Eleaml - Nuovi Eleatici


Quest'opera è la madre di tutte le opere meridionalistiche pubblicate in Italia.  Un'opera nata dalla cattiva coscienza di un borghese che ha collaborato alla costruzione dello stato unitario, che ha visto non solo il proliferare di incarichi ma la loro distribuzione a un personale impreparato ed inefficiente, la cui unica qualità era lo stare dalla parte del regime imperante, quello sabaudo.

Vogliamo dare solo un paio di indicazioni o, se volete, suggerire delle riflessioni. La prima è questa: chiedetevi per quale motivo Villari ritenne opportuno non inerire le sue lettere inviate nel 1861 alla Perseveranza di Milano in questa opera. Noi le abbiamo aggiunte in fondo al volume. Così potete leggervele e confrontare ciò che scriveva nel 1861 con quanto scriveva nel 1875. 

A titolo di cronaca ricordiamo che le Lettere del 1861 apparvero come opuscolo con i tipi della "Voce" solo molti anni più tardi e ancora oggi sono poco note: Le prime lettere meridionali - Pasquale Villari  con prefazione di Gaetano Salvemini. - Roma, La Voce, 1920. - VIII, 65 p.

La seconda: alcune miserie descritte da Villari erano vere, ma non comprendiamo la ragione – se non per una volgare autodifesa per quanto affermato in un suo scritto – per cui vuol convincere che la Londra del tempo fosse una oasi di benessere per le classi più povere della società, al confronto con lo squallore dei fondaci napoletani (cfr. lettera a Jessie White Mario).

“Si disse, fra le altre cose, che non conoscevo Napoli, perché da molti anni ne ero lontano, e che descrivevo cose non vedute o cedute solo da molto tempo, ignorando che tutto era mutato. Si disse che non conoscevo la grande miseria di Londra, peggiore assai di quella di Napoli, ec., ec. Io che a Londra ero stato, e negli ultimi anni avevo molte e molte volte riveduto Napoli,

[...] Entrai in un ufficio di Polizia, esaminai i registri, vidi operare alcuni arresti, e poi in compagnia di due altri detectives che si unirono al primo, cominciammo le nostre visite. Io ripetevo sempre: — Fatemi vedere ciò che vi è di più orribile in Londra, desidero vedere le abitazioni della gente più misera e disgraziata.

[...]  Signore, sono trent'anni che io servo nella Polizia di Londra. Posso sul mio onore assicurarle che Ella s'inganna, se crede di poter vedere in questa città quel che gli stranieri potevano vedervi trenta o venti anni fa. Tutto è mutato. Il Parlamento ha votato leggi sopra leggi per migliorare le condizioni dei poveri.

[...] Nei ridotti di Londra spesso mi sedetti coi detectives, e bevvi della birra e dei liquori, tanto per non parere d'andar colà da semplice osservatore. E non vidi mai nulla che si potesse paragonare al puzzo e al sudiciume di alcuni ridotti di Napoli.”

Buona lettura.

Zenone di Elea – 16 Agosto 2013

LE LETTERE MERIDIONALI

ED ALTRI SCRITTI  SULLA QUESTIONE SOCIALE IN ITALIA

PASQUALE VILLARI

FIRENZE

SUCCESSORI LE MONNIER

1878

I. La Camorra

II. La Mafia

III. Il Brigantaggio

IV. I rimedii 

1. Disordine amministrativo e partiti

2. Le ragioni di un malcontento

3. Gli errori del Governo

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PREFAZIONE.

Gli scritti che raccolgo in questo volume, versano tutti, più o meno, intorno allo stesso argomento. Io non mi sono mai potuto persuadere che in un paese libero, che trae come il nostro la sua ricchezza e la sua vita economica principalmente dai prodotti del suolo, le moltitudini, e più di tutte quelle che sono date all’agricoltura, debbano restare nella misera e dura condizione, in cui le lasciarono i passati Governi. Ingiustissimo mi parve sempre, che coloro i quali lavorano più di tutti, e che sono i produttori della pubblica fortuna, debbano così spesso trovarsi senza mezzo di sostentare la vita. E quando sento da molte parti persone autorevoli, esperte, imparziali, ripetere, che il nuovo ordinamento politico d'Italia non migliorò le condizioni di questa gente, e qualche volta anche le peggiorò, sono indotto a domandarmi: una libertà fondata in questo modo può dirsi che riposi sopra una base sicura?

Che l’edilizio da noi costruito fosse molto più debole di quel che credevamo, apparve assai chiaro nella guerra del 1866. E fu allora che io cominciai a studiare l'arduo problema. Dipoi mi convinsi sempre più, che noi avevamo pensata meno a coloro, cui dovevamo pensare di più.

Io non intendo le paure di alcuni, i quali disapprovano che di ciò si parli, dicendo che così si solleva lo spettro del Socialismo. Questo è di certo la più pericolosa malattia delle società moderne, delle quali sembra qualche volta voler minacciare resistenza. Ma si guarisce forse col chiudere gli occhi e non parlarne? Qual paese, da qual pericolo si è mai salvato con un tal metodo di cura? Credere da un altro lato che noi soli potremo per sempre esimerci dai doveri imposti agli altri popoli, dai sacrifizii che essi hanno fatto e fanno a vantaggio delle moltitudini, non per solo sentimento di giustizia, ma per rendere più sicura la loro libertà, è certo una pericolosa illusione. Obbligare il contadino ed il proletario alla scuola, insegnar loro a leggere libri e giornali, insegnar loro i doveri e i diritti dell'uomo, chiamarli nell'esercito, dove imparano col rispetto degli altri quello della dignità propria, per farli tornar poi ad una vita che spesso è simile alla vita di schiavi, e credere che così non si apparecchiano pericoli per l'avvenire, significa, mi sembra, rinnegare la Storia, l'esperienza e la ragione.

Sono convinto che la guida e il governo della presente società italiana spettino alla borghesia;

ma perché questo dominio resti nelle sue mani senza pericoli e senza troppe sofferenze pel paese, bisogna che essa lo fondi sulla forza materiale e morale, sulla sua cultura e sulla sua giustizia. Deve quindi persuadersi, che una società libera non può riposare sicura sulla base apparecchiata dai passati Governi, i quali alimentarono l'antagonismo e l'odio delle classi sociali, perché solo su di esso potevano fondare il loro dispotismo.

Per queste ragioni pubblicai in diversi tempi gli scritti che ripubblico ora in un volume.

Aggiungo qualche Discorso politico, solo perché si veda che, senza trascendere e senza mai abbandonarmi a vane o pericolose illusioni, dentro e fuori della Camera sostenni, quando potei, le medesime idee.

Firenze, giugno 1878.

P. VILLARI.

LETTERE MERIDIONALI

AL DIRETTORE DELL’OPINIONE.

(Marzo 1875.)

I.

LA CAMORRA

Mio caro Dina,

Negli scorsi mesi raccolsi alcune notizie intorno allo stato delle classi più povere, specialmente nelle province meridionali. Se a te non pare inutile affatto, ti pregherei di concedermi che le pubblichi nel tuo giornale, tanto pregiato in Italia. Debbo però dire, innanzi tutto, che nel raccogliere queste notizie io ho avuto lo scopo di provare che la camorra, il brigantaggio, la mafia sono la conseguenza logica, naturale, necessaria di un certo stato sociale, senza modificare il quale è inutile sperare di poter distruggere quei mali. So che molti lo ammettono, ma pochi se ne formano un concetto chiaro. Sono ben lontano dallo sperare di potere, con alcune lettere, risolvere problemi d'una sì grande importanza e difficoltà. Credo però che anche pochi fatti ed esempi possano spronare ad altre nuove ricerche.

A che gioveranno queste ricerche? Sarà sperabile portare qualche rimedio ai mali? Lo vedremo in appresso. Intanto, per cominciare dalla camorra, noterò che la legge di sicurezza pubblica suppone che il camorrista non faccia altro che guadagnare indebitamente sul lavoro altrui. Invece esso minaccia ed intimidisce, né sempre per solo guadagno: impone tasse; prende V altrui senza pagare; ma ancora impone ad altri il commetter delitti; ne commette egli stesso, obbligando altri a dichiararsene autore; protegge i colpevoli contro la giustizia; esercita il suo mestiere, se così può chiamarsi, su tutto: nelle vie, nelle case, nei ridotti, sul lavoro, sui delitti, sul gioco. L'organizzazione più perfetta della camorra trovasi nelle carceri, dove il camorrista regna. E così, spesso si crede di punirlo, quando gli si dà solo il modo di continuare meglio l'opera sua. Ma quello ancora che la legge non sembra sospettare, e che molti ignorano, si è che la camorra non si esercita solo negli ordini inferiori della società: vi sono anche camorristi in guanti bianchi ed abito nero, i cui nomi e i cui delitti da molti pubblicamente si ripetono. Le forme che la camorra piglia nei diversi luoghi e fra le diverse persone che la esercitano, sono infinitamente varie.

Non è lungo tempo io scrissi ad un vice-sindaco di Napoli, amante del suo paese, antico liberale, patriotta provato: — Mi dici qualche cosa della camorra?

Ma essa avanti o indietro; comincia ad essere davvero estirpata? — Egli mi fece una risposta che non riferisco tutta, perché a molti parrebbe una dipintura esagerata dei fatti. Copio solo la conclusione della lettera.

«Moltissime ordinanze municipali non possono qui attecchire, se non convengono agli interessi della camorra. Napoli comincia a ripulirsi dacché la camorra con i suoi appaltatori ne trae guadagno. Ed io, come vice-sindaco di, ho potuto obbligare 1157 proprietarii a restaurare ed imbiancare le loro case e le ville,  Per ville molti intendono a Napoli i giardini che circondano o sono accanto alle ville. che sono cinte di mura, dacché, senza che lo sapessi, la camorra locale ha diretto, di comune accordo col mio «usciere, l'operazione».

Questo stato di cose fa paura, spaventa sempre più, quando si esamina più da vicino, e se ne vede tutta l'estensione.

Perché la camorra divenga possibile, occorre che vi sia un certo numero di cittadini, o anche una classe intera, che si pieghi alle minacce di pochi o di molti, che siano organizzati. Una volta che questo fatto, per qualche tempo, si avvera in proporzioni abbastanza larghe, riesce facile assai capire in che modo la malattia si estenda a poco a poco e quali forme diverse, secondo che penetra nei diversi ordini della società. Il male è contagioso come il bene, e l'oppressione, specialmente quella esercitata dalla camorra, corrompe l'oppresso e l'oppressore, e corrompe ancora chi resta lungamente spettatore di questo stato di cose, senza reagire con tutte le sue forze. Perciò importa conoscere dove questa oppressione comincia e si può esercitare più impunemente, perché ivi è la prima radice del male, dalla quale tutto il resto deriva, perché ivi, se è possibile, bisogna portare il rimedio.

La città di Napoli è, fra molte, quella in cui la bassa plebe si trova, non voglio dire nella maggiore miseria, perché ciò non è il peggio; ma nel più grande abbandono, nel maggiore avvilimento, nel maggiore avvilimento, nel più doloroso abbrutimento. Contro di essa tutto era permesso sotto il regime borbonico. Il galantuomo poteva, senza temer nulla, quando era di giorno e nella pubblica via, usare il suo bastone, perché la polizia pigliava in queste occasioni sempre le sue parti. Le limosino date a larga mano dai privati, dai conventi che distribuivano la minestra, dalle Opere pie, anche dal Governo che distribuiva pane, alimentavano la miseria e la rendevano permanente. La camorra così nasceva naturalmente in mezzo a questi uomini; era il loro governo naturale, ed era perciò favorita, sostenuta dai Borboni, come un mezzo di ordine. Qui il camorrista atterriva, minacciava e regnava. Qui egli prendeva i giovanetti di 14 o 15 anni per insegnar loro a rubare il fazzoletto, che restava a lui, dando in cambio, e come per favore, qualche soldo; qui egli poteva fare degli uomini e delle donne quello che voleva. E come spesso faceva con le sue anche le altrui vendette, cosi qualche volta non solo incuteva terrore, ma ispirava ammirazione ed affetto in quegli stessi che opprimeva. Cominciata la malattia, si potè subito diffondere. Una volta che questo spettacolo non disgustò più, l'oppressione e la violenza non parvero un delitto, e le esercitarono molti che in altre condizioni sociali avrebbero trovato nella loro coscienza un ostacolo invincibile.

Per comprendere la verità di quello che dico, e per poter ragionare in buona fede su questi fatti, occorrerebbe prima di tutto andare a vedere coi proprii occhi dove e come vivono le più povere famiglie.

Si tratta di una popolazione enorme, che si divide in categorie diverse, ciascuna delle quali ha caratteri, costumi, sventure proprie. Cito degli esempi, ed il lettore non si stanchi se, pure avendo io stesso veduto molti fatti, riferisco le parole di alcuni che andarono espressamente a visitare i poveri.

Nello scorso dicembre pregai un architetto, stato più volte adoperato dal Municipio di Napoli, perché mi dicesse qualche cosa di quelli che si chiamano fondaci, nei quali abita la più misera gente, e che sono disprezzati anche dalle donne stesse del popolo. Per ingiuriarsi fra loro, l'una chiama l'altra funnachéra (abitante dei fondaci).

«Questi fondaci (dice la lettera) hanno generalmente un androne, senza uscio di strada, ed un piccolo cortiletto, ambedue sudicissimi, i quali mettono in una grandissima quantità di pessime abitazioni, molto al di sotto degli stessi canili, le quali tutte, e specialmente quelle in terreno, sono  prive di aria, di luce, ed umidissime. In essi vi sono ammonticchiate parecchie migliaia di persone, talmente avvilite dalla miseria, che somigliano più a bruti che ad uomini. In quei covi, nei quali non si può entrare per il puzzo che tramandano immondizie ammassate da tempi immemorabili, si vede spesso solamente un mucchio di paglia, destinata a far dormire un'intera famiglia, maschi e femmine, tutti uniti. Di cessi non se ne parla, perché a ciò bastano le strade vicine o i cortili.

Solamente in due o tre fondaci, dei molti visitati da me, le donne esercitano la miserabile arte di fare stuoie o impagliare sedie, negli altri tutti non si vede nessuno a lavorare, ma solo spettri seminudi ed oziosi.

A me accadde d'incontrare in parecchi fondaci donne che vagavano per i cortili,con la sola camicia indosso che pur veniva giù a brani. Infine la più terribile miseria trova ricetto in questi fabbricati, dove non manca mai qualcuna delle più abbiette e luride case di prostituzione.

«Nella nostra città sono n° 94 fondaci, come potrai vedere dall'elenco che t'accludo; sicché, calcolando che ognuno sia abitato da n° 100 persone) (e con questo numero mi metto al disotto del vero), sarebbero circa 9400 questi esseri infelici.» I peggiori fra questi fondaci sono quelli che si trovano nei quartieri di Pendino, Porto e Mercato, 51 in tutto. Gli altri sono migliori, ma di poco. Ognuno di essi ha il suo nome: Bar rel’tari, Tentella, S. Crispino, Scannasorci, Divino Amore, Presepe, Pisciavino, Del Pozzillo, Abate, Crocefisso, Degli Schiavi, ecc. L'ultimo parmi il nome più adatto.

Il lettore ha mai sentito parlare degli Spagari di Napoli e delle grotte in cui abitavano? Questa gente forma una classe numerosa, non chiede la limosina, lavora, ha un mestiere. Nel tempo del colèra, pochi anni sono, furono chiuse quelle luride tane che erano loro unica dimora. Tuttavia, mesi sono, pregai una persona amica di ancore colà dov'erano una volta le grotte, e vedere; trovandole ancora chiuse, cercasse dove abitano ora gli Spagari e li visitasse. Riferisco qui due delle lettere ricevute. Sono dello scorso novembre.

«Ieri trovai una delle cosi dette grotte degli Spagari, la più parte essendo ormai chiuse.

Essa sia in sul principio delle Rampe di Brancaccio, quandosi discende. Il suo ingresso non annunzia l'orrore che vi si trova. Somiglia alle catacombe di S. Gennaro, se non che è assai più lurida e meschina. Vi  si cammina coi lume, e solo di tanto in tanto, ma assai di rado, vi sono delle aperture, balconcini o finestre, che mettono, due nei giardini di Francavilla, altre in umide corti.

 Tutta questa grotta è gremita di letti, l'uno dall’altro poco più discosti di quel che sono nelle sale dell'ospedale degl'Incurabili. Ad eccezione di qualcuno, sono tutti letti assai grandi, da contenere più persone. Sarebbe impossibile descriverne il sudiciume e la povertà. Una perfetta armonia è tra quei luridi canili, l'orribile grotta e gli abbrutiti abitanti, e tutti insieme sembrano formare un mondo a parte, che non possa andare altrimenti da quello che va. Negli abitanti v'è una certa gerarchia. Accanto alle poche finestre, là dove arriva qualche raggio di luce, si trova un poco meno di miseria; dove però non arriva la luce, ivi chi si avanza col lume, vede una miseria indescrivibile. Ed è singolare come anche qui, quelli che stanno meglio compatiscano e quasi disprezzino quelli che  stanno peggio.

Vivono in questo luogo 25 famiglie e sono circa 100 persone. Il sudiciume è tale, che una conca col bucato che vi trovai, mi rallegrò in modo che mi parve un'oasi nel deserto. Vicino alle finestre si paga sino a 10 lire il mese, dove manca la luce si discende fino a 25 soldi.

Hanno l'aria, più che di gente infelice, di gente abbrutita. Quando fa beltempo escono a guisa di formiche e si spandono al sole.

Tutta questa gente mi piativa attorno, domandando misericordia, e dicendo che erano obbligati a restar li senza luce, senz'aria, senza medici. Quando sono ammalati, essi dicono, restano abbandonati fino a che muoiono o vanno all'ospedale. La persona che subaffitta questo locale, e vi fa su un buonissimo guadagno, si è persino ricusata di fare le necessarie riparazioni; e cosi non di rado la pioggia inonda la grotta.»

Aggiungo una seconda lettera della stessa persona.

«Andai in un altro luogo, che è una vòlta al disotto del Corso Vittorio Emanuele, con mura chela chiudono dai lati, e formano cosi uno strano ricovero. Ivi erano molti a lavorare Io spago, la più parte giovani figlie di capi spagari, le quali però non vi dormivano. Una grande e commoventissima miseria mi colpi allora sino al fondo dell'anima. Una povera vedova di poco più che 30 anni, di un aspetto che la dimostrava essere stata bella, aveva cinque bambini, un giovanetto di 12 anni, e quattro bimbe,  l'ultima delle quali di 3 anni appena: tutti assai belli. Erano stati una volta agiati, perché figli d'un operaio che guadagnava bene, ma che era morto sollevando alcuni pesi troppo gravi alle sue forze. La donna che nella sua infanzia aveva fatto la spagara, è tornata all'antico mestiere, col quale guadagna dieci soldi per giorno, tranne quando pel gran freddo non potendo muovere le mani irrigidite, non riesce a fare quel tanto che deve.

I bambini girano le ruote per le altre donne, e guadagnano ciascuno un soldo, col quale comprano castagne secche, e così si man tengono fino a sera, quando, venendo pagati i dieci soldi della madre, mangiano tutti qualche altra cosa.» Dormono in un angolo di questo locale sopra alcune foglie secche. Non hanno neppur l'idea d'una coperta o d'un panno per ricoprirsi. La notte si mettono tutti rannicchiati, l'uno sull'altro, e tremano dal freddo: non hanno lume. La donna mi mostrò i cenci che li ricoprivano, in molti punti rosi dai topi piccoli e grossi, che nel colmo della notte camminano sui loro corpi. Allora i bambini, spaventati,  gridano e piangono. Ed essa, battendo con una pie tra al muro, cerca con quel rumore di spaventare ed allontanare i topi che non vede. Quella donna deve essere onesta e buona, perché il pensiero che più di tutti la turbava era la riuscita dei figli. Essa teme che il primo, il quale ha già 12 anni, ed è molto vivo, possa presto divenire un cattivo soggetto.

Se è vero quel che dice il Quetelet, che assai spesso è la società quella che mette il coltello in mano al colpevole, e se questo giovanetto divenisse un giorno assassino, non avrebbe egli il diritto di dire alla società: Io ho ammazzato un uomo; ma tu avevi già prima ammazzato la mia coscienza?

Potrei continuare questa descrizione sino all'infinito, ed aggiungere lettere a lettere, fatti a fatti, sempre varii, sempre brutali, sempre orribili. Ma non voglio stancare la pazienza del lettore.

Su questa povera gente tutti abusano. Il tugurio in cui abitano, le misere ruote con cui lavorano lo spago, la canapa di cui si servono, nulla appartiene ad essi; per ogni cosa debbono pagare, e pagare ad uomini che gli opprimono, li tormentano, non hanno di loro alcuna pietà, e vivono gualdagnando sulla loro abbrutita miseria. Basta avvicinarsi a questi luoghi, per essere circondati da una folla che chiede l'elemosina, e senza essere interrogata racconta la varia Iliade delle sue miserie. Qui bisogna venire a studiare, per convincersi che la camorra comincia a nascere, non come uno stato anormale di cose, ma come il solo stato normale e possibile. Supponendo domani imprigionati tutti i camorristi, la camorra sarebbe ricostituita la sera, perché nessuno l'ha mai creata, ed essa nasce come forma naturale di questa società. Intanto qui si recluta la popolazione enorme dei piccoli ladri, che se rubano, rubano a vantaggio dei loro capi; e quando vanno a centinaia nelle prigioni, costituiscono anche là il popolo della camorra, perché ivi essa ha pure i suoi sovrani, le sue assemblee e la sua gerarchia, non meno potenti, non meno audaci che fuori. Il guadagno del camorrista si fa allora sulle fave nere, sul pane nero di cui il carcerato povero deve rilasciare una parte; colui che ha dei soldi rilascia tutto, per comprare dalla camorra qualche cosa di meglio, spesso ancora per ricomprare quello che ha venduto.

Ma a che prò, mi si può dire, questa lunga geremiata? Si sa che la miseria c'è, e che è orribile. C'è stata e ci sarà sempre dappertutto insieme coi delitti.

Lo so anch'io che vi sono uomini, ai quali se si mostra una moltitudine che affoga nella miseria, nella fame e nella corruzione, hanno sempre la stessa risposta: «Bisogna aver fede nella libertà. IL SECOLO, IL PROGRESSO, I LUMI!Con questa gente io non so,  né ho voglia di ragionare. A loro non saprei dire che. una cosa sola:—Spegnete i vostri lumi e andate a letto. Contentatevi di sentire ogni giorno ripetere dagl'Inglesi e dai Tedeschi, che i popoli latini conoscono la forma e non la sostanza della libertà; perché non hanno mai voluto capire che popolo libero è quello solamente, in cui i potenti e i ricchi fanno un perenne sacrifizio di loro stessi ai poveri ed ai deboli. E non vogliono capire che una plebe misera e corrotta corrompe tutta la società; sicché è nel loro interesse, in quello delia moralità propria e dei proprii figli, combattere questo male con tutta l'energia possibile. —

Io parlo invece a coloro che, senza illusioni, credono utile e necessario studiare il male per cercarne i rimedii. E questi, certo, sono molti, complessi, difficili. Accennerò a qualcuno di quelli che mi sembrano più evidenti, e comincerò dal più difficile di tutti, quello che richiede maggior tempo e danaro. A Napoli vi è una quistione colossale, che nasce dalla costruzione stessa della città. Questa condizione di cose peggiorò molto dal tempo in cui, invece di fare, come pel passato, scorrere le acque che piovono, a rigagnoli o a fiumi per le strade, si costruirono assai malamente le fogne, nelle quali, per mancanza di pozzi neri, va ogni cosa. Le materie restano ora, quando non piove, ferme, e le loro esalazioni miasmatiche si sentono per le vie, entrano pei condotti nelle case.

Quando invece viene la pioggia, sono portate al mare, che bagna le rive più incantevoli e più popolose della città: ivi in tempo di calma si fermano, e lo scirocco rimanda indietro i miasmi. Il rimedio è difficile, perché manca l’acqua, ed in molti luoghi il livello delle strade è uguale a quello del mare. Intanto le febbri intermittenti fanno strage nella misera popolazione. Le Guide inglesi e tedesche hanno sempre un capitolo sulla febbre napoletana, di cui nei tempi passati non parlavano punto. Gli alberghi abbandonano la marina e salgono sulla collina. Si aggiunga a questo, che la mancanza di spazio costringe la povera gente a vivere accatastata in tugurii spaventevoli; onde in nessun paese della terra si vedono più chiare le terribili conseguenze della teoria del Malthus. Qui anche la parte meno misera del popolo abita nei bassi, i quali non solamente sono senza aria e senza luce, ma son tali che spesso per entrarvi si discendono alcuni scalini, onde la malsana umidità. S'aggiunga che questi bassi si continuano a costruire anche oggi nel medesimo modo; e si capirà come il primo e più difficile problema riguardi l'igiene generale della città, la costruzione delle case pei poveri, pei quali dal 59 ad oggi non si è fatto nulla. Si pensi che molti dei più miseri vivevano e vivono accattando, ricevendo sussidii, quando non fanno di peggio. Queste limosine e sussidii sono ora scemati, perché un governo libero non può distribuire il pane, e perché le Corporazioni religiose furono sciolte. Si consideri che il prezzo dei viveri e delle case è cresciuto, mentre l'aumento della mano d'opera non giova a chi non aveva e non ha mestiere;

e si dica poi se rimedia al male la scuola elementare, a cui del resto questa gente non va e non può andare. La sua condizione certo non è migliorala, forse è peggiorata. Di ciò io sono più che convinto da quel che ho visto coi miei occhi.

In questo stato di cose, i rimedii principali e più facili sono due. Estirpare la camorra, la quale deve essere riguardata come una piaga sociale assai più profonda di quel che ora si suppone. Per riuscirvi bisogna prima studiarla e conoscerla bene, bisogna poi che la legge la determini meglio, e renda possibile il colpirla in tutte le sue forme. I colpi dovrebbero essere più fieri, più inesorabili contro coloro che non sono popolo, e pur la esercitano e ne partecipano. Il camorrista dovrebbe nella prigione essere isolato, o mandato nelle carceri dell'Italia settentrionale, altrimenti la prigionia, se non è un premio, non è certo una pena. Da alcuni mesi il governo è entrato in questa via di rigore, che aveva, secondo me, a torto abbandonata per lungo tempo. Bisognerebbe che questo rigore fosse permanente, che continuasse nella prigione, e avesse, per quanto è possibile, l'aiuto di una legge di pubblica sicurezza con qualche articolo aggiunto a quel troppo semplice articolo 120, il quale si contenta di mettere fra le persone sospette coloro che «esigono danaro abitualmente ed illecitamente sugli altrui guadagni. i E in ciò sembra credere di aver compresa tutta la camorra.

Ogni sforzo sarà però vano, se nel tempo stesso in cui si cerca di estirpare il male con mezzi repressivi, non si adoprano efficacemente i mezzi preventivi.

Io non mi stancherò mai di ripeterlo: finché dura lo stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritta. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte. Quella plebe infelice, che con leggi repressive noi a poco a poco liberiamo dai suoi oppressori, deve essere con leggi preventive spinta, costretta al lavoro. Non bisogna contentarsi d'aiutarla con quelle infinite limosine che sono spesso una piaga, perché alimentano l'ozio e il vagabondaggio. Non bisogna credere e ripetere che a tutto rimedia la scuola elementare, la quale in questi casi non rimedia a nulla. Si guardi un poco a quello che avviene naturalmente, quando si trovano colà uomini veramente pietosi e benemeriti, che conoscono i mali del loro popolo. Alfonso Casanova, che da poco abbiamo perduto, fu giustamente amato come un santo. La sua Opera pei fanciulli usciti dagli Asili era fondata collo scopo di cercare i piccoli vagabondi, ed insegnar loro con l'alfabeto un mestiere. Tutti riconobbero che quello era il bisogno vero del paese, tutti l'aiutarono e l'amarono, quasi lo adorarono. Altri tentarono e tentano la medesima impresa con uguale fortuna, perché la carità cittadina non è mancata mai colà. E se il Governo vuol davvero operare, deve imitare questi esempi suggeriti dalla natura stessa delle cose. Come la camorra è un male che sorge spontaneo, e però tanto più profondo, in un certo stato sociale; così questi tentativi sono lo sforzo generoso e spontaneo della società stessa per redimersi. Bisogna combattere la prima, aiutare il secondo. Il Governo deve prendere le cose come sono, entrare nella via suggerita dall'esperienza della gente onesta del paese, e lasciar da un lato le teorie.

E il danaro non manca, se una volta si vorrà ammettere che le infinite Opere pie elemosiniere, le quali cosi spesso sono più una causa che un rimedio alla miseria, debbano tutte essere trasformate in modo da ottenere il loro scopo con la previdenza, dando col pane, e come condizione sine qua non, l'insegnamento e l'obbligo del lavoro.

E perché si veda quanto questo male sia generale non paia che io voglia prendere tutti gli esempi dal Mezzogiorno d'Italia, ne citerò uno del Settentrione. Nella Rivista Veneta (voi. IV, fase. 5°, 1874) è stato poco fa pubblicato dal professore Cecchetti dell'Archivio dei Frari, un lavoro in cui si dànno alcune statistiche assai eloquenti. Dal 1766 al 1789 si trova che Venezia ebbe una media di 2000 poveri. Le cose sono da allora in poi talmente peggiorate, che nel 1860 erano nei registri di beneficenza inscritti 31, 891 individui in una popolazione di 123, 102 abitanti. Nel 1861 la popolazione discese a 122,564, e gì' inscritti alla beneficenza salirono a 32,422. Nel 1867 la popolazione discese a 120,889 e nel catalogo della beneficenza erano registrati 33,978 individui. Questi erano nel 1869, 35,000; nei 1870, 35,728; nel 1871, 36,200. E qui finisce la statistica, non senza notare che bisogna, per l'anno 1871, aggiungere circa 700 poveri vergognosi, i quali rappresentano altrettante famiglie. È vero che negli ultimi anni la popolazione di Venezia ebbe qualche lieve aumento, essendo nel 1871 salita a 128,901 abitanti; ma in sostanza dai calcoli ufficiali del signor Cecchetti risulta un continuo aumento di poveri,

e risulta che un terzo circa della popolazione di Venezia è ora sussidiato dalla beneficenza, o almeno scritto ne' registri come meritevole di sussidio. Ho sentito molti e molti domandare: Perché lo spirito intraprendente, operoso, audace qualche volta sino all’eroismo, degli antichi Veneti, non è ancora cominciato a risorgere colla libertà? Le ragioni sono infinite. Però tra le ragioni, a mio avviso, non è ultima questa, che la carità cittadina ha accumulati infiniti tesori, i quali sono ora destinati ad impedire che quello spirito risorga.

Dopo ciò l'eterna risposta deve essere sempre: Vedremo, provvederemo, faremo? Cioè, lasceremo fare, lasceremo passare? Intanto la stampa straniera ci domanda: — Quando l'Italia sarà finalmente civile? — E se questo è quello che segue a Venezia, che cosa deve seguire a Napoli, città tanto più grande, tanto più malmenata! Lo dica l'esercito sterminato di poveri che vive senza lavoro. Qualcuno darà loro da mangiare, se di fame non muoiono. Si, è la carità, ma una carità che uccide, che demoralizza, che abbrutisce.

E voi, mi si dirà, avete la ingenuità di credere che in questo modo rimedierete a mali cosi gravi e profondi? Non vedete che ci vuole un secolo? Si, lo vedo, ma vedo ancora che se cominceremo domani, ci vorrà un secolo ed un giorno.

E per ora vedo ancora che, quando torno a Napoli, il mondo è mutato per me e per i miei amici. La parola è libera, la stampa è libera, molte vie si sono aperte dinanzi a me. La differenza è come dalla notte al giorno; se dovessi tornare al passato mi parrebbe di scendere nella tomba.

Abbandono le strade centrali, vado nei quartieri bassi, e ritrovo le cose come le lasciarono i Borboni. I fondaci Scannasorci, Tentella, San Crispino, Pisciavino, Del Pozzillo, ec., sono là sempre gli stessi, coi medesimi infelici, forse ancora più oppressi, più affamati di prima. Tutta la differenza, se mai, sta in ciò, che il muro esterno fu imbiancato. E sono allora tentato di domandare a me stesso: Ahi! dunque la libertà che tu volevi era una libertà per tuo uso e consumo solamente?

Tuo affezz.

P. VILLARI.


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II.

LA MAFIA

Mio caro Dina,

In questa lettera comincerò a ragionare dei mali che affliggono la Sicilia. La cosa è molto più ardua per me, che conosco assai poco il paese. Ed è più ardua in se stessa, perché le opinioni su questo argomento, anche tra coloro che nacquero e vissero nell'Isola, sono disparatissime. Io andrò quindi assai cauto. Metterò sotto gli occhi dei lettore i fatti che potei raccogliere, esporrò le conclusioni a cui sono venuto, e il modo, il processo logico con cui v'arrivai. Il lettore potrà da sé fare le sue osservazioni, e giudicare le mie.

Prima di tutto, voglio notare che ogni anno a me accade di ricevere lettere di giovani professori, i quali, invitati dal Governo ad andare in qualche liceo o ginnasio della Sicilia, mi chiedono ansiosamente, in nome loro e delle famiglie, notizia dei paesi cui sono destinati. Io mi rivolgo allora a qualche Siciliano amico, e domando. Sono stato molte volte maravigliato nel ricevere una risposta, che sembra esprimere come un giudizio. popolare.

Se io chiedevo di paesi delle province di Catania o di Siracusa, quasi sempre la risposta era: — Paesi buonissimi, si sta come in Toscana, si può andare coll'oro in mano. — Se invece chiedevo di paesi della Sicilia occidentale, specialmente delle province di Girgenti e di Caltanisetta, la risposta era spesso: —Eh! paesi di soliare, bisogna stare attenti. — Ora è noto che la Sicilia è travagliata da quelle piaghe sociali, di cui tanto si parla adesso, principalmente nella sua parte occidentale. Qui appunto, non occupandoci per ora di Palermo che dà luogo ad altre considerazioni, è il centro delle solfare, che, dopo 1 agricoltura, sono la più grande e ricca industria di quell'isola, industria che occupa molte decine di migliaia di lavoranti d'ogni sesso ed età. Ed è noto che il lavoro delle solfare è fatto in un modo che assai spesso si può dire iniquo. Non solamente non si pigliano tutti i necessarii provvedimenti a salvare la vita degli operai, che qualche volta restano soffocati dai gas che n'emanano, ed anche si accendono; sepolti sotto le vòlte che cadono, perché male co struite, o perché l'intraprenditore ha fatto assottigliare i pilastri, per cavarne altro minerale: ma segue di peggio ancora. La creatura umana è sottoposta ad un lavoro che, descritto [ogni giorno, sembra ogni giorno più crudele e quasi impossibile. Centinaia e centinaia di fanciulli e fanciulle scendono per ripide scarpe o disagevoli scale, cavate in un suolo franoso e spesso bagnato. Arrivati nel fondo della miniera, sono caricati del minerale, che debbono riportare sa a schiena, col pericolo, sdrucciolando su quel terreno ripido e mal fido, di andar giù e perder la vita.

Quelli di maggiore età vengono su, mandando grida strazianti; i fanciulli arrivano piangendo. È noto a tutti, è stato mille volte ripetuto che questo lavoro fa strage indescrivibile fra quella gente. Molti ne muoiono, moltissimi ne restano storpiati, deformi o malati per tutta la vita. Le statistiche lo provarono ad esuberanza, la leva militare ha dato un numero spaventoso di riformati, l'inchiesta industriale ha raccolto tutte le notizie che si possono desiderare. E cosa che mette terrore. Il Congresso di Milano, l'onorevole Di Cesarò, l'onorevole Luzzalti ed altri levarono un grido generoso di protesta e di dolore contro queste enormità, le quali sono tanto più gravi, in quanto colla salute si distrugge la moralità di quelle popolazioni. Gli organismi deboli rimangono distrutti, i forti sopravvivono per comandare, tiranneggiare, opprimere fanciulli e fanciulle accatastati in quegli oscuri androni, dove ogni cosa può succedere. L'uoma si abbrutisce, si demoralizza e diviene facilmente un nemico della società che lo tratta cosi spietatamente.

Abbiamo qui dunque una prima sorgente del male. Si vede cogli occhi, si tocca con mano in che modo la moralità di certe classi sociali venga distrutta. Segue in Sicilia quello che era cominciato a seguire in tutti i paesi di miniere, con qualche differenza però. Altrove si pensò subito a porvi rimedio con leggi, che proteggono l'operaio e specialmente il fanciullo, il quale non deve lavorare oltre un certo numero di ore, non deve essere sottoposto a lavori che lo ammazzano o lo demoralizzano. La vita e la moralità dell’operaio furono efficacemente protette; il male fu fermato nel suo cammino.

Dal 1859 fino ad oggi a noi è invece mancato il coraggio, la previdenza necessaria a fare la legge che tanti avevano già fatta. Essa si discute ora negli Ufficii, e, come è naturale, tutti l'approvano. Ci sarà però il tempo d'approvarla e discuterla anche in Parlamento, in questa Sessione  Fino ad oggi non e' è stato.  0 sarà la Camera troppo occupata, troppo stanca, troppo sopraffatta? E, approvata una volta questa legge, avrà il Governo la ferma volontà di farla eseguire? Si leverà certo nelle miniere un grido di protesta, e sarà invocato il sacro nome della libertà violata. Gli operai picconieri grideranno che col proibire il lavoro dei fanciulli sarà diminuito il guadagno degli adulti. Le madri grideranno che s'impedisce ai loro figli di guadagnarsi un pane, e che cosi essi morranno di fame. I gabellotti o appaltatori strepiteranno che si mandano in rovina le loro industrie; che è ingiustizia senza nome l'obbligarli a condurre i lavori, scavare le vòlte, ecc. in un modo piuttosto che in un altro. E i sacri adoratori delle armonie economiche grideranno che tutto è compenso: il male che si voleva impedire da un lato, si produrrà da un altro, e intanto la libertà, che sola poteva rimediare a tutto, è stata violata. Ma quale libertà? Quella che dà al picconiere il diritto di ammazzare o demoralizzare i fanciulli, per guadagnare qualche scudo di più? Sono queste le armonie desiderate?

Ma come, diranno forse allora gli uomini pratici, volete voi governare con tutto il paese contro di voi? In verità mi pare che se abbiamo saputo, quando è stato inevitabile, imporre la leva ed il macinato colla forza, dovremmo saper fare e far rispettare le leggi, certo non meno sacre, che proteggono i deboli e la pubblica moralità. Altrimenti è inutile domandare: perché seguono tanti delitti, perché non c'è sicurezza pubblica? Anche questa è un'armonia fra causa ed effetto. E se da un lato noi dobbiamo, per necessità inesorabile delle nostre finanze, mantenere il lotto che corrompe il popolo, e da un altro lasciare che altri l'opprima e lo corrompa, che cosa sarà di esso e di noi? Il giorno in cui l'Italia si dichiarasse impotente a rispettare ed a far rispettare le leggi più elementari della giustizia, essa avrebbe pronunziata la propria condanna di morte; avrebbe in faccia all'umanità confessato che non ha il diritto di esistere. Che importerebbe infatti all'umanità che ci sia un'Italia unita e libera piuttosto che divisa ed oppressa, se la nostra libertà dichiarasse che, per esistere, deve permettere che i sacri diritti dei deboli vengano ogni giorno violati?

La quistione siciliana si presenta in tutta la sua spaventosa gravità nella provincia di Palermo, dove uno stato sociale, che ancora non si conosce abbastanza, produce non la camorra, ma la mafia. Questa è stata studiata e descritta con molti particolari, prima dal barone Turrisi-Colonna, poi dall'onorevole Tommasi-Crudeli e da altri in opuscoli importanti, nei quali sono esaminati anco i diversi elementi storici che contribuirono a generare ed accrescere il male.

Sarebbe inutile venire qui a ripetere ciò che essi hanno già detto. E del resto non è il sapere quel che fa la mafia e come lo fa, e neppure il conoscere quali sono gli elementi ad essa estranei, che la promuovono e le aumentano vigore, ciò che a noi più importa. Son cose in gran parte già note.

Questa mafia non ha statuti scritti, non è una società segreta; si potrebbe quasi dire che non è una associazione; è una camorra d'un genere particolare; s'è formata per generazione spontanea. A noi importa sapere come e perché nasce e si mantiene così vigorosa, e più audace assai che la camorra. La mafia guadagna, si vendica, ammazza, riesce persino a produrre sommosse popolari. Chi comanda e chi obbedisce, chi sono gli oppressi e chi sono gli oppressori?

È difficile farsi un'idea degli ostacoli che si ritrovano, quando si vuol ricevere o dare una risposta precisa a queste domande. Ognuno ha un'opinione o un'idea diversa. Ho letto un gran numero di libri ed opuscoli, ho interrogato molti Siciliani e molti stranieri residenti nell'Isola da lungo tempo: la varietà delle opinioni cresceva ogni giorno. Un Inglese da parecchi anni residente in Palermo mi scriveva ripetutamente che, senza provvedimenti eccezionali, era ridicolo pensare di poter ristabilire la pubblica sicurezza. Interrogato però da me sopra varie questioni, egli, uomo dotto, intelligente, molto pratico di affari, rispondeva schietto di non essere in grado di darmi alcuna cognizione sicura. Inviò le mie domande ad un altro Inglese, da più lungo tempo residente nell'interno dell'Isola, mescolato in molti affari colà, ed uomo accorto:

he has a long head, he is your man, egli è assai accorto. è il vostro uomo, diceva il mio amico. La risposta fu, che era molto difficile il voler conoscere davvero le origini ed il carattere della mafia: i passati Governi, le rivoluzioni, la mancanza di strade e di opere pubbliche, ecc., ecc. Una sola cosa era certa, egli diceva, e cioè che i provvedimenti eccezionali farebbero più male che bene. Il rimedio stava nel tempo, nelle opere pubbliche, cui la Sicilia aveva diritto, e finalmente nelle scuole, l'eterna panacea di tutti i mali. I due Inglesi dunque si neutralizzavano, ed io restavo come prima.

Un giorno ero immerso nella lettura degli opuscoli sulla Sicilia, quando m'arrivò la notizia che il prof. Caruso, siciliano, non nato ma educato a Palermo, che ora insegna agronomia nell'Università di Pisa, sulla cattedra e nella scuola illustrala dal Cuppari, aveva accennato alla questione in un suo pubblico discorso, letto nella solenne apertura dell'anno accademico 187374. Scrissi subito per avere il discorso, e vi trovai in pochi periodi accennato, che nella Sicilia v'era una grossa questione sociale, derivante dalla grande coltura e dalla miseria del contadino. «La rivoluzione di Palermo nel 1866, egli diceva, non fu politica, ma sociale, sì perché non aveva nessuna bandiera politica certa, si perché il contingente più numeroso lo forniva la campagna, mandando in quella sventurata città coorti di opranti affamati, desiderosi di arricchirsi.» Unico rimedio ai mali, continuava il Caruso, sarebbe l'introduzione di quel contratto di mezzeria, secondo il quale è coltivata la Toscana, e col quale si fanno al contadino condizioni eccellenti.

E subito nell'Accademia dei Georgofili l'ex-deputato E. Rubieri annunziò con parole di elogio questo discorso, ricordando come egli avea nel 1868, dopo un viaggio in Sicilia, sostenuto la medesima idea nel suo libro: Sulle condizioni agrarie, economiche e sociali della Sicilia e della Maremma Pisana. Io lessi con avidità questo lavoro, e da tutto ciò ricevei una profonda impressione, perché mi ero già convinto che la questione del brigantaggio nelle Provincie napoletane era una questione agraria e sociale.

Ma quale fu la mia maraviglia quando, raccolti gli appunti per ciò che riguardava in ispecie la provincia di Palermo, interrogando alcuni Siciliani che mi parevano competenti, vidi che si mettevano a ridere sgangheratamente. In tutto questo, essi dicevano, non c'è una sola parola di vero. Come! noi oppressori dei contadini? Ma se siamo noi oppressi dai contadini! È la mafia che impedisce a noi d'andare a vedere i nostri fondi. Il tale, il tale altro da 10 anni non ha potuto vedere le sue terre, che sono amministrate e guardate dai mafiosi, dalle cui mani non può levarle senza pericolo di vita.

A questo s'aggiunse una notizia singolarissima, la cui verità ho potuto in molti modi accertare. Il maggior numero di delitti si commette da abitanti dei dintorni di Palermo, che per lo più non sono poveri, spesso anzi contadini censuarii o proprietarii, che coltivano mirabilmente i loro giardini d'aranci. Nella Conca d'Oro l'agricoltura prospera; la grande proprietà non esiste; il contadino è agiato, mafioso, e commette un gran numero di delitti. Io non volevo credere a questa notizia, che sembrava sovvertire tutti quanti i principii dell'economia politica e della scienza sociale; ma la riscontrai in mille modi, ed in mille modi mi fu riconfermata.

Ripigliai e rilessi da capo i miei opuscoli o libri sulla Sicilia, per vedere se era possibile raccapezzarmi. Negli Annali d'agricoltura siciliana trovai ripetuto, che l'agricoltura e la prosperità materiale da lungo tempo hanno fatto molti progressi nei dintorni di Palermo. Nell'opuscolo del Turrisi Colonna sulla Sicurezza Pubblica in Sicilia, trovai confermato che il centro principale, la vera sede della mafia è nei dintorni di Palermo: di là essa stende le sue fila nella città. Qui il basso popolo non è avvilito ed oppresso; ma piuttosto sanguinario, pronto al coltello; aderisce alla mafia, e ne va orgoglioso. Il contadino agiato ed il borgese, come dicono colà, di Monreale, di Partinico, ecc.; i gabellotli o affittuarii, e le guardie rurali di quei medesimi luoghi sono quelli che costituiscono il nucleo principale della mafia. Questa dunque stende le sue più profonde radici nella campagna, mentre la camorra le stende nella città. Dentro Palermo voi potete di giorno e di notte passeggiare impunemente; se v'allontanate un miglio dalle porte, anche oggi, mi dicono, voi non siete sicuro d'arrivare a Monreale.

A questa notizia bisogna aggiungerne un'altra, che è pure di massima importanza per conoscere le condizioni dell’Isola. Questa va divisa in più zone che sono fra loro assai diverse. Nell'interno v'è la grande coltura. Ivi sono i feudi o latifondi, ivi sono i miseri proletarii, ivi l'agricoltura è in uno stato primitivo; mancano le acque, l'aria è cattiva, il fertile suolo della Sicilia pare spesso una maremma, e v'è poco più che la coltura dei cereali.

Vicino alle coste, specialmente presso le città, e massime nei dintorni di Palermo, la scena muta affatto. Qui sono giardini, piccola coltura, agricoltura progredita, spesso contadini censuarii a proprietaria in ogni caso agiati, intelligenti, eppure pronti ai delitti. A questi s'uniscono gabellotti e guardiani, anch'essi agiati, anch'essi pronti al delitto. Ora in che relazione si trovan fra loro il cittadino, questi borgesi, gabellotti, guardiani, ec., ed il proletario dell'interno dell'Isola? Ecco il nuovo problema che mi si affacciava.

Dopo mille domande e lettere scritte, per arrivare alla soluzione del problema, la risposta che più mi parve avvicinarsi al vero mi fu data da un patriota siciliano, stato ufficiale del Garibaldi e dell'esercito regolare, il quale fece un piccolo giro nei dintorni di Palermo, per poter rispondere più esattamente alle mie domande. Il lettore legga con attenzione la lettera di questo amico, e vi troverà qualche notizia importante a risolvere l'arduo problema. Non dimentichi però che lo scrittore parla de visu, solo per quanta riguarda una parte dei dintorni di Palermo.

«In Sicilia bisogna distinguere due classi di contadini, una che abita verso le coste, dove le terre sono più coltivate e meglio divise, e dove il contadino assai spesso possiede la sua porzioncella coltivata o a vigneto o ad olivi o ad agrumi o a sommacco. Cosi, per esempio, nella Conca di Palermo, i quattro decimi dei contadini sono piccoli censuarii o proprietarii, e nel territorio che si dice della Sala di Partinico, o meglio quella parte della costa che si bagna nel golfo di Castellammare, gli otto decimi dei contadini sono quasi tutti in questa condizione.

Tanto è vero che si è calcolato, che se, per esempio, a Partinico i contadini non fossero analfabeti, potrebbero tutti essere elettori amministrativi o politici, perché tutti pagano la tassa richiesta dalle leggi. Ne vuole sapere una? I Comuni di Monreale e di Partinico sono quelli, in cui le basse classi o meglio il contadinume si trova più che in tutti gli altri Comuni della provincia in uno stato di agiatezza. Ora in questi due paesi appunto gli omicidii sono più spessi e più efferati che 'nella provincia.

La vera classe di contadini che, addetta alla seminagione del frumento, il novanta per cento nulla «possiede, e si trova a discrezione d'un burbero padrone, è quella che abita l'interno dell'Isola, dove sono i latifondi, coltivati da uomini che vivono come schiavi.

Per rispondere ai quesiti propostimi da lei, con notizie certe, io piglio ad esempio per tuttiPiana dei Greci. Gli abitanti si dividono in tre classi:—galantuomini o boiardi Questa parola è in uso solamente fra gli Albanesi dell'Isola.  borgesi o contadini un po' agiati, che fanno da affittuarii, e villani o giornalieri. Circa quattro famiglie di boiardi e sei di borgesi fanno negozio di grano, hanno preso in affitto gli ex-feudi dei signori di Palermo, dando ogni anno a coltivare le terre, in piccole porzioni, ai poveri contadini.

Le forme di questi subaffitti sono varie, ma quasi tutte ad anno od a brevissima scadenza, e sempre il feudo viene diviso in piccole porzioni.

A mezzeria si dice quando il contadino, coltivando il grano, dà metà del prodotto al padrone, che piglia dalla metà del contadino il prezzo per la guardia rurale, fissandolo egli stesso. Dicesi a terraggio, quando il contadino s'obbliga a dar tante salme di grano per salma di terreno. In questi casi, se si anticipa il grano per seminare, si ripiglia con un interesse del 25 % Dicesi a maggese, quando si consegna al contadino il pezzo di terra già arato. Egli lo semina, e dà poi tante salme di grano, secondo il patto fissato nell’anno. Di quello che avanza, piglia solo la metà, l'altra va al padrone. Anche in questo caso, il grano per la semina s'impresta dal padrone al 25 %. Quando questi patti onerosi hanno rovinato il contadino, esso diventa giornaliero, e guadagna da L. 1. 70 a L. 2 al giorno; nel tempo della mietitura anche 3. Cessati i lavori, resta senza guadagno. Alcuni dei boiardi e dei borgesi si contentano vivere delle loro rendile; ma gli altri pigliano in affitto i feudi, negoziano di grano, ed esercitano un' usura spaventosa sui contadini.

Lo stato dei contadini nell'interno dell’Isola è deplorevolissimo. In massima parte sono proletarii, che debbono ogni giorno camminar molle miglia per arrivare al luogo del lavoro. Altra relazione tra essi e i loro padroni non v'è, che quella dell'usura e della spogliazione, di oppressi ed oppressori. Se viene l’annata cattiva, il contadino torna dall’aia piangendo, colla sola vanga sulle spalle.

E quando l'annata è buona, gli usurai suppliscono alla grandine, alle cavallette, alle tempeste, agli uragani. I contadini sono un esercito di barbari nel cuore dell'Isola, ed insorgono non tanto per odio contro il Governo presente, quanto per vendicarsi di tutte le soperchierie, le usure e le ingiurie che soffrono, ed odiano ogni Governo, perché credono che ogni Governo puntelli i loro oppressori.»

Noi abbiamo dunque tre classi distinte. In Palermo sono i grandi possessori dei vasti latifondi o ex-feudi; nei dintorni abitano contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali si forma una classe di gabellotii, di guardiani e di negozianti di grano. I primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non s'intendono; fra i secondi si reclutano i suoi soldati, i terzi ne sono capitani. Nell'interno dell'Isola si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletarii. 1 borgesi arricchiti, i proprietarii negozianti pigliano a gabella gli ex-feudi che subaffittano ai contadini, dividendo le vaste tenute in porzioni, di cui serbano per se stessi la migliore di tutte, e fanno contratti di subaffitto diversi, ma sempre onerosissimi al contadino. E aggiungono poi l'usura, che ordinariamente arriva al 25 per % spesso sale ad un interesse assai maggiore. Inoltre negoziano in grano. Messa da parte l'usura, i contratti sono tali, che i calcoli degli agronomi siciliani dimostrano (professor G. Caruso, Studii sull'industria dei cereali in Sicilia, Palermo, 1870) che il contadino, nei casi ordinarii, non può trovare i mezzi necessarii alla vita.

Perciò egli deve indebitarsi e cadere in mano dell’usuraio, di cui è fatto schiavo, fino a che non si getta al brigantaggio, quando non diviene proletario, per peggiorare ancora il suo stato. Egli allora percorre la feconda terra siciliana senz'altro che una zappa sulla spalla, carico d'un cumulo di debiti. Si pensi che la coltura dei cereali si estende a 77 per cento di tutta la superficie dell’Isola, e si capirà a che cosa arrivi questo esercito d'infelici, che sono come gli schiavi dell’usuraio e dell'affittuario.

Fra questi tiranni dei contadini sono le guardie campestri, gente pronta alle armi ed ai delitti, ed ancora quei contadini più audaci, che hanno qualche vendetta da fare, o sperano trovar coi delitti maggiore agiatezza; e così la potenza della mafia è costituita. Essa forma come un muro tra il contadino ed il proprietario, e li tiene sempre divisi, perché il giorno in cui venissero in diretta relazione, la propria potenza sarebbe distrutta. Spesso al proprietario è imposta la guardia de' suoi campi, e colui che deve prenderli in affitto. Chiunque minaccia un tale stato di cose corre pericolo di vita.

I delitti sono continui in questa classe, che pure non è data per mestiere al brigantaggio; ma lavora la terra, fa i suoi affari con intelligenza, mantiene il suo predominio col terrore. Oggi dietro una siepe, tirano una fucilata al viandante od al vicino rivale; domani vangano tranquillamente i loro campi d'agrumi, o attendono nella città ai proprii commerci. La base, le radici più profonde della loro potenza sono nell'interno dell'Isola, fra i contadini che opprimono, e su cui guadagnano;

ma questa potenza si estende e si esercita anche nella città, dove la mafia ha i suoi aderenti, perché v'ha ancora i suoi interessi. A Palermo, infatti, sono i proprietarii; a Palermo si vende il grano e si trovano i capitali; a Palermo vive una plebe pronta al coltello,, che può, all'occorrenza, dare braccio. E cosi la mafia qualche volta è divenuta come un Governo più forte del Governo. Il mafioso dipende in apparenza dal proprietario; ma in conseguenza però della forza che gli viene dall'associazione, in cui il proprietario stesso si trova qualche volta attirato, egli riesce di fatto ad esser il padrone. Qualche volta potè seguire perfino che la mafia promovesse una rivoluzione, alla testa della quale pose alcuni proprietarii, prima che avessero avuto il tempo di pensare a trovare il modo di separarsene.

Ammesso questo stato di cose, tutte le osservazioni fatte dal barone Turrisi, dal Tommasi-Crudeli e da molti altri spiegano chiaramente in che modo il male sia andato sempre crescendo. Gli abitanti dei dintorni di Palermo discendono per lo più da famiglie di antichi bravi dei baroni, e quindi tra di essi la tradizione del sangue è antica. Chi è d'accordo colla mafia è sicuro; chi la comanda è padrone di una forza grandissima, e può mantenere l'ordine, o promuovere una rivolta. Perciò i Borboni governarono colla mafia, ed anche la rivoluzione ricorse ad essa, che potè subito armare contadini e popolo, porsi alla loro testa, e rovesciare il Governo stabilito. Le compagnie d'armi, istituite in tutti i tempi a mantenere l'ordine, furono reclutate nella medesima classe, e non spegnevano i delitti, ma quasi gli organizzavano fra certi limiti, con certe norme,

perché il nuovo guadagno che facevano come stipendiati del Governo, e la nuova autorità acquistata, servissero a sempre meglio consolidare il proprio potere. La pubblica sicurezza venne affidata alla mafia, dandole cosi in mano la società, e questo sistema che pur troppo fu sempre seguito, rese sempre più forte l’associazione che si voleva distruggere.

Naturalmente i problemi sociali non sono problemi di matematica; gli elementi che li costituiscono sono varii e molteplici, s'intrecciano e si confondono fra loro. La divisione di classi da noi osservata, neanche nella Sicilia occidentale si trova sempre esattamente disegnata e distinta; le condizioni qualche volta s'alterano e si modificano, eppure assai spesso gli effetti sembrano o sono identici. Basta che le radici del male siano fortemente e profondamente costituite in una parte del paese, perché questo male sorga e si propaghi. Ma dove le condizioni dell'Isola radicalmente si modificano, ivi esso scomparisce o muta natura.

La Sicilia occidentale adunque è travagliata da due grandi calamità: lo stato delle sue ricche solfare, e la mafia che nasce dalle condizioni speciali della sua agricoltura. Perché le cose sono nella Sicilia orientale tante diverse? Ivi mancano le solfare, le condizioni geografiche ed agronomiche sono d'altra natura. II terreno più montuoso e meno fertile ha dato luogo a molti contratti di colonia parziaria, che è sempre più mite della terraggeria o della mezzeria di Palermo.

A Catania, è vero, la coltura dei cereali arriva sin quasi alle porte della città; ma questo appunto, cioè la mancanza d'una zona di terreno più fecondo, ha impedito che sorga una classe di contadini più agiati, da cui poi i gabellotti e mercanti oppressori. Sono miseri proletarii, sottoposti ad una tirannia diversa, simile a quella che troviamo nella Basilicata o in altre province del continente meridionale; arrivano, lavorano la terra e se ne vanno senza portare disordini. L'estrema miseria gli spinge qualche volta al brigantaggio, ma non possono costituire la mafia. S' aggiunga poi che a Palermo si trovano i più grandi possessori di latifondi, il che più facilmente dà modo al gabellotto di guadagnare col subaffitto dei vastissimi ex-feudi; e si capirà, io credo, in che modo i dintorni della capitale dell’Isola abbiano il triste privilegio d'essere il centro della mafia.

Ed ora quale è il rimedio contro questi mali? Qui si presenta un problema che spaventa per la estensione che prende, come vedremo, non solo in Sicilia, ma in tutta l'Italia, specialmente meridionale.

È chiaro intanto che i rimedii sono di due sorta: repressivi e preventivi. Bisogna, non v'ha dubbio, punire severamente i delitti con pronta ed esemplare giustizia; ma anche qui la prigionia è inutile, se non si isola o non si manda lontano il condannato. La stessa parola mafia viene dal gergo delle carceri, donde uscì solo nel 1860, per mezzo di una commedia del signor Rizzotto, che descrisse l'associazione ivi esistente. Fu allora adoperata per indicare un altro fatto sociale, che prima non aveva avuto un proprio nome.  

A riuscire però coi soli mezzi repressivi, bisognerebbe portare la repressione fino allo sterminio. Allora, di certo, col terrore cesserebbero i delitti, salvo sempre a vedere, se quelle condizioni che hanno prodotto il male, restando le stesse, non lo riprodurrebbero in breve. Ma lo sterminio porta un consumo spaventevole di forze, ed un Governo liberale non può decidersi a ciò. Occorre il dispotismo. Noi dobbiamo adunque assalire il nemico da due lati: punire e reprimere prontamente, esemplarmente; ma nello stesso tempo prevenire. In che modo? Bisogna curare la malattia nella sua sorgente prima. Il Governo deve avere il coraggio di presentarsi come colui che vuol redimere gli oppressi dal terrore e dalla tirannide che pesa su di essi. È vero o non è vero quello che dicono gli agronomi siciliani, che cioè i contratti agrarii fatti col terraggiere, col mezzadro, ecc. sono iniqui? Se è vero, è necessario cercare qualche rimedio a ciò, sia con mezzi legislativi, e con un' azione energica del Governo in difesa della giustizia e dei deboli; sia con una pubblica opinione più illuminata, o con altro mezzo qualunque. Se a questo non si può riescire, non è sperabile estirpare il male. Quando i contratti agrarii assicurassero al contadino, con una maggiore indipendenza, un'equa retribuzione, e lo ponessero in relazione amichevole col proprietario, il guadagno della mafia e con esso la sua potenza e la sua ragione di essere sarebbero distrutti.

È possibile, è sperabile arrivare allo scopo? Ecco l'arduo problema.

La quistione si allarga ora immensamente, perché nelle province napoletane, dove non troviamo la mafia, il contadino geme sotto un'altra forma di miseria e di oppressione, che esiste pure nella Sicilia orientale, e dalla quale derivano conseguenze diverse, ma pur gravissime. Invece della mafia abbiamo il brigantaggio, che ci presenta la quistione agraria sotto un altro aspetto. Ma l'unico rimedio possibile è sempre lo stesso: la repressione esemplare e pronta dei colpevoli da un lato, la redenzione degli oppressi dall'altro. E la difficoltà gravissima è anche la stessa, cioè: può lo Stato far nuove leggi, per determinare le forme e le condizioni dei contratti agrarii? Facendole, conseguirebbe lo scopo? 0 è sperabile invece che basti il naturale progresso della pubblica opinione e dei costumi, ed è necessario affidarsi solo a ciò?

Di questo ti dirò qualche cosa, dopo aver parlato del brigantaggio.

Tuo affez.

P. VILLARI.


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III.

IL BRIGANTAGGIO

Mio caro Dina,

Io suppongo il lettore persuaso già che la mafia abbia le sue radici principali nella campagna, e che a distruggerla sia necessario veramente migliorare la condizione delle migliaia d'agricoltori, che lavorano nell'interno dell'Isola i 77 % del suolo siciliano. E allora vedo subito nascere uno spavento e una diffidenza grandissima. Da un lato sento dire: Sono mali a cui non può rimediare che il tempo, la forza generale delle cose. Da un altro lato sento con maggior insistenza affermare: Volete dunque sollevare in Italia una quistione sociale? Fra i tanti nostri guai questo ci mancava ancora. Avevamo la pace interna, e voi vorreste ora scatenare su di noi cosi terribili calamità. Sarebbe davvero un gran delitto contro la patria, l'alimentare nei contadini speranze che non possono mai essere soddisfatte. Essi sono la classe di gran lunga più numerosa e meno civile; se si sollevassero, chi potrebbe loro resistere?

Prima di tutto bisogna bene intendersi su di ciò, perché queste opinioni molto diffuse hanno davvero impedito che la quistione venisse finora seriamente e chiaramente discussa.

Se per quistioni sociali s'intendono quelle che vediamo travagliare cosi crudelmente le altre nazioni, allora di certo ne siamo per fortuna liberi. Perché esse sorgano occorre che siasi già fatto un grande progresso nell'industria, nell'agricoltura e nel commercio; progresso che fra noi non esiste, e meno che mai in quelle province di cui ora più particolarmente ci occupiamo. Ma quando noi domandiamo che si porti qualche aiuto all’infima plebe di Napoli, che vive senza mestiere, vogliamo solo spingerla fino al lavoro ed all'industria; quando domandiamo che il contadino esca dalla sua condizione di schiavo, in cui trovasi in alcuni luoghi, vogliamo solo condurlo fino alla sua indipendenza. Là dove si cominciano a discutere pericolose teorie, siamo già fuori del nostro argomento. Che se per la possibilità che queste teorie sorgano, si dovesse rinunziare a promuovere il progresso morale e materiale delle popolazioni abbandonate e povere; allora solamente il tacere sarebbe dovere. Chi vorrà sostenerlo? Se però non abbiamo,  né dobbiamo temere il socialismo, il comunismo e l'internazionalismo, è poi certo che non abbiamo alcuna quistione sociale, ma solo la pace interna per tutto? Non c'è quistione politica che progredisca davvero senza quistioni sociali, perché la mutazione del Governo senza una trasformazione progressiva della società sarebbe opera affatto vana.

E poi quale è la pace che abbiamo nelle province di cui si ragiona? Sono segni di ordine e di pace la camorra, la mafia ed il brigantaggio? A Zurigo, a Ginevra, in molte città della Svizzera, è ben vero, si sono più volte agitate le moltitudini con teorie sovversive, e sarebbe certo la più grande calamità se queste teorie si diffondessero tra noi. Ma nella Svizzera voi potete traversare di giorno e di notte monti, valli e boschi, senza quasi mai trovare un gendarme, e senza mai temere  né per la vita,  né per la vostra proprietà, se anche siete carico d'oro. Potremo proprio dire che ivi la pace sociale sia turbata, e che fra noi sia invece perfetta, quando pensiamo che in alcune delle nostre province non si può camminare senza essere circondato di guardie armate, e vi sono uomini che, in mezzo alla libertà, sono poco meno che schiavi?

E da un altro lato abbiamo noi esaminati tutti i danni di un tale stato di cose? La insurrezione è un pericolo; ma l'ozio, l'inerzia, il vagabondaggio e l'abbrutimento, sono un pericolo non meno grave, specialmente per un popolo che vuol esser libero. Il dispotismo si fonda sopra una società che lavora poco e spende poco; può quindi più facilmente tollerare l'ozio e l'abbrutimento; spesso ne ha anche bisogno per la sua sicurezza. Ma un popolo libero è invece un popolo che lavora e spende molto. Se noi avessimo prima trasformata la nostra società, per far poi la rivoluzione politica, non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo, appunto per aver fatto solo una rivoluzione politica, colla quale si sono mutati il Governo e l'amministrazione, non altro.

Le spese sono a un tratto immensamente cresciute, senza che la produzione cresca del pari. E questo stato di cose porta un deficit finanziario, il quale non sarà colmato neppur quando colle imposte avremo pareggiato le spese alle entrate. La più piccola scossa farà riapparire il disavanzo, e le economie necessarie, ma forzate, che faremo per alcuni anni, saranno a lungo impossibili, se vorremo accrescere il benessere materiale e morale. Ma da un altro lato neppure le spese saranno possibili, se un aumento di lavoro e di produzione non comincerà nel paese. È un circolo vizioso, di certo; ma è pur chiaro che, per andare innanzi, bisogna uscirne. E senza redimere quelle classi numerose che, nell'abbrutimento in cui sono, non lavorano punto o fanno un lavoro improduttivo, il problema non sarà mai risoluto. Questo è per noi non solamente un debito d'onore, ma è pure uri nostro interesse: noi non faremo mai davvero e permanentemente il pareggio finanziario, senza prima fare il pareggio morale.

II problema è più grave che non si crede. Se dentro o vicino alle città troviamo i mali più sopra esaminati, questi diventano maggiori nella campagna. Si pensi un poco che l'Italia è un paese agrario, e che i contadini sono più di un terzo della sua popolazione. Si pensi che la leva degli anni scorsi trovava che più del 60 °io nei coscritti erano agricoltori, e il censimento del 1861 dimostra che gli agricoltori sono assai più della metà della gente che in Italia esercita un mestiere, una professione, un ufficio qualunque, o sia più della metà della gente che lavora e produce. E allora si vedrà quanto sia importante esaminare la quistione anche da questo lato.

Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso è certo, com'è ben noto, la conseguenza di una quistione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali. La Relazione scritta dall'on. Massari (Sessione 1863, N. 58 B, Atti del Parlamento) dice: «Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico dei campagnuolo, che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice....» Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra. Mangiano pane «che non ne mangerebbero i cani»,  diceva il direttore del demanio e tasse. Nelle carceri di Capitanata, e cosi altrove, quasi tutti i briganti erano contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovi elementi; e in una medesima provincia si osservava, che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell'Abruzzo, per la sola ragione che il contadino, ridotto alla miseria ed alla disperazione, può andare a lavorare la terra della Campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa, lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l'esistenza del brigantaggio, e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione.

«Il brigantaggio, conchiudeva l'on. Massari, diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie.» E nella Camera dei deputati, il 31 luglio 1863, l'on. Castagnola, che era stato pur esso membro della Commissione d'inchiesta, in un discorso assai notevole e pratico, confermava ampiamente le stesse conclusioni. Il generale Govone, interrogato sul perché le popolazioni dimostravano tanta simpatia al brigante, aveva risposto semplicemente: «I cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge.» L'onorevole Castagnola era stato giustamente maravigliato di trovare in quelle popolose città due classi solamente, proprietarii e proletarii, o come dicono, galantuomini e cafoni. Si scende dal gran signore ai nullatenente, d’odio fra queste classi gli pareva profondo, sebbene represso.  È il Medio Evo sotto i nostri occhi, esclamava egli nella Camera. Veniva poi ad esaminare le molteplici cause del brigantaggio, e concludeva: «Vi è la quistione sociale, per sciogliere la quale converrebbe promuovere il benessere delle popolazioni, fare strade, far cessare l'usura, istituire dei Monti frumentarii, far nascere il credito agricolo... Questi sarebbero i rimedii radicali.»

Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedii radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici.

Molte amputazioni abbiamo fatte col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue. Chi può mettere in dubbio che il nuovo Governo abbia aperto gran numero di scuole, costruito molte strade e fatto opere pubbliche? Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio,  né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni. Uno solo dei provvedimenti iniziati tendeva direttamente a questo scopo, ed era la vendita dei beni ecclesiastici in piccoli lotti, e la divisione di alcuni beni demaniali. Ciò poteva ed era inteso a creare una classe di contadini proprietarii, il che sarebbe stato grande benefizio per quelle province. Ma senza entrare in minuti particolari, noteremo per ora che il risultato fu assai diverso dallo sperato; perché è un fatto che quelle terre, in uno o un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietarii, e la nuova classe di contadini non si forma.

Il problema per noi è ora il seguente: dal 1860 ad oggi, questi contadini che ci vengono descritti come schiavi della gleba, ingiustamente, crudelmente oppressi, hanno o non hanno cominciato visibilmente a migliorare la propria condizione? A risolvere una tale quistione, senza accuse irritanti o ingiuste per alcuno, dobbiamo un momento fare astrazione dalla natura individuale degli uomini, ed indagare se le condizioni nuove li spingono al bene con una forza assai maggiore che nel passato; se obbligano i tristi, gli avidi a fermarsi nei soprusi, cui s'erano per lungo abuso educati.

Non bisogna dimenticare che quando una società ha preso il suo indirizzo, non è più in potere di alcuni uomini buoni e generosi il fermarla o deviarla dal pericoloso cammino. Si forma un'atmosfera che tutti respirano, si creano interessi collegati che resistono potentemente e violentemente. Nè è raro il caso di vedere quegli stessi, in favore dei quali si vorrebbe operare, per diffidenza o per ignoranza reagire ed anche far causa comune coi loro tiranni, combattere quelli che vorrebbero essere i loro benefattori. È un fatto che segue ogni giorno, ed è bene ricordarlo.

Con maraviglia lo straniero osserva nelle province meridionali molte città popolose, in cui si trovano poche famiglie di ricchi proprietarii, il più delle volte imparentati fra loro, in mezzo ad una moltitudine di proletari, che sono i contadini. Salvo qualche impiegato, altri ordini di cittadini non vi sono. La campagna è deserta, i suoi lavoratori formano il popolo delle città. Non v'è industria, non v'è borghesia, non v'è pubblica opinione che freni i proprietarii, che sono i padroni assoluti di quella moltitudine, la quale dipende da essi per la sua sussistenza, e se viene abbandonata, non ha modo alcuno di vivere. È ben vero che anche il proprietario ha bisogno del contadino. Ma là dove la popolazione non è scarsa, e le braccia non mancano al lavoro, o abbondano, come spesso avviene in quelle province, quale è la conseguenza di un tale stato di cose? La scienza economica lo ha quasi matematicamente dimostrato. Il salario del contadino sarà ridotto a ciò che è strettamente necessario, perché egli possa vivere per continuare il lavoro.

Se l'industria non apre una valvola di sicurezza, il contadino sarà ben presto condotto allo stato di servo della gleba. Nè questo deve attribuirsi a colpa di coloro che nelle province meridionali sono i possessori del suolo. È invece una conseguenza inesorabile di quello stato sociale, simile ad altre ben più funeste e più crudeli, che si videro in Irlanda venire da una situazione non molto diversa. Una emigrazione in massa, ed una fame spaventosa decimarono colà la popolazione in modo da non avere riscontro nella storia, sotto un Governo che nessuno vorrà credere meno civile e meno intelligente del nostro. Or si pensi al tempo che durò questa condizione di cose nelle province meridionali; s'aggiunga un Governo come quello de'  Borboni, che ridusse l'antagonismo di classi a sistema, ne fece base e fondamento della sua autorità, della sua forza; e si capirà il disordine morale e sociale che dovè seguirne. Ho sentito citare esempii di persone che avevano fatto tirare una fucilata a qualche contadino, aggiustando poi facilmente la faccenda col Governo, che in fondo alimentava gli odii. Esso fu chiamato, come ognun si ricorda, la negazione di Dio e della moralità.

Certo non mancavano gli onesti ed i nemici di un tale stato di cose, come i fatti più volte provarono. Ma chi può negare che la pubblica moralità doveva soffrirne? L'America ha dimostrato col suo esempio, che la schiavitù dei negri in molti casi no ceva più di tutto al padrone dello schiavo, perché esso veniva corrotto dal dominio ingiusto che esercitava. Non doveva corrompere un dominio illimitato, esercitato non sui negri, ma sopra uomini della stessa stirpe?

Ora se tale è lo stato in cui la rivoluzione trovò le province meridionali, quali furono le conseguenze del nuovo Governo? che cosa fece per esse?

Nessuno vorrà certo negare i grandi benefizii che portò al paese. Ma io qui mi occupo di una sola classe di cittadini. I lavori pubblici adoperarono per un momento alcune braccia, ma non crearono un'industria  né una borghesia nuova. Le strade fecero rialzare i prezzi delle derrate, ma non mutarono in modo alcuno le condizioni sociali del contadino. Le città ed i borghi sono oggi pur troppo quel che erano prima, e le condizioni, le relazioni degli abitatori restarono sempre le stesse. Il Governo costituzionale è in sostanza il regno della borghesia. La classe dei proprietarii, in mancanza d'altro, divenne la classe governante; e i municipii, le province, le opere pie, la polizia rurale furono nelle sue mani. Chi circonda il prefetto, chi illumina il Governo, su chi si appoggia esso colà? E se il dominio che quella classe esercitava era dispotico, e se esso è restato illimitato, senza alcun nuovo freno, ma colla giunta di nuove forze, quali debbono esserne le conseguenze, quali sarebbero in ogni altro paese della terra, fra qualunque generazione di uomini? Ognuno può immaginarlo da sè.

Fra poco, io credo, verrà alla luce un lavoro scritto dal signor Leopoldo Franchetti, il quale ben due volte ha fatto un viaggio nelle province meridionali, espressamente per conoscere lo stato degli agricoltori colà; e, com'è naturale, fu dolorosamente scandalezzato nel vedere cose che dovevano sembrare impossibili a lui, nativo della Toscana,

dove il contadino non solo è un uomo indipendente e libero, ma è il vero socio del suo padrone, e di poco si crede inferiore a lui. Rammento che, quando seppi della sua prima gita, mi nacque un vivo desiderio di parlargli. Avendolo incontrato in un salotto, fammo presentati l'uno all'altro, e m'avvidi subito che anch'esso desiderava parlarmi, per fare a me la domanda stessa che io voleva fare a lui. Esaminando lo stato della più povera plebe di Napoli, esaminando lo stato dei più miseri contadini, io m'ero persuaso che la maggior parte di essi, se non si trovavano nella medesima miseria ed oppressione che sotto i Borboni, avevano con la nuova libertà peggiorato la lor sorte. La cosa mi pareva talmente sconfortante, talmente enorme, che cercavo un' autorità imparziale, la quale avesse potuto smentire una opinione che quasi mi umiliava. Un Toscano che, lontano da ogni interesse personale, da ogni amor proprio provinciale, aveva, per solo fine patriottico e filantropico, fatto un viaggio in quelle regioni, mi pareva l'uomo di cui avevo bisogno. Ma ognuno può immaginare qual fu la mia maraviglia, quando m'accorsi ch'egli aveva riportato di colà la stessa penosa impressione, e cercava in me uno che sapesse persuadergli il contrario. Fui costretto a dirgli: Io non sono il vostro uomo. Ripetete piuttosto il vostro viaggio, andate in altre province, e mettete di nuovo alla prova le vostre osservazioni.

Egli era stato negli Abruzzi e nel Molise; andò, come aveva già divisato di fare, nelle Calabrie e nella Basilicata; è. tornato colla prima opinione ancora più ribadita. Il suo libro del resto verrà fra poco in luce, ed ognuno potrà vedere su quali fatti è fondata la sua convinzione.  Questo libro assai notevole, Sulle condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, fu infatti pubblicato nel 1875 a Firenze, insieme con un bello scritto del signor Sidney Sonnino sulla Mezzeria in Toscana. I medesimi autori pubblicarono poi due volumi intitolati: La Sicilia nel 1876 (Firenze, Barbèra, 1876), dei quali moltissimi giornali italiani e stranieri fecero elogi che davvero erano ben meritati.  Per ora il lettore faccia il conto che crede di questo involontario ed inconsapevole accordo di opinioni individuali, sopra una quistione tanto complessa e tanto difficile a determinare. Io mi restringo a riportare qui la conclusione d'una lunga lettera, che il signor Franchetti ebbe allora la gentilezza di scrivermi:

«Del resto, qualunque ne sia la cagione, credo che si possa affermare il fatto che, in regola generale, i contadini di quelle province (Abruzzi e Molise) sono per il loro vitto, d'anno in anno, nella dipendenza assoluta dei proprietarii, dipendenza che  si manifesta non solo nella durezza delle condizioni dei contratti agricoli, ma ancora nella indeterminatezza di alcune delle loro clausole, che riportano la mente al tempo del servaggio. Il padrone, per citare un esempio, ha diritto illimitato di esigere prestazioni in opera dai suoi contadini, e ne usa largamente...

È adunque forza conchiudere che, durando le cose come adesso, la classe inferiore, per i ora ignorante della moralità, piuttosto che positivamente immorale, vedendo la classe agiata pesare cosi gravemente su di essa, acquisterà colla istruzione che gli si vuol dare, o una immoralità cosciente di sé, o un odio ancora più profondo pei signori e pel Governo, che sarà pieno di pericoli per l'ordine avvenire.» Si pensi un poco alle conseguenze logiche di queste osservazioni. Il contadino napoletano è dunque in uno stato d'abbrutimento, e quasi di servaggio. Per incivilirlo noi non abbiamo adesso che l'istruzione, e questa non darà alcun frutto, o costituirà un pericolo sociale per l'avvenire. Ciò spiega i pochi risultati che si ottengono, ciò spiega le paure che in alcuni destano le scuole.

Descrivere minutamente quale sia lo stato degli agricoltori nell’Italia meridionale, sarebbe qui opera impossibile, perché queste condizioni, e le forme dei contratti agrarii mutano non solo da provincia a provincia, ma sono infinite e diverse in una stessa provincia, non essendovi  né una legge,  né una consuetudine che domini per tutto. A trattare tollerabilmente il soggetto, bisognerebbe scrivere dei volumi. Io perciò mi contento di citare alla rinfusa alcuni esempii, alcune notizie avute da persone del luogo, o che ivi si trovavano.

Un giovane e pregiato economista delle Puglie, interrogato da me sulla condizione in cui erano nel suo paese i lavoratori dei latifondi, mi scriveva: «I contadini addetti alla coltivazione di questi lontani latifondi, vi stanno quasi tutto l'anno, venendo chi ogni quindici, chi ogni ventidue giorni a rivedere in città la moglie, i figli e la propria casa.

In campagna vivono in un camerone a terreno, dormendo in nicchie scavate nel muro intorno intorno. Hanno senz'altro un sacco di paglia, su cui dormono vestiti, anzi non si spogliano mai. Li comanda un massaro, che somministra ogni giorno a ciascuno, per conto del padrone, un pane nerastro e schiacciato, del peso d'un chilogramma, che si chiama panrozzo. Questo contadino lavora dall’alba fino al tramonto; alle 10 del mattino riposa mezz'ora e mangia un po' del suo pane. Alla sera,cessato il lavoro, il massaro mette sopra un granfuoco, che è in fondo al camerone, una gran caldaia, in cui fa bollire dell'acqua con pochissimo i sale. In questo mezzo i contadini si dispongono infila, affettano il pane che mettono in scodelle di legno, in cui il massaro versa un po' dell'acqua salata, con qualche goccia di olio. Questa è la zuppa di tutto l'anno, che chiamano acquasale. Nè altro cibo hanno mai, salvo nel tempo della mietitura,quando s'aggiungono da uno a due litri e mezzodi vinello, per metterli in grado di sostenere le più dure fatiche. E questi contadini serbano ogni giorno un pezzo del loro chilogramma di panrozzo,che vendono o portano a casa per mantenere la famiglia, insieme con io stipendio di circa 132 lire all’anno, con di più un mezzo tomolo di grano e mezzo tomolo di fave, che loro spetta secondo il raccolto.» Questi, aggiungeva il mio amico, sono i contadini che più facilmente si dànno al furto ed alle grassazioni. — E chi vorrà meravigliarsene?

Ha io non voglio tralasciar di notare che questa gente così male compensata è tra quelle che in Europa lavorano di più. Ricordo di aver letto una tale osservazione in un'inchiesta inglese fatta per ordine di lord Palmerston. Ho conosciuto anche un Tedesco, occupalo molto nella escavazione di miniere, il quale, essendo andato a passare alcuni mesi di riposo nelle campagne napoletane, mi disse un giorno a Firenze: — Il dolce far niente degl'Italiani, almeno là dove io sono stato, è una calunnia atroce. Sarebbe impossibile piegare il nostro contadino o il nostro operaio ad un lavoro così duro e prolungato, come quello che fanno i vostri contadini. — Il Franchetti, che è tornato di là con opinioni ben altro che favorevoli a noi, mi ha mille volte ripetuto: — È facile assai trovare contadini che lavorino meglio; è impossibile trovarne che lavorino di più. — Ed è questa appunto la gente che, nel paese del dolce far niente, è messa dalla società a tale disperazione da gettarsi al brigantaggio. Che lo facciano assai di mala voglia, c'è un fatto, ripeto, che lo dimostra chiaro, ed è l'emigrazione nella Campagna romana. Un contadino abruzzese, che pure aveva tirato qualche colpo di coltello, e che trova vasi in estrema miseria, fu interrogato dal sig. Franchetti: — Se le cose per te continuassero così, ti getteresti al brigantaggio? — No, anderei a lavorare nella Campagna romana, come fanno gli altri. — E quale è questa vita che preferiscono a quella che menano sui loro campi nativi? Ognuno può vederlo, per poco che s'allontani da Roma. In mezzo alla malaria, accanto ai pantani, lavorano tutto il giorno, e discendono, per dormire, in tane da lupi, dove pigliano le febbri; e poi tornano a casa ben più che decimati.

La scorsa settimana, mi raccontava un nobile romano, arrivò nella mia tenuta qualche centinaio di questi infelici. Avevano fatto otto ore di viaggio, chiusi e stipati nei vagoni delle merci, in piedi sempre, uomini, donne e bambini, col patto stipulato che a nessuno di loro dovesse essere permesso di scendere per via, neppure una sola volta. Fra non molto saranno ridotti a pochi, perché vengono qui a seminare le loro ossa, non tanto a causa della malaria, quanto a causa della vita cui sono condannati. — Io non mi fermo a descrivere questi infelici, che ognuno può andare a vedere se vuole. Basta guardarli per sentirsi arrossire.

Rammento il giorno, in cui venivo a Roma in uno dei piccoli vapori del Tevere. Fermatici in un punto per qualche minuto, si vide sopra una vicina e molto ripida altura, un povero vecchio, il quale, accorgendosi di non essere in tempo ad imbarcarsi, si gettò senz'altro dall'altura, ed arrivò rotolando insino alla riva. Era appunto un contadino abruzzese, che nei lavori dei campi si era rotto un braccio; aveva preso le febbri, ed andava a morire all’ospedale. Mi par di vederlo ancora: la sua faccia era rassegnata e tranquilla in quei tormenti; stringeva per dolore le labbra; stringeva i pugni, ma non mandò un lamento. La sua storia è la storia di migliaia d'infelici. E se questa è la vita che preferiscono, qual sarà quella che fuggono?

Ripeto che mi sarebbe impossibile di qui dare un ragguaglio esatto di tutte le forme di contratti agrarii prevalenti nelle province meridionali. E quando pur lo facessi, sarebbe poco meno che inutile.

Il contratto più diffuso è l'affitto in danaro o in generi; trovasi anche la mezzeria, e trovansi altre delle forme più note e più generalmente adottate altrove. Ma sono le condizioni speciali e varie, imposte a ciascuno di questi contratti, le molte modificazioni che essi subiscono, quelle che ne costituiscono l'essenza, e fanno si che, con qualunque di essi, il contadino si trovi quasi sempre nella stessa oppressione. Una simile osservazione fu fatta dall’onorevole Gladstone, quando egli propose la legge che modificava e vincolava a certe norme i contratti agrarii dell'Irlanda. Gli fu osservato allora, che le stesse leggi, i medesimi contratti prevalevano in Inghilterra; perché dunque. la nuova legge solo per l'Irlanda? Egli potè facilmente e vittoriosamente rispondere, che solo lo scheletro di questi contratti era identico nei due paesi; le condizioni in apparenza accessorie e le modificazioni diverse gli avevano alterati in modo, che le medesime forme portavano nell’Irlanda calamità ignote all'Inghilterra. E ciò non per le differenze che pur son sempre nella natura degli uomini, giacché il proprietario inglese in Irlanda faceva peggio degli altri; ma perché l'Inghilterra è un paese industriale, e quindi il contadino trova aperta un'altra via, per la quale può scampare alla tirannide del proprietario; l'Irlanda invece è, come l'Italia meridionale, un paese dato esclusivamente all’agricoltura, e quindi non v'6 scampo possibile.

Un amico da me interrogato raccolse molte notizie sulle province di Chieti e di Teramo. Egli mi scriveva che colà era abbastanza diffusa la mezzeria.

Il prodotto dell'ulivo va diviso in tre parti, di cui due al padrone, una al colono o soccio, come lo chiamano. Il mosto va diviso in parti uguali, e così le frutta, delle quali però il contadino deve dare in denaro il valore della parte che spetta al padrone. Pel grano le condizioni mutano; si raddoppia, si triplica la quantità che deve dare il contadino, secondo che cresce la fertilità del suòlo. Non mancano esempii di contadini obbligati a pagare al padrone il fitto della casa colonica, costruita con fieno e terreno cretaceo impastati. Nè ciò basta.  Si usa eziandio generalmente d'imporre ai soci certe piccole prestazioni, come d'uova, galline, galli d'India, agnelli pasquali, allevamento di qualche maiale per uso di famiglia, ec. Queste prestazioni variano assolutamente  secondo l’umore dei padroni. Sono però sempre da considerarsi come un discreto contrappelo.» Così scriveva l'amico abruzzese. Chi potrebbe paragonare questa mezzerìa con la toscana? Non hanno più niente di comune fra loro.

Ma non basta ancora. Nei tempi di cattiva raccolta il soccio non può pagare. E allora, se deve dar danaro, si fissa un interesse che ascende al 12 per cento; se deve dar grano, i padroni più benevoli esigono alla fine dell’anno la così detta colmatura, che è una mezzetta, o il sesto di più. Gli altri, e sono il maggior numero, vogliono esser pagati in danaro, e fissano il valore del grano dovuto, pigliando per norma il prezzo che ha nel maggio, che segue alla cattiva raccolta, cioè il mese in cui questo prezzo è più alto.

Il mio amico scriveva nell'aprile del 1874, quando la raccolta era stata assai cattiva, e continuava cosi:  Se quest'anno, come pare, sarà buona, e se il contratto porta 10 salme di grano all'anno, si può i calcolare che il contadino dovrà darne 10 per questo anno, e 16 per l'anno passato, 26 in tutto. Piove e i contadini per la gioia non entrano nei loro panni; dicono che la terra è in ottime condizioni. Non sanno, tanto l'abitudine è l'ignoranza sono potenti, i che la terra frutterà quest'anno, ma non per loro. i Sic vos non vobis.»

E più oltre conchiudeva con queste parole: «Oggi noi a Chieti siamo, alla lettera, assediati da gente dei villaggi e da vecchi delle campagne, che vanno in giro accattando, e nei giorni di mercato il volto sparuto dei contadini dice che essi trascinano la vita a gran fatica. Non ha guari è stato trovato morto per fame un contadino di San Valentino, in territorio di Chieti, nelle pianure della Pescara, presso una cappella detta di Santa Filomena. Due mesi fa ho visto io un contadino, piuttosto vecchio,giacente per terra, estenuato dalla fame, innanzi alla i porla dell'ospedale civile. Non sono molti giorni,nella piazza detta della Cavallerizza, ne ho visto un altro disteso per terra, che sembrava morto, con l’una gran folla di gente attorno. Dimandato che fosse, n'ebbi questa risposta: Signore, la fame!E si badi che il contadino abruzzese è sobrio e laborioso. Dacché s'è introdotto il gran turco, si ciba solo di questo, che, per colmo di sventura, è salito quest'anno a 10 ducati la salma.»

E aggiungo che in alcune delle nostre province, essere messo a pane di grano, significa essere vicino a morire, spedito dai medici. Perfino nel linguaggio s'è stampata in eterno la storia delle nostre vergogne.

Un altro amico, che raccolse notizie dai soli circondarii di Sulmona, Aquila e Cittaducale, mi scriveva:  «Il rischio della cattiva raccolta è per patto ordinariamente a carico dell’affittuario, il quale spesso trova il suo unico schermo nella impotenza a pagare. Nel circondario di Sulmona i contadini stipulano con frequenza affitti a lunga scadenza,per mettere le terre a vigna, impiegandovi assai più le loro fatiche che i capitali che non hanno. Spirato il termine dell'affitto, qualche volta il proprietario rimborsa al colono tutte le migliorie; più spesso ne rimborsa la sola metà. Non è però raro il caso in cui il proprietario si riserba libera facoltà di compensare in tutto o in parte le migliorìe, o d'invitare il colono a distruggerle, se vuole. Negli altri due circondarii, di miglioramenti non si tien conto, perché gli affitti sono troppo brevi per supporli possibili. Può succedere invece il contrario.»

E di queste condizioni, che sole dànno un'idea precisa dello stato in cui si trova il contadino, qualunque sia la forma generale di contralto, se ne potrebbe citare un numero infinito. Il signor Franchetti, percorrendo le Calabrie e la Basilicata, ha trovato in alcuni luoghi un contratto di miglioria, col quale il proprietario, dato in affitto un terreno incolto, dopo otto anni dava al contadino solo un terzo della differenza che si trovava fra il valore del fondo incolto e il valore del fondo messo a coltura. Altrove non si dava più di un settimo.

In altri luoghi trovò che il contadino doveva pagare al proprietario il diritto di guardia del fondo, guardia che egli volentieri avrebbe fatta da sé. La pagava in tanto grano, del quale solo una parte veniva dal proprietario data al guardiano.  «E anche qui»,  egli dice, «immensi sono i servigi arbitrarii che rendono più duro il contratto.» La cosa va all'infinito. La società intera qualche volta sembra costituita a danno del contadino, non per volontà individuale di alcuno, ma come per legge inevitabile di natura.

La malignità umana, però, come può bene immaginarsi, non manca mai. Il Monte frumentario è destinato a dare, con equo interesse, il grano al povero coltivatore, nel tempo della semina o negli anni di carestia. Ciò farebbe concorrenza all'usura, largamente esercitata colà. Ma lo speculatore, e qualche volta anche il proprietario, trovano modo d'avere essi il grano, per darlo al povero con interesse assai maggiore. L'emigrazione in America, cominciata nella Basilicata, osservò il Franchetti nel suo viaggio, apre una nuova strada al povero agricoltore. Molti di essi tornano con qualche capitale, comprano un piccolo podere ed una casa; ma quello che è più, hanno acquistata una indipendenza maggiore, una sicurezza di loro stessi. In conseguenza di ciò, il prezzo della mano d'opera aumenta, e il proprietario subito guarda l'emigrazione come una vera calamità per la sua provincia, e, quando può, cerca d'impedirla.

Questo stato di cose, dove più, dove meno, si ritrova in tutte le province meridionali del continente, ed anche in qualche parte della Sicilia; come non mancano nei continente esempii di quel sistema di subaffitti che abbiamo osservato nell'Isola, ma non vi hanno mai la medesima importanza ed estensione. La conseguenza naturale di tutto ciò è il brigantaggio. Quando al contadino napoletano manca assolutamente il lavoro, e la fame lo assale,  né trova altra via aperta dinanzi a sé, incomincia a rubare, e se è abbastanza audace, s'unisce a qualche banda di briganti. I capi sono per lo più uomini, che hanno ricevuto ancora qualche più grave ingiuria personale, e vogliono vendicarla: questa almeno suole essere l’origine o il pretesto.       Vedi la nota a pagina 85.

E qui finisco la già troppo lunga lettera. Nell'altra parlerò dei rimedii.

Tuo affez.

P. VILLARI.


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IV.

I RIMEDII.

Mio caro Dina,

rimedii repressivi di questo stato di cose sono tanto noli, e furono da noi tanto adoperati, da non esservi bisogno di parlarne ancora. Quali sono i rimedii preventivi, quelli che l'on. Castagnola chiamava i soli radicali? L'immensità della quistione spaventa, e l'audacia manca non solo ai nostri uomini politici; ma, quello che è più, anche ai nostri uomini di scienza, molti dei quali affermano che la speranza di mettervi mano è una illusione, e delle più pericolose. Se queste opinioni trovano appoggio nell'ignoranza e nell'egoismo di molti proprietarii, è inutile dirlo. La natura umana è sempre la stessa.

Il mio amico di Chieti mi scriveva:

«Il primo proprietario, uomo intelligente ed b agiato, a cui mi rivolsi per cominciare a raccoglierele desiderate informazioni, arricciò il naso, corrugò  la fronte, e non seppe e non volle nascondere il suo malcontento, quando udì da me che si volevano tutte le notizie che valessero a mettere in rilievo la poco prospera condizione dei contadini.» E in fondo non è da meravigliarsene. Il proprietario si trova isolato in mezzo ad un esercito di contadini.

La sottomissione di questi è immensa; ma è fondata solo sull'antica persuasione che il proprietario può tutto, che il Governo, i tribunali, la polizia dipendono da lui, o sono una sola cosa con lui. E però il contadino non osa far nulla senza sentire il padrone; non si presenta neppure all’autorità che lo invita,,  né obbedisce agli ordini che riceve da essa, senza prima aver sentito l'avviso del padrone. Ma tutto ciò non nasce da affetto o da stima. Egli si potrebbe inginocchiare dinanzi al suo padrone con lo stesso sentimento con cui l’Indiano adora la tempesta o il fulmine. Il giorno in cui questo incanto fosse sciolto, il contadino sorgerebbe a vendicarsi ferocemente coll' odio lungamente represso, colle sue brutali passioni. Qualche volta si sono viste quelle orde di schiavi trasformate istantaneamente in orde di cannibali. Questo ci obbliga ad esser molto cauti; ma ci obbliga ancora a meditare sul cumulo di odii che andiamo raccogliendo, e sulle conseguenze morali e sociali che possono avere. Noi del resto possiamo liberamente discutere e scrivere nei libri o nei giornali, certi che non una parola arriverà insino a quella gente analfabeta, che neppure intenderebbe il nostro linguaggio. Per parte mia posso dire, che anche a me moltissimi proprietarii non seppero nascondere il loro malcontento, quando chiedevo notizie collo scopo che non celavo a nessuno. Ma da un altro lato le risposte non mancarono mai, e molti viaggiarono, scrissero ad amici, raccolsero notizie, opuscoli, tutto quello che potevo desiderare.

La quistione preoccupa seriamente molti, sia per uno spirito di filantropia e di umanità, sia per la convinzione che sotto un governo libero l'antico stato di cose non può durare a lungo, ed è savio consiglio apparecchiarne la graduata trasformazione, piuttosto che aspettare il tempo in cui un' improvvisa catastrofe faccia in un giorno pagare le colpe di secoli.

La quistione agraria l'ebbero i Romani, ed ognuno sa con quali terribili risultati. L'ebbero anche le nazioni moderne. Alcune ne uscirono per mezzo di sanguinose rivoluzioni, altre le prevenirono con una savia legislazione. Fra queste dobbiamo, prima di tutto, citare la Prussia, la quale, dopo le umiliazioni patite dalla Francia, si pose a ricostituire la propria potenza sopra tre basi: istruzione obbligatoria, servizio militare obbligatorio, riforma agraria. Le due leggi del 1807 e del 1811 costituiscono cip che tutti i Trattati di economia politica chiamano la legislazione classica dello Stein e dell'Hardenberg, ciò che le storie nazionali della Prussia chiamano una delle pietre angolari della forza del paese. La proprietà fu sciolta dai mille vincoli artificiali che l'inceppavano, il servaggio fu abolito, ed il servo non solo divenne libero, ma ancora proprietario d'un terzo e qualche volta della metà del suolo che coltivava, lasciando il resto in proprietà libera al padrone. Lo scopo che si voleva ottenere era chiaramente esposto nella legge stessa: creare una nuova classe di agricoltori che accrescesse forza al paese. E si ottenne. Senza quelle leggi la Prussia non avrebbe potuto fare i prodigi che ha fatti.

Se però la Prussia si fosse ristretta solo a quello che abbiamo detto più sopra, ne sarebbe seguito ciò che è avvenuto nelle province meridionali, colla divisione dei beni demaniali. Gli antichi proprietarii avrebbero ricomperata, a basso prezzo, la parte del contadino, che, privo di capitali, non avrebbe potuto coltivarla, e sarebbero divenuti padroni assoluti della terra, coltivata da proletarii ridotti ben presto alla condizione poco meno che di schiavi. Invece la Prussia aggiunse due cose di capitale importanza: una magistratura locale, che decidesse sommariamente e paternamente le liti insorte fra gli agricoltori ed i ricchi proprietarii; un'istituzione mirabile di Banche destinate ad anticipare al contadino i capitali per coltivare la terra e fare nuovi acquisti, con un interesse cosi mite che, pagando il 5 0|0, si ammortizzava il capitale in meno di 50 anni. Per fare tutto ciò occorse una serie di provvedimenti, che, incominciati nel 1807 e nel 1811, finirono solo nel 1850. Allora però la trasformazione fu compiuta, e la Prussia cominciò a sfidare il mondo, pel sentimento cresciuto della propria forza. La divisione delle terre divenne utile solamente per mezzo dell’istituzione delle Banche e delle magistrature speciali e locali.

L'impresa colossale dell’abolizione del servaggio in Russia fu condotta coi medesimi principii, pigliando cioè a modello la classica legislazione della Prussia. Ma il paese che, per questo lato, più trova riscontro con le nostre province meridionali, è l’Irlanda, fatta eccezione, ben s'intende, della quistione politica e religiosa, nella quale non v'è alcun riscontro possibile. Restringiamoci perciò alla sola quistione agraria.

L'Irlanda è un paese dedito all’agricoltura, senza alcuna industria d'importanza; un paese di proletarii oppressi crudelmente dai proprietarii, che non hanno o non vogliono spendere capitali per coltivare i loro fondi. I contratti sono in apparenza simili a quelli dell'Inghilterra, ma le condizioni e modificazioni speciali li avevano ridotti a tale, che il contadino emigrava o moriva di fame. I delitti agrarii moltiplicavano spaventosamente; i magistrati non erano sicuri; la pubblica opinione delle moltitudini proteggeva l'assassino, che riguardava come un vendicatore dei torti ricevuti dalla società.

Quando l'Inghilterra fu costretta a sospendere in Irlanda l'Hàbeas corpus, ed a venire a provvedimenti repressivi pel Fenianismo, che pigliava proporzioni gigantesche, non esitò punto ad adoperare il ferro ed il fuoco. Ma non si contentò di questo: —Noi abbiamo, ella disse, un debito d'onore verso l'Irlanda, dobbiamo pagarlo; dobbiamo riparare ai torti che essa ha ricevuti da noi. — Io lascio, per ora, da un lato, la radicale riforma della Chiesa inglese in Irlanda, e mi restringo solo alla legge agraria. L'Inghilterra affrontò coraggiosamente il primo problema che si presentava: se lo Stato cioè abbia il diritto di limitare con norme legislative la libertà dei contratti.

Il 15 febbraio 1850, il Gladstone, primo ministro d'un paese che è più di tutti in Europa contrario all’ingerenza dello Stato, diceva, in mezzo all’assenso generale della Camera dei Comuni, queste memorabili parole:

«Nessuno apprezza più altamente di noi la libertà dei contratti; essa è la radice di ogni condizione normale della società. Ma anche in quelle condizioni sociali, che noi riconosciamo come normali, non è possibile concedere illimitata libertà di contratto. La legislazione inglese è piena di queste ingerenze dello Stato, ed il Parlamento ha dimostrato una decisa tendenza a moltiplicarle. Voi non permettete nelle officine che il padrone impieghi l'operaio con tutte le condizioni che questi accetterebbe; voi non permettete che lo shipmaster trasporti gli emigrati con ogni specie di contratto che ambedue accetterebbero. Ed il caso dell’Irlanda è anco più grave, perché questi contratti, quantunque nominalmente liberi, tali non sono poi nel fatto, per le condizioni speciali del paese. Anche nei i casi in cui la legge ha lasciato l'Irlandese pienamente libero, le condizioni in cui si trova lo hanno privato della libertà; ed è però divenuto nostro stretto dovere l'intervenire per difenderlo. In un paese dove le braccia abbondano, e non v'è altra industria che l'agricoltura, il contadino non è più libero nel fare il contratto col padrone. Può essere perciò necessario di prescrivere con legge, fra certi limiti, i termini e le condizioni dei contratti agrarii.»

E la legge fu approvata. Per esporla minutamente, bisognerebbe cominciare col descrivere le condizioni speciali dell'agricoltura in Irlanda, e le forme dei contratti agrarii che sono colà diversissimi dai nostri. Ma per ora basti osservare che la legge, senza seguire alcuna teoria, prima di tutto determina e sanziona una forma di contratto, che l'esperienza di secoli ha dimostrata vantaggiosa al contadino irlandese (Ulster custom).

Sarebbe questo caso simile a quello d'un nostro legislatore, che sanzionasse le norme della mezzeria toscana, le quali ora son regolate solo dalla consuetudine. Ma il Parlamento inglese si guardò bene dal rendere a tutti obbligatoria una forma di contratto. Invece, lasciando libere quelle che esistevano, si restrinse ad annullare tutte le condizioni che giudicò contrarie alla giustizia ed al pubblico bene. I miglioramenti portati nel fondo dal contadino, che prima andavano quasi sempre ad esclusivo vantaggio del proprietario, debbono, secondo la nuova legge, essere da questo invece pagati al contadino. Il contratto con cui egli facesse rinunzia d'un tale risarcimento, è nullo. Il proprietario non può, senza ragioni giustificate e determinate, mandar via il contadino che ha preso in affitto la terra, ed è tenuto a rifarlo dei danni che gli reca, licenziandolo senza ragione. La legge tende a prolungare i termini dell’affitto sino a 30 anni, risguardando quelli a breve scadenza come dannosi, e tende a spronare il contadino a migliorare la cultura dei campi a suo proprio vantaggio. Ma anche qui il legislatore inglese capi, e il Gladstone lo dichiarò in Parlamento, che tutto sarebbe stato inutile senza una magistratura speciale, paterna, locale, che decidesse le mille liti che possono insorgere fra il proprietario ed il contadino, il quale non oserà mai chiamare innanzi ai tribunali ordinarii il suo padrone, per muovergli una lite. E a ciò si aggiunse ancora l'anticipazione fatta dallo Stato al contadino dei capitali necessarii, a condizioni non molto diverse che in Prussia.

I tre cardini della riforma erano cosi solidamente posti, e poco dopo si vide, che nell'Associazione per le scienze sociali gli stessi Irlandesi dichiaravano, che la legge avea subito cominciato a portare buoni frutti, e la loro esperienza suggeriva già alcuni modi per migliorarla. Che tutto ciò non valga a calmare gli odii e le passioni politiche, ben s'intende, perché le cagioni sono altre. Ma fra noi fortunatamente questi odii non esistono.

Certo non è solo l'Italia meridionale quella in cui il contadino soffre ingiustamente. Dobbiamo far eccezione della Toscana, là dove le antiche repubbliche intelligenti, democratiche e civilissime lasciarono tali germi, che la mezzeria è divenuta un contratto, che salva da ogni pericolo sociale nell'avvenire, e rende impossibile qualunque diffusione di teorie sovversive. Per la provincia di Venezia basta leggere il libro dell’avv. Carlo Stivanello (Proprietarii e Coltivatori: Venezia 1873), premiato dall'Istituto Veneto, per trovarvi la descrizione dei miseri casolari di canna e di loto, nei quali abita il bracciante. «Inquesti casolari, egli dice, si recluta la popolazionedei furti, necessario supplemento ai miseri guadagni, e vivono le torme dei poveri, che infestano i mercati e le città, e che sfilano in lunga processione, il sabato, dinanzi alle abitazioni.» (Pag. 151.)

Lo stesso autore ci parla di quei contratti a fiamma e fuoco, coi quali l'agricoltore è obbligato a rinunziare ad ogni ristoro contro la carestia, la grandine, la tempesta;

di quelli coi quali rinunzia ad ogni compenso pei miglioramenti recati al fondo, e di molti altri contrarli alla giustizia, al bene generale, al progresso dell’agricoltura. «Il proprietario, nella stolta credenza che l'abilità dell’amministratore avveduto consista nello stipulare patti che strozzino l'altro contraente, ha inventato molte i clausole, le quali aggravano la condizione del con duttore.» (Pag. 1734.)

Il libro finisce col domandare una inchiesta agraria, la quale, secondo l'autore, metterebbe in evidenza la necessità assolata di provvedimenti legislativi in difesa degli agricoltori e dell’agricoltura, che egli chiama la povera Cenerentola del Regno d'Italia.

L'onorevole Jacini fece nel 1855 una dolorosa descrizione delle popolazioni agrarie, specialmente nella Bassa Lombardia, dove intorno alla ricca, intelligente e patriottica Milano, vivono i più miseri contadini, fra i quali le febbri e la pellagra fanno stragi crudeli; dove s'è risoluto il singolare problema d'unire la più ricca produzione colla maggiore miseria del coltivatore. E nel descrivere a quali miserie esso è qualche volta ridotto dal proprietario, esclama: «È una tale iniquità che la sola giustizia umana non basterebbe a punirla.» (Ediz. 1856, pag. 197.) Egli proponeva allora un Codice agrario e la istituzione dei Probi Viri. Ciò risponderebbe in parte alle norme sui contratti ed alla magistratura speciale stabilite dall’Inghilterra in Irlanda. Aggiungendovi le istituzioni efficaci di credito agrario, si avrebbero i capi principali della riforma inglese.

Quel libro fu assai popolare, forse perché appariva come una protesta contro l’Austria. Quando il Governo è venuto nelle nostre mani, che cosa abbiamo fatto? Nulla e poi nulla.

E quel che è peggio ancora, l'opinione di molti è contraria ad ogni riforma di questo genere. L'indifferenza sulle miserie dei milioni di uomini che lavorano la terra in campagna, e delle migliaia che si abbrutiscono nelle città, non è credibile. Eppure solo pensando ad essi si può crescere davvero la nostra produzione economica, pareggiare permanentemente le nostre finanze. Eppoi non sono essi che formano il nostro esercito, la nostra marina militare? È cosa di poca importanza renderli civili? Quali sono i giornali, quanti i libri o gli opuscoli che parlano di loro? La nostra letteratura, la nostra scienza e la nostra politica sembrano del pari indifferenti su questo problema, che racchiude il nostro avvenire economico e morale. Il male esiste in molte province, ma nelle Meridionali ha proporzioni assai maggiori.

Per parte mia sono convinto che la quistione, fra non molto, diverrà gravissima, e s'imporrà a tutti; che i provvedimenti legislativi saranno riconosciuti necessarii, se non si vorrà affrontare il pericolo d'una catastrofe sociale, la quale può nascere non solo da sommosse sfrenate, ma anche da inerzia ed abbandono prolungato.

Presto si vedrà, io credo, che in alcune province occorre proteggere l'agricoltore col fissare norme pei contratti, col dichiarare in essi nulle alcune condizioni assolutamente ingiuste e dannose. E sarà necessario ancora, colla istituzione di arbitri o di una magistratura speciale, assicurare l’applicazione di quelle norme.

Il credito agrario deve anch'esso essere istituito efficacemente, se si vuole liberare il contadino dall'usura, e rendere possibile una classe di agricoltori proprietarii.

Intanto è utile illuminare la pubblica opinione, rivelando le nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura del ridicolo o del discredito, che si cercherà di gettare su quelli che oseranno parlare. La libera stampa e la scienza hanno da lungo tempo imparato ad affrontare questi pericoli negli altri paesi, e debbono affrontarli anche fra noi. Quasi tutte le grandi verità sociali cominciarono coll' essere prima dichiarate assurde, per sembrare poi probabili, e divenire finalmente evidenti e necessarie. Senza il coraggio d'affrontare il ridicolo, o di esporsi alla taccia di visionarii, molti progressi sarebbero stati impossibili, e molte calamità non si sarebbero evitate. Del resto basta parlare con gli uomini che conoscono appena lo stato delle cose, per convincersi ché la necessità di una riforma è già nella coscienza di molti, i quali ancora esitano a dirlo apertamente, quantunque convintissimi. È bene di certo che questa riforma venga dall'alto prima che sia richiesta dalle moltitudini, è bene che il Governo la inizii e la diriga. Questo è il solo mezzo, a mio credere, con cui esso potrà vincere il sentimento di crescente opposizione che si è formato in quelle province, e può nascere da ignoranza e da poco tatto politico; ma certo trascina ancora molti uomini onesti, moderati e patriotti, i quali vedono che il Governo redentore non ha il coraggio di redimere, che il Governo della libertà lascia che gli oppressi siano calpestati.

Senza l'aiuto del Governo, senza l'intervento dello Stato, non c'è virtù o iniziativa privata che basti a risolvere questi problemi colossali. Molti sono perciò coloro i quali non si peritano d'affermare che il Governo presente sia tutto a benefizio di una sola classe, e non la più numerosa, della società. E quando si dice loro: camorra, mafia, rispondono: consorteria. Queste opinioni bisogna coi fatti sradicarle.

Il Tocqueville afferma che due cose fanno ai popoli operare grandi imprese: la religione ed il patriottismo. La religione si può dire quasi spenta in Italia; dove non è superstizione, è abito tradizionale, non è fede viva. E quanto al patriottismo, che forma esso deve prendere ora, a quale nobile scopo indirizzarsi? L'Italia è unità, è libera, è indipendente; conquiste non ne vogliamo,  né possiamo farne; una guerra di difesa è impossibile, perché nessuno ci assale. Che cosa dunque vogliamo? Bisogna rivolgere tutta l'attenzione all'interno, ciò è ben chiaro; ma la vita di una nazione non può restringersi tutta ai soli computi del pareggio. Noi potremmo essere uniti, liberi, indipendenti, colle finanze in equilibrio, e pure formare una nazione senza significato nel mondo. Occorre che un nuovo spirito ci animi, che un nuovo ideale baleni dinanzi a noi. E questo ideale è la giustizia sociale, che dobbiamo compiere prima che ci sia domandata. È necessario ridestare in nói quella vita morale, senza cui una nazione non ha scopo, non esiste. Ed è necessario al nostro bene materiale e morale.

Senza liberare gli oppressi non aumenterà fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la ricchezza necessarie ad una grande nazione. 1 uomo che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno decade. La camorra, la mafia ed il brigantaggio diventano inevitabili. Sotto una o un altra forma salgono in alto, si diffondono nel paese, ne consumano la midolla spinale, demoralizzandolo.

Con un governo dispotico le conseguenze del male non sono cosi gravi, perché gli ostacoli sono indipendenti dalla nostra volontà, perché c'è un altro nemico da combattere, un altro ideale, a cui mirare. Chiunque, infatti, oggi esamina se stesso, s'accorgerà, se è stato patriotta, che la sua condizione nella società era nel passato più morale che non è oggi. Allora c'era una guerra, una speranza, un sacrifizio ed un pericolo continuo che sollevava Io spirito nostro. Oggi è invece una lotta di partiti e qualche volta d'interessi, senza un Dio a cui sacrificare la nostra esistenza. Questo Dio era allora la patria, che oggi sembra divenuta libera per toglierci il nostro ideale. Ciò vuol dire che la libertà non ha ancora messo radici abbastanza profonde in Italia, è rimasta solo alla superficie, solo nella vita politica, ancora non è penetrata nella vita sociale ed individuale.

Si permetta a me, che sono insegnante, di citare un esempio cavato appunto dalla scuola, che infine è poi l'officina in cui si forma il cittadino. Molte volte mi è stato chiesto: — Credete proprio che con tutti questi maestri e professori, con tutti questi metodi e programmi nuovi, la generazione che sorge saprà e varrà più di quella che la precedette?

Sarebbe essa capace di far l’Italia, come l'abbiam fatta noi? — Io non dubito che la nuova generazione impari più e meglio di noi. Ma se varrà di più, è una quistione assai diversa. I nostri professori, i nostri libri eran peggiori, e s'imparava meno. Ma nella nostra scuola v'era qualche cosa di sacro che manca oggi. Il giorno in cui capitava nelle nostre mani un Berchet, un Colletta, un Niccolini, quel giorno la nostra piccola stanza s'illuminava, e uno spirito ignoto ci rivelava cose che non sono in alcun programma. Tra professori e scolari era una segreta intelligenza, per la quale ciò che si taceva valeva più di quel che si diceva. Questo incanto è oggi sparito, gli antichi Dei sono rovesciati sui loro altari, senza che alcuna nuova Divinità venga a prendere il loro posto. L'alunno non vede dinanzi a sè che una professione o un impiego; i più eletti pensano alla scienza. Ma ciò neppur basta, perché la scienza stessa ha bisogno d'essere destinata a qualche cosa di più alto, da cui possa essere come santificata. Nella nostra vita tutto ciò che non è santificato, viene profanato. Il vuoto che io vedo nella scuola, parmi che sia anche nella società, perché è nel cuore del cittadino. A noi manca come l'aria da respirare, perché dopo una vita di sacrifizii non troviamo più nulla a cui sacrificarci. Eppure l'aiutar coloro che soffrono vicino a noi, è il nostro dovere, è il nostro interesse supremo, urgente, e ci restituirebbe l'ideale perduto.

Ed ora mi resta solo di rispondere ad una obbiezione, che alcuni per patriottismo non fanno, ma che pure tengono celata nel loro cuore. — Fortunatamente, essi dicono fra sè, non tutta l'Italia è nelle condizioni in cui sono le province meridionali.

Se laggiù il contadino ed il povero sono in così pessimo stato, se la gente colta manca al suo dovere, non reagendo e non migliorando questo stato di cose, peggio per loro; resteranno ancora un pezzo nello stato di semibarbari. Nell'Italia centrale e superiore saremo, come siamo, civili. — Io lascio che molte piaghe, come ho già accennato, sono anche nell’Italia centrale e superiore. Voglio ammettere, per ipotesi, quel che non potrei discutere  né combattere ora, che l'Italia cioè sia divisa nel modo che i poco benevoli oppositori pretendono. Ma per poter tirare da un tale stato di cose la conseguenza a cui essi vorrebbero giungere, bisognava avervi pensato prima, lasciando intatto il muro della China, che avevano costruito i Borboni. Dopo l'unità d'Italia tutto si è mescolato nell'esercito, nella marina, nella magistratura, nel l'amministrazione, ecc. La colpa delle province più civili che, a tutta possa, non aiutano le meno civili, è uguale a quella delle classi più colte ed agiate che, in una medesima società, abbandonano a se stesse le più ignoranti e derelitte. E le conseguenze sono le stesse. Oggi il contadino che va a morire nell'Agro Romano, o che soffre la fame nel suo paese, e il povero che vegeta nei tugurii di Napoli, possono dire a noi ed a voi:

Dopo l'unità e la libertà d'Italia non avete più scampo; o voi riuscite a render noi civili, o noi riusciremo a render barbari voi. E noi uomini del Mezzogiorno abbiamo il diritto di dire a quelli dell’Italia superiore e centrale: La vostra e la nostra indifferenza sarebbero del pari immorali e colpevoli.

Ora non mi resta che chiederti scusa delle troppe parole, e ringraziarti.

Addio.

Roma, 20 marzo 1875

Tuo Affez.

P. VILLARI.


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LETTERA ALLA SIGNORA JESSIE WHITE MARIO.

Questa lettera, che è in relazione colle precedenti, fa pubblicata la prima volta nel bel libro della signora J. W. Mario: La Miseria in Napoli. — Firenze, Successori Le Monnier, 1877.

Gentilissima Signora,

Ella mi scrive che è tornata ora da Napoli, dove fu per esaminare lo stato della popolazione più povera, e vedere coi proprii occhi i tugurii e le miserie che io ho descritti nelle mie Lettere Meridionali. Nessuna notizia può essermi più grata di questa. Solo vedendo e discutendo, si può sperare di giungere una volta a qualche risultato. Ho ragione di credere che altri ancora s'apparecchino a fare simili escursioni. Lo stato vero delle cose sarà noto fra poco a tutti, e non sarà più messo in dubbio da nessuno.

Ella però fa anche una domanda, scrivendomi: — So che nello scorso autunno, dopo aver già pubblicato le Lettere Meridionali, andò a visitare i tugurii, dove si trova la popolazione più povera di Londra. Io sono da molti anni lontana dall'Inghilterra, e quindi vorrei sapere da Lei se ha trovato a Londra miserie simili o peggiori di quelle vedute a Napoli. —

Perché io possa convenientemente rispondere alla domanda, ho bisogno di fare un poco di storia. Deve dunque scusarmi se non sarò breve.

Quando pubblicai le Lettere Meridionali, si sollevò una viva polemica, e ricevei in gran numero giornali che mi lodavano e giornali che mi biasimavano. Si disse, fra le altre cose, che non conoscevo Napoli, perché da molti anni ne ero lontano, e che descrivevo cose non vedute o cedute solo da molto tempo, ignorando che tutto era mutato. Si disse che non conoscevo la grande miseria di Londra, peggiore assai di quella di Napoli, ec., ec. Io che a Londra ero stato, e negli ultimi anni avevo molte e molte volte riveduto Napoli, dove pur sono nato ed ho passato la mia prima gioventù, presi nonostante nota di tutte le critiche, per potere a tempo opportuno, con nuovi fatti, tornare sull'argomento. Forse questo tempo verrà. Per ora mi contento solo di rispondere alla sua domanda; ma non posso resistere al bisogno di fare un racconto, che può sembrare estraneo al soggetto.

S'era, fra le altre cose, detto che avevo molto esagerato la misera condizione in cui si trovano i fondaci. Tutto era mutato in meglio. Non si riconoscevano più! Io avevo fatto una descrizione da romanzo! Per caso, solo qualche mese dopo di queste accuse, dovetti tornare a Napoli. Mi recai subito a visitare i fondaci, e nel primo giorno ne vidi tre a Porto. Andavo con due amici, i cui nomi potrei indicarle, se volesse essere accompagnata colà.

Ella sa come questi fondaci sono generalmente formati d'una corte quadrata, da cui per una scala si sale a diversi terrazzini o balconi, che girano intorno alle quattro mura, e dànno adito a molte camere, le quali sono per lo più senza finestre, e ricevono luce dall’unica porta che si apre sul terrazzino.

Nella prima di queste corti io vidi in un angolo una specie di stalla, in cui si lessavano teste, piedi, budella d’animali; poi si spellavano le teste e i piedi, l’acqua e il sangue venendo versato nella corte, dove restavano in gran parte fermi, per la poca inclinazione del suolo. In un altro angolo era un deposito di petrolio, che mandava un orrendo puzzo. Da un altro lato era nel muro una buca in comunicazione con un forno, il cui fumo passava la notte per essa, entrando nella corte. Cosi quando gli usci di quelle camere senza finestre si chiudevano, vi restavano dentro il puzzo delle budella, del petrolio ed il fumo. Sopra ogni cosa alle donne dava noia il puzzo del petrolio, e se ne lamentavano amaramente. In una delle camere del primo piano vidi una giovane di circa venti anni, che delirava nel letto, colpita dal tifo. Altre donne le erano intorno a guardarla, e più di tutto deploravano che fosse stato necessario tagliarle i bellissimi capelli! — Se avesse visto, dicevano, che capelli aveva! — Il fondaco che si trova in questo stato, mi fu assicurato esser proprietà d'una ricchissima Opera pia, cioè dello Spedale degli Incurabili.

Entrai in, un secondo fondaco, e là trovai che da circa due settimane la cloaca aveva dato di fuori, ingombrando tutta la corte, in modo che si passava in punta di piedi, rasente le mura. Salito al primo piano, vidi le donne appoggiate alle mura del terrazzino ridere guardando i grossissimi topi che traversavano e quasi nuotavano nella melma che la cloaca aveva versato nella corte. E mi dicevano: — Signorino, guardate i passaggieri! — Tirarono su dal pozzo una secchia, per farmi vedere che non era piena d'acqua, ma pareva invece tirata su dalla cloaca stessa, che infatti era venuta in comunicazione col pozzo!

Ho una memoria assai confusa di ciò che vidi nel terzo fondaco. Era di state, il fetore incredibile, la stanchezza di ciò che avevo veduto, ed il sentirmi ripetere dai compagni: — In questa strada vedrà dal principio alla fine la medesima scena, — fecero sì che andai via per quel giorno a cercar l'aria libera. Ma io non debbo continuare questo racconto, tanto più che ella deve aver visto cose anche peggiori, se, come sento dalla sua lettera, è andata per tutto. Rispondo dunque alla sua domanda.

Due mesi dopo la mia visita a Napoli, cioè nello scorso ottobre, andai a Londra. Mi presentai con una lettera ad uno dei capi della Polizia, e fu fissato che il giorno dopo, alle 7 pomeridiane, avrei avuto con me alcuni policemen, per visitare la sera i quartieri più miserabili della città. Di giorno mi dissero che non sarebbe stato possibile trovare e vedere i poveri nelle loro abitazioni, perché erano in giro per le vie.

All'ora fissata venne infatti al mio uscio un detective, cioè un policeman senza l'uniforme, e preso un andammo nell'Eastend, gita che durò circa un'ora e mezzo. Colà, vicino ai doccs, lasciammo la carrozza, e ci ponemmo in moto a piedi. Entrai in un ufficio di Polizia, esaminai i registri, vidi operare alcuni arresti, e poi in compagnia di due altri detectives che si unirono al primo, cominciammo le nostre visite. Io ripetevo sempre: — Fatemi vedere ciò che vi è di più orribile in Londra, desidero vedere le abitazioni della gente più misera e disgraziata. —

Fare qui, in una lettera, la descrizione di tutto ciò che vidi a Londra nel mese di ottobre, è impossibile; dovrei distendermi troppo. Ma siccome Ella non mi chiede altro che una mia opinione, ecco in breve ciò che io posso dirle.

Quando entrai nel cab, il detective cominciò il suo discorso così: — Signore, sono trent'anni che io servo nella Polizia di Londra. Posso sul mio onore assicurarle che Ella s'inganna, se crede di poter vedere in questa città quel che gli stranieri potevano vedervi trenta o venti anni fa. Tutto è mutato. Il Parlamento ha votato leggi sopra leggi per migliorare le condizioni dei poveri. — Infatti, ciò che si poteva vedere al mondo di più orribile, erano i lodging houses di Londra, dove andavano e vanno a dormire con pochi pennies i più miseri, che non hanno tetto. Or questi lodging houses, una volta abbandonati a se stessi, furono a poco a poco sottoposti a tante e così rigorose formalità, che, quantunque mantenuti da privati a loro rischio e pericolo, si possono dire pubblici stabilimenti.

Il riscaldamento, la circolazione dell'aria, la misura delle stanze e dei letti, la qualità delle lenzuola, tutto è determinato dalla legge, e sottoposto ad una continua ispezione. Alcuni di essi vengono ispezionati costantemente due o tre volte la settimana. Quelli per gli uomini sono diversi da quelli per le donne, e ve ne sono anche per marito e moglie, tutti secondo le norme stabilite.

Uscito dai lodging houses, andai dove sono i fumatori d'oppio, visitai ridotti e bagordi d’ogni specie. — Qui, mi dissero più volte i detectives, un policeman non potrebbe venir solo, perché sarebbe accoppato. — Entrai in alcune case di poveri, e mi fu detto: — Peggio di questo nessuno le farà mai vedere in Londra. — Certo io non posso affermare di avere visto ciò che v'ha di peggio in quell'immensa città, posso bensì affermare che ho fatto quanto era in me per vederlo. Ebbene, io le assicuro sul mio onore di essere convinto, che i poveri di Napoli stanno infinitamente, senza paragone alcuno, peggio di quelli di Londra. Che se a Londra qualche volta si muore di fame ed a Napoli no, oltre che questi casi non sono sì frequenti come si pretende, ciò deriva dal clima peggiore, non dalla maggiore miseria. Se a Napoli vi fosse il clima di Londra, un numero assai grande dei nostri poveri troverebbe subito pace nella tomba, cessando di menare una vita peggiore della morte.

Nei ridotti di Londra spesso mi sedetti coi detectives, e bevvi della birra e dei liquori, tanto per non parere d'andar colà da semplice osservatore. E non vidi mai nulla che si potesse paragonare al puzzo e al sudiciume di alcuni ridotti di Napoli.

Nelle case dei più poveri il detective entrava con un rispetto incredibile, e quasi sempre trovai anche nella miseria estrema una fierezza e indipendenza singolare. Più volte ricusarono di riceverci in casa, ed il detective diceva: — Andiamo oltre, il domicilio è inviolabile. Noi abbiamo tanto diritto di entrar qui, se non ci vogliono, quanto di entrare in casa sua, se non ci vuol ricevere. — A Napoli quando entrai nei fondaci, trovai insieme colla miseria un avvilimento, un abbattimento straordinario. Si entrava con un'aria di comando, quasi minaccioso, ed eravamo obbediti. — Qui, con questa gente, non si può fare a meno di usare questi modi, — mi dicevano sempre.

I miei giudizii, come tutti i giudizii umani, possono essere errali; ma io affermo con profonda convinzione, che se grande, immensa è la miseria di Londra, chi dice che i poveri di Londra sono in condizioni peggiori di quelli di Napoli, o non conosce gli uni, o non conosce gli altri.

Non dimentichi il discorso del detective: — Il Parlamento inglese ha fatto leggi sopra leggi pei poveri. — Quando le faremo noi? Per ora stiamo sempre al lasciate fare, lasciate passare.

E se qualcuno mi chiedesse ora: Perché tu che sei Italiano, dici queste cose ad una signora che è Inglese? Io gli ricorderei che se Ella è nata in Inghilterra, ha però speso la sua vita in favore della unità e indipendenza della patria nostra.

E se poi mi si ricordasse, che Ella ha sempre militato sotto la bandiera di un partito politico che non è il mio; allora io non risponderei più nulla a chi mostrasse d'ignorare che in certe quistioni tutti gli onesti appartengono ad un solo partito.

Mi creda con sincera stima ed amicizia

Suo dev. ed obb.

P. VILLARI.


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Firenze, 30 marzo 1876.

NOTA.

Quando furono pubblicate queste Lettere, un ufficiale dell'esercito che trovavasi ancora nelle Province meridionali, dove aveva fatto la campagna del brigantaggio, mi mandò le sue Memorie, cominciate a scrivere in Viggiano (Basilicata) l'anno 1861, e continuate fino al 1868. Egli non volle che io rendessi noto il suo nome, avendo mandato quel manoscritto, diceva, solo per farmi conoscere i resultati della sua personale esperienza, e quale era la opinione sua e quella di molti uffiziali dell'esercito intorno alle vere origini del brigantaggio. Io perciò riporto qui in nota solo qualche brano di quelle Memorie, nella loro forma originale.

Il brigantaggio antico e contemporaneo, a mio debole vedere, trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; e neppure da cattiva indole o nequizia degl'indigeni, che in verità hanno dalia satura vivezza d'ingegno, carattere dolce e sommesso, ed in alcune province, come nell'antico Sannio, negli Abruzzi e nelle Calabrie, a queste naturali disposizioni uniscono una robustezza ed un'energia invidiabili.—

— Errerò, ma secondo quello che io penso, il brigantaggio in sostanza altro non ò, che una questione ardente agraria e sociale. —

— Fa maraviglia il trovare in quasi tutti i centri popolosi soltanto quattro o cinque famiglie ricche, spesso fra loro imparentate, ed il resto nullatenenti. E così, ad eccezione di pochi soddisfatti  che imperano a lor talento e dispotizzano, ovunque si volga lo sguardo non si vedono che miserie e guai, quasi a derisione, illuminati dal più bel cielo. —

— La banda di Chiavone colla corona in mano cantava il Rosario, ed il capo ne dava l'esempio coll'intuonare l'Ave Maria. Tutti i briganti portano al collo Scapolari e Santi di carta dentro una piccola borsa.—

— Vive ognora, per inveterato costume tramandato dal feudalismo, il diritto nei proprietarii di pretendere in determinati giorni dell’anno l'opera gratuita del lavoratore. E non è raro il  caso nel quale, invece di retribuire la mercede in cereali o denaro, la si paga con una data misura del più abbondante prodotto della terra, come sarebbero frutta, agrumi, cedri, ec. , ec. , generi tutti che, pel difetto di esportazione o per mancanza di vie, discendono a vilissimo prezzo; per il che il povero subisce una nuova perdita sul già magro salario. —

— Il lavoratore della terra guadagna ordinariamente poco più di un carlino,       Il carlino vale circa 42 centesimi.  altrettanto un manovale muratore, e così in proporzione tutte le altre classi di lavoratori.

Nei mesi di giugno e luglio, tempo delle mèssi, molti lavoratori si recano da lontani paesi nelle Puglie o nella Terra di Lavoro, per segare il grano e guadagnare due lire al giorno, quando lavorano, e il pasto. Ma per ottenere così abbondante e straordinaria mercede, oltre gli stenti e le spese di disastrosi viaggi, sovente ritornano ai loro paesi malati, per effetto delle grandi fatiche sopportate sotto la sferza del sole, o per causa della malaria.

In tal modo le famiglie lottanti giorno per giorno colla fame e coi più stringenti bisogni, abbrutite da tutti questi guai, non conservano che una ben debole affezione per la loro prole, e cercano ogni mezzo per alleggerire il peso della miseria e trovare qualche sollievo. In molti paesi mandano i bambini fuori ad accattare, a suonare chitarre ed arpe, a ballare tarantelle, a cantare romanze. Cedono per pochi ducati a vili speculatori le loro creature, e questi mercanti di carne umana vivono e lucrano sui sudori d'innocenti, che trasportano nelle più lontane contrade, in Francia, America, Germania, Malta, Algeria.

Per le medesime cause, e per uno dei più abominevoli usi feudali, vi sono alcuni ricchi che si credono qualche volla padroni anche delle figlie dei loro coloni, e le acquistano sin dalla puerizia dai degradati genitori, come fiore a loro serbalo, per pochi ducati. E dopo averne a loro capriccio abusato, obbligano o persuadono qualche infelice che le sposi, mediante il dono di pochi scudi e di una piccola dote, che in realtà poi questi sultani non sborsano mai del proprio, ma colla loro influenza e colla loro ingerenza nelle amministrazioni pubbliche fan pagare dai Comuni dagl'Istituti di beneficenza, di cui sono gli arbitri. —

— Tutte queste angherìe, tutte queste prepotenze ed abusi creano e alimentano quell'odio che separa le due classi; spingono ad atroci vendette o alla volontaria emigrazione: non quella feconda, lucrosa e intraprendente dei Genovesi e Biellesi; ma bensì quella che non ha altra mira che di sfuggire alle miserie e soperchieiìe, che spopola ed isterilisce intieri paesi, vi fa mancare le braccia robuste, e priva le famiglie dei loro cari più vegeti e più atti al lavoro. —

— Il brigantaggio, ripeto, è solo la conseguenza dell’odio vicendevole fra oppressi ed oppressori, cioè fra quelli che possiedono ed i nullatenenti, odio tanto più intenso, quanto meno progredita è la civiltà. —

— Nè è a credere che pei danni e per le stragi che fa il brigante sia egli dalla generalità esecrato: tutt'altro. Anco i più tranquilli ed i più onesti del basso popolo hanno Io spirito talmente pervertito, ed il livore contro il signore così vivo, che inclinano a vedere nel bandito la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armala verso chi li tiranneggia. Non ò dunque da meravigliare se trovansi facilmente tanti manutengoli, non essendo l'orrido mestiere del brigante aborrito. Per le plebi banditi sono anzi eroi, e questo universale favore fa sì che qualche volta anche i maggiorenti, i quali naturalmente non possono vedere nei briganti che i loro più acerrimi nemici, li temono, li accarezzano, e invece di cercare il rimedio nell’educare e nel trattare meglio le plebi, non sdegnano passare nelle file dei manutengoli, largamente sovvenendo e mai tradendo il brigante. —

— Allorché il capobanda Mansi ricattava il ricco... a Giffoni, nell'interno del paese, entrando coi suoi in sull'imbrunire d'un bel giorno d'estate, ed operandone l'arresto presso un tabaccaio e caffettiere, egli tradusse seco il malcapitato proprietario, e appena fuori dell'abitato, un'onda di campagnuoli, anziché prestarsi alla liberazione del loro padrone, proruppero in un'ovazione al bandito, gridando a squarciagola: — Evviva il capitano Mansi! —E fecero cortèo alla banda.

I terrazzani di Postiglione, Serre, Persano e luoghi limitrofi, parlano tuttodì con religioso rispetto di quella buon'anima di Don Gaetano, che in vita fu il famigerato Tranchella. —

— È certo che la calma materiale, come abbiamo al presente, si potrà sempre ottenere colla severa repressione; ma questa per se stessa non ò che un'operazione violenta, di sangue e di terrore; è il tagliare del chirurgo, senza l'opera curativa del medico, dell'igienista e del moralista. Perciò è mestieri che le due azioni vadano di conserva, e i mezzi preventivi e d'incivilimento prevalgano. —


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LA SCUOLA E LA QUESTIONE SOCIALE IN ITALIA.

Questo scritto fa pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia di Firenze, il novembre 1872.

Chi paragona l'Italia che sognammo a scuola con l'Italia che vediamo intorno a noi, resta colpito da una grande differenza. Ci pareva che a toccare la mèta noi dovevamo lungamente lottare contro difficoltà enormi; ma una volta riusciti a costituire la nazione, noi la vedevamo, nella nostra immaginazione, circondata di gloria. Invece una serie di facili e fortunate, rivoluzioni ci ha_condotti al fine de' nostri desiderii; ma l'Italia unita, indipendente e libera si direbbe che ha lasciato il tempo che ha trovato. Dapprima mancava la Venezia, e questo pareva che impedisse il pensare ad altro, e progredire. Poi mancava la capitale Roma, e bisognava distruggere il potere temporale dei Papi, il che avrebbe aperto un'èra novfìllajifìl mondo. Ma ora s'è avuto tutto, e l'orizzonte, invece d'allargarsi, sembra ristringersi dinanzi a noi. Siamo come uomini disingannati e sfiduciati, per non sapere che altro fare,  né che altro desiderare.

L'aver costituito la nazione è certo un grandissimo fatto, e ci onora assai. Ma noi non abbiam fatto l'Italia, perché l'Italia non facesse nulla. La grandezza di un'opera si misura da' suoi risultati.

Accanto a noi, sospinta dal nostro esempio, abbiamo veduto costituirsi la Germania. Ma il giorno in cui è sorto il nuovo Impero, il centro dell'equilibrio politico è subito passato da un lato all’altro del Reno. E mentre l'Europa, compresa d'ammirazione, imita le istituzioni tedesche, la Germania piena di nuova giovanezza e di speranza, agitata dalla questione religiosa e dalla questione sociale, s'è data ad una serie infinita di riforme che procedono rapide e si moltiplicano per via. In presenza di questi fatti noi sembriamo uomini esauriti, che cercano invano stimolo alla vita. E vien fatto di domandare a noi stessi: perché mai la vecchiezza ci assale, prima che la gioventù incominci?

Si credette risolvere il problema col dire: abbiam fatto l'Italia, ora bisogna fare gl'Italiani, ed è questo l'ufficio delle scuole. Ma son frasi che contengono un'assai piccola parte del vero, perché in sostanza l'Italia è composta d'Italiani, e poco o punto può differire da essi; e però sarebbe stato assai più giusto il dire che l'una vai quanto valgono gli altri. Le scuole s'aprirono a migliaia, ed ora si leva già un lamento generale che grida: gli analfabeti non diminuiscono, gli scolari non profittano punto, la scienza non si ridesta; abbiamo le scuole e mancano i professori; la questione è sempre questione di uomini. Sicché a fare gl'Italiani ci vogliono le scuole, ed a fare le scuole ci vogliono gl'Italiani. Siamo dunque in un circolo vizioso?

Ma di certo, se credete che tutto il problema stia nel trovar la miglior forma di scuole, il migliore ordinamento e regolamento scolastico, voi siete in un grossolano errore. Infatti si disse che ci volevano il greco ed il latino a formare la gioventù, e furono subito introdotti ne' Licei; ma dopo dieci anni i resultati non soddisfano punto. Si disse che il greco ed il latino erano inutili, e gl'Istituti tecnici, senza greco e senza latino, mutano e rimutano ogni giorno, perché non riescono meglio. Si è detto che bisognava cominciare la riforma dalle Università, dove i liberi docenti avrebbero infuso la scienza e la vita. La legge permise i liberi docenti, e questi non si fanno vivi. Abbondano però a Napoli, dove fiori sempre l'insegnamento privato; e già si dice ora che essi sono appunto 1 ostacolo principale al buon andamento di quella Università. Alcune voci si levano oggi e dicono: gli scolari debbono pagare i corsi, le propine salveranno le Università, e faranno ridestare la scienza. Può essere; ma io noto che le propine furono introdotte a Torino ed a Pavia dalla legge del 59, e furono tolte in fretta come dannose. Si disse allora che i professori erano pagati meglio, ma l'insegnamento andava peggio, perché 1 avidità dei maggiori guadagni suscitava gare funeste. Io non giudico, ma ricordo i fatti. Noi abbiamo tentato tutti i sistemi e siamo scontenti di tutti.

Egli è che la rigenerazione d'un popolo è un vasto problema morale, sociale, intellettuale ad un tempo, e noi non possiamo riguardare la scuola come un meccanismo che, trasferito da un paese ad un altro, porti dappertutto i medesimi resultati.

Essa è un'istituzione feconda solamente quando stende le sue radici in un suolo fertile, da cui raccoglie la forza che trasmette moltiplicala. E neppure la scienza stessa possiamo riguardare come se fosse isolata e indipendente dalle altre attività dello spirito umano. Le nazioni sono come gli uomini; e un uomo culto e dotto può essere un cittadino dannoso, destinato a popolare le prigioni. La storia d'Italia ci offre a questo proposito esempii istruttivi e chiari assai. Vi fa un giorno, fu anzi un secolo intero, in cui noi eravamo il paese più culto del mondo. L'Europa pendeva estatica dalle labbra dei nostri professori; nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, in tutto eravamo noi i maestri, e nessuno osava emularci, tutti volevano imparare da noi. Ma allora fummo anche un popolo guasto e corrotto, che venne calpestato e messo a brani da' suoi ignoranti vicini. Avevamo le scuole, e nelle scuole si studiava e s'imparava. Ne uscivano pittori, scultori, scienziati, i primi del mondo; ma non ne usciva l'uomo. E questo bastò a corrompere e far decadere rapidamente arti, lettere, istituzioni, ogni cosa. E i germi che s'inaridirono sul nostro suolo, fecondarono le terre straniere, ove insieme colla forza morale e politica fiorirono le lettere e le scienze. Se voi esaminate una facoltà sola dello spirito umano, senza tenere alcun conto delle altre, non vi riesce di comprendere più nulla; perché essa riceve il suo vitale nutrimento dalle altre, cui, a vicenda, lo trasmette. Voi avete immaginato non un uomo, ma un'astrazione o un mostro. Se voi esaminate nella società una sola istituzione, un'attività sola, e volete farla progredire, senza tenere alcun conto del resto, i vostri sforzi non possono ottenere alcun resultato.

Siamo ben lontani dal volerci qui fermare per ragionare a lungo di scuole; dobbiamo cominciare da esse solo per vedere in che relazione si trovano colla società, e cosi farci strada a cercare la sorgente del male comune. Gettando, dunque, uno sguardo generale sullo stato presente delle scuole in Europa, le vediamo subito sorgere, progredire, alterarsi insieme colla società. Una vera rivoluzione scolastica ha avuto luogo nel nostro secolo. L'antica unità del sistema s'è spezzata in due grandi ordini di scuole, classiche e tecniche o reali, le quali mettono capo alle antiche Università da un lato, ai nuovi Politecnici dall'altro. Cominciando da deboli ed oscuri principii, combattuti dapprima e mal visti, le Scuole e gV Istituti tecnici hanno preso un così rapido incremento, che formano oggi tutto un sistema, il quale si è schierato di fronte all'antico, e si contrastano fra loro il dominio della società. Perché ciò? Perché la società stessa s'è divisa e lotta. L'industria è sorta gigante, per le applicazioni della scienza e l'invenzione delle macchine. Una divisione pericolosa di ordini nuovi sembra volersi formare nella società, se non si è già formata, e le scuole rendono immagine della stessa lotta, in un campo fortunatamente assai più pacifico e tranquillo. L'economista ed il politico si sforzano di conciliare questi interessi avversi, i quali minacciano venire ad aperta guerra. Ed il legislatore non è tranquillo, quando vede i due ordini di scuole tendere a mettersi per opposti sentieri. Le cure, infatti, sono adesso rivolte a ricostituire la spezzata unità, ponendo, senza distruggerli, i due sistemi in armonia fra loro; facendoli mirare al loro vero scopo, che è quello di formare lo spirito nazionale, il quale nelle sue infinite varietà deve pur sempre restare uno.

Cosi la Scuola reale in Germania s'è andata sempre più rialzando, divenendo sempre più una scuola di cultura generale. Le scienze vi s'insegnano senza mirare ad alcuna applicazione, lo studio delle lingue è fatto scientificamente, ed anche il latino vi ha una parte grandissima. Il Politecnico poi, sorgendo di grado in grado insieme coll'industria, ha talmente svolto e moltiplicato coi corsi pratici quelli puramente scientifici, ha talmente voluto corsi di lettere e di scienze morali, liberi docenti e libertà universitaria d'insegnamento, che oggi si può dire una vera Università politecnica. Se una parte importantissima della società moderna ha bisogno di cognizioni nuove e diverse, non v'è ragione alcuna perché il suo spirito sia educato, e la sua cultura formata secondo opposti principii. Qui si vede che le scuole seguono e secondano il naturale progresso della società, ed il legislatore, con uno stesso concetto politico, cerca scongiurare i pericoli sociali ed il disordine delle scuole.

Che cosa facciamo noi? Abbiamo subito creato i due ordini di scuole, e gli abbiamo svolti, non secondo i bisogni mutabili e nascenti della nostra società; ma logicamente, come se si trattasse di portare a compimento due sistemi filosofici. Affidate a due Ministeri diversi, con due burocrazie divenute subito gelose l'una dell'altra, queste scuole si son messe per due vie sempre più divergenti fra loro. Basti ricordare che la Scuola e l'Istituto tecnico sono come due parti della stessa scuola; ma perché l'una è restata all'Istruzione, l'altro è andato all'Agricoltura, si sono subito allontanati fra loro,

lasciando nel mezzo un vuoto, contro cui i due Ministri gridano, senza colmarlo. E dove non provvedono i Municipii, l'alunno deve saltare. Ed hanno imparato cosi bene a saltare, che assai spesso l'alunno respinto all'esame finale di Scuola tecnica è ammesso nell’Istituto, questo non occupandosi punto di quella. Sono fatti noti e provati, che dureranno ancora un pezzo; perché le piccole passioni degli uomini fanno spesso grande ostacolo ai progressi sociali.

Il Liceo dava un'istruzione affatto generale, e l'Istituto tecnico s'avviò subito a darne una affatto speciale e pratica. Esso fu perciò diviso in sezioni, che mirarono a professioni diverse. Una di queste sezioni, è ben vero, apparecchiando a studii più alti, dovette di necessità avere un carattere generale; ma molti de'  suoi corsi dovevano servire per gli alunni di tutte le sezioni, e così lo spirito che dominò l'intero Istituto fu sempre quello che chiamano speciale, pratico, positivo. 0 per meglio dire, lo speciale ed il generale si sono confusi per modo, che esso non è abbastanza pratico da educare, senza officine, all’industria,  né abbastanza scientifico e letterario da dare una cultura generale. Lasciamo il latino, che non s'insegna; ma le lingue moderne s'apprendono con lo scopo pratico del parlarle, ed anche lo studio dell'italiano deve essere speciale. I nuovi programmi vogliono che si cominci da Galileo, e, venendo sino ai nostri giorni, si preferiscano sempre autori d'argomento scientifico.

Solo negli ultimi anni si permette timidamente qualche Canto della Divina Commedia.  Assai competente era la persona che dettò questi programmi; ma dovè pure uniformarsi al concetto generale degl'Istituti, che io credo errato.  Non basta, dunque, che i nostri futuri Sommeillier ed i successori di Michelangiolo e di Leon Battista Alberti, se ne avremo, ignorino il latino; ma essi debbono anche con un certa cautela avvicinarsi alla Divina Commedia. A questi alunni s'è aperto non solo l'adito ai Politecnici ed alle Scuole d’applicazione, ma anche alle Facoltà di matematiche pure e di scienze naturali, nelle quali si possono addottorare, e potranno un giorno insegnarle nelle Università stesse. Siam poi andati cosi innanzi nella logica del sistema, da credere che negl'Istituti tecnici debba insegnarsi una matematica, una fisica speciale, diversa da quella che s'insegna ne' Licei e nelle Università, e che i buoni professori si possano formare solo nei Politecnici e nelle Scuole d'applicazione. In alcune di queste scuole speciali si deve insegnare non l'italiano, ma l'italiano commerciale, che per verità non esiste. Ed ho più volte ricevuto lettere di professori disperati, i quali non sapevano  né donde cominciare  né dove finire. Non trovavano pei loro alunni argomento che potesse soddisfare le Autorità superiori; perché la lettera di cambio ed il conto corrente non fanno parte d'alcuna letteratura. Si sono poi moltiplicate le scuole pratiche, prima assai che la nostra industria lo richiedesse. Abbiamo in buon numero scuole di navigazione, di commercio, di capitani di lungo, di capitani di piccolo corso, scuole di agricoltura, forestali e perfino di caseificio.

Ed in esse non s'insegna veramente l'industria; ma si cerca di specializzare in diversi modi le materie d'insegnamento, che nel più gran numero di casi sono le stesse. Volendo svolgere il sistema fino all'assurdo, bisognerebbe trovare un italiano per i capitani di lungo, ed un altro per i capitani di piccolo corso, un alfabeto per chi si dà all'agricoltura, ed un altro per chi si dà al caseificio.

Ma, lasciando da parte un linguaggio che mi son permesso di usare solo per dare maggiore evidenza al mio pensiero, osserverò che uno de'  Commissa rii del Ministero di Agricoltura e Commercio, il professor Colombo, incaricato di esaminare i disegni degli alunni, mise, con molta autorità e grandissima precisione, il dito nella piaga. Egli disse: — La base dell'insegnamento del disegno doveva essere per tutti il disegno geometrico ed il disegno d'ornato. Invece si è subito voluto il disegno speciale, pratico, industriale, e così manca la base; perché, senza una buona cultura generale, neppure nel disegno si può venire allo speciale. Noi abbiamo, egli aggiunse, troppe scuole speciali, industriali; ne abbiamo una varietà maggiore delle nazioni che hanno un'industria assai più progredita della nostra; ne abbiamo infinitamente più di quel che comporti la nostra debole istruzione secondaria.  Gl'Istituti tecnici in Italia, pag. 496 e seg. Firenze, Barbèra, 1869. (Pubblicazione fatta dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio.)  — E poteva aggiungere, che esse si popolana d'alunni che spesso, solo per risparmio di tempo, vanno nelle scuole professionali a formare la loro istruzione generale. Con quale vantaggio della propria cultura e di quella del paese, lo lascio considerare ad ognuno.

Di certo questo è precisamente il contrario di ciò che si raccomanda da tutti coloro che hanno esperienza delle scuole. Il Ministero di Agricoltura fr Commercio si è occupato di una tal quistione, ed ha riformato i programmi, migliorandoli in molte parti. Ma non basta modificare i programmi. E quando si vede che, secondo essi appunto,l’insegnamento dell'italiano, cui a ragione si è data grande importanza, deve cominciare da Galileo, e, preferendo sempre autori d'argomento scientifico, venire sino ai nostri giorni; e solo negli ultimi anni si consiglia qualche Canto della Divina Commedia; e dei secoli più grandi della nostra letteratura si fa uno studio men che secondario, è chiaro che si cerca sempre un italiano speciale, e che il peccato d'origine è sempre lo stesso. Nè le piramidi di carta (monumento davvero colossale), che stampa il Ministero di Agricoltura e Commercio, basterebbero a provare il contrario.

Ho avuto molte dispute su questi argomenti. Mi è stato anche detto che l'insegnamento tecnico era materia estranea ai miei studii, e che non potevo comprenderne tutto il valore, e che a Zurigo, a Monaca, ec., si faceva cosi e cosi. E mi si citava l'autorità dei professori di quei Politecnici. Io confesso che un giorno presi un foglio, e formulai tutte le questioni su cui avevo disputato. Mi posi in viaggio, e stetti quindici giorni a Zurigo, interrogando sino alla petulanza quei professori gentilissimi sempre; andai a Monaco, a Vienna, ripetendo la stessa operazione: ero stato a Berlino. Ho notato nel mio taccuino le risposte avute, e le cose che dico ora sono il resultato di quel viaggio.

La questione, del resto, si discute adesso pubblicamente dalla stampa tedesca, e le opinioni degli uomini più autorevoli possono esser lette da ognuno. A me è seguito molle volte di vedere introdotte da noi, coll'autorità dei Tedeschi, riforme che essi condannano ed abbandonano, perché provate fallaci dalla esperienza anche colà; ed ho veduto spesso i professori ridere delle idee che noi loro attribuiamo, e consigliarci essi stessi di non perdere di vista le condizioni proprie del nostro paese.

Non voglio ora parlare dei Ginnasii e dei Licei; mi fermo solo ad una osservazione che riguarda piuttostol’andamento generale degli studii letterarii, e dimostra come non solo il Governo, ma noi tutti teniamo pochissimo conto delle vere condizioni in cui siamo. I vecchi maestri delle nostre scuole secondarie, molti dei quali erano preti e frati, avevano insegnato a comporre sonetti ed a scrivere distici colla grammatica patavina e colla prosodia. La scuola del Padre Cesari gli aveva istigati a correggere il loro italiano, studiando i Trecentisti. Venne l'unità d'Italia, e fu subito imposto un programma imitato da quelli dei Ginnasii tedeschi. Si scopri che erano nate la scienza del linguaggio e la filologia comparata, che le grammatiche avevano preso una forma scientifica, e lo studio delle lingue classiche era divenuto una specie di filosofia applicata; e subito il Governo e la pubblica opinione imposero i nuovi metodi ai vecchi professori, e i libri degli autori più recenti e qualche volta più audaci, furono adottati con una singolare facilità, senza pensare che non di rado nella Germania stessa trovavano difficoltà ad essere introdotti nelle scuole.

Il guazzabuglio che s'è formato in alcune teste, per questo istantaneo innesto del Blair, del Padre Soave, della Regia Parnassi col Max Muller, col Bopp, col Curtius, col Madwig, è cosa da non si descrivere. Lo dimostrano gli opuscoli che vengono alla luce. La testa dell’autore somiglia qualche volta ad un sacco, in cui si sieno chiusi un gallo, una scimmia ed una serpe. Che cosa segua nella testa dello scolare, si può immaginare. GÌ' ispettori ripetono ogni giorno: i buoni metodi fanno progresso; e i padri di famiglia rispondono: i nostri figli non capiscono il latino e non sanno scrivere l'italiano. Si è dimenticato che la filologia moderna è nata in mezzo ad un popolo che aveva già una grande cultura classica, la quale apparecchiata da uno straordinario progresso di studii storici e filosofici fu un mezzo potente a farli progredire ancora di più. Separata da essi, perde la sua importanza; insegnata troppo presto o troppo esclusivamente, può anche essere dannosa assai. Noi siamo entrati in un'officina, abbiamo preso una ruota che comunicava il suo moto a cento altre, l'abbiamo isolata dal resto, e, girandola intorno al suo asse, restiamo maravigliati, perché non pone in moto più nulla. Se gli uomini di buon senso biasimarono una volta coloro che credevano essere di buona scuola, perché dicevano male dei Tedeschi, e chiamavano ostrogota la loro grande cultura; essi non possono lodare oggi quelli che si credono al corrente, perché citano dieci autori tedeschi.

In fondo tanto vale ristampare un Trecentista dimenticato, e di tanto in tanto scrivere a piè di pagina: nota bel modo! quanto ristampare una vecchia leggenda, che non ha neppure il pregio della forma, e dire: da questa s'impara più che da molti Trecentisti per la storia di nostre lettere. Tutte le scuole, tutti i metodi hanno i loro parassiti, e questi hanno sempre lo stesso valore, a qualunque scuola appartengano. La nuova gioventù porta nei Licei e nei Ginnasii nuovo impulso e nuova vita. Ma il fatto riscontrato più volte, che è difficilissimo trovare un buon professore d'italiano, e che gli alunni scrivono in generale assai male, merita di essere considerato, perché accusa un disordine intellettuale, che non va diminuendo.

Tutto questo deriva principalmente da due cagioni. V' è da un lato la inesperienza giovanile d'una nazione che vuol riformare prima di riflettere, e vuoi legiferare a vapore. Ma v'è anche una falsa tendenza del nostro spirito, venula da una lunga educazione, per la quale diamo spesso troppa importanza alla forma e troppo poca alla sostanza; e ci pare di aver già progredito, quando copiamo sulla carta le leggi dei popoli che sono più innanzi di noi, e di avere le scuole tedesche, quando ne abbiamo adottato i programmi. V'è poi l'altro errore, forse più grave di tutti, che noi ancora non siamo persuasi abbastanza, che la rigenerazione d'un popolo è un vasto problema sociale e morale; che la cultura non si ridesta, se non si commuovono e pongono in moto tutte le forze sociali; che le scuole non servono a nulla, se non cercano migliorare tutto l'uomo.

E questo ci conduce ad un'altra questione. In Londra v'è un ricco Collegio, nel quale da molto tempo s'insegna latino e greco, senza ottenere alcun resultato soddisfacente. I tentativi di riforma riuscirono vani, e molti Ispettori cercarono la causa d'un male tanto più notevole, quanto più l'Inghilterra possiede altri Collegi, nei quali i resultati sono eccellenti. Uno degl'Ispettori disse un giorno: — Io credo di avere scoperto la radice del male; sostengo che non si profitta nel greco, perché non s'insegna la ginnastica. Per riuscire ad avere una buona cultura classica ci vuole energia di volontà e fermezza di carattere;l’alunno che non esercita il suo corpo, diviene fiacco, cade in abbandono, e non sa affrontare e superare le difficoltà degli studii. Ad Eton e ad Oxford si esercita il corpo, e si profitta nel greco; introducete anche voi il cricket, e gli alunni spiegheranno meglio Omero. — Non voglio di certo dar troppa importanza a queste parole, che pur furono seriamente ponderate in Inghilterra, dove si crede che la scuola debba nello stesso tempo educare la mente ed istruirla, fortificare il corpo e formare il carattere. Ma che cosa facciamo noi per formare il carattere? Si potrebbe rispondere: semplicemente nulla. Il maestro elementare che ha fatto la sua lezione di leggere e di scrivere, il maestro di ginnasio che ha insegnato il suo greco e latino, hanno adempito il proprio dovere, pigliano il cappello e vanno a casa tranquilli.

Il Preside pensa all’esattezza dell’orario ed all’ordine. Ed il Rettore del convitto? Tiene tranquilli i ragazzi, e provvede che non manchi loro il cibo. Quando ad Eton si nomina il nuovo Rettore, cui si dà uno stipendio maggiore delle 100,000    Se si tien conto di tutti i proventi del Rettore o, come dicono, Capo Maestro (Head Master) di Eton, si ha una somma assai maggiore. Il prof. G. Piechioni, che insegnò molti anni in Eton, ha dato una bellissima descrizione di quel Collegio. Dopo avere enumerato le varie tasse scolastiche e i diversi proventi dell’Head Master al suo tempo, dice: «Tutto calcolato, coll'addizione della tassa scolastica ch'egli ricevo pure dagli scolari della sua classe (il Settore colà è anche insegnante), il Capo Maestro dottor Hawtrey, senza avere pupilli (o sia alunni) in casa sua, avea,  quando io ero in Eton, un provento annuale di più che 42,000 lire sterline (300 mila franchi). Da ciò potrà facilmente vedere il lettore, com'egli in dieci o dodici anni potesse benissimo spendere alquanto più che un milione e 200 mila franchi perla sua Biblioteca. Parlando di questa Biblioteca, il Picchioni aggiunge: Mi mostrò egli stesso una copia dell’edizione prinreps dei poemi di Omero, con alcune postille credute di mano di Colbert (l'avea pagato 50 lire sterline), e l'autografo di una tragedia di Alfieri, se ben mi ricordo, Antigone.» Io non credo però che l’Head Master guadagni sempre 300,000 lire italiane. Vedi il Politecnico di Milano, vol. II, anno 1866, pag. 509 e seg. lire, il Times, in un articolo di fondo, narra la vita, giudica il carattere del nuovo eletto, e riguarda l'ufficio affidatogli come più importante di quello d’un Ministro di Stato, perché si tratta dell’avvenire civile e morale della gioventù inglese. Noi diamo ai nostri Rettori vitto e alloggio con qualche migliaio di lire, e non v'è ufficio più oscuro e meno considerato del loro. Un uomo che fra noi si proponesse, per scopo principale della sua vita, d’essere un educatore, ci parrebbe quasi un uomo senza professione.

Ma siamo adesso sopra un terreno assai spinoso e bisogna andar oltre. La più parte delle nazioni civili hanno adoperata la religione come il mezzo più efficace alla educazione morale del loro popolo. La nostra condizione è, a questo riguardo, assai difficile e strana. La Chiesa e lo Stato sono in lotta aperta. Noi siamo persuasi che il clero è nemico dei principii coi quali l'Italia si è fondata, e su cui la società moderna riposa. Vogliamo escluderlo dalle Università, vogliamo che si chiuda ne' suoi Seminarii,  né c'importa di sapere se e come studia e s'educa. Il medico deve avere un diploma, il maestro elementare una patente, il prete faccia quel che vuole. Ed esso non desidera di meglio; è questo il solo punto su cui siamo perfettamente d'accordo. Se il Ministro chiude una scuola secondaria o elementare di frati o di monache, se propone di sopprimere gli avanzi delle nostre Facoltà teologiche, un'aura popolare si leva in suo favore, e la pubblica opinione sembra unanime nell'approvarlo. Ma se i Barnabiti o altri dei soppressi Ordini religiosi aprono una scuola, un convitto, gli alunni s'affollano subito, e i pretofobi vi mandano i loro figli, disertando le scuole laiche. Conservo sempre la lettera assai singolare d'un uomo culto, che si trova in un ufficio importante. Si raccomandava caldamente, perché io facessi dare una solenne lezione a certi frati, egli diceva, perfidi, oscurantisti, nemici della patria e d'ogni bene, che davano una educazione funesta alla gioventù.

La prova di quel che asseriva, e la ragione del suo furore erano poi singolarissime. Aveva messo suo figlio nel convitto appunto di questi frati, ed essi non volevano permettergli che passasse l'ottobre nella casa paterna, sotto pena di non riprenderlo nel novembre. Io mi permisi di chiedere: — Ma se sono così perfidi questi frati, perché affidate loro vostro figlio? Non sarebbe più logico ritirarlo affatto? — E d'allora in poi non ebbi più alcuna risposta.

Quel padre è un onesto cittadino, ed io lo credo simile a moltissimi altri. Uno dei discorsi che più spesso si ripetono tra noi, è questo: — Io ho fede nella ragione e nella scienza solamente; ma se dovessi avere una religione, non vorrei mutare quella de' miei padri. Se un'autorità ci deve essere, piglio quella assoluta del Papa, perché almeno è la più logica di tutte. Per ora non sento il bisogno d'averne alcuna. — Discutere la propria fede, volere una fede ragionevole sembra a noi Italiani una contraddizione ne' termini. Ammettere che vi sia un senso religioso, anche indipendentemente da ogni religione positiva, questo ci pare un assurdo. Coloro che credono e coloro che non credono vi sbadigliano in faccia, se voi entrate sul serio in una discussione religiosa. E la riprova di questo la trovate nel fatto, che, ad eccezione dei libri che i preti scrivono per i preti, noi manchiamo d’una letteratura teologica. Opere sulla interpretazione della Bibbia, sulla storia dei dommi, sulle origini del Cristianesimo, non ne abbiamo. Se nell'esame di laurea l'alunno ignora la mitologia greca, egli non passa all'esame; nessuno però s'occupa di sapere se conosce i principi! o i miti della religione cristiana.

Ma il discorso qui sopra da noi riferito ha una seconda parte che dice: — Quantunque io non ci creda, pure voglio che mio figlio sia educato nella religione, perché una volta almeno nella vita bisogna aver creduto. Verrà bene l'età della ragione, e allora capirà che queste cose sono tutte imposture di preti. Quanto a mia moglie ed a mia figlia, però, la cosa è assai diversa. Io lascio che vadano alla Messa ed al confessore, perché amo la tolleranza, e perché non mi fiderei d'una donna senza religione. —Può essere che tutto questo sia a rigore di logica. Intanto però voi che dichiarate il prete ignorante, nemico della patria e del bene, gli affidate l'educazione di vostro figlio; e desiderate che vostra moglie e vostra figlia ricorrano a lui nei momenti difficili della vita, e gli confidino quel che non confidano a voi. Volete che credano ciò che dichiarate assurdo, perché la loro coscienza vi pare sostanzialmente diversa dalla vostra. Aggiungete la poca ed insufficiente istruzione che date alle donne, e vedrete quale abisso scavate fra di voi. L'unità morale e ideale della famiglia si scompone, ed i vostri figli, che di ciò si avvedono subito, vivono in un'atmosfera che corrompe. Essi di buon'ora impa ? rano a fingere ed a non prendere nulla sul serio; entrano nella vita senza avere la forza di credere,  né la forza di operare in conseguenza del loro non credere. Per ora accettano il bagaglio tradizionale, come una merce importuna, che a giorno fisso sarà gettata in mare, per essere poi ripescata di nuovo e trasmessa ai loro figli.

In questo stato di cose, se voi lasciate l’insegnamento religioso nelle scuole, siete subito dichiarato clericale. Ma se voi lo togliete, siete dichiarato pretofobo, e le scuole cominciano a disertarsi, e la concorrenza che già fa il clero diviene ancora più efficace. Riesce impossibile di sapere ciò che vuole un popolo, il quale non sa veramente se crede o non crede; non osa abbandonarsi alla fede, e non osa fondarsi sulla pura ragione. Più logico sarebbe di certo, in tali condizioni, decidersi finalmente ad una legge che bandisse dalle scuole ogni insegnamento religioso, lasciandolo, come fanno molte scuole inglesi e americane, alla cura delle famiglie. Ed i veri credenti dovrebbero, ci pare, preferire il nessuno insegnamento religioso a quello di maestri, che sono spesso costretti a mostrar di credere quello che non credono, e non possono nascondere la loro ironia. Ma una tal legge, sempre invocata, non sarebbe in questo momento approvata, e forse neppure discussa. I nostri credenti temono, e non a torto, che essi non avrebbero  né la forza  né la voglia di provvedere nella famiglia a quello che non trovano nella scuola. E da un altro lato, il nostro Parlamento si trova nella indifferenza stessa del paese che rappresenta. Quando la questione dominante è quella delle relazioni tra Chiesa e Stato, quando si discute il potere temporale, o si propone l'abolizione degli Ordini religiosi, voi vedete militare sotto la stessa bandiera, combattere in nome dei comuni principii, il pretofobo ed il neoguelfo.

Costretti ad una serie di sottintesi e di transazioni nelle cose in cui il transigere non è possibile, non osano mai porre il problema ne' suoi veri termini; perché il partito andrebbe in fascio, e non vi sarebbe verso di ricostituirlo  né a destra  né a sinistra. E quindi dovrà sempre succedere quello che è successo cogli Ordini religiosi. Furono snella stampa e nella discussione assaliti per modo, che sembrava si trattasse di dar fuoco ad un nido di lupi. Ma poi vennero aboliti per modo che, sotto altra forma, si moltiplicano più di prima, e riacquistano rapidamente la fortuna che fu loro tolta. Cosi noi avremmo ancora sull’insegnamento religioso una legge, che lo abolirebbe per modo da lasciarvelo stare, e ve lo lascerebbe in modo, che sarebbe lo stesso se non ci fosse. Una vera questione religiosa noi non l'abbiamo ora, e non l'avremo per un pezzo; il rumore che si fa intorno ad essa nasce da ragioni politiche, nelle quali si trovano spesso concordi gli uomini dei più opposti sentimenti religiosi. Basta che venga messa ne'suoi veri termini, isolandola dal resto, perché sia subito sopita, e tutto si riduca, come spesso è avvenuto, ad una tempesta in un bicchier d'acqua.

Ma se neppure da questo lato possiamo sperare che s'inizii una salutare riforma, non ci resta dunque nulla a fare? Io credo che sia inutile battere la testa al muro, e che bisogni prendere gli uomini e i fatti quali sono veramente. L'Italiano ha il senno e la passione politica, e con essi gli riuscì di costituire la nazione. L'Italiano desidera sinceramente ed ardentemente la istruzione e la educazione morale del suo paese, ed una via deve pure trovarla.

Per trovarla, però, non bisógna guardare alla luna; non bisogna ragionare come se fossimo diversi da quel che siamo; non bisogna ogni notte sognare la Germania, come una volta si sognava la Francia. Bisogna, innanzi a tutto, osservare e studiare l'Italia. Una cosa che mi ha sempre maravigliato, e che più d'ogni altra mi pare faccia torto alla nostra presente cultura, si è il vedere quanto poco studiamo noi stessi, e quanto poco si fa in quegli studii appunto, che avrebbero presso di noi un'applicazione immediata, ed offrono un campo vastissimo d'osservazioni. Che gli esami dei Licei vadano male, che la filologia, la filosofìa non progrediscano molto, io lo spiego. Ma non capisco come, essendosi ricostituito economicamente tutto il paese, discutendosi ogni giorno leggi di finanza, avendo cosi un'opportunità d'osservare e d'imparare maggiore assai di quella che si può trovare in qualunque scuola, la scienza economica non abbia fatto alcun notevole progresso, e i nostri più celebrati economisti sien quasi sempre quelli che erano conosciuti prima del 1859. Noi abbiamo aperto migliaia di scuole, tentato migliaia di sistemi, ci siamo trovati in presenza d'una moltitudine infinita di problemi scolastici. Ebbene, se v'è una scienza che si può dire scomparsa affatto fra noi, è la pedagogia, che alcuni mettono in ridicolo, come se non fosse divenuta oggi una delle più stupende applicazioni della psicologia, e non vi fossero opere infinite d'un merito filosofico, storico e pratico grandissimo. Eravamo in assai migliori condizioni, quando il Lambruschini ed il Thouar scrivevano la Guida dell'Educatore.

Eppure l'ingegno italiano ha sempre dimostrato la sua maggiore attitudine negli studii pratici e d'applicazione. Non voglio ricordare nomi d'uomini grandi. Non dirò che il Machiavelli non aveva avuto a scuola una grande istruzione, e pure, facendo il segretario della Repubblica, divenne il fondatore della scienza politica; non dirò che Marco Polo divenne immortale, descrivendo i paesi che aveva veduti. Le eccezioni non fanno regola. Ma è infinito il numero de' libri importanti, lasciati da mercanti italiani, i quali, anche scrivendo senza grammatica, sapevano raccogliere i resultati della propria esperienza, e fare osservazioni originali, acutissime. Non di rado troviamo Inglesi eminenti, che hanno formato la loro cultura correndo per il mondo, e fermandosi nelle scuole che hanno trovato per via. Molti Americani cominciarono col fare gli operai, e finirono col divenire uomini chiarissimi nella politica o nella stampa. Senza la scuola fecero quel che a noi non riesce fare con la scuola. Assai spesso si sente che un Tedesco o un Inglese, dopo aver viaggiato in Italia, ha pubblicato un libro assai notabile su qualcuna delle nostre province. Ben di rado succede di vedere che uno dei tanti nostri prefetti, impiegati, professori, raccolga la sua esperienza e pubblichi qualche lavoro veramente originale sull’indole della provincia e delle popolazioni fra cui s' è trovato, e che pure darebbero cosi vasta materia di studio. Grande è, infatti, la varietà dei costumi e delle tradizioni, nella cultura e nella storia dei popoli italici; grandissima l'esperienza che possiamo trarre da un paese che si va trasformando tutto.    Debbo però notare, che dal 1872, anno in cui fu la prima volta pubblicato questo scritto, fino ad oggi, qualche visibile progresso s'è cominciato a fare, quantunque in termini generali non si possa dire che lo stato delle cose sia sostanzialmente mutato.

È certo che l'istruzione e l'ingegno d'un uomo dipendono molto anche dalla cultura e dalla forza intellettuale della società in cui vive. L'energia stessa delle nostre facoltà è in parte conseguenza del lavoro accumulato dalle generazioni precedenti, che trasmettono a noi organi più perfetti, attitudini e capacità maggiori, acquistate col proprio lavoro. Tale almeno è l'opinione di molti psicologi moderni. Cosi la nostra lunga decadenza può aver dato una falsa piega al nostro ingegno, che, presa una volta e trasmessa da padre in figlio, non si perde in un giorno: forse ci vuole lo sforzo d'una o più generazioni. A molti Italiani sembra che dare una istruzione maggiore o minore non sia altro che accumulare più o meno cognizioni nella testa. Invece essa consiste principalmente nel saper educare l'alunno ad un' azione più o meno energica ed originale della propria intelligenza, che in questo modo diviene capace di produrre nuove idee, e di assimilarsi un maggior numero di cognizioni, le quali non sono che il mezzo per arrivare ad un fine più alto. E quando diciamo che le cattive scuole sciupano la testa, crediamo di usare solo una figura rettorica, e diciamo una verità matematica. Senza avvedercene, possiamo da una falsa educazione prendere un modo artificiale e preconcetto di vedere le cose, che c'impedisce di manifestare tutta la nativa originalità del nostro genio nazionale. Il ritrovarla deve essere appunto lo scopo della nuova istruzione, e non già l'accumulare qualche materia di più nella testa.

Ma giacché siamo stati a scuola e non c' è rimedio, spogliamoci per un momento, se è possibile, di ogni preconcetto, di ogni teorìa, e gettiamo lo sguardo intorno a noi. Facciamo, se ci riesce, come quegli ambasciatori veneti che percorrevano il mondo, e nelle loro relazioni scrivevano vere fotografie, colle quali ci fanno anche oggi conoscere cosi bene i loro tempi. Quando io, senza alcuna prevenzione, cerco nella mia testa le immagini che vi si sono a mia insaputa stampale, e vi restano profondamente impresse, vado subito col pensiero a Napoli. Dal 59 in poi sono molte volte tornato nella mia città natale, e la prima passeggiata che ho fatta, è stata sempre nei quartieri più luridi, ove s'addensa il popolo minuto, e dove la stessa borghesìa napoletana di rado s'avanza. Per anni ed anni sono tornato a Porto, al Pendino, a Rua Catalana, a Porta Capuana, ed ho sempre trovato immutabile il medesimo spettacolo d'orrore. Ho visto una popolazione immensa, gettata per le vie, cenciosa, sudicia, senza mestiere e senza occupazione. Chi vive, aspettando d'essere invitato a trasportar qualche oggetto; chi friggendo zeppote; chi impastando franfellicchi, che lecca più volte prima di vendere; chi cuoce cibi impossibili; chi sbuccia noci da mattina a sera; chi lessa castagne o spighe di gran turco; chi taglia legni per far fiammiferi, o fa altri mestieri che ricordano i popoli primitivi. E di qua e di là sparsi, come per singolare contrasto, degli artigiani abilissimi, pieni d'una intelligenza che trasparisce dagli occhi.

Mi sono avvicinato ai tugurii, dove si ricovera questa moltitudine, ed ho avuto bisogno, per entrarvi, d'una grande forza di volontà; perché il fetore che emana al solo avvicinarsi, mette spavento. Vivono nei bassi, botteghe il cui suolo è assai spesso più basso del livello della strada, e però quando piove v'entra l'acqua, se non si chiudono, e chiudendole, non v'entrano  né l'aria  né la luce. Ivi si raccoglie tutta la famiglia, vecchi e giovani, il marito, la moglie, le ragazze, i fratelli e qualche volta gli animali, tutti insieme. Ivi si soddisfano tutti i bisogni della vita. S'aggiunga che le fogne della città sono cosi male costruite, che le materie, se non piove molto, restano ferme, e le esalazioni si sentono nelle strade, e pei condotti rientrano nelle case, in modo che le febbri intermittenti sono ora a Napoli assai comuni, ed il chinino s'adopera come nei paesi di malaria. Si vedono perciò nel minuto popolo visi sparuti, un numero grande di storpii e di malati, di vecchi imbecilliti; il tifo, la terzana, le perniciose spesso li mietono a migliaia. Un naturalista mi assicurava che perfino i caratteri fisiologici della razza si sono alterati. E se, entrando nei vicoli più stretti, s'ha il coraggio di salire nelle case ove abita la stessa gente, si trovano nella corte, nei varii piani, nelle scale, accumulati, in diversi strati, la stessa miseria, lo stesso puzzo. È facile capire perché in ogni stagione, in ogni tempo, sono come cacciati nelle pubbliche vie, dove non solo pèrdono ogni sentimento che ispira il focolare domestico; ma, tra gli urli, le bestemmie e le oscenità, le ragazze più oneste cominciano a perdere il pudore.

E se parlate con questa popolazione, per natura cosi vivace, intelligente, affettuosa, voi trovate uno stato di abbattimento, di abbrutimento e di prostrazione morale che non vi lascia più dormire tranquilli. Alcuni anni sono, in quel grande ricovero di mendicità che il volgo chiama il Serraglio, e dove pure esso'Jia un vitto ed un alloggio migliori che a casa sua, si vollero introdurre le scuole elementari per le bambine. Dopo pochi giorni quasi tutte avevano l'oftalmia. E avendo il Direttore fatta qualche indagine, trovò che quelle di maggiore età avevano insegnato alle più giovani, che strofinandosi gli occhi assai forte con un panno di lana si sarebbero ammalate d’occhi, e in vece della scuola sarebbero andate all’infermeria. E cosi fecero.

Nel passato anno una signora forestiera, amica d'Italia e filantropica molto, dopo aver visitato i poveri di Napoli, mi diceva: — Ero stata nell'interno della Spagna, e nei tugurii dell’Irlanda, ma non avevo alcuna idea che la degradazione umana potesse arrivare a questo punto. È un' onta, è un' onta, ripeteva mille volte, pel vostro paese. E fino a che voi tollerate tali orrori senza mettervi riparo, non farete alcun vero progresso, e l'Italia non sarà degna della libertà. — Essa è ora in Inghilterra, e picchia di casa in casa, cercando danari pei poveri di Napoli. Io non so dire la impressione che provo, quando veggo nelle nuove strade sorgere nuovi palazzi, con i soliti bassi, che subito divengono tugurii di altri infelici. Per essi non s' è fatto nulla, assolutamente nulla. Toledo s'abbellisce e muta i lampioni; si vedono sempre nuovi e più eleganti magazzini. Opere utili ed opere di lusso si sono fatte, ed una delle più belle città del mondo è divenuta più bella ancora.

Ho visto mutare il marciapiede alla Villa; ho visto una mezza rivoluzione di cocchieri, cui si voleva imporre di portare il cappotto di panno ed il cappello a tuba; nuove statue e nuovi giardini si vedono spesso. Ma i Consigli municipali di destra e di sinistra si sono seguiti, senza far nulla pei più poveri quartieri di Napoli. Ho chiesto mille volte: — Perché non si pensa a ricostruire le fogne, perché non si migliorano le abitazioni, e non s'allargano le vie dove la gente non vive, ma muore? Perché non si trova modo di dare un mestiere a quella gente che campa la vita, sbucciando noci e tagliando fiammiferi? — Mi si è sempre risposto: — È impossibile, bisogna conoscere la città, per farsi un! idea delle difficoltà insormontabili che vi sono. — Io non so se la volontà e le forze del Municipio e della Provincia possano bastare a correggere il male. Ma io credo fermamente, che il Governo d'un paese civile debba, in questi casi, od obbligare altri a fare, o far prontamente. Se è vero che la schiavitù dei Negri impedì il progresso generale negli stati del Sud, e fu, più che ad altri, dannosa ai Bianchi stessi che li possedevano, io credo che sarà impossibile rialzare davvero l'educazione morale e civile d'un popolo, che sopporta nel suo seno tali vergogne. Bisognerebbe che qualche anima gentile andasse in quei luoghi, descrivesse minutamente, ritraesse la vita e lo stato morale di quella gente, e lo denunziasse al mondo civile, come un delitto italiano.

Ma si dice: — Noi abbiamo aperto le scuole elementari, tecniche, di disegno, gli asili infantili! — Questa è una vera ironia.

Che volete che faccia dell'alfabeto colui a cui mancano l'aria e la luce, che vive nell'umido e nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Non otterrete mai nulla. E se un giorno vi riuscisse d'insegnare a leggere ed a scrivere a quella moltitudine, lasciandola nelle condizioni in cui si trova, voi apparecchiereste una delle più tremende rivoluzioni sociali. Non è possibile che, comprendendo il loro stato, restino tranquilli. Ecco dunque un problema sociale della più alta importanza, messo dinanzi a voi. Potete vedere e toccare con mano. Non andate ai libri, non cercate teorìe e riforme scolastiche. È tempo perduto. Voi volete sapere, perché la scuola elementare non dà risultati, perché le scuole secondarie vanno male, e sopra tutto, perché non vi riesce in modo alcuno d'introdurre una buona disciplina e formare il carattere? Puramente e semplicemente, perché noi manchiamo ai nostri più sacri doveri. Se la classe media si rivolgesse davvero a sollevare questi miseri, e stendesse loro una mano pietosa, basterebbe questo fatto solo per rialzare d'un tratto la disciplina morale nel paese e in tutte le nostre scuole. Voi chiedete ogni giorno come s'insegna la morale agli alunni, stillate il cervello, cercate i libri, provate i metodi. Ed io vi dico, che v'è un mezzo solo e semplicissimo d'insegnare la morale, e questo sta nel fare una buona azione. Quando ero ad Eton, celebre appunto per la formazione del carattere, io chiesi ad un professore: — In che modo voi riuscite, quale è il vostro metodo? — Egli mi rispose ridendo: — Noi non abbiamo alcun metodo, lasciamo più che è possibile i ragazzi a se stessi, persuasi che son buoni e si correggono a vicenda.

Il vero educatore di Eton è un certo spirito che s' è formato nel Collegio, che nessuno ha creato, e che tutti sentono. Io direi che è lo spirito stesso d'una parte almeno della società inglese, che è entrato qui dentro, e se lo trasmettono a vicenda; perché io vedo nella storia, che quando la società inglese decade, Eton non fiorisce. — Ed è veramente lo spirito del popolo inglese quello che anima tutte le istituzioni del paese, e per mezzo di esse moltiplica le proprie forze.

Io prevedo la risposta a tutte queste mie osservazioni. — Voi citate un caso particolare, e ne cavate una conclusione generalisima. Napoli non è l'Italia. — Ebbene, io abbandono Napoli e mi dirigo altrove. Questa estate viaggiavo, solo ed a piedi, nel Tirolo austriaco. È un paese che non ha grande istruzione  né grande industria; ma uno s'accorge subito d'essere in mezzo ad un popolo serio, morale e, all'occorrenza, eroico. Non sapevo comprendere, perché non mi riusciva più di guardare, come facevo in Italia ed altrove, alla mia valigia,  né di leggere il conto che mi presentavano,  né di numerare il danaro che mi rendevano. Nei paesi di montagna si trova spesso un vivere patriarcale ed ingenuo; ma qui mi pareva che questa onesta semplicità dai monti fosse discesa anche nelle città. E non ricordavo più che quel popolo ci era stato fieramente avverso, e quasi gli perdonavo i suoi molti pregiudizii e la sua superstizione. Percorsa la Zillerthal, dormii una notte a Ginzling, paesetto composto d’una chiesa e poche case.

Il domani m'avviai con una guida, di cui appena comprendevo il linguaggio, per andare a Slerzing, passando il Pfitscher Joch, e facendo tredici ore di cammino, delle quali dieci di montagna. Erano le cinque del mattino, c'eravamo appena messi in via, quando una donna ci corse dietro a restituire poche monete che aveva prese più del dovere, per errore. Giunti alla cima del monte, accanto ad un laghetto circondato di neve, io che mi sforzavo di conversare con la guida, e riscontrare la verità di certe mie impressioni, gli chiesi: — Ho visto in molti paesi che gli usci non si chiudono la notte. Non ci sono dunque ladri nel Tirolo? — Ed egli, guardandomi seriamente, disse: — Da noi quando s'è finito di lavorare, la gente fa cosi, — e, gettando a terra il suo alpenstock, aggiunse: — Lasciano a terra arnesi, abiti, tutto quel che hanno, sicuri che tornando troveranno ogni cosa al posto. — Restato poi un momento sopra di sè, come chi vuol misurare la verità di ciò che ha detto, continuò: — Non debbo però darle una falsa impressione. Ella sa bene, tutto il mondo è paese. Anche da noi, di tanto in tanto, si sente o si legge nel giornale che qualche cosa è stata rubala. Ma sono fatti che paiono strani a tutti. — Io posso essermi ingannato, so quanto è difficile giudicare un paese; non voglio qui dare giudizii, ma solo riferire le mie impressioni. È certo, però, che feci quella lunga passeggiata come in un sogno. Le impressioni ricevute nei giorni precedenti s'erano accumulate, e pei discorsi ingenui della guida si ridestavano per modo, che io non potevo in alcuna maniera essere commosso dalla maestà della natura che mi circondava.

Sono per indole un interrogatore pertinace, e quantunque capissi appena il dialetto tirolese, pure domandavo e ridomandavo, per voler esser ben sicuro delle risposte. Due conclusioni riportai assai chiare da quel viaggio: che m'ero trovato in mezzo ad un popolo veramente onesto, é che questa onestà non nasce tanto da un privilegio della razza, e molto meno da qualità superiori d'intelligenza, quanto dall'essere il paese popolato tutto da contadini proprietarii. Essi si sentono felici tra i loro monti e nella loro vita semplice, ma comparativamente agiata. Alloggiano bene e si cibano bene; il vino e la carne non mancano mai; non vi sono poveri,  né v'è grande differenza di fortuna. La moglie d'un agiato contadino mi diceva: — Da voi in Italia deve essere, per chi possiede, molto triste (Es muss sehr traurig sein) vedersi accanto coloro che mancano di tutto. — Ma gli uomini erano più franchi ancora, e quando parlavano dei contadini italiani, che essi conoscono, perché molli di loro vengono in Lombardia, e tutti vanno nel Trentino, dicevano sempre: — Colà sono schiavi del padrone, e non hanno per cibo che la polenta. È impossibile che non vi sieno ladri! — Tutto pieno di questi pensieri, che l'aria libera di quei monti pareva rendesse insistenti e tormentosi, presi la diligenza e m'avviai verso l'Engadina. A un tratto saltarono dentro due viaggiatori tedeschi, che da Coirà, facendo la via Mala, erano scesi in Italia a piedi, e, traversata la Valtellina, tornavano nella Svizzera. — Conoscevate l'Italia? — No. — Che impressione v'ha fatto? — Dolorosa.


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Un clima bellissimo, un cielo incantevole, paesaggi stupendi; ma non c' è mai seguito di vedere tanta miseria nei contadini. Vivono male, alloggiano male, si cibano orribilmente. Non è descrivibile. Il cuore si apre, il respiro sembra uscire più libero, appena che si passa il confine svizzero, e si rivedono il benessere e l'agiatezza degli uomini. Es lebe die Freiheit. Viva la libertà! — Ma noi siamo liberi, io dissi. — Voi si, ma essi sono schiavi. —

E che potevo rispondere? Quello che io sapeva sullo stato delle popolazioni agrarie in molte parti d'Italia, dava piena ragione ai viaggiatori tedeschi,l’Abbiamo dovuto spesso raccapricciare,scrive l'onorevole Jacini,  La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia. Studii economici di Stefano Jacini. Seconda edizione, Milano e Verona, 866.  «nel vedere l'acqua sorgere dai pavimenti nelle povere stanze abitate, ed i coltivatori sparuti uscire nei campi in cerca di rane j che costituiscono uno dei loro cibi più sostanziosi,e le risaie giungere fino alle finestre delle case. Non  è da far maraviglia se le febbri intermittenti mietono tante vittime in questa regione (la bassa Lombardia fra il Ticino e l'Adda); la vasta coltivazione ha permesso la coesistenza di due fatti che sarebbe impossibile nella piccola coltivazione: magnifica produzione e povertà dei coltivatori...

Riesce assai singolare di dover riconoscere che nelle vicinanze  della ricca, della colta, della benefica Milano vivono i più poveri contadini della Lombardia.» (Pag. 265.) E dei giornalieri che s'incontrano nelle vaste praterie della stessa regione, egli dice:

«Col loro meschino salario in danaro, miserabile cibo e squallido alloggio, portano dipinta la povertà sui volti sparuti, e fanno raccapricciare ogni anima bennata.» (Pag. 262.) Queste cose erano vere nel 1856 e sono verissime oggi, perché la nostra gloriosa rivoluzione non ha avuto tempo di pensare a questi piccoli problemi. Il contadino delle più fertili e ricche terre dell'Italia libera è ancora costretto dalla miseria a cercare ranocchi. So bene che non tutta la Lombardia è in queste condizioni, e che vi sono pure molti contadini assai agiati. Ma è pur vero che grande è il numero di coloro i quali non mangiano la carne che il Natale, la Pasqua, e forse qualche altra solennità,  né bevono mai il vino delle fertili vigne che coltivano. Per alcuni anche la polenta è un cibo di lusso. La pellagra, che fa stragi orribili fra i contadini lombardi, s'attribuisce al pessimo cibo. I furti campestri, numerosi tanto da far riguardare in alcuni luoghi certi prodotti come perduti per metà, sono conseguenza di questa medesima miseria. Ed il proprietario, che pure è generalmente benefico ed umano, abusa qualche volta del suo potere e del suo arbitrio sul povero contadino, in modo da ridurlo volontariamente ad una cosi disperata miseria, da far dire allo stesso Jacini: «È una tale iniquità che la sola giustizia umana non basterebbe a punirla.» (Pag. 197.) Ed invece la legge, anche in questi casi, sostiene il padrone, ed abbandona il contadino, a cui, quando l'annata è trista, vengono sequestrati perfino i mobili, e se invece la fortuna l'aiuta per. più anni, i patti già gravosi divengono più gravi ancora.

Che se uno mi venisse a dimostrare, come in Lombardia vi sono molte forme di contratto fra padrone e contadino, e che se in un luogo il piccolo affitto in danaro, condannato da tutti gli economisti, riduce il contadino alla miseria, in un altro della medesima natura e della stessa forma di coltura, altri contratti, e fra questi la mezzerìa, lo mantengono assai più agiato, contento e morale; io gli risponderei che questo prova una cosa sola. Prova che l’esperienza, fatta sulle nostre medesime terre, ci addita chiaramente la via da seguire per levare o diminuire queste vergogne, e che noi immaginiamo difficoltà insuperabili là dove non sono, per non metter mano al rimedio.

E se ciò avviene in Lombardia, che cosa deve seguire nelle Province meridionali, dove appunto il piccolo affitto in danaro, che produce i mali maggiori all'agricoltura e all’agricoltore, è la regola più generale; dove l'arbitrio del padrone non ha limiti; dove la classe media, nella stessa Napoli, adopera qualche volta il bastone contro la plebe? Può immaginarlo ognuno, può vederlo chiunque percorre anche rapidamente quelle province, dallo stato dell'agricoltura e dall'abbiezione in cui è ridotta la creatura umana. Io rammento con orrore la miseria che vidi nella mia infanzia, e che ora non è punto scemata. Il brigantaggio è una conseguenza necessaria di] questo stato di cose, e non sarà mai spento  né dal carabiniere  né dalle fucilazioni, se la legge non viene a proteggere i milioni di schiavi bianchi. Un Calabrese mi diceva: — Fra di noi, un atto di severa giustizia in difesa del contadino oppresso ha fatto qualche volta, pel Governo italiano, una propaganda maggiore che non farebbero dieci Statuti e dieci strade ferrate.

I nostri contadini non immaginano neppure che nel mondo esistano Governi per tutelare anche i loro diritti. — Pochi anni sono ricevei una lettera da una signora di Napoli, che aveva dovuto fare un viaggio precipitoso in Calabria, e mi descriveva ingenuamente le sue impressioni. Era una madre che aveva mandato colà sua figlia, giovanetta di diciannove anni, consumata da un male lento e ignoto, e che altra volta era stata da quell'aria guarita. Ora, invece, dopo qualche mese, un telegramma chiamava in fretta la madre ad assistere la figlia moribonda. E parti. Era ancora lontana varie miglia dal piccolo paese, quando fu avvertita da gente pratica del luogo che bisognava farsi accompagnare da venti uomini armati, perché la campagna era infestata dai briganti. Si fissò il prezzo, e si continuò il cammino. — In mezzo a quella gente, ella diceva, in una condizione tanto nuova per me, mi sentivo oppressa dal pensiero di trovarmi in una terra cosi inospitale e barbara, da esservi bisogno di tanti armati per difendere una madre che cercava la figlia. E mi pentii amaramente d'averla mandata a morire in mezzo ad uomini cosi poco umani. — Entrata finalmente nel paese, la sua impressione fu d'una tristezza assai diversa. — Avevo vista la miseria che opprime la plebe di Napoli, sapevo che in Calabria v'era allora carestia; ma ciò che io vidi passò ogni immaginazione. Le faccie sparute erano tali, che i poeti ed i pittori non potrebbero descriverle. Ma quello che non uscirà mai più dalla mia memoria, si è l'avere visto gruppi di uomini e di donne sotto le case, aspettando che s'aprisse una finestra, e si gettassero nella viale buccie delle frutta, che essi divoravano con un'avidità indicibile.

Mangiavano tutta la buccia del popone e del cocomero come un cibo delizioso. Ed in questo modo si tenevano in vita. Io allora mi maravigliai che quella gente non avesse assalito la mia carrozza, per levarmi tutto quello che avevo. Sentii per essi una pietà infinita, e per la prima volta in mia vita capii che i briganti possono anch'essi meritare più compassione che odio. —

E la scena mutò di nuovo, quando la madre fu presso alla figlia. Si può immaginare che cosa sia una giovanetta, educata da genitori culli ed affettuosi, dotata dalla natura d'un animo angelico, che nel fiore degli anni lentamente si avvicina alla morte. In queste malattie ed in quella età si vede spesso che le doti più nobili dello spirito si vanno sempre esaltando, ed il linguaggio sembra ispirato a pensieri sovrumani. Ella non voleva accostare le labbra impallidite alla tazza del brodo, se prima non le assicuravano che un' altra tazza era stata portata ad una povera vecchia, che viveva sola in un tugurio del palazzo, istupidita dagli anni e dalla miseria. Quando la sete la bruciava, non ci era verso di farle prendere il ghiaccio che aveva chiesto, se prima non le assicuravano che una parte era già stata data alla piccola contadina colla quale aveva passeggiato pei campi, e che ora giaceva in una stalla, sulla paglia, assalita dal tifo. Domandava e ridomandava, volgendo alla madre gli occhi già divenuti vitrei, come per cercare il vero; e se dubitava d'essere ingannata, piangeva ed allontanava il ghiaccio.

È inutile provarsi a dire che cosa sentisse la madre. Ma la notizia di questi atti pietosi s'era divulgata con una grande rapidità fra quei contadini, gli aveva talmente commossi, che quella malattia era divenuta come una pubblica calamità pel paese. Si udivano quegli uomini sparuti ed oppressi dalla fame chiedere l'uno all'altro per le vie: Come sta la Signorina? Una folla era sempre alla porta del palazzo per chiederne notizie. Già nella loro immaginazione esaltata la Signorina era divenuta la Santa. E quando si fecero i funerali per accompagnare il cadavere ad una chiesetta fuori dell’abitalo, tutto intero il paese l'accompagnò con urli e pianti dirotti. — Io mi trovai, continuava la lettera, in mezzo ad una folla immensa di gente abbandonata ad un dolore senza confini. Vidi le donne che si strappavano i capelli, gli uomini che si rotolavano per terra come selvaggi inebbriati, e non sapevo io stessa se sarei restata in questo mondo, o sarei scesa nella tomba con mia figlia.   Dopo qualche anno la stessa signora mi scrisse: — Sono tornata in Calabria a visitare la tomba di mia figlia, e l’ho trovata sparsa di fiori che quei contadini vi portano di continuo. — — Perché facevano tutto questo? Avevano finalmente una volta trovato pietà. Ed era quello di cui avevano bisogno. Che miracoli non potrebbe fare chi sapesse parlare direttamente al cuore di questo popolo?

Cito un altro esempio, meno pietoso, ma non meno utile, se ii lettore vorrà considerarlo in tutti i suoi particolari. Chi non conosce quei poveri giovanetti italiani, maschi e femmine, che percorrono il mondo, cantando, sonando, accattando?

Sono venduti dai loro genitori a quei padroni che usano, come dicono i giornali, far la tratta degli schiavi bianchi, e li fanno dormire sulla nuda terra; li bastonano; li prendono a calci, se la sera non portano loro la somma fissata, e dànno loro da mangiare solo tanto che possano continuare ad accattare. Nella Camera e nel Senato si levarono nobili proteste contro questi orrori; ii Governo promise una legge, e chiese informazioni ai Consoli. Questi, nelle loro risposte, rivelarono subito un'iliade nuova di vergogne italiane sparse pel mondo. Molte circolari sono partite, ordinando di prendere e rimandare a casa i bambini, punire i padroni. Ma a che cosa si riesce con ciò? Quei fatti dimostrano che in alcune parti d'Italia la miseria, accumulata per molte generazioni, ha distrutto i legami di famiglia, ed ha abbrutito le popolazioni. Rimandando a casa i bambini che furono venduti dai loro genitori, questi non li tratteranno meglio per ciò. Qualche volta anzi è il padre stesso che li porta in giro pel mondo, e li bastona. Il male non sarà distrutto nella sua radice, e piglierà altra forma. Non sarebbe forse meglio andarlo a studiare nella sua sede e prevenirlo, tanto più che esso trovasi concentrato in alcune parti d'alcune province solamente? Andando, per esempio, nella Basilicata, a Viggiano, donde escono ogni anno queste emigrazioni, non potrebbero la carità d’istruzione,

alleate fra loro, provarsi a spegnere il male?     Com'è noto, una legge fu votata dal Parlamento appunto per ricondurre in Italia i fanciulli vaganti, e punire i padroni. Ma questa legge filantropica, dovuta all'iniziativa del deputato Guerzoni, non potè, per le ragioni qui sopra esposte, dar finora grandi resultati. L'Inghilterra con mezzi più efficaci si pose all’opera, e già comincia a riuscir davvero a mandare a scuola, o cacciar da) Regno Unito i nostri fanciulli vaganti. Una notizia assai precisa di quanto fu fatto a questo proposito e dei tormenti davvero strazianti cui sono sottoposti i miseri fanciulli, venne pubblicata nella Nuova Antologia del febbraio di questo anno, dal signor Catalani, addetto alla Legazione italiana in Londra. (Vedi anche la Rassegna Settimanale, del 40 marzo 1878, pag. 467) I fanciulli vaganti saranno cosi esclusi dall’Inghilterra, ma andranno altrove. Il mondo è grande, e vi sarà sempre luogo per la loro schiavitù, se in Italia non si estirpa il male dalla radice.  Io non propongo esperimenti nuovi, non faccio discorsi in aria. Citerò quello che in America ha fatto un Italiano con Italiani, ed il resultato che ne ha ottenuto.

Una Società filantropica, istituita in Nuova York per aiutare i fanciulli poveri, dette incarico al signor A. E. Cerqua, patriotta italiano, ricoverato colà, di visitare nel più povero quartiere della città, chiamato Five Points, i molti Italiani che vi sono, e vedere che cosa poteva farsi per soccorrerli. Egli si mise all'opera con ardore, ed in una Relazione, che fu pubblicata, rese ufficialmente conto del suo operato. Trovò una popolazione che già il signor Brace, membro della stessa Società, aveva dichiarata la più sudicia del mondo. — Nella medesima stanza, questi aveva scritto, ho visto ammucchiati uomini, donne, bambini, scimmie, arpe, organetti, statuette di gesso, con un fetore orribile. Riconobbi le faccie di coloro che la mattina incontravo per la città, vendendo fiori, lustrando scarpe, sonando, accattando.

La loro fisonomia era cosi degradata, ed aveva perduto i caratteri nazionali a segno tale, che si distingueva appena dal celtico tipo dei più poveri Irlandesi.

Solo un occhio più languido e lucente tradiva ancora la loro origine. — Ed il signor Cerqua, fatta la sua ispezione, trovò che vi erano circa 1500 Italiani, Liguri la più parte. Per mancanza di lavoro nelle loro campagne, avevano abbandonato la nativa provincia, e saputo che l’organetto rendeva altrove più che la vanga in Italia, avevano cominciato ad andare di città in città, e molti traversarono poi l'Atlantico. I più piccoli erano inviali a Nuova York da un ufficio stabilito in Parigi, che li vendeva ad un padrone, specie di furfante che li menava in giro pel mondo, guadagnando sulla loro miseria. — Se questi uomini avessero avuto inclinazione al delitto, cosi dice la Relazione, la carità americana gli avrebbe subito conosciuti ed aiutati. Il non avere questa poco invidiabile notorietà, li fece lungamente restare inosservati. —

Nel 1855 il signor Cerqua, dopo aver fatto molte visite alle famiglie, che lo ricevettero con indifferenza o con diffidenza, aprì una scuola che ebbe trenta alunni, di cui due solamente sapevano leggere un poco. E per tre anni dovette ripetere l'esperimento, vedendosi sempre, dopo i primi mesi, abbandonato. Non valsero i consigli, e neppure la distribuzione fatta d'abiti e di scarpe. Un prete italiano, per nome Rebiccio, dal pergamo e dal confessionale lo accusava di propaganda protestante; prometteva d'aprire esso una scuola accanto ad una nuova chiesa che voleva fondare.

E quando ebbe, in questo modo, raccolto molto danaro da quegl'infelici, se ne fuggi ad un tratto in Italia. E da quel momento la scuola del signor Cerqua cominciò a fiorire. Tuttavia le sue visite alle famiglie e le sue cure dovevano essere incessanti. A prima sera egli doveva spesso, accompagnato dai più fidi alunni, percorrere le vie dei Five Points, e prendere come disertori i più indolenti, che se ne stavano nei bigliardi a veder giocare. Altra volta dovette adoperarsi a proteggere un alunno che era dal padre bastonato a morte, se non portava ogni sera quattro lire a casa. Nè bastò che il signor Cerqua désse quello che mancava; perché il padre, saputolo, volle subito cinque lire invece di quattro, dicendo: Al Maestro non farà differenza. Ad ogni modo, nel 1867 la scuola aveva 228 alunni, e già nei varii anni di sua vita l’avevano frequentata 850. Il profitto era stato maraviglioso: tutti leggevano e scrivevano l'italiano e l'inglese, conoscevano le materie delle scuole elementari. Gl'Ispettori erano poi singolarmente maravigliati vedendo con quanto sano criterio e quanta cognizione quei giovanetti, pochi anni prima cosi abbrutiti, leggevano e discorrevano fra loro. Fra tutti gli 850 se n' erano trovati soli 40 che sapessero leggere un poco, prima di andare alla scuola.

Questa scuola però s'era proposto d istruire e Rieducare, quindi dovette superare mille difficoltà, prima delle quali fu quella di persuadere gli alunni a lavarsi il viso tutti i giorni, e non la sola domenica, come usavano. Ma la maggiore di tutte si trovò nel volerli persuadere a lasciare la vita vagabonda che facevano, suonando, lustrando scarpe, accattando.

Molti guadagnavano così fino a un dollaro (5 lire) per giorno, e però le famiglie non prestavano alcuna attenzione ai discorsi del signor Cerqua. — Io allora, così egli dice nella sua Relazione, concentrai i miei sforzi su tre famiglie meno renitenti, e potei persuaderle a mandare due giovanetti di circa quattordici anni in una stamperia, ed un altro della stessa età in un'officina Dopo due anni guadagnavano sei dollari per settimana, e d'allora in poi tutti vennero da me a cercar lavora. Una vera rivoluzione seguì subito nella Colonia, e nel 1867 quasi nessuno degli antichi residenti continuava più la vita del suonare e dell'accattare: il nome di suonatori o di pianisti era serbato con disprezzo ai nuovi arrivati dall’Italia. —

Il signor Cerqua dava poi una lunga lista degli alunni che si trovavano sparsi nei diversi Stati dell'America, guadagnandola vita con onesto e dignitosa lavoro; molti di essi avevano officine o negozii in proprio nome; altri erano tornati in Italia, migliorando la loro condizione. Anche le donne avevano trovato lavoro. Ed è ufficialmente constatato, egli diceva, che «in ogni caso, ovunque uno di questi alunni è stato impiegato, gì' Italiani sono preferiti.» Egli divenne l'agente generale della Colonia. — Il Maestro, dice la Relazione, deve essere il loro medico, legale, astronomo, banchiere; deve risolvere i litigi di famiglia, e concludere i loro matrimonii. Il bene che si può fare a questa gente, visitandola ed amandola, è immenso, e non si può prendere per termine di paragone il resultato che s'otterrebbe, in casi simili, con uomini d'altra nazionalità.

— Un giorno egli conversava con una vedova, il cui figlio scriveva una lettera al padre di lei. Le rammentò allora i vantaggi della scuola, e la freddezza con cui aveva la prima volta ricevuto i suoi consigli. — Caro Maestro, ella gli rispose, non avendo mai ricevuto alcun bene da nessuno, ma molte ingiurie, noi non potevamo capire che ad un tratto fossimo divenuti degni di tanta bontà. Noi eravamo usati a ricevere duri trattamenti da tutti; non avevamo alcun amico; anche i nostri concittadini in migliore condizione ci disprezzavano, e, per dirle il vero, noi avevamo già' fissato nella mente che troveremmo carità solo nell'altro mondo.    The Dangerous classes of New York, any twenty years work among them, by Charles Loring Brace. Chap. XVII: The little Italian organ-grinders. New York, 1872.  — Ed ora, io chiedo al lettore: Sono queste teorìe o sono fatti? Non è un delitto lasciare in cosi grande abbiezione un popolo che, in tanti modi, ci fa capire che basta la pietà a rigenerarlo?

Potrei citare molti tentativi simili fatti in Italia con lo stesso ardore, con la stessa perseveranza, e che ottennero i medesimi resultati. Ricorderò solo il giovane Alfonso Casanova di Napoli, il quale dedicò l'intera sua vita ad istruire ed educare fanciulli, dando poi loro un mestiere, e trovando per essi lavoro. Egli è morto quest'anno, pianto anche da quelli che non avevano le sue opinioni politiche,  né le sue opinioni religiose; perché vedevano in lui chi aveva capito i veri bisogni del popolo. L'Italia, del resto, è stata sempre il paese classico delle istituzioni di carità e di beneficenza; oggi deve ripigliare anche in questo le sue antiche tradizioni, adattandole ai mutati bisogni del tempo.

E per riuscire deve guardare le cose come sono, esaminare se stessa, non farsi alcuna illusione, non celare  né velare alcuna dura verità.

Il Quetelet, nella sua Fisica sociale, osserva che la statistica, con una costanza immutabile, dimostra come, nelle stesse condizioni d'una medesima società, i delitti si riproducono non solo in ugual numero, ma nello stesso modo, colle medesime armi, anche quelli che più sembrano prodotti dal caso e da un impeto istantaneo della passione. Questa legge è così costante, egli aggiunge, che, quando il numero dei delitti muta, si può, senza téma di errare, asserire che le condizioni sociali sono mutate. E sotto un certo aspetto si può dire, che è la società stessa quella che pone il coltello in mano all'assassino, e lo spinge al delitto. Se da un Iato questa verità è sconfortante, perché sembra limitare la libertà umana; dall'altro, invece, conforta assai, perché dimostra con uguale certezza che l'uomo può, migliorando le condizioni sociali, diminuire i delitti e crescere le virtù. Y'è quindi una grande, una tremenda responsabilità collettiva in tutto ciò che avviene nella società. Quando il brigante assassina per le vie; quando le madri vendono i figli; quando i padri li bastonano a morte, se non accattano, coloro che guardano e deplorano, non sospettano neppure che la responsabilità d'una parte di quei delitti tocca precisamente a loro stessi. Non vi ribellate contro queste logiche conclusioni della scienza. Quando uno straniero legge la tabella enorme dei delitti commessi in Italia, che cosa egli dice?

Il popolo italiano (pigliandolo in massa) non è ancora un popolo morale e civile. E se voi mi dite che egli ha torto, perché non distingue; allora io distinguo e vi dico che nell'ultima Statistica penale sta scritto, che i contadini dànno un condannato per ogni 419 individui; le professioni liberali, i commercianti, industriali, ec. , ne dànno uno per ogni 345 individui; i benestanti e proprietarii ne dànno uno per ogni 278, e i delitti dei contadini sono principalmente contro la proprietà, quelli dei benestanti sono principalmente contro le persone e contro il buon costume.   Sopra le Statistiche penali del Regno d'Italia. Studio di 6. Curcio: Firenze, Stamperia Reale, 1871. Vedi pagina 408 e seg.  Se dunque si deve stare a queste cifre pubblicate dal Governo, la classe agiata commette più delitti e di natura peggiore. Non si tratta più di sentimentalismo e di figure rettoriche; ma le cifre proverebbero matematicamente, che noi siamo una classe più criminosa del contadino che calpestiamo, disprezziamo e pretendiamo col nostro esempio di render più morale. Chi non ricorda con orrore quei processi seguiti, alcuni anni sono, nelle province già state sotto il Papa, dai quali, appariva perfino che gente di condizione civile faceva parte delle associazioni di malfattori; passava la mattina al caffè, e la notte assaliva la diligenza? E ciò prova ancora una volta quanto siano complessi i fatti sociali, e quanto sia fallace il cercare una sola cagione per spiegarli. Il contadino laborioso è spinto al male dall'estrema miseria, e chi potrebbe vivere assai meglio di lui, cede ad altri impulsi più funesti ancora. Le leggi di natura e le leggi sociali sono inesorabili; ma sono più giuste della nostra filosofia.

Lo schiavo è più innocente del suo padrone. Abbiamo creduto e sostenuto in faccia al mondo d'essere più onesti dei tiranni che ci opprimevano; possiamo noi pretendere d'essere più onesti di coloro che opprimiamo, solo perché essi non si ribellano?

Ma se dura la nostra indolenza, durerà questa loro pacifica sottomissione in eterno? Io ne dubito, quando osservo quello che oggi segue in Europa, tra i paesi che godono la libertà, ed hanno assai maggiore ricchezza e più cultura di noi. Vedo che la Germania sembrava il paese più tranquillo e sicuro dalle agitazioni degli operai, e, invece, dal 66 al 72, con la fortuna della guerra, con la nuova libertà, con una prodigiosa prosperità industriale e commerciale, coi milioni che da ogni parte affluiscono, l'agitazione degli operai non solo è cominciata, ma diviene ogni giorno più minacciosa, con una rapidità che maraviglia e tiene pensosi gli uomini più intelligenti del paese. I 250 economisti, politici, industriali, riuniti questo mese (ottobre) ad Eisenach, hanno dichiarato d'essere avversi al socialismo, al comunismo; di essere uomini moderati in politica, ma di essere grandemente impensieriti d'un nuovo conflitto di classi, che minaccia le società moderne, mettendo in pericolo la libertà. Presiedeva l'illustre professore Gneist di Berlino, ed il professore Schmoller di Bonn dichiarava nel Discorso d'apertura, che l'antagonismo delle classi in Germania cresce rapidamente.

— E senza ricordarvi, egli diceva, che la Grecia e Roma caddero per non aver saputo in tempo conciliare antagonismi simili a questo, si può affermare che il pericolo, quantunque ancora lontano, arriverà anche per noi, se non si provvede in tempo. Noi abbiamo bisogno, in ogni caso, di convincere le classi inferiori del nostro profondo desiderio di migliorare, la loro sorte, nei limiti del possibile. Tutto il Discorso è riportato nel Times del giorno   ottobre. Questo giornale ha mandalo ad Gisenach un corrispondente speciale, che ha inviato di là una serie di lettere importanti, con un sunto dei principali discorsi. La prima seduta durò nove ore, senza tener conto di due ore e mezzo impiegate nel desinare, durante il quale, dice l'autore delle lettere, vi fu altrettanto da sentire che da mangiare.

— So che molti scrivono, e s'affaticano a dimostrare anche in Germania, che una quistione sociale non esiste. Ma questa grande premura, che si manifesta a un tratto, per dimostrare che la questione non esiste, non mi lascia punto tranquillo. Vedi a questo proposito un lavoro del signor L. Bamberger pubblicato nell'Allgemeine Zeitung (6 ed 8 ottobre 1872) col titolo: Zeitstr Ómungen in der Wirthschaftslehre.  Ammiro invece quella scienza tedesca che studia profondamente la, questione, e dichiara dalla cattedra altamente che un nuovo problema economico è sorto e bisogna risolverlo, e che se le dottrine economiche già note non bastano a spiegare il fatto, è necessario far nuovo cammino e scoprire altre leggi. Questi economisti formano già una scuola assai numerosa, e cercano costituire un nuovo partito politico nel proprio paese. Gli avversarii han dato loro il nome di Socialisti della cattedra (Katheder Socialisten), che essi hanno accettato,

dichiarandosi però avversi così al socialismo come al comunismo.    Una chiara esposizione di queste dottrine e del come sono sorte, trovasi in un lavoro importante che il signor Adolfo Held pubblicò nei Preussische Jarbtfcher (agosto 1872) diretti da H. v. Treitschke e Wehrenpfennig. Il lavoro è intitolato: Ueber den gegcnviirttgen Principienstreit in der Nationalokonomie.  Ed ammiro ancora più la sapienza pratica della vecchia maestra di libertà, quando vedo che in Inghilterra non solo i fatti si studiano e non si negano; ma se nuovi interessi sorgono, nuove passioni si destano, invece d'affaticarsi a nasconderli o sopprimerli, si permette e si desidera che si manifestino: solamente si vuole che ciò segua in una forma legale. Invece di cercar nuove teorìe, si pigliano provvedimenti e si offrono a ciascuno i mezzi di lottare liberamente, entro i limiti consentiti, con una fede illimitata nei buoni resultati della vera libertà, con la profonda convinzione, che solo in questo modo le grandi istituzioni nascono spontaneamente come opere immortali della natura, e non come trovali ed opere artificiali dell'uomo. Così è avvenuto che le disposizioni già prese dall’Inghilterra sugli scioperi, e la istituzione degli arbitri per decidere le liti tra operai e capitalisti, sono state appunto le prime riforme che i professori di Eisenach proposero d'introdurre in Germania. La stampa più moderata usa in Inghilterra un linguaggio che a noi parrebbe sovversivo; ma che colà è giudicato prova d'un vero spirito conservatore. «Gli scioperi, i diceva giorni sono il Times (24 settembre), appariscono sull'orizzonte in ogni direzione, ed ogni volta che seguono, noi sentiamo parlare di concessioni che erano semplicemente giuste; ma che dovevano farsi prima di esser domandate.

In quasi tutti i commerci è stato istinto dei padroni il sacrificare l'operaio fino all'ultimo margine del possibile guadagno,ed è ormai ben tempo [it is high time) che questa  pratica sia considerata di nuovo ed abbandonata. I padroni dovrebbero ricordarsi che essi hanno doveri con coloro che impiegano, e dovrebbero persuadersi che gli operai sentono ora desiderii ed aspirazioni, che erano per lo innanzi ignoti alla loro classe. Questi desiderii possono ancora essere guidati e sorvegliati; ma non possono più essere repressi e soverchiati.» Da noi si direbbe che questo è un eccitare i tumulti, colà si crede che questo sia un conoscere i proprii tempi.

Ma anche qui mi si può fare una giusta e grave obbiezione. — A che serve arrovellarsi tanto? Dato e non concesso che in Germania ed in Inghilterra sia cominciata una questione sociale, essa certo non esiste fra noi, perché la nostra industria è ancora troppo debole, il nostro operaio è più docile e tranquillo. Se questo pericolo dovesse pur sorgere fra noi, ciò avverrebbe quando il problema, ancora oscuro per tutti, sarebbe stato risoluto dagli altri, e noi caveremmo allora profitto dall’esperienza altrui, senza agitare adesso gli spiriti. — Ciò potrebbe esser vero, e tuttavia non muterebbe per noi la questione. Guardiamo di nuovo i fatti. L' agitazione dell’operaio si tira dietro quella dei contadini, la quale in Inghilterra è già cominciata. È la prima osservazione che il conte di Beust ha fatta ne' suoi dispacci al Governo austriaco. — La questione, egli dice, è sorta, e, sebbene non sia ancora minacciosa, si può prevedere che tale diverrà presto.

— Già si vedono, infatti, i proprietarii discutere coi contadini, e dir loro: — Cacciamo di mezzo a noi gli agitatori estranei, ragioniamo e cerchiamo in comune una soluzione onesta e possibile al nuovo problema che si presenta. — In fondo, anche qui il proprietario non chiude gli occhi, non si tura le orecchie; ma riconosce che ha nuovi doveri da compiere, e si dichiara pronto a cercare il modo. È questa la più vera, la più nobile prova che le libertà inglesi hanno messo assai profonde radici nel suolo britannico. Nello scorso mese (11 settembre) Lord Napier apriva il Congresso delle Scienze sociali, e diceva nel suo Discorso presidenziale: — La distribuzione della proprietà in Inghilterra presenta la più grande contraddizione con le sue libertà politiche, e ripugna profondamente al senso della giustizia. In nessun paese si trovano tanti uomini che vivano sulla terra ad arbitrio dei loro padroni, senza protezione. Le leggi sulla proprietà debbono essere fra noi rivedute,, abolendo quelle che ne impediscono la divisione, promovendo quelle che ne facilitano l’acquisto al contadino ed all'operaio, istituendo autorità e regole che obblighino il proprietario alt adempimento de'  suoi doveri, e proteggano il contadino.   The Athenaeum, 44 sept.  —

Una nuova Associazione si è recentemente istituita, sotto la presidenza di J. S. Hill, che ne ha formulato il programma con intendimenti assai più radicali. Si dichiara in esso che le presenti leggi sulla proprietà ebbero origine in un'età troppo diversa, dalla nostra, ed hanno quindi bisogno d’essere affatto rivedute.

E nel paese del selfgovernment, della libera concorrenza, della iniziativa individuale, si propone dal suo primo economista che lo Stato richieda o acquisti la proprietà d'una gran parte del suolo inglese, per promuovere la piccola agricoltura, la piccola proprietà, e migliorare la condizione del contadino e dell’operaio. I mezzi che sono formulati nel programma, sarebbero tacciati da noi di vero e proprio comunismo.   Programm of the Land Tenure Association, with an exepla nalory statement, by John Stuart Mill. London, 1871.  Si dice, per esempio, che il valqre della terra va sempre crescendo, non solo in conseguenza del lavoro e del capitale adoperato, ma ancora in conseguenza dell'aumento di popolazione e della pubblica ricchezza, e guest'ultimo aumento appars tiene allo Stato, che deve rivendicarlo, per l'avvenire, con una imposta speciale sulle terre, acquistando, al prezzo corrente, quelle dei proprietarii, che preferissero venderle, piuttosto che pagare la nuova imposta. Io cito queste proposte d'uomini eminenti, solo come segni del tempo; non posso qui esporle più minutamente,  né discuterle; sono questioni che richiedono un assai largo e scientifico esame. È un fatto però che l'agitazione degli operai tira dietro a sè quella dei contadini. Ora se l'Italia può sperare di sopire la prima, per la debolezza della sua industria, deve pur riconoscere che, essendo essa un paese dove poco meno d'un terzo della popolazione è di agricoltori, se il fuoco s'appiccasse da questo lato, l’incendio potrebbe divenire spaventoso.

I moti poco fortunati degli operai potrebbero servire a trasmettere la scintilla, e allora i più miseri d'ogni condizione si commoverebbero tutti. Lo spirito di setta e di cospirazione, che non è ancora spento fra noi, respinto dal campo politico, troverebbe nelle questioni sociali un terreno fecondo per seminarvi idee sovversive. E se la lotta fra la Chiesa e lo Stato divenisse ancora più viva, il clero potrebbe trovare nel contadino un alleato potentissimo. In Germania il partito cattolico già tenta con una tale alleanza di sollevare le moltitudini. Se questo giorno arrivasse anche per noi, pagheremmo allora a ben caro prezzo tutte le colpe della nostra indolenza e della nostra imprevidenza.

Ma si può chiedere: — Perché mai deve arrivare per noi questo giorno? Stanno forse i contadini peggio di prima, non furono e non sono sempre tranquillissimi? Quali segni ci permettono di annunziare futuri danni? — Noi potremmo rispondere che le condizioni dell’Europa sono ora mutate, e possono dare stimolo ed eccitamento nuovo alle nostre plebi; che la persistenza del brigantaggio è una prova patente, che c' è fra di noi una questione sociale, e di pessima natura; che i primi segni degli scioperi sono seguiti quando nessuno gli aspettava; che la grande emigrazione manifestatasi improvvisamente in alcune province è un segno chiaro che già le popolazioni cominciano a cercare un modo qualunque per sfuggire alla miseria. Ma vogliamo piuttosto osservare che certi pericoli il dispotismo li sopprime, e la libertà li ridesta.

Abbiamo visto in Germania come la questione è sorta rapidissimamente, insieme con la nuova libertà e con la subita fortuna del paese. Il progresso risulta solo dal libero svolgimento di tutti gl'interessi, di tutte le passioni legittime che lottano fra loro. Le opportune e continue riforme pongono un argine a questo fiume impetuoso, che pur deve correre; e solo così può impedirsi che si cada, per troppo impeto, nell'anarchia, o si torni, per troppa inerzia, nel dispotismo. Senza dunque voler punto esagerare, si può dire che siamo in presenza di un grave problema. Una parte troppo grande della popolazione italiana è quasi abbrutita dalla miseria, dalla oppressione e dall’abbiezione in cui si trova. E questa medesima abiezione la mantiene tranquilla. Ma il suo stato presente costituisce una debolezza enorme pel paese. L'industria, l'agricoltura, il commercio non possono progredire; la ricchezza non aumenta come dovrebbe, e, quello che è più, lo stato intellettuale e morale del paese non si solleva: questa è una macine ai nostri piedi. Se un giorno noi fossimo trascinati in una guerra, la sorte delle battaglie dipenderebbe assai meno dal buono ordinamento militare, che dalla forza intellettuale e morale che avremmo saputa infondere nelle nostre campagne. Noi perciò siamo tutti concordi nel voler mutare questo stato di cose,, sentiamo ogni giorno più vivo il bisogno e il dovere di diffondere l'istruzione, ed apriamo le scuole; ma esse non giovano punto in mezzo ad un popolo, di cui una parte è cosi abbrutita, un' altra resta indifferente dinanzi a tanta miseria.

Se le cose persistono in questo stato, avremo fatto degli sforzi vani, e non vedremo mai trasformarsi il paese. E se, invece, aiutati dalla nostra persistenza e dalla naturale intelligenza del nostro popolo, riuscissimo pure ad istruirlo, senza, averlo educato, senza aver migliorato le sue condizioni; allora da un tale disequilibrio di forze morali, intellettuali e sociali, nascerebbero inesorabilmente i pericoli di cui abbiamo parlato. Ricordiamoci della storia di Roma, e vedremo che l'Italia non è nuova a questi pericoli; guardiamo agli Stati d'Europa, e vedremo che la società moderna non è libera da queste minacce. 0 noi dunque dobbiamo lasciare il popolo nella sua ignoranza, o, per istruirlo davvero, dobbiamo anche educarlo, e migliorare le sue condizioni economiche e sociali. Ed è in questo senso che io dico: la questione delle scuole è per noi anche una questione sociale.

Io comprendo la enorme difficoltà del problema; ma quando leggo quel che poterono fare nel passato secolo, per migliorare le città e le campagne, i Principi riformatori, aiutati dai nostri scrittori; quando ricordo che Pietro Leopoldo in poco tempo mutò le condizioni della Toscana, non capisco davvero, perché ad un popolo libero debba riuscire impossibile continuare l'opera già iniziata, e fare di più. Nella stessa Italia noi vediamo, accanto a popolazioni che vivono nell’abbiezione, altre che sono comparativamente agiate. E se abbiamo nel contado forme di contratto che opprimono l'agricoltore, e rovinano l'agricoltura, ne abbiamo pure altre (e fra queste citammo già la mezzerìa) che ci fanno vedere l'agricoltura pròspera ed il contadino agiato.

L'esperienza dell'enfiteusi, per creare la piccola proprietà, ha dato e dà i resultati che tutti conoscono. Dev'egli dunque essere impossibile chiedere al nostro medesimo paese i suggerimenti per ricominciare una riforma tanto necessaria, e chiedere alle nostre tradizioni stesse, alla scienza ed alla esperienza dei secoli, le cognizioni necessarie a continuarla e perfezionarla ancora di più? Una nuova legislazione rurale, una magistratura che tutelasse il contadino contro gli arbitrii del padrone, non furon chieste in Italia prima che in Inghilterra? Non le chiedeva per la Lombardia l'onorevole Jacini fin dal 1855, e non sono oggi necessarie quanto allora? Basta che si cominci a metter mano all'opera, riflettendo che se, nella soluzione degli ardui problemi economici e sociali, il cavare dalla terra e dall’industria il maggiore prodotto possibile è uno scopo essenziale, v'è pure un prodotto più prezioso di tutti, che si chiama tiomoy e che non bisogna dimenticare, come facemmo troppo spesso. Noi abbiamo la grande fortuna d'avere un popolo buono, docile, quieto. Se ci vedesse solo occupati seriamente a cercare il suo bene, e desiderarlo davvero, basterebbe ciò a sollevarlo, a darci un' immensa autorità morale sopra di esso, ed a difendere la nostra società dagli assalti di pericolose idee, che una propaganda assai attiva già diffuse altrove e cerca diffondere fra noi, con vane speranze e più vane promesse.

Ed ora concludo. Io non ho voluto negare l'importanza delle riforme scolastiche, che credo anzi grandissima ed urgente. Dico solo che il Governo deve mirare ad un sistema scolastico, che stia innanzi a tutto in armonia con se stesso, e non si contraddica nelle sue varie parti.

Questo sistema deve anche essere in armonia coi bisogni del paese, e mutare con essi. Ma aggiungo che una vera e proficua riforma della istruzione non sarà possibile, fino a che essa non diverrà una parte integrante del programma di tutto un Ministero; fino a che non se ne farà, come si dice, una questione ministeriale; fino a che tutti i Ministri non saranno persuasi che, nelle loro varie leggi, nessuno può del tutto perdere di vista questo scopo. Io vedo che la legge sulla istruzione quasi obbligatoria, che gl'Inglesi, dopo averla tanto combattuta, hanno adottata, è venuta in conseguenza della riforma elettorale, ed ambedue hanno reso sempre più necessario il migliorare la condizione dell’operaio e del contadino, di che ora si occupano tutti. Ricordo che quando a Berlino, non ha guari, si discusse la riforma dell'esercito prussiano, vi fu una tempestosa discussione, quasi una vera battaglia parlamentare, solamente perché si disputavano le conseguenze che avrebbe potuto portare nella cultura del paese il tenere gli uomini in caserma un anno di più o di meno. Chi oserebbe fare da noi una tale osservazione al Ministro della guerra, e chi piglierebbe sul serio una tal questione? Noi andiamo ricostituendo le finanze del paese, votiamo leggi sopra leggi, imposte sopra imposte, senza mai chiedere a noi stessi, se una imposta invece di un'altra può essere più dannosa alle condizioni economiche, intellettuali e morali del popolo. Per noi è stata solo questione di entrata ed uscita; il pareggio finanziario ci ha sempre fatto dimenticare il pareggio morale.

Tutto il vasto ed immenso problema della istruzione e della educazione morale dv un popolo uscito appena da una schiavitù secolare ci è sembrato un problema tecnico da affidarsi ad un uomo speciale, e da lasciarlo risolvere solo a lui. E così il Ministro della Pubblica Istruzione rende immagine d'un moscone chiuso sotto una campana di cristallo, che crede di far gran cammino, perché si agita molto. Egli deve, in questa posizione, cercare la nuova legge che non si trova mai, e quando crede d'esservi riuscito, s'accorge subito che essa lascia il tempo che trova. Il suo officio è ogni giorno meno considerato, e le sue cure incessanti ottengono il resultato stesso che ottiene più d'un professore d'italiano nei nostri Licei, il quale, dopo essersi dato gran pena a correggere lo stile de'  suoi alunni, s'accorge che i colleghi pensano a sciuparlo, non potendosi occupare di ciò che non è la loro materia.

Ma perché si muova una volta il Governo, bisogna che cominci a muoversi il paese; giacché nel Governo costituzionale il Ministero segue la pubblica opinione, e le leggi sono fatte dalla rappresentanza nazionale. Bisogna che la classe agiata e intelligente cominci a sentire fortemente, che ii suo primo dovere è di dare non solo l'alfabeto ed il pallottoliere al povero lazzarone ed al contadino; ma un tetto, ma l'aria pura e la luce, un tozzo di pane, un mestiere. E più di tutto bisogna che dimostri di volere con amore occuparsi di loro, e li sollevi da quella miseria che gli opprime, da quel pensiero di cui parlava la povera vedova di Nuova York:

— Ci eravamo persuasi che nessuno pensasse a noi, e che avremmo trovata carità solo nell'altro mondo. — L'occuparsi di questo problema avrebbe sul paese intero, e principalmente su di noi stessi, un effetto intellettuale e morale più benefico d’ogni riforma scolastica. Il bene giova più a chi lo fa che a chi lo riceve. Il bisogno di studiare le vere condizioni delia nostrà società ci condurrebbe all’esame d'un numero infinito di problemi economici, sociali, morali, intellettuali; ci condurrebbe a tentare mille esperimenti che solo i privati possono iniziare, perché v'è bisogno di un'azione diretta dell'uomo sull'uomo, perché la vera carità non può essere l'opera d'un ente impersonale come lo Stato, il quale può seguire i dettami sicuri dell’esperienza e della scienza, ma non può darsi a fare quegli esperimenti che pur sono necessarii a trovarli. Questo studio promosso dallo stimolo sempre potente del bene ci farebbe, io credo, ritrovare nella nativa forza del genio italiano quella originalità che il voler sempre imitare ci ha fatta smarrire, ma non perdere le più grandi scoperte, i più grandi genii sono nati spesso da questo ardore del bene; sorgono quando sono divenuti necessarii, quando il mondo ne ha bisogno, ed il nostro bisogno è ora grandissimo e sentito da tutti.

Io non m'illudo a segno da credere che in Italia i privati possano fare le veci del Governo, o che questo, una volta sospinto da noi, non troverebbe difficoltà enormi se volesse proporre una serie di leggi, che portassero una generale riforma nel paese. La redenzione d’un popolo è stata sempre un' opera lunga, difficile, non senza pericoli.

L'egoismo ignorante, sostenuto dai pregiudizii di teorie decrepite, farebbe una guerra atroce, perché i sacrifizii non piacciono a molti. Ma se l'ora dei sacrifizii non incomincia, quella della vera libertà non può sonare. Potremmo avere di essa solo un' ombra effimera e fittizia: le leggi, i codici, i regolamenti, tutto quello che si scrive sulla carta, nulla di ciò che è nello spirito, e che solo può redimere. E saremmo sempre a chiedere: Perché ancora restiamo immutabili, dopo aver tutto mutato? Ma io ho fede grandissima nei destini del nostro paese. La società e la scienza si commuovono intorno a noi; nuovi pericoli appariscono, sebbene ancora lontani, sull’orizzonte; ed il buon senso pratico non è mai mancato agl'Italiani, spesso anzi, quando più sembràva sopito, s'è destato a un tratto, per fare miracoli da maravigliare il mondo. La speranza quindi deve essere tanto maggiore, quanto più s'avvicina e stringe il bisogno. Ed a chi chiede ogni giorno con premura crescente: Che si può fare per meglio istruire ed educare il popolo, per renderlo più morale? possiamo, senza esitare, rispondere: Noi abbiamo un gran dovere da compiere verso questo popolo. Compiamolo. La morale s insegna coi fatti e non con le parole.


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APPENDICE.

Lo scritto che precede, appena pubblicato nella Nuova Antologia, suscitò una polemica, quasi unicamente su quella parte assai secondaria di esso, che accennava agl'Istituti tecnici. Una prima risposta comparve nella stessa Nuova Antologia, ed era del mio amico carissimo l'onorevole Luzzatti, allora Segretario Generale del Ministero di Agricoltura e Commercio, il quale m'indirizzava una lettera dotta ed eloquente. Seguirono poi nei giornali quotidiani altre lettere ed articoli di professori, d'impiegati, di deputati in gran numero. Io non volevo rispondere, perché gì' Istituti tecnici non erano l'argomento principale del mio scritto, e però mi contentai di farne una nuova edizione, senza nulla alterarvi. Ma la polemica continuò tanto, che dovetti pubblicare nella Gazzetta d'Italia del 20 e 23 gennaio 1873 le due lettere di risposta, che qui sotto riproduco solamente perché necessarie a meglio chiarire le idee che avevo allora esposte, e perché ora si agita di nuovo la questione degl'Istituti tecnici. Certo non vorrei rinnovare e neppure ricordare un momentaneo dissenso avuto col l'onorevole Luzzatti, dissenso che fini subito in un accordo assai più intimo di prima.

I.

Onorev. sig. Direttore

Firenze,  13 gennaio.

La pubblicazione nella Nuova Antologia d'un mio articolo, intitolato: La Scuola e la questione sociale in Italia, provocò, nella stessa Rivista, una lettera del Segretario Generale Luzzatti, il quale si fermava ad alcune osservazioni che, per incidenza, facevo sugl'Istituti tecnici, e cercava con molta eloquenza combatterle. Io dichiarai di tener ferme le mie idee, e di non voler entrare in una polemica, molto meno poi con un amico carissimo come il Luzzatti, e sopra un argomento secondario per lo scopo del mio scritto. Ma quella lettera è divenuta subito la sorgente di molti articoli di giornali, i quali, dopo avermi fatto cortesi elogi, ripetono le stesse accuse, quasi colle stesse parole, e aggiungono che io sono stato inesatto, esagerato in ciò che ho detto sugl'Istituti tecnici, e che ho cercato col lenocinio dello stile di far passare per vere, cose che tali propriamente non sono. Ho taciuto finora, perché mi doleva di molto vedere che uno scritto destinato a perorare la causa di coloro che vivono, nella propria patria, sforniti di tutto, o emigrano in America a dare funesto spettacolo della loro miseria, sollevasse, invece, una polemica sugl'Istituti tecnici. Nè ciò bastando, si lasciava da parte la questione sostanziale, che su quegl'Istituti io avevo accennata, per fermarsi ai programmi o ad altre cose d'una importanza men che secondaria. E quel che è peggio ancora, neppure questa disputa era trattata dai giornali come una questione di pubblico interesse; ma solo come una questione Villari-Luzzatti.

Queste considerazioni ed anche una leggiera indisposizione mi fecero sinora restare in silenzio; ma le stesse accuse si sono con tanta insistenza ripetute, che il tacere adesso sarebbe un darsi per vinto. Uno che, bene o male, assume l'ufficio di scrittore, deve essere apparecchiato a vedere criticate e combattute le proprie idee. Se però accetta l'accusa d'avere esagerato o alterato i fatti che deve conoscere con esattezza, e di servirsi dello stile, non per mettere in evidenza il vero, ma per alterarlo, egli perde ogni diritto d’essere letto dalla gente seria e di buona fede. Mi è forza, dunque, ritornare sull'argomento. Cercherò di sopprimere ogni personalità, e di ricondurre la disputa alla questione principale sugl'Istituti tecnici; ma debbo pure rispondere alle accuse, almeno a quelle con maggiore insistenza e con maggiore apparenza di verità ripetute. Voglio però premettere un'osservazione. Nel mio scritto io parlavo di tutto il nostro sistema scolastico, e le mie critiche su di esso erano generalissime. La disputa si è ora, non per mia colpa, concentrata solo sugl'Istituti tecnici. Nel seguirla su questo terreno, dichiaro che non disconosco le utili riforme iniziate dal Ministero di Agricoltura; le mie parole erano e sono dirette non ad avversarle, ma a secondarle ed a far toccare una mèta, dalla quale credo che siamo ancora lontani in tutte le nostre scuole. E quanto al commendatore Luzzatti, io son certo che la fine di questa polemica proverà, che noi siamo interamente d'accordo sul fine cui vogliamo arrivare; differiamo solo sulla efficacia di alcuni mezzi da adoperare. Vengo ora alle accuse.

— Voi biasimate l'insegnamento del disegno, perché troppo speciale, perché troppo poco generale; condannate perciò i nuovi programmi, e vi fate forte dell'autorità del professor Colombo, quello stesso professor Colombo che fu dal Governo chiamato a formulare i nuovi programmi; e le cui idee vennero nell’ultima riforma adottate. — Questa è l'accusa, quali sono i fatti?

Il professore Colombo, esaminando i lavori degli alunni, aveva scritto:

«Il disegno è generalmente insegnato senza metodo, senza una base scientifica, senza un concetto direttivo preciso, definitivo, uniforme. Non si ha in generale l'idea netta di ciò che il disegno debba essere in un istituto industriale. Questo insegnamento bisogna riformarlo, dirò meglio, bisogna crearlo di pianta nella maggior parte degl'Istituti tecnici del Regno...    Gli Istituti tecnici in Italia: Firenze, 4869 (Pubblicazione del Ministero di Agricoltura e Commercio), pag. 497-98. a Ibidem, pag. 242. Si arriva quasi ad invadere coi corsi speciali l'insegnamento primario.»     Insegnamento generale secondo il prof. Colombo (tre anni): «Ornato dal rilievo, fogliami e fiori, elementi di figura, geometria descrittiva, prospettiva e ombre.» E che rimedii egli proponeva a questo stato deplorabile di cose? Una riforma del corpo insegnante per mezzo d'una grande Scuola normale superiore di disegno, e nuovi programmi d'insegnamento che egli stesso formulava nella sua Relazione.

Che cosa si è fatto finora? La riforma del corpo insegnante non è cominciata; la Scuola normale non esiste, ed è ardua impresa, ma è anche la parte sostanziale nelle proposte del professor Colombo. Non dubito che il Ministero ci pensi e che ci porrà mano: ma io parlo dello stato presente.

I programmi vennero riformati, ed io dicevo infatti: Il Ministero ha riformato i programmi, migliorandoli in molte parti. Non è vero però che in essi sieno state adottate tutte le idee del professor Colombo. Egli proponeva un corso di cinque o sei, non di quattro anni come quello che abbiamo ora negl'Istituti. Dopo una riforma delle scuole tecniche, egli voleva un triennio pel disegno generale, e due o tre anni per lo speciale, e di tutto il corso proponeva i programmi, i quali in più parti differiscono e non poco da quelli che furono adottati e che sono in vigore, come si può vedere nella nota in cui si riportano.   Programma in vigore. Primo biennio (Sezione generale). Anno I: — «Disegno di fogliami e fiorami, di vasi semplici, di sagome ornate, di balaustri, ec., copiati in semplice contorno da modelli del professore o da stampe, e riprodotti a memoria.

Disegno in contorno di combinazioni geometriche ornamentali, come rosoni, fregi ed intrecciamenti simmetrici, copiate da modelli e riprodotte a memoria.»

Anno II: — «Disegno ombreggiato da modelli del professore, o litografati, consistente in fogliami, vasi, ornati, mensole, capitelli, ec. , con esercizii di memoria a contorno semplice.

Disegni dello stesso genere, cavati da motivi forniti dal professore o ritratti da modelli in rilievo.

Elementi di composizione, in semplice contorno.» Composizione elementare alla lavagna.» Pel secondo biennio le differenze non sono minori. Chi legge la Relazione del prof. Colombo, e la paragona coi programmi adottati, s'avvede subito che le massime proposte non furono sempre seguite, e le divergenze sono qualche volta rilevanti.  

Da ciò risulta chiaro, che  né io ho biasimato le idee del professor Colombo dopo averle Iodate, e neppure ho taciuto che i nuovi programmi sono migliori degli antichi. È certo però che, se anch'essi fossero ottimi, la riforma resterebbe inefficace senza la nuova Scuola normale superiore.

Io ho fatto alcune critiche ai programmi d'italiano, e mi vi sono fermato tanto più, in quanto vedevo in questi seguito un principio assai diverso da quello raccomandato dal professor Colombo nei programmi del disegno, ed in parte adottato. Ho detto: Voi cercate non l'insegnamento della letteratura italiana, largamente inteso, per dare una cultura generale, ed elevare la mente; ma volete un italiano speciale, pratico, tecnico, di affari. E mi si è risposto che anche qui mi allontanavo assolutamente dal vero. «Colla riforma cominciata nel 69 e compiuta nel 71, si sono moltiplicati i professori d'italiano e le ore di lezione. All'insegnamento dell’italiano, che prima era dato in due ore la settimana, furono assegnate sei ore settimanali nel biennio comune, e cinque nei corsi speciali.»

Ma la questione che facevo e che faccio, non è già di ore d'insegnamento o di numero di professori, ma di metodo. Se è vero che si cerca un italiano speciale, può bene insegnarsi sei o anche sedici ore la settimana. Messa nei suoi veri termini l'accusa, vediamo se è poi fondata.

Io vedo che nei programmi si dànno gli elenchi degli autori che d'obbligo si debbono studiare negl'Istituti tecnici. Cominciano quasi tutti dal secolo decimosesto o decimosettimo, e, ad eccezione di «qualche canto della Divina Commedia,non si trova espressamente nominato un solo poeta o prosatore del Trecento. Si dànno gli elenchi degli argomenti che si debbono, a preferenza, trattare dagli alunni nei loro scritti, ed eccoli qui copiati: «Descrizione di fenomeni naturali, di paesi, di strumenti scientifici, di macchine; narrazioni di viaggi; biografie di scienziati o artefici; applicazioni di principii morali o scientifici alla vita civile, alla società, al commercio; lettere familiari, o di negjozii, o descrittive, ec.»  Ordinamento degli Istituti tecnici: Firenze, 1871.  Non v'è poi bisogno di determinare qual'è lo spirito di questi programmi, perché il professor Del Lungo, che gli ha compilati, lo definisce con la sua solita chiarezza e precisione. Egli vuole che si mettano nelle mani degli alunni «opere intere d'autori d'argomento scientifico, non tutti classici, non tutti famosi... ma padroni della lingua e notevoli principalmente per purità e per proprietà... Ne abbiamo e di anteriori al secolo decimosettimo e di posteriori, ma di quei primi farei meno conto, perché appartengono ad un altro periodo della lingua, che per essere bene inteso ed usufruttato, va studiato storicamente, laddove qui si tratta di studii pratici.»1 Gli Istituti tecnicif pag. 444.

Nessuno più del professor Del Lungo è valente nella conoscenza di tutta la letteratura italiana; ma qui è una quistione d'indirizzo generale, si tratta del principio, secondo cui gì' Istituti debbono essere fondati e condotti. Ripeto anche qui quello che dicevo nell'Antologia: ammesso una volta il principio che s'è voluto adottare, i programmi sono eccellenti. Ma è il principio stesso quello che ho combattuto e combatto.

In ogni modo è evidentissimo che i nuovi programmi vogliono insegnare solo quella che essi chiamano

la lingua italiana moderna, e di questa più particolarmente la scientifica, e quella che ha attinenza maggiore agli affari ed agli studii pratici.

Io ho sostenuto e sostengo che, siccome un grandissimo numero di quegli alunni s'apparecchiano per compiere i loro studii nelle Facoltà universitarie di matematica, essi hanno bisogno di un' alta e larga cultura letteraria, e debbono tanto più addentrarsi nello studio dell'italiano, in quanto non studiano negl'Istituti  né greco ne latino, come si fa nei Licei. Ed a ciò non basta un maggior numero di ore che pel passato, ma si richiede un diverso metodo. L'essere alcuni dei nostri grandi scrittori da noi più lontani, e quindi più difficili ad intendersi, perché il loro linguaggio in parte differisce dal nostro, non è una ragione per escluderli; anzi assai spesso è una ragione per preferirli in quelle classi, in cui si tratta, non solo d'insegnare a scrivere senza errori, ma d'innalzare e svolgere l'intelligenza. Lo sforzo maggiore, necessario a comprenderli, è ginnastica più utile, come una gita pei monti è più salubre d'una passeggiata in pianura. Per la stessa ragione per cui lo studio del francese, quantunque necessario ad un Italiano, gli è, come ginnastica intellettuale, assai meno utile del tedesco e del greco; per la stessa ragione il leggere dieci ore i drammi del Metastasio, la Bassvilliana e la Mascheroniana, che i programmi raccomandano a scuola, gli sarà molto meno utile che due ore spese a ben comprendere un canto della Divina Commedia. Non bisogna dimenticare che l'alunno, il quale vuol fare gli studii universitarii di matematica, deve avere la mente assai bene educata; e se egli può avere una cultura generale diversa da quella del medico o dell’avvocato, non deve averla di una qualità inferiore. Se mi si risponde che si tratta di studii pratici, positivi, dirò che il vero spirito pratico, il vero positivismo è quello che riesce meglio a sollevare lo spirito dell’uomo, che in fondo è la forza che deve applicarsi.

Da esso dipende  l'importanza dei risultati che si vogliono ottenere.

Io vorrei sapere se, dopo ciò, è una risposta adeguata il dirmi che preferisco i Fioretti di San Francesco al Galilei, o che sono nemico degli studii tecnici? L'intenzione, per lo meno, è di vederli invece più elevati e più considerati.

Ma si citano il Davanzati, il Redi ed altri che scrissero bene di materie commerciali e scientifiche, lo credo che, se essi avessero studiato solo l'italiano speciale, non sarebbero stati mai grandi scrittori. Il Davanzati traduceva Tacito, il Redi era poeta. E il Galilei non era sempre a leggere poeti, ed a far dispute letterarie? Chi lo ignora? Per scrivere bene di commercio o di una scienza qualunque, non v'è che una via: conoscere a fondo la letteratura italiana e la scienza o disciplina di cui si vuol trattare. Se queste cose si conoscono a mezzo, si sarà un mezzo scrittore.

L'amico Luzzatti, col quale io sono assai più d'accordo che egli non suppone, dice: — Noi abbiamo tanta cura dell’italiano, che lo abbiamo reso obbligatorio perfino nelle Scuole superiori di agricoltura a Milano, e di commercio a Venezia, che sono quasi scuole universitarie, o meglio sezioni di Politecnici. E abbiamo così imitato la Svizzera e la Germania. — Io ho riconosciuto nel mio scritto, che dal Ministero si vuol dare grande importanza all'insegnamento dell’italiano; lodo il merito di questi sforzi, e sono il primo ad applaudirli, e ad ammirare coloro che li fanno, fra cui principalmente il Luzzatti. Ma ripeto, che la questione è di metodo. Piglio dunque ad esempio la Reale Scuola di Venezia, che mi fu citata più volte, e la paragono col Politecnico di Zurigo. In questo Politecnico s'introdusse appunto lo studio delle lettere italiane, e fu nominato professore il nostro Francesco De Sanctis, cui non s'impose alcun programma, ma gli si disse solo: insegnate lettere italiane. Egli fece un corso su Dante, uno sul Petrarca, uno sul Leopardi, e perfino uno sulla poesia maccaronica del Folengo, con sommo favore degli studenti e di tutti.

A Venezia v'è del pari uno dei nostri migliori insegnanti, il professore A. Bartoli, che starebbe certo egregiamente in qualunque Università primaria del Regno.

Ebbene, che cosa deve insegnare questo professore così valente nella storia letteraria del Medio Evo? Scelgo dai programmi che gli sono imposti, ciò che mette meglio in evidenza il mio pensiero:

Della lingua tecnica;

Studii mila lingua delle arti e mestieri;

Studii sulla lingua commerciale antica e moderna;

Delle lettere commerciali;

Proposte di correzioni ai manuali di corrispondenza mercantile.

Non è questo P italiano commerciale? E anche qui non v'è in tutti i tre anni di corso un solo periodo della nostra letteratura studiato a fondo. Lascio poi che i programmi di letteratura in questa Scuola superiore, che si vuole sia quasi Università commerciale, cominciano così elementarmente:

Di alcune regole fondamentali intorno all' arte dello scrivere;

Del linguaggio proprio;

Del linguaggio figurato.

E finiscono in questo modo:

Delle diverse maniere di ordinare i ragionamenti;

Del ragionamento inquisitivo;

Del ragionamento dimostrativo;

Del trattato;

Della lezione;

Della relazione.

E così deve conchiudere anche nel 1873 un corso di letteratura italiana nella Reale Scuola superiore di Venezia, dove abbiamo nella Direzione e nel Corpo insegnante uomini davvero illustri. Anche questi programmi sono compilati da persone certo autorevolissime, dotte e rispettabili, ma che hanno l'idea da me combattuta, dell'italiano speciale.

Anzi perché si veda ancora una volta, quanto questa idea sia diffusa, quanto tenacemente sostenuta, e quanto vi sia bisogno di combatterla ancora prima di vincerla, citerò un altro esempio.

L'onorevole Luzzatti, il quale co! programmi compilati dal professor Del Lungo ha certo fatto fare un gran miglioramento, sebbene a mio e forse a suo avviso ancora insufficiente, mi diceva nella sua lettera: — Le tue osservazioni son vere pel passato, ma dal 69 al 71 s'è compiuta una grande riforma, e quello che tu desiderio fatto da un pezzo. — Ebbene, appunto nel settembre del 69, io trovo anche più esplicitamente formulato, senza che egli lo sappia, l'italiano commerciale, nelle norme che si dànno, pel nuovo anno scolastico, al professore di letteratura italiana, dal Consiglio direttivo d'una delle principali istituzioni scolastiche, fondate per iniziativa del Ministero di Agricoltura e Commercio. Ecco come dicono testualmente:

«L'insegnamento di cui si tratta, deve aver due scopi:

1° Avviare ed esercitare i giovani nell’arte di bene scrivere, su quei generi di scrittura, che ordinariamente occorrono nelle varie posizioni sociali in cui può trovarsi il negoziante.

2° Allo stesso tempo nutrire la mente degli alunni con delle narrazioni di viaggi, descrizioni di paesi, biografie di uomini che si segnalarono nel traffico o nelle industrie, descrizione di grandi istituti mercantili, e cose simili, le quali, non facendo strettamente parte di alcun ramo di scienza, servono tuttavia a distinguere la cultura letteraria del commerciante.

E finalmente s'aggiungeva questa norma:

«Che lo stile epistolare in materia di affari mercantili, essendo quello per cui peculiarmente si vorrebbero istruiti ed esercitati i giovani, e di cui son chiamati a dar prove continue... formi soggetto dell’intero corso del primo anno.

Mi sembra che tutto questo provi ad esuberanza (se una volta s'ammette, come fa l'onorevole Luzzatti, che è un male cercar l'italiano speciale), che io combattevo un male reale e non immaginario; un male che non è scomparso ancora nei programmi governativi, che pure sono compilati da uomini valentissimi nelle lettere; un male che qualche volta piglia proporzioni maggiori, dove l'azione del Governo non arriva direttamente.

Ne certo (mi permetta l’onorevole Luzzatti che io glielo dica) è un modo di correggerlo il vedere un oppositore in chi è invece un amico, che s'adopera, colle sue deboli forze, a combatter questo male, esponendolo senza reticenze.

Mi resta un'ultima osservazione, ed ho poi finito colle risposte alle accuse d'inesattezza. Io notavo che le scuole pratiche industriali erano troppe in proporzione della nostra industria. Ed anche in ciò mi facevo forte dell'autorità del regio commissario professore Colombo, che nella sua Relazione Io aveva detto chiarissimamente.   Gli Istituti tecnici, ec., pag. 213.  E scrivevo, fra le altre, queste parole: «Abbiamo in buon numero scuole di navigazione, di commercio, di capitani di lungo corso, capitani di piccolo corso; scuole di agricoltura, forestali, e perfino di caseificio. E subito si è detto: Voi dunque volete negare ogni istruzione ai capitani, ai commercianti! Io invece sostenevo e sostengo, che le scuole pratiche sono assolutamente troppe in Italia, e questa è anche l'opinione di molte altre persone autorevolissime come il Colombo. Da ciò segue che molti alunni vanno a cercare la loro cultura generale nelle scuole pratiche, che li ricevono per non restar deserte: tutto questo mi pareva e mi pare dannoso. E come nell’Antologia, così ora me ne rimetto ai più competenti di me nella materia. Qui è in ogni modo la questione. Ma ciò non vuol dire che io non riconosca la necessità indiscutibile di un numero sufficiente di scuole pratiche,  che sarebbe una vera pazzia, e non occorre discorrerne. — Ma dopo aver tanto biasimato, non proponete voi nulla? È facile biasimare coloro che fanno; ma che fareste voi dunque? — Io, per molte ragioni di convenienza, avevo notato il male, e non volevo entrare in un altro tèma del pari ingrato. Ma ora, giacché sono invitato con tanta insistenza, risponderò anche a questo, in una seconda ed ultima lettera.

Suo dev.

P. VILLARI.

II.

Onorev. sig. Direttore,

Ognuno sa che l'istruzione tecnica venne ordinata dalla legge 13 novembre 1859, secondo la quale dovrebbe essere di due gradi, generale nelle Scuole tecniche, speciale e pratica negl'Istituti. Questi erano destinati alle industrie ed alle professioni minori; da essi non si poteva passare alle Università, che richiedono la licenza liceale, e quindi neppure alle Scuole d'applicazione ed ai Politecnici. Sotto questo aspetto riguardandoli, la Camera, dopo un discorso memorabile del Sella, li toglieva al Ministero di Pubblica Istruzione per darli a quello d'Agricoltura e Commercio. Si sperava cosi, che sarebbero riusciti ad avere quel carattere pratico, industriale che il Ministero di Pubblica Istruzione non aveva saputo dar loro. Si diceva, ed era vero: L'Agricoltura e Commercio ha maggiori relazioni con uomini d'affari e d'industria; la Pubblica Istruzione, invece, è circondata solo da uomini di lettere o di scienze. Il ragionamento era perfettamente logico.

Se non che gl'Istituti non fiorivano per moltissime ragioni, e fra queste non ultima la povertà, massime allora, della nostra industria. Mancavano quindi gli scolari,  né il Ministero d'Agricoltura avrebbe potuto superare, come ha fatto, queste difficoltà, se prima non fosse stata presa da quello di Pubblica Istruzione una grave deliberazione, per lo quale veniva, contro lo spirito della legge, permesso agli Alunni della sezione fisico-matematica degl'Istituti tecnici di entrare nelle Università (Facoltà matematiche e di scienze naturali) senza la licenza liceale, previo però un esame di ammissione, che richiedeva la prova del latino. Nè di questo il Ministero di Agricoltura fu pago, ma volle la stessa concessione per altre sezioni dell'Istituto. L'esame di latino poi dato a giovani che non l'avevano studiato, divenne ben presto un esame di pura forma:

in qualche Università pare sia addirittura tralasciato; in qualche altra i professori ricusarono di darlo, e si dovè ricorrere agl'insegnanti di Liceo. Così la condizione degl'Istituti tecnici s'andò sostanzialmente mutando. Essi furono subito affollati; ebbero il favore delle Province, dei Comuni, e soprattutto degli scolari, che venivano non solo liberati dall'incubo del greco e del latino, ma abbreviavano di qualche anno il loro corso di studii. Questo portava però la necessità che gl'Istituti si dovessero assolutamente trasformare. Il numero maggiore degli alunni fu di giovani che volevano andare alle Università, e quindi che avevano bisogno d'un'alta cultura generale, letteraria e scientifica; mentre, secondo la legge, gl'Istituti erano sempre scuole speciali, pratiche, destinate alle professioni minori. Una riforma radicale era quindi necessaria, bisognava subito rialzare la cultura generale; ma, venendo al fatto, si trovavano difficoltà gravissime, perché nelle sezioni che ora si chiamano di agrimensura, di ragionerìa, di commercio, v'erano altri alunni che alle Università non volevano andare; avevano bisogno di far presto, e richiedevano invece l'istruzione pratica fondata dalla legge.

Gli uni e gli altri alunni erano e sono spesso nelle classi tutti riuniti; i corsi, massime di cultura generale, si fanno in comune. Così il professore d'italiano deve fare la stessa lezione per l'alunno che, volendo andare all'Università, avrebbe bisogno d'addentrarsi molto nello studio delle lettere, e per l'alunno che, volendo, invece, andare fra poco a misurare i campi o a tenere i conti, ha bisogno d'imparare solo a scrivere senza errori, con chiarezza, e riguarda come perduto il tempo impiegato su Dante o sul Petrarca. Quindi ne segue di necessità un corso anfibio: o bisogna scontentare del tutto una parte degli scolari, o contentarli tutti a mezzo. Fare i programmi in quésto caso diviene un problema che somiglia alla quadratura del circolo. Ed è però che, nello stesso tempo in cui criticavo i programmi governativi d'italiano, io gli ammiravo, vedendo il grande sforzo che s'era fatto per arrivare ad una conclusione ragionevole.

Non disconosco lo zelo, la grande dottrina e l'intelligenza adoperata, per sollevare la cultura generale negl'Istituti tecnici; non disconosco i progressi recentemente fatti; dico solo che, nello stato presente, il problema è insolubile, se non si viene ad una riforma assai più radicale.

Ed un altro gravissimo danno è risultato dallo stato presente degl'Istituti tecnici. Essi sono divenuti la pietra dello scandalo, che ha creato un antagonismo funesto tra la burocrazia dei due Ministeri; antagonismo che, se non fosse nato ieri, nascerebbe oggi, ed anderà crescendo, perché esso è creato inesorabilmente, ed alimentato ogni giorno dalle condizioni presenti.

Infatti se l'Istituto fu, come scuola pratica e speciale, portato dalla Pubblica Istruzione all'Agricoltura, secondo che va divenendo una scuola generale e preparatoria alle Università, dovrebbe logicamente, per le stesse ragioni, tornare alla Pubblica Istruzione. Non è una questione di amor proprio burocratico, del quale il paese non dovrebbe tenere alcun conto, è una questione di pubblico interesse. Come scuola preparatoria alle Università, l'Istituto è un pezzo indispensabile d'una macchina che è tutta in mano al Ministero di Pubblica Istruzione, il quale deve muoverla, e ne ha l'intera responsabilità. Ma il Ministero d'Agricoltura, che deve tener conto anche degli agrimensori, ragionieri, industriali, muta, secondo le sue norme, i programmi, gl'insegnamenti, ec. , e così porta subito una scossa a tutto l'ordinamento scolastico che è nelle mani dell'altro Ministero, il quale spesso se ne avvede a cose fatte. Quindi l'irritazione. Per meglio apparecchiare gli alunni alle Università, il Ministero d'Agricoltura rende più difficili gli esami d'ammissione agl'Istituti. E subito tra la Scuola tecnica e l'Istituto resta un vuoto, che ora è quasi d'un anno di corso. Si grida dalle due parti. Da un lato si dice: Avete con un regolamento mutato la legge; dall'altro si ripete: Voi tenete le vostre Scuole troppo basse.

Intanto il vuoto non si colma, e come nessuno è tenuto all'impossibile, e gli scolari non banno altre scuole per apparecchiarsi, ne segue che dove non provvedono i Municipii o le Province coi proprii fondi, i programmi sono alti e gli esami sono bassi; gli alunni saltano, e respinti all'esame di licenza tecnica, o anche senza tentare d'averla, s'aprono pure assai spesso la via negl'Istituti, di che il Ministero di Pubblica Istruzione si duole.

Nò il Ministero di Agricoltura si trova in una condizione migliore. Negl'Istituti tecnici, esso è come in possesso d'un organo importantissimo, che appartiene ad un corpo, il quale trovasi nelle mani dell’altro Ministero. Da questo corpo queir organo riceve il sangue e deve restituirglielo. La più parte infatti degli alunni che ha il Ministero di Agricoltura e Commercio vengono dalle Scuole tecniche negl'Istituti, e da questi vanno alle Università, le une e le altre dipendenti dalla Pubblica Istruzione. E secondo che si fanno riforme utili a questi alunni, da un lato si possono danneggiare gli altri che non. sono pochi, e che non vanno alle Università; dall'altro crescono le ragioni per togliere di nuovo all'Agricoltura e Commercio gl'Istituti tecnici, che vanno così sempre più divenendo scuole generali. Quindi le difficoltà che s'oppongono alle migliori intenzioni, e rendono incompiute le più utili riforme.

Siccome poi gli uomini sono uomini, e nessuno vuol perdere quello che ha, così si cominciano a formulare teorìe che giustifichino lo stato presente; si cercano diversi metodi e diversi principii per due culture generali diverse. I meno esperti poi esagerano e immaginano quasi una cultura generale speciale; trovano una letteratura, una matematica, una fisica, proprie degl'Istituti tecnici, diverse da quelle dei Licei, e arrivano così all'italiano tecnico. Queste idee si diffondono nel volgo; sovvertono i principii della buona e vera cultura. Si fanno dal Ministero di Agricoltura sforzi per creare scuole superiori, pratiche e speciali, perché da un lato si spera che promuovano efficacemente l'industria,

e da un altro che aprano uno sbocco naturale e proprio agli scolari degl'Istituti tecnici, i quali temono sempre di poter essere un giorno o l altro respinti dalle Università. Forse qualche volta si corre troppo a creare scuole superiori, quando mancano ancora i professori e gli scolari da ciò; ma qualclp volta, anche se necessarie, si grida a torto che il Ministero di Agricoltura lo fa per trasformarsi in un secondo Ministero dell'Istruzione o, come alcuni dicono, della piccola Istruzione. Si chiede che gli alunni degl'Istituti possano entrare nei Politecnici, senza passare per le Università, e la Pubblica Istruzione si oppone fieramente, perché le sue Facoltà matematiche resterebbero allora senza scolari. E così lottano le due burocrazie. Da un altro lato l'Istituto tecnico rende immagine di questa lotta, ponendosi, direi quasi, in guerra con se stesso, perché esso non è una scuola, ma l'impasto di scuole diverse, che cercano fini diversissimi, e qualche volta opposti. E le passioni, mescolandosi sempre in ciò, vengono ad impedire o a rendere inefficaci le riforme più utili.

Ma quale è dunque il rimedio? La prima e più utile riforma consiste nel dividere le cose che assolutamente non possono stare bene insieme, e mettere ciascuna al suo posto. Un Istituto tecnico compiuto è oggi una scuola di cultura generale, ed è una scuola pratica e speciale nello stesso tempo. Bisogna dividerlo in due scuole, una delle quali deve essere un vero e proprio Liceo, nel quale al greco e latine si sostituiscano le lingue moderne, e si dia un più largo svolgimento alle scienze fisicomatematiche; l'altra deve essere una vera scuola pratica e speciale per chi non vuole andare all'Università o al Politecnico. Alcuni Istituti non sono interi, ed hanno quasi esclusivamente la sezione generale, o solo le sezioni speciali; la trasformazione in questi casi è assai più agevole, perché indicata dal carattere che vi predomina e dagli alunni che li frequentano. Nei nuovi Licei, che a differenza dei classici chiamerò scientifici, e nei quali si trasformerebbe la massima parte dei nostri Istituti tecnici, non vi dovrebbe essere nulla di speciale, di pratico, d'industriale.

Sarebbero come gli altri Licei, vere e proprie scuole secondarie, preparatorie all'insegnamento superiore, complemento necessario della Scuola tecnica. In sostanza cosi si avrebbe finalmente la Scuola reale di Germania, che ancora ci manca, e che è divenuta parte integrante nel sistema moderno d'istruzione, perché è la sola base solida ad un' alta istruzione tecnica, quale è richiesta dal prodigioso incremento che ha preso l'industria nelle nostre società. E l'istituzione di questi Licei scientifici o Scuole realijche dire si vogliano, sarebbe utilissima anche ai Licei classici, perché li libererebbe da coloro che studiano il greco ed il latino solo per dimenticarlo al più presto, e che non sanno tuttavia risolversi a cercare la cultura generale negl'Istituti tecnici, i quali col nome stesso, e non col nome solamente, indicano qualche cosa di pratico e d'industriale.

Questi Istituti tecnici trasformati o Scuole reali o Licei scientifici dovrebbero assolutamente tornare dal Ministero di Agricoltura e Commercio a quello d'Istruzione, perché sarebbero l'anello indispensabile di congiunzione fra la Scuola tecnica e la Facoltà matematica, la quale apparecchia al Politecnico, scuole che sono tutte in mano dello stesso Ministero. Le scuole speciali pratiche, industriali, che io credo troppe per ora, ma che sono pure necessarie, diminuite di numero e meglio ordinate, libere dall’ingombro inutile di coloro che le frequentano per cercarvi, con loro danno, la cultura generale, dovrebbero restare tutte al Ministero di Agricoltura, che potrebbe con esse efficacemente promuovere l'industria, l'agricoltura ed il commercio.

Questa riforma presenta, nella sua pratica effettuazione, molte difficoltà: deve portare un grande spostamento di cose; deve, quello che è peggio ancora, urtare contro molte passioni e molti interessi. È però una riforma necessaria, inevitabile, giudicata tale non solo da me,, ma da molti assai più autorevoli di me, ed ha in suo appoggio l'esempio delle nazioni più civili, dei libri più reputati in fatto di pubblica istruzione.

Le difficoltà che oggi s'incontrano per attuarla, e che io certo non nego, sono di tale natura, che ogni giorno diverrebbero maggiori, e intanto portano un danno reale così air istruzione tecnica come alla classica. In ogni modo, il problema esiste: perché non discuterlo e risolverlo una volta definitivamente; perché non sopprimere la sorgente di tanti mali umori e di tante passioni che sono certo dannosi al pubblico bene? Io non credo che, fatta questa riforma, tutto sarà finito, e tutto si troverà fra noi nel migliore de' mondi possibili; ma credo che si sarà dato il primo passo ad un vero e reale miglioramento. Il nostro sistema scolastico avrebbe una base più ferma, un ordine più logico; risponderebbe meglio ai bisogni del tempo, alla cultura del paese, al rapido incremento dell'industria. L'antagonismo delle due burocrazie cesserebbe; molte passioni, per un momento forse irritate ancora di più, sarebbero poi spente per sempre, e molte altre utili riforme non sarebbero impedite, arrestate a mezzo, o rese infeconde. Comunque sia di ciò, io sono da lungo tempo profondamente persuaso che questo può essere il principio veramente utile delle nostre riforme scolastiche, e che, senza prima risolvere una tale questione in un modo definitivo, la soluzione delle altre sarà difficilissima e sempre ritardata.

Si è da alcuni messo innanzi un'altra soluzione: dare all'Agricoltura e Commercio Scuole ed Istituti tecnici, Politecnici e Scuole d'applicazione, con tutto l'insegnamento universitario di matematiche, destinato agl'ingegneri; in una parola, l'intera istruzione tecnica. Una tale proposta, che tende pur essa a far cessare il grave disordine presente, avrebbe Io svantaggio di creare due Ministeri di Pubblica Istruzione, due sistemi scolastici, e certo non farebbe cessare l'antagonismo tanto deplorato: oltre di che sarebbe necessaria una radicale trasformazione delle nostre Università, dalle quali questa proposta verrebbe a levare d'un colpo tutti gli scolari delle Facoltà matematiche, ad eccezione solo di quei pochissimi che studiano per fare i maestri.

In ogni modo, anche questa proposta dimostra, che lo stato presente non piace in fondo a nessuno, perché contrario alla logica ed all’interesse bene inteso di tutti, e però tutti dovrebbero adoperarsi con uguale energia a farlo cessare. Perché dunque esitare, perché non sollevare una volta la questione, e non mettere mano all'opera? Questi problemi nessuno li comprende meglio dell’onorevole Luzzatti. Che ponga dunque mano alla soluzione radicale. Io lo desidero e glielo auguro per sua gloria e pel vantaggio del paese. Il bene che egli fa adesso, rende e renderà sempre più evidente e necessario il bisogno d'una più larga riforma, cui vorrei che désse il suo nome. Non pensi perciò mai che le mie critiche sieno altro che sprone a compiere una impresa bene iniziata, ma non finita.

Suo dev.

P. VILLARI.


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CIÒ CHE GLI STRANIERI NON OSSERVANO IN ITALIA.

Questo scritto fu pubblicato la prima volta in tedesco, nel quarto volume dell'Italia, Rivista che il nostro amico prof. Carlo Hillebrand dirige con tanto onore; e che si stampa a Lipsia per opera del benemerito editore Hartung.

Mio caro prof. Hillebrand,

Più volte voi mi avete fatto l’onore d'invitarmi a scrivere nella vostra Italia. E che cosa potrei desiderare di meglio, che prender parte ad una pubblicazione da voi diretta, con l'intendimento di stringere. sempre più i legami intellettuali e morali fra la Germania e l'Italia, facendo sempre meglio conoscere l'un paese all'altro? Ma pure ho molto esitato, perché mi sono chiesto: che cosa posso io dire di nuovo sull'Italia ai Tedeschi? Non vengono ogni anno in gran numero fra noi? Non conoscono la lingua, i monumenti, la letteratura, la storia nostra? Non sono essi che su di ciò scrivono opere, da cui tanto impariamo noi medesimi?

Pure mi si è presentata un'osservazione, che anche voi, il quale da tanto tempo siete fra noi, e ci conoscete cosi bene, dovete certo aver fatta. Continuamente s'incontrano stranieri intelligenti ed imparziali, che osservano, studiano il nostro paese, sul quale sanno tante cose, forse anche più degl'Italiani stessi, e tuttavia esprimono su di noi giudizii diversissimi fra loro, qualche volta anche contrarii alla verità, nel modo più singolare.

Non sarà inutile, io credo, esaminare, in una conversazione con voi, le cause di questo fatto. Se mi riescisse di trovarle, fosse anche una parte sola, potrebbero aprirci la via ad altre considerazioni.

Ecco quello che segue, secondo me, nel maggior numero dei casi. Uno straniero traversa le Alpi e vede che tutto si è rapidamente, quasi magicamente, mutato fra noi. Dogane interne e passaporti aboliti, strade, telegrafi, poste, scuole aperte o che s'aprono in gran numero. La stampa e la parola liberissime; istituzioni degne dei paesi più civili; la capitale, il re, il papa, i pellegrini, il parlamento e il popolo tranquillissimi in Roma. A questo lieto spettacolo naturalmente egli esclama: — L'Italia ha fatto miracoli! — Ma se questo medesimo straniero rimane più a lungo fra noi, a poco a poco segue nel suo animo uno strano mutamento. Egli si avvede che tutte queste leggi ed istituzioni nuove non hanno in Italia il medesimo valore che altrove, non portano i medesimi effetti. S'era rallegrato di vedere così presto istituito fra noi il giurì; ma paragonando il modo con cui opera in Inghilterra, e quello con cui opera in Italia, comincia a mutare avviso. E continuando per questa via, riconferma più volte la stessa osservazione; si persuade che vi sia qualche cosa di guasto nella stirpe, che per ciò tutte le istituzioni debbano fra noi restare lettera morta. E allora ripete altre frasi, ugualmente note: —I popoli latini sono in decadenza. Il clima caldo infiacchisce gli uomini e li rende incapaci di libertà (quando non ci fa il complimento di aggiungere anche, e di moralità). —

Questi due giudizii sono del pari esagerati ed assoluti,  né sarà mai possibile giudicare un popolo con una frase. Ma se è difficile giudicare il paese altrui, non è facile giudicare il proprio. Specialmente poi non è facile oggi per un Italiano. Noi possiamo con tanta chiarezza e precisione, fondandoci "sopra documenti autentici, fare uno splendido quadro del nostro stato presente; come si può pretendere che ci mettiamo a distruggere queste illusioni in noi stessi e negli altri? Dobbiamo mettere le armi in mano a coloro che già parlano di noi con ingiusta severità? E sarebbe patriottico farlo in un libro che si stampa fuori d'Italia?

Ma, caro professore Hillebrand, io credo che se la vostra Rivista deve toccare la sua nobile mèta, è pur necessario che Italiani e Tedeschi comincino a parlarsi il franco linguaggio di amici che non diffidano l'uno dell'altro. Una stima ed un'amicizia vera si fondano sopra una conoscenza sicura dei vicendevoli pregi e difetti. Meglio abbandonare mille grandezze immaginarie, per mettere fuori di ogni discussione le poche o molte buone qualità vere che abbiamo. E se ci sono uomini, i quali non possono avere  né simpatia  né stima per chi cerca in una sincera confessione dei proprii errori stimolo, consiglio, aiuto a correggerli, non vi pare che ad essi sarebbe bene di dire: questo libra non è per voi? In ogni modo provare una volta non sarà poi la fine del mondo.

Prima di tutto, un Tedesco che voglia formarsi un' idea chiara del nostro presente stato, deve cominciare dal persuadersi, che, nonostante le molte somiglianze, la rivoluzione italiana e la tedesca procedettero. per due vie non solo diverse, ma spesso contrarie. La Germania aveva fatto una rivoluzione letteraria, scientifica, industriale, sociale, prima di fare la rivoluzione politica che ne fu la conseguenza inevitabile. L'Italia ha cominciato col fare una rivoluzione politica, da cui s'aspetta una trasformazione intellettuale e sociale. Questo basta a mettere subito in evidenza le maggiori e gravi difficoltà che le nuove istituzioni debbono necessariamente incontrare fra noi. Spesso paiono un meccanismo destinato prima di tutto a creare la forza, da cui deve poi ricevere il molo. Fondare una nuova Università là dove è resa necessaria da un progresso scientifico preesistente, e fondarla dove si sente invece il bisogno di creare questo progresso che non c'è, o si trova affatto insufficiente; aprire una strada ferrata dove l'industria ed il commercio hanno accumulato mercanzie che domandano solo facilità di trasporto, ed aprirla dove invece è resa necessaria dal bisogno di promuovere appunto l'industria ed il commercio, ognuno vede che son cose assai diverse. E chi potrebbe aspettarsene immediatamente i medesimi risultati? Noi, per esempio, ci sobbarcammo alla spesa di molti milioni, per compiere una gran rete di strade ferrate in tutta Italia, ed il nostro scopo immediato e principale fu allora politico. Si trattava di affrettare l'unificazione del paese, fine a cui tutto doveva essere sacrificato, potendo altrimenti compromettersi ogni cosa.

Non era questione di libera scelta o di preferenza, non era uno stato di cose da noi creato, ma una necessità che a noi s'imponeva.

Se nell'esaminare i varii fatti che seguono in Italia, le varie forme che prende l'attività nazionale, si tengono presenti queste osservazioni, si vedrà allora quanto è facile venire a conclusioni diverse e contradittoie, quanto è difficile dare con giusto criterio la misura del vero. Cominciamo dalle scuole. Facile assai sarebbe descrivere l’ordinamento delle nostre scuole primarie e secondarie, e farne anche l'elogio. In sostanza è un ordinamento imitato da quello dei paesi più civili d'Europa, e moltissime furono le nuove scuole che aprimmo ovunque. I più giovani insegnanti dei nostri Licei son quasi tutti seguaci dei nuovi metodi, e molti dei libri adottati sono fra i migliori. Qualche anno fa un dotto straniero, che conosce assai bene l'Inghilterra, dopo qualche mese di dimora fra noi dichiarava di credere le nostre scuole superiori alle inglesi. E se egli le aveva esaminate solo sulla carta, aveva certo ragione.

Chi però comincia ad assistere o ad informarsi un poco degli esami, fa subito diverso giudizio. E le critiche non vengono questa volta dagli stranieri, sono fatte dagl'Italiani stessi, si trovano nei Rapporti ufficiali. Che cosa, per esempio, si deve dire o pensare quando, finita la scuola elementare e fatti otto anni di scuola secondaria classica, o poco meno di Scuola e Istituto tecnico, si sente affermare che l'alunno non sa ancora scrivere convenientemente la propria lingua?

— Fatto gravissimo, si dice, perché questo accusa anche disordine e poca chiarezza nelle idee. — Che sarà dunque nel resto? È facile prevedere i co menti che si fanno. — Senza tanti libri e metodi e professori nuovi, gridano i padri di famiglia, si ottenevano al tempo nostro migliori resultati nelle vecchie scuole. — Chi però non vuol contentarsi di esaminare solo la superficie delle cose, dovrà ricordare che l'ordinamento delle scuole e degli esami è un meccanismo, la cui forza ed i cui resultati vengono dalle condizioni, in cui si trovano la lingua e la letteratura nazionale. E andrà in queste a cercare una più compiuta spiegazione del fatto osservato.

La lingua italiana prese la sua forma definitiva nel secolo XYI, quando v'era fra noi l'unità letteraria, ma non la politica,  né la sociale. Essa divenne uno strumento mirabile per esprimere un certo ordine d'idee; ma non ricevette eguale incremento per esprimerne altre,  né la nostra generale decadenza le permise di andarsi col mutare dei tempi sufficientemente mutando. Così, per esempio, noi non abbiamo oggi un vero e proprio linguaggio politico. 0 dobbiamo imitare gli stranieri e siamo subito accusati di poca eleganza, o ricorriamo a circonlocuzioni antiquate e siamo accusati di pedanterìa. Questo si vede nei giornali, nelle discussioni alla Camera, nelle leggi, nei regolamenti, in tutte le lettere scritte nei Ministeri. Così del pari il linguaggio più domestico e famigliare è solo in piccolissima parte entrato nella letteratura.

Anche gli uomini culti lo conoscono principalmente nel proprio dialetto, e i Toscani che parlano la lingua stessa che si scrive, non osano introdurre troppo largamente nei loro libri la parte più domestica e famigliare della loro lingua parlata, per paura di non essere facilmente intesi da tutti gl'Italiani. Di qui le eterne dispute sulla lingua, che fanno tanta maraviglia agli stranieri, i quali non sanno che essa è oggi fra noi in uno stato di trasformazione, per il che riesce difficilissimo, anche ai nostri migliori scrittori, di trovare in certi argomenti una forma che sia ad un tempo elegante, semplice, moderna e nazionale. Dobbiamo maravigliarci che non vi riescano gli alunni?

Quando l'istruzione secondaria si restringeva al latino, all'italiano, alla storia greca e romana, e poco altro, doveva essere più facile assai l'esprimere correttamente quelle idee, che non uscivano dalla cerchia in cui la nostra lingua aveva trovato una perfezione inarrivabile. Ma oggi che l'alunno legge i giornali e i romanzi, sente le discussioni politiche, oggi che le materie di studio si son tanto moltiplicate, perché le scuole secondarie debbono dare tutta la cultura generale, cosi classica come reale, le difficoltà sono divenute assai maggiori, senza notare che in altri tempi minore era il numero degli scolari e molto più facili si davano le lodi. Prima di troppo lodare o troppo biasimare le scuole presenti, bisognerebbe dunque esaminare qual'è la trasformazione che subiscono in esse la cultura e l'intelligenza italiana. Si vedrebbe allora che queste scuole non sono anche giunte ad un tal grado di maturità da assimilarsi i varii elementi, di cui furono in fretta composte, e molto meno da dare ad essi una forma propria ed organica.

Deve quindi riuscir molto facile, a chi ne ha voglia, trovare occasione o pretesto a critiche meritate ed immeritate. Ma con pari certezza si dovrebbe affermare, come pure affermano i migliori insegnanti che furono nelle vecchie e si trovano nelle nuove scuole, che da queste l'alunno esce con un corredo di cognizioni infinitamente maggiore, e se spesso con una cultura non sempre ordinata, precisa e chiara, pur con una maturità di giudizio e con un'attitudine ad imparare, che prima non sarebbe stato possibile sperare.

Di ciò, com'è naturale, si trova il riscontro e la conferma nello stato presente della nostra letteratura. Essa non ci ha più dato opere come quelle che pur produsse nella prima metà di questo secolo: le poesie, per esempio, del Leopardi e del Giusti; i Promessi Sposi del Manzoni, ed altri lavori che certo hanno un'impronta originale e nazionale del tempo in cui furono scritti. Nondimeno la cerchia della nostra attività intellettuale si è infinitamente allargata, e va di continuo allargandosi. Pochi anni sono era molto difficile trovar libri italiani che, nel trattare un soggetto qualunque, dimostrassero una conoscenza della letteratura inglese o tedesca sullo stesso argomento. Oggi il non conoscerle è quasi divenuta un'eccezione, che non si perdona troppo facilmente. Gli studii di filologia classica ed orientale furono addirittura trasformati e rinnovati; quelli di filologia neolatina pochi anni sono non esistevano punto, ed ora già fioriscono; la fisiologia sperimentale e le scienze naturali ricevettero nuova vita; anche la psicologia sperimentale fondata dagl'Inglesi, prima tanto combattuta fra noi, fa rapido cammino e fra poco salirà le cattedre universitarie.

Molti dei nostri giovani professori sono già noti e stimati in Germania. Tutto questo è però sempre un periodo di trasformazione e di preparazione. Si tratta di assimilarsi il lavoro scientifico e letterario delle altre nazioni, e di allargare il nostro orizzonte. Quest'assimilazione procede molto rapida, ma non è ancora compiuta, e la nostra letteratura non può quindi prendere subito una forma originale. Fino a che ciò non segue,  né si può sperare che segua ad un tratto, non è sperabile che la letteratura o le scuole esercitino un' azione veramente universale e profonda sulla nostra società. Le forme incerte e mutabili, che in questo stato di cose esse debbono avere, danno occasione naturalmente ai più diversi giudizii delle persone anche più competenti. Un illustre storico straniero, che ha passato buona parte della sua vita in Italia, la quale ama, da cui è amato assai, e sulla cui storia ha scritto opere lodatissime, mi diceva poco fa, tutto pieno di sdegno: — È una vergogna che l'Italia non s'occupi punto della storia del Medio Evo. Non un libro, nulla addirittura. È proprio una vergogna! — Eppure egli deve sapere e sa meglio d'ogni altro, che la storia del Medio Evo richiede oggi un vasto complesso di studii, una conoscenza svariata di discipline diverse. E doveva capire che l'Italia dimostra qualche prudenza lodevole se, prima di avventurarsi a scrivere libri sul Medio Evo, introduce nelle sue Università la filologia neolatina, la storia del Diritto medioevale, la paleografia; illustra statuti, pubblica documenti, ec.

Non è questo un far qualche cosa per lo studio del Medio Evo? Anche noi cominciamo ad essere stanchi della pretesa di abbracciare più che le forze non comportano, ed è questo, io credo, un segno di vero progresso.

Non potendo dunque dallo stato presente di una letteratura ancora in trasformazione aspettarci un immediato rinnovamento nazionale, noi volgiamo altrove lo sguardo, e ci si presenta subito la questione religiosa, su cui tanto si disputa in senso diverso. La sua vera indole potrebbe essere spiegata solo da uno studio assai lungo sullo stato del sentimento religioso fra noi, e sulle vicende storiche della questione. Il sentimento religioso cominciò ad essere distrutto fra noi nel periodo del Rinascimento, che ci détte una educazione scettica, artistica, pagana e sensuale. Seguirono poi quasi tre secoli, nei quali fummo educati dalla reazione cattolica, che incominciò col mettere un argine ai progressi della Riforma, e trasformò il Catolicismo in Romanismo. La vita religiosa fu sempre più portata dalle cose interiori alle esteriori. I peccati si lavarono con opere di cullo, i rimorsi s'acquetarono con preghiere determinate dal confessore, nella cui coscienza passò la coscienza del credente. La Bibbia fu letta secondo la interpretazione ufficiale, o non fu letta punto. Tutti i dubbii, tutti i più ardui problemi morali della vita, tutti i misteri furono risoluti con formole date da un'autorità superiore, che non ammetteva discussione. E le scuole vennero in mano di questo clero, che non solo détte ad esse il medesimo indirizzo, ma volle lasciare sul nostro spirito una impronta indelebile.

Fu come una grande rettorica religiosa che, essendosi sostituita al vero spirito religioso, cercò aiutare, introdurre per tutto la rettorica già cominciata col finire del Rinascimento. La forma, la formola, la regola, la frase vollero tenere il luogo del libero, organico, vivente svolgimento del pensiero che si sperava di poter soffocare. Non mancarono certo in ogni secolo slanci vigorosi del nativo genio italiano, i quali mantennero sempre viva la sacra fiamma del pensiero nazionale, che doveva finalmente risorgere. Ma l’educazione generale del paese fu quella. La sola letteratura straniera che fra noi si diffuse, fu la francese. Assai poco profittammo del grande movimento iniziato dalla Germania, col Kant e con una splendida letteratura, contro la filosofìa del secolo XVIII, che minacciava dividere le nazioni latine in Clericali e Volterriani. Ben sorse anche fra noi una nuova letteratura, ispirata dal sentimento politico della unità nazionale, che secondò e promosse; ma per quanto siano chiari i suoi pregi, se essa cominciò a modificare, non riuscì a trasformare profondamente il nostro spirito. I nuovi eventi ci trovarono perciò quali ci aveva fatti il nostro passato.

Se la rivoluzione italiana fosse durata un mezzo secolo, di certo, senza bisogno d'altri aiuti, attraverso sventure, sacrifizii, disfatte e vittorie, avrebbe creato una generazione nuova, con la grande educazione che dànno ad un popolo i dolori sostenuti per una nobile causa.

Ma, invece, al nostro patriottismo s'unirono le combinazioni diplomatiche, gli aiuti stranieri, e la fortuna ci secondò per modo che, in brevissimo tempo, con sacrifìzii comparativamente assai piccoli, ottenemmo l'indipendenza e l'unità politica tanto sospirate. E la vecchia generazione si trovò di fronte il colossale problema di creare dentro questa nuova forma politica una società nuova. Educati a dare troppa importanza alle forme; spinti ad una rivoluzione politica prima di aver fatto una trasformazione sociale; a creare istituzioni nuove, prima che spontaneamente sorgessero come prodotto necessario dell'attività nazionale, fummo in queste condizioni obbligati a risolvere anche la questione religiosa, che cosi strettamente si connette colla vita più intima dei popoli. Quindi le incertezze del nostro procedere, e quelle non minori degli stranieri nel giudicarlo, perché troppo spesso dimenticano che anche in ciò la loro condizione è essenzialmente diversa dalla nostra.

Quando alcuni dei nostri uomini politici più autorevoli annunziano al mondo, che in Italia non c'è una questione religiosa, e che il volerla sollevare è poco patriottico, non mancano in Italia e fuori energiche proteste. Se noi infatti non abbiamo una questione religiosa, perché tutto il paese è cattolico, siamo per questo lato in condizioni simili alla Francia, che deve gran parte della sua politica impotenza al partito clericale, quel partito che minaccia di condurre il Belgio alla guerra civile, che ha dichiarato guerra alla società moderna.

Quando i medesimi uomini politici esaltano la formola: libera Chiesa in libero Stato, e dicono che con essa abbiamo dato al mondo il grande esempio di risolvere l'antico conflitto di due poteri lungamente avversi, col solo mezzo della libertà, le proteste diventano ancora più vive. Sono di certo molti, sono troppi i fatti, così nella vita individuale come nella sociale, specialmente poi in un paese cattolico, nei quali l'elemento religioso ed il civile si trovano per modo intrecciati, che il separarli riesce impossibile, senza distruggere il fatto stesso che non di rado risulta solo dall'unione di essi. Se noi disarmiamo lo Stato d'ogni legittima difesa; se il prete è in chiesa libero di far quello che vuole, non può esso dalla chiesa mettere a pericolo la società civile? Nè vale il ripetere che queste sono utopie, perché l'Italia è troppo indifferente in religione, da far temere l'esistenza di questi pericoli fra noi. È invece la nostra indifferenza appunto quella che dà buon giuoco al clero, e ne alimenta le forze. Là dove si sente fra noi il bisogno della vita religiosa in un modo, in una forma qualunque, ivi esso domina assoluto padrone, perché è solo a cercar di rappresentare questo bisogno, che pure esiste in tutte le umane società. Noi non abbiamo altre sètte da opporgli, non abbiamo che una sola forma di vita religiosa, e il discutere ciò che si deve o non si deve credere in fatto di religione, non entra molto nei nostri costumi. Troppo spesso passiamo dal Papa al Voltaire senza fermarci per via.

Non abbiamo una vera letteratura teologica; non ricerche originali sulla storia della Chiesa, sulle origini del Cristianesimo; abbiamo soppresso le Facoltà di teologia; abbiamo permesso che i preti si chiudano nei loro Seminarti, per ricevervi una istruzione contraria alla società moderna. E quando essi ne sono così divenuti nemici, dobbiamo anche conceder loro piena balìa di organizzarsi e di combatterla?

Ma dopo aver detto tutto ciò, abbiam pure lasciato fuori della disputa un elemento assai importante a risolverla. Quando ci si fa di continuo l'accusa di riguardar la questione religiosa come una questione politica, si dimentica che essa non solo è stata da noi considerata, ma si è a noi, nella realtà delle cose, presentata come politica. Andare a Roma per compiere la nostra unità, ed abolire quindi il potere temporale dei Papi; ecco quale era in sostanza il problema dominante della nostra questione religiosa. La frase: libera Chiesa in libero Stato, pronunziata e ripetuta quando s'abolivano i conventi, se ne incameravano i beni, si proclamava il matrimonio civile, che cosa significava, perché era accettata allora da tutti i partiti liberali? Significava una solenne promessa ai Cattolici del mondo intero, che si voleva abolire il potere temporale senza rendere schiava la Chiesa. E su questo terreno noi avevamo il grandissimo vantaggio di trovarci divisi in due soli partiti, quelli che volevano e quelli che non volevano l'Italia. Questi invocavano ancora lo straniero, e quindi erano doppiamente nostri nemici politici. A noi non conveniva in modo alcuno di rompere la concordia dei liberali, che riduceva ad una vera impotenza il nostro clero, il quale si trovò così in tali condizioni che, senza l'aiuto straniero, sarebbe stato fin dal primo giorno disfatto.

Se non che, mentre ci avvicinavamo alla mèta lungamente desiderata, divenivamo ogni giorno più facili a transigere sul resto, più pronti a dar nuove garanzie, nuove libertà al clero, e dimenticavamo che la questione non poteva rimanere sempre nel suo primo stadio, e che noi non eravamo tenuti mai a dare più di quel che avevamo promesso, più di quello che i prlncipii della società moderna concedono. Il giorno in cui il clero si sarà persuaso che il potere temporale è caduto per sempre, che l'unità d'Italia non si può disfare; quel giorno esso non avrà più alcuna ragione d'invocare lo straniero, diverrà, come è in Francia, un clero nazionale, patriottico, e la sua potenza crescerà fra noi a dismisura. Allora mirerà solo ad impadronirsi della società, e noi potremmo troppo tardi pentirci d'avergli messo in mano le armi, di cui vediamo quale uso sa fare in Francia ed altrove. Non si apparecchia forse alla lotta? Per qual ragione ha da qualche tempo una cosi grande premura d'impadronirsi di quelle scuole cui era stato avverso? Perché filtra con tanta avidità nelle Opere pie, cercando aiuto anche dalle suore del Belgio e della Francia? Perché esso, che è tanto geloso dei suoi Seminarii, vuole attirarvi la nostra gioventù, dandole l'istruzione secondaria, anche quando le nostre leggi non lo consentono? Questo è certo il lato vulnerabile della nostra politica ecclesiastica, ed è singolare su questo punto la indolenza dei partiti. Quelli che hanno in ciò le più opposte opinioni, s'uniscono pure a formare una sola consorteria. Quelli che sembrano più minacciare a parole, e promettono leggi draconiane, quando vanno al potere lasciano fare ogni cosa.

Il progresso degli studii; la trasformazione dei vecchi partiti, che sembrano volersi dividere non più nelle sole questioni politiche, in cui siamo assai concordi, ma in quelle di ordinamento interno e di rinnovamento sociale, alle quali dobbiamo ormai dedicarci, ed in cui non siamo d'accordo; il pericoloso esempio della Francia, e l'amicizia della Germania conducono il paese ad una più ardita politica ecclesiastica. Ma le minacce continue del partito clericale in Europa, se da una parte ci fanno aprire gli occhi, da un' altra tornano a dare alla questione un carattere tutto politico, e ci risospingono a cercare la concordia degli animi in nuove transazioni, che, se allontanano pericoli presenti, non rendono certo più sicuro l'avvenire. Or non debbono i paesi protestanti, nei quali lo Stato è di fronte al Cattolicismo tanto più forte, tener conto di queste condizioni nel giudicare la condotta dei nostri uomini politici?

Risulta da quanto abbiamo detto fin qui, che se dal progresso degli studii dobbiamo solo aspettarci un progresso continuo, ma lento, non possiamo avere speranze molto maggiori neppure da una politica ecclesiastica anche più ardita e previdente di quella seguita sinora. Il secolo presente ed il popolo italiano sono tali, che un'agitazione religiosa capace d'infondere a un tratto nuova vita nel paese, non par possibile. Possiamo solo condurci in modo da evitar gravi pericoli per l'avvenire, e da impedire che sorgano ostacoli al progresso naturale delle cose. Ma donde verrà questo progresso?

È chiaro che se, com'è evidente, bisogna sperarlo più o meno da tutti gli elementi che costituiscono la nazione, l'impulso maggiore noi dobbiamo cercarlo sempre là dove il nostro popolo dimostra le sue migliori qualità. Questo ci obbliga a tornare di nuovo alla politica ed alle questioni che più strettamente con essa si connettono.

La rivoluzione italiana fu opera d'una minoranza intelligente e patriottica, la quale, se aveva i difetti che più sopra notammo, ebbe ancora un senno politico maraviglioso, comune a tutto il popolo, alla cui testa essa si trovò, e da cui fu seguita, sostenuta con un'ammirabile concordia. Bastava una frase, perché da Torino a Falermo ognuno capisse ed ognuno obbedisse. Le difficoltà si superarono d'incanto, la gioventù accorse sotto le bandiere, nessuna città deplorò i tempi in cui era capitale, nessuna provincia lamentò la perduta influenza. E quando bisognò pagare i debiti contratti per salvare la patria, sarebbe difficile trovare nella storia un altro popolo che con pari rassegnazione si sottoponesse ai più duri sacrifi zii, i quali a molti toglievano il pane di bocca. ' Ma non appena la nazione fu politicamente costituita, e incominciò l'opera della rigenerazione sociale, il popolo ricadde nell'indifferenza, la classe dirigente si trovò come isolata, e la vita politica fu circoscritta nella Camera. Coloro che, nel primo periodo della nostra rivoluzione, alla testa di tutto il popolo, uniti dal suo entusiasmo universale e concorde, ci erano parsi ed erano stati cosi grandi, sembravano ora a poco a poco rimpicciolirsi.

Abbandonati a se stessi, senza il cemento della pubblica opinione che avvicina gli uomini politici e forma i partiti, tornarono semplici individui. Ricomparvero allora le loro passioni personali, le loro differenze, i loro interessi regionali, e si divisero in gruppi, in consorterìe. La storia renderà giustizia al loro patriottismo; ma dirà ancora che non riuscirono sempre uguali a se stessi, quando le questioni non furono più  né urgenti  né politiche, ma invece di riordinamento e rinnovamento sociale. Non e' è da meravigliarsi se quella che era stata opera di tutto il paese, parve fatta a vantaggio di tutti, e quella che fu opera dei pochi, parve fatta solo a vantaggio dei pochi. Non che fosse mai venuto meno il patriottismo, o che i nostri uomini politici avessero mai deliberatamente perduto di mira il bene generale; ma la società intera si trovò in mano d'un numero assai ristretto di persone, che, rinchiuse in troppo angusta sfera, per forza naturale delle cose finivano qualche volta col credere, che il loro piccolo mondo fosse il mondo, e che non sempre ci fossero interessi diversi da quelli che vedevano e sentivano. Nè la generale indifferenza faceva intorno ad esse risuonare alcuna voce di energica protesta.

La logica dei fatti è però inesorabile. Creati l'amministrazione, l'esercito, la flotta; aperte in buon numero strade e scuole; compiuto quasi tutto il corpo della nazione, si cominciò con maraviglia a vedere, che la vita non si svolgeva, non circolava con sufficiente energia nel vasto meccanismo che si era apparecchiato.

Le moltitudini, che non avevano partecipalo a questo lavoro, sembravano spettatrici indifferenti: in alcune province restavano nell'ignoranza e nell'oppressione, in cui le avevano lasciate i passati governi, che avevano cercato costituire tutta la società a vantaggio di pochi, e v'erano assai spesso riusciti. Poco giovavano le strade e le scuole, meno ancora le libere istituzioni ai più miseri, su cui le nuove tasse pesavano assai più di quel che giovassero i nuovi benefizii. Nè era raro il caso di vedere i prodotti del suolo, gravati d'imposte, pel facile trasporto in province più ricche o più popolose, crescere di prezzo con rapidità assai maggiore che non saliva la giornata del lavorante. Cosi crebbero di molto colla libertà i vantaggi al numero ristretto di coloro che già erano agiati; ma non crebbero del pari, e qualche volta non crebbero punto, i benefizii a chi più ne aveva bisogno.

Che in ciò fosse un serio male ed una vera minaccia per l'avvenire d'Italia, veniva messo in evidenza da malattie sociali come il brigantaggio, la camorra e la mafia in alcuni luoghi; in altri invece da una improvvisa tendenza dei nostri contadini ad emigrare, fatto notevolissimo fra noi, perché essi con grande difficoltà s'inducono a spatriare. In sul principio si credettero fenomeni passeggieri. I contadini partivano, si disse, perché illusi da agenti d'emigrazione, che avevano fatto loro sperare la terra promessa. I disordini del Mezzogiorno erano una conseguenza del mutamento di governo, una questione di sicurezza pubblica. Bastava usare una volta per sempre energica repressione.

Ma la permanenza del male ribelle ad ogni rimedio, il vederlo ricomparire più volte sotto forme diverse, sebbene qualche volta larvate, cominciò a dare pensiero. Alcuni prefetti più intelligenti, alcuni comandanti dei carabinieri facevano osservazioni che ne denunziavano la vera natura. Erano però voci isolate, osservazioni vaghe, che non trovavano ascolto.

La verità era che lo sguardo si volgeva altrove, inquieto e quasi impaurito d'affrontare un problema che sembrava d'impossibile soluzione. Il miglioramento sociale d’un popolo fìno ad ieri oppresso è per se stesso cosa che spaventa. E l'Italiano, da troppo poco tempo divenuto padrone di sè, non ha ancora quella fede, che hanno per esempio gl'Inglesi, nella potenza della volontà umana e delle leggi a correggere i mali sociali. Questi mali ci paiono quasi un'opera della natura e della Provvidenza, che aspettano rimedio solo dal tempo. E come la libertà doveva, secondo alcuni di noi, da se sola bastare. a risolvere per sempre ogni disputa fra la Chiesa e lo Stato, così doveva per essi bastare del pari ad evitare ogni conflitto d'interessi e di classi. In presenza di tante e così evidenti disarmonie sociali erano invocate le Armonie Economiche del Bastiat, e si ponevano a singolare tortura le dottrine di Adamo Smith per concludere: —Date tempo al tempo; lasciate fare, lasciate passare, che tutto s'accomoda da sè. — Autoritarii, illiberali erano da costoro chiamati quelli che rispondevano: — Intanto passano la miseria e i preti! —

Chi paragona le province d'Italia in cui il contadino sta meglio, anzi sta bene come in Toscana, con quelle in cui sta peggio, che cosa vede?

Vede le prime fiorenti, tranquille, senza brigantaggio, senza emigrazioni; ma trova ancora, per quanto si voglia da alcuni negarlo, che dal suo campo il proprietario riceve una rendita minore che nelle province dove il conta dino sta peggio. A chi avesse delle migliaia di scudi da impiegare, metterebbe più conto comprare una estensione di terreni nella Campagna Romana, dove vanno solo a pascolare armenti, che poderi in Toscana, ricchi di case, di vigne e di oliveti, ma dove sono continue le spese e i doveri verso il contadino. Colà dove abbonda la popolazione, il che segue in molte parti d'Italia, e non v'è altra occupazione che l'agricoltura, ivi, se la legge o la consuetudine non mettono un freno come in Toscana, l'armonia economica riduce la giornata di chi coltiva la terra a ciò che è strettamente necessario, perché non muoia di fame. Questo è l'effetto dell’egoismo individuale abbandonato a se stesso, non frenato da legge o consuetudini, fino a che il sorgere dell'industria e l'emigrazione non creano la concorrenza, o le moltitudini non ricorrono alla violenza.

Se questa fosse una questione solo di filantropia e di umanità, si potrebbe temere che la soluzione del problema venisse rimandata all'infinito. L'Italia è un paese essenzialmente agrario, e, salvo alcune grandi città, l'industria richiede ancora capitali e tempo a penetrarvi in modo da trasformarlo. L'emigrazione è appena in sul principio, e si può facilmente frenare. Il nostro popolo è mite e buono, da lunghi anni rassegnato allo stato presente, e noi abbiamo in mano la forza morale e materiale.

Ha la questione si presenta anche sotto un altro e diverso aspetto. Finché dura lo stato presente di cose, l'Italia sarà un paese che spende, ma non produce quanto deve un paese libero e civile. Mancano nel maggior numero dei suoi più poveri abitanti, non solo la istruzione, ma quella indipendenza, iniziativa ed energia morale che nei paesi veramente civili fanno allo stesso ordine di cittadini produrre tanto di più. Or tutto questo può consumare le nostre forze, ridurre all'impotenza coloro stessi che comandano, compromettere l'avvenire e la grandezza dell’intera nazione. Messo in tali termini il problema, pare che si cominci a comprenderne e sentirne l'importanza. E veramente agi' Italiani si possono fare molti rimproveri; ma la storia di questo secolo prova che essi sanno mettere la patria al di sopra degl'interessi personali, regionali e di partito. Ciò fu più volte la nostra salvezza nel passato, e ci dà diritto a sperare per l'avvenire. Non appena infatti alcuni opuscoli e giornali dimostrarono, che la questione si presentava sotto l'aspetto da noi ora accennato, trovarono a un tratto un'eco inaspettata nel paese, e si senti ripetere da più parti: — Qualche cosa finalmente bisogna pur fare per le classi diseredate dalla fortuna. —

Dopo questi primi segni ne seguirono altri, dei quali non vogliamo esagerare l'importanza; ma ai quali, per la stessa novità loro, non si può negare un certo valore. Qualcuno di quei poco patriottici municipii, che avevano ingenuamente aperto una scuola classica pei cinque o sei figli dei signori, dopo essersi dichiarati troppo poveri da aprire la scuola elementare, o avevano tassato in proporzione assai maggiore il ciuco del povero contadino, che il cavallo da sella del ricco signore,

cominciò a trovare chi lo denunziava al pubblico, dichiarando iniqua una tale condotta, ed invocando la severità delle leggi. L'enorme rendita che la carità dei nostri padri aveva accumulato nelle Opere pie a benefizio dei poveri, e che per lungo tempo era stata, in parte non piccola, dissipata a benefìzio di chi non era povero, è oggi soggetto di studio e discussione in tutta la Penisola. Una Commissione governativa studia il grave problema, per compilare una nuova legge che dovrà essere presentata al Parlamento. Un'Inchiesta agraria, non senza opposizione e con mezzi assai insufficienti, è stata pur votata dalla Camera. Lo scopo di coloro che la promossero, era appunto uno studio sulle condizioni del contadino italiano, per cercare di migliorarle. Un'altra Inchiesta è stata già compiuta sulla Sicilia, essendo divenuta assai generale la convinzione, che ivi corno in tutta l'Italia Meridionale non bastano i soli provvedimenti di pubblica sicurezza. La Commissione, è ben vero, dopo aver raccolto con diligenza fatti importanti fu troppo ottimista. Tutto andava per il meglio nell’Isola. Il progresso era visibile; bastava dar tempo al tempo; scuole e strade avrebbero fatto il resto. Se non che, quasi nello stesso tempo si faceva anche un' Inchiesta privata. I signori Leopoldo Franchetti e Sidney Son nino, due intelligenti, ricchi e arditi giovani toscani, percorsero tutta l'Isola, e ne rivelarono le piaghe sociali con una franchezza insolita, con una fede cosi inconcussa nella santità della causa che sostenevano e nel patriottismo che li moveva, da non fermarsi mai a mezzo nella espressione dei loro sinceri ed onesti convincimenti. Fra amici e nemici, i due volumi di questi giovani levarono un gran rumore.

Anche la stampa straniera, specialmente la inglese, fece loro grandissimo plauso. Ed il sarcasmo di coloro che non vorrebbero fra noi uscir dalle vecchie rotaie, e quasi si sentono umiliati dal pensiero che sorga una generazione nuova, cui spetti la soluzione d'ardui problemi, fu impotente a seppellirli sotto il silenzio.

Non v'è dubbio alcuno: si va formando in Italia un nucleo di uomini, i quali denunziano i mali che ancora travagliano il paese, e accennano a una nuova via da percorrere. La pubblica opinione, troppo spesso indifferente, sembra invece secondarli, perché il paese si sente dalle loro parole toccato appunto là dove duole. Ma son pochi. Avranno essi la forza e la costanza necessarie per arrivare ad un resultato reale? Io, mio caro professore Hillebrand, non voglio fare il profeta. V' ho promesso solo una descrizione del nostro stato presente, per quanto sapevo e potevo, fedele. Certo i partiti politici, pure riconoscendo l'evidenza dei fatti denunziati, brancolano ancora nel buio, ostinandosi nella strana idea di continuare a dividersi nelle questioni politiche, quando in esse tutti ripetono lo stesso, ed il paese intero desidera solo di assicurare quello che ha già acquistato, per vederne i frutti tante volte fatti sperare. E vorrebbero invece credersi concordi là dove il dissenso apparisce ogni giorno più manifesto, come nella questione religiosa e in quella del riordinamento sociale, nelle quali la lotta potrebbe essere feconda di grandi conseguenze.

In ogni modo lo stadio e la soluzione dell'arduo problema, per ora almeno, non saranno iniziati fra noi dalle classi povere, troppo ignoranti e troppo sottomesse da far temere in Italia una questionejsociale nel senso più minaccioso della parola. Questo fa gridare agli uni, che non bisogna sollevarla; ma fa con maggiore insistenza ripetere agli altri, che bisogna con savie riforme prevenirla. L'iniziativa certo spetta a coloro che dirigono il paese, che han fatto l'Italia, e che dovrebbero finir di distruggere l'opera dei passati governi, quella che fu la base più solida della loro tirannide, e sulla quale è impossibile fondare una libertà ed una civiltà reale e non apparente.

Ecco intanto, mio caro Professore, quello che, conchiudendo, io posso dirvi: Sono profondamente convinto, che, se avremo il coraggio di metterci deliberati a quest'opera, noi presto sorgeremo fra le nazioni più civili dell’Europa. Non ci mancano molti elementi di progresso reale e visibile. L'adempimento d'un gran dovere sociale farebbe sorgere dinanzi a noi un nuovo ideale, e riaccenderebbe nello spirito italiano queir entusiasmo che, nel principio della nostra rivoluzione, fece sperare di noi grandi cose. L'esame di problemi che abbracciano tutta quanta la vita nazionale, potrebbe anche aiutarci a dar nuovo e più potente impulso alla nostra cultura, facendoci, collo studio e con una più chiara coscienza di noi medesimi, ritrovare l'antica originalità dell'ingegno italiano.

Se ci mancherà questo coraggio, non avremo il diritto di sperare quella stima e gloria vera, che spetta solo cosi agl'individui come alle nazioni che non indietreggiano dinanzi all'adempimento dei loro più ardui doveri.

Voi che siete fra noi da tanto tempo, sapete come i sentimenti che io vi esprimo non sono miei solamente, e che però il farli conoscere qual parte della nostra presente vita nazionale, non è del tutto inutile.

Credetemi intanto

Firenze, 24 giugno 1877.

Vostro sincero amico

P. VILLARI.


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DI CHI È LA COLPA? O  SIA PACE E LA GUERRA

Quest'opuscolo fu pubblicalo, la prima volta, nel Politecnico di Milano, il settembre del 866. Dopo ne furono fatte altre edizioni, ed ora lo ripubblichiamo senza nulla alterarvi.

La guerra è cessata, e noi abbiamo ottenuta la Venezia. Lo scopo a cui da sei anni ci apparecchiavamo, è ottenuto con minori sacrifizii, che non eravamo disposti a farne; ma niuno di noi è contento. Y'è stato un sacrifizio che ci pesa più d'ogni altro. Questa guerra ci ha fatto perdere molte illusioni, ci ha tolto quella fiducia infinita che avevamo in noi stessi. Abbiamo visto i tardi Tedeschi correre come il fulmine, e i focosi Italiani andare come le tartarughe. La Prussia di vittoria in vittoria annientò le forze dell'Austria, contro le quall'noi abbiamo ottenuto così poco per terra e per mare. Ci è impossibile pensar di noi quello che avevamo pensato finora.

Di chi è la colpa? La risposta è già pronta, e tutti ripetono in coro: — La colpa è dei capi. I nostri soldati e marinai combatterono da eroi: ma nel momento dell’azione mancò la capacità del supremo comando, e si trovarono come abbandonati a se stessi. — Se non che, quando sembra che la questione sia chiaramente risoluta, allora sopravvengono altre osservazioni, e si moltiplicano da ogni lato.

Si scoprono nuovi errori e nuovi colpevoli. In un punto mancò il cibo, in un altro la munizione, un ordine non giunse a tempo, un altro fu male eseguito, il volontario fu sprovvisto d'ogni cosa, e, quanto alla flotta, sarebbe impossibile enumerare tutto quello che si dice, ora che ognuno pretende conoscere a fondo l'arte della guerra.

Ma allora come mai si commisero tanti errori? Di chi è la colpa? — La colpa è del sistema che ci ha governati finora. Sono le consorterie, le malve, il piemontesismo, sono gli uomini che hanno sempre tenuto il mestolo in mano, e sempre a danno del paese. Ora finalmente si vede chiaro dove ci hanno condotti. — Ma anche a questa risposta vien fatto di soggiungere: — Come mai l'Italia s'è lasciata cosi lungamente governare da tali uomini? Noi abbiamo, certo, libertà assai più larghe, non solo dell’Austria, ma della Francia e della Prussia. Il Governo fu sostenuto dai Deputati, questi furono eletti dal popolo, e le ultime elezioni furono fatte senza pressione del Ministero. — Si, ma le nostre moltitudini sono ignoranti e si lasciano portar pel naso dai mestatori. La pubblica opinione non ha indirizzo, e noi manchiamo di uomini. —

Allora la questione muta sostanzialmente. Voi siete scontenti dei generali, dei ministri, dei deputati, degl'impiegati, e per giunta anche del pubblico. E se ancora volete attribuire tutto ciò a sola colpa del Governo, io vi chiedo: l'amministrazione dei municipii e delle province va bene? L'associazione e l'iniziativa privata fecero forse quello che s'aspettava?

L'industria, il commercio, la scienza presero forse lo slancio che si doveva sperare dalla libertà e dall'Italia unita? Tirate un poco la somma di tutto ciò, e allora ditemi se egli è giusto di accumulare le conseguenze inevitabili di tanti errori tutte sul capo di due o tre uomini che, se furono funesti al paese, potrebbero facilmente essere giudicati e rimossi; per chiuder poi gli occhi a quegli errori assai più pericolosi e più difficili a rimediarsi, perché furono gli errori di tutto il paese. Noi potremmo essere costretti, per qualche altra e più grave sventura, a subirne di nuovo le conseguenze, ed avvedercene ancora una volta troppo tardi. 0 vogliamo noi ridurre a questione di partilo una questione che riguarda la nostra esistenza e il nostro avvenire, in un momento in cui ci troviamo a sperimentare cosi dolorosamente l'incapacità, gli errori e la mancanza d'uomini in tutti i partiti?

Innanzi a noi non v'è che una via sola, per rimediare ai mali, e non perdere la stima che ci siamo acquistata in Europa. Metterci a cercare le cagioni degli errori, senza ira e senza parte; provvedere, senza esitare e senza rispettare, idoli di sorta. Il sistema di gettarci da noi stessi polvere negli occhi, di adularci per farci adulare, è ormai un sistema fallito. A che ci è servito ripetere mille volte che la flotta italiana era formidabile, inespugnabile, e la flotta austriaca ridicola, quando a Lissa il Re d Italia è affondato, la Palestro è saltata in aria, e il Kaiser è tornato a Pola?

E poi che bisogno abbiamo d'illuderci? I nostri errori sono pure conseguenza del troppo rapido cammino che abbiamo fatto, e i prodigi operali dal 59 in poi non sono sogni. Noi possiamo sempre inorgoglirne, ed essi sono arra sicura del nostro avvenire, se una tenace perseveranza sa ritrovare i germi del male, nascosti in mezzo ai nostri maggiori successi, e sa rimediare ai disordini della fretta. Quale altra nazione ha potuto, in cosi breve tempo, fare un corpo solo di province cosi disgregate? Abbiamo dimenticato le difficoltà superate per organizzare ventidue milioni d'uomini, e formare un esercito di trecentomila soldati, ed una marinerìa proporzionata all'esercito? Non dovemmo creare il materiale da guerra, le tradizioni, gli ordini, la disciplina, gli uffiziali, i generali, ogni cosa? Non trovammo noi le più gravi difficoltà fin dal cominciare la coscrizione, che in alcune province alimentava il brigantaggio, e in altre sembrava non dover mai riuscire? Eppure tutto ciò è stato superato. Nella Camera, nel Ministero, negli ufficii pubblici e privati, ogni differenza tra provincia e provincia è scomparsa. L'esercito ha riunito tutti gi Italiani sotto l’onore della stessa bandiera, e di tutte le forze morali, unificatrici e civilizzatrici del paese, è divenuto la più efficace. Se non avesse fatto altro che tenere, per sei anni, unite insieme centinaia di migliaia d'Italiani, educando al principio dell’onore e della lealtà militare cosi il gentiluomo di Napoli e Milano, come il pescatore del Mediterraneo o il capraro dell’Appennino, sarebbe stato già un benefizio incalcolabile.

Queste grandi qualità noi le abbiamo avute nella pace, e ce le siamo ritrovate nella guerra. Non è stato forse uno spettacolo sublime quello di vedere, invece delle reazioni, del brigantaggio e della discordia aspettata dai nostri nemici, i coscritti presenti senza renitenti, i partiti riuniti in un solo pensiero, i quarantamila volontarii presenti invece dei ventimila chiamati? Quale dei principi spodestati potrà più dire, che i suoi fedeli aspettano solo l’ora della riscossa? E in mezzo a battaglie sfortunate l'eroismo dei soldati ci ha fatto inorgoglire, e ci ha guadagnato la stima dei nemici e degli amici. Noi abbiamo visto i nostri soldati, morenti di fame, di sete e di stanchezza, continuare gli assalti; noi li abbiamo visti sugli alberi del Re d'Italia continuare il fuoco, mentre la nave rapidamente affondava; e le ciurme della corazzata Palestro gridavano ancora: Viva l'Italia! nel momento d'essere gettate a brani sul mare. Tutto ciò è mirabile, e noi soli possiamo giudicare il portentoso progresso; perché noi soli sappiamo in quale abbrutimento, fra quali gelosie, i passati governi avevano saputo tenere le nostre plebi. Ma tutto ciò non è bastato, perché la guerra è l'arte di ammazzare, non di farsi ammazzare.

La guerra decide i destini dei popoli, perché in essa si misurano tutte quante le forze delle nazioni. Ove la differenza del numero non renda impossibile la lotta, la nazione che vince non è quella che ha solamente più eroismo, abnegazione ed entusiasmo; ma è la nazione più civile.

Ora che gli eserciti son divenuti cosi numerosi, si distendono sopra cosi vasti paesi, e si muovono con tanta rapidità, che gli ordini si dànno col telegrafo e si eseguono colle strade ferrate; il piano di battaglia è divenuto un lavoro di scienza, e la direzione di queste grandi masse richiede, se non genio, che questo non si può sempre avere, almeno grande ingegno e grande coltura in tutti coloro che comandano. L'approvvigionamento richiede una grande capacità amministrativa, e i mezzi d'offesa e di difesa sono divenuti così complicati, che tutte le operazioni militari suppongono nell'esercito e nella flotta una grandissima forza industriale.

Nella Esposizione di Londra, la Prussia pigliò un gran posto accanto alla Francia ed all’Inghilterra, superando di gran lunga l'Austria, dalla quale noi fummo superati. Invece di gettare un grido d'allarme, nascondemmo la dura lezione, ed ora siamo venuti a raccoglier nella guerra ciò che avevamo seminato nella pace, e restammo sbalorditi nel paragonare le splendide vittorie dei Prussiani coi nostri miserabili insuccessi. Ma potrà essere altrimenti, fino a che il nostro operaio sarà vinto in tutte le Esposizioni? Quando il nostro contadino non sa cavare da un suolo fertilissimo un prodotto uguale a quello che l'Inghilterra e la Germania cavano da un suolo ingrato; quando noi abbiamo reso povero un paese dalla natura fatto ricco, e la Prussia con la sua industria e la sua mirabile amministrazione ha fatto ricchissimo un paese povero, ed ha potuto compiere la guerra senza nuovi debili? I suoi libri sono cercati in Francia, in Italia, in Inghilterra, e i nostri non passano le Alpi.

I nostri matematici, ingegneri, strategici, meccanici durano gran fatica a tener dietro al progresso che la scienza ha fatto in Germania. Noi dobbiamo chiedere allo straniero rotaie, cannoni, fucili, navi e qualche volta anche i macchinisti delle navi. E non sono queste le forze che vincono nella guerra? Il cannone rigato fu inventato in Francia, ed il fucile ad ago in Prussia, perché queste due nazioni hanno grandi industrie e grandi fabbriche d'armi, le quali, specialmente in Prussia, avevano preso uno svolgimento prodigioso. Le navi corazzate furono trovate in America, e il cannone Armstrong, destinato a forarle, fu trovato in Inghilterra, le due nazioni più industriali e più navigatrici del mondo. La civiltà è un complesso di forze che formano un organismo vivente, e dove una di queste forze manca, tutte le altre se ne risentono. Non è possibile supporre, che la nazione più debole nella pace riesca nella guerra più forte. Noi siamo ora vicini a ricevere una nuova e assai più dura lezione dall'Europa. L'Esposizione del 67 si approssima, e tutti €i aspettano alla prova per vedere che cosa ha saputo fare la nazione risorta. Ora non dobbiamo più sperare nella benevola indulgenza che avemmo a Londra, dove l'Italia si presentò come un paese che, incerto ancora della sua esistenza, chiedeva d'essere accolto fra le nazioni civili. Oggi siamo un popolo già libero da alcuni anni, nei quali l'Europa e la fortuna ci hanno aiutato. Si ha il diritto di chiederci sul serio: cosa avete fatto voi? E se non sapremo neppur mostrare quel che veramente siamo, i Francesi sapranno dirci sul viso il pensier loro, e da ciò che proveremo d'essere nella pace, s'argomenterà di nuovo ciò che potremo esser nella guerra.

Quando le ciurme della nave americana o inglese sono in riposo, voi trovale i marinai occupali a leggere. I nostri son costretti a dormire o giocare. Quando i coscritti prussiani si presentano al Consiglio di leva, la prima cosa si esamina se sanno leggere e scrivere. E quando un Municipio presenta più di un analfabeta, si apre un'inchiesta per esaminare la cagione del fatto strano. Noi abbiamo 17 milioni d'analfabeti. Quando in tempo di pace gli ufficiali francesi o prussiani sono di guarnigione, voi li trovate occupati nel disegno, nelle scienze militari, nella storia, e molte opere celebrate di geografia, di storia, di letteratura escono dalla loro penna. Osservate le carte geografiche dello Stato Maggiore austriaco o prussiano; sono lavori ammirabili per esattezza scientifica. Questa guerra è stata un grande trionfo per la scienza, perché ha provato che la nazione più dotta riesce la prima anche nel campo di battaglia. Che cosa siamo noi che, facendo la guerra nel proprio paese, abbiamo più volte sbagliate le strade?

Il nostro esercito è la nazione perfezionata. Esso è meglio amministrato, meglio ordinato, più disciplinalo e morale di tutte le nostre istituzioni. Ma se esso può migliorare, non può creare tutte le forze che mancano nella nazione. Coloro che lo compongono continuamente, sono Italiani che v'entrano a diciannove anni, cioè quando l'uomo è già formato. Ora se la coltura delle nostre plebi è cosi bassa, credete voi che nessun grave danno ne risenta l'esercito?

Potete supporre che il pescatore, il quale non s'è mai allontanato dalle rive del suo paese, riesca così abile a manovrare sulla nave corazzata, coi cannoni Armstrong, come colui che ha traversato due o tre volte l’Atlantico? Potete supporre che il pecoraio ignorante ed abbrutito riescirà nell'esercito cosi abile, come l'industrioso agricoltore e l'operaio intelligente? Le nostre scuole militari sono condotte con molto ordine e molta disciplina; ma se la coltura scientifica è cosi bassa nel paese, e il pubblico insegnamento cosi abbandonato, dove troveranno esse tutto il gran capitale scientifico di cui abbisognano? La Scuola Politecnica di Parigi, le scuole militari della Francia e della Prussia sono grandi istituzioni, perché v'insegnano illustri scienziati, che noi o non abbiamo o non sappiamo valercene. Il nostro esercito è un miracolo del valore e dell’ingegno italiano, perché la distanza che lo separa dai primi d'Europa, è infinitamente minore di quella che separa la nazione dalle altre più civili. Ma esso è giunto ora ad un punto, che, a volerlo migliorare ancora, bisogna che il paese pensi sul serio a migliorare se stesso. Ed il Ministro della guerra dovrà essere il primo ad esigere, che la nazione tutta quanta progredisca.

Che se si tornasse ancora sulla mancanza di capi, bisognerà pur notare che la nazione ha il diritto di avere uomini che non commettano gravi errori, che non si dimostrino di un'assoluta incapacità; ma non può sperare di aver sempre a sua disposizione uno di quegli uomini di genio, che sono capaci d'infondere la vita in tutto un paese. Di questi ne nasce uno ogni secolo, ed anche allora essi rappresentano il popolo in cui vivono.

Senza la Rivoluzione il genio di Napoleone non si poteva manifestare, senza i marinari inglesi non vi sarebbe stato un Nelson. Due grandi nomi ci ha dato la nostra rivoluzione, il Cavour e il Garibaldi. Il primo rappresentò quel genio politico che non ci è mai mancato; il secondo è il genio dell'entusiasmo e del valore popolare, dei quali l'Italia ha dato sempre tante e cosi splendide prove. Ma la guerra presente ha dimostrato, che queste due grandi qualità ancora non bastano, e a noi sono mancati gli uomini appunto che supplissero alle qualità che mancavano nel paese. Gran fortuna per noi sarebbe stata se, invece di due mesi, le battaglie fossero continuate per un anno. Esse avrebbero provato molti uomini, messo in luce molti nomi oscuri, e mandato in ombra molte celebrità usurpate, formato il carattere della nazione, e dato maggiore esperienza e maggiore solidità all'esercito. Una vittoria difficile, dopo una guerra lunga, era ciò che l'Italia poteva desiderare di meglio. Ma ciò non è avvenuto, ed è inutile desiderarlo. Ora bisogna, invece, saper profittare della pace per cercare le cagioni degli errori, trovare i rimedii.

Come è dunque avvenuto che un popolo così intelligente e volonteroso qual'è l'Italiano, sia caduto in tanti errori, e debba riconoscersi così poco progredito da sentirsene umiliato? Qual via ci ha condotti ove noi siamo  e v'è egli modo di uscirne? Se è possibile dare, una volta, il proprio nome alle cose ed agli uomini, non vedo che un solo metodo per risolvere una tal questione: esaminare prima in che modo s'è formata l'Italia.

Se noi avessimo fatta una vera e propria rivoluzione colle sole forze del paese, i nuovi e i vecchi elementi si sarebbero confusi tra loro, ed in mezzo ad una lotta lunga e sanguinosa sarebbe scomparsa una generazione e ne sarebbe sorta un'altra, giovine, nuova, agguerrita, capace di governare e condurre il nuovo paese. Ma i governi passati crollarono, quasi senza esser toccati, perché nel popolo s'era manifestato un progresso a cui essi vollero rimanere estranei o avversi, e la lotta contro l'Austria fu vinta coll'aiuto della Francia. Un bel giorno noi eravamo liberi ed uniti, dopo lotte che, in proporzione del grande risultato, si potevano dire di poco momento. E l'Italia nuova si trovò formata degli clementi stessi di cui era composta l'Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversa. In quel momento bisognava cominciare a riordinare e ricostituire; l'entusiasmo, l'abnegazione e l'eroismo non bastavano più: cessarono i prodigi e cominciarono gli errori.

La nuova Italia si trovò formata di tre elementi diversi. Vi erano gl'impiegati dei vecchi governi, i liberali d'ogni colore delle nuove province, e finalmente i Piemontesi. I primi da una rivoluzione violenta sarebbero stati licenziati in massa; ma la nostra, pacifica e tranquilla, dovette invece accettarne un grandissimo numero. La loro esperienza ci era necessaria, non avendo noi avuto il tempo di formare una nuova generazione; e fra di essi v'eran pure uomini abilissimi che resero grandi servigi al paese. Ma, in fine dei conti, lasciando da parte le eccezioni lodevoli, ognuno può facilmente comprendere quanto abili dovessero riuscire a governare con la libertà un paese di ventidue milioni, coloro che avevano formato le amministrazioni, corrotte o microscopiche, di governi caduti per la loro ignoranza e pel loro cieco dispotismo,

A questi s'unirono i liberali in gran numero, e: fra di essi vi erano ingegni giustamente riputati, caratteri specchiati, patriotti a tutta prova. Ma vogliamo esser giusti veramente con tutti? Chi siamo noi, moderati e partito d'azione, consorti e non consorti? Tutti gli uomini del gran partito liberale nacquero, vissero e furono educati nell'Italia divisa dei piccoli Stati e dei piccoli tiranni. Noi abbiamo avuto quella educazione che solo era possibile in paesi dove le lettere, le scienze, le arti, l'industria, il commercio erano nell'infanzia, sotto governi paurosi d'ogni raggio di luce, in mezzo a società frivole o corrotte. Volere o non volere, questa è l'aria che abbiamo respirata, e la miglior parte del nostro carattere s'è dovuta formare in un circolo ristretto d'amici, protestando e cospirando. Ci salvammo a forza di generose aspirazioni, di entusiasmo e di sacrifizii; ma l'istruzione e l’educazione sociale di un gran popolo ci è mancata, perché questo popolo ancora non esisteva. La rivoluzione portava adesso i liberali al governo e negli impieghi. E ciò che li spingeva innanzi era generalmente il carattere politico, non la capacità amministrativa. Dove potevano averla acquistala? La burocrazia è una professione come un'altra, che richiede studii speciali, lungo tirocinio e, sopra tutto, lunghissima esperienza. I liberali venivano, invece, dagli esilii, dalle galere, dalle cospirazioni, dal campo dei volontarii, e d'un tratto, si trovavano nei più alti ufficii, dati loro in premio delle sofferenze patite.

Ed era ben naturale. In quei momenti d'incertezza e di sospetti, quando i vecchi impiegati si potevano credere amici dei governi caduti, quando mille pericoli ne circondavano, quando tutto si riduceva a sapere se potevamo o no esistere, la fede politica ci era cento volte più utile della capacità amministrativa. Il ricco, il nobile, il potente che faceva una franca adesione al nuovo Governo, era spinto innanzi colle mani e coi piedi, senza badare al suo valore, purché servisse d'esempio agli altri. In tutte le Prefetture, nella Polizia, nei Ministeri, nei Municipii, ovunque si poteva supporre un'ombra d'influenza politica, ci voleva gente di provata fede; e quindi si posero uomini che avevano più carattere che esperienza, più entusiasmo che cognizioni speciali. Ed una volta presa questa norma, si procedette con una cecità spaventevole. Senza tener conto dei pochi uomini di grande ingegno, e senza tener conto degli avventurieri e dei disonesti che le rivoluzioni portano sempre a galla, il numero degl'incapaci fu spaventoso. Un giorno ebbi a raccomandare un giovane onesto, liberale, ma scarso d'ogni istruzione. Io accettai l'incarico della raccomandazione, perché quel giovane mi era fatto conoscere da uno che aveva, con dieci anni di galera,. scampato la pena del capo, ed aveva giurato di non chieder mai nulla per sè. Egli mi disse: — Questo giovane domanda solo un mezzo onesto di guadagnarsi il puro pane, e sa che la sua poca istruzione non gli permette chiedere di più. — Con queste medesime parole io feci la mia raccomandazione al Ministro d'uno dei tanti governi provvisorii.

Non erano passati due giorni, e quel giovane venne a ringraziarmi d'essere stato impiegato con cinquanta scudi al mese, in una delle amministrazioni più difficili e complicate dello Stato. Egli era tutto confuso, non sapendo come fare per mettersi in grado d'adempiere il suo ufficio. Pure, come Dio volle, la cosa andò al pari di tante altre. Io non ero anche uscito dalla mia maraviglia, quando venne da me un altro giovane, cui m'ero sforzato di persuadere, che profittasse dei nuovi tempi per darsi agli studii, non essendo possibile vivere in un paese civile colla sua ignoranza. V'ero quasi riuscito; ma quel giorno esso venne a licenziarsi, perché lo avevano nominato giudice nell'isola di Capri.

Di questi fatti se ne possono citare a migliaia, e se fosse permesso dire i nomi, farei vedere quali funeste conseguenze ne sono derivate qualche volta allo Stato ed ai privati cittadini. Noi abbiamo avuto magistrati che appena avevano letto il Codice, prefetti d'una ignoranza proverbiale, professori che non avevano studiato la materia che dovevano insegnare. Ed è singolare! il paese che ha sempre gridato contro tutti e contro tutto, è stato sempre d’una tolleranza illimitata contro questo trionfo delle incapacità. E chi volesse persuadere ai liberali, che l'aver sempre pensato alla libertà del proprio paese, l'averne fatto l’unica occupazione d'una vita spesa nel cospirare, soffrire e combattere per la patria, gli ha resi, novanta volte su cento, pessimi burocratici; direbbe una verità manifesta che nessuno di loro vorrebbe credere.

Ed ora veniamo al terzo elemento di cui si compone la nuova Italia: il Piemonte. Qui non ci sono uomini vecchi ed uomini nuovi, non ci sono liberali ed impiegati di un governo caduto.

Questa è una sacra falange che s'avanza unita e compatta, un quadrato armato di fucili ad ago. Guai a chi volesse fargli contro una carica. In mezzo a governi che crollavano da ogni lato, il Piemonte pareva una massa di granito impenetrabile, con una forza d'assimilazione portentosa. Ed invero, la sua superiorità politica su tutte le province d'Italia era ornai incontrastabile. Aveva la sola amministrazione che non si dovesse da capo a fondo rovesciare; aveva una libera costituzione e leggi che quasi tutte le altre province spontaneamente accettavano o imitavano; i soli uomini esperimentati alla vita politica, che l'Italia conoscesse; un esercito valoroso, un primo Ministro che l'Europa ammirava, ed alla cui morale dittatura ogni provincia si piegava; un Re che si batteva per l'Italia.

Volere o non volere, siccome l'esercito piemontese fu il nucleo intorno a cui si formò l'esercito italiano, cosi il governo e l'amministrazione del Piemonte dovevano formare il governo e l'amministrazione d'Italia. Sui varii elementi che la rivoluzione apparecchiava, il Piemonte riuscì a distendere la sua tenacissima trama, per farne un corpo solo. Ma che valore aveva questa trama? Prima del 48 il Piemonte non era neppure una delle regioni più civili d'Italia, e i principii della Rivoluzione francese v'erano penetrati meno che in altre province. Ma dopo quel tem  po, la sua amministrazione lenta, pedantesca, intricata, aveva pure dalla libertà ricevuto nuovo vigore ed uomini nuovi. Il paese, per se stesso disciplinato e laborioso, si vide rapidamente prosperare.

Il commercio, l'industria, l'educazione popolare avevano preso un grandissimo slancio; l'emigrazione italiana vi aveva raccolto nobili ingegni, e la febbrile attività del Cavour dava un moto accelerato a quel piccolo Stato che, se era ben lungi dal potersi ancora paragonare al Belgio o all’Olanda, si poteva certo fra di noi chiamare uno Stato modello, e come tale fu d'esempio e di scuola all’Italia. Pure le antiche tradizioni non s'erano spezzate, e l'organismo amministrativo e governativo, nonostante il moto che condizioni tanto favorevoli gì'infondevano, era sempre condotto da un gran numero di vecchi arnesi, in gran parte vecchio e sdrucito arnese esso stesso. In un piccolo paese tutti questi mali s'avvertivano poco o non si vedevano; ma quando la trama di questa tela si dovette stendere sopra l'assai più vasta superficie dell'Italia, allora dovunque mancava una maglia si fece uno strappo, e dove erano fila intricate si fece un nodo indissolubile. Cosi tutti i suoi difetti si videro ad un tratto ingigantiti. Fra difficoltà sempre nuove, fra moltitudini sempre diverse, in una condizione di cose sempre mutabile, v'era bisogno d'una grande rapidità negli affari, d'una grande elasticità nei regolamenti, di mille espedienti e ripieghi per condurre un paese che voleva essere amministrato e formato nel medesimo tempo. Ed, invece, con un'amministrazione lenta, pedantesca, intricata e tenacissima delle sue vecchie tradizioni, si trovavano a condurre le cose d'Italia coloro che avevano appena saputo amministrare il Piemonte.

Che esser Capo di Divisione per le carceri o la sicurezza pubblica, Consigliere di Stato o della Corte dei Conti nel Piemonte tranquillo o nell'Italia in rivoluzione, sien due cose affatto diverse, niuno certo vorrà metterlo in dubbio. Ed è chiaro perciò, che se il Piemonte non avesse fatto altro che darci la sua amministrazione, le sue leggi, i suoi uomini, cogli ufficii in cui si trovavano, la macchina governativa avrebbe lavorato già assai peggio, e mille disordini sarebbero stati inevitabili. Ma le cose andarono bene altrimenti. Quando gl'impiegati dei caduti governi e i liberali delle nuove province si unirono ai Piemontesi, questi dettero uno straordinario contingente burocratico a tutta Italia. Si trattava d'attuare le leggi e la politica del Piemonte, e i suoi uomini avevano una reputazione d'onestà, di capacità ed attività superiore agli altri. Era necessario perciò moltiplicare il numero dei suoi impiegati, e cominciò quindi un rapido movimento di ascensione dai gradi più bassi ai superiori. Bisognava aprire le scuole elementari nella Sicilia o nel Napoletano dove mancavano. I governi provvisorii avevano già proclamato leggi simili a quelle del Piemonte, che imponevano l'obbligo d'aprire le scuole, ma non v'erano maestri, direttori, ispettori, e bisognava far presto. Allora il maestro elementare del Piemonte venne a dirigere la scuola, ad improvvisare altri maestri. La necessità lo faceva nominare qualche volta ispettore o anche direttore di Scuola Normale. E cosi il buon maestro elementare di Torino diveniva, nell'Italia meridionale, un cattivo ispettore, un pessimo direttore. E questo lavoro si esegui sopra una larghissima scala.

Come per l'aumento dell'esercito, il capitano fu colonnello, e questi generale, e chi aveva comandato una divisione comandò un corpo d'esercito, e chi aveva comandata quarantamila uomini ne dovè comandare due o trecentomila; cosi il medesimo sistema si volle e spesso si dovette seguire nell'amministrazione. Senza dare alcuna prova delle nuove ed assai maggiori capacità, che i nuovi ufficii richiedevano, il Capo-Sezione fa subito Capo di Divisione, e questi volle essere Prefetto, e il maestro elementare insegnò nel liceo. Quindi, nel medesimo tempo, si vide sgovernata l'Italia, peggiorato il Piemonte, e buoni impiegati divenire mediocri o pessimi; perché, capaci a condurre la piccola barca del Piemonte tranquillo, si trovavano incapacissimi a condurre, con assai maggiori ufficii, la nave d'Italia, in un mare tanto burrascoso.

Il paese si trovò invaso da una moltitudine sempre crescente d'incapacità burocratiche, che moltiplicavano da ogni lato come le locuste. Uomini vecchi e uomini nuovi, liberali, martiri e persecutori, nessuno aveva ricevuta l'educazione e il tirocinio necessario ai nuovi tempi. I Piemontesi, con tutti i loro difetti, erano laboriosi, disciplinati, tenacissimi; si erano trovati in condizioni più favorevoli, e quindi formarono come lo scheletro o l'impalcatura che doveva reggere insieme la macchina della nuova amministrazione. Ora sarebbe inutile rivolgere la colpa di questi fatti agli uni o agli altri. A che gioverebbe oggi sapere se, nel distribuire gl'impieghi, fu tenuta una proporzione troppo favorevole agli uni o agli altri?

Il certo si è, che dei tre elementi di cui s'è formata l'Italia, la nostra rivoluzione non poteva escluderne alcuno; ed essi erano di tal natura, che dovevano inevitabilmente portare il governo in mano di una burocrazia assai inferiore al bisogno. Io, perciò, non vedo alcuna necessità d'introdurre le passioni dei partiti nell’esame di tali questioni. Importa assai più di riconoscere la forza fatale di quelle leggi che regolano le rivoluzioni e le società. Queste leggi non sono meno inalterabili di quelle della natura, e solo dalla loro conoscenza il politico può attingere quella sapienza che le fa servire ai suoi fini, e, introducendo  le riforme utili e possibili, accelera il progresso, promuove il miglioramento sociale.

La burocrazia è divenuta una delle macchine più potenti e più necessarie nei governi cosi complicati delle società moderne. Essa ordina il lavoro; accumula esperienza; raccoglie quel numero infinito di cognizioni speciali e necessarie, che la pratica solamente suggerisce; forma le tradizioni degli affari. Ma tutti i governi burocratici sono minacciati da una malattia che, se si lascia propagare, e non vi si pone efficace rimedio, è capace di consumare il più forte organismo sociale. I Francesi la chiamano routine, ed il Mill la definisce, dicendo che è la malattia che affligge i governi burocratici, e di cui generalmente essi muoiono. «Periscono egli osserva per la immutabilità delle loro massime, ed ancora più per quella legge universale, per cui tutto ciò che diviene routine perde il suo vitale principio, e non avendo più la mente che operi dentro, procede, girando meccanicamente, senza che più ne risulti l'opera che era destinato a produrre. Una burocrazia tende sempre a divenire una pedantocrazia.»   On representative govemement, chap. IV.

Ora non v'è nulla che tanto agevoli il progresso di questa malattia, quanto l'accumulare una prodigiosa mediocrità in un punto determinato dell’organismo sociale. Il lettore tiri da se stesso le conseguenze, e vedrà allora quel che doveva seguire nei nostri Ministeri.

Osservate un poco come si recluta ogni giorno, come si forma e come lavora la nostra burocrazia. Negl'impieghi si entra generalmente senza esami, senza dar prova di capacità, e, cominciando dai gradi infimi, si suole ascendere col tempo e con un regolare ed immutabile processo di anzianità ai gradi supremi. Il copista può divenire un giorno Capo di Divisione; ma allora il Capo di Divisione resterà un copista da cui dipenderà la decisione d'affari importantissimi. Fra i nostri ve ne sono certamente alcuni di molto valore; ma io ne ho pure conosciuto più di uno laborioso ed onesto che, sepolto ed affogato nel formalismo burocratico, era incapace di stendere la risoluzione di un affare, con una chiara cognizione di esso. E se un Ministro, in tal condizione di cose, volesse oggi nominare Capo di Divisione un privato cittadino, egli sarebbe risguardato come violatore dei più sacri diritti, ancora quando la capacità del nuovo venuto fosse la più incontrastabile e la più incontrastata. Se la legge non vi si oppone, vi si oppongono le tradizioni, che qualche volta sono più tenaci della legge, e che nel vecchio Piemonte arrestarono perfino l'audacia del conte di Cavour. La rivoluzione potè fare, per cagioni politiche, molte eccezioni; ma ora la porta è chiusa, e la massima che generalmente prevale può dirsi compendiata nelle parole di quel burocratico che, alla morte del Cavour, diceva:

— Io non so perché tutti si disperarlo. Si prenda il più anziano, e si ponga nel posto del primo Ministro. — Tutti gl'impiegati sono come i pezzi d’una macchi na, che debbono passare regolarmente, in tempo determinato, nei posto stabilito.

Se però il Ministro volesse favorirne alcuno, egli può facilmente trasferirlo da un ufficio ad un altro del medesimo grado, ma d'una importanza assai maggiore, d'un'indole assolutamente diversa, e che richieda cognizioni affatto speciali. Con una facile manovra burocratica, a cui la legge e la tradizione non s'oppongono, il Capo Sezione o il Capo Divisione possono salire una cattedra, dirigere una biblioteca o un'accademia di belle arti, senza saper distinguere un Raffaello da un Cimabue, senza aver dato alcuna prova di conoscere la materia che sono chiamati ad insegnare. Vi sarebbe, è vero, da temere giudizio del pubblico; ma esso è, in questi casi, di una tolleranza uguale solo air infinito. In una parola, tutte le vie sono aperte per ammettere le incapacità, tutte sono chiuse quando si tratta di ammettere in modo eccezionale le capacità singolari, le quali, si noti bene, è quasi impossibile che prendano la via ordinaria. Uno che senta in se stesso facoltà superiori al comune degli uomini, non vorrà certamente porsi dieci o forse venti anni a copiare e scrivere lettere, per giungere finalmente a quell'ufficio dove potrà dimostrare il suo valore, se la sua intelligenza non sarà già esaurita sotto il lungo e lento processo di mummificazione, cui fu sottoposta.

L'uomo d'ingegno si troverà così sempre come corpo estraneo, in mezzo a una mediocrità che dilaga da ogni lato, e la sua superiorità sarà soggetto di gelosia grandissima o di diffidenza, per forza naturale delle cose e per legge dell'umana natura.

L'intelligenza, che dovrebbe essere la forza motrice e regolatrice della gran macchina burocratica, va mancando, e i capi d'ufficio non sono essi stessi che pezzi della macchina. Non v'è paese del mondo in cui i più alti impiegati amministrativi sieno cosi privi d'ogni responsabilità e indipendenza, così male retribuiti come tra noi. Il Capo di Divisione non può scegliere alcuno de' suoi impiegati, non può mai risolvere in suo proprio nome gli affari. La firma è sempre del Ministro o del Segretario che sottoscrive in nome del Ministro; la responsabilità in faccia al paese è loro, sebbene gli affari sieno poi di fatto risolati dalla burocrazia che, messa al coperto, e considerata come una macchina, diventa più macchina che mai. La responsabilità non è più di nessuno, perché coloro che conoscono e risolvono gli affari non l'hanno, ed il Ministro ed il Segretario sono responsabili solo di nome, quando si trovano costretti a firmar carte che non hanno il tempo materiale di leggere. Cosi, nel tempo stesso in cui da un lato si è tolto alla burocrazia ogni indipendenza legale, si è resa dall’altro onnipotente. E l’aver tutto concentrato nel Ministro, serve spesso ad introdurre il favoritismo politico in ogni parte dell'amministrazione, con danno manifesto degli affari.

Da questa continua ingerenza  politica sono, io credo, derivati i danni maggiori al pubblico insegnamento: il Ministro ed il Segretario non possono sempre resistere alle raccomandazioni dei Deputati e dei Senatorj. Potrebbero essere la sola forza intelligente e responsabile, la mente e l'anima dell'organismo burocratico; ma essi mutano continuamente, onde il còrpo si è dovuto assuefare a camminare senza anima, e le ruote dello strano meccanismo girano ancora, quando la prima forza motrice è mancata.

Il regolamento è divenuto la sola ancora, il vangelo della burocrazia, come la rettorica è il vangelo dei pedanti. Ma come nessuna rettorica fece mai uno scrittore, così nessun regolamento basterà mai a formare una buona amministrazione. La difficoltà di penetrare il vero scopo delle leggi, e la mancanza di autorità per assumerne sopra di sè la interpretazione, hanno fatta sostituire la lettera allo spirito. Quanto più il lavoro prescritto è complicato, irrazionale, tanto più viene religiosamente eseguito, senza osservare se lo scopo prefisso è ottenuto. Una volta ebbi occasione d'osservare questo fatto. Si dovè eseguire un disegno approvato dal Ministero, per adattare un antico locale ad un nuovo uso. Il lavoro era abbastanza inoltrato, quando si vide che un certo numero di finestre non potevano farsi con la spesa indicala; perché si trovarono antichi pilastri nascosti nell’interno delle mura, appunto là dove dovevano venir le finestre. Non essendo possibile sospendere i lavori, per aspettare la fine delle lunghe pratiche necessarie ad avere l'approvazione d'un nuovo disegno, bisognava o fare, senza permesso, una spesa maggiore, o aprire le finestre in altro punto, e deturpare tutta l'architettura.

Studiato il regolamento, fu deciso di aprire le finestre, con la spesa indicata, là dove deturpavano l'architettura, per poi chiuderle, e con nuovo disegno regolarmente approvato, riaprirle dove conveniva. Il regolamento era fatto per impedire spese maggiori del bisogno, e in queste appunto si cadeva, volendo rispettarne la lettera, a danno dello spirito. La moltiplicità delle forme e delle formole non è credibile, e sembra destinata assai spesso a non ottenere altro fine che quello d'arrestare il corso delle pubbliche faccende. Ho visto gli agenti d'una Compagnia americana, venuti in Italia con forti capitali, per intraprendere alcune industrie, fuggire disperati, dopo aver visto la serie infinita delle pratiche che bisognava fare per ottenere il desiderato permesso, e le mille difficoltà che si dovevano superare. — L'Italia, — mi dissero, — non è ancora un paese per gli affari; — e se ne andarono.

Sarebbe nondimeno ingiusto il non osservare che questa burocrazia lenta, ostinata, pedantesca com'è, ha pure reso, col suo lavoro costante, paziente e noioso, grandi servigi al paese. Credete forse che un'amministrazione improvvisata solamente di liberali, o di vecchi impiegati, o di Piemontesi, avrebbe potuto resistere alla continua mutazione dei Ministeri, agli urli della piazza, alla inerzia passionata della maggior parte di noi? Più di una volta l’ostinazione e la pedanterìa burocratica sono state la sola forza veramente conservatrice, che potevamo opporre alle tradizioni immorali dei caduti governi, ed al favoritismo politico. Ora però siamo giunti a un punto, che la più necessaria delle riforme deve cominciare da essa, se non vogliamo che la vita nazionale resti soffocata.

Ma è singolare! mentre tutto il paese grida tanto contro la burocrazìa, sembra esso stesso affetto dalla medesima malattia. Voi sentite da ogni lato ripetere: che cosa bisogna fare? Qual'è il regolamento, quale la legge, in una parola, quale è il nuovo sistema che deve salvarci? Nè si considera che di regolamenti ne abbiamo finora fatti delle migliaia, che tutte le nostre stamperie sono ancora affaticate in questo indefesso lavoro; e fra poco avremo percorsa tutta la serie dei regolamenti e dei sistemi possibili, senza avere ottenuto il nostro scopo. È proprio il caso di ripetere all’Italia le parole di Fausto a Wagner:

E stimi dunque

Che da vii pergamena esca la sacra

Sorgente che l'ardor di questa sete

Possa ammorzarti? Oh no! ristoro alcuno

Non aspettar, se dall'anima tua

Limpida non zampilla.

Si tratta di finanza? E sorgono subito a combattere tre sistemi: nuovi debiti, nuove imposte o nuove economie. Ma nuovi debiti non troviamo da farne; nuove imposte, il paese esausto sarà pur troppo incapace di sopportarle, e quanto alle econome, l'esame delle cifre ha provato che le spese maggiori sono quelle appunto che non si possono diminuire. Con questi palliativi noi dunque andremo innanzi ancora qualche anno, senza aver trovato il sistema che ci deve salvare.

V'è in Italia nessun uomo di buon senso, il quale dubiti ancora, che il solo mezzo per uscire dal laberinto in cui siamo entrati, sta nell'aumentare il lavoro e la produzione nazionale; perché solo allora le rendite dello stato cresceranno, e perché una nazione come la nostra, che spende e non produce, deve assolutamente fallire, e non è il sistema, ma il lavoro che può salvarla? Si tratta di pubblica istruzione? Ed ecco i sistemi sorgono a combatter fra loro. Libertà d'insegnamento, tasse elevate, insegnamento dello stato, privati docenti, insegnamento obbligatorio. Ed ognuno si presenta con in mano un segreto talismano, che deve salvare il paese. Ma perché non osservare che le tasse elevate erano prescritte dalla legge Casati, e voi foste indotti a scemarle? Che essa stabilisce l'insegnamento elementare obbligatorio, mentre in Toscana è libero; che a Napoli v'è un gran numero di privati docenti, mentre a Torino, Pavia, Pisa non attecchiscono; che dal 59 in poi quasi tutti i sistemi furono provati; che anche oggi buona parte di essi sono in presenza, e che riescono solo a far andare l'insegnamento ugualmente male per tutto? A che vi giova l'aprire, le scuole serali, quando voi cominciate con 500 alunni, empite d'elogi tutti i giornali, lodate il Municipio, la popolazione, il Ministro e l'Ispettore; e poi abbandonate le scuole a se stesse? Gli alunni diminuiscono subito, e finalmente voi dovete cominciare a chiudere le scuole. Allora sarebbe il tempo pei giornali di gridare; ma essi pendano a cose più serie. Qual sistema, qual regolamento vi salva da questa generale oscitanza?

Un giorno si levò nella Camera un deputato e disse: — Signori! Volete voi sapere che cosa bisogna fare per riordinare il nostro insegnamento universitario? Pigliate ogni anno dieci o dodici fra i migliori giovani che s'addogarono nelle nostre Università, e mandateli a perfezionarsi all'estero, specialmente in Germania. Cosi, dopo qualche tempo, avrete un primo nucleo di buoni professori, che s'andranno moltiplicando ogni anno. — Il consiglio parve buono e fu adottato; la Camera approvò nel bilancio una somma sufficiente. Si venne subito al modo d'attuare, e si fece il regolamento. Ogni anno, nei tempo delle nostre vacanze universitarie, s'intima un concorso per scegliere un buon numero di giovani dottori, ed è stabilito prima, quanti debbono essere i medici, quanti i filosofi, i matematici, ec. Ed ogni anno avviene che l'Italia non è pronta a dare un numero determinalo, e anche distribuito secondo la tabella ministeriale, di giovani capaci di profittar davvero del loro soggiorno in Germania, dove gli studii sono tanto diversi e tanto più elevati. Quindi, il più delle volte, una parte degli eletti sono giovani assai mediocri. Fra le materie per l'esame di concorso non si richiede alcuna conoscenza della lingua del paese, dove si va a studiare, e la durata del soggiorno è d'un anno solo. Generalmente la decisione del concorso è fatta conoscere al giovane nella fine del novembre; onde egli arriva a Berlino non prima degli ultimi giorni del dicembre,  per fare le vacanze del Natale.

Il semestre d'inverno, che in Germania comincia nell'ottobre, ed è quello degli studii più severi, si trova già inoltrato a metà; e prima che il giovane si ponga in grado di comprendere il tedesco e profittare, la più gran parte dell’anno è passata, ed egli deve apparecchiarsi a ritornare in patria. Non v'è che un solo mezzo per restare, quello d'avere, in questo tempo, fatto in Germania e stampato un lavoro, e con esso presentarsi ad un secondo concorso. Ora è certo, che se fra quei giovani ve no è qualcuno veramente capace di profittare, questi non avrà finito e stampato un lavoro in così breve tempo. Egli deve dunque tornare, il regolamento lo impone. Eccezioni ve ne sono state, e sul principio il Ministro aveva assai maggiore larghezza; ma ora la regola è questa. Così n'è seguito che i danari si sono spesi, ma i professori non si sono avuti.

Il Governo stesso sembra diffidar di questi giovani, e in si grande penuria d'insegnanti, quando è costretto a nominar professori alcuni che non hanno neppure compiutogli studii universitarii, già si dimostra restìo ad impiegar questi dottori perfezionati in Germania. Esso sembra non essere in grado di conoscer neppure con che profitto abbiano studiato, a quale disciplina più specialmente si siano dati. Così almeno bisogna credere, quando s'è visto che coloro i quali a Berlino studiavano una materia, furono chiamali in Italia ad insegnarne un'altra affatto diversa; quando s'è visto quelli che più godevano la stima dei compagni e dei professori, piatire invano un posto di liceo, mentre altri, e non più meritevoli, entravano nelle Università. Molti di essi gridarono che, cosi facendo, v'era un fine premeditato; ma ciò è assurdo.

Il Governo e la burocrazia non hanno altro fine, che il bene della gioventù e dell'insegnamento; ma si sono da se stessi legate le mani, e messi nella impossibilità di farlo. È dunque da meravigliarsi, se il paese non ha finora risentito alcun vantaggio dei danari spesi, e se non abbiamo guadagnato niente nella poca stima che s'ha di noi all’estero, dove s'è avuto un saggio del modo con cui in Italia procedono le pubbliche faccende, e la nostra leggerezza è stata dagli uomini gravi giudicata scandalosa? Quale è il regolamento che ci salva da questi errori, quale è il sistema? Io lo dirò francamente: bisogna non fare strazio così manifesto del senso comune. La questione principale tra di noi non è di regolamenti o di leggi; ma è di uomini. Con uomini che sappiano e che vogliano, le peggiori leggi si portano a buon fine; con uomini indolenti o ignoranti, tutto riesce male. E l'Italia, invece di rivolgere a ciò tutta quanta la sua attenzione, s'è persuasa che ad avere una nazione stimata, civile e potente, basti avere una libera costituzione, ed un miglior codice penale e civile e scuole e vie ferrate e porti e canali, e la posta che parte tre o quattro volte il giorno, ec. , ec. Ma questi sono condotti pei quali deve scorrere la vita e l'attività nazionale; se questa vita manca e niuno pensa a ridestarla, se le strade restano senza viaggiatori e i porti senza navi e le scuole senza scolari, tutte le grandi imprese servono solo ad affrettar la rovina ed il fallimento. Le società vi sono, la libertà si desidera solo per avere uomini migliori; le leggi, le istituzioni non possono essere che mezzi e strumenti di questo fine più alto assai.

Ma gli ostacoli che si frappongono fra noi a conseguirlo sono infiniti, e tanto più gravi, quanto più molti di essi sono opera delle nostre proprie mani. Io ne citerò uno che sembra di poco momento; ma è notevole assai, perché viene dalla gente più illuminata e benemerita del paese. Vi sono fra di noi molti uomini, che hanno più degli altri contribuita a fare l'Italia. Costoro nelle lettere, nelle scienze, nelle armi o nella politica hanno reso grandi servigi alla patria, e i loro nomi sono giustamente venerati in Italia e fuori. Ma non pochi di essi restarono, come noi tutti, ubbriacati dai facili successi finora ottenuti. Più volte m'è avvenuto di parlare con qualcuno di loro, sulle più utili riforme di cui il nostro paese avrebbe bisogno. Ed ogni volta che io discorrendo, per esempio, di pubblica istruzione, mi sono lasciato andare a descrivere disegni di radicali riforme, sono stato interrotto da un'osservazione che m'ha fatto molto pensare, perché mi fu troppe volte ripetuta. — In fin de' conti, m'hanno detto molti di questi uomini politici, ed anche non pochi egregi professori, noi non facemmo tali studii, non fummo costretti a questo tirocinio; eppure... eppure qualche cosa noi siamo, l'Italia, in fine, l'abbiam fatta noi! — Vi fu tra gli altri un deputato di mollo ingegno, che aggiunse: — Io piglierei che i nostri figli facessero camminar l'Italia, quanto l'abbiam fatta camminar noi. — Ora, con buona pace di questi signori, io credo che essi vivano nella più grande illusione. I nomi di coloro che seppero sperare contro la speranza, che ebbero una fede inconcussa nella libertà, per cui vissero e soffrirono, resteranno immortali, e le loro opere saranno d'esempio ai posteri.

Ma se non si persuadono, che le forze bastevoli a far cadere governi crollanti non bastano a formare una grande nazione; se non si persuadono, che ora si tratta di creare una generazione di gran lunga superiore a noi, perché la scienza, l'industria, l'esperienza, in una parola, gli uomini che l’Italia possiede, non sono ancora quelli che costituiscono le grandi nazioni, e che si formano in esse; se di tutto ciò non si vogliono persuadere, potrebbero correre il pericolo di divenire un ostacolo all’opera che cosi splendidamente iniziarono colle proprie mani. Niuna illusione più funesta di quella che vuol credere, che gli uomini i quali di recente spezzarono le proprie catene, sieno davvero i più capaci a sostenere in tutto l'onore e la gloria del paese risorto.

In quella poca esperienza che ho potuto avere nell'insegnamento, mi è restala sempre una profonda convinzione, che la nostra gioventù potrà rapidissimamente superarci, se noi non continuiamo a lasciarla nell’abbandono in cui l'abbiamo tenuta finora. Ma se ancora duriamo fatica a capire, che il nostro più nobile ufficio è quello di produrre una generazione che ci superi, e vogliamo produrne una simile a noi, avremo invece una copia peggiorata dalla nostra incapacità: noi potremmo avvederci del funesto errore, quando in Europa venisse uno di quei momenti diffìcili nei quali, fra l'urto dei potenti, solo i forti si salvano, o fossimo sottoposti ad una di quelle crisi violente, a cui, pur troppo! anche le società moderne vanno soggette. Ma abbiamo noi bisogno di novelle prove?

Non è generale il grido che la gioventù nostra da tutti tenuta fra le più intelligenti non progredisce punto? E non furono gli uomini stessi che fecero l'Italia, coloro che, venuti all'opera, riuscirono impotenti a un assetto definitivo, e caddero in quegli errori che questa guerra è venuta a mettere così dolorosamente in luce?

E se anche gli uomini eminenti possono qualche volta, loro malgrado, essere d'inciampo al progresso della nazione; che sarà della schiera infinita dei mediocri? Avete voi mai conosciuto un paese dove la calunnia sia così potente e cosi avida, dove in cosi breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazioni onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumali; ma non appena si vedono i segni di un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito, s'accumula contro di lui e lo circonda. La mediocrità è una potenza livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l’ingegno che distrugge l'armonia della sua ambita uguaglianza. Essa ha i suoi idoli che solleva e che adora; ma sono grandi mediocrità anch'essi, che le servono di strumento, e che, con una riputazione usurpata, nascondono i bassi fini della moltitudine. Essa ha in tutto ciò una forza d'associazione incredibile, una disciplina ed un istinto che le fa sempre riconoscere da lontano il nemico, contro cui tutti rivolgono contemporaneamente i loro strali avvelenati.

Molti e molti giovani io ho veduti abbandonarsi e cedere, scoraggiati, il terreno, innanzi ad un nemico sconosciuto, invisibile, eppure cosi numeroso. Che l’Italiano dei Settentrione ricordi un poco che cosa erano i Napoletani appena usciti dalla rivoluzione; come si laceravano, e come, i più numerosi nella Camera, e con una intelligenza che nessuno mai negò loro, restarono pur sempre i più deboli. E poi si faccia un esame di coscienza, e veda se non è vero, che queste nostre passioni consumano per tutto le forze più vive del paese, e fanno che spesso l’Italia divori, come Saturno, i suoi proprii figli.

— Ma voi siete sempre ad assalire le moltitudini, e tacete delle consorterìe, che fra di noi cagionarono tutto il male. Sono esse che fanno un disonesto monopolio del Governo a vantaggio di pochi; sono esse che detestano l'ingegno e la gioventù, che proteggono solo i vecchi impiegati, perché possono averli docili strumenti dei loro bassi fini. —

Prima si diceva la consorteria; ora il singolare s'è mutato in plurale, ed abbiamo le consorterie: v'è la toscana, la napoletana, la lombarda, la piemontese, e fra poco avremo anche la veneta. E mentre vi sono di quelli che le fanno cagione di tutti i mali, ve ne sono altri, i quali dicono che esse sono un nome vano, un mito, uno spauracchio da bambini. Le consorterie però ci sono e sono una grande calamità, perché sintomi funesti di una malattia morale che ancora ci travaglia. Nelle grandi questioni politiche, là dove si tratta della esistenza del paese, tutta la nazione si agita, tutte le opinioni s'uniscono, il programma politico è uno solo, ed il Governo allora pare che non guidi, ma sia guidato dal paese.

E sono i soli momenti, in cui da noi non si commettono più errori. Le nostre moltitudini hanno un senso politico cosi fino, che vedono sempre il punto essenziale della questione, ed a quello rivolgono tutte le forze, dimenticando il resto. L'Italia diviene allora ammirabile al cospetto del mondo, e fa prodigi. Ma in tutte le altre questioni d'amministrazione, di finanza, di pubblico insegnamento, là dove non si tratta più della esistenza immediata, e si potrebbero formare i partiti, perché incominciano le divergenze; il paese, invece, cade subito nell’abbandono e nell’indifferenza, grida perché soffre, ma non pensa al rimedio, ed aspetta ogni cosa dal Governo. Gli uomini politici si trovano, cosi, come generali senza esercito, e si dividono in gruppi che sono consorterie, e non possono in alcun modo divenire partiti. Il conte di Cavour, colla sua personalità e col suo genio politico, teneva uniti molti di quei gruppi, e, sollevando a tempo dello grandi questioni, agitava il paese quando ne aveva bisogno. Ma dopo la sua morte i gruppi si divisero, e le consorterie moltiplicarono. Appena uno di questi gruppi saliva al potere, si trovava intorno un paese che non suggeriva nulla, ma chiedeva di essere sollevato; e di fronte si trovava gli altri gruppi tutti nemici, perché tutti desiderosi del potere. Quindi le avversioni personali, meschine; la guerra d'ingiurie e di pettegolezzi, che il paese ha sempre deplorata e deplora.

Se il Governo poi voleva aiuto; se aveva bisogno d’un segretario, d'un prefetto, d'un impiegato, non poteva sceglierlo che fra il piccolo numero degli amici fidati. Più volte i consorti tentarono rompere questo cerchio di ferro, che li stringeva e gì'isolava; ma non v'era modo. Essi non impiegavano i loro più fidi, e correvano pericolo di far solo qualche disertore; essi cercavano fuori, e s'imbattevano in un nemico o in uno sconosciuto. Il Governo si riduceva così inevitabilmente nelle mani di pochi, ed era quello che li rendeva odiosi. Ma fino a che dietro a ognuno di quei gruppi non sarà una parte del paese, fino a che il Governo sarà ridotto nella materiale impossibilità di stendersi in un largo cerchio; i partiti saranno sempre impossibili, e avremo solo consorterie, chiunque sia al potere. Se quello che oggi si chiama partito di azione, riuscisse in tempi pacifici ad afferrare il potere, si vedrebbe anch'esso, in tutte le faccende di governo, ridotto ad un piccolo numero, e sarebbe subito preso dal male della consorteria. Un Governo di pochi è sempre meschino e personale, odioso, sospettoso d'ogni nuovo venuto; è sempre una consorteria, e qualche volta può divenire una camorra. E noi non usciremo mai da un Governo di pochi, fino a che il paese non comincia a discutere sul serio i proprii affari, a determinare la propria opinione, e, coi mezzi legali, imporla ai ministri. Fino a che non si decide a pigliar parte alla vita politica, e lascia vuoti i collegi elettorali, e chiama al municipio gente che non conosce, e pretende che il Governo debba far tutto per tutti, e aspetta da esso la pioggia ed il bel tempo; la libertà resterà un nome vano, e le istituzioni liberali saranno come le strade ferrate senza viaggiatori,

come i porti senza navi; le consorterie non potranno divenire partiti, e tutti gli sforzi per distruggerle riusciranno solo ad aumentarne il numero. Esse dunque ci sono e sono un male, di cui la colpa principale ricade sui non consorti, che si contentano solo di biasimare e stare a guardare. Potremo noi sperare di mutare, fino a che vi saranno ancora municipii, nei quali gli ordini delle autorità locali si debbono proclamare a suon di tromba o tamburo, per non esservi chi sappia leggerli?

Così dunque ci troviamo portati sempre ad una medesima conclusione. V'è in Italia, un gran colpevole, che ha fatto più male ed ha commesso più errori dei generali, dei ministri, del partilo d'azione, delle malve e delle consorterie, e quest'uno siamo noi tutti. Ma qui mi si potrebbe dire: è bello e comodo predicare per fare il profeta di sventure; ma veniamo un poco al quid agendum. Voi dite che in Italia mancano gli uomini, e voi non avete alcuna fede nelle istituzioni, nelle leggi e nei regolamenti. Che cosa dunque bisogna fare? Voi dite che le moltitudini sono ignoranti. Ma noi abbiamo aperto scuole sopra scuole, abbiamo crealo un esercito di professori, abbiamo aggravato il bilancio dello Stato, abbiamo tentato i nuovi sistemi; e voi dite che si va di male in peggio, e ripetete che non bisogna aver fede cieca nei sistemi o nei regolamenti. Per aver buone scuole bisogna aver buoni professori, e viceversa, per formar dei professori ci vogliono le scuole. Noi non abbiamo  né l'una cosa  né l'altra. Inviammo a Berlino i nostri migliori giovani, e neppure siamo riusciti a nulla. Questa è dunque una impresa disperata?

Se dopo tutto ciò che ho detto, io pretendessi d'avere trovato il segreto talismano che deve guarire l'Italia, il lettore di buon senso sarebbe nell'obbligo di darmi del ciarlatano. Io non credo che l'impresa sia disperata; ma non ho certo la pretensione di rispondere alla domanda; e quando mi sentissi da ciò, non avrei preso a scrivere un opuscolo. Credo di più, che non vi sia uomo capace di rispondere, perché la rigenerazione d'un paese, per mezzo della libertà, deve essere l’opera del Governo e del paese stesso. Il primo passo, però, è quello di mettere, noi stessi, a nudo le nostre piaghe, di distruggere le illusioni o i pregiudizii nazionali. Se voi pigliate ad uno ad uno tutti i rami della civiltà umana, l'Italiano vi consente che in ciascuno di essi noi siamo inferiori a tutte le nazioni civili. Niuno vi pone in dubbio che le scienze, le lettere, l'industria, il commercio, l'istruzione, la disciplina, l'energia nel lavoro sieno in Italia assai inferiori a quel che sono in Francia' , in Germania, in Inghilterra, nella Svizzera, nel Belgio, nell'Olanda, nell'America. Ma quando poi si viene a tirare la somma, v'è sempre una certa cosa, per cui vogliamo persuaderci di essere superiori agli altri. Ebbene, questa certa cosa o non c' è, o bisogna dimostrarla coi fatti, se vogliamo che il mondo vi creda, e che noi possiamo risentirne i vantaggi. Se poi dovesse solo servirci di pretesto, per non fare gli sforzi infiniti, e durare le grandi fatiche che le altre nazioni durarono per rendersi civili, allora sarebbe assai meglio non aver questo dono funesto e misterioso.

Quando si chiede che cosa ci vuole per formare uno scrittore, il rètore ha subito una risposta pronta, e ci presenta una nota in cui è scritto come si fa la novella o la storia, come si fa piangere e come si fa ridere, come si arriva al sublime e come si desta la malinconìa. Ma colui che conosce per pratica il mestiere, non può avere una così cieca ed implicita fede nelle regole della rettorica, e vi dirà, invece, che si tratta di una disciplina lunga e penosa, che bisogna studiare i classici, formarsi il gusto, conoscere gli uomini, il mondo, e che bisogna, sopra tutto, avere il dono della sacra fiamma. Il volgo rimane a questo poco soddisfatto, e i rètori trovano spesso più facile ascolto, specialmente in Italia dove furono ammirati tanto il Castelvetro e il padre Cesari, il Metastasio e l'Arcadia. Questa medesima tendenza del nostro spirito noi dimostriamo, quando si ragiona o scrive di politica. Ognuno vuole il sistema, vuole essere rivelato il segreto. Si tratta d'intraprendere un'opera faticosa e penosa, a cui altre nazioni hanno impiegate le forze di più generazioni. Noi possiamo dirci in una condizione fortunata, perché se apriamo la storia, troviamo che, poco prima o poco dopo la Rivoluzione di Francia, tutti i paesi ora più civili si trovarono in condizioni non molto dissimili da quelle in cui siamo noi adesso. Se ne avvidero, si decisero a rimediarvi, si posero coraggiosamente all'opera, e tutti, più o meno, per le medesime vie, cogli stessi mezzi, vi riuscirono. Basta aprire la storia di Francia, di Germania, d'Inghilterra per vedere quali furono questi mezzi. Essi costituiscono alcune scienze e alcune discipline, che hanno grandi cultori in Europa.

Siamo noi forse i soli che senza sudare e senza stentare dobbiamo ottener tutto dalla fortunali soli che non hanno nulla di comune cogli altri uomini, per non voler prender la via battuta da tutte le altre nazioni? Che se l'Italiano ha ancora la superbia orgogliosa e vana del suo primato, se crede ancora d’essere superiore a tutti gli altri, quando le sue opere sono così manifestamente inferiori; allora guardi a ciò che fecero i suoi padri, e vedrà che la più parte di queste scienze, di queste discipline nacquero in Italia, che le nostre scuole, le nostre Università, le nostre istituzioni furono imitate dai Tedeschi, Francesi ed Inglesi, e che anche la via, per cui le nostre repubbliche uscirono dalla barbarie del medio evo, è la stessa. Dica allora d'imitare se stesso, ove ciò gli stia tanto a cuore; ma si persuada però una volta, che se la questione è difficile assai, è più di tenace volontà, che di scienza occulta; è di uomini, non di leggi o d'istituzioni solamente. Chi vi ha impedito di diffondere l'istruzione elementare? Non è nota la via per ottenere il fine? Non lo ha quasi ottenuto il Piemonte, non è forse vicino alla mèta il municipio di Milano? Le difficoltà più gravi e le questioni veramente disputabili, incominciano là dove noi ancora non siamo giunti.

Abbiamo ragionato alquanto dei molti mali che travagliano la nostra burocrazia; e la questione è per noi d'importanza capitale. La burocrazia ha in mano l'opera maggiore dei Governo; essa muove la gran macchina dello Stato; lo amministra, ed indirettamente elabora, più spesso che non si crede, anche i disegni di legge.

Le assemblee legislative son buone a deliberare, a sindacare, a dare pubblicità al Governo, a determinarne l'indirizzo; ma incapacissime ad amministrare, riescono spesso impotenti ancora a formolare e discutere le leggi, in quei mille particolari che le rendono efficaci, e che vengono suggeriti solo da quella lunga e minuta esperienza, che è la qualità principale d’una buona burocrazia. Chi dunque ci ha fatto lasciare una parte cosi importante dello Stato in un disordine permanente, e forse anche progressivo? Non hanno le altre nazioni trovato i medesimi ostacoli, e non li hanno forse superati? In qual modo? Facendo precisamente il contrario di quello che facciamo noi. Infatti, noi ammettiamo agl'impieghi minori senza esame e senza concorso; la Prussia non ammette a concorrere agl'impieghi di Stato chi non abbia fatto un corso regolare di studii classici. Noi facciamo passare da un impiego all'altro, quasi per sola anzianità, e la Prussia sa quali sono le cognizioni richieste in ciascuno dei principali rami d'amministrazione, e prima di farvi entrare qualcuno vuole prove ben sicure. Noi crediamo che l'impiegato di ogni grado sia una macchina, e abbiamo tutto concentrato nel Ministro; ogni paese civile ha, invece, creato nelle amministrazioni un piccolo numero di alti impiegati, con grande indipendenza e responsabilità, nei quali si pongono, con paghe quasi ministeriali, uomini eminenti. Essi sono l'anima e la vita delle amministrazioni, perché, mentre tengono ferme le tradizioni nella continua mutabilità dei Ministri, sanno operare in modo che la lettera non uccida lo spirito, avendo l'autorità e l'esperienza necessaria a farlo senza pericolo.

Noi abbiamo, con ogni studio, chiusa la porta delle amministrazioni alta intelligenza in generale, ed agli uomini più eminenti in particolare; i paesi veramente civili invitano con ogni mezzo l'intelligenza, cercano gli uomini eminenti, e quando la loro capacità è davvero provata, allora non vi sono ostacoli possibili, e se tutto manca, si crea a bella posta un nuovo e più alto ufficio: s' è visto che una sola intelligenza elevata, messa a servigio dello Stato, fa quello che miriadi d'impiegati mediocri non possono fare. «Solo in un Governo popolare, dice il  Mill, poteva Sir Rowland Hill vincerla contro l'Uffìzio delle Poste. Un Governo popolare lo installò dentro le Poste del Regno Unito, e fece che il corpo,a dispetto di se stesso, obbedisse al nuovo spirito che v'infuse dentro un uomo di originalità e di energia.»    On representative Governement. E solo in questo modo si può evitar quella carie che così spesso rode le ossa delle amministrazioni, mutando in meccanismo il lavoro intelligente.

Se un paese doveva trovare difficoltà ad accettare il sistema prussiano degli esami e concorsi, per tutti gl'impieghi, questo era l'Inghilterra, dove i più alti ufficii erano un privilegio dell'aristocrazia. Ma quando si vide che il favoritismo minacciava di portar mali assai gravi, allora l'Inghilterra subito pose mano arditamente alla riforma. Capì che si trattava di uomini, nell'aristocrazia stessa vi fa chi sostenne la propaganda generosa, la quale finì con la legge che sottopose agli esami quasi tutti gl'impieghi.

Questa legge scoteva l'antica base aristocratica della società inglese, perché poneva il figlio del calzolaio in termini d'uguaglianza col nobile lord, dando la superiorità solo all'ingegno ed alla coltura; ma fu riconosciuta utile, e non si esitò un istante. Noi, invece, ci siamo divertiti a crescere o diminuire il numero delle Divisioni, dei segretarii, a creare direttori, ispettori, commissarii; e queste miserie furono le nostre riforme, quando bisognava invece trovar modo d'introdurre l'intelligenza, la responsabilità e la vita in un corpo, a cui sembra che con ogni studio si voglia togliere l'anima. Si è subito detto, che i concorsi e gli esami non riescono fra noi; ma non si è pensato che chi li adottò, aveva trovato i medesimi ostacoli, aveva saputo correggerne tutti gl'inconvenienti, ed aveva finalmente ottenuto i risultati che voleva. Gli esaminatori sono sceltila gli uomini più eminenti del paese, pagati largamente, e non hanno avuto paura di cominciar col disapprovare il cinquanta per cento degli esaminati. Vi sono molti impieghi, nei quali certe qualità morali, che non si provano cogli esami, sono necessarie quanto la coltura: in essi l'esame è stato solo una condizione inevitabile per avere l'ufficio, ma non l'unica. Si è cercato e s'è trovalo il modo di assicurare tutti i vantaggi a chi riusciva migliore; ma non si è tolto a chi doveva far la nomina, il diritto di mettere in bilancia anche le qualità morali. In altri casi l'esame è servito a determinare solo la eleggibilità, lasciando libera la scelta fra tutti gli eleggibili.

Ora se gl'Inglesi hanno potuto persuadersi, che la competitive examination era la base più essenziale della riforma amministrativa, e l'hanno fatta a dispetto delle tradizioni, dei pregiudizii, degl'interessi aristocratici; se essi già ne risentono i vantaggi medesimi che ne hanno avuto i Prussiani, e se ne dichiarano così contenti, che il Gladstone affermava, il secolo XIX dover essere il secolo dei telegrafi, dei vapore e degli esami; che cosa impedisce a noi, società democratica, e senza differenza di classi, di vedere che questo è il primo principio della riforma amministrativa? Con essa, non solo il numero degl'impiegati può diminuire, e un'economia desiderata si rende possibile; ma la rapidità assai maggiore degli affari cesserà di soffocare la vita nazionale in un mare di formalità inconcludenti, il che è per noi questione d'essere o non essere.

E se prendiamo, ad una ad una, tutte le istituzioni che hanno bisogno di riforma, noi troveremo sempre che il primo passo si riduce a trovar modo d'introdurre in esse maggiore intelligenza ed uomini più capaci. Il resto verrebbe poi assai facilmente e quasi da sè. Quando avrete accumulata la forza motrice, sarà facile dirigerla, risparmiarla, moltiplicarla. Così è che nel fondo di tutte le nostre riforme ve n' è una che è la base di tutte le altre, ed è quella del pubblico insegnamento. Ogni volta che voi parlate ad uno straniero intelligente dei progressi che ha fatti l'Italia colla rivoluzione, egli conchiude sempre col chiedervi: e che cosa avete voi fatto per la istruzione e l'educazione del vostro popolo?

Questa è invero l'unica base ferma e sicura della libertà. Ma non bisogna credere, che un buon sistema d'istruzione e di educazione significhi solo avere scuole elementari dove s'insegni il leggere e lo scrivere, licei dove s'insegni greco e latino, Università dove s'insegnino le professioni. Una nazione civile è quella che ha scuole, le quali, mentre istruiscono, fortificano l'intelligenza individuale, moltiplicano l'intelligenza nazionale, formano il carattere, dànno la disciplina morale e civile, migliorano tutto l'uomo. Un buon sistema d'istruzione crea, colle scuole industriali, abili operai; moltiplica l'industria ed il commercio; perfeziona coll' insegnamento del disegno le più importanti manifatture; caccia la miseria e introduce per tutto un agiato vivere. Il Governo prussiano seppe, con le scuole temporanee o permanenti di operai, introdurre nella Slesia l'industria dei tappeti turchi e delle trine che ne cacciarono la miseria. Nel Gran Ducato di Baden le scuole industriali riuscirono a perfezionare alcune delle manifatture, da cui dipende la ricchezza del paese, come l'orologeria che era decaduta, e la pittura a smalto, in porcellana, ec. Il Belgio, organizzando non meno di cinquanta scuole comunali da tessere, cacciò dalla Fiandra occidentale la mendicità che l'aveva invasa. Nel Wurtemberg ed in Baviera, specialmente a Norimberga, le scuole di disegno hanno perfezionate alcune industrie per modo, che se ne moltiplicarono il commercio e la ricchezza, ed un agiato vivere s'introdusse nei più remoti abituri, nelle più povere capanne. Esempii simili di progresso efficacemente voluto ed ottenuto se ne potrebbero citare a migliaia.

Ma un buon sistema d'educazione significa ancora la salute migliorata, la forza fisica accresciuta. L'uomo ha il potere di perfezionare non solo le razze degli animali, ma la sua propria, col l'igiene, ' la ginnastica, la caccia, il cavalcare, il tiro a segno, la scherma, ec. , ec. Il giuoco del cricket, il remigare, il cavalcare, la caccia, sono, infatti, parte essenziale d'una buona educazione inglese. Il Times riporta ogni anno i nomi dei dodici;che, nelle sfide al cricket, tra Oxford e Cambridge, sono vittoriosi, e la vittoria consecutiva di più anni da una parte o dall’altra, è uno degli onori più ardentemente ambiti da quelle due grandi Università. Un ritratto di colui che vince nel tiro a segno, si trova in tutti i giornali illustrati, è esposto al pubblico in tutte le città del Regno Unito. E l’ultima Commissione d'inchiesta sulle grandi scuole, rivolgeva tutta quanta la sua attenzione sopra questi esercizii del corpo, che non giudicava meno importanti del greco e del latino. La ginnastica è divenuta una delle occupazioni più popolari e più ardentemente cercate in tutta' la Germania, dove ha creato grandi istituzioni, giornali e feste, che sono divenute feste nazionali di tutto quanto il popolo tedesco. E cosi la Prussia, con 17 milioni di abitanti, ha potuto mettere sotto le armi 700 mila soldati che han provato d'essere tra i primi d'Europa. Il suo coscritto si presenta, non solo sapendo leggere e scrivere, non solo abile operaio o agricoltore; ma anche assai forte e senza i molti difetti fisici], che fanno respingere tanti dei nostri dai Consigli di leva.

Il tiro a segno è l'occupazione e l'orgoglio di tutti gli abitatori delle Alpi, e i nostri volontarii l'hanno, pur troppo, sperimentato anche nel Trentino. Il generale Garibaldi lodò altamente il valore dei Tirolesi, ed è bene di notare che essi sono, ad un tempo, i più abili tiratori dell'Austria, ed i soli che non abbiano tra loro analfabeti. In ogni popolo v'è qualcuno di questi esercizi! che ne alimenta la fierezza e la forza; che cosa abbiamo fatto noi colla ginnastica e col tiro a segno? Del danaro se n'è speso; ma ben presto il primo entusiasmo si è spento, secondo la solita inerzia che non si è fatta vincere neppure dalla passione di questi utili passatempi, i quali non solo fortificano il corpo, ma affinano i sensi. L'occhio vede più lontano e più giusto, la mano è più ferma e svelta, i movimenti della persona più agili. Non vi siete avvisti, viaggiando sulle strade ferrate, che fuori d'Italia le guardie hanno l'occhio più giusto ed esercitato, sono più accorte, ed un numero minore di facchini fa un lavoro maggiore? Per qual ragione un cameriere dei Caffè sui Boulevards di Parigi vi pare una molla d’acciaio, che scatta ad ogni più piccolo cenno? Esso vede tutto, ed è pronto a tutto ed a tutti. Perché una donna francese basta a dirigere un intero magazzino, può tenervi in ordine un intero Stabilimento, facendo un lavoro che parecchie delle nostre, insieme riunite, non bastano a fare? Per quale ragione, in tutte le biblioteche di Germania, un cosi piccolo numero d'impiegati deve bastare ad un lavoro così prodigiosamente maggiore e migliore di quello che fanno i nostri?

A Gottinga vi sono 500,000 volumi che ogni giorno s'aumentano, e che vanno continuamente in giro per tutta la Germania. E quindici soli impiegati bastano a questo lavoro, tenendo sempre al corrente tre cataloghi, per materie, per ordine alfabetico, per ordine di tempo in cui arrivano, compresi gli opuscoli e gli articoli di Riviste, anch'essi posti a catalogo. La Biblioteca di Berlino, anche meglio ordinata, con 700,000, tra volumi e manoscritti, ne manda ogni anno in giro circa 150,000, è venti soli impiegati bastano a tutto. È forse la natura che ci ha resi cosi inferiori? o non sono l'educazione e la istruzione, ricevute e trasmesse di generazione in generazione, quelle che hanno in ogni classe migliorato tutte le facoltà e le abitudini, perfezionalo tutto l’uomo?

Non pensate, adunque, solamente al leggere ed allo scrivere. Entrate nella città di Napoli, lasciate quelle vie, dove abita la gente colta ed agiata, dove corrono i ricchi e splendidi equipaggi, penetrate, invece, nei quartieri più remoti, dove i vicoli ed i chiassi sono cosi confusi ed intrecciati fra loro, e le case così alte e vicine, che si forma un laberinto in cui, non che altro, neppure l'aria può liberamente circolare. Le vie sono cosi sudice ed anguste, che l’uomo a fatica può vivervi, e se vi arriva lo spazzaturaio del Municipio, v'offende ancora il lezzo che esce dalle case. La vita s'abbrevia, la salute è estenuata, le malattie si moltiplicano, e quando giunge fra di essi il colèra, miete a migliaia le sue vittime; gli storpii e gl'invalidi son molti; la coscrizione deve respingerne un numero non piccolo, per incapacità fisica: campano la vita con mestieri assai rozzi e primitivi, dando una produzione insignificante.

Uno spettacolo simile, sotto forme più o meno diverse, voi potete ritrovare in molte parti d'Italia. E credete forse di avere adempito gli obblighi d'un popolo civile, se accanto a questi tugurii vi contentate d'aprire la scuola elementare del leggere e dello scrivere? Bisogna prima introdurvi l’aria e l'acqua; bisogna abbatter quelle che ancora si chiamano case, e costruire abitazioni per contadini, per operai; cacciarli dalle tane da lupi, in cui vivono; chiamarli alla scuola, per far loro, prima di tutto, gustare il benefizio dell'aria libera e della nettezza. Sulla soglia della loro scuola voi dovete, prima d'ogni altra cosa, come nella rag ged school di Londra o Edimburgo, tenere il bagno, che per essi è più necessario dell'abbicci. Dovete insegnar loro un mestiere, col quale possano menar la vita meno misera, e colle lettere dell’alfabeto finalmente aprir l'animo loro a quel mondo morale che sembra ancora chiuso per essi. Cosi, nell'ora del cimento, gli avrete, senza troppo lungo tirocinio, soldati, se non più valorosi, certo più numerosi, più robusti e più intelligenti.

Considerate un poco che tesoro di danaro, di esperienza, di cure affettuose, d'intelligenza spendono i popoli civili per prevenire il delitto, con istituzioni che raccolgono coloro che già minacciano d'entrare nella cattiva via, con istituzioni che raccolgono coloro che escono dalle carceri, e con un regime carcerario pieno d'umanità e d'intelligenza. Io non posso esprimere l'ammirazione che provai nel visitare il carcere penitenziario di Berlino. Nulla di simile ho visto, per l'ordine, la nettezza, la precisione, le cure infinite che vi si spendono, e gli studii che si fanno continuamente per migliorarlo.

Su tutto ciò si sono scritti molti volumi, si è raccolta l'esperienza di molti secoli e di molte nazióni, si sono create istituzioni di cui noi conosciamo appena i nomi. E vi sono scuole normali per fare gl'impiegati di tali istituzioni, e vi furono uomini che si dettero persino al santo ufficio di vivere nelle galere, come condannati, per provarsi a cacciarne il delitto con l'opera della loro benefica propaganda. Ogni volta che si aprono discussioni su questo soggetto, da tutte le nazioni accorrono gli operai della benemerita impresa. Di rado assai s'ode la voce di un Italiano. E perché noi soli dobbiamo, senza lavoro e senza sacrifizii, presumere di raccogliere il frutto della civiltà, a cui gli altri arrivarono solo col sudore della propria fronte?

Quale più nobile spettacolo, che quello di vedere l'aristocrazia inglese far di quest'opera una delle sue occupazioni principali, e dei suoi principali doveri? Voi trovale la nobile lady, educata a tutti gli agi del vivere, passar le sue ore migliori nella workhouse, nella ragged school e nel reformatory, dove, in mezzo ai ladri ivi raccolti, legge e spiega il Vangelo. Ho visto un gran numero di ladri riuniti, per sentire il discorso d'un nobile inglese, il quale voleva loro provare i vantaggi che v'erano a vivere da galantuomini. Ed egli concludeva il suo discorso col dire: — Voi sapete che noi Inglesi siamo uomini pratici e positivi. Io voglio ora vedere, se le mie parole han portato alcun frutto. — E cosi dicendo, gettava in mezzo alla folla una ghinea d'oro, invitando chi la pigliava a barattarla e tornare. Erano passati dieci minuti, e il giovane che l'aveva presa non tornava ancora.

Nella sala si manifestava un singolare movimento d'impazienza e quasi di amor proprio offeso, quando un grido di gioia e d'applausi annunziò il ritorno del giovane. E queste scene seguono ogni giorno in tutta l'Inghilterra, e sono il mezzo più efficace a diminuire da un lato i delitti, mentre dall'altro nobilitano sempre più quella classe di cittadini che le promuove.

Non v'è parte della vita sociale, dove questa benefica azione del Governo o dei privati cittadini non cerchi costantemente ed efficacemente di penetrare. In Francia, in Germania, e specialmente in Inghilterra, il paese più geloso delle libertà personali, v'è una serie di leggi che, con una grande minuzia e grandissima cura, obbligano il Governo ad entrare in tutte le grandi officine, in tutte le grandi miniere, ovunque si agglomera una moltitudine di operai, per vigilare alla loro salute, alla loro istruzione e moralità. È determinato il massimo delle ore di lavoro; è determinata l'età, prima della quale i fanciulli non possono essere impiegati, e le ore in cui debbono lasciare il lavoro, per andare alla scuola che deve essere ivi aperta. Le regole dell'igiene sono severamente imposte, e tutto viene da ispettori del Governo fatto eseguire. Queste leggi che l'Inghilterra accettò con ripugnanza, arrestarono la decadenza fisica delle popolazioni di tutto il Lancashire, poi ne migliorarono visibilmente la salute, e ne diminuirono la mortalità. Che cosa abbiamo noi fatto di tutto ciò? Nulla. Io potrei andare all'infinito, notando le mille forme, in cui la educazione si diffonde tra i popoli civili, e riesce a migliorarne la coltura, il carattere, la forza fisica e morale.

Ma basta per ora accennare, che queste istituzioni ci sono, e che le vie per entrare nella civiltà, se sono lunghe e penose, sono anche vie già note e battute dai nostri padri e dai nostri contemporanei. Bisogna però che l’Italia cominci col persuadersi, che v'è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell'Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocratici macchine, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l'operaio inesperto, l'agricoltore patriarcale, e la rettorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi. Il momento è venuto, per fare una leva in massa di tutti gli uomini di buona volontà, e compiere questa nuova spedizione nell’interno. Il paese è convinto e disposto ad ogni sacrifizio, pur di sentirsi uguale a se stesso. Gli errori manifesti di tutti i partiti possono servire a riordinarli sopra una nuova base. Oggi la domanda è una sola, e si ode da ogni Iato ripetere: — Come riordinare il paese? — Ed è su questo terreno che debbon ricominciare le lotte politiche. Ma guai I se il paese ed il Governo restano ancora inerti, e lasciano passare quest'ora di confessione generale. Guai! se avremo ancora fede illimitata nelle leggi e nei decreti che, eseguiti automaticamente, servono solo a soffocare lo slancio e la vita nazionale; se aspetteremo sempre che la manna piova dal cielo; se il Governo aspetterà tutto dalle moltitudini che non sanno leggere, e il paese continuerà a credere che il Governo debba far tutto per tutti, e ognuno vorrà sperare nella scoperta del misterioso sistema che deve salvarci.

Il rimedio è uno solo: modestia, volontà e lavoro. I fatti parleranno poi. Il segreto è uno, ed è tutto nella volontà che ci è mancala, nell'inerzia che ci ha dominati, in questo inneggiarci continuo senza regola e senza misura, in questa rettorica politica che ci affoga, in questa nuova specie di sciroppo Pagliano, che ognuno aspetta e che ognuno crede di aver trovato, per rigenerare il paese senza stenti e senza sudori. Bisogna finalmente capire, che solo la nostra volontà può salvare noi stessi, e che ponendoci all'opera, possiamo fare miracoli; perché, apparecchiando la nuova generazione, si migliora rapidamente la presente, cui la rivoluzione stessa fu già grande scuola; e il paese allora si troverà davvero risorto alla civiltà. Che se, abbandonati al solo entusiasmo ed a quelle forze che la natura ci ha date, noi abbiamo potuto, in cosi breve tempo, fare l'Italia e guadagnarci la stima dei popoli civili; nessuno vorrà dubitare, che, una volta educate queste forze, disciplinale e moltiplicate dall’arte, non sapremo pigliare quel posto a cui il nostro passato ci chiama.


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DISCORSI.

I.   Camera dei Deputati, 30 maggio 1875. Discussione sul Bilancio preventivo del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio.

Signori,

Io volevo fare qualche osservazione sul capitolo 25 del Bilancio, ma poi ho preferito di parlare nella discussione generale, perché le osservazioni che desidero sottoporre alla Camera, escono alquanto dagli stretti limiti del capitolo.

L' onorevole Ministro di Agricoltura e Commercio, al pari di quello della Pubblica Istruzione, ha nel suo Bilancio diviso l'insegnamento tecnico in tre rami: 4° superiore; 2° medio, che si dà negl'Istituti Tecnici; 3° elementare, che si dà nelle Scuole di arti e mestieri. Esaminando in quale proporzione sono stanziate le somme per questi tre ordini d'insegnamento, io vedo che vi è fra un capitolo e l'altro una differenza enorme, e su questa differenza appunto avrei qualche osservazione da fare.

Per l'insegnamento superiore, trovo la somma di 233 mila lire, molto minore di quella stanziata per l'insegnamento medio. Tuttavia non mi fermo su di ciò, perché l’insegnamento superiore tecnico si dà ancora in molti istituti che dipendono dal Ministro di Pubblica Istruzione, come sono le Scuole di applicazione ed i Politecnici.

Domanderei invece qualche spiegazione sulla cifra di sole 70 mila lire stanziate per le Scuole di arti e mestieri (senza tener conto di 6 mila lire per spese di prima fondazione), mentre per gl'Istituti Tecnici vi è una somma di 1,742,000 lire, inoltre 110,000 lire per spese varie, e 40,000 lire per propine d'esami, il che fa un totale di 1, 892,000 lire.

A me pare che per la vera e solida istruzione del nostro popolo il maggiore bisogno sia quello di moltiplicare le Scuole di arti e mestieri. E però quando vedo in più luoghi Scuole di agricoltura superiore, quasi universitarie, e non vedo scuole che facciano buoni agricoltori, domando se non sarebbe meglio diminuire il numero di quelle destinate a darci dei professori, per aumentare invece le altre, che dovrebbero darci buoni fattori, buoni agricoltori, dei quali noi abbiamo assai maggiore bisogno. Da un altro lato, quando guardo com'è distribuita nell’allegato 5° del Bilancio la somma destinata alle scuole inferiori, le mie osservazioni si moltiplicano.

Ho una certa titubanza nell’esporre il mio pensiero, perché può sembrare che io sia mosso da un gretto spirito di municipalismo; ma proverò nel seguito del mio Discorso, che non è questo il movente delle mie osservazioni. Le lire 70,000 servono ad incoraggiare ventidue Scuole di arti e mestieri. Di queste ventidue scuole, due solamente sono nell’Italia meridionale, compresa la Sicilia, mentre pare evidente che i bisogni maggiori sieno appunto in quelle province. Non credo che ciò derivi da alcuna ingiusta parzialità nel Governo.

Sono anzi tanto lontano dall'avere quest'idea, che facilmente potrei dimostrare non esservi alcuna parzialità, esaminando il Bilancio stesso dell'Agricoltura e Commercio. Basta infatti guardare il capitolo relativo agl'Istituti Tecnici, per vedere come in esso è fatta alle province meridionali una larghissima parte. Pure le cifre parlano, e la disuguaglianza sopra menzionata chiede una spiegazione. Perché mai di ventidue Scuole di arti e mestieri due soltanto (una a Foggia, l'altra a Palermo) si trovano nelle province meridionali? Perché in quelle province è così tenue il sussidio dato dal Governo? Avendo io dichiarato di non credere che tutto ciò derivi da alcun sentimento contrario ai principii di giustizia distributiva, ho cercato le ragioni del fatto, ed ho trovato che possono essere due.

La prima è una ragione teorica, la seconda è una ragione di fatto. Si crede generalmente che le Scuole di arti e mestieri debbano essere istituite solamente là dove già sono le industrie, perché non possono mai essere destinate a produrle. Or siccome nelle province meridionali l'indùstria è certo minore, può essersi giudicato che ivi le scuole debbano perciò essere in minor numero. Un'altra ragione può esser la seguente: il Ministero di Agricoltura e Commercio non fonda le scuole, non le mantiene a sue spese, ma le sussidia; e però dove i municipii, dove le province o i privati fondano le scuole, ivi il Governo viene in aiuto; ma dove municipii, province e privati non fondano nulla, ivi il Governo non aiuta punto.

Nelle province meridionali, essendovi minore industria e minore iniziativa, n'è venuta la conseguenza che le Scuole industriali sono in cosi piccolo numero.

Io mi permetterò, a questo proposito, di fare alcune osservazioni. Riconosco che ivi l'industria sia minore, l'attività sia minore; ma non so cavarne la conseguenza, che appunto per ciò si debba colà abbandonare quella parte d'insegnamento che ha il maggior bisogno d'essere incoraggiata.

Se io prendessi ad esaminare alcune delle industrie che esistono nelle province meridionali, potrei provarvi come esse richiedano davvero incoraggiamento per mezzo di scuole, di quelle scuole di disegno industriale appunto che il Ministero ha giustamente in pregio maggiore. Nelle province meridionali si trova, per esempio, l'industria del corallo, che è una di quelle che si chiamano industrie artistiche. Essa infatti da un lato alimenta la pesca, dall'altro promuove un lavoro quasi d'artista. Vi è l'industria delle terre cotte e delle maioliche, che fioriva nel secolo XVI, e fu rinnovata al tempo della dominazione francese colla fabbrica delle porcellane a Capodimonte. Il Castellani potè recentemente farla risorgere una terza volta con una fabbrica di maioliche, che ottenne alcuni primi premii a Londra. Io so che anche il Ginori di Firenze ha più volte discusso se non gli conveniva, valendosi degli elementi che vi sono, fondare una fabbrica succursale a Napoli. Ricordo di avere letto il Rapporto d'un console italiano a Berlino, il quale, menzionando le industrie italiane che davano maggior importazione nella Germania, notava le imitazioni degli oggetti antichi,

specialmente dei bronzi, e diceva che se il disegno di questi bronzi si fosse corretto fra noi colle Scuole di disegno industriale, l'esportazione ne poteva crescere moltissimo. Intanto, egli notava, il disegno migliore è quello delle fabbriche di Napoli; opinione questa che io ho trovata ripetuta nei magazzini stessi di Roma.

Potrei continuare ancora molto; mi fermerò invece a notare che questi tre generi d'industria sono appunto fra le industrie artistiche, quelle cioè che il Ministro di Agricoltura può, con le sue Scuole di disegno, maggiormente promuovere ed incoraggiare. A fondare queste scuole s'incontra spesso una grande difficoltà nella spesa necessaria pei musei di arti industriali, di cui esse han bisogno, e che a Berlino, a Londra, a Vienna, a Monaco costarono milioni. Ma noi abbiamo già il Museo Nazionale di Napoli, che è il primo museo industriale del mondo, per l'arte antica. Abbiamo dunque da un lato l'industria che domanda incoraggiamento, e da un altro il museo che agevola la fondazione delle scuole; mi pare che vi sia quindi più d'una ragione a promuovere queste scuole.

Non mi estendo di più su tale argomento, perché io spero di trovare il Ministro volenteroso; domando solo a lui ed alla Camera, che il capitolo del Bilancio sia aumentato di 20 mila lire. E se non si crede possibile di stanziare addirittura una nuova somma, sarei contento del pari, quando la Commissione e la Camera credessero di provvedere invece col fare una economia negli altri capitoli del Bilancio,

per esempio nell'istruzione media o superiore, la quale ultima io credo in generale esuberante per l'Italia, dedicando questa economia all’insegnamento delle classi inferiori della società, che sono quelle alle quali noi dobbbiamo ormai cominciare a pensare di più.

Ma dopò queste prime osservazioni ne avrei ancora un'altra. Domanderei se questa teoria che la scuola debba essere fondata solo là dove già esiste l'industria, e che debba assolutamente e sempre venir dopo, sia poi tanto rigorosamente vera da non ammettere mai alcuna eccezione?

Riconosco la verità generale della teoria; ma osservo che nei paesi stessi, dove essa è sostenuta con un ardore quasi esagerato, nella Francia, per esempio, dove, in conseguenza appunto della teoria, la scuola Turgot ed il collegio Chaptal, destinati per gli operai, non hanno alcun esercizio manuale, perché si dice che la scuola deve essere teorica, che il mestiere si deve imparare solamente nella officina; in Francia, io dico, si ebbero molti dubbii e fu ordinata un'inchiesta sull'insegnamento industriale in Europa. Ebbene, in questa inchiesta appunto, il generale Morin, uno degli acerrimi sostenitori della teorìa, notava che in alcuni casi, nei quali le condizioni della società sono eccezionali, quando la popolazione è eccessivamente agglomerata e misera, possono le scuole tentare di far nascere l'industria, e che vi sono qualche volta riuscite. Si cita da tutti nella Baviera l'esempio dell'industria dell'orologeria, decaduta prima, e poi dalle scuole di orologerìa fatta risorgere.

Nella Fiandra si citano le sessanta scuole di tessitura, che cacciarono, dice la Relazione, la lebbra della miseria da quelle province. Nella Slesia si citano le scuole dei tappeti turchi e delle trine, che riuscirono a diffondere una industria nuova nel paese; e nella Francia stessa si cita una scuola di tessitura nel Conservatorio di arti e mestieri, 4a quale potè creare nel paese quell'industria, e fu poi soppressa, perché era ottenuto lo scopo, pel quale era stata fondata. Tuttavia, o signori, siccome queste sono eccezioni, e su questa parte della teoria si disputa ancora da molti anni, io non insisto. Non voglio qui discutere teorie ancora combattute; ma accettare solamente quelle, o almeno le parti di esse, in cui tutte le opinioni sono concordi, per chiederne l'applicazione al Governo.

Ammesso che la Scuola industriale non debba far altro che promuovere l'industria là dove è già nata, v'è pure a questa regola un' eccezione che tutti riconoscono, e sulla quale da nessuno si fa contra sto. L'eccezione è la seguente: sebbene la scuola non possa creare l'industria, sebbene il mestiere si apprenda nell’officina; pure nelle Opere Pie vi deve essere l'insegnamento di qualche mestiere, perché esse sono destinate ad una classe immensa di oziosi, di vagabondi e di discoli, i quali hanno bisogno, non tanto d'imparare un mestiere particolare, quanto di essere levati dalla miseria e dall'ozio, educati al lavoro. E per educarli al lavoro è necessario insegnar loro un qualche mestiere, sia quale si voglia imparerebbero di certo meglio nelle officine vere e proprie; ma per ora occorre sopra tutto dar loro l'abito del lavoro.

In Francia, in Inghilterra, in Germania, in America, nell'Italia stessa le Scuole industriali esistono nelle Opere Pie. Ognuno di noi ha potuto recentemente leggere nella Rivista dei due Mondi un ragguaglio importantissimo sulle condizioni delle plebi povere di Nuova York. Quel ragguaglio ci dà la cifra di 30 mila fanciulli senza genitori, o con genitori che essi non conoscono, o da cui sono abbandonati. Questi 30 mila fanciulli sono cercati da un' associazione che fonda appunto Scuole industriali, e cosi riesce a correggerne, per restituirli alla società, 21 mila, di modo che non restano abbandonati che novemila. Le autorità locali dànno 235 mila lire a quest'associazione privata, ed il Governo centrale, che non ha fondato Università, che non ha un Ministero di Pubblica Istruzione, che non ha fondato Licei, dà 80 mila lire per le Scuole industriali dei poveri della sola città di Nuova York, più di quello che il Governo italiano dà a tutto quanto il Regno.

Io vi domando, signori, se è vero o no che noi abbiamo troppo pensato all'insegnamento superiore, e troppo poco all'inferiore; se è vero o no, che l'insegnamento dei mestieri sia l'arme più potente per togliere gli uomini all'ozio, al vagabondaggio, alla miseria ed alla immoralità, per restituirli liberi cittadini all’onestà, al lavoro? E se ciò è vero, io domando che il Governo italiano adempia questo che è pur suo dovere.

Qui sorge una prima domanda: esistono davvero queste condizioni di miseria in Italia? Io credo che esse esistano in un grado assai pericoloso, e che noi vi abbiamo finora troppo poco pensato.

Quando ricordo le condizioni in cui sono le province meridionali; quando guardo la città di Napoli, dove le classi infime vivono come gli schiavi; quando io vedo le loro abitazioni che sono come tane di animali, e quando vedo che dal 1859 ad oggi,  né in privato  né in pubblico, nessuno ha mai seriamente pensato a mettere davanti a sé questo problema, a domandarsi cioè se vi è un mezzo qualunque di cominciare a migliorare radicalmente un tale stato di cose; quando vedo che le medesime abitazioni, gli stessi tugurii esistono sempre, e quel che è peggio le nuove case per la plebe si costruiscono anche oggi nello stesso modo; allora io mi domando, se l'ora non è finalmente venuta per studiare la soluzione di questo problema? Io non m'illudo, o signori, non credo possibile una pronta ed immediata soluzione; ma credo che il nostro dovere di cercarla sia evidente, e desidero che si cominci una volta ad occuparsene.

Se non temessi di stancare la Camera colla descrizione di questi fatti, potrei citare esempii che farebbero raccapricciare; potrei descrivervi uomini che vivono in un modo tale, che voi sareste costretti di chiedere a voi stessi: siamo o non siamo in un paese civile? Ma ho io bisogno di far lunghe dimostrazioni e descrizioni? Non è forse noto a tutti, che nelle province meridionali il dispotismo si fondò sull'antagonismo delle classi, e che di ciò esso fece un mezzo di governo? Non è noto che esso fece a poco a poco pesare le classi superiori sulle inferiori, le quali discesero in tale miseria, che non si sa più qualche volta se certi infelici colà si possano ancora chiamare uomini?

E la consuetudine dei secoli fa riguardare questo come un male senza rimedio, quasi come una legge di natura. Ma se la libertà non c'insegnasse ora il dovere di portare un rimedio a questo stato di cose, noi non avremmo il diritto di chiamarci uomini civili.

Qui certo mi si chiede: ma che cosa c' è da fare? Ed io rispondo: insegnate a lavorare colle Scuole di arti e mestieri. So bene che si ripete subito la vecchia storia: questo lavoro, queste scuole, nelle Opere Pie o fuori, sono sempre il frutto dell'attività locale. Se i comuni, se le province non ci pensano, il Governo non può venire in loro aiuto. Io credo che i municipii, le province, i privati hanno pur fatto qualcosa, sebbene non tanto quanto avrebbero dovuto. Ma voglio un momento ammettere per ipotesi l'affermazione contraria. Supponiamo dunque che in una grossa parte d'Italia privati, municipii e province non facciano nulla per migliorare un tale stato di cose; deve perciò il Governo dire: anch'io non farò nulla?

Mi pare invece che sarebbe il caso di riconoscere nel Governo il diritto, il dovere di obbligare privati, municipii e province a fare qualche cosa, dando esso il primo l'esempio di adoperarsi con energia, perché cessi o almeno muti uno stato di cose tanto vergognoso per noi. L'eterna teoria del lasciar fare e lasciar passare, in quest'occasione, mi pare che non debba applicarsi senza qualche restrizione; giacché altrimenti passano solo la miseria e la corruzione. Infatti se voi cercate l'origine dei delitti che si moltiplicano ogni giorno; se voi cercate la sorgente prima della camorra, che ancora non vi riesce di distruggere, la troverete in quei cittadini che sono abbandonati,

che sono oppressi, e che non hanno modo di procacciarsi la vita con un mestiere, perché non conoscono che cosa sia lavoro, e non v'è alcuno che pensi seriamente al modo di distruggere un tale stato di cose, valendosi di tutti i mezzi che la libertà e la civiltà ci concedono.

Noi, o signori, abbiamo fatto una rivoluzione, la quale in grandissima parte è stata l'opera di una borghesia intelligente, civile, disinteressata, amante della libertà, e che aveva tutto sacrificato a questa libertà. Il popolo si trovava in condizioni tali da non potere partecipare alla rivoluzione, e venne perciò da noi quasi trascinato; ma da ciò appunto ne è seguito che, essendo noi soli a lavorare, essendo soli intenti a compiere quest'ordinamento libero d'Italia, pur volendo fare il bene di tutti, ci siamo tuttavia trovati ristretti senza saperlo e senza volerlo come in un cerchio, e abbiamo per poco creduto che il nostro piccolo mondo sia il mondo, dimenticando che fuori della nostra angusta cerchia v'ha una classe numerosissima, a cui l'Italia non ha mai pensato, ed a cui deve pur finalmente cominciare a pensare. Questo sarà uno degli uffficii principali del nostro nuovo indirizzo politico ed amministrativo, a questo l'unione politica già compiuta ci deve spingere.

Ma ora bisogna pur venire ad una conclusione. Ammesso che questa classe misera esista e sia numerosissima; ammesso che l'istruzione sia uno dei mezzi per rendere più civile il popolo; ammesso (e credo che nessuno vorrà negarlo) che l'alfabeto solo non basta, e che bisogna dare anche l'ascia ed il martello per fare di questi uomini utili operai, solo mezzo per renderli morali; ammesso finalmente, che in alcuni luoghi,

e in certe condizioni sia pure possibile, anzi necessario istituire le Scuole industriali, di cui ho parlato, a fine di promuovere il miglioramento delle classi sociali più povere, io volgo lo sguardo alla statistica e trovo un fatto che mi consola, perché mi fa balenare l'idea, che il mezzo pratico di cominciare a fare qualche cosa ci sia. Io trovo che in questa Italia, e specialmente nelle province meridionali, laddove la miseria è cosi grande, laddove il vagabondaggio è cosi esteso, le Opere Pie o di pubblica beneficenza si sono moltiplicate all’infinito; che la carità dei cittadini non è spenta; che essa ha sempre dato tutto quello che ha potuto per rimediare al male. Se non che queste Opere Pie, non essendo dirette con sufficiente intelligenza, invece di combattere l'accattonaggio, l'ozio e la miseria, gli alimentano; e troviamo infatti somme enormi destinate unicamente alla limosina. E quando andiamo a cercare come vivono alcune migliaia, e, se guardiamo alle campagne, possiam dire anche milioni d'infelici che non lavorano, perché non sanno o non hanno modo, vediamo che ricevono il soccorso continuo di una beneficenza, che troppo spesso è solo un incoraggiamento all’ozio ed all’accattonaggio.

Io trovo infatti notato nella statistica, che per elemosine, beneficenze e maritaggi, c'è un capitale di lire 187,903,000. Io guardo ai ricoveri di fanciulli e di giovanetti, e trovo che a loro benefizio, esclusi gli esposti, esclusi gl'infermi, è destinato un capitale di lire 187,490,000.

Tiro la somma totale, e sono lire 375,393,000. Se ne escludo più di 45,000,000, che servono agli Asili infantili, restano 370 milioni di capitale, i cui interessi si distribuiscono in elemosine, e servono ad alimentare la miseria, quando invece furono lasciati per combatterla.

Ora, io domando: è egli possibile il far servire questi che sono, si può dire, 20 milioni di rendita, come arme di guerra contro il vagabondaggio, contro la miseria, contro l'ozio?

Ma io esamino di nuovo la statistica, guardo e trovo altri 161 milioni di capitale destinati ad Opere Pie miste di beneficenza e di culto. Forse anche qui una metà almeno potrà essere destinata all'istruzione, principalmente all’istruzione industriale. Ed avremo in questo modo 25 milioni all'anno, i quali rappresentano tutto il Bilancio della Pubblica Istruzione e metà di quello d'Agricoltura e Commercio insieme riuniti, e possono essere il mezzo col quale, senza aggravare i contribuenti, e senza tradire, ma solo interpretando onestamente e saviamente le intenzioni dei donatori, possiamo combattere la miseria.

Voi certo non crederete, o signori, che, quando si trovano lasciti pii per aiutare i miseri, non sia un'elemosina maggiore e migliore, se invece di dare con essi da mangiare per tutta la vita ad un povero, noi lo ricoveriamo quattro o cinque anni, dandogli da mangiare ed insegnandogli un mestiere, coi quale possa poi aprirsi la sua strada nel mondo come tutti gli altri cittadini. Mi pare anzi che cosi interpreteremmo assai meglio le intenzioni dei benevoli donatori.

Pur troppo, o signori, le Opere Pie dipendendo dal Ministro dell’Interno, quello della Pubblica Istruzione non crede di avere il diritto d'intervenire per introdurvi e dirigerne le scuole; quello di Agricoltura e Commercio non crede d'avere l'autorità sufficiente per introdurvi l'officina e l'insegnamento del lavoro. Ma il Governo è uno, e io domando che i Ministri si riuniscano e cooperino insieme a questo scopo comune; e domando che dove le leggi bastano, si trasformino le Opere Pie per arrivare a questo fine; e dove le leggi non bastano, si venga a chiedere nuovi poteri. Io son sicuro che la Camera crederà d'interpretare le intenzioni dei donatori, quando farà si che la carità non sia una bassa, una volgare elemosina; ma un mezzo per trasformare quei cittadini che vivono abbandonati, in liberi cittadini che sappiano procacciarsi la vita col proprio lavoro.

Voglio citare un solo esempio per far vedere come le Opere Pie qualche volta, anche con grandissimi mezzi, non ottengano il loro scopo. È noto in quali condizioni fu trovato l'Albergo dei Poveri di Napoli, nell'anno 1867. Vi era per esso e le sue dipendenze la rendita totale di un milione, rendita che si trovò destinata a mantenere come una città di miserabili, i quali si può dire che nascevano e morivano in quello Stabilimento. Vi erano vecchi sessagenarii, che dall'età di cinque o sei anni vivevano nell'Albergo dei Poveri; vi erano donne disoneste, abbandonate qualche volta alla prostituzione, riunite insieme con fanciulle di otto, dieci, dodici anni.

Tutto questo era mescolato, e il milione lasciato per combattere la miseria era divenuto uno strumento per moltiplicare all’infinito la corruzione e la miseria. L'Albergo dei Poveri, che era stato in origine l'opera di buoni cittadini, si trovò ridotto ad essere una vergogna dell'Italia e dell'ex-regno di Napoli. Anche nel resto d'Italia si possono citare altri esempii deplorevoli, sebbene non facilmente cosi tristi.

Quando adunque il Ministero di Agricoltura e Commercio, quello dell'Istruzione Pubblica e quello dell'Interno esaminassero tutte le Opere Pie di cui ho parlato, col desiderio di trasformarle in scuole vere e proprie, scuole però nelle quali colla istruzione si désse anche il vitto, fino a che non si fosse in condizione di procurarselo col proprio lavoro; io credo che questo sarebbe il vero mezzo d'interpretare giustamente la volontà dei testatori, perché essi coll'aiutare i miseri miravano a combattere la miseria; e perché, se avessero voluto alimentarla, noi avremmo il diritto di dire che i morti non debbono dare la legge ai vivi, e mollo meno incoraggiarne l'ozio e la miseria. Ma questo non è il caso, e nessuno può supporre così cieca e trista l'intenzione dei donatori.

Aggiungerò un altro esempio, per dimostrare come le Opere Pie spessissimo, non avendo un buon indirizzo, non ottengono il loro scopo.

A Firenze, quando vi era le capitale del Regno d'Italia, si trovavano, come si trovano tuttora, quattro scuole fondate ai tempi di Pietro Leopoldo, il quale, coll'intelligenza propria di quel principe, le aveva istituite, perché servissero a formare buone madri.

Voleva che imparassero a leggere e scrivere, e che apprendessero tutti quei mestieri che si possono esercitare dentro la casa, e sono utili a mandare innanzi la famiglia. Ebbene, queste quattro scuole avevano poco fa 1200 alunne, e di queste 1200 alunne, molte delle quali vi restavano sino ai 17 e ai 18 anni, appena poco più del 10 per cento imparavano a leggere e scrivere: e si trattava di scuole vere e proprie. Quando il Ministero della Pubblica Istruzione volle in esse rendere obbligatorio il leggere e lo scrivere per tutte le alunne, si rispose che le Opere Pie dipendono dalla Deputazione provinciale e dal Ministero dell'Interno; non hanno nulla che fare con quello dell’Istruzione. Ora le cose sono mutate; ma ci vollero anni d'insistenza. Questo può valere d'esempio a mostrare come vanno le cose, e quanto sia necessario il mettere queste scuole sotto l'autorità del Ministero di Pubblica Istruzione o di Agricoltura e Commercio.

Citerò un ultimo esempio. A Bologna, che altra volta fu un grandissimo centro di studii universitarii, la carità dei cittadini e degli stranieri lasciò grandi somme destinate a fondare alcuni collegi universitarii. Questi sono perciò Opere Pie; si dichiarano quindi indipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione, e non vogliono rendere ad esso alcun conto di quello che fanno; usano il danaro che raccolgono come meglio loro piace, e credono anch'essi di essere nel loro diritto, e d'interpretare cosi le intenzioni dei testatori.

Se dunque la Camera è persuasa, che quelle Opere di beneficenza delle quali ho parlato, debbano essere destinate ad insegnare il lavoro, e se il lavoro insegnato ai miseri è parte anch'esso di una vera e propria beneficenza, io credo che non vi sia nulla di più opportuno, di più utile adesso che pregare il Ministro di Agricoltura e Commercio, perché d'accordo coi suoi colleghi trasformi queste Opere Pie, finché la legge lo consente; e quando la legge, che in alcuni casi è ristretta troppo, non gli permetterà di andare innanzi, venga alla Camera a chiedere i necessarii poteri.

Le mie domande, adunque, si riducono in conclusione a due: 1a Chiedo un aumento di 20,000 lire sul capitolo 25 del Bilancio di Agricoltura e Commercio, portandolo da 70 a 90 mila lire, sia con un nuovo stanziamento, sia con una economìa, secondo che il Ministero e la Commissione crederanno più opportuno; 2a Faccio un invito al Ministero, perché si adoperi a trasformare le Opere Pie di cui ho parlato, valendosi dei 25 milioni di rendita, allo scopo che ho indicato, e ciò senza alterare il carattere delle fondazioni, salvo i casi di assoluta necessità.

Prego il Ministro di Agricoltura e Commercio, nel cui patriottismo, nella cui intelligenza ho pienissima fede, che si compiaccia di darmi una franca risposta, e di non fare vane e vaghe promesse semplicemente per chiudere una discussione più o meno importuna. Desidero che dica chiaramente quali sono gl'impegni che può prendere.

Dica poco, ma dica quello che crede di poter subito effettuare; ed io sarò molto più contento del poco che di avere vaghe promesse con l'attender corto, o belle parole che rimandano tutto alle Calende greche.

…........................................................................

VILLARI. Io ringrazio l'onorevole Ministro di Agricoltura e Commercio, prima perché egli ha dichiarato che crede possibile fare qualche economia sul capitolo Istituti Tecnici, per portarla ad aumento delle Scuole di arti e mestieri, e aspetto di vedere effettuata questa promessa.

Quanto alla questione delle Opere Pie, vorrei solamente fare una dichiarazione all'onorevole Mussi, che alle mie parole pare abbia dato una interpretazione poco esatta, il che forse è dipeso dall'essermi io male spiegato. Non ho inteso e non intendo in modo alcuno di dare le Opere Pie al Governo. Sono contrarissimo all’incameramento dei beni delle Opere Pie; desidero che serbino la loro personalità, la loro indipendenza, perché è il loro diritto, e perché ciò stimola la carità dei privati ad aumentarne il patrimonio. Ma quando vedo che esse non aprono le scuole, come sarebbe il debito di quelle di cui ho parlato; quando vedo che non attendono a promuovere il lavoro, ad insegnare i mestieri; allora credo che sia dovere del Governo obbligarle a ciò, ed, occorrendo, anche trasformarle. E sono sicuro che, senza entrare a parlare  né di Adamo Smith,  né dei Socialisti della cattedra, da questo e da quel lato della Camera saremo tutti d'accordo in questo, che deve essere il nostro scopo comune.

Quanto poi alla seconda risposta del Ministro, siccome egli ha detto giustamente che il problema delle Opere Pie dovrà e sarà da lui studiato coi suoi colleghi, per dare una risposta adeguata; io mi riservo di ritornare sull’argomento quando si parlerà del Bilancio del Ministero dell'Interno, sperando che allora la questione sarà stata studiata dai due Ministri, e che avremo una risposta più categorica.   Il Ministero dell’Interno nominò più tardi una Commissione per la riforma delle Opere Pie, che fece le sue proposte; e fu anche presentato alla Camera un disegno di legge, che poi non venne discusso, pel nuovo cambiamento di Ministero che sopravvenne.

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II.  Camera dei Deputati, 26 aprile 1876. Discussione sul disegno di legge per un' Inchiesta agraria.

Signori,

Può sembrare quasi superfluo il parlare su questa legge, che è sostenuta dal Governo e da ambo i lati della Camera: pure io domando l'indulgenza dei colleghi per dire alcune brevi parole, e fare una raccomandazione. Ma ancora per un'altra ragione. Io non vorrei che questa legge, la quale di sua natura ha una grandissima importanza, passasse come inosservata, quasi una legge che si vergognasse di se stessa. Tutti dicono di volerla; ma pure osservazioni contro di essa sono state più volte fatte, ed è bene perciò che una qualche risposta sia data. Molti affermano che le Inchieste sono fra noi assolutamente inutili, perché in Italia non riescono a nulla; che questa Inchiesta poi non potrà mai avere effetti benefici, perché quando anche si scoprissero dei mali nelle condizioni degli agricoltori italiani, sono di quelli cui solo il tempo può apportare rimedio, e che debbono tutto aspettare solo dal progresso naturale delle cose.

Pare che, per questa ragione, da ogni lato della Camera si desideri parlare il meno possibile dell’Inchiesta agraria, e farla passare quasi inosservata. Io credo invece opportuno che la legge sia esaminata é discussa, che se ne parli, e perciò anche solo incomincio, sperando che altri mi segua.

Leggendo la Relazione premessa al disegno di legge e gli allegati, ammirai la dottrina e la diligenza con cui sono compilati. Pure dovetti osservare che se da un lato la Relazione esplicitamente ammette l'esistenza di un male, e la necessità di portarvi rimedio, da un altro si scorge chiaro che, pure riconoscendolo, teme di parlarne troppo. Io credo invece che questi timori siano esagerati, e che il Relatore vorrà persuadersi, se già non è persuaso, che invece sia utile, sia necessario esprimere esplicitamente il proprio concetto intorno alla questione di cui si tratta.

Certo se l'Inchiesta si farà con idee preconcette, con il desiderio di non approfondirla, allora sarebbe meglio non farla. Ma se invece si farà per arrivare a vedere se i mali veramente esistono, e quanto questi mali siano profondi; per potere, se è possibile, portarvi rimedio; e così svegliare l'apatìa del paese intorno ad un problema d'una gravità immensa, senza punto stancarsi o spaventarsi dell’indifferenza generale,  né del sorriso che qualche volta si vede sulle labbra di tutti, appena che si accenna alla lontana possibilità di una questione sociale, forse si potrà allora arrivare ad una qualche conclusione, forse alla fine qualche resultalo pratico si otterrà. Io non mi faccio illusione alcuna intorno ad effetti immediati, per rimediare in poco tempo a mali gravissimi e complicati; ma pare dico: Se l'Inchiesta si deve fare, è necessario che tatto ciò che riguarda la condizione sociale e morale del contadino sia soggetto di una particolare indagine, e non si tema, per paura di sollevare una questione sociale, di esaminare il male, e di dire apertamente se questo male e è, e quanto è grave.

Che ci sia poi, i documenti allegati alla Relazione e la Relazione stessa qualche volta lo mettono in grande evidenza. Quindi cerchiamo di esaminare con la dovuta prudenza e temperanza anche la questione sociale, andando al fondo di essa, per arrivare a quella conclusione a cui la logica e l'esperienza ci porteranno. Ma non seppelliamo la ricerca dei mali sociali in un mare d'altre indagini più o meno estranee.

Tutti i libri citati negli allegati alla Relazione riconoscono fra noi l'esistenza di gravissimi mali sociali: li riconoscono l'onorevole Jacini, lo Stivanello e più di tutti il Franchelti, il cui libro il Relatore dice «pieno di giuste osservazioni dettate da vero spirito di patriottismo.» E questi libri vengono tutti alla medesima conclusione, che cioè è debito nostro di pensare seriamente a questo problema, che non può ormai essere più seppellito sotto il silenzio, e che noi dobbiamo migliorare le condizioni dei contadini. Da un altro lato sono anch'io convinto che è impossibile ritrovare pronti rimedii; ma credo pure che giovi grandemente conoscere e far conoscere i mali. Vi sono molte azioni che si commettono, quando si crede che resteranno ignorate; ma non si commettono più, quando si sa che invece saranno esposte alla luce del sole, dinanzi al paese. Molti proprietarii si condurrebbero diversamente, senza bisogno di nuove leggi. E però, se anche non possiamo immediatamente trovare i rimedii e proporre leggi che allontanino questi mali, non dobbiamo temere che la luce si faccia, quella luce che è la conseguenza dei liberi ordini sotto cui viviamo.

Io quindi vorrei che, nel fare questa Inchiesta, si tenesse conto principalmente delle condizioni sociali e morali, in cui si trova la classe degli agricoltori, e che questa parte venisse riguardata come sostanziale nell'Inchiesta. Non basta che essa non venga esclusa dalla legge proposta,  né dalla Relazione. Cerio non v'è alcun bisogno di venire a fare accuse personali; basta conoscere con esattezza i fatti sociali nella loro generalità, per poter portare su di essi tutta la luce necessaria e darne un giudizio sicuro.

Io nella pubblica stampa cercai di destare la questione, scrivendo della misera condizione delle nostre plebi in generale, e dei contadini in particolare. Allora, come suole, molti gridarono alla esagerazione, e dissero che i mali non esistevano; moltissimi altri però sostennero che vi erano realmente ed erano gravissimi. Ora non starò qui a riferire lettere e opinioni private; mi permetto però di citare un giudizio solo, che mi fece sempre più grande impressione, secondo che mi andai persuadendo non essere esso il giudizio di un individuo, ma di tutto un ordine di cittadini assai competenti a dare un' opinione sicura, perché fondata sull'esperienza personale. Ricevetti non è molto una lettera che accompagnava un volume manoscritto, in cui erano le Memorie di un ufficiale dell'esercito, il quale dal 1868 al 1871 aveva combattuto contro il brigantaggio, e sino al 1874 era rimasto nelle Province Meridionali. L'autore mi mandava il silo volume, per dimostrarmi che l'esperienza di molti anni lo aveva portato alle mie stesse conclusioni.

Queste Memorie infatti ripetono continuamente le medesime osservazioni che io aveva esposte, e queste osservazioni sono confortate da fatti speciali, di cui citerò un solo, uno fra i molti esempii addotti per avvalorare la verità generale che l'autore voleva dimostrare, che il brigantaggio cioè era ed è nelle Province Meridionali conseguenza della miseria e della fame, cui è condannato il contadino.

Leggo le sue parole: «Allorché il capobanda Mansi ricattò il ricco signore... (mi si permetta che taccia il nome), nell'interno del paese di... ove era entrato in sull’imbrunire della sera di un bel giorno d'estate, insieme con i suoi, nella bottega del tabaccaio e caffettiere del paese, il Mansi tradusse seco il mal capitato proprietario, e, appena fuori dell’abitato, un'onda di campagnuoli, anziché prestarsi alla liberazione del loro padrone, fecero un'ovazione al bandito, gridando a squarciagola: — Evviva il capitano Mansi, — facendo corteo alla banda!» Qual è la spiegazione che l'autore ci dà di questo fatto? È la stessa che egli ripete mille volte in queste Memorie: «Anche i più onesti del basso popolo hanno lo spirito contrario al signore, e talmente contrario, che non vedono nel bandito altro che la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armata verso chi li tiranneggia.» E questa opinione mi avvidi poi che è generalissima in tutti quegli ufficiali del nostro esercito, che si sono trovati a fare la guerra contro il brigantaggio.

Se dunque si volesse sostenere che di questa, che è la più grave questione, quella in fondo che fece proporre l'Inchiesta dell’onorevole Bertani, non dovesse parlarsi, per non sollevare la questione sociale; allora sarebbe, io credo,, inutile l'Inchiesta, e voglio credere che sia della stessa opinione anche l'onorevole Relatore, Ormai nel paese e' è già l'opinione che un male grave esista, e che qualcosa debba farsi in favore dei più ipiseri. Già molti {studiano il problema; Italiani e stranieri apparecchiano nuovi lavori; la luce sarà latta, quando anche l'Inchiesta tacesse.

Io dunque non faccio che una semplice raccomandazione, chiedo cioè che si dia alla parte ora accennata dell’Inchiesta tutta quanta l'estensione che è necessaria, E mi pare che oggi sia più che mai venuto i| momento di pensare al temuto problema. Questa mattina, ascoltando il Discorso dell’onorevole Ministro dell'Interno, io ripensava alle condizioni dello plebi più ignoranti d'Italia, e specialmente dell'Italia meridionale Mi ricordava di averle vedute tante volte illuse nella speranza che, venendo al potere uomini del partito avverso a quello che aveva lungamente governato, potessero sperare l'abolizione di quelle tasse che tanto le opprimono. Ed invece il nuovo Governo, per bocca del Ministro dell'Interno, ha dovuto francamente dichiarare che esso è sempre nella Impossibilità di alleggerire, pur di una sola lira, la tassa del macinato o altra tassa qualunque. Tutta la speranza si deve ridurre ad una maggiore mitezza nei modi di riscuoterle Quelle popolazioni adunque debbono oggi perdere affatto la vana speranza che avevano cosi lungamente nutrita, e ravvedersi per sempre del loro errore.

Io approvo le franche parole del Ministro dell’Interno, perché egli ha detto una verità dura, ma vera, e perché io sono tra coloro i quali credono che bisogni desiderare, che il nuovo esperimento costituzionale ora cominciato fra noi, riesca, e che da questo lato della Camera si debba far di tutto perché il partito che ci è avverso, governi senza incontrare in noi ostacoli di sorta. È un debito d'onore che abbiamo. Ma se è necessario, secondo le parole del Ministro dell'Interno, mettere nelle popolazioni la convinzione, che è inutile per ora sperare alcuna abolizione o diminuzione delle tasse che le gravano, e se dobbiamo sostenere il Ministero, quando dice schiettamente la dura verità, mi pare che sarebbe opportuno del pari il far vedere adesso che i partiti sono concordi anche nel desiderare che si studii, se vi sono mezzi per sollevare ' la grave miseria dei più oppressi, e che ci diamo tutti la mano appunto ora per aiutarli. Nel momento in cui si dice loro che le speranze avute cosi lungamente sono vane, si veda se da qualche altro lato possano sperare conforto.

Io non so se l'onorevole Relatore, tra i molti e accuratissimi studii che ha fatti, abbia per caso incontrato un libro intorno alle condizioni della Sicilia, del quale serbo una vaga memoria, scritto, io credo da un tale Caracciolo. Mi ricordo che, esaminando le condizioni dell'Isola, l'autore conchiudeva col dire al Governo che allora reggeva: «Sua Maestà sappia che i lamenti dei ricchi arrivano fino a lei; ma i lamenti dei poveri non vi arrivano mai.»

I tempi sono ora mutati, e mi pare che perciò sia bene di far sapere al paese, che qui arrivano anche i lamenti dei poveri; che anzi il Parlamento italiano non aspetta che arrivino, ma anche prima che si manifestino prende l'iniziativa, e cerca di vedere se vi sono miserie ingiuste, se vi sono ad esse giusti rimedii, se vi sono torti da riparare, e in che modo si possano riparare. Io dunque non solamente sono favorevole alla legge, ma prego che nell'Inchiesta sia data la maggiore possibile estensione, senza punto esagerare, a quel lato della questione che ho cercato di accennare, e che riguarda la condizione economica e morale dei nostri contadini.

III.  Agli Elettori del Collegio di Guastalla, 27 settembre 1876.

Signori,

Due fatti notevolissimi seguirono k scorso marzo nell'Assemblea legislativa. Il potere sfuggi di mano al partito che aveva fin' allora sempre governato il paese, e la Sinistra fu chiamata dal Re a formare il nuovo Ministero. Una frazione dell’antica Maggioranza si separò dai vecchi amici, e si uni alla Sinistra. In questo stato di cose tanto nuovo, dacché la nostra ri votazione è incominciata, spero non troverete superfluo che io, il quale votai coll'antica Maggioranza, abbia sentito il dovere di presentarmi a voi, per rendervi conto del mio operato. Permettetemi però di cominciare col farvi una preghiera. Dimentichiamo per un solo momento, che io sono il vostro deputato e voi i miei elettori. Concedete che, ricordando la benevolenza dimostratami più volte, parli solo come un amico in mezzo ad amici. Senza neppure occuparci troppo del partito politico, cui apparteniamo, fermiamoci ad esaminare insieme i fatti e le loro conseguenze, pigliando a guida solamente l'interesse generale del paese, che in fine è il nostro interesse.

E prima di tutto, a parecchi di voi deve esser noto, che più d'uno dell'antica Maggioranza aveva espressa l'opinione: essere desiderabile, nell'interesse di tutti, che la Sinistra una volta salisse al potere. Permettetemi di ricordare che io stesso, fin dal 1867, sostenni pubblicamente una tale opinione nel Politecnico di Milano, con uno scritto intitolato: Libertà o Anarchia? Io dicevo allora: Finché avremo un partilo sempre al Governo, ed un partito sempre nell’Opposizione, noi non avremo il vero e largo regime costituzionale. Se i Ministeri si formeranno sempre nella Destra e dalla Destra, questa s'anelerà dividendo in gruppi più o meno ostili fra loro, più o meno numerosi, secondo il numero e le impazienze dei possibili Ministri, e cosi si verrà ogni giorno indebolendo e scomponendo di più. Da un altro lato un partito che si persuada di dover sempre restare al potere, perché esso solo capace di governare, può facilmente divenire un partito intollerante ed intollerabile. Esso può finire col fidare troppo in se stesso, col non voler  né vedere, né correggere i proprii errori; una volta entrato in una falsa via, vi persevera, non si ferma e non ascolta consiglio.

Ricordo di essere stato allora biasimato da qualche giornale troppo zelante, che mi disse: Voi volete fare sulla nazione gli esperimenti come si fanno sui cadaveri. Ma se lesperimento non riesce, e la Sinistra pone ogni cosa a soqquadro, per avere una Camera secondo il suo cuore; allora chi vi rimedia?

Io però non mutai avviso per questo, ma dissi: La libertà ha i suoi vantaggi ed ha i suoi pericoli, per avere gli uni bisogna affrontare gli altri. L'esperimento può essere pericoloso, ma è inevitabile, se vogliamo che le libertà costituzionali mettano radici profonde nel paese.

Voi vedete, o signori, che io non sono per niente pregiudicato di fronte alla presente situazione parlamentare. L'avvenimento della Sinistra al potere io l'ho preveduto e l'ho anche desiderato. Mi concederete però che questo non vuol dire, che io debba mutare opinione e mutare partito il giorno in cui ad un Ministero di Destra succede un Ministero di Sinistra, e che io debba approvare tutto quello che è seguito nello scorso marzo, ed il modo con cui è seguito.

Era un pezzo, o signori, che la Sinistra si trasformava. Una volta essa si opponeva alle tasse, pur necessarie per ottenere il pareggio; era contraria agli eserciti regolari; fidava troppo nei mezzi rivoluzionarii. Tutto questo è già mutato; il ministro Ricotti, per esempio, trovò nella Sinistra un valido appoggio a formare il nuovo riordinamento dell’esercito. I due programmi si avvicinavano sempre di più, e questo può dirsi un grande trionfo della Destra, o almeno dei principii che essa aveva sempre sostenuti, e che gli avversarii, dopo averli combattuti, dovevano adottare.

La Sinistra diveniva cosi sempre più governativa. Potevano i nostri giornali ripetere mille volte che essa non aveva più un programma suo proprio, che era costretta a copiare quello della Destra; ma è pur chiaro che così il suo legittimo diritto a partecipare al Governo cresceva ogni giorno.

Il lato più notevole di questa situazione era, però, che, se si avvicinavano i programmi, non si avvicinavano punto i partiti, e vi furono invece più volte scoppii violenti di passioni ostili, che parevano, ma non erano inesplicabili.

La Sinistra riceveva ogni giorno nuovo alimento e nuovo aumento di forze dallo scontento non mai scemato nelle Province Meridionali. A poco a poco i più sinceri patriotti d'ogni partito vedevano con un certo terrore, che la Camera minacciava dividersi geograficamente. Che sarà mai dell'unità nazionale, si diceva, se avremo una Sinistra meridionale ed una Destra settentrionale? Infatti, non bisogna illudersi, l'unità ottenuta come per miracolo, non è stata ancora sottomessa a quelle dure prove che s'incontrano pure nella storia dei popoli. Siamo, è vero, tutti persuasi che ne riuscirebbe, in ogni caso, vittoriosa; ma non possiamo dire di aver misurato la sua forza di resistenza. Quello che pareva impossibile a fare, può essere possibile a disfare. Non possiamo affermare che il regionalismo sia spento del tutto fra noi, e che non sia pericoloso. Che vuol dire questa necessità che molti sentono, ogni volta che si compone un nuovo Ministero, di vedervi rappresentate tutte le varie regioni? Bisogna che vi sia il Napoletano, il Piemontese, il Lombardo, e via discorrendo. Che vuol dire l'accusa continua che alcuni facevano alla Destra di aver governato l'Italia a vantaggio esclusivo delle province settentrionali, mentre altri le facevano quasi il rimprovero contrario? Giuste o ingiuste le accuse, provano che il sentimento esiste.

Questo sentimento è in ogni caso pericoloso, perché, senza ricorrere al vano fantasma della guerra civile, esso potrebbe, dopo avere sciupato le nostre forze in sterili gare che esauriscono il paese, renderci impotenti a resistere ad ogni urto che, nelle possibili complicazioni europee, venisse contro di noi.

Ma insomma ora abbiamo un Ministero di Sinistra, un Ministero nel quale l'elemento meridionale predomina, come una volta predominava l'elemento settentrionale. Le partite così sono pari: noi vedremo che cosa saprà fare, e se riesce a promuovere Tinte resse generale dell'Italia, e con esso anche l'interesse particolare delle Province Meridionali, il nostro dovere sarà di aiutarlo e di applaudirlo.

Ma, o signori, la situazione presente non è cosi semplice quale l’abbiamo finora descritta. Un nuovo fatto è venuto inaspettatamente a complicarla, e a darle un carattere nuovo. Un gruppo di Deputati della Destra si è, nel momento della battaglia, separato dagli antichi amici, per unirsi agli avversari!, al cui trionfo ha non poco contribuito. Questi dissidenti erano stati sempre tra i più tenacemente fermi all’antica Maggioranza, erano quelli che venivano chiamati il fiore della consorteria; intolleranti d'ogni transazione colla Sinistra, l'attaccavano più vivacemente, e più vivacemente ne erano attaccati; avevano sempre voluto assicurare alla Chiesa ed al clero cattolico le maggiori garanzie, o, come dicevano, le maggiori libertà. Questo gruppo ha avuto un nome, e si chiama il gruppo toscano, perché infetti composto di Toscani.

Ragione o torto che abbia avuto, io non lo giudico ancora; ma è singolare che anche in questo caso la ragione o il torto abbiano un carattere geografico. Esso ha però innalzato una bandiera, su cui ha scritto alcuni principii, coi quali spera ricostituire i partiti in Italia. E questi principii sembrano accettati da una buona parte di tutta la Sinistra. Esaminiamo prima le conseguenze più visibili e immediate del fatto, per esaminare poi il valore del fatto stesso e dei nuovi principii, secondo cui si vorrebbero dividere i partiti.

Quando io desideravo la venuta della Sinistra al potere, dicevo fra me: Se farà meglio della Destra, il paese ci guadagnerà; se farà peggio, sarà pure costretta a cercar nuove vie, a toccar le questioni che la Destra ha abbandonate, a cercare di non cadere nei medesimi errori; e la Destra, ammaestrata dalla nuova esperienza, potrà cavarne vantaggio. Spesso dai nemici s'impara più che dagli amici. Ma ciò che è avvenuto, ha messo la questione sotto un altro aspettò. Un partito politico, assai giustamente diceva l'onorevole De Pretis a Stradella, lo scorso anno, deve sapere aspettare la sua ora, se vuole essere degno del potere. Deve entrare per la breccia, a bandiera spiegata, a tamburo battente, in nome dei "suoi principii. Io non credo, che la Sinistra abbia in tutto seguito questo savio consiglio. Essa è entrata per una breccia aperta, almeno in parte, da una frazione di De stra, che l'ha accompagnata al trionfo, e si vanta di avere innalzata la nuova bandiera che deve dividere i partiti.

E cosi il Ministero salito al potere si trova come

partiti sopra una salda base. — Vediamo, esaminiamo senza spirito di parte; ma non ci facciamo vane illusioni, che servono solo a nascondere gli errori commessi.

Libertà economiche, libero commercio. Ma, o signori, dov'è in Italia l'economista, dove l'uomo politico che abbia seriamente difeso il protezionismo, e cercato di applicarlo fra noi? Io non lo vedo  né a Destra  né a Sinistra, quando non si voglia sofisticare sulle frasi, ma stare ai fatti. Il Piemonte, sotto la direzione del Cofite di Cavour, si fece ammirare nel mondo per l'ardire con cui, mediante il libero commercio, crebbe le forze economiche ed industriali del paese. L'onorevole Minghetti è stato ed è rimasto tutta la sua vita uno dei più strenui difensori del libero commercio. Ricordo che quando si fece l’annessione delle Province Meridionali, l'onorevole Scia loja applicò il libero commercio con tanta furia, che venne accusato di non aver dato a molte delle industrie colà esistenti, e che pur potevano vivere sotto la libertà commerciale, il tempo necessario a prepararsi e adattarsi alle mutate condizioni. Parecchie industrie, infatti, allora scomparvero del tutto, e l'onorevole Scialoja venne chiamato colpevole della loro rovina, perché troppo cieco ammiratore del libero commercio. Come la Destra sia dalla sera alla mattina divenuta protezionista, io davvero non so  né capirlo  né vederlo. Se, per esempio, l'onorevole Luzzatti, dopo aver mille volte difeso il libero commercio, dopo essersi mille volte dichiarato libero cambista, osserva che, gravando di tasse alcuni prodotti nazionali, e lasciando libera entrata ai medesimi prodotti quando vengono dall'estero,

noi corriamo il rischio li fare un protezionismo a rovescio; si deve dire perciò che esso e tutta la Destra siano divenuti protezionisti? Senza buona fede nessuna discussione è possibile.

Ma voi, si dirà, dimenticate i grandi colpevoli, l'onorevole Sella e l'onorevole Spaventa, che volevano affidare l'esercizio delle strade ferrate allo Stato, invece che all'industria privata. Questa è la gran questione; è qui che i partiti si sono divisi fra liberali, o per dire come dicono ora, fra liberisti e protezionisti. Veramente, o signori, se le nostre strade ferrate fossero state costruite da Compagnie private, col loro danaro, a loro rischio e pericolo, e l'onorevole Sella e l'onorevole Spaventa avessero proposto di darle allo stato, io avrei capito che si tentasse di farne una questione di libero commercio, d'iniziativa privata da un lato, affermando che si voleva dall'altro sostituire l'iniziativa dello Stato. Lo avrei capito, sebbene anche allora restava apertala gran questione: si poteva, per esempio, chiedere, se convenisse alla Nazione di lasciare in balìa d'una Compagnia qualunque, anche straniera, le strade ferrate della Valle del Po, e se questo, in caso di guerra, potesse o no essere un pericolo reale. Ma che cosa abbiamo noi?

Ogni volta che si costruisce una nuova strada ferrata, si mettono ad uscita nel nostro Bilancio parecchi milioni di garanzìe chilometriche. Quando la strada ferrata è male amministrata, o non fa affari e sta per fallire, anche i liberisti vogliono che lo Stato riscatti e paghi. Ma dov'è allora l’iniziativa privata, dov'è la questione di principii? Che cosa si domandava infatti da coloro che combattevano il caduto Ministero?

Che lo Stato riscattasse le strade ferrate e ne lasciasse ai privati l'esercizio. Questo ad alcuni pareva un volere che lo Stato pigliasse l'osso per sè, e lasciasse la polpa ai privati. Essi dicevano: Se lo Stato deve pagare, provi almeno se può amministrare il suo danaro. Ragione o torto che avessero, questa non mi pare una lotta fra protezionismo e libero commercio. Ma io non voglio qui esaminare a fondo questo tèma. Cerco solo di vedere dov'è la questione di principii, che possa dividere i partiti, e quale è essa.

Che cosa diceva l'onorevole Peruzzi nel combattere il disegno di legge? Egli, che certo conosce assai bene la materia, diceva con molta precisione e molta autorità: Io non voglio fare un domma dell'esercizio delle strade ferrate. Credo che in alcuni casi possa essere preferibile farle esercitare dallo Stato; ma credo che nel caso nostro presente, con uno Stato appena formato, ancora inesperto e debole (e su ciò insisteva molto), sia, senza alcun dubbio, preferibile farle esercitare dai privati. Che cosa diceva l'onorevole Sella? Credo che in alcuni casi possa essere preferibile affidare ai privati l'esercizio delle strade ferrate; ma nel caso nostro, costretti come siamo a riscattare le strade ferrate dell'Alta Italia, perché non possiamo e non dobbiamo lasciarle in mano degli stranieri; vedendo quale sia la condizione economica delle Romane e delle Meridionali, mi sono persuaso il meglio essere per noi, che, giacché lo Stato deve riscattare tutte le strade ferrate, ne assuma anche l'esercizio. Dov'è qui la questione di principio?

I due oratori adunque sulla questione di principio dicevano la stessa cosa. Non si tratta quindi di libero commercio e di protezionismo, si tratta invece di una grandissima questione pratica e di opportunità, sulla quale due partiti si possono certo combattere, e si può demolire un Ministero; ma essa non può|in modo alcuno servir di base a ricostituire i partiti per l'avvenire. Infatti, la Camera ha consentito al Ministero, anzi gli ha imposto di affidare l'esercizio ad una Compagnia privata. Se domani il Ministero presenta una concessione per venti o trent'anni, la questione più non esiste, e i partiti non si possono dividere su di essa.

Ma si dice: Finisca o non finisca la questione, essa è il sintomo d'una tendenza governativa, che noi disapproviamo e combattiamo con tutte le forze. Voi volete dar tutto in mano dello Stato, volete sottomettergli l'individuo, volete la Statocrazìa, e noi che siamo Liberisti vogliamo la libertà individuale, locale, la libertà per tutto e per tutti. In una parola si tratta di dividere i partiti sulla grande questione dello scopo, dell'ufficio e dei limiti dello Stato. Voi volete dargli tutto, noi gii vogliamo dare il meno possibile. — Ebbene, vediamo.

Innanzi tutto, o signori, voler dividere i partiti sopra una tale questione è semplicemente impossibile. Su di essa può scriversi un bel libro; non si può formare un partito. La scienza non è riuscita ancora a determinare quale sia lo scopo, l'ufficio e quali siano i limiti imposti all'azione dello Stato. Abbiamo una quantità di libri, di sistemi e di definizioni diversissime, anche fra gli uomini del medesimo partito politico e dello stesso sistema filosofico.

Nella storia la diversità è anche maggiore. Abbiamo lo Stato teocratico, lo Stato militare, mille forme diverse. Anche Io Stato moderno in una nazione fa utilmente alcune cose, che in un'altra sarebbero dannose. Non si è detto fra noi tante volte, che uno degli errori del Governo italiano è stato quello di credere che la sua azione dovesse essere la stessa a Torino, a Milano, a Caltanisetta, a Melfi, a Venosa? L'ufficio dello Stato muta dunque secondo i tempi e secondo i luoghi. Or se in tanto mutabili varietà la scienza non ha potuto trovare una definizione sicura, una norma certa, come volete voi dividere i partiti appunto su questa questione teorica?

Ma si risponde: La formula c' è, e chiarissima: lo Stato deve far solo ciò che i privati non possono far meglio o anche ugualmente bene. Ma questo è precisamente quello che dicono e che vogliono anche gli avversarli: questo è quello che dicono tutti, se non ci si ferma a sofisticare su qualche frase imprudente che può sfuggire ad ognuno nel calore della lotta parlamentare. La questione vera nasce appunto quando si tratta di determinare quali sono in un dato tempo, in una data società, le cose che lo Stato solamente riesce a far bene, o almeno assai meglio che non possono fare i privati.

La formula generale e chiara che le abbracci tutte non s'è trovata. Ci possono certo essere due diverse tendenze di Governo; ma per determinarle praticamente e non teoricamente, politicamente e non scientificamente, noi dobbiamo osservarle nelle questioni pratiche a cui dànno luogo, e su di esse cercare di distinguere i partiti.

Io voglio promuovere la libertà individuale in tutte quante le sue forme, desidero le libertà locali e il decentramento, sono convinto che l'eccessiva ingerenza dello Stato sia dannosa, e che esso debba far solo ciò che i privati non possono fare o non farebbero bene abbastanza. Ma se, spingendo la teoria alle ultime conseguenze, dicessi: L'Italia deve avere un esercito, poniamo, di 400,000 uomini; i privati fanno sempre meglio del Governo; troviamo dunque una Compagnia privata che formi e mantenga l'esercito, e noi le pagheremo un tanto l'anno, facendo un contratto come pur si faceva una volta coi capitani di ventura. Se ad un' altra Compagnia volessi affidare la marineria militare, a un'altra le Università, ec. , chi è che non s'opporrebbe, e non vedrebbe in ciò l'anarchia, la rovina dello Stato e della società?

A me pare che due ordini di questioni pratiche possano, a questo proposito, sorgere fra noi, e che su di esse si potrebbero veramente dividere i partiti.

Credo anzi che su di esse prima o poi bisognerà dividerli. La prima è quella che riguarda le relazioni fra la Chiesa e lo Stato. Mi pare che sia permesso domandare a coloro che ci chiamano autoritarii, adoratori del Dio Stato, e che hanno sempre in bocca la parola libertà: — Volete voi dare alla Chiesa la libertà che ha avuta nel Belgio, e che si cerca di darle ora in Francia?

Quella libertà che ha abbandonato il clero minore in balia di chi lo tiranneggia, che ha fatto cadere le scuole e le Opere Pie in mano di un clero che è divenuto un partito politico organizzato a combattere la società civile; un partito che si va costituendo rapidamente in Italia, e guadagna ogni giorno terreno?— Se questa è la libertà che si vuole in Italia, io sono coi liberali e non coi liberisti. Lo scorso anno ero a Bruxelles, e discorreva con uno dei liberali del Belgio, a proposito appunto della discussione fatta nell'Assemblea francese, nella quale il liberista La boulaye aveva in nome della libertà provocata la istituzione delle Università clericali. — Se noi, diceva il mio amico belga, ci lasciammo illudere da coloro che del nome della libertà vollero fare un'arme per ucciderla, siamo scusabili, perché era la prima volta che ci si tese la rete. Ma dopo il nostro esperimento, dopo che s'è visto come siamo riusciti solo a far decadere gli studii, a trasformare la religione in una setta, a mettere in pericolo la vera libertà, e siamo ogni giorno sull’orlo d'una guerra civile, che minaccia distruggere l’unità del Belgio per darlo in preda allo straniero; dopo tutto ciò sono veramente imperdonabili quei liberali che si lasciano ancora illudere da simili arti. — Nè la Destra  né la Sinistra si sono ancora decise in Italia a far di tal questione una delle basi per una futura divisione dei partiti. Ma giorno verrà, io credo, in cui dovranno farlo, e allora si vedranno curiosi cambiamenti di scena.

Io sono le mille miglia lontano dall’attribuire, su questa questione, idee uniformi a tutta la Sinistra. Anzi so bene che in essa vi sono alcuni, che hanno sentimenti cosi avversi alla Chiesa che andrebbero volentieri oltre i limiti del giusto. Ma la nuova formula dei liberisti vorrebbe ora avere la virtù di unire in un solo partito coloro che ci chiamano pretofobi, e coloro che ci chiamano pretofili. E si è scritta sulla duo va bandiera la parola libertà, colla strana pretesa, che col suo magico suono valga a conciliare i sentimenti più opposti. Ma essa resta invece un equivoco, che non giova a nessuno, che renderà più acerbi i nostri dissidii, e non avrà altro vantaggio, se non quello di ritardare le necessarie riforme, e tormentare sempre più un paese già tanto tormentato e fracassato da inutili gare politiche.

Fino ad oggi il gran torto dei partiti in Italia e la loro debolezza sono nati da ciò, che essi furono divisi da passioni personali, da tradizioni e consuetudini inveterate, mentre gì' individui erano realmente divisi da principii ed opinioni diverse. Sicché nel medesimo partito si trovarono insieme uomini di assai diverso sentire, uniti da un programma che, in alcune parti, ognuno interpretava a suo modo.

Questo fatale errore è divenuto colossale il giorno, in cui gli uomini più moderati di Destra hanno creduto che, a formare un solo partito colla Sinistra, bastasse la frase del lasciar fare e lasciar passare, bastasse pronunziare la parola libertà. Ma fino a che non si è punto d'accordo su quello che si vuole lasciar passare, la parola libertà diviene un equivoco. Essa è la bandiera che copre la merce; ed io mi levo il cappello innanzi alla bandiera, ma voglio vedere la merce.

Fino a quando dura l'equivoco, il Ministero sarà impotente a determinare la propria condotta, dovrà contentarsi di frasi elastiche, e i suoi atti dovranno volgere ora in un senso, ora in un altro. Noi infatti abbiamo visto, per esempio, le circolari con cui si vuole impedire ai conventi di ricostituirsi, come ora fanno, in forma di private associazioni; ma da un altro lato abbiamo visto pure alcune di queste. medesime associazioni ottenere per la prima volta ciò che invano finora avevano sperato, di mandare cioè i rappresentanti delle loro scuole a far parte delle Commissioni governative per la licenza liceale. Questo che i passati Ministeri non avevano concesso, parmi non sia in tutto conforme allo spirito delle nostre leggi, e ci vedo, si dica quel che si vuole in contrario, una tendenza a quelle Commissioni miste, anch'esse formate in nome della libertà, prima nel Belgio, ove riuscirono così funeste all’insegnamento superiore, e poi in Francia, dove non saranno meno funeste. Mi duole di aver dovuto qui accennare a questo atto del ministro Coppino, che io credo sinceramente liberale, che certo è capace di rendere assai utili servigi al paese, e nella materia del pubblico insegnamento ha idee savie, prudenti e molta esperienza; ma egli ha ceduto ad una corrente pericolosa. I fatti sopra citati dimostrano, mi pare, che il Ministero è tirato in direzioni diverse dalle molte e varie frazioni della sua Maggioranza, e non può sempre resistere,  né riuscire a seguire norme costanti. Ancora le ultime disposizioni in favore delle scuole che si chiamano paterne e sono clericali, costituiscono un segno pericoloso della stessa incertezza. Esse spalancano ai seminarli, anche se aperti in onta alla legge, una porta che era a mala pena socchiusa, e sempre in nome della libertà. Ci pensino coloro che chiamano clericale il Sella.

Io voglio, quanto altri mai, che la Chiesa e la religione sieno libere. Ma non mi lascio illudere dalle speciose teorìe di chi prima la riguarda come una società di strade ferrate, e vuol poi darle una forza, anche maggiore che non ha ora, là dove non le spetta. Essa è per me una grande istituzione, che noi non abbiamo creata e non possiamo distruggere. Le sue relazioni con lo Stato sono relazioni di diritto pubblico, non di diritto privato. Il riguardarle altrimenti fa prima, sotto l'ombra della libertà, germogliare il dispotismo nel seno stesso della Chiesa colla dura oppressione del clero minore; poi le permette di assumere nella società una influenza che non le spetta, e di porsi alla testa d'un partito politico che professa di non aver patria, che ci è avversissimo, che vorrebbe rivolgere ai nostri danni il partito clericale di tutta l'Europa cattolica, intenzione che ha sempre avuta e non ha mai nascosta. Questo è il punto su cui bisognerebbe dare battaglia ed essere chiari, per poter contare gli amici ed i nemici veri.

C'è un' altra questione che ha pure, secondo me almeno, una importanza straordinaria. La questione politica, salvo una riforma della legge elettorale, può dirsi chiusa in Italia per qualche tempo. E questo trasparisce anche dalle parole che pronunziò recentemente lo stesso Ministro dell'Interno. Nella questione amministrativa tutti convengono che bisogna rendere meno gravosa la riscossione delle imposte, che bisogna avere migliori impiegati, meglio retribuiti e in numero minore; tutti vogliono maggiore decentramento.

Non vi è quindi divergenza di principii; è piuttosto questione di capacità pratica nel correggere gli errori commessi nella fretta, e nel fare quello che non si è potuto o saputo compiere finora. La divergenza potrebbe nascere più facilmente in quella che si è chiamata la questione sociale. Lasciamo il nome che fa paura; ma veniamo alla sostanza.

La rivoluzione italiana, volere o non volere, è stata fatta dalla sola borghesìa. Il bisogno di arrivare al pareggio ad ogni costo, ci ha fatto aggravare la mano su tutto e su tutti in un modo incredibile. Ora non abbiamo tempo da perdere, non possiamo durare a lungo nello stato presente, senza esaurire il paese. Bisogna promuovere l'industria, l'agricoltura, il commercio. E per riuscirvi bisogna sollevare le classi inferiori, che in alcune province d'Italia stanno in una condizione vergognosa per un popolo civile. Finora ci avevamo pensato troppo poco. Il pensarvi è divenuto adesso un dovere supremo nell'interesse dei ricchi e dei poveri. Fra poco potremmo veder sorgere pericoli, a cui nessuno pensa, e di cui la camorra e la mafia rinascenti furono più volte segni minacciosi. Dobbiamo pensarci noi, prima che ci pensino le moltitudini, e prevenire così eccessi pericolosi. Io ripeto quello che ho detto altre volte nella Camera e nei giornali: Le classi più derelitte sono

nelle Province Meridionali, e non in esse solamente, nelle condizioni stesse in cui erano sotto i Borboni. Questo non deve durare. Lo dissi quando governava la Destra, lo ripeto ora che governa la Sinistra. Non mi spaventa la universale indifferenza, sicuro come sono che la questione fra non molto s'imporrà a tutti.

Gli stranieri, per ciò appunto, cominciano a fare di noi severissimo giudizio. Quando io penso, o signori, a quello che ha fatto in questi ultimi anni il Ministero conservatore dell’Inghilterra in favore dei poveri, degli operai, degli agricoltori, dei marinai, mi sento per la vergogna salire il rossore sul volto.

Lo scorso autunno io ero a Londra: andai alla Polizia, chiedendo d'essere accompagnato a vedere i più miseri tugurii, la gente più abbandonata. La sera venne al mio uscio un detective (sono guardie di Polizia senza l'uniforme), e mi disse: — Quando saremo a White Chapel troveremo altri due detectives, che ci accompagneranno. Se Ella però, o signore, crede di vedere a Londra quel che si vedeva venti o trenta' anni fa, s'inganna. Io sono nella Polizia da più di trent'anni, e le dico che il Parlamento ha fatto tali e tante leggi e così radicali in favore dei minuto popolo, che la città non si riconosce più. In paragone di quel che Londra era una volta, si potrebbe dire che la parte più orribile della miseria è estirpata. —

Signori, io non la finirei mai, se dovessi su questa questione, per me vitale, dirvi quel che hanno fatto i Governi civili, e quel che vergognosamente non abbiamo fatto e potremmo e dovremmo far noi. Però, senza punto nascondere in ciò le colpe del partito moderato, debbo dire che, non appena ottenuto il pareggio, senza di cui nulla poteva farsi, esso s'era cominciato a svegliare anche su tal questione.

L'onorevole Minghetti s'era recentemente più volte, e con grande nobiltà ed elevatezza di linguaggio, spiegato chiaro su di ciò. La coraggiosa iniziativa recentemente presa dall'onorevole Sella, in quella che egli chiamò la Lega del risparmio, dice in suo favore assai più che non potrebbero gli elogi più eloquenti.

L'onorevole Luzzatti, giovane e ardente oratore, dotto non meno che eloquente, manifestò un gran numero d'idee filantropiche e patriottiche in favore delle classi più derelitte; propose riforme suggerite dalla scienza e dalla esperienza, e nei paesi più civili già adottate. Chi gli si oppose, chi lo attaccò?I liberisti appunto. Egli proponeva che i poveri contadini italiani, i quali, quando sono oppressi dalla miseria, vogliono emigrare per l'America o per altre regioni lontane, restassero liberi di partire, ma fossero difesi dagl'intraprendi tori che li spogliano e li abbandonano; voleva che questi infelici avessero dalle leggi e dal Governo italiano quella protezione, che sola ne assicura la libertà, e che hanno già in tutti i paesi civili. Se gli agenti di cambio debbono dare cauzione, e sono sottoposti a norme speciali; perché non si fa lo stesso con chi mercanteggia colla carne umana, e specula sulla miseria e sulla sventura? Voleva che i fanciulli condannati nelle zolfatare della Sicilia ad un lavoro iniquo, che li decima ogni anno, sottoponendoli a strazii crudeli, descritti da tanti patriotti siciliani, fra cui citerò l'onorevole Di Cesarò, trovassero nelle leggi italiane la difesa che, con cosi grande vantaggio nazionale, hanno trovato i fanciulli dell'Inghilterra nelle officine e nelle miniere di quel nobile e libero paese.

Ma fu subito chiamato autoritario, e combattuto in nome della libertà. Le recenti sventure degli emigranti mantovani dimostrarono se esso aveva ragione. Signori, il lasciar fare ed il lasciar passare significano forse aprire le porte al partito clericale, abbandonare la miseria a se stessa? Se cosi è, io che credo la società civile un' associazione di tutti a vantaggio di tutti, nella quale chi più ha e più può, più deve sacrificare a chi non ha e non può; io che in questo faccio consistere la libertà vera e la civiltà, non sono coi liberisti, ma coi liberali. Se così non è, sarà bene in ogni caso uscire dagli equivoci. Capisco che questi sacrifizii debbono essere volontarii, che deve ogni cittadino sentire il dovere di farli. Ma se noi classe intelligente, classe media, abbiamo in mano il Governo e la forza, non dobbiamo mancare al nostro dovere, e non dobbiamo, dopo esserci impadroniti di tutto, dire: Chi vuol Dio lo preghi.

Non dobbiamo, per coprire la nostra indolenza o la nostra prepotenza o il nostro egoismo, supporre che la società umana sia composta di tanti individui e di tante associazioni, ognuna delle quali deve fare qualche cosa, deve avere una iniziativa, deve promuovere con energia il bene nazionale; solamente l'associazione che tutte le abbraccia, lo Stato, deve starsene con le mani in mano a guardare quel che fanno gli altri, restringendosi solo a riscuotere le tasse, ed a mettere in galera quando si ammazza o si ruba.

Certo queste non sodo le idee di tutta la Sinistra; ma ancora qui non possiamo sapere quale sarà l'indirizzo del nuovo Ministero.

Abbiamo visto qualche. segno di buona intenzione; ma finora senza risultati pratici. Quando io, l'onorevole Bertani e l'onorevole Boselli ci adoperammo a far discutere ed approvare l'Inchiesta sulle condizioni dell'Agricoltura e dei Contadini, confesso che, se fui molto lieto nel vedere lo zelo con cui il presente Ministro di Agricoltura e Commercio, trovando il disegno di legge presentato già dal suo predecessore, lo fece suo senza esitare, con dolore, osservai la titubanza, i timori che manifestò nella discussione, e più mi dolse il vedere che nel Senato tutto ricadesse nel nulla. La legge sugli aumenti da tanto tempo promessi agl'impiegati fu divisa in due parti. Nella prima si portarono aumenti certo non grossi, ma almeno visibili, agl'impieghi maggiori; nella seconda si fecero promesse per l'anno nuovo, a quelli che avevano meno di lire 3200 l'anno. A me pareva giusto che, dovendosi, per mancanza di danaro, dar subito agli uni, e promettere per l'anno nuovo agli altri, si pensasse invece prima ai piccoli impieghi, e si rimettesse al poi l'aumento ai grossi, non foss'altro per la ragione che nella Camera non entrano i piccoli impiegati, ma sibbene i grossi, che perciò dovevano pigliar parte nella discussione e votazione di quella legge. Questa non mi pareva democrazia. La mia preghiera non valse a nulla, quantunque avessi sperato che non dovesse riuscire sgradita ad un Ministero di Sinistra.

Io non voglio con sì piccoli fatti menomamente pretendere di giudicare l'indirizzo generale di questo Ministero.

Confesso però che, fino a quando i fatti non mi proveranno il contrario, io per le riforme sociali, che fra poco saranno la nostra questione urgente, spero più nel coraggio della Destra che in quello della Sinistra, perché questa assai più di noi ha avuto il torto di fare d'ogni erba fascio, pur d'aumentare i suoi voli. E ben diceva recentemente il mio amico onorevole Tommasi Crudeli, che, se essa era stata tutta d'accordo nel dire sempre no, lo stesso non seguirebbe nel dir sì, nell'affermare cioè principii determinati, e nel promuovere grandi riforme. Tuttavia io non sono un oppositore sistematico di questo Ministero. E di certo, se esso avrà il coraggio di promuovere arditamente le necessarie riforme sociali, io appoggerò con tutte quante le mie forze, senza punto occuparmi di sapere quali siano le sue idee intorno all'ufficio, ai limiti, allo scopo dello Stato.

Non facciamo questioni oziose, dividiamoci sulle questioni in cui veramente siamo divisi, e restiamo uniti là dove i nostri programmi non differiscono. Al di sopra della Destra e della Sinistra c' è per noi tutti il paese. Amministrazione più semplice; meno impiegati, più capaci e meglio retribuiti; decentramento amministrativo; libertà locali e individuali; riscossione delle imposte meno fiscale, meno grave e più equa; abolizione del corso forzoso; più larga e migliore istruzione, e via discorrendo, queste sono cose che tutti vogliono, che si trovano in tutti i programmi di tutti i Deputati e di tutti i Ministri. Voi le trovate espresse quasi con le stesse parole nei Discorsi dell'onorevole Tommasi e dell'onorevole Paccioni, dell'onorevole De Pretis e dell'onorevole Minghetti.

È vero che la Sinistra disse pure altre cose; affermò, per esempio, che la legge sul macinato era contraria allo Statuto; ma il nuovo Ministero ha subito dichiarato che non diminuirebbe l'imposta neppur d'una lira. Ora non è questione di dire, ma di fare; non di professione di fede, ma di capacità. La Sinistra è al potere; all'opera dunque. Essa può ben esser certa, se ottiene seriamente uno qualunque dei fini cui ho accennato, di avere con sè il suffragio di tutta la Camera, senza distinzione di partiti.

Ma a quei patriotti della Sinistra, che hanno da quando nacquero cercato l'unità e la libertà della patria, e che trascinati dal loro indomabile ardore mettono anche oggi le riforme politiche innanzi alle amministrative, io non posso nascondere la mia diffidenza. Nello scorso aprile noi avemmo la crisi ministeriale, e poi le necessarie vacanze. Seguirono alcuni mesi di lavoro affrettato, e poi altre più lunghe vacanze. Intanto cominciarono le traslocazioni di prefetti, sottoprefetti, magistrati, ispettori, ec. Ora avremo le elezioni generali, e poi la battaglia lunga e penosa della verificazione dei poteri. Poi la legge elettorale, e poi da capo elezioni generali, verificazione dei poteri, ec. Non parlo della Costituente. Il paese intanto resta oppresso da tutti i mali che deploriamo in comune; ma ai quali non portiamo rimedio, per perderci invece nelle sterili lotte politiche, di cui la gran massa dei cittadini che soffrono, non sa che farsi.

Il partito moderato, a mio avviso, ha un debito d'onore, e questo è di lasciar fare alla Sinistra il nuovo esperimento della sua capacità, nel modo che crede, aiutandola senza secondi fini in tutto ciò che torna a vantaggio del paese.

Ma esso, che dalla Sinistra fu sempre combattuto quando voleva nel modo che gli pareva migliore, anzi solo possibile, arrivare al pareggio ed a compiere l'unità nazionale, non deve, ora che questi due fini sono appena ottenuti, chiudere gli occhi innanzi ai possibili pericoli che potrebbero compromettere tutto. Deve stare unito e concorde, deve cercare di organizzare ed aumentare le sue forze, e con esse aiutare lealmente il Governo fino a che non devia da quella che a lui sembra la strada vera e sicura dei progresso. Il Ministero però non s'illuda e non creda che le elezioni generali risolveranno il problema. Le divisioni sono nella Camera perché sono nel paese, e ricompariranno se, come dobbiamo credere, non sarà usata pressione sugli elettori. Tocca a lui scegliere gli amici e la via da seguire con essi. Questo solo farà cessare le incertezze.

A coloro poi i quali vogliono discutere in ogni modo la questione teorica dello Stato, che quasi credono il nostro presente nemico, io, pur consentendo con essi, come del resto consentono tutti, nella necessità di cercare le maggiori libertà individuali e locali, il maggiore decentramento, faccio loro un'altra risposta. Dunque in un paese nel quale il Governo fu sempre alla testa della rivoluzione, spesso più liberale assai dei cittadini; in un paese nel quale la formazione di un solo Stato fu invano il sogno di secoli, e si è finalmente ottenuta in un modo che ci pare ancora un miracolo, ed a cui voi avete pur tanto contribuito; in un paese nel quale le tradizioni regionali sono cosi vive, che minacciano perfino dividere la Camera geograficamente; in un paese nel quale il partito clericale ha una forza grandissima, una organizzazione cosi potente da lottare audacemente col Governo stesso: in questo paese, chi è il nemico?

Quello Stato appunto che ci ha finalmente uniti. Quale deve essere il nostro scopo? Difenderci dalle aggressioni di quello Stato che abbiamo insieme tanto desiderato, che abbiamo appena ottenuto, e che è la nostra unica salvezza.

Ma quali sono le più insistenti accuse partite dai banchi della Sinistra contro la Destra e contro il Governo italiano? L'abbandono delle Province Meridionali; per poco non si è detto che furono sacrificate alle settentrionali. E pur troppo esse hanno ragione di dolersi, perché sono senza strade, senza telegrafi, senza porti, e, quel che è peggio, sono spesso senza sicurezza delle persone e delle proprietà, nel che è la prima base d'ogni Governo civile. Anche il Ministero presente, nonostante il suo buon volere, va sperimentando quanto sia difficile trovare nel Mezzogiorno la forza morale e materiale necessaria a ristabilire la sicurezza. Ebbene, che cosa si chiede, ora che la Sinistra è al potere? Indebolire appunto questo Stato ancor cosi giovine, ancor cosi debole, che è incapace di adempiere i suoi più elementari doveri, e che deve tuttavia governare popolazioni, alcune delle quali furono per secoli usate a vedere un nemico in ogni Governo.

C'è una grande riforma, a cui tornano ora i giornali di Sinistra: Le Regioni.

Le province dovrebbero essere aggruppate in lombarde, venete, toscane, sicule, e via discorrendo, per formare nuovi organi del corpo sociale, creare una nuova forma di Stato, e cosi ottenere largamente il tanto sospirato decentramento.

Le varie Regioni, serbando la loro diversa fisonomia, darebbero, si dice, più vita allo Stato, e non avremmo il detestato accentramento francese. E sia. In questo concetto vi è teoricamente qualche cosa che risponde alle vecchie tra dizioni italiane, alla natura stessa del paese. Esso, se io non erro, trovò i suoi primi e più validi sostenitori nella Destra, nel Farini e nel Minghetti, il quale recentemente disse alla Camera, non essersi mai pentito d'averlo sostenuto, anzi esserne orgoglioso. Ma perché la pubblica opinione si dichiarò contraria a quel concetto, e lo fece abbandonare? Si temevano appunto le vecchie tradizioni nostre. Si disse: — L'unità nazionale, lo Stato italiano è appena formato, è troppo debole ancora. Non bisogna metterne a pericolo l'esistenza. Quando esso si trova in lotta con un grosso municipio, come Torino o Milano, par quasi impotente a resistere. —Ed infatti voi avete visto, o signori, che conseguenze ha avuto la resistenza di Firenze e di pochi Toscani. Essa fece non solo cadere il Ministero, ma confuse più che mai i partiti. Che sarebbe, si diceva allora, e più si potrebbe adesso, se il Governo dovesse lottare non con un Consiglio municipale, ma con un piccolo Parlamento siciliano, piemontese o lombardo? E voi per attuare quel disegno di legge vorreste, appunto ora che le passioni regionali sono entrate nella Camera stessa, cominciare dall’indebolire lo Stato?

Lasciamo dunque le questioni oziose. Non combattiamo una statocrazla che nessuno vuole, non chiamiamo nemico uno Stato che è la nostra salvezza, ed a cui tutti vogliamo dare  né più  né meno che la forza necessaria a mantenere salda l'unità nazionale, ed a promuovere il progresso senza soffocare la libertà.

Prima di concludere, voglio rispondere a due obiezioni che potrebbero farsi. Ma se voi convenite, che la Destra doveva ancora correggere gli errori commessi nella fretta, e riordinare l'amministrazione, perché essa non lo ha fatto prima? Se voi dite che la Sinistra è debole ed incerta, perché composta di elementi eterogenei, non risulta dalle vostre stesse parole, che la medesima debolezza era anche nella Destra? Alla prima obiezione rispondo, che se un partito aspettasse che i suoi avversarii lo vincano, per dichiarare che ha sbagliato strada, e che deve mutare principii,l’accusa sarebbe gravissima. Ma se invece si tratta di perfezionare il lavoro incominciato, e migliorare l'effettuazione dei principii, la cui opportunità e verità vien riconosciuta dagli stessi avversarii, l'accusa allora perde ogni peso. Quanto all'altra accusa, io posso osservare che le divergenze della Sinistra sono oggi infinitamente maggiori che non furono mai nella Destra, la quale tuttavia da divergenze tanto minori fu prima indebolita e poi costretta a cadere.

In ogni modo quello che io chiedo è questo:

1° Che si metta mano alle riforme amministrative, senza tanti nuovi programmi, senza troppo discutere i torti degli uni o degli altri, e soprattutto senza troppo agitare il paese colle lotte politiche, che lo esauriscono invano.

2° Voglio libera la Chiesa, e rispettata la religione. Ma non riguardo la Chiesa come una società di strade ferrate, e non la credo libera quando il clero minore resta abbandonato al dispotismo del clero maggiore, e molto meno poi quando gli uni e gli altri s'uniscono a formare un partilo politico, che non ha patria, ma combatte per tutto la patria di ogni popolo. Voglio che lo Stato di fronte alla Chiesa faccia valere i suoi diritti, e li faccia rispettare, senza debolezza e senza rancori.

3° Che la classe dirigente e governante in Italia riconosca finalmente il sacrosanto dovere di aiutare le classi abbandonate alla miseria ed alla fame, oppresse in mezzo alla libertà. Non corro dietro a utopie, non spero miracoli; ma vedo tutto il mondo civile lavorare a quest'opera, e mi duole che l'Italia resti indietro a tutti, e non prevenga i pericoli. Sono con chiunque alza questa bandiera. Spero assai più nella prudente audacia della Destra, nella unità d'azione che saprà darle il suo nuovo capo, il Sella, perché vedo la Sinistra assai più di noi divisa da interni dissidii, e da opinioni non solo cozzanti, ma irreconciliabili. Pure ogni volta che essa presenterà riforme e leggi che tendano a questo scopo, io, non guardando a quello che scrive sulla bandiera, guarderò a quello che opera, e darò il mio voto.

Intanto credo che il partito moderato debba organizzarsi fortemente, per contribuire con energia al progresso nazionale, sia o non sia al potere. Auguro al paese una Camera, in cui tanto a Destra, quanto a Sinistra scompaia ogni ombra di regionalismo, e i partiti siano divisi non per province e neppure per questioni filosofiche; ma, senza equivoci, sopra questioni pratiche di vera importanza nazionale.


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LETTERA ALL’AVV. G. SCARAVELLI.

«Agli amici che da tutte le parti del nostro Collegio elettorale mi domandano, se nella prossima elezione il comm. Pasquale Villari consente di ripresentarsi candidato, rispondo pubblicando la seguente sua lettera di rifiuto a me diretta. —Guastalla, 4 gennaio  1877.

Avv. Giuseppe Scaravelli.»

Queste parole furono premesse alia lettera, pubblicata in Guastalla dall'avv. Scaravelli, mio amico carissimo, uomo di molto ingegno, di molta dottrina e d'animo nobilissimo, in questo anno rapito ai vivi.

Amico carissimo,

Firenze, 31 dicembre 1876.

Alla cortese domanda che di nuovo mi ripete, so cioè io sia disposto a ripresentarmi candidato nel Collegio di Guastalla, io debbo rispondere di nuovo negativamente. Senza neppure discutere la maggiore o minore possibilità di essere rieletto, mi conceda che pigli anche una volta l’occasione di aprire l'animo mio agli amici ed agli avversarii.

A lei non nascosi mai i miei più segreti pensieri, ed Ella sa come io sia da un pezzo convinto, che noi dobbiamo occuparci di rendere finalmente giustizia alle classi lavoratrici in Italia, le quali ancora non hanno sentita i vantaggi mórali e materiali di quella libertà che noi soli godiamo. Le sue lettere, senza nascondermi i pericoli cui andavamo incontro, accendevano col suo il mio entusiasmo. E quasi insieme facemmo il sogno dorato di vedere un giorno questa questione iniziata dagli Elettori e dal Deputato di Guastalla.

Nello scorso autunno percorremmo insieme il Collegio, E per tutto trovammo terreni fertilissimi ed un'agricoltura che può essere migliorata, ma non può dirsi cattiva. Ad eccezione però del piccolo e florido paese di Rolo, quasi neppur l'ombra d'industria, e i contadini che nella state lavorano e mangiano, sono nel verno condannati all’ozio, alla miseria, spesso alla fame. Trovammo Comuni come quello di Borretto, dove sopra una superficie che supera appena 2000 ettari, vivono circa quattromila abitanti. Ella ricorda l'ansietà di quei buoni proprietarii, i quali facevano colla carta in mano un conto, dal quale risultava che sopra un ettare di terra il contadino doveva assai spesso spendere e pagare più di quello che ne cavava. Per mettere in pari il suo bilancio, doveva andare a strappare giunchi sulle rive del Po, arrivando qualche volta fino a Ferrara, dormendo sugli argini, pigliando le febbri, tessendo stoie l'inverno, e spesso non riuscendo con ciò a vincere la fame. Ella ricorda la risposta di quel tale cui chiedemmo in Luzzara, se il contadino vedeva mai la carne. Stringendo il pugno dinanzi ai suoi occhi, egli disse: — La vedono se guardano un braccio. Ma se non guardano un braccio, non la vedono mai. — E tutti chiedevano: — Che fare? Come rimediare? — Gli animi parevano disposti a riconoscere tutta l'importanza e la gravità della questione.

E come non riconoscerla dinanzi alle domande insistenti, continue, crescenti per emigrare? Ci si raccontava di bande che passavano la notte, con bandiera spiegata, gridando: Viva l'America! Ci si raccontava di famiglie intere, che si apparecchiavano ad andar nel Brasile.

Qualche Sindaco aveva detto loro: — Ma che fate? Voi avrete un viaggio lungo e penoso, a cui le donne, i bimbi, i vecchi non reggeranno; per arrivare in un paese dove troverete la febbre gialla.

— E gli era stato risposto con calma: — Lo sappiamo. Ma l’inverno si avvicina e abbiamo dinanzi la fame. Peggio di così non ci può toccare. Ci assicuri contro la fame e non partiremo. — E fu necessario tacere. Alcuni ci chiesero se in Italia vi erano terre deserte, dove si potesse trovare lavoro.

Tornammo a Guastalla con l'animo contristato, deliberati a tentare la prova. Ella ricorda che un amico prudente mi pregò di non toccare una questione, la quale avrebbe urtato contro convinzioni, interessi o pregiudizi e mi avrebbe fatto perdere molte illusioni. Ed Ella non mi disapprovò, quando risposi che ciò mi decideva a parlare più chiaro che mai. Non volevo ingannare gli Elettori, e non volevo essere il Deputato di Guastalla, se non potevo difendere la causa di coloro che tanto lavoravano e soffrivano.

Io feci il mio Discorso, io dissi chiaro che volevo dedicarmi a questa causa, che avrei appoggiato qualunque Ministero se ne fosse seriamente occupato. Ovunque sorgesse quella bandiera, ivi mi sarei schierato. Si venne ai voti, e l’amico prudente ebbe ragione. Io non entrai neppure in ballottaggio, ed i voti andarono ad un candidato, i cui meriti verso la patria sono pronto a riconoscere superiori ai miei, che sono ben piccoli; ma ad un candidato il quale si ripeteva da tutti che non avrebbe accettato.

Ora quando pur ci fosse per me qualche possibilità di essere rieletto, che cosa andrei a fare alla Camera come deputato di Guastalla? Io, del resto, come uomo di studii, non faccio la politica per professione. Ho bisogno di avere la convinzione o almeno la illusione di potere anch'io fare qualche cosa di utile, di poter sostenere una causa tale che giustifichi dinanzi a me stesso il tempo che levo agli studii ed all’insegnamento.

Lo so bene, a noi si dirà che non siamo politici, che siamo visionarii, che abbiamo per forza voluto essere del partito dei fiaschi. Ed è vero. Ma il male non sta però nei fiaschi, sta nell’essere essi ancora troppo pochi. Quando si conteranno a centinaia, allora anche noi saremo un partito rispettabile e prudente. Intanto bisogna pure che qualcuno incominci.

Per ora io dico ai miei avversarii: Quando vedrete nei mesi dell’inverno i contadini sdraiati sotto i portici o nelle stalle, senza lavoro e senza pane; quando li vedrete affollarsi ai vostri palazzi comunali, chiedendo un soccorso che nessuno potrà loro dare, e preferire le febbri del Brasile alle vostre fertili campagne; allora ricordatevi che io vo leva difendere la loro causa, e voi me lo avete vietato. E dopo ciò ripetete, se vi piace, che io non sono abbastanza liberale pei tempi nuovi.

Ma se un giorno venisse nel quale a voi sembrasse necessario pigliare a difendere la causa di coloro che lavorano e non mangiano, e vi sembrasse ancora che io meritassi l'onore di parlare per essi, allora solamente io risponderei all'appello: presente. Per ora questa illusione non posso averla. E però io torno a pregare gli amici, con ogni istanza, perché non mi sia dato nessun voto.

Non per questo, amico carissimo, noi dubiteremo un solo momento che la causa nostra trionfi.

Ami sempre

Il suo amico

P. VILLARI.

All’Ill. mo Signore

Il Signor Avv. Giuseppe Scaravelli.


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APPENDICE

(Aggiunta da Zenone di Elea – 16 Agosto 2013)

Le lettere del 1861 inviate da Pasquale Villari al Direttore de La Perseveranza di Milano

LETTERE MERIDIONALI (1861)

di Pasquale Villari

1. Disordine amministrativo e partiti

2. Le ragioni di un malcontento

3. Gli errori del Governo

1. Disordine amministrativo e partiti

Ieri e ieri l'altro sono giunte nuove forze dall'Alta Italia. Si dice che vadano a dare il cambio a quei soldati che già da tre mesi menano una vita piena di pericoli e disagi, e sono condannati ad un'opera utile e necessaria, ma certo la più ingrata che potesse mai toccare al cuore generoso del soldato italiano.

Per un momento abbiamo visto la città piena d'uniformi, il giorno appresso erano scomparsi; ognuno era già andato al luogo destinato. Ma nell'eseguire questo scambio vi sarà un momento, in cui i due contingenti si troveranno contemporaneamente nelle province meridionali, e quello servirà ad un tempo per dare l'ultimo crollo al brigantaggio e porre in atto la coscrizione. Voi vedete che il generale Cialdini non se ne resta inoperoso; e il suo nome è assai popolare fra di noi, la sua severità è giudicata da tutti necessaria; nelle province, tutti ripetono che l'ordine di ristabilisce rapidamente.

Ma se io vi dicessi che tutti sono contenti, io v'ingannerei. Il disordine amministrativo ha portato un ristagno ed una confusione grandissima negli affari. Coll’accentramento, che progredisce ogni giorno, questi affari dipendono sempre più da Torino; ed il governo centrale, per se stesso non molto rapido e ordinato, non può operare con prontezza ed energia, a cagione degli estesi poteri del Cialdini, che non è uomo da tollerare impacci alla sua volontà.

Noi certo non siamo in condizioni normali, ed è assai desiderabile che queste province comincino una volta a gustare i frutti del buon governo e della libertà. Il ministro Peruzzi si adopera a tutt'uomo per darci i lavori pubblici, che son cose per noi di prima necessità; ma finora ancora si può dire che non abbiam fatto nulla. La città e le provincie sono sempre nelle stesse condizioni.

Procede con qualche alacrità il lavoro per la divisione dei beni demaniali. Sono andate già da più tempo delle commissioni di magistrati, i quali hanno dato opera al lavoro. Le usurpazioni a danno del popolo erano state scandalose. Si temeva che i contadini non avrebbero avuto la pazienza di attendere l'onesta ripartizione e che avrebbero voluto fare una giustizia con le proprie mani: ma le cose finora procedono tranquillamente. Il popolo ne riceverà qualche sollievo, ma sarà minore dell'aspettativa. La povertà li opprime, e quando essi avranno nelle mani un fondo, che i più non potranno coltivare, e pel quale debbono anche pagare un piccolo canone, lo venderanno ai più ricchi e la proprietà ripartita sarà di nuovo cumulatat uso che la legge loro vieta; ma l'astuzia degli avvocati li aiuterà a trovare il modo d'evaderla.

La cosa veramente indispensabile alle nostre provincie sono le strade, le opere pubbliche. Potreste mai credere che Potenza, città capitale di una delle più vaste e popolose provincie, ha solo 15.000 abitanti, una sola strada in cui le acque siano incanalate e che sia ricoperta di lastre? Il grandissimo numero delle case non ha recessi d'immondizie, e quindi potete immaginarvi in che condizione si trovino le strade. Se questo avviene a Potenza, che cosa deve seguire nelle minori città?

Ma ora, tornando a Napoli, debbo dirvi che ieri e ieri l'altro si continuava a ragionar sempre della destituzione dell'avvocato Tofano, consigliere di Corte suprema, in missione di presidente della Corte criminale.

Molte sono le dicerie su questo fatto, e la lettera del Tofano, con cui chiede la pubblicazione del rapporto, che precede il decreto, non ha fatto buona impressione. E’ una calma eccessiva, troppo grande per essere vera.

Che il Tofano fosse uomo leggero, facile a parlare e a dire quello che era meglio tacere, tutti sapevano. Che non andasse a verso a molti è vero, e che avesse,mandato troppo per le lunghe il processo Cajanello è cosa che anche s'è detto. Ma tra questo e l'avere una condanna, che per un uomo di onore equivale ad una condanna di morte, c'è un abisso. Questa condanna si poteva dare senza giudizio? Qualunque fosse la colpa del Tofano, era giusto colpirlo senza prima ascoltarlo? Non poteva il governo di Torino mostrargli le carte che ha trovate, e che sono tanto a suo carico (come si dice), per udirne una risposta? Il colpire a questo modo un uomo, noto nell'emigrazione, e che aveva una delle prime cariche nella magistratura, non è porre una macchia sul partito liberale e sulla magistratura?

Questo dicono alcuni. Altri rispondono che il governo ha avuto in mano lettere del Canofari, ministro di Napoli a Torino, che rivelano i fatti d'una gravità tale che non poteva permettere alcun indugio. Si dice che queste relazioni col Canofari continuassero fino alla campagna nelle Marche; e che di più si trovi anche una lettera del Tofano a Ferdinando II, nella quale domanda di ritornare a Napoli, con termini tutt'altro che dignitosi, a molti non era piaciuto.

Dicesi che il figlio di Cajanello, non avendo potuto indurre il Tofano ad assolvere il padre, avesse per vendetta rivelato l'esistenza delle carte, di cui aveva notizia, essendo stato nella diplomazia.

Intanto il Popolo d'Italia grida che tutto quello che si è fatto non basta, che ci vogliono altre destituzioni, e la pubblica voce, esagerando, dice che v'è una lista di altri quarantadue magistrati da rimandare a casa.

Ora potete capire che, fino a quando dura un tale stato di cose, non si può dir veramente che magistratura vi sia. Potranno coloro che hanno quest'incubo sul capo esser affatto severi ed affatto imparziali nei loro giudizii? Io non voglio entrare nelle intenzioni del governo; ma se è necessario il farlo, che almeno si faccia presto, per togliere il paese da quella continua febbre che lo travaglia, lo sfibra, lo lacera.

In questo momento lo scontento maggiore è fra quelli che sono chiamati della consorteria, in gran parte gente distintissima, che ha vissuto in esilio. Voi potete accorgervene dal Nazionale, che ha cominciato a fare opposizione piuttosto vivace al governo, il quale ha già ricusato le copie che prendeva finora. Il nuovo giornale che voleva farsi, La Patria, doveva anch'esso rappresentare il medesimo gruppo che, trovandosi in una nuova posizione vorrebbe un giornale, il quale non avesse un passato, che a Certo è che la consorteria si trova fuori d'azione. Cialdini, vedendo la impopolarità in cui, a torto o a diritto, molti di essi erano caduti, ha pensato meglio appoggiarsi un poco più a quel partito che alcuni chiamano garibaldino, altri d'azione, e le nomine di Fabrizi, Tripoti, Motina, ecc., lo provano abbastanza.

Costoro, senza dubbio, son gente più attiva dei consorti o degli esuli, e per aiutare a distruggere la reazione e il brigantaggio saranno più efficaci. Ma saranno essi buoni impiegati e buoni amministratori? Potranno forse mettere il governo in nuovi pericoli, quando sarà pacificato il paese? Per ora abbiamo i moderati del Nazionale scontenti; ma i loro lamenti son sempre deboli e sottovoce. Invece v'è una massa di gente che approva, e che trova in questi fatti una compiacenza che non nasconde. Ma vorrei che il Cialdini non s'illudesse per ciò. Fra noi chiunque sale al potere diventa impopolare. La consorteria fu odiata, principalmente, perché potente. La massa del paese non parteggia né per questi, né per quelli.

Il partito d'azione, poi, non si può dire che sia veramente un partito fra noi: la sua popolarità nasceva dall'odio alla consorteria e dal nome di Garibaldi. Il popolo non chiede altro che giustizia, buona , amministrazione ed ordine. Il medio ceto di certo non parteggia per coloro che, se riuscissero veramente ad afferrate il potere, si troverebbero d'essere una consorteria più attiva, ma più incapace e meno numerosa dell'altra. In ogni modo, consorteria o no, partito dell'ordine o partito d'azione, tutti convengono in una cosa: che Cialdini adesso è un uomo necessario e che ha preso il verso per pacificare il paese.

Napoli, 1 settembre 1861


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2. Le ragioni di un malcontento

Io debbo notarvi un visibile miglioramento nello spirito pubblico di queste provincie. Se altro segno non avessimo avuto che la festa di Garibaldi e quella di Piedigrotta, già sarebbe abbastanza. Popolo, governo, guardia nazionale, municipio hanno gareggiato in attività, ordine, entusiasmo. La guardia nazionale di Napoli è stata davvero ammirabile, instancabile nell'adempiere il suo dovere.

Chi ha veduto con quanta semplicità e prestezza, con quanto gusto e splendore, e con una spesa infinitamente inferiore a quella delle feste del passato anno, che il municipio condusse così male; chi ha veduto tutto questo, s'è potuto persuadere che v'è un grande miglioramento nel municipio, nel suoi architetti, nei suoi impiegati. Chi ha poi visto il popolo, e ha letto i ragguagli delle provincie, s'è potuto confermare che l'opinione pubblica e la pubblica amministrazione hanno sempre migliorato.

Queste feste però non sono l'unico segno che mi fa credere la pubblica opinione migliorata, e la fiducia nel governo cresciuta.

Io lo attingo dai discorsi che sento ogni giorno per le vie, nelle case, dal popolo minuto, dalla gente culta, dai ricchi. Alcuni mesi sono, prima della venuta del Cialdini, qui la reazione era divenuta baldanzosa in modo che andava a testa alta, e non si vergognava, né temeva di parlar chiaro.

Più tardi s'è cominciata a sgomentare; ma la venuta di molti impiegati dell'alta Italia, i quali, bisogna confessarlo, venivano con soldi e con indennità maggiori di quelli che avevano i napoletani chiamati fuori, faceva gridare contro al piemontizzare. Aggiungete che una parte della stampa, specialmente moderata, ha tanto gridato contro i vizi del popolo napoletano, che questi impiegati venivano pieni di sospetti e di paure, si tenevano lontani dal popolo, lo trattavano con poca deferenza, e perciò v'era una irritazione, vi assicuro, grandissima. I napoletani sono espansivi ed affettuosi, nulla più li irrita e li stizzisce che vedersi corrispondere con freddo contegno alle loro eccessive espansioni e soverchia familiarità.

Ma a me è avvenuto discorrere con alcuni piemontesi e lombardi (questi ultimi assai più facilmente s'avvicinano ai napoletani); e quando essi erano a Napoli da qualche mese, mi dicevano: In verità noi non vediamo poi tutta questa corruzione di cui ci hanno parlato. Pareva che dovessimo venire in un altro mondo; ma, in fin dei conti, noi diciamo il vero, noi troviamo qui un popolo buono, docile, affettuoso, chiamato ingovernabile e che è governabilissimo. Questi discorsi mi teneva fra gli altri un tale, ch'io sapeva essere stato appunto un corrispondente di giornali, che più si mostravano feroci contro i napoletani. Avevo letto i suoi articoli pieni d'accuse, sapevo che era uomo da non dire quello che non pensava; e questo mutamento che osservavo in lui era sincero e l'ho veduto ancora in molti altri.

Così è avvenuto che comincia a nascere una certa vicendevole fiducia, e questa dà luogo alla simpatia ed all'amicizia, e comincia un poco a calmarsi quella misera irritazione, in cui i giornali del partito d'azione soffiavano instancabilmente.

Essi, bisogna dire il vero, hanno fatto prova di molta accortezza; e sono riusciti ad acquistare molto ascendente sul popolo più monarchico della terra, sopra un popolo che non sogna neppure dove questi giornali lo vorrebbero condurre. IL un fatto positivo che i giornali dell'opposizione si vendono assai più dei governativi, è un fatto che qui l'estrema destra è, per dir poco, antipatica. Io lo dico con dolore, ma bisogna pur dire la verità: le dimostrazioni, che ebbero luogo contro alcuni deputati e senatori non furono punto disapprovate dal pubblico. Ve lo prova anche la lettera di Cialdini diretta ad alcuni di quei medesimi deputati e senatori.

Ora se voi mi chiedete da che nasce tutto questo, io vi dirò che v'ingannate assai se credete che ne sia causa la loro affezione al governo o all'unità italiana. La cagione è un'altra. lo son ben lungi dallo scusare le intemperanze napoletane; ma debbo confessarvi che le cagioni con le quali hanno traviato queste moltitudini non sono così vergognose come paiono a molti. Con molto piacere ho dovuto osservare che i napoletani sono assai affezionati al loro paese; essi vogliono l'Italia, ma non credono (e hanno ragione) che Italia voglia dire umiliazione di Napoli; essi-vogliono che l'Italia sia tutto, ma che Napoli resti qualche cosa.

Ora noi dobbiamo convenire che, mentre la stampa moderata ha-messo a nudo, ha esagerato le piaghe di questo paese, qualche volta lo ha anche calunniato; mentre questo faceva la stampa moderata, quella del partito d'azione, sia per convinzione, sia per opposizione, ha sempre difeso questo popolo.

Se v'è da notare qualche atto generoso, se v'è da respingere una ingiusta accusa, se v'è da dire una parola d'incoraggiamento ai napoletani, certo voi la trovate assai più facilmente nel Popolo d'Italia e nel Diritto, che nel Nazionale. Queste cose hanno fatto una grande impressione sui napoletani, essi l’hanno profondamente sentito, e bisognerebbe che la stampa moderata ne tenesse conto.

Certo bisogna rispettare il carattere di deputato come sacro e inviolabile. Ma io domando: R egli vero che alcuni di essi hanno umiliato il paese coi loro inopportuni lamenti? Non abbiamo noi udito qualche volta un rappresentante del popolo gridare nel parlamento presso a poco cos -Dateci pane e morale? A queste parole io vidi a Torino molti piemontesi fremere di sdegno; è egli strano che i napoletani abbiano concepita una grande antipatia per coloro che tennero alla tribuna o nei giornali un tale linguaggio? Credete voi che qui si giudichi Ricciardi diversamente da quello che lo giudicano tutti: onestissimo e stranissimo? Credete che gli applausi da lui riscossi fossero diretti alle sue stranezze e al suo partito?

Non già, si applaudiva in lui un uomo che volle generosamente protestare contro alcune parole che troppo umiliavano il nostro paese, parole che tendevano a porre diffidenza invece di fiducia fra tutti gli italiani. Voi potete dissentire dalle mie opinioni; ma io credo d'essere un interprete fedele delle opinioni napoletane.

Che poi il popolo, trascorrendo, sia andato in eccessi riprovevoli, che abbia commesso atti indegni verso uomini per ogni.lato rispettabili, chi lo può scusare? Ma questo vi spiega come mai qui è nata una confusione di lingue, e perché voi vedete così spesso uomini moderatissimi parteggiare con gli uomini che si dicono del partito &azione.

Inoltre qui v'è stata per un tempo una spaventosa furia di distruggere senza riedificare: e quel che è peggio non è ancora finito. Pareva che si volesse levar tutto a Napoli.

Oggi per esempio, noi abbiamo sciolta a riordinarla; chiuso l'Accademia delle scienze, senza che ancora si pensi l'Istituto di Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l'istruzione secondaria, in una città di 500.000 anime, non abbiamo che un liceo di circa 60 o 70 alunni, e questo con un ministro della pubblica istruzione napoletano intelligente e pieno di buon volere. Voi potete da ciò immaginare quello che s'è fatto nel resto. La colpa non è certo dell'abile ministro, ma nell'andamento generale delle cose.

Che vi può dire quello che oggi avviene nella magistratura? Io non voglio entrare nei particolari, non voglio nominare alcuni magistrati destituiti, tenuti generalmente uomini onesti e capaci non solo, ma che furono certo fra quelli che si adoperarono molto, nelle condanne politiche, a salvare la vita a più d'uno fra i quali lo stesso Pironti. Ma sia pure che la magistratura deva essere tutta mutata, sia pure che chiunque ha preso parte nei processi politici, o ha firmato la petizione per togliere la costituzione debba essere destituito. Sia pure.

lo vi domando questo: sono quindici giorni che si parla seriamente di una lista d'altri 42 magistrati da destituire, e si aspetta sempre. Ieri l'altro camminavo per Napoli, ed incontrai un amico, un uomo dei più onesti, dei più probi che abbia mai conosciuti in vita mia, un emigrato che non ha impiego, ma fa l'avvocato. L'incontrai per via, e pareva oppresso da qualche recente sventura. "Che hai? " gli diss'io. " Cosa vuoi vengo dal tribunale, ove difendevo una causa, ed il procurator generale s'è accostato a me col cappello in mano, e quasi piangendo mi si raccomandava. Egli ha sette figli, nessun bene di fortuna, ed è minacciato d'esser nella nota dei 42. lo ti domando: Fino a che duriamo in questo stato, potremo noi avere amministrazione della giustizia? Che facciano una volta quel debbono fare, e smettano di travagliare questo misero paese di mutatazione in mutazione”.

In verità, noi abbiamo mille volte letto, nei giornali esteri, che le condizioni presenti delle provincie meridionali sono una prova che esse erano poco mature all'unità nazionale, che esse non comprendono e non vogliono l'Italia. Ma se quegli scrittori avessero avuto la bontà di venire qui a studiare il paese, e se avessero visto quanti errori si sono commessi dai governanti; se avessero - visto in che modo queste popolazioni sono ignoranti, che non vedono oltre il presente, che non possono indovinare i futuri beneficii del governo italiano;

se avessero visto in che modo sono state travagliate, sconquassate, lacere da una serie continua di mali inevitabili sì, ma pur gravissimi, venuti dalla rivoluzione in poi; se avessero visto che sperpero del pubblico erario, che miseria, che fame li ha travagliati; quanti luogotenenti, governatori, generali si sono mutati, quante, dirò ancora, forme di governo abbiamo avute in un anno solo senza che ancora abbiamo finito; se tutto questo avessero veduto, e fossero poi andati nei più umili tugurii, ove per la prima volta in vita sua, il lazzaro napoletano canta canzoni italiane in lode dell'unità d'Italia; e se avessero un bel giorno interrogato tutto questo popolo come s'è fatto il 7 settembre, e per tutta risposta avessero udito, come abbiamo udito noi, un grido unanime: Italia e Vittorio Emanuele, a Roma, a Roma; forse che allora le conclusioni di codesti giornali sarebbero alquanto diverse.

Per ora pongo fine a questa lettera, già lunga. In altra mia cercherò d'esaminare più da vicino le cagioni dello scontento, che ancora non è cessato.

Napoli, 13 settembre 1861.

3. Gli errori del Governo

Le cagioni del continuo scontento nelle provincie napoletane sono molte e diverse; ma si possono ridurre principalmente sotto due capi: cagioni che vengono di fuori, cagioni che muovono dalle condizioni interne delle provincie stesse.

Se ci venisse chiesto quale era il carattere principale del passato regime borbonico? Noi diremmo: il governo, anzi il Re deve fare e volere tutto, il popolo non deve fare e non deve voler nulla, se non per mezzo del braccio e della volontà del governo. Se poi ci si chiedesse: quale è il carattere più notevole in questo popolo, dopo che il regime borbonico è caduto noi diremmo: la mancanza di fiducia in se stesso, la mancanza di una opinione pubblica ben determinata.

Il governo che, uscendo dalla rivoluzione, veniva a governare queste provincie, doveva assumere l'indirizzo di tutta la cosa pubblica; giacché sperare che un popolo, il quale s'era abituato a credere che il governo era tutto, potesse, persuadersi che il popolo è tutto, che esso deve provvedere a se stesso, era per lo meno strano. Questa è la cagione per cui tante di quelle leggi, di quei provvedimenti utili a Torino, a Milano, a Firenze, sono riusciti non solo inutili, ma funesti a Napoli. Questa è la ragione per cui tanti di quegli uomini, che erano così felicemente riusciti nell'alta Italia, vi sono fra di noi logorati in ventiquattr'ore.

Ma di ciò non bisogna muover grave accusa al governo, giacché il reggere, non dirò con ordini, ma con modi liberi queste provincie, è cosa d'una difficoltà spaventevole, ancora quando il governo si fosse deciso ad assumere l'indirizzo d'ogni cosa.

La difficoltà vera non sta nella intemperanza, nella rozzezza, e nella poca morale, tanto predicata; ma sta appunto in quella mancanza di pubblica opinione, di cui abbiamo parlato. Questa immensa città di Napoli (e com'essa è, così le provincie) non forma per così dire un corpo solo. Essa è frazionata in mille gruppi, che hanno pochissimi rapporti fra loro, che non si vedono, non si conoscono, e, se si conoscono, son fra di loro gelosi come le antiche corporazioni. Gli abitanti d'un quartiere vivono diversamente da quelli d'un altro, e un popolano di Monte Calvario si distingue uno di Porto o Mercato dal modo suo di vestire. Così non vi sono partiti politici, ma piuttosto gruppi o, per dir la parola consorterie. Nella gran massa è penetrata l'idea d'Italia, v'è un amore frenetico per Garibaldi: essa non chiede altro che tranquillità e giustizia, ma d'altro non si cura.

Ogni volta che è giunto un nuovo luogotenente, esso veniva sempre con le migliori intenzioni del mondo; voleva contentare il paese. Ma qui è stata sempre la difficoltà. Si è detto: dunque il paese è incontentabile. Ma non è precisamente così.

Appena veniva, il nuovo luogotenente incerto, dubbioso, diffidente per le tante cose udite o lette, pei tanti naufragi che lo avevano preceduto, cercava con scrupolosa coscienza esaminare quali erano i veri bisogni, i veri desiderii del paese. Ma come fare a saperlo? Qui non vi sono nomi conosciuti e stimati nella universalità, non solo di tutte le provincie, ma neppure della stessa città di Napoli.

Vi sono molti uomini, probi, onesti, capaci: ma conosciuti solo nella loro consorteria. che li eleva alle stelle; mentre forse un'altra consorteria, senza conoscerli abbastanza, li disprezza e li accusa. Ne seguiva quindi che, non appena il caso, o una conoscenza personale, o informazioni ricevute a Torino ponevano il luogotenente in rapporto con alcuni di questi uomini, essi menavano seco quelli che più stimavano, cioè i loro amici, e non appena li avevano presentati tutti, cercavano chiudere il cerchio ed evitarne studiosamente l'ingerenza di altri. Questa non era malafede, ma è l'indole di tutte quante le consorterie del mondo. Qui il nome di consorteria si dà per antonomasia a quella della luogotenenza Farini, quasi tutti emigrati; ma si fa loro un torto, perché se essi girarono gl'impieghi fra i loro amici, lo stesso hanno fatto gli altri; e ripeto, era quasi una necessità portata dalla condizione stessa delle cose.

Quando adunque, questo cerchio di amici si era chiuso, cominciava lo scontento; gli altri uomini politici, che si vedevano messi da parte, gridavano; gli errori della consorteria cominciavano, ed allora il pubblico si univa ai gridatori, e si formava un'apparenza di opinione pubblica, che gridava la croce addosso ai governanti. Il luogotenente era richiamato, ne veniva un altro, che si affidava ad altri; ecco subito una seconda consorteria, coi medesimi errori, e le stesse conseguenze.

Perché cessi questo stato di cose, ci vuole del tempo: noi manchiamo non solo di strade ferrate e di strade comunali, ma nella città stessa l'andare da un quartiere all'altro è qualche volta un'impresa. La libera stampa, e soprattutto le riunioni dei consigli comunali e provinciali gioveranno moltissimo.

lo già posso assicurarvi che, a chi sa bene osservare, e non si lascia ingannare dalle prime apparenze, v'è un progresso infinito. Ma ci vuol tempo.

San Martino fu il primo luogotenente che s'accorgesse di questo stato di cose; egli volle vedere e ricevere tutti ugualmente. Questo lo rese subito l'uomo più popolare di Napoli. Ma egli era forse venuto troppo presto, e, amico della legalità in tempi anormali, fece sì che la reazione alzasse la testa. Ma lasciamo l'esame di un fatto che qui è fuori luogo. Se noi vogliamo avere una conferma di quello che abbiamo detto, dobbiamo osservare ciò che avviene adesso.

Cialdini è fra di noi assai popolare, egli ci ha salvato sul Volturno, a Gaeta, ora ci ha salvato dal brigantaggio. I nostri obblighi sono infiniti, il popolo li sente, ed ha grande simpatia pel cavalleresco generale. Pure vi sono molti che gridano, e sono scontenti, e sparlano del presente modo di governare. Chi sono, cosa vogliono, perché gridano?

Non appena il generale è venuto a Napoli, egli s'è avveduto di quella simpatia che la massa aveva per il partito esaltato, senza averne le opinioni.

Egli vide che molti erano irritati contro parecchi deputati e senatori della destra, perché credevano che essi non avevano saputo difendere nel Parlamento la dignità del loro paese. Per queste ragioni il partito moderato, che di sua natura non è molto operoso ed ardito, si trovava assai indebolito; mentre che la reazione alzava audacemente la testa.

Fu per queste ragioni che Cialdini pensò valersi del partito d'azione e del nome di Giuseppe Garibaldi, che ha tra di noi una portentosa popolarità. Ma cosa è mai avvenuto? Non appena Nicotera e i suoi furono bene accolti dal generale, non appena qualcuno di loro fu favorito ed impiegato, che anch'essi si sono accorti di essere una consorteria. E' un fatto che, mentre a parecchi del partito d'azione s'apre la porta del palazzo di luogotenenza, essa è chiusa a molti della maggioranza parlamentare.

La lettera del generale ai signori Pisanelli, Vacca, Niutta e Bonghi può darvene una prova. E' naturale perciò che alcuni gridino, si lamentino, si scandalizzino.

Quello che è peggio, non sono neppure compatiti; gli allontana il governo, e molti troppo ingiustamente li accusano.

Ma ciò che vi dimostra il gran progresso del paese, è appunto il poco interesse che si piglia a queste lotte di amor propri offesi. Il paese si avvede che non è col partito d'azione, che non è neppure con la consorteria dei moderati, e nondimeno è col governo. E invero Cialdini non si lascia poi gran parte dominare, sa quel che vuole, e va dove vuole. Tutto quello che ho detto finora vi spiega i fatti di certi clamori esagerati che sembrano annunziare la fine del mondo, mentre poi non ci siamo tanto vicini.

Ma se voi mi chiedete: al di sotto di questi clamori esagerati v'è una cagione vera di scontento e di malessere generale, oltre le conseguenze inevitabili dei mutamenti di governo e delle rivoluzioni? Allora io sarò costretto parlarvi di quelle cagioni di malcontento che partono dal governo. E quelle si possono ridurre a due.

1) Il governo ha avuto pochissima iniziativa, non ha compreso che bisognava, fin dal principio, assumere per qualche tempo l'indirizzo di ogni cosa, di ogni attività. Ha cominciato col credere questo paese simile affatto al resto d'Italia, ha preso delle misure che riuscirono dannosissime, come, per esempio, l'abolizione immediata di molti dazii, il rispetto ad una legalità troppo esagerata, il tenere in impiego un gran numero di borbonici, ecc.

E' poi venuto, per reazione, ad altro eccesso; e s'è dimostrata una diffidenza strana verso i napoletani. Non solo si è creduto ma s'è anche avuto la poca accortezza di ripetere ogni ora che il Piemonte doveva moralizzare i napoletani, coll’infonder loro il rispetto di loro stessi. Invero, se ciò si doveva  e si voleva fare, bisognava cominciare col rispettare, col dimostrare fiducia.

Non s'è fatto. Io posso assicurarvi che nei ministeri sono avvenute scene, per lo meno, indecorose. Sul principio s'è avuto forse troppo riguardo alle pretensioni napoletane: s'è finito poi col non averne alcuno. S'è distrutto, e non s'è mai edificato.

Voi fra poco sentirete una crisi commerciale. Moltissime fabbriche, che hanno tirato innanzi finora, sospenderanno i loro lavori per mancanza di commissioni. Speriamo che il municipio darà presto mano ai suoi lavori, e che le vie ferrate ci porteranno qualche aiuto.

2) La seconda serie d'errori governativi potrebbe dar materia ad una lunga dissertazione, che sarebbe inutile, perché sono quei medesimi errori che, in proporzioni infinitamente più piccole, avvengono, ove più, ove meno, in tutta l'Italia. Voglio dire il disordine amministrativo. Qui non v'è quasi impiegato che conosca le sue attribuzioni. I consiglieri di luogotenenza si lamentano di avere le mani legate, di non sapere quel che possono e quel che non possono. Il governo centrale grida che oltrapassano i loro poteri. Per ogni affare vi mandano da Erode a Pilato, e finalmente siete costretto andare a Torino, dove vi dicono che spetta al governo locale. In questo modo il governo si discredita, perché apparisce come poco serio agli occhi della moltitudine, e i suoi stessi funzionari sono sfiduciati e lo criticano. Ogni giorno incontrate, per via, gente incaricata di missioni indefinibili, incomprensibili. Ogni giorno si sente il nome di nuovi impiegati e di nuovi impieghi.

Andando di questo passo, le pensioni finiranno col mangiarsi le rendite dello Stato. Il ristagno degli affari è portentoso. L'altro giorno la cassa non pagava i vaglia postali; parecchi impiegati non hanno ricevuto i loro soldi, per mancanza di denaro sebbene avessimo ancora più milioni di moneta coniabile, che però non si conia.

Nondimeno, credete ad un osservatore imparziale, il progresso che si trova al disotto di sì gran disordine è grandissimo, e cresce ogni giorno.

Per queste ragioni mi duole assai di sentire che siamo alla vigilia di nuovi cambiamenti. Tra Cialdini e il governo centrale non pare vi sia perfetto accordo, e la conseguenza di ciò dicesi che sarà una più pronta cessazione delle luogotenenze.

Vorrei che misure politiche di tanta importanza non si pigliassero in conseguenza di mali umori. A quest'ora avrete letta la lettera del Cialdini al municipio di Napoli.  Non ha fatto a tutti una bella impressione. Il municipio ha lavorato con  molto zelo, è riuscito nell'operazione di un prestito, del quale il paese s'era  mostrato prontissimo a concorrere.

Se il consiglio provinciale ha messo inopportuni ostacoli, non era colpa del municipio. Molte delle cose che il generale consiglia erano già fatte. E se, a proposito degl'indirizzi al Re, ed allo stesso Cialdini si sono perduti in questioni di lingua, e hanno voluto discutere se bisognava dire guardie da fuoco, o vigili, o pompieri, come si diceva fra noi, non era poi da farne gran caso. Ma io credo che lo scopo vero di quella lettera, sia stato piuttosto un rimprovero al consiglio provinciale. Del municipio finora dobbiamo lodare lo zelo, l'attività e la pratica degli affari.  

Napoli, 14 settembre 1861





INDICE DEL VOLUME



PREFAZIONE
Pag. I
Lettere meridionali al Direttore dell’Opinione (Marzo 1875).
1
I. La Camorra
3
II. La Mafia
20
III.  Il Brigantaggio
39
IV.  I rimedii 64
64
Lettera alla signora Jessie White Mario
77
Nota
85
La Scuola e la Questione sociale in Italia
89
Appendice
151
Ciò che gli Stranieri non osservano in Italia
174
Di chi è la colpa? 0 sia la pace e la guerra
199
Discorsi
253
Lettera all'avv. G. Scaravelli
313
APPENDICE (Aggiunta da Zenone di Elea – 16 Agosto 2013)
318
Lettere al Direttore della Perseveranza di Milano nel 861
319
1. Disordine amministrativo e partiti
319
2. Le ragioni di un malcontento
323
3. Gli errori del Governo
328

















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