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LIBORIO ROMANO E L’ITALIA

NAPOLI

STAMPERIA DEL FIBRENO

1861

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Agosto 2018

 Al forte e costante animo si appartiene col pensiere prevedere le cose future, e alcuna volta innanzi ordinare quello che possa addivenire.... e non commettere in modo che tal volta tu abbia a dire, io non me n’era avveduto; queste sono opere dell’animo grande e alto, e che si confida nella prudenza e nel consiglio.

Cicer. de officiis lib. 1. cap. 28.

Il buon Ministro non è sbigottito da impresa alcuna, dove conosca il bene pubblico.

Il Ministro, per paura d’un carico vano, non deve mai lasciare di fare un'opera che faccia un utile allo Stato.

Macchiavelli — la mente d’un uomo di Stato.

Quando un rivolgimento politico, scuotendo la società dai cardini, dibarbica passioni e interessi fortemente radicati, è vieta ed usitata cosa che gli uomini, i quali han renduto i più segnalati servigi alla loro patria, sien fatti segno della mostruosa ingratitudine de’ partiti, e talvolta paghino fin col sangue il loro amore alla libertà e al suolo natio. L’antica sapienza già nota che i popoli sono di rado riconoscenti a coloro che diedero o si procacciarono a dar loro la libertà (); e ogni uomo mezzanamente istruito non ignora come fedifraghi sovrani, e massime del ceppo dei Valois e de'  Borboni, abbian fatto perire uomini preclari, e anche in gran numero, come nella famosa giornata di S. Bartolommeo, o in quelle non meno funeste del 1799.

Ma dolorosa cosa è a pensare come talvolta persino gli uomini più intelligenti e onorandi sieno tratti in errore dalla morale dei partiti, la quale è secondo i propri interessi, e non secondo quelli della verità e della giustizia. E quanto sia parziale una siffatta morale chiaramente si deduce dalla vile e svergognata guerra, che in effemeridi estere o nostrali ha mosso qualche straniero o taluno che non gode punto di popolarità a Liborio Romano, cittadino prestantissimo, e divenuto assai popolare per aver salvato Napoli da una guerra fratricida, e per avere iniziato l’unione di queste provincie meridionali con le settentrionali, la quale dell’Italia, un tempo divisa e schiava, debbe formare una nazione compatta, libera e indipendente.

Per la quai cosa, a fine di far meglio comprendere il Romano, cennerò, come il destro mi si presenta, gli avvenimenti succeduti nelle nostre provincie, a cominciar da quelli che indussero Francesco II a dare ai suoi popoli una costituzione liberale, dalla quale P animo suo tanto rifuggiva, e terminando alla resa di Gaeta.

Già prorompeva nel 1859 la guerra in Italia, che dovea emancipare questa nobile nazione dalla dura servitù dello straniero, quando, morto Ferdinando II re delle Due Sicilie, campione pertinace di assolutismo e nemico di libertà, a lui succedé il figliuolo Francesco II nella giovine età di ventitré anni. Onde, veggendo i fini della guerra di Lombardia, molti e in Italia e fuori presupponevano che il giovane sovrano, mutato stile, desse ornai principio a un Governo più moderato e più ai tempi consentaneo. Ma non cosi gl’ippocriti e servili consiglieri di Francesco II, i quali cacciaron fuori in suo nome un programma, cosi pieno di tirannici sensi e lodativo degli atti spergiuri e illegali di re Ferdinando, che tutti gl’Italiani e persino gli strani ne furono stomacati, e tennero per fermo, come oramai non si potesse far più fondamento sopra questa progenie, logora dagli anni e imputridita dal dispotismo. Epperò quanti amatori di un Governo civile e libero sono nel bel paese dove il si suona, tanti si misero apertamente a far empito contro al giovine re, che nel montar sul trono, e mentre tutti i cuori erano dischiusi alla speranza, non avea valuto profferir neanche una parola che fosse balsamo alle sanguinanti ferite aperte dalla tirannide Ferdinandea. Non Garibaldi, non Vittorio Emmanuele, e non i liberali, ma si quel programma diè il crollo al barcollante soglio dell’Augustolo de’ Borboni! Arroge che l'Europa, la quale sperava che il figliuolo seguisse una politica diversa da quella del padre, e che in tal guisa non facesse scoppiare la rivoluzione, la quale pur troppo avea giuste cagioni d’irrompere in queste contrade, fu costernata a tanta enormezza: e massime la Francia e l’Inghilterra furono indignate, non pure di veder cosi negletta la loro riprovazione già manifestata nelle Conferenze di Parigi del 1856, ma bensì di udire che alla loro sollecitudine d’inviar tosto i diplomatici e di riannodare le relazioni già interrotte col padre, il figliuolo rispondesse col farsi beffe dei giusti timori, con lo sprezzare i salutari avvertimenti tante volte dati, e con l’inaugurare un Governo avverso ad ogni libertà. Laonde cominciò a poco a poco a divenir generale l’opinione, che dichiarava la stirpe Borbonica incompatibile con la libertà, come quella che non poteva cambiar principii perché ha connaturata nel sangue la massima gesuitica: aut sint ut sunt, aut non sint. In questo mentre ai patti di Villafranca era succeduto il trattato di Zurigo: sicché gl’insani consiglieri di Francesco II tennero già trionfante la reazione, i duchi e il Granduca restaurati nell’Italia di mezzo, e la federazione stipulata a Zurigo non servire ad altro se non a ribadire le catene degli Italiani e a fare,

che l’uccel grifagno

che per più divorar due becchi porta,

viemaggiormente dilatasse le ali per tutta la penisola, e legalmente vi rafforzasse l’odiata sua signoria: onde, sicuri del fatto loro, aggravarono il regime ippocrita e brutale, e le carcerazioni e le torture, massime in Sicilia mercé il Maniscalco, crebbero sopra ogni credere. A tanto di stoltizia si giunse da imaginar che Francia e Piemonte avessero versato tanto sangue, e profuso tanti danari per l'unico fine dj far trionfare la loro costante e poderosa nemica! Ma il trattato di Zurigo lasciava aperto l'adito alla salvezza d’Italia; la clausola del non intervento bastò a contenere l’Austria, a far che i duchi e il Granduca non ritornassero alle loro sedi, e che le Romagne non più fossero sottoposte all’abborrito giogo dei clericali. Incuorata da ciò la Sicilia nel 4 aprile 1860 innalzò il vessillo della libertà, e si sollevò al glorioso grido di Viva Italia e Vittorio Emmanuele!

Il re di Napoli cercò con la forza di reprimere la rivolta che lentamente si, ma da ogni parte della Sicilia levava il capo: ciò non pertanto nol potè, perché nell’11 maggio sbarcò in Marsala con un pugno di prodi quel fulmine di guerra, eroe della nostra età, ch’è il Garibaldi, e la rivolta incontanente guadagnò terreno, e Palermo, dopo essere stata sottoposta ad alquanti giorni di bombardamento, scacciò al tutto le soldatesche borboniche; attalché dell’esercito di Francesco parte rifugiossi in Napoli, e parte pugnò accanitamente a Milazzo ma fu sconfitta. In breve non rimasero in Sicilia altri soldati del Borbone che nelle fortezze di Augusta, Siracusa e Messina.

Alle prime notizie di siffatto sbarco il Governo avea nel Giornale Uffiziale lanciato i motti più ingiuriosi di filibustieri, pirati e peggio al Garibaldi e ai suoi prodi: ma, quando vide l'esito avventurato dell’impresa e come la Sicilia in pochi giorni si era sottratta al regio potere, incominciò a intavolar trattative; e voile, mercé l’aiuto dello straniero, impedire a Garibaldi di passar sul continente: tanto era l'odio che sapeva di avere ispirato, e tanto timore il soprapprese di quello che in realtà successe! Le potenze del Nord si ristrinsero ad offrirgli buone parole: Napoleone III gli telegrafò che desse le maggiori concessioni e immediatamente. Cosi nella notte del 25 giugno si stabilì di cacciar fuori una promessa di costituzione (non si sapea quai fosse) e di lega col Piemonte; e scorsero, incredibilia sed vera, anche tre o quattro giorni prima che si potesse formare un qualsiasi Ministero. Per tal modo nel mattino del 26 era affisso per le vie di Napoli un cartello che prometteva a nome di Francesco II una costituzione e la lega col Piemonte: ma (cosa mirabile a dire!) non un grido di gioia per la popolosa via di Toledo, non un plauso si udi; niuno si mise a leggere quello scritto; tutti i cittadini parvero di un sentimento! Ah ben disse Mirabeau (), il silenzio de’ popoli è la lezione dei re; ma i re non ne vogliono profittare! Per la quai cosa, non essendovi ministri, e mancando qualunque Governo, turbe di popolani corsero nel 28 giugno per tutti i commissariati di Polizia, ferirono o uccisero qualche birro o Ispettore di Polizia' , che per mala sorte loro capitò tra mani; e, come in simili congiunture è altre volte avvenuto (), bruciarono tutti gli arnesi che ivi furono trovati, e portarono i denari e alcuni arredi sacri al parroco vicino o alla più prossima Chiesa. Dopo di ciò scomparve ogni ordine; un timoré generale invase tutti; la piazza divenne tumultuante, e in generale si desiderò che fosse alla perfine composto, e sia quai si voglia, un Ministero. Fu allora creato Prefetto di Polizia Liborio Romano, e nominato il Ministero Spinelli, che avea il Del Re Ministro dell’Interno, e il Marina delle Finanze. Ma prima di comporre questo Ministero erano stati interpellati varii cittadini onorevoli, come il d’Afflitto, il Ferrigni ec., e tutti si erano negati di farne parte. Lo stesso Manna a stento e dopo molto insistere si sobbarcò a tal peso. Qualcuno anche a schivar le molestie si rifugiò sulle navi francesi, ch’ erano nella rada. Certamente i soprallegati cittadini, onesti. e amanti di libertà, mancarono al primo debito, che la patria attende dai suoi figliuoli, cioè abnegazione di sé stessi e costanza ne’ pericoli. E quest’abnegazione e questa costanza ebbero quanti allora presero a timoneggiar lo Stato; quest’abnegazione e questa costanza ebbe il Romano, e allorché fu nominato Prefetto, e allorché, in momenti anche più gravi e difficili, fu poi eletto Ministro dell’Interno. Opera del Ministero Spinelli, del quale non ancora facea parte il Romano, fu l’intavolar la lega col Piemonte, perché vedeva chiaro che le fazioni cercavano a tutta possa di abbattere la dinastia. E veramente sussurravano per ogni parte: non esistere altro rimedio a tanti mali, fuor solamente l’annessione alla gloriosa monarchia Sabauda; la Costituzione, come diceva Napoleone I, esser l'opera del tempo e non di un giorno; né potere un sovrano, che avea col latte succhiato t principii dell’assolutismo e che fino ad ora si era mostrato cosi avverso alla libertà, cambiar natura in un istante, o mettersi la costituzione indosso, come un vestito; soggiungevano che se il padre, sebbene abbia dato il primo in Italia una costituzione nel 184&, era poi divenuto quel fiero ed acerrimo persecutore de’ costituzionali che tutti sapevano, che doveasi dire del figliuolo, il quale avea cacciato fuori una promessa sol quando il popolo era in piena rivolta, la guerra civile stava per iscoppiar nel continente, e Napoleone III, a chi si era ricorso per aiuto, glie l'avea quasi imposta? Le quali ed altre simili voci pur troppo avevano sembianze di vero, e spaventavano quelli che non s’illudevano per affetto e che di buona fede volevano salva la dinastia. Ma gli uomini che sentono e ardiscono dir la verità non vanno a sangue né ai re né ai cortigiani; e Francesco non poteva decidersi né ad organare di fatto la Guardia nazionale (), né ad entrare francamente nelle vie della libertà: e perciò la Costituzione del 1848, richiamata in vigore, e dichiarata conceduta octroyée () dal monarca, restava una parola vuota di senso, una lettera morta, Dopo di che, veggendosi la debolezza o poca attitudine di qualche ministre, vi fu un cambiamento parziale di ministri, e Liborio Romano fu chiamato ai Ministero dell’Interno, avendo già quai Prefetto rassicurato gli animi, e procacciatasi molta popolarità. E non si tosto il sagacissimo uomo sali al potere che si avvide quai difficile compito fosse il suo, e come la nazione ed il sovrano si facessero una guerra scambievole e sorda, la quale non poteva riuscire che a detrimento dell’una o dell’altro, o forse di ambedue. E di vero le fazioni erano vive e apertamente cospiravano.

La camarilla, qualche generale al Borbone affezionato, o che da lui sperava grossi guadagni, i principi reali, salvo Leopoldo che si era fortemente col Re inimicato, la Regina vedova, in Gaeta a malincuore ritirata, tutti sospingevano Francesco a non fidarsi dei liberali, a toglier via ogni costituzione che dicevano esca al fuoco; riguardasse il popolo sbrigliato alla sola promessa; i suoi fidati aver dovuto cercar salvezza nella fuga, e chi ciò non avea fatto esser morto o ferito. Che se non si era portato rispetto al ministro di Francia, consigliere di libertà, e pubblicamente in mezzo ad una calca di gente lo si avea ferito, come mai rispetterebbero il re e la sua famiglia tutti i tristi e facinorosi, già rinchiusi nelle galere o in esilio, i quali si erano a bella posta qui ragunati per compiere i loro rei disegni, e volevano farla finita col real lignaggio che abborrivano; considerasse avere il padre con la fermezza, e col non dare ascolto alle lusinghevoli parole dei liberali salvato sé e l’Europa dall’anarchia che tutti minacciava; non udisse ministri perfidi o altrui venduti, ma ricordasse aver l’esercito tuttora fedele; imponesse con la forza il suo giusto volere.

D’altra parte il gran numero de’ liberali sclamava: la costituzione essere un tranello, una perfidia; i Borboni tuttodì nemici di libertà aver dato e giurato più volte costituzioni d’ogni fatta, ma poi averle mai sempre affogate nel sangue, nelle prigioni e nell’esilio. Adunque i popoli non aver giammai a metter senno; dover sempre credere alle bugiarde parole di chi anela di tenere un ferreo giogo sul loro collo; non lasciassero sfuggire il momento propizio; l’Italia potersi ora o non mai costruire; i patti federali senza l’Austria non potersi stringere-, e con l’Austria, che aveva già un piede nella confederazione germanica e ne avrebbe avuto un altro nell’italiana, riuscire un agguato, e non ad altro tendere se non a far che l’aquila bicipite signoreggiasse sull’Italia e sulla Germania; esser di necessità sbandir per sempre una. tralignata razza tuttodì ligia e devota allo straniero conculcatore, una razza che avea empiuto dal novantanove al sessanta le carceri dei flore della nazione, e non di rado uccisi col patibolo o col pugnale quanti bramassero la libertà; si unissero alla politica leale e franca dei Re galantuomo; a questo gran fatto, di costituir l’Italia, non che un omiciattolo, come Francesco, o una schiatta abborrita come la Borbonica, ma sarebbe stato mestieri sacrificare lo stesso Errico IV o una progenie arnica de’ popoli. E sclamavano da per tutto: come! la civilissima Toscana non ha esitato a cacciar via i Lorena, che pure erano sovrani miti e non abborrenti della libertà, e Napoli sta in forse, dopo il glorioso esempio della Sicilia, a dare il tracollo ad uno stipite inverminito, all’Italia funesto per oltre. un mezzo secolo, a tutta Europa divenuto esoso?

I costituzionali dinastici andavano dicendo che bisognava dar tempo al tempo; per la troppa fretta il reame delle Sicilie non aver mai serbato la libertà; il Re essere assai giovine e inesperto, ma di buone intenzioni; un cambiamento di dinastia trascinar seco danni infiniti, e Napoli, la terza capitale del mondo, divenire un paesello di provincia... Ma erano scarsi; e le loro voci, poco conformi a verità, non potevano tener fermo alla piena dell’opinione pubblica, o farle mutar direzione: e stava pure contro a loro il fascino che il nome e le geste del Garibaldi esercitavano potentemente su tutte le popolazioni.

Né per piccolo che fosse mancava il partito repubblicano; ma gagliardamente agitandosi si staccò negli ultimi tempi dal Comitato dell ordine, che formava il nucleo de’ liberali, e dove, prevalendo gli annessionisti, si cominciava a diffidare, dell’eroe Nizzardo, e lo si volea impedire di entrare in Napoli: sicché il partito repubblicano formò il Comitato di azione, riferì direttamente a Garibaldi, già entrato nel continente, e sperò nei posteriori avvenimenti.

Pochissimi anche desideravano il principe Murat, ma non parlavano forte, perché sapevano di essere in minoranza.

Ma se, tranne i dinastici, tutti gli altri liberali erano concordi nel. cacciar via i Borboni, discordavano peraltro nei mezzi e nel fine che si erano proposti. Molti, abbagliati dal valore e dalla generosità dell’eroe italiano, non volevano che lui, e lui desideravano Dittatore in Napoli, com’era stato dichiarato in Sicilia. Altri, e in ispezialità quelli che dirigevano il Comitato dell'ordine, con alcuni emigrati a bella posta qui venuti, creature del Cavour, temendo non avesse il Garibaldi avversato l’annessione, o si fosse dato in preda ai repubblicani che gli facevano corona, avrebbero voluto, mediante un colpo di mano, che fuggisse il Borbone e che l’esercito gridasse: Viva Italia e Vittorio Emmanuele, perché allora, erettisi a Governo provvisorio, togliendo l’imbeccata al Cavour, avrebbero compiuto l’annessione. Ma non erano atti a ciò; esageravano l’efficacia del credito che avevano su queste contrade; né potevano, come troppo leggermente si erano vantati, toglier di mezzo l’uomo che per li straordinarii servigi renduti alla causa d’Italia era levato a cielo dalla pubblica opinione, da questa formidabile possanza di tutti i giorni, e oramai regolatrice del mondo.

In mezzo a tutte queste fazioni dei retrivi, degli annessionisti, dei repubblicani e dei costituzionali, certa cosa è che un ministro, il quale avesse voluto veramente il bene della nazione, dovea essere a parte de’ consigli di tutti i partiti, a fine di poterli poi tutti dominare, e far quanto di meglio si potesse pel bene dello Stato. E questo appunto fece Liborio Rom a no. Onde insieme a qualche suo collega instava di continuo presso il Re, acciocché avesse mostro la sua buona fede; rammentavagli la maggioranza del paese non ritenere date di cuore  concessioni; supremo bisogno essere di costruirgli una popolarità, al che uopo era di fatti e non di parole. Donde si rileva che volendo egli fondare sopra basi incrollabili la libertà, e nello stesso tempo penetrare nell’intimo del cuore Borbonico, proponeva tutto che mettesse re Francesco nella necessita di manifestarsi, di abbandonare le tradizioni dei suoi maggiori, di riprovare quanto si era fatto in Sicilia, in somma di entrar schiettamente nel movimento italiano, ovvero di chiarire la sua mala fede, e cosi dar la spinta alla soluzione del fatto, che tanto all’Italia importava, Così rinnovò quasi tutto il personale amministrativo, cambiò tutti i municipii, meno quello di Napoli, e due terzi dei Decurionati.

Ma egli, veggendo il re perplesso,i cattivi consiglieri stargli sempre allato, ché mai non avea voluto consentire ad allontanarli, vigilava su tutto, e pur troppo temeva delle soldatesche: di che fu certo quando nel 15 luglio turbe di soldati da Porta Capuana vennero scorrazzando insino al Palazzo Reale, gridando Viva il Re, e dando colpi di sciabla a chiunque scontrassero per via donne, bimbi, vecchi; talché molti feriti ricevé nella sera lo spedale de’ Pellegrini. I sediziosi non ricevettero verun gastigo, ma si buccinò che il Re li avesse visitati in quartiere e dato loro una colezione.

E qui cade in acconcio rammemorare il grande servigio che il Romano rendé alla nostra nazione; dappoiché, sebbene avesse fatto con posteriori decreti allargar la legge di diffidenza sulla Guardia nazionale, pure per varie cagioni, ed in ispezialtà per non volersi consegnar le armi, quelle Guardie non ancora erano apparite. Ma dopo la sedizione soldatesca del 15 luglio, che tutti tennero incitata da un principe reale, Liborio Romano richiese che assolutamente per la sera del 16 dovesse uscire quale che fosse la Guardia nazionale, e dopo aver curato che la mattina fossero mandati gli schioppi ai rispettivi posti, i quali andò la sera egli stesso percorrendo in vettura, ebbe la soddisfazione nella medesima sera di veder marciare la Guardia predetta in mezzo agli applausi, che a quella e a lui tutti i cittadini di buon cuore tribuivano, e tra i lumi che spontaneamente si vedevano rilucere da tutte le finestre. Cosi, e per opera efficace di Liborio Romano, fu istallata di fatto la Guardia nazionale in Napoli, la quale, come ognun sa, fu la sola forza che mantenne l’ordine ed assodò la libertà.

Ma i tempi stringevano, e le condizioni della dinastia peggioravano. Garibaldi avea vinto in Calabria quasi senza colpo ferire; il suo nome era da tutti levato a cielo; tutti predicavano il suo valore, la sua gènerosità; tutti comperavano il suo ritratto, vuoi dipinto, o vuoi scolpito; onde sempre più riusciva difficile il poter contenere un’opinione che aumentava di giorno in giorno. Che se Poste napoletana non avea potuto resistere a Garibaldi in Sicilia e in Calabria, lo avrebbe potuto ad Eboli, vicino al Governo rivoluzionario istallatosi in Potenza, nel cuor del Regno, ove a grandi passi procedeva il Dittatore, fra le acclamazioni incessanti de’ popoli tra i quali passava? E se Francesco non avea voluto correre in Sicilia o in Calabria e porsi a combattere alla testa delle sue milizie, come mai, re fiacco e perplesso, rinchiuso nelle sue stanze, poteva mantener sul capo la corona che già gli vacillava? Adunque la causa di Francesco era perduta: meno i costituzionali dinastici, pochissimi, e i retrivi, gente per lo più ignorante e con idee rancide e ributtate dal secolo, tutti gli altri partiti lo volevano sbandito; e il resto d’Italia parea stimolar gli uomini, che qui reggevano le cose, a non voler perdere un’occasione, la quale malagevolmente si avrebbe potuto in altri tempi rinnovellare. Ancora non si potevano dalla mente dei cittadini di questo reame cancellare i danni loro cagionati dalle feroci Giunte di Stato, che da sessant’anni a questa parte avevano sotto vario nome e in diversi tempi inondato di lutto e di sangue e l’isola e il continente; né si poteva obbliare la rotta fede alle capitolazioni, o gli spergiuri ai patti davanti a Dio e ai popoli solennemente giurati, o infine tutta l'Iliade di mali a noi rovesciata dai tralignati sovrani. Quanto alla lega non parea che si potesse effettuare stante l'avversione delle popolazioni settentrionali, e dicasi pure stante il Governo del Piemonte, che non voleva dare a quello di Napoli (secondo la frase del Guerrazzi) l’amplesso di Mezenzio, non voleva abbracciare un morto; onde il Manna, ch’era andato a Torino per la lega, avea ricevuto solamente cortesi parole, e il La Greca da Parigi era stato mandato in Londra, e quivi avea saputo che Inghilterra non potea staccarsi dalla politica del non intervento che avea adottato. Stando cosi le cose, e avendo il Ministero oltre qualche conventicola di stranieri sventata la trama del Conte di Aquila, che avea nascosto di molte armi a distruzione di tutti i liberali, e per ciò mandatolo via di Napoli, il Romano non poteva salvar la corona del Borbone,ma potea preservar la capitale dal maggior flagello che minacci un paese, la guerra civile, e avea il debito di farlo; né a tal debito mancò. Ma tenne forse celato al Re il suo pericolo? Mai no; ché, insin da quando fu chiamato a far parte del Ministero, ei gli rivelò schiettamente non pure le sue idee sull’impossibilità della lega col Piemonte, ma sibbene la difficoltà di salvare la real dinastia. Se dopo ciò Francesco lo volle suo ministro, fu certo perché non ne potea fare a meno, fu perché avea bisogno della sua popolarità, e niuno in Napoli ignorava com’egli spiacesse al partito retrivo, che si volea di lui ad ogni modo sbarazzare. E veramente supponete che la reazione del 15 luglio, o quella del Conte d’Aquila fosse riuscita, avrebbe potuto il Romano non che altro salvar la testa! Il Ruggiero ed altri resero segnalati servigi nel 1818 a Ferdinando II, né però poterono sottrarsi all’esilio. E non pure col vivo della voce, ma col memorandum del 20 agosto chiaramente egli scrisse in quali sventurate condizioni era ridotta la dinastia per un irreparabile odioso passato, e si dimise insieme ai suoi colleghi: la quai dimissione accettata, fu dato il carico al com. Pietro Ulloa di formare un nuovo Ministero. Che dunque potea fare il Romano per serbar la corona al Re, al quale la strappavano le nefandezze de’ suoi maggiori, gli odii cumulati per tanti anni, la mala fede che traspariva in lui e nei suoi familiari, e infine la necessità e il bisogno che tutti sentivano di costituir l'Italia? Se egli restò al potere con i suoi colleghi fu perché, com’è noto, un ministro non può rassegnare il portafogli che al successore: e non era sua colpa, se in tali congiunture l'Ulloa con quei principii che ha non riusciva a formare un Ministero! Dippiù quai ministro costituzionale egli non fu, né poteva essere, ciecamente sommesso e devoto ai voleri del Re e dei suoi stolti e intimi consiglieri. Egli dovea sopravvigilare al potere esecutivo; dovea rispondere degli atti che avesse approvato e che potevano tornare pregiudizievoli alla patria; e quindi era ministro della nazione e non del re; dovea salvar la nazione dal ricadere nel dispotismo, come altre volte sventuratamente era ricaduta, non serbare lo scettro a chi volea continuare ad esserne l’oppressore. Ma se non poteva per le fatali vicissitudini serbar lo scettro del re potea salvarne la dignità, e a questo si adoperò col frenare il popolo da intempestive e irriverenti dimostrazioni: talché nel cader del 6 settembre, quando il re volse le spalle alla capitale, il popolo fu tristo e silenzioso. Ah si quel silenzio indicava rispetto per un grande infortunio: ma neanco di questa lezione voile profittare il Borbone, e piuttosto che dimenticare un paese che lo scacciava, amò meglio di rinchiudersi in una fortezza per ghermire una corona cadutagli dal capo e infrantasi sulle selci che menano a Gaeta. Sicché il Re, saputo l’arrivo festante in Salerno del Garibaldi, cedé al consiglio del Romano o meglio del timore; e, dopo aver raccomandato all’onorando General de Sauget e al Municipio di Napoli di andare incontro al Garibaldi, sclamando in cuor suo Hannibal ad portas, mosse alla volta di Capua. Il Comitato dell'Ordine, sapute le relazioni del Romano col Garibaldi, avea gridato tradimento, perché avea visto svanire il suo governo provvisorio, e forse compromessa la causa italiana. Ma Liborio presentì l'impotenza di quel Comitato, e invitò a venir tosto a Napoli il Dittatore, che solo in quel momento poteva contener l’impeto delle fazioni, e inspirandogli fiducia cercò di temperare l’azione dei repubblicani, vecchi amici che a lui facevano corona. E già parecchi di questi si palesavano come componenti un Governo provvisorio, già si accingevano ad istallarsi nel palagio del Ministero, già con apposito manifesto indicavano i loro nomi, le loro qualità, già davano ogni opera ad afferrare il potere: ma leali uomini, a dire il vero, si dimostrarono, e non avidi di posti lucrosi, come taluni degli spasimanti per l’illustre Cavour. E Garibaldi entrò a Napoli fra le acclamazioni universali, con tre o quattro suoi confidenti senza soldatesca, senz’altro scudo che l'affezione de’ popoli. Ben maravigliarono gli stranieri, e più maraviglieranno i posteri, che un uomo fortemente odiato da un monarca, che aveva un esercito di cento mila uomini, venisse solo, in ferrovia, in una popolosissima città, donde alcune ore prima era partito il Re, e dove stavano ne’ castelli e per le strade migliaia de’ suoi soldati! Il Dittatore ringraziò il Municipio che gli era andato incontro, strinse affettuosamente al seno il veterano General de Sauget, e fatto sedere accanto a sé il ministro popolare, lo voile confermare nel posto da lui occupato. Voleva il Romano esimersi da tanta responsabilità; ma considerò che in quel frangente poteva egli essere una garantia pel principio monarchico costituzionale, che poteva essere compromesso; pose mente all’unità italiana, voto espresso per molti secoli da tante generazioni, che ora poteva compiersi o dileguarsi; né sapendo resistere alle vive istanze a lui fatte da un si prodigioso uomo, piegò ai desiderii di Colui a chi pur tanto debbe l’Italia.

Dopo tutto ciò chi oserà dire tradimento la manifestazione del vero col coraggio civile proprio di leale ministro, chi l’aver salvato il paese, e cooperato alla causa d’Italia dopo di aver francamente dichiarato impossibile la dinastia borbonica su i popoli delle due Sicilie? Certo si potrà dir ciò, ma dai satelliti del dispotismo, non dagli amici della libertà: si poteva scrivere e credere, ma solamente a Gaeta. — Ma Francesco II avea fidato nel Ministro Romano — Quanto ciò sia falso si deduce dalla seguente proposizione a lui indiritta dal Re: che era assai più felice a scoprire le cospirazioni reazionarie, che non quelle dei liberali, cupe e minaccevoli parole, né indegne di Tiberio. Oltre di che chi non sa che non bisogna aspettar l’estrema crisi per implorare un appoggio, del quale si è fatto a meno nei tempi tranquilli? Quando la nave è agitata dalla tempesta, ben difficile è ch’entri nel porto. Allora bisognava chieder l'appoggio e la mutua confidenza che i tempi erano calmi e sereni; allora bisognava chiamar Liborio Romano che si lasciava languire in carcere o si mandava in esilio; non mentre la procella infuriava e non era più in potestà del nocchiere di dominarla. La libertà violentemente acquistata indica nell’autorità una debolezza, che suole tuttora esser seguita da altre debolezze; e il debito di un Governo intelligente, come giustamente osserva il Troplong (), è di operare quai sentinella avanzata della società, e non di vegliare al solo presente, ma bensì al futuro. Donde ne siegue che tradirono il re di Napoli i suoi antichi consiglieri, non il Romano — Ma egli che era stato ministro di Francesco non dovea essere di Garibaldi—E per una quistione personale dovea permettere che i partiti divorassero la patria? E che! Potè Giunio Bruto, padre della romana libertà, simulare stoltizia, per aver comodità di opprimere Tarquinio e render libera la sua terra natia; potè Roma nei tempi di virtù vederlo seder pro tribunali, e non solamente condannare a morte i suoi figliuoli, ma esser presente alla morte loro; potè Timoleone consentire all’uccisione del fratello perché Corinto divenisse libera e felice: e non dovea il Romano risparmiare a Napoli tante lagrime e tanto sangue, non dovea contener l’idra della rivoluzione, non invitar l’eroe del secolo a venir qui a torre la Dittatura per comprimere le fazioni, assodare la libertà, e preparar l’unione da tutti desiderata? E se la coscienza dell’umanità ritenuto e tiene eroi Bruto e Timoleone, potrà tener traditore il Romano? Il che io non dico per comparare questo a quelli (ché troppo sono diversi): ma perché si vegga che la coscienza universale non ha mai considerato traditori né manco coloro che salvarono la patria con un delitto. E se Lentulo, legato romano, nella guerra Sannitica disse (e il Senato approvò) che non gli parea da fuggire qualunque partito per salvar la patria, e che questa è sempre ben difesa in qualunque modo la si difenda o con ignominia o con gloria (), reputeremo noi ignominioso a Liborio Romano, non potendo serbar la dinastia, di aver almanco salva la patria, di avere allontanato il vero nemico d’Italia, il capo di un Governo, soprannomato da ragguardevoli personaggi la negazione di Dio eretta a sistema, e fatto entrare chi poteva accelerare l'unità italiana, desiderio di tante generazioni?—Ma la storia non offre esempii di ministri che abbian servito due dinastie — Oh chi ciò dice per fermo ignora l’istoria. Io non voglio appoggiarmi sull’autorità del famoso Talleyrand, da tutta Europa rispettato e ammirato, che servi tutti i poteri (e non pochi) che dal 1789 insino al 1815 eran succeduti nel suo paese, perch’ebbe l’imperdonabile colpa di non avere alcuna fede politica, e perché il suo nome va congiunto a una massima odiosa (): ma mi fia lecito (spero ) di poggiarmi sull’autorità di un gravissimo storico de’ nostri tempi, di Macaulay, e sopra un esempio della storia inglese. Halifax, uno de’ più eminenti torys d’Inghilterra ai tempi di Giacomo II, e che fu Presidente del Consiglio, quando questo sovrano che regnò  tre anni sali al potere, Halifax, che non avea voluto saper nulla del disegno d’invasione, e quindi non avea voluto sottoscrivere l'invito a Guglielmo d’Orange di venire a governar l’Inghilterra, Halifax, uno de’ commissarii spediti da Giacomo per conciliarsi col genero Guglielmo, che si era adoperato per ottenere una riconciliazione persino quando gli Olandesi erano in piena marcia verso Londra, e non avea mai abbandonato Giacomo né manco quando questi avea lascialo il trono, Halifax ebbe da Guglielmo nella prima composizione ministeriale il sigillo privato e continuò ad essere presidente della camera dei Lordi: e se i wighs furono di ciò dolenti, il sopraccitato storico loda Guglielmo, perciocché (sono le sue parole) la nostra rivoluzione, se pur si può dire che portasse l'impronta del carattere di una sola mente v vestiva per certo quella del vasto ma prudente consiglio d'Halifax (). Non vi paiono, lettori, queste parole accomodate al nostro caso? Non vi pare che, se la rivoluzione di Napoli dee portar l'impronta del carattere di una sola mente, dee portar quella del vasto ma prudente consiglio del Romano? Da ultimo se Giuseppe Garibaldi, chiamato perfino dai giornali russi il più leale dei patriotti italiani (), ha detto e scritto ch'egli ha bene meritato della patria, chi è quell’uomo più puro e più leale del Garibaldi, che oserà contraddirgli? Io mi sono disteso a ribattere quest’accusa, che mi pare la più assurda e vana cosa del mondo, non per altra cagione se non perch’essa è l’Achille degli argomenti che dai nemici del Romano si adduce sempre contro di lui, ed è stata stampata le tante volte, e in qualche nostro giornale e in esteri.

Ma, venendo a noi, se il primo Ministero Romano sotto la Dittatura fu una guarentigia pel paese, non durò, perché i suoi atti erano annullati dalla Segreteria generale, ov’erano i repubblicani che intendevano di tutto riformare, e volevano infondere uno spirito rivoluzionario che poteva nuocere al paese. Il Ministero si dimise, ed il paese ne fu dolente, perché non voleva esser governato dagli uomini che non godevano fama di moderati, e che apertamente si dicevano Mazziniani. Garibaldi, uomo di guerra, si era pure fastidito delle lotte civili, e datosi tutto alle faccende guerresche creò Pro-Dittatore il marchese Trivulzio Pallavicino, e nominò un altro Ministero, del quale i componenti erano quasi tutti ai precedenti inferiori. E furono i cittadini attoniti in vedere il Conforti che facea parte, qual Ministro di Polizia, della passata amministrazione, e che perciò aveva insieme ai suoi colleghi data la dimissione, esser chiamato a comporre il novello Ministero. Il quale fece scialacquo del pubblico tesoro, eccitò le insaziabili e sfrenate voglie dei richieditori degli impieghi, infiammò l’ira della stampa con atti illegali e inopportuni: ma compiè un gran fatto, donò all'Italia il plebiscito () del 21 ottobre, col quale il popolo dell’antico reame di Napoli dichiarò voler l’Italia una e indivisibile sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emmanuele, e de suoi legittimi discendenti. Cadde il Governo Prodittatoriale all’entrar del Re Vittorio in Napoli nel 7 novembre, e cadde con general soddisfazione: ma l’istoria non può dimenticar quel fatto. Il Re creò Luogotenente generale il Farini, uomo di vigorosa mente, storico illustre, che avea dato lodevolissimo saggio di sé ne’ Ducati, quando questi si scossero dagli abborriti sovrani. E il Farini cavò un bel programma, di cui il concetto era di non far che l’amministrazione fosse centrale a Torino: ma di poi a’ fatti parve che questo non rispondesse, perché la Luogotenenza, quasi fosse un Parlamento, incominciò a voler qui introdurre tutte le leggi del Piemonte. Non è ufficio nostro porre ad accurata disamina gli atti varii della Luogotenenza del Farini: ma parlino per noi gl’introiti fatti perdere alla città di Napoli a fine di far scemare il prezzo del pane, e questo crescere di giorno in giorno, parli un decreto sull’olio che tutti credettero dovesse farne diminuire il prezzo ma lo rialzò (); parli la rendita dello Stato fatta vendere in tal proporzione da farla bassare a colpo d’occhio e farle perdere ogni valore; parlino cinque milioni di ducati non potuti trovare per tutta Italia, e a quel che si disse si dové mandare a Parigi a fare un prestito che pur non si fece; parlino gl’impieghi continuatisi a dare dal Governo riparatore non a chi li meritava, ma a chi li ricercava, e senza togliere quelli che nelle passate amministrazioni e contra ogni diritto () li aveano ricevuti; parli la pubblicità dei varii bilanci delle amministrazioni che si richiedeva dalla Prodittatura, e fu pur negata dalla Luogotenenza; parlino i lavori che preparava il Dicastero di Agricoltura e Commercio comparati dagli stessi amici () a disegni ben contornati e non mai coloriti; parlino tutte le opere pubbliche che si promisero alle popolazioni e non mai si cominciarono; parlino i corpi morali che protestavano o si dimettevano; si dimise, caso insolito! la camera di Commercio, probi e intelligenti negozianti; protestà il Decurionato, e voleva stampare sul giornale officiale la sua protesta, ma non fu permesso; risposero per le rime gli eletti quando si volea saper da loro la cagione del caro dei viveri; parli finalmente la stampa che faceva tali e tanti clamori contro la Luogotenenza, e con non minor forza di quelli che avea fatto contro la Prodittatura. Il Farini ne fu stanco, vide la necessità di ritirarsi (anche pel dolore che risenti a cagione di grave perdita in famiglia), comprese che altra cosa è governar piccoli Ducati, altra provincie vaste, popolose e a lui del tutto ignote; e si avvide soprattutto di aver fidato in qualcuno che non era capace di governare e massime negli emigrati, i quali, come ben dice il Segretario fiorentino, sono per lo più vantatori, boriosi, e s’immaginano di avere un credito che non hanno; onde poi alle pruove non riescono a nulla.

Dimessosi il Farini e il suo consiglio di Luogotenenza per la venuta di S. A. R. il Principe Eugenio di Savoja, accompagnato dal Segretario generale di Stato cav. Costantino Nigra, il principe e il cavaliere interpellarono la pubblica opinione, e questa loro indicò due uomini rispettati dall’universalità dei cittadini, e nei quali parea si comprendesse la nostra rivoluzione: Carlo Poerio, uomo di antica virtù e di provata costanza d’animo, e Liborio Romano, che molto ha pure sofferto per la libertà, e che avea renduto al paese, come abbiam notato, segnalati servigi. Declinò il Poerio da tal peso e responsabilità, ma indicò taluni nomi: accettò il Romano sempre e in qualunque modo desioso di giovare alla patria. E la calma e la fiducia rinacquero; gli spiriti si acchetarono; la stampa di opposizione, salvo forse quella che vorrebbe il ritorno del Borbone, fu meno acre; i lavori per la città di Napoli e altrove si videro rinascere, e la pubblicità fu data agli atti del Governo. Dippiù, mentre la legge sulla Guardia nazionale mobile era stata fatta da qualche tempo dalla passata Luogotenenza, e si dubitava se si potesse o no accozzare un battaglione, in otto giorni, infervorata la gioventù dalle calde e patriottiche parole del Romano, che a tale oggetto percorse tutti i posti di Guardia, e mercé la sua attività, e quella del valente giovane sig. de Sauget, Direttore della Guerra, si creò un bel battaglione, che parti da Napoli immediatamente tra le pubbliche acclamazioni, e mosse per Torino, a fine di colà trovarsi all’apertura del Parlamento italiano. E il Cielo benedisse tanto i voti di questa gioventù animosa e di tutti gl’Italiani, che nel 14 febbraio, un giorno prima che il battaglione partisse, Gaeta cedé mercé il valore e la costanza delle soldatesche italiane capitanate dall’illustre general Cialdini, e secondate dalla flotta italiana di cui è capo il valoroso ammiraglio Persano.

Tal è Liborio Romano: né pretendiamo noi di giustificare tutti i suoi atti, ma solamente di mostrare che giovevole all’Italia è stato l’indirizzo da lui dato alle nostre cose. Cosi se la patria si giovò di un provvedimento ch’ei tolse in sul principio del suo ministero, quale fu di collocar nei bassi uffizi della Polizia alcuni popolani, i quali avevano (è vero) dato opera a mantener lo spirito pubblico, ma erano turbolenti e di non sani principii, se la patria se ne giovò, perché in tal guisa non potettero nuocere persone che potevano allora essere pericolosissime, fu tale provvedimento senza dubbio un impaccio al Governo che succedé, dappoiché siffatti uomini, non usi ad obbedire alla legge, abusarono del loro potere; né le susseguenti autorità potettero disfarsene interamente. Cosi, se collocò talvolta in posti elevati chi più che ad altro sembrò che ciò dovesse all’amicizia ch’egli sentiva per lui, queste son piccole colpe che spariscono dinanzi ai servigi importanti ch’ei rendé all’Italia: e noi senza tema d’errore possiamo sin da ora affermare che la storia dovrà segnare il suo nome tra quelli dei benefattori d’Italia, come di uomo, cui molto debbe l’indipendenza e la libertà italiana.

Per le quali tutte cose noi dobbiamo compiangere la cecità di chi prima gli ha porto lodi e poi lo ha biasimato, o di chi dimenticando gli usi delle nazioni libere e civili, per rabbia di aver perduto il potere, gli si è scagliato contro con violenza e lo ha brutalmente e contra ogni diritto ingiuriato. Che se l’antica Roma resisté nei suoi bei secoli alle intestine sedizioni o alle nimistà di fuori, se l’Inghilterra da due secoli, è ancora per lungo tempo, ha chiuso presso di lei l'abisso della rivolta, ciò si dee principalmente attribuire all’onoranza, in che furono mai sempre tenuti appo queste nazioni, gli uomini che alla patria giovarono; avendo elleno seguito la massima del Macchiavelli, cioè che le calunnie date a chi si è adoperato nelle cose dello Stato sono un disordine che fa gran male (). Un paese non guadagna niente in vedere i suoi più onorevoli rappresentanti, i migliori cittadini inviliti, o bistrattati. Questi uomini, i quali godono della stima de’ loro concittadini, hanno il loro onore, hanno la loro libertà, i quali beni preziosi, che sono di diritto comune, non pertengono affè di Dio agli scribacchiatori di effemeridi, che parlano perché compri o nimici personali: e un giornale, che ha la pretensione di essere l'organo di un’opinione nazionale, non fa per certo un'opera patriottica, quando scagliandosi villanamente contro un benemerito cittadino, spoglia in tal modo la politica della sua gravita, e quella e sé medesimo ad un tempo di qualsiasi dignità.

La difesa di Liborio Romano sta nel diritto, anzi in quella legge di salute pubblica, che l’antico senno latino pose sopra tutte le altre; sta nella credenza universale che l’umanità tiene da secoli, cioè che grande è il cittadino che sé stesso immola alla salute della patria; sta infine in quella suprema voce del popolo, che da tanti collegi elettorali lo ha mandato al parlamento italiano (). E un tal popolo per Dio non è la vile moltitudine del Foro, che s’inginocchiava davanti agli odiati padroni, dimandando pane e spettacoli: ma si sono gli elettori politici, la maggioranza dei liberali, il flore della nazione che lo ha prescelto. Questa è la più convincente risposta ch’egli possa dare ai suoi nemici: questo trionfo, di che lo ha onorato l’eletta del popolo, è il più bello e il più desiderabile, che si possa mai da quai si voglia cittadino ottenere. Adunque degna lode a Liborio Romano è la stima dei suoi concittadini liberamente a lui conceduta; degnissima lode è di aver potuto compiere un antico suo voto, quai si è quello di vedersi stretto in indissolubile comunanza di affetti con quella gioventù animosa della Guardia nazionale, che con le nobili e vergini aspirazioni del suo cuore ravvivò il suo vecchio patriottismo, e l'invitta sua costanza d’animo, provata da tanti dolori e da tanta avversità di fortuna.

NOTE

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