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LE MEMORIE DEI MIEI TEMPI

PER SALVATORE COGNETTI GIAMPAOLO

02

NAPOLI

Stabilimento Tipografico Pansini

Strada Pisanelli, 23

1874

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
Ottobre 2016

CAPO IX

IL GOVERNO ITALIANO
RIFLESSIONI GENERALI

Deciso a non transigere con la verità, come sono stato inesorabilmente giusto ritornando sulle memorie storiche del governo dei Borboni; così sarò tale passando in rapida rivista questi ultimi quattordici anni, che costituiscono la vita ancora bambina del nuovo ordine di cose in Italia.

La Dio mercé, non avrò a durar lunga fatica per essere inattaccabile nella rapida analisi, che mi propongo; avvegnacché tenessi a mia giustificazione l'opposizione costante da me fatta, con i miei giornali, agli atti governativi, che mi son parsi degni di censura; l’eloquente ratifica dei fatti che mi hanno posto dal lato della ragione; e da ultimo la solenne confessione di tutti i grandi errori, così governativi, come politici, consumati da coloro che sono stati preposti a reggere la cosa pubblica.

Il primo e più esiziale errore, quello che ha demoralizzato tutti i sistemi governativi, è stato quello d’informarli, per massima, ad un programma di colore e di partito politico.

Di qui il male tuttora inguaribile della divisione irreconciliabile degli animi e delle opinioni; di qui la guerra civile nel campo amministrativo.

Se, a cominciare da Cavour, si fosse detto — il governo italiano è opera di rigenerazione civile e politica, e non la rappresentanza d’una speculazione dei partiti rivoluzionari: se si fosse detto, — il governo rispetta tutte le opinioni, purché non entrino nel campo dell’azione. politica, e perciò ammette, senza distinzione di colore, ai pubblici uffici tutti i cittadini d’Italia, avessero o non avessero servito i caduti governi;  — se insomma non si fosse decretato l’ostracismo per regola contro tutti i veri o presunti devoti ai caduti governi, per sostituirli spesso col rifiuto delle piazze, delle taverne e delle combriccole rivoluzionarie: — sin dai primi anni il governo avrebbe avuto nota di giusto, d’indipendente e di morale: avrebbe a poco a poco guadagnato gli animi dei più solidi avversari della rivoluzione; ed esso stesso non si sarebbe costituito sul principio di essere un partito, come affermò l’onorevole Peruzzi innanzi la Camera, in qualità di Ministro: e non avremmo dato, come diamo tuttora, all’Europa il tristo spettacolo di due partiti, che si contendono il potere; lottando al cospetto d’un popolo, malcontento e mal governato, il quale assiste con crescente indifferenza e sfiducia a queste gare, da cui l’Italia riconosce le sue grandi rovine.

E questo primo errore dovea con sé portare l’altro; cioè che volendo un partito regionale prevalere sull’altro, è avvenuto, che dalla lotta partigiana per opinioni politiche si sia caduti in quella partigiana di campanile; crescendo le rivalità personali e degenerando in quelle regionali; l’una a dispetto, a discredito, a rovina dell’altra.

Laonde, anche ammessi alla Camera i soli uomini di parte rivoluzionaria, questi si sono sempre scissi, divisi e suddivisi in molte frazioni; sì che anche oggi non si trova nel Parlamento quella nobile e necessaria divisione dei due grandi partiti amministrativi, di destra e di sinistra; sibbene si deplorano il gruppo toscano, il piemontese, il lombardo, il napoletano; ciascuno col suo capo; ciascuno suddiviso in destra ed in sinistra.

Or come si può ottenete quella necessaria armonia parlamentare nella stessa opposizione?  — Come mai un Ministero potrà formulare e rappresentare un programma amministrativo e politico, se non può avere una seria maggioranza, che lo sostenga? — Come è sperabile una discussione severa e profonda delle leggi dello Stato, se queste sono abbandonate spesso a trattative, non so quanto morali, con i gruppi delle frazioni dei partiti? — Come mai il paese potrà ottenere i deprecati vantaggi in tanta babilonia, che domina colà dove dovrebb’essere collocato Paltò senno è la concordia dei suoi rappresentanti?

Se il mio giudizio è erroneo, prego i miei avversari a rettificarlo; ma ho la coscienza di ritrarre l'eterna fisionomia del nostro Parlamento nazionale; è non mi discosto dalle stesse confessioni dei più indipendenti deputati che siedono alla Camera.

Aggiungo un’altra riflessione a queste considerazioni generali; ed è, che avendo gli uomini del Piemonte alzato lo stendardo della rivoluzione, allorché essi hanno costituito il Regno d’Italia, hanno creduto, non già di governare i tanti diversi regni unificati con leggi, che fossero stato il risultato di profondi studi sulle leggi, sulle consuetudini, sugli usi, sui costumi dei diversi popoli; per ottenere un corpo di leggi, così civili, che penali ed amministrative, le quali, dirò quasi, acclimatassero sotto uno stesso aere governativo tutte le popolazioni; non si è voluto, non dirò non si è saputo, dalla gran massa delle leggi e dei regolamenti parziali a ciascuno Stato annesso, scegliere il buono e porre da banda il cattivo, sì che tutte le popolazioni avessero potuto dire: — ecco un tutto, che conserva il mio buono e proscrive il mio brutto, sostituendolo col buono d’un’altra regione!

No: la parola annessione ha dato le vertigini ed ha polluta la parola unità, il Piemonte ha creduto, che tutti i regni d’Italia si annettessero a lui, anzi che esso si fondesse con i regni scomparsi: ed in conseguenza il dominio del Piemonte è sembrato un diritto, che ha talvolta preso la figura di conquista.

Per attuare questo diritto, si è dovuto far presto, e quindi si sono imposte le leggi e gli uomini piemontesi a tutta Italia.

In altri termini, l’Italia si è più piemontizzata, che unificata.

Non negherò, che specialmente dopo il 1866 il partito toscano si è cominciato a ribellare a questa inaspettata pressione di uomini e di leggi; mentre il così detto partito napoletano si è quasi sempre messo al seguito del Ministero, espressione censurabile della sua prostrazione morale; ma se col trasporto della Capitale a Firenze si è cominciato a spievnontizzare l’Italia (mi si conceda il termine), non si è giunti ad estirpare la radice della pianta, che mette fuori sempre le sue foglie rigogliose ed amare.

Ed è un male, che non si potrà estinguere, se non nel giorno in cui il Regno d’Italia cesserà d’essere una quistione diplomatica.

Questo male deploro sinceramente; ma d’altra banda rifletto, che la Dinastia, per quanto possa abbandonarsi alla fedeltà provata degli uomini non nati nel Piemonte; altrettanto i piemontesi prendono, quasi spontaneamente e naturalmente, un posto di preferenza e privilegiato nella fede della Monarchia.

Di qui la vita precaria dei Ministeri e l’opposizione implacabile tra i più influenti uomini politici toscani e piemontesi, che saliscendono i Ministeri.

Mi si potrà opporre, che tutto ciò sia vero; ma che bisogna bene un tempo per giungere alla grande crisi legislativa italiana, e che questa sia già incominciata: ed io senza osare di respingere tale osservazione, potrò rispondere, che i partiti sono nel 1874 implacabili più che non lo erano nel 1860; e che le riforme legislative ed amministrative, pur mirando ad ordinare i sistemi governativi, non fanno che accrescere il caos di riforme personali e secondo i criterii regionali dei Ministri.

Così dato uno sguardo rapido alle cause che chiamerò radicali del nostro malessere civile ed amministrativo, dividerò tutta la mia analisi in due grandi sezioni.

Sezione 1.a  Quello che il governo avrebbe dovuto fare; quello che ha fatto; quello che dovrebbe fare nella parte politica ed amministrativa interna.

Sezione 2.a Quello che il governo avrebbe dovuto fare; quello che ha fatto; quello che dovrebbe fare nella politica estera.

Non intendo farla da maestro, e fo per questo le mie più umili proteste: tutto al più la fo da censore indipendente.

Se in ciò che sarò per osservare, mi sbaglierò; accetto sin da ora la censura, e la reputerò onore per me, vantaggio pel paese. Non ho la ridicola presunzione di credermi infallibile.

Che se nelle mie parole vi è qualche cosa che meriti di essere considerata; la non si trascuri per malinteso e solito sistema di prevenzioni politiche e partigiane.

L’oro esce purificato dal crogiuolo!

SEZIONE I

§ 1.°
LA LEGGE PICA E LA LEGGE CRISPI

Metto sotto una stessa rubrica queste due leggi, perché entrambe sono state proposte, votate ed attuate in uno scopo esclusivamente politico.

È vero, che la prima ha mirato a distruggere il brigantaggio e la seconda a tenere in freno la reazione, di cui si temeva tanto nel 1866, nell’Italia meridionale; ma guardate nel pensiero dell’Assemblea legislativa, e leggerete l’unico concetto di violenta resistenza ad una temuta reazione legittimista.

Oggi, dopo l’eloquente storia di queste due leggi, un intelligente ed onesto uomo politico deve argomentare, che esse poteano essere opportune per prudenza; ma furono letali per la loro stolta applicazione.

La legge Pica mirò a distruggere il brigantaggio.

Ebbene, in tutte le grandi catastrofi politiche, massime se sono compiute con un cangiamento di Dinastia; la reazione è un fatto logico, spontaneo, inevitabile.

Gli Stuardi, i Vandeisti, i Carlisti, i Sanfedisti (adotto per poco il qualificativo settario per convenzione storica) pugnarono tra le grandi rivoluzioni dinastiche in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in Napoli.

Le storie di quelle reazioni dinastiche hanno questo di comune, cioè che i cittadini rimasti fedeli alla caduta Dinastia, combattendo disperatamente contro il nuovo Dinasta, tutti sono stati definiti dal nuovo governo per briganti!

Oggi, lo stesso Carlo VII, che con l’eroismo della spada riconquista l’avita corona di Carlo V, non è che un brigante agli occhi di tutti quei miserabili parricidi, che hanno costituito il governo della Repubblica Spagnuola.

E però, parlando della reazione armata del 1860, io credo, ch’essa debba distinguersi in quella veramente politica ed in quella veramente brigantesca.

La prima ebbe vita breve; durò sino al 1861, e fu capitanata dal Generale Tristany e dal Generale Borjès; ma impotente a resistere alle forze del governo, cadde per non risorgere mai più.

Borjès, nel momento stesso di passare la frontiera, fu tradito dai suoi, preso e fucilato: Tristany è uno dei più fortunati capitani, che oggi si batte per la causa del suo Re e della sua patria in Spagna.

Con questa tragedia di Borjès fu chiusa la breve epopea della reazione armata del 1860: quei realisti erano ribelli al nuovo ordine di cose, ma non erano briganti.

Adunque la legge Pica non era propria per essi, contro cui bastavano le baionette dell’armata e le leggi militari: e di fatti bastarono.

Non ricorderò certamente per pompa storica gli orrori di quell’epoca nefasta; ma debbo invocarli per prova di ciò, che di quella terribile legge si fece siffatto scempio, per quanto che ha lasciato tracce funeste di sangue incancellabili sul suo passaggio.

La reazione armata era spenta, ed allora il governo avrebbe dovuto prevedere e provvedere a che essa non degenerasse in ciò che si può veramente chiamare brigantaggio: e qui il governo mancò di senno pratico, ed ha procurato contro di sé stesso il malcontento delle popolazioni ed il severo giudizio della storia.

Se la reazione politica degenerò in brigantaggio, la colpa è degli uomini del governo, che non seppero con misure provvidenziali e tutte amministrative ostacolarne il nascere ed il dilatarsi.

Chi volesse rileggere i nostri lunghi articoli su questa tesi (), vedrebbe, che io non scrivo così dopo le conseguenze del male; ma son felice di ricordare, che io previdi a tempo il male che avvenne; ma che non ebbi la ventura di essere ascoltato.

La legge Pica, come spavento per i tristi, l'ammetto, anzi la riconosco necessaria: ma la legge Pica lasciata all’arbitrio nefando ed irresponsabile di agenti, più degli stessi briganti nefasti alla patria, non posso ammetterla.

Bisognava conoscere l’indole delle nostre popolazioni delle province infestate dal brigantaggio per adottare quei provvedimenti pronti ed efficaci a renderlo impossibile.

Questi rimedi erano evidentissimi e bastava largheggiare in benefizi, almeno in quei primi momenti: farsi amare, far dimenticare il passato governo a furia di beneficare le popolazioni delle campagne.

Non cr illudiamo: la politica del popolo è l’interesse a vivere agiatamente: risolvete questo problema con senno e con perseveranza, ed avrete domati i ribelli con il pane a buon mercato, anzi che con le palle dei moschetti.

Se in quei giorni di agitazione politica, anzi che far scrivere da Cialdini un proclama di sangue, che conchiudeva con le tremende parole «oggi ho cominciato a fucilare» — si fosse emanato uh proclama, in cui, dichiarando repressa la reazione politica, si prometteva amnistia a tutti coloro, che alla reazione aveano preso parte; e si fossero messi a disposizione dei Municipi di quelle province i fondi necessari per far diminuire il prezzo dei viveri, per incoraggiare l’agricoltura e l’industria; per occupare le braccia del colono nel lavoro, facendogli sentire i benefici d’una vita anche più agiata; sorprendendo il suo cuore, la sua fantasia con feste e con tripudi popolari; certissimamente dalla classe del proletario, l’unica ohe ha dato il gran contingente brigantesco, non sarebbero usciti i feroci briganti, che hanno desolato per tanti anni queste contrade così pacifiche ed industri.

Né mi si dica, che il governo non possedeva i fondi su indicati; imperocché allora ne avea ad esuberanza, e se tirate i conti di ciò che il brigantaggio è costato al tesoro nazionale, conchiuderete, che con la metà di quei tanti milioni si sarebbe potuto ovviare a questa piaga pestilenziale della società.

Le nostre genti di campagna sono d’indole docile, buona, credula; e sovra tutto gelose delle loro credenze religiose: bisogna saperle condurre, per guadagnarsele agevolmente.

Con le buone maniere, e facendo loro toccare una felicità materiale, le avrete ossequenti ed inoffensive: provocatele, insultatele, pregiudicatele nei loro interessi, e daranno subito di mano alla carabina: e se raddoppierete di rigore, avrete creato i briganti!

Che cosa fece il governo rivoluzionario di quei tempi?

A quelle popolazioni, ruvide e superstiziose per loro stesse, si presentò in figura di riparatore; diede loro a leggere proclami umanitari, che esse non comprendevano; chiamò briganti i preti e Francesco II; e dispensando questo pane spirituale della rigenerazione, cominciò ad impossessarsi delle pubbliche casse e ad angheriare la classe agricola con subitanei e fastidiosi balzelli.

Questo contegno slogico, impolitico e stolto, irritò quelle masse avvezze ad una vita agiata e tranquilla; e quando le sanguinose scene consumate a Pontelandolfo, a Casalduni ed in molti altri paesi, si riproducevano, il terrore e la rabbia invasero gli animi di quei fieri terrazzani.

La reazione politica degenerò in una reazione politica popolare, che impotente a vincere, si tramutò in brigantaggio per fame, per istinto di vendetta, per necessità di salvarsi dalla morte seminata a larga mano dagli agenti dei governi locali.

Ecco come vennero in infame rinomanza i Crocco, i Ninco-Nanco, i Donatello, i Caruso e cento altri scellerati simili.

Il Deputato Ferraris nella tornata della Camera del 29 Novembre 1862 narrò ciò che egli avea veduto! Ne ricopio le parole officiali.

«La repressione del brigantaggio diventa un vero caos di guerra civile. Voi non mi volevate credere, quando io vi diceva, che avea veduta una Città di 5 mila abitanti distrutta, e da chi? — Forse dai briganti? — No! —  Ora, Signori, sappiate che si fucila, che s’imprigionano le famiglie, che s’imprigionano in massa! E una guerra da barbari! Una guerra senza quartiere! Io non so come spiegarmi, se il senso morale non ci dice, che noi nuotiamo nel sangue!!!»

La Legge Pica, legge di terrore e di sospetto, inservì ad infami vendette private, a vendicarsi di avversati o aspettati amori; a ripagarsi di antichi odi politici.

I nomi di Fumel, di Fantoni, di Galateri, di Pinelli sono divenuti più esecrati di quello di Manes: ed i loro tribunali di sangue hanno funzionato in modo da far fremere i più indurati alla ferocia.

La gran parola — manutengolo — era la mannaia del sospetto!

Non intendo riprodurre qui le confutazioni, che nei su citati miei articoli feci alla relazione presentata al Parlamento dal Deputato Massari, che fece parte della Commissione d’Inchiesta sugli orrori della legge Pica; ma dirò, che il breve cenno che ora fo di quelle scene di sangue, sono officiali, e tra le tante diedero ragione al Parlamento per ordinare una inchiesta; ed io le ho riportate nelle mie lettere politiche «Le Meridionali» dedicate a Re Vittorio Emanuele.

La Commissione d’inchiesta adempì al suo dovere; ma giammai il paese ha potuto avere conoscenza di quei tanti e dolorosi episodi d’una guerra civile, destati dall’iniqua applicazione della legge Pica.

Il brigantaggio è andato scemando, e si può dire spento, non appena il governo, commosso dalle voci strazianti di queste popolazioni, revocò l’irresponsabile applicazione della legge Pica! — Lo che prova sino all’evidenza tutta la colpabilità degli atti atroci consumati, e l’errore gravissimo di aver creduto, che queste popolazioni si possano manodurre e rendere docili con le fucilazioni, anzi che con un’amministrazione abile, prudente, conciliante e popolare!

Che cosa dirò della legge Crispi del 1866?

Il concetto, che la ispirò, fu nel tempo stesso impolitico ed imprudente.

Che cosa si proponeva questa legge?

Rendere impotenti i possibili tentativi della reazione legittimista nel momento, in cui il governo, impegnando tutte le sue forze nella guerra, che combatteva contro l’Austria, restava le province meridionali sfornite di truppe.

Vedete dunque, come questa legge supponeva un fatto politico, che, ove fosse vero, deporrebbe eminentemente a svantaggio della fede, che il governo assume di godere in queste popolazioni.

Temere di essere aggredito, di vedere ribelle l’Italia meridionale, è quanto confessare, che non si abbia il suo amore, la sua stima; ed il solo sospetto offende la coscienza d’un governo serio, che così dichiara politicamente un fatto, che avrebbe dovuto prudentemente dissimulare.

La legge Crispi è la legge del sospetto, la legge preventiva contro una possibile insurrezione; è il governo che vi dice: — preparo la diga ad una possibile insurrezione, che potrebbe, se non rovesciarmi, pregiudicarmi in momenti, nei quali mi batto contro un forte nemico.

Adunque nel 1866 si ebbe il bisogno di tenersi sul chi vive contro il così detto partito legittimista.

E sia pure, che l’abbondare in precauzioni valga il senno dei governanti: sia pure, che a dormire sicuro su due guanciali, una legge eccezionale, fondata sul sospetto, valga ad incutere terrore nei supposti ribelli; dimando io, bastava per se stessa la legge, o bisognava attuarla vandalicamente, creando un’agitazione, che non esisteva; per aver agio ad applicare una legge, che sarebbe rimasta innocente a fronte del tranquillo contegno delle popolazioni?

Ecco il quesito, che pongo in ultima concessione sotto l’esame del governo, che se può chiedere ed ottenere una scusa nella ragione della legge; non potrà mai ottenerla pel fatto dei suoi agenti che l’applicarono.

Ammetto pure in massima, che in vista d’una vittoria, che l’Austria avesse riportata sull’Italia, le speranze dei legittimisti si poteano ravvivare: ma ciò autorizzava quella troppo impolitica persecuzione?

Sino a quando queste speranze rimaneano chiuse nel cuore, si poteva dire — ecco un nemico che spera: —  ma questo nemico, restando nell’inazione, non offendeva materialmente l’ordine pubblico.

Sicché l’azione della legge Crispi avrebbe dovuto cominciare dal momento, in cui l’azione dei legittimisti avesse assunto un carattere minaccioso.

Il governo ha dovuto essere convinto di ciò, che se i suoi agenti si fossero limitati ad una condotta di vigilanza, l’applicazione della legge Crispi sarebbe divenuta inutile, ed avrebbe raggiunto un doppio scopo; cioè quello di accertarsi, che la reazione non avesse forza; e non avrebbe da un inconsulto terrorismo guadagnato il malcontento delle nostre popolazioni.

La legge Crispi era il sospiro dei poliziotti e di quanti mestatori e perfidi intriganti pullulano nelle fogne rivoluzionarie.

Infatti, come appena quella legge fu pronunziata, al primo colpo di cannone, cominciò una formale razzia di quanti erano sospettati per legittimisti.

Non valse a costoro una vita tranquilla di tanti anni, l'essere stati buoni ed onesti cittadini, ossequenti alle leggi ed inoffensivi! Legittimisti? — dunque sospetti di reazione: dunque a priori destinati ad essere perseguitati! E furono eseguite perquisizioni domiciliari su vastissima scala; arrestati in massa, ammanettati e tradotti nelle carceri i più tranquilli ed onorevoli cittadini; ed essenzialmente i preti.

Le prigioni rigurgitavano talmente di questi detenuti, per quanto che bisognò dividerli tra le diverse carceri dei distretti limitrofi.

Io era in quel tempo carcerato alla Vicaria, come narrerò in seguito, ed era così immenso il numero dei carcerati per forza della legge Crispi, i quali colà giungevano, per quanto che non bastando le stanze delle prigioni a contenere il doppio dei letti, bisognò convertire in stanze carcerarie gli stessi corridoi della prigione!

E ciò avveniva anche nelle Carceri di S. Francesco ed in tutte le altre di Napoli.

E mentre la Polizia compiva il suo vandalismo terrorista con le perquisizioni e con gli arresti, la Commissione dei sospetti compiva le sue funzioni col destinare gli arrestati a domicilio coatto!

La stampa di quei giorni calamitosi levò altissime grida, e questi che narro, sono fatti che ricopio dal giornalismo liberale — imperocché le vendette private, dopo essersi sfogate sui sospetti di legittimismo, quando fu xxxato questo campo, si riversarono sovente contro individui di provata fede liberale.

Fu l’orgia dei birri e dei delatori: fu il carnevale della rivoluzione.

Per dare un corpo legale alle ombre, si iniziarono migliaia di processure criminali; ma l’unica prova restando nel sospetto, naturalmente si finiva col perenne «non esservi luogo a procedimento penale» in Camera di Consiglio.

Ripeto: fu il carnevale dei tristi!

I debitori, o si liberarono del debito a prezzo d’una denunzia; o pagarono il debito rovinando il creditore: e fu mercato turpe di basse vendette, di amori dannati e di antipatie politiche.

Dove stava la reazione?

Il governo si avvide che l’avea destata e creata con le sue mani; non era la reazione politica, che non esisteva; ma la reazione morale alle torture d’una legge politica.

Il governo si trovò a fronte d’un malcontento pronunziatissiino delle popolazioni, ed innanzi ad un’enorme spesa, che sotto la rubrica di legge Crispi e di SPESE SEGRETE allargò il vuoto spaventevole del Bilancio dello Stato!

Oh! se i fondi segreti potessero essere perennemente a disposizione d’una legge Crispi; l'Italia, anche democratizzata da un punto all’altro, borbonizzerebbe per conto della Polizia eccezionale e del suo liberalissimo corteo!

Queste dolorose memorie insegnano un gran vero, ed è questo, che un governo tenuto da uomini, che s’ispirano a principi rivoluzionari, non potrà giammai modellare i suoi atti — severi e necessari che fossero — sui dettami d’una moderazione astuta e vigilante; e d’una giustizia che previene, che ferma la colpa a metà del cammino, e riscuote l’ossequio ed il rispetto delle popolazioni.


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§ II.
AMMINISTRAZIONI DELLO STATO

Non appena, chiusa materialmente la rivoluzione dal Plebiscito del 1860, il governo si costituì nell’Italia meridionale in nome di Vittorio Emanuele, l’impìegomanìa invase il campo del patriottismo: e fu una cuccagna spettacolosa d’impieghi, presa d’assalto da patriotti d’ogni risma.

Sicché a cercare fra di essi il più meritevole per sola onestà ed ingegno, si sarebbe durata gran fatica; ma per patriottismo, per liberalismo e per martirio se n’ebbe da rivenderne a buon mercato a tutti i patriotti del mondo.

Quante e quante volte i Ministri hanno dovuto deplorare tanta dimostrazione di decadenza in Italia, ove la pagnotta diventava la vera obbiettiva del liberalismo!

Che cosa avrebbe dovuto fare un governo, che avesse voluto essere positivamente serio nell’adoperare queste ruote, che servono all’azione della gran macchina governativa?

Il patriottismo, il liberalismo, anche il garibaldinismo son sentimenti e figure giustificabili, in momenti di delirio politico: ma quando dal campo delle astrazioni e del cormentalismo politico bisogna scendere in quello della buona amministrazione; si doveano porre da banda i sentimenti, ed indagare, ove stessero l’onestà l’intelligenza e l’esperienza, che sono le tre qualità eminenti, senza di cui non si può essere ottimo impiegato.

Se a queste qualità si aggiungesse un nobile e vero patriottismo, tanto meglio: la scelta non potrebbe essere dubbia.

Le nostre amministrazioni erano ottime, perché ottimi erano gli impiegati che le componevano: e dico ottime, perché, come ho lungamente esposto, lo Stato prosperava.

Gli impiegati, in generale, servono il governo, che li paga; se vi è classe sociale, in, cui la politica è banderuola d’ogni vento, è appunto quella degli impiegati, i quali hanno la patria nel soldo; e sono rarissimi i casi in cui si voglia perdere il soldo per grande amore di patria.

Affermo perciò, che, caduta la Dinastia Borbonica è proclamata quella di Savoja, i primi a fare atto di adesione al governo furono gli impiegati: e ciò è storia officiale.

Ciò posto, le fisime del borbonismo e del legittimismo erano materialmente e moralmente cadute, ed il governo dovea cominciare col dimenticarsi della politica, ed aprire una seria inchiesta sul personale delle antiche amministrazioni; scegliere quanto di onesto, d’intelligente e di sperimentato esisteva in esse, reimpiegarlo, e riconfermarlo nelle nuove amministrazioni dello Stato.

Con questo programma si sarebbero guadagnati alle amministrazioni gli impiegati ottimi; sarebbesi data prova di senno e di giustizia; e procurati amici grati al nuovo ordine di cose; si sarebbe ricostituita una burocrazia operosa ed intelligente, con un personale, dirò autonomico.

Dallo scrutinio risultava un margine di impieghi a coprire? Ed in questo caso dovea ricorrersi all’elemento nuovo; sempre scegliendo l’onesto e l’intelligente a preferenza.

Invece, che cosa si è fatto?

Dopo che si è chiesto ed ottenuto dai nostri impiegati l’atto di adesione al nuovo ordine di cose; eccoli un bel giorno destituiti, o in omaggio della pubblica opinione; o per presunta incapacità, o per denunziata disonestà; o per antipatie politiche: — altri mandati al riposo con una misera pensione: e pochissimi conservati a stento mercé le buone relazioni con i nuovi venuti.

Su questo campo degli impieghi immediatamente si riversarono le affamate locuste della rivoluzione, ed in nome della libertà e dell’Italia una, si diede la caccia alla pagnotta — si esercitò una pressione violenta, partigiana sui ministri, i quali stretti da tutte parti, e dovendo satollare la piazza, perderono ogni criterio nel concedere impieghi e li dispensarono sotto la necessità funesta del favore.

Non niegherò certamente il buono, che esiste nella burocrazia attuale; ma si può affermare che questo buono sia rarissimo e che nella maggioranza domini il cattivo.

Dimostrazione di questo vero è la condizione deplorabilissima di quasi tutte le amministrazioni dello Stato, le quali sono un Caos; e basta svolgere gli atti del Parlamento e quelli giuridici per conoscere, come sieno a rimpiangere i continui fatti di peculato, e di amministratori che fuggono frodando i danari dello Stato.

Citerò un brano del discorso di apertura del presente anno giudiziario, tenuto dall’on. Senatore Vacca; molto chiaro e moltissimo autorevole.

«E che cosa diremo poi degli esempi non infrequenti di scandalose assoluzioni rispetto ai reati di peculato, e di appropriazione del danaro pubblico? Gli è un sintomo codesto ben deplorevole della scadente moralità pubblica, e noi non esiteremo a stimmatizzare severissimamente il reo costume: se non che ci repugna il gittarne tutta quanta la responsabilità morale sugli omeri dei Giurati; perciocché in questo fatto giudiziario si annida evidentemente una forma, una manifestazione sensibile di quella tabe profonda che infelicemente travaglia, e corrode la società odierna, la oscurata fede agl’immortali principii del retto, e del buono. Quando gli esempi della improbità balda e felice si allargano tuttodì, e come suole la sistematica deni«graziane, esagera e inventa tal fiata, ponendo in fa«scio disonestà e integrità di vita, egli è allora che si vien generando un ambiente morale viziato, e per questa china fatale si giugno a quel desolante cinismo fulminato da Tacito col terribile motto del corrumpere et corrumpi saeculum vocatur.»

E inutile il farci illusione: il bisogno d’una radicale riforma nelle amministrazioni dello Stato è universalmente sentita.

Quello che sinora si è fatto, è dalla esperienza dimostrato grandemente cattivo; e bisogna mutar sistema, se si vuole far rivivere l’azienda nazionale e l’ordine amministrativo.

Semplificare le amministrazioni; spogliarle da quel lusso esuberante di ritologia piemontese; modellarle sulle norme napoletane o su quelle francesi, evidenti, chiare e semplici; diminuire questo esercito d’impiegati che mangiano e non servono, anzi disservono; ritenere i migliori, i più intelligenti, i più sperimentati, i più zelanti; insomma dare alle amministrazioni gli impiegati strettamente necessari e buoni  — ecco a mio modo di vedere ciò che dovrebbe essere mandato ad esecuzione con volontà perseverante e con profondo sapere.

Non si dica, che grandi sieno gli ostacoli che bisognerebbe superare per giungere a tale scopo, e che essi possano essere anche insormontabili!

Signori, siete venuti da Torino a Roma, ed avete vinti ostacoli ben di questi creduti più insormontabili; e per passarli, avete posto il piede sulla storia dei popoli d’Italia, sulla loro indipendenza, sulle loro leggi, sulle loro più care tradizioni; avete rovesciato troni e dinastie; avete consumato la violenza di Porta Pia; avete irriso e bravato il giure internazionale; e non avete tremato!

Vi faranno paura gli ostacoli burocratici, che si sintetizzano nelle querele degli impiegati non meritevoli, o esuberanti?

Avete lasciato gridare invano migliaia e migliaia di impiegati delle cadute amministrazioni; li avete veduti con occhio asciutto languire nella più ingiusta miseria, la quale è testimonianza di loro onestà; avete fatto anche molto a prò di coloro, che hanno contribuito ad accrescere il disordine burocratico e finanziario: e vi lascerete imporre dalle querele di aspiranti e di applicati, che meritano per loro stessi l’ostracismo?

O si crederà segno di buon governo e di patrio amore quello di sagrificare l’uno e l’altro alle convenienze d’una classe burocratica — parlo dell’inutile — che è la fourmie bianche della gelosa organizzazione amministrativa?

La piaga cancrenosa si cura col ferro e col fuoco, e non con gli empiastri e coi cosmetici.

Volete salvare le amministrazioni dello Stato dalla presente rovina?

Volete portare un duplice vantaggio. all’ordine ed alla speditezza degli affari; non che alle Casse del Tesoro?

Eseguite una riforma radicale nei sistemi e nel personale delle amministrazioni; ed abbiate il coraggio di farlo ed il senno di saperlo fare.

§ III.
QUISTIONE RELIGIOSA

Avrei dovuto scrivere religione dello Stato ma per essere storico fedele, debbo scrivere quistione religiosa.

Io mi dichiaro cattolico apostolico romano, e sono superbo di vantarmene: onoro la religione santissima, nella quale nacqui e fui educato; la religione che fu sole di morale, di civiltà, di progresso mondiale; la religione che rialzò i diritti degli oppressi contro gli oppressori; il popolo contro i despoti; che proclamò col martirio divino del Golgota l’amore, l'uguaglianza, la carità, la fratellanza cittadina; la religione che sulla base di 19 secoli sfida la guerra stolta dell’ateismo e del paganesimo razionale, e le torture dei tiranni moderni, come quelle degli Imperatori pagani e dei despoti del medio evo.

Confessando con voce alta e ferma i miei principi religiosi, sono onesto cittadino, e rendo ossequio al primo e fondamentale articolo dello Statuto nazionale giurato dal Re e dalla Nazione.

Essere politico a metà, è cosa che si spiega: essere religioso a metà, è un assurdo.

Non si può credere e non credere nel tempo stesso: la Fede è una; scinderla è un lavoro iperbolico del razionalista, che dopo aver confessato la follia del panteista, finisce con l’essere nulli sta, cioè bruto.

Comprendo che se la religione cattolica apostolica romana è l'eminente; quella che ha innalzato il suo trono eterno sulle rovine del paganesimo e della tirannide, non la si può imporre a tutte le coscienze, che sono mosse da diverse convinzioni religiose: e riconosco, che popoli e Sovrani professino confessioni luterana, o calvinista; ma l'animo si conforta in ricordare che queste fazioni, benché distaccate dal centro comune, pure non sono che una derivazione del Cristianesimo primitivo.

Adunque, se in omaggio della libertà di coscienza e per le stesse dottrine del Cristo, la religione non s’impone, ma si professa col sentimento intimo della celeste sua onnipotenza; si deve ammettere, che per le stesse ragioni non si debba alla religione dello Stato e del popolo fare una guerra, che per se stessa è impolitica e causa di discordie cittadine.

Machiavelli insegna, che il primo dovere del conquistatore sia quello di rispettare e di tributare ossequio alla religione del popolo conquistato, per averlo docile ed amico al nuovo regime.

Difendete, se occorre, il sentimento religioso d’un popolo; sentimento che è la parte connaturale, il sangue della sua anima, la luce del suo pensiero, la forza della sua volontà e del suo braccio; e siete sicuri di ottenere dal popolo tutto ciò che dimanderete.

Sempre e dovunque i Re si circondarono dei Sacerdoti e della maestà dei riti religiosi; ed il popolo allora ha creduto fermamente alla supremazia del Re, quando l’ha veduta santificata dalla mano dei Sacerdoti.

Rovesciato un Re, il popolo se ne allegra, se fu despota; lo compiange e lo ricorda, se fu buono e degno dell’amor suo; ma il tempo, un sennato governo, la forza prepotente dei fatti compiuti possono, se non spegnere, almeno scemare quel primo entusiasmo pel caduto monarca, .

Ma provatevi a rovesciare la Religione d’un popolo: lo avrete implacabilmente nemico; lotterà senza tregua contro la persecuzione; e più questa sarà aspra, più forte sarà la resistenza.

Quello che oggi avviene in Europa per l’impolitica condotta del Principe di Bismarck, è insegnamento palpitante a cui bisogna educare la mente.

La rivoluzione, che si è svolta in Italia, ha la sua venefica radice nel programma ateo e repubblicano della Giovine Italia, e nel suo principale Club della Croce Rossa.

Dio e Popolo! ecco il motto di Mazzini.

Questo motto non è cattolico, non è luterano, non protestante, non musulmano, non buddista: è l'eccentricità d’una logica stramba, che rivela lo strambismo d’una politica, che ripugna al sentimento universale della società e della civiltà.

Mazzini fu detto il Profeta dai suoi stessi accoliti, che, per non saperlo indovinare, ne fecero un enigma rivoluzionario..

Adunque, sino a quando il governo non prendeva una forma politica e diplomatica, la rivoluzione potea arbitrarsi di vomitare le sue plateali ingiurie e perseguitare la Religione cattolica; ma da quel momento, in cui all’anarchico programma mazziniano si sostituiva lo Statuto nazionale, era dovere degli uomini del governo il farlo seriamente rispettare.

Anche proclamando la libertà religiosa, dovea essenzialmente proibirsi, che gli atei e gli evangelici si fossero dati ad una propaganda acattolica; e molto meno dovea tenervisi mano.

Infatti abbiamo veduto con vivo dispiacere, che si sia uscito dal campo della tolleranza religiosa per entrare in quello d’un’autorizzazione quasi officiale.

Chiese, ginnasi, scuole, giornali evangelici sono stati appoggiati dal governo, ed abbiamo ultimamente udito in pieno Parlamento il deputato Mancini accennare alla proposta d’una Chiesa nazionale, e si è provocato un principio di lotta religiosa nella nomina dei Parrochi a voto di un così detto popolo, chiedendosi un legale riconoscimento dal governo, che per buona fortuna lo ha negato per bocca dell’on. Ministro guardasigilli Comm. Vigliani.

La pubblica coscienza si è rivoltata a questo indegno principio di scisma religioso, che è indettato dalla nefasta politica del Gran Cancelliere dell’Impero germanico; ed è innegabile, che per quanto più si è concussa la religione in Italia, tanto più i popoli sono rimasti stretti e fedeli alla stessa, ed è cresciuta l’influenza del Clero.

Che se si fosse avuto il buon senso di non sconoscere il profondo ed indestruttibile sentimento religioso, che anima queste popolazioni; e da veri uomini politici, lo si fosse lasciato intatto e venerato per tutto ciò, che riguarda la parte spirituale; il governo avrebbe lucrato la stima del popolo e la considerazione del Clero.

Questa impolitica smania di persecuzione è stata il vero nemico interno del nuovo ordine di cose; e pure si richiedeva una sagace tolleranza, diciamola la brutta parola, in omaggio — se non altro — dello Statuto.

Il popolo amava le sue tradizionali Sacre Immagini, collocate da tempi antichissimi su le mura delle sue case: ed il Municipio napoletano, Sindaco l’or defunto Barone Nolli, sostenuto dall’autorità politica, volle essere iconoclasta e distruggere quei tradizionali testimoni della fede popolare. Proibite le processioni sacre, proibito il suono del campanello che avvisa il passaggio del SS. Viatico; il popolo si è inteso ferito nella parte più cara della sua vita religiosa, ed il clero ha guadagnato in popolarità contro la rivoluzione.

Io, sin dal 1865, raccolsi circa 24 mila firme, in modo legale, apposte ad una petizione, con la quale si dimandava che il Parlamento non decretasse l’abolizione delle Corporazioni religiose e dei Monasteri.

Di quella petizione non si volle tenere conto, ed io ne fui punito nel 1866, come narrerò a suo luogo!

E sia pure, che una sregolata finanza volesse rifarsi con il prezzo della vendita degli immensi beni appartenenti ai Monasteri ed alle Corporazioni religiose; sia pure, che per calcolato disegno fosse stato utile decretare la soppressione dei Monasteri; che cosa avrebbe dovuto fare il governo?

Decretare la soppressione parziale dei Monasteri;cioè lasciarne tanti, quanti poteano bastare a raccogliere i frati dei diversi Ordini; e dotarli convenientemente, cioè assegnando a ciascun Monastero ed a ciascun Ordine una rendita fissa per mantenimento dei frati, calcolandola sul numero dei frati viventi, come maximum; e per far fronte alle spese di culto.

Si sarebbe detto, che lo Stato non sopprimeva i Monasteri, ma ne riduceva il numero esuberante; che non guerreggiava la religione, poiché lasciava ai frati le Chiese e la libertà del culto; che non affamava e non ponea sul lastrico i frati, anzi dava loro tanto da vivere agiatamente e conservava loro il Monastero.

Questo assegno di rendita avrebbe dovuto essere fatto non a ciascun frate; sibbene a ciascun Ordine, il quale si sarebbe incaricato del mantenimento dei frati e delle Chiese da esso dipendenti.

Così comportandosi, il governo avrebbe ottenuto un plauso sincero dal popolo, ed avrebbe conseguito lo scopo dell’incameramento dei beni, che onestamente amministrati e venduti, e lealmente versato nelle Casse del Tesoro il prodotto delle vendite, avrebbero dato un poderoso soccorso alla finanza nazionale.

Invece si è proceduto col vessillo della distruzione.

La soppressione dei Conventi è stata generale, e questi locali, che si promettevano assegnare per abitazione dei poveri, sono passati, i migliori e più grandiosi, nelle mani dei più patriota!

I frati, messi sul lastrico, discacciati dalle romite loro celle, hanno dovuto mendicare sin dal primo giorno un asilo!

Il governo ha assegnata loro uno. pensione meschinissima — da 42 a 7 lire al mese, lorde di tassa di ricchezza mobile!

Quindi al frate senza tetto non date neppure quanto basti per sfamarsi di solo pane, e lo avete mandato elemosinando, e cercando la carità dei fedeli! Avete proibite le nuove professioni monastiche, sicché morendo gli attuali pensionati, avrete distrutti tutti gli Ordini religiosi; e questa è una guerra lenta, ma radicale al cattolicismo.

Le Chiese annesse a quei Monasteri sono divenute povere, ed al Culto religioso sovvengono i fedeli con le loro elemosine! Avete messe le mani sulle Biblioteche, sui quadri classici, sui gabinetti scientifici dei più rinomati Monasteri, avete incamerato anche gli arredi Sacri!

Qual diritto si aveva ad impossessarsi di questa roba, che è frutto del nobile risparmio e della scienza di quei frati, o di pietose largizioni e di legati pii?

È stata dunque un’opera di distruzione radicale in odio della Religione; distruzione che era quasi divenuta un programma italo-prussiano, dopo la presa di Roma, vagheggiato dal Ministero Sella, decisamente devoto a Bismarck; e fortunatamente ostacolato a tempo dal nuovo Ministero del Conte Minghetti.

E dirò il vero: Minghetti che appartiene a quel partito, che si oppose sempre all’invasione di Roma, ha dovuto subire le conseguenze delle leggi già votate sotto il Ministero Sella in quanto alla soppressione dei Monasteri e delle Corporazioni religiose, compresi i Generalati, contro la chiara intelligenza della legge sulle Guarentigie accordate all’esercizio della Sovranità spirituale della Santa Sede; sicché egli si trova oggi su di un terreno molto sdrucciolo, e si mantiene a stento nei rapporti con l’estero, come dirò di qui a poco. Ma non è men vero che il Gran Cancelliere germanico vegga di mal occhio la resistenza del presente gabinetto italiano alle sue violenti pretese per combattere la Chiesa ed il Vaticano.

Non intendo trattare di proposito il quesito, cioè qual frutto abbia ricavato il Tesoro dello Stato dal prezzo della vendita dei beni ecclesiastici incamerati al Demanio: quello che tutti sanno, e che hanno udito dalla bocca dei Deputati nel Parlamento, è che la finanza nazionale non ne abbia menomamente vantaggiato, e che una inchiesta leale ed energica non si oserebbe fare intorno a questo enigma, non so quanto lodevole.

Posso però conchiudere, che con la persecuzione religiosa consumata in Italia sulla religione, sugli enti ecclesiastici e sui loro beni, il solo ed unico lucro, che si è fatto, è quello di essersi profondamente violentata la pubblica coscienza, e di aver lasciato libero il campo a quella demoralizzazione, che ha invaso l’antico e severo sentimento del giusto e dell’onesto; producendo danni incalcolabili nell’osservanza dei propri doveri nelle pubbliche amministrazioni.

Io non so quello che il governo si proponga di fare per porre riparo a così grande calamità nazionale; né oso su di ciò manifestare le mie idee.

Certamente bisogna uscire da questo stato di demoralizzazione, se si vuole giungere alla stima degli onesti ed alla fede del popolo. La quistione religiosa, nel momento in cui scrivo, è di una eminente importanza politica e diplomatica; e Dio voglia, che gli uomini, che presiedono al governo, comprendano questo vero, e si attengano a risoluzioni, dalle quali forse può dipendere tutto l’avvenire d’Italia.


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§ IV.
ESERCITO E MARINA

Distinguo il valore personale del soldato italiano dall’organizzazione dell’esercito e della marina.

Le storie sono testimonianza solenne del coraggio italiano: le rovine di Gaeta, come i campi sanguinosi di Custoza e la terribile catastrofe di Lissa rammentano, che il soldato italiano sa morire, e muore valorosamente a difesa della bandiera, cui ha giurato la sua fede: ma ciò basta?

Ripeto cose che si odono, più specialmente dal 1870 in poi, di continuo nel Parlamento, e negli stessi giornali più devoti al governo.

Tra i tanti, cito il giornale moderato La Libertà che con maggiore accento censura l’organizzazione dell’esercito e della marina italiana.

L’esercito italiano, sui quadri, è considerevole; di fatto è debolissimo, e si ripete con insistenza — l’Italia non ha un esercito.

Quanto costa l’esercito al tesoro dello Stato?

Quanto la marina da guerra?

I resoconti del Bilancio parlano troppo eloquentemente, e rispondono, che il disavanzo annuale è reso più spaventevole dai bisogni crescenti dell’armamento.

Si sono spesi milioni, ma l’esercito non è ancora organizzato; e pure in questo anno si richiedono altri milioni in più degli anni decorsi.

Sella rispose — non posso darli: se si vogliono, mi si concedano nuove tasse! In quanto a marina di guerra, non cercherò nelle memorie amministrative della stessa: ricorderò le varie inchieste ordinate per venire in chiaro di un temuto sperpero del danaro destinato ad organizzare la flotta; e dimanderò se le dette inchieste sieno state espletate, o perché si sieno dimenticate.

In quanto al valore della flotta, ho per me il giudizio autorevole ed officiale del presente Ministro Saint Bon, che ha in pochi detti ristretto un volume di grandi fatti —  bruciatela per due terzi!

Hanno avuto un bel gridare a che Saint Bon fosse esorbitante; ma egli ha dimostrato, e come esperto marino e come uomo profondo nelle cognizioni nautiche, che la nostra flotta costa milioni e milioni: ma non potrebbe resistere, come non ha resistito, alla flotta austriaca (lo che è tutto dire!) a causa della sua pessima costruzione.

Le sole spese di perduta ed inutile riparazione annuale, unite al prezzo che si potrà ricavare dalla vendita delle navi, che sono ritenute per inservibili, possono quasi far fronte all’acquisto ed alla costruzione di nuove navi da guerra sui sistemi attuali.

Se fra sei mesi, fra un anno, l’Italia si trovasse nel pericolo d’una guerra, essa, da sé sola, non potrebbe sostenerla con probabilità di vittoria; e questa risposta l’ha data il Ministro della Guerra Ricotti in pieno Parlamento ad un Deputato, che gli dimandava, se in caso di guerra l’Italia avrebbe potuto, con le sue forze attuali, ripromettersi della vittoria.

Che se nel 1860, anzi che disperdere come polvere al vento l’esercito napoletano, per accrescere il bilancio passivo dello Stato col peso enorme di centinaia e migliaia di pensioni; se invece di essere egoisti ed ingiusti con gli stessi uffiziali capitolati di Gaeta, si fossero accolti nell’esercito nazionale tutti gli elementi provati e stimati degli eserciti disciolti; l’organizzazione d’un esercito italiano si sarebbe fatta su larghe basi e con risparmio immenso della finanza.

Non si opponga, che si è temuto d’accogliere nell’esercito italiano gli uffiziali che combatterono a Gaeta.

La risposta è breve, e credo, sicura.

Francesco II non ha mai proibito ai capitolati di Gaeta di prendere servizio nell’armata italiana: egli ha giustamente censurati gli uffiziali, che senza battersi per la bandiera nazionale, anzi disertandola, passarono nelle file nemiche.

Ora, il governo italiano, che ha aperte le braccia ai disertori, ha respinto quei bravi che han fatto il loro dovere; e ciò solo dovea bastare per dimostrazione di ciò, che una volta scomparsa con la Dinastia e col Reame delle due Sicilie l’antica bandiera, giurando fedeltà alla bandiera nazionale, quei prodi sarebbero rimasti fedeli al dato giuramento.

Il governo ha dato uno spettacolo poco edificante verso i capitolati di Gaeta; e quantunque chiamato ai suoi impegni più volte in Parlamento dai Deputati napoletani; pure non ha saputo ancora ritornare sulle censurate sue risoluzioni.

Certo è, che dopo 14 anni si veggono languire — e moltissimi nella più dura miseria — quei bravi uffiziali, che avrebbero portato all’esercito italiano il contingente del loro onore, del loro coraggio e della loro esperienza.

Ho voluto richiamare questa memoria tutta napoletana per essere esatto, quanto più è possibile, nel passare in rivista tutti gli eventi che riflettono i diritti e gli interessi napoletani.

Limitandomi ad indicare le non liete condizioni dell'esercito e della marina militare, non fo che stabilire un fatto di cui il paese è giudice; ma sul quale debbono intendere governo e Parlamento.

§ V. FINANZE

Non oserò entrare a gonfie vele in questo oceano, ove da 14 anni naviga in continue burrasche la nave dello Stato; e mi limiterò a ricordare la mia costante opposizione ai sistemi finanziari mantenuti con deplorevole perseveranza, ad onta della mala prova da essi fatta costantemente.

Nella quale opposizione io ho creduto mio dovere spesse volte esporre i rimedi, che nella povertà del mio ingegno mi parvero utilissimi a rinsanguare le finanze nazionali; e poiché scrivo nel momento in cui il Ministro delle Finanze Conte Minghetti propone alla discussione del Parlamento la legge sui provvedimenti finanziari, non mi si niegherà il diritto di ricordare quelle mie polemiche, che oggi trovano un eco lusinghiero nelle nuove disposizioni del Ministro intorno al progetto discusso ed approvato della circolazione cartacea.

Certa cosa è, che unificandosi l’Italia, il primo risultato, dal lato finanziario, dovea essere quello d’un tesoro, che rappresentasse da se solo l’attivo di sette Stati, che prima del 1860 aveano un tesoro ognuno: e tra questi sette Stati indubitamente il più ricco, il più rigurgitante d’oro e di credito, era quello delle due Sicilie: il più povero quello del Regno Sardo.

Ciascuno di questi Stati avea le sue distinte rappresentanze diplomatiche all’estero, le Corti Regie e Principesche, e le liste Civili, e tanti Ministeri distinti, e tanti centri di grandi amministrazioni nazionali; sicché è un calcolo facilissimo e spontaneo quello, cioè che fusi in un solo i bilanci degli Stati annessi, l'annullamento delle forti spese, relative a tutti i su enunciati articoli di esito, dovea presentare una cifra così ragguardevole di economie, da offrire immediatamente ad un coscienzioso Ministro delle finanze un largo margine di introito superante l’esito.

Né affermo ciò senza fondamento di verità, perché, toltone il Piemonte, che era già indebitato spaventosamente, gli altri Stati presentavano un bilancio dei più prosperi.

Comprendo, che per condurre a compimento l’epopea del 1860 Cavour avesse avuto bisogno di moltissimi milioni; e che gli conveniva di chiuder gli occhi sulle amministrazioni provvisorie dei tesori degli Stati annessi; come comprendo ancora che bisognava rifarsi del danaro largamente speso nel dodicennio; ma per quanto si voglia largheggiare e concedere a fronte dei primi mesi del 1860, altrettanto è inconcepibile, che per gli anni seguenti non si sia saputo inaugurare un sistema di così matematica precisione, da gittare le basi più vitali del nuovo regno nella prosperità e ricchezza delle fortune pubbliche e private.

E questo dovea essere altissimo e primo intento dei nuovi reggitori; avvegnacché essi entrassero in reami ricchi e fiorenti per commercio, per industrie e per manifatture; e però doveano intendere a che questa felicità nazionale non minorasse, producendo quella triste disillusione, che è primo passo al malcontento ed alla sfiducia nel nuovo ordine di cose.

Né si può negare, che a rendere le plebi corrive alla rivoluzione, fu loro promessa una portentosa felicità di vivere; e non si dovea dimenticare, che si può mancare agli impegni assunti in politica; ma che sia gravissimo fallo mancare a quelli assunti col popolo in fatto di vivere a buon mercato.

Alle finanze italiane si direbbe dato il sacco; e percorrendo le relazioni di tutti i Ministri, dal 1861 sino ad oggi, ascoltammo officialmente e perennemente le parole di crescenti disavanzi e di apprensioni di bancarotta.

Sono autentiche ed officiali le confessioni dei nostri Ministri di finanza; del Sella più specialmente, che ha detto col suo solito cinismo; — si sono commessi errori nell’amministrare le finanze dello Stato.

E un sistema serio e provvidenziale, che manca tuttora; ed è pur troppo fatale, che non lo si voglia costituire con altro più semplice, più preciso, più coscienzioso, più radicale.

Non è mio proposito il tessere qui la storia miserrima delle finanze italiane; lunghi e perseveranti studi sono stati compiuti da moltissimi ed illustri Statisti d’Italia, tra i quali annovero con leale distinzione l’on. nostro concittadino Barone Giacomo Savarese: e non tacerò che, se i prussofili del 1869 non avessero costretto a ritirarsi il Ministero Menabrea con quella vergognosa farsa del deputato Lobbia, il Ministro delle finanze Conte Cambray-Digny avrebbe menato a compimento con successo il suo piano finanziario, che l’opposizione prussofila non volle neppure discutere..

Io che ho scelto a precipuo e costante tema delle mie polemiche la quistione finanziaria; trovo indispensabile farne un cenno rapido, e quanto basti a stabilire le condizioni finanziarie attuali, meno in relazione di quelle precedenti al 1860, quanto per un giudizio a miglior indirizzo nell’avvenire.

Parlando delle nostre felici finanze sotto il Regno dei Borboni, abbiamo veduto, che eravamo gravati appena da cinque balzelli, che in loro stessi erano tenui e modesti: la finanza prosperava a meraviglia e le fortune private ingigantivano prodigiosamente.

Ora è un fatto, che dal 1860 in poi, a quelle antiche tasse sieno state aggiunte le nuove, che raggiungono il numero di trentadue.

La legge del registro ha tassato tutti gli atti della vita: la compra, la vendita, la permuta, la donazione, l'enfiteusi, il mutuo, la locazione delle cose e dell’opera: l’uso, l'usufrutto, la quietanza, il mandato, le successioni, i piati giudiziari.

La legge sul bollo minaccia di prendere proporzioni più vaste anche oggi; sì da far temere, che a non essere costretti ad erogare forti somme in carta bollata, si debba tornare ai beati tempi dei contratti fiduciari sulle tessere a riscontro!

La inqualificabile e dispotica tassa di ricchezza mobile ha fulminato le rendite, i frutti civili, i profitti, i salari.

Abbiamo la tassa sul consumo, sulle vetture, sui domestici, sugli animali, sui dispacci telegrafici, sulle tariffe postali, sulle ferrovie.

La rendita netta della terra, il profitto dell’industria, il salario dell’operaio, tutto è tassato.

Ognuno direbbe, che la pubblica finanza dovesse essere da così sterminati introiti portata al culmine non necessario di sua prosperità: ed è un falso supposto! Ad ogni anno, lo Stato si è trovato a fronte d’un disavanzo ingiustificato! Si è mai pensato a porvi un riparo, cangiando e migliorando i sistemi finanziari?

Tutt’altro! — i sistemi fatali si sono con una religiosa scrupolosità conservati; e si sono accresciute le tasse, ritassandole e portandole ad un punto, in cui il contribuente è nell’impossibilità di pagarle!

Ed è impossibilità materiale, positiva, matematica: dipendente dal fatto enorme di veder assorbita la rendita nella proporzione del 52 per cento: e quando le rendite mancano, sia per cattivo ricolto, sia per mancate locazioni, sia per rovina di fondi urbani; il proprietario, costretto a pagare la tassa fondiaria enorme, deve ricorrere naturalmente al mezzo di contrarre un debito, che lo pone sotto la tortura di due altri esiti; quello di ricchezza mobile, che ricade sempre a peso del debitore, e quello degli interessi del debito.

Sicché questi deplorabili fatti verificandosi ogni giorno, spiegano perché ora i proprietarii pongano in vendita i loro immobili, che sono divenuti fonte fatale di rovina, anzi che di rendita; e, posti in vendita a prezzi minimi, cadono nelle mani di speculatori.

Così la proprietà fondiaria è grandemente scaduta fra noi.

E questa tassa di ricchezza mobile, schiacciando tutte le nostre industrie e manifatture, esposte ai colpi fatali d’una concorrenza estera, ha prodotto il danno della quasi completa distruzione delle stesse, come di qui a poco ripeterò più specialmente.

Or quando un governo si propone di far fronte ai così detti bisogni del tesoro, imponendo irragionevolmente e disperatamente tasse e balzelli, che annientano le proprietà fondiarie e rodono i lucri di ogni altro cespite fruttifero, sino a rendere insufficiente, per i più stretti bisogni della vita del contribuente, quel poco che gli avanza, dopo aver pagate le tasse impostegli; sono ineluttabile conseguenza la miseria del contribuente, la materiale impossibilità di pagare, e le mancate previsioni del Fisco, che assume un sistema di comunismo fiscale!

E di fatti, lo stesso Sella, questo famoso amico dei contribuenti, nel suo cinismo si è definito per il tyran liquidatore delle sostanze private: imperocché, a prescindere dall’enormità della tassa di ricchezza mobile, lo stesso governo ha confessato, che essa sia divenuta più insopportabile, a causa dell’enormità dei erti erti, su cui è fondata.

L’Intendente di finanza, ricorrendo a calcoli turchi, ha assegnato ai redditi professionali, di arti e mestieri, di commercio e d’industrie, tale un assurda cifra, per quanto che i contribuenti, così tassati e tartassati, hanno dovuto dimostrare, e Dio sa con quanti stenti, che spesso essi lucrano quello che per sola imposta Viene loro dimandato!

Arrogi, che per l’esazione delle tasse, il governo si è creato un diritto, mercé cui può illico porre in vendita lo stabile ed il mobile del contribuente, per pagarsi della tassa.

Sono avvenuti in Napoli molti casi ingegnosissimi di proprietari, che hanno coperte di ipoteche, per debiti contratti, i loro fondi, non potendoli vendere per mancanza di compratori: e non volendo i debitori espropriarlo, per non sopportare le enormissime spese di bollo e di registro, hanno veduto con gioia il Fisco dimandare la tassa, e procedere all’immediata espropriazione e vendita del fondo!

Il proprietario nulla ha perduto, ed è stato per tal modo prontamente liberato... dal peso della proprietà, che era la sua fortuna!

Le tasse di bollo e di registro, portate ad una cifra spaventevole, anzi che favorire il tesoro, lo hanno depauperato; imperocché quando questa tassa era moderata, tutti gli affari erano espletati innanzi notaio, ed il Foro giudiziario rigurgitava di liti.

L’enormità delle tasse di bollo e di registrò ha fatto sì, che i litiganti, calcolando la spesa del giudizio ed i lucri stessi della vittoria, hanno trovato questi inferiori a quelle; e tuttodì si veggono le liti più annose composte bonariamente.

E chi ne scapita, è il Fisco da una parte, e la classe degli avvocati e dei procuratori dell’altra; perché gli affari mancano, e quindi i lucri scarseggiano.

Ad evitare le tasse di bollo e di registro imposte nelle contrattazioni pubbliche, i contraenti ricorrono a stipulazioni private, e di qui la deficienza di introiti pel Fisco e per i Notai.

Il governo ha creduto riparare a questo danno, ordinando sotto pena di nullità degli atti, la loro registrazione tra tre mesi dal giorno della loro data: ma si è avveduto, che il rimedio non è stato salutare, ed oggi è in discussione una proposta del Ministro Minghetti, che chiede l’immediata registrazione di qualsiasi convenzione, sotto pena di nullità.

Speriamo che la proposta non sia ammessa; imperocché se per la precedente disposizione i contratti possono essere stipulati di tre in tré mesi, e ciò serve grandemente alla speditezza delle contrattazioni commerciali, che hanno, bisogno soltanto della buona fede e non dell’autenticità del bollo e del registro; ammessa per ipotesi la proposta Minghetti, si andrebbe incontro a mali più terribili ancora.

Il commercio sarebbe colpito da improvvisa paralisi, e le contrattazioni o avrebbero luogo tra individui di provata fede ed onestà reciproca in forma privata; o sottoposte alla dura legge, sarebbe impossibile dare agli affari la necessaria speditezza, perché bisognerebbe conchiuderli nell’officina del bollo e del registro.

Togliete agli affari correnti ed inevitabili la libertà imprescindibile di convenzioni pronte ed istantanee, ed avrete ineluttabilmente tutti i danni di quell’apatia, che è rovina del commercio e delle usuali contrattazioni sui mercati e da piazza a piazza.

Non farò che accennare alla tassa sul macinato, la cui storia non intendo ricordare, appunto perché è molto dolorosa; ma dirò, che lo stesso governo, costretto a ricorrere a mezzi vessatori per esigerla, e volendo evitare le frodi dei mugnai, ha fatto inventare il famoso contatore, istrumento meccanico, che segna i giri della mola per calcolare su di essi la tassa; ma non ha raggiunto il suo scopo previsto come introito; mentre dopo questa tassa il prezzo del pane, della farina, e delle paste è spaventevolmente cresciuto.

Le popolazioni ne soffrono, il governo introita meno del previsto, e la tassa giova a chi la froda!

Il governo si è impossessato di parte del dazio consumo e dei centesimi addizionali, che i Municipi e le Province aveano imposto alle proprietà fondiarie per i bisogni locali del Comune; e di conseguenza i Consigli municipali e provinciali hanno dovuto far fronte al vuoto delle loro casse con aumentare i centesimi addizionali ed i dazi per generi di consumo!

E storia tremenda, che i Municipi dell’Italia meridionale (salvo i pochi buoni) tenuti da amministratori educati alla scuola dei sistemi governativi, hanno talmente indebitate le casse municipali, per quanto che ad evitare il fallimento, ricorrono al solito immorale espediente di accrescere le tasse esistenti e d’inventarne delle nuove, dopo aver sfruttato il rimedio dei prestiti!

Il dazio consumo, in Napoli, ha assunto proporzioni così gravi, che i generi di prima necessità sono giunti a prezzi altissimi, che ne hanno quasi triplicato il valore.

Di qui la miseria, dirò anche la fame nelle infime classi, le più sagrificate all’improbità del caro dei viveri; torturate da un monopolio di scellerati speculatori, contro di cui l’autorità municipale e la politica non ancora si risolvono a prendere serie e pronte provvidenze: di qui la prostituzione, che è compagna inseparabile della miseria!

Napoli, da qualche anno a questa parte, conta spaventevoli fatti di suicidi per fame; giudicando gli onesti padri di famiglia essere la morte preferibile allo strazio delle affamate loro creature, o alla infame misericordia del disonore!

La miseria sino alla fame in Napoli dovea sembrare un assurdo, ed è pure un fatto.

Sin dal 1868 l’illustre Commendatore Diomede Marvasi, Procuratore Generale del Re presso la nostra Corte di Appello, nel suo discorso inaugurale di quell’anno giudiziario, parlò della miseria, che invade le nostre classi operaie; miseria oggi giunta alla fame; e scrisse queste memorabili parole:

«Questo anno sono stati denunciati 2137 reati di mendicanti: ci saranno molti infingardi, ci sarà qualche uomo perverso, ma i più sono poveri con lunghe famiglie, senza lavoro. Un pretore urbano, tutto commosso, mi diceva, or fa pochi giorni — Mi chiedete se sono davvero pomeri. Oh! quanti di essi si raccomandano e pregano, perché io dessi loro una più lunga prigionia, per ASSICURARSI il PANE del CARCERE per qualche giorno di più — Signori! il CARCERE per il PANE! Non sono perversi costoro; sono uomini abbattuti, avviliti, degradati da lunga ed intollerabile miseria!»

E quel degno e veramente onesto ed intelligente magistrato replicò:

«Non facciamo recriminazioni: non accusiamo solo le povere plebi accusiamoci un po tutti, e pensiamo a tutti i rimedi.»

Siamo al 1874, la miseria, la fame, la corruzione, la prostituzione invadono le nostre povere plebi: ma i rimedi invocati dai più imponenti cittadini non giungono ancora: e questi rimedi sono pane e lavoro all’operaio.

A far fronte ai crescenti e sterminati bisogni del bilancio, il governo italiano prese un altro espediente, che camminò pari passo con la tassofobia; e fu quello dei prestiti!

A qual ragione questi prestiti fossero stati convenuti, tacerò per decoro nazionale: mi basta ricordare le tempestose sedute parlamentari destate da queste proposte finanziarie, che doveano nel caos d’un amministrazione irresponsabile e turbinosa portare il debito pubblico di tutta Italia, qual’era nel 1860, da 2 miliardi e 900 milioni di lire, a nove miliardi circa, quanti se ne deplorano adesso!

Nel passivo del nostro bilancio si segna quasi un milione d’interessi al giorno su questi prestiti; il quale tra capitali ed interessi all’estero si deve pagare in oro!

Con la stampa, con le interpellanze alla Camera spesso si è dimandato — dove e come si sono spesi tanti e tanti milioni, che tengono compagnia alle innumeri e gravissime tasse fiscali  — : ma sono oramai quattordici anni, da che vive il regno d’Italia, ed i Ministri si sono continuamente limitati a compiangere le decadute finanze del paese, a far temere lo spettro della bancarotta, a constatare il costante disavanzo, a chiedere nuove tasse, nuovi sagrifizi, promettendo a calcolo fatto, in un determinato numero di anni, il così detto pareggio.

Sino al 1866 furono divorati i prestiti, furono esatti i fastidiosi balzelli, ed il vuoto rimaneva costante; il pareggio fuggiva sempre dalle previsioni e dagli impegni di tutti i Ministri; i quali vedeano scomparire il frutto delle vendite dei beni ecclesiastici senza beneficio della finanza; ed alienarono i beni demaniali; ed alienarono le ferrovie dello stato; diedero a Regia il cespite ricchissimo dei tabacchi: ma il disavanzo è restato sempre vivente e minaccioso..

Il governo non ha più che vendere; l’imposizione di nuove tasse è impossibile, perché manca il cespite a tassare; accrescere le tasse esistenti è assurdo, perché più volte aumentate; contrarre nuovi prestiti è un delirio, perché il nostro credito è terribilmente scosso all’estero, tra per le condizioni miserrime della finanza, tra per l’imposta di ricchezza mobile, che si è estesa anche alla rendita del debito pubblico consolidato, ad onta dell’espressa esenzione fatta in una legge precedente!

Eppure nel 1866, per le vicende della guerra, diventava quasi una quistione di vita per l’Italia un mezzo finanziario riparatore del pericolo, momentaneamente, perché il rimedio era certissimamente peggiore del male; ma si sperava di evitarne le conseguenze mediante una migliore amministrazione.

Ed eccoci al doloroso tema del Corso forzoso della Carta moneta della Banca Nazionale!

Oggi, che la legge sulla circolazione cartacea, proposta dal Ministro Minghetti, è stata votata: oggi che siamo in aspettativa dei promessi provvedimenti finanziari, per giungere all’estinzione del detto corso forzoso, mi si permetta una breve sintesi su detto tema, intorno al quale io, massime dal 1867 in poi, ho lungamente scritto; prevedendo quelle dispiacevoli conseguenze, che ora si deplorano.

La sventura del corso forzoso della carta moneta della Banca Nazionale la riconosciamo dal Senatore Comm. Scialoja, che nel 1866 era Ministro per le finanze.

Prima di quest’epoca, la circolazione metallica in Italia era di circa 500 milioni di Ducati, pari a due miliardi e 250 milioni di lire.

Il corso forzoso determinò necessariamente l’esportazione della moneta metallica all’estero, ove la nostra carta non ha valore.

A misura, che la moneta è scomparsa dalle nostre piazze, è cominciato a manifestarsi il nefasto spettro dell'aggio.

A questo danno, che ha portato le nostre finanze sull’orlo della bancarotta, si aggiunge quello anche più fatale del trattato di commercio stipulato con la Francia, che si ripagò su di noi delle grandi concessioni fatte col trattato commerciale stipulato con l’Inghilterra.

E di ciò andiamo debitori eziandio al prelodato Senatore Scialoja.

Naturalmente il commercio estero nei bilanci annuali tra le Case ha voluto essere saldato in moneta; e quando l’aggio si affacciò nelle nostre piazze, i saldi furono richiesti con maggior rigore.

Le riduzioni sulle tariffe doganali, istantanee e violenti, iniziarono la catastrofe delle manifatture indigene, come panni, pannini, tele, drappi ec. ec.; e questi generi cominciarono ad essere dimandati all’estero; accrescendosene l’importazione. Sicché aumentò di conseguenza l’esportazione del contante, e quando le Dogane hanno preteso il pagamento del Dazio in oro, la piazza si è dovuta sempre più impoverire di contante.

Ciò ha portato il caro nei generi stessi, al cui prezzo il negoziante ha dovuto aggiungere la differenza in più per ammontare dell’aggio pel dazio e pel prezzo della merce.

Le strade ferrate divennero un sifone esse pure della moneta contante: sino al 1866 si esigeva in effettivo, e quando questo cominciò a mancare del tutto, si dové ricevere la carta del corso forzoso!

Lascio da parte la brutta storia delle strade ferrate d’Italia, perché lo stesso Parlamento nazionale l’ha condannata; ma dirò, che gli uomini delle strade ferrate fan parte della Banca nazionale; le cui speculazioni diventarono gigantesche a danno delle fortune private, non appena la sua carta ebbe il battesimo del corso forzoso.

Tra le altre speculazioni bancarie, abbiamo avuta quella di comprarsi la rendita italiana a Parigi per rivenderla in Italia, perché l’aggio sulla carta non era ancora proporzionato al ribasso che la rendita soffriva a Parigi. A conto fatto, dedotto l’aggio, rimaneva nella rivendita un profitto del 10 per 100.

Ora che l’aggio è salito all’enorme proporzione del 16 per 100, non vi è ragione di seguitare in questa speculazione; anche perché la tassa di ricchezza mobile colpisce la rendita italiana all’estero, come in Italia; resta solo che la nostra rendita è in ribasso ed in discredito all’estero.

Il governo, che ha creduto trovare nella carta della Banca una provvidenziale risorsa, ha portato miseria e rovina a se stesso, al credito nazionale, alle industrie, alle manifatture, allo stesso lavoro.

Concretate tutta la storia sinora fatta, e troverete, che gli economisti d’Italia, venuti al potere, hanno inaugurato un sistema finanziario di espedienti, l’uno più disastroso dell’altro, nella parte attiva del bilancio; mentre in quella passiva si verifica l’enormità crescente dello spendere più di quello che si possiede, senza darne esatto conto!

L’incredibile è, che il governo, per pagare in oro la rendita del suo consolidato all’estero, e non trovandolo nelle sue casse, o lo acquista in piazza, o lo calcola con la differenza in carta; e questa cancrena dell’aggio, mentre svaluta il credito, allarga il baratro del disavanzo.

L’estinzione del corso forzoso è divenuta una necessità di vita per l’Italia, e sin dal 1868 i più rinomati statisti italiani si sono dati allo studio di questo problema, che ha interessato ed occupa tuttora le discussioni parlamentari.

Nel 1868 la Camera dispose che una Commissione parlamentare avesse interrogato la pubblica opinione sui mezzi adatti ad estinguere il corso forzoso, e furono all’uopo formulati 26 quesiti, che si rimisero ai più competenti giudici in scienze economiche.

Io ebbi l’onore di ricevere i detti quesiti, e la mia risposta fu gentilmente pubblicata nel terzo volume dell’inchiesta parlamentare.

Allora, come oggi, si dimandava — Qual è la vostra opinione sull’opportunità e possibilità di far cessare il corso forzoso: e quali mezzi suggerireste?

Come credete, che lo Stato possa estinguere o restituire alla Banca il quantitativo dei biglietti da essa avuti?

Accenno di volo a ciò che risposi a questi due quesiti, perché oggi il progetto Minghetti, il primo, ha proposta la carta governativa, che io accennai in quelle mie risposte.

Il mezzo più sicuro ed efficace è la liquidazione, dissi allora, e ripeto oggi.

Si trovano in circolazione tanto i biglietti originari della Banca, garantiti dalla riserva metallica; quanto quelli di nuova emissione, che non hanno questa garentia.

Il governo ha l’obbligo di ritirare i soli biglietti emessi per suo uso ed intanto si trova di aver dato corso forzoso di moneta a tutti i biglietti della Banca; errore, forse colpa, che dovea condurre alle presenti condizioni miserrime della fortuna privata, delle vicende commerciali ed industriali, e del discredito del tesoro per il nefasto aumento dell’aggio sull’oro. Io avvisai, che la liquidazione a farsi dal governo avrebbe dovuto essere tassativa per i biglietti ricevuti dalla Banca; cioè per la loro somma. E scrissi così:

«Per questa somma il governo dovrebbe apporre un segno particolare sui biglietti della Banca, per distinguerli da quelli che costituiscono il capitale proprio della Banca medesima; e così lasciarli in circolazione per poi ritirarli annualmente, a misura dei fondi di cui potrebbe disporre.  Questo ritiro potrebbe essere affrettato, prendendo quei biglietti come prezzo dei beni nazionali, con premi e con condizioni, che li facessero più ricercati sulla piazza».

«Così il debito del governo verso la Banca si estinguerebbe subito e bene».

Era la creazione del biglietto governativo che io proposi, e che oggi ho la ventura di trovare proposto dal Ministro Minghetti ed accettato dal Parlamento.

In quanto al modo di estinguere o restituire alla Banca il quantitativo dei biglietti da esso avuti; risposi così:

«Qui la nostra risposta è breve, ma perentoria: e sfidiamo la Commissione a trovare in fallo le nostre parole, se essa stessa nel proporre tale quesito non ha avuto altro termine per indicare il VALORE DATO allo Stato con quei biglietti, che quello di QUANTITATIVO».

«Smettiamo, da uomini veramente onesti e leali, le reticenze, se vogliamo salvare la nazione».

«Lo Stato NULLA DEVE RESTITUIRE alla Banca.

«La Banca Nazionale non ha dato allo Stato, che una certa QUANTITÀ di CARTA STAMPATA.

«Il valore di questa carta è venuto dalla dichiarazione governativa, che NE HA FATTO MONETA.

«Adunque lo Stato DEVE DISTRUGGERE il valore dei milioni rappresentati dai biglietti.

«A questo modo HA PAGATO OGNI SUO DEBITO: debito che NON HA verso la Banca, ma LO HA VERSO I CITTADINI.

«Attribuire un soldo di credito alla Banca a riscontro di questi biglietti, sarebbe quanto farle dono dei danari dei cittadini; dopo che noi abbiamo pagato alla Banca —  pel solo servigio di averci prestata quella carta stampata — INTERESSI rilevanti, che in questi anni sono sommati a più milioni!!!»

Ed oggi che la proposta Minghetti per il Consorzio delle Banche, alle quali dispensa un miliardo di carta moneta governativa, è un primo passo per la soppressione del corso forzoso della carta della Banca nazionale; non sapremmo consigliare altro mezzo.

Siamo certi, che il governo nell’emettere questa nuova carta, ritirerà dalla Banca il quantitativo dei biglietti, che rappresentano l’effimero credito della stessa, e li BRUCERÀ immediatamente, come titoli senza valore, sostituiti dai nuovi biglietti governativi, i soli che avranno corso forzoso.

Sicché migliorando le condizioni economiche dello Stato, il corso forzoso della nuova carta moneta potrebbe distruggersi a misura, che la carta fosse ritirata.

Allora, riversandosi sulle piazze il contante, l'aggio scomparirebbe gradatamente, ed il biglietto governativo acquisterebbe un valore alla pari, di cui il commercio estero potrebbe tener conto.

Sono tuttora in discussione i rimedi finanziari per sovvenire al disavanzo che si deplora annualmente nei bilanci dello Stato; ed è universalmente riconosciuto, che è li sino a quando nel Bilancio non si raggiunga il pareggio, né il credito pubblico italiano sarà rialzato; né sarà possibile togliere il corso forzoso e gli svantaggi dell’aggio.

Dalle relazioni che vengono dalla Camera, pare che si voglia ricorrere al solito mezzo di nuove imposte e di accrescimento di già aumentate imposte!

Questi mezzi, più volte sperimentati, sono tornati inutili ed esiziali alla fortuna pubblica e privata.

Lo ripeterò: in Italia, sommando tutti i balzelli e le tasse governative, provinciali e comunali, abbiamo che il contribuente è tenuto a pagare sino al 53 per cento sulle sue rendite e sovra i suoi lucri per ogni ragione: ma se una dolorosa esperienza ha dimostrato, ohe riesca impossibile materialmente il corrispondere questi balzelli, non so come si voglia con nuovi pesi rendere più sentita una impossibilità tanto evidente.

Gli introiti dello Stato rimarranno, come sempre, una previsione smentita dal fatto.

A mio debole avviso, il governo dovrebbe trovare le fonti della ricchezza dello Stato nella prosperità dell’agricoltura, delle industrie, delle manifatture, del Commercio italiano; che sono state, dirò quasi, distrutte dall'abbandono governativo, dall’enormità dei balzelli e dalla fatalità dei trattati di commercio con la Francia e con l’Inghilterra.

Io non intendo dichiararmi nemico del libero scambio ed apostolo dei principi protezionisti in fatto di commercio; ma credo di non dir male affermando, che il libero scambio può essere senza timore di perdite affrontato dalle nazioni, che sono già solidamente costituite sotto il rapporto finanziario e manifatturiero, da non temere una concorrenza estera.

Che cosa è avvenuto in Italia con l’inaugurazione del libero scambio?

Sino al 1860 noi eravamo sotto l’egida d’un sistema protezionista, e vedevamo fiorire l’agricoltura, prosperare le industrie, ingigantire le manifatture, arricchire il commercio.

Dopo il 1860, mercé il libero scambio, la carta moneta e la crittogama di enormi balzelli, la concorrenza fattaci dall’estero è stata così spaventevole, per quanto che l’agricoltura è negletta; le industrie quasi distrutte dalla tassa di ricchezza mobile; le manifatture spente gradatamente dalle tasse e dalla concorrenza estera; il commercio condannato al fallimento.

Quel poco che producono i terreni e le industrie armentizie nazionali, è immediatamente assorbito dall’estero. Così si esportano le materie prime, che abbondano nei nostri territori, e che tornano nel Regno manifatturate nelle officine estere, alle quali i nostri opifici manifatturieri non possono fare concorrenza.

L’importazione dei generi manifatturati è tanta, il loro valore è così minimo, ed il dazio d’importazione tanto leggiero; per quanto che la concorrenza alle fabbriche estere è divenuta impossibile.

Così decadute le nostre manifatture, l’esportazione delle materie prime diventa una necessità assoluta, e non potendo il proprietario delle stesse adibirle nelle manifatture nazionali, non può tenerle inutilizzate o vederle deperire.

Noi abbiamo la ricchezza della lana, del cotone, del lino, della seta; abbiamo miniere di ferro, di carbon fossile; abbiamo boschi, che offrono ogni specie di legname.

Ebbene, ho voluto, parlando del governo di Ferdinando II, far rilevare la ricchezza nazionale, così pubblica che privata, e la parvità dei balzelli fiscali, a fronte del gran progresso cui erano giunte l’agricoltura, le industrie, le manifatture, il commercio nazionale.

Oggi tutta questa ricchezza è quasi perduta: l’Italia si direbbe tributaria degli speculatori, dei fabbricanti, dei Banchieri esteri.

In conseguenza l’offerta al lavoro non trovando il riscontro della dimanda, avviene che la miseria si sia spaventevolmente dilatata nelle masse degli agricoltori e degli operai, che necessariamente, spinti dalla fame, vanno a cercare pane e lavoro in remote contrade!

Di qui la piaga cancrenosa di quell’emigrazione delle nostre masse operaie e proletarie: di qui i famosi studi per curarla, dopo che è divenuta una iniqua tratta dei bianchi a prò di speculatori e di arruolatori scellerati, per cui il codice penale dovrebbe avere un articolo ed una pena speciale.

Ed il governo non può ignorare, che l’inesauribile ed unica ricchezza dell’Italia meridionale sta appunto nei prodotti agricoli armentizi ed industriali; e che sia un delitto di lesa ricchezza nazionale il distruggerli e l’abbandonarli alla speculazione straniera.

In Inghilterra, per esempio, si pagano grossi balzelli, è vero; ma quali lucri enormi non ricavano quei grandi speculatori e fabbricanti?

E forse l’Inghilterra è altra cosa, che un paese unicamente manifatturiero?

Io so, che i nostri lavoratori di campagna una volta non emigravano, e quasi sempre non uscivano dal paese in cui nascevano, e quello era tutto il loro mondo, la loro culla e la loro tomba.

Le nostre industrie armentizie erano giunte a rivaleggiare con quelle stesse tunisine nel commercio delle lane.

Non avevamo gran bisogno dei cotoni americani, del lino olandese, della seta giapponese; perché avevamo queste industrie portate a gran perfezionamento: anzi mandavamo le nostre sete sino in America.

Queste materie prime erano lavorate nelle nostre fabbriche nazionali: ed era una ricchezza di telerie, di tessuti in cotone, in sete, in drappi, in panni.

Simili generi di manifattura estera servivano per gli abituati al gran lusso, e perciò erano importati in minima proporzione e con forte dazio.

Oggi tutto ciò è distrutto.

Perché il governo, che vede estinte questi sorgenti perenni ed inesauribili della ricchezza nazionale, non ricorre al pronto rimedio, e non ripara al mal fatto?

Non intendo esporre qui un progetto finanziario, ma dimostrando quanto sia sbagliato l’indirizzo finanziario adottato dal governo per 14 anni, e quanto sia fatale persistere in esso, ardisco richiamare la sua attenzione sui veri mezzi riparatori e rigeneratori della ricchezza nazionale.

Io sarei d’avviso, che il governo dichiarandosi protettore di ogni iniziativa privata in fatto di agricoltura, d’industria, di manifatture e di navigazione, provocasse un Consorzio nazionale di Municipi, di ricchi proprietari e di banchieri, i quali costituissero un Comitato agricolo, industriale e manifatturiero in ciascun centro regionale; e ciò nello scopo di rialzare l’agricoltura, specialmente per la piantagione del cotone, del lino, della canape e della rubbia: di portare su vasta scala le nostre industrie armentizie per le lane, e quella bacologica; impiantare vasti opifici manifatturieri diretti da uomini intelligenti.

Bisogna che il governo, anzi che mandare a fascio le vaste tenute di terreni demaniali, li destinasse a questi progressi dell’industria e dell’agricoltura, incoraggiando i promotori dei Consorzi nazionali.

Bisogna che il governo, anzi che percorrere, come l’Ebreo errante, le Città e le campagne d’Italia col volto famelico dell’usciere e dell’esattore; le visiti col sorriso vivificante del provvido agricoltore, del solerte industriante, dell’eccellente fabbricante, ed impieghi nel lavoro le migliaia di braccia, che emigrano; e raddoppi i proventi del suolo, delle industrie e delle manifatture.

I Consorzi nazionali, dominando questo vasto movimento interno, porrebbero un limite all’esportazione delle nostre materie prime, le quali servirebbero innanzi tutto alle nostre fabbriche, e, solo il soverchio anderebbe all’estero; e quel che più monta, pagato a forti prezzi.

Ciò non sarebbe contro le leggi del libero scambio; ed appunto per ciò non potrebbe essere proibito agli italiani di vendere i loro prodotti a quel prezzo ed in quella quantità che loro più convenga.

Il governo non sarebbe protezionista; ma i cittadini potrebbero essere a buon diritto protezionisti della roba loro.

Scommetto, che, a capo di pochi anni, qualunque possa essere la concorrenza delle manifatture estere, il prezzo dei generi importati salirebbe da quello attuale, ed i generi nazionali potrebbero sostenere la concorrenza per la bontà della lavorazione e del prezzo.

E giova sperare, che nel rinnovare i trattati commerciali con l’estero, non si vorrà imitare la fatale condiscenza del governo, del quale fu consigliere e mandatario lo Scialoia nel 1867; sicché sostenendo a più alta ragione i dazi minimi, che oggi sono imposti sui generi importati, ed i dazi, che gravano le materie prime esportate, si segnerebbe la linea del giusto mezzo tra il sistema del libero scambio e quello protezionista, a prò delle manifatture e delle industrie nazionali; e si porterebbe un colpo provvidenziale à quel terribile monopolio, che oggi è la crittogama della fortuna d’Italia.

E insomma un sistema integrale di risorgimento industriale, manifatturiero e commerciale che io ambisco, come rimedio onnipotente per ricondurre nelle nostre piazze, con fortuna delle pubbliche e private sostanze, la moneta contante.

Il nostro credito riacquisterebbe la sua antica forza, ed il governo si troverebbe nella felice condizione di poter ritirare il corso forzoso della carta moneta, gradatamente, senza scosse monetarie; favorito dal progressivo scomparire dell’aggio sull’oro.

Non ci facciamo illusioni: la situazione finanziaria di Italia è tristissima, e solo da provvedimenti radicali ed energici si possono ottenere buoni risultati.

L’Italia ha cominciato a vivere di prestiti, ed oggi il suo credito è così deperito all’estero, per quanto che un nuovo prestito — già tentato — non sarebbe ammesso: la vendita dei beni demaniali non è bastata, non basterà anche in Roma a calmare la spaventosa voragine del suo passivo: l’introito delle tasse si rende incerto ed esile a misure, che queste sono spinte sino all’assurdo dell’imposizione: e l’equilibrio tra l’entrata e l’uscita nel bilancio sarà sempre un problema insolubile!

Questo slancio economico, dato su vasta scala, con fermezza di propositi e con la cooperazione di cittadini onesti ed intelligenti, deve trovare il valido corrispettivo nella riforma radicale dei sistemi amministrativi, che hanno portato il caos là dove l’ordine e la semplicità sono quistione di vita governativa.

Bisogna, che il governo in fatto di opere pubbliche si renda vigilante e severo; affinché la spesa delle stesse ricada a vantaggio delle masse operaie e dell’utilità pubblica, e non a prò degli speculatori e dei monopolisti d’affari.

Bisogna, che il governo si costituisca un’opinione pubblica propizia, non già con le grida stentoree e bugiarde della stampa venduta e cointeressata; sibbene con la bontà dei suoi atti, e con la felicità materiale della vita.

Bisogna che l’istruzione pubblica non sia mantenuta sulle norme attuali di un programma eccentrico, che richiede in un giovanetto le cognizioni dei grecisti, dei latinisti, dei letterati, dei matematici, dei filosofi e degli storici; pretendendo da questo imberbe enciclopedico ciò che sanno appena individualmente i suoi esaminatori, spesso ignoranti ed immorali.

Bisogna che il governo ponga un termine alla camorra dei partiti, che sotto il pretesto di avere il vessillo della libertà in pugno, vogliono essere i soli ed esclusivi dispositori dei municipi, dei Consigli provinciali e del Parlamento.

Il governo dovrebbe rispettare e far rispettare il diritto di tutti i cittadini innanzi la legge; anzi che farsi protettore di questi monopolisti della politica e dell’amministrazione dello Stato; perpetuando la fatale condizione del precario e delle ire partigiane.

Sino a quando il governo resterà nei sistemi preconcetti di persecuzione e di antipatie politiche, si troverà necessariamente nella stessa cerchia di uomini, che da quattordici anni si sono elevati a flagello e miseria d’Italia, mentre la parte conservatrice si terrà in quella ferma astensione, le cui conseguenze sono spaventevoli.

Bisogna infine, che gli uomini del governo si propongano di alzare una diga solidissima, contro il torrente dell’immoralità e del mal costume, che invadono le nostre belle contrade.

Né voglio fare della moralità pubblica una quistione esclusivamente religiosa; ma parlo di quella moralità che è specchio di civiltà, e che riflette l’onestà e la serietà d’un governo.

Questa moralità bisogna conservarla gelosamente nella stampa, nei giornali, sui teatri, nei luoghi pubblici, divenuti centro di scandalo perenne.

È quistione di dignità nazionale, che è compromessa innanzi lo sguardo indagatore del mondo politico, che ci osserva con un sorriso cinico e disprezzante!


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Sezione II

POLITICA ESTERA

Non è mio proposito discutere sull’origine politica del nuovo regno d’Italia, e sulla vitalità del diritto moderno importato dal terzo Napoleone; fragile base del trono imperiale e della sua politica agitatrice.

L’Italia oggi sta in Roma; starà di fatto e non di diritto; ma tutte le Potenze tengono accreditati i loro Ministri plenipotenziari presso la Corte di Re Vittorio Emanuele.

Se alla costituzione di fatto si unirà quella diplomatica del diritto, non è indagine che ricade in queste mie memorie.

In politica l’essere profeta, massime attualmente, è assurdo: tutto al più, si può essere previdente e giusto calcolatore del futuro, ponendo a guida dei propri giudizi l’insegnamento del passato.

Ed è perciò, che dando uno sguardo retrospettivo alla costituzione politica d’Italia, mi piace indagare ciò che si è fatto, ciò che si dovrebbe fare.

Dichiaro francamente, che l’Italia, umilissima appendice dell’Austria o della Francia, non è entrata mai nelle mie convinzioni; e se ho ammirato il coraggio di Ferdinando II in fatto di politica estera, è stato appunto perché egli tenne gelosamente e superbamente tutelata l’indipendenza del Reame; contrastando all’Austria, alla Francia ed all’Inghilterra qualunque pretensione di dominante influenza.

L’unità politica d’Italia fu il primo e costante voto dei miei giovani anni; ed adottai questi principi, professati e propagati dal Balbo, dal d’Azeglio, dal Gioberti, dallo stesso Cavour, quando sotto il passato governo erano un misfatto di cospirazione contro lo stato!

Mirando a tutta la grandezza d’una federazione italiana, fondata su basi solide e sostenuta dal senno e dal patriottismo degli italiani, mi sono ricordato appena che nel Piemonte regnasse la Casa Savoja, e che nelle due Sicilie regnassero i Borboni.

Queste due Dinastie mi sembrarono il simbolo d’una forma di governo, ma non le ho mai confuse col governo: e quando ne ho riflettuta la storia, ho sempre conchiuso, che entrambe si sarebbero redente nella redenzione italiana.

Se Napoleone III non fosse stato un settario ambizioso, e sublimemente stolto, ad onta delle apparenze del suo grande ingegno; e non si fosse fatto guidare dalla speranza di detronizzare i Borboni di Napoli per sostituirvi i Murat; certissimamente la Confederazione italiana sarebbe stata compiuta nel 1860, plaudente il Conte di Cavour: e senza dubbio egli avrebbe in un fascio raccolti gli stati di razza latina, cioè Italia, Francia e Spagna; ed avrebbe dominata l’Europa, ponendo basi profonde al suo trono.

Ma la sua costante ambizione di rifare il primo impero, ponendo i suoi congiunti sui troni di Toscana, di Napoli ed anche di Spagna; questa sua stolidità, ripeto, pose sul chi vive la politica inglese, e necessariamente la rivoluzione italiana cangiò di programma, e diventò mazziniana ed unitaria.

Palmerston si vendicava opportunamente dei Borboni di Napoli: e il Mediterraneo non diventava un lago francese.

È innegabile, che questi eventi, i quali hanno costituito il carattere speciale dei tempi moderni, hanno fatta l’Italia contro lo stesso programma federale di Bonaparte e di Cavour. E dico eventi, perché Napoleone III è vissuto con una politica di espedienti, che sono sembrati un enigma misterioso per i suoi ammiratori e per i creduli; ma che io — e posso darmene il vanto  — ho saputo definire a tempo; diventando sin dal 1860 la Cassandra di questo coreografo della setta della Croce Rossa!

Mettiamolo da banda il povero e calunniato popolo, che non sa e non saprà mai dove esista l’araba fenice della sua Sovranità nominale; e facciamolo, con tutta innocenza, diventare sovrano, per dargli il merito di aver voluta e di aver fatta l’Italia.

Dimando io; che cosa avrebbero dovuto fare i più accorti e previdenti uomini di stato d’Italia?

Intendere lealmente allo scopo di consolidare questo non sperato favore della fortuna con una politica astuta e prudente; massime dal 1866 in poi, quando l'Austria era uscita dal quadrilatero, ed il Lombardo-Veneto era rientrato nella famiglia italiana.

Il partito moderato, che non può illudersi ancora sui principi conservatori di Re Vittorio Emanuele, avrebbe dovuto romperla in visiera della rivoluzione, ad ogni costo.

L’Italia, padrona del Lombardo-Veneto, dovea considerarsi definitivamente costituita a Firenze; e siccome contro di essa ribollivano gli odi ed i sospetti del mondo cattolico; così ad assicurare l'Europa sulla sua ferma volontà di chiudersi nella più completa indipendenza; di rinunciare a qualsiasi futura velleità annessionista; e di voler rispettata la Sovranità temporale e spirituale della Santa Sede, anche in omaggio della Convenzione del Settembre stipulata con la Francia; avrebbe dovuto modificare il suo programma rivoluzionario e farlo diventare serio, positivo, temuto; afforzandosi con tutto l’elemento conservatore cattolico, che pareva disposto a conciliazione, purché fosse stata rispettata la Santa Sede.

Questa condotta solenne avrebbe imposto al mondo cattolico, che pure sino al 1870 è stato transigente, perché ha veduto il Papa Re di Roma e non detronizzato.

l’Austria avrebbe avuto tutto l’interesse a tenersi bene con l'Italia, che obbligandosi a non turbarle il Trentino, diventava la sua naturale alleata: la Francia, contenta di veder osservato il trattato di settembre, avrebbe compresa anch’essa il vantaggio di stringersi a questa nascente potenza: e da questa mutua confidenza sarebbe nata irremissibilmente la necessità d’una mutua difesa, cioè d’un’alleanza contro ogni ambizione prussiana.

E non bisognava essere un grande statista per comprendere, che, dopo Sadowa, la Prussia preparava una guerra contro la Francia, e cercava tutti i mezzi per trarre nelle sue reti l'Italia, staccandola dall’Austria e dalla Francia, promettendole e garantendole eccentricamente il possesso di Roma!

Bismarck prendeva il posto di Mazzini, e l’Italia entrava nell’ultima fase della rivoluzione a sfida del mondo cattolico.

Se, come dissi testé, l'Italia avesse saputo valutare tutto il tesoro della sua forza e della sua indipendenza nel 1866, era quello il momento di sottrarsi decisamente ad ogni influenza straniera, scuotendo il giogo dell’infesto protettorato della Francia, e declinando l’onore d’una protezione tedesca sulla base d’un compromesso politico, che l’ha spinta nell’ombre dell’ignoto.

L’Italia dovea dichiararsi superba di tutelare la Sovranità temporale del Papato — qualunque essa era nel 1866 —  e diventare ossequente alla Sovranità Spirituale di lui, sì che avrebbe riscosso l’ossequio del mondo cattolico e della diplomazia.

D’altronde la Santa Sede, pur riservando gli imprescrittibili suoi diritti, avrebbe compreso che l’Italia rinunciava al suo programma rivoluzionario e restava cattolica.

Era l’istante felice, e che non verrà mai più, nel quale l’Italia poteva intendere sicuramente alla sua riorganizzazione amministrativa e finanziaria, e prendere il posto tra le nazioni più ricche e più bene governate di Europa.

Sventuratamente gli italiani si sono dimostrati tutt’altro che italiani!.

Sino al 1866 sono stati umilissime dipendenze della politica avventuriera, versipelle, eventuale di Napoleone III.

Nel 1870 diventarono tedeschi e si legarono al carro trionfale di Bismarck!

L’Italia ha voluto, per una triste fatalità, mantenere il carattere rivoluzionario; porre in soverchia evidenza l’origine del suo diritto nuovo; tenere vivo il fuoco della ribellione nel Tirolo; assumere un carattere di ostilità permanente contro la Santa Sede, spiegando una guerra assurda ed impolitica al Clero ed al Vaticano; costituirsi in una parola come un pericolo permanente di commozione politica in Europa.

Io sono stato in eterna lotta con il partito moderato e col così detto democratico, perché ho combattuto senza tregua i loro programmi: essi mi hanno chiamato nemico dell’unità d’Italia, sol perché ho avversato il murattismo nell’ex-reame delle Due Sicilie; sol perché ho detto ad entrambi che essi distruggevano la grandezza d’Italia asservendola ad un padrone straniero, or francese ed or tedesco!  

E dire, che io son stato per questo calunniato come nemico della mia patria, ed essi avessero a chiamarsi liberali e patriotti!!!

A che negarlo? Se il Bonaparte avesse contribuito lealmente alla grandezza ed al risorgimento d’Italia, mi sarei inchinato al suo genio: ma quando lo vidi in atto di padrone fissare gli sguardi cupidi sull’Italia meridionale; sentii orrore di questo despota e l’odiai con tutta la forza del mio cuore.

Dirò nei seguenti capitoli, come io, trascinato dalla forza irresistibile degli eventi, mi trovassi balestrato in questa babilonia della rivoluzione; ma affermo con fronte alta, che giurai a me stesso di rompere tutte le reti che il Bonaparte tendeva nel Reame delle due Sicilie per restaurare il Murat. E posso darmi il vanto d’esserci riuscito perfettamente, benedicendo al giorno, in cui Dio ha fulminato questo nemico della pace europea.

Oggi il partito moderato, se vuol essere leale, deve convenire, che io non m’ingannava profetando la caduta del Nabuccodonosor del 1852, la cui vita esso reputava lunghissima e splendida quanto il sole!

Né mi si opponga l’aver io sostenuto la politica di Bismarck sino al 1870, e l’averla combattuta poi, come fo tuttora.

Propugnai l'eccellenza della politica di Bismarck; perché mi parve il solo uomo di Stato, che poteva e doveva distruggere il Bonaparte.

E vedete fatalità della politica!

L’Italia che ha abbandonato il Bonaparte nell’ora suprema del pericolo, e che si era posta a discrezione di Bismarck, il quale disponeva già del Ministero Sella, è stata pure accorta a ravvedersi ed a cangiare di Ministero, chiamando al potere uomini, che sentono tutto il rischio di fare dell’Italia un istrumento servile e dannato della politica prussiana; politica che oggi sta sul tramonto, e che giustifica le mie. previsioni espresse nel mio ultimo libro L’Empereur d’Allemagne et l'Europe, che pubblicai nel 1871 dopo il mio ritorno da un viaggio a Berlino; come narrerò in seguito.

Di errori politici se ne sono commessi tanti in Italia in questi 14 anni, da pentirsene e deplorarli; e non vi sarà tempo che possa cancellare dalla nostra storia l’eccentrico episodio della corona spagnuola, che lo stesso Principe Amedeo, guidato dal suo buon senso, rifiutò perentoriamente, e che poi dové subire per una di quelle fatalità imprescindibili, che fanno dei principi i primi schiavi e talvolta le vittime d’una politica arrischiata ed eventuale.

In quella faccenda di Spagna, l’Italia ha rifuso moltissimi milioni ed un poco di amor proprio; perché non ha fatta la più energica figura dissimulando la spontanea ritirata di Don Amedeo.

È stato un episodio per vedere in Italia tanti cavalieri e Commendatori di Carlo III, nominati a furia dal Re provvisorio, per testimonianza di una spagnuolata italiana.

Egli è vero, che i rivoluzionari d’Italia si ripaghino ora con fischiare le vittorie di Carlo VII; con battere le mani al povero destituito Moriones, che è uscito continuamente sconfitto da ogni battaglia; e con lo sperare la solida costituzione della Repubblica spagnuola dal senno del famosissimo Serrano, che coronerà il cadente edifizio dei Prim, dei Topete, dei Castelar, dei Figueras, dei Pi-y-Margal e figure simili!

Ma queste innocenti consolazioni non muteranno i destini che la Provvidenza ha riserbati alla Spagna.

Bisogna avere il coraggio di guardare con occhio sereno ed indipendente la situazione di Europa, qual essa è, e non quale credono di vederla uomini partigiani e settari; imperocché all’uomo di Stato non è permesso d’ingannarsi, massime quando nelle sue mani sono riposti i destini d’una nazione.

Oggi l’Europa sta per cangiare situazione politica e quindi di programma.

Finché visse Bonaparte, ne subì la prepotenza; e la rivoluzione s’impossessò dei destini dei troni e dei popoli; ma caduto il secondo impero, l'Europa dovea naturalmente ricercare il perduto equilibrio.

La rivoluzione del 1830 in Francia dovea avvisare le grandi Potenze nordiche del primo passo che dava le setta massonica, che dal 1815 in poi si era segretamente costituita ed organizzata per spiegare tutte le sue forze ad un momento propizio.

Esse invece si lasciarono assonnare, e pagarono a caro prezzo l’inqualificabile loro indolenza.

Dal 1830 al 1848 i settari ingigantirono, ed ebbero a Mecenate Lord Palmerston, in cima a tutti; e non nasconderò il fallo della politica inglese nel proteggere questa setta, che invadeva tutti gli Stati di Europa, insinuandosi nei Ministeri e nelle stesse Reggie, con la mistificazione, con l’ipocrisia, con la menzogna e col tradimento.

Il governo inglese ebbe forse ragioni speciali di vendicarsi del governo di Luigi Filippo; ma non avrebbe dovuto sagrificare il suo decoro e la sua onnipotenza ai risentimenti personali di Palmerston, che sostenendo la restaurazione dell’Impero Bonaparte, credè farsene un istrumento devoto ed un tributario!

E’ vero che Palmerston mirò a conchiudere un affare nel 1852; è vero che Napoleone III non osò mai mettersi in opposizione con l’Inghilterra; ma è vero altresì, che dal giorno in cui il governo inglese adottò la. politica dei mercanti, ed appoggiò il Bonaparte nelle sue imprese in Italia; perdè la sua temuta influenza e scese quasi al livello d’una potenza di secondo ordine.

Dal 1852 al 1860 la Francia, appoggiata al braccio della rivoluzione, guardata alle spalle dall’Inghilterra, dominò l’Europa: Austria e Russia rodevano il freno delle patite disfatte, e solo la Prussia meditava nell’astuto suo silenzio le grandi e maravigliose sue imprese.

Niuno negherà al Principe di Bismarck l’audacia e il genio d’un conquistatore, quando profittando della discordia che divideva l’Austria dalla Russia, magnetizzando lo stesso Bonaparte, e poco curandosi dell’Inghilterra, si aprì dapprima un varco maggiore al Baltico nella guerra contro la Danimarca, e si chiamò potenza marittima!

Il sogno dell’unità germanica, cioè d’un’impero tedesco, che sotto lo scettro della Prussia ponesse tutta la Germania, assorbendo i troni della Germania del Nord, per abbattere poi con l’ascia dell’unificazione, ossia dell’assorbimento prussiano, quelli della Germania del Sud; diventò un principio di realtà nel 1866.

E nella fatale giornata di Sadowa la Prussia discacciò l’Austria dalla Germania, s’impossessò di tutta la Germania del Nord, e legò al carro della sua vittoria i piccoli Stati della Germania del Sud.

La Russia lasciò fare; l’Inghilterra non osò opporsi, perché si vide debole: la Francia, non preparata in armi, subì l’umiliante rifiuto di Berlino a compiere le promesse convenute a Biarritz, come prezzo della neutralità; e fu da quel momento, che una guerra tra Francia e Germania diventò inevitabile.

Per raggiungere la terribile vittoria di Sèdan, Bismarck pose in opera tutte le forze del suo genio; nascose la coscienza e l’umanità nella tomba del gran Federigo, e proclamò il diritto del ferro e del fuoco.

L’Austria era abbattuta dalla sconfitta del 1866, e Bismarck la minò all’interno con i suoi agenti liberali, destinati a staccare dalla corona degli Asburgo le ultime province tedesche.

L’Inghilterra, tenuta nella più colpevole inazione dalla politica snervata di Gladstone, s’impauriva, a misura che il gigante prussiano faceva ripigliare il filo della sua spada.

La Russia — che si era già poderosamente armata — accordò la sua neutralità a prezzo. d’una concessione sul trattato di Parigi.

Il più era fatto: la Francia era isolata.

Forse le Corti di Vienna e di Pietroburgo non vedeano di mal occhio, che l’Impero Bonaparte cadesse sotto l’onta d’una disfatta.

Ma Bismarck, per accogliere sotto il suo vessillo le simpatie universali, mentre di sottomano allenava il comunismo in Francia, preparando a quella infelice nazione i giorni nefandi della Comune; si dichiarava campione e difensore della Santa Sede, ed il Ministro Arnica era il più zelante nelle sale del Vaticano e dello stesso Palazzo Farnese!

Ciò non toglieva che l’astuto Ministro scendesse a patti con l’Italia, staccandola dalla Francia; impegnandosi a condurla a Roma ed a difenderla contro qualsiasi potenza, che avesse osato mettersi a difesa della Sovranità temporale della Santa Sede.

Bismarck, capitanando la democrazia italiana, e violentando gli stessi sentimenti personali di Vittorio Emanuele, si preparava nell’Italia un alleato nella guerra, che ora compie spietatamente contro il Cattolicismo e contro il Vaticano, in Roma stessa!

Tutte queste diverse ed opposte forze, abilmente organizzate, dirette ad abbattere l’impero Bonaparte, trionfarono a Sèdan. La Comune con l’infame sua anarchia squarciò i visceri della madre patria, ferita mortalmente dal ferro tedesco.

Nel Settembre 1870 la rivoluzione italiana mandava in Francia Garibaldi, sotto pretesto di soccorrere la Repubblica francese contro i prussiani; ma in fatto per accrescere le sventure dell'anarchia socialista; mentre il Generale Cadorna assaliva Roma con le truppe regolari e se ne impossessava violentemente.

L’impero Germanico fu proclamato a Versailles, e d’allora Bismarck si credette padrone assoluto ed arbitro delle sorti di Europa.

La Francia perdeva l’Alsazia-Lorena, restando con le frontiere scoperte ed esposte ad ogni nuova invasione prussiana, ed era costretta a pagare una taglia di guerra di cinque miliardi, mentre questa guerra l’è costata undici miliardi.

Adunque la Francia, almeno per 20 anni, sarebbe stata sotto lo scudiscio tedesco.

La Russia avea ottenuto maggior dominio sul mar nero.

L’Inghilterra era sempre assonnata da Gladstone.

Bismarck non avea più competitori..

E lo sguardo avido di lui si fissò sulle province tedesche dell’Austria; e seminò la zizzania nella stampa, nel Parlamento, nei clubs cospiratori.

Le non mai smesse sue aspirazioni sul Belgio e sull’Olanda rinacquero più vive.

Si profferì sviscerato amico dell’Italia, cui offrì danaro per soccorrerne le finanze; e ne riscaldò il patriottismo per togliere all’Austria il Trentino, riserbandosi d’intervenire nel conflitto e così giungere sino a Trieste, e di là dominare l’Adriatico ed imporsi nella quistione d’Oriente!

L’ambizione di Bismarck si è sfrenatamente estesa su tutti i punti di Europa; e chi sa, che non volgeva nel suo animo una guerra contro la Russia per renderla sua soggetta sul Baltico; mentre un Principe Prussiano, regnando nei Principati Danubiani, poteva imporsi anche sul Mar nero!

E se l’Inghilterra avesse osato opporsi all’onnipotente Bismarck, non era certamente a due passi dallo Stretto di Calais?

Non è un delirio, una fantasmagoria di cervello alterato dalla febbre questo che io narro; in questi tre anni tale delirio ha formato le delizie della stampa prussiana e prussofila a spese dei credenzoni.

Bismarck avea giurato di compiere la Monarchia universale, col pangermanesimo, superando Carlo Magno, e Carlo V.

Era previdibile, che contro questa sfrenata  e pazza ambizione doveano commuoversi tutte le Potenze, e provvedere ai mezzi di una comune difesa contro un comune nemico.

La Francia è risorta dalle sue ceneri dopo ventidue mesi!!!

Ha pagato il suo debito, ha ripristinato l’ordine interno, ha organizzato il suo esercito, ha provveduto alle sue fortificazioni.

Questo lavoro non è compiuto, e Bismarck.... teme già della Francia!

Egli si consola delle lotte intestine e soffia in quel fuoco; ma questa volta perde tempo e danaro.

È inutile il dire, che al Belgio ed all’Olanda egli non pensa più: perché è stato indovinato a Londra ed a Pietroburgo.

E infatti, quantunque mal ricevuti alla Corte dello Czar, i viaggi reali e principeschi di Prussia si sono susseguiti, ma senza frutto.

Dal lato dell’Austria, tolto di mezzo l’indegno Ministro de Beust, con Andrassy è difficile intendersi; e la reazione federale e cattolica s’impone alla Corte e nel Parlamento.

L’Italia, richiamata a tempo sull’orlo del precipizio prussiano, ha licenziato il prussofilo Ministero Sella; e e l’attuale Ministero Minghetti è in perfetta disarmonia con la politica avventuriera di Bismarck.

In guisa che il Gran Cancelliere può darsi il vanto di avere sul suo capo raccolto tutto il malcontento degli Stati europei: e nel tempo stesso vede gli Stati della Germania del Sud emanciparsi dalla dittatura di Berlino; ed il partito cattolico, capitanato dal Clero e dai Vescovi, resistere all’impolitica e feroce persecuzione, sfidandolo a raddoppiare di dispotismo e di ferocia!

Da Sèdan in poi, il Principe di Bismarck ha perduto la logica, e resta ministro d’un Re, la cui salute è molto malferma e la cui intelligenza non può essere intesa alle cure del governo, il quale è abbandonato all’irresponsabile capriccio del Gran Cancelliere, che sino ad oggi è il vero Imperatore di Germania; ma che probabilmente tra non molto scomparirà dalla scena politica per fortuna della Prussia!

Forse egli non ha confessato in pubblico Reichstag, che sia l’uomo più odiato in Europa?

E qui una breve ricordanza.

Nel 1868 io prevedeva la catastrofe di Sèdan; ed accennando alla smodata ambizione prussiana, rilevai, che la Prussia avrebbe pagato il fio della sua tracotanza, se non si fosse liberata dal dispotismo di Bismarck.

Nel 1868 l’Inghilterra tentò di frenare le idee annessioniste di Bismarck in Germania; e lord Stanley, che è lo stesso presente Ministro degli esteri, Lord Darby, riuscì sino al punto, che si parlò del ritiro di questo Ministro, che aggiornò le sue risoluzioni; o per meglio dire, le modificò, fingendo di rinunziare alle sue idee annessioniste nella Germania del Sud, per fare di questi stati i suoi alleati, esporli i primi ai colpi dei fucili francesi, e dopo la vittoria aggiogarli alla Prussia. E questa è la tentazione attuale.

Nel 1868 () scrissi così:

 —  «Noi prevedemmo, prima di Sadowa, una guerra tra Prussia e Francia, e nell’ingrandire di forza e d’influenza della Prussia constatammo la prova maggiore della necessità imprescindibile di questa guerra tra due potenze, che si disputano oggi la supremazia in Europa. Dal momento in cui la politica di Berlino, invasata dall’orgoglio di una non sperata vittoria, e contaminata dalla funesta ambizione di dominio, ha cambiato il suo primo e leale indirizzo, e si crede nel dritto di calpestare a franca mano quei medesimi principi che aveano reso popolare in Europa il gabinetto di Berlino: — noi fummo compresi da previsione, cioè che la Prussia corra rischio di vedere contro di se coalizzate quelle forze, di cui essa avrebbe potuto disporre.

«L’egoismo prussiano comincia ad urtare le giuste suscettibilità di tutti i partiti: i dinastici lo accusano di voltafaccia: i cattolici gli strappano la maschera dal viso; i repubblicani lo arrestano nel cammino della falsa unità, la quale larva il sogno ambizioso d’un impero germanico, contro cui s’alzerà nemico l’interesse universale dell’equilibrio europeo.»

Ed in altro articolo (), nel 1868 stesso, scrissi:

«Il fatto sarà quello che prevediamo.

«Bismarck che potea essere il restauratore dell’ordine e del diritto in Europa, è stato colui che ha portato in Europa il trionfo della violenza, del disordine, e la necessità delle armate permanenti.

«Che Bismarck scompaia; che il gabinetto di Berline moderi le sue ambizioni, pur troppo soddisfatte dalla sua presente grandezza, ed allora i gabinetti di Vienna e di Pietroburgo, su cui la politica conservatrice di Londra può diventare dominante, gli si accosteranno».

Ripeto: io scriveva a questo modo di Bismarck nel 1868, prima della guerra del 1870.

Ricordo queste mie previsioni, perché esse sono divenute oggi più esatte, massime ora che i gabinetti di Vienna e di Pietroburgo, mettendo in oblio i loro rancori, si sono lealmente avvicinati; e perché in Inghilterra è venuto al potere il gabinetto Disraéli-Derby, che è il severo ed invariabile rappresentante del diritto e dell’ordine europeo; e che già si manifesta avverso alla politica agitatrice ed ambiziosa del Gran Cancelliere tedesco.

A Berlino si consuma una persecuzione contro il cattolicismo, odiosa per quanto impolitica; avvegnacché dalla stessa quel governo non raccolga che la riprovazione del mondo civile, ed un malcontento crescente delle popolazioni tedesche.

Bismarck, che sperava d’imporsi ai cattolici di tutta Europa ed ai rispettivi governi, ha dovuto ritirarsi al cospetto delle risposte più o meno amare dei vari gabinetti, cui egli ha mosso lamento contro il linguaggio della stampa e dei Vescovi cattolici.

La lezione più dura gli è venuta dall'Inghilterra, che ha riprovata quella persecuzione in un meeting, presieduto da Lord Norfolck nell'or caduto febbraio, e che resterà memorabile nella storia di questi tempi.

Il viaggio compiuto da Vittorio Emanuele a Vienna ed a Berlino, dopo l'avvenimento del Ministero Minghetti, è stato un sintomo delle simpatie italiane più per l’Austria che per la Prussia.

E se è innegabile, che l’Imperatore d’Austria ha stretta solidamente la mano dello Czar a Pietroburgo, vuol dire, che questi Sovrani non avranno certamente firmato un patto di guerra contro la Prussia; ma certissimamente avranno determinato di porre una diga alla funesta ambizione del Ministro prussiano, la cui permanenza al Ministero non può essere più tollerata e permessa.

Io ho sostenuto sempre, che l’Europa deve liberarsi dalla dittatura dei prepotenti, per vivere tranquilla, prospera e senza tema di guerre.

Questa dittatura dal 1852 al 1870 fu del Bonaparte; e costui caduto, Bismarck prese il suo posto, anche più funestamente.

Un gabinetto Disraeli-Derby rassicura alla fine l’Europa sul suo avvenire; e non nascondo la speranza, che dopo il viaggio dello Czar a Londra, diventerà inevitabile la Reggenza a Berlino, e quindi il ritiro di Bismarck.

Le grandi Potenze del Nord e l’Inghilterra, entrate in un programma comune di politica conservatrice, potranno definire col senno, anzi che con la spada, le gravi quistioni, che sono pendenti in Europa.

Le ambizioni bismarckiane e le inique aspirazioni delle Sètte anarchiche non hanno più ragione di esistere dopo 25 anni di mistificazioni, di violenze, di tradimenti, di stragi, di miseria e di lutto universale!

L’Europa reclama a gran voce l’ora solenne della sua pace, del suo ordine, della sua prosperità perduta.

Napoleone III propose spesse volte un Congresso, e non fu ascoltato; perché egli non potea essere giudice là dove era giudicabile.

Ma oggi un Congresso sarebbe l’unica ed eminente soluzione di questa annosa tragedia europea.

Intanto, che cosa deve fare il governo italiano?

La sua situazione a Roma non è rosea, e nissuno ne dubita.

Coloro che allarmano le fantasie delle popolazioni italiane con le profezie di una guerra, che sarebbe destata dalla Francia per restaurare nella sua Sovranità temporale il Santo Padre, mancano di buon senso, se manifestano la paura da cui sono dominati.

L’Europa è stanca di guerre; è l’ora della pace e della giustizia; e guai a quella Nazione, che volesse riaccendere una guerra, che potrebbe diventare europea.

L’Italia sa, che non può confidare nel protettorato prussiano, che era un tranello, da cui fortunatamente è scampata; sa ancora, che a Londra è risorta la potente politica del Duca di Wellington; e che l’incontro dei due Sovrani di Russia e d’Austria può rinnovare le memorie di Metternich e di Nesselrod.

L’Europa nel 1792 non era preoccupata, che dal pericolo della preponderanza assorbente della repubblica e dell’impero di Napoleone; oggi questa preponderanza repubblicana è lo stesso pericolo, più sentito; e l’impero germanico prende un aspetto allarmante.

Gli uomini di Stato, che reggono l’Italia, sono persuasi eziandio, che la Francia non è sola, e non è morta; e che essa è sempre considerata quale forza necessaria per mantenersi l’equilibrio europeo nel continente — e debbono essere anche persuasi di ciò, che il risorgimento della Francia è nell’interesse vitale dell’Austria e dell’Inghilterra contro ogni preponderanza russa o germanica.

Gli uomini di Stato d’Italia, ora che l’impero Bonaparte è scomparso non s’illuderanno certamente sulla sua restaurazione; comprenderanno, che tra tutti gli Stati di Europa è l’Italia quella che oggi esclusivamente rappresenta il diritto moderno; e comprenderanno che la quistione di Roma non possa dirsi d’interesse interno e nazionale; sibbene quistione cattolica mondiale.

Laonde io stimo, che il governo italiano sia nel dovere di appigliarsi ad una politica seria e positiva, che lo tolga dal campo delle astrazioni e delle chimere rivoluzionarie, e lo riconduca su quello, ove potrebbe essere ammesso a discutere il suo diritto, nuovo che sia.

Che l’Italia possa oggi cercare e trovare alleati e protettori in Europa, mi sembra molto difficile; che essa si creda in grado di resistere, all’Europa non dico, ma ad una grande Potenza, giudico anche difficile con gli stessi Ministri Ricotti e Saint Bon.

Adunque è assoluta necessità tentare tutte le vie d’una leale conciliazione tra gli interessi italiani e quelli europei.

Rinunziare alle velleità annessioniste nel Trentino ed alla revindica di Nizza e di Savoja, dovrebbe essere il primo pensiero del governo, per togliere all’Austria ed alla Francia qualunque ragione di discordia.

Uscire da Roma spontaneamente l’Italia non può.

La Marmora ha profetato, che troverebbe alle sue spalle l’abisso; ma deve cercare di restarci, e non potrebbe farlo altrimenti, che assicurando il mondo cattolico del suo rispetto verso la S. Sede; e ritornando alla stessa tutti indistintamente i diritti inerenti alla sua Sovranità spirituale, i quali le furono impoliticamente tolti anche dopo l’invasione di Roma.

Il Vaticano opporrà il suo terribile non possumus ma il governo italiano non può, né deve stancarsi; anzi deve raddoppiare di rispetto e di devozione, e cercare di vincere con la violenza dell’ossequio la resistenza legittima del Vaticano.

Son questi i mezzi morali, che oggi debbono essenzialmente essere invocati ed adoperati ad ogni costo; che con la convinzione di non riuscire nello scopo d’una conciliazione; imperocché una simile condotta non può non lasciare nel mondo cattolico e nella stessa Diplomazia una traccia di benevola impressione.

Alzando il vessillo della dignitosa indipendenza, rinunciando ad essere filogalli o filoteutoni, gli uomini di Stato d’Italia potrebbero nell’ora solenne d’un arbitrato europeo presentarsi a quel sommo areopago con la dignità di una nazione, che non si umilia; ma che in ultima analisi potrebbe costituirsi da se stessa, e non sotto la legge d’un intimidazione diplomatica.

E però urgente rompere in viso degli atei e dei settari, ricostituire il parlamento con elementi conservatori, bene amati dalle popolazioni, influenti nelle stesse.

Che l’Italia provveda al suo armamento, è giusto; tutti gli stati s’armano poderosamente; ma io opino, che armarsi su vasta scala sarebbe molto inutile e forse dannoso.

L’Italia, supposto il caso d’una guerra, si troverà a fronte di tutta l’Europa nemica; o non avrà guerra con alcuno.

In entrambi i casi un grande armamento sarebbe senza scopo.

E vero, che una nazione, la quale sente la dignità del suo onore, lo deve difendere a costo della propria vita; ma dal rischiare la vita onorevolmente e da prode, al suicidio, la distanza è enorme; e non credo che in Italia possa esservi uomo serio, che possa dare il consiglio di sfidare tutta l’Europa.

Diciamo le cose, come sono; perché il tempo delle illusioni e delle recriminazioni è passato.

Ora è il momento in cui il Governo, chiamando a raccolta tutte le forze del suo senno e della sua moderazione, deve chiudersi nella più dignitosa indipendenza; rigenerarsi finanziariamente, ed aspettare con occhio tranquillo gli eventi, che si delineano nell’orizzonte diplomatico.

Non sarà questo l’avviso dei miei avversari politici, è chiaro: ma io non ho parlato il linguaggio del partigiano; sibbene quello dell’onesto cittadino; dell’uomo leale, che nella sua indipendenza discute una posizione qual è, a fronte d’un futuro, su di cui non giova crearsi illusioni troppo rosee.

Ad ogni modo è questo un mio criterio; altri faccia come meglio crede e può, stando al governo dello Stato.

Fortunatamente, io non sono stato mai nella condizione di dover confessare ai miei avversari, che mi fossi sbagliato in quelle previsioni, che a me parevano logiche e naturali; e che ad essi sembrarono colpevoli conati d’una reazione preconcetta e partigiana.

I fatti parlano un linguaggio autorevole, ed io ho per me l’autorità solenne dei fatti!


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CAPO X

LE MIE LOTTE POLITICHE
§ 1°
Dal 1848 al 1860, le mie aspirazioni politiche — Persecuzioni poliziesche — Antonio Starace — Liborio Romano — L’opuscolo Napoli e Sicilia nel 1860 — Il conte d’Aquila e il mio colloquio con lui — La mia missione nelle Calabrie.

Ripensando alla lotta, che da quattordici anni combatto contro nemici, palesi ed occulti, d’ogni gradazione politica, io m’inchino grato e reverente alla divina Misericordia, che mi tenne sempre saldo il cuore e le forze contro i costanti assalti, cui sono stato fatto segno; e dirò che, fermo al posto, che scelsi sin dal 1860, quello conserverò nella mia selvaggia indipendenza; avvegnacché sia suonata l’ora di Dio, nella quale i miei leali avversari mi possono giudicare onestamente, spogliandosi dalle passioni politiche; ed i miei falsi amici e gli ipocriti sieno costretti a subire il verdetto, che contro di essi invoco dal supremo magistrato della pubblica opinione.

Nel 1848 io contava 21 anni: sugli albori della vita, informando la mente agli studi più tenaci del diritto pubblico, della storia e dell’economia politica, seppi sfuggire al contagio di quelle insinuazioni velenose, che nella gran parte della gioventù di quei tempi seminava il germe di giudizi fallaci, i quali sono divenuti sua guida nel 1860.

Lo confessai nell’articolo precedente: io adottai con tutta la forza della passione politica (terribile passione) i principi della federazione italiana dettati dal Gioberti, dal Rossi, dal d’Azeglio, dal Balbo, dal Cavour e dai migliori ingegni politici di quell’epoca.

I fatti del 1848 ed il susseguente assolutismo del governo di Ferdinando II non potevano produrre nella mia mente e nel mio cuore che penose impressioni, ed ebbi in orrore l’iniqua Camarilla, che s’imponeva al Sovrano ed al paese.

Coltivai nel segreto della mia stanza gli studi politici, che allora erano un delitto, e seguii attentamente le fasi tutte del dodicennio, così entro, come fuori Italia: e dirò che non mi mancavano libri e giornali esteri, dai quali apprendeva il largo cammino, che la rivoluzione si apriva nel Reame.

Professando avvocheria, ebbi a maestro ed a Mecenate l’illustre Giureconsulto Antonio Starace, gloria napoletana; e spesso dalla sua voce paterna ed eloquente appresi quelle grandi verità, che oggi rimembro e giudico previsioni quasi profetiche..

Fu nelle sale di questo mio maestro che conobbi moltissimi degli alti personaggi, che sono comparsi in cima della rivoluzione del 1860.

La Polizia avea gli occhi aperti costantemente su di me, e il mio nome leggevasi nel Libro nero dei demagoghi e dei riscaldati del 1848: il mio povero padre, perché influentissimo sulla popolazione di Bari, mia città natale, fu destituito dal vantaggioso suo impiego, come liberale, su di un rapporto del Comm. Ajossa, allora Intendente in quella Provincia; ed io cercai in Napoli uno scampo contro la persecuzione di quel funzionario, che occupò il posto di Direttore di Polizia sul principio del 1860!

Ricordo che il Comm. Mazza, Direttore di Polizia, mi ordinò lo sfratto da Napoli, e fui debitore alla mediazione ed alla garantia del Duca di Sangro, se l’ordine dispotico fu revocato, quantunque fossi stato anche più vivamente sorvegliato!

Non volli appartenere mai alla Massoneria, né far parte di Clubs e di conventicole politiche; perché non m’ispiravano fiducia, e rinnegavano quel programma, che era radicato nelle mie convinzioni. Anzi mi avvidi a tempo, che l’ideale politico dei pochi era la Repubblica; mentre i più, già devoti al Bonaparte, si concertavano per una restaurazione murattista.

Si nasce repubblicano, se questa parola potesse esprimere il sentimento innato della libertà e dell’indipendenza individuale; come Dio ha dato all’uccello le ali per attraversare l’aria a suo miglior talento: ma l’insegnamento della storia ed i fatti palpitanti delle Repubbliche del 1848 in Francia ed in Roma servirono a mostrarmi, che le Repubbliche italiane fossero un sogno assurdo di Mazzini e di Garibaldi..

D’altronde, l'unità politica, cioè la federazione italiana, fondata su di un governo costituzionale nei Regni federali, rispondeva quasi esattamente allo scopo, se non alla forma democratica, d’uno stato federale liberale; e poco importava, che il Capo dello Stato si chiamasse Re o Presidente; quando il Corpo legislativo rimaneva a tutela dei diritti Sovrani della Nazione.

Era il governo assoluto, il quale ripugnava alla coscienza universale, che reclamava un governo costituzionale moderato; cioè il giusto mezzo tra i due estremi dell’assolutismo e della repubblica; il giusto mezzo tra il diritto Storico e dinastico e l’unione politica dei diversi Stati d’Italia: unione, che lo stesso Conte di Cavour proponeva alla Corte di Napoli, regnando Ferdinando II, per costituire degli Stati italiani un fascio potentissimo per forza armata, per prosperità finanziaria e per influenza politica.

Sicché, temperati quei primi giudizi passionati, compresi che la libertà rivoluzionaria non era scopo nobile di rigenerazione della patria; ma mezzo in mano dei settari per vendere la patria allo straniero, o farla vittima di già diffamati tribuni della plebe.

In altri termini, io non ho saputo scompagnare la quistione monarchica e dinastica da quella federale italiana; e se fossi nato in Piemonte, avrei difesa la Real Casa di Savoja con tutte le forze di onesto e fedele cittadino.

Sin dal 1847 fui presentato all’Avvocato Liborio Romano; lo rividi nel 1854, anzi sostenni in sua contraddizione un grave giudizio nella Corte Suprema di Giustizia; è poiché egli tornava da Montpellier, ove erasi ritirato durante il tempo del suo esilio; così appresi da lui il progresso della rivoluzione, che diventava irresistibile dopo l’attentato di Orsini contro il Bonaparte e dopo la guerra del 1859 in Italia.

Liborio Romano, per sua vera convinzione, era federalista, ed egli lo ha confessato nelle sue Memorie politiche l’ambizione fece di lui un istrumento perverso della rivoluzione.

Venuto Francesco II al trono, e quando con l’Atto Sovrano si notificarono le trattative col Piemonte per una federazione italiana, credetti in buona fede, che tutte le mene cospiratrici, dirette a detronizzare il Re ed a proclamare l’unità d’Italia, sarebbero cadute in un istante, mercé l’accordo delle due Corti di Napoli e di Torino.

Ripeto, che credetti a ciò in buona fede: il trattato di Zurigo era lì palpitante: l’Imperatore dei Francesi si era dichiarato protettore di Francesco II, che si era posto nelle sue mani; l’esercito doveva naturalmente sembrarmi valoroso e fedele; e vedeva i cospiratori sempre timidi e guardigni, mentre la più completa tranquillità regnava in tutte le province napoletane.

Eppure giudicando con giusta sfiducia i Ministri di quell’epoca, i quali mi parevano indolenti, ne feci le mie maraviglie con Liborio Romano, allora Direttore di Polizia, che non potea ignorare tutto quello che avveniva in Napoli; ed alle sue graziose e generose offerte di collocarmi in un posto distinto della Magistratura, opposi un rifiuto, perché esso non conveniva ai miei interessi, e perché. sentiva quasi un rimorso di divenire, senza volerlo, complice morale della sua politica, di cui cominciai a dubitare.

E fu in un nostro colloquio, nel quale ebbi l’innocenza preadamitica di rivelargli tutto l’animo mio, che egli m’incaricò di pubblicare un opuscolo «Napoli e Sicilia nel 1860»  — promettendomi di farlo leggere al Re, cui mi avrebbe presentato!

La sua parola era così ingenua, ed io così inesperto alla simulazione politica, per quanto che mi lasciai persuadere, e pubblicai quell’opuscolo, che fu il primo passo che diedi in questa scottante arena della politica!

In quello scritto rivelai nettamente la mia fede politica, e dimostrai tutti i pericoli che l’Italia correva da una rivoluzione in senso unitario; chiamando in aiuto tutte le ragioni storiche, politiche e nazionali che si sarebbero opposte alla sincera fusione di due popoli, che restando italiani, sarebbero rimasti forti e concordi nell'unione dei due Stati dell’Italia del Nord e di quella del Sud sotto le due corone di Vittorio Emanuele e di Francesco II.

Due giorni dopo quella pubblicazione, fui chiamato da S. A. R. il Conte d’Aquila, il quale mi accolse con ogni maniera di cortesie, e mi parve di sognare nell’udirlo a parlare di libertà e d unità italiana!

Ho saputo da persona competentissima, che Liborio Romano, per accreditarsi, cioè per meglio mistificare Re Francesco II, gli disse, che quell’opuscolo era roba sua, e che avea preso a prestito il mio nome!

Intanto la cospirazione ingigantiva; Garibaldi procedeva di vittoria in vittoria nella Sicilia, ove il tradimento di alcuni Comandanti dell’esercito gli spianava la via; la stampa non avea ritegno di rivelare gli avvenimenti e di additare quelli che poi. si compirono: si vociferava di diserzioni nella marina: e Liborio Romano era divenuto Ministro dell’Interno, ed in certo modo il Dittatore!

Mi era stato detto, che il Conte d’Aquila era di accordo con Liborio Romano per indurre il Re ad imprendere un viaggio per l’estero, ed ottenere da lui la Reggenza; sicché nell’ascoltare quel linguaggio quasi italianissimo da quel Principe Reale, gli dimandai, se egli avesse notizia di ciò che avveniva sotto gli occhi della Reggia: e se anzi che provvedere alle sorti del Regno con queste aspirazioni generose, non fosse tempo di scendere ad atti pratici con un Ministero di spada!

La mia dimanda parve sorprenderlo, ed io sentii salirmi il sangue al viso, temendo di avere commessa un’imprudenza!

E fu tale!!!

Da quel giorno non rividi mai più il Conte d’Aquila, né tra lui e me è stato tenuto proposito alcuno in politica.

Noto questa circostanza che bisognerà ricordare in seguito.

Quelle mie parole furono riferite a Liborio Romano, che poco dopo mi fece chiamare; non avendolo io più riveduto dal giorno in cui mi parve, se non traditore, certamente sospetto.

Egli mi partecipò che dalle tre Province calabre erano venute petizioni uniformi, reclamando la destituzione di quasi tutti i Giudici Regi e dei Capi delle Guardie Urbane, non che una riforma nei Consigli municipali: si faceva insistenza per ottenere provvidenze intorno a nuove opere pubbliche, specialmente per le strade consolari; e si richiedeva del danaro per soccorrere ai bisogni delle Casse provinciali..

Mi aggiunse, che in Consiglio dei Ministri si era riconosciuta la pronta necessità di dare corso a questi reclami; ma che per meglio riuscirvi, bisognava affidare questa missione tutta amministrativa a persona di fiducia del governo, intelligente, liberale, che munita di pieni poteri, avesse proceduto di accordo con gli Intendenti di Cosenza, di Reggio e di Catanzaro per così gelosa riforma ().

E prendendomi affettuosamente le mani, mi disse: alla tua giovine età (io avea allora 33 anni! ) una simile missione è il principio d’una luminosa carriera politica: conosco che nelle Camere del Re si è ripetuto il tuo nome con vantaggio: ed ho il piacere di comunicarti, che per questa dilicata missione nelle Calabrie sei stato prescelto tu!

Sentii serrarmi il cuore, come da una morsa d’acciaio; non pensai all’alto onore, ma un lampo di diffidenza mi attraversò la mente, e rimasi silenzioso.

L’occhio penetrante di Liborio Romano mi avea indovinato; ed egli, sorridendo sempre, riprese: — partirai domani sera con la corriera, che è a tua disposizione; vedrai S. E. il Ministro Spinelli, e verrai da me a prendere le istruzioni in iscritto, e che vado oggi stesso a trasmettere ai tre Intendenti di Cosenza, di Reggio e di Catanzaro.

Rimessomi da quel primo stordimento, mi si conceda la parola, ringraziai Liborio Romano dell’alto onore, che mi si volea compartire; ma gli feci osservare, che nella condizione gravissima in cui si trovavano le Calabrie, che da un momento all’altro aspettavano Garibaldi, Dittatore in tutta Sicilia, quei provvedimenti erano tardivi; e che io avrei messa a serio rischio la mia vita!

Garibaldi non sbarcherà nelle Calabrie, mi soggiunse egli con la voce più dolce, che si possa prendere; tu troverai in quelle province, comandate dal bravo Generale Caldarelli, tanta truppa fedele alla sua bandiera; e tu potrai disporne in ogni caso per la tua sicurezza personale ().

Voi mi avete promesso di farmi vedere il Re, gli osservai, e ve ne siete dimenticato: fate che io gli parli prima di partire, e che lo ringrazi della sua fiducia.

E’ impossibile, mi rispose: il Re è occupato in cure gravissime; egli è in continue conferenze con i Ministri esteri e con noi altri: lo vedrai al tuo ritorno, e quando ti presenterai a lui con un merito, che sarà certamente preso in alta considerazione..

Io dubitava ancora; quando il Ministro Romano, mostrandosi quasi offeso, mi replicò: — credeva che avessi dovuto essermi grato di tanto favore; supponeva in te più coraggio nel fare il bene del tuo paese; ti supponeva liberale a fatti e non a parole: mi avvedo che al primo esperimento tu hai paura!

Accetto!!! risposi immediatamente; prometto di rispondere, come più potrò, alla fiducia che il Re ripone in me; ma se mai io dovessi correre un pericolo di morte, ricordatevi che lascio tre figli in età tenerissima.

Liborio Romano mi motteggiò su queste ubbìe, e rincuorandomi, mi aggiunse, che il Re elargiva a ciascuna Cassa provinciale Ducati 50 mila dal suo erario particolare; somma che avrei dovuto promettere, e che sarebbe stata spedita su di un mio avviso.

 —  Coraggio, egli mi disse; non parlare con alcuno di questa missione ed a rivederci domani sera!

Passai una giornata triste e preoccupata; posi in ordine le mie carte, come se avessi dovuto prepararmi a non tornare mai più; feci resistenza ferma ai consigli della mia famiglia, che mi dissuadeva da quel viaggio, e nella sera di quel giorno abbracciai i miei figli, e mi recai a casa di Liborio Romano.

Egli ritornava in quel momento dalla Reggia, e mi pareva turbato.

Non osai interrogarlo; mi consegnò un plico con le. istruzioni e con le commendatizie per gli Intendenti, e nel congedarmi mi disse: — ti auguro buona fortuna!

Nel momento di ritirarmi, mi richiamò e mi aggiunse — troverai tra le mie istruzioni quella d’inculcare agli Intendenti la pronta formazione delle liste elettorali per la elezione dei Deputati al Parlamento, che sarà convocato subitamente!

Pochi giorni dopo la mia partenza, il Conte d’Aquila venne esiliato da Napoli, come ho narrato nel Capitolo VIII. § 3.


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§ 2.
Da Napoli a Cosenza — L’Intendente Giliberti — Sommossa popolare — Calunnie rivoluzionarie — I miei compagni di scorta — Spezzano Albanese — Sono destinato alla morte — Vincenzo Luci — Insurrezione dì Spezzano e di Castrovillari — Ritorno a Napoli — Voci precorse e funeste conseguente — Liborio Romano — Lo storico calabro Cesare Morisani.

Da Napoli a Cosenza il viaggio fu perfettamente felice; le strade sicure, le popolazioni tranquille, nissun indizio di commozione.

Trattato con i più alti riguardi ad ogni fermata della corriera postale, giunsi a Cosenza nel giorno 4 Agosto, e trovai, che mi aspettavano moltissimi gentiluomini, che mi prodigarono mille cortesie; lo che mi sembrò naturale.

Nell’avviarmi ad una locanda, un tale mi si accostò con aria di mistero, e mi disse alla sfuggita ed a bassa voce: — badate a voi!

Vidi immediatamente l’Intendente, che era il sig. Pasquale Giliberti, oggi Procuratore Generale del Re nella Corte di Cassazione di Napoli: — gli esposi per filo e. per segno lo scopo della mia missione, gli chiesi il suo valevole appoggio, e gli proposi che bisognava in un Proclama far conoscere alle popolazioni le benevoli e liberali disposizioni date dal Re e dal Ministero.

L’Intendente mi ascoltò, e dichiarandomi, che era stato prevenuto della mia missione, mi replicò: — pel momento non posso dirvi nulla, ci rivedremo dimani.

Nelle prime ore del giorno seguente mi fu annunziato il Signor..., il quale come appena entrò nella mia stanza, esclamò: — prendete la valigia e partite sul momento, in nome di Dio —

 —  E perché?

—  Perché siete venuto per impedire lo sbarco di Garibaldi!!! Il popolo è in tumulto, e minaccia la vostra vita.

 —  Non risposi, e promisi di partire: ma rimasto solo, scrissi due parole all’Intendente, e bruciai il rapporto che avea cominciato a redigere pel Ministro!

Due persone vennero a rilevarmi in nome dell’Intendente, che mi pregò di rimanere in quelle sue stanze, e mi lasciò senz’altro dire.

Dalla stanza, ove io era chiuso, udii poco dopo voci alte e confuse, e su queste, tuonare quella del Giliberti, che ripeteva: — io non permetterò mai, che si compia un assassinio!

Si era fatta spargere la voce, che in fatti io fossi andato a sollevare le Calabrie contro Garibaldi; che avessi meco una ingente somma di danaro; e che testé avea bruciato le carte della.... reazione!!!

Nella sera di quel giorno fu convocato il Comitato rivoluzionario, che dovea decidere del mio destino: l’Intendente combatté l’iniquità delle accuse che mi addossavano: fu al caso di dimostrare la lealtà della mia missione; la stessa onorevole imprudenza del mio patriottismo, perché io era stato tradito da Liborio Romano, che avea voluto allontanarmi da Napoli, credendomi complice in un colpo di Stato attribuito al Conte d’Aquila; mandandomi a morire nelle Calabrie.

Il Comitato, a maggioranza di voti, decise di tenermi prigioniero sino allo sbarco di Garibaldi in Reggio, e fu destinato per luogo di mia residenza il piccolo paese detto Spezzano Albanese.

A Pasquale Giliberti rendo, anche una volta, per le stampe quella testimonianza di profondo ossequio e di riconoscenza, che gli ho professata sempre.

In Cosenza oggi il mio nome è ricordato con un sentimento, oh! quanto diverso da quello del 1860!

Prima dell’alba del giorno seguente, partii sotto buona scorta in compagnia del sig. Giuseppe Pace, che in altra carrozza seguiva la mia.

______

Mi si conceda di narrare con maggiore dettaglio quello che mi avvenne a Spezzano Albanese.

Pronto alla partenza, era ancor notte, fui chiamato dall’Intendente, il quale mi raccomandò la più gran prudenza nel viaggio.

Quattro giovani calabresi, armati di carabine, mi furono compagni sino al luogo dove erano fermate due vetture.

In una di esse era entrato il sig. Giuseppe Pace insieme a tre suoi amici.

Nell’altra salii io, ed accanto a me si collocarono quattro individui, in perfetto costume calabro, cioè cappello a punta ornato di nastri di velluto, giubba e giubbetto di velluto; calzoni anche di velluto, corti sino al ginocchio: pugnale a traverso la cartucciera a cinta, ed un buon fucile.

Non avevamo fatto un miglio, quando su di un ponte vedemmo fermati un venti uomini, che al nostro passaggio si avanzarono verso la carrozza, ove stava il Pace.

 —  La strada è sicura, essi dissero, — buon viaggio, ed a rivederci.

 —  Che cosa vogliono costoro? chiesi ad uno dei miei strani compagni, che mi sedeva a dritta, rompendo il silenzio fino allora serbato.

Son venuti a dirci, che non corriamo pericolo d’un’aggressione.

 —  Davvero? — eppure son tre giorni, da che son passato per questi luoghi, e non ho incontrato anima viva.

 —  Ma capisci tu, che si è detto a Cosenza, che tu porti una valigia piena di monete d’oro, e che a qualcuno può venire in mente il desiderio di togliertele, ed anche di assassinarti per non farti parlare? — Se tu andavi solo, senza di noi e senza il sig. Pace, a quest ora l’avresti passata brutta.

E guardò negli occhi degli altri compagni, i quali riconfermarono le sue parole, aggiungendomi i dettagli di quello che voleano fare di me a Cosenza.

Quei fieri calabri, nati dal volgo, aveano dunque la certezza che io portava tanto oro! — Lo avrebbero detto ove saremmo giunti, ed io non potea viaggiare con la stessa sicura scorta, sino a Napoli!

Perciò mi diedi con bel garbo a dissuaderli da quelle voci: confidai la vera somma del danaro che portava, e giurai sul Cristo di dire la verità.

 —  Io ti credo adesso, esclamò il mio compagno di dritta; tu devi sapere, che io ho settant’anni, e che ho sulla coscienza qualche peccato: ma quando tu, che sei così giovane, e che mi hai la faccia di un galantuomo, parli a questo modo, ti credo e mi muovi a compassione.

 —  Prima del 1848 ne feci una di quelle grosse, e fu l'ultima: insomma ammazzai con un colpo di questa carabina (era quella che portava e mi mostrava!); una carabina che vale tanto oro, veh! — colpirei con una palla un uccello al volo: dunque ti diceva, mandai all’altro mondo un tale, con cui da più anni non potetti regolare mai certi conti vecchi... — E mi diedi subito in campagna, perché ne andava della pelle.

Venuto il 1848, mi tenni guardigno fra città e campagna; ma dopo il 15 maggio mi posi in salvo. Quando fu mandato nelle Calabrie il Generale Ferdinando Nunziante, che ha qui delle buone tenute di terreno... — lo conosci tu Nunziante?

—  Accennai di sì col capo.

 —  Bravo! tu conosci un buon galantuomo, che Dio tenga nella sua gloria, ora che è morto: ebbene egli ci dette l’amnistia a tutti noi, che vivevamo da briganti: e come ce la promise, la mantenne. Io era molto temuto, e ciò non fu di ostacolo al perdóno, che mi affrettai a dimandare, perché mi faceva vecchio, e quella vita non potea convenirmi.

 —  D’allora in poi, vivo alla meglio e ringrazio Dio.

Dopo un quarto d’ora di silenzio, il vecchio mi disse:

—  Per quanto è vero quel Cristo, su cui hai tu giurato, se vuoi ch’io ti accompagni sino a Napoli con questi bravi figliuoli, verrò, e ti consegnerò sano e salvo a casa tua: — non mi credi?.

Ringraziai sollecitamente quel vecchio calabro, e gli strinsi cordialmente la mano per dimostrargli che avea fede nelle sue parole: ma gli feci riflettere, che io dipendeva dal sig. Pace, ed avrei commessa una cattiva azione col fuggire.

È giusto, egli conchiuse; e non ne parliamo più.

Era l’una p. m.  — il sole ci dardeggiava, quando giungemmo alla Taverna di Mosciaro, luogo ove i viaggiatori si fermano per far riposare i cavalli.

Scesi dalla carrozza; mi avvicinai al sig. Pace...

Ora egli è defunto, e non posso chiedergli, se il 1874 risponda alle sue parole del 1860.

Riprendemmo il cammino: — quando fummo a vista di Spezzano Albanese, il signor Pace fece fermare la mia carrozza, e mi disse:

—  Voi giungete in cotesto paese, che si chiama Spezzano Albanese, e farete là il vostro comodo: ma se avrete bisogno di qualche cosa, cercate d’un mio parente, Vincenzo Luci.

Mi salutò, e via con la sua carrozza.

Quando lasciai Cosenza, mi parve di essere scampato da ogni pericolo; ma quel congedarsi freddo, nel mezzo d’una strada, del signor Pace, che mi lasciava in paese forestiero, solo, senza un amico, insidiato, a discrezione della rivoluzione, fu per me quasi una condanna!

Era io prigioniero, e di chi?

Chi mi garentiva dalle violenze, che poteano replicarsi à Spezzano, dove non mi restava che il solo soccorso di Dio?

Aveano salvata la mia vita a Cosenza, per non subire colà la responsabilità del misfatto? — e per esporla in un luogo dove l’assoluta mancanza di autorità autorizzava l’anarchia in momenti rivoluzionari?

—  Ditemi, buon vecchio; in questo paese, ove giungiamo, ci stanno alberghi?

—  Ti condurrò io a quello di Rosa, una mia comare, e ci starai bene.

—  E gli Spezzanesi sono brava gente?

—  La migliore che io conosca: tenaci nell’odio come nell’amore: e sovratutto pazzi per Garibaldi.

 —  Conoscete voi il sig. Vincenzo Luci?

—  E il maggiore della guardia nazionale di Spezzano: uno di quelli, al quale tutti obbediscono; oggi è il piccolo Re di Spezzano!

—  Ei ne ha sofferte di molte sotto i Borboni, ed è stato per sette anni in fondo d’un carcere. Ora prende la sua rivincita.

Eravamo giunti a Spezzano, ed il vetturino fermò la carrozza innanzi ad una meschina casipola. Era la Locanda di Rosa!

Per una scala piccola e stretta, ed i cui scalini sconnessi e senza simmetria dimostrano la poca arte nel fabbricare, si ascende ad un piano, l’unico di quel così detto albergo: si entra immediatamente in un corridoio, nei cui muri laterali si vedono quattro porticine, che immettono a quattro stanzucce.

Mi diedero la seconda stanza a man diritta, ed il cui balcone rispondeva su di un piccolo largo, che è la piazza di Spezzano; ed ove sta il Caffè, che serve di ritrovo a quei cittadini.

I miei compagni di viaggio, dopo che la mia valigia fu collocata nella stanza, si congedarono, e dovetti costringerli ad accettare una somma, che diedi loro in ricompensa della buona scorta fattami.

 —  A rivederci a Napoli, mi disse il vecchio; ed andò via con gli altri.

Rimasto solo, mi gittai su di una sedia, pensando a quello che mi restava a fare per riprendere il viaggio sicuramente, e quanto più presto fosse stato possibile.

Non era passato un quarto d’ora, da che io rifletteva sulla mia triste posizione, allorché vidi aprirsi violentemente la porta della stanza ed entrarvi molte persone.

Una di esse, avanzandosi, mi disse con accento secco e vibrato:

 —  Le vostre carte.

Non mi mossi dal luogo, ove era seduto, ed accennando il mio portafoglio e la valigia, risposi:

—  Colà sono tutti i miei effetti e le mie carte, esaminatele a vostro comodo.

 —  Siete voi, Salvatore Cognetti Giampaolo? replicò colui.

 —  Sono io perfettamente.

 —  Venuto per ordine di Francesco II a recidere i passi della rivoluzione?

Allora mi alzai.

 —  Signore, soggiunsi, non vi dimando chi siete e con qual diritto venite ad interrogarmi: vedo che la rivoluzione qui comanda, e son costretto ad obbedire. Uno spirito infernale ha contro di me insinuato le calunnie, che ho apprese a Cosenza, e che mi accompagnano qui — Vi giuro sul mio onore, che la mia missione nelle Calabrie è molto diversa da quella che ignoti miei nemici mi attribuiscono....

 —  Le solite storie, i soliti giuramenti! — gridò.... un prete, agitandosi come un’energumeno.

Quel prete l’ho ancora innanzi agli occhi!

Alto, magro e sparuto della persona, la faccia ossea, tra il giallo ed il nero, coperta da una barba mal rasa, gli occhi piccoli, tondi e viperini, vestito della sola tunica.... — quel prete mi diè la figura del mio carnefice!

 —  Bando alle ciarle, signori, egli riprese: con gli emissari del Borbone non si può, non si deve avere pietà: se cominciamo a questo modo; se non recidiamo dalle radici queste piante velenose, un giorno o l’altro diventeremo da capo le loro vittime — A noi non spetta giudicare, bisogna obbedirei!

E rivoltosi a me.

 —  Voi, signore, preparatevi a subire il destino riserbato ai traditori vostri pari.

In quel momento io mi sentii un altro uomo: la grandezza del pericolo mi rese di ghiaccio — Quindi replicai freddamente:

 —  Signori, non si uccide un uomo senza giudicarlo: il vostro atto sarebbe un assassinio, indegno dei Calabri — Al condannato a morte, la legge concede tre giorni di vita: vi dimando tre ore, nelle quali potrete ottenere più esatte informazioni di me, e garentie tali da non perseverare nel proposito di assassinarmi.

 —  Quali garentie potreste darci? — disse un altro di quei venuti? L’Intendente Giliberti.

 —  E poi?

—  Il signor Vincenzo Clausi.

 —  E poi?

—  Il signor Giuseppe Pace.

—  Hai nominato il nostro Dio, esclamò un altro.

 —  Al diavolo le garentie, urlò il prete, facciamo presto.

 —  No, riprese  colui che avea parlato pel secondo: cercheremo informi col telegrafo a Cosenza ed a Castrovillari, e secondo le risposte ci regoleremo.

 —  Vi ha qualcuno tra voi, che voglia chiamarmi il signor Vincenzo Luci?

—  E’ il cugino del signor Pace, andiamo subito.

 —  A rivederci, mi soggiunse il prete; fìggendomi nel volto gli occhi di vipera, e sorridendo come Satana.

Uscirono tutti.

Due persone, armate sino ai denti, furon messe di sentinella alla mia porta.

Fu un istante ben solenne per me, e tale che oggi, ricordandolo, dimando a me stesso, come mai Dio potè darmi la forza innanzi al pericolo, donde era minacciato.

Voci terribili, che scoppiavano dalla gente riunita nella piazzetta, giungevano sino a me, e mi persuasi che bisognava rassegnarsi a morire.

Staccai dal portafoglio un foglietto, e scrissi poche parole alla mia povera moglie, raccomandandole i miei figli, che perdevano il padre, vittima del troppo amore che portava al suo paese!.

Mi tolsi dal collo un Crocifisso, in cui è incastrato il Santissimo Legno della Croce, lo baciai, e lo unii alla lettera.

Diedi un ultimo pensiero alla mia famiglia, e pregai.

Ma non piansi: il cuore quasi non mi palpitava più; sentiva il cranio vuoto! — incapace di formare un concetto: — era il nulla dentro e fuori di me!

—  Mi fucileranno, pensai fra me stesso; ebbene, se non potrò scampare la morte, perché soffrire più lungamente?

E presi una fatale risoluzione.

Gli occhi corsero alle mie pistole.

Il suicidio mi parve uno scampo!!!

Aspettava il signor Luci e le risposte del telegrafo da Cosenza e da Castrovillari.

Era una mezz’ora, che il mio orologio già mi toglieva inesorabilmente.

Sentii per le scale il salire di molta gente.

 —  Essi tornano! — e dopo aver collocate le pistole sul letto, le coprii con un moccichino, e mi assisi, tenendomi alla portata dell’arma.

Precedeva coloro che tornavano, il signor Vincenzo Luci.

Di giusta statura, complesso e ben tagliato nella persona, biondo di capelli, avvenente nel volto, negli occhi cerulei egli acchiude la forza e la bontà.

Eccolo, disse il prete, additandomi.

Il Luci mi guardò fiso, squadrandomi da capo ai piedi; e rivoltosi a quelli che lo seguivano, profferì alcune parole nel linguaggio albanese, e delle quali non compresi il significato.

Mi avvidi, che non aveano fatta una buona impressione; e poiché il mio prete del diavolo osava opporsi, il Luci con un cenno, che non ammetteva altra replica, congedò tutti, e rimase solo con me.

 —  Ditemi la verità, signor Cognetti; così giovane, non potreste mentire: voi siete spinto in una impresa, per lo meno tanto imprudente, per quanto che voi vedete il pericolo che correte; ed al quale io intendo sottrarvi, se sarete leale.

Narrai al sig. Luci per filo e per segno tutto ciò che sinora ho esposto: e gli giurai sulla mia parola d’onore, che quello che contro di me si adduceva, non era che una infame calunnia di scellerati, che forse temevano il mio ricomparire a Napoli, prima del trionfo della rivoluzione.

Il signor Luci era commosso, e nel suo cuore la battaglia dovea essere grandissima.

 —  Voi non potete essere un traditore, egli conchiuse: — aspettate il mio ritorno.

Il popolo ragunato innanzi la locanda attendeva lo scendere del Luci, il quale si avviò al caffè, dove fu seguito.

Non dirò quello che egli avesse colà fatto, e non ripeterò le discussioni violenti, che ebbe a sostenere con coloro, che voleano ad ogni costo sagrificarmi.

Certo è, che dopo quasi due ore, la parte intelligente della borghesia si associò al giudizio del sig. Luci, ed il popolo lo plaudì unanimemente.

I telegrammi venuti da Cosenza e da Castrovillari in risposta a quelli colà inviati due ore prima, giunsero in tempo per proteggermi da quel furore rivoluzionario.

Io era salvo!

Infatti il sig. Luci, accompagnato da diversi gentiluomini, tornò all’albergo; e fattomisi innanzi, mi protese benevolmente la mano; —  e, dormite sicuro sul letto calabro, egli soggiunse, come sul letto di vostra casa.

Coloro che erano con lui, mi furono attorno.

La scena mutò in un momento.

I calabri non hanno mezze passioni: essi odiano ed amano tenacemente.

Inesorabili coi birbanti, possono essere tratti in inganno sul conto d’un individuo: ma se scuoprono l’inganno, si ritrattano lealmente e riparano largamente ai primi moti del loro sdegno.

Divenni segno alle più cortesi esibizioni di quei gentiluomini, insieme ai quali girai il piccolo e pittoresco paese; additato da quei popolani, che uscivano sulle soglie delle loro case, e mi guardavano con una curiosità benevola e simpatica.

Nel corpo di guardia nazionale erano preparate picche ed armi per l’insurrezione già prossima.

Da quelle montagne si vedeva in lontananza il Gargano! — e mandai un saluto alla mia terra natale.

Su tutta la linea da Spezzano ad Eboli il mio passaggio era segnalato, ed il pericolo sarebbe stato lo stesso dovunque.

Bisognava dunque disporre favorevolmente quei Comitati.

Io restava a Spezzano in una quasi prigionia, e si aspettava lo sbarco di Garibaldi a Reggio.

Scrissi due lettere alla mia famiglia; ma furono intercettate.

Dopo tre giorni, un telegramma da Napoli, comunicato al sig. Luci, il quale me ne fece confidenza, mi provò, che a Napoli si era in gravi apprensioni sul mio conto.

Garibaldi sbarcò a Reggio, ed io assistii all’insurrezione di Spezzano Albanese.

Il giorno dopo partii con la postale.

Fui accompagnato sino alla vettura dal sig. Luci, da varii gentiluomini e da buon numero di popolani.

Uno fra costoro si tolse di capo il cappello, nuovo, tutto fregiato di nastri di velluto orlato d’argento, e me l’offrì per memoria! Accettai con premura l’atto cortese, ma comprai il cappello.

Ebbi una carta di raccomandazione di Comitato in Comitato, su tutta la linea.

Il mio Luci mi affidò ad un suo bravo popolano; un tale Giuseppe Scorza.

 —  A rivederci a Napoli, egli mi disse, stringendomi la mano: e tra pochi giorni col nostro Garibaldi!

Salii nella corriera postale, e via — A Napoli si dorme! — dissi allora fra me: — contro il destino non si lotta: — qui tutto cospira contro la dinastia: — le autorità rappresentano la rivoluzione, la truppa è comprata, e le popolazioni sono insorte.

Giunsi a mezzanotte a Castrovillari: mi recai a compirne il sig. Pace, che mi accolse cortesemente e mi ristorò con una buona tazza di caffè.

Gli partecipai lo sbarco di Garibaldi a Reggio.

Dopo dieci minuti scoppiò l’insurrezione a Castrovillari.

Giunsi ad Eboli: feci attaccare sollecitamente i cavalli e mossi per Salerno.

Sulla strada incontrammo la corriera postale, che veniva da Napoli: presi informazioni dal conduttore!

A Napoli si parlava ancora d’un campo trincerato, che si dovea fare a Salerno!!!

Arrivato a Salerno, lasciai la Corriera e con un apposita carrozza giunsi a Vietri, nel momento in cui il convoglio della strada ferrata stava per partire.

Mi vi lanciai entro, e dopo poco rividi Napoli!

Nell’entrare della carrozza nell’androne del palazzo, ove abitava, mi ferì questa esclamazione — Egli è vivo! —  benedetto Dio!

Dirò qui di volo.

Era così certa la risoluzione di disfarsi di me nelle Calabrie, per quanto che si annunziò a Napoli l’esecuzione dell’atto rivoluzionario.

Un individuo, che non nomino, ed al quale io avea reso importanti servigi, ebbe l’infamia di recarsi in mia casa, e di dire alla mia famiglia, ch’io era stato fucilato.

Un anonimo scrisse lo stesso a mio padre in Bari.

Il colpo fu troppo terribile: il mio povero padre dopo sei mesi diventò cieco: dopo un anno morì di aneurisma!!!

A quel tempo esistevano in Napoli due Comitati: l’uno col nome di Comitato dell'ordine, e l’altro con quello di Comitato d"azione.

Dipendeva il primo dal Conte di Cavour; militava il secondo sotto la voce di Garibaldi.

Liborio Romano mi rivelò, che un ordine perentorio del Comitato d’azione mi avea raccomandato ai corrispondenti Comitati delle Calabrie.

Il vedermi ritornato vivo, urtò molte suscettibilità; d’allora incominciò la crociata a mio danno, e si ebbe premura sollecita di pubblicare tutte le fole più strane sul mio viaggio.

Il momento di una riparazione non era quello: tacqui e disprezzai i miei calunniatori, che non erano riusciti ad essere i miei carnefici.

Vidi subito Liborio Romano, che era tuttora ministro — e gli parlai con lealtà.

Egli non avea potuto neppure impedirmi di partire, né avvisarmi del pericolo, cui andava incontro: e mi avea abbandonato all'alta necessità politica dei tempi!!!

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Il forbito scrittore Cesare Morisani nel prezioso suo libro «I fatti delle Calabrie nel Luglio ed Agosto 1860» racconta questo episodio della mia vita politica in tutti i suoi particolari.

Non ripeto le belle e generose parole del Morisani, perché esse sono troppo lusinghiere per il mio amor proprio; ma sono nel dovere di riportarmi all’autorevole testimonianza d’uno scrittore contemporaneo, calabro, e perciò nella piena scienza di quei fatti; sento il dovere di rendergli gli attestati della mia profonda riconoscenza.

La sua voce, divenuta storica, e che nel 1872 mi giunse dalle Calabrie, e vasto compenso ai pericoli che, nello scopo unico del bene della patria, affrontai in buona fede nel 1860.


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§ 3.
I rivoluzionari mi definiscono borbonico — Riflessioni storico-politiche — I primi giornali conservatori e loro fine istantanea — Liborio Romano — Il Papà Giuseppe — Il Principe Girolamo Napoleone — Il Cav. de Lamorandière — Persecuzioni fiscali — Guerra al murattismo — Violenze di piazza — Il Machiavelli strozzato — La Settimana — Il Napoli strozzato del pari.

Liborio Romano mi avea prevenuto, che il Comitato d’azione vigilava su di me; e perciò mi tenni, dirò quasi sequestrato in casa sino al giorno sei. Settembre in cui Francesco II lasciò Napoli.

E qui dichiaro, che io ho avuto l’onore di essere ricevuto da Francesco II a Roma la prima volta nel febbraio 1867!!! Ciò serva di tutta risposta a coloro, che nel 1860 hanno fatto di me un cospiratore all’immediazione del Re di Napoli e del Conte d’Aquila.

Certo è, che io mi trovai definito per borbonico, termine adoperato dalla rivoluzione per applicarlo a chiunque non la seguisse. Io ratifico oggi 1874 quello che ho pensato nel 1848, quando era giovanissimo: imperocché l'essere borbonico, nel senso stesso della parola, esprime un partito politico, che non rappresenta la Nazione, non la Dinastia, non il principio liberale moderato in politica; ma denota i vecchi Sejani dell’assolutismo.

Chi reputerebbe suo onore l’appartenere a quella esosa Camarilla, regicida e parricida nel tempo stesso?

Dopo il 1860 il borbonico è scomparso di fatto; resta tutto al più il legittimista, e l’onesto liberale, che, astrazione fatta dal Re, era autonomista, diveniva nel tempo stesso legittimista, quando il principio autonomico del Reame s’incarnava nella Dinastia; e perché caduta questa, cadeva l’autonomia e l’indipendenza dal Reame.

Adunque, dopo le concessioni costituzionali del 1860, e dopo l’atto Sovrano che proclamava la federazione italiana, gli autonomisti ed i federali delle Due Sicilie rappresentavano il diritto della legittimità nel difendere i diritti dell’indipendenza nazionale, minacciata dall’unità italiana.

Ed io, che dal 1848 al 1860, appunto perché professava le dottrine liberali e patriottiche della federazione italiana, era allistato tra i nemici della Corona e della patria; quando nel 1860 il professarle mi sembrava un dritto, mi trovai di essere borbonico e retrivo!

Giova ripeterlo, il borbonico — come lo definisce la rivoluzione, e che io distinguo dal legittimista — è un settario, come il mazziniano, il comunardo, il murattista; imperocché tutte queste sètte sono essenzialmente egoiste, ed antepongono il proprio interesse a quello della patria.

Io ho la convinzione, di ciò, che quelli che meno amano Francesco II, sono i così detti borbonici, che si chiamerebbero più propriamente pecchenedisti, ajossianirmurenisti e cenatiempisti!

E costoro già censurano Francesco II, che chiamano liberale, lo che nel loro linguaggio significa settario!

I Re hanno sempre la sventura dei poeti cesarei, che ne lodano gli errori ed anche i vizi, ed hanno la fortuna della censura di cittadini onesti; ma la cancrena dei cortigiani prevale sul patriottismo degli indipendenti.

La menzogna e la calunnia si fanno strada, e la verità è costretta a rincantucciarsi, aspettando l’ora, in cui queste maschere cadano fischiate e morte, per dire ai Re ed ai popoli — ecco il frutto della vostra stoltezza!

Così io non cercai neppure di giustificarmi nel 1860 contro le caratteristiche politiche inflittemi dalla setta rivoluzionaria, e presi la mia decisione; quella di aspettare gli eventi.

Partito Francesco II, mi posi al posto d’un attento osservatore. E dissi a me stesso, poiché è assurdo nelle fata dar di cozzo, e bisogna subire il fatto compiuto quasi con il beneplacito europeo e con il concorso potente dei governi di Londra e di Parigi; vediamo, se veramente questi repubblicani e questi murattisti siansi convertiti all’unità italiana, vediamo, se con un governo saggio, provvidenziale, giusto, indipendente essi dimostreranno ai popoli d’Italia ed all’Europa, che essi vengano davvero rigeneratori e riparatori degli errori dei governi caduti, tra cui quella famosa negazione di Dio del Reame delle Due Sicilie.

Osservai, e vidi troppo sollecitamente ciò che ho narrato nel Capitolo IX.

L’opinione, la coscienza pubblica, che io non perdeva di mira, si pronunziavano contro i sistemi politici, amministrativi e finanziari del nuovo governo, e cominciarono a manifestarsi col mezzo della stampa.

Così si videro spuntare diversi giornali conservatori, come l’Aurora, il Flavio Gioia, il Monitore, l'Ape Cattolica, la Stella del Mattino, l'Eco di Napoli, la Tromba cattolica ed altre effemeridi, che non ricordo; ma le passioni politiche ribollivano ancora; e questi arditi periodici, appena nati, erano spenti, meno per ire fiscali, quanto per violenza partigiana.

Mi avvidi, che già profondamente disgustati erano i democratici, rimasti sul terreno, essendo passato il potere tutto nelle mani dei moderati, che chiamarono Consorti, dipendenti ciecamente dal Conte di Cavour e dal Bonaparte.

Eravamo nel 1862: mi pareva aver aspettato anche molto; e l’indirizzo governativo era divenuto così pronunziato, che oramai era tempo combatterlo per riportarlo sulla buona via.

Indubitatamente, il miglior mezzo per manifestare agli uomini del governo il sentimento della pubblica opinione era quello di collocarsi sul terreno d’un’assoluta indipendenza politica, scendere in mezzo al popolo, interrogarne i bisogni e le querele, ed esporle al governo con tutta la lealtà dell’animo.

Il Papà Giuseppe fu il primo giornale che io diedi alla luce a dì 7 Giugno 1862.

Non volli avere collaboratori; il formato di questa effemeride tutta popolare era piccolo, ed io bastava al compito giornaliero.

Papà Giuseppe colpì al giusto segno l’opinione pubblica, sì che ogni mattina di buon’ora era ansiosamente aspettato, ricercato e letto.

Avea toccata la piaga al vivo, e naturalmente urtai le suscettibilità di coloro, che non potevano permettere una polemica giornaliera, che in un linguaggio dimestico, semplice, popolare, adattato a tutte le intelligenze, rivelasse gli errori dei sistemi governativi, e portasse un pò di luce là dove la politica lavorava nell’ombra.

Qui debbo dire, che nel 1862 Liborio Romano era già distrutto!!!

Il tribuno del 1860, ricevuto con un marcato disprezzo da Cavour, fu rovesciato dal suo fragile trono; la sua fama insultata dagli stessi suoi complici della vigilia; e messo quasi al bando dal governo, perduta la breve popolarità, entrò nelle file della democrazia e militò nella sinistra del Parlamento.

Era il tempo di rivederlo.... e lo rividi!

Liborio Romano è sceso nella tomba: dimenticai, lui vivente, ciò che mi avea fatto nel 1860, e mi bastò un ora di colloquio con lui per leggere in quell’anima offesa e contristata tutto il giudizio della sua politica del 1860.

Gli rivelai, che mi decideva ad entrare nel campo difficile del pubblicista: egli mi disse — preparati a lunga e dolorosa battaglia; questi uomini sono inesorabili; essi ti calunnieranno e ti perseguiteranno sino a distruggerti, e tu non potrai lungamente resistere: ricordati sovra tutto, che il murattismo non è spento, anzi si agita sordamente anche più di prima; guarda in certe sfere dell’Aristocrazia napoletana e non t’ingannerai; l’Inghilterra si è ritirata prudentemente, ma insidierà sempre il murattismo; il Bonaparte, divenuto arbitro dei destini d’Italia, massime dopo che Cavour è morto, vede volentieri il crescere del malcontento nelle popolazioni delle due Sicilie, e lo sfrutta a profitto della sua propaganda: la democrazia da parte sua non riposa e controminerà sempre il murattismo.

Quali fossero i miei sentimenti a fronte della politica del Bonaparte, i miei lettori hanno potuto già apprendere da quanto ho scritto nei precedenti capitoli; e perciò quelle parole di Liborio Romano, l’uomo che era al caso di darmi esatti ragguagli in fatto di cospirazioni, mi rimasero impresse nella mente.

Il Programma del Papà Giuseppe era dunque evidente — difendere i diritti ed i bisogni del popolo contro gli errori dei sistemi governativi e far guerra al murattismo!

Infatti in quei giorni venne in Napoli l’ex- Principe Girolamo Napoleone, il quale s’informò dello spirito pubblico in quanto al murattismo, e non mancò di sondare le acque per vedere, se poteva farsi qualche cosa.... per lui!!!

Il Papà Giuseppe nel suo n. del 17 Giugno 1862 diede il suo grido d’allarme, e molti figuri si ritirarono sollecitamente, per tema di compromettersi; imperocché costoro, avversi ai Borboni in cuor loro, si mascherano a legittimisti per meglio farla da Machiavelli.

E fu in quei giorni, che Garibaldi, in un suo discorso alla Guardia nazionale di Palermo profferì parole di fuoco contro il Bonaparte.

Verso l’Agosto 1862, fui invitato in casa del Commendatore A per conoscere un Signore francese, devoto all’Imperatore, ed infatti trovai colà un tipo di gentiluomo, che mi fu detto chiamarsi il Cav. de Lamorandière.

Dalle prime parole compresi essere il medesimo uno dei tanti emissari del Bonaparte per la propaganda murattista; e pure fingendo lo stordito, poi che egli m’interrogava sulla possibilità di vedere ripristinata l’autonomia delle due Sicilie, gli risposi, che io, povera eco della pubblica opinione, non potea certamente nascondere il malcontento del popolo; né dissimulare una convinzione, cioè che si potesse desiderare meglio di tornare ad essere uno Stato indipendente, anzi che restare provincia italiana; ma poiché si facea campeggiare la condizione, cioè che le Due Sicilie sarebbero state ricondotte a condizione di Regno, se si fosse proceduto ad un Plebiscito, che acclamasse la Restaurazione del Murat; io risposi —  che i napoletani non aveano, che due sole alternative; o tornare alla federazione secondo il patto di Zurigo, con le due corone di Savoia e di Napoli; o di affermare l’unità d’Italia con la Dinastia di Savoia: in tutti i due casi restare sempre italiani, lo che significava respingere la federazione con un Murat a Re di Napoli.

Il cav. de Lamorandière, al quale tenni questo breve discorso in riposta alle sue brevissime, ma eloquentissime frasi; mi replicò, che una Restaurazione borbonica a Napoli avrebbe portato immediatamente il controcolpo d’una  commozione nel partito legittimista di Francia: al che io replicai così tassativamente, per quanto che egli volle, che io avessi esposte le mie idee in un memorandum ch’egli si sarebbe incaricato di presentare all’Imperatore ed al Ministro Drouyn de Lhuys.

Quel memorandum di 24 pagine a stampa fu da me scritto e fu stampato in una notte.

Il Cav. de Lamorandière ne portò moltissime copie a Parigi: ma da quel momento io non fui più interrogato, né seppi di lui cosa alcuna: mentre mi si riferiva, che s’intrigasse su larga scala pel Murati.

Il Papà Giuseppe salì in breve a tanta popolarità, che l’autorità politica decise di sbarazzarsene; ed i sequestri cominciarono a dimostrare il disegno del Fisco, che entrava nella persecuzione.

Così, la stampa officiosa o venduta mi cominciò ad assalire con le voci di borbonico-clericale, e ricordò la reazione da me compiuta nel 1860!: ma questa guerra pettegola non fece che più accreditarmi nel popolo, che incontrandomi per le vie mi salutava col motto «buon giorno, Papà Giuseppe!»

Insomma io assumeva, ogni giorno più, forme così popolari, per quanto che avvenuti i fatti d’Aspromonte, il governo, che allora ordinò l’arresto di molti deputati di sinistra, pose nella lista anche il mio nome!

Potei evitare il carcere miracolosamente, e sospesi il giornale per tutto il tempo dello stato d’assedio ordinato per i fatti d’Aspromonte; ne ripresi la pubblicazione a dì 1° Decembre del 1862.

Ma se prima d’Aspromonte si era tanto insevito col Papà Giuseppe, dopo quel dispiacevole episodio, esso era condannato a morire.

I sequestri si succedevano rapidamente, sicché nel n. 108 del 31 del detto Decembre, pubblicai un articolo dal titolo «Perdo la Pazienza!» e conchiusi così:

«Siate inesorabili, esclusivamente e senza ragionarci… coi MURATTÌSTI: io so quello che dico, e Dio mandi piuttosto un fulmine su Napoli ad incenerirla, anzi che l’onta, la vergogna, l’infamia d’un dominio francese... e peggio, d’un dominio di Casa Murati!!»

A dì 5 Gennaio del 1863 il Papà Giuseppe cessò dalle sue pubblicazioni.

E’ soverchio il ricordare, che dovetti cedere ad una violenza di piazza.

Cercai di risorgere sotto altro nome, e pubblicai il Machiavelli, ma dopo undici numeri la stessa violenza strozzò la nuova effemeride!

L’opinione pubblica ne fu commossa, e queste prime avvisaglie produssero in me il solenne criterio; cioè che le mie forze non fossero esaurite, e che io avessi meritato la benevolenza ed il suffragio della pubblica opinione.

Si pubblicava in quell’anno 1863 un giornale conservatore la «Settimana» abilmente redatto, e sostenuto da un nucleo di distinti gentiluomini conservatori napoletani; ma non incontrando alcuna popolarità, si pensò dai medesimi di metter fuori un giornale in gran formato che si chiamò «Il Napoli».

Direttore dello stesso era quello della Settimana, che cessò dalle sue pubblicazioni: la redazione fu assunta dalle più stimate penne di Napoli: era un buon periodico; molto serio, che ben condotto da persone, che se avessero avuto coraggio civile pari all’ingegno ed ai mezzi pecuniari di cui disponevano, avrebbe potuto vivere ancora!

Ma l’autorità politica, dopo pochi numeri, se ne sbarazzò con una violenza di piazza, come era avvenuto del Papà Giuseppe e del Machiavelli.

§ IV.
IL CONCILIATORE
Programma politico amministrativo — Sua fondazione a mie spese, unica mia redazione, sua indipendenza, sua avversione al Murat — Le Vesuviane — L'opuscolo «Ce qu’on pense à Naples» — Le Meridionali dedicate al Principe di Bismarck — Accettazione da parte dello stesso — Concetto della persecuzione religiosa — Mio viaggio a Berlino — L'Emperewr d’Allemagne et l'Europe — Miei criterii politici — Lettera di Adolfo Thiers.

Nel Giugno 1863 la persecuzione governativa avea talmente annientata fra noi la stampa conservatrice cattolica, per quanto che le sole province meridionali ne mancavano; mentre fioriva rispettata a Torino, a Firenze, a Milano, a Genova, ed a Modena!

Gli animi erano scoraggiati; erogare nuove somme di danaro per ritentare la prova d’un giornale conservatore parve impossibile a coloro, che aveano fondato il Napoli.

Ma la mia idea fissa era quella di riprendere la penna del pubblicista; e questa volta con il proposito di non cedere ad ogni costo alla lotta, che sarebbe rinata, per annientarmi.

Avea la coscienza di non essere un cospiratore; mi prefiggeva di non combattere le leggi dello Stato, ma di prevenirne gli errori, che sarebbero seguiti dalle proposte di nuove leggi; avea per me il diritto, che mi accorda lo Statuto nazionale e la libertà d’una discussione indipendente; ed osservando la marea della pubblica opinione pronunziarsi con più evidenza contro i crescenti sbagli dei sistemi governativi; meditai la pubblicazione d’un nuovo giornale.

Volendo conservare intera la mia indipendenza, appunto per non essere reputato organo d’un nucleo d’individui, che assumevano una figura politica; decisi di pubblicare il giornale, che intitolai IL CONCILIATORE, sotto la mia esclusiva direzione e responsabilità, e con il soccorso dei miei soli danari.

Affermo, che il Conciliatore non è stato fondato, che con i miei soli mezzi pecuniari, non ne chiesi, non ne volli, non ne ebbi da chicchessia, e sfido chiunque a smentirmi.

Affermo, che il Conciliatore è stato fondato per mia sola volontà; anzi quando ne feci confidenza ad autorevole persona, questa mi rispose sorridendo, che avrei perduto danaro, tempo e fatica!

Ho la coscienza di poter dire a fronte alta, e senza tema che altri mi smentisca, che ho fatto sempre da me solo, e che lottando solo contro la prepotenza dei partiti e del governo, a mia sola responsabilità, ho conseguito il premio solenne e sublime della fede e dell’affetto dei miei concittadini, la stessa considerazione dei miei avversari politici; sicché dopo 13 anni di questa lotta, posso con la coscienza tranquilla scrivere queste memorie, che turbano lo spirito delle maschere, le quali per 14 anni non ho perduto mai di vista, e che ho studiate con dissimulata perseveranza; appunto perché esse, sventura nazionale e dinastica prima del 1860, hanno l’audacia di perpetuare l'indegna mistificazione e reputarsi gli uomini dell’avvenire!

Quando pubblicai il Conciliatore, fu un dimandare: — chi vuol conciliare e che cosa vuol conciliare costui? — E sostenni lunghe ed animate polemiche con gli increduli e coi rivoluzionari.

Il mio programma era pure chiaro e nettamente formulato in due parole: — «conciliare i progresso col diritto».

Sfuggire il pericolo esiziale degli estremi, sempre pessimi in politica; tutelare i grandi interessi della nazione.

Ho lungamente esposto, e spero, con una lealtà evidente, l'attuazione di questo mio programma nel Capo IX di queste Memorie, ove ho trattato del governo italiano: esso è la sintesi di tredici anni di lotta con gli uomini del governo sul campo politico, religioso ed amministrativo.

Se io mi sia ingannato, rispondono i fatti, che ci sono sotto gli occhi; ma che io abbia ingannato il mio paese, nissuno potrà asserire.

Aggiungo a questo proposito, che giurai a me stesso una guerra ad oltranza al murattismo, che è stato il vero nemico interno dell’Italia meridionale; e che, lo dirò, ha costituito permanentemente contro di me un opposizione di quelle maschere, di cui testé ho fatto menzione, le quali hanno avuto sinanche l’audacia di attaccarmi sotto l’aspetto cattolico.

Avendo alzata la bandiera del progresso e del diritto contro l’errore e la violenza, dovea trovare nemici negli irreconciliabili, che ragionando a modo loro, non hanno creduto, né crederanno giammai a questa conciliazione, che pure DEVE ESSERE il RISULTATO FINALE del gran dramma europeo che si svolge dal 1852!

Non impaziente, né audace, io ho avuta ed ho la virtù dell’aspettare: ecco tutto.

Transigere col regresso sociale, comunque considerato, non mi sarà possibile; né mi preoccuperà la ciancia evirata ed ipocrita dei regressisti.

Il Conciliatore ha un periodo burrascoso sino al 1866, dalla quale epoca lo stesso governo comprese che era impossibile lottare contro un periodico, che — bene o male — tiene per sé il favore della pubblica opinione, e l’autenticità dei fatti, che vengono in aiuto delle sue lucubrazioni politiche ed amministrative.

Nel 1865 pubblicai un libro, che intitolai — Le Vesuviane — che dedicai a Re Vittorio Emanuele, ed in esse esposi lealmente i lamenti ed i bisogni di queste popolazioni.

Naturalmente, non potendo sequestrarsi la verità delle mie parole, che dirigeva al Sovrano stesso; coloro che se ne sentirono colpiti, crebbero la guerra, nella quale io era ferito finanziariamente a causa dei danni, che mi portavano i continui sequestri, che il Fisco m’infliggeva alla prima frase che gli sembrava ambigua, e che per solito definiva per voto tendente a rovesciare l’ordine costituito.

Le Vesuviane furono lette, e non solo in Italia, ma anche all’estero; e fu nel 1865, che mi giunsero da Parigi varie copie d’un opuscolo intitolato «Ce qu’on pense à Naples — Lettre d’un voyageur».

Questa lettera porta la data di Firenze 18 giugno 1865, e la firma François.

In essa lo scrittore ha la cortesia di parlare di me in modo lusinghiero, massime dopo la pubblicazione delle Vesuviane; e stimo, tra i tanti, riprodurre un sol brano dell’opuscolo francese, perché nel 1866, come dirò in seguito, divenne una prova criminale a mio carico!

Le plus habile, le plus spirituel et partant, le plus populaire de ces journaux, c’est le Conciliatore. Partout on le vend au coin des rues; le peuple est avide de cette petite feuille agressive, pleine de verve et de bon sens, qui fait une guerre sans quartier à la dictature Piémontaise.

Le jour ou l’on me fit connaître son rédacteur, Mr Cognetti, on venait de séquestrer son journal, je ne sais pour quelle incartade.

Mr Cognetti est un homme de beaucoup d’esprit, avec cette vivacité napolitaine si sympathique lorsqu’elle est unie à un noble caractère. En politique, il est avant tout Napolitani. Je le félicitai de sa mésaventure: «on devait bien, lui dis-je, une petite vengeance aux Lettres Vésuviennes, et ces messieurs ne savent guère répondre à leurs adversaires qu’en leur fermant la bouche.»

C’est qu’en effet il eut été malaisé de répondre à ces Lettres Vésuviennes, que Mr Cognetti avait d’abord publiées dans son journal, en les adressant au roi Victor-Emmanuel, et qu’ il avait ensuite réunies, sous la forme d’une brochure.

Peu de temps avant mon arrivée, elles avaient fait du bruit, dans Naples et l'on en parlait encore. Pour ma part, j’ étais heureux de dire à Mr Cognetti combien cette polémique franche et hardie m’ avait charmé:

«Je voudrais, monsieur, qu’ on lùt a Paris autant qu’à Naples votre excellente brochure. Moyennant ces quelques pages, on saurait enfin à quoi s’en tenir sur le royaume d’Italie, sur sa félicité et son avenir.

Il serait temps en effet, que le bon public français fut un peu éclairé sur cette grosse affaire: depuis plusieurs années, les journalistes abusent étrangement de sa crédulité.

Mais quand on vous a lu, il n’y a plus moyen de se tromper, et moi mème j’étais loin de connaître tout ce que vous racontez. Le roi Victor-Emmapuel a-t-il lu ces lettres que vous lui adressez?

J’en doute fort; la politique n’est pas son divertissement favori. Mais d’autres les auront lues, qui v auront pris un intérêt tres-vif et pour cause.»

Mr Cognetti me remercia de mes éloges, qui n’étaient point, je vous assure, des complimenta à la française.

C’est un habile publiciste que le rédacteur de la feuille napolitaine. Il n’a pas seulement l'esprit, la vivacité, l'entrain naturels à ses compatriotes, mais une expérience politique, un bon sens, une modération et une patriotisme que je souhaiterai à bien des journalistes parisiens.

Dans ses Lettres Vésuviennes il ne se présente en légitimiste: non, point de regrets vers le passé, point de récriminations injurieuses contre le présent.

C’est un ami de la liberté qui parie; un citoyen qui a accueilli la Révolution en 1860, parce qu’ elles lui semblait arriver les mains pleines de présents. Et maintenant qu’ il est détrompé, il s adresse avec beaucoup de respect au roi Victor-Emanuel, pour lui demander, comme on dit, quelques explications:

«Si vous ne nous écoutez pas, luì dit-il, et si vous ne nous rendez pas justice, nous implorerons l’appui de l’Europe. Car, enfin, Sire, lorsque vous êtes venu dans ce pays à la suite de la Révolution, si le peuple s’est jeté dans vos bras, c’ est que vous lui promettiez un gouvernement plus libéral, une administration plus régulière, en un mot le progrès qui lui avait jusqu’alors manqué. Qu’avez vous fait de ces promesses?»

......…M.r Cognetti me disait

Je cherche en vain quels seront, aux jours difficiles, les alliés de l’Italie. Ce ne sont pas, à coup sur, les puissances du Nord, pas mème celles qui ont reconnu le nouveau titre du roi de Piémont.

L’Angleterre a flatté Garibaldi, c’est vrai; mais la politique anglaise a deux faces: elle peut ressembler tour à tour à Mazzini ou à Castlereagh. Il nous reste le Portugal et la Turquie; belle ressource, en vérité

Je conseille au Roi d’Italie de ne compter que sur son courage et son armée.

Ce que me répétait là Mr Cognetti, il l'avait déjà dit franchement, dans ses lettres, au Roi Victor-Emmanuel.

J’admirais le bon sens de ses conjectures et de ses prévisions.

Lo scrittore di questa lettera non poteva meglio definire l’evidenza del mio programma politico ed amministrativo, non che le mie previsioni del 1865, che ebbero la loro perfetta autenticità nei fatti giganteschi, che datano dal 1870 sino ad oggi! Così scrivendo, io non affermo, ma dimostro i miei studi politici, e li dimostro non con i miei scritti soltanto, sibbene con quelli di valenti pubblicisti che onorarono del loro giudizio i miei poveri scritti.

Nel 1865 cominciarono a correre le voci d’una possibile guerra, che l’Italia, alleata alla Prussia, avrebbe avuta contro l'Austria. Io non perdeva di vista la politica astuta del Conte di Bismarck, che sin d’allora si preparava a costituire l’Impero germanico, sbarazzandosi dell’Austria; e previdi, che a raffermare la potenza prussiana era indispensabile la caduta del Bonaparte, la cui obbiettiva era la conquista delle frontiere renane.

Le condizioni politiche di Europa erano ancora abbandonate al dispotismo di Napoleone III, e Bismarck avea inaugurata la politica del diritto, proclamata da Guglielmo a Konigsberga!

Nel marzo dell’anno stesso 1865 pubblicai un secondo libro, che intitolai «Le Meridionali» — cioè ventiquattro lettere politiche, nelle quali esposi le condizioni fatte all’Europa dalla nuova politica del Bonaparte e di Lord Palmerston; e le svolsi storicamente e diplomaticamente, dimostrando la necessità di dare all’Europa la base di quel diritto, che si era tanto irresponsabilmente sconvolto; e ciò nell’interesse stesso della pace universale e della solidità delle Monarchie.

Dedicai questo libro al Conte di Bismarck.

Non sfuggiva ad occhio esperto il giuoco di Bismarck, che dovea espellere l’Austria dalla Germania prima di attaccare la Francia; ma se dopo Sèdan io sono stato accusato di non aver indovinato bastantemente bene questo insigne uomo di Stato; risponderò, che la stessa accusa debba essere rivolta a tutti i diplomatici, a tutti gli uomini politici, a tutti i Re, che furono da lui ingannati.

Non ignorava io certamente, che questo insigne uomo di Stato fomentava la rivoluzione in Francia a danno dell’Impero, che fu posto nella necessità di scegliere tra la rivoluzione e la guerra, come porto di salvezza; ma sono pur troppo storici ed officiali gli atti del Ministero Bismarck prima del 1870; atti di zelante devozione al Vaticano ed al Clero tedesco, che allenò le popolazioni alemanne a versare il loro sangue per una causa, che si chiamò tedesca, ma che dovea diventare prussiana!

I Vescovi di Germania, dopo Sèdan, e quando Guglielmo era ancora a Versailles, gli scrissero, felicitandolo della riportata vittoria, e gli raccomandarono il Santo Padre, che avea subita già la violenza di Porta Pia: anzi lo stesso Pio IX inviò un suo autografo al fortunato vincitore, ricordandogli la parola di sostenerlo contro la rivoluzione.

Guglielmo di Prussia rispose al Papa ed ai Vescovi di Germania con frasi benevole, il cui senso non potea essere sinistramente interpetrato.

Che se, creato Imperatore, egli il primo ha dovuto subire l’improvvisa ed imprevedibile politica del Principe di Bismarck, divenuto il persecutore della Chiesa, del Papato e del Clero; io non potea far diversamente da quello che fa tutta l’Europa conservatrice, cioè combatterlo a tutta oltranza sul terreno politico e religioso; e combatterlo sino a quando la sua onnipotenza sarà tramontata.

E qui mi si conceda di rivelare un fatto tutto mio personale, che ho tenuto nascosto sin dal 1867; e lo rivelo, perché nelle mutate condizioni dei tempi sono dispensato da quell’imprescindibile silenzio, che sinora era un dovere a fronte del Principe di Bismarck; mentre sono nella necessità di difendere la mia condotta politica, anzi la mia buona fede, che è giustificabile sino all’evidenza, quando ricordo, che l’officiosa Gazzetta della Germania del Nord, organo principale di Bismarck, pubblicò, tradotti in tedesco, non pochi miei articoli del Conciliatore, poco prima della guerra del 1870.

Come dissi testé, S. E. il Principe di Bismarck mi accordò l’onore di accettare la dedica, che io feci a lui del mio libro «Le Meridionali» e dopo che io uscii dal carcere —  come narrerò in seguito  — nel 17 marzo 1867 mi fu comunicato dal Consolato prussiano di Napoli il seguente documento, che trascrivo.

«Signore

«Ricevo dalla Real Legazione di Firenze la seguente lettera.

«A dì 27 marzo 1867.  

«Di riscontro al pregevole foglio dì VV. SS. in data 3 decembre p. p. prego di voler esprimere al Redattore del Giornale il Conciliatore sig. Cognetti in Napoli la riconoscenza da parte di S. E. il Ministro degli affari Esteri per la trasmessa raccolta dei scritti pubblicati nel suo giornale sulla politica del Governo Reale, nonché per le simpatie manifestate a prò della Prussia.

«VV. SS. avrà cura, acciocché non si faccia uso di questa mia comunicazione né nel Conciliatore, né in qualche altro giornale, per non comprometterci.

«Della quale mi reco a premura di dare a Lei conoscenza, pregando di volerla tenere riserbata.

«Profitto di questa occasione per esprimere a Lei i sensi della mia distinta stima — Napoli 17 Marzo 1867 — Il Regio Console. Stolte.

«Sig. Commendatore Salvatore Cognetti Giampaolo.»

Giova ripeterlo: pubblico questa lettera dopo sette anni, da che l’ho tenuta segreta, perché la sua pubblicazione oggi non può compromettere più S. E. il Principe di Bismarck, la cui politica ha delineata una figura tanto netta, da ridersi degli scrupoli dei suoi atti del 1867; ed il recente libro di S. E. il Generale La Marmora è tutta una rivelazione di quella politica astuta e machiavellica, alla quale sventuratamente fu preso il partito conservatore cattolico di tutta Europa.

Così dimostro autenticamente, che nelle mie polemiche politiche io non mi sono abbandonato ciecamente e passionatamente alle tendenze partigiane o personali; ma entrando nel campo del pubblicista, ho cercato sempre di studiare le condizioni generali della politica europea nelle fonti più alte ed autorevoli della stessa Diplomazia.

Ed è per questo, che io non ho potuto giammai essere colto in fallo, e le mie previsioni ricevono l’autenticità dei fatti che si compiono.

Aggiungo a questo proposito, che era tanta la fede che io riponeva nella politica conservatrice del Principe di Bismarck, per quanto che, dopo il 1870, quantunque convinto, che egli avesse consentita e garantita l'invasione di Roma, e che si fosse accontato col gabinetto Lanza Sella; pure mi parlava un dubbio, che quel terribile uomo di Stato non si proponesse di giuocare il governo italiano, servendosene come un mezzo per perseguitare la Chiesa ed il Clero cattolico tedesco, che gli si era ribellato, non appena indovinò le sue mire ambiziose annessioniste.

Chi volesse lealmente conoscere la vera ragione della persecuzione religiosa di Bismarck, s’ingannerebbe indicandola nel suo esclusivo odio alla religione; perché egli, a mio avviso, non è neppure ateo: è nullista nel vero senso della parola.

Il gran partito conservatore federale, tanto della Germania del Nord, quanto di quella del Sud, partito su cui è influente e dominante il Clero, si oppose alle prime tendenze annessioniste di Bismarck, mascherate dal motto di unità germanica.

Era la prussificazione di tutta la Germania lo scopo dell’audace uomo di Stato; era l’assorbimento degli Stati della Germania del Sud sotto lo scettro prussiano; lo scomparire della loro indipendenza, e quindi delle loro Sovranità in un momento in cui le grandi Potenze erano divise ed impotenti a venire in soccorso di quei piccoli Stati minacciati.

La reazione del gran partito conservatore cattolico, cui si unì il federale, urtò la suscettibilità di Bismarck, che dové dissimulare tutte le contrarietà incontrate nella sottoscrizione dei Sovrani del Sud germanico ai trattati di Bordeaux, ove fu creato, riconosciuto e proclamato nel Re di Prussia il titolo d’Imperatore di Germania.

Questa reazione tutta politica, venutagli dal Clero, determinò la persecuzione di Bismarck, il quale, a frangere radicalmente l’influenza e la potenza del Clero germanico nel governo e nelle popolazioni, dovea necessariamente abbatterne i diritti, e quindi la persecuzione, in sembianza tutta religiosa, in fondo è tutta politica.

Supponete per poco, che il Clero avesse ceduto alla politica assorbente di Bismarck, e che non si fosse dimostrato custode dell’indipendenza degli Stati germanici, attenendosi ai patti federali di Bordeaux; certamente il Clero non sarebbe stato perseguitato, né l’invasione di Roma avrebbe avuta in Bismarck un sostegno.

Così giudicando, mi venne vaghezza di accertarmi dei miei dubbi, e presi la risoluzione di recarmi a Berlino.

Compii questo viaggio nel 1871: e qui ho il dovere di chiudermi nella più severa riserva, non declinando i nomi , né rivelando i colloqui che ebbi a Berlino con eminenti personaggi politici; tanto devoti a Bismarck, quanto suoi avversari.

Quel mio viaggio non fu senza frutto per i miei studi; ed al mio ritorno in Italia pubblicai un libro, che scrissi in francese: «L’Empereur d’Allemagne et l’Europe» e che fu letto all’estero, più che in Italia.

In quel libro ho raccolte tutte le mie impressioni politiche di Berlino, e mi limito a riprodurre di esso un solo brano, che può essere tutta una rivelazione.

Lo traduco dal mio originale.

«Abbiamo udito in Germania difendere il grave errore del non intervento sotto il pretesto di non impegnare la nazione in una nuova guerra; ma nel tempo stesso ci è stato affermato, che se le Potenze cattoliche prendessero l'iniziativa in favore della Santa Sede, e venissero in Italia a far subire alla rivoluzione il castigo, che ha meritato, il gabinetto di Berlino non porrebbe ostacolo all'azione delle potenze cattoliche» ().

È vero, che nel 1871 il Principe di Bismarck credeva di poter tenere almeno per venti anni la Francia sotto il suo bastone; ma se è vero, che dopo 18 mesi egli vide quella gran Nazione risorgere temuta, prospera, ed obbligarlo a ritirarsi dal suo territorio; oggi per le mutate condizioni generali di Europa è innegabile, che la Prussia, supponendone il caso, non sagrificherebbe un’unghia per venire in aiuto dell’Italia!

Io non ho avuto alcuna difficoltà di affermare questi miei criterii a rispettabili personaggi politici d’Italia, al mio ritorno da Berlino; e perciò ho con leale soddisfazione veduto al potere il Ministero Minghetti, che non è certamente nelle grazie del Principe di Bismarck, la cui stella impallidisce a vista d’occhio.

Inviai una copia di questo mio libro all’illustre Adolfo Thiers, che mi onorò della seguente lettera, che traduco dal suo testo francese.

Potere esecutivo Repubblica francese Presidenza del Consiglio dei Ministri Versailles 20 Giugno 1871 Signore Capo del potere esecutivo della Repubblica francese, Presidente del Consiglio dei Ministri, ha ricevuto la copia, che vi siete compiaciuto rimettergli del vostro libro «L’Empereur d’Allemagne et l'Europe».

Egli m’incarica di parteciparvi i suoi ringraziamenti.

Gradite, Signore, l’assicurazione della mia distintissima considerazione.

B. S. Hilaire.

Questa lettera ebbe ed ha per me un valore politico relativo a quanto avea pubblicato in quel libro.


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§ 5.
Difesa del cattolicismo — L’obolo di S. Pietro — Il Santo Padre Pio IX mi riceve la prima volta  — La Petizione al Parlamento contro il progetto di legge sulla soppressione delle Corporazioni religiose — Cesare Cantù — L’associazione cattolica — Il Senatore Marchese Dragonetti —  Il Cardinale Arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforma — Il Nuovo Lutero —  Gli Iconoclasti ed il Barone Rodrigo Nolli — Padre Rocco.

Per la necessaria intelligenza di quanto narrerò in seguito, debbo insistere sulla zelante difesa da me sostenuta dei diritti inerenti alla Religione cattolica.

Quantunque laico, entrai con tutta la forza della fede in questo campo cosparso di triboli e di spine, ed ho resistito sempre, non solo all’invasione delle dottrine dell'ateismo, alla propaganda evangelica, alla guerra inesorabile dei settarii; ma ho data la prima spinta a quel movimento legale e legittimo di difesa, al quale non si azzardavano, per malintesa paura, anche i più convinti cattolici di Napoli.

Nissuno oserà negare, che io fossi stato il primo ad aprire in Napoli col Conciliatore la sottoscrizione per l’Obolo di S. Pietro, ed in pochi mesi raccolsi somme rilevanti, che portai personalmente al Santo Padre, cui presentai un ricco Album delle offerte.

Chi prima di me avesse osato tale sottoscrizione in Napoli, lo dica.

Conservo gelosamente un foglio, con la data del Marzo 1867, ove la Santità, di Pio IX, di suo pugno, mi scrisse queste parole, in piede d’un’offerta del danaro da me raccolto e presentatogli: «Dominus te benedicat et dirigat gressus tuos in viis tuis.»

Pros PP. IX.

Né questo è il solo autografo, che ho la ventura di conservare, perché a tutti quelli ricevuti da Pio IX ho data pubblicità nel Conciliatore, e ricorderò come il giorno più fausto della mia vita fu quello in cui ho potuto per la prima volta essere ammesso in udienza privata dal S. Padre, ai cui piedi genuflettendo, sentii il tocco sacrosanto della sua mano, che mi si poggiò sul capo, impartendomi l’Apostolica benedizione.

Sollevando gli occhi, m’incontrai nel viso sereno e raggiante d’augusta e divina dolcezza del venerando Pontefice, che spandeva su di me e sulla mia famiglia i tesori delle sue benedizioni, e mi sentii commosso sino alle lagrime.

Queste mie parole faranno sorridere gli atei ed i nemici del Vaticano; ma non sono stato io il solo, che ha inteso la gioia di tanta commozione: ben moltissimi uomini scettici e non cattolici furono colpiti dalla maestà imponente di Pio IX; e sfido i più forti di spirito ad accostarsi all’Augusto e Santo Vegliardo, e a non sentire quasi per forza irresistibile piegarsi le loro ginocchia.

Le parole del Sommo Pontefice mi resteranno impresse nella mente e nel cuore; ed io son rimasto e rimarrò in quella via del Signore, che la sua mano ha voluto con tanta longanimità additarmi.

Non verrò indicando tutte le quistioni religiose, nelle quali ho sostenuta una lotta ad oltranza contro i nemici della Chiesa e della religione: compendierò questa lotta nell’epiteto di clericale datomi dai rivoluzionari; qualifica, che io non intendo distinguere da quella di cattolico, della quale sono orgoglioso sotto tutti gli aspetti.

Se non che, i miei avversari politici non poterono mai perdonarmi lo zelo, che spiegai nel 186466 nella quistione che allora s’ agitava intorno alla soppressione delle Corporazioni religiose ed all’incameramento al Demanio dei beni ecclesiastici.

Credetti aggiungere alle mie parole il fatto eminente dell’opinione pubblica, e presentarla in una petizione al Parlamento: e non appena manifestai questo mio pensiero, immediatamente da tutti i Comuni dell’ex- reame delle due Sicilie mi pervennero le più calde petizioni, sottoscritte da quasi tutti i Vescovi, dal Clero, da Sindaci, da Consiglieri municipali e dalla più eletta classe della cittadinanza delle province napoletane.

Noto, che queste petizioni, redatte in carta da bollo, portavano le firme tutte autenticate da Notai locali; sicché non poteva elevarsi dubbio sulla loro autenticità: ed io ebbi cura di trasmetterle a Firenze, raccomandate, pregando l'illustre Cesare Cantù, allora deputato al Parlamento, di esibirle e farle valere, secondo giustizia.

Quelle firme raggiungevano il numero di circa ventiquattromila, era la petizione più sublime, più eloquente, dirò quasi un plebiscito solenne contro il minacciato progetto di legge.

A Cesare Cantù ed a me dovea imputarsi a colpa questa legale dimostrazione della pubblica coscienza, come narrerò in seguito: ed il Parlamento non si degnò neppure di accennare all’esibizione di quelle petizioni!

È inutile l’aggiungere, che la legge passò quasi a tamburo battente.

Fu nell’anno 1866 costituita a Bologna la Direzione centrale dell’Associazione cattolica italiana per la difesa della libertà della Chiesa in Italia.

L’egregio avvocato Fangarezzi di Bologna m’invitò ad essere organo di questa associazione nelle Province Meridionali, ed a cooperarmi, perché in Napoli si fosse costituita una Direzione succursale di detta associazione.

La propaganda evangelica e protestante si era così affermata tra noi con libri, con stampe, con scuole, con giornali, con clubs ed associazioni popolari di soccorso, per quanto che io consentii di buon cuore all’onorevole invito venutomi dall’associazione di Bologna: ma pure offrendo gratuitamente il mio giornale alla pubblicazione degli atti della Società ed a quelle polemiche richieste dall’indole della stessa, protestai, che non mi sarei arbitrato mai di farla da fondatore di un’Associazione Succursale in Napoli; e che bisognava far capo dall’Eminentissimo Cardinale Sisto Diario Sforza nostro Arcivescovo, la cui suprema direzione in fatti religiosi io ebbi ed avrò sempre in ossequiosa onoranza.

E così fu fatto.

Mi decisi a limitarmi alle funzioni di semplice organo di questa associazione benemerita; anche perché l'illustre Marchese Luigi Dragonetti, Senatore del Regno, uomo rispettabile ed in gran fama presso il mondo politico e letterario, uni la sua alla mia opera nell’affermare lo scopo santissimo di questa associazione contro i conati dell’eresia e dello scisma.

Aggiungerò che l’onorevole Commendatore Vigliani —  oggi Ministro Guardasigilli — allora Prefetto in Napoli, riconobbe come legale ed approvò la costituzione di questa associazione cattolica, che nei suoi statuti, nei suoi programmi, nella sua azione non avea menomamente uno scopo politico, né poteva averlo.

Conservo i preziosi autografi del Marchese Dragonetti e del Fangarezzi, entrambi defunti.

Mi giova notare queste circostanze officiali ed autentiche sull’associazione cattolica, per richiamarle in un capitolo seguente a mia piena giustificazione.

Tutto ciò avveniva nel Febbraio 1866, pochi mesi prima della guerra contro l’Austria.

Accennerò di volo, che la propaganda evangelica avea sparso a migliaia di copie il brutto opuscolo del famoso Cayla, un ateo protetto dal Bonaparte; avente per titolo Il nuovo Papa.

Opposi a questo empio libello una mia risposta, che stampai nell’opuscolo col titolo «Il nuovo Lutero» — ed ebbi la ventura di vedere derisa quella sfacciata iniquità, che ci giungeva dalla Francia.

Da ultimo mi toccò venire ad aspra lotta con gli Iconoclasti, che si erano insediati al Municipio sotto il Sindacato del Barone Rodrigo Nolli, che nobilissimo per natali, educato nei santi principi di nostra religione, era caduto nelle unghie della Massoneria napoletana, che fece di lui un’istrumento autorevole della sua rabbia contro il cattolicismo.

Nei tempi antichissimi, vivea in Napoli il celebre Domenicano Padre Rocco, amato ed idolatrato dal popolo.

Quell’intelligente frate, per rischiarare le strade di Napoli, che di notte tempo erano lasciate in piena oscurità e servivano di agguato ai ladri ed agli assassini; si adoperò, che i proprietari delle case, all’angolo di ciascuna di queste, avessero collocato il quadro della Vergine SS. o di un Santo, cui aveano devozione speciale; tenendovi accesa la lampada votiva!

Il buon Domenicano fu plaudito dal popolo, e così le strade della città furono di notte illuminate a spese dei cittadini.

Queste sacre Immagini e queste lampadi, divenute tradizionali, mantenute da secoli, di generazione in generazione, di proprietario in proprietario, erano ancora lì nel 1863!!! — Ed il nostro popolo accendeva la lampada e scopriva il capo passando innanzi a quelle Immagini Sacre, che erano una pagina incancellabile della sua storia!

Ebbene, il Municipio iconoclasta del Barone Nolli ordinò la distruzione completa di quelle Immagini Sacre!!!

Il popolo si commosse, ed a frenarne lo sdegno valse moltissimo la voce dei Parrochi, che accolsero nelle Chiese quei quadri tradizionali.

Anche oggi, il nostro popolano, passando innanzi le case, dove ricorda che un tempo esisteva il Quadro della Madonna, cava il suo beretto salutando, nel suo pensiero, l'Effigie Sacra di là tolta, e come se esistesse ancora!

Ciò solo basti per dimostrare sino a qual punto giunga il sentimento cattolico delle popolazioni dell’Italia meridionale, e più specialmente della nostra Napoli.

CAPO XI

LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE E POLITICHE
Censurabile astensione nelle elezioni amministrative — Né eletti né elettori nelle elezioni politiche — Cesare Cantù — La stampa cattolica mi assale — Mie convinzioni personali — Il giuramento politico — Il pessimismo — La diplomazia — L’Opuscolo «Gli Astensionisti nel 1870» — Oggi bisogna uscire dall’astensione — Ragioni di questa condotta.

Ecco un campo dove io ho avuta aspra ed ingrata battaglia esclusivamente dai conservatori cattolici!

Dirò in questo capitolo quanto basta intorno alla lotta dei principi; dirò il resto a suo luogo in quanto alla lotta personale.

Io ho sostenuto sempre, che in quanto ad elezioni amministrative fosse dovere dei conservatori cattolici di essere elettori ed eletti, imperocché trattandosi d’interessi puramente locali, tutti amministrativi e fuori l’orbita della politica, non si doveano mai abbandonare alle mani dei partiti rivoluzionari, che avrebbero manomesso non solo gli interessi finanziari della nostra città; ma quelli eziandio relativi alla religione ed all’istruzione pubblica.

Sventuratamente, dal 1860 al 1872, anche riconoscendo l’urgenza di questi doveri, il partito conservatore cattolico si perde d’animo di fronte alla guerra del partito moderato e del democratico, i quali si riversarono sull’urne amministrative e s’infeudarono il Consiglio Municipale ed il provinciale; dilaniandosi a vicenda per afferrare questo potere locale, e dilaniando in conseguenza i gravi interessi di questa Città splendidissima, in modo, che nel 1872, quando per la prima volta i conservatori accedettero e trionfarono nel Consiglio municipale, trovarono un campo già devastato, ove oggi — a parlar vero — essi si aggirano tuttavia indecisi e quasi impauriti; certamente giudicati al di sotto della fede e dell’opinione, che loro si attribuiva.

L’astensione nelle elezioni amministrative è stato un grande errore dei conservatori, e del quale essi sono responsabili a fronte del nostro popolo: né per quanto vogliano giustificarla con proibizioni segrete, con le pressioni governative e con le violenze di piazza, potranno mai far perdonare alla loro paurosa accidia, dalla quale non è stato mai possibile trarli; anche mettendo loro innanzi agli occhi il male che faceano alla patria, abbandonandola ad un’amministrazione interessata e rivoluzionaria.

Certo è, che l’azienda del Comune di Napoli, un tempo ricchissima, oggi è sull’orlo del precipizio; né si vede modo ancóra di salvarla e di restaurarla.

Vengo alle elezioni politiche.

Se ho una colpa a fronte delle stesse, è stata quella di essere stato buon soldato, perché mi son battuto, contro potenti uomini politici, che con argomenti solidissimi inculcavano ai conservatori di andare alle urne politiche; mentre io spiegai sin dal 1865 il vessillo, su cui scrissi il motto non eletti non elettori».

Nell’Italia superiore fu terribile il grido di riprovazione, che la stampa cattolica alzò contro l’astensione da me raccomandata; tanto più, che si conosceva l’influenza della mia parola nelle province meridionali, e l’importanza del contingente, che queste avrebbero dato al Parlamento.

L’illustre Cesare Cantù mi diede aspra battaglia, e confesso che le ragioni addotte da tanto personaggio producevano un fascino sulla mia mente!

Ma io — lo ripeto — dovea restar buon soldato, e sostenere ad ogni costo la tesi contraria «non eletti non elettori».

E vinsi!!!

L’astensione, sono già quattordici anni, si mantiene ancora su tutta la linea nelle file degli elettori cattolici e conservatori.

Eppure, io era convinto, che il non andare al Parlamento fosse un male per i grandi interessi del paese e della religione: e la prova ufficiale ed apodittica di questo vero esiste nelle attuali condizioni amministrative, finanziarie e religiose d’Italia, come sorgono dagli atti governativi e parlamentari.

Se i conservatori cattolici avessero inteso tutto il coraggio del loro diritto, e si fossero decisi fermamente a tener fronte ad ogni costo alla reazione inesorabile dei partiti di piazza e dello stesso governo, certissimamente avrebbero finito col trionfare alle urne politiche.

Le tante leggi sovversive della pubblica prosperità, della buona ed indipendente amministrazione, dei diritti inviolabili, che tutelano la Chiesa, il Clero ed i luoghi pii, non sarebbero state votate in fretta e furia; quasi rabidamente e per preconcetta avversione politica.

Senza dubbio, anche votate quelle leggi, non avrebbero potuto sfuggire il controllo d’una vigilanza severa, e tale da non rendere irresponsabili gli amministratori, che son divenuti i comunisti delle sostanze dello Stato.

Si credè, che dal male dovesse nascere il bene; ma il fatto ha provato, che dal male sia nato il pessimo, e non serve farsi illusioni.

Parve ostacolo insuperabile quello del giuramento a prestarsi dal deputato, che entrando nel Parlamento dovea giurare fede ed ossequio a leggi avverse alla Chiesa e ad un governo nemico della religione; e quando questo ostacolo si volle rimuovere col sillogismo della coscienza, e che suol dirsi peccato filosofico, le coscienze ne rimasero conturbate; ed aspettarono indarno una spiegazione autorevole ecclesiastica, che sino al 1870 ebbe molte e diverse interpetrazioni, le quali finirono conia divisione degli animi, che credettero, nel dubbio, meglio acconciarsi con l’astensione.

Se la voce della stampa conservatrice, essa sola, avesse potuto influire sulle deliberazioni della Camera; nessun conservatore sarebbe andato alla stessa in qualità di deputato, bastandogli di combatterne gli atti con la voce potente della pubblica opinione: ma il fatto vero è, che il Parlamento ha fatto quel che ha voluto, ridendosi della stampa conservatrice.

Questi mali io vedea senza dubbio; ma era così universale la convinzione, che a lungo andare la cangrena avrebbe roso il governo italiano; per quanto che anche il pensiero d’arrestarla, potea essere imputato a colpa d’un voltafaccia politico! Il pessimismo in politica io l’ammetto, come mezzo di guerra; ma bisogna valutare anche gli elementi cui si ricorre.

E stato detto talvolta, che per strategia politica si dovea spingere la votazione per i repubblicani, che andando alla Camera, avrebbero compromesso le sorti stesse del Reame!

Falsa illusione, che non ho voluto giammai adottare; perché il governo ha dato mani libere ai deputati democratici, quando si son proposte e votate leggi contrarie alla Chiesa; ed abbiamo veduto costantemente, salvo rarissime eccezioni, i più ardenti democratici diventare più Consorti dei moderati!

Si è tentato Aspromonte, e si è fatto Mentana: i democratici si son messi in prima riga ed hanno sfoderata la sciabola; ma non si è voluto vedere chi fosse alle loro spalle; e sempre son caduti da martiri al cospetto dell’opinione pubblica, completamente mistificata!

Quante volte non si è sperato, che la Diplomazia avesse potuto interessarsi delle misere ed anormali condizioni d’Italia? — Ebbene, di disillusione in disillusione, dal 1860 siamo caduti nel 1866 e nel 1870.

La Diplomazia ci ha guardati con occhio cinico ed indifferente; temendo quasi di prendere una iniziativa.

Quando nei circoli conservatori ho fatto riflettere a queste mie ragioni per poter uscire dall’astensione, ho dovuto subitamente cedere alla forza d’un partito preso per la formola «non eletti non elettori».

Era il caso di ripetere il celebre motto: Video meliora proboque, deteriora sequor.

Della candidatura al Parlamento nazionale si è voluto fare esclusivamente una quistione politica, e si è a questa sacrificata la quistione amministrativa: è stata una buona condotta? Si è fatto il bene del popolo?

Nel 1870, quando si rifecero le elezioni politiche, vidi la necessità di doversi uscire dall’astensione, e pubblicai il mio opuscolo «Gli astensionisti nel 1870».

Era a me noto, ciò che generalmente ignorava in Italia; cioè che la rivoluzione avea in pronto la invasione di Roma., e che per giungere a questo scopo, si sbarazzava del Ministero Menabrea.

Il nuovo Ministero Lanza, tanto nel Parlamento, quanto nel Senato, avea nettamente dichiarato per bocca del Ministro Visconti-Venosta, che l’invasione di Roma non sarebbe stata consumata neppure da popoli barbari; e che violandosi così il diritto delle genti, si sarebbe compromessa l’unità stessa della nazione; ma poi invase Roma a mano armata! Ricordo le parole ufficiali di quel Ministro.

Se quelle parole illusero i conservatori e i cattolici, non m’illusi io, che conosceva esattamente, che la spedizione di Roma era stata già decisa; che il Ministro Sella, chiamato in Parlamento a smentire la voce attribuitagli di voler andare a Roma, si tenne sulle generali; e che, di accordo con la Prussia, si aspettava il primo rovescio dell’armi francesi per compiere l’epopea del Settembre.

E però mi parve allora, che fosse dovere dei cattolici di correre, eletti ed elettori, alle urne politiche per trovarsi pronti ad opporsi alla spedizione di Roma.

Se oggi rendo con selvaggia lealtà le mie idee intorno all’elezioni politiche contro lo stesso mio programma né eletti né elettori, sinora mantenuto; lo fo per dimostrare sino a qual punto io senta il dovere della disciplina, e batto su queste parole, perché dovrò ricordarle tra non molto.

Oggi siamo prossimi alle nuove elezioni politiche: che cosa debbono fare i conservatori cattolici?

A suo tempo e col mezzo del mio giornale dirò ampiamente ciò che ne penso: qui non farò che. accennare il mio avviso; salvo a subordinarlo agli eventi impreveduti o imprevedibili.

Giudico, che oggi l’astensione non abbia più una giustificazione nella ragion politica, come io non la vidi mai.

Ho sostenuto e sostengo, che il disfare l’Italia non possa essere opera dei partiti più alla stessa avversi; i quali, a volerli riputare davvero esistenti, sono sicuramente impotenti; perché per quattordici anni non hanno osato neppure di affermarsi e di mostrarsi capaci all’azione.

Se ne togli l’eccezione del giornalismo, è bastato al governo, nei momenti supremi, sanzionare una legge eccezionale, per essere sicuro, che le guardie di Polizia ed i Carabinieri fossero sufficienti ad ispirare terrore in otto milioni di cittadini, ed a tenerli più che tranquilli.

E lo so io!!!

Andare o non andare alla Camera, sotto l’aspetto politico, non importa fare o disfare l’Italia; e se questa deve restare, qual è, o ritornare ad altra forma, è faccenda perfettamente estranea ai partiti interni.

È il compito della Diplomazia!

Ci si dirà: ma voi andando alla Camera riconoscete il governo, e vi unite a lui negli atti contrari alla Chiesa.

Vi concedo, che un cittadino non voglia riconoscere lo stato attuale di cose nel segreto del suo cuore: ma quando l’esattore delle tasse viene a chiedervi i balzelli; quando siete chiamati a far da giurati; quando accettate di essere Consiglieri municipali e provinciali; quando siete chiamati alla leva militare; quando avete bisogno di ricorrere in giustizia per la tutela dei vostri diritti; quando chiedete riparazione contro i soprusi altrui, e vi appellate al Questore o al Prefetto; quando insomma volete esercitare o siete costretti ad esercitare i diritti ed i doveri di cittadino, vi sfido a negare, che riconoscete l’esistenza imperante del governo italiano!

Sarà una contrarietà dell’anima; ma il fatto è questo, e voi non penserete alle barricate per disfarvi del governo.

Adunque questa opposizione non regge menomamente.

Resta la parte religiosa e quella amministrativa.

Ebbene; la guerra stolta compiutasi contro la Religione e contro la Santa Sede sarebbe giunta alle presenti jatture, se i conservatori cattolici fossero andati al Parlamento?

Le piaghe profonde, da cui siamo tormentati amministrativamente e finanziariamente, le avremmo oggi sul corpo, se fossimo in stretta falange entrati nel Parlamento contro coloro, che ci hanno percossi?

Io spero di essere compreso in alti luoghi, parlando a questo modo; perché più volte mi è toccato udire dalla bocca di importanti personaggi politici, esteri, queste solenni parole — «voi dite benissimo, ma la vostra stampa non basta: come volete che all’estero si prendano politicamente in considerazione le vostre querele, se non avete neppure il coraggio di farle valere — alme no come protesta — in Parlamento, ove è rappresentata la nazione?»

E non v’era che rispondere; perché se i conservatori cattolici credono salvati i loro diritti ed il loro onore, protestando con la penna al cospetto della pubblica opinione; protesta più autorevole, e certamente più valida in politica, sarebbe stata quella, che si fosse udita nel Parlamento nazionale.

In fatti veggiamo nel Parlamento prussiano, eletti, intervenire i più dotti ecclesiastici dell’Alsazia e della Lorena; e colà il governo è odiato dai cittadini dell’Alsazia-Lorena. ed è il persecutore terribile del cattolicismo.

Oggi ci si potrà obbiettare, che le condizioni politiche e diplomatiche di Europa tendano a dimostrarsi avverse alla rivoluzione; e che perciò si può aspettare ancora.

L’obbiezione non sarebbe degna d’una mente politica: perché appunto in questi momenti, a ritenerli per supremi, i conservatori cattolici dovrebbero sentire, (tirò quasi, il dovere di essere al posto eminente, dove i destini della patria si compirebbero col loro intervento.

Abbandonare questi destini al capriccio degli eventi e della rivoluzione, che non ha scrupoli, sarebbe molto fa tale; e più che un errore, una colpa. Ed ho sinora guardata l’astensione sempre sotto l’aspetto politico.

Ma se dicessi ai conservatori cattolici, che spinti, come siamo, all’apice delle miserie, bisogna alla fine destarsi da questo letargo per salvare le proprie sostanze, il pane dei propri figli da questo comunismo fiscale; che cosa potrebbero essi oppormi?

Forse che bisogna — inutile olocausto ad un’aspirazione politica — rassegnarsi alla miseria, e lasciare che i nostri eterni padroni manomettano a loro libito le nostre sostanze?

Questa rassegnazione è stata portata oramai all’apice dell’eroismo; né si può misurare un interesse universale alla stregua della ricchezza dei pochi, i quali perciò possono rimanere nell’inerzia più egoista; e limitandosi a deplorare la fame e la miseria del popolo, digerire il lauto pranzo quotidiano su d’una soffice poltrona, soppannata di velluto; dondolandosi in un ricco cocchio tirato da generosi cavalli inglesi, il cui mantenimento basterebbe a satollare quattro famiglie del popolo: e confortando l’animo oppresso da un platonico legittimismo in splendide feste da ballo ed in simili svaghi di alto lusso!

Ripeto, che a suo tempo manifesterò anche più ampiamente le mie idee su questo tema delle elezioni, il quale sarà tra pochi mesi discusso: e mi auguro che l’uscire dall’astensione si riconosca dovere di onesto cittadino e di leale cattolico; massime oggi che i grandi interessi finanziari, politici e religiosi d’Italia sono sotto lo sguardo severo della diplomazia.


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CAPO XII

I MURATTISTI DOPO IL 1860
§ I.
Illusioni di Napoleone III sulle simpatie napoletane per Murat e sull’influenza dell'aristocrazia murattista — Cristofaro Saliceti — Sua origine — Regicida — Scende in Italia ed opprime la Santa Sede — Ministro di Giuseppe Napoleone — Suo terrorismo — Il Principe di Torella — La figlia di Saliceti sposa il Duca di Lavello — Attentato alla vita di quel mostro — Sue vendette — È Ministro di Gioacchino Murat — Muore avvelenato. Casa Torella dopo la restaurazione — Sua opposizione ai Borboni — Sir Tempie e Sir Gladstone — Le lettere di Gladstone e loro valore politico — L opposizione Torelli dal 1860 in poi: sua indole.

Nel Capo VII di questo libro ho voluto narrare le aspirazioni dei murattisti, precedenti alla rivoluzione del 1860, e ripeto, che mi prefìssi una guerra a tutta oltranza a queste serpi, entrando nel campo del pubblicista.

Pubblicando il Conciliatore, mi tenni anche più fermo a questa parte del mio programma, come avea già fatto col Papà Giuseppe.

Era innegabile che Napoleone III fosse stato grandemente mistificato, perché egli era quasi persuaso, che le popolazioni dell’ex-reame delle due Sicilie avrebbero volentieri plaudito alla Restaurazione dei Murat.

Egli ricordava il decennio, nel quale l’Aristocrazia, quasi tutta, avea a bandiera spiegata sostenuto il trono di Gioacchino Murat; e vivea, o almeno lo si facea vivere, nella falsa illusione, cioè che l’aristocrazia napoletana del 1860 fosse tuttora influente sulle masse e conservasse la stessa fede politica!

Napoleone III ignorava, che dopo il decennio, restaurati i Borboni, l’aristocrazia napoletana perdè, sotto la sferza terribile dell’indifferenza della corona, ogni influenza nella Corte, nel governo e nelle popolazioni.

Bisogna riconoscere ai Borboni di Napoli questa gloria innegabile e storica; cioè che essi si collocarono costantemente in mezzo al popolo, ed isolarono l’aristocrazia, dopo averla completamente annullata nei vecchi suoi privilegi.

Farò di qui a poco la diagnosi dell’aristocrazia napoletana qual’era nel 1860, e qual è oggi; ma dirò, che essa, ad onta delle varie gradazioni di colore politico, generalmente è legittimista.

Che se Napoleone III sperava di riuscire alla restaurazione murattista in Napoli, confidando anche nel suo imperio su Torino, era ignobilmente ingannato, perché tra un Murat e Francesco II, queste popolazioni avrebbero optato per il Re legittimo, anzi che per il figlio o per il nipote dell’usurpatore.

Eppure Napoleone III non ha mai desistito dal tenere vivo il fuoco sacro del murattismo in Napoli.

Ora, per comprendere tutta l’importanza di questo delirio, è utile che i napoletani risalgano alla prima storia, alla sementa del murattismo, che lasciò le sue radici in Napoli.

Cristofaro Saliceti era un farmacista di Bastia o d’Ajaccio (non ricordo precisamente) in Corsica, e fu uno di quei grandi e famosi arnesi della rivoluzione dell’89.

Egli, naturalmente, fu mandato Deputato all’Assemblea costituente, e fu uno dei membri più influenti nella stessa.

Per eterna prova del suo patriottismo, si narra, aver egli letto alla sventurata Maria Antonietta Regina di Francia la sentenza iniqua, che la condannava alla morte!

Da questa sementa, piantata a Napoli, poteano nascere gigli borbonici?

Nel 1796 questo Saliceti ed un Garrau scesero in Italia, Commissari del governo repubblicano francese presso il Generale Bonaparte, che in quel tempo infestava le nostre contrade.

Questo Saliceti insultò bassamente la Santità del Sommo Pontefice Pio VI, imponendogli taglie di guerra sino a 21 milioni, e spogliando Roma di 500 codici antichi, di 100 quadri di grandi artisti, di busti, di vasi, di statue... un saccheggio insomma: e pretendeva di avere un tribunale a Roma per giudicare le cause dei suoi connazionali.

Lo stesso Bonaparte, mal sofferendo l’esosa e truce indole di questo ostrogoto del 92, ne scrisse al Direttorio, che gli conferì nuovi poteri per sottrarlo a quella brutta dittatura.

Il Saliceti ricomparisce in Italia e viene Ministro di Polizia, sotto il Regno del carnefice dei napoletani, Giuseppe Napoleone.

Bisogna non essere istruito nei primi rudimenti della storia, bisogna non essere napoletano per ignorare l’esecrato potere di quel mostro, che inventando cospirazioni contro Re Giuseppe, ed emulando e sorpassando lo stesso Fouché, fece morire col laccio sulle forche il Marchese Palmieri, il figlio del Duca di Frammarino ed altri; mentre nelle Calabrie, narra il Colletta, si giustiziava con gli orrori della tortura.

In Monteleone fu inchiodato al muro un infelice e fatto morire lapidato: in Lagonegro un altro sventurato morì conficcato su di un palo con barbarie ottomana!

Il vecchio Principe di Torella, che odiando i Borboni, si diede alla rivoluzione nel 1799 e fu mandato alla Favignana, consentì che il Duca di Lavello, suo figliuolo, Giuseppe, togliesse in moglie la figliuola del Saliceti, del Regicida farmacista di Bastia!!!

Era tale il terrore e l’odio che quest’uomo ispirava nelle popolazioni, per quanto che si cospirò a disfarsene: ed infatti in un sottoscala del Palazzo Serracapriola, ove egli dimorava con la figlia di fresco maritata, fu posto un barile di polvere, cui fu appiccato fuoco.

Lo scoppio avvenne nella notte del Gennaio 1807: ben ventidue stanze rovinarono.

Il Saliceti, che dormiva in un altro braccio dell’edilizio, sentì scuotere le mura, come da tremuoto: la figlia incinta ed il Duca di Lavello furono trovati sulle macerie cadute nel cortile, lievemente feriti; e furono salvi col fortunato Ministro, che scampò miracolosamente dalla morte.

Tralascio dal ricordare quale aspra ed insaziata vendetta rodesse il cuore di quella jena, che si abbandonò ad una libidine di persecuzione, che colorò con le solite cospirazioni politiche.

Il nobile e ricco Luigi La Giorgia, torturato, morì in prigione; chiusi in orrende carceri il Capitano generale Pignatelli, il Principe Ruffo Spinoso, il Maresciallo di campo Micheroux, i Conti Bartolazzi e Gaetani: e non furono risparmiate le Donne patrizie, come Luisa dei Medici e Matilde Calvez; e preti e frati in gran numero, e il Vescovo di Sessa Monsignor De Felice.

Quel maniaco trovava congiure negli stessi chiostri, e si videro monache professe, strappate dalle inviolabili celle, sedere coll’abito religioso in pubblico giudizio sulla panca dei rei!!!

Istigatore di queste nefande torture era Napoleone I, Imperatore dei francesi: il quale, richiamato da Napoli il fratello Giuseppe, cui donò la corona di Spagna, e creato Re di Napoli Gioacchino Murat, volle che presso di costui restasse Ministro il Saliceti.

È fama, che lo stesso Gioacchino, che era il primo sorvegliato dall’odiato Ministro, convinto di tenere nel medesimo chi lo facesse esoso presso le popolazioni, e non potendo licenziarlo dal governo, avesse procurato di sbarazzarsene.

Comunque sia, nel 22 Decembre del 1807 il Saliceti pranzò a casa del Prefetto Maghella, e preso da improvvisa e violenta colica, spirò tra i più atroci dolori nella stessa notte.

Vuoisi, che fosse stato avvelenato in un carciofo.

Restaurati i Borboni, il Duca di Lavello, Giuseppe, divenuto per la morte del padre, Principe di Torella, fece subito adesione al restaurato governo; ma a giusta ragione egli si aggirò, non curato, nelle sale di quella Reggia, di cui era stato evidente nemico.

In conseguenza il salone di lui diventò un centro di  opposizione politica permanente; e nel 1848 Ferdinando II, per condotta politica, lo chiamò al Ministero, come ho già narrato, e lo adibì astutamente alla reazione del 15 Maggio; compiuta la quale, lo ritirò, accordandogli l'Ordine di S. Gennaro.

Il Principe di Torella fu profondamente dispiaciuto di questa politica di Re Ferdinando; il suo salone ridiventò il ritrovo di tutti i malcontenti, e poco dopo egli morì repentinamente per aneurisma.

La vecchia Principessa di Torella, figliuola del Saliceti, oggi defunta, non amò certamente i Borboni, che dovea odiare per quel sentimento istintivo del sangue paterno, e per la memoria incancellabile del disastro del palazzo Serracapriola, già attribuito ad un mandato di Maria Carolina.

Era Ministro inglese a Napoli Sir William Temple, fratello di Lord Palmerston, nemico personale di Ferdinando II; e Sir Tempie era il più costante commensale di Casa Torella: e quando nel 1852 si recò in Napoli Sir Gladstone per spiare e riferire, esso non vide il Re, non i Ministri, ma fu presentato immediatamente da Sir Temple in Casa Torella.

Sir Gladstone non vide in Napoli, che molti occulti cospiratori ed il signor La Caita, che gli portava da parte del Barone Poerio e degli altri detenuti politici di quel tempo tutte le assurde informazioni, che costituirono le troppo fatali lettere, che, al suo ritorno a Londra, egli indirizzò al Conte Aberdeen nel 1851.

Queste lettere definirono il governo di Ferdinando II per la negazione di Dio eretta a sistema di governo.

Egli è vero, che il Times reclamò contro le stesse; e che Gladstone, per non essere stretto a dare prove delle sue asserzioni, si stemperò con le solite frasi dell’odo dire, del si dice, del come m’han detto, del so da fonte rispettabile, del son convinto come mi fu detto, ed espressioni simili, che rivelano tutto il partegianesimo delle referende fattegli; ma la rivoluzione avea bisogno d’un fatto eclatante e l'ebbe.

Quanti hanno letto quelle lettere?

Nell’ex- reame, anche oggi, pochissimi son coloro che le hanno lette.

Bastava che i giornali avessero fatto diventare di moda il motto di negazione di Dio il resto era soverchio.

Allorquando Lord Aberdeen fu istruito del come Sir Gladstone avesse scritte quelle lettere, ne fu indignato, si confessò ingannato, e ne rigettò la solidalità con una pubblica dichiarazione.

Nel 1852 lo stesso Gladstone si disdisse in molte cose, dichiarò di essere stato in alcune abbindolato; e nel 1863, dopo il ritorno che Lord Lennox fece da un viaggio a Napoli, richiamato da costui nel Parlamento su quelle lettere, finì col rivelare la fonte partigiana, da cui avea attinte quelle informazioni.

Credo di non fare alcun torto al vivente Principe di Torella, figliuolo dell’estinto Giuseppe, giudicando non borbonici i suoi principi politici; e quali questi fossero —  poiché io li ignoro — sono sempre rispettabili, quando sieno lealmente professati.

Né egli nella sua lealtà ha fatto mai un mistero di questi suoi indefinibili principii, estendendoli sino a Cardo VII, che ora si batte in Spagna, e che per lui può essere, se non un gran Chiavone, un Garibaldi ripulito!

Nel 15 Maggio 1860 tanto il Principe, quanto l’on. suo fratello Marchese di Bella, attuale Ministro plenipotenziario d’Italia a Pietroburgo, furono arrestati da quel gran semplicione di Ministro che fu l’Ajossa, il quale si accorgeva così tardi, che la Casa del Principe di Torella non fosse tra le fedelissime alla Dinastia! Infatti non appena Francesco II cadde nelle spine d’un Ministero Spinelli-Torella, vi lasciò la corona.

Mi sembra udire una voce che in linguaggio diplomatico ripeta «Nous favons fait glisser doucementi!!»

Non ho pensato né penso, che il Principe di Torella abbia avuto anche la menoma velleità di cospirare per Murat; perché rispetto in lui un intelligenza superiore in fatto di scienze archeologiche ed ecclesiastiche, ed in svaghi teatrali; ma non gli farei il torto di reputarlo un uomo politico, che voglia cospirare; anzi dirò che non sappia farlo.

Nella sua alta situazione sociale, ricco di beni di fortuna, può benissimo pensarla come vuole dei Borboni, dei Bonaparte e dello stesso governo italiano; e fare di se stesso e del suo salone la sintesi eccentrica di tutte le opposizioni inqualificabili, indeterminate, vacillanti; un pandemonio di legittimismo, che censura l’unità italiana ed il bonapartismo; accanto all’unitario, che mette in ridicolo i clericali ed i legittimisti; ed al murattista, che rimpiange i momenti perduti del 1862!

Il gran segreto della Casa Torella sta nell’essere splendida, e nell’attirare per magnetismo di balli e di pranzi le notabilità forastiere, che giungono in Napoli, e gran parte dell’aristocrazia, che non ama poi di morire per troppo lagrimare sulla caduta Dinastia.

E però il salone Torella simpatizza con i più schietti avversarii politici: e chi non sa, come talvolta il personaggio politico più importante sia il cuoco?

In fisica si ha questo sperimento: ponete ad una ruota tanti raggi di diversi colori, e giratela rapidamente; avrete subito per risultato il colore bianco!

Certo è, che il Principe di Torella, astutamente ne profitta, e credendosi un Deus ex-machinaJ è superbo di dominare tutta questa babilonia politica, che accorre, s’incrocia, si confonde nelle sue nobili sale; ed è giusto che in cuor suo ambisca di influenzare anche l’aristocrazia legittimista pura., ed affezionarsela per quel benedetto chi sa, intorno al quale vorrò dire a suo luogo una parola.

Egli fa benissimo e merita considerazione, perché è l’unico salone dove l’opposizione si fa con coraggio contro tutto e contro tutti; sì che talvolta l’illustre Principe egli stesso non sa che cosa più gli piaccia in questo gran banchetto politico europeo; e gli avviene di rimpiangere morti o assurdi i Borboni, che il giorno innanzi vide quasi nelle Reggie di Napoli, di Parigi e di Madrid sul falso allarme d’un telegramma della Agenzia Stefani!!!


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§ 2.
Un tentativo di Plebiscito murattista — Buffoni e Dumas — La stampa francese — Il ferriere italiano di Parigi — Personaggi imperiali bonapartisti e politici in Napoli — L’Osservatore Cattolico di Milano — L’Unità Cattolica di Torino — Rattazzi, Clarendon e Sartiges — Mia opposizione costante, e l’odio che ne raccolsi.

Nel 1862 girava per Napoli e per le nostre province, una carta che portava in fronte il cavallo sfrenato di Napoli, in rosso, ed il bollo a secco Murat: e su quel foglio bisognava fare atto di adesione.... per un Plebiscito!

Ricordo qui che sin da quando Garibaldi era nel 1860 sotto le mura di Capua, capitò in Napoli un certo Lizabe-Ruffoni, segretario di Luciano Murat; fu diretto al signor Alessandro Dumas, che avea stanza nell’ex-reale palazzo (oggi locanda!) del Chiatamone, e fu presentato a Liborio Romano.

Tra i tre cospiratori non si potè andare di accordo, ed il giornale l’Indipendente, fondato da Dumas, ne scrisse delle così grosse, per quanto che l’incauto segretario dové tornare con le pive nel sacco a riferire al suo padrone, che Napoli non ne volea sapere dei Murat.

Non mancai di tenere in guardia i napoletani contro quei mestatori (), che dispensavano a firma di Luciano Murat, proprio lui, un proclama che era stato stampato a Livorno.

Si parlava di Comitati murattisti in Napoli e di Sezioni nelle Province; ma i gufi si tennero bene nascosti per non compromettersi.

Contemporaneamente, il Bonaparte facea giuocare l’opinione pubblica dalla stampa francese, ed il Mèmorial diplomatique ne ebbe il maggiore incarico, pubblicando e commentando nel 1864 un opuscolo «Italie telle qu’elle est».

Questo opuscolo, nettamente censurava l’annessione di Napoli al Piemonte, metteva in moda una frase «tutto fuorché i piemontesi» — dimostrava l’assurdità d’una restaurazione di Francesco II, e chiaramente rilevava le simpatie napoletane per i Murat.

A questo insidioso scritto risposi largamente ed acremente (), in modo che coloro, che ne aveano già pronta la diffusione, se ne astennero.

In quello stesso mese ed anno, si pubblicò a Parigi un giornale in idioma italiano, col titolo «Il Corriere Italiano» — Era murattista nelle ossa, e pretendeva di rappresentare in Francia l’opinione murattista dei napoletani — Contro questo giornale spiegai tale e tanta guerra, per quanto che giunsi sino a provocare un fatto personale (): e così esso non ebbe fortuna, come sperava, in Napoli; e morì, dopo breve tempo, ignorato e consunto.

Il Principe Napoleone, il Duca di Montebello, Chevalier e Persigny fecero la loro escursione; io ne denunziai coraggiosamente al paese la presenza, le intenzioni, e ricordo che fui duramente trattato dal Fisco per un articolo all’indirizzo di Persigny.

Nel Giugno 1864 i giornali del partito governativo annunziarono l’arrivo del Principe Napoleone e della Principessa Clotilde, ai quali si sarebbe unito il giovane Gioacchino Murat; sparsero le voci d’un matrimonio tra Anna Murat ed il Duca d’Aosta; e se ne rallegravano, come d’un grande avvenimento.

Non mancai, come sempre, di dare il grido d’allarme, e lo feci col N. 172 del 22 Giugno; preparando la pubblica opinione a non lasciarsi mistificare.

Questo numero fu sequestrato dal Fisco: ma quei Principi non vennero a Napoli!

 Mi giova rilevare a questo proposito, che nelle mie polemiche contro il murattismo io feriva sempre direttamente la politica delle Tuileries; e poiché la mia opposizione era tutta nell’interesse della nazionalità italiana, così era impossibile impedirmela.

Certo è, che l’Osservatore Cattolico di Milano nel suo N° 150 del 1864 scrivea così: Non meno gravi sono le notizie di Napoli, dove con «altrettanta attività lavorano Agenti murattini. Mi si narra, che in un convegno presso una delle più aristocratiche famiglie napoletane si trovassero raccolti influenti borbonici, autonomisti e murattiani, e siasi fissato un accordo per provocare disordini e tumulti; salvo poi al più abile dei partiti a raccoglierne i frutti. Il delenda Carthago, su cui tutti sarebbero d’accordo e convenuti, sarebbe l’unità italiana. Ciò che mi sorprese, e che perciò vi do con la massima riserva, è che mi si dice presieduta dall’onesto, benché autonomico, e distinto ingegno, il Barone...»

Sopprimo le iniziali di questo nome.

L’Unità Cattolica di Torino, nel suo N° 221 di quell’anno pubblicò una sua corrispondenza da Parigi, ove si parlava della cospirazione murattista in Napoli, e rivelò, che Palmerston, cui nulla era ignoto, avesse detto; «che l'Inghilterra non si moverebbe a favorire una restaurazione borbonica, se non nel caso che si scoprissero i maneggi napoleonici per mettere sul trono di Napoli un Murat o un Bonaparte: essa soffrirebbe piuttosto vedere Re di Napoli il diavolo, che un Bonaparte».

Sino al 1868 Napoleone III lavorò zelantemente; e si disse, che lo stesso Comm. Urbano Rattazzi, che avea dato luogo alla tragedia di Mentana, non fosse estraneo alle idee fisse imperiali.

Certo è, che allora piombarono a Napoli Sir Clarendon ed il Conte di Sartiges, due anime dannate di Napoleone III; ma entrambi poterono toccare con le loro mani la decisa avversione dei napoletani ad una restaurazione murattista; e si convinsero della nullità della creduta influenza di qualche famiglia aristocratica, che si riteneva alle Tuileries per il Deus ex-machina nelle due Sicilie!

A questi, che furono gli ultimi visitatori murattisti, non mancai di dire la mia parola col N° del 4 Febbraio 1868, che non fu sequestrato!

Conchiudo questo capitolo con affermare, che ho la coscienza di avere compiuta con coraggio e con perseveranza una campagna contro la cospirazione murattista, affrontando le ire del Fisco e disprezzando l’odio di qualche salone aristocratico.

Ire ed odio, che non tardarono a manifestarsi in modo così evidente, per quanto che mi avrebbero distrutto, se non avessi avuto e non avessi per me l’affetto e la stima delle popolazioni napoletane, ed il coraggio di dire a viso scoperto ai nemici della patria; — voi siete morti sotto l’inesorabile e supremo verdetto dei vostri concittadini!

CAPO XIII

IL MIO PROCESSO POLITICO
§ 1
Voci di guerra contro l'Austria — Mie preoccupazioni — Il Marchese Gualterio Prefetto di Napoli — Il questore Indelli — Mie risoluzioni —  Sono arrestato e condotto in Que stura — Le quattro perquisizioni domiciliari — Le prigioni di Castel Capuano e loro condizioni igieniche — La prigione n. 27 — Come vi fui trattato.

Sin dal mese di Aprile 1866, a misura che la guerra contro l’Austria diventava un fatto imminente, si rendevano più insistenti le voci della necessità di leggi eccezionali per tenere guardato il paese dalla reazione interna.

Mi avvidi, che si entrava in un periodo algido di persecuzione contro i conservatori ed i cattolici: ed i dardi avvelenati, che al mio indirizzo erano quasi ogni giorno lanciati dalla stampa officiosa, mi persuasero che una tempesta si annuvolava sul mio capo.

Era Prefetto di Napoli in quell’anno l’or defunto Marchese Gualterio, una notabilità politica nella rivoluzione del 1860: e quantunque perfetto gentiluomo, pure suscettibile sino all’esagerazione, e quindi facile ad essere mistificato.

Egli era da pochi giorni succeduto all’on. Comm. Vigliani, e trovò al posto di Questore il sig. Luigi Indelli, che per un inqualificabile antipatia verso di me fu il fabbro di quella mia non lieve sventura.

Presi la risoluzione di sospendere per tutto il tempo della guerra la pubblicazione del Conciliatore; e poiché mi era stato riferito, che io fossi stato dipinto al Prefetto come il più influente capo della reazione borbonica: cosi mi recai personalmente dal Prefetto e gli manifestai non solo quella risoluzione, ma gli dimandai il passaporto per la Francia.

Pareva a me di dare in questo modo la più larga soddisfazione ai miei avversari politici, e di togliere dall’animo dell’autorità politica il menomo dubbio, che io potessi essere causa di disordini e di rivolture.

Il passaporto mi fu promesso: ma invece, verso le 4 a. m. del giorno 16 Maggio l’Ispettore Manzi, seguito da guardie di Questura e da Carabinieri, si presentò alla porta della mia abitazione; m’intimò l’arresto e procedé ad una perquisizione domiciliare.

Non mi curai di domandare al Manzi l’esibizione del mandato della Procura generale, in forza del quale io era arrestato!

Non mi fermerò nel descrivere la poca urbanità della Polizia, che fece entrare le Guardie sino nelle Camere più interne del mio appartamento, ed ove in quell’ora dormivano le donne, che naturalmente si svegliarono all'annunzio di quell’ingrata visita: fo di questo un cenno di volo, per un paragone, che mi corse alla mente tra l’Ispettore Manzi ed il famoso Commissario borbonico Campagna.

L’uno valea l’altro.

Compiuta la perquisizione, che fu lunga e minuziosa, fui tradotto in Questura, e detenuto in una stanza separata.

Verso l’una p. m. di quello stesso giorno, un altro Delegato di Questura m’intimò di seguirlo in mia casa, ove fu eseguita una seconda perquisizione.

Una terza perquisizione ebbe luogo nell’Ufficio di Direzione del Conciliatore.

Una quarta perquisizione fu espletata, nel giorno diciassette, in mia casa, senza il mio intervento ed in presenza dei soli miei domestici!!!

Erano tre giorni, da che era arrestato, ignorando la causa del mio arresto, quando seppi per mezzo dei giornali, che io era accusato di cospirazione contro la Sicurezza interna dello Stato, e dell’aver eccitato i soldati alla diserzione!!!  

La macchina montata contro di me per distruggermi era dunque terribile, ed io che avea la coscienza profonda della mia innocenza, ebbi la prova di ciò che possa l’arbitrio partigiano all’ombra d’un governo liberale.

Nel giorno 25 fui mandato alle Carceri della Vicaria o Castel Capuano.

Non descriverò quei lunghi e bassi corridoi, che danno l’aspetto di sotterranei; quei meandri tortuosi e stretti; pregni d’umidità e d’un fetore, che mi parve di sepoltura.

Fui condotto nella stanza N° 41.

Il puzzo nauseante era l’atmosfera di quella tomba, ove penetrava poca luce per una finestra munita di due ordini di grossi cancelli e d’una gelosia di legname: il pavimento era formato da pietre dei pubblici selciati, e su di esso era attaccato un piccolo fango formato dalle immondizie lasciate dai detenuti.

Dopo pochi minuti, mi tolsero da quella bolgia, e mi condussero in un altra stanza segnata col N° 27.

Lunga 23 palmi e mezzo per undici e mezzo, non è una stanza, è un bugigattolo: il suolo è di... asfalto! In un angolo, su di un tripode di legno, è posta una botte, che contiene l’acqua per tutti gli usi del carcerato: accanto alla stessa un’altra botte a forma di cono, coperta di catrame, detta nel gergo carcerario vigliola, era il cesso comune!

In quella muda erano collocati, col mio, sette letti!!!

I miei compagni di prigione erano condannati per furti, per grassazioni e per omicidio!

L’on. Gladstone nel 1852 non trovò il Barone Poerio trattato nel modo stesso; e spero che non voglia mentire.

Io, presunto colpevole di reato politico, fui gittato in mezzo a condannati per reati comuni, ed obbligato a tutte quelle umilianti e rigide convenienze disciplinari, che spesso rivoltano la stessa pazienza di malfattori plebei, fatti alla vita  del carcere!

Le carceri di Castel Capuano riboccavano talmente di detenuti, in grazia delle famose retate poliziesche autorizzate dalla legge Crispi, per quanto che non bastando le camere destinate a prigioni, erano occupati ad uso di carcere, gli stessi corridoi!

Eravamo nel Giugno, ed il Cholera avea cominciato ad invadere Napoli.

I sette letti della mia stanza erano attaccati l’uno all'altro siffattamente, che non v’era spazio che li dividesse, e nella doppia fila non restava, che un breve spazio intermedio, tanto da mutare una decina di passi.

L’avvicinarsi della notte era il mio Calvario.

Il numero delle persone, i loro aliti, la peste di quel cesso, le esalazioni di una grossa lucerna ad olio, e l’obbligo di tener chiusa la finestra... tutto ciò sviluppava tale una mefiti, che mi rompeva il fiato.

Io dimandava un poco d’aria, come l’assetato dimanda un sorso d’acqua: ricorreva all’etere canforato, quando emetteva il respiro; ma l’abuso che ne feci, mi scosse i nervi della testa.

In una di quelle notti, per non poter fare altro, accostai la bocca alla feritoia praticata nella porta, e per la quale i guardiani vengono a spiare i detenuti.

Dio mio! — un poco d’aria!! ed affrettava il sorgere del sole con il profondarmi nella lettura dei libri, che mi furono permessi.

Nelle ore del mattino e pomeridiane mi era concesso il passeggiare fuori la stanza per mezz’ora.

Tutti i carcerati escono, divisi in numero progressivo di stanze, per una sola mezz’ora al giorno, a passeggiare.

Questo passeggio si fa nel cortile interno (lo chiamano il vaglio) del carcere: un vero pozzo, il cui pavimento è di volta alla cloaca della Vicaria!

Lascio considerare ai miei lettori quali esalazioni si sviluppino da quella fogna.

Sicché nella mezz’ora del mio passeggio io non osava scendere nel vaglio, e mi limitava a percorrere ripetute volte, turandomi il naso col moccichino, che avea cura di profumare, un corridoio pensile, o loggiato, donde si accede alle stanze carcerarie.

Avveniva spessissimo, che la mia mezz’ora ricadeva, sia di mattina, sia di giorno, nel momento in cui dagl’inservienti, che chiamano quartiglieri si eseguiva nelle stanze, il ripulimento delle vigliole. In quei momenti la Vicaria è qualche cosa, che vince la bolgia di Dante; e la penna rifugge, per naturale ribrezzo, dal descriverla.

Certo è, che al vedere quella fila di schifosi utensili, scoperti ed esalanti una peste, a cui non può resistere stomaco, forte che sia, io fuggiva nella mia stanza, e mi avvicinava alla finestra in cerca di miglior aria; come per cercar aria la notte, metteva la bocca alla feritoia della porta!

§ II.
L’interrogatorio — Le mie risposte — L’Incidente Cesare Cantù al Parlamento — Le lettere di Cantù, del Duca Proto di Maddaloni, e di Monsignor Nardi — Mia innocenza proclamata in Camera di Consiglio — Sono condotto ammanettalo nelle Carceri di S. Francesco, ove resto a disposizione dell’Autorità politica sino alla pace di Praga — I rapporti del Questore Indelli e loro morale.

Ecco come io fui trattato nel 1866; e dirò che nelle Carceri di S. Francesco erano detenuti ben moltissimi prevenuti di reato politico, i quali erano tenuti con altra considerazione; ma io dovetti subire tutte le torture, che potevano essermi inflitte dai miei nemici politici, a capo dei quali erasi posto lo stesso Questore Indelli.

È notevole, che mentre la legge prescrive, che dopo 24 ore dall’arresto, l’imputato deve essere interrogato, erano passati sedici giorni, ed io aspettava indarno di essere chiamato dal Giudice Istruttore.

Inutile l’aggiungere, che in quei sedici giorni mi fu interdetto assolutamente di vedere la desolata mia famiglia; e due lettere che io scrissi alla stessa, e che consegnai aperte al custode, giunsero al loro destino sette giorni dopo!

A dì 6 Giugno fui condotto alla presenza del Giudice Istruttore, un tale Sig. Gabbia.

Ecco i capi d’accusa formulati contro di me, e che appresi dalle seguenti dimande.

1.° Quali rapporti avevate voi, prima del 1860 (!!!) con la Casa Borbone? (sic)

2.° Quali rapporti avevate voi con il Conte d’Aquila, dopo il 1860; e quale fu il mandato, che aveste da LUI, che affidandovi una forte somma (!!!) vi spinse a suscitare una REAZIONE nella provincia di BARI?

3.° Date le spiegazioni sulla lettera del Cantù deh 2 Maggio 1866.

4.° Spiegateci l’altra lettera del Cantù; quelle del Duca Proto di Maddaloni e di Monsignor Nardi.

5.° Quali erano i vostri fini politici nella così detta Associazione Cattolica, che dovea fondarsi in Napoli, e di cui eravate istrumento?

6.° Che cosa è quell’opuscolo «Ce qu’on pense à Naples»?

7.° Dite se conoscete un tale Antonio Ambrosini, sergente: e se è vero, che voi lo eccitaste a disertare dall’armata.

Al solo udire quelle dimande, il mio animo, da tanti giorni oppresso dal dubbio e dall’ignoto, si slargò sotto la luce dell’innocenza: i miei denunzianti, per quanto feroci, altrettanto ignoranti, mi davano vasto campo a smentirli e combatterli: e fortunatamente i documenti repertati, che mi furono presentati, venivano in aiuto della franca, pronta, leale ed evidente sincerità delle mie risposte.

Ed accennerò alle stesse, poiché da quello che ho nei precedenti capitoli narrato, è agevole ora ad ognuno il comprenderle.

Sulla prima — Nissuna relazione ebbi prima e dopo il 1860 con la Real Casa di Napoli: prima del 1860 fui tenuto d’occhio dalla Polizia, come liberale, dopo il 1860 mi trovai definito per borbonico!

Sulla seconda — Rivelai il breve colloquio, l’unico, passato tra me e S. A. il Conte d’Aquila — Narrai minutamente la mia missione nelle Calabrie, non in provincia di Bari, datami dal Consiglio dei Ministri e non dal Conte D’Aquila; circostanziai lo scopo liberale, non reazionario, di quella missione; chiesi che fosse dimostrato qual somma ingente e da chi mi fosse stata affidata: chiamai a testimoni il Comm. Spinelli e lo stesso Don Liborio Romano.

Sulla terza e quarta — Deposi, che volendo, durante la guerra, sospendere le pubblicazioni del Conciliatore; per non soffrire una grave perdita nei miei interessi, avea pensato di pubblicare un giornale serotino, esclusivamente notiziario, da rimettersi agli associati al mio giornale; e siccome avea bisogno d’un corrispondente bene informato ed onesto, così ne avea fatto preghiera all’illustre Cesare Cantù, la cui risposta era stata repertata, e deponeva della verità dei miei detti.

E qui un breve episodio.

Cesare Cantù, questa illustrazione storica e letteraria d’Italia, innanzi al quale s’inchina il mondo scientifico, allora era Deputato al Parlamento italiano, e difese coraggiosamente i diritti della Chiesa contro il progetto di legge sulla soppressione dei Monasteri e sull’incameramento al Demanio dei beni ecclesiastici.

Come sopra ho narrato, fu al Cantù, che io avea rimesse le petizioni delle popolazioni dell’Italia meridionale contro questo progetto di legge.

Di qui l’odio dei rivoluzionari contro questo nobile ingegno, ed il proposito di sbarazzarsene alla prima occasione.

Le lettere dal medesimo a me dirette furono interpetrate secondo la logica dei settari, e si ritennero per prova di ciò, che Cantù fosse un austriacante, cospiratore contro il governo, e mio complice!

Questa rabbia settaria giunse a tanta mostruosità, che mentre io era gittato in una prigione, e commesso ad una segreta istruzione, quelle stesse lettere, che erano una pagina gelosa e segreta della processura, erano rivelate in Parlamento; sino al punto che un deputato, l’on. Sebastiani, formulò contro di Cantù una mozione nella quale era orribilmente dipinto il mio nome.

Si mirava ad un doppio scopo: a quello di far espellere Cantù dalla Camera, e di costituire un precedente parlamentare, che avesse influito sull’animo del magistrato in Napoli, per tradurmi alle Assisie e mettermi sotto la condanna di dieci anni di ferri!!!

Il Parlamento si occupò largamente di questa mozione nelle tornate del 21 e 22 Maggio, quando fu udito il Deputato Cesare Cantù; e debbo dichiarare, che tanto l’on. Chiaves (allora Ministro dell’Interno), quanto gli on. Valerio e Conte Giuseppe Ricciardi, indignati da questa condotta ignobile, che aggravava la condizione d’un individuo, che era nelle mani della giustizia, confutarono l’assurda ed illegale mozione del Sebastiani, e la Camera la respinse a gran maggioranza, passandola all’ordine del giorno.

Che cosa ne pensa il sig. Gladstone di questa moralità settaria in fatto di processure politiche?

Io documento quello che scrivo.

Certo è, che tanto le mie lettere, quanto quelle del Cantù furono pubblicate; e l’opinione pubblica, così ignobilmente mistificata, potè giudicare della persecuzione iniqua, cui io era fatto segno.

Credo inutile riprodurle.

In quanto alle lettere scrittemi dall’onorevolissimo Duca Proto di Maddaloni e dal Reverendissimo Monsignor Nardi, le stesse si aggiravano esclusivamente intorno all’Associazione cattolica, che si dovea fondare in Napoli; né contenevano la benché menoma allusione politica.

Sulla quinta — Queste due lettere si ponevano innanzi, perché si volea ad ogni costo trovare in quell’associazione uno scopo politico; sicché, quando io narrai all’Istruttore la parte brevissima da me rappresentata su di un progetto di fondazione di detta associazione, come dipendenza da quella di Bologna; e che io avea agito in uno scopo strettamente cattolico e col consenso dell’autorità politica; era impossibile il trovare un addentellato di cospirazione in questo fatto, come nei precedenti.

Rimane sempre vero, che i su enunciati documenti, che doveano restare un segreto, uscirono. dalla Questura di Napoli e furono in parte resi pubblici per la stampa rivoluzionaria, che fece i suoi famosi commenti, e furono denunziati in Parlamento nel 22 Maggio, mentre io subiva l’interrogatorio a 6 Giugno!

Sulla sesta — Ho testé narrato che cosa fosse l’opuscolo «Ce qu’on pense a Naples»  — : ripetei, che quel lusinghiero elogio venutomi dall’estero intorno ad un libro «Le Vesuviane» da me dedicato a Re Vittorio Emanuele, era un argomento di più a mio favore, ed uno sprone al ben fare per uomini di governo, che amministravano tanto censurabilmente.

Sulla settima — Non sporcherò il mio libro col ripetere ciò che mi occorse dire intorno al sergente, che mi denunciò di averlo io consigliato a disertare la bandiera nazionale!

Come il mio interrogatorio fu portato nella Camera di Consiglio per decidersi sul da fare, quei magistrati nella loro indipendenza avvisarono di non esservi luogo a procedimento penale e disposero che io fossi rimesso in libertà!

Ma nel Giugno la guerra ferveva ancora; e la Questura avea talmente preoccupato l’animo del Prefetto Marchese Gualterio, per quanto che io, che avea subito il carcere preventivo, come presunto colpevole, anche quando il verdetto del magistrato mi avea dichiarato innocente, non potei ricuperare la mia libertà, cui avea diritto.

Dalle Carceri di Castel Capuano, ammanettato come un omicida, fui dai Carabinieri condotto nelle carceri di S. Francesco; e fo notare che quando mi ammanettarono, io era stato già assoluto in Camera di Consiglio!

So che il Marchese Gualterio, cui fu riferita questa bassa e vigliacca sevizia, ne fu indignato egli pel primo: ma ciò non toglie, che fosse stata consumata.

Rimasi prigioniero, a disposizione dell’Autorità politica, per tutto il tempo della guerra, e fui rilasciato libero in Agosto, dopo che fu sottoscritto il trattato di Praga!

Come complemento a questa pagina dolorosa della mia vita, vorrei riprodurre i rapporti, che quel Questore bidelli scrisse contro di me, ed in forza di cui venni arrestato e processato: ma mi limiterò a dire, che quei rapporti, dopo quel che ho narrato, e che è autentico, sono documenti che valgono a dimostrare tutta la morale e la giustizia del Sig. Indelli; che mi calunniavava così bassamente; per quanto che da una più che zelante istruzione e dagli stessi documenti repertati non solo non risultò provata una sola di quelle impudenti calunnie; ma risultò per contrario la mia completa innocenza.


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§ 3.
Danni derivati al Conciliatore — Gli associati allo stesso arrestati per la Legge Crispi — Episodio di Mentana — Sono nuovamente arrestato — Corro a Firenze, ottengo giustizia dal Marchese Gualterio, allora Ministro.

Le conseguenze di questo episodio della mia vita politica furono terribili sotto il rapporto delle mie finanze.

Quando fui restituito alla libertà, seppi; che in virtù della legge Crispi erano stati arrestati, come sospetti di reazione, tutti coloro, che nelle Province erano associati al Conciliatore!!! Sicché quando io ripresi la pubblicazione di questo mio giornale, mi fu respinto da quasi tutti gli associati, che spaventati dal carcere, ed ancora dominati da quel terrore, non osavano riprenderne, la lettura.

Lo scopo dei miei implacabili nemici era quello di rovinarmi completamente e di distruggermi nella vita civile: e se non erano sicuri di vedermi condannato a dieci anni di ferri, erano sicurissimi di veder spento irremisibilmente questo Conciliatore, che avea loro date così grandi insonnie, e che a loro dispetto avea conquistato l’amore, la stima ed il credito delle popolazioni dell’Italia meridionale.

Compresi il triste proposito: ma avea giurato a me stesso di non cedere a qualunque costo innanzi a questa violenza rivoluzionaria, e profondendo, con gravissima ed irreparabile perdita, nuovi capitali per sostenere la pubblicazione del Conciliatore, aspettai che i tempi si rabbonissero; e che il periodo eccezionale di violenza cessando, mi fosse più agevole di scuotere dalla paura gli animi dei miei concittadini, e di vederli ritornati alla lettura del perseguitato giornale.

Perseverando in questo proposito, vidi poco a poco riscaldarsi nelle province il desiderio di riprendere le interrotte associazioni; si ebbe cura d’inventare nomi supposti, temendo sempre l’occhio della Polizia: alcuni giunsero ad ottenere, che qualche Sindaco avesse dato il suo nome per sfuggire ogni ombra di sospetto politico!

Dichiaro lealmente, che dopo il 1866 il governo non mi ha perduto mai di vista; ma convinto della prepotente ed ingiusta persecuzione, cui era stato fatto segno; e giudicando dalla popolarità, che io godo nelle popolazioni dell’Italia meridionale, dell’inutilità e forse della nissuna prudenza politica di più torturarmi; non ha appesantita la mano sui miei scritti, quantunque il Fisco li avesse in seguito colpiti con tutto rigore.

E chiuderò questo capitolo con ricordare, che nel 1867, quando fu compiuto quel triste episodio di Mentana, il Questore Duca di Caccavone ebbe la poco felice idea di voler ripetere l’edizione del 1866, e mi fece arrestare dopo una perquisizione domiciliare.

Il Duca di Caccavone volle con questo inaspettato rigore costringermi a sospendere la pubblicazione del Conciliatore, ma mi rimise immediatamente in libertà.

Se non che, partii per Firenze nel giorno stesso, e vi giunsi nella sera, in cui alla stazione di quella ferrovia era aspettato Garibaldi, vinto a Mentana; e che si facea credere arrestato dal governo.

Il Marchese Gualterio era Ministro per gli Interni; lo vidi a notte avanzata e gli esposi il sopruso, cui era stato fatto segno.

Egli se ne mostrò vivamente dispiaciuto, chiamò immediatamente il suo Segretario particolare per essere informato dell’affare; dopo di che mi soggiunse: — ella può tornare a Napoli e riprendere immediatamente la pubblicazione del giornale, perché i miei ordini in questo senso alla Questura precederanno il suo arrivo: le raccomando solo di non essere provocante nella sua polemica politica.

E così fu fatto: non serve aggiungere, che quest’altro incidente portò un nuovo danno su quelli del 1866 nelle condizioni finanziarie del Conciliatore.

CAPO XIV

A ROMA
§ 1°
La pubblica opinione — Roma — Pio IX — Monsignor Nardi — Francesco li — La Camarilla dei Sanfedisti —  La loro avversione ai miei principi politico-religiosi —

Come riacquistai la libertà, tutti i giornali di Napoli, d’ogni gradazione politica, mi si mostrarono cortesi; anche quelli che più aveano contro di me battagliato.

Grande e lusinghiero conforto mi venne dalla stampa conservatrice dell’alta Italia e da quella estera — Ricordo con profondo sentimento di gratitudine la testimonianza della pubblica opinione venutami dalle Province meridionali, e posso affermare, che quella così ingiusta persecuzione valse a consolidarmi maggiormente nell’affetto e nella stima dei miei concittadini.

I vermi aveano roso la scorza del pino; ma questo rimase sempre virido, e se il suo capo piega al soffio dell’aquilone, lo rialza immediatamente ed accetta nuove sfide.

Verso il Febbraio del 1867 volli compiere un viaggio in Italia — il primo che imprendeva  — ; e cominciai dal visitare Roma, la Città Santa!

Come altrove ho detto, fui ricevuto in udienza privata dalla Santità del Sommo Pontefice Pio IX, che con la dolcezza angelica della sua parola, che resterà sempre scolpita nel mio cuore, afforzò il mio zelo nel difendere i diritti di nostra religione.

Conobbi l’emerito e dotto Monsignor Nardi, quest’incubo perenne dei rivoluzionari; e mi felicitai seco lui dell’aver veduto il mio nome congiunto al suo in così solenne circostanza politica.

Naturalmente, chiesi ed ottenni l’onore di essere ricevuto da S. M. il Re Francesco II.

Ripeto, che nel 1867 per la prima volta avvicinai l’esule Sovrano — Dirò tra poco quali sieno le impressioni che sul mio cuore lascia profondamente questa gran vittima della Camarilla dei Sanfedisti, e della rivoluzione del 1860!

A Roma brulicavano quei lividi e schifosi serpentelli della detta Camarilla; volli studiarli affacciandomi nei loro covi, e così mi venne fatto di udire; che essi, informati del mio arrivo a Roma e delle affettuose accoglienze trovate al Vaticano ed al Farnese, erano Contrariati orribilmente!

Narro cosa, che parrà incredibile, ma che dimostrerò autenticamente nel seguente capitolo!

Quei serpentelli, a capo dei quali era il famoso Murena, che ha scritto versi latini in lode di Ferdinando II, di Francesco II, di Pio IX e da ultimo in lode di Re Vittorio Emanuele, quando si determinò a dimandare al governo italiano la liquidazione della sua pensione, che gli parve più positiva della fedeltà, quei serpentelli, diceva, avrebbero meglio amato di compiangermi e di additare il governo italiano all’esecrazione universale, purché mi avesse.... condannato ai ferri!

Si sarebbe detto, che condannandomi, il governo italiano avrebbe reso un gran servizio ai sanfedisti che si erano nicchiati a Roma!!!

E poiché la natura del serpe è quella di strisciare astutamente e di mordere, così vidi questi avanzi della Camarilla insidiare lo stesso Palazzo Farnese; felici di poter cospirare anche contro una Sovranità caduta, sol perché la giudicavano già educata alla scuola d’una fatale esperienza!

Quella gente vigliacca, che è stata la vera ed unica causa della caduta della Dinastia e della perdita della nostra indipendenza nazionale; ipocrita, calunniatrice ed ignorante; ripeté sommessamente che io era sempre il liberale del 1848 (autentico!); che i miei principi religiosi fossero subordinati a quelli politici; e che in fondo in fondo io nascondessi la politica del Tanucci!

A conti fatti, ebbi a Roma la certezza di ciò, che il mal seme della Camarilla esisteva ancora, e che io dovea tenermi pronto ad una nuova lotta, della quale avea avuto qualche mentore!

Fortunatamente, queste serpi si spezzavano i denti, quante volte morsicavano quella buona lima politica che si chiama Pietro Ulloa, Duca di Lauria; del quale mi onoro e mi glorio chiamarmi franco ammiratore e devoto discepolo, bene meritando il titolo di ulloista affidatomi dai sanfedisti.

§ 2.
PIETRO ULLOA DUCA DI LAURIA
Cenni biografici sulla Casa Ulloa — Il Duca di Lauria magistrato, letterato —  Suoi principi politici nel 1848 e dopo  — È in odio ai sanfedisti — Entra nella vita politica nel 1880 —  Missione politica e diplomatica a Gaeta ed a Roma — Le lotte contro rivoluzionari e sanfedisti — Sue opere.

Il nome di questo insigne uomo di Stato è oramai una grande illustrazione nella rivoluzione del 1860: esso è incancellabilmente scritto sotto quello di Francesco II.

La rivoluzione ha in mille guise combattuto questo nome ed ha tentato di abbatterlo con l’arma della calunnia; ma i suoi sforzi giganteschi non hanno fatto, che rialzarlo nell’ossequio dell’opinione pubblica, entro e fuori Italia; ed oggi che io scrivo, questo venerando vecchio —  ritirato nella pace della vita privata e tra le tarde dolcezze della sua famiglia, che per dodici anni abbandonò, sagrifìcandone i più cari interessi alla rigidità d’un dovere, che sentì l’eroismo della divozione ad una grande ed immeritata sventura  — : questo vecchio venerando è con leale stima visitato. dagli uomini onesti della stessa parte liberale unitaria e di quella democratica.

Dirò brevi parole storiche intorno a questo insigne uomo di Stato dei nostri tempi, e son convinto di non temere chi possa smentirmi.

Allorché fu sedata nel 1647 la rivoluzione di Masaniello, la Corte di Madrid inviò a Napoli Felice Ulloa, di vecchia nobiltà, e reputatissimo nelle scienze legislative e nella Magistratura.

Esso tenne in Napoli la Presidenza della Camera di S. Chiara, ed era tanta la profondità del suo sapere e l’integrità del suo animo, per quanto che l’immortale Giambattista Vico ne ha tramandato il nome alla posterità, chiamandolo il Catone dei Senatori Spagnuoli.

Figliuolo di Felice fu Adriano, che riproducendo le virtù e l’ingegno paterno, raggiunse grado per grado gli stessi uffizi dell’illustre genitore; e nel 1700 Carlo 11 gli riconobbe il titolo di Duca di Lauria, Marchese di Favale ec. ec.

Venuto al trono di Napoli Carlo III, Adriano Ulloa entrò nel Ministero Tanucci, cui fu carissimo, e morì nel 1742.

Girolamo, suo figliuolo, fu da Roma sciolto dai voti dell’Ordine di Malta, nel quale era entrato; tolse moglie ed ebbe molti figli — I maschi si diedero alla carriera delle armi: due furono uffiziali di marina, e tre appartennero alle così dette Guardie italiane, che formavano la milizia nobile di quel tempo.

Allorché avvenne la prima invasione dei francesi, tutti i cinque fratelli si dimisero dai loro gradi; e ritirati a vita privata, vissero poveri, ma onorati!

Questa circostanza storica, che caratterizza la nobiltà dei sentimenti di questa famiglia, merita di essere molto considerata.

Dal primo dei figliuoli di Adriano, a nome Giovanni, il quale fu ferito nell’assedio di Tolone, nacque Pietro, attuale Duca di Lauria.

Nella sua giovinezza., Pietro si addisse alle armi; ma la sua mente vivace ed anelante di forti studi, sentì la scintilla dei suoi avi, e lasciata quella carriera, si diede all’avvocheria, e fu tra i più strenui ed onorati avvocati del foro napoletano.

Nel 1836, quando la Magistratura ebbe una completa riorganizzazione, che la sollevò ad un grado altissimo di rinomanza, sino a rivaleggiare con quella di Francia, Pietro Ulloa entrò in Magistratura, e per gradi raggiunse i più alti posti, ove fu trovato dalla rivoluzione del 1860.

Da banda la vastità delle cognizioni giuridiche di lui, la sua probità fu tanta, per quanto che, nei più difficili giudizi, gli avvocati erano lietissimi di avere a Commissario l'Ulloa, che per l’indeclinabile purezza del suo animo, fu sempre giusto, ma equo.

Se non che questo fervido ingegno, questo nobile cuore, non coltivò soltanto le aride dottrine giuridiche: esso brillò anche tra i più specchiati letterati dei suoi tempi e fu arguto e forbito scrittore: e poiché nel suo animo ardeva incontaminata la fiamma dell’amore del suo paese, e quindi rifuggiva da tutto ciò che sentiva le oppressure governative; così era notissimo per i suoi principii liberali, quantunque monarchici e dinastici.

Sotto il governo di Ferdinando II, a dirla breve, Pietro Ulloa, era segnato nella lista dei liberali; e non era certamente guardato di buon occhio dalla Camarilla dei fedelissimi, i quali sapeano bene, che questo riputato Magistrato, le cui cognizioni in fatto di storia e di diritto pubblico non erano inferiori a quelle giuridiche, era bene appreso da Re Ferdinando II, che non lo chiamò mai al Ministero, appunto perché ne temeva l’influenza: quel Re avrebbe lanciato nel mare il suo berretto, se avesse indovinato i suoi pensieri!

Pietro Ulloa, che avea studiato Ferdinando II e che conservava l’indipendenza e la fermezza dei principii propri, quando nel 1848, chiamato in Napoli da Avellino, presso la cui Gran Corte era Procuratore generale, gli fu fatta proposta d’un portafoglio, declinò l’onorevole offerta; perché previde, che quel momento d’entusiasmo, troppo immaturo e disordinato, sarebbe stato sepolto da una inevitabile reazione.

Era questo lo scoglio, contro cui Pietro Ulloa non volea urtare, e fece benissimo; quantunque fosse divenuto anche più inviso alla Camarilla, che si strinse fatalmente attorno al Re dopo il 15 Maggio 1848.

Quando nei tristi giorni del dodicennio l’Ulloa poteva, nella stretta cerchia di fedeli amici, discutere delle sorti future del Reame, egli sembrò a molti una lugubre Cassandra, ma fu profeta: e pure dalle sue previsioni era lungi anche il supposto della caduta della Dinastia, avvegnacché egli fosse stato tra i più onorevoli cittadini, che professassero i principii monarchici costituzionali all'interno, e quelli della federazione italiana.

Ecco in due parole dipinto al vero politicamente e scientificamente Pietro Ulloa, e quale lo trovò il 1860.

Non debbo io essere superbo, io così povera cosa a petto di così chiaro uomo, potendo ripetere, che ho sempre professato con lealtà e con con fede gli stessi principii politici?

Nel 1860, se Pietro Ulloa avesse voluto rinnegare le sue convinzioni politiche, certissimamente il Conte di Cavour gli avrebbe aperte le braccia, ed egli sarebbe stato uno dei più importanti e provvidenziali Ministri d’Italia; ma gli parve di scorgere sotto la figura unitaria un tentativo murattista, e restò saldo nella sua fede liberale federalista.

Tenendosi in disparte sino all’Agosto 1860, e quando il trionfo della rivoluzione era sicuro, quantunque chiamato troppo tardi a porre una diga a quella terribile valanga, pure avvisò di doversi ricorrere ad un ministero energico, che avesse d’un colpo spento il fuoco che minacciava di morte la nazionalità siciliana: come ho narrato al Capo VIII. pag. 163.

Sventuratamente, egli non fu ascoltato; e il Ministero Spinelli-Romano affrettò la catastrofe del Settembre.

Da questo momento data il periodo nobilissimo della vita di questo insigne nostro concittadino, che entrava nella palestra della Diplomazia, ministro prò forma ma splendido tutore e difensore d’una Corona, che le grandi Potenze vedevano cadere dal capo del tradito Sovrano, senza battere palpebra!

Nelle opere politiche pubblicate dal Duca di Lauria, se sfavilla il giusto e santo sdegno d’un onesto liberale, che difende l’indipendenza del suo paese dagli assalti d’una politica nuova, che non ha riscontro negli annali della storia, e che costituiva tutto il segreto della potenza di Napoleone III; la sua parola severa ed inattaccabile fulmina la politica corrotta ed evirata delle grandi Potenze, che doveano più tardi sentire anche più amaramente le conseguenze letali di quella colpevole indolenza.

E questa è stata la vera missione, che quest’uomo venerando si prefisse, allorché seguì il giovane Sovrano a Gaeta, dividendo i pericoli e le privazioni dell’assedio, ed accompagnandolo a Roma; dove Francesco II avea tutto il bisogno d’un cuore nobilmente fedele e di un ingegno autorevolmente severo pari a quello di Pietro Ulloa, che a giusto titolo è chiamato il più leale amico, lo storico più severo del breve regno di Francesco e della rivoluzione italiana del 1860.

Letterato e giureconsulto chiarissimo; severo uomo di Stato; storico irreprensibile, io addito questa illustrazione tutta napoletana all’ossequio ed alla venerazione della mia patria, alla riverenza dello straniero.

Nella sua tarda età, che Dio vorrà che fosse tardissima, il cuore e la mente di lui conservano lo slancio e la lucidità della prima giovinezza: nei suoi principi moderati, veramente liberali, egli ha respinto e respinge fermamente gli estremi in politica.

Bersaglio perciò agli strali acuti della rivoluzione, che osò attribuirgli propositi nefasti, e che furono smentiti dall’evidenza d’una vita senza rimorsi durata a Roma nei giorni dell’esilio; egli non fu meno bersaglio agli strali avvelenati della vigliacca cricca sanfedista, che lo calunniò perennemente presso Francesco II, e ne fece ora un ateo, ora un bonapartista, ora un italianissimo.

Il torto di questo integerrimo cittadino è quello di non essere stato sanfedista, e di non volerlo essere giammai: e suo torto anche più grave é quello di avere con la sua parola autorevole aperta la mente all’esule Sovrano sulle vere cause della sua grande sventura; mostrandogli negli errori e negli uomini del passato gli scogli che gli era forza rimuovere nel transito dell’avvenire che pareva per lui certissimo.

Quante volte ebbi l’onore di conversare col Duca di Lauria in Roma; quante volte oggi ho la ventura di recarmi ad ossequiarlo, esco dalla sua stanza con la convinzione di ciò, che Ferdinando II non volle mai conoscere i suoi tempi e quei nobili cuori, che avrebbero, massime dal 1848 in poi, gittate le basi d’un governo costituzionale, lealmente rappresentato; ritornando alla Dinastia dei Borboni quella gloria imperitura, che risale allo splendido nome di Carlo III. ()

Le opere, che riporto in nota, fanno chiara testimonianza della forza dell’ingegno del Duca di Lauria: ha egli spezzata la penna? Non oso crederlo: quest’uomo infaticabile e lì al suo scrittoio, con la inalterabile lucidità della sua mente e.... scrive!!!!

§ 3.
A FIRENZE
Cesare Cantù — Il Barone Ricasoli — l'amnistia.

A Firenze strinsi la mano a Cesare Cantù, che mi accolse con quella bontà d’animo, che è pari alla sua bella rinomanza: fu appena che egli mi ricordò quella vergognosa interpellanza alla Camera: e con la sua graziosa franchezza mi rimproverò l’opposizione da me fattagli nelle elezioni politiche.

Fu una discussione che non uscirà mai più dalla mia memoria quella che ebbi nello studio di questo chiarissimo storico, allora Deputato al Parlamento: ma egli ricorderà pure, lo spero, che io, che avea relazioni ben diverse dalle sue nelle file democratiche, sapea che. la Camera stava per essere sciolta; che l’on. Ricasoli, da brevi giorni Ministro, era insidiato (e cadde in fatto): che la guerra ai cattolici sarebbe stata terribile alle urne politiche: e ch’egli stesso correva il rischio di non essere rieletto, e noi fu!

Mi prese vaghezza di conoscere l’on. Ricasoli, il. quale mi ricevé con quella squisitezza di maniere, che costituiscono di lui il vero Barone di altri tempi, meno civili, ma più onesti e leali. Io adempii presso di lui ad una speciale raccomandazione fattami da un alto personaggio a Roma, affinché fosse stato sollecitamente pubblicato il Decreto di Amnistia per i fatti politici del 1866, e così fosse stato permesso agli emigrati, che assiepavano Roma, di tornare alle loro residenze.

Il Barone Ricasoli ne telegrafò al Marchese Gualterio a Napoli; e siccome i tumulti di. Palermo erano sedati, così il Decreto di amnistia fu immediatamente promulgato.


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CAPO XV

I FARISEI POLITICI
§ 1.
Ipocriti e sanfedisti — Loro morale  — I miei amici.

A dì 4 Aprile 1867 un emerito personaggio, al quale io confidava le mie dispiacenze per la guerra, che cominciava a spiegarmi una setta d’ipocriti e di sanfedisti, mi rispondeva con una sua lettera da Roma: «Ebbi le vostre carissime lettere, che tanto onorano il vostro egregio carattere di una forza piuttosto unica che rara. Esser contradetto dai nemici, è cosa solita e naturale; ma esserlo da quelli per cui si combatte e soffre, è cosa dura e penosa troppo» — E l’egregio uomo mi raccomandava la costanza nel dissimulare questa guerra ingrata, per non destare uno scandalo.

Simili raccomandazioni mi vennero del pari da altri personaggi, che hanno forte influenza sul mio animo; sì che per tanti anni ho saputo ed ho potuto tacere e soffrire; ma oggi, che questa guerra ha assunto forme pubbliche e tali, che tollerandola autorizzerei i miei malcapitati persecutori a far peggio; oggi, che essi hanno esaurito tutti i mezzi del loro odio; mezzi che sono ricaduti sul loro capo, come la pietra lanciata in aria dal pazzo; oggi che essi credono di farsi padroni della situazione e prepararsi ad alte imprese.. — non mi lascerò sorprendere, e traduco questi farisei politici innanzi al tribunale della pubblica opinione.

E ripeterò anch’io, che i miei avversari politici nella loro inesorabile persecuzione sieno giustificabili, avvegnaché io avessi loro mandata una sfida, che ha avuta l’ora del suo trionfo: il paese, che ha assistito ed assiste a questo duello, è il miglior giudice tra di noi.

Ma chi avrebbe potuto solo supporre che detrattori e nemici, più implacabili e certamente sleali, avessi dovuto trovare, non a fronte, ma alle mie spalle; e tra le file di coloro che dovea reputare a me gratissimi ed onesti correligionari politici?

Veggiamo tuttodì, che quando un individuo, che milita nelle file politiche a noi avverse, è fatto segno ad attacchi partigiani o a rigorose misure governative, i suoi compagni lo difendono ad oltranza; e se per poco qualcuno di essi vide il carcere, eccitò l’entusiasmo dei suoi amici, che non oserebbero giammai calunniare un nome, che per essi è simbolo di politica lottante ed onorata.

Ebbene: nella mia innocenza preadamitica poteva ingannarmi nel 1860 sul conto di coloro, che mi hanno così ruvidamente flagellato sino al 1867; ma il dubitare dell’onestà di una parte di coloro, per cui ho combattuto e combatto, sarebbe stato quanto far quistione di civiltà, di morale e di gratitudine, anzi che di politica.

Eppure ciò mi è avvenuto.

Esiste, organizzata e disciplinata, una setta di farisei politici e di sedicenti cattolici, i quali, lavorando nell’ombre e con le arti nefaste dell’insinuazione, del discredito, della calunnia, sperano di diventare la fourmie blanche, la formica bianca della riputazione di coloro, che temono come un ostacolo alla loro ambizione.

Dopo quattordici anni di durissime e costanti prove, io ho la coscienza di entrare a viso scoperto e con l’occhio sicuro in mezzo a tutte le classi, che compongono le popolazioni dell’Italia meridionale; e di numerare in esse quali e quanti fossero i miei nemici politici, quanti i veri amici.

Tengo per me la massa di tutti i cuori leali, di tutte le intelligenze oneste, educate a principi conservatori e cattolici; e la prova autentica di questo vero è costante, solenne, innegabile nell’affettuosa premura, che dalle province si ha per il mio Conciliatore.

Testé ho narrato, come la mia parola eserciti sull’animo dei miei concittadini delle province quella dolce influenza, che viene dall’autorità d’una vita senza macchia, spesa a solerte e pericolosa difesa dei principi eterni del diritto e della religione.

E dirò, che per quanto i miei nemici politici, sopra tutto i farisei, avessero spietatamente dilaniato il mio nome nelle province, altrettanto io ho veduto aumentare nelle stesse la fede e la stima per me e per i miei scritti.

Forse non m’illudo asserendo, che gli stessi miei avversari politici, vedendomi ancora in piedi e pieno di forza, dopo tanta ed aspra battaglia, abbiano dovuto alla fine inchinarsi alla potenza di così perenne verdetto della pubblica opinione; tanto più, per quanto che essi sanno, che io non sono organo, né sono al soldo d’un partito —  supposto che partito esista.

Ed io ho in pregio i miei avversari politici, che combattono lealmente a luce di sole; e non mi feriscono alle spalle, nell’ombra e mascherati alla Don Basilio.

Adunque in questa gran massa, che è la quasi totalità delle popolazioni meridionali, nella quale è ammirabile la potenza della borghesia, e l’eccellente aristocrazia dell'ingegno, io son fiero di trovare sinceri amici ed onorevoli avversari.

Si dirà: ma se togliete le province e questa gran maggioranza delle popolazioni, che cosa rimane delle classi sociali e dei paesi meridionali?

Resta Napoli, ove annida sempre quella Camarilla, che, anche oggi, crede imporsi alle province.

Sono a Napoli i miei implacabili nemici — dico nemici, non avversari.

§ 2.

Partito legittimista cattolico, costituito, non esiste.

Bisogna uscire da un gran supposto, da una mistificazione, che sinora ha fatto le spese dei furbi, e che non depone certo a favore dell’acume politico degli uomini del governo.

Si è creduto sempre all’esistenza d'un partito legittimista cattolico; anzi si è affermata la sua organizzazione.

Dichiaro che ciò è falso; assolutamente falso.

Le popolazioni dell’ex-Reame delle due Sicilie sono profondamente cattoliche; e tutte le arti degli atei e degli evangelici, tutte le pressure governative in senso religioso, non son valute, che a vieppiù raffermare questo sentimento cattolico.

Adunque un partito cattolico non esiste: abbiamo un popolo che è, e vuol restare cattolico, che onora sinceramente la Religione dei suoi padri, e s’inchina reverente ai suoi Vescovi ed al Clero.

Esiste, costituito, un partito legittimista?

È un falso allarme: non esiste.

Abbiamo certissimamente la gran maggioranza delle popolazioni, che, massime nelle campagne, vivono quasi nelle stesse idee tradizionali: abbiamo una forte maggioranza intelligente che nutre principi autonomisti, che si sono confusi col legittimismo: troverete in questa maggioranza le personalità più pronunziate, più spiccate più autorevoli, è vero; ma un partito, organizzato, non lo troverete.

Sotto il vessillo cattolico, voi giudicate immediatamente il popolo; che si manifesta e si pronunzia nel suo diritto.

Sotto il rapporto politico, abbiamo una confessione autentica ed officiale nella Legge Crispi del 1866!

Queste personalità legittimiste sono più evidenti in Napoli, appunto perché quivi risiedeva il Re, e perché da lunghissimi anni vi tengono domicilio e famiglia: ma sfido chiunque ad additarmi quattro individui, sia della borghesia, sia dell’aristocrazia, che costituiscano questo partito, di cui si possa temere l’azione.

Garibaldi non era ancora sbarcato a Reggio; Francesco II non si era recato a Capua ed a Gaeta, e quasi tutta l'aristocrazia avea... emigrato!

Nel 1866, quando io pagai per il temuto partito borbonico, i più caldi legittimisti mi fuggirono come un appestato... per non compromettersi: alcuni mi definirono per un pazzo, che avea trovato ciò che andava cercando da più anni!

Se Francesco II spera di tornare al trono, portato dal partito legittimista, può rinunciare alla sua speranza. E anche troppo l’adorarlo in segreto, raccomandarlo caldamente a Dio mattina e sera; ma rischiare solo un’unghia per lui, non dico cospirando, ma prendendo la penna dell’uomo politico, come per quarant’anni hanno fatto i legittimisti francesi, che hanno tenuto vivo il fuoco del loro principio con la Gazette de France sarebbe anche follia.

E notate, che parlo della fine fleur, del dessus du panier, del gran mondo, cioè dove il legittimismo, dovendo essere per presunzione sociale un dovere, è colpito dalla noia di questa maledetta politica, e si addormenta nell'oasi d’una festa da hallo, in un’onda di veli, di piume e di fiori, guizzanti della luce di smeraldi e di brillanti!

§ 3.
Classificazione nell’Aristocrazia — I puri; i tentennanti neocattolici; i cattolici neoborbonici — i D Basilio ed il Conciliatore.

Ma dunque, mi sarà opposto, avete indicato, che il popolo, che soffre e lavora, è in maggioranza conservatore: e può esser vero, che il legittimismo sia proprio un mito dell’aristocrazia?

Dimando mille perdoni; ho detto e ripeto, che l’aristocrazia napoletana è stata avversa ai Borboni sino al decennio, salve poche eccezioni; ma da quell’epoca in poi ha francamente mantenuto il carattere di legittimista.

Nel 1860 molte famiglie aristocratiche riconobbero il nuovo ordine di cose e furono ricevute nella Reggia di Vittorio Emanuele; esse hanno agito secondo le loro convinzioni personali e politiche: le biasimano gli aristocratici rimasti, come suol dirsi, fedeli, ma ciò è faccenda tutta di casta: il paese non ha che cosa vederci; la politica non se ne commuove menomamente.

Nell’aristocrazia, che si è mantenuta ferma nei suoi principi dinastici, bisogna fare una specie di classificazione.

Abbiamo, in cima a tutti, quei tipi veramente nobili, che ispirano riverenza ed ossequio, entro e fuori Italia, in tutte le classi sociali, in tutti i partiti politici: tipi non del gran mondo, ma dei gran Signori, i quali sono decoro della Corona e nel tempo stesso sono popolari, cortesi con tutti, dignitosi nella stessa altezza dei loro principi di cattolicismo e di legittimismo puro.

Nominerò, tra i tanti, il Duca di Lauria, il Principe di Montemiletto (prode militare) il Principe di S. Antimo, il Duca di Popoli, il Principe di Bisignano, il Duca della Regina, il Principe di Presicce, il Duca di Cajanello, il Marchese di Messanelli, il principe di Scilla: gentiluomini di fama intatta ed incontaminata: fedeli ai vecchi loro principi: cittadini onesti ed autorevoli.

Abbiamo un’altra classe, che è legittimista, perché profondamente autonomista; ma che accentua le sue convinzioni liberali, senza farsi imporre da un ascetismo politico. Sono i meno esigenti, quantunque vogliano sembrare esclusivi.

Vi è chi trova in essi qualche tentennante, che stancato dall’aspettare, comincia a persuadersi, che Pio IX possa fare il Papa senza bisogno del potere temporale: ma certissimamente essi non si comprometterebbero per Francesco II.

Vi è una terza specie di coloro, che sono più cattolici che legittimisti; e sono quelli, che escono dal quietismo dei puri e dall’incertezza dei tentennanti, e si provano al cimento.

Dico, si provano; perché, vorrebbero entrare nel popolo, democratizzarsi alquanto, riconoscere l’aristocrazia dell’ingegno, cingere una buona spada pel combattimento; ma posti tra le pastoie del noblesse oblige del gran mondo moderno, tengono esposti, come oggetti di lusso e di antichità, gli elmi, gli scudi, i pugnali, le mazze ferrate e gli spadoni dei loro Avi, prodi guerrieri: e con tutta la grazia possibile, accennando alla lotta, cingono lo spadino, lo cacciano a metà dal fodero; e stanchi dalla guerra incruenta, si riposano mettendo il naso sulla fine fleur del loro gran mondo, sicché catonizzano prudentemente parlando di politica, per non compromettersi col governo; e si collocano in ardenti apologisti, più che difensori, del cattolicismo, ove sanno di essere inviolabili!

Suonano il campanino d’argento per l’alleluia: e trovano esorbitante il suono delle campane di Pier Capponi.

In questa frazione aristocratica non trovate uomini politici, che accettino le grosse battaglie, e che mostrino di poterle dare; ma incontestabilmente si riscontrano ingegni svegliati, educati a buoni e forti studi, massime sotto il rapporto storico e letterario; e stanno scrittori forbiti, arguti, piacevoli e tali, che onorano la classe aristocratica.

Accenno con leale sentimento di stima, tra i pochi, a due bellissimi nomi della nostra aristocrazia, che si direbbero militanti in questa classificazione; e sono il Duca Proto di Maddaloni, chiarissimo per opere storiche e drammatiche del tempo; e l’onorevole Duca di Castellaneta, l’aristarco senza macchia, castigato ed erudito scrittore, che fa violenza ad una lodevole tendenza del suo cuore per dimesticarsi con l’aristocrazia dell’ingegno, cui rende il dovuto ossequio; ma che non sa resistere ad un magnetismo di salone, ove compromette quella indipendente, e nobile energia, che lo fanno cosi accetto a quanti hanno la ventura di avvicinarlo.

Resta un’ultima classe; quella dei Don Basili, dei serpentelli, che strisciano ed insidiano le sale del Cardinale; scivolano nelle sagrestie, nelle farmacie, nei saloni; lasciando dovunque la loro bava immonda, e poi si raccolgono in qualche solito luogo di ritrovo; notando con scrupolo il male da essi fatto, e dichiarandolo opera necessaria per purgare la società, essenzialmente, dai legittimisti costituzionali,  nemici del trono e dell’altare.

Questa brava gente, ogni giorno recita un requiem alle care memorie di Murena e di Peccheneda; fa voti all’Altissimo, perché Francesco II torni, ma sub conditione di subire i suoi vecchi e prediletti sistemi governativi e e politici; ed essere inesorabile, innanzi tutto, col Direttore del Conciliatore, che non è clericale secondo la loro pia intenzione; che ha l’audacia di chiamarsi liberale, lo che è sinonimo di settario; mentre la pubblica opinione (per la depravazione dei tempi!) è così cieca da ritenerlo per cattolico e per legittimista: sì che per finirla una buona volta con questo Direttore del Conciliatore, che deve avere il demonio nelle ossa, se è uscito sempre salvo e più forte da tante lotte; e che ha il vantaggio di far fischiare di santa ragione gli ipocriti ed i sanfedisti, a gran divertimento di questo popolo disgraziatamente cangrenato dal liberalismo; la prelodata pia gente mi accompagnerebbe con profonda compunzione alla ghigliottina, liberandosi da questa spada di Damocle, che pende sul suo capo; salvo a farmi celebrare un migliaio di messe per la redenzione dell’anima nell’altro mondo, ove certamente m’ aspettano Murena, Peccheneda e complici per fare anche colà le loro vendette!

I serpentelli, miei implacabili nemici, hanno trovato facile accesso, là dove entrano le altre frazioni aristocratiche; e meno suscettibili pel noblesse oblige, lasciano ai pezzi grossi la guerra di salone, ed essi si riserbano l’aggressione notturna.

Ed ora giudichiamoli dalle loro azioni.


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§ 4.
Il Progresso Sociale e le sue calunnie  — La stampa farisaica — Cospirazione del farisei a Roma — la Smascheratore — Una lettera di Francesco II.

Per quattordici anni mi son ricordato del precetto del Vangelo; porgi la guancia destra a chi ti ha battuto sulla sinistra: ma credeva, che i miei percussori si fossero alla fine accorti, che fossero dal lato del torto e non avessero seguitato a flagellarmi: ma ora che ho veduto che hanno la pia intenzione di seppellirmi addirittura; ora che sento l’inutilità di tutti i mezzi adoperati con ogni squisitezza di maniere e di cortesie per richiamarli alla ragione: ora che il lasciarmi in balia di questi nemici è quanto permettere, che essi preparino il male del popolo senza ostacolo alcuno; oggi lascio il testamento nuovo e prendo il vecchio, e giudico più opportuno il precetto — occhio per occhio dente per dente!

È un cenno brevissimo delle più notevoli prodezze dei miei assurdi nemici.

Il Progresso Sociale era un periodico, che nel 1865 pubblicavano a Roma i sanfedisti e gli ipocriti, capitanati dal Murena e dal famoso Cenatiempo.

Quel giornale, che io chiamai il Regresso sociale, visse due mesi appena; ma se Murena è morto, esistono i suoi ammiratori e successori. Qui voglio dare un saggio di ciò, che si scrisse contro di me, tanto da dimostrare autenticamente che roba da gogna era quel giornale.

«Il Conciliatore, avvezzo a far mercato delle sue ciarle a chi più le paga, le ha ora vendute ad una consorteria di pagnottisti piemontesi.

«Il Conciliatore si è fitto in testa di volerci dimostrare le beatitudini della Costituzione e l’oscurantismo di coloro che governavano sotto i Borboni...

«Non sa il buon diario, che i popoli (?) han segnato nigro lapillo il dì 26 Giugno 1860, ed alla, parola COSTITUZIONE hanno aggiunto gli epiteti di rivoluzione, irreligione, oppressione, desolazione...»

E dopo aver fatta l'apologia di tutti i sanfedisti, erompe in questo periodo:

«L’unico governo riparatore dei nostri mali sarà quello del legittimo Re, che educato alla forte e saggia politica del padre, potrà solo rialzare il paese prostrato ed annullato dal dispotismo liberale sotto forme parlamentari».

E fo grazia ai lettori delle perle al mio indirizzo, e ricordo che nel 1865 io pubblicava, proprio in quei giorni, le Vesuviane, per le quali mi fu scritto il gentile opuscolo Ce qu’on pense à Naples; e nel 1866 i Consorti piemontesi, ai quali quel giornale sanfedista mi dicea venduto, mi ammanettarono e mi fecero quel che ho narrato, come.... cospiratore borbonico!!!

Col n.° 57 del 26 Febbraio 1865 diedi al Progresso Sociale tale lezione, per quanto che il malcapitato giornale levò subito la frasca: e fu da quel giorno che io scrissi — «Abbasso l’ipocrisia, abbasso i birbanti dell’iter dell’oggi e del dimani.»

E tengo parola, e la terrò sino a che avrò vita.

Questi farisei politici, vedendo essere impotenti a diffamarmi, fecero ricorso ad un altro mezzo, più vile ed iniquo: prezzolarono la penna di uomini, notissimi atei, antiborbonici e repubblicani, i quali diventarono subito cattolici purissimi e fedelissimi, e misero fuori un giornale mascherato.

Sperarono di perdermi nella pubblica opinione: il calunnia, calunnia, calunnia diventò il gran segreto di questi ipocriti, che si davano la pena di diffondere nelle province ed in Napoli la stampa libellista, che mi prendeva di mira, per loro mandato, e ne so di alcuni, che erano superbi di leggere quelle canagliate!

Ma il paese che ha più buon senso di quei birbi, e che conosceva perché mi odiassero tanto; rise di cuore a quelle calunnie, e mi si strinse più tenacemente attorno, sostenendomi e confortandomi a non entrare in questo fango.

Potrei qui dire qualche cosa di più preciso; ma non ne vale la pena; massime oggi, che questo brigantaggio della penna non è riuscito.

Questi farisei erano sulle furie perché Francesco II avesse avuto per essi parole di riprovazione; e credete che si acquetassero?

Questi pazzi ebbero l’eccentrica idea di cospirare contro Francesco II, esule e senza corona! Insomma lo detronizzarono per loro conto!!!

La ridicola cospirazione, capitanata dal Cenatiempo e rospi simili, mi giunse all’orecchio; e confesso, che non volli privarmi del piacere di godermi quella pagliacciata.

Si disse, che organo di questi cospiratori fosse stato un giornale, che si stampava a Napoli nel 1869, col titolo «Lo Smascheratore» — che dal primo numero si manifestò Sanfedista; e trinciò tondo su tutte le individualità più stimate per principi liberali nelle file legittimiste.

Avea sotto la mano queste serpi, e non mancai, come non mancherò mai, di afferrarle pel capo; e ci riuscii completamente!

Francesco II, quando si vide così eccentricamente esposto ai deliri di questi arlecchini di Roma, rimise al Cav. Leopoldo del Re, con ordine di comunicarmela e di pubblicarla nel Conciliatore, la seguente lettera; lo che feci nel n.° 229 del 19 Agosto 1869: eccola

«Wàrthegg — 30 Luglio 1869.

«In un giornale di Napoli, che piacesi del nome di Smascheratore, e s’intitola cattolico politico, veggo con pena indegnamente vilipesi taluni fra i molti, che mi hanno fedelmente seguito o servito. Il vostro nome non leggesi fra questi, ma la vostra posizione non è dissimile dalla loro. Trovandomi lontano, commetto quindi a voi lo incarico di dire a tutti, che per essi è indelebile in me la memoria dei loro servizi e costante la stima: onde li esorto a non curarsi di coloro, che in uno spirito poco cattolico e politico, immemori d'ogni cristiana virtù, tuttora si ostinano a non voler comprendere il RAPIDO e PROGRESSIVO SVILUPPO dei TEMPI e delle IDEE; ed a turbare in ogni guisa chi, vivendo fra le amarezze dell’esilio, onorevolmente segue la mia causa ed i MIEI PRINCIPII.

Vostro affezionato

Francesco

Era il Re di Napoli, che fulminava questi ipocriti e nobilmente proclamava i suoi principi, che riconoscono il rapido e progressivo sviluppo dei tempi e delle idee.

Essi impugnarono l'autenticità di questa lettera e la dissero foggiata da me; ma dovettero riconoscerla dopo un comunicato pubblicato dall’Osservatore Romano!

I giornali d’Italia, or son due mesi, pubblicarono il resoconto d’una visita fatta a Saint-Mandè dal reporter della Liberté, al quale Francesco II avrebbe risposto — «l'esilio ha i suoi dolori: ma ha pure le sue lezioni, ed esse mi sono state utili!»

I farisei possono andarsi a seppellire: a meno che non preferiscano di diventare repubblicani! Se ne vedon tante!

Non è a dire, se i messeri, dopo questa lettera raddoppiassero di calunnie a mio danno; e non avendo potuto accreditare la castroneria del Progresso Sociale, che mi fece trovare venduto nel 1865 alla Consorteria, che nel 1866 mi ammanettò e mi tessé quel processo politico testé narrato; tornarono a vociare, che mi fossi dato anima e corpo al Marchese Gualterio.

Questa brava gente non è giunta mai a comprendere, nella squisita perfidia del suo cuore, che se io avessi voluto passare nelle file avversarie, l’avrei potuto fare, senza rimorso di coscienza, e senza tradire qualsiasi precedente dovere, che mi legasse alla caduta Dinastia.

Ciò che io voglio dimostrare all’opinione pubblica, è il modo con cui questi gufi politici, vecchiume muffito e tarmato della Camarilla del 1848, hanno ricambiato i dolori, i danni, le fatiche da me durate per quattordici anni, sol perché i miei principi sono lealmente liberali, e perché restando convinto cattolico, non sono un ipocrita.

Narro cose, che sembreranno incredibili; ma sventuratamente sono troppo vere, e la maraviglia sta in ciò, che io abbia potuto per tanti anni subire, per dovere di disciplina, siffatta tortura: io che ho sfidato con incontestabile coraggio civile lo stesso governo!

§ 5.
Un alleanza di antipatie — Le elezioni municipali del 1872 — Costituzione del Comitato elettorale centrale, suo Statuto, sue diramazioni, sue funzioni, suoi risultati — Il marchese d’Afflitto e sua morte — La lista dei candidati del Principe di Torella — Pressioni usatemi; mie proposte abortite, mia demissione — Persecuzioni e difesa — Le elezioni suppletorie del 1873 — Il Municipio veduto politicamente e amministrativamente — Suoi progetti esiziali da me combattuti — Malcontento del popolo — Opinione pubblica.

E non è tutto!

I miei farisei, non riuscendo a vincere soli, chiesero alleati, e li trovarono naturalmente nei neolegittimisti, i quali, dopo la catastrofe di Sèdan, vollero uscire dall’isolamento e farsi valere almeno in Napoli  — : mettersi nella mezz’ombra tra i protestanti ed i cattolici, tra i legittimisti e gli unitari.

Laonde, a riuscire in questo compito, bisognava organizzare una camarilla sui generis di neocattolici, di neolegittimisti, e di neoliberali!!!

E narrerò questa battaglia del 1872, datami in occasione delle elezioni amministrative, e nella quale io dovea sperimentare gli effetti della su notata alleanza. In parola d’onore non si può dire, che io non stassi sull’avviso; ma i miei avversari, ponendo da banda gli scrupoli, adottarono i mezzi morali, che pure essi hanno tanto vituperato nei rivoluzionari; e… passarono! Udite.

Nel 1872, quando dové compiersi l’intera elezione del Consiglio municipale, era Prefetto in Napoli l’or defunto Marchese Rodolfo d’Afflitto.

I conservatori cattolici furono invitati ad uscire dall’astensione ed a concorrere a quelle urne eletti ed elettori: ma siccome per la passata accidia e per le libere manovre dei partiti, le liste degli elettori non erano complete ed esatte: così era necessario intendere a questo lavoro gigantesco ed imprescindibile.

Quando meno io me l’aspettava, fui invitato da un tale Luigi Duni a costituire un comitato conservatore elettorale.

Il Sig. Duni, che era in fama di conservatore e di ardente cattolico  — e non è tale — mi parve mandatario di qualche alto personaggio che si tenesse dietro le quinte: feci l’ingenuo, finsi di non aver compreso, ed accettai l’onorevole invito.

Così fu organizzato sotto la mia Presidenza, gentilmente conferitami, un Comitato elettorale centrale, composto da dodici Presidenti delle dodici Sezioni di Napoli  — Volli ed ottenni dai miei amici del Comitato centrale, che presenti alle discussioni ed alle operazioni elettorali fossero stati tutti i Parrochi napoletani, che sono influentissimi tra noi.

Fu da me redatto e poi in Assemblea generale discusso e votato uno statuto, che regolasse su basi positive l’associazione elettorale conservatrice; imperocché io mi prefiggeva di stabilire un fatto costante, non temporaneo, per avere in ogni tempo l’esercizio legale del diritto elettorale nella parte conservatrice, che è una maggioranza innegabile in Napoli.

Organizzai, col concorso del Comitato centrale, dodici sotto Comitati sezionali, dai quali dipendevano in ciascuna sezione tre comitati parziali, le cui funzioni erano precipuamente quelle di formare le liste degli elettori per presentarle ai Comitati Sezionali, che le trasmettevano al Comitato centrale, ove esisteva già organizzato con appositi registri un Archivio elettorale.

Posso dire, che dopo tre mesi di zelanti fatiche il Comitato centrale annoverava, tra i vecchi ed i nuovi iscritti, di parte conservatrice cattolica circa undicimila elettori: numero nascente, considerando il breve tempo del lavoro per scuotere gli animi dalla fatale inerzia astensionista.

 Non dirò, come io era lieto di questo risultato dell’opera mia e dei miei amici, e come non badassi alle furie dei giornali democratici, che mi denunziarono per un commensale del Marchese d’Afflitto, che dissero entrato in accordi con Sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo Sisto Riario Sforza.

Io, che conosceva le rispettabili suscettibilità ed i riguardi dovuti a questi due personaggi, sapendomi moralmente autorizzato, non vidi né l’uno né l’altro; presso i quali mi bastava inviare il sig. Duni, che era il Segretario del Comitato centrale.

Compiuto il lavoro delle schede elettorali, si dovea venire alla formazione della lista dei candidati!

I miei amici del Comitato centrale m’usarono, come Presidente da essi eletto, la cortesia di portarmi candidato: in tutte le Sezioni: ma i farisei ed i neolegittimisti, che sino al momento del lavoro si erano tenuti nascosti e nell’ozio, quando videro che il mio nome sarebbe uscito dall’urne, vennero fuori dall’ombre, e cominciarono a lavorare di sottomano, adducendo, che io era una figura troppo borbonica!!!

Così dicevano i farisei, che mi tengono per un liberalone e per poco cattolico! Oh! i mezzi morali!

Quando queste voci mi furono riferite, pregai i miei amici del Comitato a non fare del mio nome una bandiera ed una quistione, dichiarandomi anche pronto a dare le mie demissioni.

Pochi giorni prima delle elezioni, il Prefetto mi fece chiamare e lo vidi a Capodimonte: inutile il dire, che io non m’era ingannato, quando supposi la sua adesione all’opera d’un Comitato conservatore; perché egli francamente volea, che in fatto di amministrazione municipale e provinciale fossero chiamati tutti i migliori ingegni ed i più riputati uomini del partito conservatore, rimasti per tanto tempo astensionisti.

I democratici vollero criticare queste oneste e patriottiche idee del Marchese d’Afflitto; ma io le ammirai e le ammirerò sempre in qualunque autorità politica, che le riproducesse.

Il Marchese d’Afflitto volle esatte informazioni sulle forze degli elettori conservatori, ed in quanto alla lista dei candidati mi raccomandò, che si fosse tenuto conto, essenzialmente e senza riguardo a colore politico, dell’onestà e dell’intelligenza degli eligibili. Affermo sul mio onore, che questo fu il risultato del colloquio — l’unico — tra me ed il Prefetto d’Afflitto: anzi dirò, ch’egli fu lieto, che io ritirassi la mia candidatura, per presentarmi nelle elezioni del quinto nel 1873; e s’impegnò a dare anche un margine ai più onorati nomi di parte democratica, ai quali io volea rendere testimonianza di non essere i conservatori uomini esclusivi ed intransigenti nel campo puramente amministrativo.

Il prefetto mi pregò di tornare a vederlo dopo quattro giorni, nei quali avrebbe esaminata la lista dei candidati, che io gli presentai in numero di 180 nomi, già precedentemente notati con i miei amici del Comitato centrale.

Sventuratamente, dopo due giorni da quel colloquio, il Prefetto Marchese d’Afflitto morì repentinamente: ed io previdi le funeste conseguenze della sua morte.

In un lampo si cangiò la scena: il diritto del Comitato a proporre la lista dei candidati fu contestato: i farisei cominciarono a predicare che io era un ambizioso, e che volessi farla da Dittatore nelle elezioni, imponendo nomi non accettabili!

Il Principe di Torella, improvvisamente si pose a capo di questo movimento, che rivelava l’alleanza testé notata; presentò all’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo una nota di candidati di sua fede, e ne ottenne la morale approvazione.

Compresi, che la mia situazione diventava immensamente delicata, quando si traeva in mezzo a questa lotta la figura onoranda del Cardinale Sisto Riario Sforza, per cui ho conservato e conservo inalterabilmente ossequio profondo e verissimo affetto!

Si alzò il grido, che per virtù di disciplina si dovesse ad occhi chiusi votare per la lista del Cardinale.

Ma la lista era di Torella, e non del Cardinale. Il Principe di Torella, profittando delle fatiche del Comitato, ostracizzando i miei diritti ed il mio nome; non avendo neppure un riguardo imprescindibile di cortesia verso di me, mi metteva nella dura alternativa, o di subire la sua lista, o non accettandola, mettermi in urto col Cardinale!

Obbedite per virtù di disciplina: — mi si ripeteva dai farisei, che erano lietissimi dell’insulto fattomi; più lieti ancora di potermi vedere in dispiacenza col Cardinale.

Presi la mia risoluzione: seguii i dettami della mia coscienza e del mio dovere: chiamai i miei amici del Comitato ad una discussione della lista Torella; lo scrutinio fu leale, e degli ottanta nomi appena un quarantacinque risultarono ammissibili.

Proposi di manifestare al Cardinale le nostre rispettose osservazioni, per sostituire a quelli esclusi, nuovi candidati, e così presentare una Nota irreprensibile.

Questa proposta equa, e che era dimostrazione di onorevole virtù di disciplina, fu combattuta e si cercò di non giungere alla votazione, ricorrendosi al mezzo morale di qualche parola, che ferisse il mio amor proprio.

Avea esaurito il mio dovere: ma doveva mantenere intatta la mia indipendenza e non asservire il giudizio della mia coscienza ad una Nota, che veniva arbitrariamente imposta dal Principe di Torella.

Immediatamente rassegnai le mie dimissioni e mi ritirai dal Comitato.

Non pubblicai nel Conciliatore la lista imposta; non la combattei, e lasciai il paese giudice della scelta.

Terribile fu la guerra, che mi spiegò la stampa così detta cattolica di Napoli; la quale mi dichiarò ribelle al Cardinale; e poco mancò, che non mi volessero scomunicato.

Tenni fronte e con tutta la forza del mio diritto a questa guerra, indegna sotto tutti. gli aspetti: ed ebbi il plauso lusinghiero dei napoletani, che si recarono alle urne.

Della lista Torella uscirono eletti soli diciannove, così detti puri, sugli ottanta; gli altri erano portati sulla lista concordata con gli unitari.

Di undicimila elettori cattolici allistati nei registri del Comitato, votarono appena tremila e seicento: gli altri furono tutti astensionisti!

Si credè, che nelle elezioni suppletorie del 1873 io avessi dovuto portare uno screzio tra i conservatori, e mi fu raccomandato di tenermi lontano dall’azione del Comitato elettorale, mettendomi, dirò quasi, a disposizione del Principe di Torella. Ed io, per virtù di disciplina, dimenticando le gravi offese del 1872, accettai questa parte passiva.

Mi fu offerta la candidatura di Consigliere Provinciale di S. Carlo all’Arena; e l’accettai, quando mi fu provata la certezza della riuscita, superando colà gli elettori cattolici quelli che votavano pel candidato della lista liberale.

Alla vigilia della votazione si fece correre la voce della astensione nel Collegio di S. Carlo all’Arena!!! E di ciò basta, perché non vorrei rivelare in questo affare cose molto dispiacevoli.

Il Comitato del 1873 pose la sua sede nell’Uffizio del giornale, in quella circostanza pubblicato, La Discussione, fondato da azionisti; ma per quanto esso avesse cercato di far prevalere le liste che raccomandò con immenso calore, trovò induriti gli animi degli elettori conservatori, e fece fiasco su tutta linea, prevalendo il partito liberale. Quel Comitato non esiste più!

Il Municipio del 1872, politicamente non ha giuocato di scherma con gli scrupoli: si è mostrato bonapartista, mandando a nome del popolo napoletano — amara ed indegna ironia! — un telegramma di compianto all’ex-imperatrice Eugenia, allorché Luigi Bonaparte rese l’anima a Dio nella sua dimora di Chislehurst: e si è mostrato così convertito al nuovo ordine di cose, da destare l’ilarità e l’ammirazione negli stessi unitari e nei democratici.

I farisei dissimulano la disillusione sofferta; ma per non rinnegare i poco prudenti amici, raddoppiano di zelo stampando prediche, giaculatorie, inni sacri ed il Dies irae; sperando di mistificare la pubblica opinione.

Amministrativamente, questo Municipio si è mostrato al di sotto del Municipio Capitelli e di quello Nolli.

Son due anni, e non si giunge a mettere assieme un bilancio, quale si sperava da intelligenze altissime: ed il disavanzo municipale, non riparato da sei milioni di un nuovo prestito contratto nel 1873, si ripresenta più fatale nel 1874, e lo si vuol riparare con nuove e pesanti tasse che accrescono il malcontento popolare.

Pare soverchio l’aggiungere, che questo Municipio è la mia prediletta passione e non gli do tregua.

Mentre la stampa rivoluzionaria si crede nel dovere di plaudire ai progetti del Municipio conservatore; io ho la buona ventura di essere il solo a censurarli, e di uscire sempre con gli onori del trionfo!!!

Un malaugurato progetto, che si chiamò dell’unificazione dei prestiti municipali e del prosieguo della strada del Duomo, fu da me — da me solo — aspramente combattuto: portai tanta luce in quelle tenebre, che si ebbe vergogna di discutere quel progetto, che si era già convenuto con la Banca Italo-germanica!

Oggi questa Banca.... è in liquidazione!!!

Salvai il Municipio di Napoli dal fallimento!

Non farò che accennare alla lotta a tutto sangue, che io — sempre solo — ho sostenuto contro il famoso progetto per la conduttura delle acque del Serino a Napoli. Dirò, che a sostenere, ad ogni costo, la proposta fatta da un Mamby e da un Roberti, il Municipio, e di esso la parte conservatrice cattolica, ha creduto impunemente dimostrarsi arbitrario, violento, illegale, deferente; affermo, che mutando in peggio ad ogni istante i primi patti della concessione, quantunque discussi e votati, ha indegnamente pregiudicati gli interessi del Comune di Napoli. E questa dimostrazione, che io l|o largamente fatta per circa due anni, ha avuto la ventura della ratifica nella parola autorevole dei Consiglieri Barone Savarese e Mendia.

Questo progetto, che io ho chiamato un affare, ha trionfato nel Municipio; confido che non abbia la stessa ventura in più alti luoghi.

Questo progetto è il discredito della Città di Napoli su tutte le piazze di Europa.

Il monopolio e la camorra dei viveri è giunta a così alto grado, per quanto che la miseria combatte con là fame in questa città, che in altri tempi offriva il felice mercato dei viveri.

L’opinione pubblica è malcontenta sino all’evidenza.

Il Sindaco di questo Municipio è il Conte Spinelli, figliuolo del Commendatore Spinelli Ministro di Francesco II nel 1860, e che ebbe a compagno il Principe di Torella, che è il creatore di questo Consiglio municipale!!!

Quattordici anni di disillusioni non strapperanno dalla coscienza degli elettori la voce del pentimento e del rimorso?

Superbo di esser stato geloso della mia indipendenza e di aver fatto il mio dovere, ad ogni costo; posso dimandare ai miei concittadini, se ho avuto torto di combattere, prima la nota Torella, e poi gli atti di questo Municipio nella cui saggezza essi speravano tanfo!


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§ 6.
I Saloni ed i Clubs — La Società filarmonica — Il Duca di S. Cesario — La mia dimanda — La votazione — Il giudizio dell’opinione pubblica.

Questa gente, non potendo in alcun modo ferirmi e distruggermi politicamente, ha avuta una velleità di salone; velleità di cattivo genere e che mi permetto narrare quasi a svago dell’animo del lettore, che ha dovuto accompagnarmi in queste non molto liete Memorie.

La città di Napoli, la prima in Italia, vanta, al pari di tutte le città importanti italiane ed estere, i più eleganti saloni di nobili e ricche famiglie, ed i suoi Clubs.

 I saloni legittimisti puri sono ermeticamente chiusi dal 1869 in poi — Per contrario, sono aperti e ricercati i saloni, dove i legittimisti puri accedono volentieri, e s’incontrano anche con i più noti avversari politici.

Questi saloni si direbbero un terreno neutro: alcuni han detto, che fossero fusionisti, e forse non si sono ingannati.

Ricordo i più splendidi: quelli del Principe di Torella, del Duca di Bagnara, del Duca di Monteleone; e quelli anche più notevoli, perché di nazionalità estera, della Casa nobilissima spagnuola del Duca di Bivona e della Casa inglese Contessa de La Field.

In questi due ultimi saloni brilla quanto vi ha di più elegante e di ricercato nella nostra Napoli, sia per aristocrazia di natali, che per quella d’ingegno; sia per ricchezza avita, sia per quella del proprio merito; e le arti belle sono egregiamente ricevute e plaudite.

Si direbbero due saloni modello; ove la malignità, se osasse mettervi il piede, batterebbe pronta ritirata.

Abbiamo i Clubs che hanno un carattere politico spiccato.

L’Accademia, il Club dell’Unione, quello di S. Arpino sono di parte liberale.

Il Club del Wisth è di parte legittimista.

È istituita una Società Filarmonica, la cui sede ora è al Palazzo del Duca di Cassano Serra: sino al 1869 presieduta dal Sig. Duca di Bivona, ed oggi presieduta dal Duca di S. Cesario.

In questa Società filarmonica è raccolta la fine fieur della società napoletana, dico società e non aristocrazia; perché vi è ammesso, senza distinzione di colore politico e senza esclusivismo di casta, quanto vi ha in Napoli di meglio per nascita, per censo, per ingegno e per meriti artistici.

Il protettorato di questa Società filarmonica si può dire tenuto dalla Casa Torella, che ne domina e ne regola la condotta.

Era perciò naturale, che io mi fossi astenuto dal farmi ammettere tra i Soci.

Ma nel Giugno del 1873, per circostanze che, per non sembrare vanaglorioso, mi asterrò dal ricordare, parevano quasi smesse quelle antipatie; e trovandomi in casa del Duca di S. Cesario, cadendo il discorso sull’istallazione della Società filarmonica nella nuova dimora, gli dimandai, se durasse contro di me ancora il vecchio ostacolo.

Al che egli rispose senza reticenze e con schiettezza: —  «tu devi essere ammesso alla Filarmonica? — Farai la dimanda alla sua ripertura a Novembre, e penserò io a farla accogliere».

Venne il Novembre e feci la dimanda: ma, contro la mia aspettativa, egli mi partecipò, che dei dieci componenti quella Commissione, otto mi si erano mostrati contrari, adducendo per ragione (ve la do per mille!) che si era risoluti per massima a non ammettere più... i pubblicisti!!!

E poiché vi si trovano ammessi già altri pubblicisti, compresi che questo pretesto era un offesa personale al carattere, che io ho l'orgoglio e l’onore di possedere e di rappresentare nel mondo politico; carattere che giudico nobile quanto un blasone del 1500, e che mi ha reso degno di onorificenze, di cui potrebbero inorgoglire e Principi e Duchi. Volli accertarmi della verità delle parole del Duca di S. Cesario, ed interrogai diversi gentiluomini della Commissione, i quali mi affermarono, che quella deliberazione assurda non era stata mai presa, e che essi ne declinavano ogni responsabilità possibile.

Il Duca Proto di Maddaloni, che avea presentata la mia dimanda per l'ammissione, ed al quale feci notare questo dispiacevole incidente, tornò pregandomi di... ritirare la dimanda!

Ciò sarebbe stato quanto avvilire me stesso innanzi ad un rifiuto, tanto più inqualificabile, per quanto che mi veniva dallo stesso Duca di S. Cesario, che avea impegnato la sua parola, eppure il medesimo capitanò l'opposizione all’urne, senza nascondersi; e la votazione mi risultò contraria. Votarono per me, tra i tanti, l’Eccellentissimo Principe di S. Antimo, il Duca di Castellaneta, il Duca di Popoli (figliuolo dell’Ell. mo Principe di Montemiletto ), il Duca di Castronuovo, il Duca di Carmignano, il Duca Proto di Maddaloni, il Marchese di Sangineto, il Barone Genovesi, il Cav. Rodinò ed altri i cui nomi non mi vengono alla memoria.

Il voto di questi illustri gentiluomini fu la più nobile protesta che essi fecero a mio favore.

Questo episodio ebbe la generale riprovazione degli onesti, e formò per molti giorni il subbietto delle censure dei saloni napoletani d’ogni gradazione politica; epperò io, lietissimo di questo giudizio, non ebbi e non ho neppure una parola di biasimo per il Duca di S. Cesario; e lo lascio giudice della sua condotta e della responsabilità morale, che ha assunta verso l’opinione pubblica.

L’essere sballottato in un Clubs è cosa solita, che non offende certamente; ma nella mia persona si volle compiere una dimostrazione, che assumeva un carattere ed una provocazione politica.

Era una sfida ed un insulto, al quale bisognava riflettere due volte prima di consumarlo; ed il Duca di S. Cesario, che non è un uomo politico, ha leggermente giudicato quello che gli han fatto fare, e che sotto tutti gli aspetti non dovea fare.

CAPO XVI

DUE PAROLE DI CONCHIUSIONE

Nel chiudere queste memorie, non nascondo a me stesso che avrò contro di me reso anche più profondo l’odio di coloro, che non reputo miei nemici soltanto, ma nemici della Religione, del diritto, della patria. Di quest’odio non ho che fare; non lo temo, anzi lo compiango, come una infelice aberrazione di mente.

Odiarmi anche più di quanto mi odiano, è impossibile; portarmi danni maggiori di quelli con cui hanno tentato di sagrificarmi, è anche impossibile.

Non rinnegherò i miei principi, qualunque fossero gli eventi politici, che debbano compiere le sorti d’Italia.

Io propugnerò sempre la conciliazione del progresso col diritto!

La Dio mercé, l'ambizione non ha corrotto giammai il mio cuore; perché se fossi stato ambizioso, nissuno mi avrebbe potuto chiudere il campo, che in quattordici anni la rivoluzione ha aperto anche agli audaci.

Se può dirsi ambizione santa ed onesta quella che guida il mio pensiero e la mia penna, nella mia indipendenza, è questa febbre ardentissima e costante della mente e del cuore nel propugnare il bene del mio paese e nel difenderne i diritti.

Se seminando in fede, ho talvolta raccolto in menzogna, ho confidato nella mano della Provvidenza, che mi ha sostenuto e protetto.

Avere la coscienza di poter affermare a fronte del mio paese di compiere il proprio dovere, ad onta della povertà del mio ingegno, ma con tutta la forza del coraggio civile; aver la coscienza di essere amato dai propri concittadini; ecco il mio trionfo e la mia costante ambizione.

Scrivo queste Memorie in un momento, che credo solenne per le sorti d’Italia; e meditando sul suo avvenire, avrei sentito il rimorso di non stendere potentemente la mano, che squarcia il velo, che potrebbe ancora ottenebrarlo.

Alla mia età di 47 anni ho veduto incanutirmi i capelli sotto la sferza dei più atroci dolori, dei più terribili disinganni; ma non ho disperato del bene!

Con l'occhio sereno e col piede, sicuro sono entrato nelle Magioni dei Re, nei gabinetti dei Ministri, nei Saloni dell’aristocratico, nella casa dell’industre borghese, nell’umile dimora dell’operaio, nel tugurio del povero: ed ho dovunque interrogato per apprendere il bene ed il male, e così formarmi il concetto assoluto della verità.

Senza rancori contro i miei avversari politici, senz’odio contro gli impreveduti miei nemici, in queste memorie è autentica la storia d’un passato, che spiega il presente e si affaccia maestra del futuro.

I miei difetti li ho io pure, e chi potrebbe vantarsene immune? — Forse la violenza che ho fatto a me stesso nel subire con rassegnazione non comune questa lotta, che avrebbe stancato l'animo del più scettico, produce talvolta in me quell’inevitabile irascibilità, che è la ribellione naturale dello spirito contro l'ingiustizia degli uomini, che cospirano al trionfo del male.

E questa ribellione è pure la voce altissima della mia coscienza, che mi comanda di soffrire, ma di non abbandonare la dura per quanto nobile missione, che mi sono imposta.

Se queste Memorie giungeranno —  come spero — sotto gli occhi di alti personaggi e di uomini di Stato all’estero, mi auguro, che non le avrò narrate, senza che un bene, venga alla mia travagliata patria. E Dio lo voglia!

Alla generazione adulta della nostra aristocrazia mi permetterò rivolgere poche e leali parole!

I grandi nomi, le grandi ricchezze, le grandi cariche di Corte non costituiscono un mondo a parte, un isolamento sociale, una sfida al cospetto della nazione intera, che da parte sua reagisce inesorabilmente.

Questa specie di feudalismo classico oggidì non è neppure un delirio; è un eccentricità che non ha nome.

A coloro, che volessero rimetterlo in moda, io non potrei dire altro che  — contatevi e dite quanti siete: e poi dalla stanza, dove siete riuniti, volgete l’occhio su di un popolo, che ignora la vostra esistenza e che non ha bisogno di voi. Ma voi avete bisogno del popolo!

E perché all’aristocrazia dei natali non unite quella non meno nobile dell’ingegno? Forse, che l’origine di ogni nobiltà, antica che fosse, non sta nella toga e nella spada?

Perché la gioventù, che spunta nelle mobili case, non deve comprendere, che essa ha più altamente il dovere di concorrere a migliorare le sorti del proprio paese?

Lo ripeterò: perché l’aristocrazia napoletana non prende a modello l’aristocrazia inglese; e conservando intemerato il lustro d’un nome, non scende, orgogliosa del suo sapere, nello studio dello scienziato, nell’officina dell’operaio, nell’aula del magistrato, nel gabinetto del pubblicista?

Si distruggano, innanzi alla grandezza del proprio paese, queste barriere assurde che l’aristocrazia dell’ingegno ha rotte ed ha sorpassate!

Oggidì il popolo non s’inchina, ma onora quel nome illustre per natali, che gli vada incontro benemerito e benefattore!

Non dirò, democratizzatevi: dirò rendetevi popolari!!!

I Re per i primi hanno compreso, che i consigli per ben reggere un popolo non stanno nei libri di araldica: e se l’Aristocrazia non presenterà mai alla Corona le garantie rispettabili dell’ingegno, essa non potrà dolersi, se i Re scelgano i loro consiglieri là dove, su quella dei natali, trionfa l’aristocrazia dell’ingegno.

Alla gioventù della svegliata borghesia, che lavora ad entrare nelle file di questa aristocrazia, i cui scudi, i cui blasoni sono i libri; i cui avi sono i nomi dei grandi maestri; i cui saloni sono le sale del Foro, dell’Università, degli opifici manifatturieri; a questa gioventù, forte speranza dell’avvenire della patria, maggioranza imponente del paese; dirò anche una parola, che spero sarà accolta con affetto, perché anch’io ho la ventura di essere nato e di essere un operaio della sua maggioranza.

A voi, miei giovani concittadini, dirò che bisogna innanzi tutto informare la mente ed il cuore alla scuola di un gran vero, cioè che gli estremi in politica sono diffettosi e causa di amare disillusioni; di sventure private e pubbliche: e che fondamento d’ogni sapere sia l'onestà e la morale, che debbono essere guida perenne delle vostre azioni e dei vostri studi.

Voi vedete da queste Memorie, come sinora vi fu presentata la società, non quale essa è, ma come gli uomini dei principi estremi ve la dipingevano; ed in ciò mentivano e v’ingannavano.

Ecco perché i principi liberali moderati, come io li professo, come vorrei che fossero universalmente intesi e professati, urtano le suscettibilità dei partiti estremi; e perciò io sono un assolutista per i radicali, mentre sono un radicale per gli assolutisti!

Oggi l’Europa è alla vigilia d’una gran crisi sociale, in cui i principi estremi saranno severamente giudicati e condannati: la violenza non potrà distruggere il diritto; l’ateismo non rovescerà la Religione di Cristo.

In queste Memorie vi ho detto quanto basta per costituire il vostro criterio sugli uomini, sui principi, sulle condizioni così politiche che amministrative del nostro paese — Venite voi in mio aiuto, ove avrò potuto sbagliarmi, e fate il meglio.

L’avvenire è vostro, se saprete conquistarlo col senno, con la moderazione, con l’onestà.

Ho creduto adempiere ad un alto dovere di cittadino, che ama la sua patria più della sua vita; e se troverò sempre in voi lo stesso affetto, dirò con l’Alighieri:

«Voi mi levate sì, ch’i son più ch’io.»

Gli oscurantisti ed i radicali diranno, che io sono circondato dalle tenebre?

Lo dicano pure; ma ricordino queste mie parole; — la notte dei forti è il sole del pensiero!

FINE

INDICE

INTRODUZIONE pag. 3
CAPO I. — POCHE RIFLESSIONI INDISPENSABILI — Progresso storico della società e della civiltà 7
CAPO II. — GLI ARAGONESI — Provvido governo dei Re Aragonesi — Perenne ribellione dei Baroni, che invocano, un Re francese — Rivolta popolare — Intervento di Ferdinando il Cattolico Re di Spagna — Illustrazioni letterarie e scientifiche di quei tempi — L’Accademia Pontaniana 12
CAPO III. — DOMINAZIONE SPAGNUOLA — Lotta tra Carlo l e Francesco I  — I Baroni parteggiano per la Francia — Sono puniti — Carlo l sostiene il Viceré D. Pietro di Toledo —  L’Inquisizione — Rivolta dei Baroni  — Masaniello — Filosofi. e Giureconsulti di quell’epoca, — Giambattista Vico, Gian Vincenzo Gravina, Pietro Giannone — Altra congiura dei Barqui — Filippo l destina al trono di Napoli il figlio Carlo III 15
CAPO IV. — I BORBONI DI NAPOLI — § 1. — Carlo III. — Monumenti — Rivoluzione sociale  — Primo crollo del feudalismo — Bernardo Tanucci — Riforme giurisdizionali — I Baroni alla Corte, loro lusso, principio di loro rovina, patrimoniale — Carlo III chiamato a reggere la Spagna — Ferdinando IV 19
2 — Ferdinando IV — La reggenza — Governo di Tanucci —  I Baroni riformatori contro la Chiesa — Il re maggiorenne —  Espulsione dei Gesuiti — Lotta col Vaticano — Il Re sposa Maria Carolina d’Austria — Istituzioni scientifiche ed artistiche — Mario Pagano e Gaetano Filangieri — Maria Carolina entra nel governo — Dimissione del Tanucci e sua morte — Acton e i capitani stranieri — Primi errori —  Nelson e sua influenza — L’aristocrazia diventa repubblicana e cospira contro i Borboni — Il Re e la Corte a Palermo — Il 16 Gennaio 1799 — Entrata dei francesi e lotta col popolo — Gli aristocratici si uniscono agli iu sorti contro il popolo — Reazione delle Calabrie — Il Cardinale Ruffo  — Ritorno di Ferdinando IV — Nelson — Esecuzioni capitali — Abolizione dei Sedili e del Senato  — Il Corpo della Città di Napoli, il libro d’oro in Corte. 22
3. — Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat — Pace di Presburgo — I francesi tornano — La Corte va a Palermo —  Atti del Principe Vicario — Giuseppe Bonaparte — Ministero Saliceti — Crudeltà nelle Calabrie — Gioacchino Murat — Suo governo — Le Calabrie e Manes — L’aristocrazia fa adesione al Murat — Congresso di Vienna — Murat proclama l'Unità d’Italia — I ministri napoletani, aristocratici, unitarii — Spedizione armata fallita nella media Italia per l’avversione del popolo — Trattato di Casalanza —  La Contessa di Lipona — Murat fuggiasco — E’ fucilato al Pizzo 22
4. — Ancora di Ferdinando I.  — Francesco I. — Restaurazione di Ferdinando I. — Giusto odio contro la repubblica francese — Il popolo napoletano ed i Borboni — Dispotismo inglese — Governo riparatore — Amnistia — L’aristocrazia perdonata — La Carboneria si rimette al lavoro —  Morelli e Silvati — Ministero liberale — Le Vendite — Rivolta in Sicilia, condotta dagli aristocratici — Naselli — Pepe Florestano — Colletta — Pretensioni di costituente a Napoli — Congresso di Laybach — Guerra all’Austria e disfatta dell’armata napoletana — Insurrezione di Sicilia —  Rossarol — Canosa — Amnistia — Morte di Ferdinando I — Brevi cenni su Francesco I 29
CAPO V.  — FERDINANDO II § 1.  — Ferdinando II e gli storiografi —  Parte amministrativa del suo regno — Opere pubbliche — Istituti — Regìa dei tabacchi — Monete — Miniere — Polveriere — Stabilimenti metallurgici — Industrie e manifatture — Arsenali — Marina dello Stato e mercantile — Finanze — Legislazione — Armata — Prigioni 36
2 — Opere pubbliche 42
3 — Istituti 44
4 — Idem 46
5 — Industrie e manifatture 59
6 — Arsenali 64
7 — Marina dello Stato 65
8 — Finanze 77
9 — Legislazione 85
10 — L'armata 88
11 — Prigioni 91
CAPO VI.  — POLITICA INTERNA ED ESTERA DI FERDINANDO II. — § 1. — Gli Storici politici — Indipendenza di Ferdinando II — La Giovine Italia e sue imprese — Repulsione dei popoli ad associarvisi — Giustizia e dovere della repressione — Paragoni storici — Lealtà soverchia nella  scelta dei consiglieri della Corona — §2. Fiducia nell’armata — I Ministri e la loro entità amministrativa e politica — Il Ministro Fortunato — Assolutismo nella politica estera — I Ministri del 1848 — La Costituente — Il 15 maggio — Apprezzamenti politici — Il Principe di Torella mandato a sciogliere la Camera — § 3. Ministeri posteriori al 15 maggio — La Reazione — La Magistratura — Giuseppe Marini Serra — § 4. La Polizia — § 5. L’aristocrazia — § 6. La politica estera di Ferdinando n sino al 1848 — Paolo Versace — Palmerston e Napoleone III — Assurda ostinazione di Ferdinando II — Sue ripulse all'estero — L’opposizione interna — Gli antidinastici dell’Aristocrazia —  Agesilao Milano — Lo scoppio della polveriera, del Carlo II e della fabbrica delle capsule — Il tentativo di Sapri — Moti crescenti di rivolta — § 7. Avvicinamento inutile alla Francia — Il partito tory al potere — Errore del Re a non riconoscere l'importanza dei tempi — Matrimonio del Principe ereditario — Viaggio del Re — È avvelenato ad Ariano —  Ritorno a Napoli — Sua morte 102
CAPO VII — I MURATTISTI — CONFESSIONI STORICHE 137
CAPO VIII.  — Francesco II.  — § 1. La Profezia di Francesco II ed i fatti che l’hanno rifermata — § 2. Preliminari politici, interni ed esteri, della rivoluzione del 1860 — Apatia dei più noti consiglieri della Corona — Il Duca di Mignano —  L’atto Sovrano del 25 Giugno — § 3. Il Ministero Spinelli Torella Romano — Biografia politica degli uomini che lo componevano — Loro complicità con la rivoluzione — Il Conte di Siracusa — La marina — L’ammiraglio Pasca —  Manna e Winspeare — Liborio Romano e La Farina — § 4. Lo storico De Sivo — Il Conte d’Aquila ed il Colpo di Stato — Pietro Ulloa chiamato a comporre il nuovo Ministero — Ischitella ed il Duca di Cajaniello — il Conte d’Aquila bandito dal Regno — Contegno del Ministero Spinelli-Torella — Tradimento di De Martino — Proclama di Francesco II e sua partenza da Napoli — Il Sindaco Principe d’Alessandria — Garibaldi a Napoli — Condotta dei Ministri — Munificenza di Francesco II con Spinelli, Torella e d’Alessandria — § 5. Gaeta — S. M. la Regina Maria Sofia — La Duchessa di S. Cesario — Eroismo dei soldati —  Caduta di Gaeta — Il Cav. Giuseppe Carignani — Contegno dell’Aristocrazia napoletana — Un grande sbaglio di Silvio Spaventa 144
CAPO IX. — IL GOVERNO ITALIANO — RIFLESSIONI GENERALI 170
Sezione I. — § I. — La legge Pica e la legge Crispi 174
2. — Amministrazioni dello Stato 183
3. — Quistione Religiosa 187
4. — Esercito e Marina 193
5. — Finanze 196
Sezione II. — Politica Estera 217
CAPO X.  — LE MIE LOTTE POLITICHE  — § 1.  — Dal 1848 al 1860, le mie aspirazioni politiche — Persecuzioni poliziesche —  Antonio Starace — Liborio Romano — L’opuscolo Napoli e Sicilia nel 1860 — Il conte d’Aquila e il mio colloquio con lui — La mia missione nelle Calabrie 236
2. — Da Napoli a Cosenza — L’Intendente Giliberti —  Sommossa popolare — Calunnie rivoluzionarie — I miei compagni di scorta — Spezzano Albanese — Sono destinato alla morte — Vincenzo Luci — Insurrezione di Spezzano e di Castrovillari — Ritorno a Napoli — Voci precorse e funeste conseguenze — Liborio Romano — Lo storico calabro Cesare Morisani 244
3. — I rivoluzionari mi definiscono borbonico — Riflessioni storico-politiche — I primi giornali conservatori e loro fine istantanea — Liborio Romano — Il Papà Giuseppe — Il Principe Girolamo Napoleone — Il Cav. de Lamorandière  — Persecuzioni fiscali — Guerra al murattismo — Violenze di piazza — Il Machiavelli strozzato — La Settimana — Il Napoli strozzato del pari 256
4. — Il Conciliatore — Programma politico amministrativo — Sua fondazione a mie spese, unica mia redazione, sua indipendenza, sua avversione al Murat — Le Vesuviane — L’opuscolo «Ce qu’on pense à Naples» —  Le Meridionali dedicate al Principe di Bismarck — Accettazione da parte dello stesso — Concetto della persecuzione religiosa —  Mio viaggio a Berlino — L'Empereur d’Alemagne et l'Europe — Miei criterii politici — Lettera di Adolfo Thiers 264
5. — Difesa del cattolicismo — L’obolo di S. Pietro — Il Santo Padre Pio IX mi riceve la prima volta — La Petizione al Parlamento contro il progetto di legge sulla soppressione delle Corporazioni religiose — Cesare Cantù —  L’associazione cattolica — Il Senatore Marchese Dragonetti — Il Cardinale Arcivescovo di Napoli Sisto Diario Sforza — Il Nuovo Lutero — Gli Iconoclasti ed il Barone Rodrigo Nolli — Padre Rocco 275
CAPO XI. — LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE E POLITICHE — Censurabile astensione nelle elezioni amministrative — Né eletti né elettori nelle elezioni politiche — Cesare Cantù — La stampa cattolica mi assale — Mie convinzioni personali — Il giuramento politico — Il pessimismo — La diplomazia — L’Opuscolo «Gli Astensionisti nel 1870» — Oggi bisogna uscire dall’astensione — Ragioni di questa condotta 280
CAPO XII. — I MURATTISTI DOPO IL 1860 — § 1. — Illusioni di Napoleone III sulle simpatie napoletane per Murat e sull’influenza dell'aristocrazia murattista —  Cristofaro Saliceti — Sua origine — Regicida — Scende in Italia ed opprime la Santa Sede — Ministro di Giuseppe Napoleone — Suo terrorismo — Il Principe di Torella — La figlia di Saliceti sposa il Duca di Lavello — Attentato alla vita dì quel mostro — Sue vendette — È Ministro di Gioacchino Murat — Muore avvelenato — Casa Torella dopo la restaurazione — Sua opposizione ai Borboni — Sir Temple e Sir Gladstone — Le lettere di Gladstone e loro valore politico — L’opposizione Torella dal 1860 in poi; sua indole 288
2.  — Un tentativo di Plebiscito murattista — Ruffoni e Dumas —  La stampa francese — Il Corriere italiano di Parigi — Personaggi imperiali bonapartisti e politici in Napoli — L’Osservatore Cattolico di Milano — L’Unità Cattolica di Torino — Rattazzi, Clarendon e Sartiges — Mia opposizione costante, e l’odio che ne raccolsi 295
CAPO XIII.  — il mio processo politico — § 1.  — Voci di guerra contro l’Austria — Mie preoccupazioni — Il Marchese Gualterio Prefetto di Napoli — Il questore Indelli — Mie risoluzioni — Sono arrestato e condotto in Questura — Le quattro perquisizioni domiciliari — Le prigioni di Castel Capuano e loro condizioni igieniche — La prigione n. 27 —  Come vi fui trattato 299
2. — L’interrogatorio — Le mie risposte — L’incidente Cesare Cantù al Parlamento — Le lettere di Cantù, del Duca Proto di Maddaloni, e di Monsignor Nardi — Mia innocenza proclamata in Camera di Consiglio — Sono condotto ammanettato nelle Carceri di S. Francesco, ove resto a disposizione dell’Autorità politica sino alla pace di Praga —  I rapporti del Questore Indelli e loro morale 303
3. — Danni derivati al Conciliatore — Gli associati allo stesso arrestati per la Legge Crispi  — Episodio di Mentana —  Sono nuovamente arrestato — Corro a Firenze, ottengo giustizia dal Marchese Gualterio allora Ministro 308
CAPO XIV. — A ROMA — § 1. — La pubblica opinione — Roma —  Pio IX — Monsignor Nardi — Francesco II — La Camarilla dei Sanfedisti — La loro avversione ai miei principi politico-religiosi 311
2.  — Pietro Ulloa Luca Di Lauria  — Cenni biografici sulla Casa Ulloa — Il Duca di Lauria magistrato, letterato — Suoi principi politici nel 1848 e dopo — È in odio ai sanfedisti — Entra nella vita politica nel 1860 — Missione politica, e diplomatica a Gaeta ed a Roma — Le lotte contro rivoluzionari e sanfedisti — Sue opere 313
3. — A Firenze — Cesare Cantù — Il Barone Ricasoli — L’amnistia 319
CAPO XV. — I FARISEI POLITICI — § 1.  — Ipocriti e sanfedisti — Loro morale — I miei amici 321
2.  — Partito legittimista cattolico, costituito, non esiste 323
3. — Classificazione nell’Aristocrazia — I puri; i tentennanti neocattolici; i cattolici neoborbonici — i D. Basilio ed il Conciliatore 325
4. — Il Progresso Sociale e le sue calunnie — La stampa farisaica — Cospirazione dei farisei a Roma — Lo Smascheratore — Una lettera di Francesco II 329
5.  — Un alleanza di antipatie — Le elezioni municipali del 1872 — Costituzione del Comitato elettorale centrale, suo Statuto, sue diramazioni, sue funzioni, suoi risultati — Il. Marchese d’Afflitto e sua morte —  La lista dei candidati del Principe di Torella — Pressioni usatemi: mie proposte abortite, mia demissione — Persecuzioni e difesa — Le elezioni suppletorie del 1873 — Il Municipio veduto politicamente e amministrativamente — Suoi progetti esiziali da me combattuti — Malcontento del popolo — Opinione pubblica 333
6. — I Saloni ed i Clubs — La Società filarmonica — Il Duca di S. Cesario — La mia dimanda — La votazione — Il giudizio dell’opinione pubblica 340
CAPO XVI. — DUE PAROLE DI CONCHIUSIONE 344























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