Eleaml - Nuovi Eleatici


USI E COSTUMI 

DI NAPOLI E CONTORNI DESCRITTI E DIPINTI 

OPERA DIRETTA DA FRANCESCO DE BOURCARD

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VOLUME PRIMO - 01A

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NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI GAETANO NOMLE

Vicoletto Salata a'  Ventaglieri num. 14.

1853

Un affresco di Napoli prima che diventasse italiana (1853), tratteggiato dalle migliori penne dell'epoca, come Giuseppe Regaldi, Carlo Tito Dalbono, Francesco Mastriani, Emmanuele Rocco, Emmanuele Bidera, Enrico Cossovich. L'opera fu diretta e pubblicata da Francesco De Bourcard, discendente di una famiglia proveniente da Basilea e trapiantata nel Regno di Napoli.

Scrisse Benedetto Croce: "Gli Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, opera diretta da Francesco de Bourcard, sona un magnifico libro, che mi meraviglio di non veder lodato e celebrato e ricercato come si dovrebbe, e che forse adesso comincerà a svegliare intorno a se questi meritati sentimenti, adesso che, come tanti altri libri, - dopo la rarefazione bibliopolica prodotta dalla guerra, - è diventato prezioso e quasi introvabile."

Zenone di Elea - 8 febbraio 2016

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01A - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

01B - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

02A - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

02B - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML


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A CHI LEGGE

Molte collezioni di costumi si pubblicano tuttodì in Napoli, ma non vi è stato ancora alcuno che ne abbia falla un’opera compiuta, (aggiungendo a ciascun costume o scena popolare una corrispondente descrizione atta ad illustrarla. G però, volgendo in mente da qualche tempo il pensiero che un’opera di tal genere avesse dovuto riuscir gradita sì a’ napolitani che agli stranieri, mi animai a fare quella che offro al cortese lettore. —Essa contiene tutti quegli usi, costumi o scene popolane che, in Napoli e nei suoi contorni, si rendono affatto originali della nostra nazione, lasciando stare qualunque subbietto potesse avere alcun che di comune co’ costumi degli altri paesi stranieri.

Ma per quanto facile mi sembrava a prima vista questa impresa, la rinvenni altrettanto ardua e difficile quando posi mano all’opera; dappoiché per illustrare i nostri costumi in maniera da farsi chiaramente e con tutta verità comprendere, massime agli stranieri, non poca fatica è costata si a me che a’ collaboratori miei per isvelare, con l’aiuto della storia o della tradizione, la origine di un uso; per narrare donde sia derivato un per descrivere la vita che mena il lazzaro o la donnicciuola; per dilettare col racconto di una di quelle tante scene popolari che ad ogni momento vediamo accadere innanzi a’ nostri propri occhi; per dire in qual modo si esercitano da taluni del basso popolo de piccoli mestieri delle industrie tutte particolari, tutte proprie della nostra bella Napoli; e perché infine l’opera avesse il doppio scopo d’istruire e dilettare nel tempo stesso. Oltre a ciò, se la parte letteraria offriva tante difficoltà, non minori se ne presentavano per la parte artistica, avendo io in mente di pubblicare una collezione di costumi che dovesse superare tutte quelle che già erano state fatte in litografia e col bulino; ma, coadiuvato dall’egregio amico mio sig. Filippo Palizzi, non che da altri buoni artisti di questa capitale; ed affidata la cura delle incisioni al chiaro sig. Francesco Pisante, mi accinsi coraggiosamente a cominciare questa opera. E stimando poi che noiosa avesse potuto riuscire scritta da un solo, credetti valermi de’ migliori nostri scrittori, che avevano più rinomanza in tal genere e che potevano variare nella leggiadria dello stile a seconda del soggetto che s'imprendeva a trattare.

L’opera dunque contiene 100 costumi incisi acqua forte e diligentemente coloriti, con la corrispondente illustrazione, di cui cinquanta sono in questo primo volume e cinquanta nel secondo. Inoltre ò fatto precedere all’opera un breve cenno su Napoli, affinché il lettore si formi una idea generale della città di cui s’imprendono a descrivere gli usi ed i costumi.

Quindi io non ò risparmiata né cura, né spesa acciò l’opera intera riuscisse utile per la parte letteraria, bella per la parte artistica e di lusso per la edizione, ond'è che spero i cortesi leggitori le facciano buon viso, e condonino qualche piccola cosa che avesse potuto sfuggire nel dare alla luce un’opera affatto originale, e che può dirsi la prima in tal genere.

L'Editore proprietario

FRANCESCO DE BOURCARD

CENNO SU NAPOLI

a provincia di Napoli si divide in quattro distretti, di Napoli, cioè, Casoria, Pozzuoli e Castellammare. Napoli, ch’è il capoluogo della provincia, contava nel 1851, secondo l'ultimo lavoro del censimento, una popolazione di 418, 347 anime e 90, 278 ne contava il rimanente del distretto; Casoria faceva 126, 546 anime, Pozzuoli 68, 659; e Castellammare 153, 170. —Or siccome nel corso di questa opera si parlerà particolarmente dei contorni della provincia, cosi ci limiteremo a fare superficialmente una breve descrizione di tutto ciò che può riguardare la città capitale, toccando soltanto di quelle cose che più sieno degne della osservazione di chi prenderà a leggere questa opera, nel fine di potersi formare quasi di volo una idea della città di cui ci è venuto in mente descrivere i particolari costumi.

Napoli è posta al grado 11. 55'45" a levante del meridiano di Parigi, ed al grado 40. 5147'di latitudine, osservata dalla reale Specola. —È disposta a guisa di anfiteatro, sopra di un cratere che sembra quasi chiuso dalle isole di Capri da una parte, e di Procida e d'Ischia dall'altra.

La prima al mezzogiorno di Napoli n’è distante 17 miglia e 15 l’ultima; il cratere à 73 miglia di circonferenza dal capo di Minerva alla punta di Posillipo, e le aperture che lasciano le dette isole inno,

la prima dal capo di Minerva a Capri 3 miglia, e l’altra da Capri ad Ischia 14 miglia. A Napoli dappresso scorre il Sebeto

Quanto ricco d'onor povero d’onde come disse Metastasio. —Ad oriente si eleva isolato il Vesuvio, il quale ampiamente compensa i piccoli e passaggieri nostri terrori con lo spettacolo magnifico e sublime delle sue eruzioni, i guasti parziali con la fertilità che spande ad esso d’intorno, ['aspetto terribile e minaccioso di pochi istanti con le perenni sue bellezze e con le contemplazioni che fa nascere nel filosofo. A vista di Napoli, all'est, quasi tra loro concatenati veggonsi a’ suoi piedi i bei villaggi di Portici, di Resina, delle due Torri del Greco e dell’Annunziata con gli avanzi preziosi di Ercolano e di Pompei; all’ovest il colle di Posillipo con le tombe di Virgilio e di Sannazzaro, il capo Miseno, non che le isole d'Ischia, di Procida e di Nisida. Da lontano si vede la catena degli Appennini, di cui un braccio circondando il Vesuvio si distacca per abbracciare parte del cratere di Napoli verso il capo Minerva. Sopra questo braccio di rimpetto a Napoli sono Castellammare, Vico, Sorrento e Massa, villaggi amenissimi ove trovansi magnifiche case di diporto, ridenti colline coperte di vigneti e deliziosi boschetti.

Questo paese, si rinomato per la dolcezza del clima, per la fertilità del suolo e per la bellezza delle situazioni che vi s’incontrano a ciascun passo, à un suolo per lo più sovente calcareo, argilloso per strati e sabbioso lungo le coste, fedi natura vulcanico e di una estrema fecondità. Le lave, le ceneri, le acque e i vapori solforosi vi s’incontrano ad ogni passo. Esso fu frequentemente danneggiato da eruzioni; e nell’anno 79 dopo Gesù Cristo, Ercolano, Pompei e Stabia furono sepolte sotto le lave del Vesuvio: nel 1558 il Monte Nuovo usci con la subitanea esplosione di materie vulcaniche: la solfatara non è che un vulcano estinto; e la Torre del Greco è stata rifabbricata più volte sopra le rovine del paese distrutto dalle lave del Vesuvio: pur nulladimeno non troverete angolo del mondo cosi popolato come le falde di questo nostro amenissimo vulcano.

In Napoli il cielo è quasi sempre puro e sereno: l’aria vi è salubre e libera, e non vi si sentono mai gli estremi del caldo e del freddo: nulla si può immaginare di più delizioso quanto una bella giornata d'inverno a Napoli. Questo sito, in cui la natura fa mostra di tutte le sue bellezze, questo cielo che à una sembianza si ridente ed una quasi perpetua dolcezza di stagioni, questi elementi diciam cosi si docili, che espongono gli abitanti a minori bisogni della vita, se non sempre formano le anime forti e pazienti, danno però grande energia al cuore, ed eccitano una felice illusione alle facoltà dell’anima. Egli sembra che qui più che altrove si creano gl’ingegni per la musica, per la pittura, per la poesia.

La origine di Napoli è cosi antica che si perde nella oscurità delle favole e della più remota età. Tutta l'antichità è d'accordo che una Sirena detta Partenope avesse edificata su questo lido una città dandole il suo nome. Ma chi erano coteste Sirene? La stessa antichità non ce ne lascia che idee stravaganti e contraddittorie. Secondo alcuni questa Partenope vuoisi figliuola di Eumelo, conduttore di una colonia Fenicia, ma più verisimilmente fu costei qualche principessa, o piuttosto figura di un paese delizioso, abitato da un popolo pieno di spirito, renduto molle dalla ridente amenità del cielo e dall’abbondanza del suolo, e però dedito fuor di modo al canto, al giuoco, agli spettacoli, alla crapula. In fatti gli abitanti in ogni età sono stati tratti dall’ozio e dai divertimenti e corrivi agli eccitamenti di allegria e di piacere. Gli antichi scrittori ci àn tramandato che due colonie erano state condotte a Napoli, cioè la Cumana e l’Attica; ma Martorelli à creduto trovare una colonia più antica, cioè la Fenicia. Livio poi à detto che sotto lo stesso cielo vi erano due città, abitate da uno stesso popolo e dette Mepoli e Napoli.

Napoli (città nuova) fu così detta, per quanto si crede, allorché venne la colonia Ateniese; e quindi Partenope fu naturalmente chiamata la città vecchia, ossia Palepoli: nella riunione delle due città prevalse il nome di Napoli; e nell’antichità non viene conosciuta che come città greca..

È stata Napoli una delle più antiche repubbliche d Italia, molto anteriore alla stessa città di Roma. Essa non fu bellicosa e non fu che la sede delle arti e dei piaceri. I Romani, che ridussero tutte le città df Italia sotto il loro giogo, furono moderati e generosi verso Napoli, forse per meglio godere del suo soggiorno: rimase dunque libera e loro alleata, somministrando però in tempo di guerra galee, marinari, soldati e danaio. Divenuti i Romani padroni del mondo allora conosciuto, i più ricchi concorrevano a Napoli per vivervi con libertà, per apprendervi le scienze, per ricuperarvi la sanità e vi solevano tenere modi di vivere alla greca: essi la chiamarono dolce, ridente, seduttrice, favolosa, dotta, oziosa. Augusto la favorì e la protesse. Virgilio vi apprese il buon gusto.

L’imperator Claudio dimorò in Napoli come un particolare e vesti alla greca con tutta la sua famiglia. Nerone venne a Napoli per darvi prova di esser valoroso poeta, e per farvi ammirare il suo canto. Tito ed Adriano non isdegnarono di esercitare a Napoli le cariche di Arconte e di Demarco. L’imperatore Commodo vi fu nominato decemviro quinquennale. Fu celebre il ginnasio napolitano pe’ giuochi, e venne frequentato da quasi tutti gl’imperatori che precedettero Costantino. Essendone stato rovinato il magnifico edilìzio per un tremuoto, venne riedificato da Tito. La repubblica di Napoli possedeva Capri, che Augusto prese per sè, cedendole in cambio l’isola d'Ischia. Da Napoli e da Velia i Romani tiravano le sacerdotesse di Cerere. —Sebbene Napoli fosse una città greca df lingua, di governo e di costumi, tuttavia vi abitavano molti Campani. Ricusò la cittadinanza Romana, quando con da legge Giulia nel 663 di Roma si ammisero a tale prerogativa i Latini e di Socii; e conservando cosi la sua libertà e la sua indipendenza, gli esuli Romani vi trovavano ricovero. Ma col commercio del popolo dominante, come era inevitabile, essa ne acquistò a poco a poco i costumi e la lingua. Napoli con tutto ciò fu oziosa e pacifica per tutto il tempo che durò l’impero Romano di Occidente: le vestigia del grecismo vi si conservarono fino a re Angioini. —Nel declinare dello impero Romano Napoli si distingueva ancora per la palestra, pel ginnasio, pel teatro, per le terme, per gli spettacoli e pel portico delle pitture descritto da Filostrato. Cassiodoro ne parla al conte che doveva governarla come di un paese popolatissimo ed estremamente delizioso. — Caduto l’impero Romano Napoli incorse nella sorte generale di quasi tutte le città d'ltalia; fu travagliata dalle armi straniere e lacerata dalle interne discordie. In uno de’ suoi vicini castelli detto Lucullano, nel 476 si ritirò Augustolo ultimo imperatore Romano, dopo che fu detronizzato da Odoacre re degli Eruli. Napoli soffrì il giogo di questo barbaro. Quando i Goti se ne fecero signori era Napoli. una città grande e ben fortificata. Essi la governarono per mezzo di un conte, ma s’ignora la forma del suo governo. Belisario, generale dello imperadore Giustiniano, l’avrebbe inutilmente assediata, se non si fosse trovata la maniera d'introdurvi i soldati per un acquidotto sotterraneo, onde fu presa nel 536. Napoli fu quindi governata da’ duchi che si mandavano da Costantinopoli. Con tutto il disastro sofferto da Belisario, ne furono le mura riedificate ed ampliale nel 542, e fu in istato di sostenere un assedio contro Totila re de'  Goti. Fu costretta rendersi per fame nel 545, ma Totila la trattò con umanità, contentandosi solamente di farne abbattere le mura. Essendo caduto il regno de’ Goti in Italia con la venuta di Narsete, si fece costui padrone di Napoli nel 555, e la nostra città fu soggetta agli Esarchi, che furono stabiliti a Ravenna Panno 567. Narsete, veggendo diminuito il suo potere dall'autorità di codesti esarchi, invitò per vendetta i Longobardi alla conquista d'Italia.

Fondarono questi barbari nel 568 un potente regno in Italia, ma non possederono Napoli. Gl'imperadori di Oriente vi mandavano i duchi a governarla in loro nome: tuttavolta ella ostentava un'immagine di repubblica sotto la loro protezione, poiché veggiamo che in questi tempi batteva moneta, e che aveva i propri magistrati e le proprie leggi. Secondo Giovanni Diacono nel 751 cominciarono i duchi eletti dal popolo, senza dipendere da Costantinopoli: essi non erano che capi di un governo libero e prendevano il titolo di consoli e di duchi di Napoli. Estesero anche per qualche tempo la loro autorità sopra i ducali di Sorrento e di Amalfi, Furono rifatte le mura di Napoli, per difendersi da’ Longobardi, i quali invano l'assediarono nel 581. Tuttavia i primi Longobardi Beneventani la resero loro tributaria nell'830, e nel 1027 il principe di Capua Pandolfo IV se ne fece signore; ma dopo tre anni Sergio duca di Napoli con l'aiuto de’ Normanni ricuperò il suo ducato, —Le invasioni de’ barbari e le calamità della guerra resero Napoli ignorante e tapina. Nulla vi è restato della sua antica magnificenza prima de'  Romani, ed appena pochi ruderi delle opere costrutte sotto di essi, cioè l’acquidotto detto de'  Ponti rossi, le colonne avanti la porta della chiesa di S. Paolo e pochi resti del teatro nel luogo detto l'Anticaglia. —1 nostri paesi erano allora divisi in piccioli principati, dove il papa ed i due imperadori di Oriente e di Occidente volevano dominare. Siffatta situazione favorì le conquiste e lo stabilimento de’ Normanni. Napoli nel 1139 si sottomise a Ruggiero re di Sicilia, come avevano fatto tutte le città del regno. Il re Ruggiero venne in Napoli nel 4140, ed avendo fatto misurare di notte il circuito delle sue mura, le trovò essere di 2363 passi, cioè meno di due miglia e mezzo. In questo tempo finisce la storia particolare di Napoli e si confonde in quella di tutto il regno.

Una parte interessante della storia particolare di Napoli saranno sempre le ampliazioni che à ricevute in diversi tempi, finché è giunta nello stato in cui oggi la vediamo.

La sua prima ampliazione fu l’unione di Napoli con Palepoli, ossia Partenope; una seconda n'ebbe da Augusto, il quale più probabilmente ne rifece solamente le mura e le torri; ed una terza si crede dal Pontano accaduta al tempo di Adriano, ma non adduce veruna positiva autorità della sua asserzione. L'imperadore Valentiniano, per quanto si ritrae da una iscrizione, le aggiunse nuove fortificazioni ed altri ingrandimenti ebbe sotto i duchi dalla parte del mare. Fu poi maggiormente ampliata da Guglielmo 1 figlio di Ruggiero II, e la città acquistò nuovo lustro e fortuna sotto l'imperatore Federico II, non che sotto Carlo 1 di Angiò, Carlo 11, Giovanna 11, Ferdinando I d’Aragona, che vi stabili le arti della seta e v’introdusse la stampa. Sotto Carlo V, il viceré Pietro di Toledo dilatò le mura di S. Giovanni a Carbonara fino alla collina di S. Eremo e da qui fino a Castelnuovo. Con 1 acquisto che si fece di un proprio Sovrano nel 1734 Napoli divenne la città principale d’Italia per popolazione, per ricchezze e per comodi della vita; e però non pochi abbellimenti e non poche opere di pubblica utilità furono mandati a fine sotto il re Carlo Borbone, e durante il regno di Ferdinando suo figlio; e moltissime ora se ne sono fatte e se ne fanno sotto quello del provvido re Ferdinando li che felicemente ne regge.

Il governo civile e municipale di tutta la città si divideva prima in 29 piazze o seggi, che poi vennero ridotti a sei, cioè cinque pei nobili ed uno pel popolo: ora si divide in dodici ottine o quartieri e sono: — S. FerdinandoChiaia — 5. GiuseppeMontecalvarioAvvocataStellaVicaria—Pendino — S. LorenzoPortoMercato e S. Carlo all'Arena.

Formano bella una città le strade, le piazze, il lastricato, gli edifizi, gl’ingressi. La nuova e la vecchia città presentano nelle strade due opposti estremi. La prima à molte strade eccessivamente larghe e piazze poco belle ed opportune; la seconda, strade strettissime e piazze piccole e de " formi. Questo disordine è comune a tutte le città antiche, che han sofferto gran cambiamenti di stato e grandi vicende, e che in diversi tempi sono state riparate ed accresciute.

Le strade di Napoli, oltre all’essere in gran parte irregolari, anguste e senza proporzione con l'altezza degli edifizi, non sono tutte ben livellate con un dolce pendio; oggi però, mercé le benefiche cure dell’attuale Regnante può dirsi che la città prende un nuovo aspetto, poiché moltissime strade sono state già ampliate e livellate per quanto meglio potevasi; ed altre nuove del tutto se ne sono aperte o vanno ad aprirsi al transito del pubblico, le quali più ne facilitano la comunicazione. Eccellente però n’è il lastricato di lave del Vesuvio, che sono il più solido materiale da lastricare le strade. Nel 1792 furono la prima volta messe su’ cantoni delle strade le iscrizioni dei loro nomi e si affissero i numeri a tutte le porte.

Fra strade, vie, vichi, vicoletti, larghi, salite, calate, rampe, sopportici e fondaci se ne contano meglio che 1400.

Napoli generalmente à case altissime con quattro, cinque e sei appartamenti, nella massima parte fabbricate con poco gusto di architettura: queste sono quasi tutte coperte da altane e da terrazzi battuti, i quali se sono di non piccolo vantaggio per Paria che vi si va a respirare e per le delizie onde sono spesso ornati, portano pure l'incomodo di rendere gli ultimi appartamenti freddi o umidi d’inverno e troppo caldi la state; questi terrazzi sono formati con lapillo vulcanico e calce, e si battono in modo da formare un masso solido. Le acque piovane di tali terrazzi raccolte nelle grondaie piombano in mezzo alle strade con grave incomodo di quei che passano; ma anche a ciò à curato di porre rimedio la provvida mente che ci governa e già si vedono oggi le principali strade e gran numero di case delle vie secondarie prive di questo inconveniente, ond’è a sperare che in breve la città tutta ne sia libera. Gli edilizi essendo costruiti di una pietra detta tufo, che si taglia in tutte le forme che si vuole e che fa una forte presa con la calce e pozzolana, ne risulta che essi siéno forti e leggieri. Quindi ancora deriva la singolarità che per ordinario si rifanno le case senza smantellarle, ricostruendole a pezzo a pezzo e tante volte gli abitanti continuano a dimorarvi mentre si rifabbricano. Per gli ornati o per aver maggiore solidità si usa il piperno.

Assai numerose sono le chiese di Napoli: esse sono cariche di marmi, di pitture e di altri ornati, ma pochissime ànno quella maestosa semplicità tanto conveniente a'  tempi. Di fontane, di guglie, di porticati, di colonne, di archi trionfali, di statue Napoli non ne à molte né sempre di buon gusto: di passeggi ne ha un solo, a Chiaia, ma veramente dell'ozioso e magnifico. Del resto l'altezza, se non il gusto degli ediflzi, dà alla città un’aria di magnificenza; e l’amenità del sito, congiunta al movimento della sua gran popolazione, fa poco avvertire la mancanza di essenziali vantaggi che ànno le altre grandi capitali di Europa.

La illuminazione notturna cominciò a Napoli nel 1806: prima la divozione suppliva al difetto di polizia, giacché per tutti gli angoli di strade veggonsi immagini della Vergine o de’ Santi con fanali mantenuti accesi dalla pietà dei complateari: i fanali pubblici che illuminano la città sono più di 1925; e le principali strade ora sono tutte illuminate a gas.

Napoli à sei principali ingressi magnifici più per le scene incantevoli che presentano, che per decorazioni; cioè quello pel ponte della Maddalena sul mare; quello di Porta Capuana; quello del Campo, perché mena al campo di esercizi pe’ soldati che fu aperto nel 1809; quello di Capodichino; quello di Capodimonte; e quello della Grotta di Posillipo, senza tener conto dello ingresso del Vomero.

Si può dire che a Napoli vi sieno quasi: tutte le arti e manifatture, e che molte di esse sieno in uno stato florido. Meritando particolar menzione le fabbriche di lastre, di porcellana, di maioliche, di guanti, di seterie d’ogni sorta, di cappelli di feltro e di paglia, di fiori artifiziati, di oro e di argento filato, di galloni, di corde armoniche, di lavori di pietre dure del Vesuvio, di lavori di ferro e di bronzo dorato, di orificeria e di gioie. L’arte tipografica per la parte meccanica si è di assai migliorata.

Napoli per la sua situazione, per la sua popolazione e per le sue ricchezze potrebbe esercitare il più florido commercio.

Per la giustizia ogni quartiere di Napoli à un giudice conciliatore ed un giudice di circondario, i giudizi del quale sono inappellabili fino a 20 ducati ed appellabili fino a 300. La città con la provincia à un tribunale civile ed una Gran Corte criminale; non che quattro giudici istruttori, presso i quali è la polizia giudiziaria nella dipendenza della corte criminale. Oltre a ciò vi è un tribunale di commercio ed una camera consultiva di commercio per proporre tutto ciò che possa favorire la prosperità del commercio nazionale.

La Gran Corte civile è il tribunale di appello per la provincia di Napoli e per sei altre province più vicine alla capitale.

La Corte Suprema di giustizia non è che l’antica Corte di Cassazione, ed abbiacela tutto il regno al di quà del Faro. Il suo oggetto è di mantenere l’osservanza delle leggi e di richiamare alla loro esecuzione i giudici che se ne fossero allontanati.

Per l’amministrazione, la città con la provincia à per capo un Intendente, assistito da un segretario generale e da un Consiglio d'Intendenza. L’autorità suprema amministrativa è presso la Gran Corte de'  Conti, che abbraccia gli affari di tutto il regno al di quà del Faro.

Per ambedue i regni poi vi è la Consulta di Stato, il cui voto è sempre consultivo e verte sopra quelli oggetti, sieno particolari sieno legislativi, de’ quali viene incaricata per ispeciale commessione del Re.

Pe’ reati militari vi è uno statuto penale militare, restando per tutto il resto, che non è compreso in quello statuto, soggetti i militari alla giurisdizione ordinaria. Vi sono per quei reati i Consigli di guerra detti

di corpo, di guarnigione e di divisione, ed a tutti soprasta l'Alta corte militare per la sola osservanza delle leggi.

In quanto alla polizia, Napoli à un commessario per ogni quartiere; un altro commessario è addetto alle prigioni e sei ispettori invigilano alle barriere della città. Soprasta a tutti un Prefetto, agente primario della polizia ordinaria non solo per Napoli ma anche pel suo distretto.

Finalmente pel governo generale del regno al di quà del Faro vi sono nove Ministeri, cioè: l.° della presidenza del consiglio de’ ministri; 2.° degli affari esteri, 3. di grazia e giustizia; 4.° degli affari ecclesiastici e della istruzione pubblica; 5.° delle finanze; 6.° dello interno; 7.° de’ lavori pubblici#. 0 della guerra e marina, 9.° della polizia generale: inoltre vi è un ministero per gli affari di Sicilia e la Soprantendenza Generale di Casa Reale.

L’amministrazione municipale è affidata al Corpo di città, composto del sindaco e di dodici eletti. Il sindaco è il capo della città e ne dirige tutta l'amministrazione. Ognuno dei dodici quartieri o sezioni, nelle quali è divisa la città, à un eletto con due aggiunti che sono nella immediata dipendenza del sindaco. Ogni eletto è uffiziale dello stato civile nel suo quartiere, e membro nato dell'amministrazione de’ pubblici stabilimenti che vi esistono. Gli aggiunti sono i collaboratori ed i supplenti dell’eletto. Al corpo della città appartiene la polizia annonaria. La città di Napoli à una rendita di oltre a 400 mila ducati. Il vescovato di Napoli è de’ primi secoli della chiesa e conta S. Aspreno per suo primo vescovo, instituito da S. Pietro stesso nel suo primo viaggio d’Italia. La serie degli arcivescovi comincia dal 105.

La cattedrale vien servita da tre ordini di preti, dal capitolo de’ canonici, dal collegio degli eddomadarii e da quello de’ quarantisti. Dopo il capitolo di S. Pietro questo di Napoli è riputato pel più insigne. È stato sempre un seminario di vescovi: molti tra essi sono promossi alla porpora, e tre sono stati elevati ai triregno, cioè Urbano VI, Bonifacio IX, e Paolo IV. ‘ La città è divisa in 40 parrocchie, le quali dipendono dalla cattedrale: le nazioni straniere ne ànno tre, che sono quelle de’ Greci, dei Fiorentini e de’ Genovesi; ma esse sono meramente personali e non locali. Vi sono poi sette parrocchie regie, le quali dipendono dal Cappellano maggiore, che su di esse esercita l’autorità episcopale.

Attualmente sono in Napoli 38 conventi di religiosi, 22 monasteri di monache e meglio di 34 conservatorii.

Le Chiese di Napoli sono 257, ed oltre a queste vi si trovano 57 altre più piccole dette cappelle serotine.

La direzione della pubblica istruzione è affidata ad un Consiglio Generale di più membri sotto la presidenza di un prelato. Essa dà ancora i permessi per la stampa de’ libri, che debbono essere sottoposti alla censura. Se un libro non oltrepassa dieci fogli, il permesso di stamparsi può essere anche dato dalla polizia.

Uno dei primi corpi scientifici è la Reale Società Borbonica, divisa in tre accademie, la prima col titolo di Accademia Ercolanese di Archeologia à 20 soci; la seconda detta delle Scienze ne à 36; e la terza delle Belle Arti ne à 10, oltre un numero maggiore di soci corrispondenti ed onorari: queste accademie tengono le loro sedute nel Reale Museo Borbonico.

L’Istituto d'Incoraggiamento per le arti, e la Società Pontaniana per le scienze, letteratura e belle arti sono protette dal Governo.

Le biblioteche pubbliche sono tre, cioè quella del Reale Museo Borbonico, quella di S. Angelo a Nilo e quella della Università.

La Università degli Studi al Salvatore à congiunti vari gabinetti scientifici. Oltre a questo, vi sono in Napoli tre osservatorii, il primo sulla collina di Miradois, l’altro a S. Gaudioso, ed il terzo all’officio topografico, co’ rispettivi professori; un’officina per isvolgere i papiri ercolanesi nel Real Museo; un Orto Botanico; una scuola di veterinaria, un’altra di paleografia presso il grande archivio; una scuola di pittura, scultura ed architettura nel Real Museo; una di musaici a pietre dure a S. Carlo alle Mortelle; un officio topografico a Pizzofalcone, ed una scuola bene istituita pe’ ponti e strade.

Per l’educazione della gioventù abbiamo il real liceo e collegio del Salvatore; cinque altri collegi, due retti da’ PP. Barnabiti, uno da’ Gesuiti, uno da’ PP. delle scuole pie, uno da’ PP. Cinesi; ed un collegio medico cerusico; due collegi militari, uno alla Nunziatella e l'altro a Gaeta non à guari istituito dal regnante nostro Augusto Sovrano; un collegio di marina ed altro di piloti: inoltre, fra Portici e Napoli, nel sito detto Pietrarsa fu instituita nel 1842 una scuola utilissima, destinata ad istruire un gran numero di giovani nelle arti meccaniche, formandone de’ buoni macchinisti, degni di ogni encomio e di particolare osservazione, perché già vi sono state costruite molte macchine a vapore con tanta perfezione da non far desiderare quelle che ci pervengono dallo straniero. Poi un collegio di musica a S. Pietro a Maiella; due seminari ecclesiastici, uno detto Urbano e l’altro Diocesano. Nel Real Albergo dei poveri vi è una scuola pe’ sordi e muti, ed a S. Giuseppe a Ghiaia un’altra pe’ ciechi. Per la educazione delle donzelle vi sono la Real casa de’ Miracoli e quella di S. Marcellino, entrambe sotto la speciale protezione di S. M. la Regina (N. S.); e l’altra di Regina Coeli Vari monasteri e conservatorii prendono anche cura della educazione delle fanciulle, sotto la direzione delle Suore della Carità.

Vi sono inoltre molte scuole primarie per fanciulli ed altre per le fanciulle; senza parlare delle scuole e pensionati privati che sono in gran numero, come nulla abbiamo detto delle molte biblioteche, de’ musei, dei gabinetti, delle quadrerie de’ privati, che sono oggetti senza stabilità, dipendendo dal gusto individuale, il quale ben di rado si comunica agli eredi.

Vanta poi Napoli due amenissime e deliziose ferrovie; una che da Napoli mena a Portici, Torre del Greco e Torre dell’Annunziata, donde bipartendosi, da un lato continua per Castellammare e dall’altro procede per Pompei, Scafati, Angri e Nocera: la seconda che da Napoli va sino a Capua, toccando Casalnuovo, Acerra, Cancello, Maddaloni, Caserta e Santamaria, con una traversa da Cancello sino a Nola in Terra di Lavoro.

Nello scorso anno fu inaugurato un telegrafo elettrico che dal palazzo Reale di Napoli, avendo corrispondenza con quello di Caserta, giugno sino a Gaeta; ed ora si prolunga per molte altre province de’ domini continentali.

Infine nello scorso anno fu pure menato a termine un vasto bacino da raddobbo, eseguito in brevissimo spazio di tempo sotto la direzione del Ministro di guerra e marina Maresciallo Principe d’Ischitella, donde già sono usciti belli e rifatti uno de’ nostri più grandi vascelli ed altri legni da guerra e piroscafi mercantili.

In Napoli, come quasi per tutta l’Europa, si possono fare tre distinzioni di classi, cioè di nobiltà, di ceto medio e di plebe: distinzioni oggi meno notabili che in altri tempi. Se tutte queste classi confondonsi per alcuni costumi, quelli che ciascuna serba in particolare servono a distinguerle fra esse. Ma è naturale che i costumi del basso popolo richiamino di più l’attenzione degli stranieri, perché da quelli son propriamente formati i distintivi delle nazioni. La coltura e le ricchezze tendono a ravvicinare le altre classi di tutte le culte società europee.

L'alta nobiltà godeva di molte prerogative e di molti privilegi, ed esercitava una grande influenza per mezzo de’ sedili e de'  feudi. Nei 1799 furono abolite le prerogative de’ sedili, e nel 1807 fu distrutta la feudalità. A’ nobili di sedile è rimasto un notamento di famiglie sopra un libro detto di oro, ed a quei che godevan feudi un titolo. Fra questi ultimi coloro che non erano ascritti a’ sedili, furono registrati in un altro libro detto di argento. Prima i matrimoni erano insuperabile ostacolo tra la nobiltà e le altre classi: al presente si è meno difficile ed un ricco borghese può aspirare alla parentela delle più illustri famiglie.

A Napoli si dà onorifico nome di civili a quei del ceto medio, come se si volesse indicare che in essi era ristretta la civiltà tra le estreme classi ignoranti. Ma la vanità fa riguardare come insultanti tal come a coloro che voglion passare per nobili. Noi, che non dobbiamo tener conto di tutte le categorie della vanità, comprendiamo in questa seconda classe i nobili proprietari, i primari mercadanti, i magistrati, gli avvocati, i medici e tutte le persone che ànno una educazione più accurata: in questa classe si rinviene la maggior coltura e quivi si sviluppano i migliori ingegni. Col progresso della civiltà essendo divenute le distinzioni di classi meno notabili e più facili a confondere, si veggono ogni giorno genti nuove prodursi nella società, secondo che il merito personale acquista valore.

La terza classe, di tutte la più numerosa, presenta moltissime gradazioni e sensibilissime differenze, secondo le diverse arti e i diversi mestieri, cui addiconsi le persone. La necessità di lavorare rende più che non si crede morale il maggior numero di questa classe, nella quale moltissime persone manifestano un’attitudine singolare per ogni industria. Degl’individui di questa classe, ben educati e passati a professioni o ad impieghi distinti, non lasciano ravvisare la loro origine; ma con la stessa educazione, se rimangono nel loro stato, appena serbano traccia della educazione ricevuta.

Generale è l’uso in que’ che vendono o fanno lavori dei domandare un prezzo di assai maggiore del giusto; e la prevenzione è tale, che non si crederebbe a chi chiedesse l’esatta valuta.

In Napoli la bellezza è più degli uomini che delle donne. Queste vi sono rispettate dalle leggi e da’ costumi.

Le mode, che influiscono sopra altro più che abiti e cuffie, sono l’occupazione principale delle nostre donne educate; e nelle donne di bassa condizione cresce di giorno in giorno l'ambizione di gareggiare con le prime nelle mode del vestiario.

Generale ed assai lodevole è il costume del popolo Napolitano di prender nell’ospizio de’ proietti qualcuna di quelle creature infelici e di allevarle con la stessa tenerezza che i propri figliuoli: talora si prendono in compenso de’ figli perduti. Essi sono qualificati col bel nome di figli della Madonna, nome ben conveniente a tali vittime innocenti, che la colpa, il pudore o la povertà allontanano per sempre dal seno materno. La compassione è inerente nel napolitano: nelle risse il malconcio è sempre il protetto dagli astanti.

Gli abitanti di Napoli, che vivono sotto un clima salubre e ridente, che ritraggono da un feracissimo terreno i prodotti più opportuni alla vita umana, sono dediti naturalmente a festive allegrezze, e molto disposti e corrivi alla pigrizia ed alla mollezza.

Mostrano grande golosità, ed osservano varie formalità nei piaceri della mensa. Si conosce ciò nel Natale, nella Pasqua, nel S. Martino, nel carnevale, ne’ quali tempi tutto è rito e profusione. Nelle case de’ facoltosi si osserva molto gusto nelle mense ed una varietà di prodotti anche intempestivi della natura, che è una vera sontuosità per gli stranieri. La plebe però ed anche gli artigiani serbano poca decenza nella mensa e son poco delicati ne’ cibi.

La qualità più spiccata del Napolitano è di esser portato al fracassio: va di leggieri in collera e di leggieri si calma; a sangue caldo nelle risse è capace di qualunque eccesso, ma cessato quell’impeto di furore, dimentica tutto, non serba odio ed è incapace di vendicarsi con qualche tradimento.

Parla ad alta voce, è curioso, vuol decidere di tutto. È docile al governo: borbotta, ma obbedisce: i nostri lazzaroni, su i quali si sono scritte tante sciocchezze che i viaggiatori si ànno gli uni con gli altri copiate, furono formidabili sotto il governo debole e dispotico de’ Viceré, ed oggi sono tranquilli e sommessi sotto un Re nato nel loro paese.

La spensieratezza è un’altra qualità del Napolitano, la quale più che dal clima deriva dalla facilità della sussistenza e degl’impieghi. I Napolitani sono stati sempre abilissimi nel maneggio della spada e dei cavalli Son dessi schietti, aperti, cordiali. Amano il loro paese, poco viaggiano; e come ànno scarsi bisogni, si contentano facilmente del necessario. Si rimprovera ad essi la mancanza di coraggio, perché non si sa o non si vuol risalire alle cause di certi avvenimenti; e si dimentica che la plebe napolitana, sola e senza truppa di sorta alcuna, disputò palmo a palmo il terreno all'esercito francese nel 1799, e che in ogni duello tra i Napolitani e gli stranieri la vittoria è stata sempre de’ primi. 11 coraggio de’ popoli niente à che fare con la difficile e complicata arte della guerra, che ad essi non appartiene.

Sono pure i Napolitani vivi, ciarlieri, gesticolatori all’eccesso. Le danze, i canti, i suoni formano un gusto continuo e generale. Il popolo usa il tamburino, le nacchere ed il liuto, che sono tutti strumenti antichissimi, come si rileva dalle pitture di Pompei. Il ballo prediletto è la tarantella, ballo pieno di grazia e di espressione, che si esegue al suono di nacchere e tamburini, mentre qualche altro canta sullo stesso tuono.

In Napoli la religione è vivamente sentita: il lusso del culto è riguardato come parte importante di essa. I tempi ne’ di solenni, decorati di stoffe di cera di musiche, sono affollatissimi ed i Napolitani convengono con gran divozione a tutte le funzioni di chiesa. Il popolo fe divoto per la Vergine Santissima: non vi è bottega che non abbia la sua immagine con una o due lampadi accese, ed altre se ne veggono per tutti gli angoli delle strade con fanali accesi di notte.

Ne’ mesi estivi si fanno a queste immagini belle macchine decorate di ricchi parati, di altari, di musica, di fuochi artifiziati: il tutto con le volontarie contribuzioni de’ vicini e della plebe. Vedrete non di rado le persone indirizzare a tali immagini le più affettuose apostrofi ed esporre ad esse i propri bisogni; ed altri prosteso nel silenzio della notte orare avanti un crocifisso o sul limitare di una chiesa.

Il dialetto del popolo Napolitano vien credulo goffo da quei che non l’ànno né esaminato né compreso. Costoro àn confuso la natia sua lepidezza con la goffaggine, che sono ben diverse cose. L’ingenita allegria del popolo napolitano e la ridente natura che lo circonda, àn creato un linguaggio scherzevole e buffonesco, ma nello stesso tempo pieno di immagini, di grazie, di bei concetti, di sali e di proverbi. Sono conosciuti i napolitani per la prontezza del motteggiare. Il popolo non vi parla che con allusioni e con metafore, mostrando cioè ingegno; ed unisce alle parole un gesto animato e grazioso. Il Napolitano, che adopra il pretto italiano, è meno, degli altri Italiani conosciuto dall’accento. Ci abbiamo molte opere di vario genere scritte nel dialetto napolitano, ed alcune sono assai più che ingegnose. Non si ànno canti nazionali, ma molti de’ popolari piacciono per la loro giovialità o per la loro dolce malinconia.

Napoli fu anticamente celebre per le scienze e per le belle lettere, avendola Cicerone e Seneca chiamata la madre degli studi. Virgilio, Seneca, Orazio, Tito Livio, Claudiano, Boccaccio, il Tasso ed altri uomini insigni vi soggiornarono, e quivi scrissero parte delle loro riputatissime opere. Il primo vi tiene anche il sepolcro.

È patria questa città dello storico Velleio Patercolo, del poeta Stazio, di Urbano VII, di Pontano, Capece, Rota; de’ poeti Costanzo, Sannazzaro, Gio Battista Marino, Tansillo e Salvator Rosa; de’ pittori Luca Giordano, Solimene e di molti altri; degli architetti cavalieri Bernini, Fuga e Vanvitelli; di Ferrante Imperato e Fabio Colonna, naturalisti; del fisico e matematico Giambattista La Porta; de’ filosofi e fisici Francesco Fontana ed Alfonso Borrelli; del letterato e giureconsulto M. Mazzocchi; di Giannone lo storico; di Filangieri il legista; del medico Cotugno; de'  celebri Vico, Genovesi, Gravina. Nè vogliamo obbliare di far qui menzione di un Ambrosi, di un Alessandri, di un Galiani, di un Mattei, del Galanti, di Palmieri e di Pagano, senza nominare gli uomini di fama ancora viventi.

Se nelle altre belle arti vari paesi d’Italia possono pretendere il primato, nella musica nessuno può contendere con Napoli. La nostra scuola musicale moderna fu stabilita nel XV secolo da Ferdinando 1 di Aragona, sotto la direzione di Garnerio e di Gafforio, i quali pubblicarono a Napoli le prime opere sulla musica: altre opere poi sullo stesso subbietto furon pubblicate nel principio del secolo XVII da Pietro Ceroni, che facilitò le regole musicali de’ tre collegi di musica che allora esistevano e che poi vennero nel 1808 riuniti in uno. Fra i caposcuola metteremo Alessandro Scarlatti, Niccola Porpora, Leonardo Leo, Francesco Duranti, Giambattista Jesi, Davide Perez, Niccola Jommelli, Giambattista Pergolesi, Nicola Piccini, Fedele Fenaroli, Giovanni Paesiello, Domenico Cimarosa, Niccolò Zingarelli e Vincenzo Bellini, senza far menzione di tutt’i grandi maestri stranieri usciti dalla scuola musicale di Napoli.

Francesco De Bourcard

I MARINAI

NAVIGATORI, PESCATORI, REMATORI E PESCIVENDOLI.

Quando si volge un guardo alle categorie di popoli che ci o preceduti, all’impulso sociale di tante diverse na, alla fratellanza che gli uomini hanno pel commercio a fra loro, allora la grande alleanza degli uomini col, si mostra all’occhio dell’economista, come un punto)ria luminosissimo e quasi come un movente del globo intorno al suo centro. Per essa le razze selvagge spogliate della scoria nativa, per essa le consuetudini sottomesse al culto, per cosa le città rabbellite, le aride spiagge mutate in città, le industrie confortate dal traffico, e la gran catena degli esseri rannodata fra lontane terre e paesi.

E Tiro e Creta e l’Ellesponto vi ricordano imprese guerriere e sempre commerciali, e dai campi della favola e dal mistero delle origini, scendendo accompagnato da questi nomi e da queste rimembranze vi verranno innanzi i navigatori Castore e Polluce e la grande impresa degli Argonauti che pur di tanta favola è tramescolata, e le ricchezze di Tiro che le navi con preziosi legni costruite, propagavano ed accrescevano, e l'ardimento de'  Fenici che corseggiando armata mano facean bottino e vendean vesti, suppellettili adornamenti aurei e gemmati, e tanti altri fatti incancellabili che svelano l’elemento marittimo, come produttivo delle più ricordevoli fasi commerciali.

Quante terre non iscorscro i primi navigatorie quante mai non furon quelle che sorsero a luce ed ebbero rinomanza per approdi di navi. L’Arca stessa, nave primitiva, lanciata nel mare dello sdegno celeste, qual'era il diluvio, non fu forse lo stromento della salvazione universale? l’anello della gran catena che doveva poi stringere in tanti nodi le genti? Dalle statistiche più recenti e dalle opere di trentanni a questa parte, rilevasi quanto a certuni paesi dell'Inghilterra, tenuti in nessun conto, abbia giovato il periodico traffico delle navi, e quante abbandonate coste, per lo transito di esse, sien divenute importanti; e gli Inglesi che spendono ogni loro cura e fatica per migliorare le condizioni marittime dell’isola, fino a cercarne un perfezionamento non isperato mai, hanno assicurata la navigazione di coste difficili e sabbiose con le barche di salvezza e coi fari galleggianti. Ed ove per poco si volesse aggiungere quanto l’affluenza de'  Piroscafi di ogni specie abbia giovato alle condizioni manifatturiere ed anche agricole de'  luoghi di approdo, avrebbesi tale un quadro di progresso, da farne strabiliare più d’un vecchio carpentiere.

Basti pel nostro bel paese l’esempio della navigazione periodica de'  Piroscafi tra Napoli e la Sicilia, un dì sì difficile e scabra, da render lungamente pensierosi quelli che fatto avean proponimento di attraversare il canale e correr la linea talvolta in più d’una settimana.

Un dì alcuni legni a vela addetti a quel traffico partian con poco carico e poca gente, ed era d'uopo aspettar il ritorno d’uno o d’altro legno, a seconda de’ venti che spiravano. Or le spedizioni per la Sicilia sono continue, anzi cotidiane, e non ha guari i battelli Maria Teresa e Palermo nello spazio di sedici ore toccavano l’estremo porto, mentre oggi due bellissimi piroscafi in ferro Vesuvio e Capri partendo a sera, conducono il forestiero, come nel grembo di un sogno d’estate, più celeremente assai dall’uno all’altro porto, però sembrami inopportuno dir che a simiglianza di questa sola linea di navigazione, le altre apportano tanto e tal bene a questo marittimo paese, da doversi molto tenere in pregio gli uomini di mare del nostro regno, subietto di questo articolo.

Da tutte le storie italiane e da stranieri scrittori rilevasi la strenui là dei nostri marinai e l’antica loro altitudine alle marittime imprese, e basti l’esempio de’ Pozzuolani, che or dimenticati perché

agli altri marinai inferiori, tenevano un dì esteso commercio e trafficavan coi Greci e i Fenici popoli . E basti la lettura delle istorie di Fazello, a ricordare la perizia marittima de’ Siciliani e le glorie di Siracusa e di Agrigento. Napoli (dice il primo de’ citati scrittori) abbondava di vascelli prima che i Romani pensassero ad aver forze navali, di modo che le cinquanta navi e triremi che trasportarono l'esercito romano in Sicilia, furono tutte Napolitane, Tarentine e Locresi.

Siam quindi lieti di dover cominciare quest’opera di costumi, rivolgendoci a’ marinai, parte sì viva ed integrale della nostra gloria, siam lieti di dover parlare di una classe generalmente onesta e laboriosa, schietta ne’ modi, ardita nelle sue determinazioni. Forse la penna che animata da tal subietto è scorrevole e pronta a ritrarre il pensiero, sarebbe ritrosa e dura nell’esprimere passioni più elevate e bugiarde, frutto avverso del secolo che corrompe gli uomini nel fasto anzi (come uno scorridor di campagna) aspetta al varco gli uomini più schivi, per dir quasi:—Ti ho pur colto o superbo; sprezzasti l’oro, ora affoga sotto l’oro che ti copre!

Però volentieri ci stringiamo al popolo, e parleremo prima de’ marinai che si veggono nell’interno della città, indi parlerem di quelli che lungo la riva se ne allontanano, e finalmente de’ così detti costaiuoli, non trasandando i siculi marinai che di prodezza non mancano e di perizia sull'elemento che li vide nascere e li cullò infanti.

I marinai di Chiaia, di S. Lucia, di Posillipo appartengono alla classe dei battellieri e pescatori. Essi vivono con l’amo e col remo alla mano, e la loro navigazione non si stende oltre il nostro golfo. Un dì, da S. Lucia a Posillipo vedevi una catena di povere abitazioni marinaresche, e un quotidiano raccogliersi di famigliuòie con famigliuole ad una stessa mensa, condita dall’amore de’ flgliuoletti, dall’affetto delle madri, dal previdente consiglio de’ vecchi. E tanto eran tra loro strette quelle schiatte marinaresche, che non molte, ma solo una famiglia, dagli usi e dalla dimestica fratellanza, apparivano.

Un padron di barche era ed è stimato nella contrada un ricco possidente. Coverto il capo del suo berretto e nudo sempre il piede, ei sospende di fumare sol quando emana i suoi ordini ai minori di lui, o facendo lanciare in acqua una barca o traendo l’altra sul lido per darri su di pece o di catrame,

o nei cestelli facendo assettar l’amo dai seniori, che l’età rende pazienti ed acconci a lavori lunghi e riposati .

E fuori di un padron di barche, non troverete persona più dignitosa fra i Chiaiesi i Luciani e que’ di Posillipo, e fra questi, i secondi han rinomanza e quasi ereditaria celebrità per pescare sott’acqua e tufferai tutti col capo in giù, sia per visitare o turare la falla di un bastimento, sia per isbarazzare un’ancora ed accelerar l’uscita di una nave. I Luciani trasmettonsi questa virtù di padre in figlio, e fino alla più tarda vecchiezza nel colmo del rigore invernale traggon sostentamento da cosiffatte fatiche. Perù li vedete sfigurati dalla vampa del sole, nelle carni grinze e violacee, negli occhi cisposi e quasi lacrimanti, poiché il sai marino che vi filtra per entro, li corrode, sicché talune volte hanno a cessar dall’officio, non potendo tener gli occhi aperti a mirare il fondo delle acque. Son questi i così detti Sommozzatori.

Quelli poi che van cercando alimento dal minuto pesce e dai molluschi o frutti di mare, che van tastando uno scoglio, cercandovi i granchi o qualche altro abitatore aquorco della specie, hanno le mani e i piè per tal maniera guasti, gonfi, e quasi ostruiti, che fan pietà solo in mirarli. Poiché v’ha taluno di questi pesciolini o granchi che suol tendere a vendicarsi contro chi l’offende, prova incontrastabile che la provvidenza diede anche al piccolo armi per difendersi dal potente, armi che la sedicente civiltà rinnovatrice di tutti gli ordini di cose, ha in gran parte distrutte fra gli uomini.

I barchettaiuoli o battellieri son del tutto dediti al traffico di piacere. E nulla riesce tanto gradevole, quanto ne’ be’ giorni di primavera una passeggiata marittima lungo la spiaggia voluttuosa che gli antichi dissero pausa delle tristezze (Pausilipo) entro una barca munita di due vigorosi rematori i quali alla loro volta, rasentando gli scogli e le secche fino a farvelo toccar con mano, vi mostreranno i pittoreschi avanzi di antichi fabbricati e le mura di opera laterizia, e vi parleranno con tradizionale credenza del Palazzo della Regina Giovanna e del misterioso trabocchétto, donde gli amanti oscuramente affogavano in mare, e vi diranno storie di sangue  all’approssimarvi dello scoglio de’ due fratelli e poi vi faran vedere la Gaiola e l’altro scoglio che per figura conica ha tolto un nome che modestia vuol taciuto, e non trasanderanno d’indicarvi il palazzo detto delle cannonate e finalmente, poiché l’animo del marinaio è soccorrevole altrui, v’inviteranno a porgere un’elemosina all'Eremita della Gaiola che dall’alto del suo scoglio vi tenderà un bastone munito d’una borsa. E a’ forestieri non solo dovrà recar maraviglia quel pellegrinaggio di costa allietato dalla vista di tante variopinte essine a fior d’acqua e di tanti giardini e viali ombriferi e fioriti che s’arrampicano, per così dire fino alla superior via nuova di Posillipo, ma dovrà pure recar maraviglia, il veder come due barchettaiuoli di quella spiaggia dopo avervi per un’intera giornata prestata l’opera loro, se ne andran contenti di buscare quattro o cinque carlini, ed a sera, banchettando nel mezzo della onesta e povera famigbuola diranno «il dì d’oggi è stato bello e lucroso, e tale, prego il cielo, sia il dimani». Questa parvità di desideri, questo tenor di vivere non solleticato che dagli affetti che si accendono presso al domestico focolare forman di quella classe di popolo un centro di virtù sconosciute.

I Battellieri, i Sommozzatori e i Pescatori, come ho già detto, abitavan lungo S. Lucia, Chiaia, (l’antica plaga) il Chiatamone (platamonio) la Torretta (una di quelle edificate lunghesso il lido contro gli scorridori di mare) ed il leone di Posillipo, le cui acque han la celebrità delle «Chiare, fresche e dolci acque» del Petrarca.

I nostri marinai sono buoni, servizievoli, sofferenti di freno, massime i Cbiaiesi, e i sentimenti religiosi han la stessa potenza de’ doveri di famiglia. Nel mese di agosto, la contrada tutta di S. Lucia, campo delle tende della milizia o della corporazion degli ostricari, divien campo dell’allegrezza marinaresca. I barchettaiuoli indossano il più bel calzone che s’abbiano e’1 più nuovo de’ lor berretti, le famigliuole si lavano e si lisciano i capelli, facendo baldoria. Nelle circostanti osterie fumigano i manicaretti, il pesce in salse piccanti, i vermicelli avvoltolati nel cacio e nel sugo di pesce, il baccalà fatto verecondo dal pomidoro e mille altri intingoli, e ciò per la festività di nostra Donna della Catena. Marinai accorrono d’ogni parte cantarellando, altri con le nacchere e ’I tamburo accompagnano la nazional tarantella, altri scorron la riva chiamando avventori alla festa, e nel mezzo della gioia universale, i fanciulli e i giovinetti figli de’ così detti Sommozzatori, tutti in un attimo e pressocché vestiti, giù nell’onda si capovolgono, toccando il fondo, poi risalendo a galla alla supina come morti, poi guazzando e carolando tra loro e facendo catena, in onor della Vergine. Sembra che gli antichi Tritoni onde la favola popolava quella riviera, emergano dal profondo, consapevoli della festa e guazzino con loro. E vedi braccia e gambe sossopra, e cavriuolo e gruppi fantastici, e poi un nembo anzi un manto di schiuma che nasconde i guazzanti, ed odi evviva e batter di palme de’ padri e delle madri coi bimbi alla poppa. Pure gioie, pure come l'ampio padiglione celeste che li covcrchia, pure gioie intemerate, non interrotte da sogni torbidi e ambiziosi, da rimembranze crudeli, da ambagi e sofismi viziosi di menti torte e perverse. Gioie perenni e vere che si riproducono come la schiuma del ma. re, come la nuvola che scorre il firmamento e che un fiato di rimorso non contamina.

Altre ricordevoli feste marinaresche sono in Giugno quelle che in onor di S. Pietro e S. Paolo per ben tre giorni si fanno, ardendo grandi botti di pece e girandovi intorno, e quella che prende occasione dalla incoronazione di nostra Donna detta di porto salvo, perché fondata da chi votò un tempio alla Vergine per iscampato naufragio. A tal festa i marinai tutti del molo piccolo che son marinai più dedicati ai commercio ed alle marittime industrie, danno emolumento, pagando nel corso dell’anno ciascuno il suo scotto per la pompa della festiva ricorrenza. E questo tributo pecuniario che ad onor della Vergine è costume di riscuotere, pagasi pria dai padroni di bastimenti, indi da quei di barche, indi dai marinai con amministrativa proporzione; e memorevole è finalmente la festa di S. Niccolò detto, per la prossimità dello edificio, S. Niccolò della Dogana, e ciò nella ricorrenza dell’Assunzione di nostra Donna del Piliero. Ed in queste due ultime festività non mancan luminarie e fuochi artificiali non iscompagnati da quei grandi colpi di sparo, nei quali il napolitano mostra la sua tendenza al chiasso ed al frastuono, allo stordire ed all’essere stordito, quasiché la gioia crescesse col gonfiare de’ polmoni.

I marinai del molo piccolo sono più navigatori, e la vicinanza del porlo li rende adatti alle industrie speculative. Essi han più cespiti al sostentamento della vita e sono estremamente destri nello eludere la vigilanza di certi birri che vivono nell’acqua e di taluni decorati satelliti, che per iscrupoli di coscienza metton le mani nella roba altrui, e non han ritegno di cacciarvele in tasca, se non siete pronti a dar loro un’occhiata significativa. Taluni fra essi marinai o barchettaiuoli, che riconoscerete agevolmente dai ricciolini pendenti, dall’aria di valentuomini, dal berretto, vanno a prendere le loro merci con grosso mare e con vento, sotto la prua di una nave ancorata in rada, quando pur non debbano andarla a scontrare fin sotto Capri a dispetto dei marosi e dei Doganieri.

Estese generazioni marittime son pur quelle del molo piccolo e parcamente vivono tra i viottoli di basso porlo, ma più comunemente la loro linea segue quella della spiaggia, poco più innanzi della porta del Carmine, e più famigliuole han dimora ne’ vicoli che dalla così detta Marinella riescono al Borgo di Loreto, e quelle famigliuole, come il giorno appare, saltan fuori dalle auguste camerette e van poi con le altre a sedersi sulla opposta spiaggia, ove il forestiero soffermasi a mirare que’ gruppi che tra uomini e donne, vecchi e fanciulle, tra botti, barche, reti, tinelli, fiscelle, nasse formano i quadri onde è maestra natura. Dòpo il desinare, su quella stessa spiaggia, soglion le donne acconciarsi l’un l'altra le chiome e rassettarsi le vesti allo specchio limpido delle acque, indi prender l’ago e i fusi e tesser amie reti d’ogni guisa. Nella estiva stagione quella stessa piaggia formicola di gente che va a bagnarsi, ed allora molta parte di quelle donne s’occupa in far bucato di lenzuoli, dì tovagliuoli e di camicie.

Come dicemmo de’ Luciani e de’ Chiaiesi, i marinai del piccolo molo son pur distinti fra pescatori, pescivendoli e barchettaiuoli. I pescivendoli, come dalla figura si vede, han quasi le stesse fogge di vestire, se non che invece del pastrano a scapolare, portano una giubba gittata in sulle spalle. Essi son dedicati unicamente alla vendita e traffico di quella specie. Il loro campo è la pietra de) pesce, luogo ove il pesce si raccoglie, librasi in bilance, ed alla presenza de’ capo paranza e degli annonari si distribuisce colla imposizione del prezzo.

Da un momento all’altro i pescivendoli sia ne’ cestelli, sia nelle sporticciuole di giunchi invadono tutto quant’é l’abitato, gridando e replicando intorno il nome di quel che portano in mostra ed a) nome aggiungono una serie di epiteti vezzeggiativi e chiamano i pesci, garofani, perché i golosi solluccherati dal nome, s’affaccino ed invitino il pescivendolo a venir su.

Così tra ascéndere e discender lunghe e non comode scalinate, tra girare e rigirar, vie, viottoli, viottolini, il pescivendolo vuota la sportclla, la riempie, e per seguir l’andamento delle cose umane e mostrarne l’applicazione, mette sempre i più grossi pesci a giacer sui pcsciottdi e i pesciolini; con la sinistra mano li fa odorare a que’ che dubitano della loro freschezza, con la destra gl’inaffia di acqua salsa che porta in un otre, e i suoi movimenti sono sì rapidi, i suoi passi sì misurali e solleciti, che tra rimestare e pesare, tra vendere e rendere il soverchio, mette sì poco tempo, che sarebbe a desiderarsi, potessero tutti i mondani negozi discutersi e compiersi a quella guisa.

Il pescivendolo napolitano ha i requisiti propri di ciascun altro venditore. Egli domanda sempre il doppio del prezzo che vuole, e per guadagnare un obolo soverchio, ascende, discende e torna indietro, borbottando, senza danno delle scarpe che abbomina, ed appagandosi, ove gli venga fatto, di carpirvi un oncia di peso a suo favore. Difetto del quale il napoletano che compera è tollerante per vecchio abito, il forestiero si sdegna.

Dopo aver brevemente discorso del pescivendolo, diremo alcuna cosa de'  pescatori che son pur membri assai proficui delle marinaresche famiglie dedite alle fatiche del mare.

Pittoresca e dilettevole è la pesca de’ polipi o de’ cefali che fassi nelle circonferenze del Lucullano castello, detto oggi Castel dell’Ovo e pria nominato Isola del Salvatore. Siffatta pesca si esegue nelle barche aventi in sulla prora o viceversa una fiaccola che nell’acqua isfavilla e la rischiara fino a certa profondità. Entro la barca sta un uomo intento a vogar pianamente, un altro sta più binanti e guarda fisso nell’acqua spargendo stille di olio ove i raggi percuotono, fino a che l’abitatore di quella regione, adescato dalla luce, non si faccia a seguire il solco radiante, e resti così mortalmente percosso dalla lancia onde il pescatore è munito.

È soavissimo incanto l'aspetto di queste barche che in sulla sera e spesso a sorger di luna si veggono strisciar lentamente nell’acqua, radendo gli scogli e talora l’una dietro l’altra passar sotto l’arco d’un ponte che la terra congiunge all’insulare castello che i tremuoti e la prigionia di Àugustolo han renduto illustre anco nelle sue rovine.

L’insieme delle sue proporzioni imbrunito dalle ombre che la luna fa grandeggiare appunto ove è più dispensiera di luce, staccasi mirabilmente dal fondo diafano e velato delle isole lontane e dall’acqua cerulea ed in più luoghi spruzzate di stille argentine. Da un lato il Vesuvio, dall’altro le colline Pausilipane fan corona alle acque, e compiono il quadro .

Da queste tre classi uopo è ora ch'io ritorni al primitivo tema dal quale mi dipartii, quello de’ marinai napoletani in generale, tema che pari ad uno arbore annoso offre molti e svariati rami tutti rigogliosi di vita.

E però i rami più rigogliosi della progenie hanno a tenersi i Procidani e i Sorrentini che per esser valenti, sono rivali tra loro. I Procidani arditi, gagliardi, di animo fermo nelle calamità di mare e nelle traversie, nascono marini e si abituano assai di buon’ora ai pericoli della navigazione del loro canale e del golfo; né a quella si fermano, ma come meglio possono, cercan pane ed alimento ne’ viaggi di lungo corso. Il Procidano dai suoi vicini è detto rischioso e temerario..

Ischia e Procida, come due nemici, stan quasi l’una a fronte dell'altra. Esse guardansi di lontano, ma senza potersi ben discernere in volto. Ogni giorno dall'una e dall’altra riva partir deggiono le barche che mettono le isole in comunicazione con la capitale e si fan cambio di uomini e di cose, ma il tempo imperversa, l’orizzonte s’annebbia e i cavalloni si frangono nelle brune punte degli scogli, come arieti di guerra nelle irte mura d'un castello.

Il canale è sfrenato a tempesta, l'onda fa paura — gl’isolani stanno come le isole a fronte l’uno dell’altro, e giudicano severamente de'  loro compagni. Ambo le rive hanno pronte alla vela le barche...

Chi partirà prima? Il marinaio di Procida o quello d'Ischia?

Il vento fortunale scorre sibilando sui fluiti e pare che gridi—Non v’aflidalc a fragile barchetta.

Chi vincerà nella tenzone?

Ma sulla riva Procidana i marinai si stringon tra loro a consiglio, danno un bacio ai fanciulli, e lanciansi nelle barche. Il bollaccone  batte con istrepito, la scolta si tende, i remi d’ambo i lati come natatoi d’un pesce, si allungano ~ la barca di Procida cavalca i marosi, gli evviva misti a qualche singulto di pianto accompagnano il fremer del vento. I cavalloni nascondono il piccolo legno che dura fatica a risorger sull’onda, e affonda poi in vortici più spaventosi.

Il marinaio Ischiaiuolo stima perduto il rivale isolano, ma questi si fa maggiore della traversia, e giunge vittorioso nel porto napolitano, pensando all’entrata di esso, assai più che non avesse pensato nel mettersi in mare.

I marinai Procidani rendono onorala ed illustre la loro terra. Essi forman quasi una ricca colonia, poiché non è famiglia che non abbia un tetto suo cd un legno in mare. ll loro vivere sebben frugale, è sobrio. Una delle festive ricorrenze dell’isola che chiama maggior copia di gente a raccogliersi nel breve abitato, è la festa de’ quattro altari. In quel giorno la gioventù Procidana si mostra con alterezza insulare.

Le donne, tra gli altri, attraenti per pupille e sembianze piacevoli, vestono allora in tutta la pompa dell'antico costume greco e fan mostra della dovizia del petto, onde van celebrate, e di tanti altri vezzi lusinghevoli, e in quelle feste si svegliano gli amori sopiti e le famiglie tra loro stringonsi in parentado, e le donzelle danno parola al giovane, aspettando pria che torni il lontano fratello navigatore, perché la gioia sia per universale assentimento, compiuta.

Ischia ha pure di tali popolari feste, e quelle di S. Restituta e decanti Pietro e Paolo son le più clamorose. Le donne d'Ischia, il cui vestire offre un leggiadro accozzamento di colori agli artisti di genere, fanno nel loro costume minor sfoggio di ori, e solo nei pendenti mettono ogni loro pompa .

Dopo aver parlato de'  Procidani, panni dover fare onorata menzione degli Amalfitani che hanno a loro capo un Flavio Gioja, e che possono in prova di lor valentia, ricordare tutta una storia di marittime imprese, che rendè la Amalfitana Repubblica pari a quelle di Venezia, di Genova e di Pisa. E non trasanderò di accennare che tutta la costa di Sorrento è ricca di valenti marini, e la massima parte di coloro che nascono in quelle arene si dedicano al pilotaggio e nelle scuole di nautica usano, per divenir poi utili al commercio ed alla marina di guerra. I Sorrentini sono anche dediti alle industrie speculative, costruiscono legni e mostran perizia molta nell’armamento di essi, in emulazione de'  Castclloti o abitanti di Castellammare che son loro vicini, ma non han pari grido di valore.

Ai Sorrentini seguono i Torresi, arrischiati ed abili marinari che lasciano il loro paese nativo per recarsi alla pesca del corallo, alla quale tutti quasi unicamente si dedicano. D loro ritorno in patria è riboccante di affetti. Le donne loro, i figliuoli, le sorelle, i genitori stan sulla spiaggia ad aspettarli. Gli occhi delle fanciulle son luccicanti, quelli de’ genitori pieni di lacrime gioiose. Indi a poco il corallo è ridotto in collane, ed il fratello ne fa presente alla suora e glielo cinge al niveo collo. La pesca del corallo ed il lavorìo di esso in ispille, braccialetti, manichi di bastoni ed ombrella, anelli ed altre minuterie di orafi danno alimento di vita a molte e molte famiglie di pescatori. Trapani in Sicilia è pure emulatrice de’ lavori di corallo che adornano poi il petto delle forestiere ed in corna, quasi amuleti di antica superstizione, adornan le nostre donne che credono allontanar da loro gli auguri sinistri.

I marinai di Gaeta, quelli di Ponza, di Capri, di Nisita e gl’isolani tutti han qualità marine tutte proprie e derivanti dalla natura del luogo che abitano, e dove aprono gli occhi alla luce.

La Sicilia, terra ferace d’ingegni, può a buon dritto vantare arditissimi e gagliardi marinai. I Palermitani, gli Usticani, i Trapanesi sono tali, da meritare una triplice palma. Essi non cedono in temerità a qualsivoglia marinaio straniero. Sebbene corrivi e facili all'ira, possono formare la vera forza d’un legno ben capitanato, la ciurma. Per essi è abitudine il pericolo, e fanciulli o vecchi non rinunziano all’elemento indomabile che gli educa. Basti a ricordare il siculo valore il nome dell’Ammiraglio Gravina.

Stefano Palmisano, vecchio e gagliardo marinaio che avea valichi i sessantanni e pur mostrava di non voler cedere all’età quando le opere faticose del bordo lo chiamavano al suo posto, dopo aver navigato qualche anno sul Battello a Vapore Postale Maria Teresa, accorto e vegliante nelle sue ore di guardia sulla prua, fermo e sdegnoso di sonno al timone, pronto a montare a riva come un fanciullo, ne imponeva a’ suoi compagni nella gioia del pericolo, sebben gagliardi tutti e Siciliani.

Ma il vecchio Stefano era annoiato di quella vita ch’ei stimava passiva e monotona — Non è vero marinaro, e’ diceva fra suoi, chi si fa portar dalle ruote di un Piroscafo come in una carrozza che i cavalli strascinano. Vuol esser vela e non fuoco, vuol esser cotone la guida del marinaro. Tutti son buoni a lasciarsi condurre in porlo da un Piroscafo. Quai mezzi adopra il marinaio nel tempo avverso, quando da poltrone naviga in un legno a vapore? nessuno. Egli aspetta e dorme. E mi chiamate codesta vita da marinaio? Vuol esser vela dunque, alla vela si conosce il marinaro, pronto alla manovra, sollecito a montare in gabbia, destro a virare. I grandi viaggi, l’Oceano è la vera scuola ad acquistar gloria e danaro. Ho una figlia ch’è a me più cara del sole. Se un principe ricco e buono mi dovesse la vita, gli direi «ama e sposa mia figlia se vuoi sdebitarti meco. » La notte, quando come l’albero di trinchetto, mi sto fermo in sulla prora a far la mia guardia, mentre spingo acutamente l’occhio a mirar se incontro opposto naviglio, guardo colla mente alla figlia mia e penso come farla felice, come darle una dote, perché non desideri il pane, e non isposi un marinaio che alla dimane delle nozze l’abbandoni, per obliarla in paese lontano. Ecco l’assiduo mio pensiero, la perenne fatica di mia mente, poiché questa noiosa navigazione a vapore, inventata pei paurosi e per le Dame, non basta ad occupare nelle ore del giorno e della notte Stefano Palmisano.

Queste parole da me udite più volte, valgono à dare il tipo del vero marinaio, nato per resistere alle onde con mezzi propri non carpiti alla chimica od alla meccanica. Stefano Palmisano, focoso ed ardito in vecchia età come giovinetto, mentre non guardava a’ pericoli e non ascoltava che se stesso, avea poi la virtù di sapersi reprimere e di ubbidire.

Quest'uomo di sì gagliarda tempra (ma non solo tra i nostri marinari) mi si presentava un giorno e mi chiedeva il suo congedo, volendo tentar la sorte sur un naviglio che muoveva per le Indie — Signore, e’ mi dicea, tornando dalle Indie potrò almeno recare una dote a mia figlia che in me solo ha speranza!

Preghiamo che il voto dell’onesto marinaio resti esaudito!

E poiché questo mio articolo avrà accesso nelle più fastigiose dimore principesche e ministeriali, senza uopo di mancia o di sirena allo schiavo padrone, piacemi ricordar nomi oscuri, e virtù ignote, perché faccian contrapposto a nomi chiari e vizi chiarissimi, perché l’uomo che domina scenda a mirare in basso, e guardando, compensi i meritevoli, o almeno impari dagli oscuri. E poiché questo mio articolo forse dovrà posar presso un molle origlierò o sul bianco marmo d’una colonna di mogano, e nelle ore della notte dovrà forse ascoltare qualche lamento di sonnambulo, qualche affrettato palpito di cuor miscredente e pur divoto, amo che a queste povere classi lavoratrici si volga il pensiero dell’intendimento, perché i conforti vengano dall’educazione e dal lavoro, e non siano dati con mezzi di abiezione e d’invilimento individuale, l’elemosina quotidiana mal diretta, che dir si potrebbe meglio l’alimento degli oziosi.

E seguitando a parlar de’ marinari siciliani aggiungerò che son molto da valutarsi i Messinesi, i Melazzesi, i Liparoti, i Siracusani che non si stanno inerti e paurosi in paese. Il littorale della Calabria ne presenta di buoni, sebbene non come i Palermitani, Sorrentini ed altri, dediti ai viaggi di lungo corso. Sarebbero al certo migliori le condizioni marinaresche di quelle spiagge, se non fossero sfornite di porti, e i legni di strania bandiera non v’andassero solo nel caso di doversi perdere contro la brulla ed arida massa degli scogli e della montagna che cinge la costa.

Finalmente non lasceremo di fare onorata menzione de’ marinai che navigano pel littorale delle spumose acque dell'Adriatico. Destri ed arditi, essi non mancan di perizia in solcare que’ difficili flutti sparsi di secche e d isolotti, e i Molfettani e Barlettani e que’ di Brindisi e di Gallipoli e più ancora i Tarantini non son secondi ad alcuni degli isolani che più innanzi nomammo. E però teniam ferma speranza che portati a termine i lavori del porto di Brindisi  e richiamato in quell'antica città marittimi alquanto di concorrenza commerciale, ed agevolati i traffichi di olii, vini, grani ed altro, e col mezzo de’ Piroscafi incrociate le corrispondenze e ravvicinali gli uomini; la linea dell’Adriatico potrà dare miglior sussistenza alle classi povere e navigatrici della costiera, e gli uomini dediti al mare si spingeranno alle navigazioni dell'Atlantico e dell’Oceano Indiano.

CAV. CARLO T. DALBONO.

IL MAESTRO DI BOTTEGA

ED IL GUAPPO IN ABITO DA FESTA

Quantum mutatus ab illo!

DIFETTO appiccicato all’umana natura è quel voler ogni uomo far disparire, quanto può, od almeno nascondere lo scaglino, che dall’altro, nell’ordine sociale, il divide. Se però ciascun mediconzolo aspira alla fama di professore, se ciascun avvocatello affetta il Demostene, se ciascun amanuense, non fosse altro che per vóto rimbombo di parole, si adopera a comparir l’uomo di alto affare, bisogna pur convenire che le distinzioni sociali sieno innanzi nella necessità delle cose che nella volontà degli uomini, e che se il farinaio ed il beccaio non han frusta e speroni, egli non è certo per modestia. Così l’artigiano, mentre dal suo bischetto percote sul tomaio, o lavora di forbici sur un tavolone, o suda a gocciole sopra un ferro rovente, o fa stridere la sega, guarda sottecchi la elegante chasse del damerino, la luccicante catena d’oro del banchiere, la stoffa finissima dei calzoni del leone, il gilet che tocca l'umbilico del giovine di buon genere, e la bella canna, la quale, per un elegantissimo pomo, forma l’unico ed il più bel titolo di gloria del bellimbusto, che, designato per professore, non d’altro ebbe mai brigato che di comprar profumerie; digiunare al Caffè dell'Europa, e far attorcere e lisciarsi accuratamente i capelli ed i badi. Tutto ciò muove una tal quale invidia in quell'ordine inferiore, ed anche una sensibile dispiacenza ne' paragoni. Qual contrasto tra una sudicia e lacera camicia, ed un alabastrino colletto amidato; tra due mani ruvide ed appiccatimi ed un morbido e lucido guanto, un martello ed un succhio ed una canna dal cesellamento privilegiato (paletti). Laonde l’uomo inferiore procura transatare almeno con l’ingiustizia della sorte; e cosi non potendo essere un galantuomo  ogni giorno, vuol esserlo almeno la festa. Arrivata dunque quest'epoca in cui, osservatore scrupoloso de’ precetti, rimansi dall’opera, depone il meschino, o almeno poco aggradevole arnese, ed eccolo uomo nuovo in novelle forme. Larjghi calzoni a quadrati da metter paura ad un cicco, una cravatta d'un rosso fiammeggiante, che gli cinge, o piuttosto gli assedia il collo, alta ben cinque dita, sormontata da un enorme nodo, le cui punte svolazzano alla balia dei venti, o sulla quale vengono a ripiegarsi due larghi colli, un lungo e vivacissimo gilet, non diremo disegnato, ma sì inondato di frascami. Scende su questo, ad armacollo, enorme catena d’oro con sospesovi un corrispondente orologio, terminante in moltiplici suggelli, a’ quali non manca che l’impronta per dirsi notarieschi. Indossa una chasse (specie di giamberga) di castoro a larghe ali. Non ha guanti, perocché gli parrebbe recar dessi onta alle mani che, non ostante la manifesta contraddizione, godono imperturbate il riflesso d una infilzata di lucide anella, ornamento e sepolcro ad un tempo di presso che tutte le cinque dita. Compiono il vestire un cappello collocato appunto all’est del capo, ed una grossa canna di zucchero confinante col medesimo. In tale assettatura, per quella continua e caratteristica flessibilità del corpo, or da questo, or da quel lato; per quella specie di non curanza, che denota piena soddisfazione di sé stesso, quest’uomo ha la festa un’impronta davvero singolarissima di pseudo importante. Sovente egli accompagna una donna, che è la moglie o l’innamorata. Un paio di grossi orecchini rotondi, e vestiti di picciole perle, che il nostro volgo chiama con voce propria, specie di sciucquaglie, con cui vanno indicati generalmente gli orecchini, una veste trincerata sul petto da una collezione di laccetti d’oro (lazziette) con un piccolo oriuolo, le dita sulle quali parimenti si ammonticchiano le anella, un largo fazzoletto sulle spalle (fazzolettone) sogliono contraddistinguere la compagna della sua vita, colei che dicesi maestà (maestra). Per ordinario l'innamorata o la promessa, che va sempre in compagnia della madre, come Pilade e Oreste, o per non escir del feminino, come Filomena e Progne, è più modesta, perocché non divide ancora né le fatiche né le pompe di lui; ed e’ contentasi allora di camminarle a fianco, proteggerla con lo sguardo, e ricoverarla all’ombra dell’incommensurabile canna; e quella donna vicino al suo uomo (l'ommo), tiensi né più né manco di Bradamante o Angelica, sotto Io scudo di Ruggiero o di Ferraù. Egli è vero che si scorge qualche punto di notabile diversità fra il maestro e ’l galantuomo, di cui studia il portamento ed il vestire; ma noi sappiano bene come l’imitazione sia spesso la parodia dell’originale; e poi vi ha di tali impronte difficili, diremo anche impossibili a cancellarsi; sì che scrisse il poeta:

Alma grande e nata al regno

Fra le selve ancor tramanda

Qualche raggio, qualche segno

Dell’oppressa maestà

onde al pari il nostro eroe precario conserva nell’abito festivo un non so che del tanfo del lavoro; le mani ordinariamente non sono affatto affatto monde; spesso male assettati i capelli, e poi la, il vestito spesso ribelle alle proporzioni, il dimenar del corpo, il cappello a schimbescio e le formidabili anella finiscono per dare il comico a questo personaggio, che tanto pel tragico si affatica.

Allo stesso genere, avvegnaché per avventura in ispecie inferiore, appartiene il guappo , comunemente nell’ordine de'  suggechi, ché così chiamano in dialetto i venditori di grascia, in ispezialtà di vini, di salumi ec. Nel rimanente dell’acconciatura affatto conforme a quella d’un maestro, sostituite alla chasse una giacca sbottonata ed al cappello una coppola di panno col gallone d’oro, fate che quei calzoni finiscano ili due enormi trombe sulle scarpe, aggiugnete a ciò i capelli, com’essi dicono, a mazzo de pesiello  ed eccovi il personaggio bello e delineato . Costui ha una mimica tutta propria; i suoi gesti (ngestre) denotano sempre qualche grandiosa operazione, 0 almeno vi accennano; laonde non salii discaro al lettore aver qui notati alcuni modi caratteristici e frasi con la versione italiana, perocché noi crediamo molto valere il gergo, e spesso più d'un’intera descrizione a rilevar l’individuo, come i più accreditati narratori e romanzieri ne han fatto uso felicemente.

Allorché il guappo minaccia di bastonare alcuno, apre entrambe le palme ed agitandole stranamente e quasi ponendole di conserva sul volto dell’avversario in un moto espressivo gli grida: Mo t'apparo a faccia .

Quando saluta un collega si esprime con enfasi. A razia, ovvero, A bbellezza .

A tale che gli paresse non aggiustar piena fede a quel che dice, e’ risponde: Ebbè, o bbulimmo lassà ì .

Quando vuol mostrarsi ossequioso si esprime: Mo nce l'obbrigazione nosta  né maraviglierò alcuno del modo imperioso plurale, trattandosi di guappo.

Se si rissa grida: Ebbè! Senza che ffaie tutte sse ngestre; cca simmo canusciute, e aggio fatto scorrere o sango a llave po quartiere .

Un tale, ha l’inavvertenza, passando, di lasciar andare un boccone di fumo sul volto della maestà; ecco il guappo che freddamente, e strascicando ciascuna parola gli dice: — Ebbè; mo mancate; tuie menate o fummo ro zziquario nfaccia a ronna !

Quando, nel colmo dell'ira, e minacciando il suo avversario, fruga precipitosamente nelle tasche in cerca d’un coltello, che spesso non vi è, lasciando rattenersi dalle donne e dagli amici, dimenando il corpo e mostrando non vedere colui che ravvisa perfettamente, grida con quanto ne ha in gola.

«Arò» sta, arò sta? Me ne voglio vevere o sango!

E per non prolungar di vantaggio un fraseggio, che più o meno si sostiene sempre sulle stesse fondamenta, ricordi il lettore:

Orlando non risponde altro a quel detto,

Se non che con furor tira d'un piede,

E giunge appunto rasino nel petto,

Con quella forza che tutt'altre eccede;

Ed alto il leva sì ch'un augelletto

Che voli in aria sembra a chi lo vede;

Quel va a cadere alla cima d’un colle

Che un miglio oltre la valle il giogo estolle

e si dipinga Orlando in giacca. Il compendio di cotesto gergo e modo chiama il volgo ammartenatezza o attempatezza.

Vera immagine delle cose di quaggiù, il domani ciascuno dei nostri eroi deportò il fasto a piè d’un incudine o d'un tavolo; e somigliante a re da scena, poi che ha rappresentata la sua parte, torna al consueto ritrovo di amici, che talvolta è un caffè, talvolta una bettola. Ciò nondimeno questa parodia, che mostra il lato ridicolo dell’uomo volgare rimpetto al è forse contrappesata da molli vantaggi di quello su questo. Che cosa è la vita per un uomo del popolo? Contento dell'oggi che corre e gli reca la sua mercede, e’ non si travaglia barbaramente per un dubbio e fantastico domani, nube sulla stella e luce tra i veli, secondo le vaghe espressioni d’un poeta; e nulla dolentesi del suo stato, attende con sincera allegrezza il suo giorno di festa. Egli non ha mestieri di logorarsi la vita per anni ed anni dietro un fantasma di gloria, somigliante alle bolle da sapone, non di attendere, non di dare esami, non di pubblicare per le stampe; l «dodici anni è un giovine , a diciotto un artista, vale a dire professore sui generis. Scrupoloso a’ patti matrimoniali, allorché mena sua moglie a Piedigrotta, al Campo, al Pascone, a Montevergine  e cerio assai più lieto dell'uomo che, sdraialo in fondo d’una fastosa carrozza, col disprezzo sul viso e la morte nel cuore, pensa forse al mal governo del suo, o ad una misera moglie, che, al contrario di Mida, il quale volea tutto convertire in oro, vorrebbe tutto il suo oro in un momento di tranquillità convertire. Ed i figliuoli? E che fanno eglino i figliuoli ad un uomo volgare? — Se non ha giudizio, strappatili crudelmente al felice orizzonte in cui la sorte benigna collocati gli avea, fa che ricevano una accurata istruzione, e gustino le non rare delizie del sapere; ma se in cambio avrà un’oncia di cervello insegnerà loro il proprio mestiere, e così i suoi discendenti, provveduti, alla lor volta, d’un abito da festa, in compagnia di una bella maestà, nostra compaesana, benediranno il gran giudizio del genitore, ripetendo quell’assennato adagio del popolo: L'arte de tata è meza imparata .

ENRICO COSSOVICH

I VENDITORI DI ACQUA SULFUREA

NAPOLI non ha acque sorgive fuorché le minerali: i suoi fonti sebezi in questi campi flegrei sparvero, o inaridirono, ma gli acquidotti dalla Bolla e dal Carmignano  provvedono abbondantemente la vasta città, che dicono l'acqua de’ formali; e l'acque piovane che si raccolgono nelle cisterne, benché d'inferior qualità, servono a dovizia agli usi della vita. L’acque che hanno l’onore d’empire le regie tazze e quelle de’ grandi sono Tacque del Leone di Posilipo, di S. Pietro Martire, di S. Paolo e l’acqua Aquilia al Mandracchio ; ma nella stagione estiva il popolo capriccioso tempra gli ardori della canicola con la freschezza dell’acqua sulfurea, sia per lusso, o per necessità, non v'è persona e sia la più misera plebea che non imprenda a guarirsi d'ogni malore con l’acqua sulfurea, panacea generale come l'idropatia alemanna. Per tutto si vende acqua sulfurea, per tutto si beve acqua sulfurea dove vedete orciuoli, bicchieri e frasche; e il venderla è il più bel mestiere di chi non ha altro mestiere che di saper gridare con voce più stentorea per le vie. Intanto tutta l’acqua sulfurea che si vende e si beve in Napoli e suoi contorni, viene attinta dal solo fonte che sì trova sotto la strada di Santa Lucia.

Santa Lucia ne’ remoti tempi non era che un piccol paese di poveri pescatori, lontano da Napoli, sotto il monte Echia, nella region lucullana, presso il convento del Salvatore, ove oggi sorge il Castello dell’Uovo e le grotte platamoniche; ma Napoli estese a poco a poco le sue braccia e la raccolse nel suo grembo: oggi Santa Lucia è a Napoli ciò ch’è una rosa nel seno di una bella donna. Ma per quante metamorfosi abbia subite, per quanto si sforzi la civiltà moderna a cambiare la faccia di sua prima origine, nell’intimo quel luogo è sempre l’istesso, cioè il luogo de’ bagni, delle cene dei romani; e quei cuori sono sempre dell’antica islessa tempra. I Luciani hanno dialetto diverso dai cittadini di Palepoli, modi più semplici; fieri de’ loro diritti e delle loro costumanze, si sono nei tempi più difficili della città dimostrati generosi, affabili, disinteressati. Per antica consuetudine godono la proprietà delle acque minerali, quantunque nei tempi andati l'acqua lucullana, delta ferrata, dalla Città fosse decretata di pubblico uso per cittadini e stranieri senza eccezione alcuna, come si legge nella lapide del Chiatamone : oggi è ben alt rimente. I Luciani però conservano la privativa dell’acqua sulfurea ch'essi vendono, e con tal lucro vivono tutto l’anno, prendendo in prestito l'inverno per pagare l’estate. Quella idropisia sulfurea del popolo napolitano e de’ paesi vicini sembra un tributo imposto dalla provvidenza a prò di tanta povera gente. Mi duole che i più forti collegati soverchino i più deboli e i più indigenti. La vendita dell’acqua si fa dagli uomini da un’ora di notte sino al mezzodì, quindi dalle donne sino al ritorno dell’ora accennata.

Avanza un’ora del giorno, ed è questo il tempo di scendere a Santa Lucia per respirare l’aria della marina. Percorre la via del Gigante lunga tratta di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni condizione; ché all'acqua sulfurea va il nobile e il plebeo come ad una sacra festa. Marinari, carrozze che si fanno strada in mezzo la calca, acqua, bicchieri, tarallini , urli, canti, gridi; ecco Santa Lucia in giorno festivo.

La prima volta che scendete a bere in quell'amenissima riviera tutte quelle venditrici, giovani e vecchie, co’ loro bicchieri colmi d’acqua zampillante come sciampagna, vi si fanno d’intorno supplicandovi; e voi potete scegliere come un Bascià quella che più vi aggrada, ma nei giorni seguenti non vi è più dato di cambiarla senza la taccia di scortesela vostra bella Luciana vi ha già incaparrato come suo avventore, ed è rispettata dalle compagne osservatrici della patria costumanza, che infranta cagionerebbe sanguinose risse. Chiudono i Luciani questo loro lucroso mercato con una festa speciosa l’ultima domenica di agosto in onore di Nettuno, oggi sacra alla Madonna della Catena, nel qual dì si tuffano in mare, e nel secolo scorsovi gettavano a forza chiunque a quell’ora si trovasse passando per la riviera .

Se poi volete vedere la fonte donde scaturisce l’acqua sulfurea, scendete per la grande scalinata, e dall’una e l’altra parte vedrete piramidi di co struite a maglia elevarsi dalle ceste dei venditori, e fra cento donne che vi sollecitano a bere vi troverete in un misterioso oscuro grottone, tempio salutare di migliaia di gente. Un indistinto suono di voci, di grida, di canti unito al rumore delle acque scorrenti, un andare ed un salire dalla profonda fontana, un frastuono ove spicca l’acuta parola feminile: Oh chi vece, fredda, fredda, oh chi veve!  Un suolo lubrico ed infangato, il ruotar delle carrozze che passano sopra la volta del sotterraneo pari a tuono che romba, ed in mezzo a quel trambusto non si fa che empire e riempire bicchieri corciuoli, orciuoli che poi si caricano la notte su barelle per Portici, Torre del Greco, e su carri e carrctti per tutto Napoli, per Caserta, per S. Maria, per Capua, ec. E però, quando la notte Toledo è quasi sgombro di gente e di vetture, e le botteghe de'  mercanti tutte chiuse, tu ti vedrai passare innanzi di questi carretti di orciuoli che si recano a Santa Lucia, ed altri che di Ih ritornano per provvedere tutti i posti e più lontani della sanatrice d’ogni male, acqua sulfurea. Ogni carretto è circondalo da tutta una famiglia, che si reca nell’emporio della sacra fontana, dove altri cento carri e barche vanno per l'istesso oggetto: chi è destinato a guardare il piccolo carro, chi a empire le mmommare  e chi a numerarle e caricarne la vettura, che già ritorna allegra e festiva nel modo più poetico e bizzarro. Il padre di quella famigliuola che trascina il carro, il figlio maggiore lo spinge di dietro, da due lati camminano le due figlie scalze e piene di vasi, e il più piccolo con una semplice camicia che in parte copre la nudità, in parte no, con una cesta in capo piena di orciuoli chiude la marcia facendo di retroguardo. Seduta poi come in trono sopra le mmommare sta la vecchia madre, come la regina Pomarè, tenendo un nipotino sulle ginocchia come Iside che porta Oro nel seno; e tutti cantano canzoni d’amore con prolungata e noiosa cantilena.

Quando poi una voce stridula e acuta più di un sistro vi sveglia allo spuntar dell’alba e torna a risvegliarvi dal sonno vespertino gridando: Chi vo vevere ch’è fredda! chi vo vevere! fredda, fredda!!! Uh! comme la tengo annevata, e volete conoscere da qual sonora ferrea gola essa parte, fatevi al balcone, e vedrete questa  o altra consimile vecchia tutta coperta di cenci, livida e scarna, piene le mani di orciuoli e bicchieri, abbrustolita dal sole e con un fazzoletto che le cinge la testa, va motteggiando ad infrascare le fiamme de’ giovani cuori delle graziose modiste che stanno in una stanza a pian terreno o sulla via aggruppate intorno alla maestra, come funghi ad un pioppo caduto. Disseta quel crocchio e passa, e senza perder tempo empie il grande bicchiere e lo presenta al taciturno ciabattino che lavora sulla strada: riscuote il convenuto tornese  e grida la solita canzone alla soglia del falegname, ma in tuono più basso:

Acqua zurfegna fresca comme la neve! e quegli aspramente risponde, senza scomporsi dal suo lavorio: Io me bbevo l’acqua de lo pozzillo che sape depozzolamma.

Mara me! chesta è de lo cannuolo, pe l’arma de patemo. Se non è bona non me la parate.

Va vattenne mmalora de Chiaia, co mmico nce pierde lo tiempo!

Essa guarda intorno su i balconi se vi è devota della salutifera acqua sulfurea che la chiami, gitta come una cornacchia avida di cibo l'ultimo grido: Chi vo vevere! abbrevia l’espressioni e parte.

Quanti mestieri fa quella vecchia? Tutti, secondo le stagioni. Con una gran caldaia vende le spighe di granone in maggio; a novembre allesse, pizze o casatielli 2; e cangiando molti mestieri guadagna sino un ducato al giorno, ma il gioco del lotto e la cantina la fanno spesso gridare: Sempe fatico e sempe scauza vaco!

EMMANUELE BIDERA

IL FRANFELLICCARO

l Franfelliccaro! Ma dov’è la piccola spasa rettangolare e ricurva su di una mano? dov’è l’atteggiamento dell’altra mano fra la bocca e l’orecchio mentre il venditore intuona la sua cantilena? dove sono a più ragione i franfellicchi, quei pezzetti giallognoli di mele consolidato mercé un processo tutto particolare?

Ahimè! sono spariti! Tutto cangiò. Spasa, cantilena, mercanzia, tutto andò soggetto a metamorfosi.

Un bel giorno, che non so se debba segnarsi con bianco o negro lapillo, se debba annoverarsi tra i fasti o trai nefasti, un bel giorno l’arte del franfelliccaro subì una rivoluzione completa.

Un’invasione di dolciumi siciliani ebbe luogo, che vennero come stormo d’uccelli rapaci a calarsi sulle allettatrici spiagge della città della Sirena. Alla spasa fu sostituito un leggier tavolino portatile, tutto contesto d’assicelle e rcgolelli, sul quale ora il venditore trasporta le sue merci per tutte le strade della città, 1 poggiandolo in terra o all'avvicinarsi di un compratore o nelle piazze più spaziose dove può sperare maggior concorso di monelli golosi.

Al grido che ancor mi sento rimbombar nell'orecchio I zucchere janche, i mele, re calle i o , è succeduto un canto più dolce, più incivilito, che proclama la vendita di leccornie di più grato aspetto. E ai franfellicchi, ai tradizionali franfellicchi che almeno almeno erano un buon lambitivo per la tosse, sapete che si è surrogato?

In primo luogo alcune pasticche che han la forma delle pedine che servono al giuoco della dama, c che hanno fra noi conservalo il nome spagnuolo di, cosperse di alquanti minutissimi confettini di svariati colori; dopo di ciò veggonsi schierati sulla non candida carta che copre il deschetto ambulante dei pezzi di materia zuccherosa imitanti la forma dei sigari in piccolo, non senza un pezzetto di color rosso (che vuol dir fuoco) ad una delle estremità; accanto ad essi vedesi il zucchero prender forme diverse, quando di spirali come le paste siringate, quando di secchie microscopiche, quando di uccelli più piccoli del mellivoro o colibrì, quando di altre bagattelle; non mancano gli antichi franfellicchi, ma quanto, ohimè! quanto mutati da quei di prima: scoloriti, sbiaditi, sbianchiti, scialbi, non sai più se sian di mele o di zucchero, e solo alla forma riquadra e da due lati scanalata puoi esser tentato di dar loro l’antico nome. Ed in mezzo a queste profanazioni vandaliche e saraceniche, in mezzo alla sparizione di un monumento gastronomico degli avi nostri, di un cibo nazionale ed esclusivamente allignante sotto il bel cielo di Partenope, chi riconoscerebbe il vispo lazzarello che scalzo e lacero correva le vie popolose di Napoli? Ora quel tavolino gli è d’inciampo nel corso, gli tarpa le ali che come a Mercurio gli davano agilità ai piedi, lo impedica, l’impastoia, lo tartarughizza, lo intestugina! E a così nuova sciagura come non imporre nuove denominazioni? Ora la cantilena del venditore è tre calle na caramella, no ra quatto caramelle. Grido funebre, più funebre di quel che Rossini fa emettere all’ombra di Nino nella Semiramide; grido ferale, più ferale di quello che il Verdi fa rimbombare intorno allo spodestalo doge di Venezia. Esso annunzia l’avvcnimendelle caramelle e la detronizzazione dei franfellicchi, come nei DucFoscari la campana annunzia coll’elezione del nuovo doge la morte del vecchio.

E pure i franfellicchi ebber l’onore di esser ricordati da Goethe, e questo dovea bastare, quando altre ragioni. pur non militassero in loro favore, per far

sì che questa cotanto boriosa novella. civillh li ri spcllassc:qucsta novella civiltà che cangia i boschetti e i giardini inglesi in vigne e in gelseti, i palagi antichi in locande, le incisioni in litografie, i trattati in manuali, e i franfellicchi in caramelle.

Ma i franfellicchi non periranno. È vero che essi ora vivono di una vita assai peggiore di morte, dimenticati, non riconoscibili, confusi coi loro oppressori, fuggenti dal consorzio dei fanciulli che n’eran ghiotti; ma io leggo nei destini dell’avvenire che sorgerà di mezzo al loro mele un vindice, un restauratore, che li riporrà nel pristino onore, nello splendido seggio di preeminenza in cui li videro i nostri padri, e in cui li vedranno di bel nuovo i tigli nostri per delizia del loro palato.

Nè tarderà molto ad avverarsi il presagio. Già sui deschetti la merce più abbondante sono i franfellicchi; già il loro candore vassi oscurando ed inchinando inverso la giallezza con un colore.

Che non è giallo ancora e il bianco muore.

Se ne veggono pure dei rosei, per desiderio di novità. Tutto predice che la restaurazione avrà effetto, che la controrivoluzione non è lontana.

Intanto le nuove merci hanno introdotto nuovi giuochi. il più comune e il più facile è a pari o caffo: un monello prende una manata di pasticche o d’altro, la copre accuratamente, e domanda: o? Se il venditore indovina, incassa un trecalli e non dà niente; se sbaglia, perde una caramella, un sigaro, un franfellicco o un altro qualunque degli oggetti che vende. Poi le parti s’invertono: il venditore domanda, e l’altro cerca d’apporsi. Ma il fatto sta che i monelli pagano quando perdono e mangiano quando vincono, sicché al far dei conti il borsello, già ben altro che gremito, diviene interamente smunto, né la pancia ne ingrassa gran fatto.

Un’altra volta il giocatore prende una, due, tre o fin quattro pasticche fra le dita della mano a questo modo: stando la mano tesa colla palma volta in giù, si abbassa il medio e riunisconsi l’indice e l’anulare al di sopra; collocansi le pasticche sotto queste due dita congiunte, e si sostengono col medio. In tal posizione cercasi di rompere le pasticche, o battendo la mano sulla coscia, o semplicemente (e questo è il non plus ultra dell’abilità) dondolandoli braccio per aria come per descrivere un semicerchio.

Si giuoca pure a fare un determinato numero di pezzi di una caramella o di un sigaro, lasciando cadere l’oggetto prescelto dall’alto in terra una volta sola.

Ecco due fanciulli scelgono due caramelle, una per ciascheduno, e attenti aspettano che una mosca venga a posarsi su di una di esse e renda vincitore colui che la scelse per sua. Giuoco antichissimo, che Franco Sacchetti nella diciottesima delle sue novelle ricorda fatto colle monete e con sottil malizia da quel Basso della Penna in danno di certi Genovesi arcatori: egli con una pera fracida ungeva il suo bolognino d'argento, e la mosca subitovi si ponea.

Un giuoco de’ più difficili e d'ingegnosa invenzione è il seguente. Scelti due oggetti di simile specie, ciascun giocatore muove il suo verso quello dell'avversario, e si vanno incontro con gran riguardo, come due duellanti alla pistola marchant l'un sur l’autre. Ma qui non vince chi ferisce il primo: al contrario, il primo che vien toccato è il vincitore. Sicché li vedi ora appressarsi, ora andar lontani con giri e conmaestri passi, ora crescere innanzi

Intorniando con girevol guerra

e presentare il fianco scoperto al nemico, e sempre avvicinare di più l'un all’altro e sempre fuggire il contatto, come l’asintoto all’iperbolo, come la linea lissodromica al polo.

Ma questi giuochi novellamente introdotti cesseranno pure quando ritorneranno all'avita onoranza i franfellicchi. Vedremo allora di nuovo correre spediti gli snelli venditori per le vie di Napoli senza mai soffermarsi oziosi; gli udremo ripigliare l’antica cantilena con voce più acuta e penetrante; e quando stanchi dalla via lunga vorranno spacciar più presto la loro residuale mercanzia, assisteremo attoniti spettatori colla bocca aperta, cogli occhi immobili ed intenti e senza trar fiato al giuoco difficilissimo di far giungere in bocca e mangiare senza aiuto delle mani un franfellicco posato sulla fronte e finanche sul cocuzzolo. Già mi pardi vedere un monello più ardilo, coll'arrugar della fronte, coll’inarcar delle ciglia, col batter delle palpebre, col contrarre delle guance, coll'arricciar del naso, col sollevar del labbro superiore, coll’allungarvi sopra l’inferiore, e mettendo in movimento tutti i muscòli della faccia come chi è preso da tic doloroso o da spasmo cinico o da riso sardonico, dopo un quarto d’ora di pazientissima impazienza, tutto grondante di sudore, riuscire ad inghiottirsi un franfellicco ad ufo.

EMMANUELE ROCCO.

IL PULIZZA-STIVALI

Ecco un uomo che presta segnalali servigi alla società, e che con la spazzola e la cassetta tende anch’egli al progresso universale, illustrando particolarmente la parte meccanica e materiale con cui gli uomini camminano.

Ecco un industrioso tutto nostro, tutto napolitano, tutto indigeno. Che la profumata Parigi vanti i suoi dècroiteurs, ei suoi magazzini d'illustrazione, che l'affumicata Londra citi i malinconici suoi Shoe-Blackers, noi proteggeremo i nostri modesti e lepidi pulizza-stivali, a'  quali la Crusca ha il torto di non aver dato un bel nome rotondo e sonoro e di quindici sillabe per Io meno. Ed invero, chi può contrastare al nostro l’impareggiabile modestia del suo mestiero? Allorché tanti saloni si aprono ogni dì pel taglio de’ capelli, allorché da ogni banda sorgono nuovi arricciatori, nuovi profumieri, nuovi cappellari, per abbellire questo emporio di sciocchezze che abbiamo sulle spalle, il pulizza-stivali si limita a farvi rispondere i piedi, questi poveri facchini del corpo umano condannati a far muovere questo ridicolo bipede in paletot che addimandasi uomo.

Innanzi di toccare la fisiologia del pulizza-stivali, parrai elle cada in acconcio il dire qualche cosa su i piedi, troppo ingiustamente trascurali in questo mondo di capi sventati. Dimando un poco, chi ha mai pensato al decoro di questi membri del corpo umano? Bel vantaggio invero ha fatto loro la genia de calzolai! Stringerli, incepparli, imprigionarli in una pelle ingratissima e dura, feconda di martiri e di calli. Eppure soltanto i piedi mettono gli uomini tutti ad un livello sulla terra. I più ricchi e potenti debbono toccare la terra co’ piedi, come i più poveri. Inutilmente cercano i grandi elevarsi con altissime carrozze, nascondendo i loro piedi sotto serici cuscini: eglino non possono vivere sempre in un cocchio; e nel momento in cui smontano, debbono per forza porsi a livello de’ loro domestici. Evviva la democratica indole de’ piedi! Ed il pulizza-stivali ha compresa tutta l'importanza del suo mestiero: egli non si accomuna né co’ grandi, né co’ troppo indigenti; avendo quelli i loro stivali di pelle lucida, ed i secondi non avendo stivali di sorta alcuna. Egli dunque non s’indirizza che semplicemente agli onesti impiegali, a’ professori modesti, agli artisti, a'  commessi, agli studenti, e qualche volta ancora a’ mercanti, a’ maestri di bottega ed agli operai.

Vedetelo; egli conta l’età del Dante quando si trovò nella selva oscura; con la dritta mano tiene la coreggia nera che sostiene la sua cassetta, e nella sinistra la spazzola da’ crini duri. Calzoni di tela di Castellammare a larghi quadrati, una camicia che ha per isparato una fascia di peli neri che gli crescono sul petto, ed un cappello tutto logoro che ricorda tre generazioni, formano la toletta di questo industrioso.  Egli sta all’angolo di un caffè, di cui gli avventori sono quasi tutti suoi abbonati a tre carlini al mese, con mezza paga anticipala; e sta quivi dalle sei del mattino fino alle otto della sera, non lasciando il suo posto che a mezzogiorno, per andare nella più contigua cantina a prendere un piccolo rifocillamento. Ordinariamente ogni caffè ha due pulizza-stivali privilegiati; sicché questi due individui possono dirsi aggiunti allo sfaccendato, al gazzettiere e allo spione, questi tre esseri che vivono soltanto nell’atmosfera vaporosa de’ caffè.

Quando scocca l’ora del mezzogiorno, uno de’ due compagni pulizza stivali affida all’altro la sua cassetta, la figlia sua cara, il suo capitale, la sua vita; ed il compagno la pone d’accanto alla propria, come due sorelle. Questo attestato di amicizia e di fiducia è contraccambiato con pari confidenza in altra congiuntura, cioè quando l’officioso compagno si assenta una mezz’ora per adempire a qualche straordinaria commissione, come per portare una lettera, un’ambasciata, un fardello, od altre simili cose. E qui debbesi avvertire, ad onore di quest’onesto uomo, che egli non s’impaccia mai di sapere se l’individuo a cui è diretta una lettera appartenga al sesso nobile o al bel sesso; soltanto se la commissione è per donna, egli spiega nell’adempimento del suo dovere tale e tanta discrezione ed abilità, che portiamo avviso niuno meglio di lui riuscire in queste dilicate faccende..

Talvolta tra due pulizza stivali di un medesimo caffè si stabilisce un’associazione d’interessi; per modo che pongono in comune i loro lucri, e dividonseli la sera. Allora stanno essi impalati alle porte del caffè, o seduti sulle loro cassette, senza darsi minimamente l’incomodo di fare udire la loro parola d’ordine, l’eterno pulizzamm pulimm; dappoiché niuno di loro due vorrebbe faticare a profitto del compagno.

Quando il pulizza stivali si accinge all’opera, egli s’impadronisce del vostro piede, il pone bellamente sullo zoccolo di legno rialzato sulla sua cassetta, lo accarezza dapprima e ne toglie il fango o la polvere, lo unge con un poco della sua mistura, e poscia si pone al lavoro dello strofinio. Terminalo di pulire un piede, egli dà un colpo di spazzola sulla cassetta, e vi comanda così tacitamente di adagiar sullo zoccolo l’altro piede per procedere ad una simigliante operazione, per compenso della quale riceve il modico e umilissimo prezzo di un grano, lucrato veramente col sudore della fronte. Beati tempi d’una volta, quando al pulizza stivali non si dava meno di due grana, e quando da tutti portavansi gli stivali a gambe, per la lustratura de'  quali si pagavano almeno cinque grana. Ora nissuno porta più gli stivali a gambe, se togli qualche inglese, il quale d’altra parte ha per sistema di andar sempre con gli stivali sporchi. Non so invero perché di presente il pulizza stivali non debbasi chiamare pulizza scarpe.

Il giorno avventurato del pulizza stivali è la domenica o qualunque altro giorno festivo. In questo dì egli va in casa de'  suoi abbonati della sola domenica, e poscia messosi al cantone della strada gli piovono addosso avventori a diluvio, ché anche i più guitti e laceri vogliono portare le scarpe lustre. In questo giorno odesi in tutti i vicoli e vicoletti della capitale la sua voce bassa e sonora che va gridando polimm politore Parigi.

Tra gli altri impieghi che il pulizza stivali intraprende, oltre al suo mestiero, è quello di andar spacciando biglietti di teatro al tanto per cento. E non credete ch’egli sia del tutto estraneo a’ misteri teatrali;dappoiché quando le ombre della sera cadono sulla terra e sulle scarpe, il nostro uomo non resta ozioso, ma si caccia animoso sulle tavole di un proscenio per figurare da comparsa. Voi lo distinguerete di leggieri in mezzo a'  suoi compagni;dappoiché egli tien per assuefazione gli occhi sempre abbassati su i piedi degli altri; e poi... le sue mani sono là per tradirlo!.. Questo uomo che pone tanta cura per far belli i piedi, ha poi tanta negligenza per le mani. Il pulizza stivali che non fa da comparsa lava le sue mani due volte all’anno, la pasqua ed il natale.

Il pulizza stivali è piuttosto di umor bizzarro ed allegro, come tutti questi industriosi che fanno molti mestieri. Se, mentre che vi lustra le scarpe, voi l’onorate d’una parola, egli non mancherà di narrarvi un fattarello, o troverà a locare un mottetto. Vi sono non però de’ giorni, in cui egli è malinconico, i giorni piovosi. Allora ei fissa tristamente i suoi occhi su i piedi de’ passanti, e sul fango della strada, senza gridare ché troppo bene egli sa che la sua opera tornerebbe inutile: lo incontrerete però seduto sotto la volta di un palazzo, con la cassetta innanzi a lui, e sovente il vedrete addormentato. Oh! che cosa saranno mai i sogni di un pulizza stivali! Come la sua fantasia debbe veder tutto in lucido, o tutto in nero!

Nel nostro secolo però è sorto un terribile nemico al pulizza stivali, un nemico che gli dichiara incessantemente aspra guerra, ed il quale egli affronta mai sempre con coraggio e con perseveranza; questo nemico che attenta crudelmente a’ suoi giorni, è la Vernice. A dispetto degli sforzi riuniti di tutt’i pulizza stivali per iscreditare questa barbara invenzione, la vernice minaccia l’invasione de’ piedi, come già ha invaso le sale e i magazzini. Nè credete che la vernice sia destinata a covrire soltanto le scarpe aristocratiche, perché, al contrario, essa giova mirabilmente a nascondere le ferite delle scarpe di qualche lion al ribasso, o di qualche impiegammo a sei ducati al mese. La ricetta è bella e trovata. — Calzate la scarpa ferita, ed applicate sulla crepatura un empiastro di vernice che passi fin sulla calzetta; sfido chiunque ad accorgersi dell’apertura.

II nostro secolo può ben dimandarsi secolo inverniciato, né più adatto aggiunto gli potrebbe guari convenire. Tanto è l’orrore che questo nome di vernice ha destato nella classe de'  pulizza stivali; che una sola volta eglino sonosi ricusati a spacciar biglietti di teatro, e ciò è accaduto quando al Teatro Fiorentini si è data la Vernice del signor Duca di Ventignano.

FRANCESCO MASTRIANI.

 

IL TROVA-SIGARI

«Se non posso trovar niente

Perché faccio il trovatore?»

Quando le voci ed i rumori d'una sera tumultuosa di Napoli incominciano a diminuire, e la notte, a grado a grado inoltratasi, inviluppa la città nelle sue tenebre e nei suoi silenzi, sbucano non si sa donde degli esseri misteriosi che, ad uno ad uno, col viso basso e gli occhi al suolo, come)tanti congiurati da melodramma, si vanno strisciando lungo le mura delle principali vie di Napoli, facendo oscillare con getti d’ombra fantastica una piccola lanterna, che, accomandata per un cordino al loro indice, va quasi rasentando il suolo.

Nulla di più innocente di questi esseri che si annunziano con apparenze così sinistre; essi appartengono a quella schiara indefinita di monelli industriosi che esercitano uno de’ mille piccoli, anzi minimi mestieri napolitani. Se non che, più ricchi de’ loro compagni che non posseggono alcun capitale, salvo il fisico, questi almeno elevano il loro ano a dieci soldi, valore della lanterna, e del cestino, che, quando si, quando no, portano al manco braccio infilzato, e la massima loro perdita all'olio che alimenta quella lucerna.

Si è voluto — non sappiam perché — dare la pomposa nomenclatura di trova sigari a questi poveri diavoli, senza considerare che spesso cercano senza trovare, e che quand’anche trovano, non trovano mai sigari, sibbene qualche mozzicone più o meno invisibile, a seconda dell’avarizia o della lunghezza dei baffi di chi lo gettava. Oh sì! avrebbero ben provveduto alla propria esistenza, se volessero spendere le ore della notte ed il lume della loro lucerna «oleum et somnum» a cercar sigari! Oltredicché sarebbero assai impacciati, non essendo muniti di polizza di privilegio, nello smaltire questa merce cosi detta d’eccezione.

Quegli adunque che va cercando, con maggiore o minor probabilità di trovarne, i resti dei sigari fumati, è il personaggio che si decora col nome di trova sigari.

Vedete dove va a nidiare l’albagia dei titoli!

Ed ora che abbiamo convenevolmente ristabilito il nome, passiamo all’individuo.

Il trova sigari non esercita soltanto questo mestiere; ne ha altri sei o sette dello stesso calibro, che fa seguire l’un l’altro secondo le ore del giorno. Esso è successivamente portatore dei commestibili e delle provvigioni fatte dai cuochi:banditore e venditore delle canzoncine che ad un soldo l’una spacciano i Béranger napolitani: cercatore di cenci e ritagli, il che è l’alunnato necessario in ogni specie di professione, e col quale egli aspira un giorno ad elevarsi all’ambita dignità di saponaro; echi sa, chi sa se il foglio che noi stiamo scrivendo, o quello che voi state leggendo non discende per lato paterno dai cenci raccolti dal nostro povero trovatore, affidati alle caldaie del signor Lefebvre, e passali per le mani delle belle fanciulle di Sora. — Dopo la pioggia dassi a scandagliar le fossette che sulle vie vedete tra le commessure delle selci scantonate, per pescarci i chiodarelli o altro tale tolto dallo strascico alle ciabatte dei mulattieri e dei cittadini, e che la china dei torrentelli vi aveva sepolto. Passionato sempremai pel suo uffizio dell’assiduo cercare, quando non ha di peggio a fare, va cercando i cani smarriti, pei quali ha tale un istinto, che si direbbe essere esso pei cani quel che i cani del San Bernardo sono per l’uomo. —Finalmente a sera avanzata eccolo alla lanternina — questa fida compagna delle sue miserie e dei suoi lucri —a raccattar gli avanzi dei fumatori.

Il trova sigari ha la carta topografica, direm quasi geografica, del suo impero. La lunga striscia che dal Mercatello va alla Reggia, e quella che dal Molo mena tortuosamente alla Villa a Chiaia sono le sue strade postali, segnate sugli atlanti con una doppia linea continua; gli spiazzi che sono innanzi alle botteghe da caffè, sono i capi luoghi; quello che dal Caffè d’Europa si estende sino al teatro S. Carlo, è la città capitale. Egli adunque batte a passo proporzionato di posta la via regia, si sofferma con maggiore o minor successo nei capiluoghi, come il mercatante o il commesso di negozio che viaggia pei propri traffichi, e finisce per far centro della sua massima speculazione la città capitale. Qui egli è quasi sicuro di raccattare merce d'Avana, laddove negli altri luoghi non ispera che foglie indigene; giova dire che il trova sigari non ispinge così oltre l’amor patrio da preferir queste ultime;egli è per questo verso d’una straniomania oltraggiarne!...

Tra i cento istinti che ha il piccolo trova sigari, ha quello principalmente d'indovinar dall’aspetto l’avarizia o la magnificenza del fumatore; egli antivede, e vi potrebbe dire senza sbagliar d'una linea a qual punto il fumatore getterà il resto de) suo sigaro.

I più avidi cumulano due professioni, come coloro che esercitano medicina e chirurgia; e sono quelli che portano il cestino al braccio: essi raccattano ad un tempo rimasugli di sigari e cenci. «Deficiente uno non deficit alter». I più coraggiosi si soffermano innanzi alle invetriate d:una bottega da caffè, e di là, come gli astronomi seguono il corso degli astri, van seguendo con l’occhio la lenta combustione dei vari sigari che bruciano tra le labbra degli avventori, e ne agognano, ne affrettano coi voti l’immatura fine. Non così tosto il fumatore lascia cadérsi sdegnosamente o negligentemente quel pollice di foglia avvoltolata che già gli ardeva le labbra, il monello aspetta il primo che esca o che entri, non osando schiudere quel recinto a lui vietato, si fa piccin piccino, si ficca velocemente dentro, toglie la preda, e fugge via. Busca talora in questa sortita uno scappellotto dal garzon di bottega, ma dove mai fu guadagno senza rischio?... Chiedetene alla gente che patì assedio.

Consumato che è il soldo d’olio della serata, egli spegne la sua lanterna, come il Figaro di Rossini, e per non perdere gli ultimi momenti della sua ritirata, presceglie quello che gli sembra il più generoso tra i fumatori, e ch’ei sa dover battere la stessa sua via; gli cammina dappresso, a rispettosa distanza, e se ha il viso duro, il che non è raro, gli chiede il sigaro benché bruciato men della metà; se poi è moderato cammina sempre, ed aspetta.

Talvolta il sospettoso che vede un monello tenergli dietro cosi assiduamente, dopo essersi mulinato il cervello credendolo successivamente, spia di ladri, o ladruncolo, spia di sua moglie, della sua amica, o spia bell’e buona, si rivolge bruscamente e gli dice con una voce burbera: — Che fai tu Ih? Cammina avanti.

— Eccellenza, — risponde allora il monello con quella espressione tutta propria tra l’allegro e l’umile— aspetto che abbiate finito il sigarro.

Ed il sospettoso a mandarlo al diavolo, racquetando la lesa coscienza.

Questo seguir le tracce del fumatore in attenzione del suo mezzo sigaro è fatto più volte e con maggior profitto quando costui invece di ridursi a casa, trae a S. Carlo. È colà che la messe del piccolo trovatore è più sicura, più abbondevole, e soprattutto più ricca, perché a qualunque punto siasi giunto del sigaro, quand’è l’ora d’entrare, lo si getta, e si entra.

Sorto il nuovo dì, la merce raccolta alla spicciolata, è venduta con la stessa importanza con la quale il trafficante s’occupa a vendere i suoi carichi d’oli o di granaglie.

Innanzi al teatro del Fondo, su piccoli fogli di carta, spiegati al sole come la ricchezza degli estremamente ricchi... o degli estremamente poveri, avrete potuto vedere dei monticelli di pezzi di sigari, o serbanti la lor forma cono-cilindrica, o svolti e ritornati allo stato primitivo di foglie, novelli papiri! Quello è il fondaco, il deposito, il grand’emporio dei sigari a prova. Chi ne fa compera va sicuro di non essere ingannato; ei consegue quell’utopia che mal potrebbe adattarsi al matrimonio: è sicuro della riuscita della cosa che acquista. Tutti gli altri fumatori comperano i sigari alla cieca, come si prende un marito o una moglie, senz’antivederne la riuscita. Chi li compra ad un per volta, cerca, è vero, di guardare e d’assicurarsi se il sigaro è in buono stato, se non ha crepacce o altro, ma dopo tutta questa visita superficiale, è egli sicuro del suo acquisto? Quante volte non è stato costretto a gettar via il sigaro impossibile!...

Una sposa o uno sposo sarà sicuro che la sua metà non è gobba, orba, né rattratta, ma può giurare sulla indole di essa? Quanti non si separarono per assoluta opposizione d’indole!...

Il cavallo si prende a prova, lo schioppo, l’oriuolo, il cocomero, ec. ma nessuna di queste cose dà tanta sicurezza all’acquirente come i sigari del ' teatro del Fondo. Là giurate che essi son atti al fumo, perché hanno già dato pruova del loro valore.

Strana coincidenza! I sigari che cadono innanzi al teatro di S. Carlo, si espongono in vendita innanzi a quello del Fondo. Quante volle avvien lo stesso delle opere! Quelle cadute a S. Carlo ci si fanno sorbire al Fondo!

Vanno poi colà:

I fumatori che hanno bocca incallita e bisogno del fumo acre e pungente dei sigari già fumati. In questo caso quei mozziconi vengono triturati in una pipa di argilla cotta, o fumati alla buona cosi come sono, finché il novello fumatore non sente l’odore dell’arrosto del proprio labbro:

I marinai che godono in masticare le foglie del tabacco... Ognuno ha i suoi gusti, voi forse preferirete masticar zuccherini:

I soldati finalmente che si servono del succo di quella stucchevole foglia per lustrare l’ottone dell’arme... né diremo oltre, perché quando accettammo il carico di far da Plutarchi di questi uomini illustri del popolo, non rinunziammo alla debolezza della nausea che poteva produrci un troppo immediato contatto cogli usi meno puliti del popolaccio.

Su questo spaccio di tabacchi non è dritto, né privilegio, la tassa è già pagata; il negoziante riposa sulla salvaguardia della legge.

E ciò per la merce.

V’hanno poi — e dove non sono? — i guastamestieri di questi mestieri infinitesimali. I cocchieri da nolo ne sono i veri tirannotti: fermi innanzi alle botteghe da caffè per aspettare o cercarvi i passeggini, chieggono loro soventi il sigaro che il trovatore messo A in sentinella aspettava con maggior dritto; talvolta poi lo veggono buttar via, e senza scender di predella, (un buon cocchiere da nolo non ne scende mai, si rompesse pur l’osso del collo il suo cavallo; scendono gli altri) senza calar dunque, fa cenno al suo garzone con la punta dello scudiscio di raccogliere quel tesoretto, con la stessa dignità con la quale un re dei mezzi tempi dal suo trono avrebbe accennalo con lo scettro ad un gran siniscalco.

Ed ecco una preda tolta al povero fanciullo, che per altro se ne ripaga, il più delle volte saltando dietro alla carrozza e facendosi portar gratis, finché lo scudiscio del cocchiere non pone un termine alla rappresaglia.

Talora il conquisto, o piuttosto l’usurpazione è più contrastata: il monello trovatore ed il monello cocchiere s’agghermigliano a vicenda, la baruffa si riscalda, le fazioni s’afforzano, la lotta divien pugna, ed intanto dei due litiganti godono gli spettatori per la baruffa, ed il terzo pel contrastato bersagliere.

(Non si può trascurare la spiegazione di questa parola che nel dizionario popolare suona pezzo di sigaro molto corto, e ciò dalle schiere di questo nome chiamate oggidì cacciatori, nelle cui file sono ammessi uomini piccoli della persona. A questa nomenclatura s’oppone l’altra di granatieri, rara fortuna del povero trova sigari).

Aggiungeremo alla nostra breve fisiologia, che questa piccola casta d'industriosi è talvolta più utile di quanto si crede; perocché raunatisi al dimani in congrega i vari individui di essa, si raccontano l’uno all’altro le loro buone fortune; e siccome a furia di cercar sempre e di aver l’occhio assiduamente esercitato all’invenzione, si giunge pur delle volte a trovaroggetti di qualche valore, come a dire il pendente d’un orecchino, il pomo d’un bastoncello, il bottoncino d’una camicia, lo spillo d’una cravatta che il laccio della lente elevata bruscamente all’occhio afferra e fa saltar via, senza che il miope se ne avvegga, e tante altre coserelle simili, così non vi sarò sempre inutile il dirigervi a qualcheduno di questi trovatorelli, e dimandarne; che se non è lui che ha rinvenuto l’oggetto smarrito, potrò mercé una ricompensa, dirvi quale dei suoi colleghi è stato il fortunato. Con ciò intenderete di leggieri, che vi sarò più facile, sempre mediante quella giusta ricompensa, ottenere oggetti cosi detti di affezione, che di valore.

Per asserir ciò, chi scrive queste poche pagine ha delle ragioni valevoli, e non essendo contaminato dall’egoismo, gode di dare questo consiglio. Il quale gli fa ricordare d’una di quelle avventure che potrebbero estendersi con qualche successo sotto la penna d’un felice novelliere, ma che egli è obbligato di raccontar qui alla buona, e senza il menomo orpello.

É la storia d’uno di questi trovatori, che, non per far giuoco di parole, ma perché sventuratamente così il credevano, era anche un trovatello. Era un bel fanciullino, come oggi è un bel giovine, onore e decoro della sua famiglia, e lo chiamavano per soprannome il perché aveva i capelli d’un biondo forse troppo ardente: oggi li ha assai più soffribili. Questo bel fanciullo—perché era bello come una pesca — a simiglianza di molti dei suoi colleghi di mestiere non aveva letto né tetto «ni feu ni lieu» e viveva di solo pane, contro il sacro dettato, quando non recava la sera il suo bastevole tributo di punte di sigari; di pane e legumi quando era più fortunato.

Un cenciaiuolo ch’egli s’era avvezzo a chiamar zio, amministrava il ciel sa come! la rendita giornaliera del piccolo fanciullo, che il giorno era occupato continuamente a sceverar i cenci nel fondo d’un fondo di bottega in un vicolo perduto di Napoli vecchia, e la sera, come i pipistrelli, ne usciva, togliendo seco il lanternino.

E lo chiamavano il Rosso non pure pel colore dei suoi capelli, ma perché sarebbero stati impacciati così il cenciaiuolo, come gli altri del rione a dare un nome a lui che non ne aveva alcuno, raccolto com’era stato sulla via di Roma da un vetturale, quando appena usciva dalla prima infanzia, e lascialo in Napoli a quel suo compare, il cenciaiuolo o saponaro, che pensò farsene un garzone a buon mercato.

Si credette nel vicinato che egli avesse tolto quel figlio a la Madonna, allo stabilimento cioè dei trovatelli, e siccome quest’uso è comune nei buoni napolitani, nessuno ci pensò la seconda volta, e tutti trovarono più facile e più commodo di chiamarlo il Rosso, che di chieder del suo nome.

Una sera il Rosso era uscito colla sua lanterna e col paniere per la duplice cerca di avanzi di sigari e di cenci. Guidato dal suo passo, e più da quattro o cinque giovani che accesi i loro sigari al negozio di quelli di Avana alla piazza di S. Ferdinando scendevano verso Chiaia, venne con essi sin presso alla Villa; là raccolse un dopo l’altro i quattro o cinque mozziconi gettati via, e cogli altri già raccolti gli parve aver buscata la sua serata. Smorzata perciò la lanterna pensò di camminare un po’ per proprio conto, e darsi spasso. Vide di lontano le finestre d'un bel palazzo schiarate perfettamente, ed una quantità di carrozze fermate innanzi alla porta. Più ch’ei s’accostava, sentiva venire a sé sul vento le ondate d’una musica lieta ed a cadenza, sinché giunto a rincontro delle finestre ebbe a rimaner estatico per lo splendore dei ceri e dei candelabri, e per lo spettacolo di magnificenza che in iscorcio poteva intravedere sugli specchi dell’opposta parete.

Egli guardò, guardò lungamente lungamente; aspirava quella voluttà per tutti i pori — ed una specie di tristezza s’impadronì di lui.

Quando gli occhi si furono stancati, e che non ebbero più sguardi, ebbero lagrime: —il povero fanciullo si mise a piangere.

Quando gli occhi non ebbero più lagrime, si chiusero: — quella buona creatura s’addormentò.

Meglio così! aveva veduto troppo lusso rimpetto a troppa miseria, aveva paragonato quella splendidissima magione coll’angolo fuligginoso nel quale egli svolgeva i nauseosi cenci, e quel brio e quella musica coi gemiti che la fame così spesso gli traeva dal petto: aveva pensato che non aveva una madre che gli fosse stata amorosa d’un sorriso... Aveva disperato insomma, ed aveva pianto...

Il romore delle carrozze, che andavano via, il destò; egli si accorse d'essere stato fuori cosi oltre nella notte; e temè forte non ne avesse le busse; scese dal parapetto della inferriata della Villa, e per giustificare la sua sì prolungata assenza cercò di buscar qualche moneta. La vista del danaro avrebbe, a suo pensiere, rabbonata la collera dello zio. Si accosta però alla porta, rasente ad un magnifico sterzo, nel momento che una bellissima donna, avvolta nei suoi veli rosei, come una nube al tramonto, saltava nella carrozza, guardando appena il fanciullo che a quella bella apparizione, aveva creduto essere appiè d’una creatura celeste, ed era rimasto con la mano stesa senza profferir la parola che chiede la cantò.

Se non che nell’ascendere che fe colei sulla staffa della carrozza, urtò col braccio a qualche angolo dello sportello, e fece cadere a terra non so che di lucido, così impercettibile, che ella stessa non se ne avvide.

Ben se ne avvide il Rosso, il quale non aveva distaccato l’occhio da quella apparizione; e chinatosi cercò, e raccolse quell'oggetto, ma quando voleva porgerlo alla dama, il legno era sparito. Corse appresso, finché l'amabilità del cocchiere ne lo impedì! Guardò sotto d’un fanale ciò che aveva tolto di terra, e vide uno smaniglio di capelli con un brevissimo fermaglio d’oro, il quale si era anche rotto nell’urlo che l’aveva sprigionato dal braccio della dama; sei ripose in petto, e si ridusse a casa a passo studiato. — Non vi dirò dei rabbuffi dello zio.

Due giorni dopo leggevasi perle cantonate il seguente

AVVISO

La sera del 7 novembre si è perduto vicino al palazzo S*** a Chiaia un piccolo braccialetto di capelli, di niun prezzo per esso stesso, ma di qualche valore d’affezione per chi lo ha perduto. La persona che lo ha trovato, e lo recherà alla Contessa G*** nel palazzo dello stesso nome ne avrà in premio dieci piastre.

La signora così poteva esser quasi certa di riavere il suo smaniglio; e diciamo quasi, perché il numero della gente analfabeta sventuratamente non è scarso.

Il povero Bosso per esempio non sapeva leggere; e da altra parie credendo non fare il più vergognoso e dannevole furto del mondo, ritenendo quell’oggetto dopo aver corso cosi a lungo dietro alla carrozza per avvisarne la perditrice, non ebbe premura d’andarlo a depositare presso alcuno del palazzo, onde ella era uscita... e ciò anche per una ragione tutta sua particolare, che or ora spiegheremo.

Vi fu intanto chi disse alla dama, come testé vi dicevamo noi, di far domandare a taluni di questi trova sigari, perocché Io indagini forse non sarebbero tornate vane; e cosi avvenne. —Si cercò, si spiò, tanti di questi monelli furono interrogati, che il Rosso vi capitò anch’esso; ma il fanciullo non volle consegnare lo smaniglio a chi gliene richiese; diffidò—ahi! la sventura fa diffidente fin l’innocenza — e protestò che non avrebbe rimesso lo smaniglio che alle mani della signora stessa che l’aveva perduto, poiché egli l'avrebbe riconosciuta perfettamente. Fu sospettato ladro, e s’intese manifestare il crudele sospetto, ma ripeté sempre, che laddove avesse parlato con la dama, avrebbe data prova incontestabile della propria innocenza. Il mezzo vi domandiamo noi di non condurlo a lei.

Ed ecco il fiosso introdotto nelle splendide stanze della ricca patrizia. L’uomo che l’introdusse, gli fe attraversare molte stanze, e giunti ad una più vasta, andò a picchiare alla porta d’ un piccolo salotto in un angolo del quale la signora era occupata nella sua lettura. Intanto il fanciullo fissò il primo suo sguardo ad un dipinto che in ricchissima cornice pompadour pendeva dalla parete; era uno dei così detti quadri di famiglia, dovuto al pennello del Camuccini. Una bellissima donna, dai capagli come quelli che il Tasso diè alla sua Erminia, avente un puttino sulle ginocchia, e gli faceva salutare un uomo di fisionomia triste e severa ad un tempo, che era in piedi curvo sulla spalliera del seggiolone di quella donna. Il fanciullo non tardò un momento a riconoscere in quella bella madre l’apparizione di qualche notte innanzi. E quando la porta del salotto s'aprì nuovamente, e la dama nella sua impazienza si slanciò ella stessa a ricevere lo smaniglio dal fanciullo, sorprese quest’ultimo con le mani pressoché sporte verso quel dipinto in contemplarlo con un'avidità infantile.

—Il mio smaniglio, il mio smaniglio! sciamò la dama, date su presto; e per la prima volta il piccolo povero della via vide la bella ed aristocratica mano di una contessa stendersi innanzi a lui, che tante volte aveva tesa invano la sua.

Il fanciullo mentre toglieva la cartolina dal petto, e l’oggetto dalla cariolina — eccolo! — disse, guardando sempre quella bella mano cosi candida e così affilala, e ve lo posò rispettosamente.

Oh sì! eccolo, disse la dama, e nello stesso tempo senza il disgusto che il contatto di quell’oggetto coi luridi cenci d’un poverello poteva eccitare, portò vivamente i capelli dello smaniglio alle labbra; dopo di che disse: — sta bene, date la mercede promessa a questo ragazzo, e mandatelo via.

Neppure uno sguardo di ringraziamento, neppure un benevolo sorriso al fanciullo! Coi né il più piccolo favore della fortuna ci fa ingrati! L’uomo che aveva accompagnato il trova sigari fece osservare sotto voce alla contessa che quest’ultimo nulla sapeva dell’affisso e della promessa, laonde ella poteva essere molto men prodiga con lui. Il cielo scansi sempre i poveri dai consiglieri dei ricchi!.

Ed il Rosso con la curiosità comune a tutt’i fanciulli rimase là contemplando ingenuamente la rassomiglianza estrema del ritratto e dell’originale.

Ebbene, rispose sbadatamente la dama al suo consigliere, fate quel che credete.

Da altra parte, riprese il primo, chi ci assicura che questo fanciullo non l'abbia rubato?., e squadrando con disprezzo il Rosso: — Come dunque avete trovalo questo braccialetto? gli chiese bruscamente.

Venerdì sera, rispose il fanciullo rivolgendosi alla dama, V. E. saliva in carrozza, io era là che chiedeva la carità; il vostro braccio urlò allo sportello della carrozza, e ruppe il fermaglio del braccialetto; io lo vidi cadere, lo cercai, lo raccolsi, e quando voleva renderlo, la carrozza già si allontanava; corsi appresso, ma una scudisciata del vostro cocchiere mi venne sul volto, e mi fe desistere dalla mia idea.

Povero ragazzo! esclamò la Contessa alquanto commossa da quest’ingenuo dire, e più dalla dolcissima voce del bambino — dategli, dategli la sua mercede.

E perché non veniste a portarlo il domani al portinaio del palazzo S#? disse il prelodato consigliere.

Non n’ebbi il tempo... esclamò arrossendo il fanciullo; e poi... vedete... destatomi alla dimane, trovai che il colore dei capelli dello smaniglio somigliava qualche poco a quello dei miei, ed annoiato che m’avessero a chiamar sempre il Rosso senz’altro nome, voleva mostrare ai miei compagni che i Signori fanno tanto conto di questo color di capelli, da adornarsene invece di gioielli.

Infatto, rispose la Contessa, sorridendo, ha ragione; — e dopo quel sorriso divenne pensosa pensosa.

E qual è il tuo vero nome, giacché quello di Rosso ti dispiace tanto? ella soggiunse.

Non ne ho altro, sono e sarò sempre il Rosso.

Come non ne hai altro? non sei stato battezzato? Credo di si, mio zio, cioè quell’uomo che mi tiene con sé, mi ha tolto alla Madonna, benché... benché...

Continua...

—Debbo dirla?... benché un giorno, nel vino, mi avesse detto che se non mi fossi corretto (per correggermi intendeva se non gli avessi portato un maggior numero di mozziconi di sigari) mi avrebbe ritornato a quel vetturale, dal quale sarei stato nuovamente gettato sulla via di Roma.

La Contessa a questo dire si fe’ di bragia e di gelo, guardò il fanciullo, guardò il dipinto, si confuse, domandò finalmente con voce affannosa: — E qual è la tua età? Dicono dieci anni.

Dieci anni! da quanto tempo sei con cotesto tuo zio? Ih! da sette otto anni...

Che sia possibile! No, aspettate, dal Carnevale del 1830; me lo ricordo, perché mio zio quand’ è in collera con me, bestemmia sempre Roma e il Carnevale del 30.

A questa parola la dama che s’era a stento retta in piedi, richiamando a sua guardia tutta quell’energia, di cui a si alto grado son dotate le madri, si precipitò sul fanciullo, gli strappò, gli lacerò anzi i panni addosso, come se avesse voluto sbranarlo, e vedendo uno di quei cento segni, impercettibili a tutti forse fuorché ad una madre, che ha in memoria fino un capello del suo figliuolo, trovò certo un neo, una voglia, una margine, che so io, diè un grido, e sollevando di terra il fanciullo, lo strinse convulsivamente fra le braccia, e lo copri di lunghissimi baci.

Dopo averlo quasi soffogato tra i suoi amplessi, potè dire:— Alfredo, Alfredo mio! e poi cedendo all’emozione, ed alla piena delle lagrime che non poterono in copia sgorgare dagli occhi, cadde per un momento priva di sensi. L’uomo che aveva condotto il Rosso tirò il laccio d’un campanello.

Il fanciullo rispose baci per baci, e quando la madre aprì gli occhi e gli parlò, disse ingenuamente:!

Quel bambino dunque dipinto Ih era io?

Si, tu, tu! figlio, figlio mio!...

Com’ero bello! E, dite, quel signore è mio padre?

Ahimè! È stato tuo padre, disse la madre malinconicamente!

Vale a dire ch'è in cielo, rispose il fanciullo, scuotendo il capo con amarezza. E dopo un momento di silenzio soggiunse: — Capperi! se ho fatto bene a non aver voluto consegnare lo smaniglio che a V. E.

V. E.! che dici tu? io sono tua madre! non chiamarmi che così!

E vero, è vero, V. E. permetterà dunque di chiamarvi mamma al figlio di V. E.

Se non fossero qui pagine di costumi, ma di narranze, diremmo del modo della sparizione del fanciullo nel trambusto d’un carnevale, del vetturale, ec. ec. e dei vari episodi di questo fatto; ma invece dobbiamo lasciarlo al leggitore, e contentarci di dire, che quel giorno stesso, chiamalo il così detto zio, e tutto verificato, il piccolo popolano riprese il suo posto di patrizio.

Ed ora debbo scusarmi con chi legge se ho fatto seguire alla fisiologia del trova sigari questa breve e nuda storia... Ma che si vuole! Era così arido l'argomento che pel primo mi era stato indicato, che dal bel principio

Perdetti la speranza dell'altezza

come dice il Poeta. Invero d’un ometto che non ha per tutto suo bene che qualche cenci addosso ed una lanterna in mano, che potrebbesi dire? Che è un trova sigari e tutto sarebbe finito... salvo che non fosse Diogene! Ma Diogene non raggiunse il suo scopo, ripetendo sempre hominem quero non seppe trovar un uomo; ed il nostro ometto dopo i cenci, i sigari, lo smaniglio, seppe trovar una donna... e qual donna! quella che Iddio non concede che una volta sola, come la vita.

ACHILLE DE LAUZIÈRES.

IL CANTASTORIE

Sarebbe Napoli una città d'incanto, se non vi s'incontrasse una folla di plebei, che ànno aria di ribaldi e di malandrini, senza esser sovente né l'uno, né l’altro.

CLEMENTE XIV.

Il nome di Rinaldo di Montalbano ha lasciato nella città della Sirena, più che altrove, tale di se un’eco di celebrità, da farsi ricordar dal popolo meglio oggidì che ai tempi della stessa cavalleria.

Il signor di Montalbano è un personaggio caro a gran parte della plebe napolitana, e guai a chiunque s’attenti di menomarne il rispetto e portar onta a quel glorioso nome. Gli amici ed ammiratori di Rinaldo sono detti con patetica voce appassionati. Nevighi o faccia sereno, essi stan sempre là, intorno al loro cantore, che sebbene non s’appartenga alla classe del popolo, pur nondimeno è dal popolo tenuto in concetto di sapiente, ed amalo come persona uscita fuor dalla coppaia delle famiglie popolane.

Campo a quel canto era non ha guari il Molo, lingua di terra ove s’adunavano in varie fogge lazzari, facchini, marinai, bagattellai, ciurmadori, venditori di frutta ed altra gente del popolo. Era quello allora uno de'  luoghi di popolare diporto ed era non bello, ma curioso e forse dilettevole il vederlo gremito di monelli sudicie scalzi che sì raccoglievano a bocca aperta attorno ad un teatrino ambulante o presso un cerretano che dava numeri certi, di lato alle panche di cocomeri ed aranci che fiancheggiavano la via. Si mescevano alla folla pochi di quelli che il pubblico, dall’abito, chiama galantuomini, e qualche straniero che ristava appo una colonnetta affisando i volti che più sentivano del Pulcinella, e mirando ai lazzi de’ lazzari, de’ quali i sedicenti stranieri scrittori fecero principale argomento nelle descrittive opere loro.

Allora quella lingua di terra non era che male ed interrottamente selciata, e d’ambo i lati, al posto delle colonnette di piperno, si vedevano alcuni vecchi cannoni capovolti, cioè con la bocca in giù, messi a quell'uso entro al terreno, più lungi sulla manca una casetta di ricovero per pochi soldati ed una piccola fontana. Era grazioso allora mirar da una parte certi avanzi di antiche galee, simulacri di guerra, è parecchi altri legni di goffe apparenze, con rozzo gravame d’alberi e scarso giuoco di vele, le cui polene, dal petto in fuori, presentavan sempre qualche cosa di forma pesante, e le alte poppe frastagliate e rabescate con mille ghirighori e fantasie di delfini e maschere e fiori, che allora facevano l’incantesimo degli uomini come oggi lo sarebbero de’ fanciulli.

Sotto al faro che decorava l’estremità di questa lingua di terra, tenea tribuna il più famoso de’ cantori delle imprese di Rinaldo il paladino, l’Ariosto del nostro popolo, che sapeva con voce limpida e chiara e con adeguale movenze, tutta chiamare a se l'attenzione di ben dugento appassionali, ai quali dopo aver letto due q tre ottave del poema, con l’enfasi di rito, prendeva a spiegare con modi e voci di nazionale espressione quanto aveva cantato.

All’udire le prodezze de{ paladino, l’audacia nel mezzo delle tenzoni, la temerità del discorrere, la violenza del menar le mani, vedevi taluno dondolarsi sulle panche, altri stringere i denti, sbarrar gli occhi, levarsi su d’improvviso, atteggiarsi fieramente, impor silenzio fino alle mosche, e dispiacersi e sentirsi offeso, se taluno al racconto delle terribili imprese non mostrasse l'anima fuor degli occhi e non si lasciasse andare a scoppi di evviva.

Oh conte Matteo Bojardo! oh messer Pulci! o messer Berni! oh antica ed onorata schiera de’ poeti francesi e provenzali, che alzaste a ciclo i nomi e le sognate imprese de’ vostri paladini, perché non vi fu dato allora di trovarvi presente a quelle manifestazioni di spirito guerresco del popolo napolitano che finivano poi sempre è ai estinguevano nel vino, e nel sonno che coglie va i nostri appassionali, sia presso la soglia di un palazzo magnatizio, sia presso quel teatrino ove rappresenta da mane à sera la stia parte l'acquaiuolo. E così il furor marziale del giorno che si appalesava sul Molo, trovavasi disperso la sera in pacifico aspetto sulle vie della città popolosa e spensierata.

Nè solo un cantor di Rinaldo vedevasi sai Molo, altri purè vi si recavano, né per minor celebrità erano privi di clientela, ma forse lo zibaldone del primo di essi avea origine più antica ed era meglio affastellato d’immagini gonfie, tolte non solo all’Ariosto, ma talvolta al Tasso, al Marini ed agli infimi poeti della sua scuola;

Non cala il ferro mai che appien non colga,

Nè coglie mai, che piaga anche non faccia,

Nè piaga fa che Valine altrui non tolga.

Questi versi s'udivano misti ad altri di non so quale autore che dicono.

Taglia Rinaldo il paladino armato

Giusto nel mezzo dalla testa al piede,.

Come uri mellone in due resta spaccato

È ai guarda, si tocca e non si crede.

La spada di Rinaldo ch'è fatato

Non s’arresta à quel colpo, e in giù più fiede,

Taglia gli sproni al cavaliero e sferra

Ed entra cento palmi sotto terra.

Tale è l'accozzamento maestoso e magico del gran poema e dello zibaldone famoso, zibaldone che non ebbe mai autore, dal quale la ciurmaglia napolitana seppe ab ovo che

Rinaldo era signor di Montalbano

ed apprese che quel gagliardo sfidava qualunque pericolo e mostra vasi ovunque senza ombra di timore, pur che dicesse

Io son Rinaldo Paladino!!!!

E qui, dopo aver toccato alquanto degli ammiratori del cantor di Rinaldo, e di quel loro atteggiarsi goffamente, fieramente, cupidamente, vuol giustizia ch'io dica alcuna cosa del cantore illustre, cui tanto deve l'eletta schiera dei paladini.

Egli, come cennai, non esce dalle classi del popolo, ma si vuol dai più che il primitivo ceppo venga fuori dalla polvere del foro, de’ paglietti e de’ così detti strascina facende. Io non vo’ farmi troppo addentro a siffatte origini, perocché so bene quanto spiaccia a certuni

Nati in basso e cresciuti in alto loco

di veder venir fuori certe indagini imprudenti di parecchi letterati intriganti che, non chiamati e non cercati (e sempre non pagati), van rivangando invecchi scaffali tante notizie di famiglie che preferiscono il modesto incognito alla pubblicità della stampa; però senza far oltraggio a veruna classe lasciamo ancor misteriosa l’origine del cantor di Rinaldo.

Il suo vestire è di galantuomo.

Egli non rinunzia al cappello ed al frac a lunghe code, tipo degli avi suoi.

I vitrei occhiali gli ornano il naso.

Il bernoccoluto bastone armagli il braccio.

Vero oratore! tien pronti ad ogni bisogno due fazzoletti, uno bianco scuro che gli terge il glorioso sudore, ch’io chiamerei sudor paladino, perché imbevuto delle geste de’ paladini, l'altro a più colorì di cotone e talvolta di seta, come una bandiera, traforato.

I suoi calzoni, le scarpe, il panciotto, il cencio che gli val di cravatta, lo mostrano abborrente da qualsiasi NOVITÀ’ .

Le sue tasche non si disegnano sconciamente per peso d’oro o d’argento.

Egli è un savio modesto.

Vive d'ammirazione! di tornesi, pubbliche, e fresche monete di nove calli.

Egli è letterato! e fu lungo tempo l’emblema del letterato e del poeta in Napoli.

Ora non più, poiché l'uomo di lettere é uomo pubblico che si palesa, e non si smaschera, che serpeggia nel centro della società, a dispetto de’ piccoli entuzzi che vi sono disseminati, e giudica gli uomini e i tempi.

Il nostro cantore, d’altra parte è un uomo dabbene che vive del suo canto, come gli antichi giullari e menestrelli che ad armacollo portando il prediletto strumento, facevano sollevare le saracinesche de'  castelli e talvolta sedean anco a mensa coi Baroni.

E ciò mostra che in Italia le antiche costumanze non si perdono affatto, ma talora, anzi spesso, difformate durano; e ciò mostra aver sempre gli italiani amato il canto, la musica, la poesia, le narrazioni di gesta eroiche, la memoria di antichi fatti celebrati dalle istorie; e ciò mostra, non aver mai voluto il bel paese dimenticare se stesso.

E il nostro popolo, raccogliendosi intorno al cantor di Rinaldo, svela pubblicamente che le grandi imprese gli piacciono. E a dir vero, sia per abito, sia per principio, nessun mai superò il popolo napolitano nell’ammirare e celebrar con ampollosi vocaboli le arrischiate scaramucce, gli arditi colpi di mano, le prodezze del tale o tal altro eroe. E dove più (ci valga di esempio) densi in pregio l’uomo sprezzante de’ pericoli, pronto a gittarsi nel mezzo d’una calda e sanguinosa rissa per separare i litiganti ed imporne con minacciosi atti ai due partiti? Dove tanto stimasi il guappo (da, voce spagnolesca) questo storico personaggio, di che più innanzi in altro articolo parlammo e che rappresenta ancora a mio credere l'antico Bravo del feudatario, difformato dalle mutate condizioni de'  tempi e dall’uso? dove più volentieri s’ascoltano e si ripetono le prodezze di un bandito, il generoso coraggio di un soldato o di un cittadino? dove le storie de’ Reali di Francia, e massime di Buovo d’Antona, più avidamente si leggono e si ripetono?

Lo entusiasmo ed il culto di omaggio che il popolo napolitano presta alla bravura è sì forte, che molti fra essi. Sebbene non sappian leggere, comprano per vii moneta alcune storielle che si dicono in versi, e si fan leggere da chi può meglio appagarli, le imprese di Tonno Grifone, Peppe Nascila, Antonio Lo Santo, Benedetto Mangone e il Bello Gasparre.

E si ripetono fra loro, arieggiandosi alla sbirresca, le ultime parole che disse Tonno ai suoi persecutori:

Cu polveri! Co' palle 'e provvesione

No — non s'arrenne mai Tonno Grifone!

Le quali parole celebrate fra i guappi come il Veni vidi vici di Cesare, offrono una pruova della poesia nazionale nel genere robusto.

Il genere delicato potreste invece trovarlo in questa ottava che non manca pur di celebrità ne’ popolari poemetti di Paris e Vienna e di Cicco di Cola:

Mi voglio fare un manto di finocchi

E di finocchi un cappuccio fare,

Lo voglio fare insino alli ginocchi

E di finocchi lo voglio foderare.

E fin che stanno aperti sti miei occhi

Sempre finocchi voglio seminare,

Affinché seminando assai finocchi

Qualche donna potessi infinocchiare.

Così il popolo napolitano s'educa da se stesso a certi modi di vedere che son poi alimento a risse, ad offese, a leziosaggini, a bagordi. E per tornare alla strettezza del primitivo tema, dirò che gli di Rinaldo, considerando quell’eroe come loro maestro e duce, spingono tant’oltre l’entusiasmo da venire alle mani con chiunque si nieghi a prestargli omaggio ovvero osi vilipenderlo.

Narrasi con fondamento tradizionale, che taluno ebbe l’audacia un giorno di ripetere pubblicamente che Rinaldo era mariuolo, e provò, citando lo zibaldone del suo cantore, che Rinaldo non da eroe, ma da ladro aveva operato.

Lo sdegnò si pinse in tutti i volti, le mani degli appassionati si strinsero fra loro rabbiosamente; furono rimosse le panche e stretto nuovo consiglio, ne uscì decreto di morte.

Tanto possono le passioni, tanto può la superstiziosa credulità della plebe spinta agli eccessi! Un egregio scrittore di cose patrie seppe ingegnosamente trovare anche in queste passioni e movimenti del popolo napolitano una rassomiglianza, col sentire e l’agitarsi degli altri popoli che già abitarono queste incantevoli contrade nelle grandi epoche romane e greche, e giustificò la gesticolare eloquenza napolitana col sussidio degli antichi bassorilievi e delle scolture, dissepolte dagli anfiteatri Campano, Puteolano, Pompeiano ed altre moltissime.

Però gli atti e le movenze nelle quali manifestasi l’ammirazione, il rammarico o la collera della bordaglia, hanno un tipo di mobilità e di specialità siffatta, che contrassegna la plebe napolitana.

Il che facea dire ad un dotto scrittore, ché la scuola della pittura napolilana, massime tra il seicento e il settecento sentiva nelle composizioni della gesticolare vivacità del popolo

Ut pictura poesis.

Il gestire del cantor di Rinaldo e di ogni altro cantastorie sarebbe prova dell'assunto tema.

Pria però di chiudere questo articolo è d’uopo ricordare che invano si cercherebbero oggidì sul popoloso Molo di Napoli gli appassionati di Rinaldo e i loro cantori.

Il campo di Rinaldo ora incomincia sotto all’arco della neve, in uno spazia che precede l'edilizio della dogana. —I suoi cultori sono scemati, i suoi cantori van cedendo lentamente al fato, e taluno di essi, scordando la gloriosa origine immemore degli avi cantori, degenerato cantastorie, veste, indovinate che cosa?

Una giubba detta giacca, e talora bianca a simjglianza di quella che indossano i cuochi.

Ma il fato è maggiore degli eroi, però gli eroi morivano invocando le stelle. Gli altri cantastorie che decorano la cittadella Sirena, vista la scacciagione de’ lor compagni, han cangialo sistema.

Essi vanno erranti, come una volta errava la progenie perseguita di certi Califfi in Oriente. Quando trovano un pubblico, con uditori cortesi ed inclinati a render giustizia al merito, stendono ampio cartellone sul muro d’una casa, e col mezzo di una bacchettina, mostrando le figure che su vi si stanno dipinte, dicono e cantan prodigi, o storie lacrimevoli, accompagnali talvolta da un violino che veramente strappa le lacrime.

Questa seconda generazione di cantastorie e più moderata negli atti, più nelle forme modesta, più completa. Essa a|meno ha un fondo di scena ed un’orchestra (il cartellone ed il violino).

La terza generazione de'  cantastorie si diffonde e si sperpera pe’ canti delle vie, ma essa può dirsi una generazione mendica affatto.

A sera un canto malinconico e di monotona cadenza ricorda i fatti di una giovane che metteva in non cale le paterne ammonizioni, i suggerimenti del pio ministro del perdono, le lacrime della madre, e si gittava nelle braccia di un malnato seduttore, che alla sua volta l’abbandonava disonorala e mendica, quando (non insolita catastrofe) i suoi genitori non erano più.

Questa è la canzone di Caterinella! State ad udirla (e sia questo il fine morale del mio articolo) uditela, quando vi avviene di ascoltarne anco da'  lungi il tenore.

La seduzione è oggidì e sempre una serpe velenosa che attosca le famiglie povere e sparge di fiele la misera ma onorata vecchiezza. La storia di Caterinella è quella di molte sciagurate; è una lezione di morale alla quale è forza che ogni fanciulla si pieghi ed io nell’udir quel canto pietoso ho sempre veduto dall’alto di qualche balcone venir giù una cartolina incendiata, avente nel seno l'elemosina destinata a chi cantava la malinconosa canzona di Caterinella.

Ed al riverbero della fiamma cd al suono della voce, ho sempre riconosciuto una fanciulla…

Si — perché la coscienza non dissimula, la vita stessa è pericolo, e niun mortale può dirsi forte abbastanza contro le seduzioni, senza sentir la fede degli esempi cd il cristiano conforto della religione!

CAV. CARLO T. DALBONO.

LA LAVANDAIA

Dopo d’esser discesi a far la fisiologia del trova sigari, era ben mestieri di risciacquarla penna, graveolente di quelle malvage punte allumate, nella fresca tinozza d’una lavandaia—Però ad 'arte più che a caso ne fu scelto quest’argomento, che di buon grado è accetto, e che speriamo voglia acconciarsi al nostro buon volere per trovar posto nella rassegna traduttrice degli usi e dei costumi di questo paese delizioso — All’opera dunque!

Le lavandaie non sono come le contadine svizzere, né come le canzoni arcadiche di papaverica memoria, delle quali basta vederne o sentirne una per saperle tutte; esse, senza allontanarsi gran fatto da un tipo comune che le raccoglie in ispecie, differiscono per talune gradazioni di casta, che alla meglio cercheremo di esporre.

V’ha la lavandaia che muove per le case dei suoi avventori per togliere, o riconsegnare i panni:

La maestra che è quasi volessimo dire l'intraprenditrice, la direttrice, la padrona dello stabilimento; la quale ha cura di sceverare le varie accolte di panni, e di segnarle con un metodo tutto proprio e che diremo a suo luogo. Essa paga le sue subalterne, o dà loro il tanto per cento sull'utile. E la lavandaia impresaria:.

La fanciulla che porta sul capo l'immenso fagotto della biancheria lorda o curata che sia; e che è quella alla quale ci fermeremo più particolarmente. Dessa è il tipo della specie: Finalmente c’è la lavandaia con l’asino, la quale o non si degna di portar i fagotti sul capo, o ne ha tanti che è obbligata di chiamar quel tale collaboratore. Essa sta in rapporto alle altre, come la dama che ha le sue carrozze, sta alle semplici pedine; è l’aristocrazia del ranno e del sapone. Tempo, e farà marchiare la groppa del suo giumento con un mastello, a mo’ di blasone.

Vi sono poi altre diramazioni insignificanti che non abbiamo tempo né voglia di considerare; ci sono troppo a cuore le protagoniste per fastidirci con le terze parti.

Fra tutte queste prediligiamo dunque la lavandaia tipo, che sarà la nostra prima donna, alle cui convenienze obbediranno poi tutte le altre.

La lavandaia pur sang abita, come quasi tutte le altre, la campagna; ma la sua campagna è il Vomero; da quelle colline ella domina le sue rivali, come la castellana del romanzo dall’alto della rocca tenebrosa dominava la gente vassalla. Eppure scegliendo quell’altura, ella non s’è fatta la parte del leone; oh! ben altro: paga troppo caro quel suo posto: alla lavandaia del Vomero non manca altro che l’acqua. Quel colle, come è ben noto, scarseggia d’acqua a segno, che nella state le poverine sono costrette, esse, le prime lavandaie del paese! all’umiliante supplizio di gire a cercar l’acqua a questo o a quel proprietario, e, quel che è più, a pagarla un tanto a mastello. Ma non per questo ella desiste: colà il tinello è ereditario come il cognome; dall’arcavola alla pronipote le lavandaie di lassù furono, sono e saran tali, salvo i casi di qualche matrimonio eccezionale.

Nè finisce qui l’orgoglio di quelle montanine: le vanitose abdicarono il corsaletto della contadina perla veste delle popolane della città. L’incivilimento che mise una forchetta in mano al lazzarone, il quale non mangia più i maccheroni con le mani, altrove che nei più perduti trivi, o nelle litografie di costumi, (e si fosse l’incivilimento contentalo di brigarsi solo della nettezza!) codesto benedetto incivilimento adunque ha mandato in via della Giudecca i bei corsaletti di raso a colori risoluti delle lavandaie del Vomero, d'Antignano, d’Arenella, e di tutte quelle deliziose colline; ha strappati i nastri chermisini de’ loro zoccoli, ed il tomaio damaschino, e ne ha dato al focolare il legno; ed in cambio di tutto questo ha gettato loro delle scarpe di pelle di tre o quattro carlini a paio, ed una veste di tela dipinta, di poche grana al braccio.

É il più pazzo genio del mondo cotest’incivilimento; e quando si accoppia con la moda, allora si che ne fa delle sue! Per esempio, in cambio di averci così vestite le povere lavandaie, sotto pretesto di assimilarle alle cittadine, ha preso le vesti vecchie delle contadine, quelle vesti ereditale che le madri davano in dote il dì delle nozze alle loro figliuole, e le ha fatto comperare a forte prezzo alle patrizie per foderarne i seggioloni dei loro più ricercati salotti. Vedi stranezza! I cenci d’ una contadina sono il lusso d’ una principessa! Ma giù, la seta e il broccato son altro mai che il sepolcro d’un verme!..

Torniamo alla lavandaia.

La lavandaia come ora ve ne sono poche, vestiva corsaletto di seta rossa o cilestre, gonna di colore opposto a quel del giubbetto, c senaletto bianco: al piede aveva zoccoli guarniti di nodi di nastri: al collo catenelle d’oro, o piuttosto laccettini di Venezia: alle orecchie una specie di pendenti, che a dispetto dell’incivilimento conservasi tuttavia, col nome di rosette. Questi orecchini sono due tronchi conici d'oro, alti da mezzo pollice ad un pollice, larghi alla base da uno a due pollici di diametro; vi corre intorno a spirale, sia un filo di perle, sia più fila a circoli convergenti, ed al vertice è spesso uno smeraldo. Più le perle son grosse, più la rosetta è massiccia e pesante, insomma più essa rovina le orecchie più n’ha vanto la contadina. Ve ne ha eziandio in forme di grappoli, o d’altro simile, ma queste sono gli scismi: la vera rosetta ha figura d'un cono molto basso e molto evergente—Ora varie lavandaie del Vomero hanno alle orecchie pendenti di Francia; taluna forse va a comperarne di falsi al Bazar dove s’illude la gente a prezzi fissi.

Chi doveva mai far tralignare tanto l’innocenza dei campi fino a, questa strana mistura di civetteria d’ostentazione di menzogne!..

Torniamo alla lavandaia.

Oggi la lavandaia porta di raro rosette, e raro altri ori: ha nullameno la sua vestina stretta alla cintura, e quando la si vede scendere dal suo monte, fresca e pienotta anzi che no, spezzata come suol dirsi nella vita, cambrée, con sul capo la sporta , o il grande fagotto di pannilini, sorretto o no dalla mano, vispa e lieta in volto, non si ha il tempo di guardar cosi in fino alle devastazioni dell’incivilimento, e si trova che la lavandaia anche senza, anche senza zoccoli, anche senza corsaletto, non è poi la creatura meno avvenente della terra.

Gli studenti a vergogna di loro professione sogliono facilmente abbassarsi dal grado che hanno per le lavandaie, le quali per altro non ne hanno alla lor volta per gli studenti; e la causa non è di difficile intelligenza. Come quelle per lavare non mancano che d’acqua, i poveri studenti per far lavare non mancano che di biancheria; almeno hanno questo di comune! Vene ha che l’inverno per tutta biancheria, quando la lavandaia è salita fino al loro settimo piano, le consegnano due o tre colli di camicia, e la fanno aspettar mezz’ora per far la lista! poveri studenti! Vengono dal fondo di un villaggio, a vivere cinque o sei anni sa Dio con quanti disagi, e poi si creano delle fortune col frutto delle loro sofferenze; però non vi sdegnate meco, se bo pubblicalo così per esteso la lista del vostro bucato; lasciate che vadano in collera quegli altri studenti, vostri alteri colleghi, che vengono qui non per fare il loro corso di legge, ma che vanno alle prime rappresentazioni a S. Carlo, e fumano foglie d’Avana; quelli si chiamano studenti perché non studiano mai, come Scipione si chiamò l’Affricato; e da loro non avrete nulla a temere né per la vostra lavandaia né pei dignitosi uffici che un dì occuperete, e di cui siete l’inesauribil semenzaio...

Torniamo alla lavandaia.

E torniamoci con promessa di non più lasciarla per andar sermonando di morale, e far come il fanciullo del Limosino

Che devia dal pensiero ad ogni passo,

Per corre un fiore o per gettare un sasso.

La vita dunque della lavandaia è la seguente:

Il lunedì— buono è principiar dal principio— il lunedì ella scende in Napoli con le mani vote, o con la sporta al braccio, o con l'asino scarico; e si presenta a casa del suo avventore; beninteso che quando c’è il somaro esso resta ad ammirare la pazienza o l’insolenza dei guardaporta.

La cameriera le fa cacciare i panni da lavarsi, spandere un lenzuolo o un mensale sul mattonato, sceverare gli altri, numerarli secondo le varie categorie, ed a seconda che quella li numera, ella li nota o sur un apposito libretto, o sur una tabella di cartone, nella quale, ad ogni specie di panno è praticata una fila di fori orizzontali, con entro dei lacciuoli con un nodo ad ogni estremità: le camice per esempio sono dodici, ed ella tira il duodecimo lacciuolo, e così via via. Dopodiché, la lavandaia gitta tutti i panni sperperati in quello aperto sullo spazzo, lega in diagonale i quattro capi, ed ecco il fagotto chiamato col termine tecnico mappata.

Raccolti per le varie case i panni, ecco che torna sul colle alla lavandaia maestra, la quale chiamate le sue varie donnine, fa scegliere i panni, e segnarli con un marchio tutto loro, cioè un pezzetto di filo cucito ad un capo o ad un lembo qualunque del panno. Senza di questi segni si correrebbe rischio di portare il berrettino di cotone ad una ballerina, ed il sottanino con la salda ad un presidente.

Avvien qualche volta che la stiratrice, o soppressiera che vogliate chiamarla, è negligente al punto di non istrappar quel segno alla vostra camicia o al vostro fazzoletto, e voi andate ad una festa con un nodo di filo rosso alla punta del colletto o della cravatta bianca, e vi fate tener d’occhio come un cospiratore!

Quest’occupazione dei segni tiene impiegata tutta la giornata del martedì, alla sera del quale, i panni dopo essere insaponati, sono messi in grandi vasi di terra cotta, o in un capace lavatoio, bucato sotto e questo e quelli, (donde è poi venuto il nome di bucato a tale genere di lavare) e vi si gitta su il ranno bollente, che poi filtrando a poco a poco trapela i panni, e cola per quel foro (quindi la colata secondo il tecnicismo popolare dell'arte)... Ah! in qual razza di minuti particolari è obbligato a scendere uno scrittore di fisiologie!..

Il mercoledì i panni si tolgono dai lavatoi, si rinsaponano più o meno, e si lavano fregandoli, strapazzandoli, macerandoli direm quasi, su pietre di lastrico, messe a pendio sulle pile di pietra o sui mastelli, e che vi acconciano le camice di batista come va. In seguito si risciacquano in acqua pura, acciocché perdano quel puzzo di sapone, che per parentesi non giungono a perdere quasi mai, perché dovrebbesi più volte cangiar l’acqua e perché le lavandaie non sono ricche d’acqua; o dovrebbero lavarsi i panni all’acqua corrente, e la città ne è alquanto scarsa — Di qui la difficoltà d’avere la biancheria d’un nitido veramente argentino. Tra il mercoledì ed il giovedì i panni si sciorinano e si asciugano al sole, quando ce n’è; e quando non ce n’è, tanto peggio!

Le lavandaie, giova dirlo, adorano quell’astro come i gentili e come i selvaggi delle Indie; il loro è il più bell’inno al sole che sia mai partito dal cuore. Il loro grido jesce sole! è la più fervida preghiera che mai islamino avesse fatta: essa potrebbe in certo modo tradursi in questi versi del loro mal traducibile dialetto — (Ci si conceda la piccola invasione):

1.

Jesce sole, jesce sole.

Non te fa cchiù sospirà!

Siente maie che le ffigliole

Hanno tanto da pria?

Pe ce fa la faccia nera

Viene sempe de correra,

Pe fa janche le lenzole

Le stanfelle vuole piglia?

Jesce sole, jesce sole,

Non te fa cchiù sospirà!

3.

De tricà non hai ragione;

Chi te prega tiene mente:

De la scumma de sapone

So cchiù ghianche chisti diente,

Songo vrecce cheste vraccia,

Non te parlo de la faccia:

Pe tagliarce lo colore

Lo cortiello puoie piglià...

Comm'a cchisto n'auto sciore

Non farraie maie cchiù schiooppà.

2.

Jesce sole, e ccà te spanne,

Provvidenza de chi lava!

Si lo vero asciuttapanne

Che se gode e non se pava!

Lloco ncoppa che nce faie?

Mira le nnuvole le staie.

Comme fosse no ncantato

Che non sape c'ha dda ffa.

Lo signore t'a criato

La colata p' asciuttà.

4.

Scerea, lava, tuorce, e spanne!

Che te pare sta colata?

Viene a n'auto paro d'anno

Che me truove mmaretata.

Apparecchiate, ca tanne

Non sarrai cchiù asciuttapanne;

Ma la torcia tu sarraie

Che lo minino tenarrà.

Tanno, sole, vedarraie

Chi de nuie se fa mmirà!

Come vedete dall’inno, se siete di coloro che intendete qualche cosa del loro dialetto, le povere lavandaie soffrono d’essere scottate dal solleone perché i panni ne sieno più bianchi; e non dice come la Gemma di Bidera e di Donizetti: maledico quella terra

Che feconda la natura

E che sterile mi fa.

Il venerdì i panni sono piegati, aggiustati l’un sull’altro nelle sporte, e consegnati alle rispettive case. Là la cameriera, o chi per lei, ripiglia la lista in mano, riscontra le partite, fa il conto e paga. Spesso la padrona invigila ella stessa a questa operazione, tanto più quando si tratta di pagare, né va a guardar scie questa un’occupazione poetica o pur no. Veroèche la non debbe esser tale, perché quella carissima Maria Malibran di non mai abbastanza rimpianta memoria, facendo la Rosina nel Barbiere di l’ultima delle Rosine! allo scambiare la lettera d’Almaviva con un’altra carta, in vece di dire:—A’ la lista del bucalo—cantò: — Sono «versi di Torquato, — non volendo scendere alla bassezza di serbare una lista di bucato... Ma ella in quel momento era doppiamente spagnuola, per nascila e pel personaggio che rappresentava;

«Et par droit de naissance et par droit de conquête»

E come tale le si concedea la sua piccola vanità... Che non le si sarebbe concesso!...

Or qualche volta avviene (ben di rado sì, ma avviene) che il vento porti via un moccichino, un carnicino, o cose simili, e che la lavandaia il rechi di meno alla padrona. Qui comincia la contestazione: Sulla lista sono notati quattro carnicini, tu non me ne rendi che tre.

— Tre me ne avete consegnati, tre ve ne riporlo.

— Ma non vedi che son segnati quattro; vien qua, conta tu stessa i fori; uno, due, tre, al quarto e il lacciuolo.

— Così è, ma avrete erralo nel contare i buchi.

— Niente adatto; io vi metto la più scrupolosa attenzione.

— Il vostro bimbo allora si sarà divertito a passar lo spago da un buco all’altro.

— La lista era chiusa nel mio cassetto.

— Che volete che faccia? se me ne aveste dati quattro, quattro ne avrei riportati; che credete che ne avessi fatto, noi siamo gente onesta.

— Non dico già che è stato rubato; ma fa diligenza, e lunedì mel recherai.

— Vedrò, ma è inutile; in casa non c'è nulla.

— L’avrà portato via il vento.

— Questa settimana non c' è stato vento, e noi mettiamo i becchetti di canoa ad ogni menomo pannolino.

— Fa sempre diligenza. E perché le ne ricordi meglio, ti pagherò lunedì.

— E se non si trova? Terrò il prezzo del carnicino, perché non intendo perderlo.

— E perché? Chi ci assicura che non sia stato uno sbaglio? La lista voi la fate, e voi la serbale, dobbiamo esser noi garanti?

— Certamente. Un’altra volta porterai la metà dei panni, e dirai Io stesso — Ec. ec. Or delle due chi ha ragione? E se la padrona s’è davvero sbagliata? E se il vento ba davvero portalo via il pannolino? E se la lavandaia se l'ha fatto rubar da un monello della via? — C’è sempre la possibilità di un’ingiustizia o di una prepotenza — Domandiamo un codice per le lavandaie; richiamiamo su questo argomento l'attenzione dei nostri migliori professori di economia domestica.

Il sabato si fa il conto del danaro introitato, si pagano le (così chiamansi le lavoratrici agiornata), ed ecco la domenica per acconciarsi, azzimarsi, abbellarsi, mettere il meglio che si ha, andare alla messa a sentir le pubblicazioni, pranzar all’aria aperta, correre a spasso, ballar la tarantella, ed aspettar la serenata; corona della settimana della povera lavandaia.

È di quest'ultimo periodo della sua settimana che è uopo intrattenersi più specialmente.

La notte tra il sabato e la domenica è portata la serenata che, come il pomo mitologico, è sempre diretta «alla più bella», e la più bella in fatto d’amore è sempre la propria innamorata. Metastasio Io disse con tanto senno e tanta ingenuità.

Non diremo qui di quali strumenti si componga questa specie di orchestra girovaga, per non restringere ad episodio un argomento che potrà star da sé nel seguito di queste pagine; basti solo che il canto più o meno dice parole pressocché simili a quelle messe per epigrafe in fronte alla nostra piccola fisiologia.

La serenata è sovente la sinfonia di quel gran melodramma chiamato il matrimonio— Il dì seguente vedrete quel bel giardiniere in abito da festa col cappello di Pasqua, il panciotto dai bottoni d’argento, le dita carche d’anella, la catenella all’oriuolo passare e ripassare dinanzi alla casa della sua Luisella, che anch’essa acconciata a festa è là, seduta sotto la soglia, o fuor del balconcino basso, in mostra come una pupa da parrucchiere. Ed è questo il mezzo più comunicativo, più espansivo di che si vai quella gente per fare all’amore.

Con tale metodo, dopo qualche mese, il giardiniere e la lavandaia vengono fidanzati;per tre domeniche consecutive la chiesa madre fa pubblica la loro futura unione, che le compagne vanno a sentire con perdonata invidia, ed al maggio o al carnevale—non sappiam perché si scelgono di preferenza questi due periodi dell’anno — è stabilito il dì delle nozze.

Gli sponsali delle popolane hanno un costume a parte, dal quale di giorno in giorno si vanno allontanando le cittadine, ma che, per buona furtuna, le contadine, ed innanzi a tutte le lavandaie, serbano più scrupolosamente.

Di buon mattino il parrucchiere viene dalla città a pettinare, profumare, ed intrecciare in un modo esagerato la bruna capellatura della sposa, ed a tempestarla di fiori bianchi, talora anche di una piuma! In questo caso il parrucchiere busca (in uno scudo pel suo lavoro, specialmente quando è furbo al segno di raccomandare alla sposa, prima di lasciarla, di tener ben ritto il capo in carrozza, acciocché l’occhio degli ammiratori possa girare intorno intorno. La madre, le sorelle, le commari fanno il resto — Intanto lo sposo ha preso a nolo due vaste carrozze di rimessa; e, giunta l’ora, salgono in ognuna nientemen che sei individui, non compreso il cocchiere; cioè sei donne all’una, la sposa tra la madre e la suocera, le zitelle di rincontro: nell’altra lo sposo tra il padre ed il suocero, gli amici dalla parte opposta... e viva la festa!! Poi vieti l’anello, il si, il pranzo interminabile, l'orgia; e la domenica seguente il parrucchiere è chiamato una seconda volta, ed il cocchiere anch’esso, ma per una sola carrozza dove vanno soli soli i due sposi. Ed i monelli della città a fischiare ed alzar grida, soprattutto quando la zita non rivaleggia in bellezza con l’Elena greca... Alcuni possono osservare che la coppia felice non è cosi lieta in volto come la prima volta!.. Ma non diamo ascolto ai calunniatori.

Non bisogna trascurare di aggiungere a questo proposito trovarsi di coloro che credono non esser felice il matrimonio, quando il popolo non alza i fischi nelle vie al giro che gli sposi fanno per la città.... 0 fischi, flagello delle riputazioni teatrali, siete pure invocali in qualche congiuntura come una benedizione!... Vero è che l’augurio talvolta sopravvanzalc speranze, perché i pomi cotti, le melarance, e peggio seguono i troppo invocati fischi... ma per buona sorte ciò diviene di giorno in giorno più raro; e poi, è merce solo destinata alle perfette Megere.

Ed ecco cosi assicurata in qualche modo la razza delle lavandaie. La prima figlia farà come la madre che ha fatto precisamente come l’ava. E ciò fino alla consumazione dei secoli. E cosi sia!

ACHILLE DE LAUZIÈRES.

 

IL GIUOCO DELLA MORA

Non vi ha eccellente trattato che non cominci da una perfetta definizioni: la definizione è la base di tutto l’edificio scientifico, è

Lo fondamento che natura pone.

Che cosa è il giuoco della mora?

Il giuoco della mora è un giuoco che si fa colle dita. I due giocatori sporgono l’un verso l’altro una mano per ciascheduno, ripiegandone o allungandone quel numero di dita che lor piace; al medesimo tempo che sporgon così la mano, dicono un numero, cercando d’indovinare il numero che viensi a formare dalla somma delle dita aperte della propria mano e di quelle della mano dell’avversario.

Esempio: Io avanzo la mano con tre dita spiegate e due chiuse; l'avversario l’avanza con quattro aperte e uno ripiegato: se io dirò 7, avrò indovinato; se in mia vece lo dirò l’avversario, avrò indovinato esso; se nessuno dei due indovina, si segue come se nulla fosse avvenuto.

Ogni volta che s’indovina, si segna il punto con le dita dell’altra mano; e la partita si pattuisce a un dato numero di diti, alle volte a un solo, rare volte al di là di dieci.

In questo, come in tutti i giuochi, non ha ‘parte il solo caso; molto può l'abilità, ed io cercherò di farvene comprendere alcunché.

Non parlerò delle regole elementari, poiché sarebbe un concepir trista idea dell’ingegno de’ miei lettori. Com’è possibile che aprendo un sol dito della mano si possa pronunziare il numero 7, o l’8, o il 9? A questo modo si vorrebbe pretendere che colui col quale si giuoca avesse 6, 7, 8 o più dita in una sola mano. E pure, quantunque sembrino queste inutili avvertenze, vi sono certi principianti che vi si lasciano cogliere, eccitando le risa degli astanti provetti.

Ma vi ha qualche sottigliezza che solo conoscono i vecchi giocatori. Se la vostra mano segna il numero 3, per esempio, avrete maggior probabilità di vincere profferendo un numero pari (4, 6 o 8), che non ne avreste profferendo un numero dispari (5 o 7), poiché le combinazioni pari che potrete formare colle vostre tre dita e con quelle che mostrerà l'avversario son tre, e le dispari son due.

I più consumati fan pur capitale della facilità che vi è di passare da una data apertura di mano ad un’altra, e viceversa. Così dall’apertura di tre dita si passa facilmente a quella di cinque o di due, e difficilmente a quella di quattro.

La fraseologia del giuoco è pur cosa da conoscersi. Chi dicesse dieci in luogo di dir tutte, si attirerebbe le fischiate. Chi ha bisogno di un sol punto, o per meglio dire di un sol dito per vincere, invece di contare il numero de’ punti da lui vinti, dee dir chiarella; allo stesso modo che i giocatori all’ècartè dicono fuor di marche invece di dir quattro.

Questo giuoco fassi non solo in due, ma in quattro, in sei, in otto, ec. Allora divisi i giocatori in due drappelli l’un contro l’altro armato, uno di ciascuna schiera dà principio alla giostra, e come soldato ferito si ritira ogni volta che perde un dito, subentrandogli uno de’ compagni. A questo modo si é visto sovente un solo campione rimaner padrone del campo e sconfiggere l’un dopo l’altro tutti gli avversari senza aver bisogno dell’aiuto di alcuno dei suoi compagni. Così negli antichi tornei il mantcnitore sosteneva lo scontro di buon numero di cavalieri.

Ma i cavalieri del torneo della mora non pugnan per la donna de’ loro pensieri o per onore dello scado. Il premio de’ vincitori è una carafa di asprino, di maraniello, di gragnano, presentata ai giostranti da un cantiniere, o tutto al più dalla sua paffuta e tarchiata metà, che in questo caso empie le parti della regina degli amori. Per tergere il sudore di tal pugna il vino è l’asciugatoio più conveniente, nò si è visto mai che altro che vino si giuochi al tocco o alla mora.

Questo giuoco era nolo agli antichi? Sissignore Essi dicevano micare nel senso precisamente identico dell’italiano fare alla mora, e con quel vocabolo esprimevano la velocità dell’alzare le dita, la celerità nel replicare i colpi senza intermissione di tempo. Non saprei dirvi se i Greci pur l’usassero, ma la cosa è probabile assai. Certo è che se l’ebbero i Latini dovettero averlo gli Etruschi, poiché essendo la civiltà latina figlia dell’etnisca, ed essendo il giuoco della mora parte integrante della civiltà, dovette dalla madre Etruria tramandarsi alla figliuola. Se questo argomento non v’entra, dimandatene gli archeologi e gli etnografi, e gli uni vi troveranno bassirilievi o vasi figurati rappresentanti giocatori di mora, gli altri troveranno fra le cinquanta parole etnische che conosciamo qualcheduna che si rassomigli all'italiano mora, o al napoletano e spagnuolo morra, o al francese mourre, o all’inglese mora.

E qui nasce spontanea una considerazione: Spagna, Italia, Francia, Inghilterra, tutte hanno questo giuoco; dunque un popolo che invase queste quattro contrade, che tutte le abitò un giorno, dovette esserne l’inventore. Avete che rispondere? Se nulla potete addurre in contrario, eccovi i Celti maestri alla miglior parte di Europa del giuoco della mora; ed eccovi nella loro lingua la tanto desiderala etimologia: poiché morati vuol dire mucchio, cumulo, ammasso (e in quel giuoco si somman le dita in un sol cumulo), e meur vuol dire dito! Dopo tanto sforzo di erudizione lasciate che mi riposi un poco; ché così vi riposerete anche voi, lettori carissimi. E poi con maggior lena ripigliamo la nostra dissertazione che va prendendo l’aspetto di una memoria letta all'Istituto Archeologico di Roma o alla nostra Accademia Ercolanese.

Avevano i Romani un curioso modo di dire: essi chiamavano degno che si giuochi con lui alla mora nelle tenebre chiunque fosse incapace di tradir la buonafede: Cicerone, Petronio c S. Agostino se ne servono. Ed in vero quando allo scuro si fa tal giuoco, bisogna alle persone che giuocano prestar fede intorno al numero delle dita che levano. Ciò mi fa rammentare del modo come giuocano fra noi 1 cicchi, che certo non hanno la buona fede di quei semplicioni di antichi romani. Essi dopo aver alzalo le dita e gridato il numero che dee indovinarne la somma, abbrancano la mano dell'avversario per verificare col tatto quello che non può verificar la vista. Infinite volte ho visto cosi giocar nelle cantine che accerchiano la collina di S. Martino gl’invalidi difensori della patria che nei campi di Marte di Venere o di Bacco perderono il ben della vista. Ora invano li cerchereste colà: essi passarono ad abitare in mezzo alle ricottelle e alle peregrinanti quaglie là dove Massa si specchia nel golfo di Napoli.

Il giuoco della mora ha molta somiglianza coi segreti. Questi in sul principio sono affidali ad un solo orecchio, e poi a voce bassa a un secondo, e poi gradatamente la propagazione se ne fa più romorosa come nel celebre crescendo del Barbiere, finché si strombettano pubblicamente e li sentono anche i sordi. Cosi é della mora; s'incomincia a piana voce e col possibile silenzio, e si finisce gridando come energumeni con quanto se ne ha in gola.

A ciò taluni poser rimedio, facendo ad ogni intervallo cantare una strofetta di nessun significato chiamata la pintaura: a questo modo il canto impediva che le teste e le gole si riscaldassero, poiché la sua missione è di raddolcire gli animi cd ingentilirli. Ma i giocatori trovaron che quel canto intermedio ritardava di mollo il giuoco, e come tutte le cose buone la pintaura uscì di moda.

EMMANUELE ROCCO

ISCHIA

Agosto 1847.

I.

Care isolette dalle acque del Tirreno da vicino vagheggiano la ridente Napoli, ed incenso di fiori le tributano c. cantici d’amore. Ischia di coteste isole per estensione di sito e per bellezze naturali è la più ammirala, la quale da levante a ponente per cinque miglia dilungandosi, ci rende immagine d’una piramide che dal mare per 2450 piedi elevandosi va a terminare coll’arso vertice dell’Epomeo. Parte della sua storia ci viene rivelata dalle sue diverse denominazioni. Pitecusa fu chiamata anticamente dai Greci, dall’essere venuta in grido nell’arte degli orciolai; quindi per avere dato ospizio alle navi del profugo Enea appellossi Enaria; e i padri della greca e della latina poesia Anarime la dissero, immaginandovi il gigante dalle cinquanta teste, l’immane Tifeo fulminalo nella sacrilega battaglia contra il cielo, e sepolto nelle viscere dell’Epomeo. Finalmente pigliandò nome dal fortissimo castello tutta l’isola chiamossi Ischia, la quale colle vetuste lave ricorda le molte sciagure tollerate perle ire frequenti dell’azione vulcanica: dal che atterriti gli antichi, e ignari delle cause produttrici de’ terribili fenomeni, ben s’avvisarono fingere poetando uno smisurato gigante in lotta coi Numi, gli abissi e i cieli mescolati in aspra guerra, gli elementi congiurati contra il cielo, e il cielo fulminante la ribelle natura.

Ora tutto è pace: l’Epomeo, il monte che sorge in mezzo all’isola come padre generatore di essa, da cinque secoli e più non apre le sue voragini di fuoco: laonde ora con più ragione affermasi, il demone del male, il genio dei vulcani, il gigante Tifeo, sgagliardato di ogni forza giacerò entro le viscere della montagna, arso cadavere. Sulla sua negra sepoltura di basalto i fiorì e le piante dispensano il riso delle grazie e l'abbondanza dell’agricoltura, e intorno all’isola adorni di verzura e lieti di onesta pace ridono pittoreschi villaggi che distesi giù pel pendio dei colli specchiansi nell’azzurro Tirreno. Il paese congiunto al castello appellasi col nome dell’isola, ed è città adorna d’un episcopio e d’un seminario, dove vorrei non esser vero quanto un alunno con rammarico mi riferiva: quivi di vietarsi la lettura dell'Alighieri.

II.

L’isola nella stagione estiva è ritrovo di forestieri, quali per deporre dolorosi morbi in terme salutari, e la più parte per godere della voluttà di quell’aere soave, o per inspirarsi alle memorie ed alla pia quiete dell’incantevole scoglio. Epperò non di rado occorre rincontrarci in pittori paesisti sul ciglio d’un colle, nel fondo d’una valle, ora intenti a ritrarre la lucentezza dell’aere e dell’acque, ora le feste dei popolani, e spesso intesi amorosamente a cogliere il bello dall'ultimo raggio diurno con cui il sole imporpora restremo orizzonte e di una cara malinconia tinge le vaganti nuvolette. Ed io con un pittore paesista mi trovai a visitare l’isola, coll’egregio amico Mattei, tutto dedito colla sua tavolozza a ritrarre i costumi dell’isola beala. Ma se alle dipinture del paesista basta la schietta natura coi suoi diversi aspetti, non cosi avviene al poeta della nostra età, il quale perché le sue rime siano udite e celebrate fa mestieri che fra gli spettacoli della natura informi le sue Armonie dell’indole e dei bisogni della società e giovi cantando alla vita civile della sua patria. Ed il poeta del secolo decimonono dai fasti dell’isola ben potrà derivare concetti splendidi ed utili, laddove si faccia a considerare come la divina Provvidenza segnasse Ischia a conforto di grandi uomini nello stremo della sventura. Enea, lasciate le materne sponde di Xanto, nel suo esiglio si asside a quei lidi; vi si asside Mario proscrìtto. Enea e Mario: in questi nomi due grandi epoche vedea scolpite nei fasti dell'isola, e risguardando al castello mi scntia tratto nel secolo XIII, quando l’isola fu spettatrice di un magnanimo esempio di virtù militare operata da Giovanni Caracciolo. Il quale valorosissimo uomo tenendo dalle parti dello svevo Federico II contro le armi dell’imperatore Ottone IV, vedutosi stretto da straordinarie forze nemiche, meglio che dirsi vinto, elesse da gloriosissimo capitano morire entro una torre abbruciato, martire della fede militare. E fu nel medesimo castello che Costanza d’Avalos per onorare la travagliata casa aragonese per nulla temette i disastri della contraria fortuna ed alle armi francesi oppose gagliardo animo virile. Per siffatta guisa onorato il castello d’Ischia ben meritò divenir poscia armonica stanza alla marchesa di Pescara, Vittoria Colonna, la quale, come l’appella nobilmente il Valéry, fu la santa Musa di Michelangelo, la Beatrice del Dante delle arti. L’illustre donna, per beltà e per poetico valore celebrala nell’omerico verso dell’Ariosto, salì eziandio a gran fama per maschie virtù cittadine; e siano argomento il consiglio da lei dato al consorte, al vincitore di Pavia, allorché i principi d’Italia lo scettro di Napoli gratulando gli proffersero. Conoscendo ben ella quanto sia difficile impresa il governare le nazioni con accorgimento, d’ogni vano orgoglio dispogliata lo persuase a rispondere col niego all’offertogli reame, a lui dicendo: Per me non desidero di esser moglie di re, ma si di quel gran capitano che seppe vincere non tanto col suo valore durante la guerra, quanto nella pace colla sua magnanimità i più grandi re.

III.

Ischia, al pari di ogni altra terra d’Italia, ebbe a patire mutamenti di fortuna e piraterie di ogni maniera: ma sarà sempre venerando il paese che fra l’ire degli elementi e degli uomini serberà come Ischia esempi di generose virtù. Mentre per tal modo io meditavo i destini dell’isola, il pittore che a me si accompagnava, in riva al mare, conficcato nell’arena l’ombrello, messo in acconcio il seggiolino artistico, e sedutosi di prospetto al castello, ne ritraeva i merli ed i baluardi. Egli rendeva coi suoi colori l’esteriore fisionomia, ed io accoglieva nel mio petto il sentimento de’ fatti gloriosi che vivificano la memoria dell’antica rocca. Compiuto ch'egli ebbe il suo lavorio, ravvolse come in un fascio l’artistico fardello, e seco mi trasse verso Casamicciola, grazioso villaggio da parecchie famiglie straniere eletto a piacevole dimora. L’amico mi dicea, cammin facendo, tornargli a grato ed utile passatempo quel continuo errare nelle modeste case del pescatore e del colono: e fra l’amo e la rete, fra la falce e ’I vomero, studiare e ritrarre gli usi della semplice vita, e goder le musiche e i balli delle popolane lor feste, non ancora contaminate da] fasto cittadinesco. Poco discosto dal paesello Lacco, ci si offerse alla vista presso casa campestre sotto un pergolato una bruna villanella vestita a festa alla foggia delle isolane, la quale coi neri e vivaci occhi vigilava a se d’intorno ventagli, canestri e cappelli da lei vagamente congegnati con paglia. La guardammo col godimento dell’ammirazione, ed entrato il Maltei in desiderio di prendere l’immagine della leggiadra isolana, studiò modo di rendersela benevola chiedendole se tenesse ventagli da vendere, ed ella rispose che sì: ci provvedemmo di due ventagli colorati a sembianza dell’iride, e lodatone il lavoro—Come vi chiamate? — la interrogò l’amico; ed ella — Lucia per servirvi. — 0 buona Lucia, volete permettermi ch’io vi faccia il ritratto? — riprese l’amico; ed ella sulle prime ritrosa, fece poscia il voler nostro, lieta forse del vedersi ammirata e di alcun denaro che aggiugnemmo al prezzo dei ventagli. Il pittore distemperati i colori su l’assicella tolse a dipingere la bella Lucia; la quale avea il capo coverto d’un velo color giallo, detto volgarmente magnosa, sulla fronte bizzarramente ripiegalo: dal velo le traspariva la nera capellatura chiusa da rosso fazzoletto spiralmente acconciato in guisa di turbante: dagli orli della magnosa dondolavano gli orecchini, ricchi di perle: serico giubbonetto di colore scarlatto con frange d’oro le si stringeva al seno, cui maggiormente illeggiadriva cilestre pezzuola scendente dal collo ed ai luoghi assicurata: ed un abito verde con grembiale violaceo compiva la vestitura di quella isolana. 1 Ritraendola quegli le andava dicendo —Voi siete buona, o Lucia: ben diversa di tante altre, che di soverchio vogliono esser pregate, e talvolta mi fuggono; non altrimenti che se la mia matita ed il pennello fossero due pugnali per trafiggere le belle isolane.  — Un dolce sorriso sfavillava sulle brune sembianze di Lucia, che andava accatastando le sue merci di paglia; ma a toglierla al nostro conversare accorse la vecchierella Maddalena, la suocera della vagheggiata. — Lucia, Lucia, sciamando, fa presto; andiamo a Lacco: sono le ore ventidue, è il momento della processione. — Ed io vi attendeva, rispose la nuora, eccomi pronta. — E a noi rivolta proseguì:—Vi deggio lasciare: vado a Lacco per venerare Maria Santissima, che oggi si festeggia: ed io più d'ogni altra donna ho debito di onorarla, perché nel canale di Procida, in una tempesta orribile, presso a Capri, mi salvò dal naufragio Io sposo, il caro Tore. — Oh si, povero figlio! ripigliava Maddalena, mentre andava pescando, il mare lo voleva morto, ma votatosi egli a Maria, fu salvo. — Frattanto Lucia andò a deporre in casa la sua mercanzia: il pittore col pennello nella sua tela fece alcuni segni qua e là che indicassero Maddalena, la quale vestiva l'antica vestitura delle isolane: la mantiglia al capo di lana rossa, orlata di color giallo, ed abito cilestre con grembiale di lino bianco. Siccome ad ogni istante si offrono all'uomo i contrasti della natura nella gioia e nel dolore, nella vita e nella morte, così pure il pittore ebbe accolte in un pensiero nel campo d’un’angusta tela Maddalena e Lucia, la vecchiaia e la giovinezza. Le donne ci salutarono e partirono: e noi ripreso il cammino errammo per diversi fioriti viottoli, e noi pure andammo a Lacco; dove giungemmo quando la processione già uscita di chiesa stendevasi per te vie folte di popolo devoto. Nel tramonto d’un bel giorno d’agosto una pia festa campestre in riva al mare, sotto il sereno cielo partenopeo, è scena soavissima che tocca il cuore! Croci, stendardi impressi di sante istorie, suoni di campane, ceri accesi, consorterie vestite in varie fogge, preti, monaci, componevano la processione echeggiante di preghiere, con cui traevasi il pio simulacro della Madre di Dio: intorno a cui vedemmo gran moltitudine di minuto popolo accorsa dalle vicine borgate, e dame nordiche da Casamicciola convenute, ed incontrammo Lucia e Maddalena che andavano snocciolando devotamente le deche del rosario. Molle barchette veleggiavano presso alle rive, e vedovasi un naviglio inglese, abitato da bellissima Miledi che vive nei regni delle acque e solo per breve diporto tocca la terra: ella pure salutava la festa di Lacco colle musiche del naviglio. Qua e là vagando ci diè negli occhi un ardente giovane tutto moto che allineava la processione, ed or ne faceva ritardare, ora accelerare il corso, e a chi dava il segnale perché si desse il fuoco ai mortaletti, ad altri perché alle musiche si alternassero i canti. In lui si fissarono gli sguardi di Lucia, ed — Ecco, esclamò a Maddalena, ecco il nostro Tore. — Oh benedetto giovane! era la gratitudine dell’ottenuto benefizio che lo incitava alla pia esultanza.

Posato il santo simulacro in mezzo alla via su d’un altare sparso di fiori ed odoroso d’incensi, al lungo ripetuto frastuono di squille, di canti e di mortaletti successe grave silenzio. Mute le campane, muti gl’inni delle devote consorterie, mute le musiche del naviglio inglese, muta la moltitudine atteggiata a preghiera. Solo un’arpa non era muta: l’arpa d’un buon vecchio che seguiva il simulacro traendo cari suoni dalle corde armoniose, e rendendo immagine dell’inspirato Davidde arpeggiale intorno all’arca d’Israello. In quell’arpa parea accogliersi l’armonia dell’universo, votato alla madre dell’Uomo Dio. Rapite in estasi dolcissima Lucia, Maddalena e Tore si guardarono colle lagrime agli occhi, accennando al divo simulacro, come se àd un tempo stesso, in guisa di tre corde in una medesima armonia, dir volessero: — Ecco la Vergine Santissima che ci rese la pace e la prosperità.

IV.

Non istà tutta nelle borgate la letizia per chi voglia visitare l’isola; egli dovrà salire l’Epomco per inebriarsi ad un acre purissimo che mette le anime in commercio cogl’immortali, quasi il premere le alte cime dei monti fosse un appressarsi alla regione dell’eternità, un attingere i tabernacoli del vero; epperò in quelle supreme aeree solitudini si sente lo spinto della divinità che scende dall’alto a raddoppiare l'umana esistenza. La gentilità ricorda Filippo il re di Macedonia che superate le faticose balze dell’Emo ordinò che sul vertice si rizzassero due altari, al Sole ed a Giove; e la Bibbia ricorda come gl’israeliti fossero più gagliardi nelle pugne combattute su’ monti, talché i Siri paventavano. venire  sulle montagne contra essi a battaglia, certi della sconfitta, ed eleggevano guerreggiare nelle pianure. Dal che come dalle istorie di tutti i popoli apparisce in ogni età il sentimento della religione avere governate le altezze dei monti; e la nostra Italia dalle Alpi a Mongibello mostra i suoi monti, santificati da cenobi e da pie tradizioni. L’Epomeo nel secolo XV vide sulle sue cime in onore di San Nicola sorgere un eremo per opera di Beatrice della Quadra con alquante sue compagne colà condottasi a rombica vita: le quali tramutatesi poscia in un cenobio aperto nel castello d’Ischia, l’eremo rimase diserto.

Ma l’Epomeo non dovea rimanere a lungo senza il culto di Dio, e siccome i monti di maggior grido dovea vedere ristaurati i suoi eremi ed animati nella preghiera dei devoti; il che accadde nei tempi del Borbone Carlo III per un esempio singolare di cristiana pietà.

Il tedesco Giuseppe Arguth capitanante l’isola, investendo due guerrieri dalla bandiera disertati, fu in forse della vita per il cavallo cadutogli sotto, e per gl inseguiti che cogli archibusi minacciandolo tentarono finirlo; allora egli invocò il Divo del monte, l’Arcivescovo di Mira, ed a lui votato usci d'ogni pericolo senza patirne sciagura nessuna. Ottenuta la grazia, depose le militari insegne per vestir la lana dei romiti, e trasse vita penitente nell’eremo di San Nicola, dove aperte nel tufo diverse celle, ed ornata la chiesa, in compagnia d’altri devoti finì i suoi giorni santamente, e fu sepolto nel tempio delle sue virtù testimonio venerando. Ora diversi altri eremiti mantengono in riverenza quel santo luogo, ed io Ira loro seduto sulle antiche lave meditai ai diversi destini dell’Epomeo.

Il gentilesimo associò all’Epomeo immagini di sacrileghe battaglie, rappresentando l’uomo fatto gigante nel male, insuperbito contro il cielo, e finalmente prostrato. Il cristianesimo mutandone il nome in quello di San Nicola, lo rese caro per fedeli racconti spiranti amore e pietà; e vi addita l’uomo composto alla preghiera pel ministerio delle buone opere in dolce consorzio col Dio delle misericordie. La gentilità vi additava Giove armato di fulmini sceso a terribile vendetta: il cristianesimo ricorda il santo uomo che per generosa carità salvò dal peccato la giovinezza di tre donzelle, ed al pellegrino che vi giunge coi versi dell'Alighieri parla piamente

della larghezza

Che fece Nicolao alle polcelle

Per condurre ad onor lor giovinezza.

Cosi meditando guardava intorno al monte, e tutta io vedea la bellissima isola festante di pampini, di case e di beate memorie; e poco discosto vedea Procida, forse memore ancora del tempo che alla sorella Ischia era congiunta. Più in là spingendo gli sguardi salutava da ponente Miseno, Baia, e quindi Posilipo e Mergellina: dalla banda orientale salutava Capri e il Vesevo. e i campi che un dì vantarono Pompei ed Ercolano. Alle voluttà dei siti deliziosi si frapponeva la terribile immagine della tirannide romana; la quale posate le cure del Campidoglio venne nei giardini di Partenope a sordidare le opere di Dio con barbare carneficine e con lascivie smodate: se non che i pensieri del terrore dissipavansi all’alitare di un’aria soave che ricreandomi i sensi rendeva l’anima leggiera ai voli della poesia. Per la qual cosa sul più alto vertice dell’Epomeo bo desiderato rivedere il devoto vecchio che sonante Tarpa tenea dietro alla processione di Lacco. Avrei voluto udire la sua arpa accosto le tombe degli eremiti; l’avrei ascoltata con riverenza, siccome l'arpa d’Israello sui monti di Dio: avrei sposato al Davidico stromento le soavissime rime che ad Ischia intonò nelle sue meditazioni Alfonso de Lamartine, il Geremia della Francia: il quale sotto questi Armamenti di luce e di canto attinse l’ambrosia più dolce della poesia: perché l’Italia o colla fragranza e colla splendidezza del suo cielo o colla narrazione delle sue istorie fu eletta da Dio ad ispirare i poeti d’ogni più colta nazione.

GIUSEPPE REGALDI.

L'ARROTINO

L'apparenza inganna, e l’abito non fa l'uomo, onde se per avventura vi faceste a credere che quella macchina dell'arrotino fosse di sì poco conto, come mostra, che quel grido prolungato, quella specie di cantilena; Ammola fòurf, l'Ammola forbici), o con più stretta sincope, secondo altri, Afo-urf, non fosse più che una voce volgare, v’ingannereste a partito. Che studio, che meditazioni, che sapienza, che poesia io quell'uomo con la sua modesta macchina! Prima di tutto è a far distinzione tra arrotini di prim’ordine o maiorum gentium, che van denotati col nome generale di, ed arrotini di second’ordine o minorum gentium, che sono propriamente gli ammola-forbici.

Quelli han loro grandi botteghe, spesso nelle strade più cospicue della capitale, ed il loro mestiere non istà solo in aguzzare, affilare, arruolare e brunire, ma, provveduti di ruote, ferri, pietre, cd altrettanti argomenti, fabbricano benanche. Ve ne sono francesi ed inglesi, e pur valenti napolitani; e della costoro opera si avvale anche il celo più elevato, perocché han delicatezza nel lavorare e conoscenza dell’arte. In cambio gli ammola-forbici, onde parliamo, son poveri girovaghi, spezie di tribù errante, che traggono alla capitale per accumulare un pò di lucro dalla loro picciola industria; e la lor conoscenza d’arte non è, a dir vero, squisita.

Campobasso è vaga città, collocata a pendio d'un picciol monte, capitale del contado di Molise, provincia del nostro regno, antica Sannio, ricca delle rimembranze di quei popoli formidabili  che sol dopo ventiquattro trionfi cedettero alla potenza romana, e che occupavano anche parte delle province di Capitanata e di Abruzzo Chietino. Ha molte e riputate fabbriche di coltelli, forbici, ec. ed i be’ lavori che vi si fanno son chiara testimonianza del progresso dell’arte. Giornalmente possiamo osservarne; e nelle nostre sale d’esposizione spesso abbiamo avuto il destro di ammirarne la bontà, l’eleganza e la maestria dell’esecuzione; ciò nondimanco par non esservi altro che lame e lavori ed acciai inglesi! Qualunque ne sia la ragione, a noi altro non occorre che dire, come gli arrotini (intendete sempre gli ammala forbici) nella massima parte vengano di cotesta provincia, o soli, o in compagnia di lor concittadini, e ne abbondano tuttodì le strade, perocché in patria, essendo così numerose ed accreditate fabbriche di acciai, potendo dirsi quella la principale industria, il loro mestiere, di picciola levatura, non troverebbero ad esercitar altrimenti. Veggonsene pure degli Abruzzi Aquilano e Chietino, forse ancor fedeli agli antichi compagni del Sannio, e taluno anche di Torre Annunziala, ne’ contorni di Napoli, ma questi son pochi.

. L’acconciatura dell’arrotino consiste all’incirca, in un paio di grosse scarpe ignoranti affatto non che della pelle lucida e della vernice, pur della mistura; calze lunghe e calzoncini stretti con fibbiette ai polpacci; camiciuola con piccioli bottoni di metallo a campanelline, breve giacca e cappello a piramide tronca. Questo, che si ritiene tuttavia da qualche osservatore delle patrie costumanze, può chiamarsi l’abito più fedele e genuino, l’uniforme per dir così, che si presenta a prima giunta al pensiero trattandosi d’un arrotino. Nondimeno nella più parte ha soggiaciuto a svariate modificazioni, sì che v’incontrerà avvenirvi più di leggieri in un arrotino dalla giubba cilestre e calzoni lunghi del color medesimo, rimboccati sulla scarpa: dal cappello elastico e morbidissimo, divenuto per età più che per nascita un facsimile di un cappello a soufllet, tanto in cima alla testa collocato da lasciar ravvisare perfettamente l’orizzonte d'un berrettino bianco, che sorge dal bel mezzo come la luna alle spalle d’un monte: in un altro, ribelle onninamente alle costumanze, vestilo con giacca e calzoni come ogni cittadino e (in con la coppola. Tutto invecchia quaggiù, ed anche un arrotino, se abbia un pò di sale in zucca, si persuade come dobbiam pure spignerci innanzi.

Dobbiamo a morte

Ciò ch'è nostro e noi stessi

dice Orazio; epperò ninno maraviglierà se si elevi una pira, per ardervi su, con mille altri vecchiumi, i. calzoncini ed il cappello a fiscella dell'arrolino. Convien dire inoltre come il rispetto monumentarlo e tradizionale vada sensibilmente scemando, e l’uomo, questo superbo animale, abbia rotto impudentemente il vincolo che il legava alle pantofole paterne o alle fibbiette dell'avo; si che i nostri posteri non vedranno forse mai più un arrotino tipo!

Persuasissimi di tal verità vi presentiamo un arrotino ritratto dal vero, in anima e corpo, com'io posso testimoniare, il quale non è dubbio che sia affatto del secolo, come il dimostra il suo vestire ed in ispecial modo il cappello.

Cadono le città, cadono i regni, ed è caduta anche miserabilmente cotesta foggia di cappelli morbidi e cedevoli di pel di conigli o peggio qualche volta. Fu costume degli artisti, specialmente pittori: li chiamano anche cappelli alla fiammingo, Ibrsc perché più in uso presso quella scuola; e molti sommi nell’arte coprirono il capo di cappelli a simile forma; poscia {tassò a viaggiatori artisti e non artisti, dotti ed indotti, curiosi e bauli; poscia anche a’ cittadini e spesso con certe facce anti artistiche ch’era una vera pietà; ed ha terminato finalmente per essere il retaggio degli arrotini e fin de’ concia tegami, il che vedrem meglio a suo luogo; quantunque, a dir vero, ambedue artisti sui generis; e così di tanti altri ordini volgari, come i venditori di bassa chincaglieria, che assediano le nostre strade e le nostre botteghe da caffè, tra’ quali, per quello spirito di gioviale imitazione che è nel Napolitano, non mancano curiose parodie toscane, francesi, e di regioni oltramontane eziandio.

Chiediamo scusa della digressione e ritorniamo a callaia; proponendoci di cominciar le nostre fantasmagorie, facendo vedere nell’arrotino un personaggio allegorico, un filosofo errante come Barbanera o permanente come Diogene; un negoziante, un menestrello, un grand’uomo infine che può sciamare «ho tutto meco» probabilmente con un poco più di ragionevolezza di quel cencioso filosofo che insuperbiva nella balorda idea di essere a questo mondo l’ingegno il più gran capitale dell’uomo. Pace alla memoria dei matti! — Esaminiamo la macchina del nostro arrotino.

Vien su dal mezzo un legno. È a questo attaccata una secchia di latta per ordinario mezzo logora e sudicia, di forma all’incirca d’una fiaschetta, pel cui collo s’introduce l’acqua, la quale cade giù, goccia a goccia, sull’orlo della ruota di pietra, per via d’un bocciuolo, che parte dal mezzo della secchia, frenato da un fil di ferro. Altri, in cambio della secchia adoperano una vecchia stagnata, altri un orciuolo. Passa pel centro della ruota di pietra, collocata tra due aste principali verticali, un'asse rotonda di ferro, mossa da una vicina carrucoletta, cui si avvolge una cordella, ligata alla grande ruota di legno. Un’assicella sull'estremità dritta della macchina è mossa da una grossa coreggia, che termina ad un ferro, presso a poco in forma di girella, il quale fa volger l’asse della ruota. Così l’arrotino, agitando col piede cotesta assicella, gira la ruota principale, e con essa, in conseguenza, la carrucoletta e la ruota di pietra. Questa freme allora sotto l’energico stropiccìo del metallo premuto da una mano potente sopra i suoi orli, e quando è molta l’antichità o la ruggine del ferro, non freme isola la poveretta, ma gridai,

Treman gli abitator dell'ombre eterne

Al rauco suon della tartarea pietra

e con ta’ gridi, ch’io gli odo distintissimi dal settimo piano, cui all’incirca corrisponde la casetta che abito; e le scintille di fuoco che schizzano, e gli spruzzi di acqua, che rompono con violenza l’atmosfera, sono ama bella lezione di fisica, forse non curata, perché si ha anche ad un tornese; da poter apprendervi la pila del Volta, la macchina pneumatica e la elettrica. Quando poi vi piaccia considerare la cosa dal lato morale, quel ferro che si annota raffigura la vita umana consumata dalla rabbia e dalle tribolazioni. Laonde non senza ragioni iodico quella macchina un trattato di fisica, un libro di filosofia; filosofia applicata e per avventura più utile di quelle, che per insegnar troppo l’io ed il fuor di me finiscono per non capirle più né l’io né il fuor di me, cioè né ionoivoi. — Andiamo avanti.

Nell’arrotino io raffiguro il tempo; l’arrotino è la vera immagine di Saturno; il tempo strugge, dunque arruota; chiarisce il vero, dunque brunisce; consuma, dunque affina; sviluppa l’ingegno e fa ravvedere gli uomini, dunque aguzza; onde, essendo ornai cosa fuori moda dipignere il tempo con la falce e l’ampolla, sarebbe altrettanto energico rappresentarlo col cappello a fiscella, in atto di arruotare. Ed eccovi uno squarcetto di mitologia.

È l’arrotino una specie di Arabo, di Germano, di Moro, ma invece del cavallo, della guerra, della sua donna, ama alla follia quella macchina, che fa alla sua volta da guardaroba e da magazzino portatile. Infatti è provveduta di diverse cassette, una delle quali, a lungo fondo, serve a riporvi qualche camicia, calzoni od altro, per poter il poveruomo, lasso e defatigato, sollevarsi alquanto in quella vita che mena, dall’alba lino a sera avanzata; un’altra lunga quadrangolare, inchiodata per lo più all’un de’ lali della macchina, serve di magazzinetto al suo negoziuccio di forbici, coltelli ec. In altre più piccole ticn cenci, qualche pietra ad olio, chiodetti, lime, martelli ec. Taluni hanno, in cambio, una borsa di cuoio, per riporvi tutti cotesti arnesi. Sulla macchina è anche un’ancudinetta fissa per accomodare, inchiodare od altro, e pervia d’una striscinola di cuoio vi è attaccato un martello. L’arrotino gira con la sua macchina sospesa alle spalle, mediante una grande coreggia, rendendo per tal guisa somiglianza d’una lumaca che seco tragga la sua casella.

Questo è almeno quanto posso dirvi, in generale, sulla costruzione delle macchine degli arrotini; ove poi voleste considerarle nelle più minute particolarità, avreste a perdervi la testa, ché io, per non narrarvi balorderie, essendo stato osservatore attentissimo di quante ne ho vedute, ho trovato quasi io ciascuna una diversità, tale avendo la ruota di legno più grande, tale più piccola, tale collocata nel giusto mezzo, tale più da un Iato, tale più da un altro, tale più su, tale più giù; tale più cassette, tale meno; l'una collocata in un modo, l'altra in un altro, benché veramente non sieno che modificazioni. Avvezzo a dominare il ferro, un arrotino non saprebbe forse comportare la monotonia d’una scrupolosa conformità! Da negoziante esperto, l’arrotino non di rado, lasciando in riposo qualche tempo la macchina, ponsi a vendere forbici, coltelli, temperini o pietre ad olio, per tentare anche quest’altro lato del commercio. Ei giuoca allora un vantaggio sicuro contro un incerto, sacrifica qualche giorno ad un’arte novella, forse ricordando il proverbio napolitano «Chi non reseca nun roseca.  Sono quelli in cui sovente ci avveniamo, i quali, portando sospesa al collo una cassetta contenente la loro merce, gridano con voci lor proprie — ForbiciaroColtellaroCampobassoCampobassese.

Vive egli principalmente con quell’ordine di persone, cui i ferri sono indispensabili, come la penna ad uno scrittore, il Donato ad uno scolaro, il soldo ad un impiegato; laonde han bisogno dell’opera di lui e beccai e bottai e tipografi e sarti e ligatori e mille altri; in ispecial modo poi i calzolai che il tengono occupato buona pezza della giornata; e Ira questi segnatamente ha l’arrotino, come ogni buon commerciante, i suoi acconti (clienti). Non di rado è chiamato su per le abitazioni, cd un arrotino, il ripeto ad onore dell’onestà ed anche della mia patria, mi assicurava di trovarsi piuttosto contento del guadagno che faceva in Napoli; tanto è vero che l’uomo dabbene e moderalo trova un tesoro nel po’ di pane che ricava dal suo stento e sudore, laddove all’avido è sempre miserabile appannaggio la più doviziosa fortuna! Questa povera ed onesta gente è anche educata a sufficienza per la sua condizione; il che non parrà maraviglioso in un uomo che arruota e brunisce di continuo.

Si riducono gli arrotini alla patria nel Marzo, e vi dimorano alcun tempo, perocché son destinati alla tosatura delle pecore nelle Puglie. Vi ritornano nel Dicembre, c, poi che per alcun giorno han diviso lietamente in famiglia il gruzzolo fatto, vengono di bel nuovo in Napoli; sì che può dirsi questo il lor domicilio elettivo. Senza voler far mica la scimia al giudizioso autore dell’opuscolo «Dante cuoco»  pongo anzi, come appendice, per l’arrotino, una mia idea; ch'ei fosse stato ricordato da molti illustri, o che almeno scrivessero o parlassero mentr'e' gridava per la strada. Ecco p. e:

Ombre ruote ed arene a passi lenti,

Atre, dure, minute i di togliete. Monti.

Se stessa affina

La virtù ne’ travagli. Metast.

Fra i vivi cote set d'invidia Insana. Della Gasa.

Adesso è tempo, adesso;

Finché limo tu sei molle e bagnato

Che con presto girar non intermesso

L'acre ruota ti foggi. Persio.

Amo meglio annotarmi che arrugginirmi

diceva Lastenia a colui che le faceva quasi un rimprovero del soverchio faticare. Vedete poter d’un arrotino! — E tante altre erudizioni, che vi sciorinerei di buon grado se fossi ricco di sapere come tanti miei amici; ma a me, convien che ne serbi un pochino per un'altra volta.

Gioverà ricordare quanto l’arrotino sia stato un tempo caro alle muse, solendo accompagnar sempre qualche canto al movimento della gamba e al monotono girar della ruota. V’ha una lunga canzone veneziana sull’arrotino, graziosa, ma per verità non castigatissima. Pasqualotto, quella produzione che brillò tanto sulle scene del nostro teatro popolare e terminò per invadere fin quelle de’ burattini; ha la sua canzone dell’arrotino sul motivo celebre, anche conosciuto col nome di Pasqualotto, perché in fatti Pasqualotto è una celebrità musicale classica, per avvalermi d’una voce tanto spesso stipala, e queste strofe avrete canticchiate o intese canticchiar di sicuro, essendo popolarissime. Non so perché sieno dirette precisamente alle donne, ma certo quell’uomo celebre di Pasqualotto dovette avere le sue buone ragioni. Ciò non pertanto ora, lo ripetiamo, si van cancellando tutte le belle rimembranze; ché, eccetto qualche Nestore del mestiere, il quale forse tenta talvolta di risvegliare la musa avvilita, l’arrotino è mulo al suo uffizio, e non si ode altro che il fremito della ruota, e tratto tratto la voce—A-fo-urf chioccia come quella di Pluto, o d’un secondo tenore de’ nostri teatri, che vale lo stesso!

L'arrotino ha dimenticato anche Pasqualotto e si che per un arrotino è un torto marcio quello di dimenticar Pasqualotto: è come un dilettante che dimenticasse i solfeggi, o uno de’ tanti nostri amici poeti, che dimenticasse Ruscelli. — Ecco intanto le strofe famose del Pasqualotto (di cui non garantisco la grammatica).

Donne, qui v'è il moletta

Donne chi vuol molar,

Correte tutte in fretta

La fornico a molar;

Donne correte tutte

La forbice a molar,

Correte belle e brutte

La forbice a molar;

Io fo girar la mola

Col tira lira là.

É un'arte che consola,

Che il bel mestier ci dà.

Io fo girar la mola

Col zira zira là.

É un'arte che consola,

Che il bel mestier ci dà.

Un giorno andai in piazza

Gridai; chi vuol molar:

Apparve una ragazza

La forbice a molar.

Donne qui v'è il moletta,

Donne chi vuol molar,

Correte tutte in fretta.

La forbice a molar;

Io fo girar la mola

Col zira zira là.

È un'arte che consola

Che il bel mestier ci dà.

Io fo girar la mola

Col zira zira là.

È un'arte che consola,

Che il bel mestier ci dà.


Un fac-simile sono quelle che si cantano nell'Ammola fruoffece, commedia del napolitano Orazio Schiano, la quale ottenne anche molto plauso sul nostro teatro di S. Carlino.

Prima di chiudere occorre un altro dubbio. — Onde derivò all’arrotino il suo ardore poetico? Qual sangue scorre nelle sue vene? Furono per avventura i suoi antenati bardi, caledoni, scaldi, menestrelli? — Nulla di sicuro su tal subbietto; la storia tace; io non sòglio già distillarmi il cervello con alberi genealogici, de’ cui rami non sempre può guarentirsi la nettezza: la tradizione indurrebbe a credere essere stato Pasqualotto il primo arrotino, l’arrotino nonno, ma io ho ragione di credere, in cambio, che il capo arrotino fosse stato un menestrello;

È un misto di veneziano ed italiano, italianizzato dal tempo, a quanto pare.

e lo ricavo da una antica ballata, che sudai a rintracciare, ed attenente senza alcun dubbio ai tempi di mezzo: la quale è questa:

Se al tuo prego non sia sorda

La più bella fruttaiola,

Da un violino che s'accorda

Se li salvi S. Nicola:

Il coltello e 'l temperino

Non toccar dell'arrotino.

Derelitto il patrio tetto.

Di valsente sprovveduto.

Va ramingo il poveretto,

Chi gli batte già il liuto:

11 coltello e 'I temperino

Non toccar dell'arrotino.

Quante volte alla foresta

L'usignuol non l'ha destato.

Col cappel sotto la lesta

Presso il muro addormentato.

Il coltello e 'l temperino

Non toccar dell'arrotino.

Sulla scala, oh quante volte!

daccanto ad un pollaio.

Con le luci al ciel rivolte

Sta aspettando il calzolaio!

Il coltello e 'l temperino

Non toccar dell'arrotino.

Campobasso scorse illeso,

Ogni monte ed ogni valle.

Col suo grido sottinteso,

Con la ruota in su le spalle.

Il coltello e 'l temperino

Non toccar dell'arrotino.

Arrotin seccato e lasso

All'alloggio pervenuto.

Sgrava il dorso e ferma il passo.

Paga al sonno il suo tributo:

Il coltello e 'I temperino

Non toccar dell'arrotino.

Se al tuo prego non sia sorda

La più bella fruttaiola,

Da un violino che s'accorda

Se ti salvi S. Niccola:

Il coltello e 'l temperino

Non toccar dell'arrotino.

ENRICO COSSOVICH.

 

L'ACQUAVITARO

L'acquavitaro u vulite?... Acquavità...

L'acquavit.

L'uomo del popolo sente. come il ricco, necessità di soddisfare ai bisogni della vita, e, non avendo i mezzi di costui per potersi provvedere di ciò che gli fa mestieri ne’ grandi negozi, trova nello stesso suo celo mercanti che gli vendo! no quanto gli e necessario, adattalo alla sua misera condizione ed a ciò che può spendere.

E però se il ricco trovava in Napoli magazzini di abili e stoffe ben forniti, splendidi negozi di ori e gioie, eleganti saloni per tagliare i capelli, e botteghe di caffè messe con gran lusso; l’uomo del popolo troverà pure come potersi vestire a prezzi discreti nella strada della troverà a comperare anella, pendenti, rosette, catenelle ed altri oggetti di oro o di argento nella via degli, delta così per il gran nu mero di orali che ivi si rinvengono; potrà andare da un barbiere che con tre grana fa la barba, e con cinque taglia i capelli, ovvero entrare invece da uno di quei barbitonsori ambulanti, che piantano la tenda nel luogo che più loro conviene, e che per un grano fanno barba e caruso, e scorticano il mento del povero paziente mettendogli una mela in bocca, mela che regge passando per cento iucche, fino a che non trova qualcuno più disperato del barbiere che la mangi a suo dispetto; e finalmente in quanto a quei piccoli desideri della vita, che son chiamati comunemente vizi, come sarebbe a dire il caffè, l’acquavite, la pipa, il tabacco o altro, l’uomo del popolo trova da poterli soddisfare a seconda del suo stato e della sua scarsa borsa, ed a quell’ora che più ne sente il bisogno. Ecco donde ànno avuto origine tanti piccoli mestieri, ecco donde ne sono venute tutte quelle piccole industrie, alle cui speculazioni ed al cui guadagno infinitesimale si danno quei della plebe. Or noi vediamo qui in Napoli molti uomini industriosi, che non uno di questi piccoli mestieri ma due o tre ne esercitano, per accumulare da tutti tanto da poter vivere onestamente essi e le loro famiglinole. — Noi ne presentiamo io questa opera un nel venditore di acqueviti, chiamato nel nostro dialetto acquavitaro.

Quest’uomo trae la sua sussistenza da tre piccole industrie, vendendo, cioè, acqua e facendo il pulizza-stivali nella stagione estiva; e l'inverno vendendo acqueviti e continuando a pulire le scarpe. Ed a questo modo egli trae il guadagno rinfrescando, illustrando e riscaldando i suoi simili. Ma in quest’opera, essendosi già parlalo del, di remo ora qualche cosa dell'acquavitaro, ed in appresso si tratterà dell'acquaiuolo ambulante.

L’acquavitaro! — Vedetelo! esso è fedelmente copiato dal vero, tal quale va in giro la notte e come di sovente se ne incontrano lungo la via Toledo.

L’acquavitaro porta, per una coreggia, appeso al collo il suo piccolo magazzino di liquori, i quali separali in varie bottiglie di vetro o cattivo cristallo, vengono rischiarati da’ deboli raggi di una piccola lanterna messa al Iato sinistro in sul davanti della sua cascetta (cassetta). Questa insieme alle bottiglie contiene de’ piccoli bicchieri dello stesso cristallo, che essi chiamano comunemente prese, forse perché è quella la giusta misura di acquavite che suol bere chiunque non appartiene alla casta degli ubbriaconi.

Nella stessa cascetta si veggono pure de'  sigarri, delle ciambellette fatte o rustiche con lo strutto e col pepe, dolci con una imbiancatura che dovrebbe essere zuccaro ma che invece è di farina, o coverte di un certo naspro fatto rosso a furia di lacca. Dal lato opposto al lanternino si trova un piccolo imbuto, che serve all'acquavitaro per travasare i liquori da una in altra bottiglia; ovvero per versarli io quella di qualche avventore che ne compra molte prese.

Fra tutte le bottiglie che si trovano nella cascetta ve n’è una più piccola delle altre, la quale contiene l’olio per alimentare la fiammella del lanternino. — L'acquavitaro non lascia quasi mai il suo vecchio mantello, e suol portare un fazzoletto bianco o di colore intorno al capo, che gli guarda pure le orecchie dal freddo, con soprauna coppola (berretto) di pelo di lontra.

Egli con la mano sinistra sostiene la cascetta, mentre con la destra porta il suo guaglione, specie di bastone su cui poggia il suo magazzinuccio, come in capo di un fattorino (e da ciò forse fu detto guaglione) ogni qual volta si ferma, o trova avventori che deve servire. Allora egli prende un bicchierino, versa s’acquavite e l'offre al compratore, il quale, tracannando quel liquore in un sol sorso, restituisce la presa vuota all’acquavitaro. Questi la pulisce ad un tovagliuolo; che fu bianco una volta e che porla seco presso il lanternino, e poi la ripone a giacere fra le altre prese sue compagne. — Ma veniamo al nome, alla origine ed alla provvenienza di que’ liquori, che con tanto gusto sono ingoiati dal ceto basso del nostro popolo.

I nomi co’ quali l’acquavitaro distingue i liquori che abitualmente suol portare, sono: centerba, rumma (rum), annese (anisi), sammuchella (spirito di sambuco più dolce); e questi vanno con la rubrìca di acqueviti: egli porta inoltre lo doce (il dolce) col quale nome contraddistingue una specie di mezzo rosolio, che, a seconda de’ sensi che è, vien particolarizzato co' titoli di stomateca (stomatico), ammennola amara (mandorla amara), caffè ec. ec. Ma oltre a ciò l’acquavitaro serve pure all’avventore la cosi detta mescolanza, ch'è un composto di acqueviti e doce; di rumma, sammuchella o ammennola amara’, ovvero di annese, rumma e stomateca....

Ma sapete voi, mie care leggitrici, la origine del doce?...

Sapete donde deriva questo nettare (che non è certamente quello degli Dei), questo squisito elisire?... Certo che no. —Voi non potreste immaginarlo!... Eccomi dunque a svelarvene i misteri, non senza attirarmi l’odio di tutti gli acquavitari di Napoli!...

Essi mi guarderanno in cagnesco, mi rimprovereranno questa imprudenza, ma io farò il possibile per non incontrarne alcuno, affinché non me ne venga male.

Il doce dunque discende in linea retta da’ sorbetti, ed ecco il come. — I sorbettieri e massime i più rinomati di questa capitale, per trarre qualche piccolo utile da quello che per essi è affatto perduto, sogliono gettare insieme in una botte, che tengono ne’ loro laboratori, tutt’i sorbetti che rimangono la sera; ed a quella specie di danno il nome di bolle della società.

Quando questa è piena si lascia fermentare quel guazzabuglio di latte, uova, frutta, sensi e sciroppo guasto, e dopo alquanti giorni si precipita tutto in una gran caldaia, e si fa bollire, e si depura di tutto ciò ch’è cattivo e solido in quel liquido, e poi si lascia sempre bollire, finché non è diventato un vero estratto di tutto quel rifiuto di sorbetti. Fatto questo, lo comprano i venditori di acqueviti all'ingrosso, e per attutire quei mille sensi di quei centomila sorbetti vi mischiano una forte dose di spirito di cannella, o senso di diavolone, che poi prende il nome di o di ammennola amara, dallo spirito de’ nocciuoli di pesche.

Coloro quindi che comprano questo nettare sono in primis gli acquavitari ambulanti; i padri di famiglia che vogliono fornire di rosolio la loro mensa ne’ giorni memorabili per quei di casa, ovvero per qualche festività nel corso dell’anno. E ne fa incetta pure talvolta la servetta per fare a Pasqua o a Natale un brindisi con lo studente che à promesso di darle la mano di sposo, tostoché giungeranno dalla provincia le carte, che poi non arrivano mai. Ma niuno sa prezzarlo tanto, quanto l’acquavitaro, che fa pagare il doce più caro di qualunque altro liquore. — L’acquavitaro esige un grano per ogni presa; e, da accorto economista, per facilitare la sua vendita, dà pure le mezze prese, che si pagano proporzionatamente un tornese o mezzo grano.

L’acquavitaro esce la sera alle 9 ore, e si ritira il dimane verso le 10. Se sembrerà strano a taluno che l'acquavitaro cominci la sua vendita ad ora sì tarda, per ritirarsi quando la città è in vita, non è così per costui: egli conosce bene quali sono le persone che sogliono profittare della sua piccola industria. E però voi lo troverete la sera presso i teatri, che ronza intorno a’ carrozzieri da nolo, i quali attendono la fine dello spettacolo per menare a casa qualcuno; e là è certo di trovar compratori, ché la casta de’ cocchieri è per lui quella che gli dà maggior guadagno, massime allorché vi sono delle feste da ballo.

In alcune ore della notte, quando la sua vendila è scarsa perché non passa quasi nessuno per le vie, va a buscar qualche cosa girando pe’ vari posti di guardia, ché quivi pure è sicuro di trovare buoni avventori.

Sul far dell’alba poi la sua vendita diventa lucrosa perché passa molta gente, come sarebbe a dire, il muratore che si reca al lavoro, l'artigiano che trae alla bottega, il servitore di qualche maestro, avvocato o medico che va dal padrone, ed altra gente di simil fatta. E cosi vendendo a sorsi a sorsi i suoi liquori, a questo delle ciambellette, a quello un sigarro, l’acquavitaro arriva a guadagnare nelle sere di carnevale fino a dieci carlini; e ritorna a casa contento di ciò che gli àn procacciato le sue piccole industrie, con le quali vive egli e la sua famiglinola.

FRANCESCO DE BOURCARD!

 

LA SERVA

Siete serve, ma regnate

nella vostra servitù.

VASTISSIMO è il tema che prendo a trattare, e delicato al tempo stesso. Per fare con esattezza la fisiologia della serva, o come dicesi modernamente, per narrare i misteri delle serve, bisognerebbe stare a porle chiuse. la invece scrivo a pagine aperte. I lettori adunque suppliranno a quel che io tacerò.

La serva, essendo un essere di genere femminile, ha tutti i vizi e le virtù del suo sesso. Ma oltre la qualità del genere, ha pur quelle della classe, e su queste sole mi creda in obbligo d’intrattenervi.

Esse si dividono in due grandi famiglie: napolitane e non napolitane.

Distinzione necessarissima a farsi, poiché le une differiscono dalle altre come le piante indigene dalle esotiche.

Quando vi bisogna una serva, due sono i mezzi di procurarvela: o presso i sensali, o per particolari ricerche. La serva che avrete dal sensale, sarà da costui assicurata come una colomba per costumi, come incapace di profittare d'un grano, come dotata di mille pregi rarissimi. In ogni caso, egli è al suo posto per rispondervi di lei.

Essa vi si presenta vestita decentemente, pettinata, lavata, profumata di pomata odorosissima di cannella. Vi assicura elle non ha alcun parente, e che perciò si è messa a far la serva. Accerta che è stata a servire nelle migliori case, e che sempre se ne è andata di sua volontà.

Dopo che avete con lei convenuto intorno alla mesata, al mangiare, al pane e vino, al dormire, non rimane mai sul momento a casa vostra: dovete aspettare l'indomani. Perché questo ritardo? Nol so.

Ma il giorno appresso si presenta meno decente del giorno prima. Sente tutto quello che deve fare in casa, ed incomincia a far brutto muso alle cose più naturali del mondo. Non pertanto per due o tre giorni si conduce plausibilmente. Scopa nuova. Solo si lagna del mangiare e della molta fatica..

Dal quarto giorno in pòi incominciano a scoprirsi le magagne. Non aveva parenti, ed un uomo che dice essere suo cugino la viene a chiamare.

Più tardi la cognata le vuol dire due parole. La casa non è bene spazzata e rassettata. I generi che compra cominciano a incarirc. Si consuma il doppio di carbone e di olio. Mandata per un servigio in luogo vicinissimo, ritorna dopo un'ora. Comincia a rispondere con un po' di mala grazia, che finisce con divenire insolenza. Cerca un quarto d'ora di licenza, e torna dopo due ore coll’alito fetente di vino e colle vestimenta in disordine.

Il povero padrone imprende a tenerle gli occhi addosso. S'informa dei prezzi, e scopre che la serva spende quattro e mette cinque a nota. Cerea di sorprenderla nelle sue assenze prolungate, e la trova o in mezzo la strada o sotto un portone che fa all'amore, innocentemente se volete, perché sotto gli occhi del pubblico. Fruga nella cucina, e trova nascoste boccettine con olio e mucchi di carbone e spesso sacchetti di lana tolta ai materassi. Che fare? Da uomo prudente il padrone o la padrona chiama a se la fantesca, e le fa una paternale ammonizione, la quale per lo più ha per risposta clamorose proteste d’innocenza. Insiste il padrone che se la cosa continua cosi dovrà scacciarla di casa. Alche la risposta ordinaria è: Fate come vi piace; voi siete il padrone.

Or volete conoscere la conchiusionc di questa faccenda? Tre sono le possibili soluzioni: o il giorno appresso la serva sparisce, ma questo è raro ad accadere; o viene ad annunziarvi che ha trovato un’altra posta e che le paghiate le giornate; o finalmente, se è trista raffinata ruba un oggetto e aspetta che l’accusiate come ladra.

Comunque la cosa si risolva, il padrone, nuovo in siffatte cose, corre al sensale, sicuro ch'egli risponderà d’ogni cosa. Inganno! Il sensale è il primo a dargli torto, dicendogli che maltrattava la serva, che le dava a mangiare pòco e male, che la faceva faticare come un cavallo, che per quella mesata non troverà mai una serva buona, che quella che aveva messo a stare con lui era incapace di rubare un tornese, e finalmente che ne ha in pronto un’altra assai migliore della prima purché voglia estendersi un poco in fatto di salario.

Povero gonzo! non gli credere, altrimenti starai cambiando una serva ogni quindici giorni, sarai rubato da tutte, dovrai regalare il sensale che te la propone, ed acquisterai cattivissima fama in tutto il vicinato. Vedete, diranno, in un mese ha cambiato tre serve: dev’essere proprio un capriccioso, uno che non sa comandare, che le fa morir di fame.

Nè vi crediate che per altra via abbiate miglior risultato.

Suppongo che stanco dei sensali, vogliate per mezzo delle famiglie che conoscete procurarvi una serva. Vostra moglie lo dirà a D. Caterina, D. Caterina alla zia, e la zia troverà una cognata della serva sua che si mette a servire per la prima volta perché il marito sta ammalato e non può faticare. Figuratevi quante raccomandazioni, quanti elogi, quanti panegirici. È una femina d’oro: si sacrifica per dare da mangiare alla famiglia: non era nata a servire, perché suo padre era alabardiere: la sera deve ritornar presto a casa, perché abita lontano e dee aver cura del marito: ha un bambino che poppa, e An che non si divezza le dev’esser permesso di tenerlo con se: insomma vuol esser trattata con carità. Per farla breve, dopo pochi giorni comincia la stessa storia, che non si Ada di salire e scendere tante volte al giorno le scale, che non ha forza di cavar dal pozzo tant’acqua, che la sera la rimandan troppo tardi, che il padrone è troppo sofistico sulla qualità e sul prezzo dei cibi, che essa finalmente non era nata per servire.

Naturalmente anche questa serva va via: e agli altri dispiaceri si aggiunge questa volta quello di sentir dire da D. Caterina e dalla zia: Vi avete fatto scappare una gioia di femmina.

Al diavolo queste e simili gioie. Se la serva è giovane, oltre ai pericoli di casa, vai soggetto alle sue distrazioni fuor di casa. Se è vecchia, ti vedi sempre innanzi un ospedale ambulante, che si lagna di sciatica, di reumi, di catarri, che non sente, non vede, ha gli occhi come Lia, il naso come la vecchia descritta dal Poliziano, si muove a stento: e in tanto ti senti dire: Almeno te ne puoi fidare, le puoi lasciare l’oro in mano. Bella consolazione per chi vuol essere servito! Se invece delle cittadine prendete le serve di contado,  nuovi inconvenienti vengono ad aggiungersi ai giù detti. Ordinariamente le provinciali vengono in Napoli o per seguire l’innamorato che è uscito nella leva, o per nascondere al proprio paese qualche accrescitivo. Nell'uno o nell’altro modo che sia, eccovi un saggio di ciò che accade con una serva contadina.

Ditele di portare un biglietto. Eccola pronta.

— Dove debbo andare?.

— Sai la strada di Chiaja?

— Imparatemi ed andrò.

— Sai il largo di S. Ferdinando?

— Ditemi dov’è, e lo troverò.

— Sai la strada di Toledo?

— Domanderò.

Lettor mio, non so se avresti la pazienza di continuare un dialogo di tal genere. Per me, la via più corta, sarebbe di prendere il cappello e andar di persona a portare il biglietto.

I giorni che il suo amante soldato non è di guardia, è impossibile che la serva pensi a servirti. Deve andare necessariamente a ubriacarsi col vago, o a Poggio Reale, o al Vomero, o Fuorigrotta.

Se l’amante parte di Napoli per andare di guarnigione altrove, sii certo di aver perduto la serva.

Per amor del ciclo, se hai figli, non affidarli mai alla serva, di qualunque età o sesso che sieno. Meglio affidarli al diavolo.

Coll’odierno progresso le serve hanno un incarico che anticamente avevano le cameriere, almeno nelle commedie. Ad esse l’incarico del1’ amorosa corrispondenza delle loro padroncine, e spesso spesso delle loro padrone! I regali piovono dal di fuori e dal di dentro, e spesso mangiano a due ganasce. In tal caso la serva diviene un membro di famiglia, immobilizzato per destinazione. Come mandar via una serva che tiene in petto i più riposti segreti delle donne? Ma io non so giungere a comprendere come una donna possa fidarsi di una serva, che pure è donna. Nei tempi antichi un augure al vederne un altro difficilmente poteva trattener le risa, poiché vedeva in lui la stessa impostura che in se stesso riconosceva. Ed ora una donna, che più di chiunque altro dee conoscere fino a qual punto altri può contare sulla femminile segretezza, non avrò ritegno di affidare i propri segreti a un' altra donna, e potrò credere che costei perda la natura donnesca? Veramente l’amore è cieco e le serve sono le gran birbe.

EMMANUELE ROCCO.

NOTA

ALL'ARTICOLO DELL'ARROTINO

TENGO accagionato in una lettera diretta da un associato al mio amico de Bourcard di avere, nella descrizione dell'arrotino, segnato col nome di Monti, quel principio di sonetto «Ombre ruote ed arene» che si appartiene ad Orazio Caputo.

Se l'autore è sbagliato posso assicurare come sia stato tratto in inganno io, e forse, prima di me, la persona assai dotta da cui tengo fin da tempo remotissimo il sonetto, assicurandomi esser di Monti.

E come non era strano che vi fossero cose di Monti inedite, e come d'altra parte (ciò che è più) di tal leggiadro e robusto componimento né Monti né qualsiasi valente poeta, almeno a mia opinione, avrebbe potuto adontarsi, di leggieri si scorge esser facilissimo il cader in errore

Ora poi, affinché via meglio dimostri come non mi cadde menomamente in animo di ledere al santo dettato dell'ius suum unicuique e come la coscienza sia la prima che abbiam di mira in questa opera, ripeto qui intero il sonetto, che prende somiglianza dei tre orologi a pendolo a ruote ed a polvere; che è il seguente: (spero non essere stato ingannato anche in questo)

Ombre ruote ed arene a passi lenti

Atre, dure, minute i dì togliete,

In linee, in ferri, in atomi cadenti,

I moti, i corsi, i precipizi avete.

Ombre letali al viver mio nascenti,

Ruote crudeli che l'età struggete

Arene gravi a'  miseri viventi

La pena, il crucio e 'l peso mio voi siete!

Triplice morte occulta edace e trita

Che appresta ognora e manifesta e ingorda

Lacci, stragi, perigli alla mia vita.

Qui m' intima l'orrore un' ombra sorda,

Cieca la ruota il mio passaggio addita,

E poca polve il mio morir ricorda!

Oltre a ciò da buono speculatore, traendo partito da tutto, aggiungo eziandio talune notizie favoriteci dal gentile associato sul Caputo, come le estraggo dalla lettera, non parendomi mica indegne della maggiore pubblicità, sia come più gran testimonio di gloria per l'A. sia come ammenda ad un errore involontario, sia come gloria cittadina onde ciascuno di noi debb'esser caldo, sia in ultimo per ricordar sempre più a tanti otri da vento a tanti asini d'oro come la fortuna si diverta pazzamente con gli umani destini e

...Che se natura

Regolasse i natali e dasse i regni

A quei che solo è di regnar capace

Forse Arbace era Serse, e Serse Arbace.

Torniamo a noi.

«Oraziantonio Caputo, del comune di Corato, in provincia di Bari, faceva il mestiere di ferraro ed era un celebre poeta, ciò che non deve far maraviglia perocché, avendo studiato lungo tempo e con calore, non avendo voluto abbracciar poi lo stato ecclesiastico, il padre sdegnato lo condannò al martello, ed Orazio si contentò di quel mestiere, anziché seguire una ingrata carriera.

«Intanto, quando ne aveva il tempo, non lasciava di scrivere qualche bella poesia e specialmente quella sulla vita umana, a proposito di che eccovi un aneddoto curiosissimo:

«Giunto in provincia il poeta estemporaneo Materangelis, un tal Forleo da Bisceglia, uomo dotto, il quale sapeva a memoria i sonetti di Caputo, ed era entusiasta per quello sulla vita umana volle dargli lo stesso tema. Materangelis ebbe la bontà di ripetere alla parola il sonetto di Caputo (Tra noi quanti fac simili del signor Materangelis!) Appena terminato, Forleo gli si avvicinò ed all'orecchio gli disse — Evviva il nostro Caputo!—al che Materangelis rispose — Ma se non si può far meglio (parata degna del più abile schermitore).

«Tornando poi a'  due versi mi è d'uopo ripetervi che sono i due della prima quartina di altro sonetto dello stesso Caputo. Se dimandate i Coratini, uno per uno, vi diranno la medesima cosa, perché tal nome si ricorda da tutti con piacere, e questo sonetto specialmente perché forma la gloria intera del paese. All'uopo eccovi un altro aneddoto:

«Quando viveva Caputo le nostre province erano sotto il dominio dei feudatari. Il duca d'Andria, che dominava anche Corato col titolo di marchese era circondato da persone istruite piuttosto (cosa assai rara a succedere). Parlandosi un giorno di Caputo, gli venne il desiderio di vederlo e di sentirlo. Venne perciò appositamente in Corato, accompagnato da due sedicenti poeti (rovina di tutti i secoli!) i quali per la strada dicevano al duca che sarebbe stato curioso di sentire a cantare un seguace di Pronte. Giunto in Corato, il duca spedì un messo a Caputo, invitandolo ad andar da lui. Caputo ravvolse il grembiule di pelle alla cintura e corse al duca, il quale appena lo intese improvvisare, maravigliato di tanto genio, lo pregò di voler entrare in contesa co' suoi due poeti, dandogli all'oggetto il tema de'  tre orologi. Orazio scrisse subito quel bel sonetto, mentre i due contavano le sillabe suonando il tamburo sul naso (Quest’uso antichissimo è stato per altro seguito da lunga generazione di poeti). Stanco alfine d'aspettare Caputo, rivolto al duca disse — Signore, io ho molto da fare alla bottega, e perciò me ne vado, e con un riso sardonico a'  due: — Signori, oportet studuisse non studere!»

E queste notizie se piaceranno al pubblico sarà la prima volta che non mi dolgo d'avere sbagliato.

E. COSSOVICH.

IL CENCIAIUOLO

L'UOMO non nasce vestito: invito tutt’i filosofi ed economisti a meditar meco su questo altissimo e importarne subbietto. L’uomo adunque, innanzi di essere abbandonato alle cure materne, è abbandonato a’ cenci. È questo, direm quasi, il primo bisogno che sente l’uomo non sì tosto messo il capo in questo mondo, per cominciare, secondo il Leopardi

Quell'affannoso e travagliato sogno

Che vita nomiamo.

I Cenci s’impossessano dell’uomo insin dal momento che vien fuora dal sen materno e non l’abbandonano mai più, neanche quando lascia la felice notte a’ parenti e agli amici per andare a dormire l’eterno sonno.

I bambini sono abbandonati alle pezze, in cui si ravvolgono come piccole mummie. Le pezze sono il primo tormento, la prima angustia, la prima di quella interminabile schiera di grandi e piccole miserie, compagne inseparabili della vita umana.

L’uomo futuro, il cittadino in erba, il candidato alla vita è stretto, pigiato, premuto, soffocato nelle pezze bianche, ne’ topponcini, ne' pezzini, nelle fasce: egli è un batuffolo di panni che grida, succhia e fa colori naturali.

Fatto più grandetto, cessa la prigione delle fasce e comincia la tirannia delle camicine, del camiciolino, del gonnellino.

Ecco l’età di quell'altra tortura infantile, acuì l’imperio de’ cenci sottopone l'uomo, vale a dire, la tortura delle falde, per le quali il bambino viene sostenuto dalle madri o dalle balie quando comincia a dar passi falsi.

Arriva poscia l’età in cui l'uomo è consegnato di peso in mano ai sarti. Ma pria di toccare di questi despoti della moda e della loro classe in Napoli, ne piace tessere brevemente la storia del primo vestimento che indossa l’uomo, la camicia.

Formerà questo un importante episodio della fisiologia del cenciaiuolo. di cui abbiamo tolto a parlare. Si sono scritte tante belle cose sulla cravatta bianca, sulla calzetta di seta, e financo sulla spilla, fratto d’unione d’ogni acconciatura, che non dovrà parer molto strano che io scarabocchi milensamente due ciance sulla camicia in un tempo in cui tutte le vive immaginazioni de'  creatori della moda sono rivolte verso questi piccoli e fini tessuti di subalterno vestimento, Che sì che la camicia debbe avere il suo posto d’onore tra gli articoli di mode, anzi le si dovrebbe a rigore assegnare il primo posto, sendo essa il primo vestilo che l’uomo indossi. Voglio prender però la cosa ab ovo, e schiccherare qualche cosarella di dottrina su questa pudica Vestale.

La parola camicia viene dal latino o dallo spagnuolo coma (letto), perché, come sapete, è la sola cosa che si tiene addosso quando si va a letto, tranne alcuni casi di eccezione. Non sapremmo dirvi da chi fu inventata, ma egli è certo che i Romani e i Greci non la conoscevano: era loro però necessaria la frequenza de’ bagni per nettarsi dalle immondizie che soglionsi apprendere a quelle parti del corpo più spesso esposte al contatto dell’aria.

L’invenzione della Camicia par che debba rimontare a’ principi del decimoterzo secolo. Le prime camice furono di saio, e quelle che servivano alla consacrazione de’ re di Francia erano di seta aperte e guarnite di cordoni. Pare che la camicia di lino non fosse ancora introdotta al 400, perché sappiamo che soltanto la moglie di Carlo III ne avea due di questa stoffa. Nel medio evo si chiamava camicia una specie di vesta di lino a maniche corte.

Sotto Errico IV e suo figlio Luigi III di Francia la camicia diventò importante, e, laddove per lo innanzi la vita di questo vestilo era stata oscura e vergognosa, sotto i raffints cominciò a mostrarsi nel suo vero splendore. I bellimbusti di que’ tempi usavano di farla uscir fuori dal pourpoint corpetto), tra quest’abito e l'haut-de-chausses (calzoni), formando così una specie di fascia ricca e a grandi sgonfi sul basso del petto. Da questo tempo in poi, la camicia fu veduta a poco a poco affacciarsi sulle sommità del petto e ad ornarsi di eleganti gale di merletti, secondo che l'occasione e I’ uso richiedevano.

La camicia inviluppa, circonda, ricopre i misteri della bellezza o della bruttezza corporale; essa è discreta come un’amica strettissima, come una compagna indivisibile; la sua maggiore o minore bianchezza vi dinota la posizione più o meno felice dell’individuo che la porla. Il termometro è giusto, esatto, e non isbaglia quasi mai. La finezza del suo tessuto e le gale onde la puossi abbellire costituiscono poi l’aristocrazia di questo vestito.

I diversi modi di portare la goletta della camicia vi palesano il carattere, gli abili e le consuete occupazioni degli individui. A mò d’esempio, lo studente non porta mai la goletta piegata sulla cravatta, perché la sua camicia fa il servizio d’una settimana: l’avvocato e il medico portano la goletta alta e ben insaldata: l’artista la porta rovesciata sull’orlo d’una piccola cravatta nera: l’uomo d’affari, l’impiegato, il diplomatico, e quasi tutta la nobiltà portano la goletta distaccata (faux) piccola, tonda e ugualissima; e finalmente il militare, vestito alla civile, di rado si vede con la goletta sporgente.

Oggidì la camicia varia di moda come la veste; la sua importanza è giunta a tale che sembra aver voluto gareggiare con l’importanza della cravatta bianca. Come questa, la camicia ha avuto i suoi fautori e i suoi avversari; ha subito le più atroci rivoluzioni della effemeride moda, ma in oggi la può dirsi all’apogeo della sua gloria, nel punto più luminoso della sua carriera. Oggidì le maniche da cui pendono due grossi bottoni, rivelano tutto il genio delle cucitrici e il loro amore verso questa parte importante del vestimento.

Ma a bastanza ci occupammo di questa modesta figlia dell’indigenza e del pudore, la cui fattura è abbandonata esclusivamente al debol sesso. Slanciamoci ora a toccare le sommità artistiche che rivestano di giubbe e di calzoni i figliuoli di Adamo.

Che cosa è la donna senza i sarti? Che cosa è l’uomo senza la mano portentosa che il veste? Non osiam definirli, ché troppo umiliante sarebbe ogni, benché larvata, definizione.

In Napoli, vi sono sarti di ogni abilità, per ogni stato e condizione: vi son di quelli che abitano sontuosi appartamenti e di quelli che si accomodano in anguste botteghe e che riuniscono al tempo stesso diverse industrie. Nominiamo con rispetto, nella classe aristocratica de’ sarti, i signori Lennon, Plassenel, Casamassimo, ec. ec. i quali han raggiunto la perfezione e l’altezza del genio, Londra e Parigi s’inchinano reverenti innanzi a questi colossi dell’ago, a questi Michelangeli del soprabito.

Ma a fianco di queste glorie, dobbiamo porre altre più modeste, ma non meno celebri, intendiam parlare di que’ proprietari di stabilimenti dove si vendono vestiti confezionati, come dicono coloro che hanno sempre il mele e lo zucchero francese in bocca. Sì, signori, in questo secolo in cui non si ama di perder tempo, in cui tutto è celerità febbrile, velocità di vapore, in questo secolo in cui le distanze spariscono e non rappresentano che punti matematici, non si vuol più aspettare che un sarto ti porti un abito dopo un mese dal tempo che ti prese la misura. Tu corri un bel mattino da Tesorone o da Pacilio, ed esci di là vestito come per incanto, e, quel che è più sorprendente, vestito così attillato come se gli abiti fossero stati tagliati e cucili addosso alla tua persona. Senza parlare di quella sensibilissima economia che si fa, non pur di tempo, ma di danaro, però che una giubba, un paio di calzoni, un corpetto ti costa presso a poco la metà di quel che ti sarebbe costato se l’avessi fatto fare al tuo sarto parigino, siciliano o tedesco.

E una curiosa osservazione a fare, che al presente i sarti, i calzolai, i cappellari ed altra gente di simiglianti mestieri hanno ad essere parigini, siciliani o tedeschi. Che la moda richiegga da lungo tempo le cose e le persone di Francia perciò che risguarda il vestire e il cucinare, è nolo e stabilito; in questo la Francia si gode a buon dritto la supremazia, e nessuna nazione al mondo ha mai preteso di contrastargliela. In fatto di cuffie e di pasticcetti la Francia ha il primato, e buon prò le faccia! Ma tornando agli opifìci di vestiti belli e fatti o confezionati, se vi garba, ne abbiamo al presente parecchi in Napoli, e più ne avremo, non ostante la guerra che fanno ad essi tutt’i sarti. Ma che volete, signori miei? Persuadetevi che il denaro è denaro, e il tempo è tempo; e chiunque risolve il gran problema di economizzare l’uno e l’altro rende un gran servigio alla società.

Non si creda per altro che l’introduzione di questi stabilimenti di abiti fatti sia nuovo e recente nella nostra capitale. Da moltissimi anni noi avevamo ed abbiamo un gran numero di botteghe nella strada de’ Guantai, al vico Travaccari (volgarmente detto vico de'  Baraccari)  e alla strada Medina. Gl’industriosi proprietari di queste botteghe non affettano lusso e magnificenza, perché il loro modesto guadagno deriva in gran parte dal basso popolo e dal medio ceto: barbieri, tessitori, calzettai, calzolai, lustrastivali, banderai, tintori, farinai, beccai, trippaiuoli, pizzicagnoli, fruttaiuoli, droghieri, muratori, imbianchini, magnani, ramai ed altre mille specie di costoro che esercitano arti meccaniche, come eziandio studenti, impiegatucci, pittori, flebotomisti, esattori, ed altri mollissimi vengono a rifornirsi di vestimenti in queste botteghe a prezzi discreti e ragionevoli. Attraversate il vico Travaccari o la strada di Fontana Medina e vedrete a dritta e a manca sospesi e pendenti sulle botteghe calzoni, giubbe, mantelli, Terraiuoli, corpetti, giacche di ogni dimensione; di ogni misura, di ogni qualità. E se andate a dimandare un soprabito, il negoziante trarrà da uno stipo enorme un enorme cassetta, e schiererà a’ vostri sguardi un batuffolo di soprabiti, ve n’è un centinaio; scegliete: la vostra scelta paleserà il vostro stato, la posizione sociale che occupate, le vostre tendenze, la vostra età, il vostro gusto.

Ci è una scala graduala di venditori di vestimenti, da Tesorone fino all'ambulantc venditore di robe vecchie, di cui offriamo l’immagine ai nostri lettori con la figurina che accompagna questo articolo.

Vedetelo; sovra un braccio ei stringe tutta la sua merce, il suo capitale; e nell’altra mano tiene aperti e ritti vari cucchiai ed altri utensili di staglio per cucina, oggetti di libero scambio che ei dà per qualche panno vecchio e sdrucito.  Nella strada Fontana Medina vedesi ancora la penultima espressione dell’industria di vestiti, vale a dire le venditrici di robe vecchie. Queste industriose danno la mano all’ultimo anello della graduazione di questa industria, che è per lo appunto il Cenciaiuolo.

Pochi giorni fa stetti quasi un’ora a contemplar questo rispettabile industrioso che cammina mezzo mondo per procacciarsi l’obolo quotidiano: la sua merce è un pò di sapone e alquanti lupini, e talvolta eziandio un. pugno di carrubbe.

Egli non vende la sua mercanzia, ma la dà bensì in iscambio di pochi cenci vecchi e logori.

Vedetelo: sospesa a un braccio ei recasi la cesta che deve raccogliere gli stracci, e appeso all’altro il paniere in cui contengonsi gli oggetti che ci deve spacciare. Tra gli oggetti che il cenciaiuolo prende in cambio della sua merce notansi anche talvolta vecchie masserizie di casa, tra le quali antiche dipinture e quadri di un merito mollo ambiguo e dubbioso.

Non vi è strada romita e solitaria che sia, nella quale il cenciaiuolo non faccia udire la sua voce rauca e stanca pronunziando alla distesa la parola sapone. I fanciulletti del popolo, i furbi monelli gli corrono dietro offrendo chi un avanzo succido di moccichino, chi un lembo di grembiale, chi un canavaccio di mille colori, chi uno straccio di pezza; e tutti vogliono i lupini, le carrubbe e i pastorelli, cioè bambocci di creta che si pongono nel Natale su i presepi; e questi bambocci sono la merce principale ch’ei pone in commercio.  

Il cenciaiuolo ha davvero una seria faccenda per le mani, quando ha da contentare parecchi di que’ diavoletti ghiottoncelli i quali non sono mai soddisfatti della porzione che dà loro l’onesto industrioso. Le donne poi gli offrono cenci più sani, più bianchi e più fini, e dimandano in compenso un buon cartoccio di sapone pel bucato. Il cenciaiuolo, comeché di naturale flemmatico e poco espansivo, ha nonpertanto sempre garbatezza e riguardi per le donne, cui non manca di dir talvolta un motto di galanteria, e si fa lecito puranche non poche volte di stringer la mano a qualche bella lavandaia o stiratrice, nel porgerle il cartoccio di sapone.

L’ho veduto anche regalar graziosamente un pastorello o un dieci lupini a qualche povero monello che non avea neanche la propria camicia da dargli per cencio.

Tra le tante innumerevoli piccole industrie delle vasti capitali, quella del cenciaiuolo è la più innocente, la più disinteressata e la più popolare. Egli non mira intrinsecamente al valor delle merci che gli si dànno in cambio de’ suoi lupini e delle sue carrubbe: ogni maniera di cencio, fa al suo caso; ogni qualsiasi frastaglia aumenta la massa del suo capitale a due grana il rotolo: egli non bada né a’ colori né alla finezza de'  tessuti che stiva nella sua cesta.

La fanciullaglia che gli si accosta per barattar con lui, si parte sempre contenta del cambio ricevuto, tranne che si trovi tra que’ tristanzuoli qualcuno più seccante, più lecconcello che gli va dietro lunga pezza, chiedendo due altri lupini o un altro bamboccio.

Il cenciaiuolo scevera la sera i cenci che gli si sono dati nel corso del giorno, scompartisce la tela dalla mussolina, e fa tante sezioni per quante sono le diverse qualità di tessuti capitategli. Ma tali scompartimenti e sezioni nulla gli fruttano di più, imperciocché il suo capitale vien considerato in quantità e non in qualità.

Il cenciaiuolo gitta il primo elemento della civiltà delle nazioni: senza la sua industria non potrebbero esserci que’ tanti magazzini in cui si fa spaccio di quella pallida figlia del progresso, la carta. Dalla cesta del cenciaiuolo nascono, come la farfalla dal bruco, que’ sommi volumi dove sta scritta la storia de’ popoli, e dove l’ingegno dell’uomo ha fissalo i suoi maravigliosi e altissimi voli.

L’andatura del cenciaiuolo è lenta e pensosa: raramente egli ride, raramente si mischia al gaudio delle feste popolari. La sua vita è trista e solitaria. Benché ignaro dell’alta missione che la società gli affida, egli ne sente per istinto l’importanza, ed è però il più grave e malinconico di tutt’i vagabondi industriosi.

Il cenciaiuolo è il vero cinico della nostra società: egli guarda con occhio indifferente e spregiatore i be’ palagi de’ signori, le seriche cortine de’ balconi, i fastosi damaschi e i magnifici tessuti de’ magazzini di moda: contempla con ischerno la seta e il raso onde si covrono le dame del gran mondo, e grida con ironia: Chi tene i pezze, u pasturiello!

Con queste parole egli intende dire; o voi che possedete seta ed oro, voi non siete che creta e cenere! ovvero ei pronunzia il suo molto dileggiatore (sapone) col quale significa a’ vanitosi del secolo come ogni cosa bella e sontuosa dovrà pure alla fine ridursi in miseri cenci da scambiarsi con poco sapone. Alcuni pretendono, e forse non senza qualche fondamento di ragione, che quando il cenciaiuolo fa udire la prolungata parola ne, egli intenda l’Omnia vanitas vanila, cioè che tutto non è che bocce di sapone, le quali andate in aria, risplendono di tanti gai e brillanti colori, e che poscia un lievissimo soffio annienta e riduce a misera goccia d’acqua.

FRANCESCO MASTRIANI

 

CASTELLAMMARE

Tutti convengono qui d'ogni paese.

Dante.

In un’opera come questa, scritta più per lo straniero che pei: napolitani, non deve certamente andar dimenticata una breve narrazione di Castellammare, de’ suoi costumi e della vita i che ivi si mena nella stagione estiva; nel quale tempo napolitani, provinciali e stranieri si recano in quella città per godere di un aere più fresco, per bere le acque minerali che colà sorgono e finalmente per la consuetudine o quasi direi mania di correr dietro alla moda; la quale impone che de’ mesi dell'anno se ne abbiano a passar quattro solamente in Napoli e otto girandolando per le sue vicinanze e suoi contorni. E però questa legislatrice capricciosa esige che ne’ mesi di marzo, aprile e maggio si vada sul Vomero, sull’Arenella o in altri siti elevati vicino a questi; in giugno, luglio, agosto e metà di settembre a Castellammare, Sorrento, o più lungi ancora, verso la costiera di Amalfi; e in tutto il mese di ottobre a Portici o Resina, donde si ritorna dopo aver mangiato il gallinaccio e la copela nel giorno di S. Martino.

Qualunque straniero arriva in Napoli, venga per affari o per diletto, non manca mai di fare la sua gita a Castellammare e di là passare a Sorrento, per godere, più di ogni altro, della deliziosissima via che mena alla patria dello sventurato cantor di Goffredo, e che offre allo sguardo del passaggiero un continuato spettacolo di tante svariate e pittoresche vedute. E se per lo passato tre ore di faticoso viaggio in carrozza, un nembo di polvere e l’ardore del sole non rattenevano lo straniero dal correre fino a Castellammare, non è a dire di quanto ne sia aumentato il concorso, ora che vi si può giungere in meno di un’ora per la più bella strada a rotale di ferro, tracciata in mezzo a deliziosi casini, a ubertosi orti e ridenti villaggi, che fuggendo rapidamente l’un dopo l’altro da un lato, ti lasciano dall'opposto la grata vista del mare e della pittoresca costa che sempre li accompagna.

Ora dunque che Castellammare si è più levata in grido presso di noi e dello straniero per l’ameno cammino di ferro, per le fresche aure, per le acque minerali, pe’ suoi bagni a mare e pei suoi asini, crederei farle il più gran torto se non ne dessi un breve cenno in questa opera, il cui scopo si è quello sempre di svelare, con l’aiuto della storia o della tradizione, la origine di quegli usi e costumi che si rendono affatto caratteristici in questa più bella parte della penisola.

E per cominciare dal principio, come suol dirsi, senza qui sciorinarvi un trattato di geografia fisico politico statistica di Castellammare, e senza rompermi il capo a discutere con gli archeologi su la origine dell’antica Stabia, accennerò brevemente che sulle rovine di questa città è stata fondata la moderna Castellammare; la quale, per quanto ne dice qualche scrittore moderno, ritiene questo nome da un costruito a’ tempi di Carlo I d’Angiò prossimo al mare; e Castellammare non à conservata altra eredità dalla sua vecchia madre Stabia che l’antico porto, qualche avanzo dell’anfiteatro nel luogo detto ora Varano e i ruderi di un ginnasio presso 1‘ osteria del lapillo.

Dirò che Castellammare à pure avuto i suoi uomini illustri fra i vescovi e Magistrati; e che oggi vi son tutti negozianti e speculatori, la più brava gente del mondo, che pensano a rendersi illustri col lustro dell’oro che guadagnano e che è il frutto de'  loro onesti traffichi e delle loro ponderate speculazioni sul cotone, granone, grano, sulla robbia, su le paste e pelli lavorate, e su' tessuti di lana, cotone o filo.

Dirò che è popolata di circa 20 mila anime, e queste anime si aumentano di molto ne’ mesi di està; che i Castellonici sono gentili, buoni, cordiali, onesti; che ànno un seminario, delle scuole comunali, un conservatorio per le orfane, un ospedale civile ed un altro militare.

Dirò pure che Castellammare à un cantiere stabilito da Re Ferdinando I, fin dai primi anni del suo regno, e che dal 1841 in poi è stato ampliato da Ferdinando II, con farvi aggregare il cantiere mercantile ed aggiungendo nell’antico un nuovo scalo per costruzioni di vascelli e fregate, una macchina a vapore per animare i torni e le fucine, un’altra macchina per la pruova delle catene di ferro e molti altri magazzini; per modo che oggi è il primo arsenale del regno, e tale da far invidia a quelli di molte nazioni di Europa. In esso sono stati costruiti la maggior parte de’ nostri legni da guerra, e non à guari furono varate quattro fregate a vapore, mentre ora si attende alla costruzione di un vascello.

Dirò... dirò infine che Castellammare è celebre per l’aria, per le acque minerali, per le eccellenti giuncate e ricotte, per le ottime gallette , e per la gran quantità di asini e ciucciari .

Se poi a qualcuno non bastassero le poche notizie che ò date, potrebbe leggere il Viaggio da Napoli a Castellammare del chiaro sig. Giuseppe del Re, ove ne troverà a dovizie. — A me resta ancora a dire di molte altre cose sugli usi di questo paese..

Pel villeggiante di Castellammare andar alle acque il mattino è una occupazione, un affare, un obbligo o, direi quasi, un dovere. La sera al caffè vi sentirete dimandare da tutti: — Domani andrete a prendere le acque?—Non mancate domani alle acque. —Ci vedremo alle acque. — E, vogliate o non vogliate, abbiate o pur no il desiderio di andarvi, dovrete levarvi dal letto di buonissima ora per non mancare alle acque.

Eccoci dunque alle acque.

Qual varietà, qual movimento in quel recinto che diletta ed affligge, che offre uno spettacolo misto di allegria e di tristezza! Vecchi e giovani, uomini e donne, belle e brutte, ricchi e poveri, nobili e plebei, ammalati e sani, tutti vanno alle acque. Chiunque non è Castellonico deve pagare la sua entrata nello stabilimento, beva o pur no, con due grana.

Oh, quanti acquaioli, !!.. Che brutte figure!!.. Che visi pallidi!.. Che fisonomie sparute!...

Vedi là quella giovanetta?... Ella è tutta intenta a curare sua madre, la quale, seduta sopra un banco di pietra, debole, pallida e stecchita, tenta riacquistare la sanità bevendo la tonica acqua ferrata del pozzillo.

Guarda quell'uomo dal ventre gonfio che passeggia, con un grosso bicchiere pieno della catartita e dioretica acqua media in una mano, e delle ciambellette nell’altra. Egli spera così far scemare l’idropica sua epa-croia; e, diventando snello e mingherlino, rendersi più gradito agli occhi della sua Dulcinea.

Ma chi è quel giovane biondo da’ mustacchi volti all’insù, che tutto si dondola e si pavoneggia presso quel gruppo di fanciulle sedute all’ombra degli alberi? È forse un ammalato?... Oibò!. Egli non manca mai di andare alle acque il mattino, non perché il suo fisico ne senta il bisogno, ma perché Ih conviene una quantità di belle giovanette, le quali sarebbero desolate di non trovarvelo, per ridere alle costui facezie ai suoi motti arguti o forse alle sue spalle.

Egli è uno di quegli odierni lions che corrono dovunque è molta gente, più per farsi osservare ed ammirare, che per ammirare ed osservare!... E quando da un lato veggo costui, dall’altro scorgo un uomo in su’ quarant’anni, gracile, debole, sparuto con un bicchiere colmo di acqua sulfurea ferrata atto a guarirgli un erpete che gli h preso il mento; e, bevendo bevendo, guarda con occhio di commiserazione quel giovane bellimbusto, e pare gli dicesse: — Giovinotto, venti anni or sono anche io era vispo e gaio come te, ma ora... guarda a che mi à ridotto una sregolata e tempestosa gioventù!...

Oltre alle acque che sono nello stabilimento vi è la stomatica e dioretica acqua acetosella, che è acidetta anzi che no; e la terribile acqua del muragliane, della quale vi sono de'  pazzi che ne bevono ne bevono ne bevono, fino a che Basta!... sul merito di ciascuna di queste acque potrebbesi dire con 

Dulcamara, che

muove i paralitici,

Spedisce gli apopletici,

Gli asmatici, gli asfitici,

Gl'isterici, i diabetici;

Guarisce timpanitidi,

E scrofole e rachitidi,

E fin il mal di fegato

Che io moda diventò.

Ma lasciamo stare le acque, ché già parmi di averne bevute tante da sentirmi quasi idropico; e invece inforchiamo gli arcioni di qualche pacifico somaro, per andare sopra Monte Coppola.

È questa la più bella passeggiata che il mattino far si possa in Castellammare, dappoiché si va sempre all’ombra di fronzuti e spessi alberi, che ti fanno godere di una grata e leggera brezza sino alla cima del monte.

Per salirvi bisogna prendere un asinello.

Non si tosto chiamo un ciucciaro, eccomi assediato, circondato e quasi pestato da ciuchi e da conduttori di asini.

Finalmente mi trovo montato sopra uno di quegli asinelli senza saper come, ed accompagnato da mille ah!.. ah!.. ah!.. per ridestare nella mia bestia quel vigore che più non è o per mancanza di vitto o per la troppa fatica, lascio di galoppo la piazza del, perseguitato dal mio ciucciaro, per salire sul monte; mentre gli altri asinai si fanno tra loro un grazioso scambio di cortesie non udite mai, per la preda del passaggiero perduta, gridandola croce addosso al fortunato che s'impadronì della mia persona per formi ballare sulla sua bestia a rischio del mio povero collo.

Ma giunti alla salita del monte l'asinello rilenta il passo, quasi per darti l’agio di osservare le pittoresche bellezze di quella via si amena; ed allora

O' Voi che io bocca il sigaro tenete,

Fumando in ogni tempo e in ogni loco,

Deh!

cavatelo fuori dalle vostre saccocce, ed accendetelo; ché in fede mia non vi avrà mai dato tanto gusto, quanto il fumarlo in quel sito, a quell’ora, e procedendo con quel passo tardo ed equabile della più paziente bestia del mondo.

Intanto, lungo il cammino, vi farò conoscere un poco il ciucciaro.

Il ciucciaro!.. Egli è quel giovane che corre sempre dietro il suo somarello, armata la mano da una bacchettina per fargli sentire la forza del suo comando, ed al quale parla col più laconico linguaggio. Un ah! secco ed un ih! prolungato bastano per avviare o far fermare l’asino; servendosi della bacchettina nel crescendo del trotto o del galoppo.

Il ciucciaro, dall’alba fino a notte, non fa che accompagnare sempre il suo somarello, salendo e scendendo monti, girandolando per Castellammare o per quei paeselli circostanti, covrendosi di polvere, bruciandosi al sole, bagnandosi alla pioggia, a seconda della volontà de’ passaggieri; e sta sempre pronto a correre come se allora uscisse di casa, altrimenti verrebbe ingiuriato, maltrattato, e forse forse gli toccherebbe pure qualche bastonata. Ma non è questo mai il motivo che spinge ad alzare il bastone contro di lui, perché, essendo siffatto modo di vivere divenuto una consuetudine, egli corre anche più del suo ciuccio.

Quando poi si ritira trafelato, pieno di polvere e grondante sudore, trova nella stalla la sua camera da Ietto, ove la paglia fa le veci di un soffice materasso; e gittato su la stessa, riposa per tre o quattro ore le stanche membra dalle durate fatiche del giorno.

Vi sono pure de’ conduttori di somarelli che menano una vita meno penosa e meno faticata; quelli, cioè, che sono pagati a mese da qualche signore, il quale, prendendo in affitto il somaro, vuole ancora la sua guida. Allora bisogna vedere il ciucciaro! tutto vestito bianco, con un fazzoletto di seta nera fermato al collo da un gran nodo, le cui punte svolazzano in balìa del vento, ed in capo una paglia piena di nastri di vari colori parimente di seta. Vestito a quel modo egli diventa il fashionable il lion de’ ciucciari, desta l’invidia dei suoi compagni e l’amore di tutte le vispe contadinotte del paese e de’ contorni.

Il ciucciaro è allegro, ti fa ridere con le sue facezie, canta le canzoni popolari se vuoi, e a questo modo si cattiva la benevolenza dei passaggieri, affinché la mancia per comprarsi i maccheroni, come essi dicono, non sia tanto avara.

Il ciucciaro capisce il francese e vi risponde nello stesso idioma, e cinguetta anche un pochino l’inglese. Egli non fa che vantare la velocità dei suoi asinelli, a ciascuno de’ quali à imposto un nome, come a dire Barone, Ciccillo, Coviello, Rafaniello, Cocozsiello o altro più bizzarro ancora; ma io ò sempre trovato migliore per il moto quell’asino che è di più brutta apparenza e che meno viene stimato dal ciucciaro.

Costui, come la formica, lavora nella state e provvede pel verno.

In effetti egli mette da parte per la fredda stagione quel tantoché può noi suo salvadanaio, per non essere obbligato nelle gelide ore mattutine di andare a caricar legna in su le montagne, con la quale fatica vive allora che Castellammare non offre alcun guadagno per sé e pel suo asinello, che il più delle volte vende nel verno, comprandone altro la prossima stagione estiva, se pur lo stato di sue finanze non gliel vieta affatto. Ma prima di giungere a metter da parte una trentina di ducati quanta fatica non deve egli spendere! quanta polvere non deve ingoiare! quanto sudore spargere!

Il punto di riunione de’ ciuchi e de’ loro conduttori è la piazza del Quartuccio, donde muovono per riunirsi alla stazione della strada a rotale di ferro ogni volta che giunge il convoglio da Napoli, e quindi, se non ànno avuto fortuna nel trovar passaggieri, ritornano al loro posto. Di là poi se si addanno di qualche straniero, di lontano cominciano a chiamare, a salutare e ad invitarlo a montare a ciuccio: e, avvicinandosi a lui, tanto lo stringono e lo circondano che a stento egli può liberarsi da quell’intricato laberinto asinesco.

Ma eccoci arrivati in cima al Monte Coppola!

Questa collina ritiene siffatto nome da un palazzo de'  Conti Coppola, che trovasi quasi a piè della stessa.

Giunti lassù, che bello spettacolo ti si para innanzi agli occhi 1 Quale incantevole panorama!... Napoli, il monte Vesuvio, Torre dell’Annunziata, Pompei si scorgono a mano a mano rimpetto a questa montagna.

Alle sue falde poi stanno Castellammare. Qui si sana  ed altri luoghi circostanti; e in mezzo al mare vedi l’isoletta o scoglio di Revigliano con la sua piccola torre, che trovasi poco discosto dal lido. Tutti questi paesi chiudono quel mare si limpido e si cristallino, in cui riflettendosi il nostro azzurro e sereno cielo compongono il più bel quadro che la natura abbia potuto creare, e che è dato a noi solamente di possedere in questa più bella parte dell'Italia.

Mentre dolcemente ivi ti riposi, vedi di lontano avanzarsi dalla parte di Napoli, su due nere linee parallele che si prolungano e si perdono alla vista nell’abitato, una cosa che cammina e che sembra assomigliarsi per la forma quasi ad uno di quei vermi detti millepiedi; ma che poi riconoscerai per il convoglio della strada a rotale di ferro...

L’ora intanto avanza, ed è mestieri di scendere a Castellammare per prendere un bagno.

Il bagno a mare è un altro dovere imposto dalla villeggiatura di Castellammare, e non se ne può fare a meno. Avrai un bel dire le tue ragioni di non voler fare il bagno, saranno credute scuse, pretesti, e ti terranno in conto di uomo da non comprendere che cosa s’intenda il vivere in Castellammare se non ti bagni.

Infine, sia per compiacenza o per buona volontà, bisogna tuffarsi nel mare; ove, se avrai la fortuna di capitare qualche amico che gli frulla un po’ il capo, ti assicuro che ti farà passar quel tempo con gran diletto, gettando te con la faccia nell’acqua e nella rena o gettandoti arena ed acqua in faccia; senza tener conto di mille e mille altri scherzi di cui potrai esser vittima, se non ti mostrerai saldo e capace di commettere anche a tua volta qualche diavoleria.

Dopo del bagno viene il pranzo, e dalla tavola si passa poi al letto, per abbreviare quelle ore noiose che precedono il tramonto, e durante le quali uno non sa che farsene.

Destatosi bisogna andare verso la bella e ridente strada che mena a Vico Equense ed alla patria dello immortale Torquato, a quella incantevole Sorrento ove tutto ispira poesia, sentimento e voluttà.

Nè sono queste le sole gite che offre Castellammare; dappoiché potrai andare a visitare Gragnano che tanto nome à levato di sé pel suo vino e per le molte fabbriche di maccheroni; potrai recarli pure a Lettere per vedere il suo castello, o a Scansano abbondante di allegre e vispe fanciulle, o in altri luoghi e paeselli circostanti non meno dilettevoli degli altri.

Si prendono dunque degli asini, perché in Castellammare i ciucci fanno le veci delle cittadine  e de’ cavalli da sella, benché di questi pure se ne trovino facilmente; e, se non vuoi andare fuori del paese, passeggiando per la strada della marina che in quell’ora è affollatissima, potrai ammirare da quel luogo le bellezze di un tramonto di sole, che ci parrebbe inverosimile se lo vedessimo dipinto su qualche tela. E pure nulla è più vero di quei vivaci e sfumati colori che si perdono e si confondono nel vasto orizzonte che ti si para innanzi agli occhi, e quei mille scherzi di tante vaghe nuvolette che or si formano come una massa di candida neve, or disposte in ordine circolare in guisa di una corona o aureola illuminata da’ risplendenti e caldi raggi del cadente astro del giorno; talora riunite insieme e come una lunga striscia dorata che si va a perdere nel fumo del nostro Vesuvio che tien sempre acceso il suo fuoco, e tal altra in mille e mille svariate forme rivestono il nostro bel cielo in quel l’ora in cui il sole s’invola a’ nostri sguardi.

Ritornando a casa dopo questa gita avrai a mala pena il tempo di spolverarti e pulirti, perché l’ora di andare al caffè è giunta, ed ivi le persone più distinte dell’alta società non ricusano il loro posto all’aria aperta... Ma a quale caffè si deve andare? mi chiederà chi non è mai stato a Castellammare. —Al caffè di Europa, che sta sotto la locanda dell’antica Stabia alla strada della marina, al caffè di bon ton.

Ivi troverai seduti vecchi, giovani, uomini, donne, il nobile altero ed il ricco speculatore, l’avvocato e l’artista, il soldato ed il prete, che tutti confusamente stanno a chiacchierare ed a discutere, avvolti in una nebbia di fumo de’ sigarri.

E frattanto che ognuno perde il suo tempo, vengono una dopo l’altra a cantare e sonare là innanzi varie compagnie di girovaghi-pseudi-artisti indigeni, i quali immancabilmente canteranno la melodiosa canzone di Luisella, la patetica Carolina, la sentimentale Stella dell’Arenella con le altre più gaie canzoni del nostro popolo. Oltre a ciò ogni anno si trova qualche altro sonatore o cantore straordinariamente venuto da Napoli con l’organetto o con altri strumenti, perché sono certi di guadagnar mollo in Castellammare.

Nè si dà solamente musica.... vi è ancora la commedia... la commedia i Nome dato ad alcune piccole vetture da nolo. — I. 16! de’ burattini con Pulcinella... Infine la sera passa senza avvedertene; ma, ritornato in casa, ti accorgerai come siasi votata la scarsella.

A questo modo, lettor mio, si spende il tempo e ’l danaio in Castellammare; e, dopo due mesi di siffatta vita, sei sicuro che ne partirai bello, sano, florido e grasso il doppio di quello che eri prima di andarvi.

FRANCESCO DE BOURCARD.

I VIGGIANESI

NELL’amena riviera di S. Lucia spesso allegrano la solitudine della mia stanza i canti e i suoni del lieto popolo che sotto un cielo tutto luce ed armonia, su le rive all’azzurro Tirreno, in cospetto al fu mante Vesevo, apre l’anima ai deliri d’una festa che non ha mai posa. Un mattino dal mio verone guardavo ai raggi solari che a poco a poco dissolvevano la vaporosa cortina entro cui nascondevansi monti ed acque; e quindi come dissonnate andavano scoperchiandosi Portici, Pompei e Castellammare, e la marina fatta lucente mostravasi festante di barche pescarecce e di vele. Della qual vista mentre io pigliava godimento, mi giunse caro suono di arpa; ed era una melodia conosciuta, una canora amica che recandomi dilette memorie mi conduceva all’isola d’Ischia, nella festa campestre di Lacco.

Guardai attorno, e vidi il buon vecchio sonante d’arpa, che in Ischia mi fé ricordare il Re profeta arpeggiante intorno all’arca d'Israello. Lo chiamai perché delle sue armonie fosse venuto a vivificare la mia dimora. Venne il buon vecchio con due giovanetti sonanti il violino, e poiché ebbe di cari suoni rallegrata la mia stanza, lo richiesi della patria.

— Sono di Viggiano — mi rispose.

— Voi siete dunque nato in quel paesello di Basilicata di cui gli abitatori a guisa degli usignoli vivono di armonie naturali! Più volte avea desiderato conoscere da vicino i Viggianesi, questi figli della musica, che traendo una vita nomade vanno accattando un pane coll’arpa, ché nell’arpa hanno locate le speranze dell’avvenire, e coll’arpa portano per tutto il mondo il pensiero della loro patria e l’affetto delle italiche melodie — Oh! ditemi, soggiunsi al vecchio Viggianese, ditemi il vostro nome, e qualche cosa del vostro viaggio.

— Io mi chiamo Francesco Pennella: da 17 anni viaggio con quest’arpa su la quale il mio avo sonò i canti di Cimarosa e del Jomelli; e mio padre m’apprese quelli di Rossini e di Mercadante. Fanciullo io scossi queste corde, con cui viaggiando tentai procacciarmi un pane.

— Ma dopo lungo pellegrinare trovaste alfine buona fortuna?

— Oh fortuna! io giù avea raccolto tanto danaro che mi avrebbe bastato a menar giorni beati nella quiete del mio paese: senonché in patria fui invidiato, e la calunnia mi percosse di malvage accuse, dalle quali per uscir salvo mi fu mestieri spendere tutto l’aver mio. Ridotto all’estremo della povertà, vecchio di settantatrè anni, per vivere sono costretto a nuovamente viaggiare coll’arpa.

Mi mosse a pietà il buon vecchio che raccontava le sue disavventure con ingenuità di parole e bagnando di qualche lagrima le rughe del magro volto in cui era significato il crucio dell’anima contristata. Da quanto poscia mi disse appresi non essere il Pennella di coloro che molto avessero pellegrinato in lontani paesi.

Avea soltanto percorsa l’Italia e la Provenza, la patria delle romanze e de’ trovadori; ma diceami, un suo nipote, il padre dei giovanotti che seco conduceva, assai più ch’egli non fece aver viaggiato in lontanissimi siti, e, visitato il Perù, stanziatosi in Lima, viver bene ammaestrando molti nella musica. Merita veramente il saluto della poesia nazionale il melodico Viggiano: imperocché deggiono essere piene di armonia le sue acque, i suoi alberi e le sue pietre: una musica segreta deve accarezzare la culla di quel semplice popolo, e gemere nel santuario delle lor tombe.

Sorge Viggiano in cima ad un monte dell'antica Lucania, e conta circa settemila abitanti, i quali sono vantati non solo per la musica, ma eziandio per saper bene lavorare la terra. La vanga e l’arpa, ecco i due strumenti che la natura e l'arte congegnarono per quella svegliata ed operosa gente. Altri imprenda a celebrare i bravi vangatori di Viggiano, e chi ha dovizia di tenimenti se ne provveda. Io figlio errante della poesia cerco in Viggiano i miei fratelli, i figli dell’armonia. I quali sotto l’ombre de’ faggi che inghirlandano il colle natale si ammaestrano alla musica, e danno i primi suoni al santuario volgarmente chiamato Santa Maria del Monte, donde traggono conforto alle pellegrinazioni, e reduci vanno a prostratisi, grati alla Madre di Dio che della sua benedizione ne tutelò il canoro pellegrinaggio.

Alcuni suonano il violino, certi altri toccano con maestria la mandola, ve n’ha dei valenti nel clarino e nel flauto, ma la più parte di questi armoniosi pellegrini suonano l’arpa, strumento che meglio di ogni altro al popolo viggianese si addice . Conciossiaché la Basilicata ne’ suoi interi costumi, nelle sue feste innocenti, e nella sua amicizia ospitaliera conservando una vita tutta patriarcale, dovea ben anco serbare in riverenza lo stromento degli antichi patriarchi. Epperò il vecchio Pennella ritoccando l’arpa mi parea un risorto padre degli antichissimi tempi, e mi toccava il cuore con parole di cristiana pietà ricordando Santa Maria del Monte e il fonte d’acque limpidissime che scorre presso al santuario.

Deve pure essere una scena piena di cari affetti il trovarsi in Basilicata fra diversi Viggianesi che nel fior degli anni usando dell’arpa in terra straniera si procacciarono alla cadente età riposata esistenza in patria. Essi vi additeranno campi e case acquistate col danaro raggranellato in Europa, in Asia e nell’America. Vincenzo Miglionico, uscito di patria nell’anno 1806, tornò nel 1852. Sonando l’arpa nelle città d’Europa e d’America la’ musicagli fruttò molto danaro, il quale con propizie sorti converse poscia al commercio scambiando l’arpa con le cambiali, le note musicali con le cifre algebriche.

Antonio Varalla per trentacinque anni aiutato soltanto dalla musica corse Europa ed America, ed ora vive dovizioso in patria.

Misi narra d'un porcaio che dal signor Poliodoro suo padrone costretto a partire perché da lui privato di ogni lavoro, né sapendo più a qual partito fidare, fuori d’ogni miglior speranza si appesesi collo un’arpa ed errando di paese in paese giunse in America: dove coll’arpa fatta gran fortuna, prese moglie ed ebbe prole ridente.

Tornato a Viggiano, Vincenzo Poliodoro, il figlio dell’antico padrone, fece liete accoglienze al povero guardiano di porci salito in prospero stato, e si acconciò di pigliare in isposa la figlia di lui ricca di cospicua dote.

Per simili modi Viggiano in ogni età ricorda diversi suoi figli che, partiti poveri, tornarono ricchi per deporre le stanche ossa su l’ospitale benedetta balza dove sortirono la vita. A’ dì nostri si contano trecento di tai viaggiatori lucani che ricchi di armonia vanno per il mondo; e per questi pellegrini sono inutili trovati e cocchi e strade di ferro: perché viaggiano pedestri recando su le spalle reietto strumento, e ad ogni paese che incontrano danno il saluto della musica. Avverrà talvolta a chi navighi i nostri mari o quelli del Norie di udire un dolce suono di arpa che uscito dal fondo della nave vada a mescolarsi colla tempestosa armonia delle acque.

Sarà qualche Viggianese accolto con amore dal capitano della nave per addormentare nella sua musica il pensiero de’ pericoli e le traversie della navigazione. Non vi ha persona gentile che non accolga benignamente il Viggianese, questo trovadore della nostra età, che fra gl’interessi materiali del secolo decimonono viene a provarci che ferve ancora un po’ di poesia entro il cuore de’ popoli. Tornato esso in patria, nelle lunghe sere d’inverno aduna la famiglia e gli amici attorno al gran focolare domestico, e loro narra le città visitate, le meraviglie vedute, e le accoglienze trovate in ogni parte. Nè pensate che solo parlino del minuto popolo accolto su le piazze, e delle porte de’ santuari presso cui andavano a sonare.

Narrano puranco liete accoglienze in sale di ornate dame e di splendidi signori; il che prova eziandio come lo spirito cavalleresco, di che animavansi i castelli dèli’età mediana, non sia interamente estinto. Nelle lontane regioni come figlio della musica nostra ammirasi l’armonico pellegrino di Viggiano, il quale non che soltanto ripetere i canti del teatro italiano, reca pure altre armonie, che gli stranieri non potrebbero avere dalle opere de’ grandi nostri musicisti: reca le armonie de’ nostri pastori, de’ nostri devoti.

Il Viggianese va informato dello spirito della sua patria, e passando per mezzo alle più cospicue città italiane, lo ingagliardisce; né avviene che lo deponga per cantilene straniere: nel qual caso perderebbe il marchio della musica nazionale.

Perfino l'arpa è strumento congegnato cogli abeti delle selve lucane: e Vincenzo Bellizia in Viggiano e fuori vien reputato ai dì nostri valentissimo costruttore d'arpe. La sua fama, varcate le falde del paterno colle, si estese maggiormente nell'anno 1845 quando nella pubblica esposizione di belle arti in Napoli si ammirò un'arpa del Bellizia splendente di dorature e di grazioso lavorio, bella a vedere, dolce ad udire; tanto ché il lucano artista dall'Instituto d'Incoraggiamento venne decorato d'una medaglia d'argento, e la Società economica di Basilicata lo regalò di cento ducati. Ora più che mai i pellegrini di Viggiano vogliono l'arpe del Bellizia, ed egli nel corso di pochi anni ne ha per loro lavorate centoquarantacinque: le quali erranti su la terra dispensano i tesori dell'armonia per tutta Italia, sulle piazze e nei caffè di Parigi e di Londra, fra i castelli della Germania, fra le moschee orientali, e presso la pagoda del Cinese: per ogni dove ammirate e desiderate.

L' arpa del Pennella non era opera del Bellizia, ma forse una di quelle antiche nelle quali studiò l'artista viggianese. Il Pennella mi vantava il suo strumento, e dalle sue trentasette corde traeva accordi di soave beatitudine: e poiché ebbi da lui ascoltate diverse melodie de'  più celebrati nostri maestri, lo invitai a sonarmi melodie popolari. Il cortese Pennella fece la mia voglia, ritoccando con altri tuoni l'arpa, e facendo un cenno ai vispi giovanotti, i quali con voce melliflua cantarono amorosamente canzoni napolitane. La mia stanza divenne un teatro della musica popolare. Mi segnai una delle diverse canzoni che ascolta i piena di pastorale soavità.

Sto crescenno no bello cardillo,

Quanta cose che l'aggio a mparà;

Ha da ire da chisto e da chillo,

Le rresposte po m'ave apporta.

Sto crescendo un venoso cardillo:

Quante cose lo deggio imparar!

Dovrà gire da questo e da quello

Poi dovrà le risposte recar.


Nel teatro della mia dimora erano tre gli attori, un solo spettatore. Ma fu aperta la porta della stanisi, ed ecco allo spettacolo aggiunto un nuovo spettatore. Era il paesista Mattei che veniva a visitarmi recando le armi dell’arte sua, la tavolozza e la cartella ricca di bei disegni—Oh, mi sciamò il Mattei, sarà vero ch'io deggio spesso vederli fra scene artistiche!— Meco, o caro amico, vieni a godere della musica popolare che mi recano questi buoni Viggianesi. Mescoliamoci col popolo, beviamo alla tazza delle loro armonie fragranti di amore e di fede!

 Sorrise il Maltei e riprese a dire: Cantino, suonino i Viggianesi, ed io frattanto ritrarrò l’immagine loro, perché sono una cara pagina ne’ costumi napolitani: sono essi che nelle feste del S. Natale vengono per le nostre vie a rinnovare quei canti e quc’ suoni che innanzi al divo Presepe di Betlemme celebrarono il gran riscatto: sono dessi che nel finire e nell’albeggiare dell’anno recano armoniosi auguri di prosperevole avvenire.

Così dicendo si assise il Mattei e ritrasse il Pennella, calvo, sdentato e dolorante. Frattanto i nipoti dell’armonioso vecchio mi rallegrarono con tal varietà di canzoni, che entrai in desiderio di sapere il come facessero ad averne in tanta copia—Colla massima facilità, mi rispose il Pennella, comperandole al prezzo di un grano per ciascuna dai venditori che con un fascio di tali canzoni schiamazzando fanno il giro di tutta Napoli.

Addio, o canuto Viggianese: il Mattei mi fece dono del tuo ritratto, il mio cuore è colmo delle tue melodie. Addio. Prosegui nell’armonico pellegrinaggio, e quindi torna felice al tuo monte, alle tue acque, alle tue selve; ed all’ombra del tuo santuario la pace de’ patriarchi ti accolga santamente. ' Lascio i miei pochi lettori: andrò qualche giorno errando nelle vie di ' Napoli, per far conoscenza co’ poeti del popolo, cogli stampatori e venditori di tali canzoni, e quindi tornerò fra loro per narrare qualche istoria delle canzoni in dialetto napolitano.

GIUSEPPE REGALDI.

LE FESTE DELLA MADONNA

DI MONTE VERGINE

La sapienza discese dai monti.

OMERO.

I Deucalioni, cioè quelli che il mare avea lasciati (ché così si traducono le parole albanesi Deiti-i-ca-glioni, cioè Deiti, il mare, i ca, gli à; glioni, lasciati), è tradizione de' greci scrittori che dopo il diluvio d'Ogige, posteriore a quello di Noè, discendessero dai monti Caucasei ove si erano salvati, fermando nella Macedonia il carro di Latona (Jatjona, cioè il carro dei padri nostri), simbolo di loro civiltà.

Ivi i Pelei fabbricarono Pella o Pelia (che dir vuole in quel linguaggio cavalla), da cui uscirono poi quei famosi Pelasgi o cittadini di Pelia, che recarono la civiltà greca in questi luoghi, e furono i fondatori di Phalero o Pale che Palerpoli e poi Palepoli fu detta, cioè città di Palero. Sarebbe una oziosa, e forse pazza idea d’investigare chi prima abitasse queste contrade; contentiamoci di estendere lo sguardo fin dove possiamo scoprire segni di civiltà; e qui monumenti, nomi, linguaggio, usi, costumi, riti, feste, proclamano Napoli vetustissima alla Pelasga e greca celebrata solennemente da tutta l'antichità col nome di dotta.

SI, miei diletti Napolitani, i sepolcri dove riposano le ossa de’ vostri e degli avi miei, sono opera greca: i vostri maritaggi sino a due secoli addietro serbarono liturgia comune ai Sulliotti e agli esulati Albanesi sparsi in questo regno, incoronando gli sposi di grandissimi serti di rose coperte di un velo bianco sostenuto dai Paraninfi. Il vostro lamento funebre da voi chiamato lièpeto e dagli Albanesi glipht, lutto, è antichissima costumanza greca. È greca usanza quello stracciarsi i capelli e gettarli sul viso del morto parente; e il coronare di bianche rose la spenta vergine, e l’appendersi dalle donne le recise trecce ai votivi altari. I vostri canti, le vostre danze, i monumenti e tutto infine mi ricorda qui i modelli delle arti e del sapere da cui ebbe origine la civiltà europea, anzi di tutto il mondo: ed io osai chiamarmi straniero nella patria degli avi miei? Ma chi riannoda l’anello di questa catena spezzata dai barbari, chi salva questa sacra eredità dal torrente di tante rivoltose vicende, chi mantiene intatte memorie così sublimi e costumanze sì care? La plebe come madre che congiunge le destre di due sorelle ignote l’una all’altra e le stringe al seno chiamandole figlie: la dispregiata plebe ci disvela coi suoi conservati costumi e con le sue feste, che discendiamo da una gloriosa stirpe, e che siamo nella Magna Grecia fratelli e greci ancora noi.

Due grandi feste rimangono principalmente a questo popolo, dove esso spiega tutta l’energia delle greche costumanze, cioè la festa di Nettuno, ora sacra da’ Luciani a S. Maria della Catena, e quella di Diana o Cibelc, or consacrata alla Madonna di Monte Vergine. Della prima si è già parlato in quest’opera , or qui ragioneremo della seconda: e perché ognuno possa comprendere il parallello tra la pagana e la cristiana festività, diremo poche parole sulle antiche feste di Diana e di Cibele.

Fondare le loro città presso delle acque sorgenti fu sempre costume degli Albanesi; quindi fabbricarono i Pelasgi Faterò vicino alle fontane Sebezie. Al Sole ed alla Luna, prime e forse sole deità di quel popolo, eressero due tempii, e memori di essere stati salvati da loro su gli alti monti, sul piè eminente prossimo Appennino consacrarono un Delubro alla Vergine Diana, onde Monte Virgineo fu detto; la via che ivi conduceva si appellò ad matrem magnani: era comune questo titolo a Diana efesina ed a Cibele. —Oh come la mia mente si trasporta a quei lontanissimi tempi della primitiva Palepoli!... Parmi ascendere quel sacro monte, confuso con quelle turbe divote e riconoscenti che in commemorazione de’ salvati proavi ascendevano al tempio come quelli ascesero su le montagne caucasse invocando invano gli Dei, e solamente il sole e la luna in tanta calamità si mostravano di conforto e di benigna scorta a quei desolali. Con qual cuore devoto quelle religiose genti nell’alta notte armate di tede non percorreano quella disastrosa via, cantando l’inno alla Dea salvatrice! con quanta gioia entravano nel tempio della Madre Signora; e di là vedeano spuntare il sole della loro abbandonala patria!... Spettacolo sublime e commovente!... o umana razza!—Che che ne sia, non potremo noi negare che tali feste non fossero un grandioso monumento di civiltà senza pari, civiltà greca, che onorava la patria, riuniva i cuori cittadini, e nella gioia popolare serbava perenne la ricordanza de’ benefizi degli Dei.

Come l’uomo non si dimentica mai del suo primo giovanile amore; cosi le nazioni non si dimenticano delle feste che per tanta cagione àn posta profonda radice nel loro cuore: le madri le trasmettono ai figli come sacra eredità di religiosa gioia: il tempo le perpetua. Così a quel sacro monte si recò tutta la gente Pelasga, e quindi l'Attica e poscia la Latina ancora; quel tempio cadde più volte e più volte venne riedificato; cadde ancora la falsa religione de’ sognati Numi, ma non le feste di Monte Vergine; ché sulle rovine del tempio di Diana s’innalzò il vero tempio del Signore sacrato alla Vergine Madre di Dio, e arca mistica salvatrice del genere umano .

È sì profondamente scolpito il sentimento religioso nel cuore della plebe napolitana, che sin lo sciagurato, che, per sua o per colpa della società, si brutta di atroci misfatti, non sa deporre giammai l’abitino della Madonna del Carmine; e la mala femina, perduta nei suoi pravi costumi, non lascia di accenderle la quotidiana lampada, consacrandole il digiuno ogni sabato. All’appressarsi della Pasqua delle rose, ciascuno si apparecchia per visitare la Madre degli Angeli a Monte Vergine: non lo spaventa il lungo disastroso viaggio, non l’ingente spesa, non la penuria de’ tempi.

 Il ricco ed il povero in carrozza o sul carro, a piedi o a cavallo, sia per sciogliere un voto, sia per implorar grazia, trova modo di recarsi a Mamma Schiavona , né sa rinunziare a questo sacro retaggio trasmessogli per lungo ordine di avi e di generazioni dalla più remota antichità.

Non è gran tempo scorso dacché la nubile donzella fra i capitoti matrimoniali ponea prima clausola d’esser condotta ogni anno a Monte Vergine. Il geloso cantiniere, il crudo macellaio ed il ricco mugnaio atterriscono le altere mogli con la minaccia di non condurle a Monte Vergine 1.

1 Leggasi sul proposito la bella poesia in dialetto napolitano del chiaro signor Gioito Genoino, che qui sotto vien riportata, la quale mi è stata cortesemente donata dal rinomato autore insieme a molte altre, per pubblicarle in questa opera, quando i soggetti che verranno trattati ne presenteranno l'opportunità (L'edit.)

A LO  SI MATTEO NCOCCIUTO LA MOGLIERA NZORFATA

NZIRIA   A  FFESTA

Ne? chessa collera comme nce cape?

Chessa paturnia che bbene a ddì?

Non forme lefreche Mattè; se sape

Che a Montevergine mme tocca a gghì.

Lo ffice mettere da lo notaro

A li capitole pe ppatto; e mmò

Vuò farme agliottere sto muorzo amaro!

Ne ne, coscienzia tenimmo, o no?

Nce va Lucrezia, nce va Menella,

La vecchia Meneca porzi nce va;

Nce va la sgubbia de la sia Stella,

Ch'ave na vozzola ch'è na piatà.

So pposte ntruocolo nfì le zzellose

Che mmeze jettiche songo a bbedè;

E a mme che sciroppano nfaccia le trote

Mpedì vorrisselo? Va, leva lè!

Avisse a ccredere che ssò qua llocca

Che co le cchiacchiare se fà mpallà?

Cca mmiezo subbeto ch'apro la vocca

St fanno a ppunia pe mme ngaggià.

Già masto Nnufrie ncopp'a lo carro

Ch'ha ppuosto nn'ordene portà mme vo,

E n'auta maschera che ha qua catarro

Vorria portareme nchist'anno, e ppo.

No pesciavinnolo de lo Pennino,

N'alluminario de la cetà,

N'ammola fuorfece, no caccia vino.

So asciute ntridece pe mme mmità.

Io puosto nzuocolo aggio ogni accunto

Pecché non pozzase parlà de me;

Ma si perfidie mme miette 'npunto,

E lo sproposito faccio, Mattè!

A Mmontevergene la ggente a llava

Sparanno tronola vide partì.

Nc'è gghiuta mammema, nce jette vava,

E chesta è mmutria de non ce jì?

Mm'aggio da mettere le frasche nfronte,

Ll'antrite a ppiennole da ccà, e dda llà,

Mmano na perteca, ncopp'a lo ponte

Cantanno ll'aria = Perucca e bbà.

Non baglio perdere pe tte la fede,

Sarvarme ll'anema mme mporta cchiù;

Si tu sì areteco che non ce crede,

E bbuoje dannerete, dannate tu.

Il povero artigiano trova nel suo salvadanaio fabbricato al muro quanto seppe risparmiare nelle sue scampagnate di ogni domenica al Campo, a Poggioreale, a Capo di Monte; e se ciò non basta, impegna e vende le tavole del letto per condursi a Monte Vergine.

Gli accattoni e gli storpi sono i primi a partire: gli seguono i mercantuzzi detti cassettieri, che recano ad ogni festa il torrone , i taratimi inzuccherati ec., gli acquavitai e venditori di tamburelli, di chitarre battenti, di crotali, sistri e tricche ballacche , e tutti vanno a formare te loro piccole baracche a Mercogliano, o a Monteforte .

I festeggiami intanto adornano i loro carri coperti di lenzuola con mirti e con rose, ed i più ricchi si provvedono de’ Conta figliole. Questi son de giovani lazzaroni di voce gagliarda, fra i quali molti ànno preso lezione di canto da qualche disperato corista del Teatro Nuovo o di S. Carlo, e vengono assoldati a quattro carlini il giorno e a tutto pranzo per mettersi dietro le carrozze ed intuonare la canzone nazionale che è per cadenza figliole, figliole, per accrescere l’allegria della festa, massime nel ritorno alla capitale.

Quando nell’alta notte del Venerdì, che precede la domenica della Pasqua rosata, sentite degli spari che improvvisamente vi destano dal sonno, e vi fanno trabalzar nel letto, tintinnando le vetrate dei balconi e scuotendo le pareti della stanza come per terremoto, dite: Questi sono i devoti di Monte Vergine che annunziano ai confratelli di viaggio la loro partenza. Come castelli che si rispondono, altri ne danno risposta più lontano ancora, ond’è che questi spari si chiamano risposte. Così sferzando i cavalli lasciano l’addio alle serrate porte delle loro case e s’avviano con la gioia di un fanciullo che dal carro materno scorge la prima volta il mare. E dal borgo di Loreto, dal Pendino, dal Molo piccolo, da Chiaia, dalla Stella e da tutti quanti i quartieri di Napoli partono carrozze e carri adorni di mirti e di rose, tirati da bovi. Centro di loro unione è la piazza fuori Porta Capuana, dove si vede giungere il gran carro di Franciscone, nel quale stanno trentasei delle più belle figliole del borgo S. Antonio Abate: Franciscone antico, cocchiere or verdummaro , che fabbrica il carro, e grida tutto l’anno:

Sei carlini pe persona

Ncoppa lu carro de Franciscone

Jammo a trovà Mamma Schiavona,

Figliole, figliole!

È storpio di gambe sì che cammina con le grucce, ma robusto di braccia e giovine di cuore, che grida, schiamazza, fa di auriga e infonde la sua allegrezza in tutti i cuori. Al suo apparire si alzano a salutarlo mille grida di gioia: qui succede il grande sparo delle bombe, né vigilanza di polizia basta a raffrenare quella nuova battaglia di Vaterloo. Rivolti a Napoli ad alta voce gridano: Addio! e facendosi il segno della santa croce, si mettono in viaggio cantando:

Nce ne iammo a lo frisco e senza sole

Nce ne iammo a trovà Mamma Schiavona

Poi tutti a coro:

Figliole, figliole!

Questi rozzi canti alternati dai vicini e dai lontani, si disperdono in quelle solitarie campagne, come la rimembranza dell’infanzia. Trecento carri e carrozze ingombrano la strada di Poggio Reale, e molti li seguono a piedi dicendo il rosario: chi scalzo per voto, e chi tenendo le scarpe appese ad un tronco, formano una commovente interminabile processione. E là in una carrozza vedi co’ suoi parenti una pallida vergine con le chiome discinte e scalza recar su le ginocchia un mazzo di ceri in dono alla Madonna per averla salvata da mortifero morbo. Qua sovra un carro incontri una madre che tiensi in grembo il fìgliuolino ammalato, volgendo l’affettuoso sguardo ora su quello smorto viso, ora al cielo. Una giovanetta reca all'altare la sua recisa biondissima treccia., e chi una lampada d’argento, chi una collana d’oro, voti che si sciolgono per i benefizi ricevuti dalla Madre Signora. Un venticello ristoratore spira intanto da quei monti, che scuote le macchie. La dolce stagione, quei canti, quell’aura mattutina, l’idea del santo peregrinaggio infonde su quei pietosi una dolce malinconia. La vista dei bianchi monumenti del Camposanto, che vanno ad incontrarsi coi primi raggi del sole, svegliano memorie dolorose, chi rammenta la madre che giace colà, chi la sorella, chi il padre, chi il fratello, chi l’amica che un anno addietro le fu compagna di Monte Vergine, ed una lagrime ed un sospiro accordasi al mestissimo requiescat in pace!— Una voce grida pietosamente: All’anime sante de lo Purgatorio che v’accompagnano pe lo santo viaggio: è il Romito della cappelletta vicina uscito sulla strada, a cui ognuno è largo di elemosina per le ricevute impressioni. Varcano quel tratto di strada col silenzio e la religiosità con che gli scozzesi montanari passano di notte un gran fiume dove credono presedere il genio delle nazioni; ma quel vecchio allegro di Pasqualotto, quel banditore di vino, che in cinquant’anni non ne tralasciò un solo di recarsi a Monte Vergine, infonde con le sue facezie la gioia in tutti; i canti si riprendono; gli abitanti di Pomigliano si fanno su la strada e su i balconi per vedere il gran carro di Franciscone che transita come in trionfo fra le acclamazioni e le grida de’ ragazzi. Così festeggiami scorrono Cisterna, Marigliano, Pontecicciano, e si restano a merendare a Cimmitile . L Ecco una generazione in viaggio fermarsi nel più romantico paese, pieno di bellissime ville di salici, di alberi piangenti, di croci sotto archi che le difendono. I cocchieri rinfrescano gli stanchi cavalli: le piccole osterie e le baracche si empiono di gente, e la più parte stende sull'erba i bianchi tovagliuoli come su nobile desco. Oh qual mensa avete voi scelta! Non sapete che il vostro pranzo posa sovra le volte che chiudono le ossa di tanti martiri della fede cristiana, di tanti eroi dell’antichità? Le catacombe nolane, onde à nome Cimitero, o Cimitile, una città sotterranea che si estende da Nola a Napoli, da Napoli a Pozzuoli, città arcana anteriore ai tempi omerici abitata da’ Cimmerii, di cui la scienza archeologica non à saputo ancora diradare le tenebre Ma intanto ch’io mi fermo a fantasticare, i nostri Monteverginiani mangiano, bevono, scherzano, ridono e partono: ed eccoli là su, che toccano l’erta di Monteforte. Oh quanta gente 1... quasi tutti scesi dalle carrozze tirate da bovi indigeni co’ cavalli legati dietro ascendono a piedi la ripida salita.

Par che la natura goda di esperimentare in certe congiunture di nostra vita l’eterna inviolabile legge che uguaglia la condizione umana: tutti la necessità qui affratella ed accomuna, e fra quel devoto immenso popolo s’incontrano fisonomie non mai viste, quantunque nate e cresciute in una stessa città; e con libertà cittadina si trattano con quella affabilità che distingue dalle altre nazioni la plebe napolitana. Oh vedi quel pazzo di Pasqualotto che fra le tante à ritrovata la sua bella, e le fa da bracci ere: è una vecchia grassa e burbera come esso, alla quale egli terge il sudore e manda i zeffiretti sul viso con un grande ventaglio da Ischia, e cento strambotti le dice che fanno ridere tutti, rendendo così men aspro il cammino. Altri si fermano a pernottare a Monteforte» altri scendono ad Avellino, e scorrono a vedere le carterie di Atripalda per trovarsi sabato a Mercogliano e domenica all’alba a Monte Vergine.

Mercuriale, o Mercurii arae, è un piccolo paese appiè del Monte bene detto, conceduto al reai monastero dall'imperatore Arrigo lo svevo. — Il freddo è penetrabilissimo: molti stanno nelle taverne» molti dormono stanchi sdraiati al suolo, coperti da tende e da coltri di lana. In tutte le strade si veggono dei gran fuochi accesi intorniati da asserragliata gente, vere are di Mercurio, a cui forse consimili roghi furono consacrati dagli antichi. Una notte a Mercogliano è la notte più romantica che si possa immaginare; è la festa più sublime che vide mai popolo al mondo; è una voce della madre terra che par che dica agli uomini: Voi passate sul mio seno, come Tacque de’ fiumi; io vi rivedo ogni anno festivi nel modo che mirai i padri vostri. —Al chiarore di questi fuochi, dov'è ora la farmacia del monastero, sembrami di scorgere il tempio di Apollo, e su quel piano chiamato tuttora Vesta, il delubro di questa Dea, presso il fonte Fitia, il tempio del nume Fidio. Il tempo à distrutti quei monumenti, ma non la pietà nel cuore della nostra plebe. E tutti quei gruppi tengono discorsi or superstiziosi tradizionali e strani, or veramente cristiani.

Una donzella con esultanza confida alla sua compagna che dal carro corrente giunse ad annodare il ginestre, augurio di prossimo maritaggio, e tien per certo che tornerà sposa il venturo anno a Monte Vergine. Una vecchia chiede alla giovine nipote se si è lavati i capelli per purificarli dal grasso della fornata: altrimenti il Monte si coprirebbe di nubi, e il fulmine cadrebbe su la loro testa: è noto il divieto di mangiar carne de'  sacerdoti di Cibele e degli Eleusini. In un altro gruppo con la santità della religion cristiana un buon fittaiuolo narra come alla sua terra arsa dal sole la Madonna di Monte Vergine da lui invocata mandò la pioggia a salvamento della messe: e la tenera madre racconta come la figlia moribonda tornò in salute facendo voto alla Madonna Ma la stella polare segna la mezzanotte; i galli cantando si corrispondono da tutte le alture di Mercogliano; e mentre la devota popolazione si accinge a salire il Santuario, io mi studierò a descrivere brevemente il Monte famoso.

Questo monte, che con le radici tocca gli Appennini, s'innalza solitario su di essi come l’Olimpo, il Peleo, l’Orebbe, il Sinai, ed è, come quelli, si elevato dal piano della terra, che par che tocchi la seconda regione dell’aria: nella sublime vetta manca la vegetazione; e vi sono scogliose rupi, precipitosi sassi, quasi tutto l'anno coperti di neve. Il gran tempio sacro a Cibele stava anticamente a terzo del monte, dove oggi sta sul monastero. Il Panteon di Agrippa consagrato alla Madre degli Dei dicesi che l’ebbe a modello. La chiesa venne fabbricata sulle rovine dell’antico pagano edilizio nel 1124 per S. Guglielmo, e santificata da Giovanni Vescovo d’Avellino il mese di maggio, giorno di Pentecoste, con immenso concorso. Due volte fu visitato da Federico II, e il Re Manfredi vi fece innalzare la sua tomba; ma ben altra tomba la fortuna avea serbalo a questo infelice sovrano al ponte di Benevento, dove cadde trafitto in battaglia. Il suo vincitore Carlo d’Angiò nel visitare quel tempio volle che i suoi tre gigli d’oro si scolpissero, come si vede, nell’architrave: da quell’epoca prese il titolo di real monastero.

Tutti i sovrani del regno e molti re stranieri visitarono da remoti tempi questo monte. S’incontrano per via delle piccole croci, e quattro cappelle: cioè la Panila, l’Aja, il Cirreto e lo Scalzatoio, così detto perché ivi sogliono scalzarsi i fedeli e scalzi salire al tempio. S’incontra pure la così detta sedia della Madonna, ch’è un piccolo incavo naturale del monte, ove è tradizione che la Madonna ivi si fosse seduta per riposarsi, stanca dal cammino, e che nel sedersi il vano del monte si fosse ingrandito tanto da formare una comoda seggiola. Ora si mostra a’ viandanti la impressione lasciata dalla Madonna nel vano, pel modo come stava seduta; ed i devoti nello ascendere o nel discendere il monte non mancano di riposarsi in quella santa sedia per acquistarsi l’indulgenza plenaria.

Da Mercogliano al tempio si contano quattro miglia di ardua salita, per la quale si elevano disastrose rampe, interrotte da querce, da cerri e da altissimi castagni: di tratto in tratto si scorgono delle nevaie che provvedono della miglior neve Napoli ed i paesi circonvicini. Migliaia di devoti d’ogni età camminano scortati dalle fiaccole per questa serpeggiante strada: la maggior parte con lunghe pertiche, costume che rimonta alla più lontana antichità. Oh qual commovente e grandioso spettacolo! qual pennello può ritrarre questa mistica notturna processione? I raggi di quelle faci scappano come baleni tra le oscurissime verzure, s’intrecciano in mille guise e spariscono e tornano ad illuminare una moltitudine vestita di ricchi abiti risplendenti d’oro e d'argento, che ora si perdono di vista dietro due burroni, ora ricompariscono sull’alto, mentre al basso ne spuntano degli altri, ed ascendono silenziosi, o recitando il rosario, o cantando inni alla Madonna. Alcuni camminavano scalzi per quella pietrosa via! oh come mi sono rimaste impresse quelle fisonomie!... Una giovine scapigliata, scalza, egra, macilente, viene sorretta dal padre e dal fratello!... Il giorno è vicino... ecco la spianata del monastero. Ivi si trova una chiesuola ove i devoti vanno ad orare ed a lasciare le elemosine, prima di avviarsi al santuario. Molta gente prima di noi giunta riposa, o dorme per su gli scalini, o dinanzi alla soglia della chiesa... La campana suona la Salve regina, e tutti cantando Salve regina Mater misericordiae, entrammo nel tempio.

Nella Casa del Signore entrano i fedeli Napolitani chiedendo ad alta voce la grazia col cuore confidente ed espansivo, come figli giunti da lungo viaggio che entrano nel tetto paterno, e vanno a gettarsi tra le braccia della loro madre, ed offrono a lei i doni volivi, e ne ricevono la benedizione e la sua santa diletta immagine rappresentante la Vergine SS. seduta con quella maestà e riposo degli antichi simulacri greci. —Assistemmo divotamente silenziosi al sagrifizio della messa pontificale; molli si diedero quindi ad aspre penitenze ed a fervide preghiere; altri gettarono per le inferriate della cappella chiusa di S. Guglielmo delle monete di rame, di argento e financo d’oro; altri scesero a bere per divozione l’acqua del pozzo di S. Modestino. — Il sole percorreva il primo stadio dell’immensa sua parabola; ed il nibbio e la cornacchia volavano a mezzo della montagna per quell’aria purissima. Io volsi lo sguardo alla mia Napoli, ed il Vesuvio mi sembrò un piccolo vapore che usciva della terra lontana, che costeggiava il golfo. —Guardai verso l’oriente i vasti campi della Puglia, e nella provincia Piacentina i paesi degl’Irpini, Benevento, Ariano, Arpadio, Caudano, Avellino, Bisaccia, Montesarchio, S. Agata dei Goti, ed i fiumi Sabato, Levitella, l’Aufrisio. — Ma ecco che compito il religioso dovere con tutta la cristiana pietà, ecco che la festa comincia ad un tratto a prendere m carattere antico, specioso, singolare, ben diverso dal primo.

Questi novelli Deucalioni discendendo dal monte si abbandonano ad un’allegrezza baccante, e senza freno; ecco che si adornano le teste di antrite , di ciriege, di pampini, di frassino; in mezzo agli applausi incominciano Forgio; da per tutto tende innalzate, da per tutto tavole imbandite, vino, carne, frutta, neve ed esultanza. Da Mercogliano a Napoli è un lauto banchetto, una immensa festa di ballo continuata. Carri, carrozze, che si contendono il passo, uomini e donne a piedi che suonano i tamburelli o le nacchere, che cantano, danzano e tripudiano. Ma il carro di Franciscone primeggia su tutti: sedici donzelle suonano i tamburelli, dieci altre le nacchere, e dieci cantano circondate da cinquanta coppie di danzatori e di danzatrici , e il vecchio Auriga canta anch’esso figliole, figliole. Oh quanta gioia nel riscontrarlo! È questo forse il carro simbolico di Latona? Si è accesa una gara fra due più valenti Canta figliole, uno è Masaniello caccia-vino  di giarra d Argento, l'altro è Gennarello garzone della cantina delle Corna d’Oro. La lite sarà decisa dal popolo festeggiale nella gran piazza di Nola. I cocchieri delle rispettive carrozze sferzano, battono i cavalli col furore di due celèti olimpici perla via del Cardinale; se natura non à degradato le sue forze, questi non la cedono ai cavalli di Aulomedonte; 1 pedoni spaventati da lontano si causano a diritta e a manca; i piccoli legni temono la pizzata, cioè 1 urto che li rovescerebbe, e si precipitano fuori la strada; le due carrozze corrono come due fulmini, e mentre tutti tremano, le baccanti cantiniere gridano anch'esse aizzando i velocissimi destrieri,, e l’uno non supera l’altro, e tutti stanno ancora di pari passo, ma già sta per vincerla il cocchiere di Giarra d Argento: Vira regge il freno dei cavalli dell’altro che li abbandona su quelli del rivale carrozze, cavalli, cocchieri, uomini e donne vanno tutti in un fascio. Un urlo di spavento si leva dagli spettatori; ma quegl’intrepidi si alzano con coraggio inaudito e fasciandosi braccia o testa, suonando e cantando si riducono tutti su la piazza di Nola alla disfida del canto.

Nella vastissima piazza di Nola tutt’i festeggiami formano un gran cerchio. Una pertica vien piantata nel mezzo con fazzoletti spiegati a bandiere con frondi di quercia e la santa immagine della Madonna ed una borsa di seta, premio e trofeo del vincitore. Menalea e Melibeo si avanzano coraggiosi alla disfida: ciascuno à i suoi partigiani e i suoi coristi. Alle grida e al frastuono succede il silenzio; e il caccia vino ài Giarra d’Argento incomincia:

Tu che bevuto l'ai chisto matino,

Dimme, se truovi canta alti pparole

Che de chell'aequa de San Modestino

Chi sana d'ogni male le figliole?

I cori fanno eco, e quasi tutti decidono a prò di questo cantore; ma nel popolo ottiene sempre ragione chi parla Tultimo e chi grida più forte. Quindi con voce più robusta del primo, perché un tempo era stato notturno venditore di castagne, così rispose il secondo:

Chell'acqua santa, che scenne a lo core,

Gomme cade l’acquazza a le viole.

È l’acqua che guarisce de lo ammore

E sana d’ogni male le figliole.

Questi ebbe i suffragi di tutti, anche de’ suoi nemici, ed ottenne il premio e fu condotto in trionfo fra canti e suoni, dove si danno per chiudere la giornata alla più solenne orgia, e vinti dal vino e da stanchezza sdraiati nella locanda, o nel cortile, abbandonano il loro corpo al sonno; né si destano che col sole.

Udita la messa all’Arcivescovato, si rimettono in cammino. In quell’ora mattutina una foltissima nebbia ingombra quel piano, foce a cinque strade spalleggiate di acaci che dànno soavissimo odore: la più amena è quella che guida a Saviano, per la quale si avviano.

Saviano è in festa anch’esso, e sospende all'asta nella chiesa il drappo damascato, premio della corsa dei barberi, di tal vaghezza che per dinotar l'assoluta bellezza la plebe dice per adagio: bello comma lo pallio de viano,, nel modo che i Francesi dicevano: sublime come il Cid, o bello come la Zaira.

Da Saviano giungono a S. Anastasia. Le donzelle di questo ridente paese per antico costume si lavano in tal dì nei bacini di limpide acque sparse di rose, dalla sera esposte al sereno: lavacri Pestani mantenuti da tempi remotissimi! AU’apparire dei reduci di Montevergine esse muovono incontro ai loro carri coronate di rose, di frassino e di mirti, e affratellandosi in quelle verdeggianti pianure si trasferiscono alla chiesa della Madonna dell’Arco, distante di là un trar di pietra.

In quell’atrio si raduna l'innumerevol popolo di devoti che riceve la sacerdotale benedizione innalzando quando più può le lunghissime pertiche cariche di piccoli cati, di castagne, di antrite, di scarpe e delle sacre immagini; santo trofeo che con tanta fatica, per si lungo viaggio à portato sulle spalle. Questo luogo diventa il centro della gran festa; qui è la fusione di tutti i celi; qui nobili Napolitani, Inglesi, Tedeschi, Francesi, Russi, godono di far parte del gran pranzo cittadino; ma la plebea napolitana in tal rincontro cederebbe il suo posto a una milady, come una milady il cederebbe a quella in un convito diplomatico....

Eccoli, eccoli, che ritornano. I carri di Porto, del Pendino, del Mercato si fermano alle rispettive case: tutti i vicini accorrono a dar loro il benvenuto, e ne ricevono in dono le immagini della Madonna e le antrite benedette. La povera madre arriva stanca, e i piccoli figli lasciati in custodia della vecchia suocera le corrono incontro e con allegrezza la sollevano della grave pertica... e chi narra le fatiche durate del lungo viaggio, chi i miracoli della Vergine, chi giungendo bacia la soglia della sua casa: o quanti commoventi e svariati quadri! — Ma altri carri e carrozze fanno la trionfale entrata per la parte del Molo, e corrono a compiere l’ultima orgia a Posilipo. Eccoli che già ritornano, e a tutta corsa passano cantando per Toledo con le loro sventolanti bandiere. Ditemi, o stranieri, avete voi nella vostra civiltà feste da anteporre a questa che vanta così sublime origine e trenta secoli di antichità?—Salve, o napolitana plebe, che conservi a noi memorie così remote, costumanze uniche al mondo: tu sei sempre grande, sempre greca, e le tue celebri feste dovrebbero studiarsi come da Canova si studiavano le statue del Gladiatore e del Laocoonte.

EMANUELE BIDERA.

CONCIATEGAMI

S'egli è pur vero che i disordini e i danni siano antichi quanto il mondo, e che d’altra parte non siavi male al mondo senza rimedio, di leggieri è a dedurre su quanto saldo principio l’arte del conciare riposi; epperò qual posto essenziale debba tener ne’ vocabolari questo verbo, ed i suoi derivati: il il conciacaldaie, il conciategami, il quale ultimo, siccome degli altri |non accade tener proposito, solo un pochino, e con occhio fisiologico, per cosi dire, seguiremo.

Le rotture (intendo di masserizie) a quanto parmi aver dedotto dai miei studi di economia domestica sul vero a tre specie principali riduconsi, vale a dire: rotture volontarie, involontarie; di uso o sia per desti nazione. Per ira, per dispetto, per disprezzo, o simigliante cagione avengon le prime; per distrazione, balordaggine e pura disgrazia le seconde. Le terze, onde ninna di tali ragioni potrebbe assegnarsi, concernono esclusivamente i familiari, e sono per una terribile fatalità le più inevitabili.

Il tempo, questo tremendo divoratore degli anni, questa immensa potenza sterminatrice à pure i suoi piccioli delegati. V’à certe minuzie; v’à certe piccole rovine, che sono atomi rimpetto alle grandi e magnifiche cose, che van quaggiù distruggendosi e per le quali sono impiegati cotesti ausiliari.

Cadono le città, cadono i regni

crollano i templi più superbi; le più belle opere dell’arte distruggonsi; e queste rovine vengon bene da quella mano cui nulla resiste; ma la caduta d’un tondo, d’un tegame, d’un bacino, il frangersi d’una qualsiasi stoviglia è opera solo de’ familiari.

Questi antichissimi Attila flagello domestico non saprebbero vivere senza rompere e distruggere, ed hanno un bel gridare i padroni che son devastati, assassinati; che le loro suppellettili son danneggiate e dispaiate. Quella volgarissima ma pur vera sentenza: natura dat tollere nemo potest  trova un’applicazione sicura ed infallibile ne' familiari; eglino debbono fare così. Non è d’altra banda a maravigliare se una generazione naturalmente aritmetica, e che pur troppo sappiamo quanto perfettamente conosca la sottrazione, non sia meno intelligente delle frazioni e pur troppo i poveri padroni, fin dalle più remote generazioni stan facendo un continuo e tristo esperimento del distruggersi pressoché quotidiano delle loro masserizie rompevoli: ogni dieci giorni un bicchiere di meno; ogni quattro un tondo: ogni sette un tegame: ogni venti una bottiglia, ogni diciassette una tazza ec.

Ci si perdoni la piccola orazioncella in, e l’episodio al quanto lunghetto, avvegnaché non affatto lontano dal filo principale.

Avvi un amicissimo dell’umanità, che, senza aver mai aperto libro, conosce a perfezione l'economia domestica senza intender nulla di scienza nuova, conosce a meraviglia la vecchia, quella cioè della distruzione. Nuovi per lui non son neanche taluni principi fondamentali di chirurgia, che applica quasi sempre felicemente alle sue operazioni. Vero è che le stoviglie più fine, le argille straniere, le elette porcellane non son mica della sua facoltà, ma ben l’esercita sull’argilla di bassa estrazione, sul tondo, sulla suppiera, sul tegame principalmente onde il suo nome deriva.

Le arti secondarie, i piccoli mestieri, nocivi indubitatamente alle arti primarie ed ai negozi in grande, o per meglio dire a quelli che gli esercitano, comunque talvolta a prima giunta comparir possano di poco conto e ridevoli, sono di non leggiero utile al bene della generalità, onde elemento principale non è certo la dovizia; e la volgar sentenza che il vecchio guarda il nuovo ha senza dubbio nelle arti secondarie fondamento. In effetti in qual modo menerebbe innanzi la vita l’onest’uomo, obbligato a trarre un assai scarso frutto da lunghe fatiche; sostegno tante volle unico di lunga e numerosa famiglia; senza il benefizio di queste arti, senza una perfetta conoscenza de'  verbi rattoppare, accomodare, stringere, accorciare, allungare, rimediare, e sinonimi del vocabolario economico domestico che è il più vero ed in uso?

Così quella del conciategami è un’arte secondaria, nulla diversa da quella p. e. del ciabattino, che se non può restituirti la scarpa nello stato primiero, sa almeno accomodartela per guisa che tu possa alcun tempo rimanerti dal far la nuova. Così il conciategami è né più né manco d’un artista sui generis, ed essendo le arti sorelle, un conciate gami ed un pittore in viaggio, per cagion d’esempio sono fratelli . Il pittore in fatti ha la sua cartiera, la sua tavolozza, la sua sedia portatile, il suo ombrello; il conciategami o che or or vedrem mo come suonino lo stesso, ha parimenti un trapanatolo ed una cassetta, che fa alla sua volta da sedia , ed un ombrello; l'uno impasta colori, l’altro la sua mistura cicatrizzatrice che chiamasi con vocabolo tecnico il gesso (u gghisso) l'uno aduna le tinte, l’altro i pezzi di creta; sicché l’uno all’altro vicino:

Non sai se quello a questo, o questo a quello

Tolga o non tolga del conciare il vanto

E puoi ben dire: e sono egual cotanto,

Che il pittor non discerno e il concia-ombrello.

Nè sarebbero per avventura affatto fuori luogo queste due domande? Quale delle due arti è più utile?—Quale di questi due artisti è più grande? Quanto alla prima non istaremo un momento a dichiararci pel conciategami. Quanto alla seconda ricorderemo quel che scriveva un nostro autore e giornalista, valutando le opere dal proprio pregio più che dall’utile e—io amerei di diventar piuttosto Fidia che l’abilissimo dei falegnami—ma il secolo è positivo per eccellenza, i tegami in conseguenza ed i tondi son più positivi de'  quadri; onde il secolo esclama:— io amerei diventar piuttosto conciategami che l’abilissimo de’ pittori. — ché se l’opera del pittore è ammirabile, divina; se sa riprodurli vivacemente il bello fantastico e naturale; non men grande o prodigiosa i l’opera del conciategami. Non altrimenti favoleggiasi di Deucalione, del quale le pietre che gittavasi al dorso uomini ridivenivano; tale i frantumi nelle mani d’ un conciategami ridivengono tondi, tegami, bacini, pentole; tre pezzi inutili divengono un pezzo utile; il che è mirabile, ma nullameno non cosi come tre balordi che divengono scienziati, tre cenciosi che divengono ricchi, tre ladri o meschini che vengono in onore ad un tratto: —esempi onde abbonda il regresso ed il progresso!?

Sarebbe questo il vero caso dell’omnia renascentur quae iam cecidere laddove il poeta tosto ed accortamente non avesse soggiunto que— ché anzi l’arte stessa del conciategami, propriamente detto, quest’arte che pur mostrammo sì nobile ed eccellente, è andata sensibilmente decadendo.

E perché mai?— Felix qui potuit rerum cognoscere causas — e noi non istimandoci fra tali felici non crediamo saper indicare appuntino la cagione di tal decadimento, imperocché potrebbero essere molte; o il lusso non tollerante cose rattoppate o medicate — o l’essersi talvolta osservata la poca galanteria ed esattezza della cucitura, non di rado essendo incontrato che il brodo, liquefatto il gesso che saldava i punti mal dati d’una suppiera, a traverso di questa filtrasse . O perché sia agevol cosa acquistare un tondo, una ciotola, una pentola, a modico prezzo, o perché (e ciò persuade di più) ogni padrone, dotto dall’esperienza, ha chiamato responsabili i familiari degli oggetti che romponsi per loro mani: o per altre cagioni ancora; il certo si è che di conciategami propriamente detti, puri e semplici, come direbbesi in modo legale, non si veggono che pochissimi, a fronte di quella immensa moltitudine che, già tempo, assordava le strade.

Possiamo anche aggiugnere che al conciategami (assolutamente plebeo) non era talvolta strano di esser chiamato su per le nobili case, e che ora lo è a stento quasi anche per quelle del popolo; imperocché neanche pel gentame oggi è malagevole l’acquisto d’un tondo, o d’un tegame. In cambio alla troppo cognita voce — Chi tene mbrelle viecchie da vennere—Accattatele u mbrelle    riconoscerete la novella industria, onde il conciategami ha saputo supplire a’ suoi bisogni. Da abile professore di più dottrine, che dà nome alla sua scuola dalla principale, vedendo egli esser più facile oggi si accomodi un ombrello che un tondo o un bacino, si fa chiamar più volentieri conciambrelli.

Accennammo, ed or ripetiamo,, come il nostro popolo attenda sempre a due o tre piccioli mestieri ad un tempo; perocché nulla curanti del Pluribus intentus seguono in cambio la massima, che più si fa e più si guadagna; ond’é che il conciategami suole anche usare d’una picciola industria cerusica su i gatti, che noi non istaremo a ripetere; meravigliati per altro come una specie di uomini dedicata ad accomodare possa indursi a scomodare quelle povere bestie.

Aggiungo qui le strofe d’una canzonetta napolitana sul conciategami, che panni graziosa e vivace, e veramente questi canti ed ariette napolitani sono assai belli quando sappia ritrarvisi verità e vivacità. Ho inteso a cantarla sulla chitarra; e facile e gaio ne é l'accompagnamento, gaio come l’indole della mia bella patria, creata per gioire e per sorridere e che neanche la feroce tristizie dell’uomo sa talvolta forzare alle lagrime ed alla desolazione.

Mamma mia suppuri! chiù nun pozzo

Stu destino marditto schiattuso;

Me so ffatta che ffeto de nchiuso,

So arredutta che ffaccio piatà.

Vide cca — cchiù nun tengo culore

S'è la carna da cuollo caduta,

Me so ffatta na mazza restuta,

Me ne scolo pe ttanto unguttà.

E ppe cchi ? — Pe nu chiappo de mpiso,

Ch'è ppartuto e man puosto onammuollo,

Ma po cchiù nun s'a rutto lu cuollo;

Nfracetare l'acciso me vò!

Gioia mia, deceva, sto flora

Tre sommane e ppo faccio retuorno,

È passato nu mese e nu iuorno,

È  turnato lu cano ? — Gnernò.

E bba cride sti mpise! — Cu qquanta

Piccie e squase venette a frusciarme,

Me scennevano nfaccia le llarme,

Me faceva lu core spartì.

Me scennette no nuozzolo ncanna,

Me restaie a la vocca lu ffele,

Me so strutta pe D'esse fedele,

Mo nu bboglio guagnolla muri.

Nun so ppieczo de stareme a spasso,

A sti diente nun manca lu ppane,

M'aggi' asciato nu conciatiane

Che speresce, che mmore pe mme.

È tutt'auto de chillo gnellato;

Che nun tene nè arte nò pparte,

Che sse ioca lo tuppo a lli ccarte,

Che se mpacchia, e cchiù bbuono nun è.

Cu ttre ppunte de fierro filato,

Che mm'a dato a nu gruosso piatto,

Tre ppertose a stu core m'a fatto,

E a Ila reta m'a fatto ncappà.

Nu buon'ommo che ssempe fatica,

Ch'è cchiammato pe ttutte le ccase,

Lle ttiane, l'arciule e lli rase

È nu gusto a bbederle accuncià.

Songo asciuta da dinto a nu fuosso

Mamma, e cchiù nun c'è tiempo da perde,

Astrignimmo, ra songo a lu bberde

E cchiù stare nun pozzo accuss.

Maramè, pe nu chiappo de mpiso,

Cumm'ammore m'aveva cecata!

Vi che ssciorta me steva stipata,

Si lu sfamo turnava a bbeni!

Siccome interviene, non esser sempre il lusso segno di miseria, anzi spesso là esser lusso maggiore ove maggiore è il bisogno, parecchi dei conciategami o concia ombrelli indossano oggi un abito compiutamente pulito, e superiore alla loro condizione; di qualità che ove voleste aver per modello infallibile di conciategami un uomo lacero, sudicio e cencioso mal vi apporreste; lo erano ben quasi tutti gli antichi e semplici conciategami, che vestivano alla leggiera con la sola berretta, in semplici calzoni e camicia a maniche rimboccate; taluno ne vedrete che non lascia l’indivisibile pipa e il suo cappel di paglia, per quanto imperversar sappia la stagione, e che si annunzia con una voce tutta propria; che suona a un dipresso concia ti an con un n semi spenta, ed altrettali dell’antica generazione, conciategami retrogradi; ma non sarebbe a farne generalità.

Un concia ombrelli può vestir decentemente, non di rado con una certa eleganza, sempre pertanto con la sua cassetta (nella quale vari argomenti conserva del mestiere, come fili di ferro, martello, lima, le

paglia, gorbie, gesso e simigliami cose) e il trapano sospesi ad armacollo, suoi compagni indivisibili. Ha sempre sotto il braccio una quantità di ombrelli, ordinariamente di cotone, e spesso è seguito da una specie di allievo che porta altri ombrelli, e cosi egli vendendo ed acquistando mantiene la sua industria e trae la vita.

E sia prova che l’industria ed un' onorata povertà abbian sempre onde sostenersi il veder come anche in questi mestierucci possa trovarsi un mediocre guadagno; perocché ne’ torli della fortuna ottimo rinfrancamcnto è la solerzia e il lavoro.

ENRICO COSSOVICH!





























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