non ebbero mai esempii di una si numerosa emigrazione, come quella del 1849.


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CAPITOLO II

POLITICA DEL GOVERNO SARDO VERSO LA EMIGRAZIONE ITALIANA

La politica di Pier Dionigi Pinelli, ministrò del Re Vittorio Emanuele II, ebbe origine dalle emergenze fatali nelle quali era avvolto il Piemonte, e non andò esente da quelle pecche, che più o meno regnavano nella subalpina aristocrazia.

Dire politica è dire inganno, astuzia, arte di condurre la cosa pubblica ed i pubblici interessi ad un dato fine, per vie più o meno tortuose, più o meno legittime, più o meno logiche, umane e dignitose. Se giunge ad ottenere per risultamento un fatto compiuto, quella politica, per quanto perversi fossero stati i mezzi adoperati per arrivarvi, viene accettata, quasi universalmente per una politica buona. Essa è la politica dei fatti compiuti.

Il Piemonte non aveva e non poteva avere altre mire che quelle di risarcirsi, quando si fosse, delle sconfitte avute. Aveva perduto uomini e denari, doveva quindi conservare e cercar di aumentare la sua aureola d’influenza in Italia, doveva tracciarsi un nuovo cammino, che lo conducesse per qualsivoglia via e con qualsivoglia mezzo ad un centro fisso, ch'egli mirava da lungi con ansia ardente, e su cui vedeva scritto: guerra all’Austria! Epperò noi in questo libro non vogliamo denudare le piaghe di lui, benché fossero molto e molto cancrenose; ma vogliamo lasciargli, come gli si conviene, tutto il merito di aver saputo a poco. a poco estendere grandemente la sua influenza in Italia ed all’estero, di avere democratizzati i popoli, insinuando ne’ loro cuori i propri sentimenti, ch'erano quelli della riscossa, e lo amore della patria indipendenza.

Ciò premesso, non maraviglierà il lettore se si vedrà offerte le rose con poche spine.

Gli emigrati italiani residenti in Torino e nelle provincie sarde prima dei deplorabili fatti di Novara, colla loro voce, coi loro scritti, colle loro pubbliche dimostrazioni, sorretti dalla democrazia piemontese ed appoggiati alla verità ed alla giustizia, sbalzarono dal potere Pier Dionigi Pinelli, il quale, portato nuovamente al ministero dalle disgrazie di Novara, volle usar de' suoi mezzi per ripristinare l’ordine, anche a risico di attirasi le protestazioni delle camere e di tutta la nazione.

Torino in quei giorni era tramutata in un campo di discussioni e di mali contentamenti; cittadini ed emigrati tumultuavano, la stampa fulminava, mormorava l’esercito, la guardia civica indispettivasi, regnava ovunque il disordine, effetti tutti delle calamità sofferte, derivanti dalle sconfitte. Questi tacciavano d’inettezza il governo, perché non seppe conoscere i tempi, né elevarsi al dissopra del comune; quelli gridavano contro gli aliti demagogici, contro i tradimenti, contro le imperizie militari, contro le incostituzionalità; altri vituperavano il governo, che non avesse già mosso guerra all'Austria per amore di nazionalità, per incompatibilità di posizione, per ispirito di libertà, ma sibbene per ampliare i suoi dominii; epperò i fatti di Novara non ebbero che il valore di una burla, di sanguinosa commedia; altri infine spingevano le loro opinioni più oltre, asserendo: che la guerra combattutasi dal Piemonte non era stata una guerra contro Radetzky, contro l Austria, in favore della libertà, della indipendenza, della nazionalità, ma sibbene contro la libertà, contro la indipendenza, contro la nazionalità, e soltanto per interesse, per viste ambiziose. Intanto, mentre gli animi erano cotanto agitati, concitati, travolti; mentre si diversi erano i pensamenti, le credenze, i partiti, le dispute; mentre le camere erano convocate, e da tutti e da ciascuno in particolare si cercasse con ogni mezzo, con ogni lotta, che le novelle elezioni parlamentari riescissero nel senso e nel colore desiderato, venivano praticati incostituzionalmente in tutto il regno degli arresti, degli sfratti, delle perquisizioni, incoati processi contro la stampa, perlustrati alcuni caffè, congedato il battaglione zappatori del genio lombardo, sciolta la divisione lombarda, rotti gli assembramenti politici, condotti ai confini alcuni emigrati, provocata la esclusione dei deputati lombardi dal parlamento nazionale, non premiata da medaglia di merito la legione Antonini, benché ogni altra legione ottenesse tale onorificenza.

Lapolitica del ministero Pinelli e le incostituzionalità di lui fruttarono intanto l’arrivo alla presidenza ministeriale del marchese Massimo d'Azeglio, la proclamazione di varie amnistie imperiali, e la maggioranza democratica nel parlamento. Le camere vennero ricostituite, le aule parlamentari riaperte.

In quanto alle amnistie concesse pei popoli lombardo-veneti dall'Austria, egli è d’uopo osservare, che il feld-maresciallo Radetzkv soleva facilmente apprezzare il consiglio e gli avvisi de' suoi due capi dello stato maggiore, Hess e Schònhals.

Dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, l'ambasciatore francese Bois-le-Comte, recatosi al quartiere generale austriaco, veniva dal feld-maresciallo assicurato, che si sarebbe accordata amnistia generale ai lombardi, con poche eccezioni. Ma il generale Hess era del seguente avviso «...non doversi perdonare sì tosto a' sudditi ribelli, i quali subir dovevano gli effetti della loro condotta e le pene che si avevano meritate.»

Questo fatto ha piena relazione col risultamento dei passi fatti da Massimo d’Azeglio riguardo all’amnistia presso la corte di Radetzkv a Monza.

Massimo d’Azeglio, stanteché il Piemonte al cospetto di tutte le altre parti d’Italia e delle potenze estere, per mantenersi in una certa qual riputazione e fomentare il prestigio della sua influenza, doveva far vedere di avere incontrato un debito di onore cogli emigrati italiani, Adenti in casa di Savoia, e che lo abbandonarli sarebbe stato quindi un tradimento, insistette lungamente, perché nel trattato di pace fosse assicurata un’amnistia generale ai popoli lombardo-veneti.

LaFrancia e l’Inghilterra, interrogate, risposero «che il Piemonte pensasse alla propria salvezza.»

Il generale Radetzkv lasciò travedere che, dopo firmata la pace, avrebbe invocato da S. M. l’imperatore d’Austria, un atto di sovrana clemenza, e lo scopo fu raggiunto.

Nella tornata del 19 agosto 1849, troviamo una esposizione fatta da Massimo d’Azeglio alla camera parlamentare di Torino. Egli diceva «essersi inteso di serbare illeso l'onore ed i vincoli di nazionalità col fare dell’amnistia una condizione del trattato di pace: essersi però dovuto rinunziare al Lombardo-Veneto.» Ma chiesta comunicazione dal deputato Valerio dei documenti diplomatici relativi all'amnistia, il d'Azeglio diede lettura di una Nota di Pralormo a Schwartzenberg.

Le amnistie, che più volte in progresso di tempo vennero dall’Austria proclamate pei sudditi del regno Lombardo-Veneto, non riuscirono in tutta quella efficacia che dalle famiglie dei compromessi politici erasi desiderata. Imperciocché fu massima cardinale del Piemonte, nella sua politica di preparazione ad un altro avvenire di evitare che la migrazione ripatriasse. Il miglior mezzo, il più sicuro fu creduto quindi quello d’incuterle spavento, facendole vedere: che l Austria teneva pronte e carceri e forche per quelli che rientrassero nei loro paesi; che le amnistie non erano proclamate dall'imperatore, ma sibbene dal generale Radetzkv, e che quindi potevano valere quando si avrebbe creduto, e non valere quando lo si avesse voluto. Essere elleno valide e non valide: valide per chi voleva quel governo, che le aveva emanale, e non valide per chi quel governo non voleva. Epperò non essere codeste amnistie che un tranello espressamente fatto per accalappiare gli emigrati e sagrificarli, rientrando nei loro paesi. Molti giornali dello Stato ebbero questo ufficio. Imperciocché volevasi che la emigrazione italiana andasse in qualsivoglia altra terra, tranne che nella propria, e ciò per mantenere sempre vivo ed acceso il fuoco della rivoluzione, l'odio delle famiglie dei compromessi verso i loro rispettivi governi. Questi attriti dovevano perpetuare nel regno Lombardo-Veneto le ostilità morali dei popoli.

Lamaggior parte degli emigrati si mise nella rivoluzione senza saper che cosa volesse dire politica,. Appartenenti a famiglie o povere, o civili, oneste ed umili, cresciuti nei santuari delle scienze o delle lettere o delle arti; o nelle officine o nei commerci o nelle industrie o nei campi; senza esperienza, senza cautela, ignari di quanto facevano, soltanto acceso il cuore di belle e splendide speranze, affascinati dal grido di libertà, ebbri della più cieca e leale fiducia si abbandonarono nelle braccia dei loro fratelli piemontesi, si trovarono tutto in un tratto spinti nella rivoluzione, trascinati, diremo così, senza saperlo, e spesso senza volerlo, dalla corrente, prima alle battaglie, poi alle sconfitte ed all'esilio. Laonde fu faci! cosa il ridestare nei loro petti l’odio contro l’Austria, il farla considerare come la sola origine de' loro mali, e quindi renderli molto avversi al ripatrio. E però non è maraviglia se le amnistie proclamate con tanta perseveranza non ottenessero il desiderato frutto.

Ricomposti gli animi atterriti dagli sconvolgimenti politici, e ritornato l’ordine nelle popolazioni delle Sicilie, delle Romagne, del Lombardo-Veneto e dei Ducati colla forza militare, e della polizia, che agivano con mano di ferro, e con ogni modo di rigore, onde soffocare ogni sintomo di sommossa, la Camera dei deputati di Torino nella sua tornata del 30 agosto 1849, votava un altro soccorso di franchi 100,000 per la emigrazione. In quella circostanza venne da alcuni deputati biasimata la politica tenuta dal ministero, e l’avvocato Angelo Brofferio, caldo campione della sinistra e presidente del circolo confederativo-nazionale, pieno di sdegno esclamava dalla tribuna del parlamento: che non dovevasi decretare soltanto agli emigrati un soccorso, ma sibbene una patria, avendone essi acquistato il diritto. Ma le camere per quantunque democratiche, e la stampa libera furono sempre deboli e piene di riguardi; imperciocché le une e le altre temevano provocando una crisi ministeriale, di nuocere alla vita dello statuto, le molte volte dall’alto minacciata. I meno svegliati d’ingegno, i più digiuni delle cose politiche, ed i. più poveri di spirito astenevansi da qualunque reclamo, temendo eziandio, che col pretesto di mantenere l’ordine, fossero chiamate in Torino le armi austriache permanenti in Novara. Il Comitato della emigrazione chinava la testa, taceva, e chiamavasi impotente, mentre di soppiatto secondava le mire ministeriali, essendo divenuto un organo immediato della Questura torinese, e diminuiva i sussidii votati dalla Camera.

Ladiminuzione dei sussidii agli emigrati durò anche dopo la recente votazione della Camera per il nuovo soccorso dei 100,000 franchi.

I sussidii giornalieri che passavansi dal Comitato agli emigrati nel palazzo di città (municipio), prima della loro riduzione, erano ripartiti nelle seguenti quattro categorie:

Cat. I. Ai civili (con questo nome venivano compresi non solo i nobili, e quelli che prima degli avvenimenti vivevano di rendita, ma anche quelli che esercitavano professioni civili, come p. es. avvocati, ingegneri, medici ecc., ecc.,) franchi due per ciascuno.

Cat. 2. Agli impiegati (a quelli cioè che erano impiegati avanti la rivoluzione) franchi uno e centesimi 50.

Cat. 3. Ai professionisti arti e mestieri, fuori di occupazione, franchi uno.

Cat. 4. Agli altri, considerati tutti come militari, centesimi 5

E dopa la riduzione erano ripartiti cosi:

Cat. 1. Ai civili fr. 4. 50.

Cat. 2. Agli impiegati fr. uno.

Cat. 5. Ai professionisti centesimi 75.

Cat. 4. Ai militari centesimi 50.

Questi sussidii, prima della loro riduzione, venivano somministrati di settimana in settimana, e dopo la riduzione di tre giorni in tre giorni. Fama correa, che nell'atto della distribuzione di codesti sussidii, gli impiegati del Comitato ed il capo della emigrazione abate Carlo Camerone, milanese, non cessassero di spargere la voce, che per quantunque la camera legislativa avesse votato la nuova somma di franchi centomila, non pertanto non dovevasi far calcolo che di circa trentamila, venendo gli altri assorbiti dai debiti incontrati prima della loro votazione; forse ciò era in primo luogo per togliere lo spettacolo commovente e straziante di vedere sotto gli altissimi archi del palazzo municipale nella corte interna, al primo piano, una moltitudine di persone, rispettabili nomini e donne, frammischiati (forse per uno spirito esagerato di democrazia o per mancanza di riguardi per parte di quel Comitato) coi pezzenti, coi ritìnti della società, accalcantisi gli uni sugli altri, bisl igoanti, impazienti, arrossire di vergogna ed aspettare, quasi quotidianamente che si aprissero le porte del Comitato, per allungare la mano all'obolo della pubblica carità; o forse ciò era precipuamente per far cessare il disordine di una emigrazione qualificata oziosa, vagabonda per le vie di Torino, in balia alla dissipazione, alla corruzione della mente e del cuore, benché taluno di essi potesse essere un ente produttore utile a se stesso ed alla società; e forse ciò avveniva in fine perché stavasi pensando, elaborando, organizzando una grande risoluzione.

E per vero dire la emigrazione italiana era l’idolo del Piemonte, perché speravasi da lei trarne grandi profitti. Quel paese prima degli avvenimenti del 1848 era difettoso in ogni ramo dello scibile umano; la sua aristocrazia arrogante, superba, incolta; il governo assolutista, arbitrario; regnava in ogni pubblico dicastero la avidità di guadagno e nulla più: l’ignoranza quasi dovunque; non si menava in somma che una vita materiale, ogni ente morale era ottuso. In questo stato trovandosi il Piemonte, era ben naturale si prevalesse della svegliatezza d’ingegno, del sapere, delle cognizioni della emigrazione per cangiare la sua condizione morale e sociale, e porsi, coll'aiuto dello statuto concesso da Carlo Alberto, al di sopra delle altre parti d’Italia. Laonde non da altre fonti che dallo statuto, dalla costituzione, dalla democrazia, dall'ingegno degli emigrati, i piemontesi trassero la larga materia che gl'innalzò, ristorando le scadute scienze, le lettere, le arti liberali e meccaniche, propagando sagge leggi ed istituzioni, animando il commercio, la industria, le manifatture e tutti i rami dello scibile umano. Epperò tanto prima che dopo i fatti di Novara, tutti quelli fra gli emigrati che avevano preclaro ingegno, tutti quelli che nel regno Lombardo-Veneto e nelle altre parti d’Italia avevano influenza, tutti quelli che caldi di amor patrio nei recenti avvenimenti avevano con maggiore ardore agito nel proselitismo e nella propaganda, vennero innalzati in posti, in cariche, in impieghi, nelle camere del regno, o nei pubblici dicasteri, o disseminati per ogni dove nelle provincie,' come bandiere tricolori aventi la missione di democratizzare il popolo, d’insinuare ovunque e per ogni maniera la idea dell’emancipazione italiana. Gli uffizii quindi di ogni pubblico dicastero annoveravano emigrati, e quinci la stampa e la pubblica istruzione erano nelle mani della emigrazione. Anche gli uffizii particolari, le officine, gli opifizii, le scuole private, gli stabilimenti di ogni genero, i commerci, le industrie approfittarono della emigrazione ben largamente.

I provvedimenti accennati non valsero però ad occuparli tutti: ancora una gran massa vivea nell'ozio e nel pericolo di divenire preda del vizio. Le camere nazionali, per evitare una crisi ministeriale, che poteva tornar dannosissima in quei momenti, vennero chiuse per regio decreto. Il Piemonte era un paese assai piccolo, povero di risorse, esausto nelle finanze, carico di debiti nazionali ed esteri, nella impossibilità quindi di continuare i sussidii alla emigrazione e di aprirle nuovi luoghi, nuovi rami di lucrosa occupazione.

Si fu veramente allora che molti emigrati, all'ombra delle amnistie imperiali, a qualunque rischio ripatriavano; si fu allora che i veneziani, i romani, i siciliani, e quelli che non avevano potuto recarsi in Piemonte, partirono per la Grecia; si fu allora che i periodici liberali della Francia e dello Stato sardo cantavano gli osanna, portando a cielo la filantropia greca, e magnificavano gli edem di delizia che colà trovavano gli emigrati; si fu allora in fine che la stampa greca largheggiava giornalmente promesse, e diramava circolari, inviti che adescavano ed attiravano a sé l'attenzione italiana e gli uomini che in Italia si erano politicamente compromessi.

E noi citiamo, fra gli altri numerosissimi, un avviso di due liberi giornali greci, la Nemesi e la Opinione Pubblica. che ripetutamente veniva pubblicato nella Fratellanza, nella Gazzetta del Popolo, nel Proletario, nella Democrazia, nel Nazionale di Parigi, ed in molti altri giornali liberali.

Avviso interessante ai profughi di ogni paese.

«La nazione greca nella gloriosa lotta ch'ella ha sostenuto per la sua indipendenza ha ricevuto dei soccorsi da tutti gli uomini a cui è cara la libertà; egli è giusto ch'ella ora riconosca ciò che tanti popoli hanno fatto per lei.

«In conseguenza la nazione greca invita tutti i rifugiati che si sono battuti per l’affrancamento del loro paese, a qualunque nazione essi appartengano, a rendersi sopra il suo territorio; essi vi troveranno un cordiale accoglimento ed i soccorsi necessarii alla loro esistenza.

«Un credito di dragme 100,000 è aperto per tale oggetto; il grande stabilimento di Oriente in Atene è messo alla disposizione di tutti i rifugiati. Noi invitiamo tutti gli abitanti delle isole ioniche a seguire il nostro esempio.»

Citiamo pure una circolare del governo greco, sottoscritta dal ministro dell'interno signor Crestidis, che in Piemonte ed in Francia ebbe grande pubblicità, e destò grandi speranze nel petto degli emigrati stanziati nello Stato sardo.

«Il governo greco dice la circolare» ordina a tutti i Nomarchi (governatori di provincie) di lasciare liberamente transitare gli emigrati per tutto lo Stato elleno, e fissarsi in qualunque parte di esso, che loro piacerà. Egli rivolge le stesse istruzioni ai Lisimarchi (direttori di polizia), massime di Atene e di Pireo, manifestando il suo volere, che i profughi trovino sul suolo ellenico protezione ed ospitalità.

«Una società di soccorso venne stabilita in Atene da privati di ogni opinione, tutti persuasi di adempiere ad un atto di gratitudine. Ne è presidente il signor Kagiskos presidente di quella camera dei deputati; fra i membri vi hanno un senatore, due deputati, ecc. ecc.»

Un tale vampo di promesse emanato dalla stampa greca confortava l’animo degli emigrati, e gli persuadeva, che in qualunque luogo avrebbero trovato, senza tema di essere respinti e vilipesi, protezione ed ospitalità. Con tale speranza, appoggiati a tale persuasione, veniva indirizzato all’abate Camerone il seguente invito pubblicato sul Proletario di Torino, n. 57, 50 agosto 1849.

Invito all’ab. Presidente del Comitato dell’emigrazione italiana

«La Provvidenza ha ispirato sensi generosi alla magnanima Grecia. Gli emigrati possono colà trovare ospitalità ed impiego.

«L’abate Camerone potrebbe approfittar di quel nobile invito. A lui spetta, come pensò e pensa pegli emigrati che hanno mestieri, di pensare anche per quelli che esercitano professioni.

«La civile emigrazione, il cui soffrire non è soltanto materiale, dev'essere lo scopo delle sue cure, del suo cuore.

«Organizzi adunque una Spedizione per la Grecia di tutti quelli fra gli esuli della civile emigrazione, che, avendo perduto le loro sostanze, o per essere troppo compromessi, non possono più ritornare ai loro paesi malgrado l’amnistia concessa da Radetzkv e la conchiusa paco tra il Piemonte e l'Austria.

«I soccorsi del Comitato sono cessati, impieghi negli Stati sardi non ve ne sono più; dunque sarebbe empietà non prevalersi della Provvidenza, che apre una nuova via agli esuli professionisti.

«Il piano di organizzazione di codesta spedizione sarà ostensibile all'àb. Camerone ogni qual volta egli vorrà dirigersi all'ufficio del Proletario

«Speriamo di non dovere venire più su questo argomento, perché il Camerone vorrà abbracciare il nostro consiglio come quello, che spiega i desiderii di un gran numero di emigrati, e come quello che porge asilo sicuro e vantaggioso agli infelici.

«A. F. 71.»

Il piano di organizzazione della spedizione degli emigrati in Grecia depositato all'ufficio del Proletario di Torino fu il seguente, che noi testualmente trascriviamo come un documento politico di molta importanza.

Piano di spedizione di una colonia di emigrati civili in Grecia

«1. Un manifesto che parta dal Comitato di emigrazione italiana, stampato e divulgato, appelli tutti quelli della civile emigrazione, maschi o femmine, ammogliati o nubili che desiderano portarsi in Grecia: come sarebbono p. es. architetti, ingegneri, letterati, medici, chirurghi, farmacisti, musicanti, pittori, scultori’, non che quelli che esercitano un’arte utile ma civile, come p. es. Intagliatori, orefici, tornitori, tintori di stoffe, ecc.

«2. Sia loro fissata un’ora di convegno al Comitato per notare su apposito registro i loro nomi, cognomi, condizione, patria, professione, titolo, ecc. ecc.

«3. Ottengasi dal Comitato che il ministero di guerra e marina stacchi un ordine di permesso d’imbarco sui navigli sardi, che da Genova vanno a Malta e da Malta in Grecia.

«4. Sia creato un capo conduttore, che abbia cognizioni di viaggi e di lingue, che sia di condotta e probità irreprensibili. A questi sieno affidati i passaporti di ciascun viaggiatore che vuole emigrare, ed una somma di denaro pei soccorsi di otto mesi alla colonia che partirà con lui. Sia spedito questo capo a Genova qualche tempo prima dell'imbarco, onde fissare colà un locale per ricevere ed iscrivere gli emigrati mano mano che vi giungeranno.

«5. Sia dal capo partecipato al Comitato di Torino il luogo di convegno fissato in Genova, e questo luogo venga indicato sul foglio di via, che si rilascierà a ciascun viaggiatore dal suddetto Comitato.

«6. Sia dato dal Comitato un soccorso anticipato di 15 giorni a ciascun viaggiatore che da Torino si porterà a Genova, e questi abbia l'obbligo di trovarsi al prefissato convegno in Genova, che sarà notato sul foglio di via, nel termine perentorio di otto giorni e col mezzo di trasporto che crederà più di sua convenienza.

«7. Il ministro degli affari esteri di Torino partecipi intanto preventivamente al governo greco l'arrivo della colonia, e prenda seco lui i concerti necessarii, i quali sieno comunicati a tempo debito al capo della spedizione.

«8. Al capo della spedizione sieno dati eziandio dispacci del governo sardo per il governo di Atene, onde sia riconosciuto, e sia considerato I oggetto di sua missione.

«9. li capo faccia firmare i passaporti della sua compagnia dal console generale greco residente in Genova prendendo anche seco lui le necessarie istruzioni; e d'intelligenza coila polizia di Genova fìssi i posti nei vascelli per la partenza, la quale sarà effettuata appena i due governi, il sardo ed il greco, avranno presi fra loro i debiti concerti.

«10. Giunto il capo colla sua colonia in Grecia, consegnerà i suoi dispacci a cui si spetta, depositerà nelle mani delle competenti autorità i passaporti, istituirà un Comitato di emigrazione, ed andrà di concerto con quel governo e con quel console sardo per il collocamento degli emigrati partecipando al governo torinese di mese in mese il suo operato.

«11. La prima spedizione non sia più numerosa di 300 individui tra maschi e femmine e ciò per facilitare l’imbarco.»

Alcuni giorni dopo, la Direzione del Proletario pubblicava nel suo n. 61, 4 luglio 1849, il seguente annunzio.

«La Direzione del Proletario ha rimesso all'ab. Camerone, dietro di lui richiesta, il piano di spedizione dei civili emigrati in Genova, dettato con somma conoscenza di causa da un distinto letterato italiano.

«L’abate Camerone vorrà, non ne dubitiamo, porre senza ritardo in esecuzione il detto piano, non obbliando i doverosi concerti col suo autore.

«Fra pochi giorni informeremo il pubblico di quanto si sarà operato; intanto lo avvertiamo che anche a Genova si organizza una spedizione di simil genere.» (Vedi il Corriere mercantile di Genova).

Le basi cardinali sulle quali veniva appoggiato il piano di spedizione degli emigrati in Grecia furono le seguenti, che per sommi capi, più che in via di esposizione, facciamo note.

Vennero scelti fra gli emigrati, gl’italiani di condizione civile, e fra questi gli ingegneri e gli architetti, perché l'autore del piano sapeva che in Grecia poco si conosceva l’arte di edificare, e che colà abbisognavasi di strade e di case quasi in tutti i paesi; i letterati, perché avrebbono potuto insegnare le lingue italiana, latina, francese e spargere i lumi di civiltà di cui colà tanto penariavasì; coi medici, coi chirurghi, coi farmacisti volevasi provvedere la Grecia, la quale in molte sue isole ne mancava. Non essendovi in tutta la Grecia che una sola banda militare, residente in Atene, e un avendosi che poca conoscenza di pittura, di scultura, di meccanica e di arti meccaniche, i musicanti, i pittori, gli scultori, i meccanici avreldero con facilità trovata occupazione.

Volevasi in quel piano un capo, perché sapevasi che la colonia poteva deperire senza uno che la rappresentasse, che la guidsse, che intendesse a' suoi interessi, e che le facesse fare giustizia, se venisse offesa.

Volevasi che il governo sardo avesse presa preventivi accordi col governo greco e che il capo venisse fornito di credenziali, onde la colonia emigrante non venisse diseonosciuta e non giungesse lì con un'amara incertezza intorno al suo avvenire.

Volevasi che questo capo fosse fornito di una somma di denaro atta a soccorrere gli emigrati della sua colonia sino a tanto che avrebbela potuta impiegare: e ciò perché poco o nulla credevasi alle sconfinate promesse emanate dal Governo, o dalla nazione, o dalle gazzette greche. Volevasi finalmente che questo capo istituisse in Grecia un Comitato di soccorsi per la emigrazione, fosse investito di un certo tal quale potere di rappresentante, onde con diritto procedesse e con ordine nelle vie disciplinari al collocamento degli uomini a lui affidati; ben sapendo, che la nazione greca non avrebbe considerati come compromessi politici, e quindi come emigrati, gli uomini che le venivano spediti dal Piemonte.

Queste furono le basi sulle quali veniva fondato il piano di spedizione degli emigrati in Grecia:. basi che servirono di guida al governo sardo per riuscire all’allontanamento loro dal suolo piemontese, esponendo gli emigrati nei loro interessi e nelle loro vite, abbandonandoli in terra straniera senza guida, senza consiglio, senza mezzi di sussistenza, ad un avvenire incerto e periglioso. Ma lo scopo politico fu raggiunto, se di tal modo se n’è impedito il ripatrio.

Gli emigrati intanto non cessavano di gridare: Vogliamo andare in Grecia — Vogliamo andare in Grecia; i Circoli politici cantavano le lodi in onore di quella nazione ospitale, e la stampa periodica, sorreggendo tali idee, spingeva il Governo all'esecuzione delle progettate spedizioni.

Laposizione per verità del Governo era in quei momenti piuttosto difficile e trista. Imperciocché l'Austria reclamava gli emigrati e minacciava; il ministero non voleva consegnarli, benché vi si fosse obbligato col suo trattato di pace; ma il piano di spedizione in sue mani; la stampa libera che ne sollecitava la esecuzione; la emigrazione che tumultuava... tutto ciò formava una situazione alquanto imbarazzata. Nondimeno faceva mestieri pronunziarsi e prendere una determinazione. Darli all’Austria, no; dunque proteggere la esportazione in Grecia. Questa determinazione fu presa, ed il piano ne servi di guida soltanto e non di base. Urgeva far tacere l'Austria da una parte, e, nello stesso tempo, accontentare dall’altra gli emigrati che pretendevano partire.

Il ministero al certo nella sua politica non poteva agire differentemente da come ha agito in quella emergenza; non poteva agire direttamente, francamente da se stesso, apertamente, ufficialmente, mandando in Grecia quegli uomini, che giusta l’obbligo suo doveva riconsegnare alle loro patrie, all'Austria Epperò fu abbracciata la idea del piano, ma non il piano; l’idea di agire di soppiato e non apertamente, in via particolaree non ufficiale. Imperciocché mentre ottenevasi lo scopo da una parte di allontanare dal Piemonte quella enorme sovrabbondanza di uomini, che non avrebbero potuto colà trovare utili occupazioni; mentre ottenevasi l’intento dall’altra di non darli all’Austria e quindi di allontanarli dalle loro famiglie per perpetuare in esse e le corrispondenze con essi loro (fonti di continua agitazione) e gli odii verso i loro dominatori considerandoli come prima causa dell’allontanamento dei loro consanguinei;... potevasi nello stesso tempo rispondere al luogotenente austriaco, se avesse reclamato contro codeste spedizioni, che nessun atto ufficiale esisteva patrocinatore delle medesime e che d'altronde egli, il ministero, non poteva impedire a quegli uomini di andarsene ove meglio loro fosse piaciuto.

Il generale La Marmora (commissario estraordinario, che compiva la missione di richiamare all'ordine i genovesi, bombardando la città con guerra fratricida) ebbe in conseguenza ordine di noleggiare a spese dello Stato due vascelli, il Vincitore e la Concordia, per il trasporto in Grecia degli emigrati, che volevano andarvi. Questo ordine fu trasmesso al questore de-Ferraris, ed immediatamente da esso lui eseguito in via privata e con somma cautela. I fogli non ministeriali intanto (senza alcun carattere che potesse guarentire l'emigrazione) squillarono inviti, ed il Comitato ed i sottocomitati sparsero la voce che quelli che volevano approfittar dei vascelli, che da Genova partivano per la Grecia, andassero ad iscriversi al Comitato.» E vi andavano in folla attratti dall’idea di novità, di trovar impiego, di far fortuna, di visitare i luoghi santi, la Palestina, I Egitto, Atene, Tebe, Corinto, luoghi famosi per mille fatti, per mille memorie; e s’inscrivevano sul registro dei viaggiatori, e ricevevano un piccolo sussidio per qualche giorno ed un foglio di via per recarsi a Genova, ove altre misure li avrebbero guidati all'imbarco.

Con tali disposizioni, ed in cosi fatta guisa, il giorno 3 settembre 1849 partiva da Genova il primo vascello, la Concordia, con 227 uomini, cioè 22 polacchi, 81 ungheresi e 124 italiani; ed il 17 dello stesso mese e dallo stesso porto salpava pure il secondo vascello, il Vincitore, con 347 uomini e 6 donne, cioè 6 ungheresi e 341 italiani.

Il capitano Emmanuele Lincetti, genovese, aveva obbligo di far loro le spese del vitto, fino alla libera pratica in Grecia. Il questore de-Ferraris muniva il Lincetti di lettera per il ministro sardo in Atene, cav. Peloso; ed il sig. Michele Petrocochino, console generale di S. M. Ellena in Genova, scriveva, intorno a quelle spedizioni, lettere di appoggio a S. E. il ministro degli affari esteri in Atene.


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CAPITOLO III

ANNO 1849

La rivoluzione italiana sfrenata e gigante avvogliendo tutti e tutto ne’ suoi vortici, scompose, afflisse e danneggiò da un capo all’altro la intera penisola. I ripetuti bombardamenti contro le sue castella, le sue torri, i suoi baluardi (nelle due Sicilie); i continui stati d'assedio nelle sue provincie; gl innumerevoli arresti, le spesse fucilazioni, i giudizii statari, le subite e frequenti condanne, gli ergastoli, i patiboli, gli sfratti, le deportazioni, ed in fine la inaugurazione (sotto governi militari) di una politica di un carattere assoluto, dispotico, arbitrario rendevano deplorabile lo stato di quelle contrade.

Stanche ed atterrite quindi le popolazioni da tanti mali si diedero in braccio ad una morale inettitudine, simile allo sbalordimento di colui che si sente fischiare di intorno la scoppiata folgore, e sbadatamente lasciarono si facesse. Viveano quei popoli, ma, per quella politica, la loro vita era immersa nella prostrazione, nell’avvilimento, nello spavento. Viveano l'oggi, incerti di vivere, o almeno di respirare l’aria libera all'indomane, perché un vago sospetto bastava per dar luogo ad una reclusione, ad. una deportazione.

Gli uomini intanto venduti ai poteri andavano a gara nella ricerca delle arti e delle maniere le più acconcie al sostegno di quella politica, onde perpetuarla nei regni; e vi riuscirono coi soli due terribili elementi, forza e terrore.

Egli è perciò da considerare che non molto malagevole tornò al Piemonte di attirarsi l'attenzione dei cittadini di tutti gli altri Stati italiani, seguendo egli colle proprie istituzioni un cammino affatto contrario ed opposto a quello tenuto dai dominatori di quegli Stati. Egli volle muovere ad essi una lotta morale, una lotta di principii, d’istituzioni, di leggi, di pubblica istruzione, di pubblica amministrazione, di elevatezza e di progresso. Questa lotta fu giudiziosamente condotta, perché creò quell'antagonismo che, mentre colà addiveniva esca a novelle ricerche di miglioramenti sociali, negli altri Stati invece facevasi argomento d’invidie e di ammirazioni, e manteneva nei popoli sempre accesa la brama di unirsi a quel paese, come il sole che spargesse la luce della civilizzazione e del benessere sociale.

In Piemonte la costituzione aveva inalberato il vessillo italiano, salutato da tanti ingegni gagliardi, da tanti spiriti elevati, figli della emigrazione italiana e di quella terra prediletta, che sola, in un angolo remoto della penisola, custodiva il sacro fuoco della indipendenza e della nazionalità, mentre negli altri stati italiani si avevano sempre sotto gli occhi gli stemmi stranieri.

In Piemonte aveanvi uno Statuto e due Camere; quella dei deputati e quella dei senatori, ciò è quanto si dicesse, la volontà delle popolazioni, rappresentata dai suoi eletti alle due Camere, formare 1 amministrazione della cosa pubblica, le proprie leggi, le proprie istituzioni; mentre negli altri Stati italiani non era che la volontà di pochi stranieri che a modo loro regolavano la cosa pubblica, i municipi! dipendendo in tutto dagli alti dicasteri dello Stato, e le congregazioni comunali, là ove esistevano, altro non essendo che emanazioni delle Luogotenenze, delle Delegazioni e dei Commissariati. Le comuni, i popoli infatti mai riuscirono alla nomina di un deputalo centrale.

In Piemonte una libertà senza limite, libertà individuale, libertà di commercio, di associazione industriale, di riunione scientifica, artistica, letteraria, politica, libertà di religione di parlare, di sindacare, di censurare e uomini e azioni, e governo e libertà di stampa, sconosciuta negli altri Stati.

In Piemonte il disimpegno degli affari nei pubblici dicasteri veniva eseguito con sollecitudine e con giustizia, perché altrimenti il pubblico avrebbe avuto il diritto di reclamare e colla stampa ed ai tribunali competenti, mentre altrove aveavi lentezza, intrigo ed arbitrio; colà tutte le azioni del Governo, della polizia, di qualunque dicastero venivano motivate; negli altri regni i Governi non rendevano ragione alcuna del loro operalo; colà una guardia nazionale a tutela dei cittadini; altrove una forza provocante ed insolente; colà infine tutto moto, tutto vita, tutto industria e speculazione; nelle altre parti invece tutto miseria, tutto inerzia, tutto materia di avvilimento ed oggetto di pianto e di desolazione.

Ecco come il Piemonte sino da quell'epoca incominciò a fare agli altri Stati italiani una guerra; una guerra di fatti, una guerra che gli preconizzava una sicura vittoria. Porsi in tali condizioni interne da poter strappare dal cuore di tutti gl italiani degli altri regni le parole «là stanno bene, noi stiamo male.» Si fu per lui la prima sua sollecitudine ed il suo vero trionfo. Con questo solo mezzo egli crebbe la sua influenza in Italia e rese insopportabile la posizione degli altri italiani. Se gli altri Governi avessero saputo distruggere quell'antagonismo, concedendo eglino pure delle libertà costituzionali nei loro Stati; considerando i loro soggetti, non come un’accozzaglia di genti senza vita e senza volontà, ma sibbene un popolo generoso ed intelligente, meritevole di grandi destini, forse si sarebbono risparmiate alla povera Italia le piaghe che l’afflissero!

Ma come egli è vero che tutte le libertà, dallo Statuto del Re Carlo Alberto concesse ai popoli subalpini, resero il Piemonte il centro delle operazioni per la indipendenza dell’Italia, così egli è vero ancora che quelle stesse libertà, concesse a popoli, non assueffati alla vita politica, a popoli stati sino allora sotto il peso dell'assolutismo e dell'arbitrio, dovevano aprire il campo a mille partiti, e condurre quei popoli da un eccesso all'altro, vale a dire all'estremo opposto. Mazzini ed i repubblicani arrovellati per l'esito sfortunato riuscito a Roma, raccoltisi in Svizzera, alimentavano il fuoco di quei partiti, che servivano alle loro mire, e pubblicavano il giorno 19 settembre in Lugano il programma del loro giornale, l’Italia del Popolo. Si cercava però dal governo di Torino di paralizzare la situazione, ma con poco frutto. Epperò, mentre in Modena le commissioni militari condannavano gli individui compromessi nella crisi politica del marzo precedente, e per decreto ducale del 1S seltemb. 1849 venivano nominate altre due commissioni militari l'una in quella capitale, l’altra in Massa, intente a por freno ai frequenti delitti di omicidii, incendii, aggressioni, furti violenti, (effetti della pressione e della miseria sotto cui erano cadute quelle popolazioni), la prima commissione competente per le provincie che giacciono al di qua dell’Appennino, la seconda per quelle poste oltre l’Appennino stesso, accordando all'art. 4. di quel decreto un premio di L. I. 10,000 da corrispondersi dal ministero di Buon Governo a chi scoprisse gli autori dei commessi delitti; dal Governo di Torino invece, il quale non poteva, perché costituzionale, ricorrere, come negli altri luoghi, alla forza, cercavasi di trovare un rimedio alla tesa situazione con un diversivo politico. Per la qual cosa prevalendosi delle lettere di Lisbona, che annunziavano che il corpo di Carlo Alberto veniva trasferito il 19 settembre anno stesso da Oporto a bordo del Monzambano, dopo una cerimonia colà falla con gran pompa, coll'intervento del clero e delle autorità civili e militari, egli col giorno 23 settembre faceva partire per Genova i componenti la deputazione del senato, otto membri incaricati di assistere al ricevimento delle spoglie mortali del Re Carlo Alberto. Questa commissione era presieduta dal sig. Lorenzo Pareto, presidente della Camera dei deputali. La funebre cerimonia del ricevimento delle ceneri di S. M. venne fatta in Genova il giorno 4 ottobre 1849 con pompa decorosa e solenne, con ordine maraviglioso. La popolazione della piangente città ha reso omaggio alla memoria di lui col suo contegno pacato e composto a nazionale dolore.

Col giorno 5 ottobre il gran duca Leopoldo II rientrava in Firenze, largo di grandi promesse per la Toscana, che poi non mantenne.

Col giorno 8 Mazzini tentava provocare una nuova agitazione popolare in Piemonte: egli aveva capi repubblicani a Roma ed a Parigi; ma veniva in quest'ultima città arrestato il sig. Frapolli, inviato di lui.

Col 12 le ceneri di Carlo Alberto giungevano in Torino alle ore una pomeridiana. Il discorso funebre, che fu declamato dal celebre prevosto Robecchi, meritò che il fisco di Casale procedesse contro di lui.

Lasera del 13 alle 9 un’orda di popolo fece impeto nel palazzo del bargello in Firenze reclamando, tumultuando, minacciando. La sentinella fece fuoco. Livorno e la Toscana trovavansi al massimo della miseria e della agitazione. La prefettura di Pistoia condannava il prete Vivarelli, il dott. Agostini, il prof. Corsini, il dott. Didaco Maccio, l'ingegnere Gamberai, il prete Marini, con sentenza profferita senza l’intervento del prefetto Rosselmini, cioè arbitraria.

Torino intanto era in grande movimento, coperti a lutto e uomini e palazzi e contrade, perché ebbe luogo il 4, la sepoltura del Re Carlo Alberto, e tumulandosi la sua spoglia nei sotterranei della basilica di Superga.

Il giorno 20 il gran duca di Toscana convocava le promesse Camere, ma poi faceva porre la città in istato d'assedio, ad imitazione di quasi tutte le città delle Romagne, delle due Sicilie, e del Regno Lombardo-Veneto che si trovavano nella stessa condizione, e condannava il 25 l'ex dittatore Guerrazzi, detenuto a Volterra, alla prigionia in vita.

Ma il diversivo politico religioso tentato dal Governo di Torino colla cerimonia della tumulazione del Re Carlo Alberto, non ebbe il desiderato frutto. Imperciocché cessata quella momentanea quiete, prodotta da quel grande atto religioso, i partiti ripresero con più accanimento le loro lotte contro il ministero, che aveva fatto pace coll’Austria contro l'acconsentimento delle Camere. Genova formicolava di fuorusciti di tutte le provincie italiane, colà assembrati sotto la bandiera di Mazzini, ed il Parlamento nazionale gittava la prima pietra di sfida contro la Santa Sede proclamando, il 24 ottobre, che le leggi della Chiesa in Piemonte erano leggi dello Stato.

Lacondizione politica di quel paese sembrava che dovesse inevitabilmente riuscire a colpi di Stato, e ad una soluzione del parlamento. Imperciocché alcuni partiti (i conservatori ed i retrogradi) e nelle Camere e fuori si lasciavano imporre dai loro desideri! per l'assolutismo del tempo passato, quindi accusavano il Gabinetto di retrocedere impaurito d’innanzi la demagogia; gli altri partiti, i repubblicani, gli esaltati, quelli dell'estrema sinistra, irritati della calma che incominciava a sorreggere il regime costituzionale, sotto il sistema di libertà legale, si spingevano alle violenze coprendo le voci dei moderati e dei pensatori assennati, sperando di vedere sorgere in mezzo a tanto conflitto e disordine quelle emergenze, nelle quali potessero con un destro giro di mano dare il potere alla demagogia, a pericolo anche che il loro passeggierò trionfo dovesse sparire coi disastri dì un’altra battaglia di Novara. Ambedue le parti impertanto s’illudevano sulle proprie forze: nessuna voleva confermare di essere co’ suoi procedimenti la causa delle sventure della patria; la prima, appoggiata ad un dispotismo che non aveva altra àncora per reggersi che la forza, come negli altri Stati italiani; la seconda facendosi disconoscente e traditrice della causa nazionale. Epperò il parlamento sardo composto di questi due estremi, di questi due elementi sì apertamente contrarii fra loro, non poteva agire con prudenza e moderazione, ed osteggiava e cozzava col gabinetto, il quale pur era incaricalo di liquidare i conti, risullamento sventurato dei fatti di Novara. Egli non è quindi da meravigliare, se quella maggioranza parlamentare lasciavasi trasportare in una ostinazione senza limiti, che confinava col disordine, e che fruttava il prolungamento deila deplorabile posizione di quel paese. Eppure si fu quella stessa maggioranza che spronò e spinse il Gabinetto alla ripresa delle ostilità contro l'Austria; quella stessa maggioranza che ai 23 ottobre attraversava tutti i tentativi di componimento.

Lasessione del 27 ottobre mise intanto un po’ di calma negli agitati animi degii eletti dal popolo. In quella sessione il ministro di grazia e di giustizia, a nome del ministro dell'interno, assente, dava lettura di un rapporto e di un decreto di legge relativi all'unione dei comuni di Montone e Roccabruna ai regii Stati; unione già compiuta cogli atti 26, 30 giugno 1848. La camera ad unanimità di voti aderiva a quella proposta.

Mentre intanto che gli esaltati procedimenti dei partiti rendevano quasi impossibile una conciliazione tra loro ed il costituito potére, e minacciavano la vita dello Statuto, quegli stessi esaltati procedimenti venivano portati a cielo, ed invidiati dalle masse (sul cuore delle quali spesso fanno breccia le apparenze, e tutto ciò che ha del misterioso, dell'esaltato, dello straordinario) dei popoli delle altre parti d’Italia, i quali, privi di qualunque libertà, in tutti quei procedimenti, vedevano l’apice di una libertà che affascina lo spirito ed esalta il cuore, come il poverello che di tutto penando, invidioso ammira, e stima il ricco, per quantunque cotestui scialacqui le sue ricchezze in istravizii ed in laidezze. Egli è giuocoforza quindi conchiudere in primo luogo che anche le libertà, che possono dare origine ad alti vizii, trovano nei più, per la stessa loro essenza di libertà, seguaci ed ammiratori dell’assolutismo e della forza, i quali, allontanando gli animi, dividono i regnanti dai popoli con barriere insuperabili; in secondo luogo che il Piemonte, anche col mezzo di quelle libertà che potevano produrre sì alti guasti, apportava nel resto dell'Italia accrescimento alla sua influenza e credito al regime costituzionale, come a quel regime, che lasciava, senza alcuna restrizione, libero l’arbitrio degli uomini.

Ma nel tempo stesso che in data del 28 ottobre 1849 usciva un ordine del giorno in Roma che toglieva il comando delle truppe romane al generale francese; nel tempo stesso che S. S. Pio IX da Gaeta si trasferiva a Benevento, ove riceveva prelatizie e cittadine invitazioni per il ritorno anche troppo già differito nell'eterna città; il Re Vittorio Emanuele II ricordava a due deputati dell’opposizione, fra' quali il celebre Brofferio «essere ormai tempo di unione e di quiete. Il Piemonte essere solo e senz’ altro appoggio che nella sua savia condotta. Que sta poterlo salvare dai pericoli dai quali era minacciato. L’ostinazione della sinistra, a lungo andare, ridurre il Governo impossibile, e rendere necessarie delle misure gravi. Egli non sarebbe mai ricorso ad espedienti sleali. Portarne essi la certezza nella parola di onore ch'egli ne rinnovava Ma in tal caso, esauriti i mezzi ragionevoli e legali, egli avrebbe abdicato e lasciato il Piemonte a se medesimo. Che il paese ci pensasse; o ci pensassero anzi quelli che vorrebbero condurlo a rovina. Egli compatirebbe nel loro linguaggio i’ espressione di sentimenti esaltati; ma non potea compatire la mala fede con che volevansi falsificati i fatti. Conoscere egli ciò che il suo governo operava in Genova, e come niun arbitrio, niuna violenza fosse stata usata in quella città, che dall'opposizione dipingevasi come malmenata e tiranneggiata.

Questo paterno linguaggio del Re Vittorio Emmanuele non avendo portato alcun frutto, ma continuando nei loro impeli di ostilità al Governo i partiti assembrati nell'aula parlamentare, il ministro secretano di stato dell’interno, Galvagno, poneva nelle mani del. Re, in data del 20 novembre 1849 la seguente

«Relazione al Re

«Sire!

«Quando la M. V. fedele alle sue promesse e ferma in quella volontà, ch'è vanto e gloria dell'illustre Casa di Savoja. convocava in luglio scorso le Camere del Regno, il ministero ne traeva i più lieti augurii; egli non poteva menomamente dubitare che, come la conservazione delle politiche franchigie era il miglior mezzo per mantenere l’accordo tra il principato e la nazione, così convenisse di porlo in sicuro contro ogni attentato, chiamando la Rappresentanza della nazione a partecipare alla custodia di questo sacro deposito. La Camera dei deputati, secondo l’opinione del consiglio dei ministri, non ha ben compresa questa sua missione, che era tutta di pace e di concordia. Le deliberazioni di quel corpo legislativo non corrisposero all'aspettazione del paese. L’ultimo suo voto è incostituzionale, e non è a fronte di un atto incostituzionale che avesse dovuto ritirarsi un ministero, le cui intenzioni tutte furono sempre rivolte al rassodamento delle libertà donateci dal magnanimo Carlo Alberto.

«Insisteva il ministero per l’approvazione del trattato di pace. Egli poteva avere fondata speranza che sarebbe approvato, dopo che la Camera aveva autorizzato il pagamento della prima rata delle indennità di guerra, la rimessione all’Austria dei titoli per gli altri 60 milioni.

«La cosa andò ben altrimenti: dopo quattro giorni di discussione, nella quale si andava a gara per rinnegare la necessità del nostro paese di accettare il trattato, si volle sulla relazione della Camera, provvedere alla sorte degli emigrati delle provincìe state unite allo Stato in forza delle leggi votate nell'anno scorso dal Parlamento. Non mancò il ministero di osservare che dei provvedimenti relativi non si potesse fare una condizione all’accettazione del trattato; dichiarava le intenzioni del Governo favorevoli a quegli emigrati, e specialmente a quelli esenti dalle amnistie; di non avere per sè, non solo il passato, ma i fatti presenti che spiegherebbero più chiaramente le sue intenzioni; rappresentava alla Camera tutta l’urgenza di approvare il trattato di pace. Per ultimo il ministero si dichiarava disposto a presentare un progetto di legge a quell'uopo, insistendo però sempre per la esigenza della chiesta deliberazione.

«Accettavasi la promessa del ministero, e proposta la sospensione di ogni deliberazione, sinché si fosse provveduto con legge a quel riguardo, la sospensione veniva decretata.

«L’incostituzionalità del voto è evidente per chiunque rifletti, che esso è lesivo l’indipendenza dei tre poteri, perché fa dipendere l’approvazione del trattato di pace all'accettazione di una legge per parte del Senato, il cui assenso non potevasi certamente né permettere, né guarentire dal ministero; senza far caso ancora della grave difficoltà che avrebbe incontrata il ministero colla presentazione di un nuovo progetto di legge a fronte dell'art. 5G dello Statuto, dacché un precedente progetto sullo stesso argomento già era stato discusso e rigettato dal Senato.

«Egli è in questo stato di cose, che già il ministero proponeva alla M. V. la proroga della sessione del Parlamento contenuta nei proclami del 17 corrente, e che ora dopo matura deliberazione, il consiglio dei ministri per mezzo mio propone a V. M. di fare un nuovo appello al paese, mediante lo scioglimento dell'attuale Camera elettiva, e la pronta convocazione di una nuova Camera; convocazione, questa tanto più necessaria, in quanto che al I. dicembre cesserebbe l’autorizzazione data di mese in mese di riscuotere le imposte indirette. Pochi giorni non possono eccitare nel paese quelle difficoltà che potrebbe suscitarvi una maggior dilazione. E il paese comprenderà facilmente la posizione del ministero, e saprà aiutarne le ferme e leali intenzioni col suo volontario concorso a sostenere i pesi ordinari dello Stato. Il ministero, non vuole nemmeno dissimularsi la gravità del provvedimento, col quale vengono gli eletti chiamati a votare, circa la scelta dei deputati, per la quarta volta in meno di due anni; ma egli confida altresì che scorgerà la nazione, come essa dovesse essere interrogata in circostanze cosi gravi, e come, rispondendo al franco appello del Re, essa possa raggiungere per sempre quelle libere istituzioni che devono formare la sua felicità, come già fanno la maggior gloria de' suoi principi; e ciascun elettore comprenderà facilmente come sia in sue mani la salvezza del paese.

«Ho quindi l'onore di proporre alla firma di V. M. l’unito decreto ((1)).

«Il ministro secretorio di Stato dell'interno

«Galvagno.»

Ecco i motivi pei quali il Re Vittorio Emmanuele scioglieva il Parlamento sardo, e convocava la nuova Camera, onde poter ottenere l’approvazione del trattato di pace conchi uso coll'Austria, avversato da quei due partiti, i quali non volevano saperne, ad ogni costo, di pace coll'Austria, nè, per sopra più, di pagarla.

«Filtorio Emmanuele II, ecc. ecc. ecc.

«Nella gravità delle circostanze presenti, la lealtà che io credo aver dimostrata sinora nelle parole e negli alti, dovrebbe forse bastare ad allontanare dagli animi ogni incertezza. Sento, ciò non ostante se non la necessità, il desiderio di rivolgere ai miei popoli parole, che sieno nuovo pegno di sicurezza e di espressione, nel tempo stesso di giustizia e di verità.

«Per la dissoluzione della Camera dei deputati le libertà del paese non corrono a rischio veruno. Esse sono tutelate dalla veneranda memoria di Re Carlo Alberto, mio padre, sono affidate all’onore della Casa di Savoia, sono protette dalla religione de' miei giuramenti. Chi oserebbe temere per loro?

«Prima di radunare il Parlamento volsi alla nazione, e più agli eiettori, franche parole. Nel mio proclama del 3 luglio 1849 io gli ammoniva a tenere tali modi che non si rendesse impossibile lo Statuto. Ma soltanto un terzo o poco più di essi concorreva alle elezioni. Il rimanente trascurava quel diritto, ch'è insieme stretto dovere di ognuno in un libero Stato. Io aveva adempiuto al dover mio; perché non adempirono al loro?

«Nel dissenso della Camera io faceva conoscere, e non n’era pur troppo bisogno, le tristi condizioni dello Stato. Io mostrava la necessità di dar tregua ad ogni passione di partito, e risolvere prontamente le vitali questioni, che tenevano in forse la cosa pubblica. Le mie parole erano mosse da profondo amore patrio e da intemerata lealtà. Qual frutto ottennero?

I primi atti della Camera furono ostili alla corona. La Camera usò di un suo diritto. Ma se io aveva dimenticalo, essa non doveva dimenticare.

«Taccio della guerra fuori di ragione mossa dall'opposizione a quella politica, che i miei ministri lealmente seguivano e che era la sola possibile.

«Taccio degli assalti mossi a detrimento di quella prerogativa che mi accorda la legge dello Stato. Ma bene ho ragione di chiedere severo conto alla Camera degli ultimi suoi atti, e me ne appello, sicuro, al giudizio d’Italia e dell'Europa.

«Io firmava un trattato coll'Austria onorevole e non rovinoso. Cosi voleva il ben pubblico. L’onore del paese, la religione del mio giuramento, volevano insieme che venisse fedelmente eseguito senza doppiezza o cavilli. I miei ministri ne chiedevano assenso alla Camera, che, opponendovi una condizione, rendeva tale assenso inaccettabile, perché distruggeva la reciproca indipendenza dei tre poteri, e violava cosi lo Statuto del Regno.

'» lo ho giurato di mantenere in esso giustizia, libertà nel suo diritto ad ognuno. Ho promesso salvar la nazione dalla tirannia dei partiti, qualunque siasi il nome, lo scopo, il grado degli uomini che li compongono. Queste promesse, questi giuramenti li adempio disciogliendo una Camera divenuta impossibile, li adempio convocandone un’altra immediatamente; ma se il paese, se gli elettori mi negano il loro concorso, non cadrà su me ormai la responsabilità del futuro; e nei disordini che potessero avvenire, non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro.

«Se io credetti dover mio di far udire in questa occasione parole severe, mi confido che il senno, la giustizia pubblica conosca ch'esse sono impresse al tempo stesso di un profondo amore pei miei popoli, e pei loro veri vantaggi, che sorgono dalla ferma mia volontà di mantenere le loro libertà e di difenderle dagli esterni come dagl'interni nemici.

«Giammai sin qui la Casa di Savoia non ricorse invano alla fede, al senno, all'amore dei suoi popoli. Ho dunque il diritto di confidare in loro nell'occasione presente, e di tener per fermo, che uniti potremo salvar lo Statuto, ed il paese dai pericoli che lo minacciano.

Dato dal Nostro Real Castello di Moncalieri addi 20 novembre 1849.

« Vittorio Emmanuele

« M. D ’ Azeglio.

La semplicità veramente paterna, l'amore non iscompagnato da dignità nelle parole del Re Vittorio Emmanuele trovarono plauso presso tutte le nazioni dell’Europa, calmarono, se non distrussero, il fuoco dei partiti, ed aumentarono la influenza e la popolarità di quel monarca nella Penisola.

In quel tempo, addi 21 novembre 1849, veniva in Firenze pubblicata da Leopoldo II un’amnistia pegli ultimi fatti di Toscana, dietro rapporto dei signori G. Baldasseroni, L. Landucci; Duca di Casigliano; T. Mazzei; C. Bocella; C. V. Laugier. Non furono compresi in quel la amnistia l'avv. G. Guerrazzi; l’avv. Montanelli Giuseppe; Mazzoniavv. Giuseppe; Adami Pietro Augusto; Franchini dottor Francesco; Marmocchi dottor Francesco Costantino; Mordini avv. Antonio; Romanelli dottor Leonardo; Modena G.; Niccolini Gio. Battista, romano; Ciufi dottor Demetrio: Dami avv. Giuseppe; Roberti Roberto, detto Ciccio di Livorno; Cimino Tommaso; degl’innocenti Alessandro; Tolenti avv. Ermenegildo; Menichelli avv. Torquato; Barni prete Camillo; Francolini prete Leopoldo; Bortolucci Girolamo; Cioni Fortuna avv. Gio. Batt.; Giotti Napoleone; Vannucci Adimari avv. Secondiano; Vannucci Adi mari dottor Valente; Gherardi Dragomanni nob. Francesco; Torelli Emilio; Capecchi Bartolomeo; Figli Carlo; Fontanelli dottor Enrico di Siena; Fontanelli Antonio di lai figlio; Piturelli Angelo; Angelotti Goffredo; Cioni dottor Girolamo; Montazio Enrico; Barbanera Luigi; Laschi Gasparo; Lodi dottor Flaminio; Mori Filippo; Mori Sante; Muzzi Luigi; Vannucci Atto; Vannini prof. Giuseppe; Petracchi Antonio di Livorno; oltre a tutti gli altri compresi nella procedura politica di Pistoia.

In Arcidosso intanto accadevano nelle sere del 2 e del 4 dicembre dei fatti diretti a manifestare una ripugnanza all’adempimento delle prescrizioni della polizia: tanto quelle prescrizioni erano ragionevoli, miti, umane! Fu inviato colà da Firenze un corpo di gendarmeria per ristabilirvi l'ordine.

Laemigrazione italiana non cessava di chiedere d’essere naturalizzata nel regno sardo, ed a tal uopo S M. Vittorio Emmannele emanava un decreto, il 7 dicembre, col quale veniva formata una commissione intenta allo scopo di esaminare e di dare il ragionato suo parere sopra le domande di naturalità che si fossero presentale dai cittadini delle provincie unite al regno in forza delle leggi 27 maggio, 16, 21 giugno, 12, 27 loglio 1818.

Sino dal giorno 11 dicembre la maggioranza delle elezioni sarde riusciva conservativa. Col giorno 20 furono aperte le Camere a Torino, e S. M. il Re pronunziava in quella solenne circostanza il seguente discorso nel senatorio gran Palazzo Madama, ove le due Camere, per udirlo, si trovavano unite.

Discorso pronunziato da S. M. il Re Vittorio Emmanuele Il nella solenne apertura del Parlamento, il 20 dicembre 1849.

«Signori Senatori, Signori Deputati.

«I fatti che m’indussero a sciogliere il Parlamento e che, dopo un appello al paese mi conducono oggi a convocarne uno nuovo, non debbono recarvi sconforto.

«Essi si maturarono a quella scuola, alla quale solo si apprende la vita politica, la scuola dell'esperienza.

«Essi furono occasione di un nobile esempio di fiducia e concordia tra popolo e principe.

«Essi diedero campo al paese di palesare, che egli è atto a sostenere i suoi ordini politici e meritevole delle sue libertà

«Le condizioni nostre che si dicevano gravi, or fanno quattro mesi, non sono di molto mutate.

Più agevoli bensì divennero le nostre relazioni colle potenze amiche, come più salilo si è fatto il nostro credito; ma le più importanti questioni si interne che estere, sono tuttora pendenti. Questa posizione incerta ci terrebbe, ove durasse, riputazione al di fuori, e disgusterebbe il paese di quelle istituzioni, che, promettendo buona amministrazione e progresso, avessero invece incagliato questo e posta quella in disordine. Il riparare a queste fatali conseguenze sta ora in voi.

«Sorge nel mio cuore una nuova e più ferma fiducia circa le future sorti del paese e delle nostre istituzioni.

Gli elettori udirono la mia voce. Concorsero numerosi alle elezioni, lo sono felice di potere in questa solenne occasione esprimere loro la mia gratitudine. Il benefizio che essi arrecarono alla cosa pubblica io lo considero fatto a me stesso: 1 ho anzi più in grado e più caro, pensoso qual sono prima del pubblico, che del mio proprio bene.

«Non accade enumerare le questioni che per la loro urgenza richiedono una immediata soluzione. Vi sono note abbastanza. Non mi resta dunque se non a raccomandarne alla vostra prudenza il pronto giudizio.

«Signori Senatori, Signori Deputati

«Onde rassodare quegli ordini politici che istituiva Re Carlo Alberto, mio padre, di augusta memoria, io feci quanto era in mio potere. Ma a voler ch’essi gettino profonde radici nei cuori e sulle volontà dell’universale non basta volontà o decreto di Re, se non si aggiunge la prova che li dimostri utili veramente e benefici, nella loro pratica applicazione.

«Questa indispensabile sanzione è ormai affidata alla vostra virtù, lo vi rammento che giammai maggiore occasione non vi si offerse di usarla, e in nome di quella patria che tutti abbiamo cotanto addentro nel cuore, io vi chiedo che, posto in disparte ogni altro pensiero, abbiate quel solo che può rimarginare le sue ferite, ed arrecarle onore e salute.» .

Correa voce che i governi di Parma e di Modena, forti dell'appoggio dell'Austria, insistessero presso il Governo sardo per ottenere la dissoluzione di un corpo composto nella maggior parte di ufficiali e di sotto ufficiali, i quali presero parte attiva nella rivoluzione del 1848, e che i loro principi riguardavano come militi ribelli. Il ministero piemontese avrebbe fatto atto di compiacenza sciogliendo quel reggimento ma non permettendo il suo ripatrio. Intanto mentre tatti i regni d’Italia lamentavano la perdita dei migliori loro figli, degli ingegni i più preclari, degli domini i più illuminati, allontanatisi dalle sventure della loro patria col darsi alla emigrazione, o tenuti chiusi nelle carceri colpiti da condanne della politica di quei tempi, o deportati in lontane terre di espiazione a sospirare senza posa e conforto il suolo natio, perduto per averlo troppo amato; in Padova mancava per sempre allo amore degli italiani una delle sue più chiare glorie, il professore Andrea Giacomini, la cui irreparabile perdita, avvenuta il 31 dicembre 1849, veniva compianta da tutti gli scienziati dell'Europa. Fama correa (vedi il Lloyd. la Reichs-Zeitung, la Presse, la Gazzetta d'Augusta) essere stati chiamati dall’autorità militare di Padova alcuni ragguardevoli cittadini, i quali ammoniti forse con eccessivo rigore, eransi minacciati di severissima repressione, se avessero ancora la temerità di persistere nelle sediziose lor pratiche. Era in quel numero il celeberrimo prof. Giacomini, che ebbe poco stante a morirne apopletico. Morì anche in quell'epoca il principe D. Maffeo Barberini Colonna di Sciarra, nato nel 1774.

Secondo la Riforma, l’anno 1849 costò all'Europa 534,495 vite, ed 1,757,000,000 di franchi. Nella sola Italia le vittime ed il denaro si sommavano cosi:

Due Sicilie

22,000

»

Roma

8,073

»

Milano


31,023

»

Venezia

»

Piemonte

Denaro

Napoli

81,000,000

»

Italia Centrale

23,000,000

»

Lombardo-Veneto

629,000,000

»

Piemonte

150,000,000


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CAPITOLO IV

ANNO 1850

La generale fisonomia del 1850 non era punto né poco cangiata da quella del 1849, imperciocché tutti gli Stati italiani, tranne il Piemonte, essendo governati dalla concentrazione dei poteri nel comando militare, non era che colla sola forza che si teneano soggette le popolazioni, incrudelendo ogni di più in loro le piaghe profonde, già ancora sanguinolente, delle testé cessate rivoluzione e guerra. La forza! Ohi egli era quello un fatai sistema che racchiudeva in sé orribile spavento; egli era un aggregato di mille mali, di mille oppressioni, di mille attentati, che affliggevano e manomettevano gli Stati italiani, egli era una deplorabile apoteosi allo sconvolgimento dell’umano intelletto, alla corruzione la più pervertita del cuore, alla dissoluzione la più cieca di ogni ente morale, al più stupido disordine, alla più sfrenata disperazione, alla devastazione ed all'eccidio della patria. La forza, tremendo flagello dell'ira di Dio, fomentava gli accaniti dissidii tra popoli e regnanti, aumentava gli odii feroci, le fazioni sanguinose, le orribili clandestine cospirazioni, le codardie dei partiti, i fomiti delle ambiziose esigenze, le turpitudini delle passioni, gli irosi attriti dei voleri e dei poteri tra governati e governatori, le ansie crudeli e feroci di autorità, di primazia, d’ingrandimento, di attribuzioni o sovrane o governative. La forza ingigantiva le lunghe e represse ire ed invidie nei più volte riaccesi e più volte soffocati conati di emancipazione, l’elettricismo agitatore delle due parti cozzanti fra di loro, che senza cessa, senza freno, senza misura chiedevano e negavano, provocavano ed erano provocate, promettevano e non mantenevano mai, pascevano le passioni e le spengevano e riaccendevano, passando di ostinazione in ostinazione, di repulsa in repulsa, di eccesso in eccesso, di odio in odio, di detestazione in detestazione. La forza giunta a tale misura, s’insinuava a viso scoperto franca e risoluta ovunque, e si impossessava, signora baldanzosa e possente, delle menti e dei cuori degli uomini, e gli corrompeva, e gli tiranneggiava, e gli componeva e rimpastava a suo talento; entrava ancora più ardila e minacciosa nelle famiglie e nelle società, e vi seminava il dispetto, il disordine, la contaminazione; passava tracotante e superba nei paesi, nelle città, nei regni e, sconvogliendoli, scoppiava dappertutto avida di sangue e di distruzione. Quella forza usata dai dominatori in Italia non sempre era guidata né da mente, né da coscienza; non era che la forza del potere, or cieca, ora egoista; nessuno era salvo, colpiva gl’incauti, i sospetti, i rei, colpiva tutti! Ma di spesso degenerando dalla fonte donde scaturiva, dalle intenzioni cioè dei supremi monarchi, innalzava la bandiera, simile ad una guerra civile, e, senza discernimento, senza riserbo, senza ritegno guastava, dilapidava, rovinava tutto, volendo sola e despota regnare in un mare di sangue, di stragi, di carneficine: effetti tremendi degli stati d’assedio, degli sfratti, dei sequestri, delle imposizioni, delle condanne, dei patiboli, delle morti. Oh gli effetti funesti di quella forza che si volle perpetuata nelle provincie italiane quasi tramutate, per quella forza, in prigioni! Oh la immensa responsabilità che cadeva su quelli che la comandavano, su quelli che la compievano!

L’aspetto dunque degli Stati italiani nel 1850 dal Ticino all’Adriatico, all’Arno, al Tevere, al Vesuvio, al Faro, non aveva cangiato di carattere, perché era la forza soltanto che ovunque regnava, tenendo le popolazioni in una calma di morte. Ma entriamo nelle viscere di quei regni e ricerchiamone la storia.

Con notificazione del 2 gennaio 1850 dall’i. r. generale di cavalleria, governatore militare e civile e luogotenente per le Provincie Venete barone Puchner, ed a termini delle comunicazioni della Direzione superiore delle Finanze nel regno Lombardo-Veneto, attivavasi il portofranco nell'isola di S. Giorgio Maggiore in Venezia, intimando a tutti i negozianti ed esercenti di dichiarare all’i. r. Intendenza Provinciale di Finanza la quantità e qualità di ogni merce esistente nei loro fondachi e negozi!, per essere giudicate nazionali od estere, di permesso o di vietato commercio, onde sottoporle al dazio delle vigenti tariffe. Intanto veniva conchiusa tra l’Austria, Modena e Parma una Lega Doganale, colla quale l’Austria assorbiva i Ducati e sturbava l’equilibrio politico in Italia. Imperciocché avanzandosi Uno alla spiaggia del Mediterraneo, veniva a separare il regno di Sardegna dal resto d’Italia; e rinserrando lo Stato della Chiesa fra sé e l’amica Napoli, riusciva a dividere l’Italia in due campi nemici. L’Austria avrebbe bramato che anche il Piemonte, in nome dei governi collegati, fosse entrato in questa unione. Campione di questa lega doganale fu monsignor Corboli, il quale aveva visitato le Corti di Toscana e di Piemonte, durante il secondo anno del regno di Pio IX, a fine di persuaderle a tal lega. Il Corboli, amico del conte Rossi, mori in quel torno.

Un ordine del giorno di S. M. l’imperatore Francesco Giuseppe in data di Vienna I. gennaio, annunziava che gli era permesso soltanto allora di fare una diminuzione dell’esercito; ed una notificazione del principe Carlo di Schwarzenberg, diretta agli abitanti di Milano, nella sua qualità di luogotenente della Lombardia, diceva: essere desiderio di S. M. che le piaghe lombarde venissero rimarginate; ma innanzi tutto essere necessario assicurare il rispetto e l’efficacia delle leggi; quindi a vieppiù garantirne l’effetto, non dover cessare lo stato eccezionale (lo stato d’assedio) reclamato dalle circostanze. Anche in Roma le misure di rigore e di terrore erano all’ordine del giorno. Un decreto destituiva ed esiliava tutti i capi dei corpi, che avevano esercitato comando sotto la repubblica, 84 persone vi erano compromesse fra le quali Stuart, Lopez dellartiglieria, Marescotti, Carecci, Squarzoni, Volponi e Gallieno. La notte del 3 veniva condotto nel forte di Ancona l’avv. Salmi di Pesaro, governatore di Foligno: egli non voleva obbedire agli ordini del comando militare e civile austriaco in Ancona. Per una notificazione emanala in Roma, quel governo accordava il termine di giorni dieci a depositare presso ogni municipio dello Stato pontificio tutti i fucili e le armi qualunque, che non fossero state fino allora depositate, sotto le penali comminale dalle leggi marziali. Non meno in Sicilia che in Toscana le persecuzioni e gli arresti continuavano a succedersi con grande rapidità, mentre la Camera di Torino nominava a suo presidente Pier Dionigi Pinelli, ed il Messaggiere Torinese sospendeva le sue pubblicazioni. Quella camera, amica cogli amici, indipendente sempre, approvava il trattato di pace coll’Austria, il trattato di commercio colla Toscana; apriva un credito di 500 mila lire a beneficio dei danneggiati nell’ultima guerra; divideva i collegi elettorali in altrettante sezioni, quanti erano i mandamenti; autorizzava il Governo a riscuotere le imposte dirette, sospendeva l’attivazione del sistema decimale, ed autorizzava l’esercizio provvisorio dei bilanci; nominava tre commissioni, l’una per rapportare il numero degli impiegati, l’altra di finanza, la terza d’agricoltura e commercio: ambe queste ultime commissioni permanenti.

Gol giorno 8 gennaio comparve in luce a Venezia il progetto del consigliere de Wurth di un nuovo Regolamento di procedura penale, che ottenne la sovrana approvazione. Questo consisteva nel sostituire alla procedura secreta, in iscritto, inquisitoriale, ordinata dalla legislazione del 1803, la procedura pubblica, orale, accusatoria. La Francia fu la prima a dar esempio di tal genere di procedura; la Baviera ed il Belgio lo seguiva, con molte modificazioni; ultima l’Austria volle adottarlo, ma con restrizioni inconciliabili. Il consiglio dei ministri in data 4 gennaio prometteva la Costituzione in tutta la monarchia; richiamava le massime fondamentali prefisse in tal soggetto dal Sovrano, le quali erano: la sistemazione, ordinata e precisa di tutti i poteri dello Stato, l’assicurazione della vera libertà mediante la legge, lo stabilimento dell’ordine e della pace, cosi nell’interno che all’estero, l’eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, gli eguali diritti di tutte le nazionalità, lo svincolamento del suolo, la pubblicità e la regolata gestione in tutti i rami dell’amministrazione dello Stato, la formazione di un forte potere centrale, con riforme opportune della giustizia e dei governo, la libertà dei comuni, e il libero e nazionale sviluppo dei varii paesi componenti la monarchia. Inoltre la libertà personale, la libertà ragionevole della stampa, il diritto di associazione, la eguaglianza dei culti, riforme degli studi, delle scuole, delle pubbliche costruzioni, riforme dei codici, riforme circa la sanità, la contumacia, la gendarmeria, ed i nuovi uflìzii per le imposte, riforme in fine a vantaggio dell’agricoltura, del commercio, attivazione delle strade ferrate e dei telegrafi.

Ma queste erano semplici promesse, e tale perpetuo sistema di molto promettere, e di non riuscire mai all'attuazione delle date lusinghe, spargeva più che altro negli animi dei regnicoli dell’Italia l’assicurazione che la loro sorte non sarebbesi mai cangiata. Questa assicurazione accresceva ogni di più, sotto la potenza dei fatti, e faceva sempre più ammirare e desiderare il movimento riformativo che con somma alacrità e saggezza istituivasi ed allargavasi in ogni ramo dello scibile umano in Piemonte.

In quell’epoca in Palermo vuotavansi le casse dei cittadini emanandosi dal luogotenente generale interno, Satriano, condanne di versamenti nelle casse regie di somme enormi. Don Michiele Amari venne condannato a pagare solidalmente col principe Granatelli e D. Luigi Scalia, ducati 126,677,7. D. Filippo Cordova, anche solidalmente coi suddetto principe Granatelli e Scalia, ducati 120,000. Il conte Amari ducati 467,554, ugualmente in solido col principe Granatelli e Scalia, il principe di fiuterà, ben pure in solido con Granatelli e Scalia, ducati 232,640. E finalmente il marchese Cerda ducati 157,920,41 e 5, solidalmente coi suddetti Granatelli e Scalia: in tutto ducati 834,791,49, 5.

LaRomagna in quell'epoca si divideva in tre partiti assai distinti fra loro. Il primo il partito nero, il quale comprendeva il clero, la nobiltà ed i contadini loro dipendenti, ed era il partito austriaco. Il secondo era il partito rosso composto di gioventù di ogni condizione e formava il partito Mazziniano. Il terzo il partito bianco, composto di notabilità, di scienziati e professori, di benestanti e negozianti: questo era il partito sardo per numero più debole, ma per energia più forte e godeva la supremazia sugli altri.

Un’enciclica di Pio IX diretta ai prelati, ai patriarchi, ai vescovi, al clero, fu il soggetto di molti attacchi tanto in Piemonte come in Francia. Pio IX in quello scritto contro il protestantismo, il socialismo, il comuniSmo, chiamava in sostanza la sua milizia a combattere la predicazione colla predicazione, i libri coi libri, la propaganda colla propaganda, e l’insegnamento del male coll’ammaestramento del bene. Ma se fu notevole e sapiente quella enciclica per un Pontefice, per un Capo della Chiesa, per un Vicario di Dio in terra; per un principe fornito di potere temporale come gli altri principi italiani, ella si fu per lo meno poco considerata. Non era in quei giorni da incolpare le trascendenze degli uomini al protestantismo, al socialismo, al comuniSmo, ma sibbene erano da considerarsi gli avvenimenti che spingevano gli uomini allo scisma temuto.

Larepubblica romana, sopita in Roma, dalle armi della repubblica francese, col bombardamento dell’eterna città, si rifugiò in Svizzera, e di là Mazzini continuava nella sua dittatura, spalleggiato da mille gregarii; dettava leggi, stabiliva imposte, protestava contro la sistemazione del Papa e del governo pontificio. Egli è un fatto che Pio IX fu il primo iniziatore della libertà e della indipendenza italiana: egli é un fatto ch’egli co’ suoi atti nei primordii del suo pontificato, riaccese le assopite speranze, destò primo la scintilla, che poi arse tutta la Penisola, ed è pure un fatto che Pio IX essendosi ritirato dalla causa italiana, dopo di avere lanciato il colpo, dopo di essersi assunta, dirò cosi, la risponsahilità della patria rigenerazione, retrocedendo come fece, invocando i soccorsi armati di quattro potenze per ristabilire in Roma il suo potere, il sistema assolutista, dopo di aver permesso che l’Austria invadesse il suo territorio, e comandasse in suo nome e per se medesimo. egli è un fatto, diceva, per cui doveva subirne egli stesso e la sua Chiesa le ineluttabili conseguenze. Non potendo i popoli scagliarsi contro di lui, perché difeso dalle armate straniere, battevano i preti, battevano le chiese, battevano i dogmi. Le masse non ragionano, ma si lasciano dirigere da chi sa prevalere. Mazzini e Garibaldi predominavano illimitatamente per una popolarità assai grande. Mazzini gridava al tradimento dei francesi, e le masse gridavano traditori trances» ; Mazzini, l’apostolo dell'idea, predicava Italia libera e Roma per capitale; predicava il papato essere la rovina dell'Italia, e le masse ripetevano di conseguenza: abbasso il Papa, abbasso la Chiesa di Roma, e con ciò prendevano di mira la religione, e minacciavano associarsi alla Chiesa anglicana come a quella che risultava la più opportuna alle loro idee, alle concitate loro passioni.

Intanto che il Vaticano temeva la comparsa di uno scisma più di quello che avesse temuto le bombe francesi. il proministro delle finanze faceva partire da RipaGrande un battello a vapore per Portici, ove da Benevento erasi trasferito Pio IX. L’ufficiale che lo comandava, signor Palombi, era incaricato di trasportare gli archivii dei sacro collegio. Questa era una prova che toglieva ogni dubbio sul pronto ritorno del Sommo Pontefice, ed una lettera del cardinale Lambruschini confermava tale notizia. Il re di Napoli avrebbe accompagnato il Papa. Il generale barone d’Aspre, ambasciatore austriaco, sarebbesi trovato in Roma per far innalzare il proprio stemma sulla porta del palazzo di Venezia, sua residenza. Correva voce che sarebbesi ristabilito l’ordine di Malta, per organizzare una forza cattolica a tutela e sicurezza della sovranità papale.

Il re di Napoli, in data 16 gennaio, accordava amnistia, per intercessione del Pontefice, a quelli che avevano combattuto per l’indipendenza italiana, ma pochi se ne prevalsero, amando meglio di vagare da un capo all’altro dell’Italia, che di ritornare nei loro paesi, sicuri di essere presi di mira da quel governo, che perdonava perché rientrassero, per poi punirli anche del passato al primo mancamento politico. Le Romagne intanto erano gremite di Calabresi, d’Abruzzesi e d’uomini di ogni paese, ritagli staccati dai corpi di Garibaldi, i quali, respinti dappertutto, senza mezzi di sussistenza, si davano a scorrere le Marche a cento a cento. E nella terra di Cotignola vicino a Faenza la sera del 47 dicembre 1850, costoro, quali vestiti da militari, quali con fucili, entrarono nei caffè, nelle famiglie, nelle caserme, legando, ferendo e minacciando i carabinieri; saccheggiarono dieci delle migliori famiglie e spogliarono la cassa del comune.

Ma l’Italia tutta vestiva intanto gramaglia, per la perdita irreparabile di uno de' suoi migliori ingegni. Si chiudevano in Firenze entro una cassa di piombo, scritte sulla pergamena le seguenti dolorose parole:

«Reliquie terrene di L. Rartolini, statuario senatore fiorentino, maestro di scultura nell’Accademia fiorentina di belle arti; cavaliere del sacro Ordine di s. Gregorio Magno, della Legione d’onore di Francia e di s. Giuseppe di Toscana; socio accademico del R. Istituto di Francia, dell’I. Accademia di Vienna, delle Accademie di belle arti romana, felsinea, ligustica, torinese, della Nuova Vork, ecc. ecc. ecc., nato a Gavignano di Vernio l'41 gennaio dell’anno 4777 da Liborio Bartolini e da Maria Magli. Da povera origine cresciuto alle arti belle, per prepotenza di ferma volontà, per sublimità di genio ad europea celebrità pervenuto; emulo del vetusto Fidia; indefesso alla fatica, fecondo d’inventiva creazione raro, peregrino ne’ concetti, pronto, esquisito, incontentabile nella esecuzione; generoso, impareggiabile artista, cittadino del pubblico bene amatore; padre amoroso; della buona educazione de' suoi figli zelantissimo; parente, amico ad ogni pruova costante: morto il di 20 di gennaio del 1850; varcava appena di mezz’ora il giorno la metà del suo corso.

«Le sue opere stupende conserveranno perpetua la sua fama, crescente co’ secoli. Per pubblico decreto in questa cappella sacra a Santo Luca colle reliquie de' sublimi ariisli tumulato. Dalla pietà della virtuosa consorte Virginia Buoni; delle tre figlie Paolina, Giulia, Maria; dei parenti, amici, ammiratori, e del pubblico alla Divina Misericordia raccomandalo.»

Una grande generale perlustrazione politico-militare seguiva, il dì 25 di gennaio, nel circondario della città di Ferrara in sessantasctte parrocchie a sinistra del Reno, con perquisizioni domiciliari e personali ad oltre quattrocento individui e coll'arresto di trenlaquattro. Questa perlustrazione venne coadiuvata dall'i. r. truppe austriache, tanta era la corruzione di chi comandava in quei dì, tanta era la smania di sparger ovunque il terrore, e dominare colla forza, sotto il pretesto di perquisire armi e munizioni, libri, bibbie ed almanacchi sparsi dai protestanti nelle famiglie per provocare lo scisma, che ogni più arbitraria misura inorpellavasi con apparenze di legalità. Il popolo delle Romagne veniva con ogni mezzo ricondotto alla religione cattolica ed alla divozione. Per questo fine, oltre al terrore ed alla forza esercitata dalle armi straniere, veniva ordinato a Rimini, che ognuno che mancasse di udire la santa Messa dovesse pagare una multa di 3 franchi. In Pesaro, fu introdotta di nuovo la multa per quelli che bestemmiavano Dio. Per una semplice bestemmia si pagava un paolo, e per una maggiore 4 paoli.

Nel comune di Montecatini, in Val di Nievole, in Toscana, veniva disciolta la guardia cittadina da decreto granducale del 23, e quella dei comuni di Montecchi, Casellina e Torri coi decreti 29 e 30, mentre le elezioni municipali procedevano numerosissime e concordi a Modigliana, a Barberino di Mugello, a Caprara, a Montelupo, ad Empoli, a Rovezzano ed in Firenze.

Nel regno delle due Sicilie il giorno 25 uscivano due editti del maresciallo di campo Nunziante, uno a Reggio l'altro a Catanzaro, coi quali si sottoponevano allo stato d’assedio il distretto di Cotrone ed i circondarii di Cropani e Taverna, dovendosi in seguito praticare altrettanto per la Calabria Citra. Veniva altresì disposto che i militi congedati non fossero consegnati alle loro famiglie, ma sibbene alla polizia della capitale. Per queste ed altre mille manifestazioni di forza dei Governi contro all’insorto brigantaggio, contro ai sospetti politici, contro ai venditori di libri biblici, che per enunciarle tutte s’empirebbe un volume, libro che desterebbe gelo nelle vene dei lettori. Le popolazioni viveano costernate, oppresse, tramiLàte. e non osavano dire una parola, alzare gli sguardi. Negli ultimi giorni di carnevale, le contrade e le piazze si in Toscana, come nelle Romagne, nelle Due Sicilie. nel Regno Lombardo-Veneto. erano vuote, i negozi e le botteghe chiuse, nessuna maschera si presentava al pubblico, nessuna finestra addobbavasi a festa. A Roma i francesi occupavano le piazze, i dragoni del papa ed i sellati facevano il servizio del Corso. 'ei tre ultimi giorni pero scorgevasi un qualche moto nelle popolazioni e qualche artifiziale o compra allegria, mentre la soldatesca straniera ovunque, e piucché tutto l’uffizialità. stavasi unita all’alta aristocrazia ed agli impiegati ligii al potere, e si trastullavano con balli, con musiche, con conviti, condotti da tanto furore (ci si permetta la frase teatrale) per emergere in tanto rilievo, da voler quasi irridere a popolazioni che si mantenevano fermamente dignitose e calme, e da valere uno sfregio inconsulto e provocatore. A sturbare i piaceri carnescialeschi, ed a scuotere momentaneamente i popoli dalla condizione cupa, monotona e fiera per trovarsi forse poco appresso in istato di oppressione ancora più intensa, scoppiarono in Palermo nel giorno 27 febbraio 1850 i primi attentati di una cospirazione politica, sperando forse di trovar eco nel popolo. Veniva fatto fuoco contro un corpo di guardia, e sopraggiunta molta truppa ebbe luogo una scaramuccia, la quale, dopo aver sparsa la costernazione nella città e l’allarme nel governo, fini colla cattura di sei individui, sendo gli altri fuggiti. L’assalto dato dai rivoltosi, la repressione e la cattura successero in poche ore. Scontavano col supplizio quel loro attentato Giuseppe Caldara, Nicola Garzilli. Giuseppe Garofalo. Vincenzo Mondini, Rosario Ajello, Paolo de Luca.

In Roma correva l'anniversario della Repubblica Romana, e 136 mandatarii dei Circoli politici, che crearono col suffragio universale quella Repubblica, rimasti per la maggior parte ancora in città, vollero richiamare alla memoria que’ tempi, con una mesta passeggiata per il Corso, con segni uniformi, quindi con un gran pranzo campestre e quinci con una gita al Tuscolo, ove avrebbero con analoghe poesie ed iscrizioni eternato quel giorno memorabile.

Ma la polizia francese ne impedì l’effetto. La passeggiata veramente ebbe luogo sul mezzogiorno, ma questi novelli Bruti e Fabrizii non ardirono manifestarsi con segni esterni. Alla sera però si accesero con miccie lunghissime qua e là dei fuochi di bengala a tre colori, che vennero dai francesi smorzati; ma si riaccendevano di nuovo, come per un incanto, questi simboli di patrio amore, e venivano nuovamente spenti e cosi reiteratamente per ben un’ora accadeva. Intanto veniva designata una vittima che fosse degna di quell'anniversario, e questa fu trovata in don Giuseppe Bonaparte principe di Musignano. Epperò «sotto la loggia del palazzo Bernini, veniva da mano incognita gettato nel legno del principe di Musignano,figlio del principedi Canino,unmagnifico mazzo di camelie bianche e rosse, in mezzo alle quali nascondevasi una granata di vetro. Il principe lo prese, ed era per porgerlo alla sorella, che trovavasi seco lui nel legno, ma essendo essa fortunatamente rivolta dalla parte opposta, il fratello trattenne il mazzo colla mano appoggiata sulla coscia destra, attendendo che la medesima si voltasse per riceverlo; quando, passati appena pochi secondi, la granata scoppiò. Il principe fu ferito gravemente nella mano destra e nella coscia, e la sorella in una gamba e nel fianco, e vennero trasportati nel palazzo Barberini.» Gli odii dei nostrani contro i francesi venivano in mille modi manifestati nelle vie, nelle famiglie, nei caffè, negli Uffizii e perfino nelle chiese. Accoglievano ogni occasione per vessarli, per disprezzarli, per insultarli, e d’altra parte i francesi, dal canto loro usavano verso i romani grandi rigori, volendo ripristinare ad ogni costo lo stato antico nelle provincie pontificie. La condotta ostile degii uni e degli altri crebbe d’assai specialmente alla notizia dei disordini avvenuti a Parigi nei primi giorni del mese di febbraio a San Denis, a Sant0Antonio ed alla Porta di San Martino. I saccheggi intanto continuando nelle Romagne ove le bande armate spargevano grandi apprensioni; le stilettate succedendosi in Roma per isiogo di questi odii accaniti, e per vendetta di spirito nazionale contro i francesi, considerati come i più crudeli oppressori delle libertà e franchigie italiane, il generale Baraguay-D’Hilliers pubblicò la siguente notificazione, la quale, se da un canto conferma gli inasprimenti che dicemmo, dall'altro resterà documento eterno dei fatti che dalla Francia compievansi a Roma.

Abitanti di Ruma!

«Il Generale io capo, volendo metter fine ai vili assassino, che compromettono la sita degli uffiziali e dei soldati dell'armata.

«Ordina:

«La delazione di coltelli, pugnali, stiletti, o qualunque siasi strumento alto alla perpetrazione di un delitto, è proibite in Roma e ne’ suoi dintorni.

«Chiunque sarà rinvenuto latore di un'arma simile, sarà immediatamente lucilato.

Roma li 11 febbraio 1850.

«Il generale Baraguay-d'Hilliers.»

Le pene, gli arresti, le battiture, le condanne per detenzione di armi venivano pure attivate nel regno Lombardo-Veneto, a termini della non mai abrogata notificazione dell'1. R. Comando di fortezza di Verona del 23 febbraio.

Non appena fu pubblicata in Roma la legge del generale francese sui detentori d’armi, che veniva pugnalata una sentinella. Ciò diede luogo alla scena la più affliggente per la città: nello spazio di 24 ore furono arrestati 500 individui delle primarie famiglie romane. Quasi ogni famiglia aveva uno de' suoi cari nei ceppi! 0micidii ed arresti, arresti ed omicidii desolavano gli abitanti. Due trasteverini furono fucilati per detenzione di coltelli. La polizia tanto francese che romana, perquisiva personalmente ogni celo di persone sulle pubbliche vie, e di pieno giorno.

Nel giorno 12 veniva pubblicato in Torino il trattato di pace coll’Austria, colla relativa legge che autorizzava il governo del re a darvi piena ed intiera esecuzione. Quel documento portava in calce la nota' seguente:

«Piacendoci il trattato e gli articoli separati e addizionali suesposti nel loro complesso e nelle singole disposizioni che vi sono contenute, li abbiamo accettati, approvati, ratificati e confermati, come colle presenti firmate di nostra mano, li accettiamo, approviamo, ratifichiamo e confermiamo, tanto per noi che pei nostri eredi e successori, promettendo in fede e parola di Re di osservarli e di non permettere che vi si contravvenga direttamente o indirettamente per qualsivoglia causa o pretesto. In fede di che abbiamo fatto controfirmare le presenti dai cavaliere Massimo Tapparelli d’Azeglio, decorato della medaglia del merito militare, colonnello di cavalleria, presidente del nostro consiglio de' ministri, incaricato del portafoglio degli affari esterni, notaio della Corona e soprantendente generale delle poste, e vi abbiamo fatto apporre il nostro grande sigillo.

«Dato in Moncalieri, il dodicesimo giorno del mese di agosto, l’anno di grazia mille ottocento e quaranta nove.»

Il 15 aprile 1848, dalla Camera dei Pari e da quella dei Comuni in Sicilia veniva fatto un decreto col quale si dichiarava decaduto dal trono siciliano Ferdinando Borbone e tutta la sua dinastia. Addi 15 febbraio 1850, il Governo napoletano tentava colla minaccia della prigionia e dell'esiglio di ottenere dai componenti quelle Camere un atto d’individuale ritrattazione di quel decreto. Ma usciva alla luce e circolava tanto in Francia che in Italia una Protesta dei siciliani concepita in questi sensi:

«Quel decreto fu pronunziato spontaneamente, liberamente, all’unanimità delle due Camere.

«Ebbe l’adesione esplicita di tutti 1 comuni dell’isola in particolare e del popolo in generale.

«Si poggia sul diritto imprescrittibile dei popoli, non meno che sul diritto scritto della Costituzione del 1812, nel capitolo per la successione al trono.»

I sottoscritti rappresentanti del popolo siciliano, i soli che si trovavano in allora in Francia ed in Inghilterra, protestarono innanzi a Dio ed innanzi le civili nazioni contro quell'atto nuovo d'illegalità; protestarono contro ogni forza e volere che il Governo di Napoli vorrebbe dare ad un atto nullo ed incapace di produrre qualunque sia effetto ed erano persuasi che altrettanto avrebbero fatto i loro colleghi d’emigrazione appena giungesse loro la nuova di quell'atto di perfidia e di tirannide.

Questa protesta è in data di Parigi, sottoscritta dai signori, principe di Granatelli deputato; Giuseppe la Farina deputato della città di Messina; Michiele Amari deputato deila città di Palermo; Mariano Stabile deputato della città di Palermo; Benedetto Venturelli deputato della città di Partenico; Luigi Scalia, deputato, forse lo stesso che veniva obbligato di pagare in soldo alla regia Cassa le somme enormi che dicemmo.

Aderirono pienamente a quella protesta gli emigrati in Londra ed in Parigi signore barone di Friddari, Giacinto Carini colonnello del!. reggimento di cavalleria; Alfonso Scalia, maggiore della prima brigata di artiglieria di piazza; Carmelo Agnetta, capitano del 3. battaglione; Francesco Venturelli, capitano dello stato maggiore generale; Francesco Stabile primo tenente del 6. battaglione della guardia nazionale; Antonio Gravina, capitano dello stato maggiore generale.

Nella Toscana intanto procedevano le elezioni municipali, ma dai più svegliati temevasi che la Costituzione, non appena inaugurata, raggiungesse il suo fine, e ciò per le rimostranze fatte dall’Austria al Granduca, dall'Austria che non voleva attorniare il Lombardo-Veneto di regimi liberali, troppo già turbando le sue ferme misure repressive le smodate eccedenze piemontesi. Epperò spargevansi le più strane idee, le più fantastiche trepidanze, le più avventate supposizioni. Sembrava che fosse vicino il tempo di qualche nuovo avvenimento turbatore della quiete di que’ paesi; sembrava che si preparasse il cammino a nuove imprese; sembrava in fine che il Governo facesse appositamente spargere questi allarmi onde nascesse qualche conflagrazione politica, per aver campo di manomettere e ritirare sino da suoi primordii la promessa Costituzione. Si armavano intanto le fortificazioni ed i porti, e si chiamavano dall'Austria truppe novelle.

In Roma, per quantunque gli sforzi della truppa e della polizia francese fossero diretti con alacrità e vigoria a ripristinare l’ordine, non pertanto le stilletlate si succedevano e di giorno e di notte; e le vittime francesi bagnavano del loro sangue quel suolo, che per opera loro alcun tempo prima veniva bagnato da sangue italiano. Sangue per sangue: era quasi il grido d’ordine.

Il giorno 16 febbraio furono arrestati sulle pùbbliche vie altri duecento individui. Roma andava perdendo i suoi abitanti; per le strade si scambiavano appena i saluti; airi ve Maria della sera non si vedeva più alcuno.

Volevasi da quelle Autorità, il di 17, fare uscire, dalle carceri tutti gli arrestati degli ultimi giorni di carnovale, obbligandoli a sottoscrivere un foglio nel quale erano le seguenti condizioni: «1. Che all’Ave Maria ognuno'dovesse trovarsi a casa; 2. di non uscire di casa che dopo levato il sole; 3. di non ricevere alcuno nella propria abitazione di giorno e di notte; 4. di non entrare in nessun caffè; 5. di non unirsi con nessuno per via; 6. di chiamarsi e riguardarsi come responsabili di tutto ciò che il Governo credesse opportuno di far ordinare ed eseguire.»

Tutti gli arrestati prescelsero la prigione anziché sottoscrivere tali condizioni le quali, sparse per la città, destarono indignazione. Nella via del Macello dei corvi venne ucciso un soldato francese del 53. di linea. Fortunato Gatti di Perastenne ne fu l’uccisore. Arrestalo, fu tradotto avanti il primo consiglio di guerra permanente, della seconda divisione militare, condannato e fucilalo nella mattina dopo sulla Piazza del Popolo. Nientemeno che 3000 persone partirono da Roma.

Laripristinazione della pubblica tranquillità permise che cogli ultimi di febbraio 1850 si permettesse in Milano la riapertura dell'Istituto di scienze, lettere ed arti. La presidenza veniva affidata al cavaliere Carlini, la vicepresidenza al nobile Crivelli, il secretariato al cavaliere Labus, il vicesecretariato al nob. Frisiani. Questa mistura fu presa dietro ripetute domande del Municipio, ma venne accordata con qualche fatica, perché le autorità militari temevano sempre la comparsa di nuovi avvenimenti, essendo già scoppiata in Parma, nel comune di Castel S. Giovanni in Fontana Pradosa, una ribellione contro la forza armata. Fu duopo spedire colà. una compagnia delle I. R. truppe di linea, e convocare un consiglio di guerra. Furono condannati, Pietro Araldi a 20 anni di lavori forzati; e Giuseppe Baroni ad un anno di prigionia; Antonio e Pompeo Vignola al pagamento di lire nuove 4000, e Simeone Sgorbali 500.

A Vienna intanto si organizzavano coll’ordinaria lentezza nuovi sistemi legislativi, pubblicando continui editti imperiali, e veniva abolita in Milano la, censura preventiva non dei libri, ma sibbene dei periodici, dando soltanto a persone benevise il diritto di pubblicarli alcune ore dopo che un primo esemplare fosse stato presentato alle Autorità di polizia e militari.. L’abolizione della ceDsura quindi non era che di nome, mentre di fallo non si permetteva la divulgazione dei giornali che quando credevasl. E ciò perché la tema di nuovi avvenimenti politici divuigavasi ovunque;. e già in Toscana venivano soppresse le guardie civiche, ed ingrossate le guarnigioni tedesche, concentrate le truppe toscane a Lucca ed a Viareggio, ed occupato dagli austriaci anche Porto Ferraio. In Svizzera il turbolento vespaio dei Mazziniani agiva con alacrità e cospirando, angustiava il paese, che era ad essi ospitale; spargeva le sue fila in tutti gli Stati italiani e minacciava una vicina esplosione. In Roma continuavano i disordini senza velo, senza ritegno; Roma era qualificata, dalla stampa estera, come un governo debole e fiacco, che faceva gemere i popoli sotto la inetta amministrazione della Giunta cardinalizia, ripristinando l’assolutismo di Gregorio XVI, ridotto però all’impotenza di reggere la cosa pubblica. Roma trovavasi in peggiori condizioni di quando erasi pubblicala la famosa lettera di Edgardo Nev. Bologna era divenuta veramente una tomba, una Certosa. La banda del Passatore forte di 300 uomini, aumentava di numero e di audacia. II Passatore, uomo di 40 anni e di civile condizione, entrava nei paesi, s’impossessava dei corpi di guardia, e ne rapiva le armi; indi passava allo spoglio delle case con meravigliosa e fredda audacia; arrestava carrozze e diligenze; spargeva ovunque il terrore, e tutti conoscono il fatto di Forlimpopoli; mentre in Loreto pacificamente e con improvvida non curanza tenévansi da cardinali e vescovi delle congreghe, presiedute dall’em. sig. cardinale de Angelis, per deliberare intorno a materie importanti il bene e il decoro della Religione.

LaFrancia intanto mandava note al ministero sardo, esortandolo a tenersi in guardia, a «prendere tutte le misure per tenere in dovere la emigrazione, mentre il guardasigilli, ministro di grazia e giustizia, conte Siccardi, dava lettura alla camera, nella sessione del 25 febbraio, della esposizione dei motivi di una proposta di legge per l’abolizione del foro ecclesiastico, proposta che veniva accolta e coronata dal plauso di tutta l'Assemblea e nominavasi una Commissione per passare al l'abolizione dei casuali o diritti di stola. Questa relazione, approvata dal Re, porta la data del 26 febbraio.

Dopo tutto, nel giorno 28 i consoli residenti nel regno Lombardo-Veneto levarono la bandiera che avevano inalberata nei giorni di sommossa e di crisi politica, a tutela dei loro connazionali; e le truppe spagnuole, che erano già da molto tempo ancorate a Civitavecchia per la restaurazione del Pontefice, ripartirono col vapore Castillo per ordine del generale Cordova.

Quante saltuarie incoerenze adunque si andavano tutto di appalesando rispetto, alle generali condizioni degli Stati italiani!

Una Notificazione dell'I. R. generale di cavalleria, governatore militare e civile, e luogotenente per le Provincie Venete, barone Puchner, pubblicata in Venezia il 7 marzo 1850, emanava un atto che in Piemonte ed altrove fece sentire come le conseguenze sue andavano a ledere le proprietà dei cittadini. £cco la Notificazione, ed indi il relativo Proclama:

«Coi proclami 30 dicembre 1848 e 42 agosto 1849 furono eccitati a ripatriare i sudditi Lombardo-Veneti, che in conseguenza dei politici sconvolgimenti erano fuggiti all estero stabilendo ripetutamente un termine perentorio, entro il quale potessero effettuare il loro ritornocol favore di una piena amnistia.

«Nel primo dei suindicati proclami furono espressamente ricordati gli effetti della Sovrana Patente di emigrazione, e col secondo fu espressamente concesso di chiedere il permesso di emigrazione a coloro, che preferirebbero di abbandonare per sempre la loro patria. Molti approfittarono di tali graziose concessioni, rientrando negli II. RR. Stati o chiedendo nelle vie regolari il loro espatrio, altri però sono rimasti sordi e renitenti alla voce dell’Autorità.

«Ogni atto di grazia deve avere il suo limile, e non potendo lasciarsi in pieno arbitrio dei tuttora assenti, di chiedere, quando che sia, il permesso di emigrazione, né potendo tornare indifferente al Governo, che siffatti sudditi renitenti rimangano nel godimento dei diritti di cittadinanza austriaca, S. E. il sig. Feld-Maresciallo. Governatore generale civile e militare del Regno-Lombardo-Veneto, conte Radetzkv, ha trovato di ordinare quanto segue:

«1.° Essendo ormai spirati i termini concessi dai proclami 50 dicembre 1848 e 42 agosto 1849 ai sudditi Lombardo-Veneti, allontanatisi per i politici avvenirne!). ti, pel loro libero ritorno negli II. RR. Stati, immuni da pena, saranno ora applicate le disposizioni della Sovrana Ralente di emigrazione dell'anno 1852, giusta le comminatorie già espresse nel primo dei suddetti proclami, contro tutti coloro, i quali, quantunque non esclusi dall'amnistia, non ritornarono Qn qui negli 11. RR. Stati e non hanno ottenuto regolare permesso di emigrazione.

2.° Dovendo i suddetti sudditi assenti, a termine del § 7 della citata Patente, essere riguardati come emigrati senza autorizzazione, si passerà per conseguenza immediatamente, dopo la pubblicazione della presente Notificazione, al sequestro dei loro beni mobili ed immobili a termini di legge.

«5.° Il sequestro medesimo, salve le eccezioni indicate nei paragrafi seguenti, sarà disposto anche a carico di coloro, i quali avranno bensi chiesto, ma ai quaji non fu per qualsiasi ragione accordato il permesso di emigrazione. x

4.° Da quindi innanzi sarà accordato il permesso di emigrazione soltanto a quegl'il. RR. sudditi, assenti per oggetti politici, le di cui istanze per emigrazione si fossero finora reiette per motivo di un impedimento temporario indipendente dalla loro volontà.

«5.° Dall'altra parte, S. E. il signor Feld-Maresciallo Governatore generale conte Radetzkv si riserva di accordare ancora la grazia del ritorno negl'II. RR. Stati, esenti da ogni punizione, sopra istanza dei singoli individui quando: '

«a) venga con documenti legali provato, che il petente era impedito di approfittare dell’amnistia concessa entro i termini prestabiliti, oppure

«b) quando l’assente si dichiari pronto a dare cauzione pel successivo suo contegno colla metà de' suoi beni presenti e futuri in modo, che questa parte della sua sostanza rimanga bensì nella sua libera amministrazione ed usufruito, ma sia impedito di alienarla, sino a tanto che non avrà sostituito altra adequata parte dei suoi beni, o fino a tanto che non avrà ottenuto dalla prefata E. S. io scioglimento da questo vincolo per aver dato prove soddisfacenti de' suoi sentimenti politici.

«In caso di nuovi aggravii politici, la sostanza, data come sopra in cauzione, sarà sottoposta alla sequestrazione; ovvero

«c) quando, trattandosi di un petente privo di inezzi di fortuna, altro suddito di S. M. garantisca, con adattata cauzione, della di lui condotta politica.

«6.° Non potrà essere accordato il permesso di ritornare negl'II. RR. Stati, esenti da punizione, agl'individui che coprivano un impiego imperiale regio.

«7.° Saranno sottoposte a sequestro le proprietà dei militari disertori tuttora assenti di ogni grado, i quali, com'è evidente, non possono neppure aspirare né ad ottenere il permesso di emigrazione, né a poter ritornare liberamente negl'II. RR. Stati.

«8.° Le premesse disposizioni non saranno applicate alla città di Venezia ed al territorio riacquistato colla sua rioccupazione, in cui non furono pubblicati i succitati proclami 30 dicembre 848 e 42 agosto 1849, se non in esito all'editto di richiamo che contemporaneamente sarà per questa parte del territorio Veneto pubblicato.

«Venezia li 7 marzo 850.

«L'I. R. generale di cavalleria, governatore militare e civile, Luogotenente per le Provincie Fenete.

«Barone Puchner

Proclama

«In considerazione che i proclami 30 dicembre 848 e 2 agosto 849 non furono pubblicati in quella parte delle provincie Venete, che fu rioccupata dalle II. RR. truppe in conseguenza della capitolazione di Venezia, e volendo estendere a questa porzione del territorio Veneto gli stessi beneflzii, che furono concessi ai sudditi traviati delle altre parti dei Regno, S. E. il sig. Feld-Maresciallo e Governatore generale civile e militare, conte Radetzkv, ha trovato di ordinare quanto segue:

1. I sudditi appartenenti alla città di Venezia ed al territorio rioccupato, per effetto della capitolazione della città medesima, o che si erano rinchiusi durante l'assedio, ed i quali trovansi ora assenti all'estero per causa degli sconvolgimenti politici, possono liberamente ed impunemente ritornare nel Regno, a tutto il mese di aprile p. v., esclusi però gl'IL RR. Ufficiali che hanno servito colle armi contro il loro legittimo Sovrano, e le persone civili nominate nell’avviso 24 agosto 1819 dell'inallora Commissione governativa di Venezia.

«2. Quelli che entro il termine, come sopra determinato, non ritornassero nel Regno, o non avessero ottenuto il regolare permesso di emigrazione, saranno senza altro trattati come emigrati senz’ autorizzazione, e si passerà al sequestro dei loro beni mobili ed immobili, a termini delle leggi vigenti, tenendo luogo il presente Proclama dell'editto di richiamo, contemplato ai §§ 6 e 27 della Sovrana Patente di emigrazione dell’ani’ anno 1832.

«3. Dopo l’espiro del suddetto termine, saranno applicate alla città di Venezia, e territorio suddetto, tutte le altre disposizioni portate dall'odierna Notificazione contro gli emigrati senza autorizzazione.

«Venezia, li 7 marzo 1850.

«Li I. R. generale di cavalleria, Governatore militare e civile, Luogotenente per le Provincie Venete

«Barone Puchner.»

LaSvizzera intanto ebbe in quell’epoca a sostenere una importante questione, promossa dagli Stati germanici, i quali domandavano non solo alla Confederazione l’espulsione dei profughi colà esistenti, ma eziandio che la Svizzera conoscesse il diritto dei Governi confinanti Misteri d’Italia. Voi. I. 10

di esigere, a loro grado, l’espulsione di quelli tra loro sudditi, che andassero a cercare asilo nel suolo Elvetico. La Svizzera ricusava di legarsi per l’avvenire con un trattato che manometteva i suoi diritti, e vi si ricusava, malgrado che l’Austria e la Prussia adunassero considerevoli forze sulle sue frontiere.

Altre questioni di non minore importanza si agitavano a Torino ed a Roma. Monsignor Franzoni, arcivescovo di Torino non volle mai riconoscere la Costituzione, l’abolizione del foro ecclesiastico e dei diritti di stola; epperò venne chiamato al dovere da quel Ministero colla intimazione, o di far atto pubblico di adesione al Governo costituzionale di S. M., ovvero di assoggettarsi ad essere condotto alla frontiera. Monsignor Franzoni aderiva alle nuove istituzioni, e pubblicava in proposito una circolare assai lodata, in data di Pianezza 4 marzo 1850. Ma sia che si pentisse in appresso di quelF atto di sommessione, sia che ricevesse ordini da Roma, sia che credesse di ledere la propria coscienza, sia che agisse per ispirito di reazione, il fatto si è che si mise in aperta ostilità col Governo, il quale ordinò prima la prigionia, poi la espulsione di lui dai regii Stati. Questo procedimento ostile continuò lunga pezza da una parte e dall’altra. Il Governo esigeva che rinunziasse al vescovato, e Franzoni non si piegò mai a tal passo. Questo prelato, considerato a Roma quale martire della religione, a Torino come un temerario pervicace, fece condensare le folgori, che dal Vaticano dovevano poi lanciare sul Piemonte cariche di scomuniche. Dopo di lui venne Artico, vescovo di Asti, il quale poco mancò non venisse lapidato dal popolo per la vita licenziosa che tenea, e fu espulso egli pure dalla sua diocesi. A Roma invece speravasi, con maggior fondamento delle altre volte, che il Papa sarebbe quanto prima ritornalo, attesa la effettuazione del prestito di 40. milioni di franchi, già sottoscritto dalla Casa Rothschild. Se non se, i popoli delle Romagne non volevano essere più considerati come nullità politiche, ma volevano avere ingerenza negli affari pubblici. La idea del Governo clericale veniva respinta ovunque, la Francia incominciava già a ritirare parte delle sue truppe, la Spagna aveva fatto lo stesso; l’Irlanda, a cui il Papa era ricorso, non. volle aderire al mantenimento in Roma de suoi corpi armati perpetuamente; tutti colà erano stanchi della influenza dell'Austria e delle armi di lei. Per la qual cosa nel mentre si ammetteva la necessità dèi potere temporale del Papa, non si sapeva trovare il mezzo per ripristinarlo in modo durevole e meno gravoso per quelle popolazioni. Intanto il cardinale Antonelli mandava una Nota datata da Portici al sig. marchese Spinola, incaricato d’affari di Sardegna presso la Santa Sede, colla quale mostrava il suo grande rincrescimento per le leggi sancite dal Parlamento, contrarie ai dettami della Chiesa, ed esortava ed ammoniva il Piemonte affine rispettasse i concordati e si attenesse alle loro prescrizioni, né ledesse i diritti di Roma. Le leggi sull'abolizione del foro ecclesiastico, dei diritti di stola, e di molte feste dell’anno, venivano dopo un ragionato discorso del conte Siccardi, approvate quasi ad unanimità di voti dalla Camera, ed un altissimo obelisco, eretto in Piazza paesana, ne perpetuava la memoria. Questo monumento tramanda ai posteri, l’epoca in cui la Camera approvò l’abolizione del foro ecclesiastico, ed il nome di Siccardi che la propose, e dei deputati che la votarono. Tutte queste patrie dimostrazioni movevano le ire del sinedrio di Roma, di quel sinedrio che già da molto tempo teneva detenuto nel Castel S.

Angelo monsignor Gazzola, uomo di distintissimo ingegno, mansueto, probo, pio, e che dopo avergli negato due difensori, lo condannava all’ergastolo a vita in Corneto. Ma al Gazzola riuscì di fuggire dal suo carcere il giorno 29 marzo, travestito da ufficiale francese.

La discussione delle leggi Siccardi al Senato di Torino, fatta alla presenza di oltre a 600 spettatori, si disse aver segnato un’epoca di progresso per il Piemonte, che nelle Romagne e nelle altre parti d’Italia, presso le quali la Santa Sede era caduta in discredito, veniva approvato con entusiasmo, sebbene lo si reprimesse dalla forza pubblica.

Ecco la sessione del 5 aprile.

Erano presenti lutti i ministri; le logge, e le tribune riboccavano di uditori, e moltissimi deputati occupavano i vuoti statli, che erano nella parte inferiore dell'aula senatoria.

Il senatore Cibrario leggeva il processo verbale della precedente tornata, che veniva approvato, dopo qualche rettificazione, dal senatore De-Cardenas.

Il senatore Profumo prestava il giuramento.

Si leggeva il sunto di varie petizioni.

L’ordine del giorno recava la discussione della legge per l'abolizione del foro ecclesiastico, onde il presidente dava lettura dell’intiero progetto e dichiarava aperta la discussione generale.

Il Ministro della giustizia:

«Nel portare questa legge innanzi al Senato, io credo dover dare alcuni schiarimenti sulla parte sostenuta dal Governo. Si domandavano le notizie e i documenti delle negoziazioni fatte colla Santa Sede. Nessuna difficoltà avrebbe il Governo ad esibirli; ma non volle introdurre un precedente poco regolare, ammettendo tale comunicazione allorché si tratta di una legge e non di un esame di un trattato. Ben qui credo dare alcune spiegazioni, e per quello che si è detto, e per la pubblicità non consueta, che volle darsi ad un documento diplomatico, che veniva dalla Corte romana.

«Anche prima che io fossi incaricato di una missione presso la Santa Sede, si erano fatte delle negoziazioni. Noi dobbiamo quest'omaggio agli uomini distinti, che preparavano le vie al Governo costituzionale, e che or siedono degnamente in quest alto consesso, una nota del 4 maggio 1848 fu trasmessa al regio ministro a Roma, con la quale si pregava, ma senza lasciare di rassegnare rispettosamente, che la preghiera era mossa da debito di convenienza, e non da bisogno di trovare un diritto, che esiste presso la potestà civile.

«Questa Nota è concepita in sensi veramente fatidici. Si prevedono le repulse, s’invoca il principio della civile eguaglianza, e si notano le conseguenze di un ingiusto rifiuto. Il ministro, a cui fu trasmessa, tenne un linguaggio rispettoso e degno col cardinale incaricato delle relazioni estere.

«La risposta di lui fu in termini alti, stretti, sonori, sebben convenienti per la forma. Egli riteneva sufficienti, per le attuali condizioni del Piemonte, i concordati del 1742 e 1841. La conclusione di questa comunicazione era poi che un cardinale plenipotenziario era stato destinato da Sua Santità a quest'oggetto.

«Frattanto una Commissione era incaricata dal Governo di preparare il progetto di un nuovo concordato, che fu formulato in pochi articoli. Spedito al cardinale plenipotenziario, egli senz' altro io respingeva, proponendo da parte sua un contro-progetto di un altro concordato, che la Corte di Roma avea preparato per altro Governo italiano, dal quale non fu mai accolto, né se ne fece mai parola in quel Parlamento, ond'è da presumere che sia stato trovato disconveniente, come da noi si trovava.

«Nulla dirò della strana ragione dei compensi, posta innanzi da alcuni. In una questione di principi!, non possono ammettersi mezze misure, che sono più che altro pregiudizievoli. Ove si tratti della libertà e della indipendenza della Corona, conviene stipulare una volta in modo conveniente, perché non venga mai rivocata in dubbio.

«A fronte di questa libertà e di questa indipendenza, si parla di quella Chiesa: noi la riconosciamo certamente e la vogliamo, allorché poniam modo che due podestà sieno ristrette nei rispettivi confini. Altronde giova ricordare che la Chiesa cattolica, in un paese ove la nostra santa Religione è guarentita dall’articolo I. dello Statuto, non può considerarsi come una setta, o come una corporazione qualunque, ed il Governo, che la protegge, la guarentisce e la sussidia, ha dei diritti speciali a fronte di questi speciali doveri.

«Non lascierò la parola senza dire qualche cosa della mia missione. Essa ebbe per oggetto alcune circostanze, che qui non giova ricordare. Quante volte fosse riuscita in questa prima domanda, doveva rivolgersi a negoziare un concordato; ma il più irremovibile rifiuto fu opposto a quelle prime istanze, perché la Corte pontificia ha le sue tradizioni, pur troppo immutabili, non solo nelle cose del domma, ove l’immutabilità è pregio e supremo carattere di verità, ma anche nelle cose temporali; e piaccia a Dio che questa tenacità dei consigli pontificii, in certe cose umane, non sia di nocumento alla Chiesa cattolica.

«In fine, si è dubitato dell opportunità della legge. Or perciò solo che una legge è giusta, e generalmente reclamata, essa è necessaria più che opportuna. Il clero va a risentirne i benefici effetti. Era una singolarità del potere arbitrario, ch'ei potesse raggiungere il prete, carcerarlo, esiliarlo con atti economici, che si giustificavano colla necessità di evitare gli scandali, quasi lo scandalo fosse nella repressione e nella pena, anziché nel delitto. Mercè lo Statuto, il clero, emancipato da questi arbilrii, è bene che sia sottoposto alla giurisdizione comune e all'ordine giudiziario. Noi non vogliamo che la franca applicazione dello Statuto anche per gli ecclesiastici.»

Il senatore de Cardenas sorgeva a dire alcune parole, in nome del senatore Alessandro Saluzzo, pel voto sospensivo, sino a concerti presi colla Santa Sede.

Il senatore d’Azeglio declamava contro le temerità della demagogia e le ridestate speranze dalle elezioni di Parigi. Vedeva l'atmosfera caricarsi di novelle tempeste, vedeva che lo stesso popolo di Roma, già sì devoto un dì al suo principe, allora protestava costantemente contro la restaurazione clericale. Toccava indi della reazione romana, poi degli abusi che in Piemonte davano luogo alle immunità ecclesiastiche, censurate da tutti, ed avverse allo stesso popolo. Epperò ne traeva la necessità di porre rimedio ad un tale stato di cose, di porsi in regola da chi governa colla legge fondamentale dello Stato e di restaurare la morale pubblica. «Dall'abolizione dei privilegii «diceva egli» il sacerdozio guadagnerebbe in dignità e considerazione: tale essere anche l'opinione del vescovo di Langres. L’eguaglianza della giustizia essere la prima e la più apprezzata dal popolo. Non fare ingiuria all'autorità del Pontefice quei che reclamano quest'uguaglianza sibbene all'autorità del Re quelli che la contestano.»

Epperò egli vota per l'adozione.

I senatori Dalla Torre, Picolet, e Colli parlano in favore della sospensione, ma il Picolet ed il Cristiani tengono la società civile anteriore alla società ecclesiastica, epperò l'abolizione, di cui si tratta, essere approvata, desiderata da non pochi del ceto stesso sacerdotale.

Il senatore Fescovo di Ciamberi,De Cardenas, Galli, e Castagnette parlano contro il progetto, ma solo riguardo al modo, soggettivamente all'accordo con Roma. D’altronde i contrarii al progetto trovavano necessario di sapere a qual punto fossero giunte le trattative con Roma, prima di determinarsi ad una deliberazione qualunque. il Castagnette soprattutto insisteva sulla questione religiosa, temendo di aprire le porte del Piemonte al socialismo. Ma il senatore Musio sorgeva a ribattere gli avversarii in favore della medesima legge. Egli provò «essere la legge vitale per lo Stato, onorevole per la Chiesa, e benefica pel Cattolicismo. La libertà è il fine della giustizia, della quale sono veri rappresentanti i giudici stabiliti dal Re, e non lo possono essere tribunali speciali, dipendenti da Principe straniero e soggetti a franchigie. Dunque i tribunali speciali debbono, come conseguenza necessaria dello Statuto, venire aboliti. Abolizione consacrala dal testimonio medesimo di Gregorio VII e di tutti i Papi precedenti, a partire da S. Pietro, i quali predicarono la sommessione alla potestà civile. Essere necessità la votazione della legge senza indugio, anche nell'interesse della Religione, per tutti quei motivi, che lo stesso Pio IX saprebbe apprezzare. La libertà favorisce, più che non diminuisca, la grandezza del sacerdozio e l'influenza della Religione. La storia ecclesiastica e civile, il diritto canonico e politico rendono questa legge altamente santa e commendabile in faccia al cielo ed alla terra.»

Il senatore Plezza risponde alle obbiezioni del preopinante «la legge non essere contraria alla Religione, né al diritto delle genti. Non contraria alla Religione; di fatti, in tutti gli altri paesi, dove venne accettata, non vi fu perciò ragione di scisma. Se si vuol trattare la questione col principio dei trattati, allora bisogna lasciare da parte l’argomento, con cui si pretende: essere le franchigie un diritto naturale della Chiesa. Nessuno tratta di ciò ch'è suoper natura. Nega poi che le convenzioni colla Santa Sede possano aver forza di trattati, essendo specialmente e semplicemente contratti fra uno stato temporale e l’autorità spirituale. Nelle cose temporali essi dipendono direttamente dalla sovranità temporale dei rispettivi Stati, che può annullarli, quando sono dannosi al ben pubblico. Inoltre i Concordati non poter più aver forza di legge nel nostro Stato, dipendendo essi unicamente dalle circostanze dei luoghi e dei tempi, che variano all'infinito. Le forme dei giudizii essere transitorie; la giustizia solo eterna.»

Il senatore d'Angennes vuole che si sospenda, temendo di macchiare la sua coscienza con questo voto.

Il senatore Petitti, vuol rimanere neutro.

Il senatore Plezza, dava lettura di una Bolla di Gregorio XIV intenta di provare: che i Concordati non sono trattati, avendo quel Papa annullate tutte le immunità dei secoli precedenti, nello scopo di riformare la disciplina ecclesiastica.

Il senatore Gioia, si appoggiava «sull'unità d’impero e di giurisdizione, sull’unità e sulla indivisibilità della sovranità» per sottomettere anche il clero al diritto comune. Ricorreva «alla storia del Piemonte ai tempi di Vittorio Amedeo II, e del suo successore, per convalidare ogni abolizione di privilegio.»

Come dimostrassi Gioia grande oratore, cosi molto si distinse anche il senatore Sclopis, il quale trattenne l’Assemblea con rimarchevoli passi storici, intenti a rivendicare il Piemonte dagli antichi pregiudizii.

Parlarono in favore della legge i senatori D'Arvillars Moreno, Maestri, de Gatinara, Des Ambrois, Sauli, Gallina, Alberto Ricci, Franzini, Cibrario, Demargherita, e perorarono contro la legge, monsignor Calabriana e monsignor Fantini.

Il ministro del! istruzione pubblica riassumeva le ragioni e parlava della necessità ed opportunità della nuova legge per la mutata condizione dei tempi, per la proclamala eguaglianza dei cittadini, per le utilità derivanti ai chierici con l'abolizione del privilegio, per la incompatibilità con lo Statuto di una giurisdizione eccezionale e non derivante dal Re. Ricordava «che i preti, avendo accettato lo Statuto, implicitamente avessero rinunziato ai privilegii del proprio foro. Un senatore prete, commettendo un reato, è dal Senato che dev'essere giudicato; ed un deputato prete durante la sessione, non può essere abbandonato ai tribunali, senza il permesso della Camera elettiva. Non è forse conseguenza di questi vantaggi un grande immutamento nella giurisdizione ecclesiastica?

Lalegge fu approvata, fra caldi applausi del pubblico, con 51 voti favorevoli in 80 votanti.

Il senatore Demargherita esponeva 15,577 petizioni che avevano chiesta l'abolizione del foro ecclesiastico.

Nel Regno Lombardo-Veneto siccome quanto veniva dal vicino Piemonte era tutto buono, tutto equo, tutto santo, ed eccitava negli animi ammirazione ed entusiasmo; cosi tutto ciò che veniva dall'Austria era accettato per forza, con ripugnanza, con apatia, con animadversione. I lombardo-veneti, si allontanavano dagli austriaci, e non presentavansi ai caffè, ai corsi, ai teatri, che da questi frequentavansi nelle solennità, e nelle feste; facevano in somma una continua opposizione al Governo. Il Governo da parte sua ammoniva le popolazioni, dando colpa di ciò ad alcuni malavvisati faziosi, riscaldati per il Piemonte, oppositori per principio, per sistema, per natura, e faceva soffrire le masse per colpire quei pochi. Intanto le riforme, cosi dette costituzionali, continuavano sempre nello scopo di ottenere una centralizzazione perfetta delle provincie del Lombardo-Veneto e dei poteri coll'impero, lasciando ogni prerogativa a Vienna, centro assoluto per ogni ramo di amministrazione della cosa pubblica dei varii stati soggetti all’Austria; ma pel Lombardo-Veneto niente ancora.

Il giorno 9 aprile 1850 veniva pubblicata nella Gazzetta ufficiale del Regno di Sardegna la legge per l'abolizione del foro ecclesiastico, approvata dalla Camera dei Deputati e dal Senato. Eccone il testo:

Vittorio Emmanuele II ecc. ecc.

«Il Senato e la Camera hanno adottato;

«Noi abbiamo ordinato ed ordiniamo quanto segue:

«Art. 1.° Le cause civili tra ecclesiastici e laici, od anche tra soli ecclesiastici, spettano alla giurisdizione civile, sia per le azioni personali, sia per le reali o miste di qualunque sorta.

«Art. 2.° Tutte le cause concernenti il diritto di nomina attiva e passiva ai benefizii ecclesiastici, ed i beni o di essi, o di qualunque altro stabilimento ecclesiastico, sia che riguardino al possessorio, ovvero al petitorio. sono sottoposte alla giurisdizione civile.

«Art. 3.° Gli ecclesiastici sono soggetti, come gli altri cittadini, a tutte le leggi penali dello Stato.

«Pei reati nelle dette leggi contemplati, essi verranno giudicati nelle forme stabilite dalle leggi di procedura dei tribunali laici, senza distinzione tra crimini, delitti, contravvenzioni.

«Art. 4.° Le pene stabilite dalle leggi dello Stato non potranno applicarsi che dai tribunali civili, salvo sempre all'eccclesiastica autorità l'esercizio delle sue attribuzioni per l'applicazione delle pene spirituali, a termini delle leggi ecclesiastiche.

«Art. 5.° Per le cause contemplate nei quattro articoli precedenti, come per tutte quelle che, in ragione di persona o materia ecclesiastica, si recavano in prima istanza alla cognizione dei magistrati d'appello, si osserveranno d'or innanzi le regole generali di competenza stabilite dalle vigenti leggi.

«I magistrati d’appello riterranno però la cognizione delle cause, che già si trovassero presso di essi vertenti nell'epoca in cui emanerà la presente legge.

«Art. 6.° Rifugiandosi nelle Chiese od altri luoghi, sino ad ora considerati come immuni, qualche persona, alla cui cattura si debba procedere, questa vi si dovrà immediatamente eseguire, e l’individuo arrestato sarà rimesso all'autorità giudiziaria pel pronto e regolare compimento del processo, giusta le norme stabilite dal Codice di procedura criminale.

«Si osserveranno però nell'arresto i riguardi dovuti alla qualità del luogo, e le cautele necessarie affinché l’esercizio del culto non venga turbato. Se ne darà inoltre contemporaneamente, o nel più breve termine possibile, avviso al parroco o rettore della Chiesa in cui l’arresto venne eseguito.

«Le medesime disposizioni si applicheranno altresì nei casi di perquisizione e sequestro di oggetti da eseguirsi nei suddetti luoghi.

«Art. 7.° Il governo del Re è incaricato di presentare al Parlamento un progetto di legge, inteso a regolare il contratto di matrimonio nelle sue relazioni con la legge civile, la capacità dei contraenti, la forma e gli effetti di tale contratto.

«Il nostro guardasigilli, ministro segretario di Stato per gli affari ecclesiastici, di grazia e giustizia, è incaricato della esecuzione della presente legge, che sarà registrata al Controllo generale, pubblicata ed inserita nella Raccolta degli atti del Governo.

«Torino li 9 aprile 1850.

Vittorio Emmanuele.

V. Galvagno

V. Nigra Siccardi.

Sua Santità l’io IX accompagnato da S. M. Ferdinando II re delle Due Sicilie, dal principe di Calabria, ereditario al trono di Napoli, e da molto seguito di sontuose carrozze, giungeva a Terracina, da dove, dopo una breve sosta, accommiartatosi dagli augusti Borboni, riprendeva il suo viaggio, scortato da guardie di onore, da armigeri pontifìzii e francesi, da prelati, e da principi romani. Entrava in Roma il giorno 13, dopo una lunga e penosa assenza, al suono di tutte le campane. Il suo arrivo veniva annunziato alle quattro Legazioni con salve festose dalle regie artiglierie e con proclami affissi ai muri delle città. La popolazione vi prese poca parte, tranne la poveraglia, alla quale con avviso del Municipio, veniva promessa la somma di scudi 5000, che sarebbero stati largiti all’arrivo di S. S. I negozii della città erano tutti chiusi; i liberali e tutti quelli che erano contrarii alla restaurazione papale, fuggirono il giorno innanzi, lasciando Roma deserta. Dietro il palazzo del principe Ghigi (tale n’era la fama) scoppiava un petardo, che spaventò tutti gli abitanti di quel rione; tutti i vetri delle finestre di quei contorni rimasero rotti. Nella camera del maggiordomo di S. Santità si rinvennero bottiglie'di sostanze liquide incendiarie che furono sottratte a tempo. All'arrivo del Papa in Roma furono celebrate messe solenni in tutte le chiese e cantato il Tedeum, tanto nelle Romagne, che in Toscana, nel Lombardo-Veneto, in Austria, in Francia, in Ispagna, in tutto il mondo cattolico, tranne in Grecia, in Turchia, nel Belgio, in Inghilterra, in Piemonte ed in Russia. L’accoglimento del Santo Padre fu uffiziale, clericale e diplomatico. Venivano addobbate esternamente le chiese, i pubblici stabilitìienti, gli uffizii, i luoghi pii, e sulla porta della chiesa accademica di S. Martino al foro romano, leggevasi la seguente iscrizione, composta dal secretano di quell'accademia sig. avv. Salvatore Betti.

DEO. CONSERVATORI

AUTORIQ. BONORUM. OMNIUM. GENERIS. HUMANI

OR. REDITUM. FAUSTUM. FELLCEM

INGENTI. POPOLORUM. DESIDERIO. PROSEQUUTUM

D. N. PII. IX. PONT. MAX.

PRINCIPIS. OPTIMI

COLLEGIUM. ARTIFICUM. DIVI. LUCAE

POST. VIOLENTOS. AEREMNARUM. IMPETUOS.

VOTI. COMPOS.

SUPPLICATIONEM. RITE. AGIT

ORDINIBUS. UNIVERSIS

URBIS. CATHOLICI. NOMINIS. MAGNAE

ADCLAMANTIBUS.

Ecco l’ordine del corteggio, che lo accompagnò nella sua solenne entrala in Roma.

Drappello di dragoni pontificii;

Drappello di veliti pontificii.

Drappello di cacciatori francesi.

Squadrone di dragoni francesi.

Drappello di gendarmi francesi.

Il sig. generale di brigata Sauvan, comandante della piazza, e suo stato maggiore.

Un distaccamento di guardie nobili.

Procedeva quindi la Santità di Nostro Signore Papa Pio IX.

Aveva seco in carrozza le LL. EE. Rev. monsig. Medici d'Ottaiano, maggiordomo, e monsignor Borromeo, maestro di Camera.

Allo sportello destro, eravi il sig. generale di divisione Baraguay d'Hilliers, comandante in capo l'esercito francese di spedizione del Mediterraneo, e ministro plenipotenziario di Francia presso la Santa Sede.

A sinistra, era S. E, il sig. principe Altieri, capitano delle guardie nobili di Sua Santità.

Seguivano quindi:

Lo stato maggiore generale francese.

Le guardie nobili di Sua Santità.

Un drappello di dragoni francesi.

S. Em. rev. Il sig. Card. Patrizi vescovo di Albano, Vicario generale di Sua Santità.

S. Em. rev. il sig. Card. Della Genga Sermattei.

S. Em. rev. il sig. Card. Panicelli Casoni.

S. Em. rev. il sig. Card. Altieri.

S. Em. rev. il sig. Card. Dupont.

S. Em. rev. il sig. Card. Antonelli.

LaCommissione provvisoria municipale, rappresentante il Senato romano.

Procedeva poscia l’eccellentissimo corpo diplomatico, residente presso la Santa Sede, coll'ordine seguente:

Le LL. EE. i signori:

Jlarlinez de la Rosa, ambasciatore di S. M. Cattolica. Conte di Liedckerke Beaufort, inviato straordinario, e ministro plenipotenziario di S. M. il Re dei Paesi Bassi.

Conte Ludolf, ministro plenipotenziario di S. M. il re del Regno deile Due Sicilie.

Conte di Spaur, invialo straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. il Re di Baviera.

Barone da Benda de Cruz, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. Fedelissima.

Commendatore Monttinho de Lima Alvaresv Silva, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. l’imperatore del Brasile.

De Bouttenieff, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. 1‘ imperatore di Russia.

Frrarazubal, ministro plenipotenziario della Repubblica del Chili.

Conte Esterhazv, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. I. R. Apostolica.

Brouchére, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. il Re dei Belgio.

Commendatore Kestner, ministro residente di S. M. il Re d'Annover.

Commendatore Bargagli, ministro residente di S. A. I. R. il Granduca di Toscana..

Marchese Lorenzana, ministro residente della Repubblica dell'Equatore.

Conte Simonetti, incaricato di affari di S. A. il Duca di Modena.

Cass, incaricato di affari degli Stati Uniti d'America.

Montova, incaricato di affari della Repubblica del Messico.

Commendatore Alfredo de Beaumont, incaricato di affari di S. M. il re di Prussia.

Marchese Spinola, incaricato di affari di S. M. il Re di Sardegna.

Cav. de Kolb, incaricato di affari esterni di S. M. il Re di Wirtemberg.

Le trombe ufficiali suonarono ai quattro venti, magnificando e portando a cielo il ritorno del Pontefice; e non già solo il contento, ma il più irresistibile entusiasmo del popolo romano, il quale prosternandosi bocconi per le vie di Roma, e formando di se un pavimento, voleva che il Papa sopra di lui passasse per condursi al Vaticano. A tanto si esagerò l’accoglimento di Pio IX a Roma! Ma egli non è da stupire, perché i fogli ufficiali pubblicarono perfino che tutti i municipii dello Stato avessero mandato indirizzi e delegazioni a Gaeta, a Benevento, a Portici nello scopo di sollecitare il ritorno del Pontefice, quando invece e municipii e popoli romani osteggiavano con ogni loro potere il ripristinauiento del Governo clericale. La divulgazione però per tutti gli angoli della terra di quelle false voci era divenuta per la religione, per la sovranità, per il clero, per l'aristocrazia, pei Gabinetti, per la diplomazia, una politico-religiosa necessità europea.

Ma lo scontentamento nelle Romagne, addivenendo generale, suscitava ovunque il turbine del disordine, e della rivolta. Gli abitanti si radunavano, si concertavano, bisbigliavano, tumultuavano, quantunque esistesse ancora lo stato d'assedio. Laonde fu d'uopo all'i r. Comando civile e militare austriaco di dirigere una Circolare in data di Bologna 4 2 aprile, a tutte le Polizie, colla quale richiamava in vigore i rigori dello stato d'assedio emanati col Proclama di S. E. il signor generale Gortzkowski, 18 maggio; proibiva ogni sorta di radunanze o di club, faceva chiudere il Casino e distruggere le barcacce (gallerie dei teatri} sostituendovi dei divisorii che le costituivano in palchi come il restante; imponeva infine alle Direzioni delle polizie di dargli rapporti intorno alla esecuzione degli ordini emanati.

Essendo sparsi questi malumori dovunque, anche il Comando militare di Milano ordinava la chiusura delle porle della città alle ore 9 di sera, e l’apertura all'Ave maria della mattina. Ma le porte Comasina, Nuova, Tosa, Vicentina, Lodovica, e l'Arco della Pace non dovevano mai aprirsi in tempo di notte, mentre le porte Orientale, Romana, Ticinese, Vcrcellina e Tenaglia potevano aprirsi ai cavalli e vetture di posta, alle diligenze, alle pattuglie, agl impiegati, ai lattivendoli, ai cisternieri, ed ai pompieri in caso d’incendio.

Col giorno 22 aprile veniva conchiuso un trattato tra S. M. I. R. A. l’Imperatore d’Austria e S. A. il Granduca di Toscana alio scopo di trattenere permanentemente nel Granducato un corpo di occupazione forte di 10,000 combattenti di ogni arma, con artiglierie, per il completo ristabilimento e la consolidazione della tranquillità e dell'ordine. Il comando di questo corpo, facente parte dell'esercito austriaco, dipendeva, a mente del 1articolo dal generale comandante I armata dell'alta Italia rispetto alla sua organizzazione interna, ed alla sua disciplina. A Napoli iniziavasi il processo della Lega Italiana. A Palermo scoppiava una ribellione che fu sedata con ferimenti ed arresti. A Roma si rinnovò il vezzo di gittare le granate di vetro nelle caserme francesi e di appiccare

Il faoco, come avvenne negli uffizii del cardinal Vicario. Ciò accadeva il 19 giugno, e nel 20 in Bologna giungeva da Roma una Notificazione, colla quale annunziavasi un reclutamento di 4000 uomini, per completare i corpi dell'armata pontificia. In Rimini venne scoperta una immagine di Maria che muoveva gli occhi ed attirava a sé le anime divote a mille a mille. A Torino, dal re decretavasi la somma di lire 60,000 per soccorrere i soldati di mare e di terra, che difesero Venezia. In Milano si ammoniva severamente il giornale l'Artista, per alcuni suoi articoli in senso liberale: le tante volte promesse riforme liberali non giungevano mai, ma sibbene continuava sempre lo stato eccezionale per quelle popolazioni, vale a dire lo stato d’assedio. Da quanto deponeva il sig. Paschetta, accusato dai rifugiati italiani di attentato contro la vita di Mazzini, nel processo incoatogli in Ginevra, risultava, che lord Palmerston accordava la sua protezione ai mazziniani. Intanto circolavano dei piccoli quaderni contenenti delle biografìe, delle notizie biografiche col ritratto fisico morale, intellettuale e sociale dei principali rifuggiti. Il Mazzini vi figurava in prima linea. Circolava molto denaro inglese. Mazzini assumeva in Italia il nome di Fares e corrispondeva con Palmerston e con Ledru-Rollin. Il Gabinetto sardo riceveva continue Note da Roma per avere imprigionato varii vescovi, per avere sturbata la quiete di alcuni frati, impossessandosi dei loro conventi, ed il Gabinetto rideva e tirava innanzi. I clericali avevano aperta una sottoscrizione nelle colonne dell'Armonia e del Cattolico per offrire all'incarcerato arcivescovo Franzoni un attestato della loro stima, nello stesso tempo che il Corriere mercantile di Genova apriva egli pure le sue colonne per un’altra sottoscrizione, già proposta dalla Gazzetta del Popolo e dalla Concordia di Torino, onde raccogliere una somma, allo scopo di ricordare ai posteri la promulgazione della legge Siccardi: le offerte non potevano oltrepassare i 25 centesimi. Le riforme liberali in Toscana e nello stato Pontificio erano stagnanti cd ancora in istato di embrione, ma in loro luogo dovunque regnavano gli stati d'assedio. Seguivano dappertutto radunanze di vescovi, intente a trovare il modo di riparare alla diffusione delle bibbie socialistiche e valdesi, che minacciavano di sconvogliere l’ordine sociale-religioso, ma le loro congreghe terminavano in lamentazioni ed in declamazioni sterili e senza alcun risultamento. Il Crepuscolo di Milano tornò in luce il 25 giugno.

Un 1000 prigionieri di guerra tra toscani, napoletani e piemontesi, che nel 1848 erano stati deportati a Josephstadt ed a Theresienstadt vennero avviati ai confini dei loro paesi soltanto il 1. luglio 1850; mentre la emigrazione volontaria continuava in Roma, e ciò ad onta che il Governo non rilasciasse più passaporti; ma, col mezzo dei ministri esteri, partirono ogni giorno moltissime famiglie. Della nobiltà romana, se si eccettuino poche famiglie che erano in campagna, il restante era tutta fuori di Stato. Nel Piemonte intanto, ad esempio della città di Alessandria, si istituivano comitati allo scopo di promuovere delle lotterie a favore dell'emigrazione italiana.

Nel giorno 7 luglio, in Toscana, veniva comandata una prequisizione nelle officine e negozii dei librai e degli stampatori, e furono perquisiti libri e stampe trovati in contravvenzione all’articolo 2 della legge 17 maggio 1848, che dichiaravali inammissibili. Multati librai e tipografi, si posero e libri e stampe sotto sigillo per mandarli poi gli uni e le altre all'estero colle dovute cautele. Aveasi argomento di ritenere che questa odiosa misura venisse provocata da Roma.

Gli emigrati, o per meglio dire gli uomini che si erano politicamente compromessi, i quali non poterono mai trasferirsi all'estero, giravano pei monti e pelle campagne, perseguitati dalle polizie, dalle soldatesche, senza alcun mezzo di sussistenza; epperò si davano a chiedere soccorso, e dove trovavano renitenze o tirannie, passavano pur troppo ad atti poco lodevoli. Laonde, come prima cotestoro venivàno chiamati coi nomi di rivoltosi, rivoluzionarli; indi con quelli di perturbatori, di briganti, in quell'epoca discesero un altro gradino, e venivano chiamati coi nomi di ladri e di assassini. La emigrazione intanto residente in Alessandria, si riuniva nella cattedrale per ricordare con una messa solenne l'anniversario della morte di Manara, di Dandolo e di Morosini seguita durante l'assedio di Roma.

Labanda del Passatore dalle Romagne passava nella Toscana, levava imposizioni, disarmava e s’incorporava picchetti di finanzieri e di soldati, accresciuta dalle continue diserzioni degli armigeri pontifìcii, dalle destituzioni degl'impiegati, soccorsa dai campagnuoli, forte di oltre 700 uomini, ed assumeva il carattere ed il colore di una forte guerriglia politica. Questa era d'accordo ed in corrispondenza colle bande rimaste nelle Iìomagne e con quelle degli Abruzzi.

I detenuti per oggetti politici nelle carceri di Roma ascendevano, a mente del Risorgimento, al numero di 12.° 00. oltre a 100 altri che si mantenevano del proprio.

Nelle diverse parli d’Italia, a Roma, in Toscana, a Turino, nel Lombardo-Veneto venivano proposti, discussi, attivati dei prestiti per sopperire alle pubbliche bisogna, e per rimarginare le incancherite piaghe finanziarie. Il Foglio di Verona pubblicava in data 18 luglio il risultato dalla commissione stata eletta per il riparto delle spese al prestito di 120 milioni, ottenuto nella pubblica adunanza dei rappresentanti le provincie Lombardo-Venete. Quella commissione si esprimeva cosi:

«Al solo effetto di stabilire la caratura passiva, che ciascuna provincia del Regno Lombardo-Veneto intende di assumere in concorso di chi fornirà la somma occorrente a completare il prestilo volontario, proclamato nella Notificazione la aprile 1830 di S. E. il sig. Governatore generale civile e militare conte Radetzkv, i rappresentanti delle Provincie medesime convengono quanto segue:

«I.° L’ammontare delle conseguenze, derivanti dal contralto, o dai contralti, che si stipuleranno al suindicato scopo dalla Commissione nominanda, è caricato per una metà all estimo fondiario, e per l'altra metà al commercio, all'industria, ai capitali fruttiferi, ed agli esercenti arti liberali.

«2.° La metà incumbente all'estimo è divisa, secondo le norme attuali delle imposte regie prediali, per tre quinti alle provim le Lombarde, e per due quinti alle provincie Venete.

«3.° L’altra metà è divisa per due terzi alla Lombardia, e per un terzo alla Venezia.

«4.° La quota complessiva colle suddette norme assegnate alla Lombardia, ed alla Venezia, sarà pure rispettivamente, fra le provincie dei singoli territorii, ripartita per una metà sull'estimo fondiario, coll’ordinario metodo delle imposte regie prediali, e per l'altra metà sulle altre fonti di ricchezza nazionale, come all'articolo 1.°

«5.° Questa seconda metà viene ripartita in cento carati pelle provincie Lombarde, coi seguenti rispettivi assegni.

» Alla provincia di Milano

Carati

40

dei quali, 16 alla città e 24 alla provincia



Bergamo

»

14

Brescia

»

7

Como

»

10

Cremona

»

7

Mantova

»

9

Lodi

»

6

Pavia

»

5

Sondrio

»

2



100


« 6.° Viene pure in cento carati ripartita la seconda metà incombente alle provincie Venete coi seguenti rispettivi assegni:

Venezia

Carati

22

Verona

»

20

Udine

»

16

Vicenza

»

13

Treviso

»

8

Padova

»

9

Rovigo

»

7

Belluno

»

5



100

I membri di quella commissione erano i signori: Andrea Giovanelli presidente; Luigi Miniscalchi; Giuseppe daLion; Francesco Vidoni; Maflì Maflìno; Vincenzo Benedetti; Enrico Guicciardi.

I rigori esercitati contro le popolazioni promossero una sommossa popolare la notte del 27 al 28 luglio in Collevecchio in Sabina. Accorse la forza dei veliti per isciogliere gli attruppamenti, ma trovò resistenza. Accorsero nuovi veliti e sussidiarli armati ed incominciarono l’azzuffamento. Ai colpi di fucile si allarmava la popolazione: alcuni di essa si unirono ai rivoltosi. Venne avvertito del fatto immediatamente il governatore di Poggio Mirteto, il quale spedi a quella volta due colonne mobili per reprimere lo sconvolgimento. Queste colonne mobili, composte di veliti e di soldati di linea, ch'erano di guarnigione in Rieti, vennero affidate al tenente Ferretti comandante i veliti nella provincia. Il combattimento durò più a lungo che non si sarebbe immaginato; ma alla fine prevalse la forza ed i rivoltosi si diedero alla fuga. Restarono molli feriti e prigionieri, varii morti. Furono fatti arresti in Collevecchio; la brigata ivi stanziata fu mandata altrove; il comandante della piazza fu sottoposto a censura. L’ordine fu ristabilito. Una colonna di veliti andò subito ad occupare le posizioni di Configni, ed un’altra mosse per Morro e per Labro.

Lapolizia di Roma, in data 23 luglio, mostravasi molto zelante nelle notturne perlustrazioni. I caffè, le trattorie e gli alberghi della città dovevano essere chiusi alla mezzanotte. Ai condannati per la confezione dei noti fuochi di bengala a tre colori, veniva commutata la pena di venti anni di lavori sforzati in quella dell'esiglio perpetuo. L’avv. Achille Gennareili, stato carcerato, perché deputato all'Assemblea costituente, venne, dietro cauzione, posto in libertà provvisoria per tre mesi, per condurre a fine, nella tipografia camerale, le già da lui incominciate edizioni del Margrueber, e di tutte le opere di Emmanuele Duni. Il demagogo conte Carleschi venne obbligato a rinunziare alla carica di direttore generale delle dogane; ed il conte Tommaso Gnoli a quella di procuratore dei poveri. Gnoli prese gran parte negli avvenimenti di Roma, unitamente a Morandi ex governatore, ed al Perfetti assessore della Direzione generale di polizia nel 4 848. Questi tre furono uomini di grandissima fama ed autorità presso le consorterie liberali: il Perfetti fu educatore e guida a Terenzio Mamiani nella sua carriera politica.

Col giorno 34 luglio pubblicavasi in Venezia un Dispaccio del luogotenente barone di Puchner, nel quale permetteva agli abitanti della città di girare per le provincie Venete, muniti però della Carta d’inscrizione nel ruolo di popolazione, la quale verrebbe loro gratuitamente rilasciata dalla Congregazione Municipale, purché venisse garantita dal nulla osta del Dirigente delf Ordine pubblico del Sestiere.

Un generale fermento politico-religioso sorse in Torino, ai primi di agosto, nella popolazione di tutti i partiti irritata contro i padri Servili e l’arcivescovo Franzoni. Spirava l’anima in seno a Dio il ministro di commercio e d’agricoltura, cavaliere di Santarosa. Il sindaco della città sig. Bellono invitava, con un suo proclama, i cittadini ed i militi della Guardia nazionale, alla funzione della tumulazione dell'illustre trapassato, benemerito cittadino dello Stato, uno dei primi a chiedere nel consesso civico le franchigie costituzionali, difendendole poscia fino agli estremi di sua vita. Il comandante della Guardia nazionale nello stesso tempo invitava i suoi militi ad onorare la memoria del ministro, col recarsi in pieno uniforme ed armi, all’ora convenuta, alla funzione funebre, che celebravasi in suffragio dell'anima dell'uomo eminentemente costituzionale ed italiano. La Questura pubblicava pure un proclama, in cui, deplorando la perdita dell'intemerato uomo di Stato, pregava i cittadini ad accorrere numerosi e compunti, riserbando una calma dignitosa ed esemplare nell’accompagnarlo alla tomba.

Prima dì morire il cav. Santarosa domandava i soccorsi della religione; si confessava dal suo ordinario padre spirituale, teologo collegiale, professore di Sacra Scrittura nell'Università, D. Ghiringhelli; e mandava poi pel suo parroco (padre servita) alla parrocchia di S. Carlo, ónde «gli apprestasse la Sacra Eucarestia e la Estrema Unzione. Ala il parroco gli negò e l'una e l’altra, ed anche la sepoltura ecclesiastica, in caso morisse, se prima non avesse fatta pubblica ritrattazione dell’atto ministeriale, che soppresse i privilegii del foro ecclpsiastito ed abolì le immunità della Chiesa.

Il vescovo aveva già mandato al servita ordini scritti, comandandogli di rifiutare al 'Sàntarosa i Sacramenti, se prima, non sottoscrivesse la ritrattazione più volte propostagli neh corso della sua malattia; epperò codesto parroco: fu irremovibile. Il Santarosa confessò di aver preso parte agli atti del Governo, persuaso di non aver violaio i doveri religiosi; e che intendeva in ogni modo di voler morire nel grembo della Chiesa cattolica; ma non volle ritrattarsi nel modo che gli veniva chiesto. Nulla valsero le sollecitudini del teologo Ghiringhelli, che chiedeva con fervorose istanze gli si amministrassero i Sacramenti, né le preghiere della virtuosa contessa Santarosa, la quale, gittatasi in ginocchio innanzi al parroco, lo. supplicava colle lagrime agli occhi di confortare l'agonizzante consorte coi soccorsi della Chiesa. Il ministro mori confdrtato dalla sola confessione in extremis del suo padre confessore.

Il giorno 6 il ministro della guerra Lamarmora portavasi all’arcivescovo, onde vedere se al defunto ministro sarebbesi data sepoltura ecclesiastica. L’arcivescovo non (decise, tentennò, tacque, e lasciò partire il ministro senza risposta.

Venne sottomessa ad alcuni teologhi della capitale l’ultima ritrattazione di Santarosa, onde decidessero se fosse sufficiente per seppellire il corpo di lui secondo i riti della chiesa: questa congrega teologale decise affermativamente.

Il parroco di S. Carlo riceveva, a mezzogiorno,4’ or-t dine dell'arcivescovo di procedere alla sepoltura ecclesiastica del defunto ministro Santarosa.

Sino dalle prime ore del mattino del 7. la popolazione si affollava innanzi alla Chiesa di S. Carlo, mormorante e minacciosa.

Alle ore otto partiva dalla casa del defunto il convoglio funebre preceduto dalla Guardia nazionale, e seguito dalle confraternite, dai frati e dal clero. Portavano la bara i militi della Guardia nazionale, ed i lembi dello strascico erano sostenuti dai ministri Migra, Galvagno, Lamarmora, Cibrario, e Bellono sindaco. Il concorso era immenso. Appena uscito il parroco di S. Carlo dalla casa, del trapassato, si levò un grido così forte, da impedirò per qualche tempo il canto dei sacerdoti. Le fischiate; e. gli urli erano cresciuti a dismisura mentre celebravasi la messa. La esacerbazione del popolo torinese contro i padri Serviti, pei fatti testà narrati, era giunta al suo copino, e reclamava forti risoluzioni da parte del Governo. Il municipio votava (in un consiglio straordinario espres-v samente ed urgentemente convocato) un’energica deliberazione, onde chiedere al Governo, che, vista la generale concitazione del popolo, e temendo un qualche conflitti, lamentevole e disastroso, venissero dati ordini pronti per l’allontanamento di quei padri Serviti. Questa domanda, coincidendo egualmente colle intenzioni del Governo, vennero prese le necessarie misure.

Verso le cinque della sera l’intendente generale della divisione, cav. Pernati, unitamente al sindaco cav. Bellono, si recarono cogli uffiziali giudiziarii al convento dei padri Serviti e s’intimò loro di prepararsi per la partenza; si procedette all'inventario degli averi della comunità, e si praticò il sequestro delle carte d’interesse pubblico. I padri non opposero alcuna resistenza, ma scrissero una protesta di quell'atto, da essi chiamato una spogliazione.

Compiuti tutti gli atti preparatorii e posto il suggello sul convento, i padri partirono in due vetture, verso le 7 14 accompagnati, sino a S. Salviano, dalla Guardia nazionale, dove i reali carabinieri presero il luogo di quella.

I padri erano in numero di 15; dieci vennero tradotti al convento di Saluzzo, e cinque a quello di Alessandria, fra le acclamazioni del popolo, che assisteva, bàttendo le mani, alla loro partenza. Esportarono seco lóro tutto il danaro che si avevano, non che gli oggetti di prima necessità; il restante venne consegnato all'Economato. I redditi di quella casa venivano calcolati a 32,000 franchi all’anno.

Vennero sequestrate alcune carte, fra le quali un autografo dell'arcivescovo Franzoni, nel quale era comandato il rifiuto dei Sacramenti al ministro di Santarosa.

Nello stesso tempo che intimavasi lo sfratto ai padri Serviti, il questore, accompagnato da quattro carabinieri, in abito borghése, presentavasi all'arcivescovato, con un ordine del Governo per procedervi ad una visita domiciliare. Il secretano dell'arcivescovo non si oppose; la perquisizione fu fatta e vennero sequestrate 40 lettere trovate nel gabinetto di monsignore. Protestò il segretario, insieme all'economo della mensa.

Una vettura intanto giungeva a Pianezza con dentro alcuni carabinieri. Veniva chiesto dell’arcivescovo, e rinvenutolo, uno di quei carabinieri lo invitò a salire in vettura. Alle ore 5 14, monsignor Franzoni, accompagnato dal teologo Daviso e dal suo cameriere, partiva per il forte di Fenestrelle.

Il giorno 9 il magistrato d’appello, applicando le massime che l’antico diritto politico nella monarchia sabauda ha sanzionate in simili emergenze, decretava che i beni della mensa arcivescovile di Torino fossero posti sotto sequestro. Il decreto fu intimato al Franzoni. Le carte spettanti la cattura di monsignore, a mente di quanto dispone il Codice di procedura penale, pei casi di arresto preventivo, furono, entro il termine legale di 24 ore, trasmesse al regio fisco per l’avviameuto del processo in via d’urgenza.

Come codesti avvenimenti calmarono le popolazioni del regno di Sardegna, e trovarono un eco di plauso nelle Romagne ed altrove, cosi nei clero, nella corte di Roma, nelle ambascierie e nei circoli politico-aristocratici destarono molte inquietudini. La condanna dell'arcivescovo aveva esacerbato maggiormente le ostilità tra la Corte pontificia ed il Piemonte. Si temeva che tutti i vescovi seguissero l’esempio del Franzoni, e che scoppiasse un conflitto fra ih clero ed il governo, tra Roma e Torino. Lo sfratto da Torino di Bianchi-Giovini. terribile avversario alla causa papale, volevasi attribuito ad ardenti filippiche da esso lui scagliate sulla corte di Roma.

In Arezzo col giorno 7 veniva organizzata da moltissima gioventù una dimostrazione, su larghe basi, in favore della repubblica rossa. Tutti dovevano portare, uomini e donne, sciarpe e nastri rossi. Ebbe luogo perciò uno straordinario smercio di questo genere di stoffe. Laonde il prefetto del Compartimento Aretino pubblicava una Notificazione concepita in questi sensi:

Il Prefetto del Compartimento Aretino.

«Vista l’urgenza, e valendosi della facoltà accordatagli dall’articolo 44 del vegliarne Regolamento di polizia;

«Decreta.

«Viene inibito a tutto il dì 4 0 andante di fare uso nel vestiario degli uomini di cravatte, sciarpe, pezzuole e nastri rossi.

«Chiunque si permetterà indossarli, verrà immediatamente arrestato dalla pubblica forza.

«Dalla Prefettura di Arezzo, li 7 agosto 1850.

«Il Prefetto Fineschi.»

Questa dimostrazione, o tumulto, credevasi organizzata dagli agenti di Mazzini; ma veramente ella era invece una dimostrazione creduta necessaria per ispronare il Governo toscano a promulgare quelle salutari riformo liberali, che sino allora aveva promesse e non mai mantenute. La stessa notte, dopo la pubblicazione della Notificazione del prefetto, furono fatti molti arresti di persone che portavano le coccarde nazionali.

Quaranta dragoni intanto da Parma arrivarono a Piacenza nella stessa data, e divisi in drappelli, investirono le case degli avvocati Carlo Fioruzzi, Carlo Giarelli, Giuseppe Mischi, Vincenzo Maggi e dott. Stefano Galvetti, e. posto il sequestro sulle loro carte, intimarono a tutti l’arresto. Stettero nelle carceri di Piacenza sino a notte; indi vennero, tradotti in quelle di Parma. Tutti erano liberali, e due di loro furono deputati sardi, il Mischi ed il Giàrelli. In Piacenza in quella notte vennero operati molti arresti; fra i detenuti annoveravansi due parrochi. Anche in Livorno, il Comando militare di quella città e porto, il giorno 11, pubblicava una Notificazione, colla quale proibiva severamente di portare coccarde, o qualunque altro segno od abbigliamento, che racchiudesse in sé la combinazione di colori indicanti la bandiera di una nazione o di un partito politico; e così pure vietava gli attruppamenti, i canti, e qualunque dimostrazione che avesse apparenza politica, richiamando in Vigore le Notificazioni dell'41 maggio e 18 dicembre 1849. Le guardie di polizia ed i soldati di linea avevano ordini severi di procedere all’immediato arresto dei contravventori, i quali sarebbero sottoposti alla giurisdizione militare.

Lanotte del 9 fu appiccato il fuoco all'ufficio Notarile Pomponi, sulla piazza di Tor Sanguigna a Roma. La Francia e l’Inghilterra raccomandavano con Note al re di Napoli di accordare delle riforme nel suo regno;( )egli faceva rispondere, col mezzo del suo organo l’Ordine (giornale ministeriale) «a scanso di equivoci, il Monarca sarà mai sempre fermo ed immutabile nello intendimento di conservare la sua indipendenza e l’antica forma della sua monarchia, e non cercherà né riceverà consigli, esempli o norme da qualsivoglia potere.» Correva voce intanto che al generale Roberti venisse dato da quel Governo il passaporto, colla ingiunzione di allontanarsi da Napoli, e coll'obbligo di rivolgersi verso Malta o verso Roma, e ciò per aver egli, il generale, ricusato di fulminare, il 15 maggio, la città sottoposta, quando egli era comandante del castello di Sant’Elmo. Il principe Luigi di S. Teodoro, temendo di essere egli pure avvolto nella persecuzione, che sistematicamente quel Governo sosteneva contro tutti i liberali, abbandonava Napoli, ed il 16 giungeva a Firenze.

Le dimostrazioni politiche delle bandiere tricolori erano all'ordine del giorno ovunque in Italia, tranne nel Regno Lombardo-Veneto. In Calabria però quelle dimostrazioni andarono più oltre delle bandiere tricolori, se a Cosenza ed a Potenza assunsero un carattere ancora più liberale. A Potenza, il 14 agosto, quaranta individui percorrendo la città gridavano: Viva la Costituzione! Altri si aggiunsero ai primi, formando una massa numerosa. Allora uscì la guardia ed operò molti arresti. Gli arrestati mentre venivano condotti alle prigioni, continuavano a gridare: Viva la Costituzione, e gli altri, fuggiti dalle mani della guardia, nell'atto stesso che fuggivano, ripetevano il grido: Viva la Costituzione! in Napoli intanto, dietro Rapporto del Consiglio dei ministri a S. M. il Re, pubblicavasi la seguente legge sulla stampa, che caratterizza in un modo veramente significante la politica colà adottata in quei tempi; ed il sospetto che la burocrazia di quel Governo, contorta e subdola, aveva già assunto, come base di ogni procedimento.

«Ferdinando II, per la grazia di Dio Re del regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme, ecc., Duca di Parma, Piacenza, Castro, ecc, ecc., Gran principe ereditario di Toscana, ecc., ecc., ecc.

«Veduto il rapporto de' nostri ministri segretarii di Stato, e dei direttori del ministero dell’interno pel ramo interno, e per quello di polizia.

«Abbiamo risoluto di sanzionare e sanzioniamo la seguente legge:

«Art. 1.° Senza preventiva autorizzazione, è vietata nei reali domini, al di quà, e al di là del Faro, la stampa e h pubblicazione delle opere, degli scritti, degli opuscoli, dei giornali, fogli volanti, effemeridi, e simili; non che la formazione e diffusione di rami, incisioni, litografie, sculture ed oggetti di plastica.

Art. 2.° in niun caso sarà accordata l’autorizzazione alle stampe, agli scritti, ed a tutti gli altri lavori contemplati nell'articolo precedente, pe’ quali si offenda la nostra sacrosanta Religione, i suoi ministri, la morale pubblica, la Nostra Real Persona, e quella dei principi della nostra Real Famiglia, il nostro Governo, ed il suo andamento, nei rapporti tanto interni quanto esterni, i pubblici funzionarti, la dignità e le persone de' Regnanti stranieri, le loro famiglie ed i loro rappresentanti, l'onore e la stima de' privati.

«Art. 3.° L’autorizzazione della quale si fa parola nell'articolo 4.° tranne le concessioni contenute negli articoli seguenti, è attribuita al Consiglio generale della pubblica istruzione nei nostri Dominii al di qtìà del Fàro ed alla Commissione di pubblica istruzione nei nostri dominii al di là del Faro.

«Art. 4.° Il Consiglio e la Commissione di pubblica istruzione avranno alla loro dipendenza, il primo 24, ed il secondo 42 revisori, riputati per lettere e per riconosciuta probità, i quali verranno deputati dai presidenti degli enunziati Collegii all'esame degli scritti, che vogliolosi porre a stampa e pubblicare.

«Art. 5.° L’autorizzazione verrà data dai presidenti degli accennati Collegii sul parere di uno o più revisori delegati. Nel caso che i presidenti suddetti non s’accordassero, dovranno farne rapporto ai rispettivi Collegii, i quali daranno fuori il loro giudizio a pluralità di suffragii. Contro la deliberazione del Consiglio e della Commissione, è permesso il reclamo al ministro segretario di Stato degli affari ecclesiastici e della istruzione pubblica nei nostri Dominii reali continentali, ed il ministro segretario di Stato presso il nostro luogotenente generale nei nostri reali Dominii al di là del Faro. Un esemplare della produzione o scritto approvato, rimarrà presso la segretaria dei Consiglio e della Commissione di pubblica Istruzione.

«Art. 6.° L’autorizzazione alla stampa ed alta pubblicazione degli scritti, opuscoli, giornali, fogli volanti, effemeridi, e simili, che non oltrepassano fogli dieci di stampa; non che alla formazione e diffusione de' rami, incisioni, litografie, sculture ed oggetti di plastica, apparterrà, in Napoli, al direttore della Real Segretaria e Ministero di Stato dell'interno per il ramo di polizia; ed in Palermo, al ministro segretario di Stato presso il nostro Luogotenente generale. Nelle altre provincie al di quà ed al di là del Faro l’autorizzazione suddetta apparterrà ai rispettivi intendenti.

«Art. 7.° L'autorizzazione per la stampa, e pubblicazione delle allegazioni, sarà accordata (fogli agenti del ministero pubblico presso i Collegii giudiziarii ed amministrativi,; innanzi ai quali è introdotta lite. L’autorizzazione suddetta, pegli affari pendenti presso i Consigli d’intendenza, verrà data dai rispettivi intendenti, o da un consigliere d’intendenza dai medesimi delegato. L'autorizzazione per la stampa e pubblicazione delle memorie relative agli affari da trattarsi dai Corpi consultivi dello Stato, verrà accordata dai rispettivi presidenti, o da uno de' componenti il Collegio dal medesimo delegato. L’autorizzazione, in ordine alla stampa, di scritti riguardanti cause definitivamente decise, e non soggette a gravame, o ricorso. rientrerà nelle regole fermate negli articoli 3 e 6 della presente legge.

Art. 8.° Quanto all'autorizzazione delle produzioni teatrali verrà serbato il sistema in vigore nei nostri reali domini» al dì quà ed al di là del Faro.

Art. 9.° Conformemente al concordato rigente colla Santa Sede, gli arcivescovi e vescovi saranno liberi, nel l’esercizio del loro pastorale ministero, di pubblicare le loro encicliche pastorali, o istruzioni in materia ecclesiastica. I tipografi potranno stamparle senza bisogno di al cuna autorizzazione, in vista dell'originale di essere cifra to o firmato dall'arcivescovo o vescovo.

«Art. 10.° L’autorizzazione in tutti i casi non chiude l'adito alle azioni, che possono spettare alle parti of fese, o danneggiate dalla stampa, o dalla pubblicazione dello scritto o produzione qualunque.

«Art.° 11. 1 contravventori alle disposizioni della presente legge saranno puniti come autori o complici, a termini delle disposizioni delle leggi penali.

«Art. 12.° Il nostro ministro segretario di Stato degli affari ecclesiastici e della pubblica istruzione, ed il direttore della reale Segretaria e Ministero di Stato dell’interno, ramo polizia, nei nostri reali dominii al di qui del Faro, ed il ministro segretario di Stato presso il nostro luogotenente generale nei nostri dominii al di là del Faro, per mezzo del ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia, ciascheduno per la parte che lo risguarda, presenteranno sollecitamente alla nostra approvazione i regolamenti adatti alla spedita ed esatta esecuzione della presente legge.

«Art. 13.° Tutti i nostri ministri segretari di Stato ed i direttori del Ministero dell'interno, ramo interno, e ramo polizia, nei nostri reali Dominii al di qua del Faro, ed il nostro ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia, presso la Nostra Real Persona, il luogotenente generale ne nostri reali. Dominii al di là del Faro, sono incaricati della esecuzione della presente legge.

«Vogliamo e comandiamo che questa nostra legge, da Noi sottoscritta, riconosciuta dal nostro ministro segretario di stato di grazia e giustizia, munita del nostro gran suggello, contrassegnata dal nostro presidente del Consiglio di ministri, e registrata e depositata nella Real segretaria e ministero di stato della presidenza del Consiglio de' ministri si pubblichi con le ordinarie solennità per tutti i nostri reali Dominii, per mezzo delle corrispondenti Autorità, le quali dovranno prenderne particolare registro, ed assicurarne lo adempimento.

«Il nostro presidente del Consiglio de' Ministri è specialmente incaricato di vigilare alla sua pubblicazione.

«Napoli 13 agosto 1850:

«Ferdinando.

«Il Ministro segretario di Stato per gli affari di Sicilia presso S. R. Maestà, G. Cassini.

«Il Ministro segretario di Stato di grazia e giustizia, R. Longobardi.

«Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Fortunato.

In Roma, sulle piazze di S. Pietro, di Venezia, di Spagna e del Popolo, luoghi ove ordinariamente solevansi affiggere ai muri le Note del Governo, nel giorno 15 agosto, scorgevasi in caratteri cubitali, una Nota del segretario di Stato, cardinale Antornelli, indiritta a tutte le potenze cattoliche, reclamando il loro intervento, in nome della libertà ecclesiastica, perseguitata dal Piemonte, senza della quale, il ristabilimento del Sovrano Pontefice Rulla Santa Sede sarebbe un atto inutile ed imperfetto.

In Firenze, il Ministero negava, il giorno 23 a varii emigrati giunti in Toscana per la via di mare l’ospitalità ricercate, dicendo: che il Governo del Granduca non poteva dare asilo ad alcuno, fosse l'uomo il più onesto, in quei tempi tanto calamitosi, in cui si agitava in Piemonte la questione della legge Siccardi.

Bianchi-Giovini intento considerato martire delle mene clericali, partiva il 23 per la Svizzera, passando per Arona, ove la popolazione antipapale gl'improvvisava una serenata ed una cena magnifica; a Capolago trovava il DeBoni, che scriveva I tre anni della rivoluzione; in Lugano il De-Sanctis, già parroco della Maddalena in Roma, che aveva apostatato; e l’ab. Dall’Ongaro collaboratore dell’Italia del Popolo.

Nelle Romagne le diligenze tanto di giorno che di notte venivano dalle bande dei ladri, fermate, saccheggiate impunemente, constatando la impotenza del Governo pontificio, il quale, mentre dava grande peso a ciò che considerava uno sfregio od un attacco alla religione, lasciava poi trascurato in mille modi lo Stato.

Dal Governo di Parma veniva soppresso il collegio Alberoniano di Piacenza, collo sfratto dei professori e destituito il luogotenente Pietro Belli per le sue tendenze liberali.

Le relazioni tra Roma ed il Piemonte venivano ogni di più tese, e poco valevano a renderle migliori le sollecitudini di Massimo d’Azeglio, e di Pinelli, ambi intenti ad iniziare una riconciliazione, malgrado la disapprovazione di Siccardi.

I fiumi straripavano ovunque, e gli abitanti di Brescia lamentavano ingenti danni, a sollevamento de' quali qua e là nelle provincie del Lombardo-Veneto, venivano aperte collette di soccorso.

Il 34 agosto, alcuni milanesi presentavano al principe luogotenente una medaglia rappresentante da un lato Marte portante un olivo intrecciato ad una spada, e fiancheggiato da due monumenti patrii, l’Arco della Pace, ed il Duomo; circondati questi emblemi dalle seguenti parole dettate dal dott. Labus:

Magister Utriusque Militiae Legatus

Praesidis Provinciarum Longob. Venetiaeque.

Nell'altro iato veniva espressa la effigie del personaggio, accennata dalia indicazione:

Karolus Schwarzenbergius. Princeps Serenissimus.

Nelle Marche di Ancona si scoprivano, dalle vigilanti polizie, alcune combriccole politiche e si facevano molti arresti di persone appartenenti alle primarie famiglie. Perugia vide passare per le sue contrade 14 individui di Città di Castello ammanettati come assassini; fra questi il marchese Bufalini, il conte Signoretti, il sig. Celestini, uomini benemeriti e stimati: essi venivano condotti nel forte di Ancona. Nel mentre che ovunque si operavano arresti, in Bologna sorgevano le grandi lamentazioni contro il Governo per le nuove imposte tassali. Gli arresti operati in Roma lo furono per una supposta cospirazione, la quale aveva per iscopo di uccidere il Papa nel giorno dell'Assunta, coi mezzo di palle di cristallo piene di Sostanze accensibili, da gittarglisi dentro la carrozza, quando si recasse alla chiesa per la benedizione. A Napoli, la pressione esercitava fortemente il suo potere; il re e S. Gennaro formavano i due capi, i due testimonii fissi della politica di quel Governo; epperò agli occhi di lui erano tante eresie sociali e religiose i bisogni nuovi del secolo, i giusti desiderii di libertà e di prosperazione sentiti dai pepali, quindi era impossibile, anzi colpevole ogni transazione. Con tali principii non è certamente da maravigliare se colà venissero, il 4 settembre, improvvisamente destituiti sette generali di quell’esercito e molli ufficiali, nonché quattro commissarii di polizia. Il presidente della gran Corte, sig. Navarro, veniva assalito da gente sconosciuta e percosso. Per decreto reale l'amministrazione di Napoli veniva definitivamente separata da quella della Sicilia. A cento a cento le famiglie abbandonavano le due Sicilie e si avviavano verso la Svizzera, ove giungevano acerbe dimostrazioni da parte della Russia, dell’Austria e della Prussia, collegate insieme, per chiedere la espulsione dal suolo elvetico dei compromessi politici.

Lastampa piemontese intanto sferzava senza pietà; senza compassione la Santa Sede per le liti insorte dalla abolizione del foro ecclesiastico e delle immunità clericali. Davasi opera con alacrità al completamento delle linee delle strade ferrate, ed all'aumento della Marina di Genova e di Cagliari. L’Inghilterra propendeva nella risoluzione di concorrere colla sua influenza all'ingrandimento della Sardegna, in quanto concerneva le industrie, le speculazioni ed il commercio, lusingandosi di trarne altri vantaggi.

Il giorno 11 settembre, Giacomo, della Santa Romana Chiesa, cardinale Antonelli, diacono di S. Agata alla Su burro, della Santità di Pio IX pro-segretario di Stato, pubblicava un papale editto, concernente l’ordinamento dei Ministeri composto di 6 capitoli. Nel 1.° capitolo stavano le disposizioni preliminari, le nomine ed il personale dei ministri dell'interno, di grazia e giustizia, delle finanze, del commercio, agricoltura, industria, belle arti, lavori pubblici, e delle armi; nel 2.° capitolo si trovano espresse le attribuzioni comuni ai cinque ministri; nel capitolo 3.° le attribuzioni speciali; nel capitolo 4 trattatasi del Consiglio dei ministri; nel 5.° delle adunanze e deliberazioni del Consiglio; e nel 6.° altre disposizioni, ma generali. Seguiva quell’editto un Motuproprio di S. S. contenente una legge sul Consiglio di Stato. In questa erano fissate le disposizioni preliminari e generali, gli affari da trattarsi nel Consiglio e la loro divisione, l’esame e la discussione degli affari, ed infine gli opinamenti.

Intanto che a Roma pubblicavansi gli editti per un nuovo ordine di cose, in quanto spetta alla pubblica amministrazione, onde secondare, almeno in apparenza, i desidera dei popoli, e lusingarli nella speranza di un più prospero avvenire; nel Regno delle Due Sicilie pubblicavasi in Teramo la condanna d’illustri cittadini, aggravati da pene orribili, per aver con troppo amore amata la patria. Fra gli altri molli, noi segnaleremo alla pubblica compassione i nomi dei signori Marrozzi e Pappatace, condannati a 25 anni di ferri; l'avvocato Gemelli ed i due Bucciarelli ad anni 49. Veniva fatto un elenco d’individui, ai quali erasi imputata la intenzione di aver voluto uccidere (ma non avevano ucciso alcuno) alcuni ardenti reazionarii, e vennero condannati a 43 anni di ferri. Tra questi il medico Calesti, l’integerrimo Giannicola Michitelli, il quale aveva occupate tutte le cariche amministrative di quella città con plauso ed ammirazione universale; Giuseppe Bucchiarelli a 6 anni di prigionia; Avv. Ginaldi ed il sig. Irelli, moderatissimi, a 5 anni; ai. due fratelli Delfico, emigrati, venivano sequestrati i beni. In Napoli quindi si punirono perfino le intenzioni.

Il 14 settembre, ebbero luogo finalmente le elezioni comunali. Il numero stabilito dalle leggi dei votanti era di 1142; in quelle elezioni questo numero superò, perché i votanti furono 1377.

Il Governo dì Torino vessava altamente quei preti ohe osteggiavano la legge Siccardi; epperò l'arcivescovo di Cagliari, il giorno 15, scagliava una scomunica che venne spedita al Ministeri) di Torino, concepita in questi sensi:

«Attesoché coll'atto di opposizione, di sequestrò e di sigillo, eseguito anche col ritiramento della chiave, verso il mezzodì di questo giorno, sulla porta dell’uffizio della Contadoria generale della Chiesa ((2)), posta in uno degli appartamenti dell'episcopio, sacro, religioso domicilio, si sono violate le leggi canoniche, specialmente il prescritto del Santo Concilio di Trento, è dalle Costituzioni pontificie; — attesoché non si può allegare ignoranza di tali leggi ecclesiastiche e della loro forza, perché fu tolta, ove d'uopo, dal monitorio 13 novembre 1849, pubblicato in queste città ed in tutta la diocesi; perciò, in forza della nostra autorità ordinaria, dichiariamo incorsi nella scomunica maggiore ipso facto gli autori, cooperatori, consenzienti, promotori di istanze, ecc. pel suddetto sigillamento e sequestro ed usurpazione delle chiavi, ecc.; non che gli esecutori; e vietiamo a tutti i confessori di assolverli, senza nostra facoltà, tranne nell’articolo di morte.

Dato dal nostro Violato domicilio, il 4 sett. 1850.

+ Emanuele, Arcivescovo.

Questo monitorio, senza dubbio, provocò dei torbidi in Cagliari per cui fu duopo aumentare la forza di quella guarnigione, tutti ì prelati dell’isola, tranne quello di Cagliari, monsig. Morongiù, fedeli alle giurate promesse di obbedienza al Re ed al Governo, si. manifestarono pronti a. consegnare i libri appartenenti alla Causa pia generale, Il Governo col mezzo de' suoi intendenti, aveva fatto chiedere in tutte le parrocchie del Regno codesti libri, onde, avere un dato positivo sulle rendite della Chiesa, spettanti alla Causa pia. I vescovi, anzi alcuni di essi, temendo che ciò fosse, onde avere una norma per l’incameramento dei beni ecclesiastici, già da qualche settimana prenunziato dalla voce pubblica, si rifiutarono di eseguire gli ordini degl’intendenti, negando loro i chiesti libri. Ecco cip che, unitamente al veto di apprestare i Sacramenti, ai complici della legge Siccardi, dava a temere lo scisma in Piemonte e portava l'animadversione tra il clero ed il Governo, tra lq popolazioni ed il clero, tra clero e clero. Questo disordine, cotanto inviso alla Santa Sede, menò seco le prigionie dei vescovi, lo sfratto dei monaci, i reclami di Roma, gli odii, le querele, le accuse, le calunnie, ed infine le scomuniche e la, minaccia di uno scisma. I vescovi di Alba, di Saluzzo, di Pinerolo, di Fossano e di Mondovì, unitisi in consiglio, deliberarono di spedire a Roma una Nota, pregando il Sommo Pontefice di aderire alla, legge Siccardi ed a quanto il Governo sardo progettava sul matrimonio e sull'incameramento dei beni, ecclesiastici, vedendo inutile il cozzare contro la più prepotente necessità dei tempi e contro il volere della nazione, e ciò per, evitare molti guai, e lo scisma. Questa Nota fece grandissima impressione a Roma e dispose il Papa a sensi di conciliazione e di pace.

Laprovincia di Brescia, per danni avuti dalle inondazioni, destò la compassione ovunque nel Lombardo-Veneto, e si sottoscrissero collette qua e là per soccorrerla, il Piemonte volle darle un attestato di fratellanza, che crebbe la influenza di lui in Italia. I municipii votarono per Brescia somme cospicue e promossero a favore di lei una sottoscrizione in tatto lo Stato, così fra i cittadini cornetta i militari. Il consiglio provinciale di Novara assegnò la somma di 24,000 lire, quello di Torino 8000, quello di Genova 5000, quello di Alessandria 60,000; quello divisionale di Torino 4000; la brigata Bersaglieri di Torino e Genova il soldo di un giorno. Uno straordinario spettacolo al teatro Carlo Felice di Genova dava a Brescia la somma di lire 4000. Il collegio degli allievi di Racconigi diede lire 107. 60; il Consiglio divisionale di Nuoro 500. Un introito, del teatro Carignano di Torino fruttò per Brescia altre lire 2660.60. In data 49 ottobre te offerte del Piemonte ascendevano! a franchi 465,537.56.

Il 14 settembre, veniva sospeso in Napoli il processo sulla lega o unità italiana già da tempo incoato; e si terminava intanto quello della Società cristiana. Scopo di quella società era il mantenimento della Costituzione, la concordia tra soldati e popolo, e il trionfo della religione cattolica. Gli accusati erano cinque; un suddiacono ed un laico furono condannati a 20 anni di carcere duro; un sacerdote ad 8; il quarto a 2 anni di prigionia, come detentore di una poesia criminosa; il quinto venne assolto ma lasciato in carcere a disposizione della polizia. Il maresciallo di campo Nunziante stabiliva quattro squadriglie armate permanenti nella provincia di Cosenza; e due nei distretto di Cottone, in provincia di Catanzaro, affine di ricondurvi l'ordine, e la tranquillità.

Noi,abbiamo veduto con quant’arte in Toscana da quel Governo venisse protratta l’apparizione delle-mille volte promesse e. mille volte mancate riforme; nondimeno, essendo uscite, a termini di legge, le elezioni, quei popoli. credevano: di essere giunti finalmente al desiderato acquisto delle nazionali loro libertà; ma ciò non fa che una illusione, perché Leopoldo II aveva adottato egli pure il deplorabile sistema di promettere sempre e di non mantenere mai. Il 21 settembre venne in luce il seguente Decreto.

«Noi Leopoldo II, Granduca di Toscana, ecc. ecc.

«Considerando che le circostanze politiche di Europa e maggiormente poi quelle particolari all Italia, ed alla Toscana, non ci hanno consentito, né ci consentono per ora, di nuovamente attuare quel sistema di Governo rappresentativo, che, già da noi accordato nel febbraio 1848, fu dalle violenze rivoluzionarie del febbraio 1849 successivamente distratto, e che pure dichiarammo di volere ristaurare, in guisa che non dovesse temersi la rinnovazione dei passati disordini;

«Considerando che, sotto l’imperiosa prevalenza delle circostanze enunciate, non è dato oggi di prefinire il tempo, nel quale l’attuale precario stato di cose potrà aver termine;

«E considerando per ultimo essere frattanto indispensabile, che, ritenuti, quanto più le condizioni del tempo il comportano i principii sanciti dallo Statuto, si provveda poi in modo spedito ed efficace alla migliore amministrazione del paese, ed a consolidare in esso l’ordine eh pubblica tranquillità;

«Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:» Art» 4. Il Consiglio generale dei deputati, la di cui sessione fu aperta il 10 gennaio 1849 e poi interrotta dalla rivoluzione del febbraio successivo, è disciolto.

«Art, 2. Fino a tanto che non potrà darsi luogo alla nuova convocazione, delle Assemblee legislative, ogni potere sarà da noi esercitato, sentito nei debiti casi il Coniglio di Stato, e ritenuti, quanto più le circostanze il comportino, i principii sanciti dallo Statuto fondamentale.

«Art. 3. Il poltro consiglio de' ministri è incaricato della esecuzione del presente decreto.

«Dato in Firenze, li 21, settembre 1850.

«Leopoldo.

Il presidente del Consiglia, dei ministri, G.Baldasseroni.

Il ministro segretario di Stato pel dipartimento dell’interno, L. Landucci.

Visto per l’apposizione del sigillo.

Il ministro segretario di Stato pel dipartimento di giustizia e grazia. V. Lami.

A questo, decreto tennero dietro severe leggi, sulla stampa e spi commercio librario; la sospensione dei giornali lo Statuto ed il Nazionale la destituzione del cav. Ubaldino Peruzzi dall'ufficio di gonfaloniere dl Municipio di Firenze; varie promozioni, varii trasferimenti d’impiegati; e cento vessazioni aggravanti le popolazioni. Il Peruzzi si era lagnato dalle misure repressive adontate dal Governo, e. chiede va la convocazione della Camere. Varii municipii fecero poi le stesse istanze perché venisse convocato il Parlamento, ma, il Granduca mandò nelle comuni ammonizioni. severissime, e rispose col destituirne i gonfalonieri. È notevole il seguente epigramma dell’Eco, di Firenze, pubblicato nel N° 80, sulla sospensione de' suoi due confratelli lo Statuto ed il Nazionale.

Dicea il Marzocco al sito vicin Biancone:

Qual silenzio, qual pace è questa mai?

L'altro: Come! nol sai?

Ora il Governo di tacer impone

Alla garrula lingua liberale

Sì del Statuto che del Nazionale.

Ma un dei Satirelli circostanti,

Politicando, disse: Poco dura

Il ben che vien dalla mezza misura.

Ed il Perseo gridò: Ci vuol di queste

Per liberarsi dalle calde testé.

Piano barbiere mio, che il ranno è caldo:

ecc. ecc. ecc.

Terminava pur anco a Roma la causa imolese: dodici individui venivano condannati alla fucilazione in fronte per moti politico-rivoluzionarii; la sentenza fu eseguita il 17 settembre. Altri due imputati, atteso che non avevano l’età maggiorenne, furono condannati, l’uno alla galera perpetua, l’altro alla galera per anni 20.

I beni del Clero romano venivano sottoposti a tasse, ma trovavasi molta renitenza. Il vicario generale, cardinal Patrizi, per comando del Papa, ha dovuto ammonire severamente quel clero così restio e fissargli un termine perentorio di giorni 10 allo scopo. I beni del clero dovevano soggiacere al peso di 400,000 scudi. Se i bisogni di Quello Stato obbligavano il Governo a mettere le mani nei beni del clero, significa che le sostanze cittadine eransi tanto depauperate, da non riuscire più nemmeno alla estrazione di un obolo!

Il Magistrato d’appello di Piemonte, nella seduta 30 settembre «a classi riunite, pronunciava, colla maggioranza di tredici su quattordici, sulla colpabilità dell’arcivescovo Franzoni, dichiarandolo reo. convinto, e recidivo di resistenza alle leggi dello Stato, e condannandolo all’allontanamento perpetuo dagli Stati sardi, colla riduzione a mano regia dei beni della mensa.»

Il decreto di condanna veniva eseguito: ne fu trasmesso per via postale un esemplare al forte di Fenestrelle, Sotto scorta della gendarmeria,. l’ex arcivescovo di Torino fu tradotto al confine di Francia per Besanzone, dipartimento delle Alti Alpi. Le armi gentilizie del condannato venivano abbassate, e la consegna dei beni di lui, tanto nella diocesi, che in Torino, veniva fatta all’atto della pubblicazione del decreto.

L’egual sorte toccava a monsignor D. Emmanuele Marongiu Murra, arcivescovo di Cagliari.

Il giorno 11 ottobre 1850 il conte Camillo Cavour prestava il suo giuramento a S. M. il Re, nella sua qualità di ministro del commercio e della marina; e col giorno 12 dichiarava di cessare dalla direzione del giornale il Risorgimento, Un trattato di commercio anglo-piemontese fu in quell'epoca sottoscritto a Londra, In, virtù. di questo, trattato la marina sarda veniva messa a parte, in tutti i porti della Gran Brettagna e dell’india, inglese, di tutte le libertà godute, dai bastimenti anglici. Epperò Genova, senza ostacoli, si acquistava direttamente rapporti commerciali con Manchester e Birmingham. Anche la sua marina di guerra, dietro novelle governative disposizioni, stava per ampliarsi. Per ordine del ministro Siccardi veniva. istituita una commissione incaricata di conoscere, e redare in modo preciso, lo stato, di. tutti i beni, crediti, diritti, rendite, proprietà in città e campagna di tutto il clero. Si trattata di ristabilire un equo riparto dì codesti betìi, onde torre 10 sconcio fra i preti, che Alcuni godessero una rendita annua di 100, è di 120 mila lire, mentre altri non né avevano che 500. Fu dato questo colore, questo. aspetto ài procedimento ministeriale in proposito, mentre in verità non si accarezzava altra idea che quella dell’incameramento. Da quella commissione intanto si conobbe la ricchezza del clero delle quattro provincie, Savoia, Piemonte, Liguria, Sardegna. Erano 405 i conventi, di cui 144 di donne. Le rendite fondiarie ammontavano a 7 milioni e mezzo, costituenti il capitale di 150 milioni. Sette erario gli arcivescovi, il minore col reddito di 50,000 franchi; i vescovi 32, dei quali, otto avevano un reddito annuo di 40,000 franchi. Un altro capitale di 30 milioni veniva costituito dalle proprietà di 16 abazie, di capitoli arcivescovili, di Collegiate é di seminarii.

Il giorno 11, nella chiesa di Castelvecchio, un padre cappuccino predicava contro il potere e le leggi: egli diceva cosi: «La Chiesa è tormentata, il Papa afflitto, i vescovi imprigionati, e voi, gregge, resterete là freddi ed inerti? Allorché S. Pietro fu posto in prigione, i fedeli si unirono per liberarlo colla forza, e voi che fate?... Voi non fate niente; ma almeno pregate.» Il Tribunale processò quel padre cappuccino.

Non rivendo potuto per molte cause aver effetto il prestito promosso a Verona sino ai 10 ottobre, fu giuocoforza pubblicare una Patente Sovrana in data di Bregenz, 10 ottobre 1850, bolla quale, per sopperire agli aumentati bisogni non si permetteva una diminuzione, per l’anno amministrativo 1854, nelle imposte dirette, e nelle sovrimposte. Anche a Roma venivano in luce editti per nuove imposte; imposte sulle arti, sui mestieri, sulle professioni, su tutto, le quali, come un insopportabile flagello, piombavano sulla popolazione Due notificazioni, l'una del 24, l’altra del 30 ottobre, annunziavano, la prima in data di Mantova, che le porte di quella fortezza rimarrebbero dal primo novembre aperte dalle S del mattino alle 8 della sera; la seconda datata da Milano; che veniva regolarmente attivata nel Regno Lombardo-Veneto la corrispondenza privata per mezzo del telegrafo. III.° novembre veniva sospeso il giornale l’Era Nuova per tutto il tempo dello stato di assedio. Il 5 S. E, il cav. di Toggenburg, presidente dell'I. R. Luogotenenza veneta, inaugurava in Padova la,riapertura dell’Università, dopo due anni dalla sua chiusura. Al 6 furono convocate le Camere a Torino; all’8 comparve il primo numero, della Civiltà Cattolica; ai 21 aprivasi il corso scolastico nell'Università di Pavia, ed il collegio di Porta Nuova di Milano, dopo tre anni di silenzio; e scioglievasi per decreto sovrano la guardia civica di Radicondoli in Toscana.

Ecco il discorso pronunziato da S. M. il Re Vittorio Emmanuele II all’apertura della sessione delle Camere il 23 novembre 1850!

«Signori Senatori, Signori Deputati!

«All’aprirsi della scorsa sessione, io volgeva a voi parole di fiducia e di speranza.

«Gli atti vostri le hanno pienamente giustificata, od io provo in cuore profondo contento nel rendervene in questa occasione solenne testimonianza.

«Sulle basi gittate dall’augusto mio genitore, già sorge e s’assoda l'edilizio delle nostre istituzioni, mercé l’assennata prudenza del Parlamento e la confidente tranquillità de' popoli dello Stato.

«In ogni tempo l’impresa pia degna dell’umana virtù fu l'ordinare uno Stato a quella libertà, che unicamente riposa, sopra giuste leggi, imparzialmente applicate ad universalmente obbedite.

«Proseguiamo nella grand'opera e sorga dal suolo italiano il nobile esempio di un popolo, il quale teppe pure, fra tanto lavoro di distruzione, trovare animo e senno ad edificare.

«A lai effetto importa primieramente orinare la fidanza. La crescente prosperità del paese apporge materialmente i modi, come la sperimentata prontezza dei popoli del. Piemonte a' necessari» sacrifizi» è per ago volarne le vie.

«Richiamo le vostre maggiori sollecitudini sulle leggi che i miei ministri vi proporranno a questo scopo, non che su quelle che al miglioramento delle varie amministrazioni, sia civili che militari, si riferiscono.

«Io mi confido che gli accordi commerciali, testé conchiusi, o in via di stringersi con alcune nazioni, ed i cambiamenti che sono per introdursi nelle leggi economiche, daranno al nostro commercio estensione ed utili maggiori.

«Le buone e pacifiche relazioni fra il mio Governo e gli Stati esteri non hanno sofferto alterazioni.

«Le cure del mio Governo non giunsero sinora a superare le difficoltà che accorsero colla Corte di gqma, ÌB qusggueaza di leggi, che i poteri dello Stato non potevano ricusare alle sue nuove condizioni politiche e legali. Norma degli alti, come delle pratiche usate fa quella costante riverenza, che tute professiamo verso la S. Sede, unita ad un termo proposito di mantenere invio lata l’indipendenza dalla nostra legislazione.

«Fedeli ai nostri doveri e perseveranti pell'esercirzio dei nostri diritti, confidiamo che il tempo e la benefica influenza del senso religioso, come della civiltà, ci condurranno a quell’accordo, ch’è fra i primi bisogni dello Stato sociale.

«I Principi della mia casa non posero mente ad adunar tesori, paghi di quello solo che deriva dalla stima e dall’amore dei loro popoli. Fu nostra cura il mostra re che quella non tanto era nobile imprevidenza, quanto meritata e ben posta fiducia.

«In questa nuova prova del nostro affetto, come, nell’operosa ed unanime prontezza con che reggeste al peso di una lunga sessione, scorgo il sicuro pegno di un perfetto accordo fra i poteri che reggono lo Stato,

«Forti, perché concordi, trapasseremo incolumi, le gravi condizioni presenti, e ci condurremo a quella sicura e durevole stabilità, che può derivare soltanto dalla fiducia dei popoli, fondata sulla fede de' Principi, e sulla probità de' Governi.»

Coll'ultimo novembre si pubblicava in Roma. il nuovo Motu-proprio di S. S. Pio IX, portante una nuova legge sul governo delle provincie e sull’amministrazione provinciale. Questo regolamento era diviso in cinque capitoli. Il primo capitolo comprendeva. la divisione territoriale. Lo Stato Pontificio veniva diviso in quattro Legazioni, oltre il circondario della capitale; le Legazioni si dividevano in Provincie o Delegazioni; le Provincie in Governi; i Governi in Comuni. Il secondo capitolo parlava delle Legazioni; il terzo delle Provincie o Delegazioni; il quarto delle disposizioni speciali per il circondario di Roma; il quinto dei Governi ed il sesto dell'amministrazione provinciale. A questo primo seguì un altro editto diviso in nove capitoli, nel primo de' quali si statuiva la classificazione dei Comuni; nel secondo le Rappresentanze municipali; nel terzo le attribuzioni del Consiglio e della Magistratura; nel quarto le Rendite del Comune; nel quinto la. tutela governativa dei Comuni; nel sesto le adunanze e le discipline dei Consigli e delle Magistrature; nel settimo le eiezioni dei Consiglieri; nell'ottavo la elezione della Magistratura e dei consiglieri provinciali; nel nono le disposizioni transitorie.

Questi ordinamenti non formavano una Costituzione, ma sibbene una concentrazione di poteri illimitati nelle mani dei cardinali, cui piaceva al Pontefice di nominare presidenti nelle Legazioni. Ogni Legazioni ne aveva uno quasi plenipotenziario, ma dipendente dal legato supremo, che stava a Roma. Ogni distretto Aveva dei consiglieri, che dipendevano dal cardinal legato in ogni ramo dell’amministrazione pubblica. L’amministrazione provinciale restava quella stessa del passato, e non vi era altra differenza che la seguente: i popoli dipendevano direttamente dal loro cardinal legato, senza correre a Roma.

Cogli ultimi del novembre usciva pure in luce la risposta data dalle Camere sarde, compilata da Brofferio, al discorso del Re.

Eccola:

«Indirizzo di risposta ài discorso della Corona.

«Sire

«Le sublimi vostre parole sonarono alla nazione come un annunzio di domestica felicità, ed avranno lontano un’eco dove si soffre e si spera. Permettete, o Sire, che noi vi diciamo che i voti della patria furono rare volte cosi degnamente interpretati.

«Col mantenere le nostre istituzioni, voi Vi rendeste grande; promovendole, vi rendete immortale. La Camera elettiva andrà superba di concorrere nella gloriosa opera di edificazione, a cui valorosamente attendete; e non sarà. Infecondo sopra la terra l’esempio di un popolo italiano, che fra le lotte e le ruine sa resistere è perseverare.

«La libertà, o sia che si conquisti, o sia che si difenda, è frutto sempre di magnanimi sagrifizii. La nazione saprà nobilmente sostenerli.

«Noi attendiamo con lieti animi che ci siano presentati i miglioramenti, a cui tutti aneliamo. Il progresso non è soltanto legge dello Statuto, è provvidenza dell umanità.

«Il rispetto alle religiose tradizioni, e il sentimento dei patrii diritti, sono la base della civiltà europea. Voi sapeste, o Sire e saprete, ognora collegarli entrambi con virile sapienza: la nazione ve ne ringrazia altamente.

«I supremi reggitori, che. hanno sacra, sopra ogni cosa, la felicità della patria, sono sdegnosi delle proprie fortune; quindi non è meraviglia che sia tributo la fiducia, quando è specchio la lealtà.

«Sono gravi le condizioni presenti, voi lo diceste, o Sire; ma noi pure abbiamo fede nell’avvenire; Proteggono l'Europa i destini dell’umanità; sul Piemonte, Dio pose a custode la virtù del Principe, e la costanza della nazione.»

Un decreto del Re di Piemonte del giorno 26 istituiva in Torino una Banca di commercio. In Roma il giorno 29 veniva posta in attività la tassa sull’esercizio delle arti, mestieri, industria e commercio, conuna legge speciale sulle tasse delle professioni.

Il Monitore Tatuino,il giorno 25 dicembre,'pubblicava una convenzione doganale stipulata tra il Governo di Roma e quello di Firenze. Morirono il27, in Venezia, il poeta Luigi Garrer, in Milano l’ab. Giacinto Amati. Il 31 giungeva in Venezia la Organizzazione della Contabilità centrale.

Lo storico carattere distintivo dell’anno 830 può essere definito col seguente concetto: in Piemonte vita, nelle altre parti d’Italia al contrario, per cui la più grata parte dei popoli non era, dopo le vicende del 1848, ancora risorta, mentre il restaste, soltanto sul finire dell’anno,'incominciava appena a porger fuori la testa.


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CAPITOLO V

L’anno 1851

Sui primordi del 1841 i partiti in Italia erano tre, piemontese, repubblicano, conservatore.

Il partito piemontese era quello che godeva la preminenza e la preferenza, e che quindi prevaleva sugli altri, Tutti sapevano che il Piemonte lavorava allo scapo di prepararsi ad una seconda prova, alla, ripresa delle armi, quando che fosse, per l'indipendenza della patria.

Era considerato il Piemonte come un tipo, di benessere sociale per le sue. riforme, per le sue leggi, per le sue libertà, I vizii stessi emananti, da quelle libertà, inalcune uscite fuori dal campo legale e, passate in quello della licenza e del libertinaggio, queste stesse libertà casi viziate, o viziose voleansiconsiderare come specchio di virtù, perché correvano all’estremo opposta, alla repressione, di cui colpivansi alcune partì dell’Italia. Là lice tutto, qui poco o niente; ecco ciò, che faceva amare anche il vizio delle libertà piemontesi.

Tutte le famiglie italiane tenevano stanziati, in Piemontede' loro membri, de' loro amici, e de' loro conoscenti. Questi da colàcorrispondevano colleloro famiglie, coi loro amici od aderenti. Con questo mezzo, che non si è mai potuto evitare dalla vigilanza delle polizie, venivano sparse le esagerate glorie del Piemonte dovunque, evenivano accese le brame d’indipendenza in ogni petto. Le differenze sussistenti tra l’Austria e la Prussia dà gelosie di primato sulla Confederazione Germani contribuivano assai al mantenimento delle speranze che si suscitasse un conflitto tale da permettere ai piemontesi quando che fosse di ripassare il Ticino e stendere in Lombardia. Anche, questa credenza, o speranza contribuiva a far pendere la bilancia a favore dilui. Ma soprattutto il sistema di opposizione tenuto dai governi in Italia; quelle instancabili tasse di ogni genere quel lasciar talvolta tutto insoluto; quella tardanza nel disimpegno delle pubbliche bisogna, contribuivano, oltre ogni credere al sempre credente aumento dei partigiani pelPiemonte, Da ciò nasceva pure la emigrazione dei malcontenti, i quali si allontanavano continuamente dagli altri Stati per portarsi colà ove vigeva la Costituzione.

Il partito repubblicano, capitanato dà Mazzini, tratto tratto pittava vampe di fuoco e dalla Svizzera, e dalla Liguria. Se in un edilizio, arso da un incendio, si andassero a rimestare gli anneriti avanzi, si vedrebbe ancora qualche vampa, qualche globo di fumo uscire dalle abbruciate macerie Cosi accadeva appuntò del partito mazziniano, il quale dagli avvenimenti era ridotto in uno stato di assopimento, ma se veniva rimestato, gittava ancora il suo fuoco. Quel partito aspettava di essere agitato dalle circostanze, egli era in istato di quiescenza, e di attesa. Lasciava che i governi cozzassero fra di loro, per entrare poi egli, terzo, ad usufruttare degli errori degli altri. La questione politico-religiosa del Piemonte con Roma si fu un mezzo assai atto a fargli gittare vive scintille: da quel conflitto egli sperava avanzamenti. Laonde approntava le sue mine e clandestinamente, più che sel potea, allargava le sue fila per poi esplodere tutto in una volta. Volle egli pure effettuare il suo prestito, porre in circolazione i suoi boni, ben persuaso, che non avendo da porgere per garanzia altro che la cessata Repubblica romana, non avrebbe trovato esito favorevole; ma era convinto altresì che quello era un mezzo squisito per tener sempre vivo nei suoi settarii il fuoco repubblicano. Egli, più che altrove trovava gregarii belle Romagne, ove nel 1848 aveva avuto trono ed altari. Quei popoli, i quali per una lunghissima ed amara esperienza sapevano di non poter Sperare dal governò papale le necessarie utili riforme, quei popoli, più di ogni altro, erano in uno stato di esaltazione. Epperò con più facilità aderivano al partito mazziniano, per il principio di passare da un estremo all’altro, dalla nessuna libertà, cioè, a tutta intera. D’altronde essendo le masse di quei popoli assai indietro nella coltura della vita politica, essi, novanta su cento, non sapevano che cosa si fosse aristocrazia, democrazia, governo costituzionale. Sapevano di essere poveri, perché molto aggravati; sapevano di essere vincolati e nelle coscienze, nei desidero, nelle opere, è nelle persone; sapevano di star male, ma sapevano ancora di essere un pubblico, e la parola repubblica avea per essi un attraente ed un talismano che gli trasportava. Sapevano che repubblica equivaleva a non più preti al potere: non più caste, ma eguaglianza; non più vincoli di sacrestia, non più soggezione ma libertà. Queste dottrine che l’apostolo dell'idea, Mazzini, seppe con tant’arte insinuare in quei popoli, davano tratto tratto i loro frutti aumentando le fila degli alunni del grande repubblicano.

Il terzo partito, il conservatore, era inferiore agli altri due per numero e per influenza. Questo partito, nato dalle disgrazie d’Italia, che lo avevano compromesso, rimpetto agli altri due, era quello che abbracciava una gran parte del clero, dell'aristocrazia, e degli impiegati. Per viste d’interesse, in primo luogo, egli amava lo statu quo. Sapendo di non essere accetto in caso dì cangiamenti radicali negli Stati, e di nuovi padroni, egli lavorava con astuzia, con mene sotterranee, con ogni suo potere. L’indefessità dei suoi lavori gli fruttava impieghi, cariche, croci, guadagni; ma si attirava nello stesso tempo il disprezzo de' suoi connazionali, dei popoli e di tutti quelli che sentivano dignità.

Questo era lo stato dell’Italia all’incominciamento del 1851. Ora, da questi tocchi generali sull'essere di quei tempi, passiamo a ricercare imparzialmente nelle toro viscere gli avvenimenti che ebbero a maturarsi.

Le società operaie ih Piemonte prendevano maggiore tensione all'incominciare di quest'anno; era loro precipuo scopo un mutuo soccorso alle arti utili. L'esempio fu dato a Torino, ed il sig, Boitani si distinse assai nel disimpegno delle funzioni di segretario di quella Società generale. Questo esempio trovò ben presto degli imitatovi nelle provincie. Anche delle società pelle arti belle, si erano istituito, non che delle congreghe, di medici, di chirurghi e di farmacisti; questo prosperavano, in Genova a pubblico vantaggio.

Si condannava, il primo gennaio, 1854, in Roma, famoso Ciceruacchio, capo del popolo nel tempo della Repubblica, a 20 anni di reclusione dura, come complice dell'abbruciamento dei concessionarii; avvenuto in molte Chiese di quella metropoli cristiana. Non potendo il popolo andar contro e battere il Governo clericale, andava contro e batteva gli oggetti al clero spettanti; Stupida soddisfazione, ma per esso era una soddisfazione.

Nei giorni 4, 5, e,6 gennaio Genova fu spettatrice,di,un allarme provocato da ingiurie, scagliate dagli agenti mazziniani contro i militari. Nacque quindi tra essi loro un conflitto, che prendeva sempre più delle grandi proporzioni. In quel momento Mazzini faceva predami a tutto il mondo, agitava senza posa e con grande coraggio.

Voleva denari co’ suoi boni per abbattere, diceva, tutti i governi, e stabilire il suo. Già seguivano concistori in Svizzera con mene propagandiste, già circolavano scritti incendiarii, ed alcuni giornali della Liguria, sostebevano Mazzini e le sue idee; finalmente veniva a Castelletto, inalberata la bandiera rossa. A Roma pubbicavansi tre opuscoli incendiarii, con stampa clandestina; o si spargevano gratis da per tutto: questi s’intitolavano: Italia rossa, Italia Nera Roma ed i preti. In quel tempo cosi concitato accadevano le conflagrazioni tra cittadini e militari, che dieemmo, le quali provocarono la chiamata da Torino a Genova di molta milizia, l’allarme nella cittadinanza, ed i seguenti ordini del giorno.

«Cittadini.

«Private e particolari, discordie fra alcuni cittadini e soldati, vennero eccitate negli scorsi giorni, ove si rinnovassero, gravi potrebbono esserne, le conseguenze. Noi dobbiamo decisamente evitarle.

«L’autorità militare provvede nella parte che la riguarda; ordini vengono dati alla truppa per evitare ogni occasione a querela.

«Cittadini, da parte vostra si corrisponda ugualmente; si eviti ogni occasione di alterco; i nemici delle nostre istituzioni ci vogliono discordi. Saprebbero profittarne.

«Per quanto ci è cara, la libertà niuna divisione insorga fra noi; non v’illudano voci che ad arte si spargono. La milizia cittadina l’armata son figlie di questa medesima terra, hanno la stessa fede, innalzano la stessa bandiera.

Genova, li 5 gennaio 1851:

Pel Sindaco, Il Vicesindaco G. F. Penco.

MOLFINI, Segretario.


«Comando generate della Divisione militare di Genova.

«Ordine del giorno 5 gennaio 1851.

«Militari.

«La nostra sorte militare, cosi bella in guerra, è difficile nelle presenti circostanze; ma appunto perché difficile, rendetela sublime; fate abnegazione di risenta mento e non date ascolto a que’ pochi insulti, che vi possono dirigere alcuni malevoli.

«Colla fronte calma ed il cuore innocente, la bufera passerà: ed i pochi inaspriti contro di voi, per l’altrui arte, come la maggioranza, ritorneranno amici, concorrendo con voi a rendere felice la patria.

«Già severe istruttorie giudiziarie sono in corso, la giustizia farà trionfare la legge; i promotori dei disordini, qualunque dessi siano, o militari o civili, saranno puniti, e verranno segnalati siccome suscitatori di discordie civili.

«Dignità calma mi aspetto da voi. Che nessun minimo fatto possa dar luogo ad accrescere le imputazioni, vere o false esse sieno.

Il maggiore generale comandante la divisione

Alessandro La Marmora.

Il teatro Carlo Felice non andò esente da disordini, provocati dagli sgarbi contro il militare, i quali giunsero a tanto da far cessare la rappresentazione tra' fischi, urli e percosse. Per quel fatto il modenese Sanguinetti veniva sfrattato dagli Stati sardi.

Il conte Cavour, accettava il portafoglio della marina colla condizione che gli si lasciasse, senza restrizione, l’autorità di far ciò che gli piacesse.

Egli volle quindi portarvi molte riforme, le quali avrebbero necessariamente eliminati motti ufficiali. Il principe di Carignano, cugino del Re, e comandante supremo della marina, fece delle opposizioni, e quindi provocò una reazione per favorire la nobiltà, che vi aveva interesse. Cavour continuò nondimeno nella sua via riformatrice, il principe continuò nella sua via di opposizione. Nacquero quindi i frutti suaccennati, perché i mazziniani si prevalsero di questi attriti tra il ministro ed il principe. Ma Cavour, col mezzo del sig. Serracellano, primo secretario ufficiale della marina, mandava al principe un dispaccio, col quale lo invitava a sottoscrivere la sua dimissione. E ciò fu fatto; e Cavour sino da' suoi primordii, fece vedere in sé una robustezza di agire straordinaria, che piacque alla nazione ed allo stesso principe di Carignano.

Il giorno 11 pubblicavasi in Torino un Real decreto, in virtù del quale, sarebbe stato quanto prima innalzato un monumento alla memoria del Re Carlo Alberto, nella sua qualità di propugnatore della causa italiana.

Per questa stessa causa italiana 72 persone, appartenenti a famiglie agiate, venivano condannate, a Napoli, alla pena dei ferri in vita da espiarsi nel bagno di Pescara. Esse, per la maggior parte di 50 anni, passavano il giorno 10 da Teramo legate due per due e poste sopra i carri. Altre 72 per lo stesso motivo, rimanevano ancora nella carcere centrale di quella città, mentre altre ancora, in numero assai grande attendevano le decisioni della Corte.

Fece una grande impressione una lettera pubblicata dall'avv. Tecchio, deputato al Parlamento sardo, sul giornale il Risorgimento di Torino, colla quale egli trasmetteva alla direzione di quel giornale l’importo di 2000 azioni, a beneficio del monumento da erigersi al ministro Siccardi, già da qualche tempo proposto,

Questa dichiarazione del Tecchio provocava nei giornali ufficiali austriaci molte acerbe polemiche, che manifestavanoe la dolorosa sensazione dalla medesima prodotta su di loro.

Tutti i fogli dell’opposizione al Governo austriaco, lamentavano il 1° febbraio, pei modi allora permessi, che il ministero di Vienna, riorganizzando come fece, il sistema giudiziario, escludesse nel Regno Lombardo-Veneto l’istituzione dei giurati.

Tre Notificazioni uscirono alla luce il 1. febbraio di molta importanza, l'uno a Roma sulla legge organica dei Comuni, l’altra a Bologna, da quel comando militare, contro le bande armate che agitavano le Romagne, la terza in Svizzera, ove da Londra compariva Mazzini. Dalla prima si può di leggieri scorgere quanto di democrazia e di libertà sì potessero aspettare i popoli romani da quel nuovo regime, solo introdotto per far vedere alle estere nazioni che si faceva qualche cosa a pro dei Sudditi.

Ecco l'editto.

«La Santità di Nostro Signore, inerendo al § 106 della legge organica dei comuni in data 21 novembre 1850, ci ha ordinato di pubblicare come noi nel Sovrano di lui nome pubblichiamo, le(:) seguenti disposizioni speciali sulla: rappresentanza, e sull’amministrazione del Comune di Roma.

«§ 1. Il Comune di Roma è rappresentato da un corpo municipale di quarantotto consiglieri.

«Otto di essi, col nome di conservatori formano la Magistratura, oltre il capo, chiamato senatore.

«§ 2. I Consiglieri sono tratti per la metà, dalla classe dei possidenti nobili; e la seconda metà dalle altre classi degli altri possidenti, dai commercianti e dai professori di scienze ed arti liberali.

«§ 3. I conservatori si desumono:;per metà dalla prima e per metà dalle altre classi.

«§ 4. La carica di senatore è conferita ad un soggetto appartenente alle famiglie romane più cospicue por nobiltà, e possidenza.

«§ 5. Il senatore cessa dall’esercizio delle sue funzioni al finire di un sessennio; la metà dei conservatori e la metà dei consiglieri: cessa ai finire di ogni triennio. L’uno e gli altri possono essere rieletti.

«§ 6. Allorché si tratta di eleggere i nuovi consiglieri in sostituzione di quelli che in forza del § precedente, sono per cessare, hanno pure posto e voto nel corpo municipale due individui per ciascuno dei quattordici. Rioni della città, e due membri della Camera di Commercio.

«§ 7. L’adunanza cosi composta, a pluralità, assoluta di voti, sulla lista degli eleggibili, forma una nota contenente il doppio del numero degl’individui da sostituirsi.

«Questa nota viene presentata al Santo Padre, da monsignor delegato di Roma e Comarca, per la scelta degl’individui da sostituirsi. e dei supplenti.

«§ 8. Uno speciale regolamento determinerà le norme ed i modi per designare gl’individui che fanno parte dell’adunanza nel caso del § 6 e per procedere alla formazione della nota di cui nel § precedente.

«§ 9. Il corpo municipale rinnovato, propone,. una nota tripla di consiglieri da sostituirsi, ai conservatori, che cessano; da questa, nota si scelgono i nuovi conservatori come al § 7.

«§ 10. Il senatore è sempre nominato direttamente dal Santo Padre.

«§ 11. La possidenza, richiesta per essere eleggibili nel corpo municipale di Roma, è il doppio di quella enunziata nel § 76 della legge del 24 novembre 1850. A questo effetto si valuterà h possidenza in fondi rustici ed urbani, posta tanto in Roma, quanto ancora nella Comarca. La nobiltà si desume dall’Atto Capitolino.

«§ 12. Lo speciale Regolamento e le disposizioni, di cui nel § 23 della suddetta legge del 24 novembre, determineranno per quale mezzo il Magistrato di Roma eserciterà la giurisdizione attribuita alle altre Magistrature dai §§ 24 e 22 della stessa legge.

«§ 13. Il Comune di Roma ha le rendite enunciate nel §§ 26 della citata legge. Quanto alla Depositeria dei pegni, detta Depositeria Urbana, hanno luogo speciali disposizioni.

«§ 14. Fanno parte dell’amministrazione comunale le imposizioni seguenti: Tassa sulle acque Tergine, Felice e Paola; tassa per le vie urbane, per le cloache, per le vigne ed orti suburbani, dazio di mattazione; appalto della neve; tassa cavalli di lusso; pesa libera.

Ǥ 15. Sul prodotto degli altri dazii di consumo il Comune percepisce una somma certa, stabilmente determinata, in proporzione ai pesi che ad esso rimangono imposti.

«Il pagamento di tale somma sarà fatto, mediante delegazione del Ministero delle Finanze, dall’Appaltatore in rate dodicesimali, che verranno soddisfatte dal medesimo in somme proporzionate, ogni dieci giorni.

«§ 16. L’imposizione di altre tasse, oltre quelle sopraenunziate, non può aver luogo senza l’approvazione del Cardinale presidente del Circondario di Roma e della sua Congregazione.

«§ 17. È applicabile al Comune di Roma la detta legge del 24 novembre in tutte quelle cose per le quali non è disposto con la presente.

«Cessano cosi di avere vigore le speciali disposizioni organiche, adottate col Motu-Proprio del 4. ottobre 1847.

«§ 18. La nomina dei consiglieri e supplenti, e quella dei conservatori, pel primo triennio, è fatta da Sua Santità nelle classi indicate al § 2.

«Dato in Roma dalla segretaria di Stato, il 25 gennaro 1851.

« G. Ca r d. Antonelli.

Labanda del famigerato Passatore erasi fatta forte di oltre 1500 uomini armati: egli agiva colle sue imposizioni ai Comuni più militarmente che aggressivamente. Egli aveva però un aspetto altamente politico. Vuoisi avesse rapporti coi mazziniani, nello scopo di rivoluzionare le Romagne al favore della Repubblica socialistica. Vuoisi non fosse estraneo alle mene di Genova e dettai Svizzera. Le popolazioni, sia per timore, sia perché n’avessero inteso lo scopo, gli prestavano mano e l’aiutavano. Fu forza che il Comando militare pubblicasse la seguente

«Notificazione

«Le audacissime invasioni di Consandolo e di Forlimpopoli, accompagnate da omicidii e' da ogni sorta di sevizie, hanno portato al colmo il terrore negli abitanti pacifici di queste Provincie.

«Fermo l'I. R. Governo civile e militare nel tener mano forte per la più rigorosa osservanza delle leggi promulgate contro gli assassini, loro complici e ricettatori; e ritenuto che si enormi misfatti non ponno venir commessi, se non prima concertati con altri scellerati cooperatori, domiciliati negli stessi paesi invasi, e loro dintorni;

«Viste le Notificazioni 5 settembre 1849,23 febbraio:fi,8 taglio 1860.

«Si ricorda nuovamente.

«Che, previo giudizio statario, saranno, senza riguardo a veruna qualità attenuante, immediatamente fucilati coloro colti in flagrante:

a) D’invasione, grassazione o rapina.

Quelli qualunque che avessero offerto, o prestato asilo ai malviventi.

«Bologna il 4. febbraio 1864.

«L’I. R. Comando civile e militare.

La comparsa di Mazzini produsse grande sensazione. Correva voce che fosse stato veduto a Losanna, Capolago, Lugano. Egli era dappertutto: cangiava nome, cangiava vestiti, cangiava aspetti, si trasfigurava in nubile modi. Non riceveva i suoi adepti nelle città, ma sibbene nelle campagne. Egli non aveva fiducia nel Re Vittorio Emmanuele, né nel suo governo. Preferiva alla Costituzione l’antico assoluto reggine del Piemonte, sperando di trovare fautori novelli nei popoli sardi, colla formazione della repubblica universale. Mentre si spargevano queste voci, Garibaldi arruolava un 150 individui, che decevano far parte di una sezione italiana, la quale, sotto gli ordini di lui, aveva a difendere Montevideo contro Rosas. Questi arruolamenti costavano 35000 franchi. Gli equipaggiamenti si facevano a Genova ed a Livorno. Le nuove milizie appartenevano ai partito rosso il più puro. I consoli di Buenos-Ayres protestavano; ma ciò non ostante gli. arruolamenti per Montevideo seguivano. Il Comitato democratico aveva depositi considerevoli di armi a Gibilterra ed a Corfù.

A Firenze venivano condannati Gio. Formigli ed Angelo Daddi, librai, per aver pubblicato un opuscolo intitolato: Il buon vecchio, contenente massime ultra rivoluzionario-socialistiche. Egli diceva p. es. «che il Governo e le autorità traggono origine da passioni malvage, e che serve loro di sostegno unicamente la forza; chele leggi non sono che il mezzo di sostenere e perpetuare l'abuso dell’autorità e del dominio dei pochi sui molti; chele classi più povere della società devono insorgere contro le più agiate per istabilire la eguaglianza, e valersi a tal uopo della forza, che loro assicura il numero maggiore; che i mali esistenti nel mondo derivano principalmente dal possesso individuale dei beni Che dovevano essere comuni; e che a siffatti mali non può sperarsi rimedio sino che non sia riparato a quella usurpazione.» Ma il Daddi venne poi assolto, mentre il Formigli dovette subire un mese di prigionia e 500 lire di multa. L’opuscolo fu sequestrato. Anche a Milano il 15 febbraio, per diffusione di libri rivoluzionarii, venivano condannati: per 5 anni Cervieri Giovanni, libraio; per 3 anni Manzoni Luigi, compositore di caratteri; per due anni Ramazzi Giuseppe, torcoliere-tipografo; per 1 anno Trabattoni Giovanni, compositore di caratteri.

Il 18 febbraio il Re del Piemonte accettava la dimissione da ministro di graziale giustizia del conte Siccardi; e la Luogotenenza delle Provincie venete pubblicava uni Notificazione colla quale tutti i sudditi austriaci che presero parte agli avvenimenti del 1848, 1 quali non vollero prevalersi delle amnistie concesse per spatriare, erano considerati come emigrati, e quindi caduti nella perdita della sudditanza austriaca; ma non sarete bersi perciò sequestrati i beni dei medesimi, a mente delle anteriori Notificazioni E il feld-maresciallo Radetzkv, per impedire la diffusione nella popolazione di proclami e scritti incendiari! e rivoluzionarii, pubblicava in data di Verona 21 febbraio, un proclama di due articoli. Col primo richiamava in vigore la Notificazione 10 marzo 1849, che puniva colla pena di morte chiunque risultasse convinto di diffusione e comunicazione di simili scritti; e col secondo che chi venisse in possesso di uno di tali scritti incendiarii e rivoluzionarii, qualunque ne fosse il nome e la forma della redazione, e non lo consegnasse immediatamente alla più vicina Autorità; politica, o persona di Ufficio, fosse pure(:) un semplice gendarme, indicandone in pari tempo la provenienza, ove' non potesse egli essere convinto di premeditata diffusione, anche per il solo possesso di siffatto scritto, o per la ommessa debita denunzia della esistenza di somiglianti scritti, sarebbe punito col carcere duro da uno fino a cinque anni, secondo le circostanze aggravanti o mitiganti.

LaStrega, giornale mazziniano, che pubblicavasi a Genova, offese con un suo scritto il principe Carignano, ma poi promise ritrattarsi. Nol fece. Nel giorno 8 una turba di gente, marinari e facchini, si portò a quella: stamperia tumultuando, traendo seco molto concorso di popolo, spaventando i cittadini; si misero a soqquadro i caratteri, i torchi, ogni cosa, e si stracciarono un migliaio di copie del giornale. I redattori Priario e Borgonova (prete spretato), se la fuggirono; restando lo stampatore, i proti, i compositori di caratteri, e gli altri della tipografia, i quali schiamazzarono e a tutt’uomo gridarono aiuto. Giunsero le guardie, e vennero arrestati 19 perturbatori, compresi alcuni signori, ed il conte Avet, aiutante del Re, Ohe; da Torino venuti a Genova, si frammischiavano con quella bordaglia, per commettere quell’atto vandalico. Questa lezione data alla Strega non giovò, perché quel giornale aveva un coraggio peregrino indiavolato. Ciò intanto servi a promuovere dissensioni fra torinesi e genovesi.

In questa data, dalla polizia di Roma venivano sequestrate 50 cartelle intitolate Prestito Nazionale Italiano, firmate da Mazzini, Sirtori, Montecchi, Saliceti, e Saffi, del valore di franchi 25 cadauna. Il possessore fu imprigionato e passato sotto processo al Tribunale criminale a termini di legge.

LaCommissione provvisoria municipale di Roma poneva fra la porta s. Pancrazio e la Portuense una epigrafe sculta in marmo, che ricordava a' posteri il fratricidio commesso dalla grande Repubblica francese contro la piccola Repubblica romana nel 1848, bombardando la città eterna. Quella epigrafe diceva semplicemente — A tormenti Gallorum deleta— Questo laconismo; non piacendo a Parigi, dietro una Nota del Gabinetto francese, venne quella epigrafe dal Governo pontificio levata.

Mediante una taglia di scudi romani 3000, promessa dal Governo di Bologna, vennero arrestati quaranta membri della banda del Passatore; ma quella banda ciò non ostante, ingrossava di continuo, perché volevasi mantenere, usando di quell'infame brigandaggio, lo scopo politico. Oltre al Passatore, si resero famosi il Farina Antonio detto Domentone, ed il Lizzarini.

I Governi di Francia e di Austria stabilirono il limite, oltre al quale non potevano trascorrere le rispettive guarnigioni, stanziate sul territorio pontificio: Per la guarnigione francese il limite era Civita-castellana; per la Austriaca la terra di Otricoli, (l’Ocriculum degli antichi).

Il nuovo ordine, regolatore della cosa pubblica di quello Stato, non incontrò il genio degli abitanti, perché tutti i poteri venivano concentrati nelle mani dei cardinali, dei prelati, del clero, e le nomine dei consiglieri, dei senatori, e cariche di ogni genere, riserbate esclusivamente: al Pontefice. Poco garbava il giuramento che dai consiglieri doveva farsi di mantenere secreto;, diffatti i consiglieri di Stato giuravano di non rivelare a chicchessia, né la natura degli affari commetti alla loro consultazione, né la provenienza degli affari suddetti, né l’opinamento sia dei colleghi in particolare, sia della maggiorità del Consiglio. E cosi fatto secreto dovevano mantenere inviolabile, anche allora quando le consultazioni di quel Consesso autorevole fossero state approvate dal Santo Padre ed avessero acquistato forza di risoluzioni definitive e legittime. Tutto questo venendo considerato cornei un vizio legislativo, trovò molti' ostacoli e molte ostilità, perla sua attuazione.

I carnevali italiani del 1851 non, presentavano il carattere quaresimalesco di quelli del 1850; nondimeno furono abbastanza monotoni. Con tanti mali, con tante tasse, le(popolazioni non avevano il gusto di divertirsi, la, maggior parte di esse essendo ancora sotto lo stato eccezionale.

L’isola di Sardegna, intanto, ahi troppo trascurata dal Governo Torinese! trovavasi in preda alla desolazione ed allo spavento. Le uccisioni ed i ferimenti si succedevano senza intervallo in un modo esecrando. Spogliatoci, ladri, assassini, briganti, rivoluzionarli, tutta la feccia dell'Italia era colà raccolta. Sembrava un patrio eccidio una guerra civile. Nulla veniva risparmiato; uomini, donne, fanciulli, cadevano cadaveri sotto il ferro assassino. Fu colà spedito il Lamarmora, ma né ottenne poco frutto. Lo sperpero delle vite limane continuava. Anche a Ciamberì succedeva un fatto scandaloso, che unito a tutti gli altri avvenimenti italiani, dava divedere a quanto fosse giunta la Corruzione pubblica in quell’anno. Moriva una ragazza povera, e perché povera, veniva abbandonata dai preti. Nessuno voleva portarla al campo santo perché povera. Fu nondimeno. portata in Chiesa e lasciata là. Quando, divulgatosi il fatto, si unirono fra loro alcune baldracche della città, corsero alla chiesa, presero il cadavere dell'estinta, e secoloro lo portarono, cantando la marsigliese. A quelle meretrici se ne unirono altre per le vie, che erano ubbriache, e donne di mal affare di ogni genere, e sussurrando, ridendo, motteggiando oscenamente portarono la povera estinti al cimitero. Incoava il Governo su quel fatto scandaloso una inquisitoria, un processo, ma non se ne vide mai la fine. Diremo nel principio del seguente capitolo Id ragioni per le quali, sotto un Governa costituzionale, nascessero tali disordini.

Il giorno 17 marzo, il conte Gyulai assumeva il comando militare della Lombardia. Ciò forse dava argo mento alle voci di un intervento austriaco nel Piemonte e nella Svizzera; di un rinforzo di 40,000 Uomini all’esercito del Lombardo-Veneto; di un cordone militare sul confidi meridionali della Svizzeri, e di cento altre fantasie che circolavano nei giornali della Penisola, spargendo angustie e timori.

Parlammo poco sopra della moralità di quei tempi, ove ila. corruzione alzava il capo ovunque minacciosa e desolatrice: or ecco tre quadri ufficiali dei delitti commessi nelle Romagne in quell’epoca malaugurata.

I. Dal 1. ottobre 1847 al 30 giugno 1849 furono denunziati ai Tribunali soltanto delle quattro Provincie di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì i seguenti delitti, caratterizzabili come interessanti direttamente l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza.

TITOLI

Bologna Popola-zione 547,000

Ferrara Popola-zione 229,000

Ravenna

Popola-zione 166,000

Forlì Popola-zione 198,000

1. Omicidi! semplici o qualificati

148

95

149

99

2. Ferimenti semplici o qualificati

2183

703

713

659

3. Violenze semplici o qualificate, resistenze alla Forza, esplosione di armi, conati di omicidio, tumulti e conventicole

171

113

81

81

4. Furti, semplici o qualificati

4828

5770

1086

1052

5. Rapine, grassazioni, invasioni anche qualificate per sevizie, ecc,

648

239

209

142

6. Incendii dolosi, o di sospetta e d’incerta cagione

176

426

48

84

Totale

8154

7046

2286

2087

II. Dal primo giugno 1849, epoca della restaurazione del Governo pontificio, a tutto dicembre 1850, nelle quattro Legazioni avvennero i seguenti delitti delle categorie indicate nel precedente prospetto. Il periodo comprende mesi 17.

TITOLI

Bologna

Ferrara

Ravenna

Forti

1. Omicidii semplici o qualificati

55

31

26

46

2. Ferimenti semplici o qualificati

335

436

75

448

3. Violenze ecc.

17

437

91

186

4. Furti semplici o qualificati

146

421

274

577

5. Rapine grassazioni, invasioni ecc

257

202

234

91

6. Incendii dolosi, o d’incerta cagione

109

401

38

61

Totale

919

1028

738

1409

III. Mancando i dati per accennare le condizioni delle tre Provincie di Ferrara, Ravenna e Forlì per i due primi mesi del 1851, diamo qui i risultamenti che per questi due mesi si traggono dai registri del Tribunale di Bologna.

Omicidii

N.

4

Ferite

»

20

Invasioni 7, grassazioni 6, rapine 10

»

23

Furti

»

19

Incendii d’incerta causa

»

3

Totale

N.

69

Egli è da osservare che nei cenni statistici per noi riportati non sono compresi i titoli minori, i quali comprendono le ingiurie verbali o di fatto, i furti e le truffe di poca entità, le infrazioni ai precetti ed ordinamenti politici, che cadono nella competenza dei giusdicenti, o giudici singolari. Anzi fra i titoli di competenza maggiore escludonsi le ingiurie qualificate, i libelli faziosi, gli stellionati, bancarotta, falso, usura, danni dati, perniato, concussioni, delazioni d'arma ei delitti Interessanti direttamente la religione, il buon costume 0 la morale.

Con tanto corrompimento sociale, con tanta esalta-» rione d’idee, che in quei tempi esasperavano le popolazioni, quello e questa prodotti, qua da una esuberante libertà concessa, là da smodata compressione esercitata, egli era facile prevedere o temere la preparazione o la perpetrazione di novelli avvenimenti organizzati dai partiti interessati. Per la qual cosa pubblicavasi da S. E. Radetzky in Verona li 12 marzo un proclama col quale feniva ordinato un cordone militare lungo il confine da Sesto Calendc a Gravedona, avvertendo le popolazioni, che tanto il militare che le guardie di finanza avevano ordine preciso di far fuoco su chiunque venisse incontrato entro la linea del cordone, e che alla terza intimazione non si fosse fermato, od anche fermatosi non avesse gettato lungi da sé l’arma, di cui per avventura fosse stato possessore.»

Il giorno 22 marzo nacque un parapiglia in Genova, prodotto da due cause assai differenti fra loro. Certo Maggi apri nella piazza delle Vigne un grande magazzino di abiti fatti: tutti i sarti della città, uniti insieme si radunarono innanzi a quel negozio, e fecero, una dimostrazione ostile, gridando contro il Maggi che ruba loro il pane. Vennero fatti molti arresti. Nello stesso tempo gli agenti della pubblica sicurezza si recarono a bordo del Castore, vascello che stava per salpare da Genova per Marsiglia, e sequestrarono una croce d’oro, un(: )calice d’oro ed una mitra, che il parroco Caprile di s. Luca, ed il marchese Roverto volevano regalare all'esiliato monsignor Franzoni a nome della città. La mitra portava l’indirizzo della città di Genova a monsignor Franzoni, e lo stemma della città. L’abate Caprile si lagnava coll’intendente dell’operato sequestro, e n’ebbe la seguente risposta: «Non essere, egli, l’intendente, ancora bene informato del fatto: saper solo che la polizia faceva il suo dovere, perché erano accaduti diversi furti sacrileghi in varie chiese, e bisognava ben cercare i ladri. Avesse pazienza, e non temesse, che, appena riconosciuti legalmente gli oggetti, verrebbero restituiti ai legittimi padroni.» Ma con quel sequestro volevasi probabilmente evitare una dimostrazione della città di Genova (la quale forse ignorava tutto) a favore dell'arcivescovo espulso.

Ladimostrazione dei sarti, gli arresti operati, il sequestro a bordo del Castore, furono bastanti per porre la città in disordine ed allarme; la città si è indispettita contro il libero scambio, che sembrava volesse adottare il ministero. Molti fabbricanti di pannilani protestarono, affine non venisse ridotta la tariffa. Vi erano in quel tempo in Piemonte 70 fabbriche di tessuti di lana, che contenevano 2,500 telai, che davano lavoro a 27,000 individui. La massa del capitale che impiegatasi in queste fabbriche era di 40 milioni, ed il prodotto dei 2,500 telai, di 20 milioni.

Nella campagna posta a levante del Lamone, che divide quel circondario dall'altro di Bagnacavallo, Sulla linea di confine della provincia di Ravenna, in poca distanza dal cosi detto Muraglione del Roncellino, il giorno 24 marzo s’impegnò un forte attacco tra la forza pubblica ed il terrore delle Romagne, Pelloni Stefano, detto il Passatore. Questo attacco sorti vittorioso per la forza pubblica: Passatore cadde estinto, colpito nella testa. Nella piazza di Lugo fu esposto il suo cadavere. Furono rinvenuti al Passatore scudi 700 in oro, una spilla di brillanti, un cilindro, alcuni fili di perle, ed altri oggetti preziosi, non che molte spolette, palle e pallettoni. Colla fine però del capo, non fini la banda.

Il giorno 27 marzo giungeva S. M. l’Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe I. a Venezia, sopra il Vulcano, accolto dalle salve dei forti e dal suono delle campane, nonché da tutte le Autorità locali, dal Clero metropolitano, dai Corpi docenti, e dagli impiegati. II popolo vi concorse pure affollatissimo. All’indomane egli pubblicava il seguente Motu-proprio:

«Nell’intenzione di favorire il commercio e la navigazione della nostra R. Città di Venezia, e di giovare al ritorno del benessere negli abitanti, scosso profondamente da deplorabili avvenimenti, abbiamo, sopra proposizione del nostro Consiglio dei Ministri, determinato quanto segue:

«1.° È tolta la limitazione del preesistito Porto Franco, ordinato col Decreto 27 agosto 1849, e la franchigia, ora circoscritta all’isola di S. Giorgio Maggiore, viene estesa a tutta la città di Venezia.

«2.° Con ispeciali Ordinanze saranno quanto prima portate a pubblica conoscenza le più concrete disposizioni, per l’esecuzione di questa concessione.

«2.° I nostri Ministri dell’interno, delle finanze e del commercio sono incaricati dell'esecuzione della presente Ordinanza.

«Dato nella nostra città di Venezia, il giorno 27 di marzo 1851, terzo del nostro Regno.

«Francesco Giuseppe.»

Schwarzenberg — F. Krauss — Bach — Bruck — Finnfeld — K. Krauss — Thun — Csorich — Kulmer —

Non mancarono all’arrivo di S. M. l’imperatore luminarie, grandi teatri, e sonetti in argomento di esultanza e di ossequio, fra' quali vuol essere ricordato quello del dott. Filippo Scolari. La stampa ufficiale proclamava quotidianamente quei giorni, resi felici dalla presenza dell'Augusto Monarca, il Collegio municipale, per festeggiare la riconcessione del porto franco, trasmetteva a S. Em. il sig. Cardinale Patriarca la somma di a L. 12,000 da ripartirsi ai poveri.

Il Roma intanto ed in tutto lo Stato pontificio istituivansi le sacre Missioni nello scopo di allontanare la mente ed il cuore dei popoli dalle mene politiche. Ma se tacevano le pubbliche ostili dimostrazioni, perché sarebbero state represse e dai francesi e dai pontificii, non tacevano però gli odii contro il regime clericale, e qua e là, ora o poi, più o meno giganti, si rivelavano. Mentre nella chiesa di S. Prassede nell'Esquilino si faceva la missione, scoppiò un petardo, che destò il disordine e lo spavento in tutti gli astanti, i quali fuggirono dalla chiesa precipitosamente. Il giorno successivo si leggevano affissi sui muri della città, provenienti dal comitato repubblicano, i quali raccomandavano fervorosamente di diffidare del governo romano. Tutti questi sintomi di malcontentamento inasprirono vieppiù gli animi dei dominatori, i quali alla lor volta aggiungevano, ai già dati, nuovi modi di repressione. In questa maniera, in ogni parte dell’Italia, si alternavano le manifestazioni dei desiderii di libertà dalla parte dei popoli, e le manifestazioni dei desiderii di compressione dalla parte dei governanti: altalena terribile, che tenne perpetua la gara di esplosione nei primi, la gara di repressione nei secondi, e l’odio reciproco in ambidue. Questa gara nei popoli del Lomb. Veneto, dei Ducati, e delle Romagne era tenuta viva dalla sfrenata stampa del Piemonte, la quale erasi posta sopra una grande dimensione, e si spargeva o pubblicamente o clandestinamente per ogni dove, con articoli di fuoco sgorgati dal cuore degli emigrati, che raccomandavano, come primo argomento di patria redenzione, l’odio alla dominazione stranierai E in quei tempi che la Venezia era visitata da S. M. l’imperatore, codesta stampa si dava gran moto, ed univa tutte le sue armi, tutte le sue forze, tutti i suoi mezzi, per ottenere a suo favore lo scopò politico e nazionale che si era prefisso. I popoli però della Venezia, e specialmente i municipii trovavansi, come suol dirsi, fra le forche e Santa Candida e non sapevano, nel loro debole coraggio civile, qual via tenere. Se si mostravano devoti all’imperatore ed al suo legittimo Governo, venivano dai liberali considerati apostati dalla causa nazionale. Se si mostravano ostili, si esponevano ai rigori della polizia e delle leggi; quindi questo martirio, che sarebbe stato immediato, non trovava, a dir vero, molti apostoli. Essere oppositori aperti era un offendere, ritrosi era un compromettersi; indifferenti era un oltraggio; caldi o per l’impero o per la causa italiana era pure un’offesa: sempre un pericolo. O vittime sull’altare della patria, col non aderire al governo; o vittime della nazione, col mostrarsi devoti.

Non vi erano vie di mezzo. Pure si è scelta una scappatoia. Ipocrisia verso l’Austria, ipocrisia verso la nazione italiana. Ve n’erano molti di questi ipocriti. Dalli, dalli, al tradimento! si gridava sommessamente dai liberali; ma gl’ipocriti gridavano eglino pure, dalli ai traditori! Era assai difficile distinguere in allora in chi si trovasse il patriotismo. Ma una lunga lista di nomi, fatta dalla coscienza umana, venne scritta a caratteri indelebili e questa lista sfolgorò di piena luce in altri tempi: allora soltanto si conobbe il vero apostolo della patria, e scomparve del tutto la biface ipocrisia. Circolava intanto, in quei giorni, un proclama incendiario del Comitato centrale democratico di Londra, dal quale togliamo i seguenti esaltati periodi.

«Uomini di Milano e di Venezia!» — dicevasi in quel proclama, pubblicato sul giornale Voix du proscrit — «le vostre insurrezioni soggiacquero, ma pubblicavano il programma della futura rivoluzione. Il frutto delle vostre opere è maturato nel carcere e nella schiavitù, la quale, oggi il sappiamo, sarà schiavitù di un giorno. Siate uniti, porgetevi lealmente la mano: potete farlo senza debolezza; poiché foste prodi gli uni e gli altri, e lo avete dimostrato; e questa è la forza delle nostre armi. Il quarto anniversario del vostro movimento debbe trovarvi di nuovo trionfanti, e trionfanti per sempre, ai vostri posti. Sorde a quel grido le Rappresentanze della città di Milano e di Rovigo deliberavano di porre a' piedi dell’imperatore gli omaggi di devozione e fedeltà di quelle due città. Un Pestalozza podestà, un Lurani assessore per Milano, un Veronese, un Lorenzoni, e un Venezze per Rovigo, giungevano alla capitale delle lagune per tale oggetto. In Milano, leggevansi intanto, affissi ai muri degli edilizii, degli scritti, che considerati dall’i. r. generale maggiore Singer scritti e segni rivoluzionarli ed impolitici, provocarono la Notificazione di quel comandante militare, pubblicata il 27 marzo in quella capitale. Questa Notificazione infliggeva multe ai proprietarii di case che «non avessero collo spuntare del giorno scancellati, o distrutti quegli scritti. Quelle multe, pagate dai proprietarii, contravventori al disposto della Notificazione, venivano cambiate in premii, da destinarsi a quelli che avessero denunziato, od arrestato i colpevoli autori di quegli scritti.» Era pur notevole il fatto, che mentre nella Venezia dagl’imperiali si austriaci che italiani, si giubilava banchettando, invece a Milano il popolo si asteneva del fumare i zigari dello Stato, dal giuocare al lotto, dal vestirsi dei panni della Germania, per vestir frustagno e velluto, dal frequentare i teatri ed i corsi frequentati dagli austriaci, e da ogni pratica che avesse sembianza di riconciliazione col legittimo governo. In Napoli per ordine, di quel Borbone dal bagno di Nisita venivano trasportati ai fossi sotterranei del castello d’Ischia i già condannati ai lavori forzati co’ ferri, Poerio, Pironti e Nisco.

Il giorno 9 aprile, il consiglio di guerra di Milano condannava per otto mesi il chierico Giovannini Giuseppe, e per quattro il chierico Marchettini Mario, ognuno di anni 21, ambi con un digiuno per settimana, per dimostrazione politica mediante epitaffio sedizioso, in uno dei cimiteri di Milano. Anche il conte Ambrogio Gaspari veniva colpito di multa di lire austr. 300 per uno scritto sedizioso, pubblicato sul giornale, la Fenice, da lui redatto. Como, per il suo spirito sedizioso, venne molestata da moltissimi arresti, fatti il giorno 40, di persone appartenenti alle migliori famiglie della città, le quali avevano tentato d’impedire di fumare zigari per le vie.

LaFrancia incominciava ad agitarsi, e per rimbalzo que’ moti si facevano sentire a Roma, in Piemonte ed in Toscana, nella quale si erano già sciolte e soppresse, quasi da per tutto, le guardie civiche. I repubblicani se ne prevalsero e raddoppiarono gli sforzi per provocare una qualche scissura, dalla quale trarne profitto; ma furono fatti molti arresti a Vigevano, in Arona, a Novara, a Voghera, nella Lombardia e nelle Marche di Ancona coi quali credevasi por riparo alle mene republicano-socialistiche. A Genova si tenne, il 13, un banchetto politico, Sul monte Fasce di 400 coperte; all’indomane il colonnello Arduino che vi prese parte, fu arrestato dar Comando militare della piazza e condotto in Alessandri. Alfa Camera dei deputati intanto Cavour trionfava, venendo adottato il suo progetto di legge sul trattato di commercio e di navigazione col Belgio e coll’Inghilterra.

I tre principi romani D. Filippo Doria Pamphily, D. Mario Massimo, e D. Lorenzo Sforza Cesarini inviarono al presidente della Repubblica francese un Memorandum, in nome di tuttala nobiltà e la borghesia di Roma e dello Stato pontificio, col quale venivano a stabilire il principio dell’esclusione totale dei prelati e dei cardinali dai ministeri nel Dominio temporale della Chiesa, ed il principio della naturale sostituzione dei laici. Ì1 presidente della Repubblica francese rimetteva a S. Santità quel documento. In esso dice vasi: «Il risultato pratico dell'attuale direzione del Governo pontificio essere di cotal natura, che, invece di sanare, o almeno di non esacerbare le vecchie piaghe, nuove se ne aggiungeano nell'ordine morale, amministrativo e finanziario; che, invece di rimuovere gli eccitamenti e i pretesti delle rivolture civili, altri e poi altri se ne ponevano, i quali, fecondati dalla malvagia volontà degli uomini, avrebbero potuto generare, quando che fosse, conseguenze più luttuose.» E si attribuiva quella situazione della cosa pubblica «non a' maligno animo di Pio IX e dei governanti, ma sibbene ad imperizia negli affari governativi, a guasto delle leggi, ad inscienza dello spirito pubblico, a debolezza, ad oscitanza, ad una smisurata predilezione verso i parenti e gli amici, ad una cura soperchia degli interessi personali, ad immoderata sollecitudine per la conservazione del grado e della carica.» Aggiungevasi: «che, atteso il movimento dell’azione direttiva, attesa fa situazione sopra descritta degli affari, specialmente di amministrazione e di giudicatura, la disposizione dello spirito pubblico diveniva semprepiù sfavorevole al Governo pontificio; che una buona rivoluzione andavasi segretamente formando negli animi e maturando di giorno in giorno, e che oggimai altro non le mancava se non la opportunità di prorompere in aperto e di mostrarsi più terribile di quella, ch'era stata compressa recentemente.»

Lasera del 25 aprile moriva S. Em. R.ma Jacopo Monico, cardinale prete della Santa Romana Chiesa, del titolo dei SS. MM. Nereo ed Achilleo, patriarca di Venezia. Questo trevigiano fu generalmente compianto come uomo di altissimo ingegno, liberale per principii, eruditissimo per dottrina, tenero per lo amore del prossimo. Rimasero di lui varie opere, che sono tenute in grandissima considerazione. Egli mancava a' vivi in quella Venezia, nella quale alcuni incominciavano nuovamente a partecipare dello spirito delle altre città d’Italia, col porre affissi qua e là sui muri della città, ed iscrizioni, considerate provocanti, che dicevano: non si fuma. Per ciò pubblicavansi sui fogli ufficiali lagni e redarguizioni.

Ed eziandio in altri Stati italiani emanavansi sovrani decreti fra' quali merita particolare ricordo quello del Governo di Toscana, il quale racchiude in sé tutte le disposizioni emesse ed adottate negli altri governi. Eccolo:

Noi Leopoldo II ecc. ecc. ecc.

«Considerando che le circostanze speciali nelle quali trovasi attualmente il paese, ed i pericoli che gli vengono creati per l’opera sovvertitrice di non pochi tristi, richieggono, a tutela della pubblica sicurezza, provvedimenti più efficaci e più pronti di quelli, onde, per le leggi vigenti, le Autorità dello Stato sono abititate a far uso;

«Considerando che una stessa ragione consiglia a rafforzare le leggi penali dello Stato in qualche parte, in cui esse non corrispondono bastantemente al loro scopo;

«Sulla proposizione del nostro ministro segretario di Stato al dipartimento dell'interno, e

«Sentito il nostro Consiglio dei ministri,

«Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:

«Art. 1. Le Autorità di polizia amministrativa, nei casi previsti dall’articolo 13 del Regolamento di polizia 22 ottobre 1849, sono autorizzate a sottoporre le persone sospette di criminosi propositi, al sequestro in Pretorio fino ad 8 giorni; od all’allontanamento provvisorio da un luogo determinato sino ad un mese.

«Art. 2. I consigli di Prefettura, previe le debite verificazioni e contestazioni, da farsi sommariamente dalle Autorità di polizia amministrativa, sono autorizzati a decretare, contro chiunque risulti ad essi essersi reso partecipe di trame dirette a turbare l’ordine pubblico, o ad attentare alla sicurezza ed alla libera azione del Governo, o a rovesciare od alterare la Religione dello Stato, la dimora coatta in una qualche determinata località, non esclusa alcuna delle isole del Granducato, per un tempo non maggiore di un anno; ed, ove sembri loro più spediente, anche la reclusione in una fortezza per il suddetto tempo.

«Contro le relative pronunzie dei loro Consigli di Prefettura non compete altro rimedio, fuori del ricorso al ministro dell'interno, il quale per altro non. sospende l’esecuzione delle medesime pronunzie.

«Art. 3. Chiunque rendesi colpevole di pubbliche manifestazioni sediziose contro il Governo, o le sue leggi, o i suoi funzionarli, o la Religione dello Stato, o la forza armata, od una classe di cittadini, sia con parole, o con iscritti, o. stampe circolate, od affisse, o con canti, o con emblemi, o segni, sia in altro qualsiasi modo, laddove il fatto non cada da per se stesso sotto il titolo di un altro delitto, colpito da pena più. grave, è punito dai Tribunali ordinarii colla carcere da tre mesi ad un anno, e più colla sottoposizione alla vigilanza della polizia; e va soggetto, durante il processo, a custodia preventiva,

«Colla, disposizione di questo articolo resta derogata quella dell'art, 93 del Regolamento di polizia del 32 ottobre 1849.

«Art. 4. I nostri ministri segretarii di Stato per i Dipartimenti dell’interno e di giustizia e grazia, sono incaricati, ciascuno per quanto loro spelta, della esecuzione del presente decreto.

Dato in Firenze li 24 aprile 1851.

«Leopoldo.»

Tali erano le misure che si prendevano in Toscana, mentre nel Regno Lombardo-Veneto ed in Bologna erano già da tanto tempo in vigore; e ben lo seppero mille e mille incauti che, come Vittore Antonio Destro di Cavarzere (22 aprile), Meneganziini Angelo di Vicenza (23 aprile), Frizziero Domenico di Venezia (4. maggio), padre Vincenzo Marchese da Genova, dell’ordine dei Predicatori, sfrattato dalla Toscana (4. maggio), conte Corrado Politi di Recanate, ed ab. Dalla Cà, vicentino (G maggio), venivano condannati per possesso di un fucile, a due, a tre, a cinque anni di lavori in fortezza, con ferri; o per impedimento al fumare zigari alle pene corporali, agli arresti militari in ferri, inaspriti, due volte la settimana, con digiuni a pane ed acqua. Queste misure adottate da tutti i Governi davano a divedere che si temevano dei moti d’insurrezione da un momento all’altro. Ciò forse diede motivo, al Re di Nan poli (nello scopo di lenire gli effetti di una politica giunta all’ultimo grado dell’irregolarità) di tramutare (4. maggio) la condanna di morte inflitta a molti detenuti politici in quella dell’ergastolo a vita, o dei ferri per 30 anni. Fra questi infelici annoveriamo: Giovanni Pollari di Palermo, Giuseppe Fiacco di Civita, Tobia Gentile, Filippo Agresti, Luigi Settembrini, Salvatore Faucitano, padre Girolamo Cardinale, Beniamino di Fazio. Ma l’agitazione intanto estendevasi per ogni dove nelle città e nelle campagne, ed in Toscana specialmente, ove le popolazioni si videro deluse dal loro principe (il quale sciolse le guardie civiche, protrasse la costituzione a tempi indefiniti, adottò misure di rigore, strinse leghe e concordati con Roma, con Parma, con Modena e coll’Austria; chiamò ripetutamente le soldatesche austriache) sventolavano le bandiere tricolori, scoppiavano frequenti petardi, circolavano stampati di ogni genere nello scopo di richiamare il Granduca, ed il Governo di lui, al mantenimento ed alla realizzazione delle promesse riforme liberali, che, nel senso costituzionale, erano state giurate.

Accresceva l’allarme, il vampo menato dalla stampa libera del Piemonte, la quale magnificava il protettorato inglese, a cui aspirava, o che erasi raggiunto, come un raggio di salute e di redenzione italiana; e le novelle, che giungevano da Roma (11 maggio), di trionfi della democrazia romana, di odii scoppiati con insulti, e dagli insulti coll'armi, per opera di schiere di pontificii contro i francesi stanziati nella Caserma di S. Carlo ai Catinari, nella regione di Regola. Quella collisione non andò scevra da ferimenti e da percosse: un popolano cadde trafitto da baionetta francese; sedici pontificii, tra uffiziali e soldati, vennero arrestati e condotti, la notte del 12, al forte S. Angelo; tutto il 3. battaglione indigeni fu destinato per altra piazza. Epperò pubblicavasi, il 13, nelle due lingue francese ed italiana la seguente

«Notificazione

«Attentati, gravi e frequenti sono stati di recente commessi a pregiudizio di parecchi soldati francesi, la cui buona condotta e militare disciplina sono da tutti riconosciute e commendate. Tale audacia, per parte dei fautori di disordini, è dovuta alla moderazione di cui si è data prova finora, e ben dimostra la generosità della Francia.

Ma poiché tale generosità non viene apprezzata, Si deve far luogo ad un giusto rigore.

«In conseguenza di che, il generale comandante la divisione d’occupazione in Italia prende le seguenti disposizioni per la città di Roma e sua Comarca.

«Tutte le licenze a portar armi, di qualunque specie, sono rivocate tutte le armi da fuoco e da taglio, nonché i coltelli a pugnale, dovranno essere depositati presso lo stato maggiore della piazza, non più tardi del 17 corrente maggio.

«Trascorso questo termine, verranno eseguite delle perquisizioni domiciliari; ed ogni individuo, che sarà trovato ritentore di alcuna delle armi indicate, sarà arrestato e tradotto innanzi al Consiglio di guerra, onde essere giudicato a seconda delle leggi ordinarie; ed oltre la condanna pronunziata dal predetto Tribunale, il colpevole verrà sottoposto ad una multa di scudi 45 per ciascun’arma, di cui sarà stato rinvenuto possessore.

«I proprietarii saranno responsabili per le armi ritrovate nelle lor case.

«Nel giorno di domenica scorsa, 4 4 del corrente, si osservò buon numero d’individui passeggiare per la città, e particolarmente sulla via del Corso, muniti di bastoni di una tal grossezza, da far credere che racchiudessero armi proibite. Questa specie di minaccia non deve tollerarsi più a lungo.

«Coloro, i quali saranno rinvenuti portatori di simiglianti bastoni, verranno arrestati dalle pattuglie, poste in circolazione a tale scopo, ciascuna delle quali avrà per iscorta degli agenti di polizia.

«I delinquenti saranno ritenuti in carcere fino a tanto che abbiano esborsata la multa sovraccennata di scudi 45. I bastoni di forma sospetta saranno depositati allo stato maggiore della piazza.

«Le multe saranno versate nella cassa del pagatore della divisione, a profitto degli ospedali militari.

«Il comandante la piazza, il prefetto di polizia ed il comandante la gendarmeria sono incaricati della esecuzione della presente Notificazione, per l'osservanza della quale, il sottoscritto generale richiede la cooperatone di tutti gli ufficiali e sottoufficiali dell’armata, i quali, facendo rispettare l’uniforme francese, eserciteranno un loro diritto, ed in pari tempo adempieranno ad un loro dovere.

Dal quartier generale di Roma li 12 maggio 1854.

Il generale Comandante la divisione di occupazione.

A. Gemeau.

Seguirono questa Notificazione molti arresti, molte condanne, alcune fucilazioni, molte perlustrazioni per le vie, e per le famiglie, che misero lo scompiglio nella cittadinanza. Altre notificazioni di simil genere furono pubblicate in tutte le città pontificie.

Lacittà di Nizza, nei giorni, 12, 20, 21 fu il teatro di mille vessazioni, e di forti agitazioni. I nizzardi, sentendosi minacciati di un decreto per l’abolizione del portofranco, montarono sulle furie, fecero una protesta al Gabinetto, sottoscritta, in poco spazio di tempo, da migliaia di firme, e la indirizzarono a Torino, chiedendo "giustizia alle camere pei conculcati loro diritti. Seguirono molti arresti; i circoli vennero chiusi; la milizia percorreva la città di giorno e di notte; molti cittadini fuggirono in Francia; Villafranca faceva una dimostrazione in favore del portofranco; l'intendente di Nizza pubblicava proclami per ricondurre gli spiriti agitati alla calma, all’ordine; fu revocato ai signori Avigdor e Cartone l'exequatur della loro carica di consoli di Potenze estere; Gioan fu dimesso dal suo grado di luogotenente giudice; Avigdor arrestato; Cariote fuggito su pei tetti; grandi assembramenti di popolo al palazzo municipale ed alla porta della prigione; alte grida di viva Avigdor I, indi il canto della Marsigliese; si voleva sfondare la porta della prigione; accorsero la truppa e li Guardia civica; gli assembramenti furono dispersi; il Circolo commerciale chiuso; il consiglio municipale prorogato; il giornalista Dameth sfrattato. Nizza fu calma; assicurata dal Governo che i suoi diritti sarebbero stati considerati.

Un altro avvenimento non per diritti di porto franco, d’interessi, di finanze, di dogane, ma sibbene di uri aspetto tutto politico. accadeva a Firenze la mattina del 29 maggio nella chiesa di Santa Croce.

Tutti gli anni, in quel giorno, i fiorentini accorrevano in massa a quella chiesa, nell’intento di gettare dei fiori sui martiri di Curtatone, i cui nomi erano colà iscritti. L’Autorità granducale, volle proibire in quell’anno, la consueta devota dimostrazione; ma i cittadini, appunto perché vietata, vollero farla con maggiore solennità e concorso. Ma la polizia mise qua e là nella chiesa' dei gendarmi trasvestiti, un picchetto al di fuori, ed una piccola schiera di tedeschi ad uno dei fianchi. Venne l’ora. Oltre 3000 persone trovavansi in Chiesa. Alcuni gettare no dei fiori sopra quelle iscrizioni, ma due caporali travestiti intimarono loro di desistere. Quelli non vi abbadarono; i due caporali mostrarono allora la loro placca e fecero la intimazione a nome della legge. L’indignazione si destò in tutti; quei caporali furono costretti a ritirarsi. Intanto una turba di cittadini, muniti di manzi di fiori, volevano entrare in chiesa, ma la milizia si oppose colle baionette. I cittadini corsero alle pietre, ai bastoni e tempestarono quei soldati. Nella chiesa si combatteva, fuori della Chiesa si combatteva. Nella pressa, nella folla, chi cadeva, chi urtava, chi restava schiacciato: molte donne furono compresse; gendarmi, soldati e cittadini caddero nella mischia. Si tentò dai cittadini di sforzare la porta della vicina caserma, ma furono respinti. Si spararono dei fucili e delle pistole; dodici cittadini vennero arrestati, altri fuggirono, altri furono portati all’ospitale; collisioni e ferimenti da una parte e dall’altra. Si terminò cosi quel memorabile giorno collo spargimento di molto sangue; mentre invece, se quel Governo fosse stato prudente, si sarebbe compiuta, come negli anni scorsi, la pia funzione, senza, il lacrimoso disordine che narrammo, e che destò sensi di raccapriccio in tutta la Toscana. Quel fatto portò moltissime vessazioni alla nobiltà fiorentina, chiamata (perché imputata, o almeno sospetta, di averne avuto parte) agl’interrogatori! del processo criminale istituito in proposito.

Gli assassina politici, commessi da mano ignota a Roma, a danno del cancelliere di Consulta Marco Evangelisti e di Agostino Squaglia, Cesari impiegato, ed Oriundi; l’altro in Milano (25 giugno) nella persona dei medico in capo della Delegazione provinciale, dott. Vandoni, ponevano, la situazione sociale in uno stato altamente compromettente. Ogni arte veniva usata dai partiti per, riuscire nel loro scopo, perfino la satanica invenzione di cangiare i zigari in tanti piccoli petardi, colla introduzione del nitrato d’argento, che scoppiava al loro accendersi. Vari! soldati francesi, pei primi in Roma, reslarono vittime di quella invenzione. Il Governo romano intanto chiedeva (50 giugno) ai Reggenti la Repubblica di S. Marino di espellere dal proprio territorio gli emigrati politici colà riparati, ed avvalorava la sua domanda colla minaccia di andarseli a prendere, in caso di rifiuto. Quella Repubblica si piegò, accondiscese; è due compagnie del reggimento guardie, con varii distaccamenti di gendarmi pontificii, coadiuvati dalle truppe imperiali, sotto il comando del generale Marziani, entrarono in S. Marino. I rifugiati vennero espulsi da quell’asilo sicuro e tranquillo, e scortati sino a Rimini, cacciati; in più lontano esilio. Quegli infelici, da Rimini, furono; portati a Livorno, per essere imbarcati per l’estero. Questa misura fu presa, perché tanto il Papa, quanto l’Austria,: temevano la vicinanza di quegli emigrati, che, in numero non piccolo, si erano rifugiati sotto l’egida di quella Repubblica. E tanto più temevano, in quanto che vendevano il Piemonte farsi ogni di più forte dell’influenza e del potere dell’Inghilterra. Questa potenza, sempre pronta ad accorrere là ove sperava trovare interesse, legata col Piemonte con trattati di commercio, di navigazione, d’industria, favoriva il movimento italiano contro la Santa Sede, contro l’Austria; e già teneva stamperie clandestine in Toscana, (le quali furono poi scoperte e sequestrate da quel Governo) ed agenti per ogni dove, intenti ad animare la propaganda religiosa inglese, svendere le sue derrate, ad approfittarsi di ogni occasione per portar incagli ai nuovi sistemi di amministrazione, che l’Austria prometteva ai Lombardo-Veneti; e per favorire( )il Piemonte, sostenendo la idea di rigenerazione italiana. Il Piemonte lasciava facesse, perché vi aveva il suo tornaconto politico, e perché stava, appunto in Inghilterra, negoziando un prestito di 75 milioni. L’Austria quindi,( )che tanto aveva agito per impedire la influenza francese in Italia, allora lavorava alacremente, onde la influenza( )inglese non avesse a piantare nella Penisola troppo profonde radici.

E come l’Austria aveva dato mano per espellere gli emigrati dalia Repubblica di S. Marino, cosi faceva pratiche onde persuadere il Piemonte a far altrettanto. Per vero dire, erano affluiti in Piemonte, fino dall’anno 1848 oltre a 300,000 uomini da tutte parti d’Italia, Ungheria e Germania. Ma agli 8 luglio di questo anno, il numero che Vi stanziava non ascendeva a 40,000; numero però sufficiente per far tuttavia temere l’Austria. Il Piemonte non per aderire ai desiderii dell’Austria, ma sibbene perché, dovendo mantenere tanta gente, le sue finanze non potevano prosperare, si determinò di spedirne alcune colonie a Montevideo Ma la Spagna protestò, temendo che gli italiani andassero a favorire ed appoggiare l'invasione degli Stati Uniti all’isola di Cuba, e gli agenti di Rosas protestarono pure, temendo in quelle spedizioni un rinforzo militare per Montevideo, col quale era il Rosas in guerra. Queste colonie quindi non ebbero luogo. Ma ebbero vita bensì nuovi assassinii politici nello Stato pontificio. 1145 luglio in Imola un cancelliere di Vergato venne stilettato; in Rimini fu ferito un carabiniere, mentre staccava dai muri una satira di senso politico; Tavioli, pure in Rimini, ricevette una pugnalata perché fumava; in Faenza il tenente Moschini fu stilettato; accorsero i gendarmi e fecero fuoco sui passanti; varii cittadini rimasero feriti. Il venerdì del 14 luglio fu gittata una granata nella casa di monsignor Tizzani, a Roma: all’indomani degli affissi invitavano i romani a vederne le rovine, e dicevano: se il monsignore non fosse per caso restato ucciso, egli vedeva la fine che l’attendeva, A Napoli intanto, in un anno, furono mandati al carcere 466 sacerdoti per colpe politiche, ed ai ritiri religiosi oltre 3000 per lo stesso motivo.

Mentre in quei luoghi si vedeva la povera umanità andare al macello per opera di una troppo tesa politica di repressione da parte di quei governi, e di una troppa estensione presa dai partiti avidi di riforme e di libertà, in Venezia, il 24, fra il fragore delle artiglierie, (lavasi il segnale del porto franco attuato,. Contemporaneamente a Napoli, a Firenze ed a Roma vociferavasi fosse giunto un dispaccio di Nesselrode, cancelliere. dell’impero russo, nel quale veniva. offerto l’appoggio delle tre potenze del Nord nel caso di movimenti rivoluzionarti in Italia. Sotto l’aspetto di mantenere, la calma in Europa, tentavasi di stringere la santa alleanza e di persuadere l'Inghilterra a farvi parte. Ma i tentativi riuscirono vuoti d’effetto. Le dimostrazioni. Intanto aumentando nella Lombardia, il feld-maresciallo Radetzkv, governatore generale civile e militare, trovava necessario di pubblicare in Milano un nuovo suo proclama (25 luglio), nel quale diceva «ch’egli era fermo nella risoluzione di troncare una volta per sempre quelle trame torbide e secreto, colle quali tentavasi di spargere il disordine nelle città, e le ostilità contro le leggi e le autorità dello Stato; che se qualche Comune per debolezza, per viltà o cattiveria lasciasse libero campo ai nemici dell’ordine legale, esso avrebbe a sentire tutto il peso del suo rigore. Imperciocché in caso simile, avrebbe tenuto solidariamente responsabile l’intiero Comune e. lo avrebbe obbligato, coi mezzi estremi di severità, alla consegna dei rei e loro complici. Epperò trovava di far cessare indotto il Regno tutte le mitigazioni introdottesi, e dichiarava nuovamente in vigore lo stretto stato d’assedio, contenuto nel suo proclama 40 marzo 1849.» Quel proclama radetzkvano sortiva contemporaneo al trattato di navigazione e di commercio conchiuso tra la Sardegna ed il Re dei Paesi Bassi, dopo di averne già il Piemonte conchiuso altri coll'Olanda e cogli Stati Uniti d’America, mentre l’Austria ne conchiudeva uno colla Baviera. In quei tempi quei trattati avevano un carattere politico, epperò noi ne teniamo nota. Il Piemonte per quei trattati acquistò grande importanza, la quale si diffondeva nelle altre parti d Italia ad aumento della influenza che vi esercitava. Questa sua influenza, come era un frutto delle sue libertà, così, frutto di quella libertà trasmodata, era eziandio la corruzione che in alcune parti di quel Regno andava sempre più aumentando. E noi amiamo, mentre le grandi Società operaie, colà istituite sopra una base assai grande, partivano per la esposizione di Londra, di riportare il non dubbio risultamento di quel la corruzione nei reati commessi nell’isola di Sardegna dal gennaio al 31 luglio 1851

Omicidii

100

Spari

300

Ferite

250

Grassazioni

25

Furti

230

Incendii

400

Porto d’armi in contravvenzione alla legge

92

Totale dei reati

1147

Altri reati non comuni, ma di un carattere politico, venivano condannati, infliggendo la pena di morte ai loro autori, il 4 settembre dai tribunali di Napoli. Fra questi infelici, in numero di 18, contavansi 10 ex deputati, 2 ex ministri un ambasciatore e due preti. L’assessore generale di polizia Dandini veniva ferito in Roma da mano ignota, ed il sig. Guagni ucciso: altre due vittime politiche. La gendarmeria austriaca nei mesi di maggio, giugno e luglio, anno corrente, in tutte le provincie eseguì:

Arresti e scortamenti

N

43877

Accompagnò (all’estero) viaggiatori

I

567

Prestò assistenza a pratiche giudiziarie per volte

4

4594

Inoltre fece le seguenti operazioni

Arresti

Per rapina Individui

N

225

Per omicidio

»

445

Per furto e truffa a

»

7176

Per appiccato incendio

»

80

Per falsificazione di monete

»

42

Per falsificazione di carte pubbliche

»

17

Per contrabbando

»

676

Per eccitamento al tumulto

»

187

Per perturbazione della tranquillità

»

7771

Per giuoco d’azzardo

»

265

Per sospetti politici

»

17393

Per fuga d’inquisiti

»

1495

Per fuga di condannati

»

143

Per possesso d’armi proibite

»

816

Per mutilazione di sé stessi

»

19

Per diserzione

»

646

Per insecuzioni in forza di circolari d’arresto

»

208

Per falso arruolamento

»

45

Per fuga all’uopo di sottrarsi alla coscrizione

»

465

Per contravvenzioni di caccia e pesca

»

1065

Per vagabondaggio

»

462

Per ferimenti mortali

»

86



39421

Riporto


50421

Per furti con rottura

»

35

Per contravvenzioni a misure politiche

»

1542

La gendarmeria rinvenne cadaveri

»

360

Feriti

»

139

Totale, in tre mesi, individui


44497

La gendarmeria venne pure citata dinnanzi ai tribunali civili come testimonio, in 871 caso; fu adoperata in perquisizioni domiciliari 3276 volte; in tassazioni di comuni 420; in esecuzioni di sentenze 60; in incendii 717; per 4 inondazioni 116; e nella coscrizione 103 volte. Finalmente avvennero 16 casi di uccisione per uso delle armi in casi di opposizione, e contro tentativi di fuga.

Da questa statistica, da cui rifugge l’animo nostro e che attesta con raccapriccio la corruzione di quei popoli, di quei tempi, allontaniamo ormai la nostra attenzione, ed invece cerchiamo un conforto ad una cotanta onta alla morale, all'umanità, alla civilizzazione, col dedicare qualche cenno alle brillanti feste, nelle quali Genova trovavasi immersa e trasportata. Partirono da quella città le truppe, che, sotto gli ordini del generale Lamarmora, due anni prima, avevanla presa d’assedio e bombardata. Questa partenza diede campo a mille allegrie e festività, a lauti banchetti, a brindisi entusiasti, anche in senso repubblicano, a feste da ballo, tripudii tutti offerti alla ufficialità, che stava per partire, in segno di fratellanza. Genova, partita la truppa, restò nelle mani della Guardia cittadina.

Il giorno 5 settembre giungeva a cavallo in quella ligure capitale il Re Vittorio Emmanuele, accompagnato dal duca di Genova, dai suoi ministri, meno La marinara, dal suo stato maggiore e da gran numero di carrozze dei cittadini, che lo avevano fino allora atteso alla Lanterna. Genova, in quella circostanza, vesti le sue contrade, i suoi palazzi, i suoi templi, i suoi teatri a festa: la gioia era universale. Il Re condonava la pena dei marinari condannati per reati d’infrazione alla disciplina, visitava a piedi la città sfarzosamente illuminata, assisteva agli spettacoli del Carlo Felice, fra i plausi del festante numeroso concorso. Tutti i periodici dello Stato, perfino il giornale di Brofferio, parlarono dell’entusiasmo immenso e sincero col quale dai Genovesi veniva accolto il Re, ma rimasero muti i giornali repubblicani. E mentre il Re Vittorio Emmanuele giungeva a Genova, i suoi operai della Liguria e del Piemonte giungevano a Londra, per la via di Southampton, accompagnati dal loro Comitato. lì cav. Lencisa ed il deputato Torelli, membri di quel Comitato, prendevano gli opportuni concerti colla Direzione dell’Esposizione, ed il colonnello Reid (che noi salutavamo come governatore di Malta) offri loro una apposita stanza nel Palazzo di Cristallo, destinando, per loro assistenza, il capitano Òwen. Il giorno 5, giorno dell’ingresso del Re Vittorio a Genova, il marchese Massimo d’Azeglio, ambasciatore sardo a Londra, dava agli operai un suntuoso asciolvere, pronunziando un allocuzione di circostanza, che venne grandemente applaudita.

Nello stesso tempo che S. M. Vittorio Emmanuele, visitava Genova, avea S. M. l’imperatore d’Austria determinato di visitare per la seconda volta, la Venezia e la Lombardia, Epperò veniva pubblicato il giorno 44, in Milano, il seguente itinerario di viaggio col titolo: Soggiorno di S. M. Imperatore in Italia, nell'autunno 1851.

Il

14

settembre

Domenica; Passaggio per Venezia, arrivo in Verona, rivista delle truppe.


15

»

Lunedi in Verona


16

»

Martedì in Verona


17

»

Mercordì in Mantova e ritorno e Verona


18

»

Giovedì, in Peschiera e Riva


19

»

Venerdì in Monza


20

»

Sabato in Monza


21

»

Domenica,Rivista a Milano


22

»

Lunedi, in Monza


23

»

Martedì, in Como


24

»

Mercordi, in Monza.


25

»

Giovedì Al Lago Maggiore, Somma e


26

»

Venerdì Monza; manovre di cavalleria


27

»

Sabato, Manovre di tattica e pranzo al bivacco


28

»

Domenica, Ricognizione o caccia


29

»

Lunedi, Manovre di campo, e pranzo al bivacco


30

»

Martedì, Manovre di campo e ritorno a Monza


1

ottobre

Mercòrdi, Incomincia il viaggio di ritorno

S. M. l'Imperatore Francesco Giuseppe giungeva a Venezia sulla Marianna alle 7 della mattina del 14, passava ih rivista le truppe schierate in Piazzetta e nella Piazza di S. Marco, ed indi, accompagnato dal feld-maresciallo conte Radetzkv e da Molto seguito militare, clericale ed uffiziale, montò la semplicissima gondola, e si ridusse alla stazione della strada ferrata, il popolo accorreva in folla e numeroso. Le dimostrazioni della città di Venezia: furono in quella circostanza, quali si addicevano a città cortese, ed ospitale, che riceveva fra le sue more un personaggio di tanta grandezza.

Salutato dal Municipio e dal Clero di Padova e di Vicenza S. M. l’imperatore giungeva il 15 a Verona. Tutti i fogli ufficiali del Regno Lombardo-Veneto, della Toscana, dello Stato. Pontificio, delle due Sicilie, di Parma e di Modena, dedicarono molte delle loro, colonne per far conoscere l’entusiasmo delle popolazioni delle città di Verona, Brescia e Milano visitate dall’imperatore. A quel tempo i fogli liberali d’Italia non ne fecero, cenno mentre quelli di Piemonte invece riportavano corrispondente di Milano,idi. Brescia. e di Verona le quali lodavano con tutta la forza del loro sentire la freddezza di.. quelle popolazioni.

Tali, essendo. le diverse relazioni della pubblica Stampa,di quei giorni intorno al ricevimento ottenuto da S M. l’imperatore nel Regno Lombardo-Veneto; noi diremo, che ambe le parti trascendevano in un modo esagerato. Però Milano, in quei giorni, (né l’ignorava quel Municipio, che votava somme per le feste imperiali), aveva ancora un debito di lire 6,500,000, malgrado che la sovraimposta comunale fosse stata aumentata da 7 centesimi a 18, ed i dazii addizionali fossero accresciuti del 25 per cento. In quei giorni. il Regno Lombardo-Veneto. veniva funestato della condanna di morte (che fu poi tramutata in due anni di carcere) del conte Alessandro Arrivabene di Mantova, tenente rinunciatario del reggimento d’infanteria conte Haugwjtz, e redattore del giornale, il Mincio, per avere scritto e diffuso un articolo intitolato: Gli agitatori secreti; condanna che fu slanciata nelle popolazioni da quel comandante la fortezza, barone Schulzig, il 15 settembre. Diremo in fine, che i Lombardo-Veneti ave vano ancora sotto gli occhi molli di lagrime, la relazione, allora allora giunta in Italia, dei patimenti sofferti dai loro fratelli emigrati in Grecia; e per troppa foga d’affetti sgorgati dal cuore, si sentivano affranti dal più intenso dolore.

E difatti giungeva allora la relazione, stampata a Torino, sulla sorte di quei miseri ch’esularono in Grecia, e passata da mano a mano clandestinamente, veniva letta con avidità e raccapriccio. Quella relazione partiva dal Comitato di emigrazione, istituito in Sira, ed era diretta al Parlamento Sardo. Noi ora ne offriamo alcuni brani.

«Se si volesse dipingere lo stato dei miseri italiani che abbandonarono la terra natale, verrebbe meno la lena, né troverebbersi condegne parole per copia soverchia di diversi affetti. Ira dignitosa e magnanimo cordoglio signoreggiavano, più che ogni altro affetto, quei visi e quei cuori affranti, meno dai disagi delle sostenute guerre, che dall’orribile idea di distaccarsi dalla patria, forse per non rivederla più mai, nel momento in cui il vento favorevole allontanava da Genova. A questi affetti succedevano quindi le querele, i lamenti, le lagrime, gli atti di desolazione, e quinci tutto finiva in un alto grido, in un addio all’Italia! E mano mano che il vascello allontanavasi e che Genova impiccioliva, l’angoscia cresceva e la ferrea realtà del commiato e del distacco stringevaci ed impietravaci cosi, da farci muti, mentre il cuore volava ancora, sulle ali del pensiero, all’amplesso dei parenti e degli amici derelitti. Ella era dura cosa quel sogguardarci l’un l’altro, quel sospirar frequente, quello stringerci l’un l’altro la mano, senza pronunciar verbo: parea un funebre convoglio che si avvicinasse alla tomba! — La maggior parte scalzi, altri cenciosi, altri perfino senza camicia, incominciavano a patire gli stenti dell’esilio. Oh! quanto erano rispettabili gli augusti cenci che coprivano letterati, avvocati, medici, chirurghi, farmacisti, e professori di ogni genere d’arte bella ed utile, tutti nobili avanzi delle eroiche battaglie dell'indipendenza.

«Ci cibavamo tre volte al giorno, alle 7, alle 12, alle 5 pomeridiane, alternando di giorno in giorno il cacio salalo alle sardine, e queste a quello, poco essendo il vino, poche fiate la minestra, decomposta quasi sempre l’acqua. Qualcuno Soltanto fu esente dal mal di mare.

«Alle isole Capraie una calma peggiore della burrasca ci fece sostare, se non indietreggiare, per quattro giorni Sino gli elementi congiuravano contro gl’italiani, e per qual delitto? Mio Dio per aver voluta salva la patria!

«Li 8 ottobre alle 6 antimeridiane, dopo 18 giorni di patimenti e di affanni ancoriamo al Pireo. Ognuno di noi credeva di porre il piede a terra, ma cosi non fu....

«Il giorno appresso giungemmo avanti a Sira e gittammo l’ancora Tre lunghi giorni abbiamo passato a bordo in un’amara incertezza, in un’attesa crudele, se si, o no ci fosse concesso asilo Al quarto ci fu posto avviso di passare al lazzaretto per la quarantena il desio di toccar terra era grande nella turba, come era pur grande il bisogno in chi di ristoro, in altri di riposo, in tutti di reficiamento. Imperciocché il cibo poco nutritivo e meno omogeneo, l’aria del mare si umida, il movimento ondulatorio e sussultorio del vascello, il dormire sul nudo legno ed a cielo scoperto;, il non far moto, gli aspri disagi insomma di si lungo viaggio, ci avevano, resi si pallidi, sparuti e deboli da: sembrar corpi usciti allora: allora dal sepolcro....

«Il primo accoglimento che i cittadini di Sira offrirono agli esuli italiani, sparse nel cuore di questi non che la gioia, un pienissimo assopimento dei mali sofferti ed il miglior balsamo sulle proprie piaghe. Per la qual cosa, se avevano perduta la patria cui tanto amavano, abbandonati i genitori, i fratelli, gli amici a cui tanto dovevano, un'amica speranza loro diceva: la Grecia è patria vostra, i Greci sono vostri fratelli!...

«Ma cinque giorni soltanto una si bella; speranza lusingò il nostro cuore; cinque giorni soltanto brillò. su noi il bel sole d’Oriente, perché gli animi greci si cangiarono inattesamente, repentinamente, ed a quella speranza quindi. succedette il duro disinganno, ed a quel sole le nordiche tenebre

«Il Governo greco ed i greci dicevano:

«Di quali paesi sono codesti emigrati?

«Non sono eglino della Lombardia e della Venezia?

«Non sono queglino stessi che combatterono la guerra dell'indipendenza sotto le bandiere di Gasa di Savoia?

«Il Piemonte non ha forse incontrati, seco loro degli obblighi sacrosanti?

«E perché dunque cacciarli?

«E possiamo noi considerare come emigrati politici gli italiani che ci vengono mandati dal Piemonte?

«Noi abbiamo aperto asilo agli emigrati, politici, ma non agli uomini che al Piemonte piaceva spedirci! Se il Piemonte non se li ha tenuti perché turbolenti, per la stessa ragione noi non li vogliamo. Se egli ce li ha regalati per non essere obbligato di darli all’Austria, noi, nell'atto che non commentiamo tale risoluzione, ci sentiamo anche in potere di Domandare. Perché non li ha anche forniti di mezzi di sussistenza? Perché ih Governo sardo non si è aperto in comunicazione col nostro Governo? E la nostra nazione-sì povera, dovei mantenerci figli di una nazione ricca, speditici dal Piemonte? Se questa spedizione fu un fallo del Governo sardo, dovranno:su noi pesare gli effetti di quel fatto.

«Appoggiati a queste ragioni il Governo greco e di greci obbligarono colla forza gli emigrati a lavorare la terra, a portar pietre in Atene, a Sira, a Santorino, al Calcide, a Lamia, al Negroponte, come i rei di alto tradimento condannati ai lavori forzati nelle imperiali miniere di ferro di Nertschink 25 leghe al nord della Siberia...»

Che se la sorte di quegl’infelici italiani fu dura, non meno crudele si fu quella di un illustre romano colpito da tre-condanne nello stesso tempo, fi giorno 26 settembre leggevasi al colonnello Calandrelli la sentenza della Consulta, che lo condannava a morte come deputato alla Costituente, a 15 anni di galera con reo di pubblicazione di alcuni libercoli, a 5 anni di lavori-pubblici come detentore di armi. Graziato della vita venne trasferita, nelle galere di Ancona. Tal grazia, della vita-ebbero, pure i signori Mengacci, padre e figlio, il Capitano Galante alcuni gendarmi e due preti, non per essere stati colpiti da condanna di morte, ma sibbene perchè, essendo eglino tutti considerati come altamente attaccati al Governo papale, furono presi di mira; ed appuntata contro di loro una macchina infernale, in piazza Havonai,(:) poco mancò non ne restassero vittime. Questa macchina era stata posta in un cesto da due uomini, ohe ne avevano, anche accesa la miccia, e consisteva in un tubo di legno cerchiato di ferro, con entro 24 palle, 40 chiodi e molti frantumi di vetro, unitamente a 4 libbre di polvere. La miccia fu fortunatamente spenta da un gendarme. Intanto che a Roma si lavorava incessantemente nelle ostilità contro quel governo, adoperando stili e macchine infernali, a Napoli usciva in luce un libro alquanto esagerato del sig. Gladstone, britanno, autore da una penna a due tagli, atta a colpire nella pubblica opinione il governo ed il Re delle due Sicilie. Quel libro appoggiato e raccomandato alla posterità con molto calore dal Risorgimento di Torino, venne poi commentato da un altro opuscolo, forse dettato dallo stesso Governo napolitano, venuto in luce dalla stamperia del Fibreno. Quell'opuscolo aveva lo iscopo di negare tutto ciò che Gladstone e Palmerston avevano asserito, trattandoli da romanzieri, accusatori, libellisti. Quel libro del sig. Gladstone accusava il Governo di Napoli; di aver soffocata perfino la idea della indipendenza italiana; di aver tenuti chiusi in carcere 30,000 prigionieri politici, accusati 500; di aver abbreviatoti processo dei delinquenti, di stato, colla ommissione di molte forme, la. maggior parte utili, per la difesa dell’accusato. Perciò in quel caso, ben 40 persone furono private dei mezzi di difesa collo scopo di far presto. Il sig. Gladstone chiamava sotterranee bolge le carceri della Vicaria; diceva che Michele Pirone passasse le lunghe notti, e le intiere giornate in una cella della Vicaria, della superficie di due metri e mezzo, di sotto il livello del suolo di essa, e non rischiarata che da una piccola inferriata per cui non potea veder nulla. Indi difendeva il Poerio, accusando il Governo napoletano di giudizii arbitrarti, ed i magistrati d’iniqua sentenza, ed assicurando che nessun nome era sì caro, come quello di Carlo Poerio, a' suoi concittadini napoletani, e che non aveva mai udito alcuno ad accusare il Poerio di altri errori. politici se, non di. quelli che si potrebbero imputare ai più leali, intelligenti e degni statisti inglesi.

Egli passava indi alla descrizione del bagnò di Nisita, ove prima fu introdotto Poerio, e faceva venire i brividi del terrore e del raccapriccio quando malediceva all'uso introdotto per la prima volta, a danno del Poerio, d'incatenare a due a due i condannati. Parlava anche del Settembrini, e diceva, che serbavasi a ben più dura sorte, a' doppi [erri in vita sopra una remota ed isolata rupe. Vi è inoltre, diceva, ogni ragione di credere, ch egli venga assoggettalo a fisiche torture. Ritornava indi su Poerio e lo diceva precipitato in più orride calamità, perché da Nisita condotto ad Ischia. Tempo fa, esclamava, esasperati, del come trattavansi, i reclusi nella prigione di stato d'Ischia, si rivoltarono e si sforzarono impadronirsi di essa. La maniera con cui si sedò la sollevazione fu la seguente. I soldati che v'erano a guardia gittarono colla mano granate tra i prigioni e ne uccisero 175 e fra questi 17 invalidi, che erano nell'infermeria, e non avevano preso parte alla rivolta.

Il libro del sig. Gladstone destò grandissima sensazione di orrore in tutta Europa; quando invece destava una dolce sensazione la Notificazione del feld-maresciallo Radetzky pubblicata in Venezia il 7 ottobre colla quale condonava la pena a tutti gl'individui del ceto civile delle provincie Lombardo-venete che per traviar menti politici, commessi durante l’esistente stato d'assedio, si trovassero in arresto, eccettuati quelli che, mediante sentenza giudiziale, fossero già stati condannali ad una pena maggiore di un anno d arresto militare, ed altresì quelli che fossero stati condannati a scontare la loro pena in una fortezza.

Lastampa liberale di Torino incominciava a scatenarsi contro quel governo, perché vedeva minacciarsi di un avvicinamento coll’Austria, mediante trattati di dogane e di strade ferrate; e con Roma sulla questione religiosa; e perché seppe che Kossuth ebbe ordine di allontanarsi dalla Spezia, ove era approdato, e perché in fine intese, che dalle autorità competenti erasi dato l’ordine di. non ricevere più nei regii Stati sabaudi i rifugiati politici, se mai, senza il visto dei Consoli sardi sui loro passaporti, si fossero presentati ai confini. E mentre si coltellava a Roma un abate Chiassi, s’innalzava in Torino un tempio protestante; si decretava dal ministro dell’istruzione pubblica, cav. Farini, lo insegnamento libero; si votava dalla Camera la somma di lire 60,000 per la emigrazione; non si studiava più nell’Università, ma sibbene nei seminarii, la teologia è la filosofia pei chierici; si pubblicavano dal Perego i Misteri repubblicani, libro che comprometteva molti ragguardevoli personaggi; usciva alla luce il Rinnovamento civile d’Italia dell’abate Gioberti ex ministro; si protestava dai vescovi di quello Stato per la erezione del tempio, de' protestanti; e pubblicavasi in fine Un’Enciclica di S. S. Pio IX colla quale veniva comandato all'orbe cattolico un Giubileo.

Il colpo di Stato del 2 dicembre del Napoleonide fece agitare, ma senza conflagrazioni, tutta Italia e tremare i Governi conservatori. E già Filangieri, ministro della guerra a Napoli, ordinava venissero osservate le coste della Sicilia, ed assicurata Capua con,un presidio militare di osservazione. E già Lamarmora, ministro della guerra a Torino, assicurava i confini con forti distaccamenti al di quà ed al di là del Varo, a S. Isidoro, e ad Annecy. Si temeva quasi generalmente che la rivoluzione francese ne provocasse un’altra in Italia, Savoia e Genova erano in agitazione assai viva. Venivano sospese le, maschere nella Toscana e nel Piemonte. Si prendevano misure per frenare alquanto la stampa. Il movimento cresceva nella Liguria e nel Nizzardo; tanto nelle caserme, come nei forti Trasporti di cannoni da un luogo all’altro; soldati consegnati nei quartieri, ed il seguente ordine del giorno proclamavasi dai fogli repubblicani:

«Soldati

«Siete 'prevenuti che il segnale d’allarme sarà annunziato alla guarnigione con sei colpi di cannone, sparati due per duè, àd un minuto d’intervallo ciascuna copia di colpi; più con inalberarsi, sulla torre del palazzo ducale la bandiera nazionale, con una o due bandiere turchine al disotto; e se di notte tempo, coi detti spari, di sopra, e sulla stessa torre con lume rosso

«Al segnale dell’allarme, tutt’i militari, si ufficiali che soldati, devono all’istante raggiungere le caserme evitando gli attruppamenti di persone.

«Nei quartieri la truppa preparerà le armi e le munizioni, e si terrà disposta ad agire al primo segnale che le verrà dato.»

Questo proclama non essendo sottoscritto da alcuno. faceva supporre delle(:) intelligenze tra la truppa ed i cittadini. Già i repubblicani speravano sorgesse un’aurora rischiarata per essi da felici risultamenti; già i liberali speravano che il Napoleonide restasse vittima dell’altissimo suo ardimento, in pena delle spedizioni di Roma, che venivano considerate come inique. In Livorno scoprivasi una società secreta, organizzata sino dal 1850, composta di un comitato direttivo, di sezioni, di squadre e di affigliati, avente lo scopo di procurare i mezzi per una sollevazione armata, onde atterrare il governo monarchico granducale di Toscana, ed attivare invece la repubblica democratica. Organo di questa società era il giornale l’Apostolo, il quale aveva la missione di diffondere i principii onde era animata la società stessa, di accrescere il numero dei socii, de' quali moltissimi si trovavano nel Canton Ticino, nelle Due Sicilie, in Francia, nella Svizzera e nella Liguria. Ma quella Società fu scoperta, e. si condannava il 22 dicembre, i capi di quella società colla pena di morte, che venne poi tramutata in 12 anni di carcere duro. 1 condannati furono 47.

I repubblicani di Genova si disponevano già ad una sacra funzione: volevano far celebrare un uffìzio funebre pelle anime de' loro confratelli, morti sulle barricate di Parigi nei giorni 5, 4, 5 dicembre, ma quella Intendenza, avvedutasene, disperse il religioso atto. Anche il console francese, residente in allora a Genova, corse il pericolo di cadere vittima di una patriottica dimostrazione repubblicana, ma la polizia della città sventò la rea intenzione.

Colla felice riuscita del colpo di Stato in Francia, svanirono le teme di una rivoluzione italiana nei Governi conservatori, e le speranze di uno sconvolgimento politico negli italiani.

Lo stato quo continuava a regnare, sorretto dalla forza.


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CAPITOLO VI

L’anno 1852

Le ceneri dell’anno caduto, erano rosse ancora del sangue dei commessi assassinii politici, brutte dalla tabe delle nequizie del potere e della corruzione pubblica la quale ovunque inalberava truce e spaventoso il suo micidiale vessillo. E quella corruzione partila da tante diverse fonti aveva una sola direzione, un solo scopo ed era emanata dai due opposti principii esercitati in modo soverchio, libertà e compressione.

Fu quindi politica del governo sardo lo spingere la libertà in Piemonte a tale estensione da oltrepassare ogni limite, affine potesse far breccia nelle masse dei popoli delle altre parti d’Italia, sapendo che soltanto l’accarezzamento delle passioni estreme poteva esercitare ovunque un vivo potere. Ma quella politica, nello stesso tempo che teneva agitate le masse dei popoli italiani, nello stesso tempo che suscitava mille aspirazioni, che a lor tempo scoppiavano poi qua e là con moti nazionali d’insurrezione, portava anche nel suo estremo esaltamento, la dissoluzione morale in ogni ente della società. Epperò, e clero, e tribunali, e dicasteri, e circoli, e società e famiglie erano avvolti nei vortici della corruzione, la qua le dava origine ai lamentati fatti di Nizza, di Genova, di Ciamberì, e di Cagliari.

Fu quinci politica invece degli altri principi in Italia, lo spingere talmente la compressione da oltrepassare ogni limite, affine di consolidarsi nei loro seggi colla forza, e di spegnere pur colla forza, al primo suo alitare, ogni sentimento di nazionalità, ogni conato d’insurrezione.

E questi moti d’insurrezione nazionale, cotanto temuti dai principi in Italia, non poterono mai essere del tutto repressi dalla forza, per quantunque venisse esercitata nel suo estremo grado. Imperciocché surse, fra le dite parti combattenti (governati e governanti), la gara di cozzare gli uni contro gli altri senza tregua, senza respiro, per mantenere un principio di diritto, nei primi naturale e nazionale, nei secondi acquisito dai trattati e serbato colla forza. Questa gara, prodotta nei primi dall’innato desio di emancipazione per liberarsi, ad ogni costo, ad ogni rischio, dalla dominazione straniera; nei secondi prodotta dall’interesse di un possesso largamente profittevole, mantenne quindi permanetti in Italia, da una parte, i conati di ribellione e d’insurrezione, e dall’altra fissò gli stati d’assedio, gli arresti e le condanne. E però la libertà senza limiti, esercitata in un paese, e la compressione pure senza limiti, esercitata negli altri, diedero Io stesso prodotto, la corruzione; la quale fu l’origine dei fatti lamentati nel Regno Lombardo-Veneto, nella Toscana, nelle due Sicilie, e nelle Romagne.

Venne segnalato, il giorno 2 gennaio 1852, da un decreto ducale, uscito in luce a Parma, col quale minacciavasi la pena di morte con fucilazione per la sedizione e cospirazione contro la sicurezza dello Stato, per opposizione alla forza a mano armata, per diffusione di stampe rivoluzionarie, per adunanze tumultuose, è per delazione e ritenzione di armi e munizioni. Venne eziandio, con altro decreto (21 gennaio) soppressa la Direzione generale dell'ordine politico, ed aggregata alla polizia politico-giudiziale-amministrativo-militare, esercitata dall’ispettore militare della gendarmeria dai comandanti delle città e provincie, e dai comandanti delle piazze, dei forti e dei castelli. Queste misure furono prese dopò il gran colpo di Stato di Francia, il quale, in berlo qual modo, autorizzava i Governi conservatori a raddoppiare i rigori, quasi non ve ne fossero anche troppi a danno degl’italiani. Quel colpo di Stato, riuscito felicemente, fu quasi una legittimazione (delle oppressioni esercitate in Italia ed in tutti quei paesi, ove al diritto veniva sostituito l’arbitrio: egli apriva l’era del dispotismo sulle libertà dei popoli conculcate. Anche in Piemonte esercitò il suo potere in modo (sensibile, e ne soffrì la stampa, che venne ristretta, non per atto, pubblicò, ma per maneggi segreti della Questura; e gli emigrati non trovarono più il favore dei tempi andati. Difatti il Comitato dei soccorsi per: la emigrazione dii Genova venne obbligato a rivolgersi, con circolari, ai sindaci e ai cittadini pregandoli non più per lo amore all’Italia, ma, per lo amore dell’umanità, di concorrere, colle loro oblazioni a sovvenire quella emigrazione, che; trovatasi sprovvista di mezzi di sussistenza. Nello stesso tempo (16 gennaio) in quella città, pubblicava il seguente manifesto:

«1. Tutti gli migrati politici, di qualsiasi nazione, i quali non hanno stabile domicilio in Genova, dovranno nel termine di giorni 8, cominciando dal 20 corrente, presentarsi all’ufficio della Questura, dove saranno tenuti a dichiarare:

a) l’epoca del loro arrivo in Genova.

b) il luogo del loro. domicilio.

c) Se abbiano mezzi di sussistenza.

d) Se esercitino qualche mestiere o professione, e presso quale persona.

«2. Tutti gli albergatori, osti, proprietarii o locatori di camere mobigliate, dovranno nel prescritto termine di 24 ore, fare all’uffizio della Questura la dichiarazione tanto degl’individui cui danno alloggio, come di quelli che partono.

«3. Gl’individui, di cui all’art. 4, riceveranno dalla Questura un nuovo permesso di permanenza, nel quale saranno indicate le loro generalità, nonché il luogo del rispettivo loro domicilio. Questo non potrà essere mutato che dandone partecipazione alla Questura, la quale farà risultare nel permesso la seguita variazione.

«4. Gli emigrati, di cui sopra, dovranno aver sempre seco il permesso di soggiorno per giustificar in ogni circostanza Tesser loro.

«Spirato il termine assegnato agli emigrati, per le nuove dichiarazioni, gli ufficiali e gli agenti della forza pubblica eseguiranno negli alberghi, osterie, camere mobigliate, rigorose perquisizioni, e procederanno all’arresto di coloro, che non si saranno uniformati agli obblighi loro imposti.

«Genova, il 46 gennaio 1852.

L'Intendente generale Consigliere di S. M.

«A. PIOLA.»

Questo manifesto, che fu poi prorogato dallo stesso intendente sino ai 5 di febbraio, destò il discontentamento negli emigrati tutti, cosi liberali, che repubblicani. E però la stampa, che non era ancora legata, e specialmente l’Italia e Popolo e la Maga, rampognarono con veemenza quella Intendenza, esponendosi a molti sequestri. Intanto dalla Francia venivano espulsi molti operai italiani, che davano ombra a quel Governo, mentre molti francesi compromessi negli avvenimenti del 2 dicembre, fuggendo dal suolo natale, riparavano in Piemonte, e venivano internati lungi dai confini francesi.

Laquestione sardo-religiosa non aveva avanzato un passo a Roma, e monsignore Franzoni, dal suo esilio, regolava a suo modo il clero piemontese, il quale però, per la maggior parte, non gli dava molto ascolto, seguendo i consigli del Governo. La pia Confraternita di S. Paolo fu sciolta con molto rincrescimento, non del clero, ma sibbene del patriziato torinese e dei pingui amministratori di quella; in altri tempi, utile istituzione, ma a quell’ora caduta in preda del monopolio e dell’avidità di molti. La legge sulla restrizione della stampa, dopo lunghi dibattimenti, venne approvata, come pure qualche misura sulla sicurezza pubblica. Necessità voleva cosi; urtare i Governi vicini, dopo il colpo di Stato di Parigi, sarebbe stato lo stesso che essere urtati. Tutto concorreva a far. concepire la credenza di un cangiamento normale in tutti gli Stati italiani, in senso conservativo. Gli amici dell'ordine pubblico, i nemici delle novità, i legittimisti, i conservatori, i retrogradi; gli Oscurantisti, ed i terroristi alzavano la testai ed andavano por le vie più baldanzosi. E la rete delle strade ferrate del Lombardo-Veneto, e la preconizzazione dell'unione di queste ferrovie colle piemontesi, i telegrafi elettrici istituiti quà e là per un avvicinamento politico-commerciale, i trattati doganali di commercio, le industrie, gli studii che sembravano alcuni mesi prima morti, ed allora riprendevano forza, tutto dava a supporre essere ritornata la calma nell’Italia, assopiti i partiti, e sedati i copali d’innovazioni politico-sociali. Se non se, giunto l’anniversario della Repubblica romana (9 febbraio), i seguaci di Mazzini si destarono e fecero sentire spari, spiegarono bandiere tricolori, sparsero coccarde nazionali. In Roma per questi fatti furono arrestati, fra gli altri, un Castellani Augusto ed un Ruspoli figlio del fu colonnello. A Rimini l’anniversario fu solennizzato con più calore, inalberando due bandiere tricolori, una sulla sommità della torre in piazza S. Antonio, atterrandone la porta d’ingresso, l’altra nel luogo del bersaglio delle ij. rr, truppe austriache, spargendo indi coccarde e piazzi di pori tricolorati per tutte le piazze e le contrade. A San Martino s’udi una fucilata: che durò molte ore, a Spoleto, a Ravenna, ed in altre città avvenne la stessa dimostrazione con molti arresti.

Il 28 febbraio giungeva a Venezia S. M. l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe e veniva ricevuto coll’usato rispetto e cortesia veneziana. A Brescia il giudizio,statarie era da tre giorni in seduta permanente. Sette individui si condannavano all’estremo supplizio. Tre subirono la pena il 26, e quattro il 27. I primi erano due fratelli ed un cugino, i secondi padre e figlio e due fratelli. Questi ultimi opposero al carnefice una disperata resistenza 0 morirono in mezzo a terribili convulsioni.

Le restrizioni delle libertà oneste, anche in tempi eccezionali, producono sempre sinistri frutti. Nello Stato sardo, si era proibito, l'uso delle maschere nel tempo carnascialesco. Ciò bastò perché nascessero tumulti è casi sinistri a Cagliari, ed a Sassari. In quella capitale della Sardegna, il 16, un gran numero di uomini mascherati seguiti da una folla di popolo senza maschera, volevano entrare in castello, ma i carabinieri intimarono loro di levarsi la maschera. Le maschere anziché obbedire, aiutate dal popolo, ricorsero a' sassi e tempestarono quei carabinieri che volevano fare loro resistenza r é tanto andò oltre il conflitto, che la guardia nazionale fu obbligata a suonare la generale ed accorrere numerosissima per sedare il tumulto. Il questore, dietro una protesta del Municipio, revocò l'ordine della proibizione delle maschere. A Sassari, a Tempio, ad Alghero e ad Ozieri scoppiò, il 24, un simile tumulto tra cittadini e militi. La guardia nazionale tirò sui cavalleggieri. L’Intendente ordinò il collocamento di due cannoni sulla pubblica piazza. Le città furono messe tutto in iscompiglio. Questo disordine, che da Torino chiamò un rinforzo di guarnigione a Sassari e negli altri siti, non. ebbe già causa polla proibizione delle maschere, sibbene per fare una dimostrazione ostile a quel Governo, che manifestava tendenze di ravvicinamento coll'Austria e non provvedeva ai bisogni di quelle popolazioni. Per la qual cosa vennero fatte interpellanze in riguardo all’Austria, alle quali fu data ragione colf asserzione, che quello non eraun ravvicinamento politico, ma sibbene doganale e commerciale. Le conseguenze intanto di quel fatto furono varii morti, molti feriti, grandi arresti, l’ingresso dei generale Durando. con molta truppa, lo stato d’assedio, la deposizione delle armi della guardia nazionale, e da chiusura provvisoria della università. Il comando militare di tutta l’isola fu preso per decreto reale dal Durando, il quale pubblicava due ordini del giorno poco convenienti ad un Governo costituzionale, ma molto Conformi a quelli di un reggime assoluto.

Eccoli:

Noi, commendatore Giovanni Durando, luogotenente generale, comandante generale militare dell'Isola di Sardegna.

«In virtù dei poteri straordinarii; conferitici da S. M., decretiamo:

«Art. 1. La guardia nazionale di Sassari è disciolta. Tutti i sotto ufficiali e militi della medesima dovranno, entro le 24 ore dalla pubblicazione del presente decreto, depositare nella caserma del castello i fucili e le daghe, ai quali sarà apposi, dall’ufficiale incaricato di farne il ritiro, un’etichetta col nome dei consegnante.

«Un eguale deposito dovrà farsi della polvere Sulfurea, posseduta così dai pubblici venditori, come da private persone, a cui ne sarà data ricevuta.

«Art. 2. Verun individuo, appartenente alla disciolta guardia nazionale, potrà far uso di alcun distintivo della medesima; e nessun cittadino, anche munito del permesso pel porto d’armi, potrà prevalersene, se non previa apposita autorizzazione dell’intendente generale.

«Art. 3. È proibita l’esposizione e la vendita di qualunque specie d’armi offensive: quelle da fuoco non potranno conservarsi se non togliendo la canna e la pia stra dell’incastratura.

«Art. 4. 1 contravventori alle prescrizioni dei tre articoli precedenti, saranno immediatamente arrestati.

«Art. 5. Ogni resistenza, anche in parole, ogni atto di disprezzo contro gli agenti della forza pubblica, saranno immediatamente repressi, occorrendone il caso, anche coll’uso delle armi.

«Art. 6. Ogni riunione di persone, in luogo pubblico, in numero maggiore di cinque, sarà immediatamente disciolta dalla forza pubblica.

«Art. 7. Ogni cittadino dovrà ritirarsi da' luoghi pubblici prima delle ore 8 della sera, né potrà ricomparirvi prima delle ore 5 del mattino, salvo uno speciale permesso in iscritto dell’Autorità di pubblica sicurezza, da presentarsi ad ogni richiesta degli agenti della forza pubblica.

«Art. 8. Ogni individuo, non avente in Sassari stabile dimora, e che non giustifichi dinanzi all’Autorità di pubblica sicurezza, di trovarvisi per una ragionevole causa, dovrà uscirne' dentro il termine prescritto dall’articolo 4., sotto pena di esservi costretto dalla forza.

«Art. 9. Nelle ore stabilite dall’articolo 7 le porte di ogni abitazione dovranno tenersi chiuse od essere illuminate.

«Art. 40. Il Municipio provvederà perché le strade della città siano nelle ore notturne, continuamente illuminate.

«Art. 44. Ogni congrega del Consiglio delegato di Sassari dovrà essere preceduta da speciale autorizzazione dell’intendente generale.

«Art. 12. Negli altri Comuni della Provincia di Sassari, qualsivoglia attentato all'ordine pubblico sarà represso coll’immediato arresto dei colpevoli.

«Cagliari 4 marzo 1852.

«Durando»

«Noi ecc. Decretiamo:

«Art. 1. L’università è provvisoriamente chiusa.

«Art. 2. Gli studenti, non aventi fisso domicilio coi loro genitori o tutori in Sassari, dovranno partire da questa città, entro 24 ore dalla pubblicazione di questo Manifesto, rientrando pe’ contravventori nel disposto dell’articolo 8 della proclamazione dello stato d’assedio.

«Art. 3. Sono proibite nei caffè, bottiglierie, bettole ed in altri luoghi pubblici, i giuochi di carte di qualunque sorta.

«Art. 4. È vietato soffermarsi nelle botteghe di vino per sbevazzare, e dovranno gli avventori esportare immantinenti dalla bottega il vino comperato.

«Art. 5. Sarà a carico del Municipio il provvedere a che i piccoli viottoli, non aventi uscita, o anditi non necessarii alla circolazione delle principali vie della città, vengano immediatamente murati.

«Sassari, il 6 marzo 1852.

«G. Durando.»

Queste misure militari nello stesso tempo che portarono l’ordine in quelle isole, sparsero eziandio sulle prime lo spavento nei cittadini, più ancora del conflitto avvenuto poco prima, e lo sdegno dei liberali, i quali altamente protestarono non sapendo più se si trovassero sotto il dominio di Casa di Savoia, o piuttosto di qualche despota. Un tale procedimento intanto veniva accolto con festa, e con gioia da tutti i Governi delle altre parti d’Italia, come un preludio di un cambiamento di politica nel Piemonte. Francia ed Austria applaudirono, perché vedevano anche colà, ove esisteva lo Statuto, accarezzala la loro politica. L’oscurantismo ed il clero presero subito partito dell’avvenuto per insinuare nelle popolazioni, dai pergami, e nei pubblici convegni massime tendenti a propagare una disapprovazione all’attitudine ostile alla Chiesa del cessato Parlamento. Le cose forse sarebbero andate più oltre, se non veniva a troncare molti risentimenti la inaugurazione della sessione legislativa del Parlamento per l’anno 1852. Ci è mestieri però riportare alcuni brani del discorso del Re, pronunziato il giorno 4 marzo alle due Camere:

«Essi (i ministri) vi presenteranno importanti leggi relative al riordinamento delle Amministrazioni centrali, degli studii e ad altre gravi materie d’interno reggimento.

«Con queste leggi, e con ogni suo atto, il mio Governo intende ad operare grado a grado ed opportunamente, quelle riforme civili, le quali, lungi dal debilitare l’Autorità, la conservano e la rendono più forte, ponendola iniziatrice di ogni reale miglioramento.

«Sarà suo debito di proseguire nell’ardua, ma onorata impresa, di portare a compimento il ristauro della nostra finanza, e chiedere perciò nuovamente il vostro concorso.

«Nelle più gravi occasioni, non mai venne meno quello spirito di volontario sacrifizio, ch'è antica virtù dei popoli dello Stato; l’esperienza del passato ci fa sicuri quali siano per mostrarsi nell’avvenire, ed in essi pienamente confido.

«È dovere di ogni Governo dar norma e sicurezza allo stato civile delle famiglie. La legge, che a tal fine vi verrà presentata, quantunque di carattere puramente civile, si connette però ad interessi religiosi e morali, che alla vostra coscienza è commesso li tutelare.

«L’antica fede de' padri nostri, quella che diede al Piemonte virtù bastante a superare cosi perigliose prove, sia guida alle vostre menti, cosicché ne rimanga illeso il venerando retaggio. A questo fine medesimo sono intese le pratiche aperte colla corte di Roma. Sinceri e riverenti nel condurle, confidiamo possano giungere a conciliare i diritti dello Stato coi veri interessi della religione e della Chiesa.

«Signori Senatori, signori Deputati;

«Ripensando le passate fortune delle Stato, e raffrontandole colle presenti, dobbiamo tutti sentire in cuore profonda gratitudine verso la Provvidenza che cosi palesemente ha benedetta l'opera nostra.

«Piena è la fiducia tra popoli e Principe; eguale quella, che meritamente riponiamo tutti nel valore e nella fedeltà dell'esercito.

«Salda concordia lega i poteri dello Stato tra loro, e ne sia lode a voi, che in gravi occasioni preponeste ad ogni altro rispetto il pensiero del pubblico bene, devoti alle instituzioni, che, oggi compie il quarto anno, l'augusto mio padre instaurava, duriamo nell’intrapresa via, riposando in quella fede che abbiamo scambievole: io nel vostro spontaneo ed efficace aiuto; voi nella leale e ferma mia volontà.»

Il discorso della Corona tranquillò il partito conservatore, ma non giunse ad ottenere il voto di approvazione dal partito liberale. Il clero intanto sperava cangiata la sua sorte, avendo motivo di credere non lontano un accomodamento del Piemonte con Roma. Il sacerdote Ferdinando Angeli, mentre nella Chiesa metropolitana di S. Lorenzo in Genova, il 5, faceva l'apologia del clero cattolico, veniva fischiato per avere manomessa assai vivamente la suscettibilità dei partiti e della chiesa anglicana! La corruzione adunque di giorno in giorno si generalizzava.

Il libro pubblicato da Vincenzo Gioberti sul Rinnovamento civile d'Italia, (per quantunque proibito quasi in ogni dove) spargeva nel cuoce dei liberali, sempre facili alle agitazioni, una nuova elettricità foriera di novelli, non lontani avvenimenti. Egli, nel suo libro ripiegava il primato di Roma cattolica, e spronava il Piemonte ad assumersi l'incarico di attuare l’italiana unità. Ma per ciò conseguire, egli (il Piemonte) doveva porsi deliberatamente ed arditamente a capo del molo italico, il volessero o no gli altri Stati; doveva assumerne la dittatura; e senza farsi alcun scrupolo, sospendere le leggi, domare i renitenti colle armi, proclamare i principii della indipendenza, della libertà, della patria democrazia, e mettendo tutto a ferro e fuoco espellere lo straniero dall'Italia. Ma nel caso che egli non avesse cercata la propria salute nel riscatto d'Italia, sarebbe inevitabilmente perito nelle future vicissitudini italiane. Questo libro venne confutato assai opportunamente da Mauro Macchi. Le concitate idee del Gioberti, (filosofo che. iq Piemonte godeva altissima venerazione) trovarono pronto adito in molti cuori ed in molte(:) menti, ed ottennero il più desiderato trionfo, dappoiché sorreggevano. la incominciata impresa di emancipazione italiani, che stava in molte parti della Penisola per tentennare, per raffreddarsi, per isfìduciarsi, minacciando, se non di cadere, di sostare. Contribuirono forse eziandio a far adottare alle Camere (14 marzo) il progetto di legge sulle fortificazioni di Casale coll'impiego di fr. 2,686,000, malgrado che il deputato Brofferio tuonasse dall’alto della montagna, e che i suoi tuoni dimostrassero in stato veramente lacrimevole di quelle popolazioni. Egli, col più i ardito atto di municipalismo, che siasi compiuto nella Camera dal 1848, diceva:

«Signori, poneste voi mente alla voce del paese in questi giorni, all'annunzio funesto (dir nuovi balzelli e particolarmente della nuova imposta personale e mobiliare? Questa voce dovette avvertirvi che il popolo è stanco, stanchissimo delle vostre oppressioni; che i sacrifìzii, da voi imposti sono ornai insopportabili; che, se voi volete ancora penetrare nella capanna del povero e nel soffitto dell'artigiano, per porgli sotto sequestro la tavola e il letto, per ispremergli l’ultima goccia del suo sudore, l’ultima lagrima del do. lor suo, si alzerà questo popolo per dirvi, che i promessi benefizii dello Statuto non erano questi, e che voi convertiste la libertà in flagello....

«Ah! voi non volete ascoltare queste parole? Io le ripeterò cosi forte, che saranno ascoltate dalla nazione, in nome della quale porto qui la parola contro le estorsioni da lei sofferte.

«Uditelo bene, o signori; voi spoglierete il paese, e non difenderete la patria.»

Mentre la economia degli Stati italiani trovavasi in uno stato deplorabile per opera di quei Governi, per cui crescendo la miseria nelle popolazioni, crescevano anche delitti; mentre gl’incendii, i terremoti, le inondazioni, le irruzioni vesuviane, e le burrasche marittime andavano di pari passo colle burrasche, cogl’incendii, coi terremoti, colle inondazioni, colle irruzioni politico-religioso-sociali,... al principe di Canino, cugino del Presidente della Repubblica francese, per aver preso gran parte negli avvenimenti del 1848, veniva negato, dalle autorità pontificie di Civitavecchia, lo sbarco in quel porto. Ma il colonnello francese, comandante quella piazza, fatto mettere sotto le armi un distaccamento della guarnigione,: andò a prenderlo e condurlo a terra. Con ciò davasi a conoscere che nello Stato pontificio non imperava il Sommo Pontefice, ma sibbene da una parte la Francia, dall’altra l’Austria: quest’ultima esercitava un vero potere come nelle Romagne cosi anche nella Toscana.

Il 26 aprile, moriva in Torino Pier Dionigi Pinelli. L’avvocato Brofferio, nemico di lui, scriveva sul giornale La foce nel deserto, le seguenti parole: Fu lutto universale. Rivalità di passioni, conflitto d’interessi, ingiustizie di partiti, tutto tacque e disparve all’aspetto di un feretro, dove si conchiuse in brev’ora la vita di un uomo, che tenne in sé raccolti gli sguardi, ora mesti, ora trepidi, ora desiosi, ora confidenti, nelle più agitate fortune della patria. Tutto tacque e disparve, fuorché l’amarezza per la perdita di un illustre cittadino e lo sgomento, da cui l’anima è esterrefatta, quando, nell'altezza delle vittime, dee misurare la maestà della morte.»

All'indomane un altro lutto desolava tutta la città. Scoppiava la fabbrica delle polveri a Borgo Dora. Il fuoco prendeva spontaneamente alla botte del miscuglio ternario della polvere da mina, si propagava ai due granitori laterali contenenti 5000 chil. di polvere; indi passava ai frulloni carichi di 2000 chil. ed agli stendaggi carichi di altri 3000 chil. di polvere stesa all’aperto; questi misero fuoco ad un magazzino che conteneva 40,000 chil. di polvere da mina. Le vittime ascendevano a 55, fra queste 14 morti. Il Re trovavasi sul luogo non essendo ancora cessato il pericolo di altri scoppii, ed il duca di Genova correva tra le fiamme e le rovine per salvar qualche vittima. Il popolato borgo di Dora fu mezzo rovinato. Molte famiglie dalla paura fuggirono da Torino. I frantumi di tegole, di sassi, di mattoni ingombravano le vie. Le case prive dei tetti e dei soffitti; alcune preda delle fiamme. Grosse travi lanciate a grande distanza. Padri e madri che piangevano i teneri loro figli morti o feriti. La desolazione e lo spavento erano generali. I danni arrecati da quello scoppio, non compresa la distruzione della fabbrica, e la perdita della polvere, si valutarono, solo per Borgo Dora, a franchi 400,000.

Correvano intanto su quel disastro le voci le più strane. Questi dicevano che fu opera dei nemici della patria; quelli che furono i genovesi repubblicani, che vollero vendicare il bombardamento della loro città collo sprofondare Torino; altri che erano stati i preti che volevano far saltare in aria la città scomunicata per la legge Siccardi, e cento altre invenzioni, le quali, provocarono una inchiesta ordinata dal Governo.

Ma un altro lutto veniva annunziato a Venezia per la morte del celebre architetto Giuseppe Cappelli. La funerea funzione veniva celebrata nella basilica di S. Marco il giorno 11 aprile, e non poteva riuscire più commovente, e per la pompa religiosa e per il numeroso concorso di ogni Ceto di persone.

Un lutto peggiore di ogni altro, il lutto dei lutti, Quel lutti» che uccide, non la vita di varii uomini, che Crolla non una fabbrica od un’intiera contrada, ma quel lutto che toglie la vita civile di tutto un popolo, che crolla e devasta le leggi di tutto un regno, pubblicavasi in Firenze col seguente decreto granducale:

«Art. 1. Lo Statuto, promulgato il 15 febbraio, è abolito.

«Art 2. Rientrando la regia Autorità nella pienezza de' suoi poteri, i ministri, come consiglieri del Principe, ed esecutori degli ordini suoi, tornano ad essere responsabili al Granduca, e certificano colla loro firma gli atti sovrani.

«Art. 3. Le materie di diritto pubblico, enunziate nel titolo T.° dello Statuto, saranno regolate coi principi e colle norme, risultanti dalle leggi ed osservanze che erano in vigore nel Granducato, avanti la pubblicazione dello Statuto medesimo, salvo quanto viene stabilito col presente decreto.

«Art. 4. Le leggi vigenti in materia di stampa, saranno riprese in esame, all’effetto di stabilire quel sistema, che valga a guarentire efficacemente il rispetto dovuto alla religione, alla morale, é all'ordine pubblico.

«Art. 5. La guardia civica è definitivamente e generalmente abolita.

«Art. 6. Il Consiglio di Stato, stabilito il 4 5 marzo 4 849, è mantenuto, ma viene separato dal Consiglio dei ministri.

«Una nuova disposizione regolerà, con norme precise, le sue attribuzioni.

«Art; 7. Il Regolamento comunale, pubblicato col decreto del 20 novembre 1849, e che fu posto in vigore in linea di esperimento, sarà preso in esame per subire quei cambiamenti de' quali l’esperienza lo abbia fatto giudicare meritevole.

«Dato il 6 maggio 1852.

«Leopoldo.

«Visto

«Il Pres. del Cons. de' ministri, G. Baldasseroni.

«Visto per l’approvazione del sigillo.

«Il ministro segretario di Stato pel Dipartimento di giustizia e grazia, N. Lami.

Tutta la Toscana vestiva la gramaglia per quel grande atto che disdiceva lo Statuto accordato solennemente ad una nazione civile e generosa. Sino da quel momento i toscani, tutti uniti come un sol uomo, furono in preda della più alta esacerbazione.

In Toscana da quel momento, l’amministrazione della cosa pubblica indietreggiò di un secolo.

Le feste intanto che si celebravano a Torino (il 7, 8, 9 maggio,) per l’anniversario dello Statuto con istraordinaria pompa religiosa e civile, con addobbi, ed illuminazioni di tutta la città, con musiche e concerti nazionali, con manovre e rassegne militari e della guardia civica, con balli e canti ed allegrie di ogni genere, con immenso concorso di popolo venuto dalle propinque provincie, coll’intervento del Re, della reale famiglia, delle Camere, e di tutti gli alti dignitarii dello Stato, erano solenni proteste scagliate contro il decreto granducale al cospetto d’Italia tutta! Ma il granduca rispondeva a quella protesta colla surrogazione dei gonfalonieri, che invisi erano a questo nuovo ordine di cose, e con un altro atto improvido, quello di abbattere le lastre di bronzo, sulle quali erano inscritti i nomi dei fiorentini, morti a Montanara e a Curtatone, e farle levare dalla chiesa di Santa Croce, ove ad eterna memoria di quei prodi, la riconoscenza cittadina le aveva deposte.

Alle feste della Statuto successe una crisi ministeriale nel Gabinetto di Torino: vittima di quella fu il conte Cavour. Ricomposto il ministero, le Camere attesero alla votazione dei tronchi delle ferrovie da Torino a Susa, da Torino a Savigliano e Cuneo, da Torino a Novara, e da Mortara a Vigevano; dei trattati di commercio col Belgio e colla Francia, delle attribuzioni delle banca nazionale; delle riforme alla pubblica istruzione proposte dal ministro Farini: della vendita dei beni demaniali per ristaurare le scadute finanze, e del contratto civile di matrimonio, legge abbozzata da Siccardi, e posta alla discussione della Camera da Buoncompagni, ministro di grazia e giustizia. Questa ultima legge, portata sull’arena parlamentare, doveva allontanare sempre più ogni riconciliazione con Roma. Roma appunto trovavasi in quel momento avvolta nella rete di un litigio coll’Inghilterra.

Il Governo pontificio aveva arrestato, processato e condannato a morte un certo Murray, prima ex soldato di Garibaldi, agente poi della polizia della Repubblica romana, e finalmente come vagabondo, ladro, assassino. Ma il Murray era suddito inglese; ed il governo della regina Vittoria spediva reclami, minacciava interventi armati a quel Governo di preti che osava sentenziare un britanno. Per la qual cosa il Murray (sospesa sino a nuovo ordine la esecuzione della fatale sentenza) veniva tenuto in carcere, nella certezza di dovere da un punto all'altro montare sul patibolo, in una agonia più crudele della morte. Più tardi, per la influenza inglese, la sentenza di morte del Murray venne cangiata nell’ergastolo in vita. Roma, intanto attendeva all’attuazione assai difficile del suo nuovo reggimento di Stato, tanto in ordine clericale, quanto in ordine civile, criminale, doganale ed amministrativo; ma gli scogli da superare essendo molti anziché progredire nell’opera sua, andava di giorno in giorno indietreggiando col ripristinare le orme dell’antico regime. La Toscana pure ed il Regno Lombardo-Veneto progredivano lentamente nell’attivazione delle ferrovie, dei telegrafi, mentre ogni studio veniva dall’Austria impiegato nello stringere trattati commerciali, doganali, marittimi, onde aumentare la sua influenza in Italia. Il sistema centralizzatore di ogni potere a Vienna trovava mille incagli nel Lombardo-Veneto, ferendo le suscettibilità dei regnicoli, snervando i locali poteri, inceppando gli affari e gl'interessi.

Il 3 luglio 1862 usciva in Parma un decreto che regolava la censura dei libri, scritture, incisioni, ecc.

Questo ramo che doveva essere posto sotto la tutela di uomini di alta intelligenza, e di integerrimità di coscienza, veniva invece colà affidato agli ispettori di gendarmeria. Ai 3 luglio però veniva per decreto ducale istituita finalmente una commissione, nominata dal Duca, composta di 17 membri, di cui 6 a Parma, 3 in Piacenza, 2 a Borgo S. Donnino, 2 a Borgotaro e 2 a Pontremoli. Questa commissione, presieduta dal bibliotecario di Parma, esaminava i manoscritti, le incisioni ecc. e faceva rapporto al presidente; ma questi poi dovea indirizzarlo all’ispettore della gendarmeria per l’approvazione. In tal modo la censura, per dar polvere negli occhi si toglieva per un istante dal primo sistema, per poi immergervisi di nuovo.

Si pubblicava in Vienna, che l’Italia era divenuta un’officina di complotti, di congiure, una fabbrica di pugnali è di stiletti. Si asseriva la scoperta di sètte, di partiti, di mene, di cospirazioni rivoluzionarie, per cui il Governo, come fu obbligato a malincuore a ricorrere a numerosissimi arresti, a perlustrazioni domiciliari, a sequestri di armi e scritti sovversivi, cosi pur troppo egli sarebbe pure obbligato a sospendere pegli italiani quelle riforme che tanto lustro e tanta salute recavano alla ringiovanita monarchia. «Hanno un bel parlare (cosi dicevasi e stampavasi in quella capitale) gli amatori sinceri dell’Italia pressori Governo della Monarchia, hanno un bell’affaticarsi per far che siano tolti colà i rigori dello stato di guerra, quando s’odono voci insidiose, quando si scoprono idee rivoluzionarie, concette nel delirio di male passioni, quando i faziosi insensati osano ancora cospirare.»

Sottile era la politica usata in quei giorni; perché nello stesso tempo che dinanzi la imputazione di tali responsabilità nei popoli italiani,-si giustificava il sistema di repressione adottato, e gli stati d’assedio in Italia. Per vero dire sussistevano frequentissimi gli arresti e le perlustrazioni domiciliari, ma non per complotti e congiure, sibbene per sospetti assolutamente. Esistevano però i lagni, la miseria, le torture morali, i moti; le ansie, i desideri!; ma erano moti, ansie, desiderii soffocati nel cuore, coltivati nel santuario delle famiglie. Le popolazioni, quasi in uno stato d’indifferentismo, si tenevano come estranee all’opere dei loro Governi, occupandosi soltanto a: raccorre quel poco delle loro derrate; avanzato dalle contribuzioni pesanti degli aggravi! pubblici.

I deputati dello Stato Sardo, per far trionfare il principio delle libertà nazionali, approvarono bell'aula parlamentare a grande maggioranza la legge sul contratto civile del matrimonio. Campioni di quella legge (assente Cavour perché a Londra) furono: Alberti, Antonini, Asproni, Audisio, Baino, Benso Gaspare, Berruti, Berti, Bertini, Biancheri, Bormida, Bona, Bonavera, Buoncompagni, Borei!a, Bosso, Botta, Bottone, Brofferio, Bronzini, Buffa, Buraggi, Cambi eri, Cappellina, Castelli, Cavallini, Chiarie, Chiò Felice, Cornero, Cossato, Damorbida, D’Azeglio, Daziani, Demarchi, Demaria, Depretis, Durando, Elena, Farina Paolo, Farina Maurizio, Farini, Fiorito, Gallo; Gallina, Galvagno, Garda, Garibaldi, Guglianetti, Josti, Lamarmora, Lanza, Lione, Malan, Mantelli, Marco, Martinet, Martini, Mellana, Melegar, Mezzena, Michelini, Miglietti, Motta, Paleocopa, Panieri, Quaglia, Radice, Richetta, Ricci Vincenzo; Ricci Giuseppe, Robecchi, Rùcci, Roselliui, Saaguinetti, Sanna, Sappa, Sauli Francesco, Scappine Saracco, Sella, Serrai Simonetta, Sineo, Siotto Pintor, Solaroli, Statlo, Tecchio, Torelli, Turcotti, Valerio, Valvassori, Vicari e Viora.

Il clero, i deputati che votarono contro a quella legge, ed i conservatori si scatenarono da tutte le parti e protestarono, con tutta la loro forza, a mezzo dell'Armonia e del Cattolico (organi clericali), ed ottennero oltre 2000 firme sulle petizioni che indirizzarono alla Camera del Senato contro quella legge, da essoloro chiamata irreligiosa, scandalosa, vituperevole, anticattolica; e per fino fecero voti alla Beata Vergine, invocandola in soccorso della Chiesa periclitante. Ma il ministero-faceva sequestrare quei periodici sui quali venivano riportati quei voti. I vescovi unitisi insieme fecero supplica al He per l’abolizione di quella legge; i conti Lamargherita, Latour, Cardenas e Costa pubblicarono libri contro quella legge. Il fermento era grande, e prendeva estensione anche nel popolo, sul quale i reggitori delle coscienze avevano qualche influenza. I vescovi della Savoia scagliarono, già in anticipazione, la scomunica contro quelli che stringessero nodi matrimoniali in altre forme, fuori di quelle stabilite dalla Santa Romana Chiesa. Intanto quella legge veniva portata alla sanzione del Senato,in seno del quale ferveva negli uni ii bollore della disapprovazione, negll'altri quello dell’approvazione. Roma intanto tuonava dal Vaticano, minacciando sul Piemonte nuove scomuniche.

Ma' Roma era pur in grandi pene, in quelle cioè di un erario esausto. Epperò ricorreva a nuovi balzelli, alle tàsse stille professioni, sulle arti, sui mestieri. Ma i regnicoli non vollero adattarsi a quelle nuove imposizioni; e già a Velletri, a Rieti, a Jesi ed altrove erano accaduti tumulti e disordini, e gli esattori venivano respinti in malo modo.

In Napoli il 17 luglio mancava a' vivi il poeta teatrale Salvatore Cammerano. Beato il poeta! epigrafavano i liberali delle Due Sicilie, si tolse alla vista delle nequizie operate dal nostro Governo. Pace a Cammerano! Prega per noi che qui siamo ancora nella costernazione, nella servitù. Pace al poeta Cammerano!

Colà invocavasi pace, mentre pubblicatasi a Venezia il 24 luglio una notificazione per togliere gli abusi nel trasporto dei libri e delle stampe, e per la necessità di attivare una rigorosa vigilanza in questo ramo. In un primo articolo vietar asi alle Messaggerie ed Imprese private d’incaricarsi del trasporto di libri, litografie, stampe, ecc.; col secondo si ordinava che tali spedizioni venissero fatte esclusivamente col mezzo delle Poste e delle Condotte erariali sorvegliate dalla censura.

E giacché poco fa ci aggiravamo sulle tombe, ci è mestieri di segnalarne una nuova, alla quale si voile dare una importanza politica. Il giorno 13 agosto il partito repubblicano di Genova vestiva il lutto. Un convoglio funebre, accompagnato dai presidenti rappresentanti le arti, dai capitani marittimi liguri, inglesi, ed americani; da un numeroso corteggio di uomini e di donne, fra le quali una Sauli ed una Dapazzano, s’avviava fra i canti dei sacerdoti al cimitero. Ma chi moriva mai per raccogliere tanto concorso, che mostrava tanta pompa? La madre di Giuseppe Mazzini! Che se i repubblicani vollero offrire una dimostrazione di affetto all’eroe dell'idea, coll’ordinare pomposa cerimonia funerea alla madre di lui, i Veneziani ebbero motivo di mostrare al mondo le glorie del genio italiano, accorrendo numerosissimi e festanti allo scuoprimento, che nella chiesa dei Erari face vasi il 17 agosto, del mausoleo innalzato a Tiziano Vecellio, opera accurata ed imperitura di Luigi e figli Zandorneneghi. E certamente essi così teneri per la religione com’erano, pregarono, raccolti in quel magnifico tempio, innanzi a quei simulacri gloriosi, pregarono affine Dio spiegasse la sua mano su quei potenti, che primi e soli diedero nobile impulso allo innalzamento di quei mausoleo.

Mentre cosi forse pregavano i pietosi veneziani, in Bologna si scopriva una società secreta tendente a som muovere l’Italia. Fedeltà e prudenza era l’ordine del giorno di quella società, che aveva diramazioni in Roma ed in Toscana La polizia militare ebbe quindi motivo di raddoppiare la vigilanza ed i rigori. Mazzini intanto da Londra pubblicava un nuovo proclama, nel quale veniva dichiarata la lega italiana. Già, secondo quel proclama, i comitati d’insurrezione e di propaganda di ogni città d’Italia si erano fra loro intesi, uniti, collegati, fusi, onde far corpo, far forza, far esplosione, concordi e compatti in ogni luogo, ad un’ora fissata. Quest’ora poteva essere vicina. Intanto nei tribunali di Firenze succedevano i dir battimenti per il processo del dittatore Guerrazzi. Già si erano tenute varie sedute intorno ai cento punti d’accusa di cui caricavasi quell’imputato. Di non minore interesse si-fu pure il processo intentato a Torino contro il conte Costa della Torre, per il libro da esso lui pubblicato contro la legge Siccardi-De-Foresta-Buoncompagni sul contratto del matrimonio civile. Ma il conte (il quale agiva in buona fede e secondo i dettami della sua coscienza) venne condannato alla perdita dell’impiego, alla multa, ed alla prigionia che scontava in Cittadella. A Genova temevansi dei subbugli in senso anglicano, giacché il protestantismo si ergeva a dettar leggi, protetto dal ministro inglese e tollerato dal Governo sardo. Una perquisizione venne fatta in casa di Muzzarelli, fu presidente della Costituente Romana, e varie altre, in altre famiglie, tennero dietro a quella prima., E mentre il gran triumviro Mazzini gridava a' suoi, settarii: agitazione, agitazione, agitazione, i vescovi si agitavano con ogni doro forza, sorretti dall’alta aristocrazia, per trovare un forte partito nel Senato subalpino, affine la legge sul matrimonio civile venisse rifiutata. Ella era una guerra continua ed inconciliabile fra que’ partiti per far prevalere la bilancia dei voti, ciascuno a loro favore. In molte chiese degli Stati sardi, ed in tutte le parrocchie della Savoia, veniva letta, il 26 settembre, una vescovile circolare collettiva, colla quale proibivasi sotto pena di peccato mortale, la lettura del Juif Errant, dei Misteri di Parigi, dei Misteri di Torino, del Misteri del Popolo, del Patriote Savoisien, del Nouveau Patriote, della Voix du Paysan, della Gazzetta del Popolo, dell'Unione, dell’Opinione, del Fischietto, dell'Italia e Popolo, del Monitore dei comuni italiani, della Maga, del Trattato del diritto canonico di Nunytz, della Voce della Libertà, e si condannava, come dannosa alla fede, perfino la Gazette oflìcielle di Savoia. La nomina intanto di monsignor Charvaz ad arcivescovo, di Genova, era tenuta come un principio di riconciliazione con Roma, mentre si predicava da por tutto e si ripeteva la solita voce dell'incameramento dei beni ecclesiastici, al quale aderivano già molti municipii, e mentre la democrazia e la demagogia si ricoveravano, specialmente a Genova, sotto gli auspizii dell'Italia e Popolo, della Mar ga, del Lavoro, della Libertà, e dell'Associazione, giornali avversi al regime clericale ed alla Santa Sede.

E codesti periodici in uno a moltissimi altri: della capitale e delle provincie piemontesi, altissime alzarono le loro proteste, quando (24 agosto) Roma permetteva si consacrasse un monumento alla memoria dei soldati francesi morti durante l’assedio di quella città nel 1849. Il monumento èra un’opera del giovane André ed aveva la forma piramidale; lo sormontava una croce ed offriva in carattere grande la seguente iscrizione:

Ai soldati francesi

Morti

Nel 1849

I loro fratelli d'arme

Del corpo di spedizione

Del Mediterraneo.

Più giù, in carattere meno grande:

Una messa quotidiana pel riposo delle loro anime è stata ordinata in questa chiesa da S. S. Pio IX.

Sulla base del monumento era impressa la divisa della Legion d'Onore.

Sopra una gran pietra di marmo nero con cornice di marmo bianco vedevansi l’alfa e l’omega, sormontate dal monogramma di Cristo.

Roma fremeva alla vista di quel mausoleo ed imprecava al Governo, il quale si discolpava con, dire ch'egli non comandava in Roma, bensì la Francia. Quel monumento fu visto bene spesso insozzato d’immondizie e coperto d’altre iscrizioni e perifrasi. E il sangue degli italiani arruolati nel 1849 alla Compagnia della Morte e che avevano combattuto le armi francesi, si spruzzava in modo sdegnoso su quei niarmi sepolcrali. La loro fucilazione, mediante condanna della Sacra Consulta, seguiva in Sinigaglia il giorno 28 settembre alla presenza di 400 austriaci, 200 svizzeri, 80 carabinieri pontificii.

Ecco i loro nomi:

Girolamo Simonelli comandante civico.



Pio Corti, d’anni 24,

coniugato,

di Sinigaglia.

Annibale Giorgietti, d’anni 25,

nubile,

idem.

Giustini Giacomo, d’anni 40,

coniugato;

di Monte Porzio.

Poiini Francesco, d’anni 23


di Sinigaglia

Piantanelli Raffaele, d’anni 25,

nubile

id.

Marchetti Nicola d’anni 24,

conjugato

id.

Francesco Stefano, d’anni 22,

nubile

id.

Salvatori Luigi, d’anni 25

id.

id.

Giambartolomei Elpinio, d’anni 24,

conjugato

id.

Girólamini Girolamo, d’anni 35

id.

id.

Paraventi Domenico, d’anni 24

id.

id.

Paraventi Vicenzo, d’anni 30

id.

id.

Perini Gaetano, d’anni 28

id.

id.

Roccheggiani Domenico, d’anni 48

id.

id.

Altre vittime, facienti parte della Lega italiana nel 1848 e 1849,per sentenza 9 ottobre della Corte speciale di Napoli, subirono la loro pena; e sono

Barbaresi Saverio

Condannati alla morte, ma per grazia del re la condanna fu tramutata, pei tre primi, all’ergastolo, e pegli altri a 30 anni di ferri

Spaventa Silvio

Dardano Giuseppe

Leanza Luigi

Leanza Emularmele

Palumbo Girolamo

Palumbo Luigi

Picca Giuseppe

a 26 anni di ferri, indi, per grazia a 13

Grazia Giovanni

De-Luca Nicola,

anni 8

Amadio Pasquale,

anni 9

Vario Mariano1


anni 6

Avitabile Giuseppe

Barletta Michele,

Basile Gioachino

Sabatino Giacomo

Jacovelli Lorenzo

per tempo indeterminato

Molina Stefano

Bottoni Baldassare

Pascitelli Giuseppe,


per anni 3

Briol Giovanni,

per anni 26 di ferri, indi bando

Arcucci Raffaele,

anni 26, indi tramutata a 13

Lavecchia Giuseppe,

anni 23, indi tramutata a 13

Leopardi Pietro,

esilio perpetuo

De-Stelano Giovanni,

anni 2 e multa di 300 ducati

Scialoja Antonio,

anni 9, indi esilio perpetuo

Toriello Raffaeli

indeterminato

Toriello Nicola

Gerino Giovanni,

bando

Sarri don Domenico,

prima alla morte, poi tramutata a 13 anni

Salfi don Pietro,

prima anni 30, poi 19

Arnedos don Raffaele

prima condannati alla morte, poi per grazia, a 18 ciascuno

De-Rose Nino don Francesco

Bruni don Francesco

Rafia Luigi

Cardamone Domenico

Buffa don Anastasio

Cortese Gaetano

De-Bonis Tommaso

De-Bonis Cesare

Veletutti Vincenzo

Lacosta Benedetto

Lacosta Leopoldo

Micheli Rossi Giuseppe

Meraviglia Giuseppe

Fraino don Luigi

Scarponenti Giuseppe

Migliano Nicodemo

Damis don Domenico

Bellizzi Francesco

Lucci Vincenzo, anni 40

Ricca Leone

anni 13 ciascuno

Forestiere don Leone

Barberio Salvatore

Parisio don Domenico

Lambaglia Giuseppantonio

Falcone don Luigi

Sarda don Luigi

Riggio Antonio

Fiorio padre Serafino

Ameduri Vincenza

al confine dello Stato

De-Mercurio Pietro

Furono condonate le pene in tutto od in parte, ad altri 2924 individui. Quel processo durò 16 mesi.

Intantoché compievansi questi atti deplorabili, |a Francia, fattasi quasi regolatrice della politica europea, imponeva al Piemonte lo internamento dei rifugiati, francesi, che sparsi erano qua e là per la Savoia, Liguria ed il Nizzardo, ed una restrizione della stampa. Lo internamento perciò ebbe luogo collo scapito degl'interessi di molti, i quali avevano già presa permanente stanza là, ove credevano di avere il loro utile maggiore. Molte notabilità francesi, e molti rappresentanti del popolo, erano riparati negli Stati sardi, avevano fondata dei giornale, e maltrattavano il Napoleonide in aspro modo. Ecco il motivo che spronò il presidente della Repubblica, a domandare lo internamento in Piemonte di queglino che lo bersagliavano co’ loro, scritti. Era proibito, ezíandio l’ingresso in Piemonte del libro di Victor Ugo, Napoleon le petit. Anche sugli emigrali italiani si andavano, a prendere delle misure d’internamento e di allontanamento.

In mezzo a tante fasi politiche, la questione religiosa dello incameramento dei beni ecclesiastici assumeva un (aspetto grave e si generalizzava negli Stati, sardi con intendimenti di effettuazione. Già moltissimi Municipij, si erano pronunziati e colle loro votazioni spronavamo. il Gabinetto a questo grande atto. Fra gli altri noi noteremo i Municipii di Alessandria, di Cuneo, di Savignano, di Macello, di Vercelli, di Asti, d’Ivrea, di Mondovì, di Carmagnola, e dì Vernante,. Per la qual cosa una circolate del Ministero. agl'intendenti, in data di Torino 9 ottobre, ovunque diramata, ammoniva, codesti desiderii e votazioni municipali come, contrarii alle leggi dello Stato e fuori delle loro attribuzioni. Questa circolare però ebbe poco effetto, perché i Comuni continuavano a votare in favore dello incameramento. Ma fama correa, che avendo Io Stato bisogno di una straordinaria risorsa, senza ricevere a nuovi prestiti o ad aggravii pubblici, già anche soverchi, il Governo favorisse quell'incameramento, mentre colle sue circolari, ne constatava la illegalità.

Nel Regno Lombardo-Veneto, in esecuzione della Lega doganale austro-estense-parmigiana, pubblicavasi, il 26 ottobre, una notificazione, che stabiliva le ricevitorie tanto degli Stati modenesi e parmensi, quanto lombardi. L’Austria con quelle sue leghe doganali con tutti gli Stati italiani sembrava avesse di mira due oggetti; il primo di indebolire il Piemonte e specialmente la Liguria, là quale ne soffriva assai, e d’incagliare le riforme che colà si erano o compiute o proposte; il secondo di tenere anche in questo ramo, la sua ingerenza stabile e profittevole tanto al suo erario quanto alla sua politica, è comandare nei Ducati, come comandava in Ancona, a Bologna, a Ferrara. Il Piemonte e l’Inghilterra non vedevano di buon occhio tale unione politico-doganale dell’Austria coi Ducati, e parlando del primo, ei cercava per altri mezzi, per altre vie, le sue risorse negli altri Stati italiani. Ma una crisi ministeriale venne nuovamente a funestarlo. Massimo d’Azeglio dava le sue dimissioni, ed il Re le accettava, mentre giungeva a Torino la infausta notizia della morte improvvisa dell’ab. Vincenzo Gioberti, compianto da tutti i liberali italiani. I clericali però vedevano in quella morte, cosi improvvisa, un castigo di Dio, che volle punire un uomo, che coi suoi scritti aveva perseguitata la Chiesa, mentre i liberali sospettavano forse in quella morte una vendetta dei Gesuiti. Ma intanto che a Parigi si faceva il solenne funerale al distinto filosofo italiano, (le ceneri del quale vennero poi dai torinesi chieste alla Francia, e sepolte nella chiesa di S. Pietro in Vincoli), o che Padova vestiva pur la gramaglie per la morte dell’ab. Giuseppe Barbieri, avvenuta il 1° novembre, Cavour Veniva incaricato, dal Re di Sardegna, della formazione di un nuovo Gabinetto. Ma pochi erano gli aspiranti, attesa la grande tensione degli affari religioso-politici colla Corte di Roma. La guerra intestina regnava intanto tra giornali e giornali, tra partiti e partiti trai emigrati internati od espulsi ed intendenti, tra clericali e municipii, ed infine tra ministri e ministri. L’Austria, in quella guerra, dicevasi, aveva gran parte, colf intento di distruggere in Piemonte il principio parlamentare e di sostituirvi il proprio sistema. Il Re veniva porto sopra un bivio terribile: o continuare a qualunque risico la incominciata via, per favorire la maggioranza della nazione, e l’Inghilterra; ovvero retrocedere, cangiando politica, per favorire Roma, Francia, ed Austria.

Una lotta pure politico-religiosa sorgeva in. quel tempo in Toscana, ove dalle Autorità granducali furono condannati i conjugi Madiai, vuoisi per protestantismo) vuoisi per proselitismo. 1 protestanti del continente si unirono ad una deputazione inglese e si recarono.. a. Firenze) onde chiedere al Granduca ragione o meglio la revoca di quella condanna. Questi signori erano: Agenore di Gasparin e di Mimout, per la Francia; Elout di Souterwoude, per l’OIanda; Van Pistorius, per il Wirtemberg; Bethinan HolIvveg, per la Prussia; ed. il colonnello Tronchin, per la Svizzera. Chiesero una udienza al Granduca, dirigendo al ministro degli esteri, duca di Casigliano, la seguente lettera:

«Firenze, 24 ottobre 1852.

«Signor Ministro.

«Abbiamo ricorso a V. E. perché le piaccia. di supplicare S. A. I. di accordarci un’udienza, essendo nostro desiderio, di esporne a: S. A. quanta simpatia destino i coniugi Madiai nei nostri correligionarii.

«Noi ci presentiamo come semplici delegati dei cristiani evangelici di diversi paesi, senza dissimulare, a noi. stessi, che, come tali, non abbiamo nessun, diritto di. sollecitare il favore di essere ricevuti da S. A. I.; e senza complicare, con un intervento e con un’influenza politica qualunque, un passo che deve essere unicamente, religioso.

«Per tal motivo, non abbiamo voluto ricorrere all’intromissione di nessuno dei ministri accreditati presso il governo granducale, sperando che la nostra domanda, appunto, perché fatta nel solo nostro nome, sarà accolta con benevolenza.

«S. A. I. apprezzerà il nostro contegno, e il Sentimento, che ci Spinse a raccomandare rispettosamente, all'umanità sua le condizioni del signore;e della signora Madiai.

«Aggradite, sig. Duca, l’assicurazione ecc.

«Roden A. de Gasparin Cavan.

«F. Di Mimout, Trottier

Il Duca di Casigliano rispose la seguente:

All'Onorevole signor Conte di Roden.

pari d'Inghilterra, a Firenze.

«Firenze, 25 ottobre 1852.

«Milord!

«Ho posta sotto gli occhi del mio augusto Sovrano la lettera firmata dalle persone, in capo delle quali trovasi il vostro nome, e che mi è stata diretta in data del 24 del mese corrente.

«S. A. Le R. apprezzando la forma, da voi data al contegno seguito, avrebbe certamente respinto qualsivoglia ingerenza politica, e gli onorevoli agenti diplomatici, residenti presso questa Corte, si sarebbero guardati dall’esercitarla.

«I nominati Madiai, marito e moglie, sudditi toscani, sono stati condannati a cinque anni di reclusione dai Tribunali ordinarli, per delitto di propaganda protestante, la quale, perché attacca la religione dello Stato, è punita dalle nostre leggi. La loro pena è una applicazione di queste ultime e la loro appellazione, per la revisione della causa, è stata respinta dal Tribunale di cassazione S. A. I. e R, riservandosi di esercitare la sua alta prerogativa, nel caso e nel momento che stimerà opportuni,non può accettare nessuna ingerenza in un affare, che concerne l’amministrazione della giustizia nei suoi Stati, e la sua azione sopra i suoi proprii sudditi.

Il mio augusto Sovrano facendo ragione ai sentimenti di benevolenza, che ispirano la vostra condotta, ma non credendo di dover ascoltare nessun intervento in proposito, mi ordina di farvi conoscere, o milord, che gli duole di ndu potervi accordare la udienza implorata da voi e dagli altri che sottoscrissero la lettera a me diretta.

«Aggradite, milord, ecc.

«Il Duca di Casigliano.»

A questo rifiuto, i protestanti, anziché smarrirsi, consegnarono al Granduca, l’indirizzo seguente:

«Monsignore!

«S. A. I. e R. sa con quale carattere e con qual fine abbiamo l'onore di presentarci al suo cospetto; noi abbiamo evitato, noti solo di aver ricorso ad un intervento diplomatico, che avrebbe pregiudicato al carattere unicamente religioso del nostro intervento, ma noi facciamo sin d’ora manifesto il desiderio che l’opera nostra non sia avuta in conto di un antecedente legale per una futura azione politica.

«Qui non vi sono che semplici cristiani, che rappresentano milioni d’altri cristiani, i quali non vogliono avere altre armi che la preghiera, altra forza che quella del loro divino maestro. É questa un’ambasciata di nuovo genere, e che manifesta, osiamo pensarlo, il nostro rispetto pei sentimenti del Principe, a cui è diretta. I nostri fratelli ci hanno detto; «Andate, non in nome di tale o tale altra Potenza protestante, ma in nome del Signore Gesù; andate e portate al Sovrano della Toscana l’espressione della profonda simpatia, che eccita in noi la condizione del signore e della signora Madiai. Osiamo sperare che S. A. 1. R. vorrà por mente a queste simpatie si generali.

«Noi non commetteremo, Monsignore, lo sconcio di manifestare Un’opinione sulla legge stata applicata e sul modo di sua applicazione. Certamente non è da noi d’ingerirci nella legislazione o nell’amministrazione della giustizia ne’ vostri Stati; noi proviamo soltanto il bisogno d’aggiungere una parola, che giustificherà la nostra partecipazione, mostrando che ciò, che noi bramiamo pei nostri correligionarii, non è da noi negato alle persone estranee alla nostra fede.

«Il cattolicismo romano è libero nei paesi protestanti, che noi rappresentiamo. V. A. 1. e R. comprende il motivo, al quale è da noi richiamato questo fatto. Come avremmo noi osato dirigere la nostra istanza a favore dei nostri fratelli, gli sposi Madiai, se non fosse tra noi accettata la libertà del cattolicismo romano? Noi avremmo mancato, monsignore, alla profonda riverenza, che dobbiamo a V. A. I. e R., se non avessimo francamente tenuto questo linguaggio.

Lariverenza non è solo sulle nostre labbra, ma è pure nei nostri cuori. I Cristiani evangelici, che ci hanno inviati qui, hanno tutti imparato dai libri santi ad onorare le podestà stabilite, e le loro preci per V. A. I. R. si sono congiunte a quelle,che da tutte le parti dell’Europa e dell’America s’innalzano ora pe’ nostri fratelli Madiai.

«Osiamo sperare, monsignore, che la vostra risposta darà piena consolazione a coloro, che ci hanno inviati.

«Roden. A. De Gasparin, A. De Bonin,

«Cavati, F. De Mimout, Trotier.

Prima di offrire la soluzione di tale pendenza ci è mestieri chiamare la nostra attenzione sopra una nuova società secreta scoperta a Firenze, alla quale dalla polizia venivano sequestrate liste di nomi, statuti di associazione, sigilli ed altro. Questa società, istituita già sempre per lo scopo solito, aveva comitati qua e là, ed era stata organizzata a Firenze stessa. Epperò vennero espulsi dalla Toscana il marchese Constabili di Ferrara, il marchese Antaldi di Perugia, il conte Biancoli di Bologna ed altri molti. Correva voce che anche la emigrazione francese ed italiana venisse allontanata. Nel Ministero sardo, ove era già cessata la crisi, furono introdotti nel gabinetto Cavour, e San Martino, mentre il terrorista Orazio Mazza veniva chiamato dal Re delle Due Sicilie alla direzione generale della polizia, per viemaggiormente angustiare quelle popolazioni; e mentre il comando militare francese, a Roma, ordinava per la terza volta un nuovo disarmo nei cittadini, tanto era minacciata continuamente la vita de' suoi soldati. Correvano intanto presso i Governi assolutisti le più strane voci di attentati di guerra vicina, di macchinazioni, di congiure estese sopra una grande scala, e di simili altre possibili eventualità, le quali, a loro avviso, davano, loro il diritto a raddoppiare i rigori. Forse offri vano ragione a quei governi di una tanta necessità di precauzioni, i manifesti incendiari! e virulenti, che, da Londra, il Comitato della demagogia-sociale divulgava in Italia, ove predicavasi quasi all’apoteosi la teoria dell’assassinio politico: ammazzate tutti i tiranni della terra, si diceva in quei manifesti, se volete libertà e redenzione. Forse in virtù di quella infame fatale teoria, veniva io Firenze, da mano ignota, attentata la vita del. primo ministro di Stato, Baldasseroni. Furono fatti molti arresti immediatamente, ma il vero colpevole fuggi coi denari che il Comitato demagogico, gli aveva procuralo; il fatto si è, che. popoli e governi si trovavano in quell’epoca in una grande; agitazione: gli uni temevano degli altri, quasi si pronosticasse vicina una pubblica calamità.

I protestanti, che,sin Toscana, peroravano la causa dei coniugi Francesco, e Rosa Madiai, non essendo stato evaso li loro indirizzo a S. A. l. R. il Granduca, fecero altri passi, più energici, ponendosi fuori dal campo religioso sul quale avevano sino allora calcato. Epperò S. M, il Re di Baviera, mandò a Firenze il conte Arnim, non come Re protestante, ma sibbene come membro principesco-della Chiesa, evangelica, incaricato di sciorre i nodi di quella vertenza, La. soluzione non senza molte difficoltà fu alla fin fine favorevole ai coniugi Mediai. Quel fatto, politicamente parlando, aveva la seguente significazione: la Chiesa, anglicana aveva. preso il, sopravvento sulla cattolica, ed il piccolo Gabinetto toscano dovette cedere alla forza maggiore, anche in cose spettanti direttamente Io esercizio dell’interno suo potere e diritto. I toscani intanto, che consideravano la legge che puniva il proselitismo, una legge ledente la libertà della volontà e della coscienza, batterono palma a palma per lo accontentamento, e con attestati significativi di gioia e trasporto, accompagnarono a bordo i vittoriosi protestanti. Ma non batterono le mani i sardi al Magistrato d’appello sedente a Casale per la sentenza ch'ei pronunziava, il 22 nov., portante la condanna di 10 mesi di carcere all’avvocato Cattaneo, convinto di spaccio dell’opera intitolata la Filosofia della Rivoluzione del Ferrari, perché conteneva offese alla religione dello Stato ed alla monarchia costituzionale. Bensì veramente espansi ed esaltati, colla gioia religiosa dipinta in volto, e col dolore in cuore assistettero alle pompe cittadine offerte maestrevolmente, quale dimostrazione politica da tutti i corpi, da tutti i ceti, da tutti i partiti non retrogradi, in onore delle ceneri del grande filosofo Gioberti, il dì 2 dicembre. Quella fu una festa religiosa, alla quale tutti presero parte,. meno il clero fu una festa patria, che trovò eco in ogni remoto paese dell’Italia, e che servi egregiamente a. suscitare i timori dell’oscurantismo, mentre fomentava le speranze del liberalismo. A Genova intanto aveva luogo una festa di altro genere: inauguravasi la già costituita Società per |a navigazione transatlantica, e molti cospicui capitalisti inglesi vi prestavano il loro possente con? corso. Per tal modo, Genova portava le sue vele in lontani lidi stranieri, per ricondurli poi al suo porto lieti ed onusti di esterne derrate. Cosi aumentavansi i rapporti commerciali della Liguria, che dovevano poi apportare il benessere di tutto lo Stato.

Ma se in Piemonte, pegli accennati motivi, vi erano feste patrie, nel Regno Lombardo-Veneto invece la seguente sentenza costernò tutti gli animi, pubblicata in Mantova il 4 dicembre, ed eseguita il giorno 7.

«Sentenza

«1. Tazzoli Enrico, nato a Caneto, domiciliato in Mantova, d’anni 39, sacerdote e professore del Seminario vescovile.

«2. Scarsellini Angelo, nato in Legnago, domiciliato in Venezia, d’anni 30, nubile, cattolico, macellaio e possidente.

3. De Canal Bernardo, nato e domiciliato in Venezia, d’anni 28, cattolico, nubile, senza stabile occupazione.

«4. Zambelli Giovanni, nato e domiciliato in Venezia, d’anni 33, cattolico, nubile, ritrattista.

«5. Paganoni Giovanni, nato e domiciliato in Venezia, d’anni 33, cattolico, nubile, agente di commercio.

«6. Mangili Angelo, nato in Milano, domiciliato in Venezia, d’anni 28, negoziante, ammogliato, cattolico.

«7. Faccioli dott. Giulio, nato e domiciliato in Verona, d’anni 42, celibe, cattolico, avvocato.

«8. Poma dott. Carlo, nato e domiciliato in Mantova, d anni 29, cattolico, nubile, medico addetto a questo Civico spedale.

«9. Quintavalle dott. Giuseppe, nato e domiciliato in Mantova, d’anni 44, medico, vedovo, cattolico.

«40. Monelli Giuseppe, nato a Goito, domiciliato qual parroco a S. Silvestro, Provincia di Mantova, di anni 42.

«Confessarono, previa legale constatazione dei fatti e precisamente:

«Tazzoli Enrico, di essere stato uno dei capi del Comitato rivoluzionario mantovano, le di cui tendenze erano di fare scoppiare una sommossa popolare, onde conseguire in tal guisa la violenta separazione dei Regno Lombardo-Veneto dall’Austria, e la di lui repubblicanizzazione; di avere incamminate le relazioni con altri Comitati rivoluzionarii e col Mazzini; di aver diffusa ingente quantità di cartelle dell’imprestito mazziniano e di stampe incendiarie; di avere progettato, allo scopo rivoluzionario, l’effettuatosi imprestito provinciale Lombardo-Veneto; di essere stato in cognizione dell’attentato alla sacra persona di S. M., progettato dal veneto Scarsellini, e di avere inoltre coll’azione e col consiglio cooperato per la violenta mutazione della forma del Governo;

«Angelo Scarsellini, di essere stato uno dei capi del Comitato rivoluzionario centrale di Venezia, basato sulle esposte tendenze sovversive, di avere intrapreso nell’interesse dei detto Comitato ripetuti viaggi a Torino, Genova e Londra; di aver trattato coi Mazzini in riguardo allo scopo della sommossa; di avere incamminate le trattative per le occorrenti armi; di aver progettato un attentato contro 1% sacra persona di S. M. l’Imperatore, e di avere cooperato, per lo scopo del partito rivoluzionario mediante organizzazione di altri Comitati e diffusione di cartelle dell’imprestito mazziniano;

«Bernardo De-Canal, Giovanni Zambelli e Giovanni Paganoni, tutti e tre di essere stati capi del Comitato rivoluzionario veneto; di avere mediante affigliazione di congiurati e diffusione di cartelle mazziniane, cooperato per la violenta mutazione della forma del Governo; di essere stati in cognizione dell’attentato alla sacra persona di S. M., progettato dallo Scarsellini, e di avere, in quanto alli Canal e Zambelli, formato Comitati rivoluzionarti a Padova, Vicenza e Treviso;;

«Angelo Mangili, di aver appartenuto alla Società secreta rivoluzionaria in Verona; di avere effettuata la relazione del Comitato centrale veneto con quello di Mantova, di aver intrapreso più viaggi nell’interesse del partito rivoluzionario e di aver pel medesimo dimostrata molta attività;

«Dott. Carlo Poma, di essere stato membro istitutore della Società secreta mantovana; di aver fatto servire la sua abitazione a deposito di stampe incendiarie, destinate alla diramazione; di aver, nel carnevale p. p., ricevuto ed accettato l’ordine da uno dei capi del Comitato mantovano di far assassinare, col mezzo di appositi sicarii, l'I. R. Commissario di polizia, Filippo Rossi, e di avere a ciò disposti gli occorrenti preparativi;

«Dott. Giuseppe Quinta valle, di essere stato membro istitutore della Società secreta mantovana e, per qualche tempo, cassiere del Comitato; di aver, mediante offerte mensili e compera di cartelle mazziniane, cooperato a conseguire i mezzi per la sommossa, e di aver posseduti proclami incendiarli;

«Giuseppe Ottonelli, di essersi lasciato affigliare dal Tazzoli alla congiura, e di aver contribuito, mediante offerte mensili e compera di cartelle mazziniane, onde provvedere i mezzi per la rivoluzione.

«Tradotti quindi innanzi al Consiglio di guerra, radunatosi il giorno 43 novembre p. p. i predetti inquisiti Enrico Tazzoli, Angelo Scarsellini, Bernardo de-Canal, Giovanni Zambelli, Giovanni Paganoni, Angelo Mangili, Dott. Giulio Faccioli, dott. Carlo Poma, dott. Giuseppe Juintavalle, e Giuseppe Ottonelli, furono, in base della propria confessione, dichiarati rei del delitto di alto tradimento, aggravato, in riguardo al dott. Poma, di correità nell’attentato di assassinio por mandato, e come tali, a tenore dell'art. 5. di guerra, degli articoli 64 e 94 del Codice pepale militare, e del Proclama 40 marzo 1849 di S. E. il sig. feld-maresciallo conte Radetzkv, vennero, a voti unanimi, condannati tutti e dieci i predetti inquisiti alla pena di morte, da eseguirsi colla forca.

Rassegnata tale sentenza a S. E. il feld-maresciallo, governatore generale del Regno Lombardo-Veneto, conte Radetzkv, trovò di confermarla pienamente in via di diritto, ordinandone l’esecuzione nelle persone di Enrico Tazzoli, Angelo Scarsellini, Bernardo De-Canal, Giovanni Zambelli e Cario Poma; e, condonando la pene di morte, in via di grazia, agli altri inquisiti, trovò di commutarla al Giovanni Paganoni, per essersi dimostrato meno attivo, ed al Giulio Faccioli, per aver dimostrato grande pentimento, in dodici anni di carcere in ferri per ciascuno; all'Angelo Mangili, per aver da qualche tempo troncata la relazione coi cospiratori, ed al Giuseppe Quinavalle, per la sua antecedente incensurabile condotta, e perché sedotto, ed all'Ottonelli, in quattro anni di carcere in ferri, da espiarsi per tutti cinque in una fortezza.

«Tale sentenza, fu pubblicata il giorno 4 dicembre corrente, ed eseguita oggi stesso la pena capitale, mediante la forca, nelle persone di Tazzoli Enrico, Scarsellini Angelo, De-Canal Bernardo, Zambelli Giovanni, e Poma Carlo.

«Mantova, li 7 dicembre 1852.

«L'I. R. Tenente maresciallo comandante la fortezza» Cablo Barone De Coloz.»

Intanto in Francia ed a Roma, dai francesi di occupazione militari, facevansi feste per la proclamazione dell’imperatore Napoleone in. Il Casino della ufficialità francese era illuminato sfarzosamente e vi accorrevano a sera tarda le dame dell'aristocrazia e delle ambascierie a vederlo, ma i romani si prevalsero pure di quella circostanza per fare una dimostrazione in senso contrario. Insozzarono e tagliarono gli abiti delle dame tra fischi e risate. La polizia agi con severità operando, come al solito, arresti e perlustrazioni. All'indomane nuovi proclami, e militari e poliziotti invitarono i cittadini, colle solite intimazioni e minaccie di pene e di multe, a deporre le armi sacrileghe che osarono di tagliare le vesti donnesche. Roma intanto trepidava per la legge del contratto civile di matrimonio, che stavasi discutendo nella Camera senatoria di Torino. I vescovi degli Stati sardi, tutti in massa, protestarono contro quella legge e scagliarono scomuniche; la lotta ardeva tra popolo e clero, tra deputati e senatori, tra liberali ed oscurantisti. Molti parrochi vennero ancora carcerati od esiliati: molti vescovi soffrirono vessazioni e rimarchi dagl'intendenti e dai ministri. I vescovi emanarono un’enciclica concepita in questi sensi:

«1. Per forza di niuna legge civile niente potrà mai essere od intendersi innovato, mutato, annullato di quanto, intorno al sacramento del matrimonio, si trova sancito, ordinato, definito dalla Chiesa, ed in ispecie dal sacro Concilio di Trento, sia in ordine agli sponsali ed alle obbligazioni, sia al numero ed alla specie degli impedimenti, tanto impedienti che dirimenti, sia riguardo alle cause per le dispense ed al modo d’impetrarle, sia ai giudici ecclesiastici delle cause matrimoniali.

«2. Chiunque de' nostri diocesani, intorno al sacramento del matrimonio, professerà, difenderà, insegnerà dottrine contrarie alle insegnate,. proposte dalla

«93 S. Chiesa Cattolica, a quelle in ispecie definite nei canoni del sacro Concilio di Trento, e nella Costituzione dogmatica Auctorem fidei, per questi fatti si avrà egli volontariamente separato dalla comunione della Chiesa, e sarà incorso in tutte le pene fulminate dalla medesima contro gli eretici ed i loro fautori.

«3. Chiunque de' nostri diocesani incontrerà matrimonio in altra forma da quella stabilita dalla S. M. Chiesa, incorrerà pel fatto stesso nella scomunica maggiore.

«4. Conseguentemente, coloro, i quali si faranno rei dei delitti contemplati nei precedenti numeri 2 e 3, s’intenderanno privati, issofatto, della partecipazione dei SS. Sacramenti, tanto nel corso della vita, che all'ora della morte, a meno che non abbiano prima ritrattati convenevolmente i loro errori, riparati i danni e gli scandali, e non abbiano fatto legittimare, secondo le prescrizioni della Chiesa, il loro matrimonio, o non siansi separati dalla persona, che la Chiesa non può riguardare che come una concubina.

«5. Del pari, chiunque, reo dei premessi delitti, verrà a morire, senza essersi riconciliato con Dio e colla sua Chiesa, sarà privato della sepoltura ecclesiastica.

«6. I figliuoli, nati da un maritaggio contratto altrimenti che secondo il rito della S. M. Chiesa, siccome frutti di un vero concubinato, saranno riconosciuti illegittimi per tutti gli effetti, che, a norma dei sacri canoni, dai soli matrimonii validamente contratti possono derivare.»

Il Re s'Impaurì della procella, che ovunque tuonava e minacciava rovine, e decretò, il 24 dicembre, la sospensione ed il ritiro della legge del contratto civile di matrimonio. Roma applaudì a quell'atto chiesto da si imperiose circostanze, e il clero si rallegrò.

Buffa, uomo di liberali principii avanzati, fu nominato intendente di. Genova.

Le Camere attesero alla votazione di nuove leggi, senza alcun colore politico e religioso.

I senatori, che votarono a favore di quella legge fatale, che destando tante suscettibilità e turbando tante coscienze aveva suscitato un disordine generale, furono Alfieri di Sostegno, Plezza avv. Giulio comm. prof., Cibrario ministro, Maestri consigliere di Stato, Mosca cav. Ambrosetti; Balbi-Piovena marchese, Benevello Della Chiesa conte, Bermondi avv. gen. alla Corte di cassazione, Cantù cav. prof., Chiodo generale, Collegno Giacinto conte, Defornari conte, Demargherita barone, Desambrois presidente del Consiglio di Stato, D’Otria marchese Giorgio, Fraschini cav. consigl. di Stato, Gioia cav. consigl. di Stato, Jacquemond barone consigl. di Stato, Aimerich di Laconi, Malaspina marchese, Mazza-Saluzzo conte presid., Musio cav. presid. di cassazione, Nigra cav. grancroce dell’ordine Mauriz., Pinelli conte presid.,. Prat conte Ferdinando generale, Riberi comm. prof., Ricci marchese Alberto, Serra marchese Domenico, Siccardi conte presid. di cassazione, Spinola marchese, Vesme conte Carlo, Conelli de Prosperi avv., Cagnone cav. consigl. di Stato, Caccia conte, Tornielli di Borgolavezaro marchese, Dabormida generale e ministro.

Se si volesse ora raccorre in un sol gruppo, e caratterizzare con equa bilancia tutti gli avvenimenti del 1852, per noi narrati, saremmo obbligati a riconoscere, che. tanto la libertà portata in Piemonte ad eccessivo grado, quanto la oppressione nelle altri parti d’Italia, spinta oltre il dovuto confine, partorirono, ambe toccandosi negli estremi, lo stesso frutto: la corruzione.

Avevano eglino, il Piemonte e gli altri Governi italiani, il diritto di spingere le cose tant’oltre? Ciò noi vedremo nel seguente Capitolo, in fronte all’anno 1855. Intanto, siccome noi abbiamo veduto i pensamenti del Piemonte intorno al contratto civile di matrimonio, cosi egli è di giustizia, prima di chiudere il presente capitolo, di vedere eziandio quali erano le opinioni della Santa Sede sullo stesso soggetto. Correvano due voci in quei di, la prima che S. M. Vittorio Emmanuele avesse scritto in proposito a S. S. Pio IX; la seconda che S. S. Pio IX avesse risposto a S. M. con un suo autografo concepito nei sensi, che or noi riportiamo per copia conforme, lasciandone al lettore il giudizio.

«Castelgandolfo, 19 settembre 1852

«La lettera che V. M. ci ha fatto tenere, in data 25 luglio ultimo, in seguito d’altra da noi direttale, ha dato motivo di consolazione al nostro cuore, riconoscendo in quella un’interpellazione, che un Sovrano cattolico dirige al Capo della Chiesa, nel gravissimo argomento del progetto di legge sui matrimonii civili. Questa prova di rispetto verso la nostra santa religione, che V. M. ci presenta, ben dimostra il retaggio glorioso, chele fu trasmesso dagli augusti suoi antenati; l’amore, cioè, alla fede dà questi professata, per cui abbiamo ferma fiducia che ella saprà conservarne puro il deposito a beneficio di tutti i suoi sudditi, a fronte della malvagità dei tempi che corrono.

«Questa lettera ci chiama ad eseguire i doveri dell'apostolico nostro ministero, dandole una risposta franca e decisa;e ciò facciamo tanto più volentieri in quanto che V. M., ci assicura, terrà questa risposta in molto conto.

«Senza entrare a discutere il contenuto nei fogli dei ministri regii, ch'ella ci ha inviati, nei quali si prebende fare l'apologia della legge 9 aprile 1850 insieme al progetto dell’altra sul matrimonio civile, facendo derivare quest’ultima dagl’impegni contratti nella pubblicazione della prima; senza osservare che quest'apologia si fé nel momento stesso, in cui pendono le trattative iniziate per la conciliazione dei diritti della Chiesa violati da quelle leggi; senza qualificare alcuni principii che in detti fogli si esternano, evidentemente contrarii alla santa dottrina della Chiesa, ci proponiamo soltanto d’esporre, colla brevità che conviene ai limiti diana lettera, la dottrina cattolica in tale argomento. Da questa dottrina ella rileverà quant’occorre, affinché quest’affare importante sia messo in regola; la qual cosa tanto più convinti di poter ritenere, in quanto ohe i suoi ministri hanno dichiarato di non consentire mai a fare una proposizione contraria ai precetti della religione, qualunque siano le opinioni prevalenti.

«È dogma di fede essere stato il matrimonio da Gesù Cristo nostro Signore elevato alla dignità di sacramento; ed è dottrina della Chiesa cattolica che il sacramento non è una qualità accidentale aggiunta al contratto, ma è di essenza al matrimonio stesso; cosi che l’unione coniugale tra i cristiani non è legittima se non nel matrimonio sacramento, fuori del quale non vi è che un pretto concubinato.

«Una legge civile, che supponendo divisibile pei Cattolici il sacramento dal contratto di matrimonio, pretenda di regolarne la validità, contraddice alla dottrina della Chiesa, invade i diritti inalienabili della medesima, e praticamente parifica il concubinato al sacramento del matrimonio, sanzionando legittimo l’uno come l’altro.

«Né la dottrina della Chiesa sarebbe posta in salvo, né bastantemente sarebbero garantiti i diritti della Chiesa stessa, ove venissero adottate nella discussione del Senato le due condizioni, accennate dai ministri di V. M., primo, cioè, che la legge tenga per validi i matrimonii regolarmente celebrati al cospetto della Chiosa, secondo che, quando siasi celebrato un matrimonio, che la Chiesa non riconosce per valido, la parte che più tardi vuole uniformarsi a' suoi precetti, non sia tenuta a perseverare in una convivenza condannata dalla religione. Imperciocché, quanto alla prima condizione, o s’intendono validi i matrimonii regolarmente celebrati innanzi, la Chiesa, e in questo caso la disposizione della legge è superflua; ché anzi sarebbe nna vera usurpazione del poter legittimo, qualora la legge civile pretendesse di conoscere e giudicare se il sacramento del matrimonio sia stato regolarmente celebrato in faciem Ecclesiae; o si vogliono intendere per validi avanti la medesima quei soli matrimonii contratti regolarmente, cioè, secondo le leggi civili; ed anche in questo caso si va a violare un diritto, ch'è di esclusiva competenza della Chiesa.

«Per la seconda condizione poi, lasciandosi ad una delle parti la libertà di non perseverare in una convivenza illecita, stante la nullità del matrimonio, perché non celebrato avanti la Chiesa, né in conformità delle sue leggi, si lascierebbe sussistere come legittima avanti il potere civile un’unione, che viene dalla religione condannata. Ambedue poi le condizioni, non distruggendo il supposto dal quale parte la legge in tutte le sue disposizioni, di separare il sacramento dal contratto, lasciano sussistere l’opposizione indicata di sopra tra la legge stessa e la dottrina della Chiesa intorno al matrimonio.

«Non vi è pertanto altro mezzo di conciliazione che, ritenendo Cesare quello ch'è suo, lasci alla Chiesa quello che ad essa appartiene. Il potere civile disponga pure degli effetti civili, che derivano dalle nozze; ma lasci alla Chiesa il regolarne la validità tra i cristiani. La legge civile prenda le mosse dalla validità del matrimonio, come sarà dalla Chiesa determinato, e partendo da questo fatto (ch'è fuori della sua sfera il costituirlo) disponga allora degli effetti civili.

«La lettera di V. M. però ci chiama a chiarire altre proposizioni, che abbiamo rilevate dalla medesima. E primieramente V. M. dice di avere saputo da un canale, ch’ella deve credere uffiziale, che la proposta di legge non fu riguardata da noi per ostile alla Chiesa. Abbiamo voluto su questo proposito parlare, prima della sua partenza da Roma, col ministro di V. M. conte Bertone, il quale ci bà assicurato sull’onore suo di avere scritto unicamente ai ministri di V. M. che il Papa non poteva nulla opporre, se, conservati al sacramento tutti i suoi diritti, e la libertà che gli compete, si fossero volute fare leggi riguardanti solo gli effetti civili del matrimonio.

«Ella aggiunge che quelle strane leggi, le quali sono in vigore presso certi Stati limitrofi del Regno del Piemonte ((3)), non hanno impedito la Santa Sede di riguardarli con occhio di benevolenza e di amore. A questo risponderemo che la Santa Sede non si è mai acquietata sui fatti che si citano, e sempre ((4)) ha reclamato contro queste leggi, appena ne conobbe resistenza, conservandosi anche adesso nei nostri archivii i documenti delle fatte rimostranze; ma queste non hanno mai impedito e non impediranno di amare i cattolici di quelle nazioni, che furono costrette a sottoporsi alle esigenze di quelle leggi. Dovremo forse non amare i cattolici del suo Regno quando ancora si trovassero nella dura necessità di subire questa legge? Mai no! Diremo di più: dovranno cessare in noi i sentimenti di carità verso la M. V., nel caso si trovasse trascinata (che Iddio noi permetta mai) a sanzionarla? La nostra carità si raddoppierebbe, e con zelo maggiore dirigeremo più fervide preghiere a Dio, supplicandolo a non voler togliere la sua mano onnipotente dal capo di V. M. e a volerla soccorrere più che mai co’ lumi e colle ispirazioni della sua grazia.

«Intanto però non possiamo a meno, e sentiamo tutto il debito che ci corre di prevenire il male, per quanto da noi dipende; e dichiariamo a V. M. che se la Santa Sede ha reclamato altra volta contro questa legge, oggi più che mai è stretta di farlo verso il Piemonte, e nei modi più solenni, perché appunto il ministero di V. M. Invoca gli esempi degli altri Stati, dei quali funesti esempi incorre a noi il dovere d’impedire la riproduzione; ed anche perché, procedendosi allo stabilimento di una tal legge in tempo che sono aperte le trattative per la conciliazione di altri affari, una tal condizione potrebbe forse somministrare l’occasione di far supporre che vi fosse una qualche connivenza per parte della Santa Sede. Ci sarebbe veramente penoso un tal passo.... ma non potremmo esonerarcene avanti a Dio, il quale ci affidò il regime della S. Chiesa e la custodia de' suoi diritti. Solo V. M. potrebbe arrecarci questo grande conforto, col toglierne l’occasione, e una sua asserzione in proposito compirebbe la' consolazione che abbiamo noi provata nell’essersi Ella a noi diretta; e quanto più sollecita sarà la sua risposta, tanto ci riuscirà più gradita, come quella che ci solleverà da un,pensiero che affligge assai il nostro cuore, ma che saremmo costretti di sentire nella sua piena estensione, quando uno stretto dovere di co scienza reclamasse da noi quest'atto solenne.

«Ora ci resta dichiarare l’equivoco, in cui è V. M. circa l’amministrazione della diocesi di Torino. Senza trattenerla soverchiamente, noi le domandiamo solo di avere la pazienza di leggere le due nostre lettere, a lei dirette in data del 7 settembre e del 9 novembre. Il suo ministro in Roma, ora in 'forino, potrà anche riferirle a questo proposito una nostra riflessione, a lui esternata, e che ora riferiremo ingenuamente a V. M. Insistendo egli, il ministro, sulla nomina dell’amministratore della diocesi di Torino, facemmo ad esso osservare che il Ministero piemontese essendosi reso responsabile della riprovevole carcerazione e dell’esilio di monsignor Arcivescovo, ha ottenuto un fine, che non sappiamo se fosse nelle sue mani; ha ottenuto cioè, che il prelato abbia incontrato la simpatia ed il rispetto di tanta parte del cattolicismo, dimostratogli in tante maniere, per cui siamo stati oggi posti nell’impossibilità di andare incontro all’ammirazione dello stesso cattolicismo con privare monsignor Arcivescovo dell’amministrazione della sua diocesi.

«Finalmente rispondiamo all'ultima osservazione, che V. M. ci esterna, addebitando, ad una parte del clero piemontese-pontificio, di far guerra al suo Governo e di eccitare i sudditi alla rivolta contro di lui, e contro le sue leggi. Una tale asserzione ci sembrerebbe inverosimile, se non ci fosse scritta da V. M., la quale assicura di averne in mano i documenti. Ci duole solo, di non conoscere questi documenti, per non sapere quali sieno i membri del clero, che si sarebbero accinti alla pessima. impresa di eccitare una rivoluzione in Piemonte. Questa ignoranza ci pone nella necessità di non poterli punire. Se mai però si intendessero per eccitamento alla rivolta gli scritti, che per parte del clero sono comparsi, per opporsi al progetto di legge sul matrimonio, diremo che, prescindendo dai modi che qualcuno avesse potuto adoperare, il clero ha fatto il suo dovere. Noi scrivemmo a V. M. che la legge non è cattolica; e se la legge non è cattolica, è obbligato il clero di avvertirne i fedeli, anche a fronte del pericolo che incorre; Maestà, noi le parliamo anche a nome di G. G., del quale siamo Vicario, quantunque indegni, e nel suo nome le diciamo di non sanzionare questa legge, ch'è fertile di mille disordini.

«La preghiamo ancora di volere ordinare che sia messo un freno alla stampa, che ribocca continuamente di bestemmie e d’immoralità. Deh! per pietà che quesiti peccati non si riversino mai sopra chi, avendone il potare, non ne impedisce la causa IV. M. si lamenta del clero; ma questo clero è stato sempre in questi ultimi anni avvilito, bersagliato, calunniato, deriso da quasi tutti i fogli che si stampano in Piemonte, e non si potrebbero ridire tutte le villanie e le rabbiose invettive scagliate e che si scagliano contro questo clero. Ed ora perché esso difende la purità della fede, ed i principii della verità, dovrà forse questo clero incontrare la disgrazia della M. V.? Noi non. possiamo persuadercene, e ci abbandoniamo volentieri alla speranza di vedere da Lei sostenuti ì diritti della Chiesa, protetti i suoi ministri, e liberato il suo popolo dal dover sottostare a certe leggi, che seco portano l’impronta della decadenza della religione è della moralità negli Stati.

«Pieni di questa fiducia, alziamo le mani al cielo, pregando la santissima Trinità a far discendere la bene dizione apostolica sopra l’augusta Sua Persona e tutta la reale famiglia.»

«Sott. Pius P. P. IX.

«Pontif. nostri anno VII.»


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CAPITOLO VII

L’anno 1853

All’ombra dei trattati 1815, (inevitabile necessità europea di ricomporre il mondo scombuiato dalle guerre napoleoniche), l’Austria mise sotto lo scettro imperiale le attuali provincia lombarde e venete, e molti possedimenti della caduta veneta Repubblica, e stava in tutto suo diritto il dominarli ed amministrarli a suo talento. L’Austria ommetteva però lo scrupoloso studio dell'indole, della natura, del carattere, dello spirito, delle tendenze, della suscettibilità, e dell'ingegno de' nuovi suoi soggetti. Quella improvvida ommissione fruttò la promulgazione di leggi e la organizzazione di un’amministrazione, le quali, se corrispondevano da una parte alla più tarda massima del viribui unitis, cioè della centralizzazione dei poteri nella viennese capitale, e se tornarono profittevoli agli altri popoli a lei soggetti, non corrispondevano dall'altra parte alle necessarie esigenze dell’Italia.

L’Austria, come potenza eminentemente conservativa ad assolutista, non poteva naturalmente cangiar indole, natura e sistema, E una volta che codesta sua politica ereditaria e tradizionale erasi in lei tanto immedesimata da formare il. suo distintivo, il suo essere, l’Austria non poteva considerare ogni altro modo di vedere di sentire, di operare che come un attentato alla sua sovranità. Ecco come divenne nell'Austria un istinto, ciò che in origine non fu altro che una istituzione, Da questo istinto poi, come indeclinabile conseguenza, deriva, va la convinzione che non vi fosse altro modo migliora di governare i popoli fuori del conservativo ed assoluto. Questa istintiva convinzione in progresso di tempo si associava a tutto ciò che era omogeneo, a tutto cip che la consolidava nelle sue attribuzioni e nelle sue tendenze; si associava, in una parola, alla chiesa, alla religione, anzi addiveniva ella stessa una, religione, che tra passando con secolare successione da coscienza a coscienza, da gabinetto a gabinetto, imponeva l'obbligo al potere di usare anche la forza là ove sorgessero conati ostili a quei principia, a quella religione, a quella convinzione, a quell’istinto. E quindi se adottava un sistema di amministrazione non confacente ai popoli italiani ella credeva di agire nel suo diritto, religiosamente, e in buona fede; e se adoperava la forza di repressione, la adoparava pure nello stesso senso. Ciò pertanto, la vecchia Austria introduceva anche un ordine di cose molto gravoso in Italia. Imperciocché gl'italiani vedendosilesi nel loro amor proprio, nel loro benessere sociale nella loro nazionalità, consideravano anche più pesante, di quello ch'egli era realmente, il giogo al quale furono assoggettati, e studiavano di emanciparsi col creare e perpetuare glisconvolgimenti politici. E dall'altro canto l’Austria trovandosi lesa ne' suoi diritti, o temendo di perderli, raddoppiava il rigore, ella forza, ed agiva come potenza dotata de' suoi principii di conservazione è di assolutismo. In tanto negl'italiani, che soffrivano, tanto nell'ordine morale come nel materiale, il pondo di quel diritto sostenuto dalla forza, nasceva il bisogno d'insolentire, di osteggiare, di provocare, di ribellarsi; mentre nell'Austria, che credeva di averne il dritto, e che sentiva il dovere di non tollerare alcun attentato, nasceva pure il bisogno, o la necessità di reprimere, di arrestare, di condannare, di giustiziare.

Quanto abbiamo detto in riguardo dei popoli del Lombardo-Veneto, cosi altrettanto può dirsi in riguardo a tutti gli altri luoghi, ove l'Austria, per via ditrattati, aveva diritto d'intervenzione.

Noi non amiamo discolpare l'Austria, se la sua po litica, adottata come una religione, la costringeva a tra scendere nell'uso della forza, ovvero ad amministrare fa cosa pubblica in Italia in modo passivo e negativo, ma sibbene abbiamo voluto essere storici imparziali, persuasi nel nostro cuore, che se fosse stato possibile un altro comportamento da parte dell'Austria, gliitaliani, se nulla avessero avuto da desiderare di più di quello che godevano i piemontesi, salvo sempre il loro amore per la propria nazionalità, avrebbero fatto di necessità virtù. La corruzione intanto esisteva da un polo all'altro dell'Italia, qui prodotta dall'abuso della forza, la dall'abuso della libertà.

Noi ora ci troviamo sopra il campo della questione, se il Piemonte avesseno il diritto di spingere le cose tant'oltre. IlPiemonte, come dicemmo altrove, si era assunta la missione di democratizzare tutta la Italia, onde, imbevuta che fosse da un canto all'altro dai nuovi principii ch'egli emanava, potesse col suo appoggio, e sotto ai suoi auspizii, quando si fosse, levate in massa le sue popolazioni, espellere lo straniero dal proprio suolo. Sotto quest’aspetto di nazionalità il Piemonte agiva nel suo diritto, lasciando corressero, sotto l'egida della sua costituzione, le libertà oltre ogni confine. Mai mentre colle sue provvide ed improvvideistituzioni crea va un antagonismo, che forse gli avrebbe fruttato nell’avvenire, mentre si acquistava una grande popolarità e si attirava l'attenzione di tutta Italia, corse risico, contrascendere soverchio, di soffocare le sue stesse istituzioni, la stessa sua libertà. Potete far tutto, potete dir tutto:questa legge gittata là a profusione nelle popolazioni, diede origine allo sviluppo di tale pubblica corruzione, da generare tutte le sociali piaghe che vedemmo se Piemonte dunque, sotto l'egida della costituzione, agiva nelsuo dritto, riguardo all'Italia; agiva poi a suo danno riguardo a se stesso. Egli si procacciava per tal modo il favore popolare, perchè le masse (salve poche eccezioni), nel corrompimento dei costumi e della morale trovavano pascolo alle proprie passioni ed un compenso (stolto e micidiale compenso) alle proprie sofferenze; egli raggiungeva l'aura di favore degliinvisi al clero, ch'erano molti da tutte parti dell'Italia; egli si accaparrava l’appoggio dei malviventi, dei malcontenti, degli esaltati, dei fanatici, degli atei, dei deboli di spirito, degliintemperanti e di una turba di esseri capaci di tutto, tranne di sentire od operare il bene. Ma intanto fomentava il coraggio dei repubblicani, che si prevalevano delle stoltezze e trabocchevolezze di lui per ergere il capo, per irrompere forsennati e bollenti qua e là, compromettendo tante vite; ma intanto lasciava libero il campo ai protestanti di erigere ovunque i loro altari e di seminare le loro dottrine a danno della patria religionee del cattolicismo; ma intanto, infine, egli allontanava da sé i buoni, i giusti, la nobiltà, la miglior parte deità mistica camarilla di corte, molti uomini di ingegno, in una parola tutti quelli che amavano la virtù e la religione e che odiavano il corrompimento sociale.

Egli è quindi a conchiudere che per troppo abuso della forza da un canto, e per troppo abuso di libertà dall'altro, traessero origine le fatali vicissitudini, che offrirono il carattere corrotto di quell'epoca. Furono quindi altamente commendevoli le parole dell'arcivescovo di Genova, monsignor Charvaz, pronunziate nel solenne ingresso nella propria diocesi, e precisamente ove egli; diceva: Quando vuolsi preparare gli uomini a libertà, importa appurarne primai costumi, e rassodare la religione nei loro cuori; e guanto meno il visibile patere si farà sentire sovr’essi, tanto più sarà necessaria che una forza invisibile li sostenga,e li diriga; guanto mene leggi comanderanno, tanto più bisognerà che la coscienza vi sopperisca.

Mentre ognuno colla mano sul cuore interrogava so stesso pensando come e dove sarebbono terminate quello effervescenze, nel Lombardo-Veneto, almeno apparentemente, si attendeva con alacrità alla rete delle ferrovie, alla istituzione di luoghi pii, alle opere di abbellimento delle città, agli studii, al commercio, all’agricoltura, perche argomentavasi che lo stato d’inerzia, che minacciava perpetuarsi in Italia, tornasse a tutti fatale; La stampa piemontese intanto inveiva contro ai governi esteri e contro agli esteri dominatori. Epperò il Governo, onde diminuire, se non togliere, cotali e coteste offese, che minacciavano di rendere assai difficili le relazioni internazionali, mandava fuori circolari alla metà circa di gennaio 1853, facendo ammonizioni e raccomandazioni, minacciando castighi e pene; ma ciò era un lavare l’etiope, perché quella stampa non. tollerava alcun frano.

II 18 gennaio, il generale Gemeau riceveva a Roma l’ordine da Parigi di porre in libertà quei giovani, cito col tagliare ed insozzare le vesti delle signore, e collosgridare, fischiare e ridere sgangheratamente il giorno della festa per la proclamazione dell'imperatore Napoleone III, di meritarono la reclusione. Quella loro libertàperò andò soggetta alla pena di essere eglino sottoposti alla sorveglianza della polizia, enon poter uscire di casadopo il tramonto del sole. Ma un pensièro grave occupava le menti dei prelati, ministri dello Stato pontificio, il pensiero delle finanze depauperate. Epperò tenuti variiconcistori si stava per deliberare la vendita al Re di Napoli del piccolo principato di Benevento territorio paesivo alPapa, ma che avrebbe potato, vendendolo, ristorare in parte il pubblico erario. Questa tendenza di vendita destò molte suscettibilità, e molte polemiche giornalistiche.

Ben altre suscettibilità furono offese e ‘scosse, anni veniva sparso il terrore il giorno sei febbraio nelle contrade di Milano, ove si commettevano attentati di rivoluzione. Era già molto tempo che la situazione essendo giunta ai quell’alto culmine di corruttela per noi descritta, doveva qua o là scoppiare; e scoppiò di fatti in Milano, dopo di aver covato sotterraneamente si lungo tempo. Gruppi di numerose persone, armate di stili di grossi bastoni, di lunghi chiodi, di sciabole, di fucilia di altre armi, diramati nelle più frequentate piazze «contrade gridando: Vival’Italia!tentarono, ferendo od uccidendo quanti ufficiali e soldati venissero alle loro mani, di sommuovere in rivolta la città. Epperò l’allarme fu messo nella popolazione ai negozii, le botteghe, i caffè furono chiusi più che presto. Vennero fabbricate in più siti delle barricate difese con accanimento. Si tentòprendere d'assalto il grande corpo di guardia in Piazza dei negozianti, ed al Palazzo vicereale, ma intervenne latruppa, che divisa in forti pattuglie, percorreva la città ed arrestava, e feriva per difesa, per sospetto, per paura, popolo, che si disperdeva fuggendo, per riunirsi poi in altri gruppi offensivi, o veniva disperso dalla forza pubblica. L'agitazione fu grande, e si rinovellòall'indomani con ispargimento di sangue italiano e straniero:

«I deplorabili disordini di ieri, diceva un proclama dell’i. r. tenente maresciallo, conte Strassoldo del di 7,furono provocati da un partito, il quale, impotente a raggiungere lo scopo, cui tende, ricorre a mezzi più indegni: per turbare il tranquillo cittadino nella sua sicurezza e nei suoi passatempi di carnevale, per danneggiare il commerciante e l'operaio nel suo guadagno, e per suscitare negli animi la diffidenza. Nella mia qualità di comandante, seguiva egli, ho in mano il potere di render vani i tentativi di tale partito, (forse parlava del partito repubblicano), e di tutelare il pacifico cittadino nei suoi divertimenti, come nell'esercizio della sua industria; e perciò gli abitanti di Milano non devono abbandonarsi a timori, ma confidare nella vigilanza e nella protezione delle autorità.»

Irivoltosi, non curando l'emanato proclama, continuavano giorno e notte ad aggredire nelle vie, a ferire, a trafiggere soldati ed ufficiali la sommossa prendeva larghe proporzioni incutendo maggior terrore negli austriacanti, che nei cittadini, i quali in gran numero vi avevano presa parte, sperando forse di rinnovare le famose cinque giornate del 1848. E quindi il Governo militare adoperò più energiche misure, tramutando la città in quartiere generale, arrestando quanti poteva arrestare, espellendo, dalla città, provincia e regno quanti poteva espellere, sospendendo le corse della ferrovia persi tronchi Milano-Monza-Como, e Milano-Treviglio, proibendosi bastoni ai passaggeri, dando ordini rigorosi agli albergatori, sorvegliando gli operai in modo particolare, è ponendo in attività tutti i rigori del più stretto stato di assedio.

Losolo stesso giorno 7 compariva alla luce la seguente notificazione.

L'I. R. Comando militare della Lombardia
Notificazione

«La continuazione dei disordini in questa città, e micidiali aggressioni di singoli militari da parte dei sediziosi, rendono indispensabile la più energica esecuzione dello stato d'assedio.

«Perciò, mentre saranno con tutto il rigore applicate le disposizioni del Proclama 10 marzo di S. E. ilsignor feld-maresciallo conte Radetzky, vengono emanate le seguenti prescrizioni:

«1. È proibita ogni unione di più di tre persone sulla pubblica via, e le pattuglie potranno, ove occorra, far anche uso delle armi contro coloro, che fossero colti in contravvenzione a questo divieto, e che non si separassero alla intimazione loro fatta all'uopo.

«2. Tutti gliindividui, che per il disposto della Notificazione:12 aprile 1854 N. 837. H. P. di questo, I. R. Comando militare, sono obbligati a notificare gl'individui cui danno alloggio, entro 12 ore da che gli hanno accolti nelle rispettive case, vengono diffidati ad ebbe dirvi, sotto comminatoria di una multa di 300 lire, dà infliggersi già alla prima contravvenzione, e dà commutarsi in arresto equipollente, quando non avessero i mezzi dipagare la multa.

«In caso di recidiva, sarà raddoppiata la multa o l’arresto di sopra comminato.

«Potranno inoltre essere assoggettati alle pene di legge, siccome complici degl’individui, che avessero presso di sé accolti, e non notificati entro il termine di sopra accennato.

«Milano, 7 febbraio 1853.

«L’I. R. Tenente maresciallo

«Conte Strassoldo.»

Un avviso della Direzione della polizia, sottoscritto dall’i. r.colonnello direttore Francois nella stessa data» intimava a tutti forestieri di partire immediatamente da Milano, e sgomberare delle loro persone la città. La stessa Direttone con altro avviso dell’8,. sottoscritto dal vicedirettore Martinez, intimava, per ordine dell'eccelso i.. r. Comando militare della Lombardia, la chiusura di tutti i teatri della capitale e provincia. Il 9 usciva in luce; il seguente

Proclama

Agli abitanti del Regno Lombardo-Veneto

«A rettifica ecompletamento delle Notificazioni con tenute nella Gazzetta di Milanodel 7 febbraio corrente N. S. trovo di notificare quanto segue:

«Un’orda di malfattori, armata di stili, il giorno 6 corrente, sull’imbrunire del giorno, nelle contrade della; città di Milano, aggredì proditoriamente singoli ufficiali e soldati, dei quali, 10rimasero morti, e 54 furono più. o meno gravemente feriti.

«Penetrato dal più profondo orrore contro il più nefando di tutti i delitti, qual è l'assassinio prezzolato, sono costretto di adottare severe misure contro la città di Milano, ed ho perciò ordinato, in base alle comminatorie notificate col mio Proclama del 19 luglio 1851, quanto segue:

«1. La città di Milano viene posta nel più stretto stato di assedio, il quale con tutte le sue conseguenze verrà mantenuto col massimo rigore.

«2. Verranno allontanali dalla città di Milano tutti i forestieri sospetti.

«3. La città di Milano dovrà provvedere al sostentamento dei feriti per tutta la loro vita, come altresì per quello delle famiglie degli uccisi.:

«4. Fino alla consegna e punizione dei promotori ed istigatori dei commessi misfatti, la città di Milano avrà da pagare all'intiera guarnigione, straordinariamente affaticata in causa di questi fatti, delle straordinarie competenze, dalla cui contribuzione saranno però esentati gli individui notoriamente devoti al Governo, a qualunque classe della popolazione essi appartengano.

«5. Mi riservo d’infliggere alla città di Milano, secondo il risultato delle inquisizioni, la ben meritata ulteriore pena o contribuzione.

«A quiete di tutti, rendo poi noto che la pubblica tranquillità non è stata turbata in alcun altro luogo del Regno.

«Verona, 9 febbraio 1853.

«Il Governatore generale militare e civile del Regno Lombardo veneto.

«Radetzky,m. p.

Quel supremo attentato di rivolta che costò molte vittime, che compromise gran numero di cittadini, che sparse il disordine e lo spavento in tutta la Lombardia, aveva già diramazioni molto estese. Imperciocché a Parigi si fecero 40 arresti, fra i quali il sig. René di Rovigo per corrispondenze secrete coi partiti italiani; ai confini del Piemonte se ne fecero degli altri e numerosi; i rivoltosi nel Canton Ticino tenevano assembramenti a mano armata, tentarono di arrestare vapori nel lago Maggiore e d’impadronirsene; a Genova, Mazzini pubblicava proclami, il giorno 4, che avevano relazione con quei tentativi. Già a Milano coi giorni 4 e 5 incominciarono gli effetti del maturato disegno, col proibire di fumare cigari, di prendere parte alle feste del carnevale, col fischiare ed impedire quelli che andavano ai teatri, e coll’insultare le poche maschere che comparivano sul corso.

Col giorno 11 usciva un nuovo proclama di Radetzkv, diretto ai Lombardo-Veneti, col quale si lamentava che gli abitanti del Regno anziché porsi lealmente ed apertamente dalla parte del Governo, si lasciassero terra rizzare dal partito del sovvertimento; e dichiarava per l’ultima volta, ch’egli avrebbe usala tutta la severità delle leggi, e tutto quell'estremo rigore, che stava in sua facoltà. Faceva inoltre conoscere di avere già ordinato alle Autorità giudiziarie, di porre sotto sequestro i beni di coloro i quali si fossero resi complici in qualsiasi maniera, anche dell'ammissione della denunzia, facendo procedere eziandio contro coloro che si rifiutassero all'esecuzione dei comandati sequestri. Contemporaneamente la Congregazione municipale, per incarico avuto dal Comando militare, portava a pubblica notizia che di qualunque guasto fosse fatto al selciato della città,. sarebbero tenuti responsabili gli inquilini delle case, avanti alle quali avesse avuto luogo, e, secondo il caso, anche tutta la contrada, perché essi erano obbligati ad impedire e darne immediata denunzia al Comando militare, sotto la comminatoria, ai trasgressori, di assoggettamento al Consiglio di guerra, e di occupazione militare delle loro case.

Milano intanto prendeva un aspetto assai cupo e lugubre. Imperciocché i cittadini non avevano altro tempo per passeggiare le contrade che dalle 5 del mattino alle 8 della sera, non potevano uscire di città che pelle porte Tenaglia, Comasina, Orientale, Tosa, Ticinese, e Vercellina, ed anche se muniti di una Carta d’inscrizione avente il permesso del Comando militare. Ed un’altra notificazione di quel Comando militare sottoscritta dal conte Gvulai proclamava, in data del 12, nuove misure, che rendevano sempre più difficile la circolazione degli abitanti, essendo già state poste le sentinelle in quasi tutte le contrade. Queste misure erano le seguenti:

«1. Ogni sentinella ai posti non lascierà mai avvicinare un’unione di cinque persone più di 30 passi dalle rastelliere dei fucili, e# avrà anzi cura di accennare ad ognuno di rimanere in detta lontananza: in tempo di notte poi, ogni sentinella darà la chiamata, e se, ad onta di cip, qualcuno si avvicinasse, dovrà far uso dell’armi.

«2. Tutte le sentinelle indistintamente non permetteranno a chi che sia di avvicinarsi loro, e mollo meno di passarvi dietro; dovranno arrestare chiunque non obbedisse ad una loro intimazione, ed a norma delle circostanze, fare anche immediatamente uso delle armi.

«3. Alle sassate si risponderà immediatamente coll’uso delle armi.»

Lanotte dell'8 il conte Radetzky offriva a Verona una militare festa da ballo con grandi inviti e trattamenti ed allegrie di ogni genere, mentre la mattina del 9, dal Comando militare della Lombardia, dopo Giudizio statario, pubblicavasi a Milano la sentenza di morte, colla forca, contro gl'imputati dell'ultima sommossa: Brigatti Eligio d’anni 25, di Ronco; Faccioli Cesare d’anni 42, di Corte Olona; Canevari Pietro d’anni 23, di Pobbio, in Piemonte; Piazza Camillo d’anni 26, di Cuggiono; Piazza Luigi d’anni 29, di Cuggiono; Silva Alessandro d’anni 29, di Milano; Broggini Bonaventura d’anni 57, di Lugarno. L’11 un’altra sentenza condannava alla tocca: Cavallotti Antonio, d’anni 31, di Milano; Scannini Alessandro, di anni 26 di Pavia; Diotti Benedetto d’anni 40, di Cesano Borromeo: Monti Giuseppe d’anno 36 di Milano. Il 12 una Notificazione del conte Gyulai promulgava, fino a nuovo avviso, le ferie dell'Università di Pavia, ed obbligava gli studenti, che non avevano legale domicilio in quella città, a portarsi immediatamente alle loro case. Un avviso della Polizia di Milano, della stessa data, imponeva agli albergatori, osti, caffettieri, liquoristi, offellieri di chiudere alle ore 10 di notte i loro negozii, colla comminatoria di pene, arresti, e multe ai contravventori. Correvano intanto le più strane voci, che cioè il movimento d’insurrezione scoppiasse ovunque in Italia contemporaneamente; che cadesse trafitto Luigi Bonaparte a Parigi; che Mazzini ordinasse, dopo le esecuzioni di Mantova, non si scrivessero più libri, ma sibbene si facessero cartucce dei libri, che da Londra, dalla Società della rivoluzione, si spargesse in Francia ed in Italia l’ottavo bollettino diretto ai popoli, e contenente libelli politici, proteste contro i fatti compiuti, minacele per l’avvenire, insulti a Luigi Napoleone. A Stradella ed a Bromi si fosse veduto un continuo andirivieni di emigrati, il cui numero ognor più aumentasse. Cotestoro si radunassero sotto la presidenza di un colonnello e di un capitano ungheresi, e di uffiziali veneziani; indi, dopo breve consulta, si portassero armati ed in numero di 200 al confine del Po coll'intento di transitarlo per correre in aiuto ai rivoltosi di Milano, ma venissero arrestati dalle milizie piemontesi. A Bellinzona scorgersi un grande movimento, e vociferarsi, che il moto insurrezionale dovesse scoppiare contemporaneamente a Milano, a Napoli, nella Toscana e nella Romagna; che da colà fossero passati grandi depositi di pugnali provenienti dal Belgio; che Mazzini si trovasse a Genova, e Luigi Blanc a Lugano. A Palermo sarebbe già scoppiata la ribellione sotto la direzione della baronessa Bentivoglio,. la quale assumesse la missione di eseguire i progetti di Mazzini, fosse ben provveduta di armi,e danari ed unita alle popolazioni, delle campagne. La rivoluzione colà sorprendesse il posto di Montereale distante un’ora da Palermo, indi passasse all’altro posto di Olivaz; di là si gittasse sulla Vicaria, e sprigionasse i detenuti e proseguisse sempre oltre il suo cammino di città in città; ma la polizia, avvertita della sommossa di Milano, scoprisse i capi, facesse grandi arresti, fra quali molti sacerdoti, e sequestrasse gran quantità di armi, sventando quegli sforzi repubblicani con varie fucilazioni dal generale Filangieri ordinate. Nel Luganese venissero praticate varie perlustrazioni domiciliari, venissero arrestati dei disertori ungheresi, e che i commissarii di Mendrisio e di Lugano attivassero picchetti di milizie per proteggere le località più esposte. Circolassero in Piemonte due manifesti;, l’uno di Mazzini e Saffi e l’altro di Kossuth, coi quali si chiamassero i popoli italiani alla insurrezione; epperò i Questori di Torino e di Genova prendessero delle misure; la prima delle quali si fosse quella di decretare «che tutti gli emigrati politici, dovessero nel termine di due giorni, presentare personalmente le loro generalità alle locali Autorità; che giustificassero la loro buona condotta ed i mezzi di sussistenza; che non potessero uscire dal Comune ove abitavano, senza un permesso della Polizia; che nemmeno potessero cangiare d’alloggio senza notificarlo; ai contravventori delle superiori disposizioni l'arresto o l'espulsione dallo Stato.»

Dall’intendente Buffa, si prendessero in Genova degli energici provvedimenti, col consegnare parte della guarnigione ai quartieri, col chiamare i capi dell’emigrazione e raccomandar loro di mantener l’ordine, col raddoppiare le forze alle porte della città, coll’impedire l'uscita di tutti gli esuli, e col proibire ai corrieri, venienti dalla Lombardia, la divulgazione di qualsiasi notizia. Anche nelle Romagne accadessero simili attentati, in Arezzo, a Forti, a Rimini, a Faenza, ove, alle uccisioni e ferimenti, succedessero numerosi arresti. Si gittasse in fine la colpa di tutto quel disordine ai mazziniani, a Londra, al Canton Ticino, ove tali sovvertimenti avrebbero avuto principio, organizzazione ed impulso.

Una Commissione composta dei signori conte Altan delegato, conte Correr podestà. Nani Mocenigo, deputato provinciale, nobile Angeli, deputato provinciale, nobile Venier, conte Bembo, Sailer, assessori, giungeva a 'Verona il 45 febbraio e presentava a S. E. il conte Radetzky un indirizzo, pregandolo di deporlo ai pedi del trono, come quello che manifestava tutta la indignazione ed il dolore ch'essi rappresentanti della città e provincia di Venezia, avevano provato pei luttuosi avvenimenti di Milano; ed in pari tempo attestavano i sentimenti di suddita fedeltà ed attaccamento, ond'era animata la leale popolazione. Quell’esempio venne seguito anche dai Municipii di Treviso, Padova, Udine; Vicenza, Ceneda, Mantova, Bassano, Rovigo; e dalla Congregazione, e dai Commissariati distrettuali della provincia di Verona.

Il giorno 11, con un avviso, il generale maggiore comandante militare della città di Milano, barone Martini, emanato per ordine del conte Gyulai, «proibiva a chiunque, sia a cavallo, sia in vettura o con altro veicolo, di passare tramezzò ad una truppa o pattuglia, la' quale userebbe delle armi in caso di contravvenzione:» cosi pure si proibiva il cantare, il fischiare per le vie, pena l’arresto. Il 15 venivano condannati alla forca; come complici della sommossa del 6: Saporiti Girolamo, d’anni 26 di Lonate Ceppino, e Taddei Siro, d’anni 27 di Palmengo nella Svizzera. Altre 19 persone di condizione civile vennero il giorno 16 a Verona condannate, per tempo più o meno lungo, all’arrestò in ferri ed ai colpi di bastone; fra le quali anche una donna, Anna Colzera di Vigonovo, d’anni 32, punita con 25 Colpi di verghe «per espressioni insultanti ai funzionarti militari ed alla nazione tedesca.»

I titoli, pei quali vennero colpiti, furono «per possesso di armi, per espressioni ingiuriose contro le guardie di sicurezza, per canti di canzoni sovversive, per possesso di polvere da fucile, per offese a' commessi dell’ordine-pubblico, per discorsi sovversivi, per nascondimento di armi taglienti, per offese alla gendarmeria, per offese verbali al militare, per dimostrazioni antipolitiche ed espressioni sovversive.»

Lo stesso giorno usci in Milano un avviso della Polizia col quale proibivasi ai suonatori girovaghi di suonare i loro strumenti dopo l’Ave Maria della sera, e comparve un dispaccio telegrafico uffiziale in data di Vienna 18 così concepito in questi sensi:

«Vienna 18 febbraio 1853, ore 3 pom.

«Un orribile attentato alla sacra persona di S. M. venne commesso, oggi, alle ore 42 e mezzo. S. M., passeggiando sui bastioni, presso la porta di Carinzia, venne proditoriamente aggredito in ischiena da un individuo, e ferito con coltello da cucina in prossimità della nuca. La ferita venne dai medici dichiarata non pericolosa. L’assassino fu arrestato sul fatto dall’aiutante di ala, che accompagnava S. M. Pel felice salvamento di S. M., viene, oggi, alle 6 pom., cantato un solenne Te Deum nel Duomo di S. Stefano.» .

Il Capitolo patriarcale di Venezia rendeva pubbliche grazie all’Altissimo nella Basilica di S, Marco per il felice salvamento della vita dell’imperatore. Questo esempio fu poi seguito da molti altri capitoli e chiese parocchiali. Molte deputazioni indi si portarono a Vienna per offrire al monarca i loro sensi di gioia per il fallito attentato contro l’augusta persona.

Queste deputazioni erano, composte dei signori:

Da Venezia:

Monsignor barone Farina, Vescovo di Treviso;

Monsignor Bellati, Vescovo di Ceneda, con mandato di S. E. il Patriarca di rappresentare l'Episcopato Veneto;

S. E. il conte Correr, podestà di Venezia;

Il conte Nani Mocenigo Filippo, deputato provinciale;

Dott. Angeli, deputato provinciale;

Il conte Bembo, assessore

Treves, Karrer, Rosada, rappresentanti del commercio;

Da Verona:

Cav. Conati, podestà;

Conte Miniscalchi

deputati provinciali.

Nob. Pellegrini

Da Vicenza:

Nob. Piovene Portogondi. Luigi, podestà;

Nob. Lelio Bonin, deputato provinciale;

Nob. Alberto Parolini, assessore municipale di Massano;

Da Padova:

Cav. Achille Zigpo, podestà;

Gio. Selvatico, marchese

deputati provinciali.

Gio. Ball. Zaborra

Da Udine:

Conte Dalla Torre, podestà;

Conte Rota, deput. prov.

Conte Girolamo Colloredo;

Pietro Carli, presidente della Camera di commercio;

Da Treviso:

LuigiGiacomelli, podestà;

Nob. Azzoni Avogadro, dep. prov.

Nob. Francesco Concini, deput. prov. e podestà di Conegliano;

Francesco Rossi, podestà di Ceneda;

Da Rovigo:

Nobil Campo e Luigi Giolo assessori municipali.

Nob. Dott. Cezza;,

Nobcav. Manfredini;

Nob. Angeli;

Dott. Veronese

Da Belluno:

Dott. AnL Bazolle Maresia, podestà;

Conte Giuseppe Agosti, deputato,

Cav. Jacopo Bertoldi, deputato,

Conte Giorgio Mezzan, assessore;

Conte Alessandro Miari, assessore municipale.

L’Italia e Popolo, la Foce della libertà, l’Eco delle Provincie e la Maga is scagliavano contro le misure di allontanamento dagli Stati sardi della emigrazione italiana, non avente impiego, prese dal governo sardo. Oltre alle suddette misure, se ne prendevano delle altre da quel Governo ai confini verso la Lombardia e la Svizzera stessa; e la Francia e la Toscana e lo Stato pontificio si associavano. a quella politica di prudente osservazione, raddoppiando la forza pubblica, operando ardesti, e perlustrazioni e sfrattando emigrati. Intanto, al dopo pranzo del 19, il Comando militare di Milano ingiungeva con una sua Notificazione «ai proprietarii di ogni quarta casa a scacco, su ciascun lato di tutte le contrade, che dovessero, incominciando da quella sera, esporre, fuori da una finestra del primo piano, una lanterna, e tenerla costantemente accesa durante la notte, dalle 6 pom. all’alba. Accadendo che venisse turbata la quiete pubblica, i proprietarii dovessero chiudere le porte 'delle loro case. Chiunque fosse rimasto nelle contrade Sarebbe stato arrestato come sospetto di compartecipazione ai disordine. Chiunque si fosse trovato a piedi, o in vettura od a cavallo sui bastioni della città dalle ore 6 del mattino alle ore 7 della sera, sarebbe arrestato e punito.»

Coi proclami del giorno 20,21, veniva proibito sotto pena di 2. a 5 anni di; carcere duro da quel Governo militare agli abitanti di Como e di Sondrio «ogni comunicazione col Canton Ticino. Nessun suddito austriaco sotto qualunque titolo, potesse portarsi colà; nessun svizzero potesse passare il confine; nessuno potesse divulgai,affiggere o possedere scritti incendiarti.»

Per vero dire tanto a Sondrio, cornea Varese, sul Comasco, al Gravedone, sul Bergamasco si continuavano i tentativi di sommossa collo spargere proclami ed allarmi di sollevazione, i quali non potevano aver altro risultamento che quello di raddoppiare i rigori militari su quelle popolazioni, e di colpire gli emigrati nei loro beni ed averi, come risultava dalla Notificazione del conte Radetzky in data di Verona 18 febbraio 1853, il quale atto ufficiale portava il sequestro su tutti:i beni mobili ed immobili degli emigrati che si trovavano nel territorio austriaco;

La. sventura di quei popoli pertanto era resa, da quei fatali sovvertimenti, oltre ogni crédere dura e lacrimevole. Laonde ognuno, in cuor, suo; vedeva la necessità di non esulcerarla viemmaggiormente. Epperò esterrefatte le popolazioni da. tante sciagure, alla notizia dell’empio attentato contro la vita dell'Imperatore inorridirono, ché l’assassinio è sempre un atto infame e di tanta selvaggia nefandezza da sentirne ribrezzo, avversione e raccapriccio anche le anime le più consumate nel lezzo dei vizii. Quindi non solo i veneti concorsero a lamentare e condannare sinceramente quell’attentato, ma ben anco i Municipii, le Congregazioni, le Delegazioni, i capitoli, le parrocchie, gl’instituti educativi,( )le camere commerciali della Lombardia, vi presero parle. E noi, ben convinti che tutti i regnicoli vedessero con orrore, se non i fatti compiutisi in Milano nel 6, certo il nero attentato di Vienna, amiamo riportare in tutta la sua interezza lo indirizzo dei milanesi, porto in quella malaugurata, occasione a S. E. il conte Gyulai. Il quale indirizzo se forse non fu la sincera espressione, in riguardo al primo caso, di tutti quelli che Jo sottoscrissero, fu certamente la protesta la più vera, la più sentita per il secondo caso, per l’attentato, vogliam dire, ai giorni del Monarca. Comunque fòsse la cosa, la condizione sociale era si acerba, da reclamare una mitigazione, un riparo, tentando un atto di umiliazione e di dovere..,

Eccolo:

«Eccellenza

«L’annunzio del proditorio e nefando attentato alla preziosa vita di S. M. l’augusto nostro Sovrano, Francesco Giuseppe I, ha posto il colmo alle già esecrate scelleraggini, commesse anche nella atterrita Milano dai perpetui nemici dell’ordine, ed. ha destato l’universale indignazione ed il più alto cordoglio in questa popolazione. Guai se il delitto fosse stato compiuto 1 Ma la divina Provvidenza, che veglia sui Monarchi e sui popoli, ha stornato il compimento dell'orrendo misfatto; e però grazie ben giustamente si rendono all'Onnipotente Iddio, che ha serbato il giovine Monarca alle speranze, all'amore ed ai voti de' suoi sudditi.

«Questi sentimenti, dettati dal cuore dei Milanesi, che trepidarono per il pericolo corso dall’augusto loro Monarca, degnisi l’E. V. far conoscere a S.,E. il signor conte Radetzkv, governatore generale del regno Lombardo-Veneto, ed umiliarli eziandio ai piedi del trono, in un colle proteste di fedele sudditanza e di un franco, leale concorso di questa popolazione nel corrispondere colla propria cooperazione alle provvide misure di chi regge questo paese, tanto bramoso di quell’ordine e di quella tranquillità, che soli possono ritornarlo a prosperità e floridezza.

«Fiduciosi che V. E. vorrà prendere. In benigna considerazione questi sentimenti,: ed ottenere a Milano da S. M. I. R A. la Sovrana sua grazia, umilmente si sottoscrivono.

1. Duca Lodovico Melai d’Etil, r, ciambellano.

2. Nob. Filippo Gallarati Scotti, r. ciambellano.

3. Nob. dott. Giuseppe Borgazzi.

4. Co. Francesco Lurani, aonsig. ciambellano.

5. Nob. Carlo Parravicinj, possidente.

6. Mar. Carlo Corion.

7. Nob. GioBatt. Brivio, L r. consigi. di S. M.

8. Giuseppe Giussani; ingegnere.

9. Ignazio Corti, ingegnere.

10. Bernardo Locoti, per proc. eredi di Gio Battaglia.

11. Conte Giuseppe di Belgioioso.

12. Nob. Giuseppe Botri, possidente.

13. Conte Vitaliano dal Verme.

14. Conte Antonio Teodoro Castiglioni,

15. Nob. Giulio Padulli.

16. Gaetano Besia, arcA» 7e«o.:.

17. Marco Marz.

18. Gio. Batt. Glli, mercante sartore.

19. Francesco Peverelli, arch.

20. Borgazzi nob. Giacom.

21. March. Apollinare Rocca Saporiti.

22. Conte Lodovico Barbi ano di Beigioioso.

23. Cav. Antonio Re.

24. Conte Gab. Verri, i. r. ciambellano.

25. Nob. Benigno Giulini.

26. Conte Luigi Dal Verd e, i. r. cùttnòelano.

27. Conte Luigi Gonfalonieri Stralteman.

28. Conte Vitaliano Confalonieri Stratteman.

29. Nob. Pietro Antonio De Moiano, i. r. scudiere.

30. Conte Giuseppe Alemagna.

31. Nob. Carlo Corte.

32. Luigi Marchese Pozzo.

33. Cav. avv. Girolamo Lotteri.

34. Dott. Luigi Nardudci, medico chirurgo presso i. r. tribunale criminale.

35. Avv. Gio. Batt; Pievani.

36. Ferrano nob. Pietro.

37. Giuseppe Conte Trivulzio.

38. Romualdo Cassina, fab. di mobili.

39. Isidoro Monti De Lyon.

40. Avv. Nob. Luigi Rimbelli.

41. Nob. Fulvio Barti.

42. Carlo Cerose, commerciante in profumerie.

43. Gio. Boschetti, fabbricante di carrozze.

44. Luigi e Francesco fratelli Belloni, fabb. di carri.

45. Avv. Carganico Ferdinando.

46. Conte Barnaba Barbò.

47. Conte Giuliani, possidente.

48. Giuseppe Collini, dott. in legge.

49. Ab. Luigi Brambilla.

50. Nob. Luigi Borgazzi, anche pei minori suoi figli Paolo e Giovanni.

51. Nob. Giuseppe Della Croce.

52. Antonio Maggioni, commerciale.

53. Bernardo Ambrosini, conìaóie.

54. Girolamo Conti Trivulzio.

55. Ferrari nob. Giuseppe.

56. Nob. Alfonso Calvi.

57. Federico conte Parravicini.

58. Conte Carlo Dal Verme.

59. Nob. Giuseppe Greppi.

60. Conte Carlo Borromeo.

61. Nob. Pietro Pedroli.

62. Conte Carlo Attendolo Bolognini.

63. Marchese Luigi D’Adda.

64. Marchese Serponti Paolo.

65. Ant. conte Greppi, consigliere comunale.

66. Alessandro Sormani-Andreani.

67. Angelo conte Trivulzio.

68. Giuseppe Marietti, possidente.

69. Carlo Francesco Birigozzi.

70. L. Sessa, presid. della cam. di com.

71. Francesco Turati.

72. Balabio Besana.

73. Guerrin D. Necchi C.

74. Andrea Ponti.

75. Ignazio Lejuati.

76. Fratelli Bosisio.

77. Ambrogio Campiglio.

78. Carlo Ghiglieri.

79. Francesco Brunì.

80. Fabio Borghi, consigliere.

81. Carlo Cantoni e Comp.

82. Gaetano cav. Crippa..

83. Cav. Ambrogio Ubaldo, nob. de Villareggio.

84. Ferdinando Uboldi..

85. Pasquale dott. Necchi.

86. Gio. Batt. Brambilla.

87. Giuseppe Tentarelli di Somma.

88. Franc. Decio, vicepresid. della Cam. e consigl.

89. Fratelli Dumolard di Luigi.

90. Giuseppe Negri.

91. Luigi Manini di Giovann.

92. Luigi Bealchi.

93. Fratelli Verza q. Carlo.

94. Maggioni fratelli.

95. Cav. Girolamo De Capitani di Cerzago, ciambellano.

96. Nob. Giuseppe Calvi.

97. Innocente Osnago.

98. Giuseppe Mazza e figlio.

99. N. Osio.

100. Fratelli Lattuada.

101. Fratelli Viscardi.

102. Pietro Saldarini.

103. Fratelli Locatelli.

104. Dott. Clerini, notaio.

105. Domenico Cislaghi, possidente.

106. Francesco Bonetti.

107. Fra G. B. Guerrieri Gonzaga, comm. del S. M. O. gerosolimitano.

108. Francesco Legnani, possidente.

109. Alessandro Salazar.

110. Azimonti C.

111. Domenico Giacobbe, possidente.

112. Giacomo Petroni.

113. Gio. Maria Monti, capo dipartim. presso d’I. R. Cont. di Stato.

114. Avv. Giuseppe Francia.

115. Francesco Bianchi, possidente.

116. Pietro Tagliabue, orefice.

117. Tommaso Bernascone, negoz. di vino.

118. Nob. Carlo Bertoglio.

119. Nob. Calvi Giuseppe.

120. Carlo Riva Finali, ingegnere.

121. Giuseppe Mazzij possidenti.

122. Antonio Sanvito, possidente.

123. Cavalo Giuseppe.

124. Cubrini Gaetano.

125. Filippo-Taverna.

126. Sebastiano Minoja, ingegnere.

127. Lorenzo Taverna.

128. Eugenio Venivi.

129. Girolamo D’Adda.

130. Lorenzo Litta Modignani.

131. Antonio Cattaneo.

132. Antonio Avermi.

133. Paolo Bassi.

134. Vincenzo Clerici, possidente.

135. Marchese Antonio Visconti Ajmi; ciambellano.

136. March. Angelo Zuppa-Rovereti, ciambellano..

137. Co. Enrico Massa di, S. Biagio p.

138. Conte Litta Modignani, i. r. ciambellano.

139. Co. Pompeo Barbiano di Belgioioso.

140. Co. Frane. BurgarinbVisconti, ciambellano.

141. Biella dott. Gio. Batt., possidente.

142. Co. Teodolo Crivelli ciambellano attuale di S. M.

143. Giuseppe march. Parravicini Porci a guardia nob.

144. March; Pietro Isimbaldi, ciambel.

145. Luigi Visoni, possidente.

146. Lorenzo Isimbardi, ciambellano.

147. Giuseppe Aridi, consigliere.

148. Valentino Dell’Uomo, direttore dell’istituto Boselli.

149. Giulio Prinetti, consigliere e possidente.

150. Nob. Litigi Calvi.

151. Avvi Gio. Gagliardi.

152. Lodovico co. Taverna, ciambellano.

153. Pompeo Marchesi, ir. prof, di scultura.

154. Giuseppe Tarantola consigl. manie.

155. Giacomo dei conti Barbò.

156. Dott. A. Villa, consigl. com.

157. Dott. Carlo Argenti, consigl. com.

158. Antonio Valentini, ingegnere e possiti.

159. Pasquale Garavaglio, possidente.

160. March. Luigi D’Adda fu Giovanni.

161. Bertozzi conte Alberti.

162. Co. Uberto Pallavicini.

163. Cristoforo conte Sala.

164. Chiverni e Tagliamacchi, negozianti.

165. Francesco Borni, tappezziere in seta.

166. Avv. Gio. Collini, possidente.

167. Zefirino Maierna, sindaco agg. dei sensali di Borsa.

168. Vitaliano Vigonzoli, albergatore.

169. Nob. Giusep. Brambilla, possidente.

170. Nob. Carlo Paolo Greppi.

171. Marietti Carlo.

172. Nob. cav. Gio. Brambilla.

173. Co. Franc. Attendolo Bolognini.

174. Co. Carlo Cicogna.

175. March. Vitaliano D’Adda.

176. Conte A. Beigioioso, ciambellano.

177. Co. Carlo Luigi principe Basini, ciambellano.

178. Ambrogio Lurati.

179. Gio. Riva Palazza ragioniere.

180. Cav. Paolo Brambilla.

181. Cesare Serponti.

182. Luca Cagnoni, ingegnere archit..

183. March. Tiberio Crivelli, com. dell'Ord-. di S. M.

184. Nob. Paolo Frisiani, prof, nella specola di Brera.

185. Dott. Pietro Mazzola.

186. Raldassare Galviati, possidente.

187. Giudici Francesco.

188. Nob. cav. Paolo Clerici.

189. Girolamo march. D’Adda.

190. Nob. D. Francesco Matizani.

191. Felice Grondona.

192. Sebastiano Mondolfo.

193. Prati Giuseppe, tappezziere.

Colle 193 firme dei milanesi sottoscritti all’indirizzo surriportato, volevasi forse fare risaltare che la nobiltà e la ricca aristocrazia, la magistratura, le scienze, le arti, le lettere, la possidenza, il commercio, la industria tutti indistintamente concorrevano a quell'atto. E sia pure cosi, perché tutti indistintamente veneravano in Italia le personali virtù del giovane monarca, e dei membri dell’imperiale famiglia; e quindi nessun odio personale poteva essere nutrito in petto italiano contro di lui; e di conseguenza nessun atto infame poteva consumarsi da mano italiana contro la sua venerata persona. Laonde non poteva essere che sincera la dimostrazione dei milanesi a quel riguardo. Noi faremo soltanto osservare, che quell’infame attentato non poteva avere alcuna relazione coi fatti di Milano, compiutisi il 6 febbraio, perché veniva commesso non contemporaneamente a quelli; ma sibbene quando in Lombardia era già stato ricondotto l’ordine e nessuna speranza restava più ai rivoltósi di buon successo; e quindi non per istigazione o per opera degl’italiani veniva perpetrato. In secondo luogo, come quel misfatto commesso contro l’augusto Sovrano non; poteva in alcun modo collegarsi coi fatti di Milano per le(: )ragioni addotte, cosi anche l’indirizzo dei milanesi non poteva avere alcuna relazione diretta sugli avvenimenti( )del giorno 6, per quantunque in esso venissero lamentati e biasimati. Imperciocché i fatti in Milano avventerò il 6 febbraio, mentre l’indirizza fu sfatto, ai primi di marzo, quando già tutto il Veneto da gran tempo. Aveva aderito a quell’atto, incominciandolo e terminandolo alcuni giorni dopo la consumazione degli avvenimenti stessi. Egli è quindi a conchiudere, che se(-)non fosse. accaduto a Vienna l’enorme delitto, non sarebbesi dai milanesi, e forse dai lombardi in generale, compiuto nemmeno quell’indirizzo pei soli avvenimenti del G. Imperciocché, se i fatti di Milano fossero stati opera soltanto di pochi venduti, come volevasi far credere, la Lombardia tutta sarebbesi subito e non dopo un mese alzata a condannarli, come fece il Veneto, anche prima si compiesse a Vienna l’empio misfatto. Ma ella attese dopo, attese sino a quando un sacro dovere costringevate a deprecare contro, l’attentato di Vienna, ed in. allora, giacché, doveva darsi, ad un indirizzo, esternò, sia per convenienza» sia per necessità, anche la sua disapprovazione sui fatti compiuti in Milano, ben persuasa che sarebbe stata valutata per quello che realmente valeva; Però le nostre storiche considerazioni non devono avere te presunzione dii menomare minimamente le intenzioni dei 193. soscrittori a quell’indirizzo.

Il giorno 2 marzo, dietro rimostranze del rappresentante austriaco in Genova, venivano sequestrati i Numeri 22 e 23 della Maga, perché aveva manifestata la. Intenzione di stampare a caratteri d’oro il nome Libenyi,(: )dell’assassino autore dell’attentato;di Vienna. Intanto per la monarchia austriaca girava una sottoscrizione intenta a raccorre denari perdo innalzamento di un tempio, come voto, proposto da S. A; I. Ferdinando Massimiliano, in ringraziamento a Dio che salvò la vita del monarca, ed in memoria di tale ottenuta grazia. Per lo stesso scopo, per la salvezza cioè del Sovrano in tutte le classi del Lombardo-Veneto celebravansi divini uffizii di ringraziamento. Questo esempio veniva seguito anche nelle altre parti d’Italia.

Nello stesso tempo che nel Parlamento di Torino peroravasi caldamente per l’abolizione della pena di morte dal codice criminale sardo, un proclama di S. M. E Imperatore d’Austria in data di Verona 19 marzo sopprimevi del: tutto il processo incoato a Mantova, contro i delitti di alto tradimento;. «condonando interamente a quegli individui, che in qualsiasi modo erano stati Complicati nei fatti costituenti la base del processo, nonché la pena; ogni altra responsabilità, senza distinzione, se gli accusati si trovassero o meno tuttora sotto procedura, 'od in istato di arresto inquisizionale, eccettuati però soltanto i profughi ed inquisiti in contumacia, i quali erano in numero di 35, fra cui 9 dottori» .

A Bologna intanto se ne' condannavano 34,a Ferrara 12; nelle Due Sicilie erano innumerevoli gli arresti e le condanne pei recenti movimenti rivoluzionarii; ed in Piemonte si agiva con tutto il rigore verso la emigrazione, senza riguardi, ed obbligandola a fuggire dai regii Stati;. Il suaccennato proclama dell’imperatore d’Austria, veniva accolto dai Lombardo Veneti con festa, e con gioia considerando che fosse come il preludio di un cangiamento di quella politica sino a quel punto cotanto opprimente, ed affatto contraria-ad ogni ravvicinamento, dei popoli al Governo. È rincrescevole però il dire, che quell’esempio non valse a S. A. Francesco il duca di Modena, che nel 21 marzo pubblicava un decreto col quale arricchiva di nuove leggi e nuove penalità il codice criminale pei delitti di sovverti mento dell'ordine pubblico e per sospetti politici.

L’Austria, la Francia e la Prussia reclamavano dall’Inghilterra la espulsione degli emigrati politici e la re» strizione della stampa libera, che flagellava la politica dei loro Governi; ma la Inghilterra col mezzo de' suoi organi pubblici rispondeva, «tutti i popoli inciviliti sanno che l’Inghilterra e l’asilo delle nazioni, e ch'essa difenderà questo diritto fino al suo ultimo obolo, fino all’ultima goccia del sangue suo Se l’Austria, la Francia e la Prussia vogliono disarmare i fuorusciti, ristabiliscano la fiducia nell'interno del paese... Che non dovrebbero occuparsi dei proclami degli emigrati, se quei proclami non contenessero qualche punta di amara verità sui Governi, contro cui son diretti. Un Governo veramente buono non dovrebbe darsene cura.»

Il giorno 25 marzo veniva ancora concesso alle Chiese lombarde l’uso delle campane per le sacre funzioni, che era già stato proibito negli avvenimenti del 6 febbraio scorso: cosi pure furono sospese e dichiarate, come non avvenute, tutte le disposizioni in allora prese in riguardo al passaggio per le porte della città, richiamando in vigore le leggi che esistevano in proposito prima di quegli avvenimenti. La stampa estera ovunque, e di ogni partito, tranne l’assolutista, si scatenava frattanto indoniita e virulenta contro il sequestro dei beni dell’emigrazione italiana ordinato ed eseguito dall’Austria. L’Austria si difendeva coll'asserire e dimostrare che tutti avevano alla lor volta non solo sequestrato, ma anche spesso confiscato. Ella diceva che il Piemonte confiscava i beni dei gesuiti, dopo di averli cacciati dal suo territorio, ed i beni del clero in generale sotto il nome d’incamerazione; che i Governi radicali della Svizzera avevano eglino pure confiscato; confiscava il Vallese i beni dei religiosi del Gran S. Bernardo, confiscavano Lucerna, Friburgo, il Ticino, e Berna: la caduta del Sonderbund.

Sfilerà stato il segnale delle confische; Guerrazzi confiscava la corona di Leopoldo II; i repubblicani di Roma confiscavano le campano i vasi, i paramenti sacri, le carrozze, i cavalli ed altri beni patrizii. Ma queste difese dell’Austria non valevano a mitigare punto né poco quella estera stampa, la quale continuava, con maggiore accanimento a vomitarle contro insulti e minacce. Il Governo sardo, con una Nota spedita al Gabinetto di Vienna, protestava altamente contro quei sequestri. La risposta che se n’ebbe fu recisa e non favorevole. Quella misura austriaca però mise la costernazione in moltissime famiglie, e fu disapprovata dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla stessa Germania, la quale col suo organo, la Gazzetta costituzionale Sassone, diceva che l’Austria non aveva altra ragione di porre innanzi, intorno all’atto del sequestro, se non che: io sono grande, e tu (il Piemonte) sei piccolo.

Lasubalpina periodica stampa democratica e repubblicana non cessava di scagliare amari rimproveri anche contro le misure del Governo sardo per lo imbarco di 92 emigrati destinati a Nuova-Yorek, avvenutoli giorno 28 marzo a Villafranca sulla corvetta da guerra il S. Giovanni. Il governo dava loro il vitto e 70 franchi a ciascuno. E le incostituzionalità di quel Governo, venivano pure condannate da un rappresentante del popolo nell'Assemblea piemontese, avv. Angelo Brofferio, nelle sue Fisiologie sodali colle seguenti acri parole: «L’arte di regno degli uni e degli altri, benché diversa nei modi e nella forma, è sempre la medesima nella sostanza; il capriccio, l'arbitrio, il favore, si convertono in legge negli Stati dispotici come nei costituzionali; colla sola differenza che, nei primi, tutto procede velatamente, ih grazia della forza, solo principio del Governo; è ne’ secondi tutto cammina ipocritamente, a norma della corruzione, esercitata sui rappresentanti del popolo, che finiscono sempre per rappresentare il Governo;»

E nella tornata, del 27 aprile, lo stesso rappresentante del popolo, Brofferio, in relazione ai sequestri, alle perlustrazioni, all'arresto del Moretti, tipografo dell'Italia e Popolo, diceva: Sotto un ministero che proclama i principii della libera discussione, che dirige un solenne Memorandum alle Potenze estere, nel quale dichiara di voler sempre, e ad ogni costo, mantenere la libertà della stampa; sotto un tal Ministero pare una cosa mostruosa l’arresto di un tipografo, unito al carcere preventivo, il, sequestro di libri, le perquisizioni notturne fatte con tanto. apparato di carabinieri e di commissarii di polizia.» Ma il ministro di grazia e giustizia, cav. Buoncompagni, gli rispondeva: «che il Ministero sarebbe pronto ad usare rigore contro l’incorreggibile fazione, contro gli uomini pericolosi, che avevano cagionati tutti i disastri, in cui si trovava involto il Piemonte, assicurando che con questi uomini non avrebbe' fatto, né pace né tregua, (e che avrebbe con tutti i mezzi osteggiata la loro stampa.»

Indi sorgeva a dire il ministro dell'interno: «Coloro parlano sempre nei loro giornali dell’avvenire; ed io dichiaro che non voglio, nell’avvenire, altro che quello, che? ho nel presente.» Si pretende ch'egli inoltre dicesse: «non curarsi della legalità e della costituzionalità» dichiarando «ch’egli avrebbe rispettata e l’una. e l’altra sino ad un certo punto, e che, quando credesse, di aver bisogno di salutari arbitrii, non mancherebbe mai di praticarli.»

A quelle parole sdegnato il Brofferio, qualificava il conte di San Martino di polipo e di Dio Termine; e l’Italia e Popolo pubblicava le, seguenti parole: «Signor ministro! quest'è il linguaggio della corruzione e dello scetticismo; voi lo avete porto accecato dall’odio, travolto dallo spirito di parte; voi,avete proferito oscene e dissennate sentenze; pregate che il popola non le,raccolga, perché il popolo non dimentica. I vinti d’oggj potrebbero essere i vincitori di domani, come le vittime della polizia di Luigi Filippo diventarono i padroni del febbraio. Le rivoluzioni passano sulla testa dei Re e dei ministri. Chi sa che non vi tocchi ancora a protestare contro i principii, che oggi avete proclamato dalla tribuna.»

Egli è d’uopo osservare che quanto più il Governo costituzionale sardo si avvicinava colla sua politica al Governo assoluto. austriaco, tanto più quest’ultimo si avvicinava al primo. Quello restringeva sotto una costituzione, questo largheggiava sotto un regime opposto. Epperò una notificazione in data del 30 aprile del conte Gyulai levava una gran parte delle strettezze dello stato d’assedio alla Lombardia, lasciava correre inosservato molte pose, che prima sarebbero state represse severamente, e permetteva le rappresentazioni nei teatri.

Il gabinetto di Torino, tanto scaduto nell’opinione pubblica in virtù della politica, che forse a malincuore era obbligato dalle vicine potenze Francia ed Austria a seguirlo forse seguivate in quel modo per opporsi alle mene secrete e palesi del partito mazziniano, che molestava la esistenza della costituzione, volle tentare di riaversi alquanto in credito, coll’ordinare splendide e suntuose, oltre l’usato, le feste dello Statuto che cadevano nei giorni. 3, 9 e 10 maggio. E quelle feste furono veramente magnifiche, sfarzose, e di una,tale splendidezza che in quei paesi non si avevano mai vedute di simili. Alla sacra funzione, ch'ebbe. luogo nella cattedrale, col concorso del Re, della Corte, delle due Camere,. delle autorità tutte, del Municipio, della Guardia nazionale, delle corporazioni, artiere ed operaie, e delle autorità estere, si unirono le feste popolari consistenti in teatri, in banchetti, in balli pubblici nelle piazze, in rassegne militari, in concerti nazionali, in bande, in carri allegorici magnifici per lavoro, per ricchezza di addobbi e sontuosità di fastosi ornamenti, d’intagli, e di simboli in oro a profusione, in fuochi di artifizio, in luminarie a mille colori, in istraordinarii adornamenti della città, dei palazzi, dei portici, dei caffè e negozii, ed infine in un concorso cosi straordinario da non esservi più un luogo nei pubblici alberghi e nelle case private d’alloggiarvi altre persone pel qualunque prezzo. Le Società operaie delle provincie, provvida istituzione di mutuo soccorso, non vi presero l’ultima parte. Mano mano che giungevano alla capitale, venivano accolte dalla Società torinese e scambiavano il bacio di fraternità e unione. Si scioglie vano indi in diverse squadre, e precedute dalle rispettive loro bandiere, e dalla banda, giungevano al palazzo di città onde dare e ricevere il saluto di quel Municipio, quindi sfilavano per le vie principali, Dora Grossa e Via di Pò, e si portavano al tempio della Gran Madre di Dio onde ricevere la solenne benedizione; quinci si raccoglievano a festivo banchetto, che terminava con un altro bacio di unione é di fratellanza. Però quella festa dello Statuto Veniva non a guari molto rammaricata dall’annunzio della condanna, pronunziata il 51 maggio in Bologna da quell'i. r. Giudizio civile e militare austriaco, per tentativi di sommossa, contemporaneamente a quelli di Milano (6 febbraio) contro:

Saffi Aurelio, d’anni 45, di Forlì, letterato.

Pigozzi Francesco, d’anni 35, di Bologna, avvocato.

Franceschi Adeodato, d’anni 36, di Sant’Arcangelo. Grazia Massimiliano, d’anni 35, di Rimini.

Righi Giovanni, d’anni 50, di Bologna, avvocato.

Zanotti Valentino, d’anni 35, di Bologna, venditore di stampe.

Marta Taddeo, d’anni 50, di Bologna, tipografo..

Marchi Giuseppe d’anni 41, di Zola Predosa.

Brussi Gaetano, d’anni 26, di Faenza, avvocato.

Gamberini Cesare d’anni 32, di Bologna, scrittore.

Gabrielli Innocente, d’anni 40, di Cento.

Cenni Guglielmo, d’anni 54, d’Imola, dottore in legge.

Goliardo Francesco, d’anni 36, di Bologna, commerciante.

Moriva in Torino, il 3 giugno, il conte Cesare Balbo, compianto da tutta Italia, come uno dei suoi più grandi statisti. Egli era l’autore del Sommario della Storia d'Italia dal 1814 al 1848. Più tardi veniva eretto un teatro portante il suo nome ed a suo onore, ed una statua di marmo collocata ai Giardini pubblici, che gli rassomigliava perfettamente.

Un decreto reale usciva in quella data in Napoli, il quale vietava ai militari di bestemmiare Dio ed i santi nei quartieri, nelle caserme, ne’ castelli od in altri luoghi di militare riunione, sotto le pene portate negli articoli 367, 377, 384 dello Statuto penale militare. Erano competenti a giudicarne i Consigli di guerra. Ciò originava uno spionaggio incessante tra soldati e soldati, tra superiori ed inferiori e viceversa, i quali potevano accusarsi l’un l’altro anche per isfogo di basse vendette. Molte diminuzioni di pena ai condannati politici ebbero luogo, pure in quel tempo, per motu-proprio del Re.

Per decreto di S. M. l’imperatore d’Austria veniva completamente perdonato ai contumaci conti Greppi, e liberati dal sequestro i loro beni. Si riattivavano i vapori sui laghi, e si riconducevano le cose sul piede antico: parea quindi raffermata la fiducia del Governo.

A Roma S. S. Pio IX perdonava al colonnello Calandrelli, di cui parlammo altrove, ad istanza del Re di Prussia e degli ufficiali francesi della guarnigione di Roma.

Nei primi di luglio vennero in luce i risultati della sentenza nel processo di lesa maestà, istituito dalla R. Corte di Firenze. Furono condannati all'ergastolo in vita 9 individui fra quali i contumaci Montanelli, Nicolini, Dragomani; all’ergastolo per 15 anni, altri 9 fra' quali Guerrazzi; all’ergastolo per mesi 90, n. 7, fra' quali, Marmocchi; all’ergastolo per mesi 63, Franchini, e Capecchi; alla reclusione per mesi 40 nella casa di forza di Volterra, 5, fra quali Dami e Piccini; all’esilio perpetuo, 4; sottoposti alla vigilanza della polizia dopo l’espiazione della pena, 7; tolti dal ruolo degli avvocati 5; eliminato dal ruolo dei procuratori, Vannuzi-Adima-,ri Valente; assoluti liberamente Romanelli Leonardo, Latini Pietro; assoluti con partecipazione all’Autorità governativa, Pantanelli Antonio. Ciuccino Degl’Innocenti Alessandro;. compresi nella capitolazione di Cotignola, Garovich Marino, Lucchesi Cesare; compreso nell’amnistia, Nucci Ettore; sottoposto altra volta a condanna abolita dall’amnistia, Agostino Giuseppe.

Tutti gli Stati italiani avevano, in quella data, rivolta la loro attenzione alla grande controversia insorta in Oriente per la cattura del rifugiato politico, sig. Martino Kcoszta, ungherese, che aveva seguito Kossuth in America, e poi erasi ritirato a Smirne.

Il Koszta nacque a Genova, ma fin da fanciullo fu trasportato in Ungheria dalla sua famiglia, la quale colà si stanziò per oggetti di commercio. In Genova però, vivono ancora oggidì alcune diramazioni di questa famiglia.

Tutta la stampa ufficiale della penisola era incorsa, sia per politica, o forse per malizià, in enormi errori che svisavano e cose e fatti. Epperò noi amiamo rettificare la condotta di quella stampa, e narrare come sono avvenuti i fatti a danno del Koszta, osservando ch’egli era Costa, genovese, e non Koszta ungherese, e che ne venne cangiato da quella subdula stampa, pe’ suoi scopi, perfino il nome.

Tutte le potenze del mondo avevano un dominio ed una influenza assai grande in Turchia, e col mezzo delle loro ambascerie o consolati agivano come volevano, sotto quello scheletro di Governo turco, il quale lasciava si facesse a loro talento. Epperò le potenze conservative, come l’Austria e la Russia, vi esercitavano un potere assai grande. La emigrazione italiana era, in ogni luogo,d'Oriente perseguitata dagli agenti consolari austriaci. Costa, reduce dall’America, ove aveva chiesta quella sudditanza, viveva in Smirne tranquillo ed inoffensivo amato dai cittadini e da' suoi molti amici. Egli stava per conchiudere un matrimonio con nna giovane greca, figlia di un ricco negoziante della città. L'Austria, che non aveva potuto avere nelle sue mani il Kossuth, voleva almeno avere il Costa, che era stato segretario di lui, e che aveva presa gran parte nella rivoluzione ungherese del 1848; epperò emanava l’ordine di catturarlo ovunque si potesse scoprirlo.

Trovavasi sino dal 22 giugno ancorata in quella rada una corvetta da guerra americana il St. Lewis, armata di cannoni e con molta ciurma, comandata dal capitano Ingraham pure americano, conoscente ed amico del Costa. L’uno e l’altro, rinnovata la loro relazione amichevole incominciata in America, si frequentavano con reciproche visite a bordo od alla casa dell'emigrato italiano.

Giungeva in quel mentre in quel porto,l’austriaco brick da guerra, l'Ussero. Il comandante di quel brick saputa la dimora in quella città del Costa, comandò ai Suoi marinari di prenderlo e condurlo prigione sul brick stesso, il quale doveva fra pochi giorni salpare, da. quel porto per. dirigersi verso Trieste.

Il caffè in Smirne, che guardano il mare, sporgono sovr’esso, mediante pavimenti di tavole sostenute dà travi confitti nel mare stesso. Al dissopra di quei tavolati (mediante colonnette di legno colorato, che s’innalzano un’8 piedi, e sostenenti una tenda pure colorata serviente da padiglione riparatore dei raggi solari) si trovavano disposti qua e là alcuni tavoli e scranne senza dorsale per uso degli avventori.

In uno di questi caffè trovavasi il Costa, un dopo pranzo dei primi di luglio, con vari suoi amici, fumava, chiaccherava, giuocava alle carte e trastullasi allegro e tranquillo. Quando pure in quel caffè giunsero, travestiti, tre marinari dell'Ussero e si misero a sedere, vicino al Costa; contemporaneamente approdava e si appoggiava; lateralmente ai travi sostenitori di quel tavolato, una lancia dell'Ussero condotta da quattro marinari pure travestiti. Tutto in un punto, i primi tre marinari si alzarono da dove erano seduti, piombarono addosso al Costa, lo presero e lo slanciarono fuori dell'impalcatura. Intendendo di gettarlo nella lancia sottoposta; ma cosi non fu.

Il misero Costa cadendo da quel precipizio percosse colla veemenza di un corpo morto la sponda della lancia, e precipitò a fondo nel mare. Egli non sapeva nuotare. Pochi secondi dopo venne a gala e si senti afferrare da varie mani nello stesso tempo e credette che qualcuno lo salvasse. Erano le mani dei marinai dell’Ussero che 10 afferrarono, e lo tirarono nella lancia. Questa operazione fu fatta in un baleno senza che il Costa ed i suoi attoniti e smarriti amici potessero impedirla. 4 primi assalitori, quelli che lo slanciarono nel mare, di un salto furono già sulla lancia, la quale a voga sforzata veniva spinta all’Ussero, tenendo il prigioniero legato da funi onde non si muovesse. Ma gli italiani amici di lui si scossero da quella loro prima sorpresa, ed a tutto potere emisero forti grida, le quali furono udite dalla emigrazione, che accorse numerosa, in unione a molti cittadini, e fu giurata vendetta. Alcuni emigrati quindi si portarono immantinente ad informare del fatto il capitano americano che sapevano amico del Costa; altri corsero al consolato austriaco, tumultuando e minacciando per chiedere il Costa a quel console generale, cav. di Wockbeckef; ed altri infine, ciechi dal furore, si portare nò precipitosamente al caffè di Paolo Bonifaccio, al Quai inglese’, ove sorpresero alcuni ufficiali dell’Ussero, ne uccisero uno, ne ferirono altri, obbligarono il resto alla foga, li cadetto di marina, barone Hackelberg, ricevette un colpo di pugnale nel petto nell’atto che si slanciava in mare, ove si sommerse, e ne fu tratto solo il giorno dopo; il luogotenente Auerbammer ed il medico Hubna furono gravemente feriti. Il console austriaco intanto, che' nulla sapeva dei fatti al Quai inglese, teneva a bada la turba, chiedente il Costa, con molte promesso di consegnarglielo, mentre spediva un Albanese suo stradioto (guardia) al brick, coll'ordine a quel comandante sig. Schwarz di partire immediatamente col prigioniero alla volta di Trieste, il comandante quindi ordinava si levasse l'ancora, si spiegassero le vele e si partisse. Ma il capitano Ingraham, avvedutosene, levò egli pure l'ancora e si portò un cinquanta passi lontano dall’Ussero, ed appuntati i suoi cannoni verso di quello, mandò a bordo i suoi marinari coll’ordine gli venisse immediatamente consegnato il Costa, suddito americano, altrimente avrebbe fatto fuoco contro. Il console austriaco intanto scambiava note sopra note col console americano signor Ofiley, e col console francese signor Pichon, introdottosi in quell’avvenimento come mediatore. Però l'impaziente capitano americano stanco di attendere, ordinò montassero i suoi a bordo dell’essere e si prendessero il Costa, tenendo la miccia accesa per fulminare quel brick in caso di rifiuto o resistenza. Fu mestieri piegarsi alla forza temendo mali maggiori, ed il Costa che era già stato posto in ferri sotte coperta, venne estratto di là e condotto a terra, fra le acclamazioni di gioia della emigrazione, e del popolo accorso in folla alla spiaggia, e fu posto sotto la protezione dell’America e della Francia fino a che sarebbesi diplomaticamente discussa e decisa la questione della sua sudditanza.

Così e non altrimenti avvenne quel caso, che destò tanta sensazione in quella città, e che suscitò poi tra gabinetti europei tanta sorgente di questione e di litigio.

Noi abbiamo voluto offrire un cenno sul fatto del Costa, perché la stampa uffiziale di quei tempi gittava a larghe mani il fango sulla emigrazione italiana stanziata a Smirne, la quale sempre si comportò onestamente, e perché si volle perfino incolpare di assassinio il Fumagalli di Milano, che non travavasi nemmeno il quella città quando avvenne il deplorabile fatto per noi narrato; ma sibbene era a Sira, professore di lingua italiana in quel liceo comunale.

Il capitano Ingraham della corvetta americana il Lewis giungeva, alcuni anni dopo a Genova, e ivi riceveva una grande, dimostrazione di stima e di riconoscenza dagli abitanti della città per la fermezza da esso lui usata nel salvamento del Costa.

Come a Roma il 17, e 21 giugno S. S. Pio IX, commutava le pene del carcere a 200 condannati politici in. quella dell’esilio perpetuo, nello stesso tempo che, carceratasi a Ferrara il conte Bonacasa per sospetti politici, e condannavansi a Bologna altri 32 individui, quali alla galera, quali alla carcere; cosi anche in Toscana, da Leopoldo II tramutatasi (16 luglio) la condanna dell’ergastolo pure in esilio perpetuo, a fatare di Guerrazzi, Petracchi, Montazio e Capecchi. A Roma, 0 meglio a Civitavecchia giungevano 30 individui, (27 luglio) vestiti da marinari italiani, con passaporti inglesi, e vuoisi fossero membri di una società secreta, e propagandista del protestantismo e si divulgassero per le Romagne onde concertarsi coi,capi delle altre società secrete colà esistenti, nelle loro mene rivoluzionarie. A Firenze (8 agosto) si terminava uno dei. mille processi politici condannando a, 40 mesi di casa di forza, 9 individui accusati di perduellione ed empietà per mezzo del protestantismo. Anche a Napoli compitasi. uno, non dei. mille, ma sibbene dei diecimila. processi per oggetto politico e si condannavano, a 26 anni di Jerri, l’avvocato Lorenzo Jacovelli ed il medico Stefano Mojica; alla morte. 17 individui di civile. condizione; a 30, anni di ferri, 2; a 25 anni, 6; a. 24 il padre Raffaele Oriolo, e molti altri.

Il 26 agosto, pubblicatasi una Determinazione sul Regolamento dello stato d'assedio e del giudizio statario nel Regno Lombardo-Veneto dei ministri Bach, Kraus, Bamberg, Kempfen. Con questa determinazione si toglieva il potere al Comando militare e lo si dava alle altre autorità competenti come d'ordinario. Qualche piccola porzioncella veniva ancora serbata a quel Comando militare; Cosicché lo stato d’assedio era mitigato, ma non levato. Tale misura piacque nondimeno ai regnicoli, perché vedevano in essa tolti tutti, o per la maggior parte, gl'incagli molestatori del traffico, del commercio e dell'industria. Ma la carestia dei viveri era assai pesante: il panò toccava un prezzo assai alto in tutti gli Stati italiani, specialmente in Piemonte, nelle Romagne e nel Lombardo-Veneto. Nello Stato sardo ebbero luogo diverse dimostrazioni popolari, contro l’incarimento del pane nelle comuni e nella stessa Genova. Aggiungeva materia di dolore qualche caso di cholera che qua e là in Sicilia e nella Liguria scoppiava; e la siccità che rendeva insopportabile la vita. Gli animi-delle popolazioni erano esacerbati contro la condotta del duca di Modena, il quale seguendo l’esempio del monopolista suo padre, aveva depositi immensi di grani, acquistati a poco prezzo, e non li poneva in circolazione in quegli stremi di carestia e di miseria, attendendo che il prezzo dei viveri giungesse a tanto da trame maggiori guadagni.

(;) Per quantunque corressero tempi calamitosi perla siccità ch'insteriliva le campagne, per la carestia che rendeva crudele la vita del piccolo possidente, del piccolo commerciante, del basso impiegato e del proletario;: per la miseria che affliggeva la povera umanità, nondimeno si macchinavano sempre progetti di congiure e di sollevazioni dei popoli. Fu presa di mira, in preferenza di ogni altro luogo, specialmente Roma,(;)ab( )benché fosse sorretta dalle armi francesi. Una di queste sovvertitrici dimostrazioni politiche era già stata stabilita, sotto la direzione di un. certo Catenacci, ed indi del Petroni, e doveva scoppiare nella città eterna il giorno onomastico di S. M. l'imperatore dei francesi, allo scopo di tenere sempre acceso il fuoco, che da. qualche tempo sembrava assopito e di cangiare governo. Già a questo scopo era stato nominato un comitato, un nuovo ministero; erasi stampato già il manifesto annunziatore a Roma del nuovo governo, ed erano già fissate le persone da porre in arresto e da espellerei Vuoisi però che il Catenacci prendesse la impunità e scoprisse tutto all'Austria e. questa al Governo pontificio. Epperò la polizia romana e francese, avutone anticipato sentore, disperse quei conati coll’arresto di molti de' suoi autori. Fra questi un Castellani gioielliere, un Trabalza addetto alla posta; un Lepri, un Ruspoli, un Mattei negoziante, un Zarlatti ex uffiziale, un Della Ritta scultore, un Casciani impiegato alla direzione del bollo e registro, un Ruiz ragioniere, un Francois pure ragioniere, una donna amica del Ruiz, un Petroni avvocato, il parroco della collegiata di San Lorenzo in Damaso, e 160 altri. Roma però ebbe molto a soffrire dalle precauzioni e misure prese dalla polizia e dalla milizia, le quali arrestando, perlustrando, e percorrendo la città, si rendevano assai moleste.

Intanto gli assassinii politici aumentavano di-giorno io giorno. Molti attentati furono fatti contro i primi funzionarli a Noma, ad Imola, a Castel Bolognese, a Faenza, a Ravenna; nel numero di quelli troviamo il delegato provinciale di Ravenna ed il cardinale Rivarola. Il conte Tampini gonfaloniere di Faenza fini per ferite, il conte Guerrini, altro gonfaloniere, fuggì a Firenze per salvarsi dalle minacce. Tale era la fama.

Il 21 agosto si scopriva un cadavere assoggettato all'autopsia nelle sale anatomiche della clinica di Genova quel cadavere era del sacerdote Bottaroj morto avvelenato per arsenico, somministratogli, dicevasi, dal partito oscurantista. Quel prete fu autore di molte canzoni, già poste all'Indice, pelle quali fu sospeso a di virtù. Quelle canzoni erano dettate in senso democratico-socialista. Molte persone del ceto elevato vennero per quell’avvelenamento sottoposte all’Inquisitoria criminale t molte altre vennero arrestate.

Si scopriva in Modena con grande pompa e solennità il giorno 24, la statua eretta nell’antico piazzale delle Case Nuove in tributo cittadino alla memoria del celeberrimo istoriografo Antonio Muratori, opera dello scultore, prof. Adeodato Malatesta. Intervenivano a quella patria funzione tutte le autorità, l’università e la colta cittadinanza: quella piazza da quel giorno in poi fu chiamata Piazza Muratori.

Un editto in data di Venezia 6 settembre della Commissione liquidatrice per le provincie venete invitava tutti quelli che credessero avere pretese sulle sostanze dei profughi colpiti da sequestro. Questi profughi: erano:

I. Avesani barone Francesco, quondam Ignazio, avvocato della provincia di Venezia.

2. Benvenuti Bartolommeo, avvocato di Venezia.

3. Bernardi Giuseppe, avvocato, di Venezia.

4. Borici lo Giovanni Paolo, di Vicenza.

5. Bernardi ab. Giacomo fu Bernardino di Padova.

6. Bardella Augusto di Vicenza. '

7. BassaniGraziadio dott. Graziano di Verona

8. Castellani Gio. Batt; di Udine.

9. Caccianiga Antonio di Treviso.

10. Degli Antoni Angelo di Venezia.

11. Freschi conte Gherardo di Udine.

12. Framarin Ottavio fu Domenico di Vicenza.

13. Fiocardo Antonio di Vicenza.

14. Gritti nob. Giovanni di Venezia.

15. Guerrieri conte Gio, Batt. fu Alessandro di Verona.

16. Guerra Gio; Batt. fu Marco Antonio di Verona.

17. Morosini Gio. Batt. di Venezia.

18. Murari Tommaso fu Agostino di Verona.

19. Merighi Vittorio fu Emerico di Verona.

20. Milani Giovanni fu Férmo di Verona.

21. Mircovich Demetrio di Padova.

22. Manolesso-Ferro nob. Cristoforo di Treviso.

23. Mengaldo dott. Angelo di Treviso.

24. Negri Pietro Eleonoro di Vicenza.

25. Onigo nob. Guglielmo q. Girolamo di Treviso.

26. Piatti co. Vittorio fu Vincenzo di Verona.

27. Pasini Valentino di Vicenda.

28. Ronconi Benedétto di Vicenza.

29. Tecchio Sebastiano, avvocato, di Vicenza.

30. Zerrnan dott. Pietro di Belluno.

Il 7 settembre veniva in luce la sentenza contro 64’ individui, che ebbero parte negli sconvolgimenti del 6 febbraio in Milano} pronunziata dal consiglio di guerra, radunatosi per ordine dell'i. r. tenente-maresciallo e comandante interinale del quinto corpo d’armata, conte Filippo di Stadion. Quegl'infelici furono condannati alla forca; altri ai lavori forzati, altri all’ergastolo) questi al bando,-quelli alla reclusione, ai ferri per più o men lungo tempo, a seconda della gravità della loro imputazione. Ai IO ottobre dal tribunale militare di Bologna vennero inoltre condannati all'estremo supplizio Stanzani Pietro e Cavara Cesare; indi altri 40, parte presenti, parte contumaci, a più o men lungo carcere. Alìi 11 comparve all'estero la notificazione del cardinale arcivescovo di Ferrara, Vannicelli, colla quale sino dai 50 p. p. settembre ordinava la riapertura della università di quella città, dopo tanti anni ch'era stata chiusa, raccomandando ai professori «d’informare le menti dei loro allievi alle più sante dottrine, e a non lasciarsi sfuggire veruna occasione d’inspirar loro colla voce e coll'esempio sentimenti di religione, di onestà e di fedele sommissione al legittimo Governo.»

Alla siccità la più ardente, successero le dirotte piogge, le quali ingrossarono in breve tempo fiumi e torrenti che minacciarono straripamenti ed inondazioni. E già in più territorii le acque traboccate dai rotti argini cedenti alle grosse piene, allagarono le campagne e desolarono le popolazioni. All’incarimento dei generi più comuni alla vita, successero il bisogno, la miseria, la fame, orribili compagni che vanno sempre uniti, trascinando ai delitti colla loro ineluttabile forza gli uomini che sono le loro vittime. Ma il caro dei viveri (che realmente era grande e generale) fu preso come un appiglio dai partiti mazziniani e clericali, avversi al Governo di Torino, i quali incolparono Cavour di quelle pubbliche calamità. Cavour, presidente del consiglio, già aveva legato il Piemonte all’Inghilterra con vincoli di commercio, d’industria e di navigazione, e voleva pur condurre la economia e la finanza dello Stato sul piede inglese. Sapendo ciò, quei partiti irruppero gagliardi, con ripetute dimostrazioni a lui ostili, l'11, il 13 e il 18 ottobre. Epperò, riscaldati e uomini e donne: della classe proletaria, e molta gioventù spensierata, e molti emigrati malcontenti, si diedero allo schiamazzare per le vie di Torino gridando abbasso Cavour, levando, alto rumore per gl'incarimenti dei viveri. Gli assembramenti, sotto le finestre della casa di Cavour e del ministero in piazza Castello, cotanto tumultuanti e compromettenti la pubblica tranquillità, diedero origine a reclami da parte del Municipio, diretti al Governo con circolari del sindaco Rotta; ed il Governo, e per esso lui la Questura, agi con forza, mandando fuori squadriglie di carabinieri a cavallo, i quali dopo le tre intimazioni prescritte dalla legge, fecero molti arresti e dissiparono le pericolose assemblee popolari; Da quei tu. multi ebbe luogo eziandio la espulsione da parte di quel Governo di molti emigrati in America, parecchi dei quali, dopo la intimazione ministeriale di sgomberare dagli Stati sardi, partirono dal porto di Genova a loro spese, mentre gli altri, costituitisi prigionieri, vennero trasportati, sotto grosse scorte, alla fortezza di Villafranca, in attesa fosse allestito il naviglio, la Euridice, che salperebbe dal porto di Genova il 10 novembre, e che avrebbeli trasportati fuori del continente europeo, unitamente agli emigrati detenuti nelle carceri di S. Andrea. I deputati che si trovavano, a Torino nel tempo delle dimostrazioni ostili al Cavour,anche quelli della sinistra, tranne però Valerio, e Brofferio, la guardia nazionale, i Consigli municipali le Società operaie di Torino e delle provincie, mandarono indirizzi al Cavour, spronandolo a seguire la incorniciata impresa di organizzazione finanziaria all'uso inglese. Cavour quindi allettato da cotanto affetto dimostratogli dalla nazione, segui il suo sistema riformatore, il quale, se per le enormi spese che chiedeva per la sua attuazione, in sul principio impoveriva il paese, aggravandolo di soverchie imposte, avrebbe poi a suo tempo, portato allo stesso paese i suoi rigogliosi frutti di prosperità e di benessere sociale.

Alle pubbliche calamità per noi narrate se ne aggiungano altre due, il cholera e la guerra, li cholera, che già menava strage a Pietroburgo, a Stoccolma, a Berlino, a Londra, minacciava d’irrompere anche nella nostra Italia. I Governi con mano tremante chiudevangli le porte, emettendo grandi rigori pei navigatori, sui trasporti, sulle quarantene, e sui porti tutti dell’Adriatico e del Mediterraneo; ma i commerci coll’estero di perciò stesso difficultavansi, resi in alcuni scali impossibili. Per la qual cosa la industria nazionale soffriva discapiti sommi, e la classe trafficante grandi nocumenti. L’importazione del grano turco, del frumento, dell'avena, favorita in parte nei dazii, riusciva malagevole a danno di tutti, ad aumento della patria miseria. In secondo luogo la guerra scoppiata tra la Russia e la. Turchia, la prima perché invadeva colle sue truppe i Principati Danubiani, la seconda perché voleva rispettato il suo territorio dallo straniero, nello stesso tempo che metteva in movimento la diplomazia europea, intenta a mirare la influenza cosacca sul continente, agitava eziandio le passioni italiane; le quali in quel conflitto, in quella guerra speravano, o temevano, sorgessero tali complicazioni da obbligare l'Austria ad un intervento armato. In quel caso, sprovvedute di forze imperiali le provincie italiane, chi sperava d’insorgere, rivoluzionando i paesi, e giungere alla propria indipendenza, altri invece temevano, soccombendo l’Austria, di soccombere eglino pure e perdere nelle rivoluzioni future la loro sociale posizione.

Il Piemonte in tali contingenze, abbenchè combattuto internamente da tante vicissitudini, stava con occhi d’argo, attento alle eventualità possibili, onde prendere norma dalle medesime. La Santa Sede di 23 ottobre, restringeva le feste per lo Stato di Sardegna, indotta certamente, a quella misura dalla ognor crescente corruzione di quei paesi, la quale rendeva le popolazioni quasi apatiche per le cose religiose, giorni festivi ancora serbati erano le domeniche, il Natale, l’Epifania, l’Ascensione, la Concezione la Natività, l’assunzione, il Corpus Domini, SS. Pietro e Paolo, d’Ognissanti ed il giorno del Patrono di ciascuna diocesi, città, e terra. Ma il Piemonte, prendeva egli pure, delle misure di polizia, tutt'altro che costituzionali. Il 23, veniva tratto dalle carceri di Sant'Andrea l'ingegnere Pietro Balzani, toscano, già maggiore dell'esercito repubblica no di Roma, ch' era stato arrestato ai primi di settembre al Borghetto, e gli fu intimato di partire egli prese la volta di Marsiglia. Il 24 fu intimato alla famiglia Zannini, che da 30 anni conduceva una caffetteria in Sarzana, di uscire dallo Stato entro 5 giorni. Il 4 novembre il ministro dell'interno dirigeva una circolare agli intendenti delle provincie nello scopo di ridestare tutto lo zelo delle Autorità locali, a fine di porre in freno le fazioni che tentavano agitare il paese, I 5 la Questura della città e provincia di Torino, proibiva gli schiamazzi, i canti ed i suoni a notte innoltrata, colla minaccia di arresto ai trasgressori. Il 6 a sera veniva chiuso, il teatro di Novi per sibili ed urli in senso politico colà avvenuti; e Buffa, intendente di Genova, comparve colà con grande apparato di forze. A Genova il giorno dei morti si misero in moto molte pattuglie a piedi ed a cavallo in causa di una dimostrazione, che gli operai andavano a compiere sulle tombe dei martiri italiani sepolti nel cimitero di Staglieno. Le corone ed i fiori furono specialmente deposti sulle tombe della madre di Mazzini e del prete Bottaro. I sequestri e le condanne dei giornali erano all'ordine del giorno.

Nel 12 novembre, il presidente interinale cav. De Villata pubblicava in Milano una notificazione, colla quale invitavansi tutti quelli che potevano avere legali pretese sulle sostanze dei profughi lombardi colpite dal sequestro.

Ecco il nome dei sequestrati lombardi:

NELLA PROVINCIA DI MILANO

1. Arese conte Francesco.

2. Borromeo Arese conte Vitaliano..

3. Borromeo Arese conte Giberto.

4. Broglio dottore Emilio.

5. Camozzi Ercole, già capitano quiescente.

6. Casati conte Gabrio.

7. Ciani Giovanni, già commerciante.

8. Crani Penelope, nata Fontana, sua moglie.

9. Crivelli nobile Vitaliano.

10. Ferranti ingegnere Eugenio.

11. Fontana nobile Galeazzo.

12. Lechi Teodoro ex generale.

13. Litta Arese duca Antonio.

14. Litta Arese conte Giulio.

15. Martini conte Enrico.

16. Oldofredi Tadini conte Ercole.

17. Pallavicini marchese Giorgio.

18. Pavesi professore Francesco.

19. Raimondi marchese Giorgio.

20. Rocca Giuseppe.

21. Rosales Ordogno marchese Gaspare.

22. Sessa Giacomo, ex maggiore.

23. Terzaghi nobile Giulio.

24. Trivulzio Belgioioso principessa Cristina.

25. Sangiantoffetti conte Vincenzo.

NELLA PROVINCIA DI COMO

26. Guaita nobile Innocenzo.

27. Nessi Pietro.

28. Strigelli nobile Cesare.

29. Trotti nobile Lodovico.

30. Vitali nobile Antonio.

NELLA PROVINCIA DI MANTOVA

31. Aporti Ferrante Ettore, sacerdote.

32. Arrivabene conte Giuseppe.

33. Avigni nobile Leonardo.

34. Benintendi nobile Livio.

35. Bennati ingegnere Giuseppe.

36. Bennati Luigi, suo fratello.

37. Boselli Francesco.

38. Coddè Luigi, dottor fisico.

39. Controperon Francesco.

40. Dall'Oro Carlo.

41. Gallina Angelo.

42. Giani Eugenio.

43. Guerrieri Gonzaga avv. marchese Anselmo

44. Guerrieri Gonzaga marchese Carlo.

45. Malacarne Nicola.

46. Rizzini conte Francesco.

47. Zanardi ingegnere Eulogio.

NELLA PROVINCIA DI LODI

48. Carini Teodoro.

49. Cerri Antonio.

50. Colombani Francesco, ingegnere,

51. Magri dottor Paolo .

NELLA PROVINCIA DI PAVIA

52. Bassini Angelo.

53. Guy Antonio.

54. Febbriani Pietro.

35. Ficca Luigi.

56. Ficca Paolo.

57. Filippini Gaetano.

58. Franzini Luigi.

59. Locatelli Giosia.

NELLA PROVINCIA DI BRESCIA

60. Martinengo nobile Giuseppe.

61. Morosini nobile Giovanni.

62. Paroli Innocente.

63. Pavia Giacomo.

NELLA PROVINCIA DI CREMONA

64. Fabrici Giuseppe.

65. Tibaldi Gaetano.

NELLA PROVINCIA DI BERGAMO

66. Camozzi nobile Gabriele.

67. Camozzi nobile Giovanni Batt.

68. Tasca nob. Ottavio.

NELLA PROVINCIA DI SONDRIO

69. Caimi Filippo.

70. Guicciardi nobile Girolamo.

71. Quadrio Beranda Giovanni Battista.

72. Torelli nob. Luigi.

Le strade ferrate erano in attività nel Regno Lombardo-Veneto da Mantova a Venezia, congiunta alla terraferma, mediante l’enorme suo ponte; e nello Stato sardo da Torino a Genova. I municipii ovunque gareggiarono di zelo nella ricerca dei modi più acconcii a sopperire alle pubbliche calamità, onde le classi meno agiate fossero provvedute del modico sostentamento della vita. I grani cominciavano affluire nei porti italiani, e quindi i prezzi delle derrate subirono qualche ribasso.

Terminò l’anno 1853 nel Piemonte, colla repentina chiusura delle due camere ordinata da} Re e colla rielezione delle nuove. Le vecchie furono chiuse, perché non omogenee al ministero; le nuove rielette, dopo lotte tremende esercitate da tutti i partiti, riuscirono più conformi ai desiderii del Governo, ed il capo di quello, conte Cavour, ebbe un vero trionfo. Brofferio, capo della demagogia in Piemonte, tuonava colla sua Foce della libertà e metteva in iscompiglio tutti i partiti ed il ministero. Il Governo raddoppiava quindi di precauzioni, e, disponitore della forza, faceva di questa gran pompa nella occasione in cui, ad onore al Brofferio; da oltre 100 giovani, davasi un lauto banchetto al Trombetta. A Roma si scoprivano continuamente complotti contro quel Governo, e quindi gli arresti e le condanne si succedevano con istraordinaria celerità. I francesi di occupazione erano colà il bersaglio dei romani e specialmente dei transteverini, i quali usavano, ahi troppo sovente! i loro stiletti in danno di quelli. Anche le costituite Autorità erano prese di mira tanto nelle Romagne che nella Toscana, e Varie di esse restarono vittime. Ci sarebbe arduo oltre ogni credere enumerare gli arresti eseguiti a Napoli nel corso dell’anno 1853. Colà però si attendeva con alacrità a tutti, quei rami che potessero influire al benessere materiale dei popoli, forse in Compenso del ben essere morale vilipeso con ogni maniera di oppressiva misura. Quelle province furono sovente danneggiate dalle dirotte pioggie, dagli straripamenti dei fiumi, e dalle scosse di terremoto. Dissotterravasi in quell’anno, vicino Pompeia, un antico paese, e molti oggetti di antiquaria, di numismatica e di archeologia grandemente preziosi. Le Due Sicilie é gli Stati Estensi furono i paesi che men di ogni altro soffersero la fame. Il clero soffri persecuzione più di ogni altra classe dei popoli, tanto nelle Romagne come nella Svizzera italiana è nel Piemonte. La navicella di Pietro minacciava sommergersi nelle acque del protestantismo, mercé là grande influenza dell’Inghilterra esercitata in tutta la penisola, tranne nel Lombardo-Veheto e nelle Due Sicilie, nel qual ultimo luogo perfino la soldatesca veniva obbligata alle preghiere del mattino e della sera per decreto di quel Comando militare. Il partito mazziniano, dopo i fatti del febbraio, pativa ostruzioni di cuore e mostrava un aspetto cadaverico. Egli restringevasi a spiegare i suoi conati contro Roma coll'uso del pugnale; e contro il Piemonte e l’Austria colle polemiche, e con qualche dimostrazione, che non aveva altro fine che la perdita di qualche suo allievo.

Il partito democratico era egli pure balestrato dalle vampe repubblicane, dalle malizie ed improntitudini delle potenze assolutiste e dal clero, che in un comune accordo tentavano con ogni loro mezzo di soffocarla. Il partito religioso romano era ovunque in Italia scaduto nella sua influenza, e degradato presso le moltitudini, sorreggendosi soltanto colla forza delle armi straniere. I buoni e gli onesti piangevano nel loro cuore, ed a calde lagrime, sopra una tanta sciagura, e si tenevano ancorati più che sei potevano, alla santità dei principii di religione. Il partito assolutista (tranne che in Piemonte ove tentò, ma invano, d’introdursi e spiegare la sua bandiera) fu quello che nell'anno 1853 riusci trionfatore in tutte le parti dell’Italia. Per quantunque punzecchiato qua e là dal partito democratico, molestato spesso dal partito sanfedista, socialista, ed anglicano, vessato dal Piemonte e dall’Inghilterra, scosso sino nelle sue viscere dal partito repubblicano; nondimeno' stette saldo sopra le sue basi, sopra i suoi due principali cardini, forza e terrore.

Egli è quindi a conchiudere che l’anno 1853 può essere raffigurato ad un enorme, accozzamento di nubi gravide di grandine, di pioggia, di lampi, dii tuoni, e di folgori, che, quando che sia, venga da contrarii venti, sei non dissipato, certo sciolto e rotto così d’allontanare ogni tema di rovina,: e permettere che i suoi divisi ammassi compaiano tratto trattò sfolgoranti dell'elettrica loro fiamma; Voi scorgerete in quel minaccioso accozzamento di nubi il 6 febbraio; in quei lampi, in quei tuoni, in quelle folgori gli stati d'assedio, le fucilazioni, le condanne, le improntitudini, le passioni tutte dei Governi, e dei popoli; ed in i quegli ammassi divisi, cessato il pericolo della bufera, voi Scorgerete le. vampe elettriche dei partiti ad ora ad ora scintillanti. Ma il partito veramente italiano, quello della patria indipendenza e nazionalità, era come un naufrago, che, fra le ondate enormi di un mare, procelloso, potè a stento raggiungere un piccolo scoglio e sovr’esso arrampicarsi; e di là scorgere un naviglio da lunge fra le ansie le più crudeli, che, volteggiando, manovrando, lottando: coll’imperversare dello sconvolto elemento, vorrebbe pure raggiungerlo, ma non offre lusinga di vederlo superare l’onda commossa ed il minacciato pericolo. Quel naufrago era appunto il partito italiano del 1853, quello scoglio la sua costanza, quel mare burrascoso i suoi patimenti, quel lontano naviglio il Piemonte!


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CAPITOLO VIII

L’anno 1854

Le amaritudini non ci flagellano sempre per atterrirci, ma talora per offrirci una guida nell’arduo cammino della vita. Laonde; per lo imperversare di esse loro, non dobbiamo smarrirci trepidabondi e vili, ma sibbene è dover nostro il sostenerle da forti, con calma dignitosa, costante, incrollabile, come una sfida perenne e gagliarda, sin che lo scroscio di quelle amaritudini o si arretri impaurito, o ceda impotente. Ma per parlare senza figure, la verità ci vincola ad asserire, che lo sciupio delle sabaude libertà, lo esercizio smodato della forza negli altri Stati italiani, e le improntitudini demagogiche, potenze tutte e tre né fatali men, che stolte, per noi simboleggiate nelle amaritudini che dicemmo, servirono agl’italiani di salutare ammaestramento, e furono esca a più saggi propositi, a più maturati nobili intendimenti. Imperciocché in primo luogo la demagogia sedente nella Svizzera e nel Piemonte, e diramata qua e là nella penisola per via di comitati secreti, nella trabocchevolezza delle costituite libertà, si sviluppò in tutto il suo bollore, in tutta la stia forza, scoppiando cieca e cruenta in un mare di sangue, e sovra un cumulo di cadaveri. Tremarono o sperarono in lei i popoli in sulle prime, ma poscia che videro che i conati di essa non raggiungevano che assassinii politici, e sperpero di vite e di sostanze, senza alcun italiano risorgimento, e che anzi sacrilegamente tentavano di spegnere quell’unico sacro fuoco di patria indipendenza e nazionalità, che in mezzo a tante scosse fulgeva ancora in Piemonte, i popoli, rientrati in sé stessi, prima modellaronsi a saviezza ed a prudenza, indi rinversarono inorriditi su quella fatale demagogia tutta la soma della loro indignazione. In secondo luogo l’assennatezza italiana giunse a conoscere la parte nociva delle esistenti libertà subalpine, e da quella si lontanarono, considerandola come una locale necessità delle adottate istituzioni, per rivolgere tutta la loro attenzione alla parte più nobile di quelle libertà stesse, persuadendosi che in un tempo più o meno lontano avrebbe germogliato frutti degni e veri per l’italiana indipendenza. Stettero quindi fidenti e calmi in attesa dell'avvenire. In terzo luogo la forza di repressione usata dall’Austria, dai Duchi, dal Pontefice, da Ferdinando II, ammaestrò i popoli italiani facendo loro apprendere non esservi tra il potere e la sudditanza qualsiasi transazione o misericordia pei ribelli, e che soltanto nella calma, pur apparente, pur non sincera, potevano rinvenire lenimento alle loro ferite, se non dell'anima, almeno della vita materiale, dei censimenti impoveriti, della condizione sociale resa ben miserevole. Epperò quei popoli, rinserrarono nel profondo del cuore i loro vani conati, moderandoli a saviezza. Egli era mestieri rifocillare le membra sociali sperperate dalle tremende scosse che ricevettero, rimettere nuovo sangue nelle vene in compenso del tanto di già versato, ammegliare i patrimonii nazionali con più attenta sollecitudine, onde le industrie, i commerci, le arti fossero ristorati e addivenissero fonti di ricchezza. Laonde, tenendo sempre rivolto lo spirito al Piemonte, che loro serviva di faro guidatore nei regni della politica, e placando con savia prudenza l’indomito fuoco della ribellione, si atteggiarono in un cotale diportamento col rassegnarsi alla loro sorte. E quella rassegnazione venendo dall'Austria considerata come una riconciliazione dei popoli italiani col potere, scosse la ruggine dell’antica sua politica e la migliorò, sospendendo in progresso di tempo a poco a poco le misure proprie alla forza sino allora esercitata, e ponendosi sopra una via meno scabra onde meritarsi il titolo di Austria ringiovanita.

Seguirono quell'esempio, ed anche con maggiori larghezze, i governi dei Ducati, mentre le Romagne e le Due Sicilie restarono afferrate ai cardini del più micidiale dispotismo, pronto sempre a far della forza e del terrore il sostenimento dell'immutabilità del proprio sistema. Né con ciò noi vogliamo asseverare che l’Austria cangiasse, coll'incominciare dell'anno 1854, la sua politica, avendo già dimostrato non essere ciò comportabile alla sua natura, ma vogliamo porgere che ella, credendosi sicura, rassodata, fidandosi, in una parola, della calma degl'italiani, incominciò sino d’allora a porre nel fodero la spada, pronta già sempre a levarla, come vedremo, quando lo esigessero le circostanze.

Ecco sotto quali generali punti di vista, sotto quali auspizii incominciava l’anno 1854, essendosi suicidata la demagogia colle stesse sue armi, e quindi non avendo più, sulla generalità dei popoli in Italia, fede e potere.

Laquestione di Oriente complicandosi di giorno in giorno sempre più, rendeva negli animi europei l’agitazione, e difficoltava i commerci con quegli scali importanti. L’anno 1854, sotto l’aspetto finanziario, presentavasi con auspizii molto sinistri. La penuria dei viveri erasi resa generale in Italia. Gli usurai, gli speculatori se ne approfittavano ed incassavano tesori. I profetar» pativano la fame. Lo Stato pontificio destava veramente compassione, e sembrava giunto a tale da non esservi più riparo. Diffatti la miseria, che nuda e squallida correa sui primi del 1854, pelle provincie delle Romagne, faceva porre la mano sacrilega nei sacri depositi delle chiese; epperò molte ne vennero derubate. Quella miseria era prodotta dalla scarsezza, quasi. generale, dei raccolti, dallo scemato lavoro nelle campagne e nelle ferriere; dalle imposte commerciali, professioniste, personali, mobiliarie ordinate quasi da per tutto, ma specialmente dal Governo papale. Il Governo sardo pur ordinava imposte di ogni genere nello scopo d’inaugurare in Piemonte il sistema economico inglese; epperò come creava ovunque turbe di miserabili, che si diedero poi alle rapine ed ai delitti, cosi suscitava sconvoglimenti sociali nello Stato, che, se non si fossero sedati a tempo dalla forza pubblica, avrebbero turbata la tranquillità territoriale. E diffatti Torino, Genova, Arona, Bra, Barge, Courgnè, Aosta, Locana, Savona, Verrer, Chatillon, Ciamberj, ebbero frequenti dimostrazioni ostili al Governo, il quale doveva far apparato di forze per calmarle. E nelle valli di Aosta, bande di montanari, provenienti da varii centri, ingrossate nel loro cammino di oltre a 5000 uomini, armati di attrezzi rurali, ed indi anche di fucili tolti alle guardie nazionali, battendo il tamburo, gridando: abbatto la Costituzione, abbasso le imposte, viva il Re, entrarono nei comuni spargendo il terrore nei territori e compromettendo le proprietà e le sostanze. Tutte le case venivano chiuse al loro passaggio, ed i sindaci e le autorità amministrative, temendo il saccheggio, davano loro ricetto, alloggio, danaro. Sopraggiungevano intanto i vescovi e gl’intendenti, e colla parola, più che colle armi, disarmarono quegli affamati promettendo loro di provvederli di lavoro e di farine. Ma sia che si pentissero di aver creduto ai vescovi ed agl’intendenti, sia che esigessero un immediato riparo alla loro triste condizione, egli è mestieri asserire che quelle turbolenze si rinnovellarono, e convenne ricorrere all’uso della forza pubblica per troncarne il corso impetuoso. Quattrocento arresti quindi furono praticati, e si adottarono eziandio altri opportuni provvedimenti. I politici intanto davano colpa di tali ammutinamenti a diverse cause. Questi (che erano i liberali ed i ministeriali) alle influenze estere, alla Francia, alla Russia, all’Austria, le quali volessero destare imbarazzi negli uomini che reggevano quello Stato, intendendo di far vedere al mondo quanto fossero deboli le radici poste in Piemonte dal nuovo ordine di cose; come fosse scarso l’affetto dei popoli verso quel Governo, ch’esse chiamavano antonomasticamente Governo modello. Quelli (ed erano i clericali ed i conservatori) volevano da quei moti dei montanari trarre indizio dell’impazienza con cui si sopportava un sistema di reggimento, in essi loro stimato non abbastanza popolare e progressista. Altri infine (ed erano i socialisti e gli anglicani) davano causa al clero, il quale tentava di sovvertire quel sistema di cose, di osteggiare in ogni sua tendenza il Governo, anzi di rovesciarlo come anticristiano ed anticattolico, per porvene uno in sua vece clericale ed assolutista. Questa ultima opinione era la più generalizzata, dappoiché alla testa delle turbe montanare, oltre al tamburo, inalberavansi pur delle croci.

Nel Regno Lombardo-Veneto le Congregazioni municipali incominciarono i loro uffizii, e le città, le case elemosiniere, i vescovati, la ricca nobiltà e la borghesia si mostrarono molto teneri per la causa del proletariato, e fissarono prezzi minimi ai generi di prima necessità, e cori larghi sussidii lenirono ai poverelli le calamità loro prodotte dalla miseria. Quell’esempio di patria carità venne pure imitato nei Ducati e nelle Due Sicilie.

Francesco V, duca di Modena, per quantunque sorretto dall’Austria in modo particolare, non pertanto temendo i moti sovversivi, pubblicava il 7 gennaio, un editto sovrano nello scopo «di reprimere, mediante giudizi più spediti ed energici, e col rendere in certi casi più gravi le pene, la insolita frequenza di alcuni delitti che in quel Ducato si rinnovellavano. Epperò «egli istituiva una commissione militare, competente per tutto lo Stato.» I delitti, di cui parlava quell'editto ducale, oltre a cento altri, erano la circolazione di stampe, di scritti, di emblemi contrarii al governo legittimo; la diffusione delle patenti settarie, e dei partiti rivoluzionarii; la ritenzione e custodia dei suddetti oggetti; le invasioni con armi o senza; la ritenzione di armi e munizioni, ecc., ecc.

Il 20 gennaio, a Faenza, furono uccisi il medico Bachi della Lega ed il canonico Laghi. La miseria, unita ad un freddo straordinario, ch’era generale, giungeva colà, come dicemmo, all’estremo grado di squallore. Nascevano però dei moti, dei ferimenti, delle uccisioni frequentemente. Ma dalle Autorità pontificie, anziché indagare con severi esami le cause che producevano tanti delitti, si dava colpa, di qualunque men che minimo evento, allo spirito di rivoluzione di quegli abitanti. Epperò in Sinigaglia, in Fano, in Pesaro rimanevano guarnigioni austriache; in Rimini stanziavano gli svizzeri forti di 6 complete compagnie e mezza batteria, cioè un battaglione di 800 teste; a Cesena, a Ravenna, a Lugo vi era la guarnigione papale; a Forlì un generale austriaco con 3000 uomini; in Faenza ed Imola egualmente presidii austriaci; negli altri luoghi i francesi ed i papalini uniti ad altri svizzeri. Con tutto quell’apparato di forze, con tutti i rigori che colà venivano esercitati, sembrava impossibile che quei paesi, più che altrove, fossero in preda a tanti delitti. Però egli è da conchiudere che la corruzione camminasse a pari passo colla miseria, ambe giunte all’estremo grado di loro forza. Provvedimenti? Nessuno. La forza soffocava perfino la fame. Corruzione e miseria, miseria e corruzione dappertutto. In Roma nel quartiere di Campo Marzo veniva, il 19, assassinata la dodicenne figlia di un impiegato della posta, uccisa dalla sua servente, zitella incinta, che, dopo commesso il delitto, si gettò giù dalla finestra: ecco un omicidio, un suicidio, un infanticidio. Corruzione e miseria! A Ravenna, il 20, un drappello di donne saccheggiò tutti i venditori di pane; a Bagnacavallo una turba di 400 a 500 individui invase tutte le botteghe dei fornai e fece manbassa sul pane. A Faenza, la notte del 29 al 50, dietro i molti omicidii in quella città, furono arrestate 70 persone di diverse condizioni e tradotte immediatamente, parte nella rocca di Imola e parte in quella di Forli. Tumulti a San Vincenzo ed a Sant’Agostino. A Bologna 16 sentenze di morte, a Roma 50 condanne di cospicui ed illustri cittadini dai 10 ai 25 anni di ergastolo. Corruzione e miseria! Tutte le città erano ingombre di questuanti; nelle campagne i contadini dovevano far elemosina per forza. Elemosina o derubazioni, elemosina o ferimenti, elemosina o incendii. Corruzione e miseria! Provvedimenti? Nessuno. La forza!

Il giorno 2 febbraio moriva in Torino Silvio Pellico: egli lasciava molti preziosi manoscritti, un gran nome venerato da tutti, e la memoria delle sue prigioni e dei suoi patimenti sofferti a Spielberg, Tutti i partiti pregarono per lui.

Lamorte dello sventurato poeta, che avvenne quasi contemporanea a quella del celebre Arago, mancato a Parigi, e del padre Gavazzi morto da patimenti, sepolto nei fetidi ed umidi sotterranei delle carceri ai bagni di Diocleziano a Roma, non tranquillizzò gli animi dei popoli sardi, agitati altamente pegli affari d’Oriente. La Russia aveva attaccata Sinope, e la Francia e l’Inghilterra, volendo conservare la integrità dell’impero ottomano, s’ingolfarono in una lite diplomatica cosi intricata e confusa, che offriva vasto campo al giornalismo di tutte le parti del mondo di commentare quella vertenza in mille modi. I liberali in Italia vedevano in quelle lotte dei Gabinetti agitata la questione delle nazionalità; e speravano, che mediante Io scoppio di una prossima guerra, l’Austria, (che per gratitudine avesse voluto difendere la Russia, che nel 1848 l’aiutò a salvargli il Lombardo-Veneto e le provincie magiare, ed ungheresi) si potesse trovare fra due fuochi. Già, seguendo l’esempio della Francia, il Piemonte e la Svizzera si armavano; già si cantavano inni alla insurrezione greca, che prendeva un grande sviluppo; già la propaganda agitatrice sorgeva, e stendeva le sue fila dal Tamigi alla Dora ed al Lago di Teli. I partiti si fondevano fra loro; le questioni tacevano: una sola era la idea fissa: la guerra. Speranze illusorie!

Ai 5, nei quartieri di Ciamberi furono trovati affissi degl’inviti agli operai d’insorgere: nell’11 veniva sciolta la seconda compagnia della guardia nazionale di Villanova (Casale) per atti d’insubordinazione; al 12 i principali negozianti ebbero ordine di sospendere la vendita delle granaglie. Correa voce che si trattasse di raccogliere un corpo considerevole d’armala intorno a Torino. Ai 21, il Re Vittorio, colla Corte, colle Camere, con oltre a 100,000 persone si portarono a Genova per la inaugurazione della ferrovia. Luminarie, feste, pompe, addobbi, teatri, allegrie, balli, fuochi d'artifizio, regate in porto, splendidi banchetti, fraternizzazione tra liguri e sardi, tutto concorse a dar moto e vita a quella patria solennità; contrasto assai grande alle pubbliche calamità, che desolavano i paesi, fame e miseria, alle quali per soprassalto s’accoppiarono anche i terremoti, facendo guasti e rovine negli edifizii di molte città specialmente della Romagna e delle Due Sicilie.

Il carnevale in quest’anno fu festevole quasi in tutte le città della Penisola. Soltanto a Roma venne turbato da un proiettile scagliato contro l’ambasciatore russo, ma colpi la moglie di lui. L’imputato, certo Corvelli, venne arrestato il giorno dopo nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina dai soldati francesi, malgrado la immunità concessa ai luoghi sacri dalle leggi dello Stato pontificio, e fu condotto al castello Sant’Angelo. Intanto che a Roma si ponevano le mani sul lanciator del proiettile, a Torino dal ministero si sequestravano i beni del seminario metropolitano. La rendita annua di quello stabilimento era valutata 60,000 franchi. Vescovi e clero protestarono, scagliarono scomuniche, ed il ministero seguiva il suo costume arrestando e vescovi e clero. Le popolazioni pure, che un di erano si devote agli ecclesiastici, in quel tempo, fosse per istigazione del Governo, o fosse per gli scandali che si credeva dessero i preti, approfittandosi eglino pure delle costituite libertà, le popolazioni, dicemmo, erano addivenute avverse alla casta tonsurata, e non cessavano di martoriarla presentandosi il destro.

Il 26 marzo, Parma inorridì, ed insieme a lei la casa di Asburgo e tutti quelli che avevano religione in petto ed avversione all’assassinio politico, la cui infame teoria era stata proclamata a Londra dai mazziniani e dai comunisti. Alle ore cinque e tre quarti del pomeriggio ritornava dal pubblico passeggio S. A. il duca Carlo III di Borbone accompagnato da un suo aiutante, e s’indirizzava, a piedi, verso il suo palazzo, in mezzo a moltitudine di cittadini. Stava imbacuccato sino agli occhi un uomo, appiattato all’angolo del borgo di S. Biagio, che riesce alla strada di Santa Lucia, ed allorquando il principe fu per volgere a quella strada, colui, d’un salto usci fuori, gli diè un colpo di stilo nel ventre, e fuggi. Il principe cadde; fu sorretto e trasportato al suo palazzo, ove mori al pomeriggio del 27. Al momento ed in progresso di tempo furono fatti molti arresti, ma l’assassino non fu mai rinvenuto. Alcuni giorni prima furono viste qua e là sui muri scritte le seguenti parole: morte al duca. Il giorno avanti il ferale avvenimento era scritto sui muri: sepoltura al duca. Il giorno dell’assassinio furono rotti in quattro luoghi i fili del telegrafo. Il duca prima di morire asseriva, che da tre giorni egli si aveva veduto quell’empio girare intorno: essere uno straniero. Lo stilo del sicario restò confitto nella ferita; il mantello di lui venne trovato sulla strada. Un sovrano editto, pubblicato in quel ducato, annunziava quanto segue:

«Noi Luisa Maria di Borboneecc. ecc.

«Essendo piaciuto a Iddio Onnipotente di chiamare a sé ramatissimo Nostro consorte e Sovrano, Carlo III, Duca di Parma, Piacenza e Stati annessi, ne porgiamo il funestissimo annunzio ai sudditi di questi Stati, e, mentre Noi proclamiamo novello Sovrano di questi Stati medesimi ramatissimo primogenito Nostro, Roberto, dichiariamo che, stante la sua minorità, assumiamo la Reggenza degli Stati anzidetti; per le quali cose,

«Abbiamo dichiarato, e dichiariamo:

«Art; 4.° Il ministro di Stato per la Casa e Corte, ed i ministri di Stato attualmente in carica, cessano dalle loro funzioni.

(:)» Art. 2.° L’amministrazione dello Stato è provvisoriamente affidata:

«Pel dipartimento di grazia e giustizia al commendatore Enrico Salati;

«Pel dipartimento dell’interno, anche quale incaricato degli affari esteri, al marchese Giuseppe Pallavicino;

«Pel dipartimento delle finanze, al presidente della camera dei conti, commendatore Antonio Lombardini.

«Art. 3.° Quanto al Consiglio di Stato ordinario, nulla è innovato.

«Il profondo nostro dolore viene alleviato dalla certezza che i sudditi di questi Stati vorranno consacrare al dilettissimo Nostro figlio e Sovrano l’immancabile fede loro, assicurandoli di tutte le Nostre cure per la loro felicità e ben essere.

«Dato a Parma il 27 marzo 4 854.

« Luisa.»

Un secondo decreto offriva il titolo assunto dalla sovrana, ch’era Luisa Maria di Borbone, Reggente pel duca Roberto 1 gli Stati Parmensi. Un terzo decreto destituiva l’ispettore generale della gendarmeria, colonnello commendatore Luigi Bassetti, e nominava in sua vece il colonnello commendatore Luciano Curtarelli.

Varie furono le induzioni esternate su quel fatale assassinio. Quelli davano colpa ai mazziniani, sempre àvidi di sangue; questi ai democratici piemontesi, nello scopo di far nascere colà una rivoluzione a loro favore; altri a particolare vendetta; altri ancora alla carestia dei viveri ed alla miseria del ducato, che il principe, anziché alleviare, avrebbela aumentata e resa insopportabile col comandamento di un prestito forzoso. Intanto le polizie locali continuavano le loro scrupolose indagini, ed avvolgevano nelle tenebre di quel fatto molti innocenti, i quali colpiti da un mero sospetto gemevano nelle carceri.

Il 6 di aprile il duca di Valentinois, principe ereditario, figlio di Florestano I principe di Monaco, giungeva alle sei del mattino, in gran tenuta col suo medico, Chevallet, e col suo aiutante di campo in uniforme, Beilandò, all'albergo di Torino, ih Mentone, territorio già ceduto al Re di Sardegna. Egli aveva ordita una trama co’ suoi parziali di quel paese; epperò questi al suo arrivo uscirono fuori numerosi, e spiegata la bandiera di Casa Grimaldi, gridando: Piva il Principe! Piva Grimaldi! Abbasso il Piemonte! staccarono i cavalli dalla dorata carrozza di lui e la trascinarono in trionfo, con entro il principe ed il suo aiutante, passando per la strada principale sino alla Piazza del Capo. Le finestre delle case erano ancor chiuse; gli agiati cittadini dormivano, i contadini erano già andati alla campagna. Ma lo schiamazzo dei congiurati (un sessanta individui tra uomini e donne) ferivano le stelle, si aprirono dapertutto le finestre, ed i cittadini furono di botto nella contrada di S. Michele ed in Piazza del Capo, chiedendo che si fosse. Alcuni della guardia nazionale, inteso il caso, suonarono a raccolta, e costituito un corpo armato, in uno ai pochi carabinieri che colà si trovarono, giunsero a quella piazza, mentre il principe ordinava ai suoi partigiani si dirigessero al palazzo comunale per prenderne il possesso. Il concorso del popolo che impediva il corso della carrozza era grande, immenso. La guardia nazionale ed i carabinieri ebbero grande difficoltà per passare e giungere sino al principe. Colà giunti, intimarono lo scioglimento di quell’attruppamento, e fecero 23 prigionieri. Il principe impaurito discese allora dalla carrozza e sfoderò la spada. Una palla uscita da un fucile gli sfiorò il colletto, ed un colpo di baionetta di una guardia nazionale lo avrebbe trapassato da parte a parte se non fosse stato distratto dal maresciallo dei carabinieri. Le grida intanto si sollevavano al cielo: Viva il Piemonte! Viva Vittorio Emmanuele! Il principe, pallido come un cadavere, chiese la protezione dei carabinieri, i quali per salvarlo dall’ira del popolo, che inveiva contro di lui, lo circondarono, e lo condussero nella loro caserma. In quel breve tragitto di strada gli furono slanciati sul viso cento improperii e cento villanie. Egli era come esterrefatto dallo spavento. Si mandò immediato avviso a Nizza, e l’intendente di quella città col procuratore regio, cav, Faraldo, e col comandante dei carabinieri, scortati da un piccolo corpo, si recarono a Mentone, ove giunsero alle 6 di sera. Al loro giungere in città, il popolo, gridando Piva il Piemonte, chiedeva giustizia. Giustizia gli fu promessa. Alle ore 10 di notte,. il principe col suo seguito, partiva da Mentone sotto buona scorta, in mezzo alle grida della popolazione che si sfogava in contumelie contro la famiglia di lui. I 23 uomini arrestati furono consegnati in numero di undici alle autorità giudiziarie, gli altri posti in libertà. Nella carrozza del principe si rinvenne un sacco di danaro.

Il principe fu chiuso nel forte di Villafranca col suo aiutante. Il medico fu lasciato in libertà. Ma foi, j’en ai assez de Menton, esclamava il principe, quando si vide fuori dal pericolo di essere massacrato dal popolo per il folle suo tentativo. Fu incoato il processo; alcuni giorni dopo fu posto in libertà, ma con obbligo di andarsene in Francia.

Le iterate note scambiate dai gabinetti europei nell’intento di evitare una guerra in Oriente non avendo avuto alcun felice risultamento, perché lo czar stette immobile ne’ suoi propositi, la guerra scoppiò tra la sublime Porta e la Russia. In un congresso tenuto tra la Francia, l’Inghilterra, l’Austria e la Prussia, essendo stata decisa la integrità dell'impero ottomano, considerata necessaria al mantenimento dell’equilibrio europeo, la Francia e l’Inghilterra presero parte attiva in quella guerra come alleate della Porta; l’Austria e la Prussia si dichiararono neutre. La neutralità dell’Austria provocò mille accuse, mille sarcasmi, mille polemiche ostili, è molte note di rimprovero dai russi, e dal gabinetto moscovita.

Intanto gli animi italiani che erano alquanto calmati sotto la pressione delle lunghissime trattative diplomatiche sulla questione orientale, al cospetto di quei fatti, si riaccesero. Già i savoiardi, i liguri, i nizzardi, gli svizzeri del cantone Ticino, i siciliani ed i pontificii partirono per il Levante a 30, a 50, a 100 alla volta, onde unirsi ai cristiani e combattere il turco. Molti uffiziali sardi, insigniti dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, fecero istanza al Re per ottenere il permesso di partire per l’Oriente. La neutralità dell’Austria portò una grande emigrazione in Levante. Se l’Austria si fosse unita alla Russia, come si credeva n’avesse il dovere, la Italia sarebbesi sollevata, e la rivoluzione, protetta dalla Francia e dall’Inghilterra, sarebbe rimasta vincitrice. L’Austria sapendo questo, amò meglio conservarsi le sue provincie italiane, che denudarle di guarnigioni ed esporle, col dare alla Russia quello che la Russia le aveva dato, quando trovavasi in pericolo. La politica dell’Austria assopì nuovamente le speranze italiane e specialmente del Piemonte, il quale aveva fatto gran conto di quelle eventualità. Il Re di Napoli allora decretò che la sua bandiera non venisse spiegata sui bastimenti mercantili delle Due Sicilie, che facessero parte de' convogli della spedizione francese. Prima del 1848 il Re di Napoli erasi legato allo czar a mezzo di un alleanza: in virtù forse di quel lega me egli rifiutava alla Francia la sua bandiera. La Francia in allora tacque, ma mise in serbo quei rifiuto. Napoli, ad esempio dell’Austria, dichiarossi neutro; ma le azioni delle neutralità dogli Stati non erano state collettivamente determinate e fissate, come fecero Francia ed Inghilterra relativamente a quegli Stati medesimi. L’Austria in quella circostanza, mentre la Germania stava in osservazione, conchiudeva un secreto trattato difensivo colla Prussia. Esse si promettevano in quello di difendersi l’una l’altra reciprocamente il proprio territorio da qualunque attentato, e di tutelare a vicenda i loro interessi. Epperò le due Potenze prendevano fra loro dei concerti sul modo di agire, tanto per sopprimere la rivoluzione, in caso scoppiasse, quanto per impedire qualunque estera invasione.

Al 14 aprile, nel dipartimento del Pas-de-Calais, il Governo francese esegui molti arresti di rifugiati italiani, scopri migliaia di proclami destinati per insurrezionare la Lombardia, e diede avviso di ciò al Governo Sardo; il quale ordinò la chiusura dei circoli politici dei lombardi in Piemonte. I giornali liberali, e specialmente la Speranza, giornale dei rifugiati, ammonirono acremente quella governativa misura, certamente presa per la volontà della Francia. La neutralità dell'Austria, della Prussia, e lo stato di attenzione in cui atteggiavasi là Germania, determinarono le due occidentali Potenze, belligeranti in favore della Porta, di sorvegliare lo andamento italiano, onde non venire compromesse dalla rivoluzione popperò, vuoisi, facessero delle rimostranze al Piemonte affine modificasse la sua politica.

Il giorno 24 aprile avvenne il matrimonio di S. M. I. R. Francesco Giuseppe I con S. A. R. la serenissima Principessa Elisabetta di Baviera, celebrato a Vienna con pompa solenne ed inusitata. Lo stesso giorno S. M. ordinava la immediata liberazione, dalla fortezza di Essegg, ove stavano degenti, dei condannati ai lavori pubblici, per vietato possesso di armi, Modesto Rinaldo e Confente Giuseppe, contadini di Udine; Birarda Angelo e Salaorni Giovanni, il primo contadino, il secondo possidente di Verona; Angelo Bardelli, contadino di Como; Viviani Eugenio possidente di Milano; Giulio Enrico Radagli, sacerdote di Milano; Fogosi Gio. Batt., sarto di Treviso; Manente Giovanni, contadino di Treviso; Carrara Vicenzo, macellaio di Asolo; Tonninàto Giovanni, contadino di Pollio; Trevisani Angelo, contadino di VilIanova; Boccaccio Angelo, contadino di Villastrada, ed altri 26 italiani di bassa condizione. Ordinava con sua sovrana Risoluzione, «col primo maggio fosse levato del tutto lo stato d’assedio nel Regno Lombardo-Veneto: entrassero quindi le competenti Autorità e Giudicature civili nel regolare esercizio delle loro attribuzioni, che i processi pendenti presso i Giudizi i di guerra, per le trasgressioni indicate nel § 2. N. 4 e 5 delle Determinazioni Sovrane del 43 agosto 1853 (pubblicate Coll’Ordinanza ministeriale 20 agosto 1853, Bollettino delle leggi dell’Impero N. 465) venissero soppressi, in quanto che non fossero ancora chiusi con sentenza passata in giudicato; che i processi pendenti presso i Giudizii di guerra, per crimini e delitti indicati al § 2. N. 1, 2 e 3 delle anzidette Determinazioni Sovrane, in quanto che ai primo di luglio non fossero ancora chiusi con sentenza passata in giudicato, fossero trasmessi alle competenti Giudicature civili, e continuati da quelle, eccettuati però que’ processi, che si riferissero a' crimini di alto tradimento, sollevazione e ribellione; — che in fine la trattazione e punizione de' crimini di alto tradimento sollevazione e ribellione restassero riservate ad un’apposita Corte di giustizia, con giurisdizione su tutto il Regno Lombardo-Veneto, la quale procedesse e giudicasse in proposito a termini delle prescrizioni delle leggi penali generali civili. Tale Corte di giustizia entrasse in attività col primo giugno anno corrente.»

Furono decorati in quella circostanza nel Lombardo-Veneto: Manfroni Antonio di Venezia — Trevisanato Giuseppe, arcivescovo di Udine — Conte Luigi Miniscalchi — Conte Luigi Orti Manara —Diego nobil Guicciardi — Nani Mocenigo conte Filippo — Della Torre conte Luigi Sigismondo — Marchese Selvatico Pietro Estense di Padova — Treves Jacopo — Nob. Camillo Monza di Vicenza — Folco nob. Lodovico di Vicenza — Giacomelli Luigi di Treviso — Veronese Luigi di Rovigo — Bigotti vescovo d’Adria — Rachetti dott. Alessandro — Santini Giovanni di Padova — Canal ab. Daniele di Venezia — Zandomeneghi Pietro scultore — Consolo, dottore — Reali Giuseppe, negoziante — Marchese Busca di Milano.

Nel Regno Lombardo Veneto, le chiese, i corpi accademici, i municipii, gli uffizii tutti di ogni genere celebrarono con sacre funzioni, con feste, e con indirizzi il fausto avvenimento. Cantarono lodi i signori Vanaxel-Castelli, Menini, Mazzoldi, Codemo, Galletti, Tonolli pubblicando analoghe poesie.

Il giorno 4 maggio per ordine di S. E. il feld-maresciallo Radetzkv si scioglievano i sequestri ordinati colla sovrana Risoluzione 43 febbraio 1853 sui beni degli emigrati nelle seguenti provincie: per Verona di 3 famiglie, per Vicenza di 7, per Padova di 3, per Treviso di 7, per Udine di 2, per Belluno di '4, per Rovigo di 4, per Milano di 40, per Como di 26, per Mantova di 32, per Lodi di 10, per Pavia di 40, per Brescia di 43, per Cremona di 12, per Bergamo di 46, per Sondrio di 1.

Con ordinanza 42 maggio venivano da S. M. graziati della libertà altri 9 italiani condannati ai lavori pubblici nella fortezza di Arad.

Laperiodica stampa subalpina riempiva intanto le colonne de' suoi giornali scrivendo e pubblicando articoli di fuoco, cospersi di veleno, rigurgitanti di accuse e di contumelie. Quella stampa senza freno gittava il biasimo sul viso a quelli che erano stati decorati chiamandoli capri emissarii dell’Austria. Chiamava gente invasa di spirito antinazionale tutti quelli (cariche, impiegati, clero, municipii ecc. ecc.) che direttamente od indirettamente avevano presa parte alle feste date per l’augusto connubio. Metteva indi in luce la pochezza delle concessioni fatte in quella occasione dalla Corona imperiale, e le qualificava e paragonava a spruzzi di orpimento gittati negli occhi ai ciechi per addormirli. «Imperciocché» diceva quella esaltata stampa «se furono graziati della vita e della libertà dei condannati politici, su quali cadeva la grazia? Su gente della classe più infima dei popoli, su gente povera che non poteva essere nociva in verun modo, e che non aveva altro delitto, che quello di aver nascosto un qualche suo fucile da caccia e qualche oncia di polvere solforica. Nessuna persona di distinzione fu lasciata libera. Se furono levati dei sequestri, a quali famiglie si levarono? A quelle colpite negli ultimi fatti del febbraio 1853, e non a quelle del 1848. Furono levati a famiglie, il patrimonio delle quali non offriva offriva risorse e guadagni al Governo. Fu leva to lo stato d'assedio, ma quando? Dopo sei anni, dopo che le popolazioni infiacchite dai rigori di quello stato d'assedio, caricale dalle imposte erano ridotte allo stremo della inoffensività e della miseria.» Queste erano le voci trasmodate che circolavano, in onta alle concessioni imperiali; voci uscite da oltre il Ticino, e diffuse nelle provincie Lombardo-Venete. Ciascun poi le valutava a norma del proprio sentire e delle proprie vedute.

Laperiodica stampa austriaca in altri sensi rintuzzava le suaccennate opinioni con diversi argomenti. Diceva che anche troppe furono le elargizioni sovrane concesse nel Lombardo-Veneto nell’occasione delle Nozze Imperiali; che il Piemonte aveva agito con più rigore dell’Austria bersagliando gli emigrati poveri, o cacciandoli in un esilio penoso oltre ai mari; che tutti quelli che avevano chiesto all’Austria di ripatriare, avevano conseguito la remissione dei beni e del bando; che non poteva l’Austria tollerare altro termine di riconciliazione coi fuorusciti opulenti, che quello che si sottomettessero ad una totale abiura di ogni trama di cospirazione, e chiedessero grazia al monarca, perché egli era inesorabile coi contumaci.»

Le polemiche, in siffatta guisa, durarono da una parte e dall’altra per qualche tempo. I popoli del Regno Lombardo-Veneto le leggevano, pensavano intorno ad esse a loro talento, e tacevano. A Torino intanto, onde offuscare le feste offiziali del Lombardo-Veneto, si facevano con pompe inusitate e con grandi spese le feste per l'anniversario della Costituzione. Ma al confine del Piemonte sbarcavano molti emigrati di altissima influenza. A Sarzana il 46 maggio ne furono arrestati alcuni, e venne sequestrata una cassa di fucili. Anche il Governo di Toscana veniva avvisato che nella notte dal 15 al 14 aveva avuto luogo uno sbarco di fuorusciti presso Bocca di Magra, e temevasi che qualche altro simile tentativo potesse verificarsi anche sulla spiaggia estense. Epperò dalla capitale furono mandati armigeri per Pisa e Lucca, onde recarsi a proteggere la frontiera. A tale scopo partiva da Livorno per Viareggio un piroscafo con sei compagnie di linea. Il Governo estense faceva occupare da due compagnie di dragoni le spiaggie di Lavenza su cui anche temevasi uno sbarco. Le forze austriache si acquartieravano su quel di Massa. Da Genova partiva il vapore, Malfatano, con un battaglione di bersaglieri diretto alla Spezia. Presumevasi che si trovasse a Nizza Aurelio Saffi col pseudonimo di Luigi Thompson. Il tentativo di rivolta doveva farsi nell Italia centrale, rinnovando un altro 6 febbraio 1853. Bologna doveva essere il centro della iniziativa di azione. Epperò si scegliesse la Spezia, onde potessero gli uomini sbarcati pei monti del Modenese, piegando alla Porretta, trovarsi sui Bolognese. Per le energiche misure prese dai varii governi si sventarono quei tentativi, i quali non avrebbono avuto altro scopo sicuro, che quello di spargere lo spavento nelle popolazioni, ed inalberare nuove forche.

Quelli che si compromisero alla Spezia furono:

1. Ricci Giacomo di Giuseppe, d(!) anni 33, di Caprigliuola, proprietario.

2. Granelli Andrea di Giuseppe, d’anni 23, di Firenze, pittore.

3. Socini Giovanni di Agostino, d’anni 26, di Giuncarico, avvocato.

4. Bandini Antonio di Domenico, d’anni 27 di Siena; computista.

5. Bertazzoli Federico di Gio. Batt., d’anni 21, di Firenze, orefice.

6. Ricci Augusta di Giacomo, d’anni 23 di Firenze, proprietario.

7. Mariano Laghi di Giovanni, d'anni 25, di Rimini, canapaio.

8. Piggioli Cipriano del. fu Osmundo, d'anni 39, modenese, chirurgo.

9. Testoni Vincenzo di Gaetano, d’anni 29, di Massa Carrarese, proprietario.

11. Piva Giuseppe di Luigi, d’anni 53, di Genova, impiegato nelle miniere di Sardegna.

12. Simoni Ignazio di Tommaso, d’anni 28, di Medicina Bolognese, farmacista.

12. Giussani Gioachino di Carlo, d’anni 32, di Tirano milanese, albergatore.

13. Beccali Giovanni di Paolo, d’anni 25, di Sermide mantovano, studente.

14. Chiodo Francesco fu Bortolammeo, d’anni 40, di Sarzana, prete.

I primi 10, imputati di sbarco di armi, furono dal Tribunale sardo mandati al Magistrato di Appello, gli altri quattro lasciati liberi, mancando prove di reità.

I Governi, per vero dire, prendevano ben altre più significanti misure al cospetto della guerra che si combatteva in Oriente. La Spagna armava e spingeva nel Mediterraneo le sue flotte; armava il Piemonte ed allestiva la sua marina da guerra e concertava a Londra prestiti; armava la Germania e prendeva delle circospette precauzioni; armava l’Austria senza piegare' a favore di nessuno colla sua politica di altissima e finissima circospezione. Sembrava potesse ora o poi nascere qualche fatto favorevole alla causa italiana. Tanto almeno speravasi, ed a quella vista erano rivolti gli animi dei patriotti. La guerra morale, guerra di note di gabinetti, guerra di giornali russi, contro l’Austria, era già dichiarata ad oltranza. Il conflitto poteva por tare gravi complicazioni. La Russia rampognava l’Austria con titoli di tutti i generi, il minore, quello cioè di minor peso, era: ingrata. L’Austria si difendeva asserendo, che per soccorrere la Russia correva pericolo di suicidersi. Ella temeva un incendio in Ungheria ed in Italia. Un libro stampato sotto la influenza russa col titolo De la neutralità de l'Autriche minacciava che la Russia sarebbesi posta alla testa della rivoluzione, facendo insorgere la Polonia, insurrezionare la Grecia e l'Italia, e facendo ribellare la Ungheria. La situazione dell’Austria era assai tesa, e gli animi delle popolazioni italiane agitali, concitati, sperando si avverassero quelle russe profezie. Ma ecco una diversione che giungeva molto opportuna.

Una lettera pubblicata nell'Univers, diretta al re di Sardegna dal duca del Valentinese, occupava l’attenzione pubblica in quei giorni. Eccola.

«Sire!

«Io non voglio abbandonare gli Stati di V. M., senza farvi conoscere il contegno inqualificabile de' vostri agenti a mio riguardo.

«Il 6 aprile, traversando la città di Mentone per recarmi a Genova, in compagnia di un uffiziale di ordinanza e di un medico, io stava aspettando i cavalli della posta, richiesti a più riprese, quando fui riconosciuto e circondato da molti individui di ogni condizione, i quali, tra vive acclamazioni, si misero a trascinare la mia carrozza, facendomi correre le vie della città.

«Questa dimostrazione pacifica si compieva senza veruna opposizione, quando accorsero i vostri soldati, Sire, ed i vostri carabinieri, i quali, caricate le loro armi, si avventarono, colla bajonetta abbassata, sulla gente inoffensiva, che mi circondava, ponendola brutalmente in sbarraglio, ed arrestando una trentina di persone, mentre una banda armata, decorata del. nome di guardia civica, precipitavasi sopra di me, ed avrebbemi infallantemente assassinato, senza l’intervento energico, lo confesso, dei carabinieri, i quali non hanno però potuto impedire che i miei vestimenti fossero sforacchiati da molti colpi di bajonetta.

«In seguito a queste violenze, io fui arrestato dalle vostre truppe, poi sostenuto per quindici ore nella caserma dei carabinieri, fino al momento in cui l’intendente generale di Nizza, negando di lasciarmi proseguire il mio cammino, è venuto a prendermi in Mentone, per trasportarmi, come prigioniero di Stato, nella fortezza di Villafranca.

«In fine, dopo quattro giorni di detenzione, mi fu resa la libertà senza spiegazione di sorta, coll’ingiunzione però di rientrare in Francia, mentr’io aveva in animo di prendere la direzione opposta.

«Senza far risalire ai trono la responsabilità di un attentato, che ricorda i tempi più rivoluzionarii, io domanderò rispettosamente a V. M.: in virtù di qual diritto le vostre Autorità, dopo avvermi arrestato sur un territorio, che non fa parte in niun modo degli Stati sardi, abbiano osato gettarmi illegalmente in una prigione di stato?

«In fine, Sire, io ardisco con rispettosa franchezza assicurare V. M. che, se non vengono altamente disapprovati i servitori imprudenti, i quali non temettero di trascendere in vostro nome a tali eccessi, V. M. corte il rischio che la pubblica opinione si dichiari per debole contro il forte, per l’oppresso contro l’oppressore.»

«Degnatevi gradire, Sire, ecc.

«Nizza 12 aprile 1854.

«sott. Carlo

«Principe ereditario di Monaco,

duca del Polentine se.»

Noi conosciamo già abbastanza il fatto del principe ereditario di Monaco, per non affliggerci ora delle rimostranze di lui.

Erano piuttosto fatti altamente affliggenti la scarsezza dei viveri e l’aumento insopportabile dei prezzi, che continuavano quasi dappertutto, malgrado le misure prese dai Governi, e le provvidenze dei municipii e dei privati. Conseguenze deplorabili di quell’incarimento furono i turbamenti popolari avvenuti alla Spezia ed in varie altre località del territorio sardo. Più gravi ancora potevano addivenire in Piacenza le sollevazioni popolari per lo ìncarimento del pane. Molte riforme fece la Reggente in quel Ducato, dopo la morte dell’ucciso consorte, ma sembra che tornassero di piccolo sollievo a quelle popolazioni.

Nessun sollievo pure si aveano la Lombardia e la Venezia dalle opere riformative che ancora non erano giunte, ma che si elaboravano dai ministero di Vienna. Intanto le popolazioni pativano inopia di tutto, e la corruzione sola regnava in modo opprimente. Soltanto la polizia di Venezia dal primo all’ultimo di questo mese di giugno ebbe nelle sue carceri 435 individui; dei quali, 15 vennero mandati al Tribunale criminale; 79 alla Pretura; 2 agli arresti militari; 8 alla Casa di forza in Padova; 51 alla Casa di correzione nell’isola della Giudecca; 45 all’ospitale. Ne uscirono 343: fra' quali, 65 per termine di condanna; 13 per termine di reclusione; 165 per ultimata misura di polizia. Se ne sfrattarono 7 durante il mese, e vennero respinti alla loro nazione 35. Questa breve statistica di un mese, com’era una grande prova dell’immoralità esistente, cosi era uno specchio crudele alle costernate popolazioni. Ma noi meno del Lombardo-Veneti vivevano costernate anche le popolazioni estensi. Parma, e Piacenza però furono spettatrici di due tristi casi. Il più truce si fu quello della uccisione del commissario Gobbi, il quale aveva sotto il suo ministero il processo incoato dal tribunale criminale per l'assassinio del Duca. Il Gobbi venne freddato in Parma dii cinque ferite. Il secondo caso, che poteva essere più fatale del primo pelle sue conseguenze, avvenne in Piacenza il 1. luglio e durò per qualche giorno.

Una turba di uomini, donne, e fanciulli accorrevi il mattino del primo luglio al mercato dei cereali bulla piazza del Duomo. I loro gridi ferivano le stelle ed erano: morte ai mercanta Ribasso di prezzi! Vogliamo il frumento a 7 franchi lo staio! Il tumulto crebbe a dismisura, e chiamò a quella piazza e nelle strade adiacenti un gran concorso di operai giovani e vecchi. In breve tempo la calca si fa sterminata: non si poteva più entrare in quei luoghi. I venditori di granò si spaventarono, parte fuggirono, e parte ribassarono i prezzi. IL frumento ed il grano turco, che non furono rubati, vennero venduti, il primo a 7 lire nuove lo staio, il se condo a 4. In mezz’ora non rimaneva in quella piazza più un grano né dell’uno, né dell’altro.

Lavoce del ribasso forzato dei prezzi dei grani si sparse coi né un lampo per tutta la città. La gente quindi accorreva in folla per farne acquisto. Ma in piazza non se ne trovava più. Ai magazzini! ai magazzini! fu allora il grido generale. Giungeva intanto un picchetto di soldati austriaci, ed indi il generale, comandante la fortezza, sig. Wratislaw. La moltitudine, gridando: viva il generale! diede il sacco ai magazzini e li spoglia tono. Alcuni degli spogliatori volevano pagare, ma sol tanto a 4, a 5 franchi lo staio, il frumento che avevano fra le mani. Vi si recarono il governatore, le autorità civili e militari, e senza spargimento di sangue, rimenarono l’ordine e sciolsero l’attruppamento. Quella piazza fa. sgombrata dai tumultuanti, ma ciascuno di loro portava, seco il suo bottino. All’indomane, giorno festivo (2 luglio), il popolo ed i contadini si affollarono intorno alle botteghe ed imposero al pane, come il giorno innanzi, al grano i| prezzo di 8 centesimi a quello che ne valeva 40, e 12. I mercanti per forza si piegarono. In brev’ora fu tutto venduto. Ma la gente che continuamente colà affluiva non fu tutta accontentata. Non essendovi più pane, gli urli e le minaccie si succedevano con. clamore che incuteva spavento. Si chiusero le porte e le finestre delle botteghe e delle case. Il popolo accorse ai sassi, alle pietre. Sopraggiunge la forza militare e chi corre, chi fogge, chi cade, chi impreca, chi grida, chi resta prigioniero... In pochi minuti la turba fu sciolta» diradata, la piazza evacuata, ed il Duomo pieno di devoti.

Mentre quei forzati devoti assistevano ai divini uffizii nella cattedrale, venne affissa ai muri la seguente.

Ordinanza

«É dovere delle pubbliche Autorità il far cessare l’agitazione ed il disordine, prodotto dal caro prezzo del vitto.

«Dietro concerti presi colle Autorità di S. A.. R. la Duchessa reggente di questi Stati

«È ordinato:

«Ogni attruppamento, ogni disordine sarà represso colla forza, avendo provato che non hanno valso le esortazioni.

Quelli, che con intimidazioni e con violenza pretenderanno di comperare i commestibili e qualunque merce a prezzi fissati dal loro capriccio, saranno arrestati, e sarà proceduto come prescrivono le leggi di questi Stati....:

«Il sottoscritto dichiara che impiegherà ogni mezzo che tiene a sua disposizione, perché tutto rientri nel più perfetto ordine.

«Piacenza, 2 luglio 1854.

«C. Whatislaw, I. R. generale maggiore.

Le pattuglie intanto guidate da gendarmi percorrevano le contrade; la guardia alla piazza venne aumentata; furono praticati molti arresti. La notte passò senza disordini. Un’altra ordinanza fu pubblicata il giorno 3. I disordini non si sono più ripetuti. I generi furono venduti ai prezzi del calmiere.

Ecco i funesti esempli che avvengono a quei Governi, che non sanno prevenire a tempo gli effetti delle pubbliche calamità.

Mentre in Bologna si arrestavano (5 luglio) 36 giovani di civile condizione per viste di precauzione ed ìmbarcavansi per l’America; l’Austria, nelle contingenze della guerra che si combatteva in Oriente, volle trovarsi pronta ad ogni evenienza, riempiere il vuoto erano, e ritirare la carta monetata. Epperò, alle popolazioni specialmente del Regno Lombardo-Veneto, che per la carestia trovavansi in mal punto, giunse assai sgradita la Patente Imperiale, pubblicata a Vienna il 6 luglio colla quale ordinavasi per tutto l’impero un prestito volontario di almeno 350 ed al più di 500 milioni di fiorini, in via di una sottoscrizione da aprirsi in tutta la monarchia, allo scopo di ridurre il valore della carta monetata al valore metallico, e di procurarsi (il ministero della finanza; i mezzi per coprire i bisogni straordinarii dello Stato. La emissione di quel prestito seguiva al prezzo di 95 fiorini valuta di banca, per ogni 100 in obbligazioni di stato, fissando l’interesse del 5 per 100 a queste ultime in moneta d’oro o di argento, in cui l’oro doveva accettarsi ad un valore maggiore 15 volte e 12 di quello dell'argento ed offrendo un premio ben ricco, cioè una sensibile miglioria, a chi avesse in una sola rata versato il quoto del prestito assuntosi. Il versamento seguirebbe in 5 anni fissando, per ogni anno, dieci eguali rate. Veniva prescritta una cauzione ai soscrittori. Però agl’impiegati, dj ogni genere, io attività od in riposo, civili od altro, agl’impiegati degl'istituti, fondazioni, fondi, società per azioni, ecc. ecc. venivano accordati i favori: 1.(0) di non essere obbligali alla cauzione; 2.° di detrarre la loro quota dal loro soldo o pensione; 3.° di cessare morendo, dagli ulteriori versamenti.

Le Luogotenenze, le Delegazioni ed i Municipii del Regno Lombardo-Veneto si assunsero con ogni zelo l’incarico di appoggiare caldamente quell’imprestito volontario presso le popolazioni. Epperò i fogli ufficiali continuarono per più settimane a pubblicare nelle loro colonne lunghissime esortazioni e lamentevoli e fervorose geremiadi intente a destare una pubblica emulazione. Gli opulenti, spesso ligii al potere, furono i primi ad offrire l’esempio, sottoscrivendosi per somme ingenti; indi tennero dietro i graduati, gli impiegali, i clericali, e la desiderata gara fu suscitata. In breve quindi, ciò che doveva dipendere soltanto dalla volontà, divenne obbligo, con intimazioni minacciose ai renitenti: ciascuno credeva compromettersi, od almeno sfigurare, rifiutando. Le persone perciò, spontanee o non spontanee, volenti o non volenti si sottoscrivevano. Lo scopo fu raggiunto: l’imprestito fu esuberantemente compiuto.

L’8 luglio venivano condannati in Bologna 26 individui, cinque alla pena di morte, gli altri all’ergastolo. Lo stesso giorno suicidevasi per strangolazione, al castello di S. Angelo a Roma, il romano colonnello Luigi Grandona, già condannato al supplizio sotto l’accusa di complicità nell'uccisione del conte Pellegrino Rossi.

Se gli abitanti dello Stato pontificio soffrivano per continui assassino che spargevano il terrore; per le sentenze di morte e le condanne rese quasi settimanali, per la carestia e la miseria, dalle quali erano afflitti; se i Lombardo-Veneti pativano per l’acerbità delle imposte; anche gli abitanti del Piemonte non potevano certo essere allegri. Imperciocché colà pure le imposte erano eccessivamente gravi ed i viveri mancavano, per quantunque molti capitalisti e nobili opulenti, avessero grandi depositi di grani, che marcivano invenduti nei magazzini, per li immorale loro avidità di attendere un aumento maggiore nei prezzi. Se si sollevavano quindi le popolazioni contro quei parassiti, non avevano in certo qual modo gran torto!

Le Camere dello Stato intanto volgevano al suo termine. Io esse si era trattato: sulle leggi dell’imprestito; sulle modificazioni al Codice penale; sul riordinamento delle tasse d’insinuazione, di bollo e successione e sull'autorizzazione, a quasi tutte le direzioni dello Stato ad oltrepassare il limite fissato alle loro imposte divisionali e provinciali. Alcune di quelle leggi, col sovracaricare i popoli di tributi, aumentavano il pubblico malcontentamento.

Il cholera morbus, flagello dalle mille calamità, scoppiava il 24 a Genova. La popolazione si allarmò, quindi imprecò contro il Governo, che non seppe allontanare da quel porto il fatai morbo con energiche disposizioni marittimo-sanitarie, il perché, tumultuando per le contrade, il popolaccio inculto e superstizioso gittava improperii contro le farmacie, insultandone i proprietarii, quasi fossero stati origine della malattia colle loro ampolline è coi loro medicinali, che la turba frenetica qualificava come veleni, dati espressamente per estinguere la povera umanità. Maltrattava altresì i medici, accusandoli di complicità coi farmacisti nello stesso empio scopo. Fu mestieri però a quell’intendente, onde sedare,i tumulti provocati da quei dissennati, invasi da false credenze, la pubblicazione del seguente

Proclama

«Dalla R. Intendenza generale della Divisione amministrativa di Genova.

«Alcuni vanno spargendo tra voi voci assurde, per farvi attribuire l’origine del morbo, che ci affligge, a fatti e persone, che ne sono del tutto innocenti; e cosi, mentre inaspriscono gli animi vostri con odii e sospetti ingiusti, non vi lasciano pensare ai veri e soli rimedii, che possono tenerlo lontano da voi. La cecità di costoro giunge per fino ad eccitarvi a tumulti contro le Farmacie, nelle quali unicamente potete trovare le medicine, necessarie alla salute, e contro i medici, che generosamente pongono in pericolo la propria vita per salvare la vostra.

«Il sottoscritto crede che niuno di voi si lascierà trascinare da siffatte insinuazioni, e che tutti al contrario vi sforzerete nell’aiutare le provvide cure del Municipio e delle Autorità, serbando una perfetta calma ed un rispetto profondo alle persone dell’ordine pubblico. Niuna cosa veramente può essere più degna di voi, che il mostrare a quegl'incauti seminatori di discordie, come la vostra saviezza e prudenza siano di gran lunga al di sopra di simili stoltezze.

«Ma se qualcuno, non curando questo amichevole avvertimento, trascorresse al minimo tumulto o sopruso, non avrà a dolersi che di sé medesimo, se contro di lui saranno volti i più pronti e severi provvedimenti. Il sottoscritto adoprerà tutti i mezzi, che sono in suo potere, per reprimere la temerità di pochi a benefizio di tutti.

«Genova, 25 luglio 1854.

«L’Intendente generale Bum.»

In pochi giorni il cholera si dilatava, e dal porto passava alla darsena, e da questa alla pescheria e nei luoghi più fotti di popolò, cd ove le contrade erano meno polite e più strette. Dai 6 casi al giorno, andò aumentando con sorprendente velocità ai 20, ai 30, ai 60, ai 400, ai 150 ai 200 e via via. Lo spavento fu grande. Le famiglie a cento a cento fuggivano inorridite dalla città. I giornali cessavano dalle loro pubblicazioni, cessavano pure le operazioni di banca e di borsa e gli affari. A Banchi, a Piazza Carlo Felice, a Porla Pilla. alla Posta, all'Acquazzola, a Via Nuova, a. Via Nuovissima, al Portofranco, alla Strada ferrata, alla Piazza dei noli e dei grani, dappertutto si chiudevano i negozii e le case. Le strade erano deserte di cittadini, soltanto i preti, i medici ed i becchini coi loro carri mortuarii, che incutevano spavento, le percorrevano. Le campane suonavano a morto continuamente: lo squallore era. generale. Il cholera durò sino ai 5 agosto crescendo, indi sino ai 22 diminuendo: poscia restava qualche caso isolato. Il Municipio, il Consiglio sanitario, il Governo di Torino, l’intendenza, il Clero, le Comunità religiose, il ceto medico-chirurgico-farmaceutico, ed i facoltosi andarono a gara nel prestare, in ogni maniera, soccorsi ai cholerosi, tanto negli spedali, quanto nelle private abitazioni. Se non vi fosse stata una si larga assistenza, la strage sarebbe stata maggiore. Somme enormi furono spese a sollievo dei colpiti e delle superstiti famiglie. Il cholera si estese anche nelle provincie, ma con meno intensità e furore. Torino non andò esente. Anche in Romagna si lamentarono molti casi. Nelle Due Sicilie scoppiò con mitezza. A Napoli menò strage; la malattia invase tutta la città. I luoghi più danneggiati furono, quelli di Porto, Mercato, Vicaria, Pendino. Furono prese da quel governo grandi misure per calmare il flagello per mare e per terra. Più di 80,000 famiglie abbandonarono la capitale.

Nello stesso tempo che scoppiava in Genova ed ip altre parti d’Italia il cholera, scoppiava nel ducato di Parma la rivoluzione. Era già lungo tempo che quelle popolazioni davano segnali d’inquietudine allarmante, sia per il caro dei viveri, sia per la miseria che regnava, sia per l’avversione che si aveva al dominio straniero, che in quel piccolo territorio esercitava il suo potere, e sia infine per essersi colà introdotti degli emissari esteri, sbarcati alla Spezia, a Pontremoli, a Massa, a. Sajzana, a Livorno nello scopo d’insurrezionare i paesi per, favorire Mazzini, per arricchire sé stessi, e per dar mano alla propaganda inglese che dappertutto mesceva le:sue mene di proselitismo a danno della Corte,di Roma. Tali correano le voci.

Il giorno 21, un affaccendarsi di gente forestiera e cittadina che producevasi a varii gruppi di persone, qua e là nelle contrade maggiori di Parma; ed. Indi un brulichio di gente sfaccendata, bisbigliarne, mormorante per le piazze, davano a divedere imminente lo scoppio. Epperò la Reggente avvertita, in sulle prime si spaventò, ma poi, fatto coraggio, diede le opportune disposizioni al comando militare austriaco colà stanziato. Quel giorno e quella notte passarono senza disordini, tranne quel sussulto irrequieto, sospetto e concitato, precursore della tempesta. All’indomane 22. a buon mattino, la truppa divisa in squadre e picchetti perlustrala la città. 1 rivoltosi avevano fatto il loro convegno specialmente ai due caffè, del Borsellini nella strada di S. Benedetto, e del Ravazzoni nella strada maestra di San Michele. Colà si radunarono in grosso numero ed armati, ed allora fissata scaricarono i loro fucili sulla truppa che passava. Contemporaneamente vennero spiegate bandiere tricolori ed erette barricate nei punti più importanti e difese con molto ardimento, col grido di Viva Italia! La zuffa erasi già impegnata tra truppe e rivoltosi con grande energia. Dalle finestre e dalle case si faceva fuoco sui militi, dai tetti si gittavano sudi loro tegole, sassi, pietre che antecedentemente avevano colà accatastate. La fucilata durò qualche tempo, ed il conflitto si generalizzò per tutta la città, interrotto dalle grida di quelli che cadevano feriti. Le guardie di finanza, e molti militi della guarnigione italiana fraternizzavano colla rivoluzione prendendovi parte attiva. Il punto più forte e che fece maggior resistenza di ogni altro fu quello del caffè Ravazzoni. Chiuso egli era e ben bene barricalo; e per espugnarlo la truppa dovette appuntarvi i cannoni. La porta cadde infranta in ischeggie e la casa traballò. I rivoltosi si salvarono passando da una casa all'altra, ove antecedentemente avevano aperte delle comunicazioni, e dalle finestre gittavano giù le suppellettili le più pesanti sulla testa della sottoposta milizia. Quelle scaramuccie quà e là avvenute nei varii punti della città, e specialmente nel borgo delle Colonne, durarono dalle ore 9 del mattino sino alle 2 pomeridiane; indi a tanto trambusto succedette un’apparente calma ottenuta dalla forza militare. Oltre a 400 furono' i prigionieri, moltissimi i feriti, militi e cittadini, condotti all’ospitale: si ebbero a deplorare varii morti da una parte e dall’altra. A. tarda ora uscirono, nello stesso giorno, i due seguenti avvisi.

«Cittadini!

«I perpetui nemici dell’ordine, arruolando a sé una folla di gioventù illusa, hanno tentalo ancora una volta di condurci all’anarchia ed al sovvertimento.

«Non ha potuto frenarli il pensiero dei danni, che per loro si recavano ad una popolazione buona e tranquilla; non le leggi di un governo mite; non il rispetto e l’amore, che ispirano, anche fra le nazioni più barbare, una madre ed un fanciullo.

«Il ministero, informato dei perfidi loro disegni aveva ingiunto alla forza militare di agire con energia per la pronta repressione del disordine. E la forza militare ha adempiuto degnamente la sua nobile e coraggiosa missione.

«I rei saranno severamente puniti, giusta le leggi dello stato d’assedio.

«Ogni cittadino rientri immediatamente alla propria casa; qualunque assembramento per le strade, in quest’oggi, anche di sole tre persone, sarà disciolto colla forza; il popolo tranquillo confidi nella fermezza e vigilanza del governo.

«É proclamato lo stato d’assedio il più stretto sino a nuova disposizione.»

Parma, 22 luglio 1854.


Enrico Salati

«Sott

Giuseppe Pallavicino


Antonio Lombardine»

L’Ispettore militare della reale gendarmeria

«Ordina:

«Che, tranne i villici dei contorni e i vetturali conosciuti, venuti al mercato, nessun’altra delle persone, che trovatisi ora in città, possa uscirne sino a nuovo ordine, senza uno speciale permesso del comandante della città e provincia.

«Che chiunque abbia nell’abitazione propria persone non aventi dimora abituale nella città, debba farne immediatamente denunzia agli uffizii del Comando anzidetto, sotto le pene, in mancanza, comminate dalle léggi dello stato d’assedio.

«Che in questa notte siano posti i lumi alle finestre delle case, in modo che ne sia uno almeno per ogni quattro finestre, e nessuna casa ne manchi.

«Parma, 22 luglio 1854.

«C. PIDES.»

I corrieri di gabinetto intanto portarono a sprone battuto l’infausta novella ai Governi competenti, già avvisati, sino dal momento che si concepirono sospetti di rivoluzione, con altri corrieri. Epperò al mattino del 23 giungevano in Parma il cav. Giorgio Marziani di Sacile, i. r. generale maggiore comandante di brigata, ed il tenente maresciallo conte Giovanni Nobili, consigliere ad latus pegli affari militari del Governatore generale della Lombardia. Più tardi le seguenti truppe austriache:

Da Cremona, due compagnie cacciatori del 21.° battaglione.

Da Piacenza, uno squadrone usseri.

Da Bologna, una batteria di campagna.

Il giorno 25 pubblicavasi il seguente Ordine:

«L’Ispettore militare della reale gendarmeria.

«I recenti fatti deplorabili avendo mostrato come si trovino tuttora alcune armi presso privati;

«È dato avviso a tutti gli abitanti dello Stato:

«Che, per sovrana disposizione, è conceduto il termine di 18 ore, a partire dalla pubblicazione ed affissione del presente avviso nei singoli Comuni, per depositare le armi di ogni specie (tranne le spade d'uniforme per chi ne ha diritto) ai comandanti delle città e provincie, od i podestà rispettivi.

«Passato il qual termine, coloro, presso cui ne sian trovate ancora, saranno sottoposti a tutto il rigore delle leggi dello stato d’assedio.

«Fra gli oggetti da depositarsi, s’intendono pure comprese le munizioni, e quegli strumenti, che siano stati ridotti ad uso di arma, benché fabbricati' in origine per altra destinazione.

«I detentori di fucili da caccia, o di altre armi, con licenza loro conceduta prima d’ora, ne faranno consegna, insieme con quella licenza, per segno di proprietà.

«Agli armaiuoli sarà data ricevuta di tutto quanto sia da essi depositato.

«Parma, 25 luglio 1854.

« C. Pides.»

Col giorno 27 molte famiglie agiate partirono dal ducato, spaventate per le voci che correvano di bocca in bocca che all’indomane la rivoluzione sarebbe comparsa di nuovo e più fiera di prima. Paria vasi di rinforzi venuti dal di fuori, parlavasi di grandi depositi d’armi arrivati ai rivoltosi, parlavasi infine che anche nella Lombardia e nella Romagna fosse scoppiala la rivoluzione. Quello voci con tanto tremito asseverate, obbligarono le Autorità a pubblicare la seguente

Notificazione

«Per calmare i timori, diffusi da vaghe voci, intorno ai disordini nella giornata di domani, o in altre susseguenti, il ministero si fa sollecito di render noto che, se avvenisse qualche fatto particolare delittuoso o tendente a turbolenza, gli autori e complici del fatto saranno immediatamente arrestali e puniti, senza che le persone tranquille ed inoffensive abbiano assolutamente a temere alcuna molestia o alcun danno.

Parma, 27 luglio 1854.

«Sott.

Enrico Salati

Giuseppe Pallavicino

Antonio Lombardini

Giuseppe Cattani

Il giorno 5 agosto veniva pure in luce la seguente

Notificazione

«Nuovamente il partito sovvertitore, minaccioso sempre dai suoi nascondigli, ha cercato di porre in esecuzione un esecrabile suo piano, adoprando gli stili de' suoi satelliti, macchiati ancora dal più nefando misfatto (l’uccisione del Duca) non ha guari, commesso, e cosi apportare a questa città nuove sciagure.

«A conseguire una mutazione dell’attuale forma di Governo, la mattina del 22 luglio p. p. scoppiò in più punti di questa città una sommossa popolare, provocata da un’orda di cospiratori armati e portanti insegne repubblicane, facendosi fuoco e rovesciandosi dai tetti tegole e sassi sulla truppa, accorsavi a reprimerla.

«Siccome correi di un tal fatto legalmente constatato, e colti chi con armi, chi con segni rivoluzionarii, chi con munizioni da guerra, furono tradotti innanzi al Consiglio di guerra permanente, riunitosi in questa città addì 3 mese corrente, li:

«Barella Enrico, delli furono Pietro e Piccinotti Maria, d’anni 24, nato e domiciliato in Parma, negoziante, scapolo;

«Mattey Emilio, delli furono Luigi e Boschi Maria, d'anni 25, nato a Montechiarugolo, scapolo:

«Adorni Cirillo, del fu Ferdinando e della vivente Raimondi Angela, d’anni 27, nato ad Ozzola, scapolo;

«Facconi Luigi, di Michele e della fu Bisi Luigia, d’anni 23, nato a Parma, scapolo;

«Questi tre ultimi guardie delle reali finanze, residenti a Parma;

«Bompani Pietro del fu Angelo, e della vivente Kedegondi Rosa, d’anni 29, nato alla Certosa di Parma, domiciliato in questa città, surnomato il Casaro, calzolaio, scapolo;

«I quali vennero dal Consiglio stesso dichiarati colpevoli del crimine di cospirazione contro la sicurezza dello Stato, diretta a cangiare la forma di Governo, e susseguita da un principio di esecuzione; e comodati, in applicazione degli articoli 144 del codice penale comune, e 1.° del Sovrano Decreto 22 dicembre 1851, che riunisce tutte le leggi concernenti lo stato d’assedio, condannati alla pena di morte, mediante fucilazione:

«Tradotto pure innanzi il Consiglio stesso:

«Bracchi dott. Filippo, dei furono dott. Luigi e Cignolini Isabella, d’anni 51, nato a Borgo San Donnino, domiciliato a Parma, dottore in medicina, ammogliato senza figli, venne dichiarato innocente in ordine al crimine imputatogli e ridonato a libertà.

«Sottoposta questa sentenza alla suprema ratifica,. è stata in via di diritto confermata, commutandosi però, per ispeziale grazia, la pena di morte in quella di 20 anni di relegazione in uno dei forti dello Stato a Barella Enrico, atteso il sincero suo pentimento.

«Venne quindi jeri pubblicata ed oggi eseguita alle ore 9 ant. nella R. Cittadella.

«Parma, 5 agosto 1854.

«Dal consiglio di guerra permanente.»

I soldati parmensi che presero parte alla rivoluzione, e che non poterono fuggire dalle mani di quel Comando militare, furono fucilati il giorno 3 nella cittadella, quantunque quella sentenza, per noi riportata, non ne faccia menzione.

Lainquisizione trovavasi in pieno corso.

Altri 18 individui vennero condannati il 7 settembre, 6 alla fucilazione e 12 ai ferri.

Intanto le armi francesi, inglesi e turche da una parte, le russe dall’altra, combattevano la guerra d’Oriente. La insurrezione allora si estendeva in ogni luogo, non nella Grecia continentale, ma sibbene nelle isole. soggette alla luna ottomana. La Spagna era pure in fiamme, rivoluzionata ovunque. Il cholera desolava i paesi della Liguria, del Nizzardo, del Piemontese, del Sardo, del Napoletano, del Toscano, del Romano, del Siciliano. Ecco i principali motivi, secondo noi, che diedero campo ai rivoluzionarii d’insorgere, credendo che quelli fossero i tempi propizii. Sapevano che l'Austria non doveva né poteva mandare in Italia forti guarnigioni, nella tema di abbisognarne per far fronte a qualunque eventualità provocata dalla guerra orientale. Epperò, sia sotto quel punto di vista, ossia sotto l’altro che la pressione del morbo asiatico spaventava e regnanti e popoli, eglino speravano di poter riuscire nei loro insurrezionali proponimenti. Ma, nei primo caso, benché l’Austria fosse impegnata, nondimeno le popolazioni italiane non erano propense a favorire il partito repubblicano, avendo già avuti esempli ad oltranza della probità di lui; in secondo caso le popolazioni al cospetto di una tanta pubblica calamità, quale si era il cholera. non pensavano tanto alle cose terrene, quanto si sollevassero col cuore e colla mente sino al cielo onde impetrare la cessazione dell’orribile sciagura. Quando Dio parla per la voce delle calamità, l’uomo, che non sia un empio, si riconcentra in sé stesso, e, se gli palpita il cuore, si dirige tutto a Lui per placarne la collera.

Queste cristiane riflessioni, che rinsavirono gli uomini, ci chiamano alla memoria la morte di uno dei più celebri nostri italiani, ab. Giuseppe Conti, colpito dal cholera a Portici, vicino a Napoli, l’-i l agosto. L’Italia e le scienze fisiche e meccaniche hanno fatto una grande irreparabile perdita in quell’uomo tanto amato, stimato e venerato.

Lapolizia di Venezia durante il mese di settembre catturava 391 individui; dei quali, 49 passarono al tribunale criminale; 38 alla pretura urbana; 2 agli arresti militari; 4 alla Casa di forza di Padova; 31 alla Casa di correzione, e 17 all’ospitale. Inoltre se ne sfrattarono 10, e se ne respinsero 26 alla loro patria.

Lacattura di tanta gente in un mese addimostrava chiaramente lo stato allarmante di miseria e di corruzione, in cui si trovavano quelle provincie. Diffatti se la carestia rese grande ed insopportabile la miseria prima del cholera, ella crebbe codesta miseria a mille doppi dopo la strage del fatai morbo. I lamenti dei poverelli, quindi specialmente nel Regno di Sardegna e nelle Romagne, straziavano il cuore, e per quanto attivassero quei Governi di provvedimenti, e per quante opere pie venissero attivate dalla carità cittadina, non fu possibile dì sradicare la miseria, che nuovo cholera, invadeva i territorii ed eccitava ai delitti le sue vittime. A tanto strazio della umanità aggiungeva terrore lo sperpero delle vite umane, che quasi ogni dì si faceva, coi continui omicidii nelle Romagne, ed il trattenere molti cittadini ragguardevoli nelle pubbliche carceri, senza che un processo venisse o a condannarli, o a porli in libertà. Ella era cosa che faceva inorridire il pensare, che forse tanti innocenti gemevano nelle prr gioni di Bologna e di Roma, quando, se fossero stati processati, avrebbono scontata la loro colpa, ovvero avrebbero, colla loro confortatrice presenza, alleviati i pesi e le sventure delle loro famiglie. In Bologna, ai 14 ottobre, per sospetti politici, giacevano ancora senza processo, dopo tanti mesi di cattura, nelle Carceri di S. Agnese, Cavazza Angelo, banchiere; Farne Gaetano, possidente; Marchignoli dott. Carlo, ingegnere; Mattioli dott. Pompeo, ingegnere; Gobinelli Gaetano, impiegato delle

Diligenze; Ticchi Giuseppe, tipografo; Neri Pietro, vetturino; Berardi Pietro, orologiaio; Minarelli Viceozo, scrivano; Comandivanni-Papa Antonio, alunno nella Cancelleria arcivescovile; Gniudi Giuseppe, venditore di merci; Perini dott. Alfonso, medico; Predelli Ivo, farmacista; Rimondini Gaetano, componitore-tipografo; Cervelati Natale, barbiere; Gibelli Pietro, muratore e meccanico; Mongardi dott. Carlo, medico. Nelle carceri della Santissima Annunziata: Gregorini dott. Gregorio, ingegnere; Minarelìi Filippo, alunno contabile; Salvatori Enrico, negoziante; Canetoli Camillo, ricevitore; Stanzani Filippo, caffettiere; Nanelli Pietro, pirotecnico; Fabbri Alessandro, impiegato nella Fornitura militare. Nelle carceri della Carità-. Grassetti Anna, possidente; Calzolari dott. Albino, medico; Gamberini Giovanni, tipografo; Maccari Giacomo, tipografo; Busi Vincenzo, acquavitaio; e cento altri di nessuna importanza politico-sociale, ma che tolti alle loro famiglie, rendévansi queste nella miseria, ed. Invise a' loro concittadini, quasi fossero elleno pure compartecipi delle imputazioni dei detenuti!

Il 2 novembre usciva in Torino un’opera dell’aw Boggio col titolo: La Chiesa e lo Stato. Questo libro veniva molto lodato dal giornale l'Unione. Il sig. Boggio tentava dimostrare la necessità di separare la Chiesa dallo Stato coll’alleviarla dal peso mal sopportalo del potere temporale. In una parte di questo libro, l’autore svolgeva «gl’intrighi della società cattolica, ed il mistero dei beni ecclesiastici, i quali costituiscono il dogma, la fede, la religione, che sta più a cuore del religiosissimo e disinteressantissimo partito clericale.» In un’altra parte del libro, egli faceva sapere che «il totale dei beni ecclesiastici, nei soli Stati di terraferma, ammonta a più di quattrocento sessanta milioni di lire, secondo la somma nuziale, ma che la somma può comodamente ascendere, e Torse anco sorpassare i cinquecento milioni. A che dunque (scriveva egli) tanti balzelli senza necessità, quando lo Stato possiede tante altre risorse per sopperire ai pubblici bisogni?» E la Unione, apologista di quel libro, gridava «che fossero ridotte le sostanze ecclesiastiche, ridotti sopratutto i vescovi ad imitare gli apostoli, dei quali si chiamano i successori. Gli apostoli, (diceva quel giornale) andavano a piedi e non in carrozza, vestivano poveramente, e non con isfarzo, mangiavano quello che loro parava davanti la carità de' fedeli, o che si procacciavano col lavoro delle loro mani, non alloggiavano in palazzi, non in sale con pavimenti di marmo o di legno tirato a lucido, non conoscevano letti elastici con padiglioni e cortine di seta, ecc.»

Questo libro, e quelle considerazioni comparivano quando le popolazioni delle Romagne morivano di fame, e quando in Roma per ordine ed invito di S. S. Pio IX si teneva un Consiglio da tutti i vescovi, arcivescovi, patriarchi e prelati del mondo cattolico, colà raccolti, per decidere sulla immacolata concezione della Santa Vergine. In quel tempo si ristabiliva anche l’ordine dei cavalieri di Malta, modificandone gli statuti.

Il giorno 4 novembre, moriva in Torino il prode generale Antonini, il quale aveva perduto un braccio in Vicenza, combattendo nel 1848 la guerra dell’indipendenza. Egli era deputato al Parlamento sardo, e godeva della pubblica estimazione. Egli seguiva il distinto prof. Gian Alessandro Majocchi, mancato con grave danno delle fisiche scienze, la notte del 27 ottobre. Torino vestiva il lutto per la perdita di questi due illustri italiani.

Le Vittorie degli alleati francesi, inglesi e turchi in Crimea entusiastavano i popoli, e facevano pendere la bilancia della politica europea a loro favore. L’Austria parea piegasse verso un’alleanza colla Francia, e mandasse reclami al Piemonte, onde fossero espulsi da quel territorio alcuni emigrati, che a lei non piaceva vederli in quel suolo, tanto pericoloso per le sue libertà. I repubblicani di Genova, della Svizzera e di altri luoghi tentavano una fusione coi democratici, nello scopo di prevalersi, tutti insieme, delle eventualità emananti probabilmente dal conflitto delle Potenze belligeranti e non belligeranti. Speravano in soccorsi che sarebbono venuti dagli Stati Uniti d’America. Ma le questioni sulle conciliazioni delle sètte, nell’accordo del futuro reggimento italico, vennero disorganizzate e paralizzate dalla proclive tendenza di ravvicinamento dell’Austria colla Francia e coll’Inghilterra. Epperò vedevano correre in gravi pericoli i loro piani. Se non se, dopo la vittoria d’Alma e d’inkermann in Crimea, giungevano in Europa cattive notizie intorno al malagevole assedio di Sebastopoli: sembrava quella fortezza fosse inespugnabile. Il terrore di quelle notizie rincorò nuovamente i fusi partiti, e già ebbero luogo frequenti adunanze, nelle quali convennero Brofferio, la Farina, la Cecilia, la Masa, e la principessa di Solm, espulsa da Parigi da Luigi Napoleone, suo parente, la quale teneva in Torino saloni aperti a tutti i rivoluzionari del mondo, ed agli uomini di alta distinzione, tanto nelle scienze, come nelle lettere e nelle arti. Mazzini dava molte speranze ed aveva ordite maravigliosamente le sue tele ovunque: i suoi avrebbero avuto denari, armi e munizioni.

Già Massa era sommamente agitata in senso politico: epperò veniva stabilito un cordone militare sulla frontiera del Ducato, interrotte le comunicazioni, proclamato lo stato d’assedio. Alcuni cannoni spettanti ai rivoltosi vennero già sequestrati a Chiavari dal Governo piemontese. Il militare presidio di osservazione a Roma veniva diminuito, ed i dragoni francesi dovevano passare per Sarzana e Nizza onde recarsi in Francia a surrogare le milizie, che partivano per rinforzare Tarmata della Crimea. Già parlavasi di note venute al Governo sardo dal Gabinetto di Parigi, intente alla formazione di un’alleanza difensiva ed offensiva tra la Sardegna, la Francia e l’Inghilterra, macella condizione che questa prima Potenza offrisse un contingente di 15,000 uomini per la guerra della Crimea. Il ministero sardo intanto, continuando la sua carriera delle riforme, presentava alle Camere il progetto o la legge dell’incarcerazione dei beni ecclesiastici, colla espulsione delle comunità religiose. Secondo quella legge tutti gli ordini monastici dovevano essere soppressi, tranne le suore della carità, quelle di S. Giuseppe ed altre comunità aventi lo scopo della istruzione pubblica o dell’assistenza agl’infermi. Un decreto reale avrebbe regolalo il numero delle corporazioni sostenute. Quella legge stabiliva:

«1.° La soppressione dei Capitoli delle Chiese collegiate e di tutti i benefizii semplici, non obbligati ad un servizio; ma un decreto reale avrebbe potuto conservare qualche capitolo nelle principali città dello Stato.

«2.° Sarebbero sottoposti all’amministrazione del Demanio dello Stato tutti i beni, diritti ed azioni indistintamente, appartenenti alle Comunità e Stabilimenti religiosi soppressi, salve alcune modificazioni, epperò il Demanio procederebbe ad occuparli e a farne inventario, conformemente alle istruzioni che gli sarebbero date dai ministri delle finanze e de' culti.

«3.° La rendita di quei beni, unitamente alle relative tasse, sarebbero versate in una cassa particolare e destinate agli usi seguenti:

«a) Al pagamento delle pensioni che verrebbero assegnate ai membri delle Comunità soppresse.

«b) A fissare un onorario supplementario ai curati più bisognosi dello Stato, affine fosse loro almeno assicurata l’annua somma di franchi 4000.

«c) A compiere la somma necessaria al clero della Sardegna, ove eransi abolite le decime.

«4.° La continuazione dei servigli religiosi nelle abolite prebende, ed i membri de' Capitoli ed i beneficiati semplici goderebbero, vita loro naturale durante, delle rendite dei loro benefizii, ma regolate sui risultamenti degli ultimi cinque anni.

«5.° I religiosi ed i monaci sacerdoti, dal giorno della loro uscita dal chiostro godrebbero di una pensione di franchi 800 se di anni 70; di 700 se di 60; di 600 se di 40; di 400 se di 30; di 240 se meno di 30 anni. Queste pensioni cesserebbero se rientrassero in altro chiostro interno od estero.

«6.° I religiosi stranieri potrebbero ripatriare, ricevendo quanto portavano all’Ordine al tempo della loro ammissione, ed una gratificazione di franchi 300.

«7.° Sarebbero state imposte tasse proporzionali sulle abbazie, benefizii, canonicati, fabbriche, sacristie, seminarii, collegii ecclesiastici, arcivescovati e vescovati.

«8.° Le proprietà apprese sarebbero state impiegate a pubblico servigio, o vendute alle Provincie, ai Municipii, a' particolari.

Quella legge destava uno scompiglio nei clericali ed in tutti quelli del loro partito. Vuoisi attribuita la dimissione del Buffa, dall'intendenza di Genova, a quella legge: cosi pure la dimissione del conte Pralormo dall’ambasciata di Roma. Temevasi che il Pontefice scagliasse i suoi fulmini dal Vaticano con un interdetto; temevansi le proteste di tutti i vescovi della cristianità; temevasi infine che il Re, spaventato, non avrebbe sancita quella legge.

Il 18 dicembre, mentre che i prelati, riuniti nel Concistoro in Roma, deliberarono intorno ad alcune importanti questioni teologiche, la Sacra Consulta offriva lampi di luce intorno al processo, da gran tempo incoato, sulla Società secreta intitolata Associazione nazionale italiana nella quale erano compromesse 56 persone di alto affare, e moltissime altre di poco conto. Quel processo constatava la esistenza di quell’Associazione organizzata da Mazzini sino dal 1849, nello scopo di abbattere i Governi in Italia, di far satelliti, di soccorrere con ogni mezzo quei che cadessero nelle mani di lor nemici, e di star sempre pronti alla insurrezione ad ogni chiamata dei loro capi. I documenti comprovanti quella grande Associazione furono:

«1. L’atto del 4 luglio 1849 firmato da Mazzini. Saffi e Montechi col quale veniva stabilito un Comitato italiano perché fosse centro a future speranze di unificazione italiana.

«2. Il proclama, datato da Londra 8 settembre 1850. firmato da Mazzini, e diretto agl'italiani, per dir loro che l’insurrezione era la battaglia da tentare per fare la rivoluzione.

«3. L’organismo dell’Associazione italiana nello Stato romano, mediante il quale erano stabiliti: un Comitato centrale in Roma, eretti comitati provinciali e comunali, indicati i membri di essi e le rispettive loro attribuzioni.

«4. Il Regolamento pei Comitati municipali in 20 articoli, dove i soci erano divisi in decurie, centurie e coorti.

«4. La circolare di Mazzini, data da Londra 10 settembre 1850, per contrarre un prestito di 10,000,000 di lire italiane a nome del popolo romano.

«6. La circolare di Mazzini del 11 settembre 1850, ove faceva conoscere che i denari del prestito servirebbero per l'acquisto d'armi.

«7.. La circolare di Mazzini e compagni del 15 ottobre 1850, colla quale veniva dichiarato nullo qualunque imprestito fosse imposto nelle provincie italiane dal Governo Austriaco, ed eccitava invece i Lombardo Veneti a dare il loro denaro al Comitato generale italiano.

«8. Il proclama del Comitato centrale romano del gennaio 1851, col quale si presagivano nuove insurrezioni, e si eccitava a non comperare merci estere, e ad odiare îl Papa, i preti, gli austriaci.

«9. La stampa clandestina del comitato centrale in Roma, colla quale si diffidava il pubblico a far acquisto di 50 cartelle del prestito mazziniano sequestrate dalla polizia romana.

Dal processo a pagine 46 risultavano palesi «le riforme portate dà Mazzini nell'organico della setta; la unificazione dei repubblicani toscani coi romani, eseguita per opera della direzione centrale interna, col decreto del 16 agosto 1852; le stamperie clandestine scoperte in Roma; la promulgatone di scritti contrarii( )ai Governi papali ed austriaci emanati dà Mazzini e da Kossuth; la corrispondenza epistolare interni ed estera; il maneggio di Gio. Ratt. Trabalza, impiegato postale, nel recapitare le lettere; gl’indizi convenuti ed i segni convenzionali consistenti, in duelineette orizzontali poste dopo il nome e cognome, dell’indirizzo.

Da quel processo pure risultava la orditura, della rivoluzione,di Milano (6 febbraio, 1853). Mazzini e Saffi allora,lasciarono Londra, e si recarono, primo nella Svizzera, l’altro in Liguria. Saffi prendeva il prestito di 8000 franchi, dal negoziante Secchi di Genova. Ma i fatti di Milano avendo vuto un Ape contrario ai loro propositi, nasceva fra loro un. scissione, la quale portò la formazione di due partici, quello dei fusionisti e quello dei democratici puri. I fusionisti, alla testa dei quali erano Manin, Montanelli, Saliceti, pubblicarono il loro. proclama (9 aprile 1853) $ s’attirarono le proteste dei democratici puri (repubblicani).

Da quel processo della Sacra Consulta romana risultava eziandio, che. Mazzini, (il 16 luglio 1853) scriveva; una circolare a' suoi partigiani, incoraggiandoli, che, se furono falliti i tentativi di Milano, non per ciò dovessero sostarsi, ma sibbene muoversi, agitarsi, perché, era giunto il tempo della grande azione Scriveva poi al suo rappresentante a Roma avvoc. Marco Petroni bolognese, (3 agosto 1853), che lo faceva arbitro nell’azione insieme con Ercole Roselli e che la Sicilia era disposta e pronta. Nello stesso tempo (17 agosto 1855) Scipione Pistrucci da Genova scriveva, che dovevasi irrompere ad ogni costo, perché Pippo (cosi chiamavano Mazzini). aveva in Toscana bande che avrebbero chiuso le vie, postali, e quella di S. Sepolcro per tagliar fuori i corpi nemici. Lo stesso Pistrucci spediva (15 agosto) al Petroni una circolare di Mazzini, raccomandando di spargerla ovunque, ed indi pe desse il segnale. La circolare diceva che le bande dovevano essere divise in nuclei di 25 ai 50 uomini armati di fucile, baionetta e pugnale, e mantenuti, rapendo tasse governative, ed imponendo contribuzioni ai facoltosi.( )

Quel processo portava anche una copia conforme delle istruzioni date da Mazzini ai capi delle bande, trovata nella camera del Petroni, la quale fra le altre cose diceva «dovunque potrete impadronirvi di una cassa governativa, lo farete rilasciando all'uffizio una ricevuta che vi salverà dalla taccia di furto nelle località, dove potrete impossessarvi dei ricchi, lo farete, imponendo loro tasse proporzionate ai loro averi ed ai vostri bisogni.» Ma fa maggior parte delle bande furono arrestate. Non si smarrirono perciò i (')settarii, anzi'' pubblicarono tiri avviso di Kossuth che faceva sperare un soccorso di soldati ungheresi per la rivolta. Epperò si organizzarono di nuovo, per tentare un colpo il giorno in cui festeggiavasi (15 agosto) a Piazza Colonna l'assunzione dell'imperatore dei francesi. Allora la rivoluzione, capitanata da Roselli, doveva liberare i detenuti politici nelle carceri di Roma, e di Paliano, indi uccidere gendarmi, francesi, ed i capi del partito fusionista ed inaugurare in quel modo il nuovo Governo.

Ma Roselli, come Petroni, caddero nelle mani della polizia e la trama fu svanita. Mazzini, ciò saputo, spedi colà Eugenio Brizi di Assisi, con falso passaporto e sotto il nome di Carlo Fiscalini di Locarno. Questi aveva la missione di verificare lo stato dell'Associazione in Roma, di riorganizzare la società nominando nuovi capi, di unire le bande dell'Umbria e delle montagne, di tentare la salvezza di Petroni, Roselli, Romiti e degli altri carcerati. Il Brizi giunto a Roma, vidde, esamino, tentò, fece quanto poté, ed informò Mazzini (28 ottobre 1853). Questi gli rispondeva: Ho inteso tutto, avete fatto lavoro più che utile, vitale.

Quel processo esponeva due lettere, che, diceva di Mazzini. La prima (in data 27 ottobre 1853) sarebbe concepita la cosi: «Il partito è decimato: gli arresti sono troppo numerosi, perchè i Governi non ne abbiano in certo modo l'ossatura e il segreto. E strano che non si siano trovati cinquanta risoluti, i quali, cacciandosi all'Appenino, avessero dato il segnale della resistenza e della protesta armata. Continuando cosi, il partito corre al suicidio... Se Roma potesse, mercé una serie di sorprese, coll'imprigionamento dello stato maggiore generale, senza largo spargimento di sangue francese, e anche mercé una distruzione totale, inudita, dei nemici stranieri e domestici, in un modo splendido, decisivo, eroico, sorgere ed emanciparsi; un evento storico, concepito in Roma, avrebbe tali risultamenti in Italia è fuori, che bisognerebbe, senza badare oltre, compirlo. Ma, come io credo, evento siffatto è in questo momento impossibile. Bisogna invece che muova la Provincia... Se i nostri sanno nel secreto studiare ed applicare l'arte delle sorprese, i coltelli danno i fucili; una leva in massa potrebbe aver luogo e convertirsi in un vespero degli austriaci. Ma se anche la leva in massa non è possibile, bisogna costituire bande nazionali ecc.»

Laseconda lettera, riportata dal processo a pagina 81, firmata dallo stesso Mazzini, diceva al Brizi: «Desideriamo un ragguaglio sugli ultimi arresti e sulle prigioni, ove si trovano specialmente Petroni, Romiti e Roselli. Che cosa si dice del processo? La fuga di Marco è fatto assolutamente impossibile? V'è cosa alcuna, che potrebbe facilitarla?» Seguiva il processo, eternando alcuni mezzi dati in proposito dal Mazzini, e sarebbero «di trovare un fidato in Civitavecchia per le corrispondenze epistolari di Genova; di trovare un uomo robusto, e fedele, capace di seguirne un altro che avrebbe mandato; che fosse fornito di passaporto per Napoli, via di terra. Indi, continuava fa lettera d Mazzini: «che dalle centurie dei popolani siano scelti quindici, o venti uomini arditi, robusti, agili, e capaci di agire, con arma bianca, Questa domanda è importante, vi prego di occuparvene con rapidità.»

Il Brizi cadde egli pure negli arresti di Roma. Mazzini allora spedi colà Silvino Olivieri di Chieti, con passaporto americano sotto il nome di Giulio Arrué di Bieco nell’Uraguai. Costui parti da Londra il 7 novembre 1853, giunse a Livorno il 29, a Firenze il 2 dicembre, a Roma il 4. Doveva capitanare la insurrezione per bande, penetrare negli Abruzzi, ribellare Napoli. Venne arrestato il 18 dicembre dalla polizia pontificia,. Aveva 26 anni. Uscito, di collegio, fece la campagna del 1848, volontario nella legione napoletana,comandata dal Prati. Indi emigrò in Francia, poi a Montevideo, ove prese parte alla guerra contro gl’Indiani comandati da Urquiza.

Ecco, su quali argomenti veniva incoato il processo dell'Associazione nazionale italiana ecco su quali uomini la sacra Consulta romana doveva procedere ne’ suoi esami e nelle sue deliberazioni. La temide presiedeva quel tribunale, scrutatrice inesorabile. I capi di quell'associazione nazionale italiana erano:

Petroni, avvocato Marco bolognese, direttore della setta, rappresentante di Mazzini;

Ruiz Pietro, romano, incaricato dal Comitato della polizia;

Casciani Augusto, romano, cassiere ed archivista del Comitato;

Romiti Edoardo, capo del Comitato di guerra;

Preti Giovanni, esattore della setta;

Taddei Achille, capo sezione del Comitato;

Castellani Alessandro, altro esattore e capo sezione; Roselli Ercole, capitano dell'insurrezione, ecc. ecc.

L'anno 1854, volgeva al suo tramonto. Ardeva l'0riente avvolto, parte nelle fiamme della insurrezione che ogni giorno più si estendeva minacciosa e potente, e parte nella guerra, ove le formidabili falangi alleate dirigevano le loro bocche da fuoco contro la cento-turrita Sebastopoli. L'azione colà esercitata si espandeva nell'Occidente ed imponeva timori negli uni, speranze negli altri, agitazione in tutti. I troni ed i popoli attendevano impazienti, gli uni trepidabondi, gli altri o sfiduciati o fiduciosi, tutti, nella sorpresa, pronti ad ogni evento. Quegli astrati di nugoli qua e là sparsi nell'orizzonte politico, (per noi metaforicamente espressi nel l'incominciamento di questo capitolo), hanno gittate, ora o poi, come vedemmo, le loro vampe elettriche collo scuotere i partiti, e colla esplosione di conati repubblicani, sempre repressi. La rivoluzione, malgrado i suoi tentativi, non avanzò un passo, stette, fu vinta. La forza dei Governi e lo rinsavimento dei popoli la vinsero, ma non la estinsero.

I partiti che più menarono vampo in quell'anno furono il repubblicano, il democratico, il religioso. Il primo surse, minacciò, venne a' fatti; indi indietreggiò, si rintanò per agire sotterraneamente. Il secondo si slancio animoso e gagliardo coll'arma delle riforme, ma sopraggiunse il terzo e gli barricò le vie; è, con armi temprate alla fucina del Vaticano, lo arresto, ma nol ferì, nol conquise. Lottarono entrambi, e la pugna seguì lunga pezza con indecisa sorte. La pressione della forza in alcune parti dell’Italia si accoppiò alla immoralità, e,da tal connubio surse la pubblica corruzione. Questa a poco a poco, fattasi adulta. Ingrandì, ingigantì, allargò le sue braccia e s’impossessò, pochi serbando illesi, di tutto, di tutti. Epperò sorridea essa agl'inalberatocidei patiboli, ai? carnefici che troncavano le teste degli uomini, alle milizie che fucilavano le loro vittime. E la corruzione andò più oltre, mise lo stilo nelle mani degli uomini, e disse loro: Caini andate, uccidete. Ed i Caini presero quegli stili, andarono ed uccisero i loro fratelli. La teoria dell'assassinio politico addivenne un fatto, e coi suoi mille misfatti terrorizzò tutta Italia. Alcune contrade della Penisola quindi furono lorde di sangue versato, o legalmente dai Governi, o brutalmente dagli assassini, arbitrariamente da tutti. Il sangue però degli uccisi dei decollati, dei fucilati salse ne’ cieli.

L’ira del cielo quindi avvampando, mandò i flagelli sull'Italia che la desolarono. Quindi la siccità che arse viti e messi, e quinci le alluvioni, che devastarono le campagne. Primogenite di quelle calamità, vennero poi la carestia e la miseria, che resero le esistenze degli uomini come larve vicine alla morte. Ma ciò non bastando, a lavare le macchie di quel sangue, il cielo mandò accompagnato da incendi devastatori, seguilo da terremoti orribili, fiancheggiato dallo scoscendimento delle, rupi, mandò il cholera a mietere, a mille, a mille le vittime umane inesorabilmente. Allora, fu veduta l'ira celeste, e, sotto il peso dei flagelli, le popolazioni italiane incurvarono la fronte, sino nella polvere e, sospese le pugne dei partiti, fraternizzando gli uni cogli altri, innalzarono preci a Dio, onde cessasse l’orribile carneficina. Il morbo fatale rallentò la sua strage a poco a poco, ed indi nell’ottobre disparve. Sua superstite restò la miseria più cruda, più ulcerata che prima.

I Governi ed i popoli d’Italia rinsavirono poi nella morale e nella politica? Il seguito di questa storia varrà a narrarcelo.


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CAPITOLO IX

L’anno 1855

I partiti in Italia, in Sili primordi del 1855 avevano cangiato di fasi, e subite delle modificazioni e delle divisioni assai rimarchevoli. Ad un tal ordine di cose contribuirono gli avvenimenti che si erano compiuti, le vicissitudini alle quali venne sottoposta la Italia, e la vita politica, che dalle popolazioni si era vissuta. Epperò la idea era addivenuta, più di ogni altra intellettuale facoltà, la fervida creatrice del bene che consolavamo del male che affliggeva la umanità. Ella negli uhi depassava i suoi limiti giungendo allo stadio di fissazione, negli altri correva agli estremi, all'epopea, assumendo il carattere qui di entusiasmo, là dimandi. Laonde, se scaturiva da nobili propositi, da equi intendimenti, operando il borie, face vasi fautrice di prodigi; e se aveva origine da ree passioni, da malvagi principi operando il male, facevasi autrice di orribili conati, di prevaricazione, di pubbliche calamità.

Sotto la dominazione di questa idea codi molti forme, erano(;) caduti i partiti politici del 1855. Ciascuno di essi dividevasi in sezioni, e subiva e manifestava le sue fasi.

Il partito repubblicano, che noi abbiamo veduto caldere già floscio ed inerte, come le vele di un naviglio in tempo bonaccevole, distinguevasi in due sezioni, repubblicano puro o rosso, e repubblicano sociale. Capi scuola del primo erano Considerane Cabet, Ledru-Rollin, Mazzini, Saffi, e Garibaldi; e del secondo Luigi Blanc, Prudhon, Vittor Hugo, Lamartine, Brofferio, Gioberti, e Rattazzi. Il primo era un partito dissolvente e distruttivo, il secondo un partita unitario ed accumulati vo. Quello voleva la distruzione delle monarchie e delle proprietà di tutta la terra, per creare la republica universale; questo voleva, il popolo sovrano, il socialismo, i il comunismo, la eguaglianza, il lavoro. L’uno ammetteva tutto lecito, se conduceva al suo scopo, e quindi divinizzava: la teoria, della strage, dell’eccidio, dell’assassinio politico, degli incendii e della distruzione; l’altro, schivo del sangue, non. ammette vale caste ed i privilegi e predicava la fratellanza. Il primo era empio, il secondo umano: quello, nel campo della idea, giungeva allo studio di mania, questo alla condizione di entusiasmo: ambi utopisti. Nel 1855 il primo. era sull'orlo del precipizio, il secondo si reggeva a stento.

Il partito monarchico dividevasi, pure in due sezioni, partito conservatore, e partito assolutista.

Il partito conservatore esisteva da poco tempo in Italia, come effetto della rivoluzione, e come prodotto della esperienza: acquistata nelle, trabocchevolezza del partito repubblicano.. Nondimeno esisteva, e molti italiani avversi al sangue, alle stragi, alle devastazioni, ai conati insomma che sino, allora non avevano offerto alcun felice risultato; amavano di preferenza lo statu quo, per la loro tranquillità, per dedicarsi al benessere della patria e della famiglia. Cotestoro ammaestrati da tante sventure sofferte, da tante delusioni subite, non credevano più nella possibilità di una emancipazione italiana, ed agendo in buona fede, si schieravano, nel regno della idea, nello stadio della fissazione. Questi formavano il partilo austriacante, non per convinzione, ma per convenienza, ma in forza degli avvenimenti. «Non possiamo essere altrimenti, dicevano, dunque re stiamo come siamo, e cerchiamo il nostro miglior essere. Non urtiamo per non essere urtati; accarezziamo per essere accarezzati.»

Essi professavano la teoria dei tiepidi.

Laseconda sezione, scaturita dal partito monarchico, si era il partito assolutista. Questo era il partito austriaco puro, il partito legale, il partito dell’aristocrazia; della camarilla di corte, della camarilla degli alti e bassi dicasteri, dei legittimisti, del clero «e dei dottrinarii. Questo partito, ne’ suoi effetti, rassomigliava molto al partito repubblicano rosso, perché correva, all’uso della forza, agli estremi. La sua professione di fede era regnare ad ogni costo, e sorretto dalla legittimità di possesso delle provincie italiane in virtù dei trattato 1845, e fiancheggiato da una politica negativa e passiva, giunta quasi ad essere una seconda religione nella monarchia, passava nelle attribuzioni della idea all’ultimo stadio, ad una ostinazione invincibile. Però essendo un partito legale, per ispingerlo all’azione, ci voleva per lo meno un pretesto, un sospetto. Quindi nella facilità di avere un pretesto, 0 di concepire un sospetto, faceva molte vittime, è colle sue sementi di dissoluzione non raggiungeva mai lo scopo della primitiva sua istituzione, asstmilazione, perche disgregava, volendo unire. Ostinatezza incorreggibile, che costò tanti sacrifizi i, e che a poco a poco suicidevasi da se stessa.

In due sezioni si divideva pure il partito democratico. La prima democratico puro,-la seconda democratico religioso e misto.

Campioni del partito democratico puro erano il re Vittorio Emmanuele e Cavour. Questo partito tendeva a nazionalizzare in Italia, fugando gli stranieri, e rendendola una sotto un solo re, Vittorio. Epperò, onde riuscire nel suo intendimento, dava mano ad ogni sorta di propaganda, che avesse gli enti democratizzatori, atti a disporre i popoli in conformità di quel principio, e prepararli ad un’agitazione perpetua, dalla quale dovesse poi emergere il grande riscatto della patria nazionalità. Ma siccome questa opera rigeneratrice avrebbe richieste, per la sua attuazione, lunghissime età, cosi si diè campo allo sviluppo, ed all’azione degli altri partiti, i quali furono pronti ad approfittarsene, credendo di avvantaggiarsi ma raggiunsero con eguale prontezza eziandio nel funestare la Italia, colle loro improntitudini, spingendo, con ogni lor possa, il partito democratico puro fuori della legalità. Quindi questo partito sparse bensì la sua valida influenza su tutta la Penisola; ma se ebbe rigogliosi frutti, li ebbe cospersi di sangue, di triboli, di amaritudini. Similmente al solerte agricoltore che creda gittare la pura semente sui campi, e che poi si veda copiosa bensì la messe, ma sparsa di lobo e di zizzania. Questo partito che era il più esteso, il più radicale in Italia, scaturendo da nobili fonti, si spingeva nell'ordine dell’idea allo stadio di entusiasmo. Combattuto da tutti gli altri partiti, la lotta che sosteneva era grande; ma, conscio che, come l'entusiasmo portava seco grandi sacrifizii, cosi poteva anche, quando si fosse, portare grandi trionfi, egli si sostenne, proseguì, per poi ingigantire, distruggendo dal suo campo le erbe parassite, che gli guastavano la messe.

Il partito religioso o misto (seconda sezione del partito democratico), era composto di uomini, laici o Chierici, pei quali la idea non avea stadii, né punti fissi di appoggio. Essi vagavano dalla Roma assolutista, al Piemonte liberale, è ligii all’una ih apparenza, all’altro in sostanza, lottavano tra gli scrupoli della propria coscienza e le libertà costituite, non sapendo decidersi ad essere o tutti di Cristo o tutti di Cesare, o tutti per la sacrestia o tutti per la libertà, o tutti per Pio IX, o tutti per Vittorio Emmanuele. Questi malvini, (come per dileggio appellavansi) poveri di spirito, oggi erano liberali, domani assolutisti; lottavano collo spirito e col mondo, dannosi all’uno ed all’altro. Coscienziosi senza coscienza, retti Senza rettitudine, giusti senza giustizia, incapaci di una decisione, di una risolutezza, 'vivevano e non vivevano, erano e non erano: sacrificatori e vittime nello stesso tempo.

Un ultimo partito scaturiva al fine da tutti quelli che abbiamo accennato. Questo era un inqualificabile aggregato di tutti, è lo componevano uomini nulli per sapere, per sentimento;, per intelligenza, per cuore. Sempre vinti, sempre espugnati, passavano, con raffinate ipocrisie, arti ed astuzie, da un partito all’altro con grande disinvoltura. Oggi repubblicani rossi, socialisti, comunisti; domani democratici, posdomani radicali, conservatori, assolutisti. E dove si nicchiavano erano gli apostoli di uno zelo estraordinario: detrattori del partito che avevano lasciato ieri, si riserbavano poi ad esserlo di quello abbracciato oggi, o che abbandonerebbero il dimane. Cotestoro collo stesso trasporto avrebbero gridato: Viva Pio IX, viva Francesco Giuseppe, viva Vittorio Emmanuele. Snidati ora dall’interesse, ora dall’ambizione; sempre da malvage passioni per giungere al loro scopo, sacrificavano tutto e tutti. Questo era un partito’ pernicioso ed obbrobrioso, la peste dell’Italia, il campione della corruzione. Segnava nel campo dell’idea l'ultimo grado, la madia furiosa.

Per buona sorte questo partito non era esteso, né numeroso,' né radicato, ma anzi inviso e disprezzato.

I due partiti però che godevano la preminenza all'incominciare del 1855 erano il democratico puro; nazionalizzatore dell’Italia;(1) ed(!) il partito conservatore (sezione del partito monarchico ) propugnatore, per quanto dicemmo, dello statu quo.

I cittadini di ogni condizione affluivano a cento a cento il primo gennaio 1855 a visitare il grandioso stabilimento dell'Areopago di Genova, aperto ita piazza di Cariò Felice, la sera innanzi con grande solennità e concorso, con inni, musicati espressamente, con discorso d’inaugurazione, e coll'intervento dello autorità locali; del giornalismo dello Stato sardo e degli altri Stati italiani, e di molte notabilità scientifico-artistico-letterario d’Italia ed estere, le quali;, o personalmente, o facendosi rappresentare, vollero concorrervi per rendere più dignitosa quella patria festività..

Un’Accademia di scienze, di lettere, di arti; un’aula per le tornate accademiche, ornata con analoghe pitture a fresco; una libreria; un grandioso gabinetto di lettura, ricco di oltre 100 giornali esteri; una sala con orchestra pegli esordienti nel canto e nel suono; una esposizione permanente di oggetti di arte, pittura, scultura, disegno, cesellatura, intaglio, ecc. Infine un giornale poligrafo e non politico, di grandissimo formato, organo dei socii, che pubblicava gratuitamente tutti gli scritti degl'ingegni italiani o stranieri che volevano onorarlo, ecco ciò che componeva l’Areopago di Genova. Stava nel programma anche una scuola di astronomia applicata alla nautica. Nell’Areopago l’artista esponeva al pubblico i suoi lavori, lo scienziato ed «il letterato pubblicava i suoi scritti. Egli era un’arena per tutti, un vincolo di fratellanza e di amore. Aveva rappresentanti e corrispondenti collaboratori a Torino, a Cagliari, a Ciamberi, a Milano, a Ginevra, a Padova, a Pavia, a Firenze, a Pisa, a Bologna, a Roma, a Napoli, a Lione, a Parigi, a Londra, a Costantinopoli, a Smirne, a Malta, in Atene. In pochi mesi il suo Albo fu arricchito dei nomi degli uomini più celebri, italiani e francesi. Fu fondato e diretto da A. Terrari Rodigino, e presieduto quindi da Terenzio Mamiani, quinci da Pompilio De-Cupis di Fano.

Mentre l’Areopago vivea in sul mattino del suo nascere di una vita bella e splendida ed ovunque diramava la sua nobile missione, il partito repubblicano destavasi dal suo letargo, e sotto le influenze russe diramava nuovamente le sue mene per la formazione dell Italia libera, dell'Italia una. La Russia, per vero dire, posta alle strette dalle armi alleate, pensò di distorre le viste dei Gabinetti francese, inglese ed ottomano, e di vendicarsi della neutralità dell’Austria, col porsi alla testa delle nazionalità. E come per quello scopo inviava somme enormi nei territori greci sog getti alla Porta, affine di sollevare le masse,e creare incagli e scissure a quel Governo, cosi, sotto pretesto di favorire la nazionalità italiana, spediva agenti in ogni parte della Penisola, intenti ad una propaganda di sollevazione in massa, atta a mordere eoi(! )suoi denti r Austria da una parte, ed il Piemonte, che mostravasi proclive ad un’alleanza anglofrancese, dall'altra. L’Austria non interveniva nella lotta orientale, ma favoriva gli alleati collo spingere le sue armi nei territorii limitrofi; ecco ciò che spronava la Russia a suscitare sconvolgimenti in Italia per obbligar l’Austria a ritirare da colà le sue legioni. Il Piemonte, collo stringere alleanza colla Francia e coll'Inghilterra, doveva porre alla loro disposizione un corpo di 16,000 nomini; ecco ciò che spingeva la Russia a suscitare i torbidi in Italia, onde rendere, se non impossibile, almeno assai difficile l’attuazione dell’alleanza sardo-anglo-francese. I repubblicani che vivevano nei loro ( )sotterranei, tenendo fuori soltanto gli occhi, intenti alla esplorazione delle eventualità, visto il punto propizio, uscirono fuori armati di mille speranze. Mazzi ni da Londra, da Parigi, da Genova mandata t soliti suoi proclami, gravidi di promesse, gonfi di altitonanti parole di opportunità, onde da' suoi satelliti venissero diffusi per l'universa Italia. Già i milioni dovevano giungere da Pietroburgo per essere distribuiti alle masse, per acquisti di armi e di monizioni. Già il nordico Gabinetto era addivenuto la stella polare che avrebbe in un subito guidati i popoli alla loro nazionalità. E il conte Orloff a Firenze, il conte Svariatine a Torino, la baronessa Mevendorff in Toscana,. il conte Orsini in Alessandria, il conto Kukoschine a Napoli, dovevano con lutto il loro potere, tener viva la italiana agitazione. Da tutte quelle allucinazioni degli spiriti repubblicani ed ultra-ljberali dovevasi temere una combustione generale; ma, appunto, perché |e allucinazioni svaporarono colla stessa rapidità che si erano, create nelle loro teste, cosi ogni lusinghiera aspirazione divenne più tardi titubanza, per unirla, da disillusi, nel più sconfortante disinganno.

Quello che avvenne di positivo si fu, che in Annecy, il primo gennaio, ebbe luogo una:grande dimostrazione per lo incarimento dei viveri; che gli operai abbandonarono in massa il lavoro; che impedirono la esportazione dei grani, e che costrinsero i proprietari, che n’aveano in serbo, a venderli. Certo altresì si fu il trattato conchiuso dal principe di Monaco colla Francia, estensivo a tutto il principato, compreso anche Mestone e Roccabruna, cedute alcuni anni prima al Piemonte. Epperò, in quei momenti di grande agitazione, il piccolo Governo Sardo dovette tacere a quella tubazione, de' suoi diritti, non potendo lottare col grande Governo francese. Certo si fu infine la formazione in Parma. di un Comando militare permanente, al. quale «vennero concessi pieni poteri; la fucilazione di quattro repubblicani, due a Caslelbolognese e due a. Faenza, i quali morirono gridando: tua Mazzini! la soppressione; dello stato d'assedio nella città di Livorno, proibendo però ai cittadini il porto d’armi, anche nei proprii domicilii, e la evacuazione da quel porto della guarnigione austriaca, lasciando città e provincia alla sorveglianza, delle armi nazionali. Un decreto sovrano, del 5 gennaio stabiliva colà le cariche di Governatore, colle attribuzioni inerenti ai Prefetti, e di Presidente di sanità marittima.

Il 9 gennaio, in consiglio secreto, a cui intervenne il re Vittorio Emmanuele, si discusse, si decise e si approvò la partecipazione all’alleanza contro la Russia dai ministri sardi Cavour,. Cibrario, Paleocapa, Rattazzi, Lamarmora e Dabormida; i primi tre erano pel sì, gli altri pel no: il Re prevalse, e l’alleanza, che poi doveva apportare al Piemonte tanta gloria e tanta influenza nazionale ed estera, fu ritenuta. Nessuna condizione fu posta in campo da parte di quel Governo, tranne un sussidio in denaro pel mantenimento delle truppe in campagna. Il contingente era stabilito in 15,000 uomini con 2000 cavalli e proporzionata, artiglieria. Sarebbe partito per la Crimea con imbarcò a spese della Francia e dell'Inghilterra. Il ministro della guerra, Lamarmora, fu nominato generale in capo di quella spedizione; altri generali, Alessandro Lamarmora fratello del ministro, Durando, Giannotti, Jailier; capo dello stato maggiore Petitti. Il vestito e le paghe giornaliere alla milizia a carico del Piemonte. La Francia acconsentiva, che il Governo sardo partecipasse per il valore di 60 milioni al prestito: ch'ella aveva già aperto per sé stessa. Si cangiò indi consiglio e venne stabilito un prestito piemontese favorito dall’Inghilterra. I genovesi mormorarono su quella alleanza, temendo le ire della Russia in riguardo alle loro possessioni in Odessa. Vociferavasi che il Piemonte in quella alleanza avesse stipulate colle grandi potenze altre condizioni, favorevoli ai futuri destini dell’Italia, di cui egli facevasi il rappresentante. Intanto Cavour assumeva il portafoglio degli esteri; e siccome egli era il personaggio adattato ai tempi, perché fermo ne suoi propositi, e perché sino dal 1844 aveva, a mezzo della stampa, esternato al pubblico il suo modo di vedere e di sentire riguardo all'emancipazione dell'Italia, di cui. fu sempre caldissimo propugnatore, cosi la sua apparizione al ministero degli esteri in quella circostanza offriva ragionevolmente grandi pruove sulla esistenza di secreti concordati, profittevoli per 1 avvenire dell’Italia, stipulati colle potenze alleate. Se ciò non fosse stato, come poteva egli il Piemonte, così piccolo, così esausto nelle finanze, dopo le recenti calamità pubbliche che lo avevano depauperato, come poteva egli, dicemmo, accollarsi un prestito di 60 milioni, ed obbligarsi alla diminuzione delle sue forze militari senza un relativo compenso nell'avvenire? Tali erano le non illusorie speranze concepite generalmente da tutti gli italiani sotto la forza di quell’importante avvenimento. Or ecco gli atti uffiziali relativi a quell’alleanza.

«Convenzione militare fra S. M. il Re di Sardegna, S. M. l’Imperatore de' francesi e S. M. la Regina del Regno unito della Gran-Brettagna e d’Irlanda.

«S. M. ih re di Sardegna, avendo acceduto al trattato di alleanza, conchiuso e segnato a Londra il 40 acrile 1854, fra le LL. MM. l’imperatore de' francesi 6 la regina dei Regno unito della Gran Brettagna e d’Irlanda; ed essendosi impegnato a concertarsi, allorché Sarà bisogno, colle dette LL. Mm. per procedere, conformemente all’art. 2 del trattato del 10 aprile, alla conclusione delle convenzioni di dettaglio, che regolerebbero l’impiego delle sue forze di terra e di mare, e determinerebbero le condizioni ed il modo della loro cooperazione con quelle della Gran Brettagna e della Francia:

«Le LL. MM. il re di Sardegna, la regina della Gran Brettagna e d’Irlanda e l’imperatore de' francesi hanno, in conseguenza, risolto di conchiudere una convenzione militare destinata a regolare le condizioni ed il modo della cooperazione delle truppe sarde con quelle della Francia e della Gran-Brettagna? ed hanno nominato a questo effetto per loro plenipotenziarii rispettivi, cioè:

«S. M. il re di Sardegna, il conte Camillo di Cavour, cavaliere gran croce, ecc. ecc.

«S. M. la regina del Regno unito della Gran Brettagna e d’Irlanda, il sigf James Hudson, ecc. ecc.

«S. M. l’imperatore dei francesi, il duca di Guiche, ecc. ecc.

I quali essendosi reciprocamente comunicati i loro pieni poteri, trovati in buona e debita forma, barino conchiuso e firmato gli articoli seguenti:

«Art. 1.° S. M. il re di Sardegna fornisce, per i bisogni della guerra, un corpo di armata di quindici mila uomini, organizzati in cinque brigate, formanti due divisioni ed una brigata di riserva, sotto il comando di un generale sardo.

«Art. 2.° Subito dopo lo scambio delle ratifiche della presente convenzione, si procederà immediatamente alla formazione di questo corpo ed all'organizzazione dei servigli amministrativi, perché esso possa essere pronto a partire il più presto possibile.

Art. 3.° Per l’esecuzione dell’art. 1, della presente convenzione, il corpo d’armata di S. M. il re di Sardegna sarà composto di infanteria, di cavalleria e di artiglieria, proporzionatamente alla sua forza effettiva.

«Art. 4.° S. M. il re di Sardegna s’impegna a mantenere il corpo spedizionario alla somma di 15,000 uomini, coll’invio successivo e regolare dei rinforzi necessari!.

«Art. 5. Il Governo sardo provvedere al soldo ed alle sussistenze delle truppe. Le altre parti contraenti si concerteranno per assicurare e facilitare all’armata sarda l'approvigionamento de' suoi magazzini.

«Art. 6. Le LL. MM. l’imperatore dei francesi, e la regina del Regno unito della Gran Brettagna e d’Irlanda guarentiscono l’integrità degli Stati di S. M. il re di Sardegna, e s’impegnano a difenderli contro ogni attacco, durante la durata della presente guerra.

«Art. 7. La presente convenzione sarà ratificata, e le ratifiche saranno scambiate a Torino il più presto che si potrà fare.

«In fede di che, i plenipotenziarii rispettivi l’hanno firmata, e vi hanno apposto il suggello delle loro armi.

«Fatto a Torino, il 26 gennaio dell'anno di grazia 1855.

«C. Cavour;

«Gu i che;

«J. Hudson.

«Convenzione supplementare alla convenzione miniare fra S. M. il Re di Sardegna, S. M. l'imperatore dei francesi e la Regina del Regno unito della Gran Brettagna e d’Irlanda.

«S. M. il re di Sardegna e S. M. la regina del regno unito della Gran Brettagna e d’Irlanda, desiderando di facilitare l’esecuzione della convenzione militare, oggi firmata fra S. M. Britannica, S. M. l’imperatore dei francesi e S. W. il re di Sardegna, hanno deciso di conchiudere una convenzione supplementare( )alla convenzione qui sopra nominata, ed a questo effetto esse hanno nominato per plenipotenziarii, cioè:

«S. M. il re di Sardegna il conte Camillo Benso di Cavour;

«S. M. la regina del regno unito della Gran Brettagna e d’Irlanda, il sig. James Hudson;

«I quali dopo essersi comunicati reciprocamente i loro pieni poteri, trovati in buona è debita forma, hanno convenuto e firmato gli articoli seguenti:

«Art. I. S. M. la regina del regnò unito della Gran Brettagna e d’Irlanda s’impegna di raccomandare al suo Parlamento di metterla in grado di anticipare a S. M. il re di Sardegna, a mezzo di un prestito, la somma di un milione di lire di sterlini, di cui cinquecentomila saranno pagate da S. M. il più presto possibile, dacché il Parlamento avrà dato il suo consenso, e le altre cinquecento mila lire sei mesi dopo il pagamento della prima somma.

«S. M. Brit., s’impegna inoltre di raccomandare ài suo Parlamento di metterla in grado, se la guerra non sarà finita nel termine di dodici mesi, dopò il pagamento del primo termine del prestito enunciato; di anticipare a S. M. il re di Sardegna, nelle stesse proporzioni, una somma eguale di un milione di lire di sterlini.

«Art. 2. L’interesse da pagare sullo stesso prestito dal Governo sardo, sarà in ragione del 4 per % per anno, di cui tre per cento a titolo d’interesse, ed 1 per cento per fondo di ammortizzazione.

«Gl’interessi suddetti saranno contati a spartire dal giorno, in cui si farà il pagamento in acconto del prestito o dei prestiti, e saranno pagati per semestre; il primo pagamento dovrà essere fatto quindici giorni dopo il termine dei sei mesi, e partire dal pagamento del primo termine dell’imprestito, e cosi successivamente

«Art. 3. La presente convenzione sarà ratificata, e le ratifiche saranno scambiate a Torino il più presto che fare si potrà.

«In fede di che, i plenipotenziarii rispettivi hanno firmato la presente convenzione, e vi apposero il suggello delle loro armi.

«Fatto a Torino il 26 del mese di gennaio dell’anno di grazia 1855.

«Cavour;

«Hudson.

Il Governo sardo con quell'atto si mostrò degno dell(?)alta fiducia del re. Egli si portò ad un’altezza che non si avrebbe potuto mai immaginare. Diede, pel primo, l’esempio che un piccolo Stato può trovarsi in tali condizioni, politicamente parlando, da prestare aiuto agli Stati di primo rango, alle grandi potenze. Il Piemonte montò nell’ordine diplomatico, nella opinione delle genti, nella importanza dei gabinetti sino alla portata delle grandi potenze europee, costringendo con vie di fatto le potenze alleate a discendere sino a lui. Quella si fu la prima volta che nel mondo politico si videro gli effetti della democrazia in un modo splendido; perocché due cose eguali ad una terza essendo eguali fra loro, il Piemonte si rese grande, rendendosi eguale alle due prime potenze dell’Europa. Egli, è vero, incontrò il biasimo dei repubblicani, i quali in quell’atto vedevano pu colpo mortale alle loro aspirazioni, ai loro progetti sull’avvenire dell’Italia; ma, legandosi alla Francia ed all’Inghilterra, esso non temeva più, per la propria sicurezza, e, fatto forte della forza di quelle potenze, poteva con animo deliberato e. sicuro continuare nel cammino della gloria già da lungo tempo intrapreso. Inoltre, offerendo a quelle grandi potenze, cosi disinteressatamente, le proprie milizie, esso, veniva a suggellare col proprio sangue la più lusinghiera;futura retribuzione, per l’ottenimento, quando si fosse, della loro assistenza per l’italiana emancipazione. Epperò coi sacrifizii ch’egli faceva di uomini e di denari,ponendo le sue alleate nel sentimento di un’alta gratitudine, egli seppe afferrare le leggi della opportunità, ed usare con saviezza dei benefizii dei tempo. Seminò, in una parola, per poi raccogliere allori ed influenza nell’universa Italia, ammirazione e stima presso tutte le potenze europee. Le sue sementi furono sparse sopra un fertilissimo terreno, che alla fin fine gli avrebbe prodotto il cento per uno.

Lo stesso giorno un’altra legge assai importante fu posta sul tappeto verde della camera dei deputati, la legge dell'incameramento dei beni ecclesiastici, e dell’abolizione delle Comunità religiose negli Stati sardi. La lotta parlamentare doveva durare molti giorni, perché dieci erano i combattenti pro e contro. quella, legge. Prima però di entrare nell’arena, fu letta, una. protesta contro quella legge, inviata al Parlamento da lutti i vescovi del Regno.

I ferimenti, le uccisioni ed i saccheggi continuavano in un modo allarmante ed a pieno meriggio,nelle Romagne e nella stessa Roma. Il Lazzarini, superstite del Passatore, colla sua banda bene armata,e numerosa, entrava nei paesi ed estorqueva tasse. ed imposizioni. A Porto Maggiore sostenne una zuffa assai viva e gagliarda colla forza pubblica, ma egli. Invase il paese e taglieggiò gli opulenti. A Roma vennero saccheggiati i negozii di un Buggio e di un Baroni, posti nelle contrada le più frequentate. Gli uccisori ed i ladri si lasciavano sussistere, mentre ogni sollecitudine veniva presa da quel Governo per arrestare gli uomini politici. Tre sentenze di morte vennero eseguite il 3;. ed il 4 si arrestava ed ammanettava in pubblica via il canonico don Gaetano Squarcina, perché (tanto diceala voce pubblica) aveva sparlato del Governo, e dato segni di riformista-democratico. Fu condannato a quattro anni e quattro mesi nelle carceri di Corneto.

Gli omicidii ed i ferimenti si succedevano anche a Modena, di giorno, nelle vie, nei caffè con cinica indifferenza, quantunque la' città fosse sotto i rigori di uno strettissimo stato d’assedio ed aggravata dal mantenimento della truppa austriaca straordinaria, colà stanziata. Quella stretta pressione n’era la. causa. Il podestà Andrea Dei-Medico, ed i membri municipali Piccoli Avvocato, Andrea e Berettari Francesco perorarono più fiate per l’alleviaménto di tanto gravame presso il duca, ma le loro preghiere e rimostranze furono vane. Quei paesi erano in preda alla desolazione.

Succedeva allora cosi a Genova che a Firenze il passaggio dei francesi, che da Roma avevano avuto Ordine di recarsi in Francia per andare poi a raggiungere i loro fratelli in Crimea. Quel passaggio fu oggetto di alcune dimostrazioni, le quali, in Genova, ebbero un felice risanamento, mentre in Firenze ebbero invece una fine tristissima. Imperciocché, elleno consistevano in grida viva la Francia! viva la guerra della Crimea! in attruppamenti di gente di ogni condizione, che batteva le mani, che sventolava i lini, che seguiva le squadre che passavano, ed in fine nell’andare la ricca gioventù fiorentina nei caffè, nelle trattorie, nei luoghi ove si vendevano viveri di qualunque specie, frutta, tabacco, zigari ecc. proibendo ai venditori di ricevere denari dai francesi nel somministrare loro simili generi, e dicendo che ne tenessero nota perché tutto sarebbe stato loro poi pagato; ma intervenne la polizia e fece far sosta. Epperò, nell’attrito dell’opposizione, nacquero dei disordini in parole ed anche in fatti, per cui ebbero luogo molti arresti e la dimostrazione fini collo scontentare tutta la città.

L’alleanza sardo-anglo-francese reagì sui repubblicani della Toscana e delle Romagne in modo assai compromettente la tranquillità, già anche troppo conculcata, di quei paesi. Le vampe mazziniane, uscendo da sotterra, minacciavano qua e là incendii, ma l'onda delle polizie locali le ammorzarono, coll’arresto di 72 individui in Toscana, e di un numero ancora più grande nelle Romagne.

Un altro incendio politico-religioso, che venne poi spento, offri, col subitaneo suo comparire alla luce, ampia materia di dispute e dissidii, i quali poi partorirono molte note tra i gabinetti di Roma e di Napoli. I gesuiti delle Due Sicilie mostrarono il broncio sulla politica del governo di Ferdinando II. V’ebbero in conseguenza varie governative rimostranze, le quali sentivano di minaccia; anzi sembrava vicina la loro espulsione da quel regio dominio. Essi tennero quindi consiglio e temendo d’incorrere nella disgrazia del monarca decisero d’inviare al Re un loro indirizzò intento a dimostrare, che la loro politica fu sempre la stessa adottata dalle monarchie assolute. Quell'indirizzo calmò le ire regali, ed i gesuiti non furono più molestati nel loro ministero. Ma il padre generale dell’ordine, residente a Roma, veduto il tenore di quell’indirizzo, e veduto che la sua Compagnia avrebbe discapitato presso le monarchie non assolutiste, e che quei reverendi padri si erano posti sul campo politico apertamente, loc‘ che era loro proibito dalla regola, mandò una circolare che rimproverava e distruggeva quell’indirizzo. Ciò diede origine alle note tra i due gabinetti di Roma e Napoli. Fu posto poi un temperamento, al quale accondiscesero ambe le parti. Quella questione non ebbe conseguenze. Alla diatriba politico-gesuitica tenne dietro, non a guari molto, la questione se quel Governo dovesse, o no, ad imitazione del Piemonte, farsi alleato della Francia e dell’Inghilterra per andar contro la Russia. Furono tenuti molti consulti dai ministri, in alcuni dei quali intervenne anche il Re, ma, il dare direttamente un segno evidente di ostilità alla Russia, ad esempio dell’Austria, era come un attirarsi in seguito delle conseguenze funeste per le Due Sicilie. La perfetta neutralità sembrava essere la politica più acconcia da adottarsi, e tanto più che lo sprovvedere il Regno di un numero considerevole di milizie, avrebbe potuto dare origine a complicazioni interne, che ad ogni modo necessitava evitare. Quando l’Austria avesse incominciate le sue ostilità contro la Russia, allora anche il Governo del Re delle Due Sicilie avrebbe seguito l’esempio di lei, tuttavolta però gli fossero accordate le garanzie più ampie intorno alla conservazione, in statu quo, del Regno. Questa riserva però non toglieva lo incominciamento delle trattative colle richiedenti potenze; quelle trattative finirono senza alcun risultamento.

L’Austria certamente nelle deliberazioni del Governo di Napoli aveva avuto gran parte, come consigliera e confidente.

Lapolitica del Gabinetto di Vienna stava da una parte in uno stato di solerte attesa osservando la piega che prendesse la guerra di Oriente, mentre dall’altra, sino dalla metà del 1854, sembrava più mite ne’ suoi effetti per le provincie italiane. L’antagonismo suscitato dal Piemonte, la rendeva avvertita che colà aspiravasi in un avvenire più o meno lontano, ad una influenza di primato italiano; epperò S. M. Francesco Giuseppe non si lasciava sfuggire le occasioni che potessero arrestare quella influenza. Quindi approfittavasi di ogni circostanza che gli fosse sembrata opportuna per paralizzare la situazione; e dappoiché erasi, se non in tutto, certamente in buona parte raddolcito quanto vi era di aspro nella pressione guberniale, cosi scemati pur erano nelle provincie del Lombardo-Veneto i delitti, ed i cittadini provvedevano alle più urgenti bisogna della società con alacrità e patrio amore, senza che pubblici sconvolgimenti ne li arrestassero. Per la qual cosa nell'occasione del parto di S. M. l’imperatrice Elisabetta, Francesco Giuseppe condonò la pena a tutti gl’individui condannati, da Giudizii civili, per crimini di offesa alla Maestà sovrana, ai membri della Famiglia imperiale, e per perturbazione della pubblica tranquillità 63-66 del Codice penale), o per delitti contemplati dal '$ 300 del predetto Codice. Ordinava poi che non si procedesse in confronto d’individui che si fossero resi colpevoli dei mentovati crimini o delitti anteriormente alla pubblicazione di quell’atto di grazia, e che da quel momento si desistesse dalle procedure in corso pegli stessi titoli. Quell'atto sovrano fu ricevuto con molta soddisfazione dai regnicoli del Lombardo-Veneto, e sarebbe stato oggetto di gioia, se la pubblica attenzione non fosse stata occupata alla commentazione di una Circolare del Cavour, la quale distenebrava le caligini dell'avvenire, quasi vaticinandolo fausto agli italiani, mercé la recente alleanza conchiusa a Torino. Ecco la Circolare:

«Manifesto del Governo di S. M. il Re di Sardegna Vittorio Emmanuele II. relativo all'accessione della M. S. al trattato 10 aprile 1854 fra la Francia e l'Inghilterra.

«Da gran tempo l’Europa guarda con giusto e geloso sospetto, nel continuo ingrandirsi della Russia in Oriente, la progressiva applicazione di quel sistema, che inaugurato da Pietro il Grande, naturato nella nazione, più forse ancora che ne’ Sovrani moscoviti, tende con tutte le forze, od occulte, o palesi, alla conquista di Costantinopoli, non come a scopo finale, ma come a principio e scala di nuove e più smisurate ambizioni.

«Questi progetti della Russia, sovversivi dell’equilibrio europeo, minacciosi per la libertà dei popoli e per la indipendenza delle nazioni, non si rivelarono forse mai con tanta evidenza quanto nell’ingiusta invasione de' Principati Danubiani, e negli atti diplomatici che la precedettero e la seguirono. Ond'è che a buon dritto la Francia e l’Inghilterra, dopo un lungo ed inutile esperimento de' mezzi di conciliazione, ricorsero alle armi, e pigliarono a sostenere l’Impero Ottomano contro l’aggressione del suo prepotente vicino.

«Dalla risoluzione della questione d’Oriente pendono i destini, non immediati, ma previsibili d’Europa e d'Asia, e più direttamente e prossimamente quelli degli Stati contermini al mare Mediterraneo, i quali perciò non possono rimanersi spettatori indifferenti di una lotta, in cui si agitano i loro più vitali interessi, in cui si contende, per sapere se rimarranno liberi e indipendenti, oppure vassalli, se non di nome, almeno di fatto del colossale Impero russo.

«La giustizia della causa propugnata dai generosi difensori della sublime Porta, le considerazioni, sì potenti sempre sul cuore del Re, della dignità e dell'indipendenza nazionale, hanno determinato S. M. il Re di Sardegna, dopo il formale invito che ne ha avuto dalle due grandi Potenze occidentali, ad accedere, per atto del 12 dello scorso gennaio, al trattato di alleanza offensiva e difensiva stipulato il 19 aprile 1854, tra le loro Maestà l’imperatore dei Francesi, e la Regina del Regno unito della Gran Brettagna e dell’Irlanda. Ma assai prima che tal atto ricevesse l’indispensabile suo legai compimento, mercé il cambio delle rattifiche, prima per ciò che potesse avere un principio qualunque di esecuzione, l’imperatore Nicolò, lagnandosi con linguaggio non scevro d’amarezza, che da noi sia stato violato il diritto delle genti, nell’essersi, (com’egli suppone) senza previa dichiarazione di guerra, inviata una spedizione contro la Crimea, accusando inoltre il Re d’ingratitudine per avere dimenticate autentiche prove d’amicizia e di simpatia, date dalla Russia alla Sardegna, s’affrettava a dichiararci egli stesso la guerra.

«Senza arrestarci alla supposta violazione del diritto delle genti, che non può essere che un errore di cancelleria, osserveremo che nelle autentiche memorie di amichevoli corrispondenze passate tra predecessori di S. M. I. e quelli di S. M. sarda, l’Imperatore avrebbe potuto contrapporre altre memorie più recenti e personali sul contegno, ch'egli tenne da otto anni in qua verso il Re Carlo Alberto e Vittorio Emmanuele II. Ma prima di tutto avrebbe dovuto persuadersi che S. M. si è accostata a quest’alleanza, non per dimenticanza di autentiche amicizie, né per risentimento di recenti offese, ma per ferma convinzione di esservi spinta imperiosamente e dagli interessi generali d’Europa, e dai particolari della nazione, di cui la divina Provvidenza Le ha affidato i destini. Ed è perciò che, nel pigliar parte ad una gravissima guerra, il Re punto non dubita, che rispondano al suo appello, coll’antica fede, gli amati suoi popoli, i prodi suoi soldati, confidando, com'egli confida, nella protezione di quel Dio, che nel corso di oltre otto secoli ha tante volte sorretto fra duri cimenti, e guidato a' gloriosi successi, la Monarchia di Savoia.

«S. M. è sicura nella coscienza d’aver adempiuto un dovere. Né, per quanto lo travaglino crudeli afflizioni, sarà meno risoluto e costante a difendere con tutte le sue forze, contro qualunque aggressione, i sacri interessi de' popoli, i diritti imperscrittibili della Corona.

«Mentre il Re fa voti perché si rendano fruttuose le trattative di pace, pur testé iniziate nella città di Vienna, adempiendo intanto gli obblighi incontrati verso la Francia, l’Inghilterra e la Turchia, ha ordinato al ministro sottoscritto di dichiarare, come, in virtù dell’atto di accessione prementovato, le sue forze di terra e di mare sono in istato di guerra coll’Impero russo.

«Il sottoscritto dichiara inoltre, d’ordine di S. M., che l'exequatur, accordato a' consoli russi nei regii Stati, è rivocato; che le proprietà e le persone de' sudditi russi saranno nondimeno scrupolosamente rispettate; e che si concederà alle navi russe un termine competente per abbandonare gli Stati Sardi.

Torino, il 4 marzo 1855.

«Il Presidente del Consiglio, ministro degli affari esteri.

«C. Cavour.

I consoli russi residenti nel Regno di Sardegna, dopo la pubblicazione di quella Circolare-Manifesto abbassarono le loro armi. Per tal modo due erano le potenze colle quali il Piemonte aveva rotte le relazioni diplomatiche, la russa, come dicemmo, e la pontificia, la quale abbassava le sue armi in quello Stato sino dall’epoca dell’approvazione della legge, che aboliva il ’ loro ecclesiastico.

Il 10 marzo inauguravasi in Milano, per la prima volta, con un pubblico dibattimento, in un’aula del Tribunale provinciale, sezione penale, la riforma che S. M. Francesco Giuseppe introdusse appunto dei pubblici dibattimenti nell’ordine giudiziario. Un breve discorso del cav. Lanfranchi, presidente di quel Tribunale, ritrasse i vantaggi di quella nuova istituzione. Questa salutare riforma accontentò molti in particolare (avvocati e clienti) e tutti in generale, perché veniva fatta giustizia in modo pubblico ed incensurabile.

L’11 aprile cessavano le controversie insorte tra l’Austria ed il Canton Ticino, sino dall’epoca della espulsione dei cappuccini (1852) e della rivoluzione di Milano (6 febbraio 1853), epperò il ministrò degli affari esteri «rivocava le disposizioni restrittive sull’ammissione dei cittadini del Canton Ticino sul territorio austriaco, ed emanava relative istruzioni alle Legazioni e Consolati austriaci, acciò si trattassero in avvenire, conformemente le norme generali sui passaporti le richieste vidimazioni sui viaggi di Ticinesi nell’Austria.»

Il giorno 11 aprile S. M. Vittorio Emmanuele recavasi a distribuire, sulla piazza di Alessandria, le bandiere al corpo di spedizione per l’Oriente. Accompagnavalo, lo stato maggiore, il principe di Carignano, Alfonso Lamarmora generale in capo comandante il corpo di spedizione, sir James Hudson ministro inglese, ed il duca di Grammont ministro francese.

Il ministro della guerra, generale Durando, lesse, a nome del Re, la seguente allocuzione.

«Ufficiali, sott’ufficiali e soldati!

«Una guerra fondata sulla giustizia, da cui dipendono la tranquillità dell’Europa e le sorti del nostro paese, vi chiama in Oriente.

«Vedrete lontane terre, dove la Croce di Savoja non è ignota; vedrete popoli ed eserciti valorosi, la cui fama riempie il mondo. Vi sia di stimolo il loro esempio, e mostrate a tutti come in voi non è venuto meno il valore dei vostri padri.

«Io vi condussi altre volte sul campo dell’onore, e, lo rammento con orgoglio, divisi con voi pericoli e travagli; oggi dolente di separarmi da voi per qualche tempo, il mio pensiero vi seguirà da per tutto, e sarà un giorno felice per me quello in cui mi sia dato di riunirmi a voi.

«Soldati! Eccovi le vostre bandiere generosamente spiegate dai magnanimo Carlo Alberto; vi ricordino la patria lontana ed otto secoli di tradizioni. Sappiate difenderle; riportatele coronate di nuova gloria, ed i vostri sacrifizii saranno benedetti dalle presenti e dalle future generazioni.»

Quell’allocuzione destò l’entusiasmo nelle milizie, bollenti del desiderio della pugna sui campi dell’onore.

Il 19 aprile comparve in luce il trattato di alleanza conchiuso dal Re di Sardegna colla Sublime Porta. In quello S. M. aderiva al trattato di alleanza conchiuso tra la Sublime Porta, la Francia e l’Inghilterra, nello scopo di mantenere la integrità dell’impero ottomano. Il Sultano accettava l’adesione del Re di Sardegna alla sua alleanza, e prometteva di usare alle truppe sarde io stesso trattamento delle altre truppe ausiliarie francesi ed inglesi. Quel trattato veniva firmato a Costantinopoli il 15 marzo 1855, e dell’egira 1274, dal barone Tecco, ministro plenipotenziario ambasciatore della Sardegna, da Rescid per l’Inghilterra, e da A’ Ali per la Sublime Porta.

Le armi del consolato napolitano residente a Genova, stavano per abbassarsi per ordine del Governo Sardo. Ciò doveva attribuirsi primieramente al rifiuto di vidimazione dei passaporti sardi da parte delle Autorità competenti del Regno delle Due Sicilie; in secondo luogo dal non permettere che i navigli da guerra portanti le truppe sarde dirette a Crimea, toccassero, nel loro passaggio, alcun porto delle due Sicilie. Vennero scambiate quindi in proposito delle note tra i gabinetti di Torino e di Napoli.

Il Re e la polizia di Napoli rinnovellavano i loro arrovellamenti contro la Compagnia di Gesù, per diversi articoli in favore delle armi alleate che combattevano la guerra della Crimea, pubblicati dall’organo di lei la Civiltà Cattolica. Quegli articoli spiacquero, oltre ogni credere, altresì a Roma, ed il clero ed i magnati soffrirono dolore, mentre i russofili, che ve ne erano molti colà, lodarono con enfasi, per la prima volta, quel Giornale, predicando le sconfitte delle armi alleate, ed iperbolicamente esagerando, che stava nel loro interesse, nell'interesse della loro nazione e de' loro correligionarii, ovvero nella loro politica., cotali esagerazioni. Frattanto il Ferrari, ministro delle finanze romane, veniva tributato dai sarcasmi delle popolazioni, che tutto di erano scagliati a' suoi riflessi per la sua mala amministrazione. La cosa pubblica in quei paesi correva sempre di male in peggio e verso al suo precipizio. Abbiamo cangiato maestro, diceva la voce pubblica, ma la musica è sempre la stessa. Epperò la miseria ed il delitto andavano di pari passo petulanti e vittoriosi.

Fra gli affettuosi e caldi amplessi dei conjugali, fra i teneri addio degli amici e conoscenti, partivano intanto a più riprese i piemontesi armigeri sui piroscafi da guerra, lasciando il porto di Genova, e rivolgendosi verso Balaklava. Furono composti in quella occasione canti popolari, fra quali merita ricordanza la Piemontese, inno nazionale redatto per la intelligenza del popolo, con brio militare.

Ma, come dicemmo più sopra, fervea la lotta nel Parlamento nazionale tra i combattenti pro e contro la legge sull’incameramento dei beni della Chiesa, e sull’abolizione delle comunità religiose. Sull’arena furono portate da una parte e dall’altra e testi e bolle e concilii, e canoni e teologie con tale profusione, da cangiar quell’aula profana in una congrega prelatizia. Lo sfarzo di erudizione, di raziocinii, di argomentazioni, e di commenti fu grande, e nello stesso tempo che destando la pubblica curiosità attirava molto concorso alle tribune, addimostrava eziandio esservi in Piemonte un gran numero di uomini eminentemente addottrinati. I clericali però vennero sconfitti, la vittoria fu pei liberali, imperciocché la legge venne adottata a grande maggioranza. Nullameno gli sconfitti non si diedero per vinti, né rinunziarono alla battaglia, sapendo che quella legge doveva quindi portarsi alla discussione del Senato; poscia alla sanzione del Re. Epperò ripresero vita, raddoppiarono le loro forze, i loro attacchi, le loro manovre onde guadagnare terreno nel nuovo combattimento al Senato con nuovi colpi di riserva. Laonde S. S. Pio IX, radunato il Consiglio dei cardinali e prelati, tuonava nel concistoro dal Vaticano, e le sue parole echeggiarono ai quattro venti in tutto l’orbe cattolico:

Venerabili fratelli «egli diceva» ben vi è noto con quanto nostro dolore noi abbiamo spesso da questo luogo deplorati insieme con voi i gravissimi mali, da cui la Chiesa cattolica, in modo miserando, è da varii anni afflitta nel Regno subalpino e molestata. Per parte nostra nessuna sollecitudine, nessuno studio e nessuna longanimità abbiam tralasciata, onde, secondo l’uffizio dell’apostolico ministero, porre rimedio a tanti mali, ardentemente desiderando di poter una volta comunicare qualche cosa, che finalmente valesse a mitigare il nostro ed il vostro dolore, almeno in qualche parte. Ma tornarono inutili tutte le nostre cure, e nulla valsero le ripetute domande fatte dal nostro Cardinale Secretario di Stato, né le cure adoprate da un altro Cardinale nostro plenipotenziario, né le nostre lettere private scritte al nostro figlio carissimo in Cristo, l’illustre Re di Sardegna. Imperciocché tutti sanno i molti fatti, ed i decreti con che quel Governo, con dolore ed indignazione di tutt’i buoni, sprezzando quasi tutt’i concordati stabiliti con questa Sede apostolica, non dubitò di sempre più molestare i sacri ministri, i Vescovi, e le Comunità religiose, di ledere e violare le immunità, k libertà ed i venerandi diritti della chiesa, di usurparne i beni, e di gravemente ingiuriare, e pienamente disprezzare la autorità della Chiesa, e la suprema nostra e quella di questa santa Sede. Or poi, come vi è noto, fu messa avanti un’altra legge, contraria allo stesso diritto naturale, divino e sociale, avversa soprattutto alla stessa società, favorendo a' funestissimi e perniciosissimi errori del socialismo e comunismo; nella quale, tra le altre cose, si propone che siano soppresse quasi tutte le comunità religiose e monastiche dell’uno e dell’altro sesso, le chiese collegiate ed i benefizii semplici, anche di diritto patronato, onde i loro beni e redditi sottomettere all’amministrazione ed all’arbitrio della civile autorità. Inoltre, colla proposta della stessa legge, viene attribuito alla podestà laicale il potere di stabilire le condizioni, alle quali debbano sottostare le altre religiose comunità, che non sono soppresse.

«Per vero, ci viene meno la parola nell’esprimere l'amarezza che ci opprime, nel vedere consumati tanti atti appena credibili e del tutto fatali, e ogni giorno consumarsi, contro la Chiesa ed i suoi venerandi diritti, contro la suprema ed inviolabile autorità di questa santa Sede, in quel Regno, ove esistono moltissimi egregii cattolici, e dove un tempo specialmente la pietà de' Re, la religione e la venerazione verso questa Cattedra di S. Pietro e suoi successori, era mostrata ad esempio di grandezza. Le cose essendo poi giunte al punto, che non basta deplorare i danni fatti alla Chiesa, se non adoperiamo tutta la cura e l’opera per toglierli di mezzo, compiendo perciò le parli del nostro dovere, in questo vostro amplissimo consesso novellamente con apostolica libertà alziamo la voce, e non solo tutti e ciascun decreto, già da quel Governo fatto a danno del la religione, della Chiesa e dei diritti e dell’Autorità di questa santa Sede, ma anche la proposta della recente legge, riproviamo e condanniamo, e tutto dichiariamo affatto irrito, e nullo. Inoltre, tutti coloro, nel cui nome e per opera od ordine de' quali gli stessi decreti furono promulgati, e tutti coloro, che alla legge or ora proposta oseranno prestar favore in qualunque modo, approvazione e sanzione, gravissimamente ammoniamo a ben ricordare attentamente le pene e le censure, che sono stabilite dalle apostoliche Costituzioni e da' canoni de' sacri Concilii, specialmente del Tridentino, (sess. 22, cap. II) contro i predatori e profanatori delle cose sacre, e gli usurpatori dei diritti della Chiesa e della santa Sede. Volesse Dio che gli autori di tanti mali, colpiti ed eccitati da queste nostre parole ed ammonizioni, cessassero una volta da tanta audacia contro la immunità e la libertà ecclesiastica, e sollecitassero di riparare i danni innumerevoli recati alla Chiesa, e cosi fosse tolta al paterno nostro animo la durissima necessità di volgere contro di loro quelle armi, che furono al nostro sacro ministero affidate.

«Onde poi il mondo cattolico vegga le cure. Che abbiamo avuto per tutelare nel Regno subalpino la causa della Chiesa, e conosca insieme il modo di agire adoperato da. quel Governo, abbiamo ordinato che fosse stampata ed a voi distribuita una esposizione speciale dei fatti.

«Prima poi di porre fine al nostro discorso, non possiamo non ammirare ed encomiare i venerabili fratelli, Arcivescovi e Vescovi dello stesso Regno Sabaudo, i quali, memori di loro dignità ed uffizio, rispondendo nel modo più grande a' nostri voli, non mai cessarono con virtù e costanza singolare di apportare, e colla voce e cogli scritti, un muro a pro’ della Casa d’Israello, e di valorosamente difendere la causa di Dio e di sua santa Chiesa. E ci congratuliamo di cuore anche con tanti rispettabili laici, che dimorando in quel Regno, e bene animati da cattolici sentimenti, e fermamente affezionati a noi ed a questa Sede Apostolica, si sono gloriati di difendere, a voce ed in iscritto apertamente e pubblicamente i sacri diritti della Chiesa.

«Infrattanto a voi, venerabili fratelli, che siete chiamati a parte di nostra sollecitudine, dimandiamo che, in un con noi, sostenuti dal valorosissimo patrocinio dell’immacolata Vergine Maria, non cessiate mai dall'innalzare assidue e fervide preci a Dio, onde voglia col suo celeste aiuto proteggere le nostre cure ed i nostri sforzi, e colla sua virtù onnipotente la causa della sua santa Sede, e gli erranti condurre sui sentiero della verità e della giustizia.»

Cosi tuonava Pio IX dal Vaticano, ed il suo tremendo discorso, dato alla stampa, fu trasmesso a tutte le Corti europee cattoliche. Giungeva pur anco nelle mani del Re Vittorio Emmanuele, quando la Corte sabauda trovavasi coperta di triplice lutto, atterrila dal linguaggio ancor parlante dei sepolcri, che racchiudevano gli oggetti più cari e preziosi dei suo cuore, mancati, l’un dopo l’altro a breve distanza di tempo, per morte, che, crudele e spietata, gli rapiva la madre, la sposa, il fratello, vestendo di gramaglia tutto il Regno. Egli al leggere quello scritto pontificale rammentava forse le ultime preghiere della pia donna, sua madre: figlio, ritira quella legge che ti inette in ostilità, con Roma, e lottava in un mare di alletti che straziavano il suo cuore. Fama correva che avesse promesso di esaudire le preci dell’augusta defunta, della donna ch’egli amava e rispettava tanto pelle sue grandi virtù, che le fecero acquistare l’onorevole titolo di elemosiniera del Regno. Egli non voleva opporsi alla nazione che desiderava approvata quella legge; non voleva contraddire al desiderio della madre, forse alla sua promessa, forse alla propria coscienza. Nel Senato intanto bollivano gli animi nella più grande effervescenza, quali in favore'quali contro quella legge che agitava da un capo all’altro le popolazioni del Regno, i porporati romani ed il cattolicismo. Varii erano e di vario potere i campioni impegnati nella lizza alla presenza di vescovi, canonici, e parrochi e di numerosissimo concorso di laici di tutti i ceti, di ogni sesso, in quella grande Camera senatoria raccolti nelle sessioni del 23 e 25 aprile, collo intendimento di plaudire o disapprovare, a seconda che la pugna piegasse nei rapporti degl’interessi diversi di ciascun senatore. Base di tutte le società diceva il conte di Castagnetto «è l’elemento religioso, e tanto più deve esserlo in un Governo costituzionale. Ma la religione non è un’idea astratta da non risolversi che in utopie; dee bensì essere tradotta in opera, quindi ha bisogno di mezzi materiali ed umani per agire sulla società e spiegare la sua influenza. Accettando la religione cattolica, bisogna accettarla co’ suoi dommi, coi suoi riti, colle sue istituzioni; né si venga a dire che la religione non ha altro compito da eseguire sulla terra che sciogliere inni e preghiere. Chi cosi dicesse, mostrerebbe di non conoscere che cosa sia religione e società.» Indi, coll’appoggio delle prescrizioni del Codice civile dello Statuto, dimostrava «l’incompatibilità della legge proposta, osservando, che la missione del Senato è quella di conservare e non di distruggere. Si tratta d’inaugurare una dottrina che non fu mai ammessa dai nostri antenati. Si vuole che lo Stato abbia pieno diritto di disporre dei beni della Chiesa, e si tenta di ridurre la Chiesa alla condizione di un ente, il quale riconosca la sua esistenza dallo Stato. Sarebbe ormai tempo di far tregua colle questioni religiose, e di rinunziare a questa guerra tra la Chiesa e lo Stato. Cosi dovrebbe fare chi ama la Monarchia. Siede al banco ministeriale uno scrittore, che attestò nei suoi scritti quanto per l’addietro andassero d’accordo il potere politico ed il religioso. Crebbero a prosperità le Monarchie, che seguirono questa retta via; altre errarono è scomparvero, ma non può errare la Chiesa.» Toccava quindi dell’utilità delle corporazioni religiose, e dimostrava che la sola Chiesa era competente a giudicare. Il grido di guerra, seguiva egli, suona da un capo all’altro d’Europa, guerra cui servi di pretesto una questione di patronato. Noi, che siamo cattolici, vorremmo negare al Sommo Pontefice romano il patronato sugli ordini religiosi? Surse indi monsignor Bidet osservando che i parrochi, anche più poveri, rinunzierebbero ai benefizii offerti da quella legge, che volevasi istituita; rammentava che le lire 928,000 che volevansi togliere dal bilancio, non erano un dono dello Stato alla Chiesa, ma sibbene un dovere, un obbligo di quello verso questa. «Essere quello un progetto rivoluzionario che sancirebbe mille ingiustizie e che condurrebbe a quanto accadde in Francia, ove anche i rivoluzionarii si protestavano cattolici» Dimostrava quinci l’inconvenienza e la incompatibilità di quella legge «per l’ingratitudine, con cui si ripagherebbe lo zelo di tanti ordini religiosi nell’alleviare i inali delle epidemie, in soccorrere i poveri, ed in prestare ovunque la loro opera in vantaggio delle popolazioni.» Terzo nell’agone si fu il senatore Maugny, il quale combatteva il progetto di legge asserendo, «essere egli giunto sotto la funesta impressione di una frase udita nell’altra camera del Parlamento e dai giornali ripetuta. Quando da una parte sta la volontà legittima del Sovrano e dall’altra vi ha quella di una Potenza estera, non è mestieri discutere per la scelta. Non è questione di due Potenze; da un lato, è l’augusto Capo della cattolica religione, che nella sfera delle cose religiose è solo competente.» Egli si appoggiava indi all’articolo 29 dello Statuto per istabilire la proprietà degli enti morali; confutava una falsa interpretazione eccezionale, che volevasi attribuire a danno dei corpi morali. «Quella non essere stata la intenzione del donatore dello Statuto. Si badasse bene quindi che con simili interpretazioni si correva rischio di sconvolgere i principii che tutelavano la proprietà non solo collettiva, ma anche individuale.» Calmo poi e riflessivo sorgeva il senatore Brignole-Sale, suodando armi a quattro tagli, e spingeva le sue schiere a tre attacchi, intenti a provare che quel progetto di legge era ostile alla Chiesa contrario alla giustizia e funesto alla società. La sua eloquenza fu grande, i suoi mezzi furono forti, il suo battagliare robusto. Egli involse e circondò f inimico in tutti i lati, e colse plausi animati e sonori da tutti quelli che dividevano le sue opinioni.

Il primo a ribattere le ragioni de' suoi avversarli, dalla parte degli assenzienti al progetto, si fu il sanatore Musio, il quale provò con molte citazioni estratte dai codici di Teodosio e di Giustiniano, «che la civile autorità ha regolato molte volte la distribuzione dei benefizii ecclesiastici; Egli conveniva che gl'Imperatori fossero stati gli autori della inalienabilità dei beni della Chiesa, ma questa inalienabilità doveva cessare; quando; i bisogni dello Stato imponessero d'approfittarsi dei beni ecclesiastici, osservando, che le leggi civili e canoniche non davano altro diritto al benefiziato che l’uso del benefizio. Sostenne che l’assemblea francese fu tanto rivoluzionaria quando votò simil legge, quanto lo furono S. Luigi e Bossuel. Ammetteva la necessità della sanzione della santa Sede, soltanto quando si trattasse dell’abolizione generale di un ordine religioso, sparso per tutto il mondo cattolico, ma non la trovava necessaria se diretta a sopprimere soltanto alcune comunità ristrette in uno Stato. Diceva in fine, che la podestà civile non aveva altro giudice che Dio e la propria coscienza.» Il senatore Mametli svolgeva i suoi argomenti sulla competenza, sulla proprietà, sulla opportunità. «La chiesa» diceva egli «ha per istituto di sciogliere e di legare, ed ogni cattolico le deve essere ossequente in ciò che s’appartiene all’indirizzo delle coscienze: Ma per quanto spetta, ai beni, la competenza è affatto spettante alla. società civile. Dall'essere la religione cattolica dichiarata religione dello Stato, ne segue appunto che lo Stato è competente a regolare e disporre di tali beni. Gli articoli 28 e 747 del Codice civile, che ne riconoscono resistenza, che regolano pure l’esercizio. I benefizii sono enti morali e, come tali, soggetti alle leggi comuni. Come la società, per legge abolì altri molti vincoli ed fedecommessi, così può far cessare i benefizii.» Osservava «che l’ecclesiasticità non era inerente ai beni della Chiesa, e che i Concilii non potevano su ciò fare leggi ledenti i diritti degli Stati.» Citava l'esempio della Repubblica di Venezia, i fatti dell’imperatore Giuseppe II, e gli atti del Parlamento francese dei 1845.

Il ministro Cavour finalmente passò in rassegna le varie accuse lanciate contro il progetto, e s’accinse a combatterle con lancia e spada. Assalì pel primo il Brignole-Sale e lo interrogò «qual senso egli ammettesse alle sue espressioni? Che cosa intendesse, quando disse: allor che il Papa proferì la sua parola, è vana ogni discussione? Come concilierebbe egli il giuramento allo Statuto col Monitorio papale? in quel monitorio si anatematizza la stampa libera, e lo Statuto consacra questo diritto; con quel documento si dicono nulli tutti gli atti legislativi, che il Piemonte ha sanciti ed ogni membro del Parlamento ne giurò l’osservanza.» Passa indi a discutere sulle proprietà in generale ed osserva «che nelle varie Società ogni socio resta comproprietario: che la proprietà non è immobile, che ognuno può disporre della sua parte; invece nessun membro dei Corpi morali può avere diritto sulla proprietà; essere questa immobilizzata.» Soggiungendo sul diritto di proprietà «ch’essa fu sempre in ogni legislazione sottoposta a limiti legali ed a condizioni richieste dalla società stessa.» Dopo di aver esposto varie opinioni scientifiche sulla teoria dell’imposta progressiva, onde togliersi la taccia di favorire il comunismo, si rivolge all’arcivescovo Billiet e lo riprende per le accuse da essolui slanciate contro il ministero, quasi facendolo autore di atti rivoluzionarii e tendenti a distruggere la cattolica religione del paese. «A torto» egli segue «gli avversarli che sinora presero la parola, accennano allo spettro della, rivoluzione del 4793. Se i ministri del debole e troppo buono Luigi XVI fossero stati ascoltati, e si fosse fatto luogo a riforme pacifiche, gli orrori di quel tempo non sarebbero scritti a caratteri di sangue bella storia. Ma quei ministri furono licenziati e accusati nello stesso modo che lo sono oggidì i ministri attuali.»

Intantoché nella Camera senatoria si combatteva con fervido calore colle armi che dicemmo, onde far prevalere o meno la legge surriferita, i vescovi del Regno, forse per secondare le idee ed il desiderio del Re, si radunarono in consiglio, e sentita, con subita domanda, diretta a Roma, la volontà del Sommo Pontefice, deliberarono di pagare allo Stato l’annua somma di lire italiane 928,413:50 purché venisse dalla Camera sospesa la decisione di quel progetto di legge, che minacciava piombare terribile sui loro beni e sulle loro Comunità religiose. Quella proposta dell’episcopato sardo fu portata alla Camera nella sessione del 26 aprile dal senatore Calabriana e cangiò d’aspetto la questione. La legge sull’incameramento dei beni della chiesa e sull'abolizione delle Comunità religiose venne sospesa; il ministero tutto ih massa diede le sue dimissioni, che dal Re vennero accettate, e Durando ebbe l’incarico di comporne un altro. Roma fu placata in quel momento, e tacquero gli sdegni del Vaticano. La stampa libera però gridava con quanto fiato aveva, e tagliava i pani addosso a quelli che si erano opposti ai voti della nazione. La scolaresca della Università di Torino, inalberata la bandiera nazionale, faceva baccano, sotto le finestre del ministero, gridando Viva la legge Rattazzi! ma i ministri stessi consigliarono quella gioventù animosa a desistere da ogni dimostratone, perché si era dovuto in quell'istante piegare le ginocchia innanzi ad una necessità ineluttabile. Per alcuni giorni durarono i dissapori su quella peripezia, e poi tutto e tatti tornarono nella vita normale. La crisi ministeriale durò qualche tempo, e Durando non potendo comporre un altro Gabinetto, rassegnò al Re l'avuto incarico. Il Re chiamò l’antico ministero, il quale annunziando la nuova sua comparsa al Senato esternò di voler continuare nella intrapresa carriera, e che la legge che aveva provocata la sua caduta, sarebbe nuovamente, e quanto prima continuata a discutersi. La proposta adunque dell’episcopato sardo non ebbe che corta vita: procurò la crisi ministeriale, ma cadde ella stessa. La legge, ch’erasi contrastata, veniva poi approvata anche dal Senato con 56 voti favorevoli su 72 votanti.

Ma la periodica stampa francese ed austriaca che, unitamente alla italiana, erasi tanto occupata di quella piemontese-romana questione politico-religiosa, rivolse tutto in un tratto la sua attenzione all’attentato della vita di Napoleone III, con due colpi di pistola, operato a Parigi da Ginesio Pianori, della provincia di Ravenna. E si arrovellarono quelle stampe nel gittare il fango dell'infamia su tutta intiera la nazione italiana, perché un membro di lei si rese colpevole di tanto delitto. Noi abbiam combattuto con ogni nostro potere l’assassinio politico, epperò non ci si aggraverà, accagionandoci sospetti di qualche favore per sì enormi attentati, e nello stesso tempo ci si darà venia, se ci sentiamo obbligati a versare a piene mani la nostra indignazione ed i nostri rimproveri su quella stampa così spudorata ed ingiusta. D’altronde noi femmo più volte osservare che la idea in quei dì potea tutto: reggeva e cuori e coscienze, e quando per disavventura giugnesse allo stadio di mania furiosa. l’uomo dominato da lei, poteva, quando si fosse, pagare anche con un misfatto i torti avuti, le promesse mancale, o farsi strumento passivo dell’altrui malvagità. La storia del resto c’ insegna, che Napoleone III stringeva patti coi campioni della Giovine Italia, e quei campioni non erano ancora tutti morti. Era quindi probabile che qualcuno di essiloro giacesse ancora sotto l'influsso di quella monomania furiosa, che soia può acciecare l’uomo e condurlo ai delitto. Pianori diceva ai suoi giudici: «io ho agito di mia spontanea volontà, di mio impulso proprio, per adempiere un giuramento, fatto a me stesso, di vendicarmi per quanto aveva sofferto e perduto per la occupazione dei francesi a Roma.» La teoria dell’assassinio politico non era estesa soltanto fra gl’italiani, ma sibbene sventuratamente in tutti i paesi. Epperò si degradava quella stampa e discendeva bassamente fino all’imo, onde raccorre il lezzo che. a lei soltanto conveniva! Quella stampa non pensava che l’assassinio politico erasi ormai inoculato nel corpo di tutta Europa: il duca di Parma cadeva vittima del ferro di un sicario e venivano commessi attentati contro l’imperatore d’Austria, contro il Re di Prussia, contro le Regine di Spagna e d’Inghilterra.

Il 29 maggio un decreto di S. M. Vittorio Emmanuele dichiarava cessata, nel modo più positivo ed irrefragabile, la questione sui conventi. Ed ecco il testo di quella parte più relativa alla questione.

«Vittorio Emmanuele II ecc. ecc. ecc.

«Il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato;

«Noi abbiamo sanzionalo, e promulghiamo quanto segue:

«Art. t.° Cessano di esistere, quali enti morali riconosciuti dalla legge civile, le Case degli Ordini religiosi, poste nello Stato, i quali non attendono alla predicazione, all’educazione od all’assistenza degl’infermi.

«Art. 2? Cessano parimenti di esistere, come enti morali a fronte della legge civile, i Capitoli delle Chiese collegiate, ad eccezione di quelli aventi cura d’anime, od esistenti nelle città, la cui popolazione oltrepassa 20,000. abitanti.

«Art. 3.° Cessano ancora di essere riconosciuti i benefizi! semplici, i quali non hanno annesso alcun servizio religioso, che debba compiersi personalmente dal provvisto..

«Art. A.° I beni ora posseduti dai corpi ed enti morali, contemplati negli articoli precedenti, verranno applicati alla Cassa ecclesiastica ecc. ecc.»

Seguono indi altri 22 articoli spettanti all’amministrazione dei beni della Chiesa, ai benefizii, alle pensioni, ecc. ecc.

Gli Ordini religiosi degli uomini colpiti da quella legge furono: gli Agostiniani calzati; Agostiniani scalzi; Canonici Lateranensi; Canonici regolari di S. Egidio; Carmelitani calzati; Carmelitani scalzi; Certosini; Monaci Benedettini Cassinesi; Cistercensi; Olivetani; Minimi; Minori conventuali; Minori osservanti; Minori riformati; Minori cappuccini; Oblati di Santa Maria; Passionisti; Domenicani; Mergedarii; Servi di Maria; Padri dell'Oratorio o Filippini.

Gli Ordini religiosi di donne soppressi furono: Clarisse; Benedettine cassinesi; Canonichesse lateranensi; Cappuccine; Carmelitane calzate; Carmelitane scalze; Cistercensi; Crocefisse benedettine; Domenicane; Terziarie domenicane; Francescane; Celestine o Turchine; Battistine; Agostiniane.

Epperò restava tolta la personalità civile a 34 Ordini con 331 Casa e 4540 individui. Un monitorio del relegato arcivescovo di Torino, dettò, poco tempo dopo, alcune norme ai vescovi, ai parrochi, ai preti, ai frati, alle monache

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ideilo Stato sardo. Quel monitorio, in uno al suo autore, fu messo sotto processo. Mentre i religiosi colpiti forse godevano in cuor loro dei benefizii di quella legge, la stampa cattolica fulminava i suoi anatemi sulle Camere, sul Gabinetto, sulla Corte, sul Piemonte tutto intiero. Quella legge, nella sua applicazione trovò molli ostacoli, specialmente dalla parte delle monache, colle quali fu d’uopo usar la forza per attuare gl’’inventario Frattanto a Firenze scoppiavano delle bombe nelle vie e nelle piazze, di giorno e di notte ponèndo l’allarme nei cittadini, essenza che se ne potessero scoprire gli autori improvvidi. A Venezia già da qjualche settimana era scoppiato il cholera: il giorno 7 giugno i casi sommavano già a 411, ponendo tutta la città nello spavento e la marina nelle angustie di una osservazionequanto necessaria, altrettanto dannosa al libero commercio. Anche Verona era funestata dal fatai morbo; fino a tutto il 46 giugno i casi furono 4 49. 1 bergamaschi nel 4 giugno innalzarono in onore del loro patriota, maestro Gaetano Donizzetti, musicale gloria italiana, un. sontuoso monumento, nella insigne basilica di Santa Maria Maggio re, opera magnifica di Vincenzo Vela, che mostra altamente la superiorità del genio italiano, specialmente nel campo della scultura e dell estetica.

L’11giugno la Reggente, pel Duca Roberto I, levava in tutto il Ducato di Parma lo stato d'assedio, e nominava direttore generale di polizia il cav. Giuseppe Franceschinis. Quelle popolazioni in virtù di quella provvida misura respirarono alquanto, dopo si lunga e si opprimente pressione sofferta.

Lo stesso giorno, alle 7 pomeridiane, un certo cappellaio, Defelice attentava alla vita del cardinale Antonetti segretario di Stato di Sua Santità, afferrandolo e dandogli un colpo di stile che andò vuoto d’effetto. Il Defelice fu arrestato, processato, condannato al patibolo. Molti commenti furono fatti intorno a lui, al suo attentato, alla sua missione. Fu detto emissario di Mazzini. Le Romagne oltre alle mille piaghe di cui andavano afflitte, vennero funestate anche in quest’annodal cholera. Macerata, Recanati, Ancona, Fermo, Pesaro, Forlì, Ferrara e Bologna erano il teatro dell'asiatico malore, che minacciava estendersi sempre più. La sua strage in Ancona fu molto considerevole. Anche in Padova, in Brescia, in Livorno, a Pavia, a Vicenza, a Mantova, ed in altre città e circondarii, mostrava la sua micidiale presenza.

Il 1. luglio mancava ai vivi l’ab. Antonio Rosmini, prete di. Rovereto, fondatore dell'Istituto di Carità, che porta i il suo nome. La vita di lui fu molto tribolata; lasciò gran nome e gran desiderio di sé. La filosofia perdette in lui uno de' suoi più splendidi luminari. Rimangono molti suoi scritti ed opere pubblicate che attestano l’alta sua sapienza e dottrina. Il nuovo saggio sull’origine delle idee, l’Eusebio Cristiano, la Coscienza morale, Lettere di un prete bolognese, la Costituente per l’alta Italia, le Cinque piaghe della Chiesa, la Costituente Italiana, il Catechismo e molte altre, sono opere assai stimate in Italia e fuori. ll giorno 1. agosto vennero celebrate solenni esequie all’illustre defunto nella chiesa di S. Francesco di Paola in Torino. Immenso ne fu il concorso. Officiava il vescovo d’Ivrea, monsignor Moreno. Il teologo Barone leggeva l’elogio funebre del trapassato. Sulla porta maggiore della chiesa si leggeva la seguente iscrizione, dettata dal cav. Paravia.

Supplicazioni solenni

Per l'anima del sacerdote Antonio Rosmini-Serbati

Il quale

Benedetto dai supremo Pontefice

E desiderato da tutta Italia

Nella se sonda or a del 4. luglio 1855

Chiudeva santamente una vita

Fatta gloriosa e onoranda

Dalle speculazioni del filosofo

E dalle virtùdel Cristiano.

Il giorno 2 agosto saliva al cielo un altro filosofo, il siciliano G. B. Castighi, mancato ai vivi in Torino, lanciando opere di filosofia, che levarono alto grido in Italia.

Lapresa di Sebastopoli, riuscendo sommamente difficile alle armi alleate, furono richieste dai Comandi militari nuove milizie di rinforzo. Diffatti tanto dalla Francia, quanto dal Piemonte ne partirono in più riprese, ed il contingente a cui quest’ultima potenza erasi obbligata già superava di qualche migliaio il numero stabilito nel trattato militare. L’Inghilterra pure apriva sottoscrizioni per arruolamenti militari e spediva agenti, incaricati a formare una legione anglo-italiana. Tutte le potente armate, raddoppiavano le spese del proprio bilancio «quindi gli aggravii pubblici, per fortificarsi, temendo che la guerra, non venisse limitata soltanto in Crimea, ma potesse uscire da quella cerchia. L’Austria più che ogni altro temeva, ed il tuono col quale si biasimava mordacemente il suo modo di governare in Italia dal Parlamento inglese, non poteva che sempre più allarmarla e porla in avvertenza. Terribili furono diffatti le accuse che da Londra echeggiavano per ogni dove in Italia, scagliate dalla tribuna di Saint-James contro tutti i Governi italiani, tranne il Piemonte, ma(:) specialmente contro Napoli, Roma ed Austria. Contemporanea mente gli agenti inglesi adoperavano ogni loro potere nel suscitare i popoli, e già temevasi prossima una insurrezione nella Sicilia e nella Romagna. Quella volta non erano i consigli di lord Minto, ma sibbene erano provocagioni che partivano dal più grande ministero d’Europa. Quelle mene nondimeno non ebbero conseguenze sinistre perocché gli italiani, in generale, non prestavano più tanta fiducia, come per lo passato, alle insinuazioni ed alle promesse; che loro giungevano dà di li della Manica. Stavano nondimeno in guardia, e le armi ed i denari mandati dall'Inghilterra nella Sicilia, si trovavano inoperosi. Gl’italiani vedevano bensì, che da un istante all’altro l’armonia dell’Austria colla Francia poteva essere tolta di mezzo, vedevano che l’Austria, in quel caso, o doveva colla Prussia starsi isolata, o collegarsi dalla parte della Russia; ma nello stesso tempo osservavamo le mosse del Piemonte, onde in quelle trovare una direzione nel loro operare. Il Piemonte avendo unita la sua alle destre, delle grandi potenze, colle quali divideva le sorti nella: guerra della Crimea, offri una prova di senno politico cosi grande, che i patriotti pensatori, e gli uomini d’influenza, di vaglia, di assennatezza consideravanlo, per quell'atto, come la sola bussola che potesse guidare il patrio naviglio, al porto della indipendenza. Epperò videro con gioia fiaccato l’orgoglio dell’idra settiforme, la demagogia, la quale intanto fremeva e si crucciava per livore. Nullameno essa benché sconfitta non mancava di avvelenare colla sua bava sanguinolente tutto quanto aveva vita colà, onde screditarne la fama, ma i suoi aliti pestilenziali; si disperdevano nell’aero, senza portare alcun nocumento. E quando l’Episcopato, sardo, la Santa Sede, le Comunità religiose, rimasti vinti rispetto allo incameramento dei beni ecclesiastici ed all’abolizione dei conventi, si opponevano all'attuazione di quella legge con ogni maniera di rimostranze ostili, scagliando censure, la demagogia aizzava, spronava, arrotava le sue armi per ferire, ma vani tornarono per quella volta i suoi sforzi. Per la qual, cosa le popolazioni italiane non pensavano per allora alla possibilità di una insurrezione perché, vedevano il Piemonte impegnato nelle due lotte, la interna e la esterna. La interna, coll’ammorzare i rigurgiti dei partiti clericale e demagogico nello sviluppo delle patrie istituzioni, e la esterna nel sostenere, fianco degli alleati, la guerra in Crimea.

Sapevano Napoli nuotare in acque limacciose, che a quanto pubblicatasi dai giornali esteri, minacciavano d’affogarlo. Sapevano ch’egli erasi atteggiata in una condotta, creduta ostile alle potenze di Occidente, per favorire la Russia. Epperò sarebbero usciti e circolati in quella capitale libelli sanguinosi contro quel Governo, contro la politica del Re, contro le misure da essolui prese. Pure fu stampato: Murat e Napoli libro che metteva all'incanto quel Regno, e che ne pronosticava vicina la caduta. La signoria del terrore colà inaugurata, veniva flagellata dalla stampa estera: sarebbesi detta imminente in quel paese una rivoluzione, uno sfacello distruggitore, perfino la idea dei Borboni. Tutto ciò sapevano, o intendevano gli italiani, ma non si talentavauo di una probabilità di riuscita. L’Austria anche pei rapporti di Napoli, trovavasi perplessa, meditabonda, angustiata, e mal ferma. Nondimeno la non felice situazione dell’Austria, le strategie dell'Inghilterra, nel prevalersi dell’Italia, onde formare un centro di reazione, non valsero a sommuovere gl’italiani, consapevoli che la prima sarebbe stata sorretta dalla Germania, cioè dalla Prussia, ed indi forse anco dalla Russia e che la seconda non avrebbe agito che per proprio interesse. Insurrezionando l’Italia, la Polonia, la Ungheria, i popoli Romani, la Romelia, le Isole arcipelaghe, sarebbe stato lo stesso che incendiare il mondo in una guerra europea, che avrebbe finito ad attirare in Italia, oltre l’Austria, anche altre potenze. Il grido però era divulgato, ma non approvato che dagli esaltati e dai demagoghi, che il Piemonte con quella guerra corresse alla sua rovina, combattendo le aspirazioni dei cristiani popoli orientali, che agognavano di emanciparsi dal dominio dell’ottomana luna, la cui luce ortodossa feriva lo spirito della loro religione e della loro nazionalità. Ma il Piemonte rispondeva non combattere egli le nazionalità di quei popoli generosi ed infelici, ma sibbene combattere l'assolutismo degli czar, i quali sotto il manto della religione, covavano da lungo tempo la bramosia di estendere sull’ottomano impero il proprio potere, e la propria signoria, onde, fattisi oltre ogni credere grandi e possenti, invadere poi, con legioni sterminate di cosacchi, tutta Europa... Ma giungevano intanto dalla Crimea le fauste notizie guerresche, che, elettrizzando gli animi, chiamavano l’attenzione pubblica sulla strepitosa vittoria riportata alla Cernaia dalle armi piemontesi. Quella notizia si sparse colla celerità del lampo per ogni città, per ogni provincia, per ogni Stato italiano, e venne accolla colla stessa gioia, collo stesso entusiasmo, che la madre accoglie un proprio figlio vittorioso. L’onore delle armi italiane per quel fatto fu redento, ingrandì, ingigantì. I francesi dovettero novellamente capacitarsi se gl'italiani non si battano; rampogna vile, e sfacciatamente falsa, scagliata loro in faccia in altri tempi. I francesi (facendo un enorme sacrifizio al loro orgoglio nazionale) dovettero ammirare ed applaudire ai valore italiano, tanto fu bella e splendida la vittoria della Cernaia. I francesi umiliarono in quella guerra le armi inglesi, ma furono costretti ad esaltare le armi italiane. Per ogni dove quindi non si parlava che dei piemontesi, delle armi italiane, della vittoria della Cernaia. Nacque in un baleno una tramutazione, che scosse perfino i retrogradi e gli oscurantisti: tanto è il potere della gloria nei petti umani! Torino e Genova andavano a gara nel magnificare più degnamente quel trionfo. Qua leggevasi: caffè della Cernaia; la fattoria della Cernaia; altrove contrada della Cernaia; illuminazioni, bandiere ovunque spiegate, feste; cauti, balli; teatri, sinfonie, bande, tutto gioia, tutto trasporto, tutto estasi, e coronava un tanto entusiasmo il grido: viva Italia!... tanto effetto produsse una notizia, che sapevasi non essere falsa, giunta a Torino il primo settembre in una ufficiale relazione del generale Lamarmora.

A Genova, a Tortona, a Ciamberì mentre le legioni anglo-italiane si stavano compiendo, anche con prontezza, eransi già tenute delle assemblee popolari o nelle piazze o nei teatri, nello intendimento di comporre indirizzi al ministero delle finanze per ottenere la diminuzione delle tasse, e specialmente della imposta alle professioni. A Torino si fece un’eguale inchiesta nel due settembre, ma in un modo più grande e strepitoso. Al Circolo Sales era il convegno. Oltre 3000 persone assistevano a quel meeting presieduto dal deputato Sineo. Varii erano gli oratori, fra quali Brofferio, Valerio, Cantara, Bottone, ed delegati mandati colà da Tortona, Genova, Possano, Vigevano, Boves, Alba ecc. La convocatone aveva lo scopo di avvisare ai modi di un più equo riparto delle, imposte, e di protestare contro le tasse e le angherie fiscali; ma, fosse caso, fosse premeditazione, quello scopo puramente finanziario non fu che tocco, appena, rivolgendosi nella vece i discorsi degli oratori sui campo politico. Nondimeno dopo di aver declamate molte cose utili e molte inutili, si venne alla conclusione. Deliberavasi quindi e decretavasi, a guisa dei meeting a Londra, che il ministro delle finanze era immeritevole della pubblica confidenza. Cosi terminò, senza alcun disordine, e senza alcun felice risultamento quell’adunanza, che diede molto a pensare, a temere, a commentare, ad agire al Governo nel primo suo comparire, piucché nello stato di progetto, in quello di atto.

Nel 5, di settembre da Civitavecchia 600 uomini della guarnigione francese di Roma partirono per la Crimea. La legione anglo-italiana anche colà progrediva con alacrità. A Napoli temevasi la proclamazione di Murat, perché in nessun modo volevasi esistente in quel Regno la influenza russa, con tanto amore coltivata da quel Governo. Atene e Napoli, considerate dalle potenze occidentali come le due chiavi del mediterraneo non potevano essere i baluardi commerciali del Nord. E però i partiti che avevano interesse ad una nuova combinazione in quei territorii lavoravano indefessamente nella attuazione dei loro scopi. A mille a mille venivano gittati su quelle spiagge gli scritti muratiani, provenienti da Londra e da Parigi. Vuolsi che il conte Pepoli fosse autore di alcuni di quelli, perché lo si sapeva alleato del Murat e molto in favore presso la corte di Napoleone. Gli agenti della politica di Murat e di lord Palmerston credevano con quegli scritti di far breccia tanto sui napoletani quanto sulle milizie del Re. Il principe di Carini, ministro del Regno delle Due Sicilie a Londra, avrebbe abbandonato il suo posto. La Francia chiedeva con recise istanze spiegazioni del perché le artiglierie dei forti di Messina non rispondessero al saluto dato a quella città dal contrammiraglio Pellion il giorno della festa di Napoleone III. Il pubblico occupavasi assai di quell’incidente, che accresceva le complicazioni del Governo delle Due Sicilie colle potenze occidentali. La Commissione delle bastonate, esistente a Napoli, era addivenuta l’oggetto delle ire inglesi. Il Gabinetto di S. James era in aperta rottura con quello di Napoli. Il Re intanto spediva a tutti i suoi inviati alle corti estere, una circolare nella quale si lamentava della condotta tenuta verso il suo Governo dalla Francia e dall’Inghilterra, ma il marchese Antonini, inviato napoletano a Parigi, non presentò quella circolare, temendo gli venisse consegnato il suo passaporto. Le soldatesche svizzere al soldo del Re di Napoli sotto l’influenza inglese intanto disertavano, e si ponevano nella legione anglo-italiana, la quale aveva il suo centro a Malta e le sue dipendenze ovunque in Italia ed in Isvizzera, tranne nel Lombardo-Veneto. Spiacque alla polizia di Napoli quella diserzione, e reclamò, per un riparo, al ministero. Il sig. Mazza, direttore generale di quella polizia, proibì in modo severo e reciso, per vendicarsi in certo qual modo di quegli arruolamenti, a tutti gli addetti dell’ambasciata inglese di porre il piede nella loggia dell’intendente al teatro del Fondo. Questo atto, giudicato sommamente offensivo dal sig. Temple, ambasciatore inglese, provocò un rapporto da esso lui indirizzato al. ministero degli esteri a Londra. La politica, inglese si approfittò di quel fatto pelle sue mire, onde agire ostilmente contro, Napoli, minacciando un intervento di armate flotte in quella rada, e pretendendo fosse data da quel Governo immediata soddisfazione. Il Re insistette nella sua consueta politica con temerario ardimento; nondimeno la posizione di lui era molto compromessa. I lazzaroni perfino mormoravano: battaglioni, e batterie d’artiglieria partivano per la Sicilia; la cavalleria era consegnata alle caserme. Si camminava sopra un vulcano che poteva addivenire più terribile del Vesuvio. È rimarcabile il passo di una lettera di Luciano Murat scritta al Times in data 24 settembre, che disse:

«Dichiari il Piemonte d’inalberare la bandiera dell’indipendenza e della nazionalità d’Italia, ed io (Murat) mi obbligo, non solo a non preparargli ostacoli, ma anche a dargli tutto il mio aiuto, e l’aiuto di tutti quelli, che la memoria del passato lega alla mia famiglia, giacché ciò sarebbe recare ad atto le idee di mio padre, alle quali rimarrò sempre fedele.»

LaRussia percossa e prostrata, se non disfatta, per la perdita di Sebastopoli, non poteva rivolgere i suoi appoggi a Napoli. L’Austria e la Germania titubavano, temporeggiavano. L’Italia meridionale temeva di giorno in giorno uno sbarco di innovatori. Si prendevano Ovunque delle misure di precauzione.

Il 15 settembre cantavasi in Torino un solenne Te Deum per la presa di Sebastopoli, ed al teatro Lupi rappresentavasi un dramma di A. Ferrari Rodigino, intitolato, La presa della torre di Malakoff, che venne poscia ripetuto in moltissimi teatri delle provincie. Il Gabinetto di Torino sospendeva le sue relazioni diplomatiche col Gabinetto di Toscana. Ne fu dato motivo dal rifiuto di accordare ingerenza diplomatica al figlio di Casati nominato dal Governo addetto al consolato sardo in Firenze. Casati era lombardo, naturalizzato sardo per decreto reale. Il padre di lui aveva presa parte attiva negli avvenimenti del 1848, e questo bastò al Granduca per non volere riconoscere il figlio nella carica affidatagli.

Uscivano alla luce in Napoli, il 15, i seguenti tre decreti del Re, il quale messo alle strette, dovette piegarsi ai voleri delle due grandi potenze.

Ecco i decreti:

I

«Art. 1. Il maresciallo di campo D. Francesco Pinto principe d’Ischitella è discaricato del ministero di guerra e marina, che ha finora occupato, continuando a rimanere nostro aiutante generale.

«Art. 2. Dichiarandoci pienamente soddisfatti dei servigli, dal medesimo resi nella carica anzidetta, gli accordiamo la continuazione del soldo di ducati 6000, che ha sinora percepito.»

II

«Art. 1. Accordiamo al brigadiere D. Francesco Antonio Winspeare il grado e gli onori di ministro segretario di Stato, coll’intervento nel nostro Consiglio ordinario di Stato.

«Art. 2. Nominiamo direttore del Ministro e R. segretario di Stato della guerra, con referenda e firma, il colonnello D. Carlo Picenna.»

III

«Art. 4. Il direttore del R. Ministero dell’interno D. Lodovico Bianchini, prenderà la firma del R. Ministero della polizia generale, in luogo del direttore D. Orazio Mazza, chiamato ad altre commissioni.»

Le rappresentanze degl’inviati di Francia e d'Inghilterra chiamarono a migliori consigli quel Re, e primo risultato si fu il cambiamento del Gabinetto di lui; indi la soppressione della Commissione delle bastonate, e la cessazione delle persecuzioni e degli esilii di molti onorevoli napolitani. Veniva eziandio rivocato l’ordine dato di partire da quella città ad un addetto alla legazione inglese, ed offerte spiegazioni plausibili e soddisfacenti sul motivo per cui non fu salutata la bandiera francese e corrisposto al saluto del contrammiraglio Pellion. Lo stesso giorno veniva pure soppressa la quarantena per le provenienze da Marsiglia, Genova e Livorno.

A fatto compiuto, dopo la destituzione del Mazza, quella stampa retrograda che aveva cantate le laudi sulla fermezza di quel direttore di polizia, a fatto compiuto, dicemmo, dopo la destituzione di lui, quella stessa stampa cambiò frasario, e quel Mazza divenne uno sgherro, un sicario che comprometteva e Governo e Re colla sua avidità di ammanettare, d’incarcerare, di sfrattare e d'incrudelire contro vescovi, monaci, preti e persone inoffensive. E anziché attribuire tutte le colpe di quel Governo alla politica del Governo stesso, le si attribuivano al sig. Mazza ed agli uomini venali, corrotti, e corruttibili ch'erano a' suoi ordini. Cosi venivano pagati i servigi di quell’uomo, il quale sotto un Re assoluto non poteva avere azione sua propria, ma sibbene sempre dipendente dagli alti voleri di chi imperava. Fu salvo intanto il Re e la sua politica, e l’odioso e colpevole carico venne gittate sull'uomo, che alcune ore prima godeva di tutta la regale fiducia. Se non se, spargevasi ovunque, che il Mazza, quantunque destituito, continuasse ad agire nella polizia come prima, avvegnaché fu d’uopo offrire alle reclamanti potenze una soddisfazione; ma nello stesso tempo il Re non sapeva trovare il modo di staccarsi dal seno quell'uomo fatale ed inviso a tutti, ma supremo sostenitore della signoria del terrore: cosi antonomasticamente chiamavasi la polizia napoletana. Col giorno 21 settembre, il Re a mezzo del sig. Passantini ritirava tutti i suoi capitali del Gran Libro e dalla Banca nazionale, e gli investiva ad Amsterdam ed in America. Questo ritiro fece gran sensazione, ribassò la borsa, e provocò molti fallimenti. Sembrava che tutto ancora non fosse terminato, se, come pubblicamente si diceva e si stampava, il Re fosse stato indotto a quel passo. Didatti sia nelle montagne di Palermo, sia dal lato di Catania e delle Calabrie, le bande armate invadevano i territorii e tenevano le popolazioni, (le quali corrispondevano con piacere a que’ moti) in una agitazione allarmante. La stessa capitale trovavasi ancora in uno stato inquietante. Si fortificava Capua e si costituivano barriere dominanti la ferrovia e la strada maestra di Terracina. Il corpo dei lazzaroni veniva sciolto; ma il Mazza invece fece di essi delle confraternite, che pagava a due carlini, per ciascun membro. Queste lazzaroniane confraternite il giorno della festa di Piè di Grotta, formatesi in compagnie con bandiere, si recarono a Posillipo non tanto per la festa, quanto per mantenervi il buon ordine, perocché vivevasi sempre colla tema di pubbliche perturbazioni.

Un avviso della Direzione di polizia di Milano, sottoscritto Martinez, in data del 13 ottobre, diceva: «1.°( )Tutti gli abitanti delle provincie Venete potranno, d’ora innanzi, recarsi nelle provincie di Mantova e Brescia, muniti soltanto della carta d’inscrizione nel ruolo di popolazione; 2.° Gli abitanti delle provincie di Mantova e Brescia potranno del pari trasferirsi nelle provincie Venete, muniti solamente della preaccennata carta d’iscrizione. In quanto alle altre provincie lombarde, rimane ferma l’osservanza delle vigenti discipline in materia di passaporti.

Come in Piemonte 1 lavori delle ferrovie o erano compiuti, o stavano por compiersi, abbracciando le linee da Torino a Genova, da Genova per Alessandria e Novara ad Arona, da Torino a Novara, a Cuneo, a Susa, a Pinerolo, da Mortara a Vigevano, da Cavallermaggiore a Brà; da Genova a Voltri, da Santhià a Biella, da Savigliano a Saluzzo, da Vercelli a Casale, e la linea di Savoia, così anche nel Lombardo-Veneto si erano già posti ih attività i tronchi da Verona a Coccaglio (1854), da Treviso a Casarsa (1855), e speravasi veder compiuta la linea di congiunzione tra Milano e Venezia. Ma i latori andavano a rilento, a motivo degli incagli posti dal Governo e perché non ancora erasi sviluppato lo spirito di associazione in quei paesi. Malgrado le mille difficoltà insite e proprie all’amministrazione governativa, impedente il pronto sviluppo degli affari nella Lombardia e nella Venezia, ma più in quella che in questa, si compievano grandi opere di patria utilità e decoro dando a vedere in quella assidua operosità, che se del tutto ancora non esisteva nella società uno stato normale, almeno la sfera di repressione governamentale erasi mitigata in modo da lasciare sfogo al componimento delle sociali bisogne. In Piemonte invece mercé le libertà costituite, mercé lo scopo governativo, mercé lo spirito di associazione inspirato nei popoli, mercé in fino una larghezza di idee, di viste, di rapporti e di facilità inerenti al reggimento costituzionale, venivano attivate le miglio rie dello Stato con maggior prontezza e vantaggio. Le associazioni, quasi in ogni ramo dello scibile umano agevolarono la prosperità di quei paesi a fronte delle pubbliche calamità che ne avevano diminuito il valore. E siccome colà, per politica negli uni per dovere negli altri, tutto atteggiavasi nell’aspetto di una rappresentanza italiana, cosi la società degli autori drammatici, già da un anno istituita per opera di alcuni gagliardi ingegni, nella sua seduta quindicinale del 4 ottobre, nominava a delegati rappresentanti l’Ufficio dirigente nelle altre provincie italiane, i signori:

Marchese Gioachino Napoleone Pepoli, pegli Stati Romani;

Raffaele Colucci, per le Due Sicilie;

Cav. Andrea Martini, per la Toscana; Dott. Paolo Ferrari, pei Ducati;

Giacinto Battaglia, per la Lombardia;

Dott. Antonio Somma, pel Veneto;

Prof. Cristoforo Baggiolini e Luigi Camoletti, per la Lomellina;

Dott. Davide Chiossone, pel Genovesato.

Tanto la Società degli autori italiani di Torino, quanto quella dell'Areopago di Genova avevano lo scopo non solo nella prima di migliorare l’arte drammatica, e nella seconda di favorire le lettere, le scienze e le arti in genere, ma ancora di tener uniti gl’ingegni italiani col sacro vincolo di un patrio decoroso interesse. Epperò trovavano favore si nell’interno che nell’estero, se voglio usi considerare estere al Piemonte le altre provincie d’Italia.

Ma dagli studii sacri alle arti, alle lettere ed alle scienze, gli animi venivano nuovamente allontanali dal fermento che agitava in modo alto e risoluto la Sicilia. IL Re di Napoli dal 1848 non aveva veduto quel suo territorio al di là del Faro: egli quindi era sconosciuto a quei popoli. Egli trattava quei paesi come una matrigna tratta i suoi figliastri, pesando su di loro con una mano di ferro, e tenendoli come rifiuti dell’umanità staccati da ogni ingerenza negli alti dicasteri dello Sta lo. Il Governo di Napoli studiò tutte le sevizie e le improntitudini possibili, e ne raccolse con accurata indagine da tutti i governi retrogradi ed assolutisti, passati e presenti, e fattone un enorme cumulo, le gittò a piene mani, senza pietà, senza ritegno, su quelle popolazioni. Ma i siciliani, (ch’erano già stati aizzati allo sconvolgimento dalle arti angliche) si rammentarono l’antica loro grandezza, scossero il ferreo giogo, ed armati minacciavano la borbonica dinastia, udendo alle tendenze di libertà politica i conati della indipendenza nazionale. L’agitazione quindi che prima era nelle campagne e fra le montagne, alla metà di ottobre invadeva superba e gigante la capitale, Palermo. Intanto intorno a quei paraggi, oltre alla flottiglia inglese, si aggiravano anche la russa e la francese. E correa voce che un 3000 siciliani con pezzi di cannoni presi all’artiglieria reale si avanzassero verso Catania, e che un movimento pure esistesse ad Aquila e negli Abruzzi. Nondimeno la stampa retrograda negava tutto e dichiarava che nel Regno delle Due Sicilie si godeva un eden di delizie, trattando da calunniatori e da stolti ed appassionati i corrispondenti di Napoli che mandavano alle Gazzette estere novelle, romanzi, invenzioni nello scopo di screditare quel felice Governo. Come venissero soffocati quei conati ognuno lo può facilmente argomentare: la forza era il solo mezzo colà conosciuto.

Lavertenza tra il Piemonte e la Toscana non potè avere sino allora un onorevole fine, salvando ogni suscettibilità del giovine Casati, per quantunque fossero corse molte note tra i Gabinetti interessati e quello di Francia, che vi si intromise mediatore.

L’Austria conchiuse un nuovo Concordato con Roma, non doganale, mia clericale: questo valse da parte di S. M. L R. A. Francesco Giuseppe l’invio di 100,000 fiorini al Sommo Pontefice per essere impiegati in opere pie. I fogli liberali vedevano in quell’atto un’umiliazione del Governo austriaco, venendo sottoposto alle esigenze della Santa Sede, o per lo meno ad un contratto molto incagliente, massimamente gli studii della monarchia.

Lastampa clericale da un canto all'altro dell'Italia, dopo le riforme ecclesiastiche operate in Piemonte, si scatenò con tanta virulenza, da eccedere ogni limite. Ella estraeva dalle fogne i suoi articoli, e con una impronta tutta affatto plebea, li scagliava sbadatamente contro tutti quelli, che direttamente od indirettamente avevano presa parte alla promulgazione ed alla attuazione delle leggi concernenti lo incameramento dei beni della Chiesa, e l’abolizione dei monasteri. Col suo incessante minacciare censure e scomuniche, col suo furioso predicare contro le eterodossie e gli scismi, giungeva a procacciarsi lo sprezzo di molti, ed i rigori del Governo, il quale, agl'insulti, rispondeva coi processi, colle prigionie, cogli sfratti, e coll'adempimento, senza riguardo alle loro minaccie e rampogne, delle leggi emanate dal Parlamento e sancite dal Re. Quelle bollenti effervescenze clericali allontanarono inoltre sempre più la possibilità di una riconciliazione tra le due Corti, sarda e romana.

Il giorno 12 novembre veniva aperta la sessione legislativa. Il Re, fra le acclamazioni del popolo e dei primati dello Stato, raccolti dell'Aula senatoria, pronunziava la sua parola concepita in questi sensi:

«Signori Senatori, Signori Deputati,

«L’anno, ch'è presso a finire, fu pel mio cuore un tempo di prove crudeli. Le alleviò bensì il vedere le lagrime dell’intiera nazione associate ai lutti della mia Casa. Ma, in mezzo ai dolori, Iddio mi sostenne nell’adempimento de' miei doveri.

«Volto lo sguardo alla gran lotta, che ferve da due anni in Oriente, non esito ad unire le mie armi a quella parte, che combatte per la causa della giustizia e della civiltà, e per l’indipendenza delle nazioni. A ciò mi spingono il desiderio di concorrere al trionfo dei principii medesimi, che noi propugnammo, e i generosi istinti dei popoli subalpini, e le tradizioni della mia famiglia. I nostri soldati, uniti ai valorosi eserciti di Francia, d’Inghilterra e di Turchia, secondati dallo zelo e dall'attività della nostra marina, hanno diviso con loro pericoli e glorie, ed accresciuta l’antica fama di queste bellicose contrade.

«Voglia Iddio coronare con sempre maggiori successi gli sforzi comuni a rendere il più presto possibile una pace durevole, assicurando a ciascuna nazione i suoi legittimi diritti.

«Le spese della guerra renderanno necessario un nuovo ricorso al credito pubblico.

«La scarsità dei raccolti, il rinnovato flagello del cholera, uniti ad altre inaspettate contingenze, scemarono le pubbliche entrate. Se, contro al voto del mio cuore, la necessità ci costringe a chiedere nuovi sacrifizii alla nazione, il mio Governo per altro cercò,il modo di rendere più sopportabile il peso di alcune imposte. Esso vi sottoporrà progetti di leggi, indirizzati a meglio ordinarne la distribuzione, nella parte specialmente che gravita sulla classe meno agiata.

«Altre leggi destinate a migliorare l'amministrazione politica ed economica dello Stato, l’ordinamento giudiziario, la pubblica istruzione, saranno di nuovo proposte alla vostra discussione.

«Signori Senatori, Signori Deputati.

«Nell’ardua missione, che vi è affidata, voi proseguirete a dar prove di quella. prudenza ed operosità, di quell’affetto costante agl’interessi del paese, per cui vi siete segnalati finora.

«Noi continueremo cosi il nobile esempio di un Re e di una nazione legati da vincoli indissolubili di amore e di fede, nella gioia come bel dolore, e sempre concordi nel mantenere illese le due gran basi della felicità pubblica: ordine e libertà.»

Il 21 novembre il Re, lascialo a suo delegato il principe Eugenio di Savoia Carignano, giungeva a Genova alle 2 pomeridiane, diretto per Parigi: aveva seco il conte Camillo Cavour. L’accoglienza avuta dai genovesi fu fredda assai: eglino erano troppo irritati contro il ministro delle finanze pei balzelli a' quali avevali assoggettati. Ma venne risarcito ad oltranza dall’accoglimento veramente sovrano, che i Governi, prima di Francia, poscia d’Inghilterra fecero all’augusto viaggiatore.

Molte Voci correvano intorno a quel viaggio, al quale volevasi dai più dare uno scopo politico. I liberali avevano aperto il loro cuore a novelle speranze credendo che sarebbono fatti dei personali concerti tra le LL. MM. l'imperatore dei francesi, la Regina della Gran Brettagna, e S. M. Vittorio Emmanuele, concerti che alla fin fine avrebbero. provocati tali avvenimenti' in Italia, e specialmente nella Lombardia e nei Ducati, da offrire al Piemonte, per lo meno un ingrandimento di territorio in risarcimento ai sacrifizii da essolui sostenuti per la guerra di Crimea. E sull'argomento appunto della guerra orientale testé combattuta vittoriosamente dalle armi alleate esternavansi pure molte voci, le quali prendevano più o meno terreno e solidità, in Europa a norma del colore e della politica dei Gabinetti. Fra le altre molte, dicevasi anche, che le quattro potenze, Francia, Inghilterra, Sardegna e Turchia, considerando la guerra d’Oriente né profittevole ad esse men che a tutte le altre potenze europee, e considerando che per quantunque elleno fossero rimaste vincitrici e la Russia sconfitta, nondimeno la questione orientale;trovava grandi ostacoli, al suo scioglimento;, epperò se a primavera del 1856 dovessero elleno nuovamente riprendere le armi, sarebbono state obbligate a comparteciparvi anche le altre potenze, cioè la Germania, l’Austria, la Prussia, la Spagna, Napoli, Roma e Toscana, avendo tutte un egual interesse in quella guerra. La Svezia, la Norvegia, la Danimarca ed il Belgio entravano già nella lega, e quindi andando per disavventura a vuoto le prammatiche, già intavolate dalla diplomazia, per ottenere una pace solida e duratura, non si sarebbero più tollerate neutralità in Europa. Da quelle voci, quasi conseguenza, emergeva la seguente considerazione: se Austria, Napoli, Roma ed i Ducati avessero dovuto a primavera intervenire colle loro forze alla guerra d’Oriente, l’Italia, insurrezionandosi generalmente, avrebbe potuto acquistare senza tanti ostacoli la sua indipendenza. Con queste lusinghe una gran parte degl'italiani stava ansiosa, attendendo l’esito del viaggio del Re Vittorio Emmanuele, e le decisioni dei Gabinetti europei.

II 24 novembre pubblicavasi in Napoli una «Convenzione conchiusa e ratificata in data di Washington, 14 luglio 1855, da S. M. il re del regno delle Due-Sicilie ed il Presidente degli Stati-Uniti d’America, con l’avviso e consenso del Senato de' detti Stati-Uniti, intenta a stabilire, su basi solide e durevoli, i principii che regolar dovevano, in tempo di guerra, i diritti dei neutri.» Con altro decreto della stessa data, il re di Napoli ordinava la formazione nel lago d’Averno di un porto militare, il quale, mettendolo in comunicazione, mediante un canale, col lago Fucino, facesse capo al porto di Baia presso Pozzuoli.

Il 30 novembre vennero scambiate a Berna le ratifiche di un trattato di Stato conchiuso il 17 luglio 1855 tra il Governo imperiale austriaco e la Confederazione svizzera, concernente la mutua consegna dei delinquenti.

Il 10 dicembre il Re di Sardegna ritornava nei suoi Stati dal suo viaggio in Francia ed in Inghilterra. Belle e splendide oltre l’usato furono le accoglienze che egli si ebbe a Pont-Beauvoisin, a Ciamberì, a Susa, a Torino. Il principio monarchico in quei paesi dal 1848 in poi non aveva perduta una dramma del suo prestigio. Gli oscurantisti dicevano, che uno dei risultamenti di quel viaggio si fu un Concordato con Roma. Napoleone avesse ciò stimato necessario ed urgente: anche la Gazzetta uffiziale di Savoia era dello stesso avviso. Il presidente della Camera invece annunziava alla raccolta parlamentare Assemblea, che la delegazione recatasi a complimentare il Sovrano, reduce dal viaggio, riferiva, che S. M. si trovasse lieta del concetto in che il Piemonte era tenuto presso le grandi nazioni dell’Europa, e sperasse che il suo viaggio produrrebbe utili effetti, mentre Egli nulla avrebbe trascurato pel consolidamento delle liberali patrie istituzioni.»

Il conte Cavour, nel suo soggiorno a Parigi, ottenne dall'Imperatore e dai ministri delle finanze e dei lavori pubblici la fusione della Compagnia della strada ferrata Vittorio Emmanuele con quella della strada ferrata di Ginevra. Tale convenzione, già conchiusa e firmata, riusciva pel Piemonte di una immensa importanza.

Lavertenza della Toscana col Piemonte fu pure composta a Londra. Lord Normanby dichiarò al conte Cavour, in nome del Granduca, che il Governo toscano era disposto a riprendere i suoi rapporti amichevoli colla Corte di Torino. Il testo di quella riconciliazione portava:

«1. Che il Granduca è disposto a ricevere con piacere l’anteriore Legazione sarda;

«2. Che il Governo toscano è propenso a considerare come non esistenti le lettere scambiate, le quali contenessero espressioni offensive.

Il Governo piemontese accettava quella convenzione, ed il giovine Casati sarebbe stato impiegato a Parigi come addetto all'Ambasciata sarda.

Sugli ornamenti della Sala del banchetto offerto dalla City di Londra al Re di Sardegna vedevansi queste iniziali, F. E. R. T. Due furono le interpretazioni date a quelle, cioè:

La prima — Fortitudo eius Rhodum tenuti;

Seconda — Foedere et religione tenemur.

Alla Camera dei deputati veniva offerto il bilancio delle spese per la spedizione d'Oriente nei due esercizii 1855 e 1856. Esso ammontava in tutto a Lire 74. 259,532:68, di cui L. 62,863,434 per l’esercito di terra, e L. 11,376,401:68 per la marina.

Una nuova sètta, quella del Misticismo, veniva scoperta in Torino il 20 dicembre. Il suo capo, che chiamavasi profeta, era il signor Fowianski dimorante nel Canton Ticino. La religione di questa sètta riconosceva alcune verità fondamentali della religione cristiana, ma non ammetteva culto esterno, né simboli, né ministero ecclesiastico. Erano già aggregati in quella canonici, preti, teologhi, dottori: cercava, come tutte le altre sètte, un ognor più crescente proselitismo.

Compievasi l’anno 1855 con un aspetto meno truce e spaventoso del 1854. Imperversò, è vero, il cholera qua e là nelle provincie italiane, ma la sua falce fu meno devastatrice dell’anno precedente; strariparono bensì i fiumi ed i torrenti, ma le inondazioni furono meno frequenti e meno estese: apportarono minori disastri; scoppiarono le popolari insurrezioni, ma più di rado, ma localizzate, ma meno temute. Le polizie furono severe, ma non feroci, epperò i delitti meno frequenti. Nel 1854 gli omicidi! furono 414, invece nel 1855 soltanto 90; nel 1854 le crassazioni 607, nel 1855 soltanto 498; nel 1854 i furti 4306, nel 1855 soltanto 3491; nel 1854 le ferite 995, nel 1855 furono 898; nel 1854 gli incendi! delittuosi 438, nel 1855 soltanto 76; le diserzioni nel 1854 furono 490, mentre nel 1855 sole 131; insomma, da quanto riferiva una statistica del giornale il Piemonte nei dieci primi mesi dell’anno 1855 furono denunziati 4155 delitti di meno che nei primi dieci mesi dell’anno 1854. Se si facesse questo quadro comparativo anche negli altri Stati italiani, come lo si è fatto nello Stato sardo, si verrebbe alla stessa conclusione, cioè diminuzione di delitti nel 1855 in confronto del 1854. Per essere veridici, dobbiamo però sventuratamente eccezionare lo Stato pontificio e le Due Sicilie, ove la statistica offrirebbe un aumento notevole. La larghezza politica nel Lombardo-Veneto e nei Ducati si era già posta in una certa quale temperanza da far isperare vicina una più salutare latitudine. Il commercio, la industria, le viste speculative dei Governi e dei regnicoli, come avevano già molto lenite le piaghe della carestia dominante, cosi promettevano non lontane risorse agli Stati. Dobbiamo deplorare la trascendenza del partito clericale, già spinta, nel campo della idea, allo stadio di mania furiosa. Le libertà senza limiti costituite in Piemonte davano loro lo sprone a tali ebbrezze, spiacinte perfino alla Santa Sede. Malgrado gl’inevitabili disordini in quel Regno, agitato da tante differenti passioni, scaturite dalla libertà del pensiero e dell'azione, la gloria acquistatasi dal Piemonte sulle alture della Cernaia, e le riforme governamentali offerenti largo campo alle speculazioni in tutti i rami dello scibile umano, avevano aumentato il suo credito e la sua influenza in tutta la Penisola ed all’estero cosi, da destare negl’italiani, inverso di lui, sentimenti d’affetto e di gratitudine. Epperò compresero, e che faceva mestieri confidare nell’avvenire, e che calmi e dignitosi dovevano attendere con solerzia, prima al riscatto delle nazionali prosperità, per essere poi ricchi e forti, pronti e preparati al conseguimento di quello della patria.


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CAPITOLO X

L’anno 1856

V’hanno certe esigenze nel sociale consorzio,che sono come ingenite nello spirito degli uomini, e non vale prudente bontà di propositi per isradicarle. Imperciocché, quasi naturale effetto, ci sentiamo inchinevoli ad esigere più dai nostri genitori, che dai parenti, più dal principe che dai magistrati, e cosi di seguito. Ella è codesta una legge dominante in tutte le classi della società; ma, nel termometro della civilizzazione dei popoli, segna differenti gradi, a seconda del carattere e della essenzialità del politico reggimento dei popoli stessi. Laonde da un Governo retto a repubblica, toccando egli il supremo grado della scala civilizzatrice, le nostre volontà e speranze sono pure spinte all’estremo grado, e, non avendo argini, stiamo in potere di esigere tutto; mentreché da un Governo democratico costituzionale, dovendo le volontà degli uomini essere circoscrittelo una cerchia legale emanata dai costituiti poteri popolari, le nostre esigenze nella suddetta scala civilizzatrice non potendo aggirarsi che nella sfera loro acconsentita dalle leggi della legalità, denno accontentarsi dei molto ma non del tutto. Nella vece da un Governo conservativo emanato dalla volontà di pochi, essendo ristretto nelle sue attribuzioni a pochi gradi della scala suddetta, ne consegue inevitabilmente che le nostre esigenze, per forza dei vincoli che le legano non possono estendersi che al poco. Da un Governo assolutista infine, dipendente dall'arbitrio di una sola volontà non potendo esservi alcun grado della scala civilizzatrice appariscente, e quindi le nostre esigenze non potendo avere alcun punto fermo di appoggio, è giuoco-forza accontentarci del nulla:grado affatto opposto al reggimento repubblicano, che ammette il tutto.

Sopra queste leggi generali delle esigenze umane, nei differenti ordini governamenlali, ha somma forza ed influenza la moralità degli enti che le rappresentano. Epperò le nostre esigenze sono più vive, ove la moralità si associi alla equità ed alla giustizia delle persone alle quali elleno sono rivolle. E quindi da un padre, da un magistrato, da un principe il cui conosciuto retaggio sia la integerrimità, la equità e la giustizia, noi esigiamo di più, nell'ordine sociale, di quello che da un padre, da un magistrato, da un principe di equivoca condotta.

Da questi raziocinii astratti, passando alle applicazioni, chiaro risulterebbe che cosa potevano esigere a quest’epoca i popoli italiani dai loro Governi. Ma lasciamo per un momento in non cale i governi di Napoli e del Lombardo-Veneto, per fermarci colle nostre considerazioni sopra uno, il Governo pontificio. Questo Governo dovendo essere più che ogni altro, perché clericale, basato sulla moralità, sulla equità, sulla giustizia, (retaggio, come vedemmo, avente gran forza sulle esigenze dei popoli), avrebbe dovuto eziandio, più ch’ogni altro, ammettere appunto codeste esigenze; le quali alla fio fine sono sempre figlie della confidenza e della fiducia. Avvegnaché da un Governo santo, che guida le coscienze degli uomini a rettitudine, a virtù, che schiude le porte del cielo, che offre, in una parola tutti i tesori della religione, di cui egli è padiglione, trono, capo, non puossi aspettare che un reggimento della cosa pubblica, avente tutte le perfezioni necessarie per condurre i popoli al loro vero benessere sociale. Sotto questo aspetto di moralità quindi i popoli romani non potevano avere, sulla scala della civilizzazione, che il più alto grado delle esigenze, e quinci dovevano pretendere dal loro Governo molto di più degli altri popoli assoggettati al dominio di regimi profani, non clericali, non santi. E difatti se il tuo padre, il tuo superiore, il tuo principe, avesse concetto di probità, di rettitudine, di santità, tu figlio, tu dipendente, tu suddito, avendo in lui una confidenza grande, immensa, senza limiti, avresti anche una esigenza grande, immensa, senza limiti nel chiedere e nel pretendere tutto ciò che ti necessitasse per il tuo ben essere sociale.

Tale appunto era la situazione dei popoli romani. Non è quindi da far le meraviglie, se delusi nelle loro speranze, nelle loro aspettative, nelle loro esigenze da quel Governo, che per avere il concetto di Governo santo, che per essere istituito direttamente a' piedi del trono di Dio, doveva più d’ogni altro spogliar sé stesso di beni terreni per felicitare il suo popolo, non è da maravigliarsi, dicemmo, se quei popoli si ribellassero, se quei paesi, in preferenza di ogni altro, fossero in preda dei ladri, se colà si perpetuasse l’assassinio politico. Cosi essendo il calamitoso e deplorabile stato delle cose, conseguentemente emergeva, che una gran parte dei popoli del cattolicismo, non riflettendo sventuratamente che gli errori, che potevano essere commessi nel regno papale, non macchiavano minimamente la purità e la santità della nostra religione, si desse, folle ed iraconda, in braccio alle nequizie, alle improntitudini, alle società secrete, alla miscredenza, al protestantismo,al delitto. Una cotanta prevaricazione era forse uno sfogo di vendetta per le patite amaritudini.

Ma se, insanguinando il cuore per acerba doglia, noi fummo obbligati a segnalare alla pubblica condanna, ancora nell’incominciamento dell’anno 1856, lo scandalo dei saccheggi, delle rapine, delle turbolenze, degl’incendo, dei ferimenti, degli assassini! politici, in somma della pubblica corruzione nello Stato pontificio, lo si fu, onde non tradire la storia. E se furono dette allora codeste verità da personaggi eminenti per dottrina, per natali, per cariche da essi loro occupate in pubbliche Camere parlamentari, nei memorandum dei Gabinetti, non sappiamo perché non le si possano ripetere oggi, gli avvenimenti di quei paesi avendole pur troppo ampiamente confermate e constatale. Ma ci conforta almeno l’animo nello stesso tempo rammentando che negli altri Stati d’Italia, tranne Napoli, la moralità pubblica incominciava, appunto nei primordii del 1856, a prendere la supremazia, ed a consolare co’ suoi benefizii e popoli e Governi, richiamandoli a' sentimenti di umanità, di rettitudine e di virtù.

Il 1. gennaio 1856 usciva in luce nella Lombardia una circolare vescovile, diramata a tutti gli stampatori e librai, risultamento di una Congrega tenuta dai monsignori arcivescovo Romiili, e vescovo sussidiario Caccia di Milano; Vezzeri vescovo di Brescia, Curti di Mantova, Navasconi di Cremona, Ramazzotti di Pavia, Calcaterra vicario in Como, e Barboni vicario in Crema, nello scopo di stabilire le disposizioni relativamente al Concordato conchiuso tra la Santa Sede e S. M. l’imperatore d’Austria. La circolare spedita agli editori, stampatori, e commercianti di libri dalla superiore Autorità ecclesiastica diocesana faceva loro sentire il dovere di uniformarsi alle disposizioni dell’articolo IX del Concordato vigente fra lo Stato e la Chiesa. «L’Autorità superiore vescovile» diceva la circolare «continuerà ad invigilare con ogni attenzione su tutte le pubblicazioni periodiche, attualmente in corso e veglierà egualmente su quelle che si potranno intraprendere in avvenire... Premesse, ove sia possibile, private ammonizioni agli stampatori di quelle, che fossero per palesare uno spirito veramente pernicioso alla religione ed ai buoni costumi, non lascieremo di proibire pubblicamente, qualora si dimostrassero persistenti nel medesimo spirito, e di dichiarare all’uopo eziandio incorsi nelle censure ecclesiastiche. come già lo sarebbero col fatto di dottrine empie ed ereticali, tanto i loro scrittori, come gli stampatori e promotori di qualsiasi specie; né ommetteremo pure d’implorare il soccorso dell’Autorità governativa per la loro soppressione. Incombe sempre a tutti gli stampatori ed editori, come figli della Chiesa, lo stretto dovere di presentare previamente alla nostra revisione ecclesiastica gli scritti o libri di qualunque genere che intendono stampare o ristampare, non esclusi gli stessi libri di pietà e di Chiesa, affinché ne ottengano l’autorizzazione; e noi ricordiamo loro quest’obbligo, anche perché non abbiano a risentire i danni che loro sarebbero per derivare, qualora ci trovassimo nella spiacevole necessità d’invocare dall’Autorità secolare la soppressione delle opere già pubblicate.

«A tutti i commercianti di libri incombe egualmente l’obbligo di riportare, dalla nostra revisione ecclesiastica, anche il permesso di mettere in corso i libri provenienti dall’estero, a meno che non sieno già manifestamente permessi ecc., ecc.»

Quel Concordalo richiedendo un rifacimento della legge sul matrimonio, un nuovo ordinamento delle scuole, una regola diffinitiva delle cose spirituali dei protestanti, e cento altre regole, ordinamenti e lavori circa l’effettuazione di varii provvedimenti d’ordine pubblico, volendo in una parola abbracciar molto, non ottenne che poco. Terminò quindi, in progresso di tempo, inceppando gli affari, coll’essere inammissibile o non avvenuto. Fama correa che una grande dimostrazione avesse avuto luogo contro quel concordato nel Teatro Carcano di Milano (4 marzo 1856).

Intanto nel Lombardo-Veneto attendevasi con cura ed alacrità all’attuazione di cose utili al commercio ed all’industria nazionale; in Piemonte si chiedeva da quel Governo un nuovo prestito alla Camera, onde far fronte alle spese del possibile ripristino della guerra in Oriente; ma ritornava dalla Crimea, il generale Lamarmora, e si concepivano nuove speranze, dovendo egli recarsi a confabulare a Parigi e Londra con quei ministri della guerra. Se non se la Corrispondenza austriaca litografata, in data 1 febbraio, ore 3, minuti 50 pom. a tutto il mondo annunziava quanto segue:

«Oggi, a mezzogiorno, fu sottoscritto il protocollo col quale i preliminari della pace acquistano forza obbligatoria.

«Giovedì sarà fatta la comunicazione alla Dieta federale.

«Le conferenze di pace saranno aperte a Parigi al più tardi da qui a tre settimane.»

Quel dispaccio telegrafico tranquillizzava alquanto l’Europa, distruggeva in gran parte le mire dei repubblicani, e consolava i liberali, i quali speravano di vedere un delegato sardo, sedere, del bel numero uno, nelle conferenze europee di Parigi.

Il 5 febbraio si veniva in cognizione che la perequazione delle imposte prediali regie, promessa le tante volte dalle ripetute sovrane Risoluzioni, stavasi alla fin fine organizzando nel Veneto. In quella perequazione le Provincie-Venete avevano un aggravio di meno di lire 1,163,721: 91 contribuendo soltanto nel 1856 austr. Lire 20,138,317:35 invece della somma contribuita nello scorso anno 1855, costituita in austr. lire 21,302,039: 26. Quella diminuzione d’imposta doveva essere ancora più sensibile, quanto il sistema di perequazione sarebbesi esteso anche nella Lombardia.

A Roma, in quel tempo lu commesso un attentato contro la vita del conte Cini, fu ferito l’ufficiale di gendarmeria Strinati, ed il marchese Baviera; a Faenza fu ucciso un impiegato con 18 ferite; vennero arrestate li persone, altre fuggirono a S. Marino. Il magno processo degli omicidii di Rimini, in numero di circa 40, venne rimesso al tribunale statario per il giudizio, dopo tre anni dacché gl’imputati trovavansi incarcerati.

Il 14 febbraio partiva da Torino alla volta di Parigi, il conte Cavour, nominato rappresentante del Piemonte nelle imminenti conferenze europee, accompagnato dal cav. Jocteau, ministro sardo a Berna, e dall'avv. Costantino Migra, applicato al ministero degli affari esteri. Cavour, in quel tempo, godeva grande stima come celebre statista e come uomo di fermissimi propositi. Egli aveva maneggiati gli affari spettanti la già da tempo conchiusa alleanza sardo-francese-inglese; egli aveva cooperato grandemente coi gabinetti di Francia e d’Inghilterra e pei trattati commerciali, industriali e marittimi già conchiusi, e pella congiunzione delle ferrovie sarde colle francesi, e per tante opere di patria utilità; epperò quella scelta venne lodata dai conservatori specialmente, non tanto perché argomentassero ch'egli avrebbe condotta la sua missione con onore e gloria, ma sibbene in quanto che prevedevano con quella nomina un prossimo cangiamento di ministero in senso meno liberale di quello che era, ché, politicamente parlando, sembrava ad essi non essere Cavour il personaggio atto a mischiarsi nella questione italiana, a seconda dell’attitudine di protettorato o rappresentanza italiana assunta dal 1848 in poi dal Piemonte, rispetto all’Italia. Correa già voce di una Nota in questo senso, mandata dal Governo sardo ai Gabinetti, inglese e francese, con istanza intenta a farla ostensibile alle conferenze. Laonde la nomina di Cavour tranquillava i conservatori in proposito, mettendo in dubbio la esistenza ed il rinvio di quella Nota. Le ragioni dei conservatori acquistavano maggiormente forza e credito in quanto che i liberali si arrabattavano coi loro articoli, inseriti sui giornali dello Stato, contrarii a quella nomina. Essi non avevano grande fiducia in Cavour. Nella vece l’avevano tutta in Massimo d’Azeglio, e su di lui avrebbero voluto fosse caduta la scelta. Diffatti Azeglio erasi compromesso politicamente, aveva mostrata già da tempo la sua professione di fede in senso italiano, che gli austriaci e gli austriacanti dicevano in senso italianissimo. Quell’uomo quindi era tutto di fiducia nel cuore dei liberali. Fervevano queste idee, quando giungeva a Torino S. E. Mehemed Gemi! bei ambasciatore della Sublime Porta, il quale veniva accreditato in quella carica presso la Corte sarda. Quella era la prima volta che il Gabinetto di Torino aveva rapporti diplomatici con quello di Costantinopoli.

Il giorno 44 febbraio veniva in luce a Parma un nuovo decreto ducale spettante la censura dei libri, scritti, incisioni ecc. Col medesimo si aboliva la Commissione onoraria, istituita nel giugno 1852, ed in luogo di essa, e «per maggiore guarentigia di coloro che potranno trovarsi nel caso di richiamarsi giusta l’articolo 21 del decreto del di 7 aprile 1840 N. 77, contro le decisioni del Direttore di polizia generale, veniva istituita una Commissione consultiva, la quale avrebbe avuta sede a Parma, presieduta dal R. Bibliotecario e composta di cinque membri oltre ad esso presidente ed oltre il direttore della scuola d’incisione, che ne sarebbe membro di diritto.»

Veniva istituita in Milano nello stesso tempo la Società italiana, nello scopo di unirsi a quella società che sarebbe preferita per l’acquisto delle strade ferrate Lombardo-Venete, e per la sollecita esecuzione dei tronchi residui. Facevano parte di quella società i sigg. conte Archinto, conte Borromeo, duca Litta, marchese Rescalli, Sebastiano Mondolfo, fratelli Brambilla, Ulrich e Brot, Ballabio e compagno, Francesco Turrati, fratelli Ponti, Giulio Bellinzaghi, ed un membro di ciascuna delle città della Venezia, con due a Verona, i quali tutti sottoscrissero perciò un capitale di 22 milioni ½ di lire austr.

Il carnevale, generalmente parlando, in quest’anno, fu passato in tutta Italia abbastanza di buon umore, tranne a Faenza che venne molestato da ferimenti e scompigli che provocarono la proibizione delle feste da ballo. Nel Piemonte, nei ducati, nel Lombardo-Veneto, la pubblica moralità erasi ristorata. La miseria sembrava scomparsa da tutti quei paesi: tanto copiose furono le elargizioni cittadine, e le industrie attivate. Negli ultimi quindici giorni di carnevale in Milano, i depositi della Cassa di risparmio ammontavano a lire 720,200, contro lo sborso di sole lire 463,400, ciò che costituiva un sopravanzo di lire 556,800; e come dal 45 novembre al 25 dicembre, e dal 25 dicembre al 9 febbraio i pegni fatti ai due Monti di Pietà furono minori di lire 24,000

A 17 nel corso del carnovale, cosi da quella economia si poteva ragionevolmente dedurre essersi introdotto un grande elemento di moralità pubblica e di abbondanza. Moriva in Milano il 18 febbraio il prof. Egidio DeMagri, uomo integerrimo di costumi, dottissimo, stimato da Manzoni, da Grossi e da quanti avevano in onore, le belle lettere: egli ebbe bene meritalo della patria per le tante sue pubblicazioni storico-letterarie; fu compianto da tutta la città.

Il 15 marzo l’i. r. Governo di Vienna cedeva la costruzione delle strade ferrale Lombardo-Venete a varie

L’interessenza d’ 1/8 prendeva il nostro Credito mobile.

»

» 4/8 quello della Francia.

»

» 1/8 la Casa Rothschild.

»

» 2/8 una società inglese.

»

» 2/8 » di banchieri germanici;

»

» 1/8 » » milanesi.

I tratti

di strade da costruirsi, erano:

quello di Casarsa per Trieste.

»

Bergamo per Trezzo-Monza;

»

» Trezzo-Lecco;

»

Treviglio » Crema-Cremona;

»

Milano » Pavia-Piemonte;

»

» » Parma Modena;

»

» » Sesto Calende;


» » Buffalora.

Il Governo si riserbava il tronco da Coccaglio a Bergamo.

Se non vuolsi ricordare che nella notte del 15 al 16 marzo alcuni sconosciuti attaccarono e diedero fuoco ad un petardo, che fece saltare in aria i vetri di una finestra del Collegio dei pp. Gesuiti di Brescia, dobbiamo certamente ammirare la prosperità che a grandi passi rendeva i popoli del Lombardo-Veneto, del Piemonte, e della Toscana in uno stato abbastanza felice, dacché la calma era venuta a consolare gli animi.

Non cosi veramente potevasi dire del Ducato di Parma, ove il disordine rinnovellandosi di sovente, ne emergeva una posizione anormale e gli stati d’assedio si succedevano continuamente, perché, come nelle Romagne, anche colà l’omicidio politico, tratto tratto angustiava le popolazioni. E difatti due ne avvennero recentemente, uno de' quali in data del 4 al 5 marzo, nella persona del conte Valerio Magawly-Cerati di Calry, direttore della casa centrale di detenzione, e l’altro in data del 17 marzo nella persona dell’auditore di guerra sig. Gaetano Bordi, il quale venne proditoriamente ferito di pugnale da mano sconosciuta, mentre passeggiava nella strada Bassa dei Magnani insieme ad un altro ufficiale. Moriva egli poche ore dopo: l’assassino fuggiva. In quella occasione vennero pubblicati l’Alto sovrano e la Notificazione, che seguono:

«Noi Luisa Maria di Borbone, Reggente pel Duca Roberto 1. gli Stati Parmensi.

«Mani assassine hanno fatto segno ancora una volta ai loro scellerati disegni due vittime innocenti, e portato lo spavento e l’orrore nella popolazione buona e tranquilla di questa città. Tristi e dolorosi oltremodo al cuor Nostro sono questi orribili fatti. Miti erano e sono le Nostre intenzioni, ma Don perciò possiamo dimenticare il sacro dovere di rassicurare i buoni contro i malvagi, e di adottar quindi tutte quelle disposizioni severe, sol contro questi, che valer possono a tale effetto.

«Per la qual cosa,

«Abbiamo decretalo e decretiamo:

«Art. 1. Lo stato d’assedio, quale fu stabilito coi decreti del 28 settembre 1849 N.° 509, e del 22 dicembre 1851 N.° 328, è richiamato in vigore nel Comune di Parma e in tutti i Comuni foresi confinanti col medesimo.

«Art. 2. Per la ritenzione delle armi, per ogni necessaria ricerca, e per l’allontanamento di chi non abbia permesso di dimora, saranno date le opportune disposizioni dalla Direzione della polizia generale, d’accordo col Comando militare.

«Parma, il 17 marzo 1856.

Luisa.»

Notificazione

in esecuzione del Decreto di S. A. R. l’augusta Duchessa reggente, in data d’ieri pel quale è richiamato in vigore lo stato d’assedio nel Comune di Parma ed in tutti i Comuni foresi confinanti col medesimo, il sottoscritto assume per la sua anzianità il comando militare.

«Le norme principali dello stato d’assedio saranno rammentate dalla Direzione della polizia generale con ispeciale affissione, come lo sarà qualunque altra disposizione, che fosse riputata opportuna, d’accordo col Comando militare.

«Il generale maggiore Conte Crenneville.»

«La massima adottata da alcuni Governi di porre in istato d’assedio le città e le provincie ad ogni assassinio politico, ad ogni caso isolato di pubblica perturbazione, era una massima troppo impetuosa, perché inconsultamente improvvida. Imperciocché per le improntitudini od i delitti di pochi individui, si perpetuava nei paesi il terrore, ed il danno per tutti, interrompendo le comunicazioni da città a città, da Stato a Stato, arrestando quindi la vita ed il movimento de! commercio, e delle industrie, col sacrifizio di quelli che non ne avevano alcuna colpa e colle più sensibili deficienze per minori introiti, e per incomportabili uscite dei pubblici cràni; Ma èra assai difficile il far cangiare sistema a quei Governi, che aveano divisato di porre tutta la loro sicurezza solo nella forza. Sistema altamente dannoso ai Governi stessi perché creatore di continui dissidii e sconvolgimenti.

E già, benché si volesse far credere che vendette particolari avessero perpetrato quegli assassini, nondimeno l’agitazione in Parma era assai grande, e molti scritti e molte lettere già circolavano compromettenti la publica. tranquillità. Epperò, temendo si rinnovassero i fatti per noi narrati dell’anteriore sommossa popolare, moltissime famiglie fuggirono di là e si ricoverarono nella Lombardia, mentre il Governo parmense, ed il Comando austriaco, colà, prendevano delle forti misure per evitare la sommossa, che sembrava imminente a scoppiare. Gli arresti quindi operati furono in gran numero.

Il 24 marzo il duca di Modena regolava ad uniformità le prescrizioni discrepanti sui Municipii, ma nello stesso tempo toglieva tutti i privilegi che ad antiquo godevano alcuni borghi del Ducato. Epperò, secondo quella nuova riduzione, le amministrazioni comunali si componevano del podestà, dei conservatori ne’ Comuni di prima classe, degli amministratori in quelle di seconda e di terza classe, e dei consiglieri comunali.

Il vizio in quel sistema di amministrazione stava in questo: che il podestà veniva sempre nominato dal Duca; cosi pure dal Duca erano nominati anche i conservatori e gli amministratori, dietro però proposta fatta dal ministero dell’interno, il quale doveva prima sentire il voto delle rispettive Delegazioni provinciali.

I conservatori erano in numero di 8, e gli amministratori di 6 nelle Comuni di seconda classe e di 4 in quelle di terza.

I consiglieri Comunali venivano scelti fra i maggiori estimati, giusta la legge del 42 gennaio 1815 (ecco un altro vizio!). Questi consiglieri erano 30 nei Comuni di prima classe, 24 in quelli di seconda e 18 in quelli di terza.

Il Consiglio Comunale si riuniva due volte all’anno, formava il preventivo per l’anno susseguente, rivedeva il consuntivo dell’anno decorso, discuteva sull’uno e sull’altro, facendo quelle osservazioni che credeva opportune.

Le adunanze erano sempre intimate, assistite e chiuse per mezzo d’ordine governativo, (altro vizio!) coll’intervento del delegato. Nessuna spesa veniva lasciata alla loro disposizione (altro vizio ancora!) ed avevano sempre bisogno dell’autorizzazione del ministero, o della R. Delegazione provinciale.

Pei vizii da noi accennati quel nuovo Ordinamento ducale non trovò in quelle popolazioni un buon accoglimento.

Moriva in Venezia il 19 marzo il celebre pittore prof. Lodovico Lipparini di Bologna. B. Vollo dedicava alla memoria di lui un lungo articolo inserito sulla Gazzetta uffiziale di Venezia, 28 marzo 1856, n. 72, dimostrante i pregi preclari delle opere, del cuore e della mente dell’illustre trapassato, e Giovanni Gerlin dettava le seguenti iscrizioni:

Al feretro:

I.

Colla

Squisita Soavità Dei Modi

Maestrevolmente

Additava I Precetti Di Un Bello

Che Troppo Presto Raggiunse Nella Sua Perita

II.

Intieramente

Comprese Le Gioie Domestiche

E

Quelle Pure Ineffabili Di Una Costante Amicizia

III.

Nessuno

Potrà Mai Uguagliarlo

Nello Zelo E Amore

Pei Suoi Discepoli

IV.

Tutto Trasportato Per l'Arte

Si Dedicò in Modo Al Lavoro

Da Costargli La Vita

V.

Lasciava

Un Grande Tesoro Alla Famiglia

Nel Lutto Comune

VI.

Sostenne

L'Aspetto della Morte Con Quelle Speranze

Che Solo Può Dare La Religione.

Il 7 aprile pubblicatasi un’ordinanza del ministero dell’interno del 30 marzo 1856 relativa alla organizzazione ed alla sfera di attività delle Luogotenenze nel Regno Lombardo-Veneto.

Questa Ordinanza ministeriale abbracciava due sezioni. Nella prima sezione si esponeva la organizzazione della Luogotenenza. La Luogotenenza costituiva un’Autorità provinciale dirigente «gli affari dell’amministrazione politica e della polizia in generale, gli affari del culto e dell’istruzione, gli affari del commercio e dell’industria, gli affari dell’agricoltura, gli affari infine della esazione della imposta prediale e della relativa procedura fiscale.»

LaLuogotenenza si componeva del luogotenente, di un consigliere aulico, di consiglieri, di secretarii, vice-secretarii, alunni di concetto, impiegati d’ordine ed inservienti.

Alle Luogotenenze erano subordinate le Delegazioni, i Commissariati distrettuali, e tutte le Autorità, Uffizii, altri organi e pubblici Istituti, ai quali tutti dava, istruzioni ed ordini e riceveva rapporti ed annunzii; ma era subordinata Ella stessa al Governo generale residente a Vienna, e prestava il suo giuramento nelle mani di S. M. I. R., mentre tutti i Delegati, Autorità, ecc. ecc. lo prestavano nelle mani delle Luogotenenze stesse.

Laseconda sezione era divisa in due articoli. Nel primo articolo, composto di 34 paragrafi, veniva stabilita la sfera di attività della Luogotenenza. Nel secondo articolo, composto di paragrafi 5, veniva esposto il Trattamento degli affari della Luogotenenza.

Dall'esame di quei 39 paragrafi risultava, in primo luogo, che le Luogotenenze avevano ingerenza direttamente od indirettamente pressoché in tutto; in secondo luogo che le Deputazioni comunali dipendeva no dai Commissariati, questi dalle Delegazioni, queste dalle Luogotenenze e queste da Vienna. Epperò il disimpegno di un affare qualunque, che in poche ore poteva essere compiuto, venendo trasmesso da un uffizio all’altro, da una città all’altra, e poi dovendo andare sino a Vienna, il disimpegno, dicemmo, di quell'affare veniva necessariamente protratto a lunghi anni, per l’organico vizio di centralizzazione di tutti i poteri alla viennese capitale. Noi ora ci asteniamo dal dire altre parole sopra questa fatale organizzazione, perocché altrove, nei corso di questa storia, ne abbiamo già detto abbastanza.

Il 15 aprile mancava ai vivi in Roma il principe Pietro Odescalchi, bell’ornamento delle lettere italiane; egli era presidente dell’Accademia degli archeologi e di quella dei Nuovi Lincei. Lasciò molti pregievoli scritti e bella memoria di sé. Occupò molte cariche con zelo e disinteressamento. Roma e lo Stato Pontificio piansero la morte di lui.

Ma la parola cotanta desiderata dagli italiani e cotanto temuta dai loro nemici fu proferita l’otto aprile dal conte Cavour alle Conferenze di Parigi. La periodica stampa di Londra, di Parigi e del Piemonte, sostenendo per oltre un mese polemiche acri e mordenti colla stampa retriva ed avversaria, l’aveva già preconizzata. Vennero scoperti li difetti di amministrazione dei Governi di Napoli, di Roma, d’Austria, senza pietà e misericordia. Per quella stampa Napoli ed Austria vituperavansi, e Roma stava descritta come un abisso di abusi e di simonie. La politica delle prime inalberavasi colla forza, tenuta continuamente in esercizio per, intimidire le masse, ed a repressione di ogni partito; la politica della seconda potevasi qualificare una vera inquisizione sacerdotale che dannava gli individui ad incessanti morali e fisiche sofferenze. Epperò quella stampa raccomandava l’Italia alle Conferenze proclamando la necessità di togliere di mezzo la influenza straniera nel bel paese, e di secolarizzare lo Stato pontificio. E quelle raccomandazioni non tanto erano fatte per il bene della Penisola, quanto per la tranquillità europea, sempre minacciata dagli sconvolgimenti italiani, prodotti (diceva quella stampa) dall’incompossibile triregno, Austria-Napoli-Roma.

Lastampa offiziale od offiziosa dell’Austria, di Roma e di Napoli dal canto suo si difendeva, e le sue armi i non erano meno virulente, meno acute. L’Austria diceva: «che non erano che protestanti, che atei, che anime perdute quelle che la incolpavano origine dei mali d'Italia, perché per diritto ella interveniva nelle Romagne e nei Ducati, che anzi v’interveniva per necessità, onde reprimere la rivoluzione che minacciava continua» mente le sue possessioni italiane. Epperò l’Europa!, anziché lamentarsi, doveva esserle grata, perché ella sola, con immensi sacrifizii di uomini e di denari, teneva la Italia tranquilla per il bene universale. Guai se ella non avesse tanta influenza nella Penisola, se non vi tenesse tanta forza, se desistesse dalla. sua politica, la Italia ergerebbesi, invasa dai repubblicani, dai comuni sii, dai socialisti, dagli anglicani, e comprometterebbe l’equilibrio europeo e la pace del mondo.»

Nello stesso tempo il Re di Napoli chiedeva chi i avesse il diritto di comandare in casa sua? Chi avesse i il diritto di sindacare la sua politica? Chi volesse imi porgli? Egli reggeva i suoi popoli come meglio stimai-; va, egli faceva ciò che voleva.

Roma alla sua volta dicea: «che secolarizzare il Governo pontificio equivaleva a distruggerlo; che il suo Governo nacque dalla volontà dei popoli, i quali vollero essere sotto il regime clericale piuttosto che laico; che lo Stato del Papa era della Chiesa romana e non dei romani; che si leggessero le Memorie storiche del cardinale Bacca e si vedrebbe che il gran Pontefice diceva: lo stato non è nostro ma della Chiesa romana; che perciò secolarizzandolo sarebbe lo stesso che toglierlo alla Chiesa; che l’imperatore dei francesi era obbligate a combattere quell’empia dottrina, ed a sostenere 1(!)irrevocabilità delle donazioni, perché guai alla società se i popoli avessero il diritto di cangiar governo ad ogni generazione, guai; che quindi il Governo pontificio non era capace di secolarizzazione. Né era già d’uopo di favorire più oltre il laicato che lo era già anche troppo, il laicato era già stato, chiamato da, molto tempo all’amministrazione della cosa pubblica ed al godimento dei benefizii. S’ispezionassero gli uffizii pubblici, i dicasteri. tutti e i si toccherebbe tale verità. Esistere nel ministero degli esterni 17 impiegati ecclesiastici su 50 secolari; agli interni 456 ecclesiastici su 1411 secolari; all’istruzione pubblica 3 ecclesiastici su 44 secolari; nel ministero disgrazia e giustizia 59 chierici su 927 secolari; nelle finanze 3 ecclesiastici su 2017 secolari; nel commercio 1 ecclesiastico su 61 secolari; nel ministero delle armi, nessun ecclesiastico, ma 98 secolari; nella polizia 2 ecclesiastici, su 104 secolari; alla santa Inquisizione 12 ecclesiastici, e 6 secolari; alla Visita apostolica 7 ecclesiastici e 7 secolari; alla Propaganda fide ed alla Camera begli spogli; 40 ecclesiastici in 68 secolari; nella reverenda fabbrica di S. Pietro 3 ecclesiastici su 87 secolari; nella Cancelleria apostolica 4 ecclesiastici su 60 secolari; nella Secreteria dei Brevi 5 ecclesiastici 13 secolari; Della Dateria apostolica 9 ecclesiastici su 53 secolari. Se si addentrassero in somma gli: avversari» negli uffizii pontificii vedrebbero che non v’ha bisogno di secolarizzazione, perché nei ministeri; gl’impiegati clericali sommavano a 243 mentre i secolari a 5059, percependo i primi l’annuo soldo di scudi 190,316, ed i secondi 1,186,194 scudi; e nelle Congregazioni ecclesiastiche e nei tribunali gli ecclesiastici sommavano 161, ed i secolari a 316, percependo i primi annui scudi 36,120, ed i secondi godendone 61,836. A che dunque si arrabattassero tanto gl’inglesi ed i subalpini, ma cessassero una volta dall’essere cosi ostili, irreligiosi ciechi, che, per conoscere la giustizia e la rettitudine del regime clericale, bastava soltanto far uso di senno e coscienza.

Ma quella stampa sfrenata si era proprio riscaldata il sangue e non voleva cedere la palma cosi a buon mercato. Epperò diceva all’Austria: «Voi intervenite nelle Romagne e nei Ducati per farvi mantenere le truppe, perché, non contenta di pesare colle imposizioni sul Lombardo-Veneto, volete anche trar vantaggio dà quei paesi e volete dominare da per tutto. Indi al Re di Napoli: «No, voi non avete più diritto» diceva «di comandare nei vostri paesi, perché lo avete perduto, dacché abusaste del vostro potere a danno dell’umanità ed in un modo cosi palese, cosi inaudito, come voi avete fatto. La umanità baie sue leggi, che sebo leggi comuni a tutti gli uomini dell’universo, e quando queste leggi vengano avvilite, vilipese, schernite, come avete fatto voi, tutti hanno il diritto di far cessare uno stato di cose cosi arbitrario.» Poscia alla Corte di Roma diceva: «Se gli Stati pontificii, non sono dei popoli romani, ma sibbene della Chiesa romana, che cosa sono eglino mai quei popoli? Sudditi no, dunque schiavi? Ma quando voi infliggete loro le imposte, che cosa sono quei popoli? Allora soltanto sono sudditi perché pagano...» Ed indi soggiungeva: «Non è questione di uomini, laici o chierici, ma sibbene è questione di amministrazione pubblica, di Governo, di regime. Non trattasi di secolarizzare gli uffizii, ina di secolarizzare il sistema, le leggi, il Governo. Trattasi di condurre la Chiesa nel suo antico splendore, emanato dal prisco suo nobile disinteressamento, dalla sua umiltà, dalla sua preziosa povertà, dalla sua esemplare condotta. Trattasi di dividere i due poteri perché cozzano fra loro con infinite inconciliabilità, perché sono l'omento d’interminabili danni. Trattasi in fine di escludere dai dicasteri la influenza ecclesiastica, in mille modi. nociva al benessere di quei popoli, in mille modi compromettente la tranquillità europea. Sino a che comanderanno i preti, saranno manomesse la libertà e la quiete dei popoli.»

A tale giungeva la esaltata opinione pubblica, a tale l’agitazione degli uomini, quando Cavour, coraggiosamente ed a nome di tutta Italia, nelle Conferenze di Parigi,. parlava per la italiana causa. Le sue parole scendevano come pioggia fecondatrice, e le potenze dell’Europa, (Congregate in quel famoso sinedrio, si commossero alla narrazione della dolorosa istoria. Un' eco lontana soffocata da palpiti, da acclamazioni rispondeva dall’uno all’altro mare, e mentre gli altri Stati italiani non osavano alzar la fronte sotto il peso di si pubblico giudizio, un plauso universale, dall’Italia, correa sull’ale dei venti, e si espandeva sonoro e festoso nelle dorate sale della europea conferenza Albione e Francia a mezzo dei loro rappresentanti accoglievano quei plauso, ed appoggiavano vivamente la perorazione del ministro sardo.

Ecco come si esprimeva la stampa moderata francese, rappresentata dal Journal des Débats riguardo alle Conferenze di Parigi ed alla questione italiana. «La situazione generale dell’Italia, gl’imbarazzi di tutti i generi, che assiepano i governi italiani, hanno attirata più di una volta l’attenzione dei plenipotenziarii, perciocché egli si fu impossibile il fare altrimenti. Non credasi che i rappresentanti delle grandi Corti possano intendere a sangue freddo gli assassinii che si compiono in Parma e negli Stati pontifico! Hanno cercate le cause, hanno raccolte con grande zelo le considerazioni e le riflessioni suggerite da si grandi mali. Dovevano forse sorpassare inosservato ciò che affligge l’Italia? Gran parte di quelle provincie non sono né governate, né amministrate; i governi sono senza forza, ed i loro rappresentanti senza influenza; si cerca invano un qualche resto dell’antica grandezza italiana.

«Il Piemonte solo fa una felice eccezione a quella deplorabile situazione E perché ciò? Non sarebbe forse perché il Re del Piemonte, Carlo Alberto, e Vittorio Emmanuele hanno avuto l’arte di conservarsi popolari, facendo a tempo opportuno le concessioni reclamate dai desiderii dei popoli? Questi due Sovrani sono stati, in circostanze piene di pericoli, i difensori della indipendenza e della nazionalità italiana; né si sono spaventati del regime della libertà, e non hanno respinto le riforme prudenti, che impedirono anzi l’esplosione di una sollevazione popolare. L’abile Governo del Piemonte offre agli altri governi d’Italia un contrasto troppo grande per non entusiastare gli spiriti ed agitare le impressionabili popolazioni degli Stati vicini.: questo governo è rispettato al di dentro ed al di fuori.

«Siamo assicurati che varie considerazioni sono state poste sotto gli occhi dei membri delle Conferenze, e che più di una volta, nelle loro sedute, essi si sono indirizzati l’un l’altro questa domanda: che cosa si può fare dell'Italia?... Questa domanda non fu senza risposta, ma piuttosto fu soggetto di una seria discussione, la quale fini nell'accordo delle potenze, espresso in questi termini:

«— L’Europa non può essere indifferente ai mali dell’Italia; ella prende un vivo interesse della questione italiana; l’Europa non può ammettere che vi possa essere in Italia un focolare acceso, eterno di torbidi, di disordini, di cospirazioni e di rivolte. Nondimeno questo focolare esiste in Italia; egli è quindi un punto di onore e d’interesse d’Europa di spegnerlo. Ma questo risultato non può essere ottenuto a mezzo di esecuzioni sanguinose, alle quali oggidì nessuno vorrebbe prestarsi, né a mezzo di un sistema di oppressione, che potrebbe essere un palliativo per un poco di tempo, ma non potrebbe guarire il male, e provocherebbe inevitabilmente dei nuovi sovvertimenti, che bisogna evitare a tutto prezzo per non doverli poi reprimere. L’Italia è un grande paese popolato da più di 25 milioni d’abitanti, i commovimenti dei quali hanno cagionato all’Europa delle grandi agitazioni. Se esistono effettivamente dei vizii nell’attuale sua organizzazione, egli è mestieri cercarne il rimedio, ed attuarlo con sincerità.

«— Ella è cosa urgente per l’Europa l’occuparsi della questione italiana. Gran parte delle popolazioni italiane soffrono, sono oppresse, ma la loro oppressione è un fatto irregolare che deve avere un termine. I Governi, che si conoscono impotenti a governare ed a reggere i loro soggetti, mostrano un cattivo esempio, un esempio pericoloso, perché distruggono il prestigio del potere, e nuocono tanto al governo protettore, quanto al governo protetto.

«Ma da un'altra parte, l’Italia è stata costituita tale quale ell'è oggidì dagli atti del trattato di Vienna. Questi atti non hanno ancora cessato di reggere il diritto pubblico in Europa: essi hanno fissato i limiti degli Stati italiani e la loro indipendenza. Nessun attacco può essere fatto all’esistenza di questi Stati ed ai loro diritti: né vi è alcun motivo da far cangiamenti di territorio in essi. Questi cangiamenti non possono avvenire che in seguito a guerre lunghe e sanguinose, e per nuovi trattati che constatino e proclamino i nuovi diritti dei vincitori sui vinti. La guerra di Oriente non ebbe abbastanza durata, né abbastanza sviluppo per giungere a questa necessità.

«Ma alfine le grandi riforme sono addivenute indispensabili agli Stati italiani, tanto perché quei popoli le desiderano e le attendono, ed i governi le hanno loro promesse, quanto perché elleno sono reclamate dai progressi della ragione umana, e dai nuovi rapporti che si sono stabiliti fra i governi ed i soggetti; i governi essendo obbligali a provvedere a' nuovi bisogni, che si riproducono senza cessa, ed ai quali non possono soddisfare, senza il concorso dei loro soggetti; ed i soggetti rifiutano il loro aiuto, sei governi non li ammettono a discuterne la convenienza ed i vantaggi. Del resto non si può più contare sulla sommissione dei popoli: i popoli vogliono sapere perché loro si comandi, e perché obbediscano. Questo è vero quasi in tutta Europa, ma egli è ancora più vero in Italia. La necessità delle sue riforme é molto conosciuta da lungo tempo. Nei 1831, subito dopo l’elevazione di Gregorio XVI, le grandi potenze dell’Europa insistettero per ottenerle: i loro rappresentanti a Roma hanno indiritto a quell’oggetto al governo pontificio un Memorandum, divenuto celebre, nel quale indicavano ciò che doveva fare quel Governo nell’interesse generale dell’Europa...

«Dopo il Memorandum del 1831, i Gabinetti di Parigi e di Londra hanno frequentemente invitato i Governi italiani ad entrare nella via delle riforme, non cessando mai di segnalarne la necessità ed i vantaggi.

«L’Italia rappresentata dai Piemonte non è stata straniera alla Conferenza: ella vi si è seduta, ella ha deliberato egualmente, com'ella ha combattuto sui campi di battaglia della Crimea, e sulle terribili rovine di Sebastopoli. Là ove vi è il Piemonte, vi è anche l’Italia. Tutto ciò che è di profitto al Piemonte è pure di profitto all’Italia. I plenipotenziarii che hanno sottoscritto il trattato 30 marzo tutti di unanime consentimento, espressero l’alta stima dell’Europa per il Re Vittorio Emmanuele, per il suo Governo, per la sua armata. Questa testimonianza, che non sarebbe che l’acquisto di un debito, onorerebbe si l’Italia come il Piemonte. Il Piemonte dunque non sarebbe incorso nella disgrazia dell’Europa per avere compiute le sue riforme giuste e moderate; ina sarebbe un incoraggiamento offerto a quelli, fra i Sovrani d’Italia, che avrebbero la saggezza d’imitare l’esempio dei Re del Piemonte. Dappoiché il Piemonte è entrato nell’alleanza delle grandi Potenze occidentali, dappertutto in Europa venne rimarcata la sua condotta saggia e moderata, piena denegazione e di disinteressamento, e la sua sollecitudine costante pegl’interessi dell’Italia. Questo è un salutare ammonimento pegli altri Governi italiani, ed un buon esempio da seguire.»

Or ecco i brani più salienti, riferibili all’Italia, trattati nel Congresso di Parigi, nella seduta dell’8 aprile 1856, protocollo N.° 22.

Il conte Walewski, rappresentante la Francia, e presidente delle Conferenze, diceva: «Essere desiderabile che i plenipotenziarii, prima di separarsi, scambiassero le loro idee sopra differenti argomenti, che abbisognavano di soluzione, e di cui poteva essere utile occuparsi onde prevenire nuove complicazioni. Benché riunito specialmente per regolare la questione d’Oriente, il Congresso potrebbe rimproverare a sé stesso di non essersi approfittato della circostanza, che metteva in unione i rappresentanti delle principali potenze dell’Europa, per discutere e depurare certe questioni, stabilire certi principi!, esprimere intenzioni, e fare infine certe dichiarazioni, sempre ed unicamente nello scopo di assicurare per l’avvenire la pace del mondo, dissipando, prima che addivenissero minacciose, le nubi che si vedevano già spuntare sull’orizzonte politico.

Il primo plenipotenziario della Francia indi rammentava «che gli Stati pontificii si trovavano in una situazione anormale; che la necessità di non abbandonare il paese all’anarchia aveva determinato la Francia, nonché l’Austria, ad acconsentire alla domanda della Santa Sede, facendo occupar Roma dalle sue truppe, mentre le truppe austriache occupavano le Legazioni....

«La Francia aveva un doppio motivo di deferire senza esitazione alla domanda della Santa Sede, come potenza cattolica, e come potenza europea, li titolo di figlio primogenito della Chiesa, di cui si gloriava il Sovrano della Francia, faceva un dovere all’imperatore di prestare aiuto e sostegno al Sommo Pontefice. La tranquillità degli Stati Romani, e quella di tutta la Italia, toccavano troppo davvicino il mantenimento dell’ordine sociale in Europa, perché la Francia non avesse un interesse maggiore ad assicurarla con tutti i mezzi che erano in suo potere. Ma, dall'altro canto, come disconoscere ciò che v’aveva di anormale nella situazione di una Potenza, che, per mantenersi, aveva bisogno di essere sostenuta da truppe straniere?

Egli non esitava punto a dichiarare, e sperava che il conte Buoi (rappresentante l’Austria) si sarebbe associato egli pure a tale dichiarazione, che non solamente la Francia era pronta a ritirare le sue truppe, ma che desiderava vivamente di richiamarle, tosto che potrebbe farlo, senza inconveniente per la tranquillità interna del paese, e l’autorità del Governo pontificio, alla prosperità del quale, l’imperatore suo Augusto Sovrano, prendeva il più vivo interesse.

Il sig. conte Walewski indi rappresentava: «essere a desiderare, per l’equilibrio europeo, che il Governo romano si consolidasse abbastanza fortemente, perché le truppe francesi ed austriache potessero sgomberare, senza inconvenienti, gli Stati pontificii; ed egli credeva, che un voto espresso in quel senso, avrebbe potuto non essere senza utilità. Egli non dubitava, in ogni caso, che le assicurazioni, che fossero date dalla Francia e dall'Austria, circa le loro vere intenzioni a quel riguardo, non esercitassero una favorevole influenza.

«Egli chiedeva a se stesso, se non era ad augurarsi che certi Governi della Penisola italiana, con atti di clemenza bene intesi, e chiamando a sé gli spiriti traviati e non pervertiti, mettessero termine ad un sistema, che andava direttamente contro il loro scopo, il che, invece di colpire i nemici dell’ordine pubblico, aveva per effetto di indebolire i Governi e di dar partigiani alla demagogia.

«Renderebbesi un segnalato servizio al Governo di Napoli, nonché alla causa dell'ordine, nella Penisola italiana, illuminando quel Governo sulla falsa via, nella quale si è posto. Egli pensava che avvertimenti concepiti in quel senso e provenienti dalle Potenze, rappresentate al Congresso, sarebbero tanto meglio accolti dal Governo napoletano, in quanto che quello non potrebbe mettere in dubbio i motivi, che gli avrebbero dettati.

Lord Clarendon plenipotenziario della Gran-Brettagna non credeva utile d’investigare le cause, che condussero in parecchi punti dell’Italia eserciti stranieri; ma ei pensava che, ammettendo anche fossero quelle cause legittime, non era men vero «diceva egli» che ne risultasse uno stato anormale, irregolare, il quale non poteva essere giustificato che da una necessità estrema, e che doveva cessare tosto che quella necessità non si facesse più sentire imperiosamente; che ciò nondimeno, se non si dava opera a mettere un termine a tale necessità, essa continuerebbe ad esistere; che, contentandosi ad appoggiarsi sulla forza armata, in luogo di cercar di portar rimedio alle giuste cause del malcontento, egli era certo che si rendeva permanente un sistema poco onorevole pei Governi, e doloroso pei popoli.

«Egli pensava, che l’amministrazione degli Stati romani presentasse inconvenienti tali da emergerne pericoli, e quindi il Congresso aveva il diritto di cercare di allontanarli, perché, trascurandoli, sarebbe lo stesso che lavorare in favore della rivoluzione, che tutti i Governi condannavano e volevano prevenire.

«Il problema, ch'era urgente da risolvere, consisteva nel combinare il ritiro delle truppe estere, col mantenimento della tranquillità, e quella soluzione posava nell'ordinamento di un’amministrazione, che, facendo rinascere la confidenza, rendesse il Governo indipendente dall'appoggio estero; quell'appoggio non riuscendo mai a mantenere un Governo, col quale era ostile il pubblico sentimento, ne risultava un compito che la Francia e l’Austria non vorrebbero accettare pei loro eserciti. Per il benessere degli Stati pontificii, come per l’interesse dell’autorità sovrana del Papa, sarebbe dunque utile di raccomandare la secolarizzazione del Governo e l’organizzazione del sistema di amministrazione, in armonia collo spirito del secolo, e che avesse per iscopo la felicità del popolo. Egli ammetteva che quelle riforme, avrebbero forse in quel momento presentate certe difficoltà a Roma, ma credeva, fossero riuscite nelle Legazioni.

«Da otto anni Bologna era in istato d’assedio, e le campagne funestate dai briganti. Si poteva quindi sperare, che costituendo in quella parte degli Stati romani un regime amministrativo e giudiziario laico, ed in un separato, ed ordinandovi una forza armata nazionale, la sicurezza e la confidenza vi si ristabilirebbero rapidamente, e le truppe austriache potrebbero ritirarsi fra poco, senza che si avesse a temere il ritorno di nuove agitazioni. Essere quella per lo meno una esperienza che doveva tentarsi; e quel rimedio, offerto a mali incontestabili, doveva essere sottoposto dal Congresso alla seria considerazione dei Papa.

«Per quanto concerneva il Governo napoletano, il plenipotenziario della Gran Brettagna desiderava di imitare l’esempio datogli dal conte Walewski, passando sotto silenzio atti che hanno avuto si dispiacevole notorietà. Egli era di parere che, senza dubbio, si dovesse riconoscere in massima, che nessun Governo aveva il diritto d’intervenire negli affari interni degli altri Stati; ma egli credeva che vi fossero casi in cui l’eccezione a quella regola diventasse egualmente un diritto, un dovere. Gli pareva che il Governo napoletano avesse conferito quel diritto, ed imposto quel dovere all'Europa; e poiché i Governi rappresentati al Congresso volevano tutti, nello stesso grado, sostenere il principio monarchico e respingere la rivoluzione, era d’uopo elevare la voce contro un sistema, che manteneva ih seno alle moltitudini l’effervescenza rivoluzionaria, in luogo di calmarla. «Non vogliamo, cosi egli, che la pace sia turbata, e non vi ha pace senza giustizia; noi dobbiamo far pervenire al re di Napoli il voto del Congresso, per il miglioramento del suo sistema di Governo, voto che non potrebbe rimanere sterile, e domandargli un’amnistia in favore di persone, che sono state condannate, e che sono detenute senza processo per delitti patriottici.»

Il conte Orloff, rappresentante plenipotenziario della Russia, faceva osservare «che i poteri di cui egli era munito, avendo per solo oggetto il ristabilimento della pace, non si credeva autorizzato a prendere parte ad una discussione, che le sue istruzioni non avevano potuto prevedere».

Il conte Buoi osservava: «che sarebbe per lui impossibile di trattare della situazione interna di Stati indipendenti, che non avevano rappresentanti al Congresso. I plenipotenziarii non ricevettero altro mandato che quello di occuparsi degli affari di Oriente, e non furono convocati per far conoscere ai Sovrani indipendenti i loro voti, relativamente all’organizzazione interna dei loro Stati; i pieni poteri uniti negli atti del Congresso, ne facevano fede. Per le istruzioni dei plenipotenziarii austriaci essendo definito l'oggetto della missione loro affidata, non sarebbe ad essi permesso di prender parte ad una discussione non preveduta.

«Per quelle stesse ragioni il conte Buoi credeva di doversi astenere dal partecipare alle opinioni espresse dal primo plenipotenziario della Gran Brettagna, e dal dare spiegazioni sulla durata della occupazione degli Stati pontificii dalle truppe austriache; nondimeno si associava completamente alle parole pronunziate a tal riguardo dal primo plenipotenziario della Francia.

Il conte Walewski faceva notare: «che non trattavasi già di prendere definitive risoluzioni, d'incontrare impegni, d’immischiarsi direttamente negli affari interni dei Governi rappresentati o no nel Congresso, ma sibbene unicamente di consolidare, di perfezionare l’opera della pace, occupandosi preventivamente delle nuove complicazioni, che potrebbero sorgere, sia dalla prolungazione indefinita o non giustificata di alcune occupazioni straniere, sia da un sistema di rigore inopportuno ed impolitico.

Il barone di Hiibner, (altro plenipotenziario dell’Austria) replicava «che i plenipotenziarii dell’Austria non erano autorizzati, né a promettere definitivamente, né ad esprimere voti. La riduzione dell'armata austriaca esprimeva assai chiaro, a suo avviso, che il Gabinetto imperiale aveva intenzione di richiamare le sue truppe, sperando una simile misura sarebbe giudicata opportuna.

Il barone di Manteuffel, (rappresentante plenipotenziario della Prussia), dichiarava: «di conoscere abbastanza le intenzioni del suo re, per non esitare ad esprimere la sua opinione, riconoscendo l’altissima importanza delle questioni dibattute.» Egli osservava: «che, in ordine ai passi che si crederebbe utile di fare, per quanto concerneva lo stato delle cose del regno di Napoli, quei passi avrebbero potuto presentare varii inconvenienti. Egli diceva «che. sarebbe stato lieve l’investigare se le mozioni, della natura di quelle che vennero proposte, non fossero per eccitare nel paese uno spirito di opposizione e di moti rivoluzionarii, in luogo di rispondere alle idee, che si sarebbero volute realizzare con intenzioni certamente benevole. Egli non credeva dover esaminare la situazione degli Stati pontificii: egli si limitava ad esprimere il desiderio di porre quel Governo in posizione tale, da rendere superflua l'occupazione delle truppe straniere.

Il conte Cavour (rappresentante plenipotenziario della Sardegna), «non intendeva contestare il diritto, che competeva ad ogni plenipotenziario, di non prendere parte alla discussione di una questione, che non venne preveduta nelle sue istruzioni; e tuttavia, egli credeva del più alto interesse, che l’opinione, manifestata da alcune Potenze sull'occupazione degli Stati romani, fosse inserita nel protocollo.

Egli esponeva «che l'occupazione degli Stati romani per parte delle truppe austriache prendeva ogni di più un carattere permanente; ch'essa durava da sette anni, e che tuttavia non si scorgeva alcun indizio che potesse far supporre ch'essa cesserebbe più o meno tardi per l’avvenire; che le cause che la motivarono, sussistevano ancora; che lo stato del paese, ed esse occupavano, non fu per certo migliorato, e che per esserne convinti, bastava osservare che l’Austria credevasi nella necessità di mantenere in tutto il suo rigore lo stato d'assedio in Bologna, sebbene datasse dalla di lei occupazione. Notava, che la presenza delle truppe austriache nelle Legazioni e nel Ducato di Par ma distruggeva l’equilibrio politico in Italia, e costituiva un reale pericolo per la Sardegna.

I plenipotenziarii della Sardegna (egli diceva), credono dover segnalare all’attenzione dell’Europa uno stato di cose tanto anormale, come quello che risultava dall'occupazione indefinita di una gran parte dell’Italia per parte delle truppe austriache.

«In quanto alla questione di Napoli il conte di Cavour divideva pienamente le opinioni espresse dal conte Walewski e dal conte Clarendon, ed avvisava, che importava al più alto grado di suggerire temperamenti, che, calmando le passioni, rendessero meno difficile il procedere regolare delle cose negli altri Stati della Penisola.

Il barone di Hubner diceva: «che il primo plenipotenziario della Sardegna avea solamente parlato dell'occupazione austriaca, e non faceva parola dell'occupazione francese; che le due occupazioni nondimeno ebbero luogo alla stessa epoca e per lo stesso scopo; che non si poteva ammettere la conseguenza che il conte Cavour aveva voluto trarre dalla permanenza dello stato d’assedio di Bologna; che se uno stato eccezionale era ancora necessario per quella città, mentre da gran tempo aveva cessato a Roma ed in Ancona, ciò sembrasse, luti’al più, provare che le disposizioni delle popolazioni di Roma e di Ancona erano più soddisfacenti che quelle della città di Bologna. Ricordava che in Italia, non i soli Stati romani erano occupati da truppe straniere; che i Comuni di Mentono e Roccabruna, facienti parte del Principato di Monaco, erano da otto anni occupati dalle truppe sarde e che la soia differenza, che correva tra le due occupazioni era: che gli. austriaci ed i francesi vennero chiamati dal Sovrano del paese, mentre Le truppe sarde penetrarono nel territorio del principe di Monaco contro la sua volontà, e che esse vi si mantenevano non ostante i reclami del Sovrano di quel paese.

Il conte di Cavour rispondeva al barone di Hubner «ch'egli desiderava cessata la occupazione austriaca, non solo, ma eziandio la occupazione francese; ma che non poteva far a meno di ravvisare la prima molto più pericolosa della seconda pegli Stati indipendenti d’Italia. Soggiungeva che un debole corpo d’armata, a si gran distanza dalla Francia, non suonava minaccia per alcuno mentre era molto inquietante vedere l’Austria, appoggiata a Ferrara ed a Piacenza, di cui accresceva le fortificazioni contro lo spirito, se non contro la lettera, de' trattati di Vienna, stendersi lungo l’Adriatico fino ad Ancona.

«Quanto a Monaco, egli dichiarava: «che la Sardegna era pronta a ritirarne i cinquanta soldati, che l’occupavano, se il Principe era in grado di entrare in' quel paese senza esporsi a gravissimi pericoli. Del resto, egli non credeva che si potesse accusare la Sardegna di aver contribuito a rovesciare l’antico Governo, onde occupare quegli Stati, mentre il Principe non aveva potuto conservare sotto la sua autorità che la sola città di Monaco, che la Sardegna occupava dal 1848 in virtù di trattati.

«Il conte Walewski si felicitava di aver impegnati i plenipotenziarii a comunicarsi le loro idee sulle questioni, che vennero discusse. Aveva in animo che si sarebbe potuto pronunziarsi, forse utilmente in modo più completo, sovra alcuni punti, sui quali si fermò l’attenzione del Congresso. Ma «egli diceva» lo scambio delle idee tal quale si effettuò, non è affatto privo di utilità.»

Egli però stabiliva che ne emergesse in fatto:

«1. Che i plenipotenziarii dell’Austria si associarono al voto espresso dai plenipotenziarii della Francia, di vedere sgombri gli Stati pontifici), dalle truppe francesi ed austriache, appena ciò potrà operarsi senza inconvenienti, per la tranquillità del paese e per la consolidazione dell’autorità della Santa Sede.

«2. Che il maggior numero dei plenipotenziarii non hanno contrastata l’efficacia di atti di clemenza, che venissero esercitati in modo opportuno dai Governi della Penisola italiana, e specialmente da quello delle Due-Sicilie.»

Egli era sommamente difficile che Cavour ottenesse una vittoria di fatto in quel Congresso, come la ottenne completa sulla moralità dei popoli italiani, collo scoprire innanzi a tutta Europa i mali onde era afflitta Italia per l’influenza straniera. Imperciocché egli era ben naturale, che non essendo quello lo scopo, pel quale si radunarono i plenipotenziarii, Austria e Russia si sarebbono opposte a portare la discussione su altri campi. Epperò vi volle un’altissima perspicacia e destrezza a lirarvele dentro quelle potenze, e, loro malgrado, pronunziarsi su qualche cosa. Lo scopo morale fu raggiunto completamente, ed il Piemonte, con quel Protocollo, veniva approvato, confermato, legalizzato in faccia a tutto il mondo, rappresentante l’Italia. Quel Protocollo venne assunto dalla Storia, che se lo fece suo, ed a mezzo della stampa divulgollo per ogni dove. Quella si fu un’anticipazione legale di quanto sarebbesi poi,operato per l’avvenire nell’Italia: si fu una caparra che accordava al Piemonte il diritto, e di sedere, quasi come una prima potenza, ai Congressi regolatori dei destini d’Europa, e di riscuotere, quando si fosse, il credito, del quale le due grandi potenze, Francia ed Inghilterra, segnatario quel Protocollo, si erano costituite, con quell’atto, pubblicamente debitrici.

L’Austria conobbe assai bene l’importanza di quell’atto, e fu sollecita di spedire a' suoi rappresentanti diplomatici a Roma, Napoli, Firenze e Modena un dispaccio circolare datalo da Vienna 18 maggio 1856. Nel principio di quel dispaccio, l’Austria copiava una frase del co. Cavour, dicendo, «che un abisso la separava dal Piemonte, il quale sul terreno dei principii politici, (come si esprimeva quel diplomatico) divenne insormontabile» , indi si esprimeva nei modi seguenti ((5)).

«La Nota piemontese del 26 aprile ((6)) non è che un atto appassionato di accusa contro l’Austria. Il co. Cavour afferma che l'attitudine ed il sistema dell’Austria in Italia vi mantengono uno stato di agitazione, che sturba l’equilibrio stabilito dai trattati di Vienna, ed è una minaccia perenne contro il Piemonte; il co. di Cavour si fonda su tutti questi pretesti per tenere, a nome dell’Italia, un linguaggio minaccioso contro l’Austria. L’Austria non riconosce la missione, attribuitasi dal Piemonte, di parlare in nome dell'Italia. In Italia vi sono molti Governi del tutto indipendenti, riconosciuti per tali dal diritto internazionale dell’Europa, mentre quest’ultimo è affatto ignaro del protettorato che si arroga il Piemonte sull’Italia. L’Austria rispetta questi Governi indipendenti, e si appella francamente al loro parere in riguardo alle questioni pendenti. Si può a buon diritto travogliere il senso delle asserzioni di Cavour, e dire che non è l'occupazione austriaca quella che mantiene l’agitazione in Italia, ma essere lo stato di agitazione, quello che rende necessaria la continuazione dell'occupazione. La Sardegna. vuole contestare all’Austria il diritto d’intervenire in altri Stati dietro formale inchiesta dei Governi, allo scopo di cooperare alla loro conservazione. Questa teoria politica è inammissibile; l’Austria soccorse spesse volte Governi vicini contro nemici interni ed esterni, ma non si è mai potuto riconoscere in essa viste di egoismo. Ella ha sempre ritirate le sue truppe, una volta ristabilito il Governo legale. Come avvenne in Toscana, l’Austria è pronta del pari a sgombrare gli Stati pontifici, quando il Governo cesserà di aver bisogno di aiuto straniero, per difendersi contro il partito dell’anarchia. Del resto l’Austria è aliena dal rifiutare la sua adesione a riforme interne, qual mezzo di ristabilire la quiete; ma tali riforme dovrebbero innanzi tutto non ledere la dignità dei Governi Sovrani, e la Sardegna non ha alcun diritto di erigersi a privilegiato censore. Gli anarchisti non cesseranno mai dalla loro opera di distruzione, sino a tanto che troveranno in certi paesi appoggio, e diplomatici che accarezzeranno le passioni rivoluzionarie. L’Austria seguirà imperturbata la sua via e attenderà gli avvenimenti. Pronta ad approvare qualsiasi miglioramento negli Stati italiani, introdotto dai Governi di libero impulso, e a cooperare alla loro prosperità, essa è in egual modo risolta a respingere colla forza qualsiasi attacco, da qualunque parte provenisse, e a dannare all’infamia le imprese degli agitatori e dei protettori dell’anarchia.»

Lastampa inglese, francese, italiana, austriaca e tedesca segui per molto tempo a rimestare la questione italiana, a dar risalto all'atto di Cavour al Congresso di Parigi, e ad accrescere in un modo, oltre ogni credere straordinario, la influenza del Piemonte in Italia. Occorsero parecchi mesi pria che quel fatto non offrisse più materia di note diplomatiche, di discorsi, di commenti, e di polemiche giornalistiche. Tutto ciò contribuendo sempre più a mantenere vivi in Italia l’attenzione e lo amore verso il Piemonte, già da tutti considerata come quella Potenza, alla quale si doveva pur dare quel primato di protettorato italiano, che in mille maniere si aveva acquistato.

Mentre Cavour ritornato da Parigi veniva decorato dalle mani del Re, festeggiato dalle Camere e da tutta la popolazione; mentre la legione anglo-italiana veniva sciolta in Malta e la maggior parte di quei militi partiva per l’America; mentre il Re di Napoli condonava la pena del carcere a molti emigrati politici, e li mandava all’esilio perpetuo, moriva in Firenze il cav. di Cesare la notte del 14 al 13 maggio, rattristando la Toscana e la Italia tutta. Egli, già accademico della Crusca, venerato da Monti e da Perticari lasciava dei preziosi scritti, che attestavano la sua facondia, la sua scienza. I commenti di Dante e di Fico, la Storia di Re Manfredi, Arrigo d’Abate, la Lega Lombarda, le Lettere romane, sodo pregevoli opere di altissima importanza. Anche la musica faceva una gran perdita nel pianista Fumagalli, milanese, il quale aveva pochi emuli, nessun superiore, nell'arte da essolui con tanto amore professata. Egli fu lodato vivo e compianto morto da tutta l'Euterpe d’Europa.

Noi dicemmo più sopra che in Malta veniva sciolta la legione anglo-italiana, e di fatto fu sciolta, ma quel scioglimento costò la vita a molte persone. La Inghilterra arruolava uomini da tutte le parti d’Italia, onde accrescere le sue file combattenti la guerra contro la Russia. Una volta conchiusa la pace alle Conferenze di Parigi, quella legione anglo-italiana non fu più a lei necessaria, epperò la sciolse, guardando il proprio interesse. Ma gli uomini che si erano arruolati non la intendevano già cosi, e per sopra più, non volevano partire per l’America; misura, quest’ultima, forse presa di concerto colla Francia e coll’Austria. Epperò nacque un ammutinamento, che prese estese proporzioni e fu origine di disordini, anche a danno di quelli che non avevano alcuna colpa sullo scioglimento di quella legione. Alcuni tumultuanti legionarii vennero arrestati, ed un picchetto in fazione, dello stesso corpo, tentò liberarli, ma non riusci nella impresa. Il giorno susseguente (6 maggio) i legionarii si unirono in attruppamenti, sopraggiunsero la soldatesca ed i poliziotti, si sfoderarono le spade, e la zuffa sparse il terrore negli abitanti. Varii restarono feriti, qualcuno morto; cedendo alla forza maggiore i legionarii fuggirono verso il luogo d’imbarco a Marsamuscetto. Il disordine fu completo verso la chiesa di S. Agostino e il Manderaggio. I fogli di quell’isola, ligii al Governo inglese, gittarono la colpa tutta sui legionarii. Egli è vero, fu empia e scellerata opera l’usare la forza, le stilettate, le sciabolate, ma altresì non fu bella opera lo sciogliere un corpo, e volerlo deportato all’America, dopo che era si arruolato per versare il proprio sangue sui campi dell’onore a vantaggio dell’anglico Governo. Laonde ma le agi quel Governo, malissimo quei legionarii. Però spesso i fatti tremendi, che poi vengono lamentati, han no origine da un agire con pochi riguardi e poca rettitudine!

Le soldatesche sarde intanto che avevano combattuto con tanto valore la guerra d’Oriente, in più riprese, ritornavano in Piemonte, il generale Lamarmora era gli arrivato. La Camera dei deputati nella sua seduta del 7 maggio approvava a voti unanimi il seguente ordine del giorno:

«La camera ringrazia l’esercito, la flotta ed il generale in capo della nobile e valorosa loro condotta nella guerra d’Oriente, e interprete e partecipe dei sensi del paese, dichiara ch'essi hanno bene meritato della patria.»

Il Municipio di Torino decretava la somma di 50,000 franchi da destinarsi per la festa della distribuzione delle medaglie ai soldati della spedizione di Crimea.

Il Governo inglese spediva al Gabinetto di Torino 15,000 decorazioni da distribuirsi ai soldati sardi, che presero parte nella spedizione di Crimea.

Nella Germania, specialmente, e nell’Austria era invalsa la opinione che il Governo di Napoli e dopo lui altri Governi italiani, avessero spedita una Nota ai Gabinetti delle grandi potenze europee, onde lamentarsi della condotta del Piemonte, facendo osservare che ignoravasi dove, come e quando la Sardegna avesse preso il diritto di formulare accuse contro i Governi italiani, e di erigersi perfino a rappresentare l’Italia tutta. Protestavano quindi, il Governo di Napoli e gli altri Governi italiani, nell’interesse della sovranità delle loro corone. L’Austria intanto si felicitava per l’alleanza, ch’ella diceva d’aver conchiusa colla Francia, resa più cordiale dalla visita del principe Massimiliano Ferdinando, fatta in quei giorni all’imperatore Napoleone.

Il 27 maggio usciva in luce la Notificazione per la costruzione della strada ferrata da Roma ad Ancona e Bologna, concessa dal Governo papale alla Società Casavaldes e Compagni. La Società si obbligava di eseguirla in dieci anni a sue spese, rischio e pericolo. La strada muoverebbe dalla sponda del Tevere alla Porta Angelica, toccherebbe Otre, Terni, passerebbe il colle di Cerro, toccherebbe Foligno, varcherebbe 1 Appenino al colle di Fossato, si avvicinerebbe a Fabriano e si congiungerebbe, seguendo la valle dell’Esino, alla linea di Ancona e Bologna. Se non se, in quel tempo, quelli non erano che pii desiderii, che richiedevano molti anni alla loro realizzazione. Il primo tronco di strada ferrata posto in attività nello Stato pontificio, si fu quello da Roma a Civitavecchia. E giacché parliamo di ferrovie, egli è acconcio il rammentare che il Governo sardo otteneva dai rispettivi Governi la piena ratifica per la congiunzione delle strade ferrate sarde con quelle lombarde. Epperò, il 23 giugno, veniva appaltata al sig. Brassey la linea di prolungazione, compresa fra Novara e la metà del ponte del Ticino presso Buffalora.

Intantoché le società ferroviarie si estendevano quasi in tutta la Penisola, con tanto decoro e profitto nazionale., mollissime altre società di ogni genere sierano già costituite specialmente in Piemonte, in Toscana e nel Regno Lombardo-Veneto. Società di credito, di banche, di case mercantili; società manifatturiere di ogni genere, società di mutuo soccorso pelle vedove, pei discoli, pei lattanti, pelle madri perpuere; società di scienze, di lettere, di arti; società teatrali, industriali, meccaniche, agricole, di speculazione e d’interesse pubblico e privato, le quali, nello stesso tempo che largamente sopperivano ai bisogni dei paesi, davano eziandio chiara prova di pubblica filantropia, di pubblica operosità di pubblica prosperità, di pubblico sviluppo in ogni ramo dello scibile umano. I Governi, eglino pure, vi coadiuvavano per quanto sei potevano, con più o meno alacrità, zelo ed amore. Se essi non davano lo impulso alle imprese nazionali, essi però lo subivano dalla nazione, che le inaugurava con si nobile e lodevole perseveranza, con si vistosi dispendii, con si larghe mire di pubblico vantaggio. Anche la meccanica, la chi mica e l’agricoltura avevano avanzato grandemente; a questo scopo contribuirono le pubbliche esposizioni manifatturiere, che, ad imitazione dell’Inghilterra e della Francia, anche in Italia si erano introdotte ad incoraggiamento delle arti e delle patrie produzioni, coi premii che vi si distribuivano, e colla emulazione che vi si creava. Il Piemonte aveva fatto prodigi! in pochi anni, erogando somme enormi per la introduzione delle riforme ed ammegliamenti che fossero profittevoli tanto al ricco che spendeva, quanto al proletario che lavorava. Gli enti che Soli potevano arricchire il paese, procurando in un corso d’anni più o meno lungo, il benessere sociale, erano industria e lavoro ed appunto i popoli subalpini non avevano altra professione di fede cheindustria, e lavoro. Ma i frutti che se ne avevano nella loro grandezza e prosperità spargevano la invidia nei popoli delle altre parti d’Italia; invidia creatrice di un antagonismo spronatore al ben fare presso i Governi, proficuo presso ai popoli pei vantaggi che se ne ottenevano. Laonde egli è da conchiudere, che lo esempio del Piemonte influì, più che altro, a destare anche negli altri paesi lo amore alla industria ed alla speculazione, fonti inesauribili di mille tesori.

Ora per passare dagl'interessi, direm cosi, domestici della grande famiglia italiana, ai labirinti spesso inestricabili della politica, egli ci è mestieri asserire che in virtù di quanto i plenipotenziarii della Sardegna seppero dire in riguardo all’Italia nel Congresso di Pariglia Francia e l’Inghilterra spedirono Note a Roma, Toscana, e Napoli, raccomandando un cangiamento di politica, e la concessione delle riforme reclamate dallo spirito del secolo e dai bisogni delle popolazioni. Ma quale si fu il risultamento? Toscana e Roma tacquero, e seguirono il loro sistema come quelle Note non fossero colà giunte; e Napoli rispose anche pelle altre due Potenze consorelle, ma rispose in un modo arrogante e caparbio. E la sua risposta potrebbe essere epilogata in questo: Voglio fare ciò che voglio: nessuno ha il diritto d’intromettersi ne’ miei affari. Per la qual cosa quelle Note non ebbero alcun effetto, e le buone intenzioni delle due grandi Potenze si risolsero in un nulla. Quando la piaga trovasi giunta al grado di cancrena non valgono a risanarla le semplici pomate e le blande unzioni, ma richiede i mordenti, il ferro ed il fuoco.

All’8 luglio la r. Commissione militare per lo stato d’assedio della città e comune di Carrara, residente in Massa, radunatasi nella sua residenza nel palazzo della caserma di S. Giacomo, giudicava e condannava, Guidoni Luigi alla pena dei lavori forzati per anni cinque «per avere egli appartenuto alla setta mazziniana dei franchi-muratori, Frammassoni o Massoni, giurando all’esterminio della vera religione, al rovesciamento dei troni, all’assassinio dei regnanti e degli ecclesiastici in generale, e ad altri nefandi delitti; Contadini Lorenzo, Nicodemi Gaetano, Crudeli Luigi, Sermattei Giorgio e Mannini Antonio, alla pena dell’ergastolo per anni venti, perché si permisero, unitamente ad altri facinorosi, armati di fucili, pistole, sciabole, stili ed altro, di assembrarsi nelle notti 13 e 14 maggio 1854 attruppati ad appostamento, su di un prato di Ortola sopra Mirteto, in vicinanza della strada militare, per corrispondere colla loro opera alla rivolta, che in una delle dette notti dovea scoppiare in queste Provincie, per fatto di altri congiurati, che con denari ed armi sbarcar dovevano allo scalò di Avenza; Terrari Tommaso, alla pena dei lavori forzati per anni cinque, perché non denunziò alle Autorità competenti il delitto dei suddetti condannati.» Tutti codesti infelici furono eziandio condannati nei danni e nelle spese. Pegli stessi titoli sopraccennati lo stesso giorno, con sentenza separala, veniva pure condannato all’ergastolo per I5 anni, Celi Francesco, ed altri quattro, il 18 luglio.

Ma dalle sentenze che condannavano in sì fatto modo, con si fatte prove, con si fatta giustizia, gli uomini per tanti anni agli ergastoli ed alle carceri, passiamo a consolare l’animo contristato colle feste del 12 e 13 luglio, che il Municipio di Venezia volle offrire ai cittadini in attestato di esultanza per il lieto avvenimento di una novella principessa testé venuta alla luce del giorno nella imperiale Casa regnante.

Quelle feste consistettero in un corso di barche, rallegrato da musiche bande, da faci e da fuochi del Bengala lungo il Gran Canale dalla punta della Salute fino alla stazione della ferrovia, nella sera del 2; e al 13 v’ebbe una estraordinaria illuminazione a gaz della gran piazza di S. Marco e lungo le volte delle Procuratie, eseguita a cura e spese degli esercenti nei fondachi e botteghe.

Molti altri municipii del Veneto e della Lombardia seguirono quell’esempio, e diedero segni di esultanza per l’imperiale avvenimento. I poveri non furono dimenticati in quella circostanza.

Ma quanto breve fu quella gioia, perocché non ancora erasi deplorata abbastanza la sventura toccata alla città di Brescia per la grandine che devastò le sue campagne, che un turbine proveniente dalla Svizzera, attraversando il lago, si buttò sull’amena vallata del Breggia e colpi per lunga striscia i colli di Pagnana, Nasso ecc. ecc., e con una densa gragnuola, dello spessore di più di un’oncia, abbatté, distrusse qualunque prodotto, ruppe le piante, atterrò le granaglie, rovinò tutto, spazzando Piazza, Maslianico, Monte Olimpino, ed altri Comuni vicini.

Il 9 luglio, moriva in Torino il conte Avogadro Amedeo, autore della Fisica dei ponderabili, prof, di fisica sublime, direttore della sezione fisico-matematica nell’accademia delle scienze, membro del Consiglio superiore d’istruzione pubblica, presidente della Commissione dei pesi e misure, uno insomma fra i più onorandi uomini del Piemonte.

Ai 12 pubblicavasi nella Gazzetta Piemontese il seguente R. decreto:

«Articolo unico — È autorizzata la spesa straordinaria di un milione di lire sui bilancio del Ministero della guerra dell’esercizio 1856, per opere di fortificazione da eseguirsi attorno alla città di Alessandria.

«Tale spesa sarà applicata ad apposita categoria sotto il N.° 79 e colla denominazione; Opera di fortificazione attorno alla città di Alessandria in aggiunta a quelle del suddetto bilancio.»

Anche il generale Filangieri, per commissione del Re di Napoli, faceva un giro nelle Due Sicilie, nello scopo di studiare il modo di fortificare le coste.

Frattanto aveva luogo la grande solennità per l’apertura della strada ferrata da Roma a Frascati, mentre il Times asseriva, che in Ancona fossero all’ordine del giorno gli arresti politici. Quel linguaggio veniva però battuto e ribadito dalla stampa clericale, la quale magnificava invece la tranquillità che si godeva tanto nello Stato pontificio quanto nel Regno delle Due Sicilie.

S. M. I. R. Francesco Giuseppe il 12 luglio, indirizzava al Ministro di giustizia il seguente sovrano Viglietto:

«Caro Barone di Krauss,

«In occasione del parto dell’augusta Mia consorte, S. M. l’imperatrice Elisabetta, Io condono in via di grazia a tutte le persone del ceto civile, già condannate per crimini di offesa alla Maestà Sovrana, di offesa ai membri della Casa Imperiale, perturbazione della pubblica tranquillità (§§ 63-66 del Codice penale), o pel delitto contemplato nel § 300 del Codice penale, ed ordino che per azioni punibili di questa specie, in quanto siano state commesse prima del giorno d’oggi, non abbia ad aver luogo alcun procedimento penale, e che così pure venga senza più desistilo d’ufficio da tutte le inquisizioni oggi già pendenti per alcune delle azioni punibili sunnominate.

«Quest'atto di grazia non sarà però applicabile a quelle persone, che furono condannate ad una pena di detenzione, non soltanto per una delle dette azioni punibili, ina simultaneamente anche per un altro crimine, o per un delitto; o le quali, oltrecché d’una delle dette azioni punibili, appariscono imputate anche di un altro crimine o delitto commesso prima del giorno di oggi, o vengano perciò condannate ad una pena.

«Quest’atto di grazia sarà immediatamente notificato alle parti interessate e posto in esecuzione.

«Laxenburg, il 12 luglio 1856.

«Francesco Giuseppe m. p.»

Egli è dolente il dover rassegnare un’altra grave perdita fatta dall’Italia nell’illustre suo figlio Mario Giardini, spirato a Napoli il 5 del corrente luglio. Egli era professore di fisica in quella R. Università; scrisse molto sopra Cotugno, sull'elettricità animale, sulle induzioni telluriche, sul? induzione magnetica. Fu autore della macchina magneto-tellurico-elettrica, apparato il più potente ed attivo ch’abbia la scienza e che richiami l’attenzione del fisico scrutatore della natura. De-Renzi e Palmieri stesero elogii ben meritati all’illustre trapassato.

Nel 14 luglio lord Clarendon alla Camera dei lordi, e lord Palmerston a quella de' Comuni, proferirono i seguenti discorsi sulla questione italiana:

«Camera dei Lordi

«Lord Clarendon.— Milordi, durante il corso dei due o tre ultimi anni, fu per me un dovere increscevole quello di accogliere con una riserva uffiziale le proposte, ch'erano state sottoposte alle Signorie Vostre sulla politica straniera di questo paese dal nobile e dotto lord Lyndhurst. Tuttavia, le Signorie Vostre comprendono la responsabilità che mi è imposta; ma quando trattasi dell’Italia, la quale ispira a questo paese un interesse cosi generoso, sento una natural dispiacenza di non poter soddisfare il nobile lord, deponendo sul banco i documenti, che mostrerebbero quali siano le opinioni del Governo, e quali siano stati i suoi passi per assicurare un miglior stato di cose in Italia.

«Per mala sorte, la corrispondenza tentata su questo argomento è incompleta. Essa proseguesi ancora, e noi opiniamo favorevolmente del risultato. Perciò io penso che non potrebbe attendersi in questo momento, dalla produzione di questa corrispondenza, altro che inconvenienti per la causa, che il mio nobile amico ha tanto a cuore. Ciò potrebbe por fine alle comunicazioni amichevoli e confidenziali, che si scambiano fra le potenze interessate al benessere dell’Italia.

«Milordi, noi non possiamo migliorare le sorti dell’Italia colle armi. Noi dobbiamo venire ad un accordo con quei paesi, donde il movimento deve partire. Il mio nobile amico ha indicato abusi che non potrebbero venir repressi da una pressione esteriore, ma dai medesimi Governi italiani. Io mi sono sforzato di raccogliere tutte le informazioni che ho potuto sullo stato presente dell’Italia, e dichiaro, di concerto col nobile lord, che la rivoluzione stessa, momentaneamente trionfante, non potrebbe divenire il fondamento di una durevole prosperità. È il nostro più vivo desiderio che le popolazioni d’Italia sappiano approfittare dì un’esperienza recente, e rinuncino a' mezzi, il cui effetto sarebbe di rendere la loro posizione peggiore.

«Milordi, nulla venne fatto dal Governo di Sua Maestà per provocare o per eccitare la rivoluzione. Io sento che sarebbe insieme ingiusto e crudele di eccitare speranze che non potrebbero essere realizzate, o meglio speranze, che non siamo apparecchiati noi stessi a realizzare. Se eccitassimo le speranze in una parte dell’Italia, se la inducessimo ad attendersi da noi aiuto e protezione, saremmo impegnati, io lo dichiaro, a rendere loro questi servigi. E benché io sia pronto a dichiarare che v’hanno casi, ne’ quali l’intervenzione negli affari degli altri Stati diviene, non solo un diritto, ma un dovere, io tengo per regola generale che questa intervenzione debb’essere uh ultimo spediente.

«Con questo spirito, col desiderio di prevenire la rivoluzione e di procurare un pronto sgombro delle truppe straniere dall'Italia, tal argomento venne portato innanzi al Congresso. In realtà il primo passo venne fatto dalla Francia; e ciò, io pensò, può venire riguardato come una pruova che il Governo della Francia desidererebbe di ritirare dà Roma le truppe francesi. lo non posso non risguardare con soddisfazione che tal argomento sia stato portato innanzi ài Congresso, non ostante amare misure. Fui dolente, udendo uscire dalla bocca del mio nobile amico un Espressione di rammarico, perché la questione fosse stata portata innanzi al Congresso, quando i Governi di Francia e d’Inghilterra non dovevano prendere misure vigorose.

«Fu detto che noi non avevamo il diritto di portare questo argomento innanzi al Congresso; che, facendolo, abbiamo discusso l'indipendenza di Stati non rappresentati in quell’Assemblea. Ma noi eravamo pienamente autorizzati ad agitare la questione dell’Italia. Allorché tutte le grandi potenze d’Europa erano occupate nella grand'opera della pacificazione; allorché due di esse s’impegnavano solennemente a lasciare il territorio della Russia; allorché la Grecia, la Turchia ed i Principati stavano per essere liberati dall'occupazione straniera, era impossibile, Io dichiaro, di non volger gli sguardi verso l’Italia, la quale da parecchi anni era occupata da truppe straniere.

«Egli è vero, come il mio nobile amico l’ha fatto osservare, che or son tre mesi questa discussione fu tenuta nel Congresso, ed è vero tuttavia, che fino ad ora, non se ne videro i risultamenti. Ma il mio nobile amico non deve trarne la conseguenza che nulla sia stato fatto. Si è fatto tutto ciò che poteva essere intrapreso nel tempo ch'è scorso. Desidererei poter dire che il risultamento delle nostre comunicazioni col re di Napoli fu soddisfacente. Io nol posso, poiché è impossibile che due Governi trovinsi più in disaccordo di quel che sono il Governo di S. M. e il Governo del re di Napoli.

«Noi gli abbiamo indirizzate le nostre rappresentanze con uno spirito affatto amichevole. Abbiamo dimostrato le nostre ragioni di credere, che Io stato di cose esistente a Napoli, era pericoloso per la stabilità del trono, ed eziandio per la tranquillità dell’Europa. Abbiamo particolarmente insistito sui pericoli, che minacciavano il re, e sulla necessità di una migliore amministrazione della giustizia. Noi abbiamo additato inconveniente, per non dire pericolosa, una politica fondata sopra un ingiusta persecuzione, e sopratutto, abbiamo dimostrato com'era essenziale che tutti i sudditi del re trovassero presso il Governo garantie di sicurezza per le loro persone e pei loro averi.

«Egli è vero che, recentemente, abbiamo ricevuto una risposta a queste osservazioni; ma non abbiamo potuto ancora conferirne coll’imperatore de' Francesi. Fin che non abbiamo determinato al Governo francese il contegno da tenere, sembrami esser meglio di non deporre quella Nota sul banco delle Signorie Vostre, e mi limiterò a dire sulla risposta del Governo napoletano, ch'era impossibile che ella fosse meno soddisfacente.

«Ma, milordi, le questioni di riforma degli Stati pontificii, e la partenza da quegli Stati delle truppe straniere, hanno pur preoccupato le Potenze interessate; e, malgrado l’incredulità del mio nobile amico, debbo dire che, a mio pensiero, il Governo austriaco desidera esso pure richiamare le sue truppe. Il Governo francese lo desidera anch'esso, e questo desiderio è pure sentito dal Governo romano. Perciò non posso credere che scorra lungo tempo prima che tale partenza succeda, e prima che sieno prese misure per prevenire le conseguenze sinistre. Prese tali precauzioni, non vedo perché gli Stati pontificii non potessero far senza dell'occupazione, come lo potè la Toscana.

«Ora, non si è mai fatto esperienza della fiducia, che si poteva avere del popolo italiano, poiché le ottime riforme del Papa attuale sono state travolte dal torrente rivoluzionario del 1848, Sembrami che, se si mettesse oggidì in pratica il proclama del Papa, dato fuori nel 1849 al suo ritorno in Roma, si potrebbe ovviare, nell’amministrazione della giustizia, a tutti gli abusi indicati da lord Lyndhurst.

«Ma, lo ripeto, non si è mai tentato di dare prove di fiducia al popolo italiano. La politica, seguita sinora, fu una politica di timore, fondata sulla minaccia continua di una rivoluzione. Ora, questo non è uno stato naturale di cose. Non è naturale che le nazioni si ribellino contra i loro Governi. Una ribellione contro un Governo, che assicura il suo bene, non fu mai presso alcun popolo, un sentimento nazionale; sostengo adunque che gl’italiani non sotto inaccessibili alla benevolenza; ch'essi desiderano tutti di vedere ristorati i loro mali; e che non sarebbe difficile il governarli, se i governanti tentassero in buona fede di migliorare la loro sorte.

«Dirò, terminando, che al Governo di Sua Maestà era tanto a cuore il miglioramento del popolo italiano, quanto al Parlamento ed al popolo di questo paese; e che tutti i suoi sforzi e tutta la sua influenza saranno impiegati a conseguire tal miglioramento.

«Camera dei Comuni

«Lord Palmerston. Pensò che la Camera non si maraviglierà che il mio nobil amico, lord J. Russell, abbia creduto suo dovere di richiamare l’attenzione della Camera e del paese sulle questioni interessanti, che hanno fatto l’oggetto del suo discorso. Non si può credo, esagerare la loro importanza nello stato attuale dell'Europa.

«Noi abbiamo veduto terminare una delle più grandi forse, e delle più brevi guerre, alle quali questo paese abbia avuto parte. Le Potenze si sono raccolte per discutere e determinare le condizioni della. pace; ed era naturale che esse non ai separassero senza aver rivolto la loro attenzione, oltre che alle questioni sottoposte al loro esame, a quelle pure che sono. d’interesse europeo. Gli affari dell’Italia hanno adunque richiamato la loro attenzione. Il mio nobile amico ha benissimo osservato, che l’occupazione di Stati indipendenti, fatta da truppe straniere, era uno stato di cose anormale, che non poteva venire. giustificato se non da una stringente e diretta necessità, e non poteva prolungarsi al di li della necessità, che l’aveva l'atto nascere.

«L’occupazione degli Stati romani, da parte di truppe straniere, ha dunque naturalmente fermato l’attenzione dei membri del Congresso, e nessun de' suoi membri era meglio in caso di farlo che il rappresentante dell’imperatore de' francesi, le cui truppe prendevano parte a quella occupazione. Era onorevolissimo per l’imperatore de' Francesi di cogliere quell’occasione per esprimere il suo desiderio di veder cessare quell’occupazione, purché si ottenesse l'assenso dell’Austria alla cessazione dell'attuale stato di cose. Il mio nobile amico dice che quelle discussioni non hanno condotto ad un risultamento soddisfacente. Il rappresentante dell'Austria non ha fatto sperare che il suo Governo prendesse qualsiasi misura in tal senso; ha detto inoltre di non avere alcuna istruzione.

«Il mio nobile amico desidera sapere, su tal quistione, come sulle altre, quali siano le intenzioni del Governo di Sua Maestà; se abbiamo l’intenzione di lasciar cadere a vuoto questo affare, o se pensiamo che sia nostro dovere di proseguire fino allo scioglimento. Quali misure abbiamo noi intenzione di prendere? Io penso che il mio nobile amico e la Camera saranno d’avviso, che quando il Governo di Sua Maestà si è unito al Governo dell'imperatore de' Francesi per una manifestazione, ch'ha per iscopo di far cessare quell’occupazione anormale, non avverrà altrimenti, per ciò solo che la loro credenza, dover la ragione vincerla sui pregiudizio, è stata accidentalmente ingannata: non avverrà, dico, che i Governi di due grandi paesi rinuncino a compiere ciò ch'essi credono giusto per principio, saggio in politica, e conforme ai grandi interassi dell'Europa.

«Quali siano le disposizioni, che debba prendere il Governo di Sua Maestà, sono sicuro che il mio nobile amico, più di ogni altra persona, troverebbe poco conveniente ch’io le annunciassi. Ma io non esito a dire che tal questione ci sembra di una grande importanza, e che noi non perdiamo la speranza di raggiungere lo scopo che ci siamo proposto.

«D’altro canto, dicesi che se l’occupazione cessasse, gli Stati romani diverrebbero arena di rivoluzioni e disastri. Sarebbe senza dubbio difficile, a tanta distanza, proferire un’opinione sul valore di simili congetture; ma, ragionando secondo i principii generali, non si può non pensare che tali previsioni sieno esagerate, e che un governo, come quello del Papa, alla testa dei quale è un uomo, di cui conosciamo le intenzioni benevole, e il cui passato ha provato le mire illuminate, sarebbe capace di amministrare in modo d’allontanare le cause di malcontento, che sole producono le convulsioni negli Stati.

«Quanto agli affari di Napoli, mi affligge il dire, che le amichevoli rappresentanze, che sono state fatte dai governi di Francia e d’Inghilterra al re di Napoli, non hanno finora ottenuto alcun successo. Il mio nobile amico ha espresso l’opinione, ch'è un dipartirsi dai principii ordinarii l’intervenire, anche mediante consigli, negli affari interni d’un altro paese, ma che la situazione del regno di Napoli dà sufficiente motivò a questa eccezione dei principii.

«Egli è evidente che, se. la severità e l’ingiustizia dell'amministrazione del regno di Napoli cagionassero la resistenza e la rivolta, che si producono in simili occasioni, e se il re di Napoli fosse nell’impotenza di mantenere la sua autorità, egli invocherebbe l’assistenza dell’Austria. Allora il resto dell’Europa rimarrebb’egli spettatore passivo di tale intervenzione? E se fosse altrimenti, ciò non porrebbe forse in pericolo la pace dell’Europa? Non è questa, per conseguenza la giustificazione degli sforzi amichevoli della Francia e dell'Inghilterra per indurre il re di Napoli a prevenire egli stesso simili avvenimenti?

«Ho detto che i nostri passi non avevano ottenuto alcun successo presso il re di Napoli. Quel Sovrano ha veduto con diffidenza e gelosia un consiglio, procedente dalla Francia e dall’Inghilterra soltanto; ma se lo stesso consiglio gli giungesse da altre parte, egli sarebbe accolto con più fiducia, e noi speriamo che lo scopo dell'Inghilterra e della Francia sarebbe raggiunto. Dico adunque che, cosi per Napoli come per Roma, io non dispero.

«Il mio nobile amico mi scuserà di non seguirlo in tutte le sue previsioni. V’ha tuttavia un’osservazione del nobile lord, ch’io non posso lasciar passare senza darvi il mio assenso. Egli ha detto che il re di Sardegna, prestando cosi nobilmente il suo concorso agli alleati nell’ultima guerra, ha conquistato un diritto ai soccorsi della Francia e dell'Inghilterra se qualche pericolo venisse a minacciarlo, lo non preveggo ch'egli abbia a temere aggressioni; ma posso dire che, s’ei ne fosse minacciato, sarebbe dovere della Francia e dell’Inghilterra di soccorrerlo con tutto il loro potere. Io so che la sola esistenza di questi vincoli di onore tra la Francia e l’Inghilterra da una parte, e la Sardegna dall'altra, bastano a proteggerla, se non contro la minaccia del pericolo, almeno contro il pericolo stesso.

«Il nobile lord ha domandato la comunicazione dei documenti, ma dicendo che, se essa era inopportuna, ei non avrebbe insistito. Io debbo dichiarare che, nello stato presente di cose, ella non sarebbe utile né agl'interessi, che il nobile lord, egualmente che il governo di S. M., hanno tanto a cuore, né al pubblico. Tutto ciò che io posso dire si è che, d’accordo col mio nobile amico nelle sue idee generali, io richiedo il diritto, pel Governo di S. M, di prendere le disposizioni convenienti per conseguire lo scopo propostosi. Il nobile lord può essere sicuro che il Governo di S. M., non ne trascurerà alcuna, che possa essere efficace, e che sia d’accordo coll’indipendenza delle nazioni, per assicurare ai Governi dell'Italia la libertà d’azione necessaria alla loro prosperità.»

Egli è un fatto che il Piemonte, portando la questione italiana al Congresso di Parigi, non ottenne niente di fatto, tranne che parole; ma egli è altresì un fatto che ottenne sanzionata la questione italiana non solo al Congresso di Parigi, ma ancora al Parlamento inglese; che ottenne il riconoscimento da tutta Europa dello stato anormale degli Stati italiani, della pessima amministrazione dei medesimi da parte di alcuni dei loro Governi, dello strazio che si faceva delle libertà, delle volontà, dei desiderii delle persone e delle sostanze dei popoli dalle occupazioni militari, e dalla politica dominante colà; ch’egli ottenne in fine una pubblica sanzione della sua intrapresa, di rappresentante l’Italia, un titolo pubblico di riconoscente appoggio dalla parte della Francia e dell'Inghilterra, ed un dovere di perseverare su quella via, che doveva, in tempi più maturi e con circostanze più favorevoli, condurlo ad esperimentare, a favore dell’emancipazione italiana, la gratitudine della Francia e dell’Inghilterra, accaparratasi con si nobili sacrifizii di uomini e di denari, e constatagli con si nobili e pubbliche promesse e dimostrazioni. Nulla ottenne di fatto, ma molto di forza morale e di diritto di aver bene meritato dell’Italia.

Frattanto, nelle Romagne volevasi far credere, con articoli pubblicati all'uopo sui giornali, essere più che buona l’amministrazione di quegli Stati, e si cercava con ogni mezzo di paralizzare la pubblica opinione, sì estera che interna, sul loro conto. Ma i fatti erano più eloquenti delle ciancie, imperocché i nuovi balzelli imposti sulla carne macellata provocarono disordini tali da richiamare, come il solito, la forza militare, per sedarli quindi cogli arresti, poscia colle condanne. A Forlì il sig. Tiseran, francese, veniva assassinato; a Cesena altri due omicidii di pieno giorno, ed attruppamenti a mano armata per il caro delle carni, e guai se la forza non fosse giunta a tempo, sarebbesi inondato il terreno d'ulteriore sangue. A Meldola dai popolani ammutinati vennero arrovesciati i carri, che trasportavano i grani per l’estero, e maltrattati i negozianti che ne avevano fatto l’acquisto, lasciando la penuria nel paese. Al grido di tanti fatti che tutto dì accadevano nella Romagne, e in aldini altri Stati italiani, come capovolgere l’opinione pubblica a proprio favore? La sentenza fu data; fu data a Parigi nel Congresso, fu data a Londra nel Parlamento, e tutta Europa avevala intesa: era quindi impossibile distruggere l’impressione che fece. Laonde tutto ciò che i Governi di quegli Stati e i loro partigiani poterono asserire e pubblicare in contrario, non servi ad altro, che a sempre più richiamare alla memoria dei popoli la condanna che quei Governi stessi dovettero pubblicamente subire.

Correvano intanto le più strane voci sopra nuovi moti insurrezionali a Massa e Sarzana. Volevansi fatte delle rivelazioni importanti dall’Austria al Piemonte, dietro le quali si fossero scoperte e sequestrate in Novara delle casse di fucili, pistole, stili, cartuccie, diretti per la Lombardia; Il proprietario della casa ove erano deposte quelle armi sarebbe fuggito, il giornale l'Italia e Popolo veniva sequestrato dal fisco, perché pubblicava un articolo, intitolato Il dovere, sottoscritto da Giuseppe Mazzini. Già molti partivano da Genova e da Torino, per poi passare, dalla frontiera di Levante, sul Modenese. Il Governo sardo però aveva preso delle misure onde reprimere sul suo territorio qualunque movimento. Già un cento militi della legione anglo-italiana, provenienti da Malta, sarebbero sbarcati ed unitisi ad altri; da Sarzana e dai paesi circonvicini si sarebbero raccolti alla riviera di Parmignola, sotto ai comandi di certo Ratti. Sul territorio estense dovevano trovare armi e munizioni e popoli insurrezionali. Intanto si dirigevano su Carrara. Disarmarono quattro posti di doganieri modenesi, e s’impadronirono delle armi e dei denari che trovarono alla Ricevitoria di Parmignola. Ruppero i telegrafi e, gridando Viva l’Italia, si avanzarono, parte con armi, e parte senz’armi, sperando di trovarne nel loro cammino insurrezionale. In Genova intanto si perlustravano alberghi e pensioni private nelle notti del 26 e 27 luglio, e si facevano molti arresti. Circolava nella Lunigiana un proclama mazziniano nello scopo di suscitare un nuovo tentativo. Ma la milizia austriaca di riserva, con tre colonne di milizia estense, sostennero una scaramuccia cogli insorgenti ad Ortoaro: questi ultimi ebbero la peggio, e si dispersero pei monti. Nondimeno molti rimasero nelle mani della soldatesca, la quale da parte degli estensi si raddoppiò per viste di precauzione, mentre ai confini sardi presso Otonovo rimase una compagnia di bersaglieri. Il giorno 28 il sindaco di Sarzana riceveva una' rilevante somma di danaro da un uomo sconosciuto, il quale a nome degl'insorti gliela dava, pregandolo Ih trasmettesse alla Ricevitoria di Parmignola perché le era dovuta. Quel tratto faceva chiaramente conoscere che gl’illusi insorti, vedendo di non aver trovato appoggi da parte delle popolazioni, come speravano, desistettero da ulteriori tentativi, e restituirono il rapito danaro a chi si apparteneva. Quelle vampe mazziniane non trovavano più alcuna esca in Italia; quel partito era ridotto agli estremi, perciò il tentativo suaccennato non ebbe alcuna conseguenza deplorabile. Vennero condannati all’ergastolo, come facienti parte di società secrete, con sentenza del giorno 6, Pietro Pellicia, Camillo Barratta e Domenico Dall’Amico, lutti di Carrara; e con sentenza del 10, Zanetti Angelo, e Prandi Luigi, il primo di Massa, l’altro di Carrara; altri 27 individui furono lasciati liberi, ma sorvegliati dalla polizia. Il giorno 13 agosto, usciva in luce un editto del duca di Modena, col quale si estendevano nel Codice penale le attribuzioni di pena e condanna anche, a danno di quegl'individui che fossero in età al dissotto di 21 anno. Una corrispondenza della Lunigiana al Corriere Mercantile di Genova asseriva: che in due anni vennero commessi, soltanto in Carrara, 125 omicidii. In data 11 agosto il Governo estense e l’austriaco conchiusero una convenzione per l’arresto e la reciproca consegna dei delinquenti.

Laquestione napoletana, che provocò le Nate della Francia e dell’Inghilterra, e la risposta del re, anziché sciogliersi coi negoziati diplomatici, addiveniva dj giorno in giorno più seria e complicata. Il re non voleva cedere alla pressione estera, e malgrado i buoni uffizij, che vuolsi operasse l'Austria, a fargli cangiare consiglio. Intanto il primo reggimento granatieri della guardia si ammutinava, minacciando il colonnello Pucci con grida: abbasso il colonnello. E ciò perché quel. superiore aveva sottoposto alle bastonate un soldato ammalato. Vi si è voluta tutta I' autorità di S. A. R. il principe D. Francesco di Paola per sedare l’ira di quel reggimento, inorridito all'atto inumano del colonnello. Ma il re poi faceva punire l'intiero reggimento, il quale secondo lui aveva offesa la disciplina militare, mandandolo a Triano io Provincia di Terra di Lavoro,0 facendo passare in altri corpi gli ufficiali, che si mostrarono ostili al colonnello. Ecco come veniva fatta la giustizia in quel paese.

Distribuivasi il 30 luglio a Parigi una Memoria a tutti i membri del Corpo diplomatico ed a tutti i fogli politici, la quale aveva per titolo: Protesta del solo e vero Principe di Monaco (Carlo Luigi-Enrico-Massenzio, marchese di Grimaldi d’Antibo, ecc. ecc.) contro il falso principe di Monaco (Carlo Goven di Matignon); appello all'opinione pubblica, a S. M. il re di Piemonte, protettore del Principato di Monaco, ed alle cinque grandi Potenze d'Europa, alle quali è deferita ogni questione non isciolta dal Congresso di Pidunà. Quella memoria aveva per epigrafe questo motto di Bossuet:

«ll n'y a point de droit contro le droit.»

Neutre seguiva la distribuzione della suaccennata memoria, intorno alla quale dal pubblico vennero fatte molte risa e pochi commenti, il re di Napoli inviava alle Corti di Francia e d'Inghilterra la risposta alle loro Note da essolui ricevute, e tendenti, come dicemmo, ad ottenere delle riforme consone ai bisogni del regno delle Due-Sicilie. Questa risposta, riportata dalla Gazzetta di Colonia, riprodotta dai giornali di Parigi, di Vienna e dalle Gazzette ufficiali di Venezia e Milano, sarebbe la seguente, che noi offriamo per copia conforme:

«Il re Ferdinando declina formalmente qualsiasi immischiarsi delle Potenze occidentali negli affari del suo regno, perché contrario a tutte le regole del diritto internazionale, e perché lede l’indipendenza e la dignità della sua corona. Appoggiandosi al principio di eterna giustizia, il quale prescrive di non fare ad altri quello che noi stessi non vorremmo tollerare, egli volge le seguenti domande al gabinetto di: Londra, le cui dimostranze sono concepite in un linguaggio più forte, che non sia quello del gabinetto di Parigi.

«Che direbbe mai lord Palmerston se il Governo napoletano osasse di qualificare l’amministrazione del. gabinetto britannico, proporgli una modificazionenella sua interna politica, o raccomandargli l’adozione di più liberali misure verso l’infelice Irlanda, o più umano procedere verso i suoi sudditi Indiani! Che direbbe egli, che mai risponderebbe ai rappresentanti di quella Potenza, che in si fatto modo s’immischiasse nell’andamento del Governo di S. M. la Regina? Al pari della Corte di Napoli, risponderebbe non voler riconoscere in nessuno il diritto o la facoltà di prescrivergli leggi, circa il suo contegno, o permettersi in Suo confronto offensivi rimproveri, 0 piuttosto egli non. farebbe cosi. Lord Palmerston non si darebbe manco la pena di rispondere; anzi, al rappresentante di quella Potenza egli consegnerebbe immediatamente i suoi passaporti. Adunque il re di Napoli, al pari della gran Brettagna, non avrà egli pure il diritto di pensare egli stesso al proprio onore, e a quello de' suoi popoli?

«Per dar prova di condiscendenza e buon volere, agli può ben accogliere aperture, che abbiane per iscopo il rassodamento dell’ordine pubblico; ma allora è necessario che queste aperture succedano con quella moderazione, e con quei riguardi, che si devono ad Un Sovrano libero ed indipendente. Allora è necessario ch'egli solo, e: in qualsiasi circostanza, giudichi sull’opportunità delle misure, di cui gli si raccomanda l’ammissione, e specialmente gli dee essere libero di scegliere egli stesso l’istante per attuarle. Di quanto richiede la. situazione in cui trovasi, e delle necessità «bene emergono, nessuno può meglio giudicare dei re stesso. Sostengono che l’odierna situazione abbisogni di alcuni cambiamenti, di alcune migliorie; (anno valere che la rivoluzione ba ormai cessato di attaccare armata-mano il Governo delle Due Sicilie. Ciò prova anzi tutto che il regime, seguito in suo confronto, e che si biasima tanto acremente, non fu poi cosi inutile e dannoso, come taluni oggigiorno vorrebbero far credere.

«Soggiungono non essere più necessario questo regime. Il re non la pensa cosi, e al suo volere non si potrà usare violenza, a meno che non si voglia riconoscere, come diritto, l’applicazione della forza materiale. Ma allora che sarà mai del principio della regia autorità? E qual valore avranno gli atti emessi da un Governo sotto la pressione straniera? Ogni concessione, per quanto valida, perderebbe in questo caso, qualsiasi merito, qualsiasi effetto. Quindi S. M. il re Ferdinando agisce assolutamente in conformità al vero stato delle cose, se difende le sue prerogative e vuol decidere da solo, ciò che gli èpermesso di fare, e sull’opportunità dell’istante per accingersi all’opera. Questo istante egli invoca dal profondo dell’animo suo; tuttavolta non si può negare che gli attacchi violenti e sistematici della stampa inglese, e le provocazioni slanciate fin. anco dalla tribuna degli oratori, tendono ad allontanamelo ancora per qualche tempo. Con mezzi di similfatta, credesi forse di poter tranquillare le perverse passioni in un paese, che ancora oggigiorno viene coltivato dalle rivoluzionarie dottrine del1848? Eppure, non si può dimenticare che ancor poc’anzi il Gomitata centrale d’Italia poneva a principio non essere menomamente un delitto l'assassinio politico, specialmente quando si tratti di liberarsi da un potente nemico,non si. può dimenticare che questo. medesimo Comitato pose, una taglia sul capo del re di Napoli, assicurando centomila ducatia quel tale che liberasse il paese d’Italia. A fronte di questi fatti, de' quali è ancora si fresca la memoria, 8. M. il re delle Due Sicilie non solo ha il diritto, ma ben anco ildovere di operare colla massima cautela, e di non desistere: con leggerezza da un sistema di Governo, che egli credette di dover adottare, tanto pel bene de' suoi sudditi, che per la sua propria sicurezza.

«Dicono e cercano di provare che la Costituzione del 1848, vigente la quale si propagarono gli orrendi, suaccennati principii, è legge di Stato nel regno di Napoli. Si dimentica però che gl'insorti Siciliani, quando fu loro proposta quella Costituzione, la respinsero con disprezzo, e chiesero quella del 1842. Allora le concessioni del re Ferdinando II non ebbero alcun altro effetto, che di aumentare le pretensioni dei rivoluzionarli in tutta quanta Italia; e i movimenti di Napoli e Palermo furono il segnale alle insurrezioni in Sardegna, Roma, Lombardia, ecc. Forse si desidera di percorrere ancora una volta quel sanguinoso giro di delitti e catastrofi, in cui allora fu gettata l’infelice Italia? La Costituzione del 1848 sarebbe meravigliosamente adatta a riprodurre tutti questi deplorabili fatti. Ma, ponderate maggiormente le cose, ciò non può essere l’intenzione dei Gabinetti di Londra e Parigi, gabinetti. che devono avere per iscopo di conservare la pace e la tranquillità d’Europa, ricomperate a si caro prezzo. Ciò particolarmente non può essere il volere del Governo francese. Dopo aver fatto sforzi cotanto vigorosi per domare la rivoluzione, è impossibile che esso, la voglia incoraggiare in Italia Ciò sarebbe una contraddizione, una smentita alla saggia ed abite politi ca, che si fece valere con tanto successo.

«Francia e Inghilterra vogliano ricordarsi di avere incominciata la guerra d’oriente, appunto per impedire che una Potenza straniera s'immischiasse negli affari della Turchia. Ogni simile ingerenza nel regno delle Due Sicilie sarebbe una strana anomalia e da non qualificarsi. Il re Ferdinando non può e non vuole credervi. Egli ripone ogni sua fiducia nel principioriconosciuto, in si brillante modo, dalle Corti di Parigi. e Londra, e giusta il quale ogni libero Stato, sebbene molto più debole della Potenza, che volesse imporgli i suoi consigli, ha l’incontrastabile diritto di respingere questi consigli, quando fossero una minaccia e un attacco contro la sua indipendenza.

«Il re persiste a tenersi rigorosamente fermo a quanto fu esposto. Qualora però si volesse procedere più oltre, ciò che non è possibile, in questo taso S. M., fidente nella giustizia della sua causa, appellandosi ai patriottici sentimenti ed al suo valoroso e fedele esercito, respingerebbe la violenza colla violenza.»

Quel linguaggio cosi reciso, aspro ed assoluto, provocò, specialmente dalla parte dell’Inghilterra, altre Note più energiche della prima; ma il re Stette irremovibile come una salda colonna nei suo proponimento. E anziché cedere un palmo di terreno in quella questione, si adoperò con sollecitudine ad armare le coste, a chiamare in Napoli 50.000 uomini, col pretesto della funzione annua della Madonna di A’ piè di Grotta, ed a respingere perfino le premure dei gabinetto d’Austria, il quale, come un paciere, vi si mise dentro co’ suoi buoni ufficii per istoriare la tempesta che minacciava di uno scoppio. Essendo ogni sforzo tornato inutile per condurre la ostinatezza di quel re a sensi di riconciliazione, la Francia e l’Inghilterra, passando dalle Note diplomatiche ai fatti, richiamarono da Napoli le loro legazioni, e spinsero in quelle acque lo proprie flottiglie, rompendo per tal modo le loro relazioni con quella Corte.

Anche il gabinetto di Torino rompeva nuovamente il o settembre le sue relazioni diplomatiche col gabinetto di Firenze.

Tutti gli anni, in tempo di vacanza, gli allievi del Collegio commerciale di Genova, co’ loro professori, avevano il costume di fare un piccolo viaggio d’istruzione e diporto. In quest'anno si rivolsero verso la Toscana, e la giunsero, sbarcando a Livorno. Nulla mancava ad essi, le loro carte erano perfettamente in regola; nondimeno dai governo del Granduca, vennero, non respinti, ma scacciali in modo molto inurbano. E per qual motivo si passò da un Governo civile a tanta villania, a tanta ostilità contro fanciulli inoffensivi, ed educati?

In Piemonte, dalle Camere, si erano votate grandi somme per ampliare la fortezza di Alessandria, considerando la perenne permanenza delle milizie austriache nella cittadella di Piacenza una pericolosa minaccia per quel paese. In Alessandria quindi si lavorava con assiduità, sotto la direzione del generale Lamarmora, quando a Norberto Rosa di Susa, e ad alcuni altri animosi collaboratori della Gazzetta del Popolo di Torino, venne la felice idea di aprire una sottoscrizione patriottica, intenta a conseguire i mezzi per l’acquisto di 400 cannoni per la fortezza di Alessandria. Epperò fecesi un appello a tutta Italia onde concorresse a quell'opera. Quell’appello, stampato prima sulla Gazzetta del Popolo, venne riprodotto su tutti i Giornali liberali d’Italia, e destò la emulazione nei patriotti in modo tale, che tutte le città concorsero a mandare somme in Piemonte a quello scopo; ed in pochi mesi vennero raccolte tante offerte per il valore di dugento cannoni. Ciascuna città italiana voile avere il suo, epperò venne obbligalo il fonditore a porre su ciascun cannone il nome della città che ne aveva versato il prezzo, ed a cui apparteneva. Non fuvvi mai una dimostrazione cosi spontanea, cosi estesa, cosi universale, cosi solenne, quanto si fu quella dei cento cannoni per Alessandria. Furono scritti, e pubblicati libri e poesie su tal soggetto dedicandone il frutto allo stesso scopo. I Governi non poterono impedire l'invio del denaro alla Commissione incaricala a riceverlo, a Torino, ovvero ai consoli sardi residenti nelle varie capitali italiane.

Contemporaneamente alla sottoscrizione dei cento cannoni per Alessandria, in Genova se ne apri un’altra dai mazziniani per l’acquisto di 12,000 fucili; ma quella non ebbe esito felice, sia perché trovasse pochi sottoscrittori, sia perché dal Governo venisse proibita.

Il Gabinetto della corte di Toscana aveva già protestalo al Gabinetto di Torino contro quelle sottoscrizioni, considerandole come rivoluzionarie: ma il Governo di Torino non aveva mai risposto alle lamentazioni di lui, giudicandole fuor di luogo e di tempo e come non avvenute. Epperò, risentitosene il Granduca, ordinò, per vendicarsene in qualche maniera, si cacciassero da Firenze gli allievi del Collegio mercantile di Genova, co’ loro professori. Quel tratto inurbano provocò una Nota del conte Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, datalo da Torino 5 settembre 1856, diretta al cav. Gianotti, incaricato sardo d’affari in Toscana, onde la rendesse ostensibile al primo ministro Baldasseroni.

Ecco la Nota:

«Sebbene il Governo Toscano abbia da qualche tempo abituato il Governo di S. M. a quella mancanza di cortesia, per non dire di più, che manifesta riguardo ai sudditi piemontesi, che si recano nel granducato, pure rilevai con sorpresa, dai vostro dispaccio confidenziale in data 2 corrente, lo sfratto brutale dal territorio toscano del Direttore e degli allievi del Collegio commerciale di Genova, che arrivavano a Firenze dopo di aver ricevuta l’autorizzazione di sbarcare. a Livorno, e mostrate le loro carte, firmate in regola dal console del granducato in Genova La mia sorpresa si accrebbe vieppiù, stante lo strano linguaggio usato verso di voi dal sig. Baldasseroni, presidente del Consiglio dei ministri, il quale, invece di disapprovare un atto; inqualificabile, dirige rimproveri e lagnanze, tanto inopportune, quanto mal fondate, che il Governo del re crede dover respingere, corno è suo diritto, con tutti i mezzi in suo potere. Il Governo toscano ha il diritto di rifiutare l’ingresso ne’ suoi Stati ad ogni individuo che non è suo suddito. Il Governo toscano può usare di questo diritto ogni qualvolta vorrà. Il Governo di S. M., non muoverà lagnanze per simili atti e gli abbandonerà al giudizio d’Europa. Ma ciò, di cui si lagna con ragione il Governo di S. M., si è, che i sudditi sardi, muniti di autorizzazione regolare, rilasciata dalle autorità toscane sul territorio sardo, sì&do scacciati dal granducato, senza che abbiano dato un giusto motivo di lagnanza. Il Governo toscano voglia dare ai suoi agenti, accreditati presso noi, istruzioni che consuonino colla sua politica, ma non le ripudii ad ogni istante, allontanando dalla frontiera, facendo sortire dall’interno e ledendo all’evidenza nei loro legittimi interessi, coloro che si trasferiscono in Toscana, contando sulle assicurazioni di persone che. agiscono e parlano in nome del Governo toscano. Il presidente del Governo granducale non vede di buon occhio la sottoscrizione volontaria, aperta negli Stati sardi per far dono al Governo del re di 100 cannoni destinati per le fortificazioni di Alessandria. Ci spiace che una dimostrazione, tendente a provare la fiducia che il popolo piemontese ripone nel suo re e nel suo Governo, non incontri simpatia da parte della persona che occupa il primo posto nel Consiglio di uno Stato amico. Ci spiace che la spontanea e generale cooperazione di tutta la popolazione, e per garantire uno de' baluardi dell'indipendenza del Piemonte, e possiamo aggiungere d’Italia. provochi osservazioni non amichevoli da parte di un governo italiano. Ma su tale proposito non riconosciamo né nel Governo toscano né in nessun altro il diritto di chiedere spiegazioni sopra un atto, che non lo concerne, e non porta pregiudizio ad alcuno, e alla Toscana meno di qualunque altro; la Toscana, la quale nulla ha che fare colle frontiere, per la cui difesa è destinata la fortezza di Alessandria.

«In quanto alla sottoscrizione de' 42,000 fucili, faceste osservare opportunamente al presidente del Governo granducale, che il Governo del Re, vietò la sua continuazione, e che si apersero procedure legali contro i promotori della sottoscrizione; ma il cav. Baldasseroni manifestò il timore che le misure, adottate dal Governo sardo, sieno troppo miti, e che le nostre leggi siano impossenti a punire gli autori del delitto, come meritano. Non dividiamo codesta opinione, e crediamo che le nostre leggi provedano a sufficienza alla nostra sicurezza interna e ai nostri doveri internazionali.

«Il Governo del Re respinge qualsiasi interpretazione, atta a far credere ch'egli disturbi al di fuori, con mezzi diretti od iodiretti, quell’ordine e quella tranquillità, che, come è noto, seppe sempre conservare nell’interno. I disordini e le insurrezioni non provengono dall'esercizio ragionevole e moderato di savie libertà. La storia piemontese di questi ultimi anni ne fornisce esuberantemente la prova. Il Governo granducale sa per esperienza, in quante circostanze la Sardegna aiutò possentemente a prevenire turbolenze ed entro e fuori del suo Stato; e ci sembra che il momento appunto in cui sorti da una guerra sanguinosa, e costosa, intrapresa per la difesa dell’ordine, non sia troppo adattato per accusarla di fomentare turbolenze, li Governo del Re conosce a fondo i doveri internazionali, che lo legano verso. gli Stati vicini, e li adempie scrupolosamente; ma il Governo del Re non è disposto a sacrificare alle domande di altri Stati, fondate su esagerati timori, le libertà di cui godono i cittadini sardi.

«Se comprendo bene il racconto da voi fatto sul vostro colloquio col presidente del Gabinetto toscano, sembra che S. E. siasi espressa in modo da alludere ad Un appello ai Gabinetti e alla pubblica opinione d’Europa. Ignoro se dopo aver bene riflettuto alla sua posizione, il Gabinetto di Firenze persista ancora in questa idea. E se ciò fosse, voi informerete il presidente del ministero toscano, che il Governo di S. M., forte dei suoi diritti, intimamente convinto di avere adempiuto tutti i suoi doveri, e ricordandosi di torti non riparati, hon teme l’esame de' suoi atti, che compie di solito alla scoperta. Informerete’ S. E. che l’opinione dei Gabinetti e dei popoli d’Europa è un giudizio, la cui competenza non sarà mai contestata dagli uomini, che hanno l’onore di essere i consiglieri del Re di Sardegna.

«V’incarico di comunicare questo dispaccio a S. E il cav. Baldasseroni, e dargliene copia, se la desidera.

« Cavour

«Al cav. Gianotti, incaricato d'affari.»

Le medaglie espressamente coniate in onore di Cavour nelle varie provincie italiane, la gara destata ovunque per la sottoscrizione per i 100 cannoni, gli attestali di simpatia e d’affetto che i popoli d’Italia tributarono al Governo di S. M. il Re di Sardegna, com'erano proteste e rimproveri diretti agli altri Governi d’Italia, i quali (almen cosi correa la voce) fecero mandato al granduca di Firenze, ond’ei, per tutti gli altri, formulasse ed indirizzasse protesta al Gabinetto sardo. Quella protesta non avendo ottenuta alcuna risposta anteriore alla Nota di Cavour, che abbiamo riportata, il Governo del Granduca, come dicemmo, per far offesa al Gabinetto di Torino,scacciò dalla Toscana i collegiali di Genova. La Nota Cavouriana però fece un gran senso in tutta Italia, venendo accolta con grande piacere dai liberali. Ma il Baldasseroni rispose, che cacciò i collegiali perché i loro professori intendevano ad una propaganda rivoluzionaria.

In quanto poi alla sottoscrizioue pei cento cannoni, egli il Baldasseroni, chiamavala pericolosa, un movente atto a richiamare in Italia nuovamente la rivoluzione, con dimostrazioni ostili ai rispettivi Governi, per favorirne soltanto uno. Quella Nota del presidente toscano ebbe una controrisposta del conte Cavour, ancora più severa e recisa della prima. Il 20 ottobre il march, Francesco Santi consegnava a S. A. il Granduca una lettera del Re di Sardegna, che poneva fine alla missione, da lui fino allora tenuta presso quella Corte in qualità di ministro residente.

Latassa d'esercizio, o tassa patente, imposta dal Governo romano agli esercenti arti e professioni, destò un grave disordine il mattino del 19 settembre in Pesaro. Tutti gli esercenti arti e mestieri, tutti i bottegai tennero chiusi, in quella mattina, i loro negozii e botteghe, e si radunarono per le piazze e vie in modo minaccioso. Impauritosi il Magistrato della città si presentò alla Legazione, ove non trovò che il vicedelegato, ed a lui raccomandò cercasse il modo di tranquillare la popolazione ad evitare un disordine. Laonde colui mise fuori un avviso, inculcando la moderazione e la calma nei cittadini, facendo vedere, che le imposte sulle patenti non erano poi così aggravanti, da destare un cotale minaccioso contegno. Il Comando militare intanto rinforzò il corpo di guardia, e la guardia delle prigioni, e mandò fuori grosse pattuglie affine percorressero la città, incutendo timore. Quelle misure non valsero, imperciocché gli avvisi vennero lacerati, le grida assordavano e l’assembramento diveniva ognor numeroso e veemente. Guai a chi pagherà le tasse! cosi si gridava, cosi si scriveva sui muri, cosi stava scritto sopra viglietti che circolavano di casa in casa, di persona in persona. Qual esito si ebbe mai quella dimostrazione? Quei capi di famiglia con pochi lavori, con pochi guadagni, colla carezza dei viveri, colla carezza delle pigioni, certamente non potevano pagare quelle lasse senza vendere le loro suppellettili o gli arnesi del loro mestiere; epperò, se, senza armi, minacciavano di tener chiuse le loro officine e di cessare dallo esercizio del loro mestiere piuttosto di pagare ciò che non potevano o che non avevano, egli era certamente da compatirli, ed il Governo doveva prendere in seria considerazione i loro lamenti. Ma il Governo invece, sussidiato dalla forza delle armi estere, fece aprire dalle soldatesche i magazzini, i negozii, le botteghe, costrinse colle minacele, cogli arresti gli esercenti a rientrare nelle loro officine, ed a pagare quelle imposte, sia vendendo gli oggetti di casa, ovvero a mezzo di pegnorazioni. Tutti pagarono e professionisti, e negozianti, ed artieri, cedendo alla forza; ma gli animi loro sempre più s’irritarono contro quel Governo, il quale si allontanava da ogni sentimento di mitezza e di umanità, avendo soltanto in mira di fruire in ogni modo sulle sostanze dei cittadini, immiserendoli cosi, che non avessero più coraggio, né potere di reclamare. Egli era un falso spirito di politica quello di certi Governi, di mantenere le popolazioni nell’impotenza a mezzo della miseria e della ignoranza, onde non avessero ardimento di alzar la testa e di protestare contro gli abusi di potere e la conculcazione de' loro diritti.

Anche al Governo di Roma, dopo il Congresso di Parigi, vennero mandate Note dalla Francia e dall’Inghilterra per ottenere riforme negli Stati pontificii; ma quelle Note non ebbero alcun felice risultamento per quei popoli.

Le flottiglie francesi ed inglesi, che trovavansi nelle acque di Napoli, stavano in attesa di ordini per entrare in quella rada. Il Re intanto riceveva un ultimatum delle due potenze Francia ed Inghilterra, ed aveva alcuni giorni per rispondervi categoricamente. Egli però si era ovunque fortificato, aveva tenuti consigli, aveva posta la città e porto in istato di resistenza, e sembrava dovesse sfidare il mondo prima di cedere ai reclami delle potenze estere. Anche la Russia volle evitare il pericolò, in cui trovavasi quel Re, collo scrivergli salutari consigli, che non furono ascoltati. Il Re anzi proibiva perfino a quelli di Corte ed ai suoi famigliari di parlargli più oltre di concessioni, di arrendevolezze, di riforme, che egli non voleva saperne, scegliendo di pentirsi piuttosto da sezzo, che di cedere all'altrui volontà. Correva voce ch’egli proponevasi di ritirarsi a Gaeta, circondato da 40,000 uomini, e che lasciasse Napoli al Comando militare, con ordini di respingere colla forza qualunque attacco straniero, e qualunque turbolenza interna. Frattanto il barone Brenier, ministro plenipotenziario dell’imperatore de' francesi alla Corte delle Due Sicilie, comunicava il 21 settembre al Governo napoletano le istruzioni, che gli prescrivevano d’interrompere le relazioni ufficiali, e di lasciar Napoli con tutto il personale della Legazione. Quell’esempio veniva imitato anche dal ministro inglese.

Or ecco le varie Note che furono scambiate dai due Governi, napoletano e francese, le quali, come documenti importanti, noi riportiamo, ed anche perché rischiarano la questione, ponendola ne’ suoi veri termini uffiziali.

N. I.

Il sig. conte Walewski al sig. barone Brenier a Napoli.

«Parigi, 21 maggio 1856.

«Signor barone, ebbi l’onore di farvi parte delle legittime preoccupazioni, che si manifestarono nel seno del Congresso di Parigi. Credo di dover tornare oggi su questo punto, a fine di determinare in esatto modo il senso e l’importanza di tal emergente, per quel che concerne il Regno delle Due Sicilie.

«Come avrete osservato, i plenipotenziarii adunati a Parigi, si mostrarono tutti egualmente compresi del sentimenti di rispetto, che animano i loro Governi per l'indipendenza degli altri Stati, e nessuno fra essi ebbe il pensiero di provocare un’ingerenza, od una manifestazione tale da recarvi lesione. Il Governo delle Due Sicilie non potrebbe prender abbaglio sulle nostre intenzioni; ma ei conoscerà con noi, ci giova pensarlo, che i rappresentanti delle grandi potenze d’Europa non potevano, concludendo la pace, mostrarsi indifferenti a fronte di certe situazioni, che lor parvero atte a porre in compromesso la propria opera, in un tempo più o meno prossimo. Unicamente ponendosi su tal terreno; il Congresso fu naturalmente tratto ad indagare le cause, che mantengono in Italia uno stato di cose, la cui gravità non gli parea sfuggire.

«Il mantenimento dell'ordine nella penisola italiana è una delle condizioni essenziali della stabilità della pace; è dunque interesse, ed anzi dovere, di tutte le Potenze di non trascurare veruna cura, né veruno sforzo, per ovviare al ritorno di ogni agitazione in quella parte dell'Europa. In questo riguardo, i plenipotenziarii furono unanimi. Ma come raggiungere tale scopo? Ciò non può essere evidentemente con mezzi, i di cui fatti ce ne rivelano ogni giorno l'insufficienza. La compressione ha rigori, a cui non è opportuno aver ricorso, se non quando sono imperiosamente comandati da urgenti necessità; altrimenti, lungi dal ricondurre la pace e la fiducia, si provocano nuovi pericoli, somministrando alla propaganda rivoluzionaria nuovi elementi di successo. Epperò il Governo di Napoli s’inganna, a parer nostro, nella scelta dei mezzi, destinati a mantenere la tranquillità ne’ suoi Stati; e ci sembra urgente ciò egli si arresti nella falsa via, in cui si è postò. Crediamo superato indicargli le misure proprie a conseguire il fine, che certamente egli ha in mira: ei troverà, o in un’amnistia saviamente concessa e lealmente applicata, o nella riforma dell’amministrazione della giustizia, le disposizioni accomodate alla necessità, che ci limitiamo d’additargli.

«Abbiamo il convincimento che la situazione presente, a Napoli come in Sicilia, costituisce un pericolo grave pel riposo dell’Italia: e tale pericolo, minacciando la pace europea, doveva necessariamente fermare l’attenzione del Governo dell’Imperatore; ei c’imponeva, in ogni caso, un dovere, quello di destare la sollecitudine dell'Europa, e la previdenza degli Stati, più direttamente interessati, ad allontanare contingenze deplorabili. Abbiamo adempiuto questo dovere, prendendo l’iniziativa in seno del Congresso; lo adempiamo egualmente, rivolgendoci allo spirito di conservazione del Governo delle Due Sicilie medesimo, il quale dimostrerebbe le sue buone intenzioni, dandoci notizia delle disposizioni, che stimasse conveniente di prendere.

«Come vedete, i motivi, che ci prescrivono la pratica, che vi è commessa, e di cui avrete a sdebitarvi, d’accordo col ministro di S. M. britannica, son pienamente legittimi; ei sono derivati dall’interesse collettivo di tutti gli Stati europei, e siamo quindi autorizzali a credere che si risolveranno, a Napoli, a prenderli in grave considerazione. Astenendosi di tener conto dei nostri avvertimenti, di cui il Governo dell’Imperatore non cessò di mostrarsi animato verso la Corte delle Due Sicilie, e di provocare per conseguenza, un raffreddamento deplorabile.

«Vi compiacerete, sig. Barone, di dar lettura e lasciar copia di questo dispaccio al ministro degli affari esteri di S. M. Siciliana.

«Ricevete, ecc. ecc. Soli. Walewsky.

«Il sig. commendatore Carafa al sig. march. Antonini, a Parigi.

«Napoli, 30 giugno 1856.

«Sig. marchese.

«Conoscete già pel mio dispaccio del 7 di questo mese N. 278, il riassunto della comunicazione, che mi fu fatta dall'inviato di Francia, il quale mi consegnò in pari tempo, dopo avermene fatta lettura, la copia di un dispaccio, indirizzatogli a tal uopo dal suo Governo.

«Vedrete dalla copia del documento francese, che reputo utile rispedirvi qui inchiuso, come il Governo imperiale intese determinare, facendone l’applicazione agli Stati del re, il senso e l’importanza delle preoccupazioni ch'ei dice essersi manifestate in seno alle Conferenze, tenutesi per la pace, e nelle quali i plenipotenziarii si sono tutti mostrali egualmente compresi dei sentimenti di rispetto, che animano i loro Governi per l'indipendenza degli altri Stati.

«Il conte Walewski, protestando che non si potrebbe dubitare delle vere intenzioni della Francia a nostro riguardo, credette dovere suggerire, nell’interesse della conservazione della pace, la necessità di prevenire il ritorno di ogni agitazione in Italia; il che, a parer suo, non potrebbesi conseguire se non prendendo disposizioni d'amministrazione interna, giudicate acconcie ad allontanare i pericoli, a cui l'esporrebbe un sistema di rigore, che somministrerebbe nuovi elementi di successo alla propaganda rivoluzionaria, aumentando la scontentezza.

«Adoperando in un senso contrario al principio rispettato da tutte le Potenze, il Governo francese crede dover suggerire che la nostra amministrazione interna dovrebbe sottostare a' cangiamenti, ch'ei dice essere superfluo indicare, non lasciando tuttavia di specificare di quale natura esser debbano quelli, che spetta al Governo del re di trovare, siccome proprii ad assicurare la conservazione della pace.

«Non si può comprendere come il Governo imperiale, che si dice bene informato della situazione degli Stati del re, possa giustificare l’inammissibile ingerenza, ch’egli prende nei fatti nostri, colla necessità urgente delle riforme, in difetto delle quali, egli è convinto che lo Stato attuale delle cose, a Napoli e nella Sicilia, costituirebbe un grave periglio per il riposo dell’Italia.

«Nessun Governo ha il diritto d ingerirsi nell’amministrazione interna di un altro Stato, e massime in quella della giustizia.

«Il mezzo immaginato per conservare la pace, reprimere e prevenire i moti rivoluzionarii, è quello appunto che produce le rivoluzioni. E se qualche disordine pubblico potesse succedere o qui od in Sicilia, sarebbe appunto suscitato da un tal mezzo; ed esso il provocherebbe, fomentando tutt’i sentimenti rivoluzionarii, non solamente negli Stati del re, ma ancora in tutta l’Italia, con tale protezione inopportuna, conceduta a' principali agitatori.

«Il re, nostro signore, ha, in ogni tempo, esercitato la sua clemenza sovrana verso un gran numero dei suoi sudditi colpevoli o traviati, commutando la lor pena, o richiamandoli dall’esilio, ed il suo cuore benefico prova il maggior cordoglio nel vedere che la maggior parte degli uomini di tale specie sono incorreggibili; di maniera che, se il nostro augusto Signore potè per lo passato usare della sua clemenza, è presentemente, molto a malgrado suo, costretto, nell'interesse del ben pubblico, a non più esercitarla, a causa dell'agitazione prodotta in Italia dalle suggestioni mal ponderate dei Governi, da cui i nemici dell'ordine si senton protetti.

«Se la calma più perfetta regna adesso negli Stati dei re, ove la rivoluzione trovò sempre, nella devozione de' popoli pel loro sovrano, e nella fermezza del Governo, il più potente ostacolo a' suoi tentativi di discordie, è egualmente certo che i malcontenti non mancherebbero di riuscire nelle loro mene audaci per dar corso alle folli speranze, concepite allo scopo d’immerger di nuovo il paese nel disordine e nella costernazione.

«Il Governo del re, che evita scrupolosamente di ingerirsi nei fatti degli altri Stati, intende esser il solo giudice de' bisogni del suo Regno, ad effetto di assicurare la pace, che non sarà turbata, se i male intenzionali, privi di ogni sostegno, si trovino compressi dalle leggi e dalla forza del Governo; ed in tale maniera soltanto si allontanerà per sempre il pericolo di nuove convulsioni atte a porre in compromesso la pace dell'Italia; ed il cuore benefico del re, nostro signore, potrà trovar l’opportunità e la convenienza di esercitare ancora la sua abituale clemenza.

«Siete autorizzato, signor marchese, a dar lettura di tal dispaccio al signor conte Walewski, ed a lasciargliene una copia, in risposta alla suddetta sua comunicazione.

So tt . Ca r afa.

N. III.

Il sig. commendatore. Carafa al sig. barone Brenier, a Napoli.

«Rapporti, giunti da Parigi e da Vienna, informarono S. M. il re, augusto sovrano del sottoscritto incaricato del portafoglio degli affari esterni, della sgradevole impressione prodotta sul Governo imperiale e sulla Maestà Sua, l’imperatore de' Francesi, dalla risposta del Governo delle Due Sicilie alle comunicazioni, che, da parte dei Governi francese ed inglese, facevansi a Napoli dal cav. Temple e dal barone Brenier, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. l’imperatore Napoleone, risposta indirizzata al marchese Antonini, e che questi ricevette ordine di comunicare a S. E. il conte Walewski, come il principe Carini ebbe ordine di comunicarla a lord Clarendon. Nel dispaccio del 30 giugno ultimo, non s’ebbe mai il pensiero di imputare al Governo francese mire, che non fossero conformi alle guarentigie, date in tante occasioni all’Europa, e si prova il vivo dispiacere che il Governo imperiale abbia scorto in esso dispaccio simile imputazione.

«Il Governo francese, come quello napoletano, e come qualsiasi altro, non ama le rivoluzioni, e su questo punto havvi perfetto accordo, ancorché possa esservi differenza sui mezzi onde prevenirle.

«Nei consigli dati dalla Francia, e dettati dalla sollecitudine per la tranquillità dell'Europa, che potrebbe essere compromessa da turbolenze in Italia, ha trovato il Re una prova novella dell interesse, che l’Imperatore Napoleone volle certamente dimostrare al Re di Napoli; ma, quanto all'efficacia dei provvedimenti da darsi, ed alla opportunità dei medesimi, per ottenere la tranquillità del paese, non era certo un soverchiamente pretendere, riservarne la scelta e l’applicazione al Re, qual giudice più indipendente e più illuminato sulle condizioni di governo, che possono convenire al suo Regno. In questo riguardo, non può esservi opinione discorde, dappoicché tal principio veniva proclamato dalle Potenze medesime.

«Torna inutile ricordare, in quest'occasione, che il Regno di Napoli fu il primo a ripigliare la sua tranquillità, dopo i tristi avvenimenti passati, senza soccorso esterno ecolla sola azione del Governo del Re.

«Si ricevono sempre con riconoscenza i consigli degli amici; magli amici stessi denno comprendere che non puossi indifferentemente applicare ad un paese ciò che ad un altro conviensi. Si può sempre fidare nella saggezza del Re, che è in grado di conoscerne, meglio di qualunque altro, il tempo, le circostanze e l’opportunità; e certamente il Governo imperiale non mancò mai di riconoscere siffatta libertà d’azione indispensabile.

«Il Governo delle Due Sicilie desidera ardentemente di cancellare ogni sgradevole impressione, prodotta nello spirito del Governo imperiale, dalla risposta comunicata dal marchese Antonini.

«Egli ha la massima premura, non solo di conservare col Governo di S. M. l’imperatore la più cordiale e sincera intelligenza, ma ancora di stringere sempre più i vincoli d’amicizia, fortunatamente esistenti fra i due Sovrani, che non possono non essere perfettamente d accordo, per camminar uniti verso il nobile scopo dell’ordine e della tranquillità dei loro paesi, conservando sempre le più amichevoli relazioni, per ciò che può riguardare questo comune oggetto.

«Il sottoscritto, approfitta ecc. ecc.

«Napoli 26 agosto 856.

« Sott. Carafa.

N. IV.

Il sig. conte Falewski al signor barone Brenier, a Napoli.

«Parigi IO ottobre 1856.

«Sig. barone.

«Il Governo dell'imperatore vede con pena che il Governo delle Due Sicilie non sembri disposto a modificare la sua attitudine e soddisfare ai voli, che gli abbiamo espressi.

«Non rianderò le considerazioni, che avevano inspirato al Governo di S. M. imperiale la pratica, i di cui termini sono deposti nel mio dispaccio del 24 maggio scorso. Credo di poter dire non esservi un solo dei gabinetti d'Europa, il quale non abbia reso giustizia alla. lealtà e previdenza dei consigli, che abbiamo fatto intendere a Napoli. Non avvenne uno, il quale non sappia, essere noi stati condotti, in tale circostanza, da verun sentimento ostile, ma avere unicamente operato in un alto pensiero di conservazione e d’interesse generale, la cui espressione non aveva certo nulla di offensivo pel Governo al quale s'indirizzavano. i

«Al Governo dell'imperatore dispiace, sig. barone, che le sue intenzioni fossero mal comprese, e che la risposta del Gabinetto di Napoli ritraesse così nella forma, come nella sostanza, un sentimento, il quale astengo di qualificare, ma che è assai poco in armonia colle disposizioni le quali inspirarono la nostra pratica.

«Noi ci eravamo lusingati che il tempo passato dopo la data della nostra comunicazione, avesse potuto modificare le prime impressioni del Governo delle Due Sicilie, e che guidato dalla riflessione a più equamente giudicare, avesse sentito egli stesso l’opportunità di entrare in una via, che, più ancora dei nostri consigli, il suo proprio interesse ed il bene del suo popolo dovevano eccitarlo a seguire.

«Ma delusa fu la nostra aspettazione. Il commendatore Carafa, è vero, v'indirizzò, il 26 agosto scorso, una nuova comunicazione, concepita in termini più concilianti; ma, quanto alla sostanza delle cose, essa non è più soddisfacente di quella che la precedette. A fronte di una situazione che noi avremmo sinceramente a cuore di evitare, il Governo dell'imperatore, d’accordo con quello di S. M. britannica, giudicò non essergli più permesso, fino a tanto che tale situazione non fosse modificata, di mantenere negli antichi termini le sue relazioni col Governo delle Due Sicilie.

«Vorrete dunque, sig. barone, al ricevere del presente dispaccio, mettervi in istato di lasciar Napoli con tutto il personale della vostra Legazione. La Missione inglese riceve analoghe istruzioni. Consegnerete gli archivii della Legazione al console di Sua Maestà imperiale.

«Tuttavolta, ed a fine di assicurare per ogni evento un' efficace protezione ai sudditi francesi, residenti nel regno delle Due Sicilie, una squadra francese si terrà a Tolone in assetto, per ricevere gli ordini che le fossero trasmessi, nel caso si rendesse necessario di affidarle, a vantaggio dei nostri nazionali, la cura di supplire all'assenza di una protezione ufficiale. Affine di provvedere in tempo opportuno a siffatta eventualità, il comandante di quella squadra spedirà di quando in quando uno dei bastimenti, posti sotto i suoi ordini, a visitare i porli di Napoli e di Sicilia, dove il capitano di quella nave si metterà in comunicazione coi nostri; consoli. Nell'egual intento, il Governo di S. M. britannica conta di far istanziare una squadra nel porto di Malta.

«Vi compiacerete, sig. barone, di leggere questo dispaccio al sig. commendatore Carata, e di lasciargliene copia.

«Aggradite ecc. ecc.

So tt . Walewski.»

Dai documenti riportati risulta, che in principio il re di Napoli alzava superbamente la testa, per doverla poi abbassare, ma restando sempre fermo ne’ suoi principii; e ciò tanto più, perché chiaramente appariva che le due grandi potenze, per quantunque offese, non volevano nondimeno che fare una semplice dimostrazione. Le voci intanto correvano da un capo all'altro dell'Italia foriere di vicine rivoluzioni nelle Due Sicilie, di vicini bombardamenti da parte delle due potenze alleate, di sbarchi di truppe francesi ed inglesi sulle terre partenopee, di proclami muratiani, di abdicazione del re, e di mille altre induzioni possibili pei tempi che correvano, pegli uomini che vi avevano parte, e per l'altitudine presa dalla Francia e dall'Inghilterra. La Italia continentale stava in attesa, preparata a qualunque evento. I partili facevano capolino alle vicissitudini, vestendo quei colori ed aspirando a quei conati, che sarebbono stati loro più acconci. Però nel dì 31 ottobre dava fondo nella rada di S. Lucia a Napoli, proveniente da Tolone, l’imperiale corvetta francese da guerra ad elice, la Duchayla, capitanata dal sig. Longueville con 241 individui di equipaggio; ed il 3 novembre il piroscafo da guerra inglese, il Center, proveniente da Civitavecchia, comandato da Villtam Jean e con 200 uomini d’equipaggio. Alla comparsa di quei due legni da guerra, I agitazione in città fu grande, ma la polizia ed il re avevano già prese le loro misure, facendo moltissimi arresti, ed ordinando a forti pattuglie di scorrere le contrade. Nondimeno la tensione era assai forte e sembrava dovesse da un punto all'altro scoppiare. Ma il re assicuravasi dello spirito delle truppe, dei funzionarii, e dei lazzaroni.

Mentre gli abitanti di Ravenna sfondavano le botti capienti il più prelibato vino di quelle terre, diretto su carri alle famose cantine dei cardinali e dei principi romani; mentre Nizza era addivenuta la culla di sovrani, di principi, e di potentati di tutte parli dell'Europa, colà raccolti per godervi il benefico clima; mentre la imperatrice delle Russie apriva i suoi tesori ai poverelli, agli artisti, ed ai letterati del Genovesato e del Nizzardo; mentre i municipii del regno Lombardo Veneto votavano ingenti somme destinale a pubblici spettacoli, intenti a festeggiare la prossima presenza degli Augusti Sovrani, l’imperatore e l’imperatrice d’Austria, il Governo pontificio, forse pelle Note della Francia e dell'Inghilterra, incominciava a manifestare sensi di umanità e di giustizia condonando la intiera pena, o diminuendola, o cangiandola coll’esilio, dal 1. giugno al 22 settembre, ai seguenti signori:

Grisoi Saverio di Macerata, condannato per allo tradimento, venne graziato del resto di pena.

Ravizza Giulio ed Edoardo di Orvieto, contumaci, ebbero li permesso di ritornare in patria.

Barai Angelo di Roma, condannato a 10 anni per appartenenza a società segrete, graziato del resto della pena.

Baracchini Catterina di Roma, graziata del resto della pena.

Paoli Antonio di Cannara, graziato.

Marchetti Natale di Velletri, esiliato.

Belardi Domenico

id.

graziato del resto della pena.

Martora Giuseppe

id.

id.

Marchetti Filippo,

id.

condannato per cospirazione a 20 anni, venne graziato di anni 6.

Trombetti Francesco,

d'Imola,

graziato del resto della pena.

Baroncini Giovanni

id.

id.

Chiassi Angelo di Roma, esiliato,

Ripari Pietro di Cremona, esiliato a Marsiglia.

Fidanza Diofido di Città di Castello, graziato del resto della pena.

Castarelli Odorico id. id.

Papa Giovanni di Bologna id.

Bernardi Antonio id. id.

Ungarelli Gaetano di Ferrara, grazialo per metà della pena (6 anni).

Taddei Achille, di Roma, grazialo di H anni, restandogliene ancora nove.

Leali Angelo di Acquapendente, cambiata la pena in esilio, indi graziato di tutto.

Blasi Antonio


Fortuna Filippo

prima esiliati, poi graziati.

Mazzoni Luca



Garelli Luigi


Palladini Ciro

prima esiliati, poi graziati.

Cialliani Antonio


Damiani Luigi


Pasgualini Vincenzo


Novelli Antonio

graziati del resto della pena.

Cascapera Giovanni


Mancini Antonio


Nella causa Velliterna di cospirazione furono 23 i condannati, ma 46 i graziali; e nella causa del 15 agosto, un Derni, un Croce, un Baracchini vennero condannali a 10 anni, ma non ne espiarono che due e mezzo.

Quei sensi di vita umana del Governo clericale, riguardo ai condannali politici, aprivano il cuore dei regnicoli alla speranza di nuove concessioni, che fossero in relazione coi tanti bisogni dello Stato e colle legittime esigenze delle popolazioni. E mentre colà vivevasi in tali lusinghe, nel Regno Lombardo-Veneto invece s’incominciava a sentire l’influsso della vicina visita dell’imperatore. E difatti una sovrana Risoluzione del 2 novembre poneva in attività le Rappresentanze legali del Regno, aumentando le loro attribuzioni nelle varie sfere della pubblica amministrazione. Ecco la Notificazione riguardante le più recise determinazioni sulla sfera di attività, ed il trattamento degli affari delle Congregazioni centrali del Regno Lombardo Veneto

«Ordinanza Imperiale del 2 novembre 1856.

«Intorno alla sfera d'attività delle Congregazioni centrali del Regno Lombardo-Veneto, riferendomi al paragrafo 4.° della Mia Ordinanza del 15 luglio 1855 (N.° 130 del Bollettino delle Leggi dell'impero). Io trovo, dopo sentiti i Miei Ministri, ed udito il Mio Consiglio di Stato, di determinare in appendice quanto segue:

«§ 1. Da ora in poi fanno parte del mandato delle Congregazioni centrali, indicato nei §§ 22 e 23 della Patente 24 aprile 1815 anche gli affari del Fondo provinciale, instituito nell’anno 1852 per ogni territorio amministrativo di una Luogotenenza, verso osservanza delle prescrizioni per esso emanate.

«La cooperazione consultiva delle Congregazioni dee quindi specialmente abbracciare tutte le pertraltazioni, che hanno ad oggetto:

«a) La dimostrazione, conservazione ed uso opportuno del patrimonio del Fondo provinciale, e l'assegnamento su quel Fondo di obbligazioni e spese, che ad esso già senz’altro incombono;

«b) Il cercare i mezzi e le vie per coprire le spese introdotte nella via prescritta dal preventivo del Fondo provinciale;

«c) Il fare il progetto e l'esame ed esaurimento della chiusura di conto, degl'introiti e delle spese del Fondo provinciale. Le Congregazioni centrali sono autorizzate eziandio ad ispezionare quei ricapiti dei conti, che riguardano la gestione delle Congregazioni provinciali e dei Comuni, che immediatamente retroagisce sulle esigenze del Fondo provinciale;

«d) La domanda se una esigenza della pubblica amministrazione debba essere in tutto od in parte supplita dal Fondo provinciale, se debba essere imposta ad uno o più Comuni, o se debba essere coperta in altro modo.

«e) Nel caso di spese straordinarie non prevedute nel preventivo del Fondo provinciale, lo esporre ed esa496 minare i motivi, che stanno a favore o contro la necessità ed ammissibilità di tali spese.

«§ 2. Con riguardo all'ampliata competenza delle Congregazioni provinciali, ed alla Ordinanza del 30 marzo 1856 (Bollettino delle Leggi dell'Impero, N. 42) relativa alla sfera di attività delle Luogotenenze, lo trovo in particolare di determinare, che dalle Luogotenenze debbano essere sentite le Congregazioni centrali:

«a) in quegli affari, relativi alla sostanza dei Comuni e degli stabilimenti di beneficenza, che stanno sotto l’ispezione dello Stato, nei quali la Luogotenenza, secondo la sfera di attività che le spetta, dee decidere o dee invocare la superiore approvazione o decisione;

«b) Nel fissare i progetti e le chiusure dei Conti delle Città Regie, come pure delle altre città, che hanno Congregazioni municipali.

«§ 3. Oltre a ciò, rimaner dee inalterata f obbligazione, in generale spettante alle Congregazioni centrali, di dare il loro parere su quegli oggetti di pubblica amministrazione, in riguardo ai quali la loro opinione consultiva viene richiesta dal Luogotenente o dalla Luogotenenza, di proprio moto, od in seguito ad ordini superiori. Le Congregazioni centrali ed i membri di esse sono eziandio tenuti a dare la loro cooperazione in quegli affari, che vengono ad esse assegnali da speciali disposizioni di legge, fuori della regolare loro sfera d’affari.

Ǥ 4. In riguardo alle imposte dirette erariali, alle Congregazioni centrali, avuto riflesso agli ordinamenti ed alle leggi sulla esazione delle imposte ora esistenti, ed avuto riflesso allo stato delle operazioni del Catasto, vengono assegnate per parere:

«a) Le pertrattazioni di perequazione fra le parti di territorio del Censo nuovo e del Censo vecchio;

«b) L’approvazione dei contratti, stipulati per più di un anno cogli esattori comunali, quando la provvigione di esazione sorpassi il 3 per 100.

«c) La determinazione delle addizionali per affrettare il compimento del catasto civile.

«Vienna, 2 novembre 1856.

«Francesco Giuseppe m. p.

«Co. Buol-Schauenstein, m. p.

«Bar. di Bach, m. p.

«Per ordine Sovrano, Ransonnet,m. p.

Il 9 novembre le lettere e le scienze, specialmente filosofiche e filologiche, facevano una gran perdita nella persona di Francesco Orioli, mancato a' vivi in Roma, ove nella qualità di professore di archeologia nella Università romana, e colle sue altissime dottrine, seppe riscuotere grande venerazione e rinomanza, che gli procurarono lauri ed onore da tutte parli della culla Italia. La morte di quel venerando scienziato spiacque amaramente a tutti i partiti. Non minor dolore provarono i toscani alla morte, avvenuta in Firenze il 20 novembre, dell’avvocato generale alla Corte di Cassazione, Giovanni Antonio Venturi, dottissimo giureconsulto, morendo con esso anche la scuola dell’antica giurisprudenza toscana.

Ma dalla morte che ci rapiva i nostri più illustri cittadini, passando alle lagune della Venezia, ci corre obbligo di registrare l’arrivo in quella magnifica città dei dogi, dell'augusto Imperatore d’Austria coll'augusta sua Sposa. Prima però di seguire la eccelsa coppia nella loro visita al Regno Lombardo-Veneto, ci è mestieri porre in luce lo stato morale degli abitanti e le loro disposizioni nell’ospitare le LL. MM.

Le popolazioni lombardo-venete si erano dedicate, come dicemmo, con tutta la loro attività e solerzia ad erigere patrie istituzioni di pubblico vantaggio, a comporre e mettere in pratica tutte quelle migliorie ed innovazioni, che, arricchendo il regno, gli davano eziandio lustro e rinomanza. Laonde la loro dedicazione così assidua, cosi incessante nelle utili speculazioni, non concedeva né agio né tempo, né volontà di occuparsi della politica dominante. D’altronde il loro partito era preso da una parte della popolazione, ed era quello di lasciare maturassero i tempi, il Piemonte continuasse nella intrapresa carriera, per poi rispondere, quando che fosse, ali invito di lui. Un’altra parte della popolazione invece, veduto che la politica europea era conservativa; veduto che il Piemonte,quantunque si fosse elevato al disopra di ogni altro Stato italiano, quantunque avesse eminentemente aumentata la sua influenza, il suo credito, il suo nome, la sua gloria, nondimeno, non essendo le sue interne prosperità ancora giunte a tale, da potere agevolmente, non che porsi a novelle prove, a novelli cimenti, nemmeno al ristauro delle proprie finanze, era più propensa a favorire la venuta del monarca che ad osteggiarla, sperando con ciò di trovare nuovi enti di risorsa nazionale.

Ma il clero, gl'impiegati, e tutti quelli che direttamente od indirettamente v’avevano interesse, cercavano, in uno alle Luogotenenze, alle Congregazioni centrali e provinciali, alle Delegazioni, ed ai Commissariati, di persuadere che l’arrivo delle LL. MM. sarebbe la inaugurazione di una nuova era, sarebbe il risorgimento del regno, attese le grandi concessioni che in tale circostanza verrebbero elargite. Era già mollo tempo che preparavasi l'attenzione pubblica in questo senso, onde rendere desiderato tra i popoli l’imperiale arrivo. Si seppe dare a quella visita un prestigio cosi grande, cosi affascinatore, che il popolo ne restò abbarbaglialo. Expero dicevasi: vedremo, se saranno rose spunteranno. In tale persuasione, in tale aspettativa, i popoli lombardo-veneti stettero calmi e dignitosi attendendo il preconizzato fausto evento. Le polizie intanto vollero, in forza di preventive cautele, depurare la società, ammonendo od accarezzando gli uomini, da essoloro stimati pericolosi, arrestando i discoli, i precettati, i vagabondi, i sospetti, perfino i monelli delle vie, e tutti quelli, ehe, nulla avendo a perdere, avrebbono potuto farsi stromenti di rumori e sconvolgimenti. In Venezia furono oltre a 500 gli arresti operati nella settimana prima dell’arrivo dell’Imperatore. Le somme che si spendevano dai Municipii pei preparativi, gli avvisi che si affiggevano pel pubblico dalle Luogotenenze e dalle Direzioni delle. polizie dimostranti gli spettacoli che sarebbonsi dati pél grande arrivo, gl'itinerari del viaggio e delle visite che avrebbono fatte le LL. MJJ., il moto, lo affaccendarsi dei municipii, dei dicasteri, del militare, della marina; l’andirivieni di staffette, di corrieri, di vapori, di ordini contrordini, tutto insomma serviva allo scopo di preparare gli animi, di eccitare le curiosità, di attirare le attenzioni, di cattivare i pubblici desiderii.

Ciò premesso, noi ora torremo dalla Gazzetta di Venezia la narrazione dell'arrivo delle LL. MM. In quelle lagune, meritevole di essere riprodotta.

«Il trionfale ingresso dell'Augusta Coppia Imperiale presentò uno spettacolo cosi grande, cosi singolare ed imponente, che, noi, storici veritieri e fedeli, tenteremmo invano di descrivere a parole.

«Già, fino dalle ore due del pomeriggio (29 novembre) il lontano tuonar dei cannoni annunziava che l'imperiale e regio naviglio da guerra, il quale recava da Trieste alle nostre sponde gli Augusti Sovrani, appressavasi al porto di Malamocco. Mossero allora alla volta dei pubblici Giardini la gareggiante e le otto bissone municipali, le peote e le bissone del clero, del commercio, delle arti, e dei nobili ed agiate famiglie, ed un infinito numero di barche minori fornite, e di gondole; imperocché i cittadini tutti di ogni classe ed ogni condizione accorsero giulivi ad incontrare e festeggiare i ben venuti Ospiti Eccelsi.

«Noi non abbiamo allori verdeggianti per innalzare archi fronzuti e fiorili: il nostro elemento è il mare, e Venezia, nata quasi per incanto fra le acque, è su queste che sfoggia le vetuste sue pompe, e ravviva la memoria di una non perduta grandezza. A significare pertanto il giubilo, ond'era tutta compresa per l'onore di possedere la sacra persona di S. M., il cavalleresco suo Imperatore, e dell’augusta Imperatrice, quest'antica donna dell’Adria si ammantò delle sue più splendide vesti, e nessuno ricorda un incontro più magnifico e numeroso. Sarebbe opera lunga e difficile l'annoverare le barche pompose, che fecero di sé bella mostra, ma non possiamo tacere delle più vaghe e distinte. Primeggiava fra tutte la galeggiante municipale, che raffigurava un ricco ed elegante padiglione, sorretto da otto colonne, ricco di specchi, d’ori, di velluti e di seriche cortine, serbata all'alto onore, come diremo, di trasportare le LE. MM. al punto dello sbarco in Piazzetta. Accenneremo le otto bissone per il municipio, tra cui quella condotta da dodici rematori vestiti riccamente di velluto, alla foggia così detta vallona; la bissona del cav. Giacomo Treves de Bonfili, quella della Camera di commercio, e l’altra di Andrea Fassi; le due sfarzose peote del principe Giovanelli, e del conte Giovanni Papadopoli; le due peote non meno vaghe e distinte della Camera di commercio; le altre due peote del Capitolo Metropolitano dei canonici di S. Marco e del veneto clero; quella delle Società unite delle conterie, e l'altra del sig. Antonelli con tipografia e litografia ambulanti. che stampavano i ritratti degli augusti Sovrani, poesie allusive alla faustissima circostanza, e le dieciotto barchette graziosamente ornate della Società dell'arte edificatoria, e varie gondole sfarzosamente fornite, mollissime di famiglie patrizie, con lo stemma gentilizio vagamente o dipinto o trapunto.

«Intanto che le accennate barche si radunavano alla punta dei Giardini, e di là in lunga fila si distendevano in quell'ampio bacino verso il canale di S. Marco, una immensa popolazione si affollava sui. muricciuoli di cinta dei Giardini stessi, che prospettano la laguna, nei cantieri e sui navigli mercantili, che ne occupano 1$ sponda sino al ponte della Veneta Marina, e lunghesso tutta la Riva degli Schiavoni, sino alla Piazzetta. I ponti, le fondamenta, le finestre, le terrazze, e fino i tetti delle case, tutte adorne di damaschi e di bandiere, erano affollati e gremiti di genti ansiose di salutare ed acclamare l’Augusta Coppia. Finalmente, alle ore tre e mezza pomeridiane, il più spesso e vicino fragore dei cannoni, il suono festoso dei sacri bronzi, i viva del popolo esultante e gli urrà dei marinari disposti sui pennoni dei navigli da guerra, pavesati a festa, annunziarono l’arrivo delle LL. MM., che erano state ossequiosamente incontrale dal Governatore militare, S. E. cav. Gorzkowski. generale di cavalleria. Fu un momento solenne, uno spettacolo sublime e forse unico, perché, proprio di questa singolare città, quando l’i. r. fregata a vapore l'Elisabetta, scortata dall’i. r. flottiglia, sotto il comando dell’i. r. contrammiraglio cav. di Bujacovich, arrivata sino alla punta dei Giardini, fu avvicinata dalla galleggiante municipale, in cui le loro Maestà si degnarono di scendere in unione a S. A. I. R. l’Arciduca Ferdinando Massimiliano, Comandante superiore dell’i. r. Marina. Ivi, il conte Giovanni Correr, podestà di Venezia, indirizzava umilissimamente al magnanimo Imperatore queste rispettosissime parole:

«Sacra Maestà!

«Degnatevi accogliere, o Sire, il devoto omaggio, che per mia bocca vi esprimono i cento e più mila abitanti delle Venezie. L’intera città esulta e va superba di accogliere e possedere la sacra Persona della Maestà Vostra Imperiale, e dell’augusta Imperatrice; ma questo giubilo, che Voi, Maestà, scorgete d’intorno, non è che una pallida immagine di quella gioia che provano i miei concittadini.

«Accolto benignamente il devoto omaggio dal clemente Monarca, si mosse lentamente la galeggiante, superba di portare nel suo seno gli amati Sovrani, i quali, in piedi sulla prora del legno avventuroso, contemplavano con visibile soddisfazione quel grande spettacolo, reso più gradito dalla placidezza delle acque, quasi obbedienti, e dalla mitezza dell’atmosfera, ed accoglievano coll’innata loro grazia ed affabilità le acclamazioni ed i viva, ond’erano festeggiati dal popolo accalcato sulla Riva e sulle barche. Imperciocché sorta era fra le acque pressoché un’altra città, od isola natante, che dir la si voglia, tanto erano fitte le bissone, le peote e le altre infinite barchette, che circondavano e seguivano la galeggiante.

«Appressatasi questa alla Piazzetta di fronte a quello stupendo monumento della veneziana grandezza, ch'è il Palazzo ducale, le cui vaste gallerie superiori erano anguste all’immensa folla che le ingombrava, mentre il verone principale era occupato da alcune rispettabili dame, e dall’eminentissimo Cardinale, monsignor Viale Prelà arcivescovo di Bologna, qui inviato espressamente da S. S. per felicitare le LL. MAI. del loro arrivo in questo Dominio della Corona. Raddoppiarono intanto le grida e le acclamazioni, e tuonavano i cannoni dei legni da guerra e dell’isola di S. Giorgio, e suonavano a distesa le campane della torre di S. Marco, cui facevano eco tutte quelle della città, sino nelle contrade più remote. Discese le LL. MAI. II. RR. sull’apposito pontile, eretto alla sponda della Piazzetta, ivi ricevettero l’omaggio delle LL EE. il Governatore Generale, feld-maresciallo co. Radetzkv, e co. di Bissingen, Luogotenente delle Venete Provincie, delle cariche di Corte, e della nobiltà. Indi il cortèo, nel già prestabilito ordine, si diresse alla Regia Basilica di S. Marco, sulla soglia della quale S. E. mons. Multi, Patriarca, ricevette le LL. MM., che ivi erano attese dall’I. R. Autorità. Alle preghiere, che i religiosissimi Sovrani innalzavano a' piedi degli altari, mentre il pio Patriarca intuonava l’inno ambrosiano, rispondevano in quell’istante migliaia e migliaia di sudditi devoti. Compiuto l’atto devoto, ed uscite le LL. MM. dalla veneranda Basilica, precedute dalle li. RR. Autorità sino ai piedi dello scalone del Palazzo Imperiale, ed accompagnale dallo stesso corteo, attraversarono la Piazza di S. Marco, sui due lati maggiori della quale erano schierate le II. RR. Truppe della guarnigione, mentre sotto le gallerie (procurane) e sulle finestre delle procurane vecchie un’altra folla immensa e compatta le acclamava e rispettosamente le salutava ecc. ecc.»

L’Imperatore Francesco Giuseppe più volte fu visto solo, od accompagnato dalla sua consorte, senza scorta, passeggiare per la piazza di S. Marco ed in altri luoghi. Fu visto in chiesa, anziché assidersi sui pomposi scanni d’oro e porpora sfarzosamente apparecchiati, starsene sui panchi del popolo, a questo frammischiato, sorridendo senza alcuna alterezza quasi fratello che si compiaccia del fratello vicino. Fu udito rimproverare le guardie della polizia, perché da lungi lo sorvegliavano, ed imporre loro di allontanarsi. Fu visto visitare le chiese, i dicasteri, gli uffizii, i luoghi pii, le scuole, l’arsenale, gli opifizii, le prigioni, le accademie con affabilità e colla tanto piacente e tanto proficua curiosità di tatto voler conoscere, di tutto esaminare, sindacare, notare. Liberava dalle prigioni tutti quelli che poc’anzi la polizia aveva arrestati, colmando di gioja le loro famiglie.

Il Governatore generale del Regno, conte Radetzkv, accordava, il 1. dicembre, agli esiliati nob. Ottavio Tasca, D. Costantino Zalli, e Faustino Aricci l’impune ritorno negli II. RR. Stati, e lo scioglimento dal sequestro sopra le loro sostanze.

S. M., coi seguenti atti, entusiastava le popolazioni della Venezia:

«Caro Feldmaresciallo conte Radetzky.

«Trovo di condonare, per atto di grazia, intieramente la pena ai seguenti condannati per alto tradimento, o per altre azioni criminose contro l’ordine pubblico:

Finzi Giuseppe

Cagliari Girolamo

Flora Paplo

Cesconi Domenico

Paganoni Giuseppe

Pastro Luigi

Facci oli Giulio

Cavaletto Alberto

Mangili Angelo

Rossetti Francesco

Fernelli Domenico

Lombardi Paolo

Mori Attilio

Longoni Paolo

Lazzati Antonio

Nova Giuseppe

Bosio Ferdinando

Veladini Paolo

Zannucchi Omero

Sabbioni Carlo

Nuvolari Giovanni

Galli Agostino

Malaman Giovanni

Merini Giuseppe

Marchi Carlo

Girotti Carlo

Pedroni Lisiade

Strada Francesco

Dolci Luigi

Negri Siro

Vergari Giovanni

Giussani Ambrosio

(recte Swoboda)

Brusa Giuseppe

Marcili Carlo

Petenati Paride

Peroli Carlo

Rastelli Serafino

Pagani Luigi

Bernarda Giovanni

Ferini Carlo

Fraquelli Giacomo

Campanaro Pietro

Fraquelli Gio. Batt.

Triboldi Andrea

Fraquelli Pietro

Bosetti Luigi

Bianchi Giovanni

Morer Giovanni

Faggi Giovanni

Mazzolini Carlo

Geninazzi Giacomo

Bellini Carlo

Grandi Andrea

Poggiani Angelo

Leoni Antonio

Morbini Antonio

Nava Luigi

Goseo Gaetano

Cordoni Giovanni

Scaltriti! Giuseppe

Chiesa Marco

Pagani Francesco

Mapdelli Gaetano

Longato Vincenzo

Spernazzati Francesco

Ghirlandelli Giacomo

Gariboldi Giuseppe

Salis Ulisse

Aluisetti Giuseppe

Zanetti Antonio


Venezia 2 dicembre 1856.

«Francesco Giuseppe m. p.

«Caro Feldmaresciallo conte Radetzky.

«Ho risolto di levare ora totalmente il sequestro, al quale, in data 13 febbraio 1853, vennero assoggettate le sostanze dei profughi politici del Mio Regno Lombardo-Veneto. Ella emetterà tosto le opportune disposizioni, affinché tali sostanze, tuttora vincolate al sequestro, vengano restituite a quelli, che si legittimeranno quali mandatarii dei rispettivi proprietarii. In pari tempo La autorizzo, anche per l’avvenire, a decidere sulle istanze dei profughi politici per impune ripatrio e per riammissione alla cittadinanza austriaca, in quanto l’avessero perduta, e ad accordar loro l’implorata grazia, qualora i supplicanti promettano, mediante rilascio di una reversale, di comportarsi ognora da sudditi leali e fedeli.

«La incarico di pubblicare immediatamente il presente mio Sovrano Rescritto.

«Venezia, 2 dicembre 1856.

«Francesco Giuseppe m, p.

«Caro Feldmaresciallo conte Radetzky.

«Per sopperire al bisogno di maggiori lavori, che mostransi necessarii pel ristauro della Basilica di S. Marco, accordo un importo annuale di fiorini 20,000 (ventimila).

«Qualora nel corso degli anni, tale somma, da Me destinata allo scopo suddetto, cessasse d’essere per intero od in parte a ciò necessaria, ne dovrà l’intiero importo, od il sopravanzo, essere capitalizzato in aumento dell’attuale sostanza della Basilica di S. Marco, e dovranno gl’interessi relativi essere impiegati sempre per la manutenzione del fabbricato della chiesa stessa.

«Mentre partecipo questa Mia Risoluzione al Mio Ministro dell’interno, La incarico a disporre l’occorrente, onde la medesima abbia effetto.

«Venezia, 2 dicembre 1855.

Francesco Giuseppe m. p.

«Caro conte Bissingen.

«Condono il resto della pena ai seguenti condannati, degenti in Casa di pena maschile alla Giudecca:

Ferdinando Apollonio

Giuseppe Gardin

Gaetano Bergamaschi

Sante Padovan

Romano Bertan

Sante Pizzini

Pietro Colla

Pietro Rui

Fidenzio Chiovatto

Gio. Maria Spangher

Bartolammeo Dugato

Giovanni Secchieri

Alvise Finetto

Alvise Tolotti

Pietro Innocente


la metà dell’intiera pena ai condannati

Pietro Ranzato

Agostino Fontana

ed un terzo dell’intiera pena a

Giovanni Mellon.

«La incarico di mettere tosto in esecuzione questo atto di grazia, del quale dò in uno partecipazione al Mio Ministro di giustizia.

«Venezia, 5 dicembre 1856.

« Francesco Giuseppe m. p.

Con altro moto proprio dell’8 dicembre, diretto al Presidente del Tribunale d’Appello in Venezia, condonava la pena del carcere duro a Girolamo Trevisan, condannato per crimine di offesa Maestà Sovrana, di perturbazione della pubblica tranquillità dello Stato, e di sedizione.

Due Notificazioni luogotenenziali venivano pure pubblicate, l’una intenta ad accordare ai privatisti la frequenza alle ii. rr. scuole di lingua tedesca negli ii. rr. Ginnasii, e l'altra ad accordare loro la legalizzazione degli studii trascorsi privatamente, mediante esami semestrali nei Ginnasii, ove però sarebbero stati arruolati i privatisti sino dal principio dell’anno scolastico.

Con due autografi sovrani, il primo in data del 22, condonava ai condannati degenti nelle carceri di Rovigo il resto della pena a Pietro Schiesari, Gaetano Barbio e Giuseppe Nardo; e riduceva alla durata di un solo anno la pena di Agostino Rancara e di Fortunato Bozza, ambedue condannati a più anni di carcere duro; il secondo in data del 23 condonava il resto della pena a Boscaini Barbara, Gerardi Maria, Meyreggar Carolina, Sinigaglia Antonia, Colombo Rosalinda; un terzo della pena a Colia Rosa, Povicelli Catterina, Menon Vincenza, Bedan Giuditta, Ghiarissich Giustina, tutte degenti nella Gasa di pena per le femmine alla Giudecca.

S. M. elargì somme assai grandi agli asili di beneficenza, ai luoghi pii, beneficò privati e pubblici stabilimenti, fece molte nomine e promozioni, e dispensò somme di. denaro ai poveri, e decorazioni ai ricchi.

Sotto il fascino di tante beneficenze il popolo veneto non potè contenersi, e come un'onda che rotto abbia l’argine che le resisteva, irrompeva per le calli, pei campi, nella Piazza e nella Piazzetta di S. Marco, sulla Riva degli Schiavoni, e per ogni dove con entusiastiche grida, con feste, con gioie, con canti, con suoni, con allegrie e dimostrazioni di ogni genere, tutte improntate del più; sincero giubilo e della più sentita riconoscenza. Non vi erano più né caste, né partiti, ma tutti tendevano ad un solo fine, quello di festeggiare il monarca. In mezzo alle festevoli musiche, fra gli addobbi e le sfarzose illuminazioni della Piazza e delle Mercerie, echeggiarono al cielo gli evviva l'imperatore! gli stessi evviva echeggiarono durante il corso della regata nel Ganalazzo, fra migliaia di barche addobbale e di gondole, fra lo sventolare dei lini, fra il pompeggiare di mille preziosi arredi che abbellivano le finestre dei palazzi, fra un moto che tutti animava, fra una gioia, che tutti trasportava, elettrizzava, ed imparadisava. Quella non fu per Francesco Giuseppe una festa, bensì fu un trionfo, un’apoteosi. Ma questa si fu una gioia suscitata dalla speranza che il cavalleresco monarca continuasse nella incominciata carriera delle concessioni e delle riforme, e cessata l’ebbrezza che gli elettrizzava, i veneziani sentirono ancora il peso del loro stato e deplorarono i malori della patria cui tanto amavano.

Ma lasciando l’Augusto Coronato a proseguire il suo viaggio nel Regno Lombardo-Veneto, ove, specialmente nella Lombardia, non trovò certo la espansione d’affetto che gli tributava la Venezia, ora disponiamoci in vece a narrare una nuova sollevazione che stavasi preparando nella Sicilia, intenta a cangiare il Governo, ed a sottrarre quelle popolazioni dal giogo del Re di Napoli. Prima però di metterci su questo cammino, ci è mestieri rammentare che anche il granduca di Toscana, imitando l’esempio dell’imperatore d’Austria, apriva a' suoi popoli il tesoro del perdono, di quel perdono che tanto accetti e sublimi rende i monarchi, perché li assomiglia al più grande legislatore del mondo, Cristo, autore del divino codice, che incessantemente comanda a tutti il perdono. Ne fu circostanza propizia il matrimonio del principe primogenito con una principessa sassone. Ecco il granducale decreto:

«Volendo che, mediante uno di quegli atti di clemenza, che fummo soliti di esercitare ogni qual volta un fàusto avvenimento venne a far lieta la nostra famiglia, anche i colpevoli di quei delitti, nei quali l'indulgenza può non essere di pericolo alla società, sieno chiamati a partecipare della consolazione, onde l’animo nostro è ricolmo, pel matrimonio or ora contratto dal nostro figlio primogenito l’Arciduca gran principe di Toscana, colla principessa Anna Maria di Sassonia;

«Sentito il nostro Consiglio dei Ministri;

«Abbiamo decretalo e decretiamo:

«Art. 1. È concessa grazia e perdono a chiunque trovisi sottoposto ad azione penale, o a condanna, o a pena, per alcuno dei seguenti delitti o trasgressioni, di cui siasi reso debitore sino al presente giorno.

«Arruolamento, senza la permissione del Governo, sotto la bandiera di un altro Stato non in guerra colla Toscana (art. 119, § 2, del Codice penale);

«Ragion fattasi di propria autorità, senza violenza, ed altri delitti contro l’Amministrazione dello Stato, di che negli articoli 146 a 152 Codice penale;

«Resistenza, esimizione, procurala evasione, ed evasione punibile del carcere, purché commesse senza armi, senza tumulto popolare, e senza lesioni personali neppur leggiere, degli agenti della forza pubblica, e dei custodi delle carceri (articoli 455 a 462);

«Inosservanza di pena, di che negli articoli 163 e 164;

«Matrimonio tumultuario (articolo 217);

«Lesioni personali improvvise, o colpose, escluse le gravissime, perché non semplicemente colpose (art. 329 e 337);

«Delitti contro la tranquillità ed il buon nome altrui, di che negli articoli 352 a 365, 368, e 371;

«Delitti contro la proprietà dei beni immobili, di che negli articoli 422 a 427;,

«Danno dato, di che negli articoli 448 e 449, lettera a, e b;

«Contumacia al debito dell’arruolamento militare, purché dentro tre mesi venga al medesimo soddisfatto volontariamente;

«Trasgressioni di ogni maniera, contemplate e punite, sia dai Regolamento di polizia punitiva del 20 giugno 1853, sia dalle leggi e regolamenti da esso mantenuti in vigore, o al medesimo sopravvenuti, eccettuati per altro: 1. La fabbricazione, l’introduzione nel Granducato, la ritenzione per vendita, e la vendita di armi vietate, di che nell’articolo 87 del citato Regolamento del 1853; 2. La delazione di dette armi vietate, quando non sia connessa con altro delitto, non compreso nel presente indulto; 3. Le trasgressioni contemplate dagli articoli 497 a 208 di detto Regolamento; 4. Quelle concernenti la regalia del tabacco; 5. I contrabbandi di sale per impresa.

«Art. 2. 1 militari sono ammessi a godere del benefizio concesso dal precedente articolo, solo in quanto i delitti in essi contemplati non siano, come delitti militari, colpiti dalle particolari sanzioni del Libro II, parte prima del Codice penale militare, e ne sono esclusi quelli colpevoli di danno dato, di che nell'articolo 269 del predetto Codice penale militare; e quelli debitori d’alcun altro di quei delitti, benché comuni, che dallo stesso Codice sono puniti con pena importante privazione del grado, ed insieme della qualità militare;

«Art. 3. Chi intenderà di profittare del presente indulto, dovrà, entro il termine di tre mesi, esibire dichiarazione davanti al tribunale competente, ed esibire in pari tempo documento della quitanza riportata dai terzi interessati.

«A questo effetto, durante il detto termine, resta sospeso ogni atto di processo o di esecuzione, né decorre la relativa prescrizione.

«Art. 4. L’attuale indulto non pregiudica alle indennità, cui possono aver diritto le parti offese, all'interesse dei partecipanti, alle multe, al rimborso delle spese processuali, al pagamento del dazio nelle trasgressioni doganali, né alla disposizione che prescrive nei contrabbandi la perdita del genere e degli istrumenti serviti al contrabbando.

«Art. 5. Nel dubbio se alcun delitto o trasgressione resti compreso nel presente indulto, apparterrà il deciderne al Tribunale competente in ragione al delitto o trasgressione di cui si tratti.

«Il nostro ministro segretario di Stato pel Dipartimento di giustizia e grazia è incaricato della esecuzione del presente decreto. '

Dato il 14 dicembre 1856.

« Leopoldo.

Ora poniamci sul cammino della rivoluzione Sicilia na, che, speriamo, sarà di corta durata. Dal sequestro di molte carte si è scoperto dalle Autorità politiche di Napoli il movimento, che già da tempo doveva scoppiare. Da Genova s’imbarcarono molti notabili fra gli emigrati, e sbarcarono parte a Palermo e parte a Messina per non recar sospetti. Tutti però si dovevano trovare radunati a Taormina. E cosi fu. Il barone Francesco Bentivegna di Colleone assunse il comando dei rivoltosi e la direzioni della rivoluzione. Egli era deputato al Parlamento del 1848. Tenute diverse consulte, si sparsero clandestinamente dei programmi d’insurrezione, nei paesi vicini, e si fissò il giorno i2 novembre per lo scoppio rivoluzionario. Ma le armi che dovevano portare i contrabbandieri non giungevano, sia perché il mare era sempre borrascoso, sia perché, approdando, incapparono nelle mani dei doganieri. Nondimeno, essendone già dato l’avviso al partigiani, ed essendo giunto il giorno e l’ora fissata; il Bentivegna col marchese San Marco, capi di un Centinaio circa di uomini, diedero il segnale dell’attacco a Mezzoiuso nelle vicinanze di Palermo. Ruppero i telegrafi, assalirono i corpi di guardia, presero il denaro della Cassa comunale, lasciandovene la ricevuta e proseguirono il loro cammino, gridando Viva Italia! abbasso il Governo di Napoli! Giunti prima a Villanate, indi a Cefalù, a Ciminna, a Ventimiglia si unirono ad altre bande d’insorgenti armati con ogni genere di armi prese qua e là, ove le trovavano nel loro passaggio. Forse sarebbono andati più oltre e si sarebbero ingrossati, se non sopraggiungevano i tenenti colonnelli Marra e Ghio con distaccamenti di regie truppe regolari provenienti dalla provincia di Palermo, ed altre ancora da Napoli, colà spedite sui vapori. Si fece fuoco da una parte e dall’altra, s’impegnò una zuffa, anzi varie furono le scaramuccie, che finirono poi colla disfatta dei rivoltosi. Moltissimi di essi quindi si diedero alla fuga fra monti e boschi, altri rimasero feriti, altri prigionieri; il marchese di San Marco fu di questo numero. La sollevazione incominciò sotto grandi auspizii, con grandi speranze, ma mancando le armi e gli uomini, fa soffocata in poche ore. Anche a Catania v’ebbero dei moti contemporaneamente, ma vennero repressi. Si videro affissi ai muri dei cartelli, che dicevano: Viva il Principe ereditario! Viva la libertà! Viva la Costituzione del 1812. A Messina la polizia fece raddoppiare, ed accrescere i posti delle guardie; nella stessa Palermo si presero delle misure per garantire la città. Fama correva che quella sollevazione avesse uno scopo muratjano; i maligni dicevano che (per dar valore al loro intervento) fosse stata provocata dalle due potenze, che avevano rotte le loro relazioni diplomatiche colla Corte di Napoli, e che tenevano in quelle acque, ciascuna, un naviglio da guerra, sempre pronto a chiamare le flottiglie, che però stavano ad una più che rispettosa distanza, se il Re non concedesse quanto richiedevano Francia ed Inghilterra. Il fatto vero ed incontrastabile però si fu, che, alla partenza da Napoli dei due rappresentanti inglese e francese, la polizia, temente una qualche dimostrazione ostile, aveva quasi tramutala in una cittadella tutta la capitale: soltanto attorno alla Legazione di Francia si trovavano 500 militi. Nondimeno ciò non impedì al rappresentante francese di far gran pompa e solennità all’atto della sua partenza Egli fece uno sfoggio straordinario di livree; sino sedici ne vennero contate sulla carrozza ed intorno ad essa. Quella carrozza era parata a gala, e tirata da 6 cavalli; andava lentamente, onde il rappresentante potesse corrispondere ai moltissimi saluti, che dalle contrade e dalle case venivano a lui inviali dai cittadini. Anche molti mazzi di fiori furono gittati sulla carrozza al suo passaggio. Tutto però fini senza alcuna inconvenienza. Soltanto gli animi erano molto esacerbati e gli uomini di senno facevano mille commenti sul procedimento delle due grandi Potenze, le quali, dopo di avere menato tanto vampo di note e di minaccio, si accontentassero poi di opporre delle meschinità al broncio tenuto con tanta fermezza da Ferdinando II.

Quel Re intanto sia per secondare le istanze delle Potenze, sia per moto proprio, aveva graziati molti condannati politici. Giustizia c'impone di registrare il loro nome.

Il 7 ottobre vennero graziati:

Sersale Antonio, di Napoli, emigrato;

Cioffi don Giuseppe, di Napoli, espulso dal Regno;

Di Rosa Pasquale, condannato a 19 anni di ferri;

Luchino D. Liborio, emigrato;

Farina Vincenzo, condannato a 20 anni di ferri;

Lentini Vincenzo, condannato a 25 anni di ferri;

Bevivino Vincenzo, condannato a 30 anni di ferri,

Duca di Serradifalco, esiliato.

Jovane Vespasiano, emigrato.

Nell’8 novembre:

Paolessi Raffaello, condannato a 30 anni di ferri;

Il 10 novembre:

Filici Michele, emigrato, e condannato in contumacia a 20 anni di ferri;

Il 16 novembre:

Cappa don Giuseppe, condannato a 24 di ferri;

Il 17 novembre:

Mauro Domenico, emigrato;

Il 19 novembre:

Mastrobisi Michele, di Denosa, graziato di ogni inasprimento penale;

Il 25 novembre:

Duchessa Gualtieri, emigrata;

Nei giorni 25 e 27 novembre, furono graziati i seguenti condannati ai ferri; Di Genaro Michele, per anni 25; Olivo Pietropaolo, a. 24; Carfora Angelo, a. 19; Carfora Antonio, a. 25; Viscione Cosmo, a. 19; Dorsa don Francesco, a. 19; Marincola D. Cesare, a. 12; Laudiano Nicola, a. 26; Passaro Michele, a. 19; Gogliuzzi Carmine, a. 19; Rodio Nicola, a 19; Ricchiutti Francesco, a. 19; Frangella D. Giacomo, a. 7; Sessa Luigi, a. 7; Del Pomo D. Mario, a. 7; Di Falco Aniello, a. 8; Fabiani Michiele, a. 19; Lacosta Giuseppe, a. 19; in contumacia; Lacosta Raffaele, a. 25, in contumacia; Porta D. Leonar do, a. 19, in contumacia

Aulisio Giovanni, giudicabile per reato di Stato dalla G. C. Criminale di Salerno, graziato;

Leanza Emmanuele, prima condannato a morte, poi tramutata la pena in 20 anni di ferri, indi in esilio.

Borelli Amadio, condannato a 25 anni, poi esiliato.

Ceruso Giuseppe, condannato a 26 anni, indi ridotti a 6.

Laclemenza del Re Ferdinando II nel concedere le grazie, che dicemmo, non ebbe però alcun effetto sull’animo del calabrese Milani, per distorgli dalla mente l’enorme idea di attentare alla vita di quel monarca. Il Milani, educato nel Collegio greco, perché greco di religione, si affigliò, giovine ancora, alla setta mazziniana, e giurò un odio implacabile al suo Re, concependo l’atroce disegno di ucciderlo. Nello scopo di compiere con maggiore agevolezza il reo proposito, egli si arruolò nelle regie truppe, ed indi fece molte istanze, pratiche e preghiere per essere traslocato a Napoli, ed ottenne di passare nel 5.° reggimento cacciatori.

Correa uso in Napoli di celebrare tutti gli anni, il giorno 8 dicembre, con istraordinaria pompa militare, la festività della Vergine sotto il titolo dell’immacolata Concezione. Uno sfarzoso altare veniva innalzato ad onore di Lei in mezzo a vasta pianura, costituente il militare campo d'istruzione. La mattina dell’8 fu arrisa da un sole di primavera, ed i sacri bronzi ed i ripetuti colpi di cannone annunziavano già lo sfilare in quel campo delle milizie e lo incominciamento della solennità. I cittadini vi affluivano numerosissimi, come devoti o curiosi spettatori, quali a piedi, quali a cavallo, quali in carrozza.

Alla gran parata intervennero due divisioni, composte di sedici battaglioni, nove squadroni e quaranta pezzi d’artiglieria, comandante in capo, il tenente generale marchese Delcarretto.

Lasanta messa era pontificata dal reverendo cappellano maggiore, assistendovi, con le LL. MM., 8. A. R. il duca di Calabria (dappoi regnante) e gli altri RR. principi e principesse.

Il Re stava a cavallo, in mezzo al suo stato maggiore, quando gli sfilava innanzi la milizia. Ciascun soldato, passando, gridava il solito urrà: Viva il Re!

Il Milani, col suo fucile armato di daga, usci dalla sua fila, fece quattro passi, si avventò e tirò, colla sua arma, un colpo al fianco del Re. Ma il conte della Torre, aiutante di stato maggiore, avvedutosi dell’infame atto, diè un grido, spronò il cavallo, e fu di un salto sopra l’assassino, che stramazzò a terra. Il colpo nondimeno fu dato, ma in forza di quel grido venne affievolito, nullameno investì la borsa delle pistole del cavallo del Re, traforò gli abiti, ma non ferì che leggermente Sua Maestà.

Il Milani fu afferrato e consegnato alla gendarmeria. Vuolsi ch’ei dicesse: «ho fatto il mio dovere; se il colpo non riuscì, altri lo compirà.»

Il Re stette impavido, ed ordinò continuasse lo sfilare delle truppe. Tutti i corpi pubblici e costituiti, nonché il clero e le confraternite si portarono in massa al palazzo reale nello stesso giorno, onde congratularsi perché l’opera malvagia non andò compiuta. Fu votato lo innalzamento di un tempio nello stesso luogo dell’attentato, e venne cantato un Te Deum in tutto le Chiese, mentre gli animi onesti forse vedevano in quell’attentato un avviso di Dio, che gridava al cuore del Re «chi si pasce di sangue, in esso perisce!» Ma Ferdinando II, ben lungi dal pensare, che talora Iddio si serve dell’opera degli empii per ammonire anche i regnanti, volle invece attribuire quell’attentato soltanto ad opera malvagia degli uomini, e raddoppiò i suoi rigori sulla povera umanità, sfidando terra e cielo, e comparve baldanzoso ed indifferente, nel pomeriggio dello stesso giorno, al passeggio in una carrozza scoperta, in via Toledo.

Ma l’anno 1856 volgeva ormai al suo tramonto e se non sempre e non in tutti gli Stati della Penisola venne egli felicitato da atti di virtù e di prosperità, fu però meno funestato degli scorsi anni dallo spargimento di sangue e di lagrime. F. se vorremmo disposto in un quadro tutto quanto ci fu dato raccorre nell’anno or ora descritto, noi dovremmo, entusiastati nell’anima alla vista dei rapidi progressi, che per opera del Piemonte fece la questione italiana nell’Areopago di Parigi e nelle Camere di Londra, arrestarci contenti ed abbarbagliati nel centro del quadro, da cui emanasi tanta luce: quella luce che riscalda ed avvalora nei petti italiani lo spirito della patria emancipazione. Tutte le conseguenti crudeli vicissitudini, e concitate amaritudini, che nel corso dell'anno, quali ombre opache e gravide di tempesta aggiravansi qua e là nel quadro, tutte si dispersero ai raggi di quella luce. Laonde, e conseguentemente, un sano raziocinio ci guida alla conclusione: che, a malgrado la perdurante attitudine di rigore di alcuni Governi d’Italia, il fuoco della indipendenza non si affievolì di una dramma, ma come la lampana del santuario, che, in mezzo al frastuono delle sonore musiche, arde di una luce placida e perenne; cosi quel fuoco, ardeva pacato e tranquillo innanzi al santuario della italiana indipendenza. Poteva egli essere spento?... No. Poteva egli avere un’altra direzione e rischiarare altro tempio?... No. Poteva egli essere posto in uno stato d’inattività? Rispondi tu o lettore, come più credi: io vi risponderò nel seguente volume.

FINE DEL PRIMO VOLUME.

NOTE

(1)Il decreto qui citato porta la stessa data; con questo S. M. scioglieva la Camera dei deputati e convocava i collegi elettorali pel giorno 9 dicembre nella terraferma, pel 15 nella Sardegna, ed il Parlamento pel giorno 20.

(2)Ufficio della causa pfc.

(3)Francia.

(4)Dicesi che quando Napoleone IH chiedeva che S. S. Pio IX foste andato a Parigi per incoronarlo imperatore, S. S. si fosse piegato a tale risoluzione colla condizione, fine qua non,che Napoleone avesse abolito il matrimonio civile.

(5)Il dispaccio austriaco veniva analizzato dai giornali di Vienna; noi lo prendiamo dal Corriere Italiano.

(6)Parla della Nota, che in doppio esemplare originale veniva presentata da Cavour all’imperatore dei francesi ed alla Regina d’Inghilterra, e che fu oggetto di discussione, come vedemmo, nel Congresso di Parigi.




Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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