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Abbiamo trovato alcune notizie sull’autore del testo, che presentiamo agli amici che ci seguono e ai naviganti tutti, nell’articolo “L’autonomismo anarco-legittimista nelle memorie del duca di Pescolanciano” che potete leggere sul sito: https://www.adsic.it/.

Alcune delle domande che si fece allora Gervasi ce le facciano pure noi da anni. Come mai alcuni nobili europei sentirono il dovere morale di recarsi nelle provincie napolitane a combattere per i Borbone e nessun generale o alto ufficiale napolitano senti questa spinta ideale?

Ci domandiamo anche che ruolo ebbe la Santa Sede nell’atteggiamento della diaspora napoletana a Roma e che ruolo ebbe il tallone di ferro dei Savoia nel condizionare le scelte degli emigrati. Il timore che amici e parenti rimasti nelle terre napolitane potessero subire rappresaglie per eventuali scelte antipiemontesi sicuramente influi negativamente ma di certo non giustifica l’ignavia degli ufficiali napolitani rifugiatisi a Roma.

A Napoli la situazione non era migliore. Si era tutti contro tutti: i moderati ebbero vita difficile per la opposizione democratico-garibaldina, e questa fu aspramente avversata da Cavour e dai suoi epigoni, i borbonici vennero perseguitati per tema che si saldasse opposizione politica nelle città e opposizione armata delle campagne.

In tutto questo sguazzò la classe dirigente padana che ebbe gioco facile nell’imporsi e tenere saldamente le redini del potere che veramente contava ovvero quello militare ed economico.

Zenone di Elea – 31 Maggio 2015

I LEGITTIMISTI NAPOLETANI

LETTERE D’UN REPUBBLICANO AD UN CONSORTE

PER GIOVANNI GERVASI

Scatenata d'Averno caco ogni Furia

E regna sol sopra la terra immonda

Gola, invidia, pigrizia, ira e lussuria.

Sol d’avarizia e la superbia abbonda

Il corrotto custume, e il tempo indegno

Nella piena del mal corre a seconda

NAPOLI

GRANDE STABILIMENTO TIPO-LITOGRAFICO DEI FR. DE ANGELlS

Vico Pellegrini 4, p. ° p. °

1869


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Ciò che precede quel che segue

Quasi il Conciliatore non bastasse ad acconciare in Napoli le cose di Francesco II come diciotto secoli addietro Pilato acconciò in Gerusalemme quelle di Gesù Cristo, ecco venir fuori — in questa stessa felicissima città che Rudinì tiene pel capo e Capitelli po’ piedi perché il governo possa più comodamente ballarle il cancan sulla bocca dello stomaco — un altro organetto di quel partito, un cosi detto Smascheratore, il quale sfidando, anzi accoppando, tutto quanto vi ha di accettato in questo mondacelo, a cominciare dalla grammatica e venendo su su fino all'onestà, fino all’apparenza dell’onestà, fino all'uso introdotto oramai da un bel pezzo nella stampa, d’indorarle almeno, le pillole troppo disoneste, è arrivato — ed è quanto dire! — a fare che il Conciliatore, al paragone, potesse esser ritenuto come una specie di giornale possibile, e aggiungerei altresì ragionevole, se, come tutti i giornalisti officiosi, avessi contratto anch’io l’abito di dirne, di quelle che s’hanno a pigliare colle molle.

Un consorte, che pure non s’è fatto né bianco né rosso dinanzi allo smagliante candore delle vergini anime di Fambri e Brenna, anzi che quando ha occasione di nominarli li chiama teneramente Pauluccio e Raimondino; un consorte che piange di tenerezza sempre che gli vien fatto di ricordarsi della commovente generosità di Balduino — il quale regala di 52 mila lire il primo spiantato che gli casca fra i piedi, mentre ognun sa che, a tutelare gl’interessi della gran madre adottiva, la Società del Credito mobiliare, ci negherebbe mezza lira alla sua madre naturale, la vedesse pure basir di fame— questo consorte, dico, in vista de’ primi numeri dello Smascheratore s’è sentito a un tratto come attraversare le viscere da un cristere d’italianità.

Egli ha creduto vedere in quel giornale una offesa al decoro della nazione.

Ed allora — a’ consorti toccate tutto, rompete loro anche la faccia se vi piace, che resteranno impassibili, ma il decoro dell’Italia non gliel’avete a toccare, se non volete vederli convertiti issofatto in tante iene — ed allora, dicevo, saltando a piè pari l’abisso che separa (non importa che coloro i quali si rammentano de’ Mordini e i Bargoni di un tempo affermino che questo abisso in conchiusione non sia che solamente un miraggio) gli uomini dal suo partito da quelli del partito al quale mi onoro di appartenere io, s’ è diretto 'senza più al suo «onorevole» amico S. E. Gualterio, pregandolo dalle viscere profonde perché resecasse qualcosuccia dai gruzzoletti di marenghi che l’E. S. onorevolissima è solita spendere mensilmente al bazar di penne e coscienze umane e la spedisse a me per mandar fuori un qualche opuscoletto che smascherasse, non lo Smascheratore che al postutto non è che roba da poveri vermicellai biasciarosari e coltivatori di patate, ma i messeri dai blasoni più o meno burellati e inquartati, i quali dimenticando ciò che devono a' loro nomi e al loro passato, a furia d’intrighi, di pettegolezzi, di male arti e di far vedere lucciole per lanterne, han saputo cavar fuori da uno scrigno, che pure fino a questo momento non s’era aperto che per fini onesti, la discreta sommetta di 4 mila lire.

I lettori, supposto ch’io n’abbia qualcuno, cominceranno col domandarmi de' chiarimenti circa la preferenza, che, sopra tanti imbrattatori di carta assoldati dalla banda consortesca, è stata accordata a me.

Cosiffatta curiosità è tanto più legittima in quanto che egli, il lettore, non ignora qualmente per il governo riparatore — come lo chiamò quel povero buon uomo di Poerio, che oggi non è più né manco putredine, e che Settembrini — Dio lo perdoni! — in un eccesso della Statofobia da cui è stato colto vorrebbe far di marmo per collocarlo nella Villa, vicino a Giambattista Vico — povero Nanni, questa si che non te l’aspettavi! — e precisamente là dove per tanti anni, e senza che mai nessuno gli avesse rotto le scatole, s'innalza fiero e minaccioso Pirro — la curiosità del lettore, dicevo, è tanto più legittima in quanto che ei non ignora come pel governo riparatore, io conto tanti delitti per quanto ho scritto parole dal 60 in qua; anzi dal 57, ché fu allora ch’ebbi la scesa di collo d’intruogolarmi nella stampa periodica e corcarmi in questo di «Procuste orrido letto» che è la politica.

Ed ho voluto notare la data precisa per ricordare a cui l’avesse dimenticato, che il sullodato governo ha tenuto pe' delitti politici de' rompicolli gli stessi criteri che ha tenuti per gli anni di servizio degli impiegati.

Nè Murena, né io, per esempio, siamo stati dimenticati dal governo; la sola differenza che corre fra quel buon uomo e me sta in questo, che mentre il suo nome ha figurato, finché è stato vivo, sui registri della Tesoreria, il mio ha figurato, figura e, finché non crepo, figurerà su quelli della Questura.

Questa è stata come una parentesi. Veniamo all’ergo.

Dunque sappia il mio signor lettore, che se sono stato io questa volta, ad onta della mia qualità di rompicollo, il Beniamino della consorteria, la ragione precipua di tale insperata fortuna vuoisi cercare in questo, che essendo stato scoperto testé dal sig. questore Scoppa come imo dei più sfegatati borbonici, anzi come uno de’ sanfedisti addiritturaAccidente! e che acume ha il sig. questore, disse un amico quando gli si parlò di cosiffatta scoperta — si è creduto, e forse non a torto, che nessuno più di me potesse trovarsi addentro alle segrete cose di que’ signori.

Né, d’altra parte, stia a credere che le pratiche fossero poi andate così lisce lisce a Firenze, tutt’altro: il sor Gualterio anzi, ch’era rimasto apatocchiato finché il mio Mecenate s’era tenuto sulle generali, appena senti profferire il mio nome sguizzò in piedi come se gli fosse entrato qualche cosa di dietro, ed alle mille e una ragione che avea il diritto e il dovere di opporre, aggiunse il dubbio non ne venisse ad urtare la suscettibilità del suo servitore umilissimo Salvatore Cognetti Giampaolo, che ha pure adesso, e con tanta alacrità e magniloquenza — peccato che non posso aggiungere anche «con tanto successo» — appoggiata la lista dei candidati della Patria, dove fra gli altri faceano bella mostra di sé i chiari nomi di don Ciccio Tarassi e —giù il cappello— don Ferdinando Mascilli. Però per fortuna mia e disgrazia di Giampaolo Cognetti Salvatore, il consorte mio amico avea ed ha, nel regno d’Italia, il potere e la influenza stesse che Clorinda avea in quello di Aladino, il perché Gualterio addatosi ch’era il caso o di bere o di affogare, chinata la ricca fronte sulla pudica mano, come forse fece Aladino quando fé grazia della vita a Sofronia e Olindo, mormorò:—Poiché lo volete, l'opuscolo resti aggiudicato al vostro protetto

E nulla a tanto intercessor si neghi.

Ancora poche parole per ispiegare la mia amicizia col consorte, cosa anche questa, per verità, che qualche schifiltoso lettore potrebbe non trovare assai naturale.

Questo signore, avete a sapere, prima di essere quel che è, non era ciò che generalmente furono tutti coloro che oggi sono o consorti, o tuttavia camuffati da legittimisti o da repubblicani (e il perché lo sa Dio) aspirano a divenirlo, vale a dire ei non era né lenone, né spia, né falsario, né giuocatore di vantaggio, né grassatore; il poveri uomo — la verità prima di tutto, ché di coscienze infine non se ne ha che una sola — il pover’uomo non era che solamente un po’ contrabbandiere. Ed è questa mezza innocenza appunto, dicono, ciò che non peranco lo ha fatto entrare a far parte del gabinetto; lo si è creduto poco esercitato, poco pratico del fare consortesco. Difatti, quando in uno degli ultimi consigli di stato, un ministro ha avuto la sgraziata idea di proporlo direttore di non so più quale amministrazione, le altre eccellenze han protestato come un sol uomo, appoggiandosi principalmente sulla circostanza, che avendo il candidato una fede di perquisizione relativamente quasi netta, non offriva garanzie abbastanza solide, abbastanza degne di coloro che entrati nel mondo dalla porta della bisca, n’erano usciti—per andarsi ad arrotondire l’epa a Firenze—da quella della galera.

Egli dunque non fu niente di ciò che furono i suoi fratelli in Cristo e Cambray-Digny; al contrario, egli era universalmente ritenuto—per quanto poteva esserlo, si capisce, ché infine il germe che si richiede per finir consorte dovea bene averlo in corpo; è chiarissimo — era dunque ritenuto, come dicevo, per una sorta di mezzo galantuomo. Qual maraviglia perciò se fra lui e me fosse rimasto un addentellato che ha finito più tardi col determinare fra noi due quell'enterite che ci volea perché l’uno potesse trattare un affare a vantaggio dell'altro? Questo per lui; per me poi egli è ch'è non si sa mai quel che può accadere in questo mondo. Io non patisco certo difetto d’audacia, o chi mi assicura che non potessi un giorno, Tringali secondo, trovare in lui un secondo Balduino? Un buon generale non dee solo, come il pro’ Cialdini occuparsi esclusivamente del suo «conveniente alloggio» né, come il prò La Marmora, discervellarsi in lucubrazioni filologiche per istabilire la differenza che è fra le due voci disfatta ed insuccesso, ma e’ deve pure, ed anche prima d’impegnar la battaglia, provvedere alla ritirata. Non ho a pensare mo un poco alla mia, io, che sto battagliando colla testardaggine d’un mulo da dieci anni, e che già comincio a non esser più dell’erba d’oggi?

S. E. Ferraris pensò bene alla sua quando entrò a far parte della Permanente; e per me, Dio lo benedica oggi per allora cento volte e cento. Io faccio voti anzi perché egli avesse avuto anche adesso, che è diventato ministro, la stessa antiveggenza ch’ebbe quand’era semplice permanente... Ha già, che diavolo! allorché si è stato cosi bravo funambolo per tanti anni, si casca pure talvolta, è ben vero, ma se non si ha la disgrazia di spazzarsi il collo addirittura, si casca per lo meno in piedi.

E lo stesso avrà fatto Mordini, m’immagino. Un suo amico a questo proposito, mi diceva pochi giorni or sono, che questa neo-eccellenza, che oramai si trova di aver già pisciato su più d’una neve, avea cominciati i suoi studii sulla ritirata sin dal 63, quando cioè dal Castello dell’Ovo, dove fu cacciato da colui che fu più tardi l’eroe di Custoza, ritornò a riveder le stelle. Victor Hugo dice che la tempesta somiglia a una cattedrale, io glielo concedo, ma a patto ch’ei confessi che il forte dell’Ovo—ed io l’ho provato — somiglia a una cattedra di quieto vivere.

Comunque sia, la ragion dell'opera, come classicamente direbbe il filoelleno direttore della Perseveranza, il — con riverenza parlando—professore Bonghi, è bella e spiegata; a cui non piace mi rincari il fitto.

La mi è venuta un po’ lunga è vero, ma lo stampatore conteggia con Gualterio; a me non importa niente, né gran cosa di più deve importare a chi legge, dacché in fin delle fini e’ non c’è nessuno che gli faccia obbligo di non gittare, quando s’accorgerà d’averne piene le scatole, l’opuscolo dalla finestra. Per me, sia che me lo lodino, sia che me lo biasimino, è tutt’uno. Al di d’oggi in Italia si va attorno come se si passeggiasse in un viale di schiaffi, e chi si affliggesse del biasimo che gli si getta addosso somiglierebbe di molto a chi, stando nel bagno, si rammaricasse della goccia d’acqua che, bevendo, gli è caduta sul petto. La vergogna e l’onore sono aboliti tutt’e due, e se abbiamo ancora la pudibonderia di coprirci le rispettive parti pudende, non lo facciamo che per preservarle d’estate dai raggi del sole, e dal soverchio freddo l’inverno. Non mi sorprenderebbe niente anzi se nel prossimo autunno andassimo alla passeggiata lutti, maschi, femmine, legittimisti e consorti, senza né manco le foglie di fico onde quegl’imbecilli de’ nostri progenitori si fecero le mutande e le gabbanelle... Come sarebbero graziosi il comm. Colonna e il duca di Castronuovo! Ancora un anno di queste delizie, e chi volesse vederci arrossire dovrebbe cominciare col provvedersi di minio dal droghiere. I consorti ci hanno insegnato che più invetriata si ha la faccia e più la buona sorte ci corre dietro.

Ond’è che la preghiera, la sola preghiera che sommetto al lettore è quella di non voler comprare l’opuscolo a credenza. Gualterio mi ha ben mandato del denaro, non lo nego, ma è stato pochino per verità.

I

Mio carissimo signore

Ab tote principium

Per darvi una idea della scrupolosa esattezza che governerà le linee che seguono, devo cominciare collo spiegarvi il perché io, amante di libertà, scrivendo a voi consorte, preluda con una inesattezza, servendomi del sacramentale principio di ogni lettera: mio carissimo etc.

Io dicendo a voi mio carissimo mento come una meretrice; peggio ancora, come un ministro costituzionale: voi non mi siete caro niente affatto. È il galateo, questo grande maestro d’immoralità che ha elevata la menzogna a precetto di civiltà.

Del resto, il mondo è andato sempre ad un modo, ed io che alla gentilezza bugiarda ho costantemente anteposta la sincerità anche selvaggia, prima di cominciar questa lettera, e appunto per isbarazzarmi della tentazione di principiarla con un sincero mio sforcato, invece che con lo sguaiato mio carissimo che vi leggete, ho consultato se non tutti certo gran parte de’ più conosciuti epistolografi, cominciando da S. Paolo e finendo al Lafarina, l’uomo che se non fosse morto non ne avrebbe fatta proprio nessuna, delle buone azioni che tutti fanno, almeno una volta sola, durante la vita.

Ebbene, tutta questa fatica è andata perduta; io non ho trovato nessuna lettera, checché ci stesse d’insolente nel corpo, che non cominciasse e finisse con una o più cortesie.

Come fare dunque? io mi sono domandato allora: come portare tanta innovazione allo stile epistolario? E poiché accade degli uomini come delle pecore delle quali povere bestie Dante disse

E ciò che fa la prima e l’altre fanno

io, seguendo, comeché a malincuore, le peste di chi mi ha preceduto strozzo dentro di me l’anelito che ho di darvi un morso e vi dò invece del mio carissimo.

È un orrore, ne convengo, ma non sono stato già io che ho inventato il galateo.

È probabile pure che, terminando, io vi dicessi di stringervi la mano.

Poiché lo faccio colle dita della mente non c’è ragione che ve ne inquietiate, ove però incontrandovi in istrada o altrove, io mi vi appressassi per stringervela materialmente,badate a voi, che per l’anima mia due o tre ossicciuoli, e se posso anche quattro o cinque, ve li stritolo certo.

Ed ora all’argomento.

Voi mi domandate, se non erro, due cose:

1.° Chi sono, e che sono, i fondatori, i protettori, gl’ispiratori del giornale lo Smascheratore e i guastamestiere che lo scrivono.

2.° Che cosa tutti questi signori vogliono conseguire, servendosi d’un giornalucciaccio che è la negazione del senso comune e della serietà.

Io, se Dio vuole, e voi dal canto vostro non mancate del tesoro di pazienza che si richiede affine di tenermi dietro per una cinquantina di pagine a traverso gli incisi, le girandole, le digressioni, le reticenze, i singhiozzi, le stramberie e le asprosità del mio stile, non vi lascerò sulla cosa dubbio di sorta. Però a me piace farle cose a modino e proceder con ordine; né voglio, d’altra parte, che voi consorti,—voi che ci rubereste le suole di sotto le scarpe mentre camminiamo, e dimostrandoci per soprassello il giorno appresso che ce le siamo rubate cosi fra noi in famiglia per infamare voi altri — non voglio, dicevo, che voi consorti possiate quando che sia rimproverarmi d’avervi portato via il denaro e avervi data cattiva merce.

Io dunque penso di cominciare ab oro, vale a dire dal farvi sapere, e lo farò con poche parole, chi siano in generale i legittimisti napoletani. Mi occuperò poi in una seconda lettera di quelli che si trovano imbrodolati in questa porcheria ché è lo Smascheratore.

Se de' legittimisti napoletani avesse a parlare il gran padre Alighieri, il valentuomo se la caverebbe con un semplice terzetto

Fama di loro il mondo esser non lassa;

Misericordia e giustizia gli sdegna;

Non ragionino! di lor, ma guarda o passa.

Ed io, poiché Dante non è più in grado di giovarsi della legge sulla proprietà letteraria, potrei bene fare di cotesti tre sublimi versi l’uso che più vorrei. Ma siamo sempre li: che ne direbbe Gualterio, egli che ha pagato per leggere le mie epistole e non i versi di Dante? Gualterio per deliziarsi nella lettura delle opere degli scrittori che paga abbandonerebbe ben volentieri a’ sorci tutta una biblioteca di Divine Commedie. È naturale del resto; similia similihus. Avete mai visto un asino innamorarsi d' una bella donna? l’asino non tien dietro che all’asina, per allampanata e scorticata che sia. E per uscire dalla stalla, dirò che quando si è scritto un libro intitolato Memorie storiche d'Italia e si ha la coscienza delle proprie castronerie è impossibile non chiudere un occhio sulle castronerie altrui, talvolta anzi s'ammirano pure.

Ma torniamo a’ borbonici.

Questi signori dunque, fra i quali, s’intende, sono bene delle splendide, e dirò pure non scarse eccezioni, questi signori presi cosi in massa, come, per esempio, se s’avessero a imballare per caricarli sopra un bastimento e spedirli a piantare i cavoli nelle vergini terre de’ nostri antipodi, non hanno avuto, non hanno, né avranno mai ombra d’importanza nelle cose del paese. Sono di carne perché i cieli non vollero uomini di stoppa, ma di una carnaccia che non si sa mai se è carne o pesce; politicamente parlando, da dieci quintali di essa non ne cavereste una braciuoletta.

Essi mancano di tutto che devono avere coloro che vogliono stringersi in partiti politici, ed hanno invece—e ci tengono—tutto, che quelli i quali si stringono in partiti politici, e solo per essere uomini politici, abbandonano, costi che costi al loro cuore il sagrifìzio.

Non solo e’ non hanno la fede nel principio che rappresentano, ma non hanno né manco l’amore che genera quella fede; e quando l’una cosa e l’altra nascesse loro in corpo come una tenia, mancherebbero sempre dell’audacia che si richiede, se non per ottenere il trionfo del loro principio, almeno per lottare affinché quel principio — abbia o no probabilità di trionfare — resti a ogni modo alto, luminoso, onorato.

Una delle cose che rafforza, che anima, che spinge i partiti politici ad agire, o, quando meno, ad esistere, è senza dubbio la religione pe’ proprii martiri. Ebbene i borbonici sanno bene de’ nostri, di Leonora Pimentel, di Domenico Cirillo, di madama Roland, di Danton, di Ciro Menotti, di Marco Botzari, de’ fratelli Bandiera, di Pisacane, ma perché noi altri che ne adoriamo le sante memorie li andiamo loro ricordando in tutte le occasioni, ove però domandaste loro chi fosse stato Giorgio Caudan, chi Charette, chi La Roche Jaquelin, chi la principessa di Lamballe, chi Carlotta Cordey, chi il generale Monk e tutti questi eroici martiri del legittimismo, e’ si stringerebbe nelle spalle senza rispondervi. Ne avranno inteso a parlare, non ne dubito, ma non li conoscono; li stimeranno ma non gli adorano.

Essi non hanno l’abnegazione propria degli uomini politici, i quali pure di conseguire il qualunque scopo cui mirano gl’immolano la famiglia, le sostanze, spesso la libertà, sempre il benessere. Non hanno la scienza del passato, non la coscienza del presente, non l'intuito — esatto o no poco rileva — dell’avvenire.

Troppo modesti per voler guidare, sono troppo orgogliosi per voler seguire, e il Pur si muove di Galilei è lettera morta.

Centri di tante piccole Europe, di tanti microscopici mondi essi ne vedono i confini alla estremità de’ loro capelli e nelle unghie de’ loro piedi. Incapaci della benché menoma iniziativa sono incapacissimi — e dicono per dignità — se altri ne prende una qualsiasi, di tenergli dietro. Teneri di tutte le forme del quieto vivere, gelosissimi principalmente degli organi della digestione, si crederebbero perduti se dovessero non dirò far qualche cosa per migliorare le sorti della loro patria, ma solo di far degli studii perché potessero all’occorrenza indicare ad altri qual forma di governo, secondo il loro modo di vedere, sia più adatta, più acconcia a dare a’ popoli il benessere e la prosperità.

Questa gente non ama l'assolutismo per sé stesso, ma pel niun obbligo che impone loro di occuparsi della cosa pubblica. Non dicono ch’è bella, una tal forma di governo, dicono che è comoda; non dicono cattivo il regime libero, dicono che è noioso.

Il sorriso della libertà non ha attrattiva per essi, e’ non sanno che farsene. A che serve infatti la libertà per quelli la cui esistenza giornaliera si divide in tre periodi: dormire, mangiare, andare in carrozza? Il paese per loro non è che quella parte più 0 meno ben lastricata della città dove possono sbirbarsela senza pericolo per le gambe de’ loro cavalli. La vita per essi è ciò che è il truogolo pel porco, un mezzo di godere. Stanno in mezzo al tramestio delle lotte politiche come gl’infusori nell’acqua, invisibili a occhio nudo. A scorgerli ci vogliono per lo meno gli occhiali de’ delegati di polizia.

Per loro l’89 non è che l’anno che venne dopo l’88, e prima del 90. É vero che fu per esso che una testa di re rotolò sul patibolo, ma poiché essa non ha impedito che di re ce ne stessero ancora sopra la terra, né che questi potessero sempre appendere croci all’occhiello, commende al collo e chiavi sul sedere, uno di più nno di meno, non casca il mondo.

Che cosa è il genio? D’hommes tu nous fais Dieux disse Regnier, ma i legittimisti non hanno letto Regnier e il genio chiamano genio come chiamano pane il pane. E questo è un bene, imperciocché se si volesse a forza averne una definizione qualunque, e’ vi direbbero ch'è una delle tante manifestazioni del bisogno, un effetto della fame.

Che è il popolo? Quello che si rompe le reni per servire le loro signorie illustrissime e procurar loro il fresco all’estate, e il caldo all’inverno. La scienza è quella che serve a tagliar loro i calli de’ piedi.

Per me — e gridate al paradosso finché volete — per me dico ed affermo che più di questi attuali che mandano i loro figliuoli alla scuola, erano intelligenti quelli del secolo passato che credevano si abbassasse fino al livello de’ propri vassalli quel signore che facesse d’imparare a leggere e scrivere. Perché mai Dio avrebbe dovuto dar le ali a’ pesci quando avea risoluto che non dovevano star che nell’acqua? Il cervello è un lusso. Dio glielo ha dato e se lo tengono, se non l'avessero, pure che potessero mangiare, bere e vestir panni, non ne sentirebbero la mancanza.

Usi a palliare la infingardaggine che è nelle loro ossa dicono che si occupano di politica perché leggono i giornali. Chiamano delirio il ragionamento di chi è convinto che ad ottenere s’ha a cercare, e credono di cercare domandando a Dio.

Affannarli? E perché?

Mentre il mondo

E un coso tondo

Che rollando va da se?

A sentirli talvolta sgattigliare di politica si sarebbe tentati a credere che, rinsaviti, cominciassero alla fine a far qualch’uso della ragione, ma alla qualunque menoma obbiezione che fate loro v’accorgerete ch’e’ non smaltiscono se non che quel poco, che, andando a torno la sera precedente, hanno incettato qua e là.

Una complicazione europea, un fatto qualunque, che, secondo il loro modo di vedere allontanasse, o anche sperdesse affatto una o più, di quelle ch’essi credono probabilità d’una restaurazione, non metterebbe loro addosso più brividi che non vi metterebbe il cuoco che abbruciasse loro il fritto. Hanno in corpo una sorta di bilancino col quale pesano i gradi della collera che possono sopportare e i gradi di piacere: tante dramme dell’una, tante dell’altro: mai una di più; una collera eccessiva altererebbe i succili gastrici, tanto necessari alla secrezione del chilo; un piacere smodato storcerebbe loro il nodo della cravatta, lavorio di due ore, che a giustificare citano Ortensio, il quale nell’acconciarsi la toga-addosso poneva tanta cura quanto nel disporre i periodi del discorso che dovea pronunziare.

Essi amano Francesco II — giacché lo dicono bisogna crederli — ma dell’amore che il sor Taddeo di Giusti concepiva per donna Veneranda

Che per giungere al cor con la ferita

Faceala corta alinea di quattro dita.

La delicatezza è per loro la cosa più ineffabilmente insipida che stia al mondo: la villania è un segno di grandezza.

I capi, o almeno i più conosciuti di questi innocenti vandeani, credono di aver fatto per Francesco II né più né meno di ciò che Monk fece per gli Stuardi, quando, incontrato alla riviera di Chiaia un principe di casa Savoia, restano col sigaro in bocca ed il cappello in testa; o pure, quando la sera in cui il principe di Piemonte dà un ballo, essi ne danno un altro, salvo il caso, beninteso, che un de’ Matteo qualunque in nome di un qualunque signor questore — e con quanto decoro e dignità del governo non accade dire—vada a far loro notare la sconvenienza di ballare allorché si balla a corte.

Francesco II lo vogliono bene in Napoli, sissignore, ma probabilmente portatovi dagli angeli, come la casa della Madonna che sulle ali di quelli da Gerusalemme passò a Loreto.

Che han fatto, che farebbero, che sono capaci di fare non dico per conseguire, e nemmeno per cercare di conseguire, ma per far credere ch’e’ vogliono conseguire il loro intento? Se Francesco II dicesse a uno di loro: mandatemi la vostra carrozza perché io possa venire in Napoli; forse gliela manderebbe, ma prima noterebbe quanto gli costarono i cavalli e quanto il legno, affinché ove i primi si spezzassero le gambe per la strada, o dell’altro si rompesse una balestra, potesse, subito dopo l’arrivo, farsi rivalere del danno dal maggiordomo di palazzo.

Essi sanno bene che il partito temibile, quello che tratto tratto — e sappia Dio perché—fa loro la guerra, la vera guerra, la guerra seria, non è già il partito avanzato, il quale in conchiusione dal bociare in fuori non ha mai potuto far altro dal 60 in qua;essi sanno bene come noi altri non avessimo mai potuto alzare impunemente la testa, e in conseguenza come non avessimo mai potuto fare né un bene né un male al mondo, ora,—che Dio li tenga sotto la sua santa guardia per tutt’i secoli de’ secoli—quale mezzo più efficace, io domando, e in pari tempo più legale, e però meno compromettente, che quello di appoggiare un tal partito all’urna, e cosi abbattere questi esosi consorti le cui iniquità, le cui turpitudini hanno atrocemente spiegata la loro azione sopra tutte quante le classi sociali? Quale mezzo più logico e insieme più facile per liberarsi di chi li ha tenuti in disparte, gli ha sprezzati, gli ha oppressi di tasse e, in date emergenze, gli ha imprigionati altresì? Per imbecilli che siano d’altronde, non possono ignorare che per ora almeno, le probabilità, se pure ve n’ha, di dar la gambata a’ consorti o stanno pel partito. avanzato o per nessuno. Ebbene, santo Dio! com’è che in tant'anni non si è mai presentato al loro spirito un ragionamento a un dipresso come questo:

«Il partito avanzato vuole afferrare il potere.

«Perché?.

«O, se è sincero, per fare il bene del paese.

«O, se è ambizioso, per semplicemente sostituirsi a’ moderati.

«Nel primo caso, una volta che, secondo la buona logica, di due mali s’ha a scegliere il minore, concorriamo, lavoriamo, sfegatiamoci se non a fare il bene del paese, ché questo — non stando al potere noi altri borbonici—non si può, ma a fargli meno male che è possibile, ché tanto staremo un po’ meno disperatamente anco noi.

«Nell’altro caso — nel caso cioè che il partito avanzato non agisse che per ambizione — poiché i nuovi arrivati piglierebbero a falsariga degli atti loro, gli atti di quelli che gli han preceduti; e poiché sono questi atti appunto che han perduto i primi, che speranza di sostenersi avrebbero essi, secondi? Come quelli dunque, andranno subito a farsi friggere anco costoro».

«Ma in allora qual vantaggio per noi?» potrebbero obbiettare i signori borbonici.

«Quale vantaggio?—Un solo; ma enorme, immenso, capitale, quale voi non potevate sperarlo in somma; il vantaggio, che, in questo caso, si troverebbero d’aver fatto le loro prove, non una parte, ma tutti quanti gli uomini della rivoluzione.

«Ora se i moderati,—essi avrebbero dovuto conchiudere, quando avessero cosi parlato,—ora se i moderati, sia per iniquità sia per buassaggine, sono caduti dai loro seggi, e i liberali, quelli che si dicevano dottori in fatto di governare,— sia per la stessa iniquità di quelli sia per la stessa buassaggine — non hanno saputo assettarvisi; se né quelli né questi, in altri termini, han potuto o voluto fare il bene che la rivoluzione nel 60 si sgolò per promettere al paese, vuol dire che il difetto non sta esclusivamente nel moderatume, come ne avean fatto credere i democratici, né ne’ democratici come volean darnela a bere i moderati, ma sibbene nella rivoluzione per sé stessa.

«Dunque è la rivoluzione che ha torto.

«E in questo caso chi è che ha ragione?»

Invece che fanno essi, i signori borbonici? — 0 si astengono, o, quand'è il caso, votano pe’ moderati, pel partito, vale a dire, che dopo che s'è servito di loro, li copre di sprezzo. E ciò fanno — essi dicono — perché nelle sfumature politiche dei partiti, nelle diverse loro gradazioni, essi si trovano meno lontani da questi che dai democratici. E i poveri grulli non vedono come il cannone cavallo che non è a tiro, non sia più da temersi dello spillo che è in mano di chi ci sta sotto il braccio a che può, a piacere, ficcarcelo o in un occhio o in mezzo al cuore! E non è tutto.

Come voi altri della canatteria de’ moderati che avete formata una sorta di società di mutua apoteosi, tanto che anco de’ vostri ladruncoli quando non potete appiccicar loro un par d'ali alle spalle e farne de’ cherubini,ne fate almeno tanti Cartouche, parendo a voi—e qui, al solito, se non onesti vi mostrate certamente logici — ché dovendo essere e parere de’ birbanti meglio è somigliare a’ birbanti d’Alfieri, che a’ don Bartoli di Beaumarchais, come voi, dico, i borbonici si sono stretti in un’associazione di mutua denigrazione. Il perché, come voi altri che se Dio vi avesse unti di miele vi andreste leccando a vicenda, cosi essi, se fossero armati di corna farebbero alle capate gli uni cogli altri, in mezzo Toledo.

A sentirti, tutti, meno quei che parla, s’intende, han contribuito alla rovina di Francesco II, egli solo, quei che vi sta dando la peregrina notizia, avea tutto preveduto, tutto preannunziato, ed egli avrebbe certamente salvata la dinastia... lasciate fare a lui per questo! anzi ei l’avea giù salvata, ma il conte X facendo la tale o la tal’altra corbelleria; il duca Y commettendo la tale o la tal’altra birbonata, mandarono i suoi piani a carte quarantanove,—e allora che dovea fare il povero buon’uomo? se n’andò a casa sua e chi s’è visto s’è visto.

Chiabrera illustre poeta del secolo XVI volle si scrivessero sulla sua tomba queste parole:

Amico, io vivendo cercata di conforto per lo monte Parnaso, fu meglio consigliato fa di cercarne pel monte Calvario.

I legittimisti a’ quali alludo, se fossero davvero que’ buoni cristiani che hanno la velleità solo di voler parere, dovrebbero desiderare che sulla loro fossa si scolpisse quest’epitafio:

Vivendo cercammo d'acquistare importanza vantandoci uomini politici. La fu una voluttà che scontammo facendoci conoscere per uomini melensi.

E questa fossa dovrebbe essere una per tutti loro, non foss’altro per preservare le povere ossa travagliate di chi ha lavorato, pianto, sofferto e sanguinato per la patria dal contatto di quelle di tanti infingardi.

L’epitafio di Chiabrera e quello de’ borbonici, comunque apparentemente dissimili, sarebbero fratelli, dacché avrebbero comune la madre l’Esperienza, e comune il padre, l’Amor del prossimo. Così l'uno come l’altro tenderebbero a impedire che chi ci succedo incespichi là dove noi incespicammo.

Ed ora che vi ho detto tutto ciò che non hanno, i borbonici, e che per essere uomini politici dovrebbero avere, passerò a brevemente accennarvi a tutto che hanno e che sarebbe bene non avessero.

In primis et ante omnia hanno denari.

Ciò che vuol dire, che hanno tutto che si può aver col denaro, in conseguenza l’abitudine dell'ozio, l’abitudine de’ comodi, l’abitudine di essere obbediti, l’abitudine di essere adulati, l’abitudine de’ divertimenti, l’abitudine della leggerezza.

Avari fino alla sordidezza, essi si lascerebbero cavare un occhio piuttosto che un pezzo da 20 franchi dalla tasca. Non spendono la metà della loro rendita, ma se ad istanza di Cambray-Digny il governo italiano, per far denari, promettesse a qualunque voglia pagarla, la forma di governo che meglio gli piace, Bertani, ne son certo, venderebbe fino la borsa dei suoi strumenti cerusici, Zuppetta i suoi codici, Nicotera il fucile che aveva a Sapri, Asproni il suo Tacito, Calicchio il bastone d’onore ch’ebbe da' torinesi, io lo stivale col quale, se avessi un giornale, penserei di far la polemica col Bonghi e compreremmo la... la forma di governo che sapete, ma i borbonici, parola d’onore, non spenderebbero 100 franchi per riportare Francesco II sul trono di Carlo III.

Ma è poi proprio vero ch’e’ siano tutti così, mi si domanderà, cotesti signori? È egli possibile che vi sia in Napoli tanta gente tutta infingarda? tanta gente tutta imbecille? Possibile che né il generale malcontento, per alcuni, né la gratitudine d’antichi benefici per alcuni altri, né la forza de’ prestati giuramenti, né la speranza di futuri vantaggi, né l’anelito di vendetta, né i forti esempi degli avi, né i serpenti che Tisifone si attorcigliò al braccio e che oggi. ragliano il cuore di quanti vivono e gemono in Italia, né l’agonia che agita il petto di tutt’i mortali perché si affatichino con perpetua cura intorno a un bene che non si raggiunge mai, possibile, io dico, che niente di tutto questo valga ad infondere un po’ di vita nella loro anima di ghiaccio, ne agiti le passioni—non importa se buone o ree — e, in una maniera o in un’altra, desti chi dorme, e li faccia correre non alle barricate,— Dio guardi! — ma all’urna? non fra i vortici scapigliati della sommossa, ma sotto le ali della legalità là dove li chiama la legge?

Ma e se le cose stanno a quel modo perché in allora e’ si lasciano chiamare legittimisti? chi gliene dà il diritto? che cosa li autorizza a darsi un nome? E noi altri, perché, di loro due volte più balordi, li ritenghiamo avversari? Novelli don Chisciotti, chi è che avversiamo? Perché li distinguiamo dagli altri cittadini? Il governo perché li teme? come fa a non vergognarsi di perseguitarli?

A siffatte domande devon rispondere la Questura e il Pungolo, quella perché tratto tratto ne agguanta qualcuno, questo perché vede la loro mano in tutto che accade in terra ed in mare, e qualche volta un poco anche in cielo.

Quanto al legittimismo in generale, io non ho inteso dire ch’e’ sian tutti così i suoi rappresentanti; io dico solo che così sono in gran parte, il che non impedisce che ve ne siano di altri che non hanno nulla di comune, nulla a spartire — né manco l’acqua lustrale —col più 0 meno blasonato canagliume di che ho fatto cenno.

Di uomini onesti, di nobili sensi cd animosi non patisce certo difetto la parte legittimista; io stesso ho l'onore di conoscerne di quelli che tutt'i partiti — meno quello de’ consorti, s'intende; costoro a ingrossare le proprie fila non levano lo sguardo fino ai galantuomini, i loro compari e’ se li razzolano là dove sanno di poterli trovare, nelle bische e sulle case di malaffare — si onorerebbero di disputarsi. Ma cotesti rispettabili uomini si tengono in disparte, e ciò non perché temano la lotta e le sue conseguenze, ma perché si spaventano, ed han ragione, di poter esser confusi colla gentaccia di cui ho parlato.

E con questo; caro sig. consorte, prego Dio affinché, però secondo la mia intenzione, intendiamoci, si ricordi e di voi e de' vostri amici, e delle famiglie che vi ospitano e delle terre che vi alimentano e de’ familiari che vi servono, e delle donne che vi amano... e un pochino altresì dei babbi che vi generarono e delle mamme che vi nutrirono.

In un’altra epistola il resto.

II.

Mio caro Signore,

Tra perché io non vi sono, almeno non dovrei esservi, assolutamente sconosciuto e tra per ciò che, male o bene, vi ho schiccherato e continuerò, se a voi continuerà la pazienza di tenermi dietro, a schiccherarvi qui appresso — non vorrete certo, m’immagino, massime se i ricordi di quel che foste hanno avuto virtù di preservare dalla lue consortesca qualche particella del vostro cuore — non vorrete, dico, credermi assai tenero della caduta dinastia, nevvero? Ebbene, io ve lo confesso; quando penso a Carlo III, il fondatore di questa dinastia, che già sul vascello che dovea ricondurlo in Ispagna, si toglie dal dito l’anello scavato sotto gli occhi suoi a Pompei, per lasciarlo al paese cui quel piccolo oggetto apparteneva, al quale paese, senza che ne avesse avuto nulla, avea dato l’indipendenza, la ricchezza e la civiltà;—quando, sebbene a traverso i vapori del sangue del 99, penso a Ferdinando I che fonda la colonia di S. Leucio e le dà un codice — vero monumento di sapienza civile,—dove non sai se più ammirare il cuore del cristiano o la mente del filosofo;—quando penso a Ferdinando II, che agl’inglesi i quali minacciano il reame, risponde: Venite dunque a vedere in qual modo un re ed un popolo, piuttosto che rinunziare a un solo de’ loro diritti, si lasciano sepellire sotto le macerie della patria ;— quando penso al figlio di questo monarca, a Francesco ll. che circuito, giovanissimo, da cortigiani imbecilli che credevano poter dire al progresso, come Dio alle acque:—«Tu non andrai più avanti,» finisce, dopo d’essersi dato a sdrucciolare sulla via delle tardive concessioni, coll'esser messo alla porta del paradiso terrestre in cui era nato, in cui riposavano le ceneri della madre, ed anco prima che non vi mangiasse—anzi anche prima che si sapesse s’e’ se lo sarebbe mangiato o no, — il frutto dell’albero proibito,— e senza recriminazioni sul labbro, senza fiele nel cuore va a rinchiudersi, più per compiere un dovere, che per alimentare una speranza, entro i baloardi di Gaeta, di dove poi,—dopo che vi ebbe sofferto tutto, fino la fame, vi chiude gli occhi agli amici che colpiti dal fuoco e dalla epidemia gli cadevano a’ piedi—e rassegnato ma non avvilito, piglia il cammino dello esilio, per andarvi ad espiare colpe che non avea perpetrate; quando penso allo zio di questo giovine sfortunato, al conte di Trapani, che dal fasto onde si circondava — e senza che per questo il suo labbro avesse perduto il consueto sorriso, la consueta serenità, la sua fronte — è disceso ad abitare un modesto palazzo mobiliato, la cui porta— se è vero quel che si dice da tutti, e se è vero che quel che si dice da tutti è sempre vero — la cui porta se talvolta è chiusa per chi vi arriva in carrozza, la è sempre aperta per qualunque vada a cercarvi un pane, od una cortesia; quest'uomo che la felicità che altra volta gli dava la magnificenza trova oggi nelle dolci cure della famiglia e nel portare il conforto là dove geme il dolore; che avvolto nella maestà delle proprie sventure trova di non poterle meglio lenire che lenendo, percome può, le sventure altrui; che a’ pochissimi amici ma vagliati che lo avvicinano e che tratta da fratelli non rivolge mai una parola che alluda al passato — quando a tutte queste cose io penso, ripeto, e ad altre più assai che ometto per ragioni che capirete, allora spontanee mi corrono sulle labbra amarissime le parole: È pure questa dinastia meritava, nella sventura, ben altri amici che non ha avuti!»

Ma ascoltate.

Tutti sanno come sin dal 59, quando cioè Francesco II stava ancora assiso sul trono de' suoi padri, alcuni sanfedisti puri, alla testa de’ quali era quella malvagia natura del Murena, pensassero di ordire una vasta cospirazione tendente a sbalzare dal trono il giovine monarca, — che infine tutto calcolato, non trovavano abbastanza dispotico, abbastanza cosacco, abbastanza degno di loro, — per porvi invece il figlio primogenito di Maria Teresa.

La cospirazione scoperta, e mi pare dall’intendente Echanitz, fu sventata in sul nascere. Francesco II seppe tutto, vide tutto, provò tutto, ma tacque.

Ei credette punire i colpevoli col disprezzo.

Il paese non ne seppe nulla; e l'incidente, come si direbbe in parlamento, non ebbe seguito.

Sopraggiunta la rivoluzione e spuntato pe’ Reali di Napoli il giorno dell’esilio, i cospiratori dell’anno precedente, insieme, anzi confusi, cogli uomini di principio, li seguirono, a sentir loro per un omaggio alla sventura; io come io, credo per stimoli di ventre. In Napoli e’ si sapevano troppo conosciuti e non. potevano per conseguenza sbirbonare per Toledo e Chiaia, come lo avrebbero potuto pel Pincio e il Còrso di Roma.

Striscianti, abbiettissimi sempre, nelle anticamere del Quirinale e lumacheggiando più tardi in quelle del Farnese, tornarono ben presto agli antichi amori; e riunitisi s’intesero. Non si trattava che di riannodare, se era possibile, le spezzate fila.

Il re avea dichiarato che comunque volgessero le cose, ove Dio avesse voluto ricondurlo in Napoli, ei si sarebbe strettamente tenuto al proclama di Gaeta.

Inde irae: un re costituzionale non era comodo. I messeri volevano la forca, o, quando meno, un po' di santafede, cosa presso che impossibile con quella seccatura che sono le Camere.

Gli stupidi credevano altresì che un re costituzionale non potesse spogliare i popoli per arricchire gli uomini del loro stampo… stupidi davvero!

«— Ma in allora,—obbiettavano quelli che davvero aveano a cuore l’onore e gl’interessi del re, «— ma in allora voi venite a dar ragione alla rivoluzione, la quale pur dite di voler combattere. E di fatti, soggiungevano, qual’è stato il motivo, o almeno il pretesto che i rivoluzionari hanno messo innanzi per giustificare il loro rifiuto all’atto del 25 giugno? essi han detto: Voi, sig. Francesco II, sissignore, cì avete ben data la costituzione, non lo neghiamo; abbiatevene anzi i nostri migliori ringraziati menti; però anche il vostro signore bisavo ce la dette, senonché quando gli riesci ce la tolse; anche il vostro signore padre ce ne favorì una nel 48, ma dopo il 15 maggio, ve ne ricorderete, se la riprese. 0 chi ci assicura mo, che, come il vostro signore bisavo, come il vostro signore padre, voi non ce la diate oggi per portarcela via domani? I giuramenti? Ma anche il vostro signore bisavo giurò, anche il vostro signore padre giurò; in che il vostro giuramento sarebbe diverso dal loro? perché non potrebbe essere, come quelli, violato alla prima occasione? — Dal momento dunque, conchiudevano gli amici del monarca, dal momento che il re, stracciato il proclama di Gaeta, tornasse in Napoli glorioso e trionfante con la sua brava bandiera bianca in mano, — i signori rivoluzionari, nemici naturali di noi, di voi e di lui: Lo vedete? direbbero — e in verità non si sa cosa diavolo si potrebbe loro rispondere— lo vedete, che noi si avea ragione quando non si volea aggiustar fede al nipote di Ferdinando I? Lo vedete, che noi si avea ragione di credere spergiuro il figlio di Ferdinando II?»

Tutto questo era bello e buono, ma tanto valea parlare al muro.

Co’ sanfedisti non si discute; essi sono come i consorti, sono anzi i consorti del legittimismo.

E Murena se la sentì col de Sivo, costui con un tal Musci, certo animale che senza aver mai saputo né leggere né scrivere, diventò tutto a un tratto, anche lui alla sua volta, autore di storie,—che del resto si vendono a 3 centesimi la copia, come quella di Titta Grieco e Spicciariello—il Musci col Merenda, questi con altri, questi altri con altri ancora e tutti di conserva, Murena alla testa, s'avviarono, bestialmente risoluti, alla conquista di Buda, che, a sentir loro, era a vista.

Fu allora che si pensò a fondare in Roma il Progresso Nazionale, giornale sanfedista per eccellenza, il cui spirito era la più perfetta antitesi del suo titolo.

L'ideale degli onesti compilatori —i Brenna, i Bonghi, i Biraghi, i Fortis del sanfedismo — era l’assolutismo, il loro eroe il cardinale Ruffo, la loro religione la forca.

Le glorie di Vanni e Speciale toglierà loro fino l’appetito.

Non ci fu mezzo, per immorale che vogliate immaginarlo, che non fosse stato escogitato per raggiungere lo scopo; anzi più sozzure e’ si trovavano dinanzi e più ci si cacciavano dentro con voluttà.

E il sovrano fu circuito da ogni banda, dapertutto tenuto d’occhio, da per tutto spiato, di notte come di giorno, in casa come in piazza, quando andava a pranzo, e quando andava a letto; s’e’ si fosse ricoverato nella custodia di Cristo lo avrebbero seguito nella custodia di Cristo.

Quando non osavano offendere il re, ingiuriavano l’uomo, ed allorché anco l’uomo parea loro troppo alto perché potesse arrivar fino a lui lo spruzzo della loro bava, attaccavano il marito. Nel gabinetto come nell'alcova; in chiesa, sotto l’occhio di Dio; come in istrada, al cospetto degli uomini ci non fu più libero di esser solo. Non era buco nelle pareti del Farnese dove non fosse stato un occhio; non fessura dove non fosse stato un orecchio. Calunniato lui presso i suoi amici, si calunniavano costoro presso di lui; lo si volea isolare per meglio tradirlo. Scopo della setta era il perderlo; ogni mezzo buono. Se di essa avesse fatto parte un Palhen, chi sa se per Francesco II non si fosse tessuta la cravatta di Paolo I. Ma Palhen mancava. Palhen fu assassino per patriottismo, i cortigiani di Francesco II erano traditori per appetito, ciò che, per la scelta de’ mezzi almeno, non è assolutamente Io stesso.

E tutto s’ingrandiva, tutto si alterava, tutto si esagerava. I vuoti lasciati da’ fatti erano subito riempiti dalla calunnia; dova non entrava il consiglio de’ Dieci entrava Falstaff; dove non penetrava il pugnale dell’assassino scorreva il lazzo di Pulcinella. I Borgia s’erano alleati a’ don Basilii.

Si cercava il tallone di Achille, —Io si rinvenne nella regina.

E cotesta donna dalla cui testa era caduto il diadema, ma sulla cui fronte raggiava sempre la maestà, fu fatta segno alle più vigliacche calunnie, alle ingiurie più sozze.

Venne il cholera.

Murena mori, mori de Sivo, molti altri morirono.

All’inferno si fece la folla.

Ma de’ Murena e dei de Sivo non si può dire come del serpe: morta la bestia, morto il veleno; essi scesero nella fossa lasciando in terra, per chi avesse voluto raccoglierla, sterminata una eredità d’infamia.

E la trista eredità fu raccolta.

A Murena successe il prete Cenatiempo.

A de Sivo un conte di Calvi Patroni-Grifi.

Ad altri, altri.

E la macchina, più felice del contatore meccanico di Cambray-Digny, funzionava sempre.

La putredine di quei morti spumeggiava di gioia sotto la terra.

Gli operai mutarono, ma il lavoro era il medesimo.

La sola differenza che corre fra l'opera degli uni e quella degli altri sta iu ciò, che i primi avean messo in gioco l'amor materno e i secondi, a’ quali quello è venuto meno, la inesperienza giovanile, a cui hanno aggiunto, per aggiustare il peso, l’orgoglio offeso d’un gentiluomo.

Di qui il giornale Lo Smascheratore; esso non è che una pessima continuazione del Progresso nazionale. Dico pessima perché mentre questo era menato innanzi da uomini immorali, sozzi, senza cuore, ma infine d’abilità, il povero Smascheratore è abborracciato da persone da metterne tre per paio. Quelli erano volpi, questi solamente crostacei.

Ed ora, il mio caro signor consorte vorrà sapere di Cenatiempo, non è vero? Eccomi ad obbedirvi.

Anzitutto, sig. consorte, conoscete niente voi donne incinte?

Se mi dite di si, io faccio più che descrivervelo, questo pretaccio che ama i sette peccati capitali come se gli fossero figliuoli e tiene il Breviario e le Novelle di Batacchi legati in un volume solo, sul dorso del quale ha fatto scrivere dal legatore Miscellanea, io vi dò niente meno che la ricetta, mercé la quale, se fate le cose a modo, potete avere quanti Cenatiempo volete.

È vero che in quell’uno che abbiamo ce n’è anco di avanzo, però se le cose di questo mondo avessero, quando che sia, altra direzione, sapete voi che impulso si darebbe alla navigazione a vapore—massime oggi coll’apertura del canale di Suez — quando invece di carbon fossile si bruciasse del Cenatiempo?— Rifletteteci, date retta a me, rifletteteci su per qualche giorno… Anzi, ora che ci penso: perché non ne tenete una parola a’ signori Weill-Schott? Nella loro triplice qualità di ebrei, banchieri e falsi testimoni, farebbero affari d’oro.

A ogni modo, eccovi la ricetta.

Provvedetevi anzitutto d'un gran caldarone; più grosso sarà, meglio è.

Cominciate col gittarvi dentro tutto ciò che vomitò di bile l'onorevole Brenna quando seppe la sua lettera al caro Paulo nelle mani de’ commissari dell’inchiesta.

Se il lezzo che verrà fuori da questa roba fosse insopportabile, e desideraste affievolirlo possibilmente, potete ben mischiarvi qualche bicchiere d’acqua, ma dovete aver cura di non servirvi di acqua pura; stemperatevi prima un po’ di fango.

Dopo che l'avrete tenuto per cinque o sei minuti sul fuoco, e prima che non cominci la bollizione, cacciate dentro il caldarone due kilogrammi di carne d’asino e un mezzo cranio di questo animale antecedentemente pestato sul tagliere. Dopo ott’ore unitevi venticinque granelli di fegato di volpe, due o tre ventricoli di struzzo, quattro coppie di conigli e un mezzo litro di sudore di Antonio Cotena, il lampionaro di S. Maria in Portico. Il quale lampionaro, come forse avrete inteso a narrare, dopo ch’ebbe svaligiata la casa di una bella e buona giovinetta sua amica, una certa Teresina Trombino, e dalla quale il birbone era beneficato ogni giorno, le saltò addosso, la ghermì alla gola e mentre con una manaccia la tenea pe' capelli, coll’altra la strangolava. Il brigante la uccideva colla mano, capite? colla semplice mano; non col coltello, né manco con una corda, niente,—solamente con la mano; vale a dire, e’ si sentiva scricchiolare fra le dita gli anelli della trachea, ei sentiva, anzi toccava,—se voleva, avrebbe potuto fino contarle—le pulsazioni della carotide; il brav’uomo accompagnava, misurava, regolava i passi dell’agonia; ei giocherellava col fiato di quella fanciulla, ne libava gli spasimi, ne assaporava le angosce: non affrettava il cammino della morte, al contrario ei la tratteneva per via, ci scherzava, ci si trastullava, volea divertircisi. E stringeva, stringeva sempre, stringeva di continuo, però gradatamente, a poco a poco, col garbo, coll’attitudine, colla passione, colla voluttà della ferocia. E strinse fino a quando gli anelli della trachea non scricchiolarono più, fino a quando la carotide non battette più; fino a quando non s’accorse che fra il polpastrello del suo pollice e quello del suo indice oramai non era più che un doppio strato di epidermide, e che sulla bocca di dove pur due minuti prima usciva il profumo della vita e dell’amore, era rimasto stampato il bacio della morte.

Che bel modo di uccidere il suo simile!—quanta semplicità nel concetto, quanta sveltezza nell’esecuzione, quanta voluttà nel successo 1... C’è della novità, e sopratutto della economia. Franklin, uso a conseguire grandi scopi con piccolissimi mezzi,se l’avesse conosciuto, questo buon lampionaro, questo eccellente lampionaro, avrebbe senza dubbio legato a lui, piuttosto che a Washington,il suo bastone di sorbo selvatico—Onore a te, onore a te, o uomo!.. Come deve sentirsi contento Domineddio quando pensa all’ottima riuscita che ha fatto questo eh’ Egli unse re della natura. 1

Il mio Pegaso m’avea preso la mano. Perdono. Io mi rimetto in carreggiata.

Dunque, dopo che avrete versato nel vostro caldarone questo mezzo litro di sudore del Cotena, bruciate una ventina di numeri del giornale La Perseveranza del vostro amico Bonghi. Darete la preferenza a quelli dove sono incastonate più bugiarderie: ve ne accorgerete dai titoli degli articoli, tutti quelli in cui dice corna di noi, e fa l’apologia de’ ministri. La cenere che ne avrete la butterete egualmente nel vaso, che terrete ancora per un’altr’ora sul fuoco.

A capo d’un tal periodo di tempo vedrete galleggiare della schiuma sulla superficie del rostro miscuglio. Bisogna levarla via subito con un mestolino, giacché una tale schiuma è tutto che c’è di puro, e quindi d’inservibile per voi, in quella congerie d'impurità; — per esempio, de’ conigli verrà fuori la innocenza e ciò che resta in fondo ne sarà la vigliaccheria; della carne e cranio dell'asino, la rassegnazione, restando giù sole la sua testardaggine e la sua stupidità; dello struzzo, le angosce di qualche indigestione, se glie n’è mai toccata una, e ciò che precipiterà verso il fondo sarà la voracità della bestia; della volpe, l’utilità che divorando i ratti ed altri animali nocivi reca all’uomo, e resterà sola nel fondo la sua furberia; del sudore del Cotena finalmente verrà a galla il rimorso e resteranno soltanto la ferocia e la cupidigia. Lesole cose che non faranno schiuma di sorta sono la bile del Brenna e gli scritti del Bonghi; cotesta roba è tutta porcheria, tutto lezzume, la non si decompone in niuna guisa, e ’l povero Cassola, se tornasse al mondo avrebbe voglia di fare esperimenti e sgolarsi per implorare la elemosina d’ un incoraggiamento dal governo e dal municipio — a pagarla tant’oro e’ non ne caverebbe fuori neppure una goccia, neppure un effluvio d’innocenza.

Compiuta che avrete quest'ultima operazione, togliete questa volta definitivamente il caldarone dal fuoco e ponetene a raffreddare il contenuto sopra la imboccatura d’una cloaca, affinché, coagulandosi, lo s’impregni per bene di fetenti miasmi, ciò che è indispensabile pour le couronnement dell’opera.

Voi avete ciò che vi bisogna.

Il modo di farne uso poi è semplicissimo.

Il vostro miscuglio tosto che sarà raffreddato diverrà una sorta di pasta, che potrete agevolmente maneggiare. Or bene, voi ne farete tante pillole della grossezza d'un pisello, le quali per conservare, non dovendo star troppo esposte al contatto dell’aria pura, terrete in un vaso di latta ben chiuso. Sette od otto di queste pillole ingoiate per sette od otto giorni di seguito, qualche ora prima di pranzo, da qualsivoglia donna incinta,— è indifferente se la si trovi ne’ primi, o negli ultimi tempi della gestazione, — bastano a daje al feto ciò che ci vuole perché venendo al mondo e' sia un Cenatiempo tale quale quello che stando in Napoli diceva di cospirare per estorquere denaro a’ fedeli minchioni,— denaro che poi spendeva in gozzoviglie e bagordi, bevendo a Posilipo Champagne a sciacquabudelle—che fu arrestato, e vendendosi alla polizia fece la spia a varii suoi amici e correligionari, fra i quali al povero conte de Christen, che n’ebbe per 10 anni di lavori forzati; che uscì dalle prigioni di S. Maria Apparente dando a intendere esserne scappato entro una cesta; e che oggi intriga, truffa, ruba, calunnia, infama, diffama e, rompendo le scatole a’ galantuomini, si sfama a Roma.

Questa ricetta, che non è di quelle che si leggono nelle quarte pagine de' giornali, era notissima alle madri di molti consorti. Anzi, se è vero ciò che si dice, la madre del signor Pironti ne avrebbe fatto grand’uso durante la gravidanza. V’ha chi crede ne avesse abusato addirittura; e di questo avviso sarebbe altresì il corrispondente fiorentino del Roma; quello del Piccolo oggi lo nega, ma quando scriveva sulla Pietra infernale insieme con me lo avrebbe giurato sopra tutti e sette i Sacramenti. Non vi dico niente poi dalla signora madre di S. E. Gualterio, la l’avrebbe cacciata fino nella polenta.

E il conte di Calvi Patroni-Grifi? e il Musci? e la minor caterva

Di ciondolate volpi e di conigli,

che non vale la pena di ricordare?

Anzitutto chi volete che possano essere le persone—duchi o mascalzoni che siano — le quali non arrossiscono di avvicinare un Cenatiempo? Quale uomo che si rispetti può guardare in viso costui e non dire fra sé e sé: niente che non sia la punta del mio stivale può toccare il corpo di quest’nomo —?

Eglino devono essere dunque de’ galantuomini sul suo stampo: è chiaro come il sole.

Cesego e Catilina si strinsero in amicizia bevendo del sangue in una stessa coppa.

Cenatiempo, e Calvi dovettero forse bere insieme in quella tremenda tazza che è il bisogno la speranza di potersi spartire da buoni compagni ciò che avrebbero resecato dai 4 mila franchi che venner fuori per fondare lo Smascheratore, i cui compilatori—almeno cosi si dice—non ne hanno avuto che 2 mila soltanto.

A questi poveri sfortunati, che pure hanno a pensare alla carta, alla stampa, a’ francobolli e alle mille altre ciammengole proprie di un giornale, è toccata la sorte dell’asino, che

Per sé bee l’acqua e agli altri porta il vino.

E notate ch’io non tengo conto del tempo ch’essi sprecano e che con grande utilità loro potrebbero impiegare, il direttore D. Saverio, a vendere vermicelli, e i suoi colleghi a piantar cavoli.  

I buoni cattolici dicono che il prete è anello fra il cielo e la terra; — i buoni cattolici o dicono una grande verità o una immensa asineria: dicono la verità se intendono del prete secondo Cristo, il prete che offeso perdona, che quando ha a castigare ammonisce, che invece di vendicarsi prega, che crede alla riabilitazione, che anco nel malvagio riconosce il fratello traviato, che ha per arma la mansuetudine, per ferri del mestiere la carità, per codice il vangelo, per scopo Dio; ma se invece e’ parlano del prete, sol perché è prete, vale a dire di tutti quanti i preti,—Cenatiempo e quei che somigliano a Cenatiempo compresi,—allora scusino, i buoni cattolici, dando ragione al Giusti che li chiamò i fedeli minchioni, essi calunniano il cielo, la terra e un pochino anche l’inferno il quale in tal caso lasciandosi scappar di mano questo anello che è suo di diritto e di fatto, arieggerebbe di molto alla magistratura del regno d’Italia che — salva la parte buona— qualche volta, spesse volte anzi, si mostra cosi poco gelosa de' suoi diritti e della sua indipendenza.

I preti come questo dannato Cenatiempo, cari miei buoni cattolici, infiorano la via della depravazione in un modo sorprendente. Paiono appunto nati per questo. E se è vero che per ogni mortale che Dio mette in terra gli assegna un angelo che lo custodisca, scommetto il eolio, che a quest’ora quello di Cenatiempo o dev’essersi dato della testa al muro per disperazione, o deve esser riuscito l'angelo più sforcato che sia mai sceso sopra la terra.

Ci stanno de birbanti sotto il sole — e noi qui in Italia ne abbiamo da ’ caricarne tutta la flotta colla quale Persano rimase padrone delle acque di Lissa, non escluso, anzi compreso, l’Affondatore—i quali, come il fulmine, non si conoscono che quando hanno colpito, ma non è così de’ Cenatiempo: costoro sono bene della famiglia, ma appartengono a un’altra specie. Per un uomo anche mediocremente intelligente basta un quarto d’ora di conversazione con gente siffatta per conoscerli intus et in cute: li rivela, che so? il suono della voce, il modo di gestire, la maniera come si seggono, lo sguardo, l’incesso, tutto: dai loro pori par che si sprigioni non so che di magnetico che agisce sopra di voi in un modo particolare; è impossibile infatti, stando alla loro presenza, che non sentiate il pensiero come imbarazzato nel cervello, la voce eone trattenuta nella trachea.

Mi ricorda che nel 61, quando — grazie al sempre birro, ora repubblicaneggiante Filippo de Blasio, sulla cui vita passata io avevo gittato uno sguardo retrospettivo, — quando, dico, nel 61 fui rinchiuso in S. Maria Apparente, dove dopo due o tre giorni capitò il Cenatiempo, ci si trovava con altri parecchi il duca di Caianello; ebbene, quest’uomo che avea una parola cortese per tutti, anco pe’ mascalzoni; che nella inesauribile carità del suo cuore trovava. sempre un conforto per tutti gli sventurati, quest’uomo il cui nome corre spontaneo sulle labbra di qualunque voglia citare un esempio di lealtà, di generosità, o di qualsivoglia altra virtù cristiana o civile, parlando del Cenatiempo spesso mi diceva: «Io non so spiegarmene il perchè, ma sento che mi manca il coraggio di scambiare una sola parola con quest’uomo. E più che antipatia quella che m’ispira,è ribrezzo».

Ed allora, notate, Cenatiempo cominciava appena a far parlare di sè: e’ non avea ancora messa a nudo la sua anima di fango, non ancora avea ingiallita la faccia dell’itterizia de’ suoi intrighi, non ancora avea provato come fosse più facile a un camello entrare per la cruna d’un ago che ad una verità uscire dalla sua bocca. Era dunque intuito quello del duca di Caianello, era istinto — forse l’istinto che uccide il colombo anche prima che l'artiglio dell'aquila non gli squarci le viscere.

Ed è quest’uomo,—questo prete abbiettissimo, che spacciandosi sanfedista co’ sanfedisti, onesto cogli onesti, e mentendo sempre, fino a farsi credere da taluno impiegato in una non so quale amministrazione dove seggono le più note illustrazioni del clero romano, gli uomini più chiari per dottrina e severità di costumi; e ciò, va dicendo, pe’ suoi talenti epici, lirici e teologici—, lui, bestia quanto un’oca!—ed è quest’uomo, dico, che guida, regola, ispira — pare incredibile com’è vero Dio — una parte della emigrazione napoletana.

E questa parte dell'emigrazione che si lascia guidare, regolare, ispirare, e soggiungo anche portare pel naso da Cenatiempo, ha il coraggiaccio poi di dire che (forse a furia di bombe-carta) è lei quella che è destinata a restaurare — Domine aiutala! — i Borboni in Napoli.

Questo per la emigrazione; quanto a Cenatiempo è un altro paio di maniche; e’ va diritto per la via che s’è tracciata, e né manco il diavolo, suo amico intimo, ne lo rimuoverebbe: Porta aperta per chi porta, e chi non porta parta: ciò che vuol dire che lavorare per Francesco II, per Vittorio Emmanuele, per Mazzini, o, all’occorrenza, per l’erede del re Teodoro d’Abissinia, è tutt’uno. Denari ci vogliono, che a’ popoli poi, se vuole, penserà Dio che n’è il babbo;

Mentre nuje simmo papa papiammo

Chi sa se n’autra vota papa simmo

dice Cenatiempo, e cosi dicendo fa affari.

Ei si è unito a molti altri galantuomini co’ quali formano in Roma un sodalizio che è diverso dalla banda che comandava Ninco-Nanco, buonanima sua, solo in quanto quello ha scelto per campo d’azione una illustre città, mentre invece l’altra, di gusti più selvatici o almeno più campestri, si era limitata a starsene nelle gole d’una montagna. C’è pure un’altra differenza fra le due bande: quella del Cenatiempo si serve della politica, e quella di Ninco-Nanco del pugnale. Ma il male non s’arresta qui.

I Cenatiempisti hanno bisogno di mangiare, e sta bene; è il bisogno di tutti gli animali; è vero che dimentichi del divino precetto, e’ voglion mangiare a ufo, ma infine poiché i denari non li rubano mica al grido di Todo el mundo boca a tierra! come dissero i carlisti ai bagni di Guen-Santa ma sibbene infinocchiando il prossimo, chi è minchion suo danno, dice il proverbio.

Il male invece sta in questo, che siccome per arrivare tino in certi gabinetti, e più, fino a certi scrigni, occorre spesso l’appoggio di persone che talvolta sono uomini d’onore, o, per lo meno, non corruttibili, allora che ti Tanno i messeri? Cominciano coll’ammansire questi Cerberi con tutt’ i mezzi che sono in loro potere.

Se riescono di prima intenzione, bene; se no, se, vale a dire, la fortezza mostra di non volersi arrendere alla virtù oratoria de’ parlamentari, e’ tornano addietro e stabiliscono il piano di attacco.

D’altronde, non c’è uomo al mondo che non abbia la sua corda sensibile, è risaputo; né la banda manca di quella sagacità che è necessaria per fiutarla a traverso la epidermide del volto. Il lavoro dunque si concentra su questa corda.

Per esempio, è in Roma fra gli emigrati il conte de la Tour. Uscendo dal campo della politica dove se ci trovassimo, il signor conte e me, non potremmo che fare a pugni, uscendo da questo campo, dico, il conte de la Tour, sia pel suo nome, sia pe' suoi antecedenti, è uno di que’ pochi uomini a’ quali non è possibile non usare i più grandi riguardi. Leale, franco, animoso, egli è cavaliere in tutta la forza della parola. Pronto a recarsi in capo al mondo ad un cenno del suo re, abbandonerebbe un mondo per l’altro se morto potesse essergli più utile che vivo.

Ebbene, quest'uomo era necessario alla banda Calvi-Cenaticmpo, essa avea bisogno del prestigio di un nome alto e rispettato per penetrare lì dove la cupidigia e il pettegolezzo la spingeva. Il de la Tour era il suo uomo; senza l'opera di lui, quel tale gabinetto non si sarebbe aperto e ciò era poco male, ma non si sarebbe aperto nemmeno quel tale scrigno, il che sarebbe stato terribile. Come fare adunque? Corromperlo? Bah! non ci si avea manco a pensare. Bisogna trovare la sua corda sensibile.

A che tiene egli principalmente questo benedetto de la Tour? Alla sua dignità— Non fu questa appunto, la quale un giorno ei credette ferita, che lo spinse a rinunziare in un’ora ad otto anni di devozione e di sacrifizi? che lo spinse a soffocare nella propria anima il sentimento che lo teneva legato al carro de’ Borboni? che lo spinse ad abbandonare le proprie abitudini, le proprie tendenze, e parlando al suo cuore la lingua sempre bugiarda del risentimento, a far si che ruggisse l’odio là dove per tanti anni avea sorriso l’amicizia? — Or bene, la corda sensibile del signor conte è trovata.

Il conte de la Tour è intelligente, ma la sua intelligenza sta alla infernale sagacità di Cenatiempo come quattro a quattrocentoquarantaquattro. L’uomo coraggioso, la spada alla mano, si difende dal pugnale dell’assassino, ma e’ non ha armi pel veleno che gli propina la mano dell’ipocrita. Sansone vinse i filistei, ma si lasciò vincere da Dalila.

Il de la Tour fu carrucolato: Cenatiempo e Calvi guadagnarono la porta del gabinetto.

Era il primo passo; bisognava far l’altro: si trattava di fare aprire lo scrigno.

Chi ha la chiave di quello scrigno?

Un giovinetto di gran cuore, ma privo affatto di quella esperienza che soltanto gli anni possono dare. Che cosa può, in un giovine inesperto e di gran cuore, Soffocare l’amor fraterno? — L’ambizione.

Ecco un'altra corda sensibile.

E quest’altra corda fu tocca dalla stessa mano maestra: essa vibrò e ne uscì il suono... cioè i 4 mila franchi.

Bravo Cenatiempo! evviva Calvi! —Bel colpo, per l'anima mia! Se le vostre mani non mi paressero fatte a posta per essere chiuse nelle manette de’ carabinieri, ve le stringerei proprio di tutto cuore.

 Addio, signor Consorte, il resto ve lo dirò domani, ché casco di sonno, e un poco anco di noia.

 

III.

Mio caro Signore,

— Giacché si è cominciato s’ ha finire; dice il fattorino della stamperia, il quale mi s’è messo già alle costole — e il, perché ve lo figurerete— sin da ieri.

Voi dunque dovete ringraziare il fattorino — o pure, a piacere, assestargli un bel calcio nel postione, a seconda che le mie epistole vi abbiano divertito o rotto le scatole — se non faccio un falò di tutto che ho scritto ed anco della carta che ho dinanzi per continuare a scrivere. ' Che volete? la materia che, mercé vostra, ho presso a maneggiare mi manda tratto tratto delle tanfate al cervello che mi pare d’avere il capogirlo. D’altra parte vorrei essere frustato, se scrivendo ho una speranza al mondo di trovare un cane, che dopo letta la prima, passi alla seconda e poi a questa terza e — fortunatamente per voi e per me—ultima lettera. A ogni modo poiché sasso buttato e parola detta non tornano addietro, armiamoci di pazienza e tiriamo via.

E poi in questa epistola potremo ben trarre qualche sospiro a polmone aperto: m’intratterrò anche di qualche uomo onesto.

Dunque —direte — tutto questo arruffio che ha luogo in Roma a che mena? A una cosa semplicissima, caro signore, e perla quale non siamo certamente, noi quei che hanno a gridare all’accorr’uomo — esso mena ad assottigliare sempre più, a restringere sempre più, le fila di coloro che vollero, sia per tenacità di propositi sia per generosità di cuore, dividere l’amarezza dell’esilio con Francesco II.

E notate, che quei che lo abbandoneranno sono i buoni, vale a dire gli uomini di principio, gli uomini onesti, quelli che soli potrebbero accreditare la sua causa o almeno tener alto il suo nome, non quelli che al contrario spruzzano il fango su’ suoi amici e sulla cosa più sacra che è al mondo, la sventura — costoro sono degli scrocconi e questi non avendo altra bussola che il ventre, fin che ce n’è, e non si pigliano col manico della granata, né manco il terremoto li farebbe muovere.

Io conosco moltissimi di quegli emigrati; ve n’ha d’ogni specie. Qui, visti a traverso il prisma delle passioni politiche, quando abbiamo detto: emigrazione crediamo d’aver detto tutto: noi cosi dicendo diciam men che nulla; fra un emigrato e un altro, o vogli per la politica o vogli per altro, corre a volte più distanza che non ve ne corre fra un uomo onesto e il vostro Bonghi per esempio.

Emigrazione si potea dire quella di Francia che sia che combattessero, sia che gemessero su quello ch'essi credevano strazio della patria, s'amavano fra loro e si stimavano come fratelli.

Emigrazione si potea dire quella de’ carlisti spagnuoli dopo la guerra civile, i quali internati in Francia santificarono colla severità de’ costumi coll’abnegazione e il lavoro il principio che rappresentavano. Ed erano, aggiungete, meglio che 30mila. Poiché l’onore di ognuno era l’onore di tutti, non fuvvi fra loro chi non prendesse ad esercitare un mestiere. Nessuno per conseguenza poteva, anche che ne avesse avuto la tentazione, vivere di scrocchi e di furfanterie. Un generale faceva il legatore di libri, un altro si allocò presso un ciocolattiere, e non pertanto e’ s’amavano e, quel ch’é più, si rispettavano. Nella maggior parte militari, a vedere quello ch’era stato inferiore non parlare che col cappello in mano a quello che era stato il suo superiore avresti detto ch’e’ si credevano sempre a Madrid pronti a fare il servizio di piazza. E talvolta, spesse volte anzi, quei ch’era stato generale avea le scarpe sdrucite, mentre l’altro ch'era stato solamente tenente stava azzimato come un damerino.

Ebbene, fra tutta questa gente, mai una recriminazione, mai un pettegolezzo, mai una calunnia; e, che più vale, mai un lamento da parte della popolazione che gli ospitava. Volendo essere rispettati cominciavano col rispettarsi fra di loro.

Nel 1608 il marchese Spinola e il presidente Ricardol, andavano all'Aia per negoziare a nome della Spagna la tregua cogli Olandesi. Giunti alla spiaggia videro uscire da un battello nove o dieci persone., le quali sedutesi sul lido presero a refìziarsi con pane cacio e birra che ciascuno avea portato seco. Il marchese e il presidente chiesero ad un paesano chi fossero quegli uomini —Sono i deputati degli Stati Uniti, rispose il paesano, i nostri signori. Gli ambasciatori aprendo tanto di bocca sciamarono: Con gente siffatta non è  possibile vincere, converrà far la pace.

Se i signori ambasciatori spagnuoli redivivi s’affacciassero oggi per un momento alla stazione della strada ferrata in Roma, per contemplare da vicino lo spettacolo che i nostri emigrati danno di sé a’ moderni quiriti, per essere conseguenti dovrebbero dire: Cotesta gente non merita n i manco l’onore di essere combattuta: la va sprezzata soltanto.

Se gli uomini onesti che fan parte della emigrazione non hanno ancora — nauseati da tante laidezze — pronunziato il loro Chi l'ha a mangiare la lavi e fatti i rispettivi bauli, ciò non è mica dipeso, io credo, da speranze che nutriscono, sibbene da che e’ si crederebbero degli ingrati ad abbandonare, non un re detronizzato, ma un uomo nella sventura. Però quod difertur non aufertur, e chi sa che un giorno o l’altro non caschi nel vaso la goccia d’acqua che fa rinversarlo.

E difatti perché mai Ulloa, per esempio —Ulloa, uomo di alta mente; pubblicista insigne, onesto, disinteressato, integro, rispettato ed amato sin da giovane da tutti (da qualche marito in fuori) che lo han conosciuto; Ulloa, il cui passato è tutta una vita di lavoro e di pace, e il cui presente un arido campo di spine nel quale come S. Benedetto ei ci si è cacciato dentro a piedi nudi, perché mai, dico, un tal uomo deve starsene accoccolato in Roma pascolo alle mille zanzare che gli lacerano la pelle in tutt’i modi possibili? — Qual’è l’uomo onesto in Italia che non sarebbe felice di stringere la mano ad un uomo come Pietro Ulloa, che sul declinare degli anni corre animoso a spartire con un principe da cui non ha nulla a sperare, dapprima i pericoli, e più tardi il pane dell'esilio e le amarezze e gli affanni? Continuo cogli esempi: perché mai al generale Clary, non dovrebbe venire in uggia il soggiorno di Roma? il generale Clary, al quale è natura la lealtà, è piacere il sacrifizio, bisogno la devozione al principio, buono o no non monta, che rappresenta? perché mai quest'uomo deve sempre esporre le virtù del suo cuore agli strali della calunnia, alle punzecchiature della invidia, alle ire della mediocrità, e calunniato tacersi, offeso rassegnarsi, ed attaccato non discolparsi, perché non potrebbe rispondendo, non spiacere a’ terzi, pe' quali crederebbe di dar niente quanto desse tutto quanto il suo sangue?

Il verso di Euripide

«Grandi angosce io soffersi e non mi dolsi»

è divino, e nessuno meglio del Clary è fatto per intenderlo, ma gli uomini non sono stati stereotipati sugli eroi de’ tragici greci. Fra l’eroismo greco e la pazienza cristiana, ci stanno molte cose di mezzo, e a parer mio, non ultimo il non ne posso più di chi ne ha pieni gli zebedei.

Ebbene perché Clary non dovrebbe lasciar Roma? Chi è che, sia in Italia sia altrove, non piegherebbe rispettosa la fronte dinanzi a un uomo che ha sofferto tanto e tanto nobilmente sempre? un uomo il cui nome si cita anche oggi in Napoli, ed anco da quelli che sono suoi avversari politici, come quello di un perfetto gentiluomo. La elevatezza della mente, la nobiltà dell’anima dovranno sempre far l’uffizio del sasso di Prometeo agli uomini onesti? E il duca della Regina, e il del Re, e i tanti altri sui quali non mi diffondo perché non conoscendoli personalmente, ma solamente per fama mi limito a nominarli semplicemente — fama del resto che pe non accorda loro molta luce d'ingegno, non nega loro egualmente gentilezza di modi, onestà di costumi e nobiltà di carattere, o perché, domando, dovrebbero costoro starsene eternamente inchiodati in Roma, dove da qualunque parte si volgono, non possono scansare un invidioso che per trovarsi fra i piedi un codardo? — E il conte de La Tour, quest’uomo ora sbalzato fuor di strada da un branco di abbietti che in altri tempi egli avrebbe tenuti alla distanza del suo scudiscio, quest’uomo che un giorno, molti anni addietro, per veder un tale nelle angustie, va a casa sua, piglia 12 mila ducati e lo salva, ebbene quest'uomo, quando rinsavito, metterà alla porta quei che oggi onora della sua confidenza, potrà vorrà egli continuare a starsene in Roma, dove si è attentato alla sua fama di gentiluomo, come sulle strade maestre si attenta alla borsa del passaggiero? dove gli si è fatta rappresentare una parte tanto più bassa ed ignobile quanto meno, quello in odio al quale e’ l’ha rappresentata, ne lo credeva capace?

Questa gente, queste persone che tengono si al loro principio, ma che tengono pure alla loro dignità, alla loro pace domestica, e direi pure all’ottimo stato locativo del loro fegato, possono, devono vivere in un atmosfera di pettegolezzi, che vanno spesso a degenerare in turpitudini?

Altri lo creda, io no.

Quando la Natura, l’alma mater, dette la pazienza all'asino le assegnò per limite la vita dell’animale. Io non so se la suddetta Alma mater avesse fatto bene o male, credo però che le sue buone ragioni per far ciò che fece le avesse avute.

Ma è lo stesso dell'uomo? Chi è che ha detto a questo parente di Caino e d’Abele: —Tu soffrirai sempre quaggiù perché la generosità, questa che ti si è fatta credere una virtù; che la ti si è imbellettata a posta perché tu te ne invaghissi e l’amassi, devi provare amara come un castigo?

E se qualcuno venisse a farcela oggi,questa deliziosa imbasciatina, chi di noi non farebbe ruzzolar per le scale l'ambasciatore? Chi vorrebbe esser generoso a un tal prezzo?

E si fossero almeno divisi in due soli partiti, essi, i signori emigrati — cioè da una parte gli onesti dall'altra i birboni, ma gnornò; questi ultimi hanno avuto l'infernale talento di dividere anche i buoni da' buoni. Dividi ed impera. E perciò è una delle cose naturalissime nella vita della emigrazione napoletana il vedere p. e. due uomini fatti per amarsi e stimarsi reciprocamente e stringersi la mano, odiarsi invece e portarsi il broncio. —Perché? essi non lo sanno; sanno che s’odiano e che niente potrebbe riavvicinarli, nemmeno la comunanza degli interessi, nemmeno la comunanza delle aspirazioni, nemmeno quella della sventura.

E i sacerdoti di Vesta,—Cenatiempo, Calvi e compagnia, — quasi avessero paura di essere sepolti vivi come le antiche vestali, non badano che a tenere accesa la face della discordia. Del resto guai se la si spegnesse; sarebbe come togliere all’operaio i ferri del mestiere.

A noi, suoi avversari politici, se può importar poco di Francesco II principe, devono d’altra parte ben sanguinar le viscere a vedere non il re abbattuto dalla rivoluzione, ma l’uomo altra volta potente, ricco e felice, ignobilmente tradito da quelli che si dicevano e tuttavia si dicono i suoi migliori amici, e insidiato fino nelle sue affezioni e dibattersi e gemere e sanguinare nelle reti onde vanno avvolgendolo ogni giorno di più.

Cotesto, si, è brutto e tristo spettacolo per dii distingue la politica dalla moralità. Nessuno che non sia un infame può svellere dal cuore d’un uomo l’amore della propria famiglia. L’amore della famiglia è santo; Dio ce lo mise nel cuore forse per compensarci degli strazii della vita. Divoriamoci pure a vicenda se così ci piace, ma per Dio, i nobili affetti del cuore rispettiamoceli: nessuno v’impedisce di uccidere il vostro nemico — massime quando vi sentite stomaco da affrontare l’infamia se lo fate da vile, o il codice penale se lo fate da uomo; — ma niente vi autorizza a colpirlo nella sua famiglia.

Quando si è ottenuto che il fratello esecra il fratello, inoculando nel cuore dell’uno l’invidia e in quello dell’altro la diffidenza,che ci si è guadagnato? Il sangue di Eteocle e Polinice non fruttò ad alcuno, e il pazzo che semina l’odio raccoglie il disprezzo.

Eppure tutto questo si fa in Roma dagli emigrati napoletani; è questa anzi la vita di quella emigrazione. Ad ogni visita ognuno lascia alla porta l’anima sua, prende quella del colore della casa ed entra. L’ uomo onesto combatte, ma finisce col soggiacere: i tristi sono in molli. Per non dar sospetto e’ si dividono il giorno, ma poi si riuniscono alla sera, e guai a coloro di cui ne’ loro conciliaboli è stato profferito il nome, doppiamente guai se quel nome è illustre

Basta, sic voluere fata.... La rivoluzione e la emigrazione borbonica, senza che se ne accorgano, oramai camminano verso la stessa meta,—discreditare il legittimismo, distruggere il così detto Diritto divino. —La differenza che corre fra i mezzi adoperati dall’una e quelli scelti dall’altra sta in ciò solo, che mentre la prima batte una strada illuminata dal sole, l’altra striscia sopra un viottolo tutto ingombro di tenebre. Della prima è guida la libertà, della seconda è capo il livore.

Vadano dunque entrambe e buona fortuna.

Le due strade formano un angolo: la meta sta nel vertice: la rivoluzione e la emigrazione ci s’incontreranno, e tutt’e due guadagneranno l’erta, senonché ciò che per l’una sarà il premio di molti anni di fede, per l'altra sarà il castigo di dieci anni d’infamie. Il Campidoglio sta a trenta passi dalla rupe Tarpea.

Svelti dunque, e coraggio! Anche il viottolo dell’emigrazione è largo. Cenatiempo, Calvi e suo fratello, il marchese di S. Barbara, quondam Felice Patroni —massime se è loro avanzato qualcosa da duemila franchi che gli abborraccioni dello Smascheratore aspettano ancora,—possono percorrerlo in fiacre.

Quanto a noi, di tutto che vi ho detto, non possiamo, grazie a Dio, che confortarcene. Stomacati, anzi asfissiati (nel noi non comprendo voi; l’avrete indovinato. Nella vostra qualità di consorte voi siete parte della materia asfissiante J delle immoralità che pur troppo formano il sostrato della vita italiana e impauriti delle conseguenze più o meno immediate che cosiffatte immoralità possono un giorno of altro esercitare sui destini della Nazione, noi non possiamo che rallegrarci se alle immoralità d’Italia risponde non la virtù, non la costanza, non la dignità di quelli che pur si predicano i soli timorati di Dio, i soli buoni cittadini, i soli onesti, i soli giusti, ma sibbene le sudicerie, le bassezze, le sozzure loro.

Se Messenia piange Sparta non ride

E cotesta è pure una grande consolazione per noi poveri messeni, che da nove anni non sappiamo dove cacciare il capo per aspirare un effluvio di moralità.

Del resto, queste sofferenze non saranno eterne: e ciò non dico perché a me paresse stessero per cessare le cause che le producono, tutt’altro, ma perché a poco a poco andiamo come acclimandoci all’atmosfera che ne circonda. Non sono più i Pericle e i Leon X che danno i loro nomi a’ secoli; oggi è la Regia de’ tabacchi che lega quello dei cointeressati al secolo che corre. Meglio cosi, almeno non faremo i tubercoli al polmone. Il giorno in cui non lo distingueremo né manco più, l'onesto dal turpe, non è lontano.

Felici i napoletani quando dall’isola di Capri si può andar per mare sulla collina di S. Martino.

Ciro, Cartagine, Tebe, Gerusalemme e cento altre città già splendide di gloria, di tradizioni, d’opulenza e di venustà credete voi, caro consorte, che fossero tutte morte d’apoplessia come il vostro Cavour? Eh no, mio caro, esse ebbero la loro infermità e la loro agonia.

Tal’è di Napolie, quanto a me, tal sia!

La prostituta agonizza, voi lo vedete,—e, come tutte le sue pari, muore sulla paglia.

A loro Byron gli uomini parevano tanti vermi del sepolcro di un mondo colossale. Byron avea ragione; ei pensava forse alla storia quando cosi parlava. Ma da Byron a noi è scorsa meglio che una metà di secolo: per noi la storia è favola addirittura oggi, e Plutarco in conchiusione non dovett’essere che un Alessandro Dumas in grande dell’antichità.

A ogni modo, per me, se fra le beatitudini celesti c’è quella di potersi dimenticare d’essere stato uomo, e fra le pene dell’inferno non è compresa quella di doversene ricordar per forza, dico sì beatissimi i giusti, ma né meno i dannati per verità mi pare poi che siano troppo da compiangere.

Avere non dico per concittadini, ma solo in conto di prossimo suo, i consorti d'Italia e i sanfedisti di Roma, è castigo improbo, né puossi credere che il Signore nella sua misericordia voglia perpetuarcelo perpetuandocene la memoria.

Io non sono certo come Bertoldo il quale non trovava mai l’albero dove lo aveano ad impiccare, né spingo la mia schifìltosità fino a pretendere che gli uomini siano tali che un angelo sceso dal cielo, incontrandoli per la strada dovesse dir loro: Salve fratello, no; di buscherate, chi più chi meno, abbiamo a rimproverarcene tutti, ma e’ vuol dire acqua e non tempesta. Si può anche star mediocremente in società senza amarci gli uni gli altri come tanti presti e Piladi, ma dal non essere tutti Oresti e Piladi, all’atteggiarsi a Eteocli e Polinici distanza ce n’è, vivaddio!—e non è poca.

E con questo, mio caro signor consorte, voi potete aprire il polmone ché io ho finito.
























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