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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE SINDACATA

OVVERO

Riflessioni Critiche sulla Scienza della Legislazione

del Signor Cav. D. Gaetano Filangieri

OPERA DI 

Giuseppe Grippa

TOMO I

IN NAPOLI MDCCLXXXIV

Nella Stamperia di Amato Cons.

Con Licenza de Superiori



INTRODUZIONE

Tra tutti i viventi l'essere, che più è circondato da’ mali è l'Uomo: questi da ogni lato, che si rivolta vede la sua miseria: vorrebbe distrigarsene, ma non sa come. Ed ecco la ragione, per la quale presentandosi egli uno della sua specie, che di tanto si compromette, viene il medesimo abbracciato, inchinato, incensato, e poco meno che adorato come un Nume liberatore. in oltre essendo la maggior parte degli uomini perfettamente idiota, non distingue perciò altra classe di mali fuori de' fisici, e de' morali; ed ignorando degli uni, e degli altri le denominazioni filosofiche, chiama i primi (cosi presso di noi) mali, che manda Dio, ed i secondi mali, che fanno gli uomini. A’ primi si adatta volentieri, sofferendoli di buon animo per la forza della Religione, che la domina: anzi (eccetto alcuni pochi scellerati, che danno in escandescenza) quanto più ne viene travagliata, tanto maggiormente si avvicina, e procura di unirsi al suo principio, ch’è Dio, da cui nelle felicità si era e distaccata, ed allontanata. A’ secondi, e precisamente a quella parte de' medesimi, che da’ filosofi mali politici si nominano, non sa in alcun modo accomodarsi per sofferirne il peso, ma solo per un compenso al suo dolore, si dà incessantemente a maledire e le leggi, ed il governo, o che ne abbia, o che no ragione di farlo.

Posto ciò: Avendo il nostro Signor Cavaliere D. Gaetano Filangieri pubblicato colle stampe i primi tomi della sua dottissima opera intitolata La Scienza della Legislazione; ed avendo in essi mostrato il più fervido zelo, e la più vigorosa premura di voler liberare perfettamente l’Europa intera da tutt'i mali politici questo solo ha bastato (oltre del merito non equivoco della sua vasta, e profonda dottrina) a fargli un partito vantaggiosissimo, ed una folla immensa di adoratori (1). A segno che, avendogli io diretto una lettera (e questa data alle stampe per giusta cagione) nella quale l'ho reso avvertito di alcuni abbagli da lui presi in avanzare de' progetti, che, se si ponessero in pratica, produrrebbero delle funeste conseguenze per l’Europa, si è creduto da molti de' suoi attoniti contemplatori, che io sia stato mosso a ciò fare non già da un zelo, per il bene dell'umanità, che mi ha animato ma da uno spirito d’iniquità, per frastornare appunto il bene, che certamente sarebbero all’Europa i progetti del Signor Cavaliere, se fossero eseguiti da’ Sovrani.

Tra quelli, che hanno di me cosi pensato vi è un certo Calabrese di professione assecla tmnium mensarum, e che giustamente può chiamarsi il D. Chisciotto de Letterati. Costui, avendo dato alle stampe un opera in due volumi (2), si ha preso la pena nella medesima di dirmi delle grandi villanie (3), per essermi io opposto a que’ progetti del Signor Cavaliere, che tendono a distruggere il sistema feudale.

Or che mi abbia cosi trattato uno Scrittore, che nel nostro Paese è stimato quai zibbetto de' Letterati, niente ciò mi ha gravato: imperocchè mancando a lui quelle cognizioni chiaro-distinte, e que’ talenti calcolatori necessarj a poter ben giudicare dalle cose, perciò i suoi giudizj non hanno maggior valore di quello, che ha presso degli aritmetici il carattere Zero (4); le sue ingiurie, in conseguenza ancora ricadono sopra di lui stesso.

Del resto se io per lo passato ho contraddetto alcuni progetti del Signor Cavaliere, e se al presente mi accingo a criticarne degli altri, tutto ho fatto, e sarò senza mancare alle leggi della decenza, e senza oltrepassare i limiti prescritti dalla buona educazione, di cui un Letterato deesi pregiare.

E’ noto a tutti, che ciascheduno degl'individui della Repubblica delle Lettere ha il dritto di censurare (purché osservi le regole del buon costume) le opere pubblicate dagli altri suoi compatriotti. E’ noto altresì ad ogni uno che le Scienze riconoscono il loro avanzamento più dalle opposizioni, e dalle dispute, che da qualunque altro mezzo. Sicché se io ho impreso a sindacare La Scienza della Legislazione del Signor Cavaliere Filangieri, ed in farlo ho serbato le regole del buon costume, niuno perciò ha motivo di condannarmi, perché l'ho fatto.

Io trascrivo qui ciò che ha detto lo stesso Signor Cavaliere Filangieri (5) in voler’egli esaminare una opinione del Signor di Montesquieu.

Che mi si permetta (egli dice) di osservare cogli occhi della sana critica questa maniera di ragionare di quell'Autore celebre, e che si giudichi quindi se questa sua opinione meritava di far tanti proseliti, quanti ne ba fatti. io venero gli errori stessi di questo grand’Uomo ma quando questi mi pajono perniciosi al Genere umano, mi fo un dovere di rilevarli; ed a misura che veggo, ch’essi han fatta maggiore impressione nella mente degli uomini, io li combatto con maggiore zelo.

Spero che non si abbia a credere un’ironia se dico che io per il merito del Signor Cavaliere D. Gaetano Filangieri sono prevenuto di molto; e che la stima che fo della sua persona, e de' suoi talenti è molto maggiore di quella, che si può credere, da chi giudica delle cose dalla sola apparenza. Ma per quanto grande sia la stima, che io ne ho, sino al trasporto di venerare i suoi errori Ressi, la medesima non dee fare, né alcuno da me dee pretendere, che, quando i suoi errori mi sembrano perniciosi al Genere umano, non mi abbia io a fare un dovere di rilevarli; e che a misura, che veggo, ch’essi han fatto, e sanno maggiore impressione nella mente degli uomini, non gli abbia io a combattere con maggior zelo.

I Savj Legislatori dell'Americana Repubblica, che oggi nasce alla gloria, conoscendo appieno, che, per conservare la libertà politica di un Popolo, conviene accordare interamente la libertà della stampa; perciò hanno stabilito, che la medesima non debba mai in alcuna guisa esser ristretta (6). il Governo di un Popolo libero (dire un uomo intendente) non teme d'esser censurato, ed esaminato, al contrario desidera che tutti l'ajutino ne’ loro lumi: più che si scrive su questo punto, tanto è più facile d'arrivare fine, ch'è la felicità della società. Se dunque il Pacxxx delle Lettere si regge a Repubblica, non conviene perciò ristringere in esso la libertà di criticare, di scrivere o di stampare (7).

Sicché prevalendomi io del mio dritto, presento oggi al Pubblico-Scienziato il primo tomo della mia nuova opra Antifilangieriana. Lo scopo principale, che mi ho proposto in esso è stato di esaminare quanto si è detto dal Signor Cavaliere Filangieri concernente i feudi e le leggi feudali; per cui non ho saputo dispensarmi d’inserire nel medesimo la lettera da me stampata nell'antepassato anno 1782, corredata bensì di alcune note, e di una poscritta ma tutto il resto poi, che dovrà dire, cosi in questo primo tomo, come negli altri, lo dirò a forma di riflessioni espresse in varj fogli, secondo le cose, che imprenderò ad esaminare.

Il secondo tomo di questa mia opera, nel quale esaminerò alcuni progetti, ed alcune proposizioni avanzati dal Signor Cavaliere per la riforma delle leggi criminali, spero (se rimarrà fra vivi, e se qualche sorte ostacolo non me l’impedirà) di presentarlo allo stesso Pubblico-Scienziato per tutta la fine del prossimo futuro anno 1785.

Io non sono nel caso di dire in quanti tomi verrà divisa l’intera mia opera, perocchè ne dipende il numero dalla quantità della materia degna di critica, che mi preparerà il Signor Cavaliere Filangieri negli altri quattro libri della sua opera, che gli rimangono a pubblicare; cioè il quarto, dove svilupperà quella parte della scenica legislativa, che riguarda l'educazione, i costumi, e l'istruzione pubblica: il quinto, dove parlerà delle leggi, che riguarda la Religione. il sesto, dove parlerà di quelle, che riguardano la proprietà: ed il settimo dove parlerà di quelle leggi, che riguardano la patria potestà, ed il buon ordine delle famiglie.

Come mai sarà accolta questa mia opera dal Pubblico-Scienziato, a cui la presento, io nol so. Ma so bensì, che io non temo degl'imparziali giudizj de' veri Letterati: cioè di que’ pochi uomini venerandi, che son forniti di sode, ed utili cognizioni che son usi a raziocinar bene, e raziocinar da se stessi, e che sanno giudicare del merito delle cose senza alcuna. prevenzione. E’ vero che nella società le nostre operazioni sono soggette a’ giudizj di tutti gli uomini, ma io nelle materie scientifiche non curo le giudicazioni della ciurma immensa de' pseudo-letterati, e della caterva eccessiva di coloro, i quali leggono i libri per un puro passatempo, e che altro vantaggio non ne ricavano fuori di quel piacere passaggiero, che dà loro la lettura superficiale de' medesimi, ma. che nel tempo stesso la vogliono fare da Censori, non con altro appoggio, che con quelle della prevenzione, dal quale stata non vi è modo da rimoverli.

La quotidiana esperienza mi ha fatto conoscere, che la forza della prevenzione negli uomini di poco conto è di un valore tale, ché nella maggior parte di essi è affatto insuperabile da qualunque altra forza. Ho veduto nelle occasioni degli uomini, per la forza della prevenzione in contrario, resistere invincibilmente alla forza de' fatti i più autentici. Ne ho veduto degli altri, per l'istessa forza, rendersi volontariamente ciechi alla luce più chiara della ragione, che voleva illuminarli. Ne ho veduto sin anche di que’ che all'attestazione de' sensi la più accertata non hanno voluto cedere, perché prevenuti diversamente.

Ma quello, che mi è sembrato sempre in tal proposito avere un certo aspetto di giocoso è ciò, che ci narra Vincenzo Viviani nella vita di Galileo Galilei. Egli dice che quando il grand’Uomo diede alle stampe il suo Nuncius syderent (8), tutta la turba allora de' filosofi Perisatetici, sentendo che il Cielo era ben diverso da quello, che descriveva Aristotile se gli rivoltò contro. Molti di essi sul principio ebbero gran ripugnanza a prestargli sede. Molti altri si sollevarono, e chi con iscritture private, e chi con stampe baldanzosamente tentarono fargli la guerra: stimando le scoperte del Galilei perché contrarie a ciò, che diceva del Cielo il loro comun Maestro, vanità, delirj, finti avvisi, o pure false apparenze, ed illusioni de' cristalli del telescopio, di cui il novello scopritore si era servito. Ma quelle, che a parer mio dà diletto è, che, secondo dice il Viviani, Non mancarono ancora de' cosi pertinaci, ed ostinati, fra questi de' costituiti in grado di pubblici Lettori (9), tenuti per altro in gran stima, i quali temendo di commettere sacrilegio contra la Deità del loro Aristotile, non vollero cimentarsi alle osservazioni, per una volta a scostar l’occhio al telescopio e vivendo in questa loro bestialissima ostinazione, vollero, piuttosto che al loro Maestro, usar incredulità alla Natura medesima.

Questo è l'ordinario fare di tutti coloro, che giudicano con prevenzione. Or un uomo, io dico, il quale fugge le osservazioni, per non uscire dagli errori, in cui l’ha menato il suo Maestro: o pure alla chiara, e non equivoca attestazione de' sensi antepone l'autorità di un qualche Scrittore, per rinomatissimo che sia: o che la prevenzione per il merito di qualche soggetto, che gli ha ferito la fantasia, sa che Don si arrenda a’ fatti innegabili, ed alle sode e sfolgoranti ragioni, che lo istruiscono, e lo illuminano: quest'Uomo, dico (né credo che vi sia tra savj, chi altrimenti pensa) non merita che di sé si faccia maggior conto di quello si sa di un Barbaggiani, o di un allocco: cioè di quelle specie di viventi, che portando solamente nel viso alcune poche somiglianze umane, in tutto il resto altro non sono che bestie pennute.

Io dunque, intorno al merito della mia opera, disprezzando le censure di questa razza di Uomini imbecilli, mi sottometto pienamente, e di buon animo agli imparziali giudizj de' veri Letterati.


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LETTERA

AL SIG. CAVALIERE D. GAETANO FILANGIERI

Sull'esame de' alcuni suoi progetti politici

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SALERNO IL di’ 14 AGOSTO 1782

Veneratiss. Sig. Cavaliere

Oso scrivervi, benché il mio nome vi sia ignoto ma nella Repubblica delle Lettere ciò non viene vietato.

Io ho letto i due primi Tomi usciti alla luce della Vostr’Opera intitolata La Scienza della Legislazione e confesso con ingenuità, che i pregi, che l'adornano sono tali e tanti, che non ho potuto non rimanerne sorpreso. Ma poiché le umane produzioni, per ammirabili, che siano non vanno quasi mai scompagnate da difetti, e da errori, figli legittimi del nostro finito essere; e di più essendo la Vostr’Opera di un tal genere, che non può non interessare ognuno, giacché ha per oggetto la riforma delle leggi; quindi è che non vi dovete crucciar meco, se, dopo d’avervi retribuita quel la giustizia, che meritate, mi prendo la libertà di dirvi, senza mancare alle leggi della decenza, ed a quel rispetto, che vi si deve, d’aver trovato della durezza in varie cose di essa, e precisamente in alcuni progetti, che avanzate: de' quali ne imprendo qui ad esaminare solamente alcuni de' più interessanti per le Società d’Europa, ed in particolare per le Monarchie, come quelli, che, messi in pratica, le ridurrebbero, come a me pare, nel più tristo stato, che possa mai darsi. Vediamolo.

Voi progettate cosi nel cap. 4, come net 36 (10) del II Tomo l'assoluta dismissione, finanche ne’ corpi feudali, de Majorascati, de' Fedecommessi, e delle Sostituzioni, senza usare alcuna riserba, e senz’avere alcun riguardo né alla classe delle persone, né alla natura de' diversi Governi. E tutto ciò voi progettate, cosi per togliere gli ostacoli, che si oppongono al progresso della popolazione, annoverati nel 3 e 4 capo del Tomo citato, e quai mezza proprio per ottenere l'equabile diffusione delle ricchezze in uno Stato, siccome dite nel cap. 36 come pure, perché credete, che la legge de' majorascati sia ingiusta, e parziale. i Fratelli (Voi dite nel cap. 4.) privati da un altro fratello del comodo, che godevano nella casa patenta, non veggono in lui, che un usurpatore, che li opprime, e li spoglia di un bene, al quale essi avevano un diritto comune. Costretti a mutilarsi, essi maledicono il momento, che li ha veduto nascere, e la legge, che li degrada. E nel cap. 36. ripetete: Non hanno questi (cioè i Secondogeniti) un dritto comune all'eredità del Padre? Qual principio eterogenee all'investitura d’un feudo si può trovare nella persona et un Cadetto? in somma volete dinotarci, che le leggi che permettono i majorascati, i fedecommessi, e le sostituzioni, difettano in politica, perché sono d’ostacolo alla popolazione, ed all’equabile diffusione delle ricchezze in uno Stato e di più, che sia priva di bontà assoluta quella, che permette i majorascati, perché offensiva de' dritti de' Secondogeniti. Or io sarei ben da poco se negassi, che i majorascati, i fedecommessi, e le sostituzioni siano d’ostacoli all'accrescimento della popolazione, ed all’equabile diffusione delle ricchezze in uno Stato. Anzi dico di più, che essendo la maggior parte de' beni delle famiglie sottoposti a tali leggi, e per ciò suor di commercio, la Società ne risente non picciol danno. Né qui finisce, molti inonesti uomini, che godono tali beni, si danno, ordinariamente per vizj, a contrare de' debiti, o pure a fare delle vendite fraudolenti, colla sicurezza, che le loto possessioni non possono uscire dalla famiglia e ciò colla rovina di tanti poveri creditori e degl’innocenti compratori. Tutto ciò è vero, né io l’ignoro, né io nego; ma il rimedio, che voi proponete è troppo violento, quando non abbia delle riserbe, e de' riguardi, Cosi alle classe delle persone, come agli ordini de' Governi. Passiamo ad esaminarlo. Ma prima convien vedere se la legge de' majorascati sia priva, o no di bontà assoluta: cioè se sia veramente offensiva de' dritti de' Secondogeniti, e se faccia loro bene, o male.

In termini di legge di natura, benché gli uomini, cresciuti di numero, non potettero più mantenersi nella primiera universale comunion di beni, ma, per. economico espediente, e di comun consenso, o espresso, o tacito, dovettero venire alle assegnazioni delle proprietà pur è suor di dubbio, che nelle morti de' proprietarj i beni tornano, pel primitivo dritto di natura nel patrimonio comune. Ond’è, che noi né la facoltà di testare, né il dritto di succedere ab intestato riconosciamo dalla natura; ma tale facoltà, e tal dritto l'abbiamo ricevuto, o per quel patto de' Popoli, che si è detto, o per vigore delle leggi civili, regolate dagli uomini con principj politici. in forza dunque di quelle leggi noi oggi (io scrivo una lettera e non un istituto; e perciò non entro a far menzione di quello, ch’è stato in altri tempi, e presso altre Nazioni) abbiamo la piena libertà di testare a favore di chi ci piace e come ci piace di tutto ciò ch’è nostro libero, purché il testamento non sia inofficioso. Dunque se un Padre di famiglia istituisce un majorascato diseredando tutti gli altri suoi figli, a’ quali altro non lascia, che o la sola legittima, o qualche congruo assegnamento, questi non possono lagnarli d’essere stati lesi in alcuno loro naturale, o civile dritto.

Ma, si dirà, la natura raccomanda ad un Padre egualmente il suo primogenito, che gli altri figli tutti; egualmente i maschi, che le femmine. Perché dunque, potendo, per qualunque dritto si voglia, testare delle sue proprietà, non trattarli tutti egualmente? Perché questa si odiosa predilezione? A ciò rispondo con un filosofo Sovrano (11), che “Chiunque si è presa la pena di esaminare le leggi con uno spirito filosofico, ne avrà senza dubbio trovate molte, che a primo aspetto sembrano, contrarie all’equità naturale, e che tuttavia non io sono; mi contento io (dice il Sovrano filosofo) di citare il dritto di primogenitura; egli sembra, che niente sia più giusto, quanto il dividere egualmente la successione paterna tra tutti i suoi figli; ciò non ostante l’esperienza pruova che le più ricche eredità suddivise in molte parti riducono a capo di tempo le più opulenti famiglie all’indigenza; ond’è, che i Padri si sono meglio contentati diredare i loro secondogeniti, che preparare alla loro casa una, sicura decadenza.”

Ad un Padre provido, Veneratissimo Signor Cavaliere, son a cuore non solo i suoi figli, ma tutt’i suoi discendenti. La natura stessa, che gli spira dell’amore per i primi, lo accalora ancora per i secondi, facendogli riguardare tutti come suoi figli quelli, che da’ figli suoi nascono. Or se le divisioni, e suddivisioni de' beni dopo poche generazioni riducono le più opulenti famiglie all’indigenza; e le alienazioni de' medesimi le portano alla povertà di qual altra maniera mai si può da un savio Padre di famiglia corrispondere all'anzidetto dolce dettame della natura, se non con lasciare i suoi beni sottoposti alla legge del majorascato, e d’uno stretto fedecommesso? Non è vero sorse, che cosi i beni si perpetuano nelle famiglie? E che cosi le famiglie acquistano del lustro? Le ricchezze quando sono bene amministrate, producono nuove ricchezze e coll’opulenza si sanno de' matrimonj vantaggiosi; si acquistano de' feudi si entra nell’Ordine de' Patrizj si facilita la strada agli onori; si giugne in somma alla nobiltà cioè a quell’Ordine luminoso carico di prerogative, di distinzioni, di preferenze, e di vantaggi. A tutto ciò sono a parte i Secondogeniti. Per loro, illustrati dallo-splendore delle proprie famiglie,. e sostenuti dalle opulenze delle proprie case, sono le Commende i Baliaggi, la Sovranità di Malta, e tanti altri Ordini Cavallereschi. Per loro è la preferenza sopra le pensioni, i beneficj, le Abbadie, i Vescovadi, gli Arcivescovadi, le Prelature, le Porpore, la sacra Tiara. Per loro, egualmente che per i primogeniti, sono i più distinti posti della Milizia, mandando in dietro, in concorrenza, ogn’altra classe di persone. Per loro vi sono ancora de' luoghi negli onori, e posti delle Corti. Per loro sono più facili a conseguirli i lucrosi officj di pubblica amministrazione. Per loro, per finirla se lasciassero l’ozio, la scherma, il ballo, la musica, il cavalcare, e si dessero allo studio della Giurisprudenza, sarebbero le Toghe. E se essi privi di proprietà e perciò costretti a mutilarsi, maledicono (come Voi dite) il momento che li ha veduto nascere e la legge che li degrada ciò dipende da un grossolano loro errore,cioè di credere, che le loro case starebbero in quello splendore, in cui si ritrovano, e nel possesso di quei beni, che godono, se quel savio loro Antenato, un secolo, due secoli, tre secoli a dietro e che so io, non avesse soggettato i suoi beni alla legge del majorascato, e del fedecommesso. io non 60 decidere, se sarebbero venuti al mondo que’ secondogeniti, che vi son oggi, se nelle loro case non vi fossero i majorascati, ed i fedecommessi perché allora regolati i matrimonj altrimenti, altri sorse, e non essi sarebbero venuti tra i viventi. So di certo però, che o essi, o altri, che vi fossero, non i starebbero certamente in quello splendore, e grandezza, in cui oggi sono; ma caduti nell'oscurità, e nella bassezza mangerebbero pane di stento, e di sudore; e calpestando fango in mezzo alla folla de' plebei, anderebbero cercando da vivere, e Dio sa in che modo. Che benedicano dunque i loro antenati; che benedicano il momento, che li ha veduto nascere che benedicano la. legge, che li sostiene; che benedicano i majorascati, ed i fedecommessi giacché tutto il loto buon esser d’oggi da questi lo riconoscono (12). Ma che si lagnino de' loro Padri, soltanto quando questi non hanno pensato efficacemente, e con sollecitudine a dar loro fituazione; o per mancanza di conoscenza de' proprj doveri o per una inescusabile spensieratezza; o per una balordaggine intollerabile o per non interessarsi, perché bisognava togliersi qualche comodo, e privarsi di qualche piacere o per un male inteso amore di non allontanarseli da lato, per far loro intraprendere un’utile carriera, li lasciano crescere nell'ozio, e nella dappocaggine; o finalmente per un disdegno, nascente da un sondo di superbia, e d’invidia, che non potendoli far comparire come gli altri più ricchi di loro, e non potendo ottenere quello, che hann’ottenuto gli altri di condizione più distinta (giacché non vogliono riconoscere misura con chi sia loro di sopra, ma solo cogl'inferiori) si contentano meglio di farli rimanere in una perpetua abjezione. Talvolta però bisogna, che si lagnino di loro stessi, perché non di rado accade, che un Padre si dà tutta la cura per fituarli, e che a loro, pieni di svogliataggine per tutto ciò, che richiede una minima applicazione, piace solo il bel tempo, l'amore, il giuoco, i vizj, quasichè non convenisse loro altro mestiero, che solo quello dell'ozio, e d’una vita da balordi, senza badare alle proprie circostanze. Di ciò, e non d’altro debbonsi lagnare. Credo d’aver provato a bastanza la bontà assoluta della legge de' majorascati, e de' fedecommessi: passo ora a provare, che non è priva nemmeno di bontà relativa in alcuni Governi e ché non difetta in politica tuttocchè sia d’ostacolo alla popolazione, e che produca degli altri mali ancora.

E’ una verità nota a tutti, che una legge per dirsi buona dee serbare varj rapporti, e principalmente alla natura del Governo di quel Popolo, a cui si promulga. Le leggi, che garantiscono i majorascati, ed i fedecommessi non sono certamente per i Governi dispotici (13) perché in questi e la vita, e le robe si posseggono in una maniera precaria. E’ da esaminarsi soltanto se tali leggi convengano, o no alle Repubbliche, ed alle Monarchie. io non nego, che il proibire assolutamente i majorascati, ed i fedecommessi nelle Democrazie sia savia cosa perché in esse la sorte de' Cittadini bisogna, che li eguagli per quanto più si può onde una tale proibizione non solo è, utile, ma necessaria ancora. Mi oppongo solo in sentire, che si voglia far estendere questa proibizione nell'Aristocrazie, e nelle Monarchie ancora. il Signor di Montesquieu dice (14), che due cose sono perniciose nell'Aristocrazie, la povertà estrema de' Nobili, e le loro eccessive ricchezze.ilrimedio che propone per moderare le loro ricchezze è che debbano le leggi togliere fra Nobili il dritto della primogenitura, affinché colla continuadivisione delle successioni, le fortune tomino sempre nell'uguaglianza;e di piùprecetta, che si proibiscano le sostituzioni, le chiamate, le adozioni.Questo rimedio sarebbe ottimo per le Aristocrazie elettive a forma di quelle degli antichi tempi; ma per le Aristocrazie accreditarie, come son oggi quelle di Genova, e di Venezia, è assolutamente pessimo. Un tal rimedio guarisce un male, e ne produce due, uno peggiore dell’altro. il primo è, che porta le famiglie alla povertà, cosa perniciosa nell'Aristocrazia, come dice lo stesso dotto Scrittore# Ed il secondo è, che aumentando eccessivamente il numero de' Nobili, e questi divenuti. tutti miserabili, per le continue divisioni, e(: )suddivisioni de' beni, e per la proibizione dello sostituzioni, delle chiamate, e delle adozioni, l'Aristocrazia si convertireinfallibilmente in una Democrazia, o cadrà in qualche altro male peggiore. Ed ecco con questa legge distrutta la natura del Governo. Né poi è vero ciò, ch’egli riferisce nella nota al luogo citato, sull’autorità di Amelot de la Houssaye, cioè, che in Venezia siano proibite le primogeniture; ma e queste, ed i fedecommessi, e le sostituzioni, e le chiamate sono dalle leggi non solo permesse, ma protette di più. Le sole adozioni si ritrovano, non già proibite, ma decadute, e per fatto estinte, non restando, che fiduciariamente nel Popolo, come in ogni altra parte d’Europa è accaduto.

In quanto poi alle Monarchie (questa specie di governo interessa più d’ogni altra il nostro argomento, perche i più degli Stati d’Europa si reggono in tal forma) non potendosi negare, che l’Ordine de' Nobili sia assolutamente necessario, io non so a verun modo comprendere, come mai quest’Ordine possa reggere senza la legge de' majorascati, e de' fedecommessi. La Nobiltà, quando non è sostenuta dalle ricchezze, è un’ombra senza corpo, ma distruggendo i majorascati, ed i fedecommessi, si distruggono le ricchezze: dunque la Nobiltà diviene un fantasma. in questo caso, dove risiederà il decoro della Monarchia, il quale richiede (come Voj dite, parlando di tal Governo, nel cap. 10 del primo Tomo), che vi sia un corpo di Nobili che rifletta su la Nazione lo splendore, ch'egli riceve dal Trono, se quest’Ordine vien composto da una ciurma d’oscuri Tapini, atta solo a sparger tenebre? Dove sarà quella forza necessaria, che le sole ricchezze danno, affinché quel Ordine situato (come seguitate a dire nel luogo citato) tra il Monarca, ed il Popolo indebolisca gli urti, che questi due corpi si potrebbero dare, se vien debilitato a tal segno dalla miseria, che va cadendo per la fame? Una delle due, Veneratissimo Signor Cavaliere: o l’Ordine de' Nobili è necessario nella Monarchico no. Se non è necessario, che si aboliscano i majorascati, ed i fedecommessi. nulla importa. Ma s’è necessario, come assolutamente lo è (15), colla dismissione de' majorascati, e de' fedecommessi la Monarchia cade.

Né vale ciò, che avete scritto nel sopraccitato cap. 36. discendendo al particolare de' feudi, cioè:

“Che non mi si opponga (Voi dite) l'impossibilità d’abolire i maggiorati ne’ paesi, dove ci son feudi. O una famiglia ha un sol feudo, ed allora è giusto, che la baronia sia del primogenito, ma i fondi del, feudo potrebbero esser divisi egualmente agli altri fratelli. O una famiglia ha più feudi, ed in questo caso, perché non ripartirli fra tutt’i figli? Non hanno questi un dritto comune all'eredità del Padre? Qual principio eterogeneo all'investitura d’un feudo si, può trovare nella persona d’un Cadetto.

Un gran feudatario può più facilmente divenire un oppressore, che un feudatario d'un sol feudo. Aumentandosi dunque il numero de' feudatarj, il Principe avrebbe tanti difensori di più in tempo di guerra, ed il Popolo avrebbe tanti oppressioni di meno in tempo di pace.”

Perdonatemi, Signor Cavaliere, se vi dico, che il Vostro discorso non regge. il credere, che i figli hanno un dritto comune all’eredità del Padre, è un inganno.

Ho già dimostrato da principio, che la Natura non dà a’ figli alcun dritto in questo. Ma la divisione de' beni le leggi intorno a tal divisione la successione dopo la morte di colui, a cui toccò questa divisione tutte quelle cose non possono essere state regolate se non se dalla Società, e per conseguenza dalle leggi civili, di. rette dagli uomini con principj politici. Or sc le leggi delle presenti Monarchie d’Europa, dove si vive col dritto de' Franchi, vogliono, che ne’ feudi succeda il primogenito ad esclusione di tutti gli altri fratelli, a cui altro non assegnano, che la sola vito-milizia dov’è dunque il dritto comune di questi all’eredita del Padre? Su quale legge, domando, questo dritto, che voi asserite, è fondato? Niun principio eterogeneo certamente vi ha, per cui un Cadetto non possa essere investito d’un feudo, o di un sondo feudale ma la ragione, e l’esperienza persuade, che dopo poche generazioni, ponendo in pratica la divisione, che Voi progettate, a’ primogeniti non rimarrà altro, che la sola giurisdizione (dove i Feudatarj tuttavia l’esercitano; e dove no, rimarrà loro il solo, e nudo nome di Baroni) e per sondo di rendita non avranno altro, che la sola Mastrodattia. i Baroni dunque, ridotta a questo termine la cosa, non saranno altro, che tanti proprietarj Mastrodatti (16); tanto più, che Voi non volete neppure, che si riuniscano i beni divisi, perché progettate anche la dismissione delle sostituzioni, Quali ajuti mai dunque potranno costoro date al Principe in tempo di guerra, se in tempo di pace manca loro da mangiare? Non è l'istesso, Veneratissimo Signor Cavaliere, possedersi uno o più feudi da un solo, che possedersi da più, come Voi progettate, Colle divisioni crescono del pari le famiglie, e colle famiglie i bisogni; a segno, che quello, ch’era superfluo per una famiglia sola, non basta per molte. Quell’ajuto, che in tempo di guerra può dare al Principe un solo Barone ricco, non possono certamente darglielo più poveri uniti insieme. Le scienze politiche, egualmente che le fisiche, sono scienze di esperienza. Una delle principali cagioni della decadenza de' Longobardi in quelle nostre Provincie su appunto l'aver usata quella divisione nella successione de' feudi, che Voi ora progettate. Mi rimetto a quanto ne dice di tal decadenza l’Autore della nostra Storia Civile ed in particolare a quanto scrive nel §. I. Delle leggi feudali particolari del Regno, messo in seguito del cap. 5. del lib. XI. in quanto poi all’oppressioni, che Voi dite, mi riserbo parlarne da qui a poco.

Per ultimo, domando, dismessi i majorascati, ed i fedecommessi, che ne saremo di tanti Titolati, cioè di tanti Principi, Duchi, Marchesi, e Conti, divenuti tutti bisognosi? E che di tanti Baroni, e Patrizj, caduti nell'indigenza? Avvezzi costoro, per educazione, ad idolatrare il fastoso superbo idolo della Nobiltà, eretto nel magnifico Tempio della fantasia, pretenderanno, che a tal Nume si sagrifichi, o a spese del Sovrano, o a spese del Popolo, o a spese di quei Monti di Misericordia e di Pietà, destinati non già a pascere la voluttà de' Nobili, tanto più oziosi, quanto più miseri; ma a soccorrere quegli onesti Cittadini carichi di famiglie, i quali han vissuto sempre colle loro onorate fatiche, e che poi, o per la vecchiaja, o per qualche male, che li ha lasciat’inabili, han bisogno d’ajuto per vivere. Destinati, io dico, non già a mantenere il fasto de' Nobili ed i loro capricci ma a sovvenire quelle povere vedove co’ loro pupilli, acciocché, per l’indigenza, non cadano in disonestà, ed affinché possano sostentare ed educare i loro figli, e renderli utili alla Patria. Destinati, per finirla, a dotare tante orfane Donzelle, acciocché non si prostituiscano, ed affinché possano prender marito, e con ciò contribuire alla grand’opera della popolazione; e non già ad alimentare un’Ordine di persone, da cui la popolazione è oppressa, quando la medesima lo deve mantenere a proprie spese. il male, che porta ad una Società una moltitudine di Nobili miserabili, è maggiore di qualunque altro male. i majorascati dunque, ed i fedecommessi non si possono, né si debbono togliere in una Aristocrazia ereditaria, ed in una Monarchia; se non si voglia e l’una, e l’altra distruggere. Credo d’averlo provato a bastanza. L’istesso dico di quel governi misti, i quali han bisogno dell'ordine de' Nobili, per mantenere la loro costituzione.

La verità finalmente m’ induce a dire, per conchiusione di quanto ho sin’ora escogitato, che il rimedio, che Voi proponete, per guarire i mali, che sanno alla popolazione i majorascati, ed i fedecommessi, produce de' mali di gran lunga maggiori di quello, che volete guarire: dimodoché Voi occidete l’infermo, volendolo liberare dal male, che soffre. Ma non contenta di questo solo micidiale rimedio, passate a darne un altro, non meno serale per le Monarchie: ed è il seguente.

Nel sopraccitata cap. 4, seguitando a progetto per l’aumento della popolazione, Voi cosi dite:

“Non minore è l'ostacolo, che vi oppone la proibizione d’alienare i fondi feudali. Se il sistema de' feudi potesse mai combinarsi colla prosperità de' Popoli, colla ricchezza degli Stati, colla libertà degli uomini, questa sola istituzione basterebbe per renderlo pernicioso, e funesto. Un supposto interesse del Principe sa che resti immutabilmente segregata dalla circolazione de' contratti una gran porzione del territorio dello Stato. Tutto quelle, ch’è terreno feudale, non si può né vendere, né dare a censo perpetuo, né alienare. Questi sono per lo più terreni oziosi, che potrebbero dare un gran prodotto allo Stato, se la legge, che proibisce l’alienazione de' fondi fondi feudali. non li privaste di quella coltura, ch’è sempre languida, che non può mai essere attiva, quando non è unita a’ preziosi dritti del. la proprietà. Molti terreni incolti sarebbero, coltivati, molte braccia mercenarie diverrebbero proprietarie, se il fisco, abolendo questa legge perniciosa, facesse all'utilità pubblica un tenue sacrificio, del quale egli sarebbe il primo a risentirne i vantaggi. Se nella devoluzione de' feudi egli perderebbe come uno, egli guadagnerebbe come cento ne’ progressi della popolazione, e dell'agricoltura, sempre relativi a’ progressi della proprietà.”

Sicché Voi, Signor Cavaliere, nel divieto fiscale di potere alienare i fondi feudali vi riconoscete due mali il primo, che restino i medesimi immutabilmente segregati dalla circolazione de' contratti ed il secondo, che i territorj feudali rimangano incolti, a cagione appunto della loro inalienabilità. A dirvi il vero, io non trovo affatto sussistente, che perché i territorj feudali non si possono alienare, perciò i medesimi rimangano incolti. Se fosse vero, che l'inalienabilità producesse l’abbandono de' territorj, tutti quelli parimente, che si ritrovano soggetti a fedecommessi, dovrebbero patire l’istessa sciagura, perché niente cambierebbe il motivo dell'abbandono, o che il divieto di poterli alienare venga dal fisco, o da un testatore antenato. Ma Voi troverete costantemente de' territorj feudali, de' territorj non feudali, ma soggetti a’ fedecommessi, e de' territorj liberi ben coltivati come per contrario ne troverete di tutti questi abbandonati alla pigrizia, ed alla sciagura. Secondochè dunque i possessori de' medesimi sono uomini industriosi, o dappoco, cosi Voi vedete i terreni coltivati, o non coltivati. Che percià la dappocaggine di chi possiede, e non il divieto fiscale, sa che alcuni territorj feudali rimangano incolti. Ogni volta, che vedete un territorio non coltivato, sia feudale, sia non feudale, ma soggetto a fedecommesso; domandate al padrone: tu perché non coltivi il tuo terreno? Non sentirete, vi assicuro, che non lo coltivi, perché non lo può alienare. L’inalienabilità porta seco là conservazione de' beni nella famiglia. E quai uomo è cosi sciocco, ed iniquo, che abbandona i suoi terreni, perché vien costretto a conservarli a se, a’ suoi figli, a’ suoi nipoti a’ suoi successori, e congiunti? La devoluzione al fisco, non è neppure la cagione dell'abbandono de' territorj feudali, perché questa non si verifica, se non se dopo l’estinzione della famiglia fino al grado conceduto. Adunque persuadetevi, Signor Cavaliere, che l’unica causa dell'incoltura de' terreni è la balordaggine di chi li possiede. Come pure bisogna, che vi persuadiate, che nel Mondo vi sono stati, vi sono e vi saranno sempre degli uomini savj, e degli stolti; il pretendere, che tutti gli uomini siano savj, è pretendere un impossibile; sicché indispensabilmente dovete vedere de' territorj incolti, 0 che vi siano, o che non vi siano feudi.

In quanto poi al male, che produce l'inalienabilità de' fondi feudali alla circolazione de' contratti, io non so, né posso negarlo ma dico solo, che non potendosi togliere tutt’i mali dal mondo, senza cadere, in parecchi casi, in mali peggiori; perciò la prudenza vuole, che, quando si tratta di guarire mali politici, si vada cauto, e non si precettino de rimedj soverchio violenti, affine d’evitare alcune irreparabili e funeste conseguenze. il rimedio, che Voi proponete di annullare il divieto Fiscale dell'alienazione de fondi feudali, unitamente all’altro (di cui da principio si è parlato) della dismissione de' majorascati, de' fedecommessi, e delle sostituzioni, porta direttamente, ed in un modo pronto, e sollecito alla distruzione intera del sistema feudale, ed alla totale rovina de' Baroni. Che sia vero ciò, immaginatevi per poco annullati i majorascati, i fedecommessi, le sostituzioni, ed il divieto fiscale di alienare i fondi feudali e in un subito vedrete l’Ordine de' Baroni ridotto ad un’estrema miseria, a cagione delle continue divisioni, e suddivisioni (senza speranza di mai più riunire i beni divisi per la mancanza delle sostituzioni) e delle giornaliere alienazioni de' fondi, a misura, che andrà crescendo la loro miseria sicché le Comunità verranno (per quanto si può desiderare) facilitate a potersi redimere dalla loro giurisdizione: ed ecco distrutto in breve tempo il sistema feudale ed ammiserati i Baroni. E questo veramente è l'unico mezzo per distruggerlo, né ad altro si dovrebbe ricorrere, se convenisse farlo: imperciocché il pensare di poterlo abolire a forza di devoluzioni, senza mai più vendere i feudi devoluti è un pensar vano. Questo modo richiede de' secoli per eseguirsi; e col tempo, cambiando capo il governo si cambia anche modo di pensare: oltrecchè i bisogni, che potrebbero sopraggiugnere allo Stato, sarebbero che nuovamente si esponessero venali. Ma quando le Comunità si ricomprano da loro stesse, senza sofferire una crudeltà, non hanno timore di essere mai più rivendute.

Voi in somma, Signor Cavaliere, formate per me un punto di maraviglia Voi, dico, che siete d’una Famiglia di antichissimi Baroni del nostro Regno, com’è nota, e per la Storia nostra, e per lo corpo delle nostre Prammatiche Voi siete cosi avverso al sistema de' feudi, che da ogni luogo della Vostr’Opera scagliate de' fulmini distruttori? Bisogna credere, che gran virtù si annidi nel Vostro cuore, che per amore dell'Umanità non vi curiate della distruzione della Vostra Casa! Una suggestione però mi vorrebbe far credere, che non è tutta virtù quella, che appare in Voi in questo particolare; ma che vi sia anche un poco di crepacuore in vedervi Cadetto e che perciò progettate alla maledetta contra de' feudi. Ma poiché vogliono, che si abbia a prendere sempre tutto per il meglio, non acconsento perciò a tale tentazione, e credo alla Vostra virtù. Mi dovete nondimeno permettere, che io vi dica, che i Vostri progetti, giacché portano alla distruzione del sistema feudale, ed alla rovina de' Baroni; in cambio di giovare nocciono. Voi, per altro, mostrate d'esser persuaso del contrario ma io non comprendo, come mai possiate cosi pensare; tuttochè mi sia noto, che uno spirito d’antifeudalità è quasicché generale. Conviene perciò entrare in questo importantissimo esame, cioè se la dismissione de' feudi e la rovina de' Baroni sia 0 no giovevole a Popoli delle Monarchie, per poter decidere poi de' Vostri progetti. Si venga dunque all'esame.

Domando, in primo luogo, qual condizione sia migliore, quella de' sudditi de' Principi Europei, o quella de' sudditi de' Principi Asiani? La risposta già io l’immagino. La condizione, mi si dirà, degli Europei è impareggiabilmente migliore di quella degli Asiani. Ottimamente. Ma vorrei sapere, onde nasca questa differenza? Perché la Natura, mi si replicherà, e la Costituzione di questi due Governi è diversa: Si è? Dunque, io ripiglio, la Natura, e la Costituzione de' Governi de' Principati d’Europa è migliore di quella de' Principati dell'Asia. Sicuramente, sento dirmi. Ma in che consiste la differenza di queste due Costituzioni? La differenza è grande, mi si risponde, e consiste questo. i Principati dell’Asia sono assolutamente dispotici; cioè in essi si governa senza leggi, e senza norma, ma tutto si sa ad arbitrio, a capriccio e perciò tutto è tirannia, tutto è barbarie, tutto è crudeltà: niuno in questi Governi è sicuro della sua vita, e delle sue robe. Ma ne’ Principati d’Europa (toltone però i dominj del Turco) non è cosi. in questi si governa con leggi fisse, e stabilite, il Principe sa la legge, ma non giudica ed i Magistrati sono quelli, che giudicano, ma non fanno leggi, Sicché in questi Governi tutto è certo, tutto è sicuro, tutto è stabilito: ognuno è padrone della sua vita, e delle sue robe, purché osservi le leggi. Che felice stato! Ma domando, il Principe può fissare le leggi? Si, ma non senza proporsi un fine di felicità pel suo Popolo, Pub cambiare i Ministri, ancorché siano perpetui, per disposizione di legge Si, ma non senza ragione, e causa cognita. Tutto va bene. Ma desidero sapere, chi «legge i Ministri? il Principe, Chi li paga? il Principe. Chi li promuove, e premia il Principe, il Principe dunque sa tutto questo? Si, il Principe. E la potestà esecutrice in mano di chi stà? in mano del Principe, E le rendite dello Stato? Pure. E l’armi? Parimente. Ditemi, Signor Cavaliere, le procedure del Principe son sottoposte ad alcun sindacato? No. E mi sapreste Voi dire, come mai una Costituzione di Governo cosi fatta non degeneri in un dispotismo orientale; giacché, per disgrazia dell'Umanità, tutti gli uomini sono portati ad abusare del loro potere? Ma non occorre, che vi travagliate a darmi la risposta, perché da me stesso ne ho capita la ragione, Badate se dico bene. i Principati d'Europa non cadono nel dispotismo de’ Governi dell’Asia, a cagione del sistema de feudi, e dell'Ordine de' Baroni. Si tant’è, Signor Cavaliere, e sentite come.

L’Ordine de' Baroni, da che si sono introdotti feudi in Europa, è quello, che forma l’Ordine dell’alta Nobiltà, Quest’Ordine è potentissimo per due cagioni; la prima, per i ricchi matrimonj, che possiede; e la seconda. per le grandi popolazioni, che gli stanno soggette. i più ricchi, ed i più distinti per nascita di quest’Ordine sono quelli, che formano la Corte del Principe. Questi lo servono in guerra, ed in pace. Questi lo consigliano nel Gabinetto, Questi sono i suoi Compagni, ed Amici (17). Questi in somma sono quegli, che formano l’ornamento del Trono e che, situati tra il Monarca, ed il Popolo, indeboliscono gli urti, che questi due corpi si potrebbero dare. Un Principe, il quale poco conoscesse i suoi veri interessi, dimodochè non contente di comandare Uomini liberi, volesse rendere schiavi i suoi Popoli con introdurre il dispotismo tirannico dovrebbe, per ciò fare, prima distruggere il Baronaggio, e poscia sottometterebbe tutti a’ suoi voleri. Ma questa è un’impresa ardua, e nell’esito dannosa al Principe stesso; perché in appresso gli mancherebbero que’ fidi, ed impegnati Vassalli, che per sostegno suo egualmente, che di se stessi, si mantengono sempre divisi e discordanti dal Popolo, per cui nelle antiche occorrenze i furiosi sforzi di questo vanno a voto. Dunque il Baronaggio è quello, che formando la difesa del Principe, ed un ostacolo al Popolo rivoltoso, sa si che il Principe lo sostenga, e l'onori; ed in tal modo non trascorra al dispotismo ed alla tirannia. E Voi, Signor Cavaliere ponete in dubbio che il sistema de' feudi formi la prosperità, e La libertà de' Popoli? E Voi volete loro togliere con i Vostri progetti il baluardo della loro salvezza? Tutt’i mali, che Voi riconoscete nel sistema de' feudi, tutti spariscono al solo aspetto del gran vantaggio della libertà, che loro reca. Le Vostre declamazioni adunque contra di esso, benché nate da retto e sincero cuore, sono tutte inopportune, ed ingiuste; ed i Vostri progetti di che merito sieno, lo lascio decidere a Voi.

Prima però di passar oltre, bisogna, che io prevenga un'opposizione, che mi si potrebbe fare, per parte Vostra: ed è la seguente. Mi potreste Voi dire: la Costituzione delle presenti Monarchie d’Europa richiede si bene un’Ordine di Nobiltà, perché altrimenti non può reggere ma non è affatto necessario, che quest'Ordine debba essere di Baroni, i quali sono tanti barbari oppressori de’ loro sudditi, Ed in fatti, che non vi sia questa necessità, i Goti, da cui riconosciamo le Monarchie fondate sopra un corpo di Nobiltà (18), non conobbero mai feudi (19).

A quest’opposizione, che mi potreste fare, rispondo. I. Che se i Goti non conobbero feudi, non ammiserarono però l'Ordine della Nobiltà, come Voi volete fare colla dismissione de' majorascati, de' fedecommessi, e delle sostituzioni. La miseria, Signor Cavaliere, lo ripeto, accioché ve ne persuadiate, distrugge la Nobiltà e la Nobiltà distrutta distrugge la Monarchia. II. Che il Regno de' Goti, precisamente in Italia, su di corta durata (20), e perciò non può servirci d’esempio per conoscere, se, un Ordine di Nobiltà non feudataria, sia valevole a sostenere una Monarchia per lungo tempo (21). All'opposto abbiamo un’esperienza di dodici secoli compiti, da che i Franchi nelle Gallie, ed i Longobardi in Italia introdussero i feudi (22), che le nostre Monarchie si mantengano nell'intero loro vigore, Dunque non è prudenza tentare altro sistema; giacché quello de' feudi si è conosciuto buono per la conservazione delle medesime, e per la difesa della libertà de' Popoli.

Per rispetto poi all’oppressioni, che Voi dite trattandosi di materia di fatto, non posso sapere ciò, che accade da per tutto, perché non son presente in tutti luoghi. Onde mi restringerò a dirvi soltanto quello, che so, in ordine a questo punto, del nostro Regno. Dico dunque esser vero, che molti de' nostri Baroni, in tempo, che in Napoli non vi era il Sovrano, Ceno stati tanti tiranni despoti de' loro Sudditi, e tanti crudeli oppressori de' loro concittadini, a segno, che non ritroverete vecchio alcuno, che non ve li contesti e che non vi faccia de' racconti da farvi raccapricciare; ma oggi, per nostra buona sorte, non sono più tali. La presenza del Re ha abbattuti tali infami mostri dell’Umanità, e gli ha ridotti ad esser Uomini ragionevoli, e ad operare come si dee. Tra gli infiniti vantaggi, che il nostro Regno ha ricevuti dall'avere il proprio Sovrano, non è l’ultimo certamente questo d'aver veduta repressa la barbarie de' Baroni. Sicché, Signor Cavaliere, questo è un male, che si sente solamente in que’ Regni, dove il Principe non fa residenza; ma dove sia il Sovrano, i Baroni non sono né tiranni ne’ loro scudi, né oppressori nella loro Patria.

Non Vorrei però, che da questo ne tiraste Voi la conseguenza con dire dunque i miei progetti possono aver luogo in que’ Regni dove i Principi non sono presenti. No Signor Cavaliere, neppure in questi. i Vostri progetti non solo distruggono i feudi, e con loro i Baroni, 9 qualunque altr’Ordine di nobiltà già l’abilita ma tolgono ancora a questa la possibilità di potervi essere per l’avvenire. Quando le ricchezze sono passeggiere nelle famiglie, non possono né conservare il lustro a quelle, che l’hanno acquistato né farlo acquistare a quelle, che non hanno avuto mai: per lo che tutte diventeranno popolane. Or in uno Stato, dove non esiste un corpo di Nobiltà speciosa, e dove il Principe non può esser presente, ma deve, per necessità, porvi un supremo Ministro, che faccia le sue veci in questo Stato, dico, chi mai impedirà, che il Governatore non abusi del suo Ministero? E chi frenerà mai le furie del Popolo nel caso, che questi dia in trasporti per il mal governo? il Principe, sta lontano, onde non può né saper tutto, né provedere a tutto. immaginatevi dunque, Signor Cavaliere, in quali sconcerti, e disordini può cadere uno Stato di questi. Una delle due,o il Ministro, a guisa d’un Bassa Turco, opprimerà il Popolo o il Popolo, togliendo il Ministro dal Mondo, si sottrarrà dall’obbedienza del Principe. La Nobiltà dunque, e sia di Baroni, in questi Stati, più che in altri, è necessaria, per la conservazione appunto dello Stato stesso. Ma, sento ridirmi, i Baroni opprimono, quando il Sovrano non è presente. Ed io ripeto, che non tutt’i mali si possono dal Mondo togliere, senza cadere, in alcuni casi, in mali peggiori.

Or a dirvi il vero, Signor Cavaliere, io stupisco, come mai a Voi il dispotismo non rechi alcuno spavento; giacché i Vostri progetti, come ho fatto vedere, aprono al medesimo un’ampia strada, Ma, presso a poco, se non m’inganno, credo d’averne capita la ragione. Vol avete per vero, che i costumi ingentiliti del nostro Secolo indeboliscano il dispotismo e percià nol temete. Ecco come dite nel principio dell'introduzione alla Vostr’Opéra. il dispotismo ba bandita nella più gran parte dell'Europa l'anarchia feudale, ed i costumi hanno indebolito il dispotismo.

Non son io per negarvi, Veneratissimo Signor Cavaliere, che le buone cognizioni, rettificando le menti, ed i cuori degli uomini, sanno che questi diventino virtuosi nell’azioni, gentili ne’ costumi, e moderati nell’esercizio del loro potere; dimodochè tutto quello, che sa di dispotismo tirannico, tutto da loro viene abborrito. Ma neppur Voi mi potete negare, che nascono degli uomini al Mondo di una struttura, e di un temperamento tale, che, per quanto mai possono ricevere dei benigni influssi da un secolo culto, sempre si manifestano incacaci di sociali virtù, di gentilezze, e di moderazioni. Or se per avventura uno di questi ascendesse al Trono, cosa n’avverrebbe, io vi domando? i costumi indebolirebbero il dispotismo, o il dispotismo distruggerebbe i costumi? i costumi, Signor Cavaliere, ed il dispotismo si distruggono a vicenda, secondochè gli uni succedono all’altro o l’altro agli uni. Adunque vi bisogna altro per conservare la libertà de' Popoli, e non fidare solo ne’ costumi d’un secolo ingentilito. Come neppure bisogna fidar troppo alla virtù degli uomini; perocchè questi sono soggetti ad una folla immensa di passioni, e son capaci d’istantanei cambiamenti. Misera è sempre la condizione d’un Popolo, quando la sua libertà dipende unicamente dalla virtù di chi lo regge. Questa è una libertà precaria, non già stabile. Gli uomini han sempre bisogno di freno, per ben oprarsi, o che sieno virtuosi, o che no. Acciocché dunque vivano sicuri i Popoli delle Monarchie della loro libertà, non bisogna togliere quegli ostacoli salutari, che inducono i Principi ad operare con moderazione tanto più, che questa ridonda ancora in vantaggio, e gloria de' Principi stessi: come in fatti i Principi d’Europa si pregiano d’esser moderati.

Non disapprovo però il passo dato da Sovrani di disarmare i Baroni, e di armarsi essi. Questo è stato il più gran colpo, che avessero potuto mai fare; e la più savia risoluzione, che avessero potuto mai prendere; tanto per il loro vantaggio, quanto per il bene de' Popoli. Cosi i principi si sono assicurati su i Troni (23). Cosi i Popoli hanno acquistato quella pace, senza la quale non possono essere prosperosi. Cosi son finite le avanie, e le oppressioni de’ Baroni. Cosi il loro dispotismo si è estinto, e la loro tirannia è cessata. Cosi finalmente è terminata quell’anarchia feudale, di che tanto vi consolate (24). Ma che poi, per non averne conosciuto il modo, con cui è stata distrutta, vi siete dato tanto a declamare, nel cap. 7 del I. Tomo, contra Carlo VII Re di Francia, per essere stato il primo Principe, che siasi armato: ed in seguito tutti gli altri (25). Or ridotta a questo buon termine la cosa, che altro si pretende? Dismettere assolutamente il sistema de' feudi, il quale forma la base, sopra di cui poggiano tutte le Monarchie d’Europa; e far che quelle precipitino insieme con quello? Vi ricordo, Signor Cavaliere, quella regola fondamentale di Politica, che la Legislazione non dee distruggere la natura del Governo, ma dee solo emendarne i difetti (26).

In verità, veneratissimo Signore, che se io non fossi più che persuaso, che Voi altro non avete avuto in mente, che di giovarci, direi che artatamente avete avanzati quei progetti sotto un’apparenza di bene, per voglia di veder rovinate tutte le Monarchie d’Europa tanto più, che Voi non contento solo di togliere con tali progetti il più valido ostacolo al dispotismo tirannico, facendo da buon Politico, passate poi a dargli una vigorosa spinta, per accelerarlo nel moto: ed ecco come.

Nel cap. 33 del 2. Tomo, dove si parla Degli straordinari bisogni dello Stato, e della maniera di provvedervi, Voi dite, com’è in fatti, che la guerra ha in tutt'i luoghi, ed in tutt'i tempi richieste maggiori spese, che la pace. Dopo di ciò passate a far menzione de' modi tenuti per provvedervi; cioè, oltre delle tasse straordinarie costumate farsi in tutt’i tempi, di quello praticato dagli antichi d’ammassare de’ tesori in tempo di pace e di quello usato da moderni delle prestanze. E finalmente dopo aver detto varie cose su questi modi tenuti, cosi Voi conchiudete.

“Se il sistema dunque di ricorrere a debiti, è il più pernicioso per la nazione se l’aver un tesoro ozioso, come l'avevano gli antichi, nuoce al commercio, ed all'industria, togliendo una gran porzione del numerario dalla circolazione; se la politica non permette sempre d’innasprire il Popolo con tasse straordinarie, che finissero col bisogno, (che sarebbe per altro il rimedio più giusto, e 'l meno pernicioso di tutti gli altri) se tutto quello, che si è sin’ora pensato da’ governi, è o pericoloso, o pernicioso; bisogna dunque pensare ad un metodo tutto nuovo, per provvedere agli straordinarj bisogni dello Stato. io credo (Voi dite) d’averlo trovato.”

“Qual è la causa (Voi domandate) che rende oggi pernicioso il sistema degli antichi? Si è detto il dover tenere tanto numerario segregato dalla circolazione. Se dunque si potesse avere un tesoro che non fosse ozioso, se si potessero avere delle somme considerabilissime sempre pronte senza toglierle dalla, circolazione, noi potremmo conseguire tutt’i vantaggi della politica degli antichi, senza incorrere negl'istessi inconvenienti. Come dunque fare per combinare due oggetti cosi opposti tra loro? Niente di più facile (Voi, dite). Quella somma, che l'economia dell'amministrazione potrà in ogni anno risparmiare, in vece di seppellirla in un tesoro, che si dia, in mono di quei cittadini che la ricercano, e che possono ipotecarla supra un sonda stabile, che rimarrà inalienabile finché la somma non farà stata restituita al creditore che questo prestito si faccia col patto di restituire la somma al fisco in qualunque tempo, ed in qualunque circostanza farà per ripeterla; e finalmente che niuno interesse si esiga per la somma data in prestito.”

“Questo sacrificio (continuate a dire) sarebbe necessario, perché moltiplicherebbe le richieste, e per conseguenza permetterebbe al Principe di scegliere sempre quelle, nelle quali il suo credito sarebbe meglio cautelato.”

“Egli potrebbe servirsi anche di questo mezzo per premiare i cittadini benemeriti dello Stato, giacché non è piccolo beneficio, che si reca, dando una somma in prestito senza il minimo interesse, Ecco come si potrebbe avere un tesoro, senza togliere neppure la, minima parte del numerario dalla circolazione. Questo sarebbe, è vero, un tesoro metafisico ma che diverrebbe reale subito, che i bisogni dello Stato lo richiederebbero. Che, se il bisogno è cosi grande, che le somme, versate dal governo non bastano per provvedervi, il solo espediente, al quale in questo caso si deve ricorrere, sono le tasse straordinarie. Quando il Popolo vede, che il governo ha tentate tutte le strade per non aggravarlo, quando vede, che il positivo bisogno dello Stato ricerca il suo soccorso, egli non, ardirà di reclamar contro una tassa, la quale per onerosa, che sia, è sempre possibile, quando non è, che per un dato tempo quando non darà più del bisogno.”

Questo Vostro progetto, Signor Cavaliere, è bello, e buono in apparenza, come gli altri due, che abbiamo di sopra esaminati; ma in realtà contiene intrinsecamente tanti inconvenienti, che lo rendono dannoso per le Società, rovinoso per i debitori del fisco, inutile per gli Stati, e pernicioso all'eccesso per i Popoli. Ed acciocché ne possiate chiaramente, e pienamente conoscere la mostruosità, bisogna, che mi permettiate, che io lo esemplifichi sui Regno di Napoli; e che lo immagini messo in pratica da che questo Regno non ha più guerre; cioè dall’anno 1742, in cui le truppe del nostro Re si ritirarono dalla campagna di Lombardia, in seguito di quella di Velletri.

Da tal tempo sin oggi ne sono scorsi 36 anni. Sicché se altro non si fosse messo a cumolo da’ nostri Sovrani, usando dell'economia nell'amministrazione dell’erario, che soli ducati 500000 ogn’anno; avremmo a quest’ora l'ingente peculio di 18. milioni di ducati. Dovendosi dare questi a prestanza, giusto il Vostro progetto, senza interesse alcuno; non vi ha dubbio, che da tal tempo sin’oggi si sarebbero intieramente impiegati. il fisco, dovendo esigere, com’è giusto, della sicurtà per questo danaro, non dico già, che non darebbe cento senza ricevere l’ipoteca di mille, ma solo, che si contentasse del doppio avremmo perciò a quest’ora renduti inalienabili, come Voi progettate, il valore di 36 milioni di ducati di fondi stabili, e certamente i migliori.

Or polio ciò, chi non vede, che questo Vostro progetto sa pienamente a calci coll'altro testé esaminato? Voi in quello maledite il divieto fiscale di poter alienare i fondi feudali, perche restano immutabilmente segregati dalla circolazione de*contratti; ed in questo progettate l’inalienabilità de' fondi ipotecati, dimentico affatto de' danni, che ne riceverebbe la Società? Questi danni, Signor Cavaliere, si possono solamente soffrire quando vanno accompagnati con un utile maggiore, e che sia certo, e sicuro; ma in ogn’altro caso si saranno sentire nella piena loro forza, e vigore; e perciò saranno intollerabili. Ma veggiamo, se sia sicuro il vantaggio, che si ricava da questo Vostro progetto.

Immaginiamo, per poco, che il nostro Sovrano stesse oggi nelle circostanze di dover indispensabilmente dare, o ricevere la guerra. Posto ciò, intimerebbe subito a’ suoi debitori la restituzione delle somme ricevute a prestanza; e poiché il bisogno non ammetterebbe dilazione, perciò sarebbero i medesimi messi in mora. Or questi non tenendo certamente nel forziere il danaro ricevuto, dovrebbero uscire in piazza a cercarlo. Ed ecco il principio d’una dolorosa scena. Le somme, che si cercherebbero, sarebbero grandi; il numero delle richieste sarebbe grandissimo; il bisogno non ammetterebbe dilazioni; e perciò il tempo prescritto sarebbe breve; il fisco che minaccerebbe de' sequestri, e forse di peggio a’ suoi debitori, perché stimolato dall'urgenza del danaro tutte quelle cose insieme sanno capir subito ad ogn’uno, in quali critiche circostanze si ritroverebbero i poveri debitori, e se benedirebbero, o maledirebbero l’ora, in cui presero dal fisco tal danaro a prestanza. Sarebbero costretti in somma o a fare de' contratti rovinosi, o ad essere rovinati dal fisco. E se Voi mi direte, che il Principe potrebbe con una legge dare la norma a’ tali contratti, fulminando delle pene severe a chi si volesse approfittare del tempo, e fare degl'inonesti negoziati; io vi risponderà, che questa legge rovinerebbe maggiormente i debitori del fisco, perche cosi non troverebbero più danaro in piazza; ed il Principe, dopo che l'avrebbe spogliati de' beni ipotecati, sarebbe costretto ad uscire egli stesso in piazza a cercare delle prestanze con dare in pegno le rendite dello Stato; ch’era quello appunto, che Voi volevate evitare. A questi stesso espediente dovrà venire ancora il Sovrano ogni volta che le somme, che bisognassero per la guerra, fossero esorbitanti, per cui si dovessero cercare alle piazze straniere. Sicché dunque il vantaggio, che ci promettete col Vostro progetto, rimane nell'immaginazione; ma sarebbe vera, certa, ed inevitabile la rovina de' debitori del fisco. Quello che si è esemplificato sui Regno di Napoli vale proporzionatamente per ogn’altro luogo.

Che vi pare, Signor Cavaliere, va cosi la faccenda? Cioè, che il Vostro progetto è dannoso per le Società, rovinoso per i debitori del fisco, ed inutile per gli Stati? E pure il suo maggiore inconveniente non l'abbiamo ancora svelato. Questo consiste in essere pernicioso all'eccesso per i Popoli, perchè dà l'ultima mano al dispotismo tirannico. E che sia cosi,vi vuol poco a conoscerlo. Combinate insieme il presente con i due progetti antecedenti da noi esaminati, e subito ve ne renderete sicuro. Quelli due soli, messi in esecuzione, bastano, come ho fatto vedere, per introdurre il dispotismo tirannico nelle Monarchie d’Europa; aggiuntovi poi quello terzo, la cosa va all'ultima sua perfezione: ed eccone la ragione.

Dismessi i majorascati, i fedecommessi, e le sostituzioni, ed abolito il divieto fiscale di poter alienare i fondi feudali, e con ciò rendute passeggiere le ricchezze nelle famiglie; abbiamo detto, che rimane distrutto ogn’Ordine di Nobiltà, e perciò tutti gl'individui d’uno Stato diventeranno popolani. Su quello piede, fate che ’l fisco dia de' molti milioni a prestanza con esigere, com’è giusto, dell'ipoteche; chi non vede ora quali, e quanti mai possono essere i pretesti, per ispogliare i sudditi della proprietà de' lord beni, e fare, che tutto cada in mano del fisco. (27)? Altro non vi vuole, per ciò eseguire, che la sola volontà d'un Principe che non foste ben consigliato, e diretto da’ suoi Ministri. L’invidia, compagna indivisibile dell'uomo, sarà in questo caso, che chi niente possiede guardi con piacere lo spoglio degli altrettanto più che manca quella affezione, che suole avere il basso Popolo, per le famiglie illustri della sua Patria giacché di queste niuna più n’esisterà, nel modo, che abbiamo detto. La plebe, è vero, che abborrisce, ed odia la Nobiltà in generale, (e non senza ragione)ma per certe famiglie particolari nutrisce della grande affezione, e si pregia, che le medesime adornino la sua Patria sicché lo spoglio di quelle non saprebbe guardare con indifferenza, come sarebbe d’ogn’altra.

Ma Voi mi direte, che in ogn’altro paese può mancare la Nobiltà, fuorché in quelli, dove le famiglie Nobili sono ascritte, come in Napoli, ne’ Sedili, o pure in altro modo sicché quelle non si confonderanno mai colle popolane. Questi Nobili, Signor Cavaliere, ridotti miserabilissimi con i Vostri progetti, sapete cosa mi sembrano? Mi sembrano tanti Vampiri di Moravia cioè tanti famelici cadaveri ambulanti, i quali, come quelli, cercherebbero di nutrirsi del langue de' vivi, ma che poi, ad un semplice cenno del Sovrano, nel modo stesso che si racconta di quel parto di fantasia, dando loro una lanciata nel petto, si vedrebbero interamente estinti.

Ed ecco, Veneratissimo mio Signor Cavaliere, in che tristo stato si ridurrebbero le Monarchie dEuropa (e se per consenso poi tutte l’altre Società di essa), se questi Vostri progetti fossero messi in pratica. L’Europa, che mai non ha goduto, come in questo Secolo, una pace, una tranquillità, una prosperità, ed una felicità simile a quella, che sta godendo, frutti tutti di quella coltura, che l’avanzamento delle scienze le ha dato l’Europa, io dico, si vede oggi insidiata da un figlio delle Muse con alcuni progetti, che non tendono, che a rovinarla sotto nn aspetto di bene; e perciò tanto più perniciosi, quanto più lusingano l’immaginazione. io per altro non temo punto delle triste loro conseguenze, perché sto sicuro, che la saviezza, la moderazione, e la virtù de' presenti Principi d'Europa non permetteranno mai, che sieno eseguiti. i Sovrani di questa felice parte della Terra han conosciuto ad evidenza, che la loro felicità dipende da quella de' loro sudditi; che la loro sicurtà dipende da quella de' loro Popoli e che la vera loro grandezza consiste in comandare uomini liberi, e non schiavi.

E’ forza dunque, Signor Cavaliere, che Voi confessiate d’esservi ingannato in avanzare tali progetti. Né vi giova il dire d’aver ciò fatto pel desiderio di veder tolti i mali, che sanno alle Società d’Europa i majorascati, i fedecommessi, le sostituzioni, il divieto fiscale di poter alienare i fondi feudali, e le somme, che si prendono da’ Principi a prestanza in occasione di guerre; perché dovevate sapere, come filosofo, che non tutt’i mali si possono dal mondo togliere senza cadere in alcuni casi in mali peggiori.

La moderna Metafisica ci ha fatto conoscere, che deliravano que’ filosofi dell'antichità, i quali dicevano, che i mali derivavano da una malvagia divinità, dalla materia eterna ed indomabile, dalle eterne tenebre, dalla guerra de’ Giganti contro Giove, dalla temerità di Prometeo, e da altre simili ciance ma ci assicura che la sola, e vera cagione di essi, sieno Metafisici, sieno Fisici, sieno Morali, sieno Teologici, sieno Politici, e quell’istessa, da cui dipende ogni nostro bene, cioè la legge Cosmologica di collisione; e che perciò sono cosi inerenti alla natura del Mondo, che non si possono da questo togliere senza distruggere il Mondo stesso (28).

Non è però, che molti di essi non si possano o interamente, o in parte evitare: ed in questo appunto consiste l’officio del filosofo, di conoscere cioè, quando, e come si possa ciò fare, senza cadere in mali peggiori che vale a dire ridurre i mali al minimo possibile, in cui consiste la felicità di questa nostra vita. Ma il pretendere di voler togliere tutti tutti i mali dal Mondo; o pure, come Voi vi compromettete, di sbarbicare tutt’i mali politici dalle Società d'Europa, è una dolce, ma vana lusinga, la quale non serve ad altro, che a far cadere il Mondo, o una parte di esso in mali peggiori. io non ho avuto in mente di passare a rivista tutti Vostri progetti ma sappiate, Signor Cavaliere, che la maggior parte di essi pecca appunto in questo. Abbiate, vi prego, come un assioma politico, che il massimo de' mali, che possa soffrire un Popolo, è quando in testa a chi lo governa salta il pensiero di volerlo liberare da tutt'i mali. Ma veggiamo se io sappia ritrovare un rimedio capace a minorar quelli, di cui Copra abbiamo favellato, giacché si è detto, che non si possono interamente togliere.

Ed in prima, per minorare i mali, che nascono da’ majorascati, e da’ fedecommessi, bisogna( )procedere con prudenza, e saviezza: ed ecco come. Non si devono affatto toccare i majorascati, ed i fedecommessi, che si trovano già istituiti, perché ogni novità, che si faccia circa a questi è o ingiusta, o imprudente. Dismetterli tutti, si è detto, che non si può: ed oltre alle tante ragioni di sopra addotte, vi è anche quella, che sarebbe un ingiustizia il privare i chiamati al godimento de' medesimi d’un dritto da loro acquistato con piena forza di legge. Dismetterli in parte, cioè quelli d’alcune famiglie, che meritano meno riguardo, sarebbe un’imprudenza, perché disgusterebbe gli animi d’una gran parte degl'individui dello Stato, vedendosi trattati da meno degli altri e questi veramente con ragione maledirebbero la legge, che li degrada. Bisogna dunque lasciarli finire da loro stessi coll'estinzioni delle famiglie; e sc questo si reputa un rimedio lungo, bisogna persuadersi, che i mali cronici cosi si curano. Deesi in somma pensare solo al futuro, e non al passato; e qui anche bisogna avere alcuni riguardi. Proibire assolutamente, che per l'avvenire non si postano più istituire majorascati, e fedecommessi, non va bene. Le Aristocrazie ereditarie, le Monarchie, ed alcuni Governi misti han preciso bisogno de' Nobili le famiglie, che vi sono, andranno estinguendosi da tempo in tempo adunque necessita sorrogarne delle nuove: tanto più, che non bisogna togliere a niuno la ragionevole speranza di giugnere a quet’Ordine invidiato. Ma la Nobiltà per reggere ha bisogno, come si è detto, di ricchezze permanenti, dunque solo a coloro a quali si permetterà d’entrare in tal Ordine dovrebbesi accordare la facoltà d'istituire majorascati, e fedecommessi, e proibirla a tutti gli altri.

Ed a chi mai si permetterà d’entrare nell’Ordine de' Nobili? Qui debbono le leggi seriamente badare, per togliere gli insopportabili abusi. La Nobiltà, se si pone mente alla moltiplicità delle prerogative, che dà, in una Società, a chi ne va adorno, è un bene inestimabile. E se quello bene non si conosce da chi lo possiede, e se disprezzasi da chi non lo gode; dipende che i primi non sanno, che significhi il non averlo e che i secondi, o disprezzano ciò, che invidiano, o mascherano l'invidia con una affettata filosofia: giacché i veri filosofi pratici sono assai pochi. Se dunque è cosi, che la Nobiltà è un gran bene; e che quanto dà di prerogative ad un individuo, tanto ne toglie dalla massa comune de' dritti di tutti gli altri dell'istessa Società conviene perciò, che quello bene non si accordi, se non se solo a quelle persone che hanno prestato de' distinti, e non ordinari servizi allo Stato.

Per non dilungarmi di vantaggio, e per non divertirmi dal mio argomento, non entra ad individuare con precisione quali debbano essere quelli servizj, e quali le persone, a cui si dee un tanto bene: imperciocché dovendo ragionare il mio sistema su di ciò, e precisamente per quello, che occorre nelle Monarchie, dove la faccenda è molto inviluppata, mi dipartirei troppo dal mio proposito, ond’è che passo innanzi. Bramerei però veder trattato dalla Vostra elegante penna quest’argomento, cioè degli abusi, che vi sono in entrare nell'Ordine della Nobiltà e della maniera di toglierli. il quale argomento, secondo il mio debole pensare, non è de' meno interessanti; e pure sin’ora non mi è a notizia, che sia (lato da Politico alcuno trattato.

Ridotti in somma, come si è detto, i majorascati, ed i fedecommessi ad i soli Nobili; e corretti con una savia legge gli abusi, che vi sono in entrare nel loro Ordine; cosi il male, che fanno alla popolazione, viene a ridursi al minimo possibile ed al minimo possibile ancora, in tal modo, riducesi l'altro, che sanno arrestando il commercio de' beni, senza intanto distruggere gli Ordini de' Governi. Quel che si è detto de' majorascati, e de' fedecommessi, val detto ancora delle sostituzioni,

Per rimediare poi all’eccessive ricchezze de' Nobili nell’Aristocrazie ereditarie, non si dee togliere il dritto delle primogeniture, né de' fedecommessi, né delle sostituzioni, né delle chiamate, né delle adozioni, niente in somma di quanto precetta il dotto Autore dello Spirito delle Leggi ma basta solo, che si limitino le somme de' majorascati, e de' fedecommessi, e cosi si rimedierà al male.

Per le Monarchie pero non è affatto da pensare a limitazione alcuna, perché come il fasto forma una parte della potenza di tali Governi cosi non sono da toccarsi quelle famiglie, che contribuiscono al decoro del Trono. E poi, parliamo sui vero, ed a sangue freddo, quanti sono (eccettuati i Luoghi Pii, e gli Ecclesiastici, di cui io non parlo, perché non appartengono al mio argomento, e per non entrare in discorso di moda) i gran proprietarj in ogni Monarchia? Nella nostra certamente, che sa oggi poco meno di cinque milioni d’abitanti s parlo solo del Regno di Napoli) sono assai pochi, a segno, che si possono da ognuno facilmente numerare quelli, che veramente possonsi dire gran possessori, e questi ritrovansi solo nella Capitale mentre i mediocri, e piccioli proprietarj sono innumerabili, cosi nella Capitale, come nelle Provincie tutte del Regno.

Per rimediare a’ debiti, che si fanno su i beni soggetti a’ fedecommessi, ed alle vendite fraudolenti, che si sanno de' medesimi; l'unico efficace rimedio è quello d’ordinare che ogni Comune debba fare un pubblico registro di tutte le possessioni, che sono nel suo distretto; ed ivi notare distintamente tutti censi, pesi, ed obbligazioni, che vi sono annessi, e quali di esse son soggette a’ fedecommessi, e quali no. Cosi finirebbero tutte le frodi, e la maggior parte ancora delle liti ne’ Tribunali (29).

Questi sono i rimedj, per minorare, quanta sia possibile, i mali, che sanno all'Europa i majorascati, i fedecommessi, e le sostituzioni. Passo ora a vedere, che si può fare degli altri.

In quanto al divieto fiscale di poter alienare i fondi feudali, si è detto di sopra, che un solo è il male, che produce, di toglierli cioè dalla circolazione de' contratti. Male in vero non picciolo, ma male necessario, come di sopra si è fatto vedere per la conservazione delle Monarchie. Né io saprei in che modo mai si possa questo diminuire senza ammiserare i Baroni né sin a quai segno si possa minorare la forza di questi, che le Monarchie non ne abbiano a sentire del nocumento. Sicché essendo quello uno di que’ mali, che non si possono né interamente né in parte dal mondo togliere senza cadere in mali peggiori, perciò con viene non toccarlo.

Finalmente per provvedere agli straordinari bisogni dello Stato, ed in particolare a quello della guerra, essendosi dimostrato, che la maniera la più funesta sia quella, che Voi progettate perciò non è da tenerne conto alcuno Tanto più, che non so con quai buona regola d’economia si possa progettare d'impiegare delle somme cosi ingenti senza ricavarne alcun frutto mentre non vi è Stato oggi in Europa, che per cagione delle passate guerre non abbia de' gran debiti contratti con aver dato in pegno le pubbliche rendite. Perché dunque non dispegnorar quelle col danaro, che si può risparmiare in tempo di pace coll'economia dell'amministrazione? Qual altro progetto più savio di quello si va cercando? Aumentandosi cosi le rendite dello Stato, i Sudditi verrebbero ad essere risparmiati da’ nuovi aggravj in tempo di pace; ed in tempo di guerra, ricorrendo nuovamente alle prestanze, si soddisferebbe al bisogno, senza pensare ad altro; o al più con aggiugnervi qualche tassa straordinaria, ma che finisse col bisogno stesso, a tutto s’adempirebbe, senza cadere in alcuno degli inconvenienti né degli antichi, né de' moderni, di cui sopra si è fatto menzione. Se coloro, che hanno la cura di governare i Popoli, non,si determinano a questo salutare espediente, gli Stati andranno sempre di male in peggio sino alla loro totale rovina.

Volete Voi, Signor Cavaliere, formare de' progetti d’economia per uno Stato, e volete non isbagliarla? Fate com’io vi dico: Proponetevi per modello uno de' più savj capi di famiglia, che potete conoscere nella Società; e badate come costui regoli l’economia di sua casa. Dovendo poi progettare, progettate a norma di quanto avete imparato da tal modello; e state sicuro, che non la sbaglierete. L’economia pubblica è l’istessa dell’economia d’una famiglia privata, colla sola differenza, che passa tra ’l grande, e ’l picciolo, Cosa sarebbe, domando, un savio uomo, se la sua casa si ritrovasse aggravata da debiti? Ad altro certamente non baderebbe, che a mettersi in economia, ed a liberarla da questo morbo micidiale. Si faccia dunque lo stesso per uno Stato, che ritrovasi in simili circostanze. i debiti siccome distruggono le più opulenti famiglie, cosi rovinano ancora i più ricchi Stati, quando cessato il bisogno, per cui si son fatti,non si pensa subito a dismetterli (30). L'uomo savio istesso non esiterà punto ne’ gravi straordinarj bisogni di sua famiglia a far anch’egli de debiti, ed a vender pure,se la necessità lo richiede, ma cessata questa, subito si darà a rimettere la sua casa nel primitivo stato. il male dunque non consiste in far de' debiti pe’ bisogni, ma dipende dal non toglierli, quando questi son cessati. Perché dunque quelli,’.che governano i Popoli non debbono regolarsi a norma degli uomini savj? E se Voi mi direte, che questo non è sperabile: io vi replicherò, dunque gli Stati andranno sempre di male in peggio sino alla loro totale rovina.

Or quello progetto di torre dagli Stati i debiti che si trovano già fatti, e di farne degli altri subito che il bisogno lo richiede, viene attaccato per l’una, e per l'altra parte. Voi dite nel sopraccitato cap. 33. del 2. Tomo I:

“Io non entra ad esaminare, se il Sovrano, abbia, o no il dritto di farlo (cioè di far debiti) se la Corona essendo ereditaria, e l’amministrazione assoluta; se il Principe non avendo il dritto di disporre della successione al Trono; se una perpetua sostituzione, togliendo all'usufruttuario della corona la proprietà de' fondi, e proibendogli di disporne, o nella totalità, o nelle parti non entra (Voi dite) ad esaminare, se quello titolata passeggero, che non può alterar l’ordine della sua successione, né dare a’ membri avvenire dello Stato, che governa un altro Sovrano, se non quello, ch’è dalla legge chiamato dopo di lui al Trono, possa egli eludere, quella disposizione, obbligando la Nazione j, intera pei suoi debiti, e consumando anticipatamente le rendite de' suoi successori col caricare di debiti l'erario, h proprietà del quale è della Corona, e il sol uso di chi la porta. io lascio a’ politici (Voi seguitate a dire) l’esame di questa interessantissima questione, che un secolo di discussioni, come questo, non lascerà di risolvere; e mi piace, di nascondere il mio giudizio su quest’oggetto, ecc.”

Altrj poi esclamano contro alla dismissione di questi debiti pubblici, esponendo la rovina di tante case particolari, che o interamente, o in parte cosi sussistono (31). Conviene dunque rispondere a quelle due opposizioni. Ed in prima dico, che se la dismissione di questi debiti conteneste dell’ingiustizia in questo caso non vi G dovrebbe affatto pensare. Ma qualora con espresso patto di redimersi quando-cumque da tali debiti lo Stato ha contrattato con suoi creditori sparisce perciò ogn’ombra d’ingiustizia nella dismissione de' medesimi. La questione dunque si riduce solamente ad esaminare, se il bene pubblico dev’esser preferito al privato, o questo a quello. Ma quai questione è mai questa? E chi mai ha messo in dubbio, che il bene pubblico dev’essere sempre preferito al privato, quando non vi è ingiustizia per alcuno particolare? Sicché dunque per questa parte siamo fuori di controversia (32).

In quanto poi alla Vostra difficoltà, vi rispondo, che se la questione si dovesse risolvere da’ Giureconsulti sulle ragioni da Voi addotte, certamente si direbbe t che i Principi non possono, per le guerre, far debiti a conto dello Stato ma dovendosi discutere da’ Politici, i quali esaminano le cose sott’altro aspetto, il decreto perciò sarà altrimenti. Ecco come la discorrerà un Politico. La guerra, egli dire, o è giusta, e ragionata, o capricciosa, ed ingiusta. Se la guerra è ingiusta, se la guerra. è capricciosa, il Principe non può né deesi farla né a spese sue, né a spese de' suoi successori con lasciare de' debiti allo Stato. Ma se la guerra è giusta, se la guerra è ragionata, sia offensiva, sia difensiva, perché non può fare in nome dello Stato, tuttocchè la Corona sia ereditaria, quei debiti, che bisognano, per sostener la medesima? Non è vero sorse, che un Principe serbando a se lo Stato, ed i suoi dritti con una guerra difensiva, serba e l'uno, e gli altri ancora a’ suoi successori? Non è vero pure, che rivendicando il medesimo con una guerra offensiva dalle mani o d’un’invasore, o d’un usurpatore ciò, che al suo Stato, o di proprietà, o di dritti è stato tolto, viene nel tempo stesso a riacquistare tutto ciò ancora per chi gli succede al Trono? E s’è cosi, come non si può negare, non vi è male dunque, che questi soffrano de' debiti fatti per quelle. E poi essendo la guerra un male, a cui sono soggetti tutti i Popoli, né potendosi sempre da chi governa evitare, per qualunque prudenza, e moderazione venga da loro usata perciò ogni ragion vuole, che l’esorbitanti straordinarie spese, che bisognano per la medesima, vadano a conto dello Stato. Ma si è detto, che niun modo, per provvedervi, è. più acconcio di quello de' debiti (purché i Principi si facciano un indispensabile dovere di toglierli colla maggior efficacia, subito che la pace ritorna); dunque svaniscono tutte le opposizioni mentovate.

Questi sono i rimedj, che io ho saputo ritrovare, per minorare que’ mali, di cui sopra abbiamo favellato, giacché si è detto esser del numero di quelli, che non si possono interamente dal Mondo togliere, senza cadere in mali peggiori. Di qualunque valore mai sieno questi rimedj da me progettati, li sottometto pienamente, e di buon animo alla Vostra savia censura; e mi reco a gloria, se, conoscendoli Voi difettosi, vi benignate di correggerli. Per non abusarmi della Vostra bontà, tralascio l’esame di tutti gli altri Vostri lusinghieri progetti bastandomi d’avervi fatto conoscere, con que’ pochi, che ho esaminato, in che grave pericolo Voi ponete l’Europa tutta, pel soverchio zelo di vederla liberata da’ mali. Non credo, che vi vogliate crucciar meco, per essermi a tanto avanzato; giacché quello stesso zelo, che ha animato Voi per vedere l'Europa liberata da’ mali, che soffre ha animato me ancora, per sottrarla da’ pericoli, a cui la veggo esposta. La cosa dunque mi giustifica da se stessa.

Prima però di finire, mi dovete permettere, che io faccia menzione d’una Vostra asserzione intorno alla popolazione de' paesi feudali; poiché i due primi progetti, di cui sopra abbiamo discorso, concernono appunto l'accrescimento della popolazione. Nel cap. 3 del II. Tomo, opponendovi a coloro, che sostengono, che la miseria non sia d’ostacolo alla popolazione, e che per provarlo ci sanno allontanare dalle captali, e ci portano ne’ paesi soggetti al dominio feudale, dove ci additano i più miserabili, e ci san vedere, ch’essi son quelli, che meno sanno privarsi del matrimonio, cosi Voi vi lasciate a parlare. Se i matrimonj (Voi dite interrogando) fossero in questi paesi cosi frequenti, non dovrebbe forse la loro popolazione crescere in ogni giorno? Da che deriva, che a misura che noi ci allontaniamo dalle Capitali, noi troviamo la desolazione nelle campagne? Da che deriva, che la loro popolazione in vece di crescere, si vede sensibilmente diminuire? Bisogna dunque dire, o che il fatto non è vero, a che i figli i che nascono da questi infelici conjugi periscono nell’aurora istessa de' loro giorni, o che il germe fecondatore è sterile, allorché è inaridita dalla miseria.

Non è affatto mia intenzione di entrare in questa contesa, cioè se la miseria, sia a no d’ostacolo alla popolazione ma solo mi oppongo alla Vostra asserzione, che ne’ paesi feudali (di cui si parla) la popolazione in vece di crescere si vede sensibilmente diminuire. io non so, Veneratissimo Signor Cavaliere, come mai avete potuto avanzare una simile proposizione. Voi è vero che parlate in generale de' paesi feudali di tutta Europa; ma usando quel termine sensibilmente, fate credere ad ognuno che Voi appoggiate la Vostra asserzione sui Regno di Napoli. imperciocché la prima delle condizioni necessarie, che si richieggono nelle sensazioni, e appunto quella, che l’oggetto sentito sia presente a’ sensi. Ma di tutta Europa il solo Regno di Napoli è presente a’ Vostri sensi. Adunque su di questo Voi fondate la Vostra generale proposizione. Conviene perciò, in onore del vero, che io vi faccia conoscere quanto sia salso, che la popolazione de' paesi feudali del nostro Regno, in vece di crescere, si veda sensibilmente diminuire. Ma poiché in alcune materie, quando si discorre con principj astratti, o su fatti, che tanto coda l’asserirli, quanto il negarli, come non v’ha errore, che non si possa sostenere, né verità evidente, che non si possa contrastare; quindi è che nella presento occorrenza ho stimato, lasciando ogn’altro principio, di ragionare solo su fatti innegabili.

Nella pagina 151 del Calendario della Corte del corrente anno 1782 noi abbiamo la popolazione del nostro Regno dalla Pasqua del 1766 alla Pasqua del 1781. Nella Pasqua dell’anno 1766 la popolazione del nostro Regno;( )inclusavi la Capitale, era di 3953098, e quella della Capitale sola era di 337095. Nella Pasqua poi dell’anno 1781 la popolazione del Regno, e Capitale insieme era di 4677821.; e quella della sola Capitale era di 383915. Sicché nel termine di quindici anni la popolazione della sola Capitale è cresciuta di 46820; e quella del Regno, e Capitale insieme e aumentata di 724723. L’accrescimento dunque della popolazione delle sole Provincie nel dato tempo è di 677903 (33). Domando al Signor Cavaliere, quello strabocchevolissimo aumento di popolazione fatto nelle nostre Provincie nel termine di soli 15 anni, in quali paesi si è fatto? Non è vero forse che le Comunità del nostro Regno, tra Città, Terre, e Castelli, sono 1922? (34); e che di quelle, nel corrente anno, solo 124 sono di Regio Governo (35) e che tutte l’altre, cioè 1798, sono Baronali? Non credo, che per mantenere la Vostra asserzione vogliate dire, che tale accrescimento di popolazione siasi fatto solamente in quel picciol numero di paesi Regj, che si è accennato imperciocché l’intera loro popolazione forse si, forse no, giugne a quel numero, di quante le Provincie sono cresciute. E poi, se ciò il voglia supporre (il che non è), ne verrebbe in conseguenza, che l’accrescimento della popolazione proporzionatamente per tutto il Regno, nel dato tempo, avrebbe dovuto essere circa a 10 milioni (36). E vi pare, che il genere umano moltiplica a questo modo? Cioè, che nel termine di 15 anni, meno di 4 milioni d’uomini, quant’erano nell’anno 1766, diventino 14 milioni? Ma lasciamo stare le ragioni astratte, perché ho promesso, in questo argomento, di parlare solo su fatti innegabili. Osservate, vi prego Signor Cavaliere, le liste della popolazione, che si mandano alla Corte nella Pasqua d’ogn’anno da ciascheduna Diocesi del Regno, e vedete se ne’ paesi feudali la popolazione, in vece di crescere, si vede sensibilmente diminuire? Se forse ne’ feudi di Vostra Casa, per qualche disgrazia, sia ciò avvenuto, avete fatto male a generalizzare la Vostra proposizione. Tanto più, che nelle nostre Provincie, e perciò ne’ paesi feudali, non solo è strabocchevolmente cresciuta la popolazione, relativamente al numero degli abitanti, nel solo picciol tempo di 15. anni; ma di più è aumentata in una ragione molto maggiore di quella, ch’è avanzata nella sola Capitale. Per assicurarvi di questa verità, fate una regola di proporzione, come 337095 (popolazione della Capitale nella Pasqua dell'anno 1766), a 3616003, (popolazione delle sole Provincie nello stesso tempo) cosi 46820, (accrescimento nella Capitale sin all’anno 1781), al quarto proporzionale; che per quarto termine avrete 502236. Questo in somma sarebbe l’aumento delle Provincie proporzionato a quello della Capitale. Ma si è detto, che le provincie sono accresciute di 677903, cioè di 175667 più di quello che porterebbe la proporzione anzidetta, Dunque nelle nostre Provincie, ed in conseguenza ne’ nostri paesi feudali, l’aumento della popolazione non solo è esorbitante molto, ma ancora è in una ragione assai maggiore di quello della Capitale (37).

Or che vi pare, Signor Cavaliere, sono verità quelle, che si possono negare? Non è vero dunque, che ne’ paesi feudali del nostro Regno la popolazione in vece di crescere, li vede sensibilmente diminuire. Che ne sia poi degli altri luoghi d’Europa, a me non coda, e perciò io taccio (38).

Finisco, per non più tediarvi,cercandovi scusa dell*ardire, e nel tempo stesso dedicandovi la mia perpetua servitù.


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PROSCRITTA

L’Esame da me fatto su di varie cose dette da voi appartenenti a’ feudi, ed alle leggi feudali, mi fa ora ripigliar penna per soggiugnere alcuni miei sentimenti intorno al vostro progetto dell’abolizione della nostra Prammatica I. de Feudis, detta comunemente la Filangeria: e ciò per non lasciare cosa alcuna inesaminata da Voi scritta concernente la materia feudale: e tanto più volentieri vengo a questo esame, in quantoché il progetto da Voi avanzato si appartiene unicamente al Regno di Napoli.

A dirvi il vero, Signor Cavaliere, io non sono di quegli Eroi del secol corrente, a quali se domandate Voi chi siete? vi rispondono Noi siamo Uomini. E se cercate della loro patria, vi sentite dire la nostra patria è il Mondo. Magnifiche parole! Anch’io, senza fallo, asserisco essere un Uomo, ed un Uomo di questo Mondo, e mi vanto di essere sensibile per gli interessi di tutta l’umanità; ma poiché ogni dovere ha i suoi gradi, ed avendomi la Provvidenza fatto nascere nella Città di Napoli; quindi è, che per ragione di prossimità, niente più mi è a cuore del Regno di Napoli mia Patria. Per il che vengo con piacere all'esame proposto, rapportando prima le parole del vostro progetto; ecco come voi dite nel più volte sopraccitato capo 4 del 2 tomo.

“Un’altra legge converrebbe abolire presso di noi. Questa è quella, che preferisce nella, successione de' feudi la figlia del primogenito, a’ suoi fratelli (39). Questa legge dettata dalla passione, e dall’amore d’una voluttuosa Regina (40), questa legge, che trasporta i beni, di una casa in un’altra, e che impoverisce un fratello per arricchire un estraneo, questa legge è quella che ha cagionata la rovina della famiglia dell’autore, e che ne porta il nome.

“Questa è la prammatica Filangeria (41). La legge Voconia proibiva d’istituire per erede una donna, e noi, che abbiamo adottati gli errori istessi della Romana giurisprudenza, ci siamo poi allontanati tanto da questi suoi, più antichi principj, che abbiamo in alcuni casi preferite le femmine agli uomini. io mi taccio sopra questo oggetto, perché temerei d’abusarmi del sacro ministero, che mi la filosofia, rendendola l’Istrumento d’una vendetta inutile, o d’una vanità puerile. Mi contente solo dire, che fra le cause, che, concorrono ad impedire tra noi la moltiplicazione de' proprietarj, questo barbare stabilimento non deve aver l’ultimo luogo.

Permettetemi, Signor Cavaliere, che io vi dica, prima di entrare nell'esame del vostro progetto, che le vostre acri querele contro alla Regina Giovanna II. son mal dirette, qualora Voi vi lagnate della legge, che preferisce alla successione de' feudi la figlia del Barone defunto a’ di lui fratelli. Questa legge è stata dettata dal imperadore Federico II, e non già dalla Regina Giovanna, come Voi credete. Leggete, vi prego, le due costituzioni di detto imperadore, cioè la costituzione in aliquibus (42), sotto il tit. De successione filiorum Comitum, et Baronum, e l’altra Ut de successionibus (43), tit. De successione nobilium in feudis che conoscerete esser vero quanto io vi dico. Nella prammatica Filangeria non si dispone certamente chi mai debba. succedere ne’ feudi al Barone defunto se la sua figlia, o i di lui fratelli ma si stabilisce per legge generale, che fra coloro che vivono jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotata de' beni del fratello, non dovesse escludere dalla sua successione e che fra quelli, che vivono jure Longobardorum basta che sia stata maritata, e dotata de paragio, sia dal Padre, sia dal fratello, per essere esclusa dalla successione dell’ultimo. Sicché Voi, Signor Cavaliere, confondete la legge dell'imperador Federico con quella della Regina Giovanna; ma in una tale confusione fate conoscere, che desiderate l’abolizione dell'una e dell’altra legge insieme per doppia ragione. Primieramente perché, vedete, che trasporta (ciascheduna di esse) i beni di una casa in un’altra e che impoverisce un fratello per arricchire un estraneo; di poi perché le riconoscete tutt’e due fra le cause, che concorrono ad impedire tra noi la moltiplicazione de' proprietarj, Che val quanto dire che a voi sembrano ingiuste per un verso; e contrarie alla buona politica per un altro. Mi veggo perciò nell’obbligo di doverle esaminare sotto l’uno e l’altro aspetto.

Ed in prima dico i che non può mai una legge positiva dirsi ingiusta, quando non è contraria a dettami di quel principio di ragione universale, che l’Autore della Natura ha impresso in tutti gli Uomini, come la norma non equivoca della giustizia, e dell'onestà: cioè quando non è contraria a’ dettami della Legge della Natura. Sicché dove la Natura tace ivi non vi è legge positiva, che possa mai dirsi ingiusta.

Or chi vi ha, che ignori che i feudi sono nati nelle nostre civili Società d’Europa dallo stabilimento delle Monarchie? Che da principio si davano da’ Principi in ufficio, dimodochè i Baroni altri non erano, che tanti Governatori di Città o d’altre particolari popolazioni? Ch'era nel tempo stesso in arbitrio de' Sovrani di cacciarneli, quando più loro piaceva; ma che poi s’introdusse una consuetudine che non si protesero privare del governo se non si provava d'aver commessa qualche gran fellonia? Che in seguito di tempo si diedero non più in ufficio, ma in Signoria; e che gli stessi Re con giuramento confirmavanli, (loro vita durante soltanto) in que’ feudi, de' quali per loro cortesia, gli aveano fatti Signori? Che introdottosi d’Autari Re d’Italia il costume di far succedere ne’ medesimi feudi i figli de' Baroni defunti purché non ne fossero immeritevoli; quindi ne’ tempi dell’itnperadore Ottone i un tal costume preso avea forza di consuetudine in tutta Italia e particolarmente nel Regno di Napoli? Che da Corrado il Salico imperadore la successione de' feudi su estesa a’ figli de' figli, ed anche che a’ fratelli dell’ultimo possessore, qualora questo morisse senza figli, ed il feudo fosse stato acquistato dal padre comune (44)? Che dall'imperadore Federico II (colla sua poco anzi accennata costituzione Ut de successionibus) si volle, che Feuda tenenti filios et nepotes, et ex eis pronepotes trinepotes, et usque ad infinitum ex descendenti linea descendentes cuiuscunque sexus sint, libere, et absolute posse succedere. E che, per finirla, quanto ritrovasi stabilito intorno alla successione de' feudi, tutto ha origine dalla libera munificenza de' Principi?

Or se tutto ciò non vi ha chi l’ignori, essendo noto, e dalla Storia, e dalle leggi feudali; non so comprendere perciò, Veneratissimo Signor Cav, come mai agli occhi vostri sia sembrata ingiusta e la legge dell'imperator Federico, che preferisce alla successione de' feudi la figlia del Barone defunto al di lui fratello; e la legge della Regina Giovanna, la quale stabilisce, che fra colora, che vivono jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotata de' beni del fratello, non dovesse escludersi dalla sua successione. Chi dona, Signor Cav, chi concede, ed ha la facoltà di poterlo liberamente fare, in tal caso la sua volontà sa la legge, e non già la legge determina la sua volontà. Lo ripeto: dove la Natura tace, ivi non vi è legge positiva che possa mai dirsi ingiusta.

Ma, mi direte, oggi i feudi non si acquistano più per concessione de Principi; ma se ne viene in possesso per un contratto di compra e vendita; sicché non vale la ragione anzidetta. Per rispondere ad una tale opposizione, e dimostrare nel tempo stesso che le leggi, di cui si parla (comprese da Voi sotto il solo nome della prammatica Filangeria) non sono ingiuste, tutto che i feudi si acquistano oggi per contratto di compra e vendita; conviene venire più da vicino all’esame delle vostre proposizioni destinate a farci conoscere i mali, che producono le leggi predette. Facciamolo.

Voi dite: La prammatica Filangeria trasporta i beni di una casa in un’altra impoverisce un fratello per arricchire un estraneo; impedisce tra noi la moltiplicazione de' proprietarj. La prima di quelle tre proposizioni ha doppio senso: cioè può significare essere la legge ingiusta, perché trasportando, per mezzo di una donna ereditiera, i beni di una casa in un’altra, rimangono perciò pregiudicati ne’ loro dritti gli agnati della medesima: può dinotare essere contraria alla buona politica, perché perturba la ripartizione de' medesimi beni. io non so in quale de' due sensi l’avete avanzata. Per pormi dunque in cautela, l’esaminerò ed unitamente alla seconda delle vostre accennate proposizioni, la quale è destinata appunto a dinotare l’ingiustizia della legge ed insieme colla terza la quale sa vedere essere la medesima legge dettata con poco buona politica.

Ma per trattare con precisione la controversia, se sia giusta, o ingiusta la legge, che preferisce alla successione de' feudi, quantunque comprati, la figlia del Barone defunto al di lui fratello; come pure, se giusta, o ingiusta sia l’altra, che stabilisce, che fra coloro, che vivono jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotata de' beni del fratello, non dovesse escludersi della sua successione; conviene che da noi si faccia uso di quella necessaria distinzione, che sanno le leggi feudali tra feudo antico, e feudo nuovo. Per feudo nuovo s’intende quello, che si possiede dalla persona stessa che lo ha acquistato. Per feudo antico s’intende quello, che si possiede da’ figli, o dagli eredi di colui, che lo acquistò. Fatta questa necessaria distinzione, passiamo ora all'esposizione de' casi, sopra di cui cade la disputa, per venire poi immediatamente all’esame di essa.

Caso I. Muore un possessore di un feudo nuovo senza lasciar figli maschi, ma solo lascia una figlia femmina, ed un fratello.

Caso II. Muore un possessore di un feudo nuovo senza lanciare né figli, né fratelli, ma solo una sorella, ed un Zio paterno.

Caso III. Muore un possessore di un feudo antico senza lasciar figli maschi, ma solo lascia una figlia femmina, ed un fratello.

Caso IV. Muore un possessore di un feudo antico senza lasciare né figli, né fratelli ma solo una sorella, ed un Zio Paterno.

Questi sono i casi, sopra di cui cade la controversia: vegniamo ora all'esame di essa. Ma prima ripigliamo i nostri principj. Si è detto alla pagina 21. parlando della bontà assoluta della legge de' majorascati, che noi né la facoltà di testare, né il dritto di succedere all’intestato riconosciamo dalla natura ma che tale facoltà, è tal dritto l'abbiamo ricevuto, o per patto de' Popoli, o per vigore delle leggi civili, regolato dagli uomini con principj politici, E’ qui pero da soggiugnere, che qualora non vi sono della ragioni politiche da regolare le successioni in. questo, o in quel modo; sempre è più consono alla ragione (e questo è il sentimento comune di tutti gli uomini) il disporre, che il congiunto più prossimo, senza distinzione di sesso, dovesse succedere ne’ beni, e ne’ dritti di colui, che muore, che il prescrivere altri menti. imperciocché siccome la Natura ci obbliga con maggior forza all’esercizio de' nostri doveri verso quelli, con cui siamo più uniti di sangue, senza distinzione di sesso cosi gli uomini han creduto sempre essere più ragionevole (dove non vi sono motivi politici in contrario) il preferire alla successione di colui, che muore il congiunto più prossimo, senza distinzione di sesso ancora, che qualunque altra persona. Sicché la Natura alle successioni non ci chiama. Le leggi civili ne han disposto quasi sempre con principj politici. Gli uomini credono ragionevole, dove mancano le ragioni politiche, che si debba dar luogo a’ gradi di parentela.

Con questi principj è facile risolvere la nostra contesa in tutt’i casi di sopra espressi. imperciocché non vi ha chi ’l difficulti, che la figlia è più prossima del fratello, e che la sorella è più prossima del zio, quantunque paterno. Sicché né ingiusta può dirsi la legge dell'imperatore Federico, che preferisce alla successione de' feudi, quantunque comprati, la figlia del Barone defunto al di lui fratello; né l’altra della Regina Giovanna, che stabilisce, che fra coloro, che vivono jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotata de' beni del fratello, non dovesse escludersi della sua successione.

Ma sento con gridi ripigliarmi: come, non è ingiusto, che nella successione de' feudi antichi, in qualunque modo acquistati, sia preferita la figlia del Barone defunto al di lui fratello? E la sorella al zio paterno, qualora il feudo fu acquisito dall'Avo, dal Bisavo, o da altro più antico antenato dell'ultimo defunto Barone? in quelli casi, cosi il fratello, che il zio è della discendenza di colui, che acquistò il feudo, adunque è ingiusto che costoro rimangono esclusi, e che succeda una donna, la quale trasporta i beni di nna casa in un altra, e che impoverisce un fratello, un zio, ed ogni altro agnato, per arricchire un estraneo.

A quella opposizione, la quale ha tutta la forza da poter sedurre, rispondo. Che non meno del fratello, e del zio, la figlia, e la sorella dell'ultimo defunto Barone sono discendenti di colui, che acquistò il feudo sicché, per questa parte dell’opposizione, le ragioni sono eguali tanto per i primi, quanto per le seconde. Anzi essendo quelle, come si è detto più prossime all'ultimo possessore del feudo perciò è giusto, che abbiano la preferenza in succedergli.

In quanto poi al di più dell’opposizione, dico, che, se sembra ingiusta la legge dell'imperatore Federico, come quella, che impoverisce un fratello per arricchire un estraneo non meno, anzi più ingiusta ancora sembra a me la legge opposta, che si desidera, come quella, che impoverirebbe una figlia per arricchire un’estranea (45). L’istesso dico della legge contraria a quella della Regina Giovanna.

Ma sento nuovamente ripigliarmi: che tanto la legge dell'imperatore Federico, quando quella della Regina Giovanna trasporta i beni di una casa in un’altra; lo che non avverrebbe, se si stabilisse il contrario. Ecco dove si sa consistere la supposta ingiustizia della legge: ecco il gran punto, che dà orrore: ecco perché si chiama barbaro stabilimento la prammatica Filangeria, e con essa la legge dell'imperatore Federico.

Ma io domando: è egli vero, che la Natura ha inventato i cognomi, per distinguere le famiglie nella Società? Ed è egli vero altresi, che la Natura abbia dettata la legge, che le medesime famiglie sieno rappresentate sempre da’ Maschi, e non mai dalle Femmine? Or se ciò non può dirsi: e se l'invenzione de' cognomi (la quale presso di noi non è delle più antiche) (46) noi la riconosciamo dagli uomini: come riconosciamo dalle leggi civili lo stabilimento, che le famiglie sieno rappresentate da’ Maschi, e non dalle Femmine (47): non so come prendere perciò, Veneratissimo Signor Cav. come mai si possa da Voi chiamare barbaro stabilimento quello della legge dell’imperator Federico, che preferisce alla successione de' feudi la figlia del Barone defunto al di lui fratello e quello della legge della Regina Giovanna, che vuole, che fra coloro, che Vivono jure Francorum la sorella maritata, ma non dotata de' beni del fratello, non dovesse escludersi dalla sua successione.

Che la gente idiota, accostumata sin dall’infanzia ad alcune pratiche, e prevenuta con opinioni accreditate da molti secoli, ritenga come un sagro deposito, sino alla superstizione, la vanità di alcune idee, a segno che non possa distrigarsi da’ pregiudizj, e che non sappia distinguere il giusto dall'ingiusto, quando precisamente vi concorre il proprio interesse: l'intendo molto bene. Ma che questo stesso non possa, né sappia fare un uomo culto, un amatore del giusto, e dell’onesto, un Ministro della Verità, un filosofo, un Cav. Filandieri: questo (cosi mi conviene dire) non so capirlo.

La legge Voconia (voi dite) proibiva d'istituire per erede una donna, e noi, che abbiamo adottati gli errori istessi della Romana giurisprudenza, ci siamo poi allontanasi tanto da questi suoi più antichi principj, che abbiamo in alcuni casi preferite le femmine agli uomini.

E’ vero, Signor Cavaliere, che la legge Voconia proibiva d’istituire per erede una donna ancorché foss’ella la figliuola unica, ed o che fosse, o che non fosse maritata, ma ad una tale determinazione non si venne certamente da’ Romani, perché avessero giudicato essere cosa ingiusta, che la figlia fosse succeduta al padre in esclusione del di lui fratello; e che la sorella fosse succeduta al fratello in esclusione del zio, o di altro agnato. Ma la legge su fatta unicamente per impedire le soverchie ricchezze delle donne, tanto portate alla vanità, con ciò per prevenire le cagioni del loro lusso, perpetuamente da quelle ricchezze inseparabile, ed incompatibile in una Repubblica, la quale conservava ancora il suo rigoroso costume (48). Quello fu il fine, Signor Cavaliere, della legge Voconia e non altro (49). Se poi questo fine basta a giustificare una tal legge (come se non vi fosse stato altro rimedio, per evitare il lusso delle femmine e quasi le ricchezze in mano degli uomini non producessero lo stesso effetto) io non voglio entrarvi. Dico solo, che la natia fisica debolezza delle donne, in ogni tempo, in ogni luogo, ed in ogni circostanza, ha fatto loro soffrire delle crudeli oppressioni (50).

Ma si è detto a bastanza, per provare, che non è ingiusta né la costituzione dell’imperadore Federico II, che preferisce alla successione de' feudi la figlia del Barone defunto al di lui fratello né la prammatica Filangeria, dettata dalla Regina Giovanna II, colla quale si stabilisce, che fra coloro, che vivono jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotata de' beni del fratello, non dovesse escludersi dalla, sua successione. Passiamo oramai a vedere se sieno le medesime leggi contrarie, o no alla buona politica.

Voi dite: La prammatica Filangeria trasporta i beni di una casa in un altra: impedisce tra noi la moltiplicazione de' proprietarj. La prima di quelle due proposizioni ha, come sopra si è detto, doppio senso: cioè può significare essere la legge ingiusta, perché trasportando, per mezzo di una donna ereditiera, i beni di una casa in un altra, rimangono perciò pregiudicati ne’ loro dritti gli agnati della medesima? può dinotare essere contraria alla buona politica, perché perturba la ripartizione de' medesimi beni. Si è già dimostrato non essere ingiusta, tutto che trasporta i beni di una casa in un’altra.

Rimane dunque ora solamente a vedere se sia o no contraria oggi alla buona politica, sull'asserzione, che perturba la ripartizione de' medesimi beni: per indi passare all'esame dell'altra proposizione.

Sicché dico, che se noi oggi, a similitudine delle leggi agrarie (51), ch’ebbero nel loro nascere gli Ebrei, gli Ateniesi, gli Spartani, i Germani, i Romani, ed ogni altro Popolo, avessimo la legge dell'equabile ripartigione de' beni nelle famiglie e questa legge potesse sussistere in un popolo adulto, come noi siamo e convenisse alla natura del governo monarchico, qual è il nostro: in tal caso certamente sarebbero contrarie alla buona politica le leggi dell’imperadore Federico, e della Regina Giovanna, come quelle, che perturberebbero l'equabile ripartigione de' beni nel nostro Regno. Ma poiché noi non abbiamo una tal legge, si perché non può sussistere in un popolo adulto, e si ancora perché non conviene d’averla nella monarchia; perciò né la disposizione dell'imperadore Federico, né quella della Regina Giovanna può dirsi essere contraria alla buona politica, sull'asserzione, che perturba la ripartigione de' beni.

Ma, Voi dite, la prammatica Filangeria impedisce tra noi la moltiplicazione de proprietarj e perciò l'annoverate fra gli ostacoli all'accrescimento della popolazione; ed in conseguenza vi sembra contraria alla buona politica. Non sono io per negarvi interamente, Veneratissimo Signor Cav, che la prammatica Filangeria, e con essa la costituzione dell’imperador Federico, impedisce tra noi la moltiplicazione de' proprietarj ma dico solo, che ne’ calcoli politici non si dee tenere alcun conto delle frazioni infinitesimali (52). Si è detto di sopra nella pagina 93, che i paesi feudali del nostra Regno sono 1798 (53): adunque il numéro de' nostri Baroni forse si, forse no giugne a mille. Da ciò si comprende chiaramente, com’è in fatti, che presso di noi non può accadere molto spesso che le donne succedano ne’ feudi; e che non possono esser molte quelle che hanno una tal sorte. Aggiungasi, che buona parte di esse o rimangano affatto senza agnati, o se ne hanno, non sono in grado da succedere ne’ feudi. Adunque i casi compresi nelle vostre declamazioni contro la prammatica Filangeria sono (mi sia permesso cosi esprimermi) pochi di pochi. Di più parecchie dell'anzidette donne si maritano con cadetti (e spesso loro agnati: per cui non sempre si può dire, che i beni sono trasportati da una famiglia in un’altra) che vale a dire con non proprietarj. E finalmente parecchie altre, ancorché si maritano con primogeniti, sanno però poi aprire alla loro prole due case. Sicché dunque il male, che sanno le leggi predette è cosi piccolo, che non è sensibile e perciò non è da tenerne conto, e non è da farne quel caso, che Voi ne fate con dire che fra le cause, che concorrono ad impedire tra noi la moltiplicazione de' proprietarj, questo barbaro stabilimento (cioè la prammatica Filangeria) non deve avere l’ultimo luogo. Quanto è vero, Veneratissimo Signor Cavaliere, che non sempre i filosofi sanno spogliarsi delle passioni in giudicar delle cose!

Ma io, per la stima, che so di Voi, non voglio lasciarvi in alcun modo scontento. Voi desiderate un rimedio per guarire il male, ancorché picciolissimo, che produce presso di noi la prammatica Filangeria, la quale ci minora il numero de' proprietarj; ed,io, per contentarvi, voglio darvelo. Non aspettate però da me un rimedio consimile a quello della legge Voconia, di cui sopra si è fatta menzione perché io una tal legge non ho mai approvata, come quella, che mi è sembrata sempre dettata dall’oppressione. Non aspettate né meno, che io vi da per rimedio quella legge degli Ateniesi, che obbligava le donne ereditiere a sposare l’agnato più prossimo (54); imperocchè dovendo ogni legge aver riguardo alla Religione, che si professa dal Popolo, a cui si detta; ed esercitandosi nel nostro Regno la Religione Cattolica, la quale oggi lascia solo alla morte, consumate che sono le nozze, la potestà di sciorre il vincolo del matrimonio (55); perciò ingiusta cosa riesce,che le donne nostre sieno private del dritto di una libera elezione in un affare di tanta importanza per loro, quanto è quello della scelta del ma. rito. in ultimo vi prevengo a non attendere da me, per rimedio del sopradetto male, che lo voglia progettare la legge, che alle donne ereditiere di feudi non sia permesso sposare primogeniti, ma solo cadetti; non essendo giusto obbligare una donna a doversi maritare con un uomo, che niente possiede, e che tutto il peso della famiglia si debba da lei sola sostenere; mentre i figli poi non vengono a rappresentare altro, che la sola famiglia del Padre. Oltre di che vi sarebbe anche della crudeltà in impedire ad una donna, perché ereditiera, di unirsi in matrimonio con un primogenito, a cui forse sarebbe condotta e dalla simpatia, e dall’amore, guide naturali degli uomini a’ matrimonj. il rimedio adunque, che io propongo, per guarire il male, che sa a noi la prammatica Filangeria, cioè di minorarci il numero de' proprietarj, è tutt’altro di quanto si è detto. Ecco il mio progetto, Si dovrebbe fare una legge, che qualora le donne ereditiere di feudi (come d'ogni altro stabile) sposansi con possessori anche di feudi (o pure ed altri corpi), fossero costretti i conjugati a fare aprire alla loro prole maschile due case con dividere le due erediti, non ostante che alla successione de' feudi, secondo il costume de' Franchi, sieno chiamati dalle leggi i soli primogeniti} ed ancorché tanto nell'una, quanto nell'altra eredità vi sia la legge del majorascato Cosi il numero de' proprietarj non verrebbe a minorarsi ed in conseguenza la popolazione non ne patirebbe alcun danno. E cosi ancora le nostre donne non verrebbero a soffrire alcun torto né sarebbero private del dritto di una libera elezione nella scelta del marito (56). Or Voi certamente mi ripigliarete con dire: questo progetto non impedisce, che i beni sieno trasportati da una casa in un’altra. E’ vero, Veneratissimo Sig. Cav, che il mio progetto non impedisce che i beni sieno trasportati da una casa in un’altra ma sappiate, che nella monarchia interessa solo, che vi sia un ordine di Nobiltà, e che quest’ordine sia di Baroni, come sopra si è fatto vedere che poi il feudo A stia nella casa B, o nella casa C, quello non importa punto. Anzi non potendoci noi dispensare, come pur sopra si è detto, né della legge de' fedecommessi, né dell'altra, che impedisce l’alienazione de' fondi feudali perciò è espediente, che vi sia un’apertura, per il quale, senza offendere la costituzione del governo monarchico, e senza pregiudicare gli interessi di alcuno, i feudi possono passare da una casa in un’altra (57).

Questi in somma sono i miei sentimenti intorno al vostro progetto dell'abolizione della nostra Prammatica I. de Feudis, detta comunemente la Filangeria. E poiché mi ho proposta di non lasciare cosa alcuna inesaminata da Voi scritta concernente la materia feudale come pure di esaminare degli altri progetti da Voi avanzati di non poca importanza perciò ho stimato formare gli annessi sogli di Riflessioni Critiche, da’ quali conoscerete i miei pensieri. Vi fo un profondo inchino, e vi riprotesto la mia perpetua servitù.

Fine della lettera, e della proscritta


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RIFLESSIONI CRITICHE – FOGLIO I

SULLA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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FOGLIO I

Nel quale si esamina quanto si è detto sulla feudalità dal Sig. Cavaliere Filangieri ne’ cap. XVII e XVIII della parte i del lib. III

Nel primo de' due accennati capi, che da me s’imprendono ad esaminare, il Signor Cav. tratta Della viziosa ripartigione della giudiziaria autorità in una gran parte delle nazioni di Europa. S’introduce nel medesimo in termini da richiamare tutta l’attenzione del lettore. Dice, che alcune verità, ch’è nell'obbligo d’illustrare in esso capo, gli tireranno addosso delle persecuzioni, e delle sciagure. Ma egli mostrando un petto pieno di coraggio, e manifestando de' sentimenti di un’anima ben formata ad una robusta virtù, s’inoltra nell'opera. Abbozza con tutta la forza dell’enfasi una terribile dipintura del governo feudale. La narrativa de' fatti è pienamente fedele: i mali, che produce la giurisdizione baronale sono messi nel loro vero aspetto: il quadro in somma è oltremodo spaventevole. Dà termine poi alla sua esposizione con proporsi alcune obbiezioni, che se gli potrebbero fare da’ fautori della giurisdizione feudale.

E nel secondo de' due capi accennati, il di cui titolo è appendice all'antecedente capo alla feudalità, passa a rispondere alle propose obbiezioni, cosi in termini di politica, come in termini di giustizia. E dà sine poi a suoi ragionamenti con dirigere al Baronaggio intero la seguente locuzione.

“Uomini imbecilli, e vani, e sino a quando i pregiudizj della vostra educazione resisteranno agli urti continui de' lumi del seco. io? Sino a quando seguiterete voi a guardare con prevenzione un potere, che vi rende odiosi al popolo, che vi eguaglia a’ novelli nobili, che hanno ancora le mani incallite dalla zappa, e che vi espone a tutte le vessazioni di un governo, che vedendo con dispiacere questa perniciosa giurisdizione nelle vostre mani, ne molesta, e ne turba di continuo l’esercizio, non credendo di avere bastante forza per distruggerne il possesso? La, perdita di questa abusiva autorità, della quale voi siete tanto gelosi, non sarebbe forse un acquisto reale per voi, quando il principe privandovi di ogni giurisdizione ne’ vostri feudi, rinunciasse al dritto della devoluzione, e quando obbligasse i vostri sudditi con un riscatto forzoso ad indennizarvi dalla perdita, di que’ tenuissimi emolumenti, che vi prevengono da’ vostri assurdi dritti? il pieno possesso de' fondi feudali, de' quali, come veri proprietarj, potreste allora a vostro talento, disporre, non sarebbe forse da preferirsi ad una satrapia abbominevole, che vi condanna, a tante spese, ed a tanti rischi? i terreni, feudali oggi inalienabili, rimessi allora nella, circolazione de' contratti non acquisterebbero, forse un nuovo valore? Questa salutare operazione dando la libertà alle persone, ed alle cose, favorirebbe nel tempo istesso l'industria, l’agricoltura, e la popolazione. L’alienabilità de' fondi feudali moltiplicherebbe gli uomini, moltiplicando il numero de' proprietarj, e la libertà di dividere quelle grandi masse tra tutti gl’individui della famiglia possidente, toglierebbe quella distinzione assurda tra i figli di un istesso padre, restituirebbe ad una gran parte de' cittadini i loro naturali, ed imprescrittibili dritti; darebbe molti padri di famiglia di più allo stato, e diminuirebbe il numero di tanti celibi nobili, che condannati ad una violenta agamia, si danno in preda a tutti que’ vizj, contro i quali sono ordinariamente inutili le minacce delle leggi, e della religione, quando non sono accoppiate, alla libertà di ricorrere ad un legittimo sfogo, ecc.”

Or prima di entrare nell’esame proposto, conviene che io faccia menzione di una preghiera data dal Signor Cav. a chi legge la sua opera preceduta bensì da una significantissima ammonizione, diretta a colore, i quali si danno a giudicare le produzioni altrui prima di vederne il termine. Ecco com’ egli si esprime nella sine dell’articolo VII. del capo XIX. della parte I. del lib. III. Un architetto concepisce un vasto edificio, e ne inalza una parte, l’ignorante con ugual facilità, è con ugual ingiustizia ne loda, e ne vitupera l'autore. L'artefice ne aspetta il termine per giudicare. io prego il mio lettore a giudicarmi da artefice.

Se non voglia dirsi che quest’ammonizione, più che preghiera, sia stata fatta assolutamente per me, avendo io criticati nella precedente lettera alcuni progetti dal Signor Cav. appena usciti i due primi tomi della sua opera; non mi si potrà mettere in dubbio però, che io ci sia implicitamente compreso. Conviene perciò che io giustifichi la mia condotta.

Sicché dico, che se un Architetto concepisce un vasto edificio, e ne inalza una parte considerabile, senza appoggiarla sopra a validi fondamenti, ma solo la fissa sopra ad alcuni frivoli sostegni, incapaci, per esperienza, a sostenerne il peso: o pure imprende a correggere i diletti di un edificio fatto da molti secoli, senza che il medesimo dia minimo segno di prossimo diroccamento, anzi indica di voler luttare coll’eternità; e la prima operazione ch’egli sa è quella di svellere i robusti fondamenti, sopra di cui interamente poggia la gran mole, senza lasciarvi sotto altro che voto: in tal caso, domando, è egli ignorante, è egli ingiusto, è egli facile, ed imprudente colui, che sindaca la condotta dell’Architetto, prima che l'edificio o la correzione de' suoi diletti venga al termine? No certamente. Anzi con grande facilità, e con somma giustizia può dirsi, o che nelle operazioni del Fabro-direttore vi è del dolo, o ch’egli esercita un’arte, di cui ne ignora le regole. Vegniamo all’applicazione, la quale ci apre la strada all’esame proposto.

Il Signor Cav. Filangieri ha impreso a correggere, a forza di progetti, i diletti della Legislazione di tutta Europa; e tra i primi passi, che ha dato nel piano di questa vastissima, e difficilissima opera, uno è stato il progetto dell'abolizione de' majorascati, de' fedecommesso, delle sostituzioni; ed un altro è stato il progetto dell'abolizione del divieto fiscale di poter alienare i fondi feudali. Or io in leggere tali progetti ri ma si attonito. La Nobiltà (io dicea tra me, e me), e propriamente l'Ordine de' Baroni non è vero forse che forma i robusti sbandamenti, sopra di cui poggia da dodici secoli compiti la gran mole delle monarchie di Europa, senza che la medesima dia minimo segno di prossimo diroccamento? i majorascati, i fedecommessi, le sostituzioni, ed' il divieto fiscale di potere alienare i fondi feudali non i vero pure che formano la sussistenza della Nobiltà in generale, e del Baronaggio in particolare? Or se tutto ciò non può negarsi (io seguitava a dire) dunque i progetti del Signor Cav., i quali tendono ad ammiserare la Nobiltà, tendono in conseguenza a distruggere tutte le monarchie di Europa. Per ciò conchiudere non credei affatto necessario di aspettare il termine della sua opera; e perciò mi determinai a dirigergli la precedente lettera; persuaso appieno che quegli edificj, a’ quali mancano i fondamenti, non possono avere che una sussistenza precaria.

Mi protesto però, che io non intendo coll’addotto paragone, per minima parte, e per alcun verso, offendere il Signor Cav. Filangieri manifestandosi ed in ogni pagina, ed in ogni verso della sua opera cosi l’innocenza delle sue mire, come la profondità del suo sapere. Noi tutti per il nostro finito essere siamo soggetti ad errare; la quotidiana esperienza ci fa vedere, che sono tanto più madornali gli errori degli uomini,quanto sono più grandi i loro talenti, e le loro cognizioni; non è dunque da maravigliarsi se il Signor Cav. sia caduto in qualche grande abbaglio. E’ vero che la pertinacia nell'errore, dopo d’esserne stato avvertito, non ci sa più meritare del compatimento ma io son uso a compatire l'uomo in ogni stato, e precisamente in quello di pertinacia. il persistere o nello stesso atto di volontà di prima, o ne’ medesimi primieri sentimenti, anche dopo di avere ricevuti degli avvertimenti, e delle ammonizioni, ciò dipende che l’intelletto dell’ammonito non è rimasto pienamente rischiarato; o perché la sua mente ritrovasi ottenebrata da vecchi pregiudizj, ricevuti forse dall’educazione; o perché la sua anima li ritrova preoccupata da sorti passioni, che non gli permettono di conoscere la verità, anche alla luce più chiara,del soie o perché le ammonizioni, e gli avvertimenti non sono di quel valore, che necessitano, per rischiarare un intelletto offuscato. Bisogna dunque in tal caso replicare i colpi; procurare di superare tutti gli ostacoli, e le difficoltà, che rimangono ed usare più chiarezza, e precisione di prima ne’ proprj detti.

In questa necessità io ora mi ritrovo, imperocchè il Signor Cav., come appare dalla sua poco anzi trascritta locuzione al Baronaggio, ha innovato in modo d’insinuazione, i suoi progetti dell'alienabilità de' fondi feudali, e della libera ripartizione de' medesimi tra tutti gl’individui della famiglia possidente. E le ragioni, per le quali è venuto a rinnovare questi progetti, non ostante le opposizioni da me fattegli nella precedente lettera, sono l'esorbitanza delle prerogative feudali, e precisamente di quella della giurisdizione, e degli abusi, ne’ quali questa è caduta,ed il non conoscere necessario per le monarchie un’ordine di nobiltà ereditaria. Ecco com’egli si esprime su questo ultimo punto nel secondo, e terzo paragrafo del sopracitato capo XVIII.

“Se se n’eccettui il dispotismo, in tutti i governi l’opinione pubblica ha sempre accordate, dove più e dove meno, alcune distinzioni alla posterità di un illustre maggiore, che ha reso rispettabile il suo nome colle sue azioni. Nelle Democrazie istesse, dove l'uguaglianza politica è della natura della costituzione, vi è sempre una nobiltà di opinione. Pare, che i più tardi nipoti debbano essere gli eredi de' meriti de' loro avi, come delle loro proprietà pare, ch’essi debbano avere un dritto di più alla pubblica venerazione. Nelle Monarchie questa distinzione deve essere più sensibile, perche la costituzione del governo non richiede l'uguaglianza politica. E’ giusto, è secondo lo spirito del governo, che la nobiltà vi sia ornata di alcune onorevoli prerogative; ed è utile, che lo splendore del trono non ferisca immediatamente gli occhi del popolo, ma che si diffonda, prima, d’ogni altro, sulla parte della nazione, che gli è più vicina, che da questa passi alla classe intermedia tra la nobiltà, e la plebe, e che similmente non si manifesti all'ultima classe della società, se non dopo che i suoi raggi han sofferte varie refrazioni (58).”

“Ecco il vero aspetto, nel quale si deve osservare la nobiltà nelle Monarchie. Ella dev’essere un corpo luminoso, ma non potente; essa deve avere alcune prerogative di onore, ma niuna d’impero; essa deve ornare il trono, ma non dividerne il potere elsa dee piuttosto esser considerata come un effetto delle leggi dell'opinione favorite dalla costituzione del governo, che come una parte necessaria del corpo politico. in poche parole: senza una nobiltà ereditaria la Monarchia sarebbe oscurata, alterata, ma non distrutta ma con una nobiltà ereditaria, unita ad un, potere ereditario, non vi è più monarchia:, due poteri innati, come si dimostrerà, non sono compatibili con questa specie di costituzione. Quello, che dee bilanciare l'autorità del Principe nelle monarchie, quello che dee considerarsi come una parte integrale della costituzione, è il corpo de' magistrati. Depositarj della facoltà esecutiva, essi sono l’unico, freno contro gli abusi dell'autorità del monarca. Qual è in fatti la differenza, che vi è tra la monarchia, ed il dispotismo, se non quella, che nasce dall'esistenza, e dal vigore della magistratura? Ma la magistratura non è ereditaria, e il potere del magistrato non è innato. Gl'individui di questo corpo sono scelti dal Re. Salendo sui trono, egli può disfarsi di quelli, che il suo antecessore ha creati, e può, sempre che vuole, liberarli da quelli, ch’egli istesso ha scelti, quando ve}i de, ch’è stato tradito nella sua scelta.”

Conviene dunque esaminare, I. Se sia, o no di assoluta necessità nelle monarchie un ordine di nobiltà ereditaria, e quale debba essere quest’ordine: II. Se, essendovi dell'esorbitanza nelle prerogative del Baronaggio, convenga, o no, distruggere quest’ordine, in cambio di risegare gli eccessi delle prerogative, e di togliere gli abusi, che vi sono. Facciamolo. per poi decidere del valore degli accennati progetti.

Il Signor Cav. Filangieri, parlando della monarchia nel capo X. del lib. I., cosi dice: Si chiama monarchia quel governo, ove regna un solo, ma con alcune leggi fondamentali. Queste leggi fondamentali suppongono necessariamente alcuni canali, pe' quali il potere si comunica, ed alcune forze reprimenti, che ne conservino la moderazione e lo splendore.

La natura dunque della monarchia richiede, c&e vi sia tra il Menarca e 'i popolo una classe o un rango intermedio destinata non ad esercitare alcune delle porzioni del potere, ma a mantenerne piuttosto l'equilibrio, e che vi sia un corp depositario delle leggi, mediatore fra i sudditi, e 'l Principe. i nobili compongono questo rango intermedio, e i magistrati questo corpo depositario delle leggi.

E proseguendo a parlare di tale specie di governo, soggiugne poco appresso: il decoro, e l’ordine della monarchia richiede, che vi sia un corpo di nobili, il quale rifletta sulla nazione lo splendore, che egli riceve dal trono (59), eche situato tra il monarca, ed il popolo, indebolisca gli urti, che questi due Corpi si potrebbero dare, se non fossero ritardati da un mezzo( )che li separa,

Adunque il Signor Cav. Filangieri, per quanto dice nel capo X. del lib. I., riconosce assolutamente necessario, per la conservazione delle monarchie, un’ordine di nobiltà. Or che quest’ordine debba essere di nobiltà ereditaria, e non già personale (60), lo dice egli stesso nel primo de' due paragrafi del capo XVIII. della parte I. del lib. III, poco anzi trascritti. Ma nel secondo poi di detti paragrafi, volendoci egli dare un avvertimento col fatto, che in questo mondo non si dee fidar troppo a’ detti degli uomini, passa a dire (mentre tutt’altro si aspettava che avesse conchiuso da quello, che sia va dicendo) che la nobiltà nelle monarchie dee piuttosto esser considerata come un effetto delle leggi dell'opinione favorite dalla costituzione del governo, che come una parte necessaria del corpo politico: e che senca una nobiltà ereditaria la monarchia sarebbe oscurata, alterata, ma non distrutta.

Quanto sa l'impegno di voler sostenere un passo erroneo! il Signor Cav., nell'istesso tempo, riconosce, e non riconosce necessario per le monarchie un’ordine di nobiltà ereditaria. Ma non finisce qui il grazioso. Egli ci assicura, nel luogo ultimo citato, che quello, che dee bilanciare l'autorità del Principe nelle monarchie, quella che dee considerarsi come una parte integrale della costituzione, è il corpo de' magistrati. Depositarj della facoltà esecutiva (61), essi sono l’unico freno contro gli abusi dell'autorità del monarca. Cosi egli si esprime in tal luogo. Mentre nel capo III del medesimo volume, dove parla dell'accusa giudiziaria pressa i Moderni opponendosi a Montesquieu, il quale approva il metodo quali generalmente adottato nell’Europa di sopprimere la libertà di accusare i rei da chi non è parte offesa (62); e di sostituirvi un vendicatore pubblico (63) che faccia le veci degli accusatori: egli cosi si lascia a dire.

“Chi è, io domando, questo vendicatore pubblico? Questi è un Magistrato creato dal Principe, pagato dal Principe; che deve al Principe ciò che ha, e che può esterne dal Principe privato. Dignità, onori, fortune, tutto riconosce da’ favori del Sovrano, e tutto gli può esser tolto da quella mano, che, glie lo ha dato. Or se interesse è il gran motore degli uomini, io vorrei sapere dall’Autore dello Spirito delle leggi, se un cittadino, che non ha tutti questi rapporti col capo della nazione, potrebbe, abusando della libertà di accusare, avere una disposizione maggiore a favorire le di lui mire, di quella che può avervi questo vendicatore pubblico, che per proprio interesse dovrebbe piuttosto considerarsi come il vendicatore del Principe? i fatti, che potrebbero confermare questa riflessione sono infiniti. io lascio a ciaschedun lettore applicarvi quelli, che sono pervenuti a sua notizia.”

Gran cosa è l’uomo, quando si pongono in attività le sue passioni; e quando entra nell’impegno di voler sostenere quel, che ha dette o quel, che ha fatto! Domando al Signor Cavaliere: tutti gli altri magistrati, oltre del Vendicatore pubblico, da chi sono eletti? Da chi sono pagati? Da chi sono promossi, e premiati? Le loro dignità, i loro onori, le loro fortune da chi le riconoscono? Possono, o no, essere spogliati di tutto da quello stesso, che gli ha vestiti? io m’immagino il Signor Cav. confuso a rispondere a tali domande, perché egli ne prevede la conseguenza. Ma qui non ci è riparo. Le verità quando son note a tutti, non giova né il tacerle, né l’inorpellarle. Sicché dee confessare, che tutto il corpo de' magistrati, egualmente che il solo Vendicatore pubblico, riconosce dal Principe tutte le sue fortune, e che dal medesimo ne può essere nuovamente privato. Or posto ciò per indubitato: lascio ora decidere al Signor Cav., se questo corpo di magistrati (considerato però qui in astratto, e non già per quello, che oggi si rinviene in ciascheduna Monarchia di Europa, composto di Uomini forniti tutti di sode virtù) abbia più disposizione a secondare le mire di un Monarca mal consigliato, che a servir di freno contro gli abusi della sua autorità (64). Nel mondo, non vi ha dubio vi sono stati, vi sono, e vi saranno sempre degli eroi; ma il numero di questi (a cagione, che l’eroismo richiede de' sforzi di gran lunga maggiori di quelli, che vi necessitano per l'esercizio di una ordinaria virtù) non vi ha dubio altresi, è stato, è, e sarà sempre picciolissimo.

Di più: concesso che il corpo de' magistrati sia atto a servir di freno contro gli abusi dell'autorità di un Monarca sconsigliato in ciò, che riguarda la potestà giudiziaria: domando ora al Signor Cav., può egli il corpo de' magistrati servir di freno ancora contro gli abusi dell'autorità del medesimo Monarca in ciò, che riguarda la potestà legislativa? Può egl’impedire, che tal Principe cambj le leggi a suo capriccio; e cambiandole non muti tutta la costituzione del governo? No certamente, perché la potestà legislativa è, in quasi tutta l’Europa, assolutamente, e pienamente de' Principi. Adunque vi vuol'altro che un corpo di magistrati, per salvare un Popolo da cadere nel dispotismo tirannico di un Monarca, che poco conoscesse i suoi veri interessi.

Il corpo de' magistrati allora sarebbe in grado da poter servire di freno contro gli abusi dell'autorità del supposto Principe in ciò, che riguarda la potestà giudiziaria, e là potestà legislativa, quando gl’individui di tal corpo fossero eletti dal Popolo, pagati dal Popolo, promossi e premiati dal Popolo, e da niun’altro fuori del Popolo potessero essere spogliati delle loro dignità, de' loro onori delle loro fortune: e di più, quando tra le leggi fondamentali del governo vi fosse quella, colla quale proibisse a’ magistrati di poter eseguire alcuna legge del Principe prima di essere approvata dal Popolo.

E pure tutto ciò non basterebbe, per impedire che il Sovrano sconsigliato abusasse della sua autorità. Oltre di quanto si è detto, bisognerebbe che le forze dello Stato fossero in mano della Nazione perché altrimenti il Principe, essendo di mala volontà, potrebbe soggiogarla, e privarla di tutte le sue facoltà.

Or chi non vede, che la Monarchia, moderata in questo modo cesserebbe di esser tale, e diventerebbe un governo misto, il quale parteciperebbe più di Repubblica, che di Monarchia? Sicché non è da pensarvi affatto a tali freni contro gli abusi dell'autorità di un Principe mal consigliato, se non si voglia distruggere l’idea stessa del governo di un solo-

Qual’è dunque il vero ostacolo contro il dispotismo tirannico, in cui possono cadere le Monarchie, senza distruggere le Monarchie stesse?

Un corpo di Nobiltà ereditaria, e propriamente un Ordine di Baroni. Quest’Ordine contro di cui ognuno inveisce, ed ognuno declama; quest’Ordine,che si vorrebbe totalmente distrutto da ogn’uno e che da ognuno è odiato, abborrito, e maledetto: quest’Ordine è quello che da dodici secoli compiti sostiene le Monarchie di Europa, senza farle cadere nel dispotismo de' governi dell’Asia La ragione di questa importantissima verità facilmente si comprende: e mi sa maraviglia come s’ignora dal Signor. Cav. Filangieri: conviene dunque porcela in veduta, per la seconda volta, tutto che io sia inimico di ripetimenti. Sono a farlo.

I Principi, per quanto mai nel governare sieno savj, giusti, prudenti, moderati, docili, e pieni di umanità, sempre con somma ragione temono de' loro sudditi. Chi governa, non può mai contentare ognuno. La giustizia stessa non sempre piace a tutti, né da tutti sempre si conosce. Le mire, e le operazioni le più giuste, e le più savie de' Sovrani, per quanto ne sia dimostrato il vantaggio, non sempre sono prese in buona parte da’ Popoli sempre da loro sono approvate; ma spesso se ne disgustano, e ne maledicono l’autore e non di rado si veggono tumultuare. Di più: i Popoli ordinariamente accagionano i Principi stessi di tutti mali, che accadono di qualunque specie sieno, e sinanche di quelli, che si vogliono flagelli del Cielo: in tali triste sciagure non mancano de' borbottoni, o ignoranti, o maligni, che vadano dicendo, che l'irreligione, e la scostumatezza di chi governa sieno la vera cagione di si orrendi gastighi. Come dunque assicurare i Principi su i Troni senza un corpo xli nobiltà ereditaria, e propriamente senza un ordine di Baroni? Questa classe di uomini, la quale è la prima del Popolo in ogni Monarchia di Europa, per le prerogative accordatele dal proprio Sovrano, giura fedeltà al medesimo di modo che, per non cadere in fellonia, e per non essere in conseguenza ciascheduno di essa privato della vita, degli averi, degli onori, e di tutte le sue prerogative, si mantiene perciò nelle critiche occorrenze discordante dal Popolo rivoltoso; e con ciò, andando a voto i furiosi sforzi di questo, ogni Principe è sicuro della sua esistenza, e della sua dominazione. E’ dunque dell'interesse de' Baroni il sostenere i proprj Sovrani; ed è dell'interesse de' Sovrani il sostenere i proprj Baroni.

Da questa felice combinazione d'interessi tra i Sovrani, ed i Baroni nasce la sicurezza de' Popoli delle Monarchie di Europa. Ho detto nella pagina 48 della lettera, che Un Principe, il quale poco conoscesse i suoi veri interessi, modochè non contento di comandare Uomini liberi, volesse rendere schiavi i suoi Popoli con introdurre il dispotismo tirannico dovrebbe, per ciò fare (come da chiunque, per poco che abbia senso, e ragione, si comprende) prima distruggere il Baronaggio, e poscia sottometterebbe tutti a’ suoi voleri. Mo ho fatto conoscere poco anzi, ch’è dell'interesse de' Sovrani il sostenere i proprj Baroni. Ripeto dunque ciò che ho detto nella lettera in seguito della pagina citata, che il Baronaggio è quello, che formando la difesa del Principe, ed un ostacolo al Popolo rivoltoso, sa si che il Principe lo sostenga, e l'onori, ed in tal modo non trascorra al dispotismo, ed alla tirannia. Tutto è interesse in questo Mondo! e chi meglio sa maneggiare questa passione degli uomini, quello è il miglior politico della Terra.

M’immagino già, che gl’innumerabili nimici del sistema feudale mi diranno, che i Principi di Europa non han bisogno dell'ordine de' Baroni per essere tranquilli su i Troni; ma che la loro sicurezza, contro l’irregolarità de' Popoli, la riconoscono da’ loro numerosi eserciti. A questa opposizione rispondo. I. Che anche i Principi dell’Asia hanno de' numerosi eserciti, e pure questi non sempre li salvano, com’è noto g tutti, dalle turbolenze de' Popoli. II. Che il Signor Cav. Filangieri nel capo VII del lib. II. progetta l’abolizione di tutte le truppe di Europa; e dice, che ne' paesi di frontiere, nelle piazze d'armi la guarnigione potrebbe esser supplita da una guardia urbana, che si mutasse in ogni giorno o basterebbero due soli reggimenti per custodire la sacra persona del Principe.

Io non entro nell'esame di questo progetta del Signor Cavaliere: né mi oppongo a ciò, ch’egli giustamente dice nel capo citato, cioè che i Principi debbono poggiare la loro sicurezza sui numero, e valore delle loro virtù, e non già sui numero, e valore de' loro eserciti ma lascio soltanto decidere a chi ha esperienza delle cose umane, quanto sarebbe la durata delle monarchie di Europa, se i Principi, abolendo il Baronaggio, ed ogn’altr’ordine di nobiltà ereditaria, abolissero ancora i loro eserciti con lasciarli ciascheduno di essi due soli reggimenti per custodia della propria persona e per guarnire i paesi di frontiere, e le piazze, dessero il resto dell’armi in mano a’ sudditi.

Or avendo io per vero, che ogni altro progetto del Signor Cavalier Filangieri sarà abbracciato da’ Principi di Europa fuorché quello di disarmarsi: e conoscendo esser comune la brama in tutta questa nostra parte di Mondo di vedere distrutto affatto il Baronaggio: perciò ho stimato dire i miei sentimenti intorno a questo gravissimo, ed interessantissimo oggetto giacché si tratta della sorte comune.

All’aspetto di quanto ho dette in tal proposito, mi lusingo, che il Signor Cavaliere non voglia più dire (65), Qual è in fatti la differente, che vi è tra la monarchia, ed il dispotismo, se non quella, che nasce dall'esistenza, e dal vigore della magistratura? imperocchè è vero che la Magistratura, ridotta in Collegj, pel modo che noi l’abbiamo in Europa; è assolutamente necessaria, per serbare la dovuta moderazione in quella parte del governo, che riguarda l’amministrazione della giustizia ed è vero altresì, che forma della differenza tra i nostri governi, e quelli dell'Asia ma non in questo solo diversificano gli uni dagli altri; né la Magistratura, come ho fatto vedere, può salvare i Popoli dal dispotismo tirannico, nell’ipotesi, che si dasse un Principe di mal talento.

Per maggiormente rendere rischiarato il Signor Cav. $u questo punto, gli so sapere, che il dispotismo può usarsi cosi da’ Principi, come da’ loro Ministri. Per evitare il dispotismo de' secondi, giovano i Tribunali collegiati, perché ciascheduno individuo di essi serve di freno agli altri, acciò non abusino della loro autorità; e le leggi scritte servono di freno ai tutti. Ma per evitare il dispotismo de' primi non giovano né i Tribunali collegiati, né le leggi scritte ma solo le loro virtù, ed il loro interesse dl conservare il Baronaggio, come sopra ho fatto vedere, salvano i Popoli dalla tirannia.

Non credo che non sia profittevole per il mio argomento il far riflettere, che nell’Asia, dove non si è conosciuta mai la Nobiltà ereditaria, ivi il dispotismo è tanto antico quanto sono antiche le Monarchie stesse (66). Come pure non credo che non sia giovevole il far considerare,che in Europa non ci à stata mai Monarchia moderata prima dell’introduzione de' feudi: cioè prima che i barbari del settentrione, che ne furono gl’introduttori, avessero conquistalo l’impero Romano (67).

Adunque è forza conchiudere, per quanto ho detto sin’ora, che un corpo di nobiltà ereditaria, e propriamente un’Ordine di Baroni è di assoluta necessità nelle Monarchie moderate, formando una parte integrale del corpo politico; e che senza un tal Ordine di Nobiltà ereditaria ogni Monarchie sarebbe non solo oscurata, ed alterata, come dice il. Signor Cav., ma totalmente distrutta.

Mi rimane ora solamente ad esaminare, se, essendovi dell’esorbitanza nelle prerogative del Baronaggio, convenga, o no distruggere quell’ordine, in cambio di risegare gli eccessi delle prerogative, e di togliere gli abusi, che vi sono. Ma qual altro esame oltre de! già fatto, io debbo imprendere? Si è dimostrato, che un corpo di Nobiltà ereditaria, e propriamente un Ordine di Baroni è di assoluta necessità nelle Monarchie moderate; e che senza un tal ordine ogni Monarchia resterebbe distrutta. Dunque qualunque mai sieno l'esorbitanze delle prerogative de! Baronaggio, e gl’abusi introdotti, a tutt’altro bisogna pensare, per togliere i disordini, che vi sono, fuorché a distruggere il sistema feudale se non si vogliano nel tempo steslb annientare tutte le Monarchie di Europa, Ma ch’è quello, thi si dirà, che si debba fare, per togliere i disordini della feudalità nel nostro Regno, senza distruggere il Baronaggio? Lo vedremo nel foglio seguente.

Intanto, che diremo del valore de' progetti del Signor Cav. Filangieri, i quali, destinati a togliere alcuni mali inerenti alle Monarchie, tendono ad ammiserare, ed in conseguenza a distruggere il Baronaggio, ed ogni altr’Ordine di Nobiltà ereditaria? Quello stesso che si direbbe se alcuno, preso da trista ipocondria, per l’immenso numero de' mali morali, che ci circondano, si dasse a progettare, che tutti gli uomini prima che giungano alla pubertà, si dovessero accapponare perché cosi andando a finire il genere umano, finirebbero ancora tutt’i mali morali.


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RIFLESSIONI CRITICHE – FOGLIO II

SULLA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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FOGLIO II

Nel quale si esamina il Piano della nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie funzioni per gli affari criminali progettato dal Signor Cav. Filangieri nel capo XIX, della parte I, del lib. III.

L’Ordine esigerebbe, che l’esame di que]£/a sto piano da me si facesse nel tomo secondo, dove ho promesso trattare delle cose criminali: ma poiché io non sono in grado di dar ora alle stampe il detto secondo tomo: come pure, perché, se non esamino l’accennato piano del Signor Cav., non posso proporre i rimedj, per togliere i disordini della feudalità nel nostro Regno: perciò, per non prenderla più alla lunga, e tenere a bada chi tanto desidera, ho stimato qui farlo. La maniera, per! altro, da riuscirvi con maggior brevità, ho giudicato esser quella di trascrivere interamente il piano da cima a sondo, e di farvi delle noterelle critiche ne’ luoghi ove necessitano, ed una interruzione nel luogo opportuno: perché altrimenti, volendo dissertare su di esso, non vi basterebbe un volume intero. Mi accingo dunque all’impresa: ma prima prego il mio lettore ad aver presente nel tempo della lettura la parte I. del lib. III. dell’opera del Signor Cav., acciocché il medesimo non possa dire, che essendosi distaccato il piano dalle cose antecedentemente da lui dette, perciò non se ne capisce l'utilità.

INTRODUZIONE AL PIANO

Dopo aver esposto il sistema de' Romani liberi, e degl’inglesi sulla ripartizione delle giudiziarie funzioni ne’ criminali giudizj; dopo aver osservati i vizj di quello, che regna tra noi, e presso una gran parte delle nazionidi Europa; dopo aver mostrata la possibilità di distruggere il principale ostacolo (68), che si opporrebbe ad ogni utile correzione in questo genere di cose, è oramai tempo di proporre il nuovo piano, che si dovrebbe all’antico sostituire. Non facciamo come que’ molesti politici, che esauriscono tutta la loro eloquenza nel declamare contro i mali, che opprimono i popoli senza poi curarsi de' beni, che potrebbero essere at quelli sostituiti e consolare l’afflitta umanità col mostrarle la strada, che allontanandola dalle sue sciagure, condur la potrebbe alla sua desiderata felicità (69) Costoro meritano piuttosto il nome di perturbatori della pubblici tranquillità, che di benefattori della specie umana. io tradirei anche soggetto della mia opera, se cadessi nell’istesso vizio. Tutte le mie linee debbono i questo punto andare a terminare, e se qualcheduno mi volesse condannare di averle dedotte un pò troppo da lontano, per aver' in questo libre esposto cosa soverchia precisione ciò, che si sa presso alcuni popoli t o ciò che presso altri popoli in altri tempi si è fatto, sappia che questo non dove attribuirsi alla vanità purtroppo comune agli scrittori, di fare una pomposa mostra di erudizione ma deve ad un motivo più onesto essere attribuita, e questo è, per disporre colui, che legge, in favore delle mie idee, le quali, se non fossero poggiate su fatti, e sopra una luminosa esperienza, potrebbero farsi dagli uomini pur troppo prevenuti contra ogni novità (70), esser condannate come strane, come farsi belle in astratto, ma impossibili ad eseguirsi. il piano di correzione, che io sono per proporre su questa parte della criminale legislazione, che riguarda la ripartizione delle giudiziarie funzioni, non è altro, che il risultato della combinazione del sistema giudiziario degl'inglesi con quello de' Romani liberi, Unito ad alcune modificazioni, che una profonda meditazione mi ha fatto credere necessarie, e che renderanno questo piano concatenato co’ principj, le regole, e le idee, che ho antecedentemente sviluppate in questo libro, ed adattabile allo stato di qualunque nazione, ed alla natura di qualunque governo. Premesse quelle proteste, io vengo all'esposizione del Piano.

ARTICOLO I

Divisione dello Stato

Lo Stato dovrebbe essere diviso in molte picciole provincie (71) ed ogni provincia dovrebbe avere la sede della giudiziaria autorità nel suo centro. Questa locale ripartizione servirebbe ad accrescere la vigilanza della giustizia, e ad accelerare i suoi passi. Essa recherebbe anche un altro considerabile vantaggio., La cognizione del carattere, e de' costumi dell’accusato, questa cognizione, che la legge non può somministrare al giudice, non può esigere dall'accusatore non può ricercate da’ testimonj (72), è nulladimeno di una grande importanza per la rettitudine del giudizio. Se questa non deve entrare nel sistema delle pruove legali, può nulladimeno avere una grande influenza nel determinare la moral certezza del giudice (73). Un uomo conosciuto per la dolcezza de' suoi costumi, viene accusato d’un’azione atroce una fanciulla timida, e debole, viene incolpata di un delitto audace, e difficile; un Cittadino stimato per la sua probità, e pel suo onore, vien chiamato in giudizio per un attentato infame: Qual è quel giudice, che conoscendo il carattere di questi diversi uomini, non ricercherebbe pruove molto più evidenti per dichiararsi in favore dell’accusa, di quello, che sarebbe se fosse sprovvisto di quella cognizione? Quell'istesse pruove, che ballerebbero per determinare la sua moral certezza contro un accusato il cui carattere corrispondesse all'accusa, basterebbero forse per determinarla ne’ preposti casi? Chi di noi, malgrado la pienezza della prova legale, non condannerebbe piuttosto Anita come calunniatore, che Socrate come delinquente? E’ un errore il credere, che là pianta del vizio giunga tutto ad un tratto alla sua perfezione, senza aver prima dati per gradi i segni visibili del suo sviluppo. È un errore il credere, che non vi bisogni, che un momento per passare dall’innocenza al più orrendo de' delitti. La natura non ha formata a quello modo il cuore dell'uomo. Non altrimenti che la virtù, il vizio ha i suoi gradi e cosi nel bene come nel male, vi è una progressione nello sviluppo morale dell’uomo, come nel fisico. Quella verità è stata conosciuta, è data dimostrata, ma non ha potuto penetrare ne’ tribunali, pe’ quali l’uso di essa pareva destinato.

“Il sistema giudiziario, che oggi regna, la rende inutile. in un paese, ove la legge mette tanta distanza tra il reo, ed il giudice, come si potrebbe mai sperare che il carattere del primo fosse noto al secondo? il carattere è rappresentato dall'abito di alcune azioni. Per conoscere il carattere di un uomo, si richiede l’abito di vederlo che si restringono dunque, quanto si può, gli spazi, che separano il reo dal giudice che i giudici, che decidere debbono del fatto non sieno né pochi, né perpetui; che si scelgano dalla Provincia istessa nella quale esercitar debbono il loro ministero (74) che questa Provincia sia, quanto più si pub, ristretta ed allora non sarà difficile, che il carattere dell'accusato sia noto a tutti, 0 ad una parte almeno de' giudici, che debbono giudicarlo” (75).

ARTICOLO II

Scelta de' Presidi

“Dalle persone più rispettabili di ciascheduna Provincia, dovrebbe il Principe scegliere il Magistrato, che col nome di Preside, dovrebbe per un dato tempo esercitare le seguenti funzioni.”

ARTICOLO III

Funzioni di questa Magistratura

“Egli dovrebbe ricevere tutte le accuse, che o dalle parti offese, o da’ privati cittadini, o dal magistrato accusatore (76)si produrrebbero, colle solennità stabilite dalla legge (77), controqualunque 0 cittadino, o straniere, che venisse imputato di un delitto commesso nella sua provincia. Egli dovrebbe istruire l’accusatore della formula di accusa propria pel fatto, ch’egli asserisce, semprechè l'accusatore richiedesse riguardo a quest’oggetto i suoi lumi (78).Egli dovrebbe rimettere al Magistrato accusatorequelle accuse, che intentate verrebbero da persone, alle quali mancassero quelle prerogative, che la legge richiede per poter accusare (79). Nel caso del concorso di più accusatori per l’istesso delitto, o per l’istesso reo, egli rimettere dovrebbe il giudizio di divinazione (80) a’ giudici del dritto, de' quali da qui a poco si parlerà. Egli dovrebbe inoltre intimare l’accusato, istruirlo dell'accusa, che si è prodotta contro di lui, ed assicurarsi della sua persona o sulla parola di un fidejussore, quando la natura del delitto lo permetterebbe, o ritenendolo nelle carceri nel modo da noi proposto (81). Egli dovrebbe ricevere il giuramento di calunnia dall'accusatore, presedere al giudizio, come il Pretore in Roma. Egli dovrebbe invigliare sull’ordine della procedura, e prendere quelle precauzioni, che si debbono per ottenere, che cosi le due parti, come i testimonj da esse prodotti si trovassero presenti nel giorno, nel quale si dee terminare il giudizio (82). Egli dovrebbe formare l’albo de' giudici, che decidere dovrebbero del fatto, e sceglierli da que’ cittadini della sua provincia, ne’ quali si troverebbero i requisiti legali, che qui appresso saranno proposti (83). Egli dovrebbe finalmente far eseguire la sentenza, che dal combinato giudizio de' giudici del fatto, e de' giudici del dritto risulterebbe.”

ARTICOLO IV

Durata di questa Magistratura e suo salario

“Se noi osserviamo il moral carattere degli uomini, noi ritroveremo in tutti un pendio più o meno sensibile, ma nulladimeno comune, ed universale al cangiamento. Noi troveremo, che l’incostanza è il più collante carattere degl'individui della nostra specie. Questo vizio degli uomini si comunica al governo, non altrimenti, che i difetti de' componenti si comunicano al corpo, che n’è composto. il solo rimedio, che oppor si possa a questo male, è la breve durata delle magistrature. il fatto giustifica questa riflessione. Nelle nostre Monarchie si osserva quell’incostanza, che non si osserva nelle Repubbliche, Nelle prime le leggi passano dall'infanzia alla decrepitezza, dal maggior vigore all’obblio con una rapidità, che si può più facilmente vedere, che esprimere. Un impetuoso torrente, che si forma tutto in un tratto nella stagione delle piogge, cagiona molli sconvolgimenti ne’ paesi, pe’ quali passa, e lascia appena nell'està le aride vestigia del letto, che ha percorso. Ecco la sorte, e l'immagine delle leggi nelle nostre Monarchie. Un grande strepito le accompagna nel momento, nel quale vengono emanate, e l’obblio immediatamente le siegue.”

“Nelle Repubbliche avviene l’opposto. Noi vediamo in quelle le leggi conservare per più secoli il loro nativo vigore. Noi vediamo in esse molte volte corrette le antiche leggi, molte volte abolite; ma le vediamo rare volte obbliate. Quali sono i motivi di questa differenza? Ve ne sono varj, ma uno de' più sorti è, che nelle Monarchie le Magistrature sono perpetue, e nelle Repubbliche hanno una breve durata. Nelle prime regna l’incostanza, perché li lascia al Magistrato il tempo di abbandonarli al natural pendio dell’uomo e nelle seconde si previene quello male col cangiamento continuo delle Magistrature. in quelle il cittadino non è magistrato, che durante, presso a poco, quel tempo, che può durare il suo zelo, e la sua costanza,ed in quella maniera con una successione ben combinata di magistrati incostanti, else formano un governo, il cui spirito è la costanza.”

“Nelle Monarchie dunque non si dovrebbe far altro, che adottare, per quanto la natura del suo governo lo permette, il metodo delle Repubbliche, per ottenerne gli stessi vantaggi. Dalle proposte funzioni del Preside, si può facilmente vedere quanto importante sarebbe nel nostro piano questa carica, e quanto pernicioso ne sarebbe il rilasciamento. Noi fisseremo dunque ad un anno solo la durata di questa magistratura, e rimetteremo nel tempo istesso all’arbitrio del Principe il richiamare all'istessa carica l’istessa persona, sempre però coll'interstizio di un anno almeno.”

“Questa disposizione conterrebbe un triplice vantaggio. Essa preverrebbe gli effetti dell'incostanza del Magistrato colla breve durata della magistratura; metterebbe un freno all'abuso, ch’egli far potrebbe della sua autorità, dando un adito alle accuse, che ciascheduno potrebbe senza spavento produrre contro di lui, terminato l'anno della sua carica e l’interesserebbe nel tempo stesso ad esercitarla coi maggiore zelo per la speranza di esservi di nuovo richiamato in premio della sua virtù, dopo un breve interstizio.”

Il salario assegnato a questa carica dovrebbe essere proporzionato al suo lustro, ed alla sua dignità. il Principe non potrebbe mai essere soverchiamente liberale nel pagare gli amministratori della giustizia. il grande interesse dello Stato è, che colui, ch’esercita una parte qualunque di potere, non abbia bisogno di abusarne, per avere come sussistere con quella decenza, che il decoro istesso della sua carica richiede. Se tutt’i Principi avessero conosciuta questa verità, essi avrebbero dato meno a’ loro favoriti, a’ loro cortigiani, ed a’ loro piaceri, ed avrebbero pagato meglio i loro magistrati. Cià che io ho detto qui riguardo a’ Presidi, intendo di dirlo per tutti gli altri amministratori della giudiziaria autorità.

ARTICOLO V

De’ Giudici del Fatto

“Noi abbiamo detto, che il Preside dovrebbe formare l'albo de' giudici del fatto. Questa, come si sa, era una delle più onorevoli prerogative del Pretore urbano tra’ Romani, come lo è dello Sheriff prestò gli inglesi. Da questa importantissima operazione dovrebbe in ciaschedun anno ciaschedun Preside cominciare l’esercizio della sua magistratura. Vediamo dunque quali dovrebbero essere i requisiti, che la legge dovrebbe ricercare in questi giudici quali dovrebbero essere le loro funzioni e quale il loro numero in ciascheduna Provincia, ed in ciaschedun giudizio.”

ARTICOLO VI

Requisiti legali che ricercar si dovrebbero in questi Giudici

Per esaminare la verità di un fatto basta una buona logica, che più frequentemente ci vien data dalla natura di quello che non si acquisti coll'arte, Ogni uomo che non sia né stupido, né matto, e che abbia una certa connessione nelle idee, ed una sufficiente esperienza del mondo, può conoscere la verità o la falsità di un'accusa sulle ragioni, che dall’una parte e dall’altra si adducono. La maggior parte degli uomini potrebbe dunque essere in una certa età impiegata dalla giustizia al criterio de' fatti-ma la probità non è cosi comune tra gli uomini come lo è il discernimento, del quale si è parlato. La legge non potrebbe fissare che le qualità negative le positive dovrebbero esser lasciate all’arbitrio del Preside nella scelta di questi giudici. Le qualità negative dovrebbero esser le seguenti.”

“Un età minore di 15 anni; un patrimonio, che non sorpassi un dato valore (84); la stolidezza, e la frenesia derivata o dall’età, a da malattie, o da vizio organico, o da qualunque altra causa; l’esercizio di un mestiere infamante; l'essere o sub judice per l’accusa di qualunque delitto; o l’aver subita una pena afflittiva di corpo. Queste sono le qualità negative, che la legge dovrebbe fissare, per determinar piuttosto chi non potrebbe essere scelto per giudice del fatto, che chi dovrebbe esserlo. Si apparterrebbe quindi al Preside di far cadere la sua scelta sulle persone, che mostrerebbero di avere le maggiori disposizioni a riuscirvi (85).

ARTICOLO VII

Funzioni di questi giudici

“Chi ha letto con attenzione il capo di questo libro, dove si sono esposti i canoni di giudicatura, che regolar dovrebbero il criterio legale, e l’altro capo, che precedé immediatamente a quello, potrà ricordarsi di ciò, che si è detto su quello proposito. Noi abbiam detto, che i giudici del fatto dovrebbero determinare la verità, la falsità, o l’incertezza dell’accusa, combinando il proprio criterio col criterio legale che prima di ogni altro essi dovrebbero decidere dell’esistenza, o della non esistenza della pruova legale, e quindi della verità, falsità, o incertezza dell’accusa. Per non ripetere ciò, che si è detto, io rimando il lettore a quelli due capi, dove mi pare di aver bastantemente sviluppate le mie idee (86). Aggiungo qui soltanto, che dovrebbe esser proibito a questi giudici di uscire dalla stanza, dove si tiene il giudizio, prima di aver unanimemente deliberato. Questo è un temperamento della legge d’Inghilterra, che proibisce loro anche di mangiare, di bere, e di far uso del cuoco. Un giudice robusto potrebbe farsi strascinare tutti gli altri al suo partito, potendo più degli altri reggere all’inedia, alla sete, ed al freddo. La semplice proibizione di abbandonare il luogo del giudizio, sarebbe un mezzo meno pericoloso per facilitare l'unanimità de' suffragj (87). Finalmente questi giudici, dopo d’aver deciso della verità del fatto, dovrebbero decidere del Grade del delitto. io voglio qui lasciar sospesa la curiosità del lettore, che sarà soddisfatta nella seconda parte di questo libro, giacché dallo sviluppo di questa importante idea dipende la soluzione del gran problema: ottenere, che ciaschedun delitto abbia la sua pena dalla legge prescritta. Quando si vedrà ciò, che io ho pensato su questo oggetto, si potrà meglio giudicare dell'opportunità cosi del piano universale di procedura, che in questa prima parte propongo, come di quelli in particolare, che riguarda il sistema delle pruove, e la ripartizione delle giudiziarie funzioni (88). Un architetto concepisce un vasto edifizio, e ne inalza una parte. L’ignorante con ugual facilità, e con uguale ingiustizia ne loda, o ne vitupera l’autore. L'artefice ne aspetta il termine per giudicare. Lo prego il mio lettore a giudicarmi da artefice.”(89)

ARTICOLO VIII

Numero di questi giudici in ciascheduna Provincia ed in ciaschedun giudicio

“Su questo articolo piucchè in ogni altro converrebbe adottare il sistema Brittannico. in ogni Provincia l’albo del Preside dovrebbe contenere 48 giudici, presi dagli abitanti dell’istessa Provincia, da’ quali in ogni giudizio si dovrebbero scegliere col consenso dell'accusato i dodici giudici, che unanimemente decidere dovrebbero del fatto (90). il numero di 48 pare bastevole a favorire la libertà delle ripulse, cosi necessaria per garantire la sicurezza dell’uomo, che si ritrova avvinto ne’ legami della giustizia, e per ispirargli quella confidenza, senza della quale i decreti della giustizia potrebbero comparire ugualmente orribili, che gli attentati della violenza, e della forza. Vediamo dunque come dovrebbero regolarsi quelle ripulse.”

ARTICOLO IX

Delle ripulse di questi giudici

“Noi profitteremo anche in quest’oggetto de' lumi, che ci offre la Brittannica Nazione, ch’è la sola in Europa, dove la libertà civile del cittadino sia favorita ne’ Criminali giudizj. Ad esempio dunque della legislazione di questo popolo, si dovrebbero stabilire tre diverse specie di ripulse. La prima, che dovrebbe chiamarsi universale, dovrebbe aver luogo allorché il reo potrebbe, sopra motivi legali, dichiarar sospetto il Preside (91). in questo caso tutto l’albo de' giudici da lui proposto, dovrebbe cadere (92), ed un nuovo albo si dovrebbe per quel solo litigio formare da lino de' giudici del dritto di quella provincia, de' quali da qui a poco parleremo (93). La seconda specie di repulsa, che chiamar si dovrebbe Ripulsa per causa, dovrebbe aver luogo non sopra tutto l'albo de' Giudici, ma sopra quelli soltanto, che il reo potrebbe escludere came privi de' requisiti, che la legge richiede in essi (94), o dichiarar sospetti pe’ rapporti d©dio, o di litigio contro di lui, o di amicizia, e di parentela coll’accusatore (95). i motivi di quelle ripulse regolar si dovrebbero co’ principj molto conosciuti del dritto comune (96).”

“I giudici di quelle due specie di ripulse, cioè universale, e per cause, dovrebbero essere gli stessi giudici del dritto (97). Finalmente l'ultima specie di repulse, che si chiamerebbe perentoria, dovrebbe aver luogo sopra 20 giudici inseriti nell'albo del Preside che sarebbe sempre in libertà dell'accusato di escludere, senza aver bisogno di addurne motivo alcuno.”

“Nel Capo XVI. di questo libro, dove si è esposto il sistema della legislazione Brittannica su quest’oggetto, esposte si sono le ragioni, sulle quali è sondato il vantaggio di questa specie di ripulsa. Finalmente conviene avvertire, che quando tutte quelle ripulse avessero esaurito l’albo, allora il Preside dovrebbe nominare tanti altri giudici, quanti se ne richiederebbero per compiere il numero de' dodici, che giudicar dovrebbero del fatto (98). Ma quali dovrebbero essere i Giudici del dritto?”

ARTICOLO X

De Giudici del dritto

“Se ogni uomo, che abbia senso comune, e probità conosciuta, può esser giudice della verità, o della falsità di un'accusa (99) non bastano quelle due sole qualità per giudicare del dritto, Per giudicare del dritto, bisogna avere cognizione del dritto, e quella cognizione suppone una particolare applicazione, ed una profonda conoscenza delle patrie leggi, Pel giudizio del dritto, bisogna dunque dipendere da coloro, che la pubblica autorità ha riconosciuti bastantemente istruiti nella legislazione per affidarne loro il prezioso deposito. Se ogni cittadino dovrebbe sapere le leggi del suo paese, non è però condannabile, perché le ignori, ma questa ignoranza è un delitto nella persona di un magistrato, che ne fa professione. Più: Le leggi criminali, per loro natura, debbono essere molto precise, e molto estese; precise, per separare gli oggetti; estese, per isviluppare ciascheduno di essi. i dettagli superflui, e perniciosi nelle altre leggi, sono indispensabili nelle leggi criminali, perché le azioni essendo molto più difficile a determinarsi, che i dritti, è necessario descrivere le une, nel mentre che basta definir gli altri. Se ogni delitto deve avere una pena proporzionata, bisogna ben distinguere i delitti, per non esser ingiusto nelle pene, e quella distinzione, come l’osserveremo nel decorso di questo libro, deve obbligare il legislatore a discendere in immensi dettagli, se non vuol rendere arbitraria l'autorità de' giudici, e dar loro un potere superiore alla loro destinazione. Come sperare dunque di trovare in un privato cittadino, che il Preside ha scelto pel giudizio del fatto, tutte quelle positive, e legali cognizioni? Vi è dunque bisogno nello Stato di ua corpo permanente di giudici del dritto.”

ARTICOLO XI

Numero di questi Giudici in ciascheduna provincia

“In ciascheduna provincia vi dovrebbero essere tre di questi giudici giacché nel giudizio del dritto, a differenza di quello del fatto, dovrebbe bastare la pluralità de' suffragj per decidere (100). Questi giudici però non dovrebbero esser sedentanei, non dovrebbero rimaner sempre nell’istessa provincia. Essi dovrebbero in ogni anno cambiar di dimora, e passare in un’altra provincia, senza poter ritornare nella prima, se non dopo aver fatto il giro di tutte le altre. Questo sarebbe un rimedio contro la necessaria perpetuità della loro carica, giacché terminato l’anno, ognuno potrebbe accusarli senza spavento. il Sovrano dovrebbe essere l’unico elettore di questi giudici, e dovrebbe tenerepressodi séuna magistratura destinata ad esaminare le accuse, che contro di essi si produrrebbero. Questo, freno, unito all'evidenza, che dovrebbe essere il distintivo delle leggi criminali, renderebbe quasi impossibile a questi giudici l’abusare del loro ministero, senza esporsi alla sicurezza di esser puniti, Ma quali dovrebbero essere le loro funzioni?

ARTICOLO XII

Funzioni di questi Giudici

“Noi abbiamo detto, che non si dovrebbe sperare di trovare ne’ giudici del fatto una piena cognizione del dritto. Or in molti fatti l’esame dell'accusa richiederebbe la cognizione delle disposizioni della legge, o almeno di alcuni principj legali (101). in questi casi dunque, i giudici del dritto dovrebbero istruire que’ del fatto, di ciocch’essi debbono avere innanzi agli occhi in quel tale giudizio (102).

“Si è detto inoltre, che i giudici del fatto dovrebbero prima di ogni altro decidere, se nell'accusa, che si è prodotta, vi stata pruova legale, e quindi decidere della verità, falsità, o incertezza dell'accusa, combinando la loro moral certezza col criterio legale (103) t Or come decidere dell’esistenza di questa pruova legale, senza prima sapere quale sia la pruova che la legge richiede? Se l’accusatore ha, per esempio, prodotti due testimonj di veduta, sa d’uopo che essi sappiano, quale sia la pruova testimoniale, che la legge considera come piena, e quali sieno i requisiti, ch’essa richiede per dichiarare idoneo un testimonio. Se l'accusatore adduce una pruova indiziaria, bisogna della maniera istessa, ch’essi sappiano quali, e quanti indizj si richieggano per formare una pruova legale, e come questi possono essere da altri indizj distrutti dall’accusato: in poche parole, bisognerebbe, ch’essi avessero innanzi agli occhi que’ canoni di giudicatura, che determinano il criterio legale. Or siccome questa cognizione non si dovrebbe presupporre in essi (104), cosi sarebbe necessario di unire alle altre funzioni de’ Giudici del dritto, quella di istruirli sullo stabilimento della legge, che riguarda la pruova addotta dall'accusatore (105).”

Finalmente siccome nelle altercazioni, che vi sarebbero. tra l'accusatore, e l’accusato, si potrebbe facilmente perdere da’ giudici del fatto quel filo d’idee, che sarebbe necessario per veder tutt’i rapporti de' fatti, e delle ragioni, che dall'una parte, e dall'altra si addurrebbero, bisognerebbe che i giudici del dritto più esercitati di essi a simili altercazioni, riepilogassero alla presenza delle parti tutto ciò, che si è detto; riducessero lo stato della questione a que’ termini, a’ quali anderebbe ridotta e facilitassero in questa maniera a’ giudici del fatto la scoverta della verità. il Preside dunque dovrebbe destinare uno de' tre giudici a questa incumbenza, senza però poter proibire a’ due suoi colleghi di opporglisi, o di supplire a ciò, ch’egli avrebbe potuto ommettere, e trascurare (106).”

“Queste sarebbero le funzioni de' giudici del dritto, che dovrebbero precedere il giudizio del fatto; la più importante sarebbe poi quella, che dovrebbe seguirlo. Quando i dodici esploratori del fatto (107) avrebbero unanimamente deciso dell'accusa prodotta (108), siapparterebbe a quelli il profferire la sentenza a tenore delle leggi, vale a dire o l’assoluzione dell’acculato, quando i giudici del fatto avessero dichiarata salsa l’accusa, o la sospensione del giudizio, quando l'avessero dichiarata incerta, o la condanna alla pena stabilita dalla legge alla qualità,ed al gradodel delitto, del quale i giudici del fatto dichiarata avrebbero reo l’accusato (109).”

“In questi confini dovrebbero ristringersi le funzioni de' giudici del dritto. Fedeli custodi della legge, essi non dovrebbero esterne, che l'organo. Se questa si tacesse su di un delitto, essi dovrebbero ugualmente tacersi. Un fatto qualunque, che non si trovasse compreso in alcuno di quelli, contro a’ quali la legge ha pronunziata la sua sanzione, dovrebbe per questo solo motivo rimanere impunito.”

Il male, che produrrebbe l'impunità di questo delitto, male del quale una nuova legge potrebbe subito riparare le conseguenze, non è da mettersi in paragone con quello, che nascerebbe da un’assurda, e perniciosa estensione del giudiziario potere. L’autorità d'infliggere una pena non dovendo, né potendo essere, che nella legge, il giudice dovrebbe piuttosto esserne il primo testimonio, che l’autore. Egli non dovrebbe far altro, che manifestare la condanna, ch'essa ha anticipatamente profferita, e riconoscere il suo impero. Felice quel paese, ove il Codice penale corrispondesse a quest’ordine sublime! La seconda parte di questo libre mostrerà la possibilità d’ottenerlo.”

ARTICOLO XIII

Delle Sessioni ordinarie di giustizia

“Da tutto quel che si è detto, si può facilmente vedere che quelle corti di giustizia non potrebbero essere continuamente in azione, senza cagionare una spesa immensa al governo (110). Se i 48 giudici del fatto, scelti dal Preside nel principio istesso della sua carica, dovessero restar per tutto l’anno nella Capitale della Provincia, per esser sempre pronti ad esercitare il loro ministero, bisognerebbe, che ciascheduno di essi fosse per tutto l’anno mantenuto a spese del Governo.”

“Noi avremmo dunque uno stuolo immenso di mercenarj di più, che sarebbero pagare a caro prezzo al popolo il beneficio che questo nuovo piano gli recherebbe (111).”

“A questa prima riflessione se ne può aggiugnere un’altra. Nell'ipotesi della residenza continua di tutti questi giudici nella Capitale della provincia, il Preside non troverebbe chi volesse accettare l’onorevole incarico di questa giudicatura, la quale dovrebbe per un anno intero distrarre dalla sua famiglia, e da’ suoi affari il nuovo Sacerdote di Terni. il suo successore molto meno potrebbe confermare quelli tra questi giudici, che avessero date pruove maggiori della loro virtù t del loro talento, della loro imparzialità. O bisognerebbe ricorrere alla violenza, mezzo, che disporrebbe questi giudici all'ingiustizia coll’esempio, che loro se ne darebbe; o si dovrebbero spesso lasciare in pace i più probi,e i più onesti, e contentarsi de' più sfaccendati, che ordinariamente sono i meno virtuosi.”

“Il popolo dunque sarebbe oppresso dalle spese, ch’esigerebbe il loro mantenimento, senza potersi compiacere d’avere i giudici più degni della sua confidenza. Per evitare questo doppio male io propongo, ad esempio degl’inglesi, le sessioni ordinarie di giustizia in ogni tre mesi nelle Provincie, ed in ogni sei settimane nella Capitale. Ciascheduna di quelle dovrebbe durare per tanti giorni, per quanti se ne richiederebbero per ultimare tutt’i giudizj, che nel corso di quel tempo, che passa tra una sessione, e l'altra, si sarebbero intentati (112). Pel primo giorno della sessione si dovrebbero trovare già riuniti nella Capitale della provincia i 48 giudici del fatto, che il Preside ha nominati, e se alcuno di questi fosse legittimamente impedito, il Preside dovrebbe subito rimpiazzarlo, affinché il numero de' 48 fosse sempre compiuto. Durante questo tempo essi dovrebbero essere a spese del governo trattenuti. Terminata la sessione, essi sarebbero subito congedati, e restituiti alle loro famiglie.”

Interruzione

Per far conoscere dimostrativamente quando sarebbe per durare ciascheduna di quelle sessioni ordinarie di giustizia, che il Signor Cav., ad esempio degl’inglesi, propone doverli tenere in ogni tre mesi nelle Provincie, ed in ogni sei settimane nella Capitale ed in conseguenza per far conoscere ancora, se gl'inconvenienti da lui considerati in questo ultimo trascritto articolo del suo piano rimarrebbero, o no evitati con tale proposto espediente; perciò mi sia permesso d’interrompere qui, per poco, la continuazione del medesimo piano, e di riepilogare quanto egli ha progettato doversi operare in ogni una delle dette sessioni.

Figuriamoci essere già ad una delle diete Provinciali. Noi sicuramente saremo spettatori di una picciola immagine del giudizio universale. il Preside, i tre Giudici del dritto, i quarantotto Giudici del fatto, tutt’i rei, tutti gli accusatori, tutt’i testimonj saranno ragunati nella Capitale della Provincia. il numero de' delitti, ed in conseguenza quello de' delinquenti, degli accusatori, e de' testimonj io non so determinarlo. Ma, per quanto picciola, e disciplinata voglia supporsi una Provincia, il numero de' reati e gravi, e leggieri, nel decorso di tre mesi, non sarà certamente molto picciolo.

Le funzioni della dieta incominceranno colle ripulse. Ma poiché il numero de’ delinquenti è sempre maggiore di quello de' delitti perciò è manifesto, che le cause di sospezioni in ogni sessione saranno di un numero esorbitante. Molti, per la ragione addotta nella nota (1) pag. 187, ed anche per condotta di causa, daranno per sospetto il Preside. Valendo queste sospezioni, da’ Giudici del dritto si formeranno (come si è progettato dal Signor Cav. nell’articolo IX) de' nuovi albi de' Giudici del fatto: e con ciò avremo nella Capitale della Provincia de' nuovi ospiti. Da ciaschedun reo (per ciò, che si è detto nelle note (2) e (3) pagina 188, ed ancora per temporeggiare) si daranno delle ripulse per cause a quanti Giudici de! fatto loro farà a grado. Tutte quelle cause di sospezioni, l’una dopo dell’altra, dovranno essere giudicate da tre Giudici del dritto. E perciò lascio determinare a chi vuole, la quantità del tempo,che vi bisognerà a ciò fare, per quanto le leggi sommariamente volessero,che si procedesse in quelle cause.

Ultimati, che saranno i giudizj delle ripulse per cause, si verrà da’ rei a dare le ripulse perentorie. Spesso gli albi con quelle ripulse saranno esauriti, giacché ogni reo (come ha progettato il Signor Cav. nell'articolo IX) avrà il dritto di escludere liberamente, e senza aver bisogno di addurre motivo alcuno, 20 de’ Giudici del fatto. Esauriti in quello modo gli albi, dal Preside, e da’ Giudici del dritto, separatamente, e secondo le circostanze di ciascheduna causa, si verrà alla nomina di tanti altri Giudici (giusto il progetto del Signor Cav.) quanti se ne richiederanno, in ogni una delle medesime, per compiere il numero de' dodici, che giudicar dovranno del fatto. Or nel mentre,che la popolazione della Capitale della Provincia verrà accresciuta da quelle nuove partite di Giudici ambulanti, noi, a cagione delle difficoltà proposte nella nota alla pag. 190, non saremo ancora al momento, nel quale s’incominceranno i giudizj delle cause principali. Ed in tanto l’immenso stuolo de' poveri testimonj, lontani dalle loro patrie, dalle loro case, e dalle loro famiglie, languiranno nella Capitale della Provincia; ed altro sollievo non troveranno a’ loro mali, fuori di maledire la legge, che II tiranneggia, ed ammiserisce,

Finite tutte le sospezioni, ed eletti per ciascheduna causa col consenso degli accusati i dodici Giudici del fatto, si passerà alla formazione de' giudizj delle cause principali,

Ed ecco, che si vedranno assisi pel Tribunale il Preside, i tre Giudici del dritto, ed i dodici Giudici del fatto di quella causa, che sarà la prima ad esaminarsi incontanente compariranno l’accusatore, l’accusato col suo avvocato (113), ed i testimonj dell'una, e dell'altra parte. L'accusatore esporrà l’accusa, e presenterà i suoi testimonj: i quali, interrogati da’ Giudici, saranno le loro deposizioni. L’accusato, ed il suo avvocato risponderanno all’accusatore, a’ testimonj, ed a’ Giudici si opporranno a quanto loro sarà a grado; e presenteranno i testimonj in difesa. Costoro saranno esaminati parimente da’ Giudici, e l’accusatore avrà il dritto anch'esso di opporsi a’ loro detti, e di contrastare coll*accusato,e col suo avvocato. Finalmente terminate, che saranno l’esamina de' testimonj, e tutte le altercazioni; e dopoché l’avvocato dell’accusato avrà arringato a favore del suo cliente allora uno de’ tre Giudici del dritto (per la ragione addotta dal Signor Cav. nell'articolo XII) riepilogherà alla presenza delle parti tutto ciò, che si sarà detto,riducendo lo stato della questione a que’ termini, a’ quali andrà ridotta, ed in tal modo resterà facilitata a’ Giudici del fatto la scoperta della verità.

Dopo di tutto ciò, essendo nell’obbligo ancora i Giudici del dritto (secondo progetta il Signor Cav, nel medesimo articolo XII.) d’istruire i Giudici del fatto sullo stabilimento della legge, che riguarda la pruova addotta dall'accusatore; perciò dovranno spiegar loro, prima di ogni altro, che s’intende per pruova legale: che vale a dire, che dovranno spiegare quei Canoni di giudicatura, che determinar dovrebbero il criterio legale (114): e quindi (115) dovranno indicar loro ancora l’applicazione al caso, che si agita.

Istruiti che saranno in questo modo i dodici Fantoccioni, che dovranno fare da Giudici del fatto, allora 11 ritireranno in un luogo segregato, e resteranno in quello, sinché unanimamente non profferiranno il loro giudizio sull’esistenza, o non esistenza della pruova legale. Sarà certamente curioso a vedersi l’esito di questo congresso. Se però uno decomponenti del medesimo si ostinerà a non volersi uniformare agli altri, allora si, che la pazienza de' curiosi spettatori sarà stancata, Chi non sa sin dove giugne l'ostinazione delle bestie?

Terminato che sarà coll’unanime suffragio de' dodici Giudici del fatto il giudizio sull’esistenza, o non esistenza della pruova legale (che io non so quanto sarà per durare), e pubblicatolo si passerà da’ medesimi Giudici a decidere, anche in un luogo segregato, ed unanimamente, della verità, della falsità, o dell’incertezza dell’accusa, combinando la loro moral, certezza col criterio legale (116). Quello secondo giudizio, a cagione dell'unanimità de' suffragj, che pur si pretende, sarà ancora nell’istesso rischio del prima; cioè di avere una lunga durata,

Finalmente terminato, e pubblicato che sarà il giudizio della verità, della falsità, a dell’incertezza dell'accusa, dovranno gli stessi dodici Giudici del fatto, quando sarà dichiarata vera l’accusa, ritirarsi, per la terza volta, in un luogo segregato, ed ivi decidere unanimamente ancora della qualità, e del grado del delitto. La durata di questo terzo giudizio, per la solita condizione dell’unanimità de' suffragj, potrà esser pure molto lunga (117).

Quest’ultima decisione de' Giudici del fatto sarà immediatamente seguita da quella de' Giudici del dritto, i quali, applicando il fatto alla legge, indicheranno finalmente la sentenza (118).

Or io per il computo del tempo, che vi necessiterà a tutte le funzioni, che qui si sono accennate, per venire alla sentenza della prima causa, che sarà esaminata, mi rimetto all’uomo il più prevenuto a favore de' progetti del Signor Cavaliere. io son sicuro, ch’egli non dirà, che vi voglia meno di un giorno a far quanto si è detto. Se dunque non si può dubitare, che non vi bisognerà meno di un giorno, per discutere una causa criminale (senza entrare nella considerazione di quelle cause, nelle quali, vi saran? no più rei: che vale a dire, che ponendo ciascheduno di essi il suo avvocato particolare, ed essendo diversi i gradi de' loro delitti, diverse le pruove, è diverse le discussioni, perciò maggiore sarà il tempo, che si consumerà per venire alle sentenze in tali complicati giudizj) se dunque, dico, non vi bisognerà meno di un giorno per discutere una causa criminale, anche nel modo sommario progettato dal Signor Cavaliere, e se non è difficile, che in una Provincia, per picciola e disciplinata che sia, nel decorso di tre, mesi, vi accadano novanta delitti perciò (senza aver alcun riguardo al tempo, che vi necessiterà per le moltiplici cause di sospezioni, che vi saranno, come si è detto) a stento si giugneranno a disbrigare tutt’i giudizj (amministrando giustizia anche ne’ giorni festivi) tra il decorso di una sessione all’altra.

Ma, si dirà, in quelle cause, nelle quali i Giudici del fatto dichiareranno salsa, o incerta l’accusa, in esse si risparmierà il tempo del giudizio della qualità, e del grado del delitto, e del giudizio dell’applicazione del fatto alla legge, per indicare la sentenza. Tutto sarà vero. Ma in tali casi, se si risparmierà il tempo per un verso, si consumerà in maggior quantità per un altro: cioè o per il giudizio di calunnia, q per il giudizio di prevaricazione.

Il Signor Cav. ne’ capi IV. XXII, e XXIII. della parte I. del Lib. III. progetta, ad imitazione de' Romani i giudizj di calunnia e di prevaricazioni contro l’accusatore, quando l’accusa fosse dichiarata o salsa, o incerti. Cioè se l’accusatore dasse de' sospetti di collusione col reo, allora tanto al Magistrato accusatore, quanto a qualunque altro del Popolo dovrebbe esser permesso, egli dice, di accusarlo di prevaricazioni. E se nella sua accusa vi comparisse della mala sede, allora tanto a qualunque cittadino, quanto all’accusato assoluto (che vale a dire quando l'accusa fosse dichiarata salsa) dovrebbe esser permesso, egli pur dice, di accusarlo di calunnia.

Or chi vi ha, che non sappia, per interna sensazione, quanto l’uomo offeso sia spinto dalla vendetta contro il suo offensore, tutto che la ragione gli dica senza dubbiezza, ch’egli debba perdonare chi l’offende? La Religione istessa, il più delle volte, non giugne con tutta la sua efficacia ad estinguere il malumore dell’uomo vendicativo. Sicché rade volte si vedrà, che un accusato assoluto non accuserà di calunnia il suo accusatore. E s’egli nol sarà, non mancherà certamente un suo parente, un suo amico, o un inimico del suo accusatore che lo faccia: tanto più, che (secondo progetti il Signor Cav.) se l’accusato di calunnia verrà assoluto, il suo accusatore non sarà soggetto ad un nuovo giudizio di calunnia.

La pena del calunniatore, e del prevaricatore (dice il Signor Cav. ne’ capi citati) dovrebbe essere il taglione, e l’insania. E perciò è giusto (egli stesso dice) che in un affare di tanta importanza non si neghino all'accusatore divenuto reo que’ soccorsi, che la legge gli concederebbe per qualunque altro delitto = Si dovrebbe dare al nuovo reo l'istesso dritto alle ripulse de giudici del fatto (119), l’istesso adito alle difese ed m una parola, gli istessi soccorsi, che la legge darebbe, secondo il nostro piano, al reo di qualunque altro delitto. Sicché saremo da capo a’ giudizj. il tempo dunque, che si risparmierà quando i Giudici del fatto dichiareranno falsa, o incerta l'accusa, si consumerà in maggior quantità o per il giudizio di calunnia, o per il giudizio di prevaricazione.

Ma non ancora è tutto. il Signor Cav. dice nel capo XXI. della parte I. del libro III, che in un sistema giudiziario cosi favorevole all’accusato (qual è quello del suo piano) non dovrebbe esservi pel reo condannato diritto ad appellazione alcuna. Ma poi, prevedendo il caso di un giudizio evidentemente ingiusto contro dell'accusato, egli cosi soggiugne. L’umanità, che dirigge sempre le mie mire, allorché mi si presentano oggetti, che tanto interessano la civile libertà, mi obbliga qui ad adottare l'espediente( )ritrovato dalla Britannica legislazione coll’aggiungervi anche qualche cosa di più. Presso gl’inglesi né l’accusatore, né il reo può mai appellarsi dal giudizio de giurati ma se questo è evidentemente ingiusto, ed erroneo, e se non è in favore del reo, ma contro di lui, in questo sol caso può non il reo, ma il magistrato, che presiede, cercare al Re un secondo giudizio, ed ottenutone il permesso, si rimette l'affare alla corte del Banco del Re, si convoca una nuova assemblea di piccioli giurati, e si ricomincia da capo il giudizio, come se non si fosse mai parlato del primo. Per applicare dunque questo rimedio della Brittannica legislazione al nostro piano e per renderlo anche più efficace, noi proponiamo, che quando il primo giudizio de' giudici del fatto sull'esistenza della pruova legale fosse manifestamente erroneo, e che da questo primo errore si fosse passato al secondo cioè di considerare come vera l'accusa, allora prima, che i giudici del dritto profferissero la sentenza il Presi de potrebbe cercare al Re un nuovo giudizio, con altri giudici scelti dallo stesso suo albo, ed in questo scoprendosi la malizia de' primi, dovrebbero questi esser puniti, e l'accusato libera dalla pena, che ingiustamente gli sarebbe pervenuta dal primo giudizio. Noi, ad esempio degli inglesi, non concediamo al reo la libertà di far questa richiesta, perché per un pericolo rimotisssmo si introdurrebbe un male continua. Ogni condannato giustamente dal giudizio de' giudici del fatto appellerebbe, e la giustizia perderebbe quella celerità ch'è tanto necessaria all'ordine pubblico. Bisognerebbe lasciare questo dritto ai solo Magistrato, che presiede, e nel solo caso di un giudizio manifestamente erroneo.

Sarebbe qui da domandare, tra le altre cose: I. il Preside (il quale, tutto che scelto delle persone più rispettabili della Provincia, potrebbe essere un idiota di prima classe) con quale scienza conoscerebbe, se il primo giudizio de’ giudici del fatto sull’esistenza della pruova legale fosse, O no evidentemente ingiusto? II. Non è egli vero, che il Preside di questa sua prerogativa ne potrebbe far mercato? E non è egli Vero pure, che ne potrebbe abusare secondo le sue prevenzioni i cioè con cercare al Re, volendo favorire il reo, un nuovo giudizio, tutto che il primo fosse chiaramente giusto: o pure non domandarlo, essendo egli contrario all'accusato, sebbene quello fosse manifestamente erroneo? III. Qual ragione, quai giustizia vorrebbe, che dal Preside, solo nel caso di un giudizio evidentemente ingiusto contro dell'accusato, si potesse cercare ai Re un nuovo giudizio in revisione del primo; e questo stesso non poterlo far poi nel caso di un giudizio manifestamente erroneo a favore del reo? Non è vero forse, che coll’assoluzione di un delinquente ne rimarrebbero deluse le leggi, tradita la giustizia, offesa la ragione, pregiudicata la pubblica sicurezza, ed esposto l’accusatore ad essere ingiustamente accusato di calunnia?

Quelle ed altre simili domande si potrebbero qui fare: ma poiché io in questa interruzione, che ho fatto alla continuazione del piano, altro non mi ho proposto, che di far conoscere quando sarebbe per durare ciascheduna sessione ordinaria di giustizia, che il Signor Cav., ad esempio degl'inglesi, propone doversi tenere in ogni tre mesi nelle Provincie, ed in ogni sei settimane nella Capitale: percià, tacendo ogni altro, dico solo, che l’ignoranza de' Giudici del fatto, e le prevenzioni del Preside potrebbero spesso dar luogo a quest’ultime di domandare al Re la progettata revisione de' giudizj.

Sicché dunque da questo epilogo, che qui ha fatto di quanto si dovrebbe operare in ciascheduna delle proposte sessioni di giustizia, si può prontamente decidete da ogni uno, se gl’inconvénienti considerati dal Signor Cav. nell'ultimo trascritto articolo del suo piano rimarrebbero o no evitati. Ma il progetto, mi si dirà, delle sessioni ordinarie di giustizia in ogni tre mesi nelle Provincie, ed in ogni sei settimane nella Capitale è presto dagl’inglesi: come da questi, e da’ Romani liberi (trattone alcune poche modificazioni fatte dal Signor Cav.) è preso tutto il resto, che si propone nel piano. Ed io ripeto, ch’è difetto comune il proporre per modello a’ Governi le operazioni delle Nazioni lontane o di tempo., o di luogo: ed ho per vero, che so fossimo presenti a tutto ciò, che si encomia delle medesime, spesso ne riproveremmo la condotta. intanto ripiglio il piano.

ARTICOLO XIV

Sessioni straordinarie (120)

“Quantunque l’intervallo di tre mesi tra l’accusa prodotta, e il finale giudizio non sia molto esteso, se paragonar si voglia alla lentezza presente de' giudizj, derivata dalla misteriosa organizzazione del processo inquisitorio, nulla di meno io sono di opinione, che ne’ delitti più atroci, in que’ pochi delitti, che in una savia legislazione dovrebbero essere puniti colla morte, non si dovrebbe aspettare il tempo ordinario per giudicarli, ma una straordinaria sessione convocar si dovrebbe dal Preside della provincia, nella quale l’orrendo attentata sarebbe stato commesso. Quello acceleramento della giustizia non dovrebbe togliere al reo alcuno de' soccorsi, che la legge offre alla sua sicurezza. io credo anzi, che a misura, che i delitti sono più gravi, maggiori dovrebbero essere le precauzioni della legge, nel favorite la difesa dell'accusato. Noi abbiamo altrove sviluppato quello principio (121). Ma nella straordinaria sessione, che io propongo, non si verrebbe a far altro, che anticipare il tempo del giudizio, e quest’anticipazione sarebbe necessaria in quella specie di delitti. Quando si tratta di punire un uomo colla perdita della vita, bisogna profittare di que’ momenti, ne’ quali il popolo è ancora penetrato dall'atrocità del reato. La legge dee procurare in questi casi, piucchè in ogni altro, che il voto pubblico ratifichi il decreta della giustizia; e che le grida del popolo applaudiscano alla proclamazione del giudizio, come a quella della pace, e della libertà; che il patibolo innalzato nella piazza pubblica risvegli l’idea della giustizia, e non quella della pietà; che i cittadini accorrano al terribile spettacolo dell'esecuzione, come al trionfo delle leggi; che i sospiri, e le lagrime di una imbecille compassione, siano sostituiti da quell’allegrezza, e da quella maschia insensibilità che ispirano l’amore della pace, e l’orrore del delitto che, in poche parole, la condanna si eseguisca in un tempo, nel quale l’onest’uomo, vedendo ancora nel reo il suo inimico, si compiaccia della giustizia delle leggi, in vece di condannarne il rigore, e lo scelerata disposto a delinquere sia ugualmente spaventata e scosso e dalla moltiplicità degl’inimici, che il delitto richiamerebbe contro di lui, e dallo spettacolo della pena, e dall'applauso, che l’accompagna.”

“Ecco ciò, che si ottiene, quando il tempo non ha ancora scancellato l’impressione, e l'orrore del delitto. Ma se questa impressione s’indebolisce se l’intervallo tra il delitto, e la pena ha già raffreddate le immaginazioni, ed illanguidito quel primo furore, l'esecuzione della pena diviene allora, o inutile, o perniciosa. in vano si cercherà di richiamare l’idea di un attentato, che un araldo non può con un freddo proclama risvegliare, quando è stata dissipata dal tempo, il Popolo insensibile al delitto, del quale ha perduta la rimembranza, non si commoverà, che in favore del delinquente. L’apparato lugubre della giustizia non gli mostrerà più il reo, ma il disgraziato la pietà parlerà per lui la compassione prenderà ne’ cuori quel luogo, che prima era stato occupato dall’odio, e dallo sdegno; e la giustizia, discreditata dalla lentezza de' suoi passi, resterà sola in mezzo agli spettatori muti, che malediranno in secreto la sua severità, e desidereranno di strapparle la vittima, che s’immola al suo rigore.”

“A quelle ragioni poggiate sull'interesse pubblico se ne aggiugne un’altra sondata sull’interesse istesso di colui, che dev’esser giudicato. O colpevole, o innocente, ch’egli sia, l'acceleramento del giudizio non sa, che diminuire in lui gli spasimi dell'incertezza. S’è innocente, ogni giorno di dilazione è per lui, e per la sua famiglia un giorno di più di tormento, di angoscia, di avvilimento, e di rossore; è per li suoi calunniatori, è per li suoi nimici un giorno di più di trionfo; è pel suo onore un giorno di meno di godimento. Se è colpevole, il momento, nel quale gli si manifesta il terribile decreto, è sovente il momento, nel quale comincia in lui la tranquillità (122). Convinto dalla giustizia della sua condanna, egli comincia allora a gustare nella sua solitudine, e nell'avvicinamento istesso dcl supplizio, quella specie di riposo, che il delitto può lasciargli. La vera filosofia, vale a dire la dolce, la consolante Religione, viene allora in suo soccorso, e riempie il suo cuore delle consolanti idee di una vita sutura. A fronte della giustizia degli uomini rigorosa, ed implacabile, essa gli presenta la misericordia di un Essere onnipotente, facile a perdonare, sempre pronto ad aprire le sue braccia a’ rimorsi, e disposto ad unire il perdono di una lunga seguela di delitti, e il premio di una interminabile felicità, ad un solo momento di rassegnazione. La sua immaginazione animata da quelle speranze giugne sino a fargli vedere nel termine della sua vita il principio della sua felicità (123) ed a mostrargli nel supplicio, al quale la legge lo condanna, la più moderata espiazione delle sue colpe. Tutte quelle idee non si presentano alla sua immaginazione, se non dopo, che la giustizia ha già profferito il decreto della sua morte (124). il tempo anteriore è molte volte assai più tormentoso. il prolungarlo inutilmente, è dunque sempre un danno, che si reca alla società, e molte volte una pena, che si sa inutilmente soffrire all’infelice, che deve istruirla col suo esempio. Questi sono i motivi, pe’ quali io propongo le straordinarie sessioni (125), nelle quali non sarebbe neppure necessario, che tutt’i 48 giudici del fatto si portassero nella Capitale della Provincia giacché il Preside potrebbe anticipatamente consegnare al reo l'albo de' giudici, e col suo consenso nominare i 12, che dovrebbero intervenire per quel particolare giudizio (126), Con questo metodo l'esecuzione della pena sarebbe sempre prossima al delitto.

ARTICOLO XV

Ed ultimo

Magistratura per ogni Comunità

“In ogni comunità vi dovrebbe esser un magistrato incaricato di conservarvi la pace,ed il buon ordine. Vi sono alcuni leggieri delitti, che non meritano l’ordinario corso di un giudizio, ma che non conviene per questo lasciare impuniti. Una sommaria procedura basta in questi per giudicarli, e la speditezza di questi giudizj è necessaria alla conservazione dell'ordine pubblico, e ad evitare maggiori inconvenienti. Le Romane leggi, e quelle di altri popoli liberi garantiscono questa verità (127). Le ingiurie di parole, per esempio, tra persone della medesima condizione, alcune leggierissime offese o danni recati, che la legge non punisce, che o con una tenuissima pena pecuniaria, o con una detenzione nelle carceri di pochi giorni; il poco rispetto, e la poco ubbidienza prestata agli ordini di qualche magistrato, ed altri delitti di questa natura, che chiamar si possono trasgressioni piuttosto, che delitti, e de' quali noi parleremo nel decorso di questo libre, dovrebbero estere sommariamente giudicati, e puniti a tenore delle leggi da questo Magistrato, che gli abitanti istessi della comunità dovrebbero scegliere in ogni anno, coll'approvazione del Preside della Provincia, nella quale è compresa (128), ed al quale le parti potrebbero appellarsi dalla decisione. i requisiti che dovrebbe avere colui, che aspirasse a questa magistratura, dovrebbero essere una probità conosciuta, una rendita stabilita dalle leggi, ed una onorevole condizione.”

“La sua giurisdizione non dovrebbe permettergli. di fare arrestare, e condurre nelle carceri persona alcuna, fuorché quando si trattasse d'impedire un grave delitto; di punire la disubbidienza a’ suoi replicati ordini; o di punire uno di que’ leggieri delitti,a’ quali la legge assegna la pena di pochi giorni di carcere, e la cognizione de' quali sarebbe alla sua magistratura affidata: o quando finalmente si trattasse di fare arrestare provvisionalmente il reo di qualche grave delitto, quando fosse notorio, e terrier si potrebbe della sua fuga; in questo ultimo caso egli dovrebbe subito partecipare al Preside le sue disposizioni, ed aspettare i suoi oracoli (129). Questo magistrato, come si è dette, dovrebbe essere il conservatore della pace. La sua principal cura dovrebbe dunque essere di accordare le parti tra loro, di rappacificarle sempre, che si potrebbe, e di non venire al giudizio, se non quando tutt’i mezzi di riconciliazione si sarebbero adoprati. Egli dovrebbe anche essere, come si è detto, il conservatore del buon ordine nella sua comunità. Dovrebbe dunque essere anche sua cura, di dare tutte quelle disposizioni economiche, che potrebbero evitare, e prevenire qualunque disordine. Finalmente, come ispettore della sua comunità, egli dovrebbe anche partecipare al Preside tutt’i delitti, che si commetterebbero nella sua comunità, senza però esser nell'obbligo d’indicarne gli autori, affinché il Preside dar potesse gli ordini opportuni al Magistrato accusatore, quando alcun privato cittadino non si presentasse in giudizio come accusatore (130); egli dovrebbe anche costare, per servirmi dell'espressione de' Criminalisti, il corpo del delitto in tutti que’ casi, che richiedono. questo esame (131).”

“Quelle combinate cure richiederebbero, che questa magistratura fosse sempre esercitata da persone degne della pubblica confidenza. Or la elezione fatta dal Popolo favorirebbe questa opinione. La sua durata ristretta ad un anno, impegnerebbe colui, che ne sarebbe ornato, ad esercitarla con zelo e con onore, per la speranza di esservi richiamato (132). L'approvazione del Preside sarebbe necessaria, per escludere colui, che nel registro de' pubblici giudizj si trovasse condannato, o sub Judice per qualche delitto; o che nell’esame, (che dovrebbe sempre precedere all'approvazione) su quella parte della criminale giurisprudenza, che riguarderebbe il suo ministero, non si fosse ritrovato idoneo (133). L’appellazione da’ suoi decreti all'istesso Preside (134) sarebbe un rimedio contro i rapporti di parentela (135), o di amicizia, che in alcuni casi potrebbero rendere sospetti i suoi giudizj. Finalmente i requisiti di una rendita annovale non inferiore a quella stabilita dalla legge, e di un’onorevole condizione, sarebbero necessarj per rendere più difficile la prevaricazione in quello giudice (136), più luminosa la sua carica, e più confidente il popolo ne’ suoi decreti.”

“Io mi astengo d’immergermi in un dettaglio più minuto riguardo a quest’oggetto, per non annojare colui, che legge, al quale conviene sempre lasciare qualche cosa da pensare. Vi aggiunge soltanto che nelle Capitali e nelle grandi Città, dove questa Magistratura non si potrebbe esercitare da Un solo, converrebbe, che queste fossero divise in varj quartieri, il numero de' quali dovrebbe esser proporzionato alla loro respettiva popolazione, e lasciare a ciascheduno quartiere la scelta del suo Magi strato, che come quello di ogni altra comunità dovrebbe esercitare l’istesse funzioni colla stessa dipendenza dal Preside della Provincia, dove sarebbe compresa la Città, e coll’istesse leggi (137).”

“Che il lettore richiami ora la sua riflessione su questo piano di ripartizione delle giudiziarie funzioni, e ne giudichi (138). Che lo paragoni co’ principj poc’anzi sviluppati, e vegga come, senza S alienazione di parte alcuna del potere, ne sarebbe ammirabilmente ripartito l'esercizio.”

“La facoltà legislativa verrebbe non solo a lasciare a’ Magistrati la facoltà giudiziaria, ma quest’istessa facoltà non sarebbe interamente tra le mani de' Magistrati. Colui, che ha il deposito della forza pubblica,e l’amministrazione della Sovranità, non solo non potrebbe farne uso contro un individuo della società senza il consenso di coloro, che hanno il deposito delle leggi, e l'esercizio della facoltà esecutiva (139); ma costoro istessi, ritenuti da un freno ugualmente sorte, non potrebbero far parlare la legge, senza il consenso di altri uomini, che non apparterrebbero al loro corpo, e non sarebbero ornati dell’istessa dignità. Colui, che ha fatta la legge, non potrebbe applicarla al fatto (140); e coloro, che dovrebbero applicarla al fatto, non potrebbero decidere dell’esistenza del fatto, Quest’ultima cura, senza della quale il potere legislativo, ed il potere esecutivo rimarrebbero nell’inazione, non verrebbe affidata ad uomini, che formerebbero un'assemblea permanente, nella quale aver potessero il tempo da conoscere in qual maniera essi potrebbero far servire il loro potere al loro interesse. Scelti di continua dal popolo essi vi ritornerebbero di continuo. investiti di un precario ministero, essi non potrebbero neppur prevedere le occasioni, nelle quali verrebbero invitati ad esercitarlo. il loro considerabile numero, la brieve loro durata, e la moltiplicità delle ripulse accordate dalla legge al reo, produrrebbero questo prezioso effetto (141). Le cose sarebbero combinate in maniera, che il potere giudiziario, questo potere di sua natura cosi formidabile, che dispone senza poter incontrare resistenza alcuna, della vita, dell’onore, e delle sostanze de’ Cittadini; questo potere, che malgrado tutte le precauzioni, che si possono prendere per restringerlo, dee nulladimeno rimanere, in un certo modo, arbitrario (142): questo potere, io dico., esisterebbe nella società riceverebbe la maggiore possibile restrizione corrisponderebbe intieramente all’oggetto della sua destinazione e non sarebbe nelle mani di alcuno. Non vi sarebbe un uomo nella società, che un cittadino vedendolo potrebbe dire: questi può decidere della mia vita, 0 della mia morte (143).”

“Ecco la felice combinazione, che si otterrebbe dal nuovo piano di ripartizione delle giudiziarie funzioni, che io propongo l’armonia, che ha questo co’ principj antecedentemente sviluppati, mi dispensa dal farne l'apologia. i seguenti capi, ne’ quali si svilupperanno le ultime due parti della procedura, e si esporrà finalmente l’ordine e le solennità di questi giudizj e più di ogni altro, la II. parte di questo libro, dove si manifesteranno le nostre idee sul Codice penale, distruggeranno quelle difficoltà, che non era questo il luogo di prevenire (144).”

“Contentiamoci della chiarezza, colla quale si è cercato di esporne le diverse parti, e di dar termine a questa interessante teoria col far voti, affinché un piano cosi semplice e cosi favorevole alla civile libertà, sia sostituito al più mostruoso, al più complicato, a quello,nel quale l’innocenza è più esposta, e l'impunita più favorita (145). Se vi è mai un tempo, nel quale questa speranza possa esser ben sondata, e questi voti esauditi, è sicuramente quello, nel quale noi viviamo. Una gloriosa emulazione di distinguersi colle utili novità, si è manifestata su’ troni (146). L’opinione, che regna su’ Re, e la filosofia, che oggi regola l’opinione, han già promessa l'immortalità al Monarca, che distinguerà il suo regno con una riforma in questa parte della legislazione, che più da vicino interessa la civile tranquillità (147), Selice quel po polo, ove questa correzione avrà effetto ma più felice quel Re, che sarà il primo a darne l'esempio. il circo è aperto, la ghirlanda è preparata ma gli atleti, che si presenteranno su quest’arena, non debbono ignorare, che i fiori della corona della gloria si appassiscono, allorché passano sopra un secondo capo.”

Questo in somma, che ho trascritto da cima a fondo, senza ometterne una sillaba, è il Piano della nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie funzioni per gli affari criminali, che il Signor Cavaliere propone a’ Sovrani nel capo XIX. della parte I. del libro III. L’esame da' me fatto del medesimo facilita il lettore a poterne giudicare del merito, e dell’utilità. Non manco però di pregare nuovamente chi questo esame leggera di aver presente nel tempo della lettura il citato volume dell’opera del Signor Cav., acciocché il medesimo non porta dire, che essendosi distaccato il piano dalle cose antecedentemente da lui dette, perciò non se ne capisce i’ utilità.

Disbrigato io intanto da tal esame, parto ad adempiere alla promessa da me fatta: cioè di dire, ch’è quello, che si dovrebbe operare, per togliere i disordini della feudalità nel nostro Regno, senza però distruggere il Baronaggio, Sono a farlo nel seguente.


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PROGETTO

Di Riforma da farsi nella ripartizione della Potestà Giudiziaria nelle Provincie del nostro Regno.

IL ristringermi in questo progetto a parlare soltanto di ciò, che converrebbe farsi nel Regno di Napoli,e non già di quello, che converrebbe farsi in ogni luogo, dipende da una persuasione dell'animo mio, la qual è, che nelle materie politiche, trattandosi di punti di riforme, chi vuol dettare la legge all’universo, non la detta ad alcun luogo. La ragione di questa mia persuasione è facile a comprendersi. Le circostanze, e le posizioni politiche de' Popoli essendo, com’è noto, in moltissimi modi diverse come pure diversi i disordini, e gli abusi, ne’ quali possono esser caduti diversi perciò debbono essere ancora i rimedj da destinarsi, per liberare i medesimi da’ mali, che soffrono. La chiarezza di questa verità mi dispensa d’illustrarla maggiormente. Sicché comincio a progettare la proposta riforma.

Il primo oggetto, che merita di esser preso in considerazione, in questa riforma,che io progetto, è appunto quello delle nostre Corti locali di Giustizia. io scrivo per il mio Paese, e sono fra miei Paesani, a’ quali più di me sono noti i disordini di queste Corti sicch’è superfluo il descrivere qual sia lo stato attuale delle medesime, e chi sieno coloro, i quali n’esercitano il ministero (148). E’ vero che gli uomini si assuefanno a tutto, e coll'assuefazione si rendono insensibili anche all’aspetto degli oggetti, che dovrebbero recar loro maggiore abbominio, ed errore: ma pure lo stato della cosa, che si è presa in considerazione, è tale, che se da tutti non se ne sente il peso, se ne conoscere però da ogni uno la mostruosità, ed il bisogno che vi ha di venire ad una utile riforma. Dico dunque.

I. Che nella scelta de' Magistrati, per ciascheduna Comunità del nostro Regno, o sia nella scelta de' nostri Governatori locali, le Comunità istesse vi dovrebbero aver parte: imperocchè è cosa giusta, che quello, il quale deve immediatamente amministrare giustizia in una popolazione, sia degno della confidenza della medesima. E poiché l’Ordine de' Baroni nella Monarchie moderate (come ho dimostrato nel foglio I delle riflessioni-critiche) forma una parte integrale del corpo politico: di modo che verrebbe ad alterarsi di molto la costituzione del governo, se il Baronaggio venisse interamente privato della sua principale prerogativa (che più di ogni altra lo mantiene attaccato ed al Sovrano, ed allo Stato) qual è quella della scelta de' Ministri di giustizia de' proprj feudi: perciò non è di bene spogliare pienamente i nostri Baroni di tale loro facoltà. in oltre essendo l’elezione de' Magistrati, sin al minimo di essi, una delle principali prerogative ancora de’ Sovrani nelle Monarchie: non essendo cosa conveniente, che, indipendentemente da loro, e ne’ loro proprj dominj, altri sieno investiti della potestà giudiziaria: perciò nel nostro Regno sarebbe da reintegrare alla Corona (per quanto la costituzione del governo possa permettere) questo dritto, il quale a cagione della feudalità ritrovasi distratto. Ma come combinare insieme, mi si dirà, questi tre diversi interessi? Niente, con sincerità, è più facile di questo; ed ecco come.

Sarebbe da stabilirsi, che ciaschedun comune (sia di governo Regio, sia di governo baronale) per pubblico parlamento, e con pluralità di suffragj, dovesse far la nomina di tre soggetti di probità conosciuta, ed idonei per la carica di Magistrato. Con legge espressa però di non poter nominare cittadini, né persone, che avessero parenti, o averi nel luogo dove dovrebbero esercitare il loro ministero (149). Quelle nomine, scritte in fogli con tutte le solennità legali, dovrebbero subito esser rimesse a’ Presidi delle rispettive Provincie, a fine di far osservare ne’ registri de' loro Tribunali, se i nominati fossero stati mai inquieti. Ritrovandosi tali, li dovrebbero rimandare in dietro le nomine, acciocché le Comunità, anche per pubblici parlamenti, e con pluralità di suffragj, nominassero altre persone in luogo dell’impedite. E non ritrovandosi alcuno denominati essere stato mai inquieto, i Presidi, negli stessi sogli delle nomine, ne dovrebbero far fedi da loro sottoscritte, e suggellate.

Fatto ciò: Le nomine de' luoghi di Regio governo si dovrebbero dal Preside subito rimettere alla Reale Segreteria di Grazia, e di Giustizia, ed attendere dalla medesima la scelta del Re colle Reali patenti, per le persone elette. E le nomine de' luoghi di governo baronale li dovrebbero rimettere a’ rispettivi Baroni, affinché elegessero dalle persone nominate i Governatori de' loro Feudi. Queste elezioni si dovrebbero scrivere da’ Baroni negli stessi sogli, con questa formola: io sottoscritto Barone di... eleggo dalle persone nominate, per Governatore del mio Feudo, N. N. Dopo di ciò dovrebbe seguire la sottoscrizione, ed il suggello. E ciaschedun foglio, cosi fornito, dovrebbe esser trasmesso immediatamente alla stessa Real Segreteria di Grazia e di Giustizia ed attendere dalla medesima la Reale approvazione, e conferma della già fatta elezione. E finalmente, in virtù delle Reali approvazioni, e confirme, da ciaschedun Barone, si dovrebbe spedire la patente di Governatore del suo Feudo alla persona eletta.

Or se procedessero presso di noi nel detto modo l’elezioni de' Governatori locali, è chiaro, che si andrebbero, senz’alcun disordine, a combinare insieme i tre diversi interessi poco anzi divisati: cioè quello de’ nostri Comuni, quello de' nostri Baroni, e quello del nostro Sovrano.

II. Che (rispetto alla riforma delle nostre Corti locali di Giustizia) la durata de’ Governatori dovrebb’essere, com’è attualmente presso di noi, di un anno solo; che dovrebbero entrare nel possesso della loro carica nel primo di del melè di Gennaro: e che si dovrebbero tenere i parlamenti dalle Comunità, per le nomine de' medesimi, nel mese di Luglio, acciocché vi fosse tempo da fare il di più, che si è detto ed ancora acciocché (passandovi dal tempo della nomina a quello del possesso l’intervallo di cinque in sei mesi) tutte le cause, cosi civili, come criminali, introdotte in giudizio prima del giorno del parlamento, si trovassero disbrigate pel giorno del possesso, e con ciò evitare, per quanto più si potrebbero, le prevenzioni, e le frodi.

III. Che le facoltà de' Governatori locali dovrebbero essere: I. Di procedere in tutte quelle cause civili, le quali richiederebbero la cognizione soltanto di un giudizio sommario: con dar luogo però a’ richiami alle rispettive Regie Udienze Provinciali!, subito che le quantità in contralto non fossero più che tenui. II. Di procedere in tutti que’ leggieri delitti, di cui ha fatto parola il nostro Signor Cav. nell'articolo XV del suo piano. III. E di aver mano (unitamente cogli inquisitori, de' quali qui appresso si sarà menzione) alle compilazioni soltanto de’ processi in que’ delitti, pe’ quali i rei meritassero le pene di corpo afflittive.

IV. Che per assicurare la libertà civile de’ Cittadini, e per evitare tutte le frodi, che si potrebbero commettere, quando da un solo si compilassero i processi de' gravi delitti (della quai pratica ne abbiamo una più che funesta inveterata esperienza) bisognerebbe,che in ogni Comunità, oltre del Governatore, vi fossero quattro Magistrati inquisitori: l’officio de’ quali non altro esser dovrebbe, che di compilare con piena magistrale facoltà, ed unitamente col Governatore, i processi, tanto fiscali, quanto difensivi, in tutti que’ delitti, pe’ quali, come ho detto, i rei meritassero le pene di corpo afflittive, e non lasciare alcuna pagina de' medesimi senza marcarla col proprio loro nome, e di proprio loro carattere: ed indi, compilati che fossero, trasmetterli subito, per la formazione de' giudizj, o alle rispettive Regie Udienze Provinciali, o a’ Tribunali competenti, nel caso, che i rei, per qualche privilegio, godessero l’esenzione dal Foro ordinario (150).

V. Che gl'inquisitori dovrebbero essere uomini di probità conosciuta, e di qualche coltura nelle lettere; e che non dovrebbero essere ne’ cittadini del luogo, dove dovrebbero esercitare il loro ministero né avervi de' parenti delle possessioni, e degl'interessi, e neppure la minima affinità spirituale. E poiché il nostro Regno è tutto composto di ’piccioli paesi (ad eccezione però della Capitale) in ciascheduno de' quali non sono molto frequenti i delitti, che meritano le pene di corpo afflittive che vale a dite che gli inquisitori di rado dovrebbero esercitare il loro ministero e che in conseguenza non vi sarebbe la necessità, che i medesimi facessero dimora nel luogo di loro pertinenti perciò la loro scelta dovrebbe cadere sopra le persone de’ paesi circonvicini a ciaschedun luogo, acciocché chiamati nelle occorrenze potessero subito unirsi col Governatore, e dar mano alla formazione de' processi.

VI. Che sarebbe da stabilirsi, che se ne’ bisogni qualcheduno degl'inquisitori, o per malattia, o per ritrovarsi assente dalla sua patria, o per qualunque altri cagione, non potesse intervenire, e ciò legittimamente costasse; in tal caso, purché non ve ne fossero men di due uniti col Governatore, l'inquisizione dovrebbe intraprendersi senza il minimo ritardo. E poiché non vi ha fatica, la quale non merita compenso, perciò sarebbe da stabilirsi ancora una somma proporzionata da darsi, per ciaschedun giorno, che s’impiegherebbe all'opera, ad ogni una degl'inquisitori, che intervenisse alla medesima (151).

VI. Che l’elezione degl’inquisitori dovrebbe procedere nell'istesso modo di quella de' Governatori cioè che da ciaschedun Comune, nell’istesso pubblica parlamento da convocarsi per la nomina del suor Governatore, si dovrebbero, anche con pluralità di suffragj, nominare separatamente dodici altri Suggetti, i quali avessero le condizioni dette nell’articolo quinto; che tali nomine si dovrebbero rimettere a’ Presidi delle rispettive Provincie, a fine di far osservare ne’ registri de' loro Tribunali, se i nominati fossero stati mai inquisiti, ed esigerne delle sedi nel modo stesso, che li è detto pe’ Governatori: che le nomine de' luoghi di Regio governo li dovrebbero dal Preside (tome si è detto ancora pe’ Governatori) subito rimettere alla Reale Segreteria di Grazia, e di Giustizia, ed attendere parimente dalla medesima la scelta del Re, colle Reali patenti, per le persone elette: e che finalmente le nomine de' luoghi di governo baronale dovrebbero avere l'istesso corso, che si è detto delle nomine de' Governatori. in somma l'elezione de' Quattro inquisitori, per ciascheduna Comunità, dovrebbe procedere nello stesso stessissimo modo di quella de’ Governatori delle medesime. Come pus la loro durata dovrebbe essere di un anno solo; e dovrebbero entrare nel possesso della loro carica parimente nel primo di del mese di Gennaro.

VIII. Che in ogni Comunità, tanto di governo Regio, quanto di governo baronale, vi dovrebb’essere, per le cause criminali, un promotore della Giustizia col titolo di Fiscale, Costui dovrebb’essere uomo di probità conosciuta, ed idoneo per la carica che dovrebbe esercitare. La sua durata dovrebbe anch’essere di un anno solo, Ma la sua scelta dovrebbe farsi indipendentemente da’ Comuni: cioè dal Re ne’ luoghi di Regio governo, e da’ Baroni ne’ luoghi feudali.

IX. Che in tutt’i delitti di fatto permanente (152), dovendosi provare senza indugio l’esistenza de' vestigj del delitto (153) ed essendoli detto nell’articolo quinto, che non vi sarebbe la necessità, che gl'inquisitori facessero fissa dimora nel luogo di loro pertinenza; perciò (non convenendo lasciare l’operazione principale dell'inquisizione al solo Governa|ore, per le stesse ragioni addotte nell'articolo quarto) sarebbe da stabilirsi, che nell'occorrenze si elegessero da’ Sindaci, ed Eletti del Comune, dove il delitto fosse commesso, e col consenso del fiscale del luogo due Vice-inquisitori, i quali unitamente col Governatore e col fiscale istesso dovrebbero pigliar la pruova de' vestigj del delitto, e marcare ogni atto, che si sarebbe col proprio loro nome, e di proprio loro carattere, a sine di evitare, per quanto più si potrebbero, le falsificazioni, e le frodi.

X. Che i vice-inquisitori dovrebbero essere uomini di probità conosciuta, e di qualche coltura pelle lettere, e di più, che non avessero attacco di parentela, o di stretta amicizia, né avessero della manifesta inimicizia tanto colla parte offesa, quanto col reo, nel caso che questo o fosse noto, o che si congetturasse.

XI. E finalmente, (rispetto alla riforma delle nostre Corti locali di Giustizia) dico, che, per facilitare l'esecuzione di questo progetto, sarebbe necessario che dal Governo si pubblicassero colle stampe, scritte con chiarezza, e piena precisione, le istruzioni Reali per la formazione de’ processi criminali, e si rendessero comuni per tutte le nostre Provincie. E’ troppo noto, che negli uomini la passione di voler significare non è né delle più deboli, né delle meno comuni; sicché ogni uno, che ambisse di essere o Covernatore, o Magistrato-inquisitore, o fiscale, senza dubbio, si renderebbe istruito del suo officio colla lettura delle predette istruzioni. Oltreché, messo in esecuzione il progetto, nel decorso di pochi anni, sicuramente si avrebbero moltissimi nelle nostre Provincie i quali colla pratica giornaliera diverrebbero idonei per tali Magistrature.

Quelle in somma sarebbero le riforme da farsi nelle nostre Corti locali di Giustizia, per metterle in buon’ordine, e per assicurare la libertà civile de' Cittadini; veggiamo ora che converrebbe farsi per ordinare le Regie Udienze.

Il secondò oggetto, che merita di esser preso in considerazione, nella riforma, che io progetto, è per l’appunto quello de' nostri Tribunali delle Regie Udienze Provinciali. Al presente ciascheduno di questi Tribunali è composto di un Preside militare, e di un Capo di Rota, e di due Uditori giuristi, di un Avvocato-fiscale, e di un Avvocato de’ Poveri. il Preside, come militare, non ha voto nelle decisioni delle cause (154): sicché queste sono affidate a tre soli Giudici, cioè al Capo di Rota, ed a’ due Uditori (155).

Le facoltà poi di questi Tribunali provinciali sono: I. una piena soprantendenza a tutte le Corti locali di Giustizia delle respettive Provincie: nel tempo stesso che cosi quelle Corti locali? come le medesime Regie Udienze sono pienamente subordinate a tutt’i Tribunali della Capitale del Regno. II. Di tirare a loro, per via di appellazioni, tutte le cause civili giudicate dalle dette Corti locali: la quale facoltà l'ha ancora la Gran Corte della Vicaria sopra tutte le Corti, e Tribunali delle Provincie: anzi, per salto, subito che le cause oltrepassano una somma limitata dalle leggi, da’ litiganti s’introducano in prima istanza nel Sacro Regio Consiglio. III. Di rivedere tutte le condanne date a rei dalle Corti locali: per poi passare in seconda revisione nella Gran Corte della Vicaria. IV., ed ultimo di procedere con delegazione privativamente in molte cause criminali, ed in particolare contro i ladri di strada pubblica, e contro tutt’i malviventi scorridori di campagne con dar luogo però alle revisioni della Camera Reale.

Or io m’immagino, che, da chi non è stato mai in Provincia, o da chi vi è stato solo per vedere il materiale de' luoghi, poco, o niente si conosca il bisogno, che hanno i Tribunali provinciali di esser messi su d’altro piede. Ma pure il bisogno di farlo non è picciolo. L'essere le Regie Udienze provinciali Tribunali subalterni a quelli della Capitale e l’essere ciascheduna di esse comporta (come si è detto) di tre soli Giudici giuristi, a’ quali si appartengono le decisioni delle cause cosi civili, che criminali e di più la prerogativa accordata al Sacro Regio Consiglio di tirare a se tutte le cause civili del Regno, subito che oltrepassano una limitata somma; tutto ciò produce un disordine, ed un ritardo grandissimo all'esecuzione della giustizia, ed è una delle principali cagioni della miseria delle nostre Provincie.

Che il tirare il maggior numero delle cause dell’intero Regno ne’ Tribunali della Capitale sia una delle principali cagioni della miseria delle nostre Provincie, non credo che vi sia chi noi conosca: come pure non credo, che vi sia chi possa sostenere (dopo tanti vigorosi scritti de' Politici, che l’han dimostrato) che la miseria delle Provincie di qualunque Stato, e perciò del nostro Regno, non pregiudichi a’ veri interessi dell'intera Nazione: sicché io per questa parle mi astengo di dir’altro.

Che poi la condizione subalterna de' nostri Tribunali provinciali, ed il picciol numero de' Giudici, che li compongono, sieno due potentissime cagioni del disordine, e del ritardo della giustizia, che enormemente si soffre nelle nostre Provincie, non vi vuol molto a dimostrarlo. Un litigante ingiusto, ma denaroso, subito che vede la giustizia, che se gli dichiara contro ne’ Tribunali provinciali, egli s’incamina per quelli della Capitale; ed in tal modo, abusando del vantaggio delle leggi, e strapazzando il suo giusto, e forse povero avversario, frastorna il dritto corso, ed il buon’ordine della giustizia, che gli è contraria. in oltre lo scarso numero di tre soli Giudici giuristi sa si, che gli affari di giustizia abbiano un disordinato, e tardo corsoi, Disordinato perché tre soli Giudici uniti in Collegio non potendo formare più di una sola Ruota, ed in essa dovendosi decidere le cause cosi civili, come criminali, è chiaro che il corso delle une dee, per necessità, disordinare quello delle altre. Tardo poi diviene il corso della giustizia, si perché il disordine è uno de’ più potenti implacabili nimici della celerità; come ancora perché non di rado accade, che per lo scarso numero de' Giudici non si possono decidere le cause. Le incumbenze addossate loro per le respettive Provincie: le indisposizioni, alle quali, come uomini, sono soggetti: le licenze, che loro vengono accordate: ed altre cagioni, e pretesti spesso spesso tolgono de' Giudici a’ Tribunali provinciali: e non di rado li vede, per tutte quelle addotte cagioni, che per settimane intere la giustizia se ne rimane inoperosa nelle nostre Provincie (156).

Or’all'aspetto di tutti gli accennati inconvenienti, mi lusingo, che ogn’uno conosca la necessità, che vi ha di mettere su d’altro piede le nostre Regie Udienze provinciali. Sicché dico, in primo luogo, che i Presidi delle nostre Provincie non dovrebbero più scegliersi tra Militari, ma tra Consiglieri Togati: che in ciascheduna Regia Udienza vi dovrebbero essere due Ruote (157), una da destinarsi per gli affari civili, e l’altra per gli affari criminali: che ciascheduna Ruota dovrebbe esser comporta da cinque Giudici., cioè da un Capo di Ruota (da scegliersi tra Giudici della Gran Corte della Vicaria) e da quattro Uditori: e che per la Ruota criminale (oltre de' cinque Giudici) vi dovrebbero essere un Avvocato-fiscale, ed un Avvocato de poveri (158).

In secondo luogo, che, lasciando alle Corti locali le facoltà sopradette, e precisamente quella della compilazione de' processi, tanto fiscali, quanto difensivi, in tutti que’ delitti, pe’ quali i rei meritassero le pene di corpo afflittive, circa al rimanente, che si apparterrebbe all’esercizio della Potestà Giudiziaria nelle Provincie del nostro Regno, riguardo tanto alle cause civili, quanto alle cause criminali, le Regie Udienze dovrebbero procedere a forma di ogni altro Tribunale supremo del Regno: che vale a dire, senz’alcuna subordinazione, o dipendenza da altri Tribunali, e senza dar luogo ad appellazione veruna, ed in conseguenza che i rimedj legali avversi alle sentenze delle medesime, dovrebbero produrre nell’istesse Regie Udienze.

In terzo luogo, che accadendo delle pariti nelle decisioni delle cause, cosi civili, come criminali, le medesime si dovrebbero dirimere a. Ruote giunte (159). Come pure, dico, che a Ruote giunte si dovrebbero discutere i rimedj legali, che si produrrebbero avverso alle sentenze di morte (160).

In quarto luogo, che al Preside dovrebbe esser permesso di precedere, a suo piacimento, ed arbitrio, ora ad una Ruota, ed ora ad un’altra; ma che però non dovrebbe avere il voto che nelle unioni di esse Ruote, e qualora mancasse, per qualunque cagione, qualche Giudice (tanto della Ruota civile, quanto della Ruota criminale) le di cui veci dovrebbe egli indispensabilmente supplire,solo pero in dare il suo voto nelle decisioni delle cause, e non in altro (161).

In ultimo luogo dico, che, per il buon ordine del nostro Regno, in ogni Provincia vi dovrebbe essere un Commissario di Campagna (162). Questo Magistrato dovrebbe scegliersi tra gli Uditori di ciascheduna Provincia (163), e la sua durata non dovrebbe essere più di un anno, terminato il quale dovrebb’egli restituirsi al suo Tribunale, ed immediatamente dovrebbe succedergli un altro (164). Al medesimo dovrebbero esser dediti due abili Subalterni (stipendiati dal fisco) ed una sorte squadra. E la sua incumbenza (oltre di quanto estraordinariamente gli verrebbe addossato dalla Regia Udienza) dovrebb’essere di perseguitare incessantemente tutt’i malviventi scorridori di campagne, e tutt’i ladri di strade pubbliche: di compilare i processi fiscali contro i medesimi,e compilati che sarebbero,di trasmetterli, una co’ rei presi, alla Regia Udienza, dalla quale (dopo delle difese accordate dalle leggi) dovrebbero essere condannati. Ma poiché è facile a comprendersi, che niente è più Contrario alla libertà civile de' Cittadini, quanto il permettere ad un Magistrato di fare in una causa criminale da inquisitore, e da Giudice insieme perciò sarebbe da stabilirsi ancora, che i Commissari di Campagna restituendosi a’ loro Tribunali, non potessero dare il voto in quelle cause, nelle quali avessero fatto da inquisitori, ma che i Presidi dovessero supplire le loro veci (165).

Questo in somma è il mio Progetto di riforma da farsi nella ripartizione della Potestà Giudiziaria nelle Provincie del nostro Regno (166). Or io non sono né tanto trasportato dall’amor proprio, né tanto poco conoscitore de' mali, che mi voglia lusingare, che, se si ponesse in pratica questo mio progetto, sparirebbero all’istante i mali tutti, che oggi si soffrono nelle nostre Provincie a cagione della viziosa ripartizione della Potestà Giudiziaria: e che in appresso altri mali. non nascerebbero (167). Però, nel mentre che di tanto non mi lusingo, non dubito che mi si possa concedere: I. Che, ponendosi in esecuzione il mio progetto, la Giustizia acquisterebbe uno più ordinato, e celere corso. II. Che finirebbe all’in tutto quello scempio enorme, che si sa oggi della Giustizia, e dell’innocenza da’ Subalterni, cosi delle Regie Udienze, come di qualunque altro Tribunale, ogni volta che sono incombensati di formare il processo per qualche delitto commesso nelle nostre Provincie: giacché le inquisizioni apparterrebbero privativamente a’ Commissarj di Campagna, ed alle Corti locali. III. Che cesserebbe interamente S intollerabile inconveniente, offensivo della libertà civile de' Cittadini, che un Magistrato faccia insieme da inquisitore, e da Giudice (168)). IV. Che si minorerebbe di molto lo scolo del danaro,che per cagione delle liti corre oggi alla Capitale. V. Finalmente, che quasi all’in tutto finirebbero i disordini delle nostre Corti locali di Giustizia, e precisamente quelli delle Corti Baronali: vale a dire, che finirebbero nel nostro Regno i disordini della giurisdizione feudale senza intanto distruggere il Baronaggio, e pure interamente privarlo della sua principale prerogativa (che, come si è detto, più di ogni altra lo mantiene attaccato ed al Sovrano, ed allo Stato) quai' è quella della scelta de' Ministri di giustizia de proprj feudi (169).

Or io mi figuro già, che il Signor Cav. Filangieri né punto, né poco approverà questo mio progetto di riforma, giacché egli nel capo V della parte I. del libro III (dopo di aver proposta l’istituzione de' Magistrati accusatori) preso da un sorte entusiasmo cosi s’è lasciato a dire.

“Ma come combinare, mi si domanderà, questa nuova magistratura colla feudale giurisdizione? io lo confesso: questo sarebbe impossibile ma bisogna anche confessare, che ogni riforma sul criminale sistema sarà sempre ineseguibile, finché lo scheletro di questo, antico mostro (170), che ha devastata per tanto tempo l’Europa, non sarà interamente incenerito. La fiaccola della ragione vi ha già appiccato il fuoco; i sospiri de' popoli, e gli scritti vigorosi de' filosofi ne hanno alimentate le fiamme. Si appartiene a’ governi di dare a questo fuoco sacro quell’ultima attività, che si richiede per conseguirne la totale combustione. Faccia iddio, che la mia penna possa un giorno gloriarli di aver accelerato all’umanità questo beneficio. La perdita di I, molti amici, l’acquisto di molti potenti inimicj, i clamori del fanatismo, e le calunnie dell’ignoranza, (171) sarebbero compensate dal trionfo della giustizia, della ragione, e della preziosa libertà dell'uomo, al quale la mia mano potrebbe allora gloriarli di avere coraggiosamente contribuito.”

Detto ciò si riserba egli, il Signor Cav., di esporre i suoi sentimenti, riguardo a tale oggetto, nella Quarta parte della criminale procedura, cioè in que’ due capi, che da me si sono esaminati nel soglio primo. Ma, in tali due capi, e riguardo all'oggetto proposto (cioè riguardo alla giurisdizione feudale) a che sono andati a conchiudere poi i suoi sentimenti? Non ad altro che a proporre la totale distruzione del sistema feudali. Io non so, se il Signor Cav. non ha voluto, o non ha saputo distinguere il sistema feudale dalla giurisdizione feudale perocchè egli confondendo perpetuamente l’una coll’altro, e l’altro coll'una, e desiderando di veder distrutta la seconda, si è dato erroneamente co’ suoi progetti ad annichilare il primo, senza badare alle conseguenze funeste, che produrrebbe all'Europa intera una tale politica operazione. Mi permetta dunque che io gli dica, che in questa nostra parte di Mondo da un pezzo si è conosciuta la differenza che passa tra la giurisdizione feudale, ed il sistema feudale a segno che i Giureconsulti Francesi dicono, che altra cosa è il feudo, altra cosa è la giudicatura (172). Sicché dunque essendo senza dubio il sistema feudale, e la giurisdizione feudale due cose ben diverse tra loro; qualora il Signor Cav. era persuaso (sebbene erroneamente) che ogni riforma sul criminale sistema farà sempre ineseguibile, finché la scheletro dell'antico mostro della feudale giurisdizione, che ba devastata per tanto tempo l'Europa, non sarà interamente incenerito doveva egli percià progettate l’abolizione della giurisdizione feudale, e non già quella del sistema feudale, sopra di cui poggiano (come ho dimostrato antecedentemente) tutte le Monarchie di Europa.

Un altro motivo ancora avrà certamente il Signor Cav. da non approvare il mio progetta, di riforma, poiché egli nel capo 18 della parte I del lib. 3 ha detto, che in una Monarchia non vi può essere, che un solo potere ereditario, e questo è quello del Monarca. Ed in seguito (come facilmente si può rilevare) che Ogni concessione la quale aliena, e distrae in perpetuum, e col dritto ereditario una parte della Sovranità è contraria allo spirito della Monarchia, perche introduce nello Stato due poteri innati.

Or quelle proposizioni del Signor Cav. (le quali hanno sedotto molti deboli, dalle cui bocche le ho intese molte volte ripetere) mi obbligano a dire, che la Costituzione del nostro Governo (come quella d’ogn’altro di Europa, dove esiste il sistema feudale con Giurisdizione) impropriamente dicesi essere Monarchica, formando in realtà una specie di Governo-misto, composto di Monarchia ereditaria, e di Aristocrazia ereditaria feudale. Sicché volendosi esaminare questa specie di Governo, per vedere se abbia, o no niente di assurdo, devesi esaminare per quel ch’è in se stessa, e non già per quel ch’esprime la sua erronea denominazione di Monarchia.

Io consesso di buon animo (giacché la verità, per la forza del mio temperamento, m’interessa più di ogni altra cosa) che tra le prerogative, che al presente gode il nostro Baronaggio, e precisamente tra quelle della giurisdizione, ve ne sono alcune molto esorbitanti, le quali meritano di esser corrette. Nello stesso tempo mi lusingo, che se si ponesse in pratica il mio Progetto di riforma, finirebbero all’intutto nel nostro Regno i disordini della giurisdizione feudale, senza intanto distruggere, ma solo con correggere la Costituzione del nostro Governo.

Fine del Tomo I.


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NOTE

(1) L'opera del Signor Cav. non solo i stata letta da’ Letterati, ma, perché scritta in volgare favella, ed in uno stile chiaro, e dilettevole, non ha sfuggita la lettura di ogni persona, ed anche del medesimo femminile sesso.

(2) il primo de' quali è intitolato Sbozzo del commercio di Amsterdam, ed il secondo Appendice contenente una breve difesa della nostra Nazione contra le incolpe attribuitele da alcuni Scrittori Esteri. Un Amico, dopo di aver letto questo secondo volume, cosi mi disse:

Oh questa il ch'è una maniera bizzarra, e tutta nuova di pubblicare i propri sentimenti colle stampe! L’Autore premette all'Appendice soltanto un avvertimento di una pagina che contiene la correzione di certe sviste nel libro. Comincia indi l'Editore a dissertare nel di lui nome, dicendo di presentare a chi legge, non l’opera, che pubblica, ma quella, a cui questa si appartiene, e ch'è parte di un'altra tuttavia inedita. Passa a spiegare il motivo, per cui sa comparire al pubblico non l’Appendice, ma l’opera, a cui egli crede che si appartenga; di modo che l'Appendice può anche tenersi come un prologo di quella. Veramente rara abilità! E poi (chi ’l crederebbe?) con non so quale incanto sa trovare il Lettore introdotto nella pretesa breve difesa (la quale ad un tratto si converti in una lunga accusa peggiore di quelle, ch’egli vorrebbe oppugnare) senza avvedersene e senza che se ne capisca punto la connessione. Di costui potrebbe dirsi assai bene che...... dice quel ch’e’ non intende,

E però non s'intende quel ch’e’ dice:

E chi attento ascolta quel ch’e’ dice

Ode assai cose, e nessuna n’intende.

In tutto il resto dell’Opera siegue sempre a parlare l'Editore. Nelle gravide note poi, che con somma facilità ne partoriscono delle altre, spesse volte parla l'Editore colla solita procura dell’Autore, altre volte con un magnifico NOi fa trasparire qualche personaggio distinto, e forse l'Autore istesso, che fa da notatore all’Editore del suo libro. in tutta l'Opera comparisce grande ostentazione di viaggi, magnifico treno di lingue oltramontane, grande affettazione di riforme politiche,irragionevole disprezzo per le pensate altrui: e poi…….E' un libro in somma che veramente può dirsi

Voto d’ogni saper, pien d’ogni orgoglio.

(3) in una nota di direi pagine, che comincia dalla 182 del secondo volume.

(4) Ciò non ostante leggonsi le note alle pagine 48, 52, e 96.

(5) Nel capo III. della parte I. del lib. III

(6) Leggasi articolo XVI del Codice delle Costituzioni de' tredici Stati Uniti dell’America Settentrionale.

(7) E’ giusto dunque il malumore, che regna tuttora in Irlanda per il decreto pubblicato nel di 12 Maggio del corrente anno 1782, col quale sotto il ricercato titolo di garantire la libertà della stampa col prevenire gli abusi cagionati dalla pubblicazione de' libelli anonimi, sediziosi e calunniosi, si ristringe appunto la libertà della stampa, che si dice voler garanti. Un tal Decreto se non s’abroga, sarà epoca sella Storia degli irlandesi.

(8) Quest’opuscolo del Galilei contiene le sue prime (coperte fatte nel cielo. Subito ch’egli ebbe perfezionato in un-certo modo il telescopio, si diede a riguardare in primo luogo la Luna, e la scoperse di superficie ineguale, ripiena di carità e prominenze a guisa della Terra. Trovò in in seguito che la via latteaaltro non era che una congerie di stelle fisse, che per la loro immensa distanza, o per la loro picciolezza, rispetto all’altre, si rendevano invisibili a’ nudi occhi. Vide in appresso sparse per il cielo altre innumerabili stelle fisse non conosciute mai dall’antichità. E di poi rivolgendosi a Giove l’osservò corteggiato da Quattro Satelliti. Tutto ciò scoperse nel mese di Gennaro del 1610, e continuando tali osservazioni per tutto il Febbrajo susseguente, le manifestò poi al Mondo colle stampe nel principio del Marzo prossimo.

(9) Come su il Dottor Cremanino Professor di filosofia nell’Università di Padova; dove anche il Galilei sino alla pubblicazione di tale sua opera servi in qualità di Matematico.

(10) Questo capo il di cui titolo è De’ mezzi propri per ottenere l’equabile diffusione del denaro, e delle ricchezze in uno Stato, e degli ostacoli, che la presente legislazione vi oppone, per errore dello Stampatore ritrovasi messo sotto il n. 32onde si avverte, per chi mai lo voglia riscontrare.

(11) Dissertazione del Re di Prussia sopra le ragioni di stabilire, o d’abrogare le leggi.

(12) NOTA DI UN ANONIMO. Oltre a’ tanti accennati vantaggi, che apportano a’ Cadetti i Majorascati, ed i Fedecommessi, ve n’è un altro particolare per li Cadetti delle case Magnatizie, a cui non ha l'Autore badato. Le case Magnatizie sono quasi tutte cariche di debiti di grosse somme; per i quali stanno ordinariamente ipotecati quei feudi, da cui traggono tutte le loro rendite. Se si. vogliono dividere i feudi, o i fondi feudali egualmente tra tutti fratelli; la giustizia vuole, che anche i debiti sia no egualmente divisi. Suppongasi, che, fatta questa equabile divisione, la porzione spettante ad un Cadetto sia un feudo, o tanti fondi feudali del valore di 50000. ducati; e che la rata de' debiti, a lui appartenenti, ascenda a ducati 20000. E’ noto, che i feudi ordinariamente danno generi, e non altro. Or se questi generi mancheranno nelle raccolte, come pagherà il Cadetto li ducati 800. che importa l'annualità del suo debito? E come soddisferà a tutt’i suoi bisogni, precisamente se ritrovasi casata, e con figli? Allora vedrà quanto è meglio il livello in danaro contante, ch’egli tira colla maggiore ostilità ogni terzo dal suo Primogenito, e se lo gode senza pensiero, e senza peso di Moglie, e di figli; che andar cercando parteggiamento di beni. Mentre il Primogenito, col fumo della Signoria, fu da essere l’altrui esattore.

(13) in tutto il decorso di questa lettera ho seguito la comune divisone de' Governi in Dispotico, in Monarchico,in Repubblicano, ed in Misto. Se dovessi però forma re una istituzione di Scienze Politiche, mi piacerebbe dividerli solamente ne’ tre ultimi menzionati. imperciocché se il Governo Monarchico è quello, che vira retto da un solo, come ci dinota la voce Monarchia;non so capire, perché mai i Governi, che si dicono Dispotici, non abbiansi a dire anch'essi Monarchici; giacché un solo ancora è quello, che in tali Stati governa. il governare poi con leggi fisse, e stabilite; o il governare senza norma, e senza leggi, non apporta certamente divisione di generi in questi Governi ma solo sa differenziare le Monarchie in due specie: cioè in Monarchia Dispotico-Tirannica, che vale a dire dove li governa ad arbitrio, e capriccio ed in Monarchia moderato cioè dove tutto si sa con leggi stabilite. Cosi io la penso. Se poi questo mio pensate venga approvato da Dotti, non io so.

(14) Lib. 5 cap. 8. dello spirito delle leggi.

(15) La ragione dell’assoluta necessità dell’Ordine de' Nobili nella Monarchia si addurrà nello esame, che farà del secondo progetto, e nel primo soglio delle Riflessioni Critiche; nel tempo stesso che farà vedere di quali persone debba essere quest’Ordine composto, per servire a tal uopo.

(16) Si desidera sapere dal Signor Cavaliere, i figli di questa nuova razza di Baroni, che cosa si divideranno? I dritti sorte della patente del Governatore? La rendita dell'affitto della Mastrodattia? O pure i proventi Fiscali? Ma ricordisi, che si debbono mantenere gli Armigeri. Dunque si divideranno i processi dell’Archivio.

(17) L’aver io detto, che i più ricchi, ed i più distinti per nascita dell'Ordine de' Baroni sono i Compagni,ed Amici del Principe; ha servito per farmi ricevere dall’Autore dello Sbozzo del commercio di Amsterdam, e dell'Appendice contenente una breve difesa della nostra Nazione contro le incolpe attribuitele da alcuni Scrittori Esteri, un'accusa di reo di stato. io per questa carità, che mi ha usato, un tanto scienziato Uomo, me gli dichiaro molto molto obbligato; e io prego nel tempo stesso a farmi la grazia di leggere la nota alla pagina 58. con quella porzione di paragrafo, al quale si appartiene.

(18) Leggasi quanto ha scritto con somma erudizione il Signor di Montesquieu dal capo 7. sino al capo 12. del lib, XI. dello Spirito delle Leggi; ed in particolare leggasi il capo 8.

(19) Non ignora quanto si è scritto sull’origine de' feudi, So che taluni delirando hanno opinata, che i feudi sono tanta antichi quanto lo è il Mondo. Altri un poco più discreti sognando han detto, che l’origine de' feudi è da ripetersi ne’ tempi di Noè. Altri sofisticando l’attribuiscono alle Clientèle de' Romani ne’ tempi della Repubblica più remoti da noi. Altri con qualche vera simiglianza riconoscono la loro origine da Benefici militari introdotti da’ Romani imperadori. Ed altri congetturando hanno asserito (come il nostr’Orazio Montano, in praelud. feudal.)che Goti furono i primi, se non ad introdurli,almeno a gittarne i fondamenti. Quest’ultima opinione, tutto che distruggerebbe l’opposizione proposta, pure da me non viene seguita; ed unendomi alla più sana parte de Critici do per vero, che i Goti non conobbero mai feudi; e che i primi ad introdurli furono i Franchi, ed i Longobardi.

(20) il Regno de' Goti in Italia, dalla conquista di Teodorico fatta nell'anno 489, fino alla disfatta, e morte di Teja datagli nell’anno 553. dall'eunuco Narsete, Generale dell'imperadore Giustiniano, durà solo 64 anni. il Regno de' Goti nell'Aquitania, ed in Narbona dalla conquista di Ataulfo fatta nell’anno 415, sino alla disfatta, e morte di Alarico datagli nell'anno 506, o 507 da Clodoveo Re di Francia durò 91 in 92 anni. il Regno de' Goti nella Spagna, da che ivi si trasferirono dopo la morte di Alarico, accaduta come si è detto nell’anno 506, o 507, sino all’invasione de’ Saraceni, da cui ne furono cacciati, succeduta nell'anno 713, o pure come altri vogliono nell’anno 715 durò poco più di 100 anni. Non fo qui menzione della durata de' Goti nella Dacia, nella Pannonia, e nell'illirico, si perché il loro governo in tali luoghi non ebbe mai forma di Monarchia; come pure perché non furono mai Popoli liberi, ma prima stiedero sottoposti agli Unni,e poscia agli imperadori d'Oriente.

(21) Non vorrei, che qui mi si obbiettasse: come il dominio de' Goti nell’Aquitania, ed in Narbona durà 91 in 92 anni, ed in seguito nella Spagna durà anni 208, o 209, e si dice, che non può servirci d’esempio per conoscere se un Ordine di Nobiltà non feudataria sia valevole a sostenere una Monarchia per lungo tempo? imperciocché da principio il Governo Gotico dopo delle conquiste su un misto di Aristocrazia, e di Monarchie, ed il minuto Popolo vi era schiavo. A poco a poco nacque la costumanza di accordare delle lettere di libertà; ed in tal modo la libertà civile del Popolo, le prerogative della Nobiltà, e la potestà del Re si trovarono in concerto tale, che si venne a formare (dice il Signor di Montesquieu nel cap. 8. lib. XI) il migliore de' Governi, che vi sia stato sulla Terra. Sicché se il Governo Gotico da principio su un Governo misto, e che per gradi prese la forma di Monarchia; perciò non può reggere l’obbjezione proposta. Tanto più se considerasi, che i Goti nella Spagna stiedero in continue guerre, non solo co’ Francesi, per la Provincia di Narbona; ma ancora con molti Popoli della Spagna stessa tra i quali, precisamente sotto il regno di Leovigildo il Conquistatore, co’ Navarresi, e co’ Cantabri, oggi detti i Biscani. Leggasi Grozioin hist. Got, ed isidoro, in Chron. Eva 606.

(22) Giannone istoria Civile lib. IV cap. L §. III. Origine de' Feudi in Italia.

(23) Nella prima edizione di questa Lettera, per errore dello Stampatore sono mancanti le parole: Cosi i Principi si sono assicurati su i Troni. Questa mancanza rendeva difettose, ed inelegante il discorso. inelegante s perché dicendo il bene de' Popoli. Cosi i Popoli: formava dell'asprezza all’udito. Difettoso: perché essendosi detto, che i Principi aveano fatto bene a disarmare i Baroni, ed ad armarsi essi, tanto per il loro vantaggio, quanto per il bene de' Popoli: avendo espresso poi quai’ era il bene, che ne hanno ricavato i Popoli; conveniva esprimere ancora qual era il vantaggio, che ne hanno ricevuto i Principi: cioè che cosi si sono assicurati su i Troni. Difettoso però qual era il discorso, dall'essersi detto, che i Principi avendo disarmati i Baroni, ed essendosi armati essi ne aveano ricavato del vantaggio; facilmente si capiva da ogni uno, che ha letto la Storia, quai mai era stato questo vantaggio, che no aveano ricavato: cioè di essersi liberati da quei tristi scherzi, di cui la Storia n'è piena, che il Baronaggio armata loro faceva in quei tempi,che essi Principi armati non erano. Sicché se l’Autore dello Sbozzo del commercio di Amsterdam,e dell'appendice contenente una breve difesa della vostra Nazione contra le incolpe attribuitele da alcuni Scrittori Esteri, fosse stato di tanta intelligenza da capir ciò che ho detto in questo luogo, certamente, che non si sarebbe presa la pena di scrivere quella inettissima nota nella pagina 282 dell'Appendice, colla quale (perché ne’ secoli passati, come ho accennato, i Baroni armati hanno fatto de' tristi scherzi a Principi disarmati) mi dichiara reo di Stato, per aver’io detto nella pagina 47, che i più ricchi, ed i più distinti per nascita dell'Ordine de' Baroni sono i Compagni, ed amici del Principe. Chi mai l’avrebbe creduto? E pur è cosi. Ma tutto è perdonabile ad un Uomo, il quale non sa quel che scrive, né intende quel che legge. Veggasi la nota alla pagina 96.

(24) Gli Annali di tutta Europa garentiseono le mie asserzioni.

(25) Se in Europa il primo Principe, che siasi armato fu Carlo VII Re di Francia; nel nostro Regno il primo Sovrano, che abbia messo in piedi un corpo di soldatesche stipendiate indipendentemente dal Baronaggio fu l’imperadore Carlo V.

(26) Sicché se nel sistema de' feudi vi sono ancora de’ difetti, questi bisogna emendare, e non già distruggere le Monarchie. Leggasi qui appresso il Foglio i delle Riflessioni Critiche: come pure in sine di questo primo tomo il mia Progetto di riforma da farsi nella ripartizione della potestà Giudiziaria nelle Provincie del nostro Regno.

(27) il peggiore di tutti governi dispotici è quello, dove i sudditi non hanno la proprietà de' beni: ivi i medesimi sono perfettissimamente schiavi. A tale stato si ridurrebbe l’Europa tutta, se si ponessero in pratica i progetti del Signor Cavaliere.

(28) il sistema della Legge Cosmologica di collisione? per ispiegare l’origine de' mali, e l’unico vero e buono sistema di quanti se ne sono sin’oggi inventati da’ filosofi. Non nego però, che il medesimo abbia bisogno di rischiaramento, per ridurlo ad evidenza cioè a quel grado di certezza, che non se ne possa più dubitare: come se ne dubita in fatti da meriti, per mancanza appunto di necessaria chiarezza nella sua esposizione. Se il Cielo mi ha destinato più giorni, penso in appresso dare alla luce alcuni miei Opuscoli Varj; tra quali per l’appunto vi sarà una Dissertazione in rischiaramento del sistema della Legge Cosmologica di collisione, per ispiegare l’origine de' mali. Vorrei però, fra questo mentre, che alcuni Metafisici ammettessero una verità, di cui non mi pare, che ne vivano pienamente persuasi; ed è, che nel campo della loro scienza non è possibile dare molti passi sicuri, e vedere con chiarezza, e distinzione senza la scorta, e la luce della Fisica.A suo tempo lo farò loro toccare con mani.

(29) Per l'esatto adempimento di questo precetto si dovrebbe ordinare non essere un dovere de’ possessori de’ fondi il palesare i censi, i pesi, le ipoteche, e qualunque altra obbligazione, che a’ medesimi fondi fosse annessa; ma che coloro, i quali tali dritti hanno sopra di quelli dovessero essere obbligati a questa rivela, tra lo spazio di tempo da stabilirsi dalla legge stessa; ad in caso di trascuranza dovrebbero esser privati di tutti loro dritti, e ragioni. in quanto poi alla manifestazione de' fedecommessi bisognerebbe distinguere il tempo avvenire dal passato. Per l'avvenire dovrebbero essere obbligati i Notai, che sarebbero la lettura de' testamenti, seguita la morte de' testatori, nel termine di otto giorni da che si sarebbe la dette lettura, ad andare a scrivere di loro proprio pugno con firma, e cifra nel margine del pubblico registro, l'istituzione del fedecommesso; e nel caso di trasgressione dovrebbero essere privati, durante la loro vite, dell'esercizio dell'impiego. E per ciò, che riguarderebbe il passato, le si ritrovassero tuttavia viventi i Notai. che fecero la lettura de' testamenti, dovrebbero essere i medesimi obbligati all’istessa legge, e soggetti all'istessa pena nel caso di disobbedienza 1 e se si ritrovassero morti (sieno le istituzioni de' fedecommessi di una data antica, sieno di una data recente) in questo solo caso dovrebbero essere obbligati i possessori de' fondi alla rivela de' medesimi; e trascurando di farla, dovrebbero essere dichiarati (senza ammettere per parte loro alcuna scusa, che mai potrebbero addurre, precisamente quella dell'ignoranza) rei di pubblica frode; ed in pena di tale loro debito dovrebbero essere privati, durante la loro vita, de' frutti di quei corpi, che per l’appunto si ritrovassero soggetti a’ fedecommessi, e ch’erano obbligati di rivelare: de' quali frutti (scematine prima i pesi, che forse vi potrebbero essere annessi) una metà si dovrebbe allo scopritore della frode, e l’altra metà al fisco.

(30) L’Inghilterra somministrerà alla Terra tutta la più valida pruova di tale mia proposizione, se da ora non pensa efficacemente a dismettere il suo eccessivo debito nazionale.

(31) Sempre che nella nostra Patria si parla della dismissione de' debiti pubblici, si veggono le palpitazioni, e si odono i lamenti di coloro, che tengono in pegno le rendite dello Stato: ed in vero alcuni de' medesimi, per le loro circostanze, destano la compassione in ogni petto umano. iddio, che tutto vede senza poter’essere ingannato sa, se il mio cuore è sensibile, o no a tali palpitazioni, e lamenti; ma il bene pubblico, e non uno spirito a’ iniquità, mi ha fatto avanzare questo progetto.

(32) Alcuni miei amici mi han fatto sentire, che giacché sono entrato nel progetto della dismissione de' debiti pubblici, avrebbero voluto, che io fossi entrato ancora nella disamina, se tali debiti si debbano togliere nelle somme, che furono contratti, o pure nella ragione, nella quale oggi sono. Ma io in questa discussione non ho voluto né prima né ora entrarci come estranea al mio assunto: contentandomi solo di aver fatto conoscere, che ognj buona politica vuole, che questi debiti si debbano dismettere, senza brigarmi di altro. Sarebbe desiderabile bensì che questa controversia si esaminasse accuratamente, non già ne' fori contenziosi, dove si serve unicamente alle cause; ma in qualche opera, che si dette alla luce su tal soggetto; nella quale ci si facesse sapere, senza usare alcun riguardo né per il Pubblico, né per i privati, dove pende la bilancia della Giustizia.

(33) Molti, i quali si han fatto un abito di negar tutto (perché cosi si lusingano di essere reputati uomini riflessivi) pongono in dubbio questo accrescimento di popolazione fatto nelle nostre Provincie. Ma, se non mi disconvenisse farlo in questo luogo, vorrei convincerli con una folla d’incontrastabili argomenti.

(34) Registri del Tribunale della Regia Camera della Sommaria.

(35) Calendario della Corte dell’anno 1782 sotto la voce Governi Regj. Coll'avvertenza però, che questi crescono, e decrescono di numero in ogn’anno, secondoché accadono delle devoluzioni al Fisco, o che dal fisco nuovamente si vendono in feudi.

(36) Questa quantità è il risultato di un calcolo prudenziale da me fatto: cioè come 124 (numero de' paesi, che nell'anno 1782. erano di Regio Governo), a 677903 (aumento della popolazione fatto nelle nostre Provincie dalla Pasqua dell’anno 1766 alla Pasqua del 1781); cosi 1922 (intero numero de' paesi del nostro Regno), al quarto proporzionale 7 ed ho avuto per quarto termine 10507495. Questo calcolo, per farsi esatto, si dovrebbe sapere quant’era la popolazione nella Pasqua dell'anno 1766 di quei 124 paesi Regi, che si sono mossi a calcolo. imperciocché allora si sarebbe, come la popolazione di tali paesi nella Pasqua dell’anno 1776 alla popolazione dell’intero Regno nell'istesso tempo; cosi 677903 al quarto proporzionale; ed in tal modo si conoscerebbe esattamente quanto avrebbe dovuto essere l’accrescimento della popolazione nell’intero Regno.

(37) All'aspetto di questa incontrastabile verità, che ha messo in veduta, tuttocchè la Capitale del nostro Regno sia una delle prime di Europa, in punto di popolazione, pure mi lusingo, che il Signor Cavaliere non voglia annoverare il nostro Regno tra il numero di quei paesi, che sono in istato di apoplessia, a cagione appunto che sa loro testa (com’egli dice nei capo XIV del 2. tomo) si è ingrandita a dismisura. Quando la testa cresce a proporzione del restante del corpo non vi è timore che possa cadere in un tal malore. Ma quando il restante del corpo cresce in una ragione assai maggiore della testa, che diremo allora? A lungo andare, in tal caso, bisogna temere che non cada il corpo in idropisia. Se conviene mai paragonare gli Stati al corpo umano (come par che si faccia nel capo citato) per ciò che riguarda la proporzione, che dee passare tra la testa, ed il restante del corpo stesso; prego in tal caso il Signor Cavaliere a consultare Giovanni Zanzi, il quale ha scritto appunto sulla simmetria del corpo umano; e l'assicuro, che cosi facendo gli cesseranno tutt’i suoi panici timori. Lo prego a leggere ancora L’Armonia Politico-Economica fra la Città, ed il suo Territorio del Signor Conte d Arco.

(38) Taluni, i quali si danno un’aria di stanchezza in giudicare del mento delle produzioni altrui han detto: il Cav. Filandieri ha parlato in generale delle cose, e Grippa l’ha attaccato in particolare. Questa reputazione, che mi si è data la trovo vera solo nell’esame da me fatto dell'asserzione del Signor Cav. intorno alla popolazione de' paesi feudali. E tutto che potrei difendermi, pure (acciocché non si creda, che io presuma d’essere impeccabile) rinunzio a tale difesa, e correggo il mio errore ne’ seguenti termini.

Il Signor Cavalier Filangieri nel II capo del tomo II dove parla dello Stato presente della popolazione dell'Europa, cosi s'introduce a parlare.

“Io non entro (egli dice) qui ad esaminare la questione celebre agitata da tanti scrittori, se l’Europa sia stata in altri tempi molto più popolata di quel che oggi lo è. Malgrado il soccorso, che presterebbe alle mie mire l’opinione di coloro, che si sono dichiarati in favore della maggior popolazione dell'antichità, nulla di meno, la buona sede, della quale io fo professione, non mi permette di tradire il mio sentimento riguardo a quest’oggetto. Per poco, che si faccia uso della buona critica leggendo i loro scritti, si vedrà facilmente, quanto sieno fallaci i dati su’ quali essi poggiano i loro calcoli, chimerici. Quelli del Vossio e del Wallac ristuccano ogni lettore di buon senso. Se questi due scrittori quando eruditi, altrettanto poco filosofi, e poco sinceri, avessero ottenuta una procura ad defendendum dall'antichità, non avrebbero potuto dimenticarsi cosi vergognosamente di tutte le regole della critica, né tanto abusare della storia come han fatto, molti solo dallo spirito di sistema, e da quella mania cosi come una a’ filologi, ed agli oratori, di far pompa de' loro talenti nell'intrapresa d’una cattiva causa.”

“Dopo i lumi, che il celebre Hume (Discorsi Politici Discorso X sul numero degli abitanti presso alcune Nazioni antiche) ha sparsi sopra questo soggetto, non è più da mettersi in dubbio, che malgrado la diminuzione, che ha ricevuta nel particolare la popolazione in alcune regioni dell’Europa, nulla di meno nel tutto essa è piuttosto cresciuta che diminuita.”

Or chi vi ha che non sappia (oltre dell'Autore dello Sbozzo del commenta di Amsterdam, e Appendice contenente una breve difesa della nostra Nazione contra le incolpe attribuitele da alcuni Scrittori esteri, il quale per una ignoranza senza pari, perché in alcune Monarchie di Europa sono stati risecati gli eccessi delle prerogative del Baronaggio, e sono stati tolti gli abusi, che vi erano, e perché in altre Monarchie tali prerogative sono più miti di quelle de' nostri Napoletani Baroni, si è dato vergognosamente a credere nella nota alla pagina 82 dell’Appendice, che il sistema feudale esiste solo nel Regno di Napoli, e di Sicilia, e che per tutto il resto di Europa sia estinto affatto: dimentico, ch'egli stesso nella pagina 123 del medesimo appendice ha rinfacciato al Conte di Borch la crudeltà dell'attuale dominio feudale di Polonia) chi vi ha che non sappia, dico, che il sistema feudale da dodeci secoli introdotto è comune a tutta l’Europa, eccetto che ad alcune poche, e picciole Repubbliche? Se dunque con dodici secoli di feudalità la popolazione dell'Europa è piuttosto cresciuta, che diminuita; come mai il Signor Cavaliere si potuto dimenticare si presto di una tale sua proposizione, che abbia detto nel capo immediatamente dopo, dove ciò asserisce, che ne’ paesi feudali dell'Europa la popolazione in vece di crescere, si vede sensibilmente diminuire. Or se questa non voglia aversi per una contraddizione manifesta poco però se ne discosta.

Ho corretto il mio errore. Se altro fatto io non avessi commesso nella mia opera, che questo solo sarei fortunato.

(39) Cioè la figlia del Barone defunto a’ di lui fratelli

(40) La Regina Giovanna II.

(41) La prammatica Filangeria nacque in occasione, che essendo venuto a morte Giacomo-Nicola Filangieri Conte di Avellino, il quale vivea secondo il dritto de’ Franchi, nel suo testamento istitui erede in tutt’i suoi beni feudali, per ragione della primogenitura, Gorrello suo figliuolo primogenito; e ne’ burgensatici tre altri suoi figliuoli maschi, cioè Alduino, Giovannuccio, ed Urbano, ed insieme con essi Catarina unica sua figliuola femmina, alla quale lascia once 800, innanzi parte. Gorrello dopo la morte del Padre, divenuto Conte di Avellino, maritò Catarina sua sorella col famoso Gran Siniscalco Sergianni Caracciolo, diletto della Regina Giovanna II, e le diede in dote le dette once 800, prelegatele dal comune loro genitore. Da 11 a qualche tempo mori Gorrello senza lasciar figli; e dopo di lui in età pupillare morirono ancora in pochi giorni uno dopo l'altro Alduino, Giovannuccio, ed Urbano. Sicché de' figli di Giacomo-Nicola Filangieri Conte di Avellino rimase fra vivi la sola Catarina moglie del Gran Siniscalco Sergianni; ed in conseguenza si credette allora dalla medesima che, per la morte de' fratelli, a lei fosse spettata la successione della Contea di Avellino. Ma ciò le venne contrastato da Filippo suo zio paterno; da Ricciardo-Matteo, figlio ed erede di Ricciardo altro suo zio paterno; e dal fisco, il quale pretendea essersi là Contea devoluta. Le ragioni, che adducevano per escluderla, erano, che essendo la medesima stata maritata, e dotata, perciò non dovea, secondo la Costituzione del Regno, Ut de successionibus, tit. De successionibus nobilium in feudis, dettata dall’imperatore Federico II, (che nella nota alla pagina 104. si ritrova trascritta) succedere al fratello ne’ beni feudali. Stava in questo stato la cosa quando Catarina supplicò la Regina, che, avendo riguardo a servizj di lei, de' suoi antecessori, e di suo Marito, non la facesse litigare con suoi parenti, né col fisco; na si compiacesse rimettere la cognizione della causa alla perizia di que’ Dottori, che sua Maestà stimava più idonei,, affinché senza figura di giudizio, esaminando le ragioni dette parti, determinassero chi dovesse succedere nelle Conte di Avellino, se ella, o i suoi congiunti, ovvero dovesse dirsi la Contea devoluta La Regina aderì alle sue preci (ed in ciò, non si può negare, vi fu dell'ingiusta condiscendenza) ed elesse i Giudici quali avendo ben discusso, ed esaminato il punto, giudicarono, che Catarina dovesse succedere, non ostane che fosse stata dotata dal fratello; poiché la dote non le fu costituita de' beni del medesimo. La Regina non solo si uniformò alla loro determinazione, ma la fece passare per legge generale del Regno: sicché con prammatica fu stabilito, quod in viventibus jure Francorum, tunc soror excluditur a successionis fratris, quando ipsa soror suerit mari lata de bonis fratris de cujus successione agitur, alias non excluditur.in viventibus autem jure Longobardorum vindicat sibi socum gl. Marini de Caramanico, quod sufficit, si suerit maritata,etdotata a communis patre, vel a fratre dummodo habuerit dotes de paragio, ut excludatur a successione fratris quibuscumque juribus, vel constitutionibus, ritibus, observantiis et capitulis, ac privilegiis, et rescriptisfactis, et in antea faciendis, in contrarium disponentibus, repugnabimus, seu obsistentibus, nullatenus obstaturis. Questa è quella cotanto rinomata prammatica, detta la Filangeria, che porta la data del mese di Gennaro dell'anno 1418, intorno alla quale, si è poi tanto scritto e disputato da nostri scrittori Forensi.

(42) in aliquibus Regni nostri partibus consuetudinem pravam audivimus baetenus obtinuisse, quod in bonis ComitisBaronis, vel Militis, qui decesseritfiliis masculis non relictis,filine non succedunt: Sed consanguinei quantumcunque remoti masculini sexus, tam balium puellarum ipsorum post mortem patris accipiunt quam successionem usurpant, et ipsas pro ipsorum dispositione meritant, Quod quidem, et naturae dignoscitur esse contrarium, quae parentum votis absque discretione sexus, tam masculos, quam foeminas commendavit et juri tam communi, quam nostro specialiter derogatur. Hac igitur lege nostra per universas partes, et singulas regni nostri valitura sancimus, Patre mortuo tam filios, quam filias puberes, aut majores, minoresve ad parentum successionem absque sexus discretione vocari. Si autemfilii masculi una cum filiabusfoeminis aut etiam sororibus patri decedentisupersint, cujuscumque conditionis pater fuerit Francus videlicet, aut etiam Longobardus, miles vel Burgensis, in successionebonorum praeferri volumus masculosfoeminis: Dum tamen sorores, aut amitas, fratres, aut nepotes pro modo facultatum suarum, et filiorum superstitum numero, secundum paragium debeant maritare. Caeterum si tantum foeminae superstitetfuerint, ipsas si majores sint, exclusis aliis consanguinei, volumus ad successionem admitti. Si vero minores filiae Comitum, Baronum, aut Militum superstites fuerint ipsa-tum bajulum nostra excellentia recipiat, ipsum vel sibi tenendum: vel alii qui ex side illud gerere debeat, juxta approbatam Regni consuetudinem, concedendum: ac deinde ipsas, cum ad nubilem aetatem pervenerint, et bajulum nostrum, vel alteri as supervenientem quintum decimum annum excesserint, de provisione mansuetudinis nostrae Deum habentes praeoculis, cum bonis omnibus, quae partis fuerunt, secundumparagium curabimus maritare.

(43) Ut de successionibus Comitum, Baronum, et corum omnium, qui feuda a nobis in capite tenent: vel ab aliisetiam nulla omnino in posterum dubietas possit oriri, dilucida constitutione sancimus. Feuda tenenti filios, et nepotes, et esis pronepotes, trinepotes, et usque ad infinitumex descendenti linea descendentes, cujuscunque sexus sint,libere et absolute posse succedere, servata tamen sexus praerogativa, ut mulieri masculus praeseratur, necnon majoris aetatis inter eos, qui vivant in regno specialiter jure Francorum. Ex collaterali linea venientes, ut fratres, sive ex utroque parente, sive ex altera tantum, et sorores in capillo, excluso etiamcommuni patre superstite, omnino succedunt. Conjugatae aurem, et dotatae a fratrum successionibus repelluntur.

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Filiae autem in capillo po[l mortem patris in domo manentes, majores sorores conjugatas, et dotatas de bonis patrie excludunt. Caeterum si de bonis paternis dotatae non sunt, majores minoribus praeseruntur: si Francorum jure vivant. Si autem vivant jure Longobarde, collatis dotibus in virilespartes successione divisa, portionem suam conjugata, seu conjugatae, quaecumque sint, poterunt vendicare. &c.

Adunque da questa costituzione, e dall'altra trascritta nella nota precedente nasce il dritto, che hanno le donne di succedere De’ feudi a’ Padri, ed a' fratelli in esclusione de’ Zii, e degli altri agnati. Avvertasi che le parole di questa costituzione ove dice Conjugatae autem, et dotatas a fratrum successionibus repelluntur furono quelle, che si allegarono contro Caterina Filangieri, per non farla succedere alla Contea di Avellino dopo la morte de' fratelli: E poiché l’istessa costituzione dice Filiae autem in capillo postmortem patrie in domo manentes, majores sorores conjugatae, et dotatas de bonis patris excludunt. Caeterum si debonis paternis dotatae non sunt, majores minoribus praeseruntur: si Francorum jure vivant. Perciò fu da’ Dottori deciso, ed in seguito dalla Regina Giovanna II per legge generale del Regno stabilito quod in viventibus jure Francorum, tunc soror excluditur a successione fratrie, quando ipsa soror fuerit maritata de bonis fratris, de cujus successione agitur aliae non excluditur. Leggasi la nota (3) alla pagina 102.

(44) Questa legge di Corrado (la quale incomincia aliquis miles) ritrovasi registrata nel codice delle leggi Longobarde lib. 3. tit. 8. §. 4. La medesima fu osservata presso di noi anche in tempo de' Normanni. Leggasi su di ciò la Storia civile e politica del Regno di Napoli del nostro Chiarissimo Carlo Pecchia (morto con comune dispiacere di tutti i Letterati nel di 11 Febbraro del corrente anno 1784) Tomo II. dissertazione II. §. 36. Della successione de' feudi, e prima della diversa loro natura in generale.

(45) Se alcuno mi dirà, che la cota non procedé con egual ragione, sull'appoggio che la figlia del Barone ricevendo la sua dote di paraggio, e maritandosi non rimane impoverita. io risponderò, che il fratello, il zio, e qualunque altro agnato del Barone ricevendo il suo livello, ed incaminandosi per la strada, o della Corte, o della Milizia, o della Toga, o del Sacerdozio, neppure rimane bisognoso: anzi può giugnere a grandi onori, a gran posti, a gran ricchezze.

(46) Molti hanno scritto sull'origine de' cognomi, ma per sapersi come, e da quanto tempo siansi introdotti nel nostro Regno, basta leggere quanto brevemente ne dice l’Autore della nostra Storia Civile nel lib. VIII. cap. il, §. I. Cognomi di Famiglie restituiti presso di noi, che per lungo tempo erano andati in disuso.

(47) Sebbene sia generale il costume presso le Nazioni, che ne’ matrimoni le mogli passino a formare le famiglie de' mariti, pure ci assicura il P. Du Halde (Tomo I. pag. 156) che, senza il menomo sconcerto, nell'isola Tay-Oven nella Cina (conosciuta in Europa sotto il nome dell’isola Formosa, la quale poco mancò, che, nel mese di Maggio dell’anno 1781, non rimanesse dalle acque dell'Oceano interamente distrutta) si pratica tutto il contrario: cioè che ivi i mariti vanno a formare le famiglie delle mogli.

(48) La legge Voconia (cosi detta, perché Quinto Voconio Tribuno della plebe la propose al Popolo Romano) fu fatta fra la seconda, e la terza guerra Punica.

(49)Leggasi quanto con somma erudizione ha scritto della medesima il Signor di Montesquieunello Spirito delle Leggilib. 7. cap. unico Dell'origine, e delle rivoluzioni delle leggi de' Romani intorno alle successioni.

(50)Sant’Agostino (De Civitate Dei,lib. 3. cap. 21) dice, che non su fatta mai legge più iniqua della legge Voconia. Qua lege(egli dice) quid iniquius dici, aut cogitari possit; ignoro. Marcolfo(lib. 2. cap.12) caratterizza d’empietà la legge, che priva le figliuole dell'eredità de' loro Padri. Giustiniano(Novella 21. tit. De Armeniis, ut et ipsi per omnia Romanas sequantur leges) chiama barbare il dritto della successionede' maschi in pregiudizio delle femmine. Federico II(Costituzione in aliquibus: trascritta da noi sopra nella nota alla pagina 103) dichiara esser prava, e contraria alla natura la consuetudine, che vi era, in alcuni luoghi del nostro Regno, di escludere le figlie femmine dalla successione de' Conti, de’ Baroni, e de' Militi loro padri, tutto che questi morissero senza lasciar figli maschi. Ma il Signor di Montesquieu (Spirito delle Leggi lib. 26.cap. 6) dice, che Nate sono quelle idee dall'essersi considerato il dritto, che hanno i figliuoli di succedere a loro padri, come una Conseguenza della legge naturale; il che è falso. La legge naturale (egli seguita a dire) prescrive d padri alimentare i proprj figliuoli, ma non obbliga ad istituirgli eredi. E nella sine del citato capo ripete Massima generale: l'alimentare i proprj figli è un obbligo del dritto naturale: darloro la propria eredità è un obbligodel diritto civile o politico.

Inquesta contrarietà di pareri tra il Signor di Montesquieu, e gli altri nominati rispettabili soggetti io non mi rimoveròda’ miei sentimenti. Ogni uno pensa a modo suo in questoMondo. Ho detto sopra, nella pag. 113, che la natura delle successioninon ci chiama;che le leggi civili ne han disposto quasi sempre con principj politici, che gli uomini credono ragionevole, dove mancano le ragioni politiche, che si debba dar luogo a’gradi di parentela. E’ di bene però quiavvisare, che non deesi dare la denominazione di ragione politica anche a’ capricci di chi sconsigliatamente governaprodotti, per lo più, o da’ suoi interessi, o dallesue irregolari passioni, ed appoggiati a frivoli, ad insussistenti, ed a ricercati pretesti; ma solo deesi nomare ragione politica quella, che conduce per la strada della rettitudine, e della giustizia, alla conservazione, ed al vantaggio dello Stato, ed al bene, ed alla prosperità degl'individui, che io compongono.

Or che il lusso sia pernicioso in una Repubblica, la quale si conserva col suo costume, e che perciò convenga prevenir le conseguenze con isbandirlo; io nol nego. Ma finattantochè non mi si dimostrerà, cheper evitare il lussodelle donne in Roma non vi era altro rimedio, fuorchédi privarle di qualunque eredità, sin anche di quelle de' proprj padri: e finattantoché non mi si farà vedere, che le ricchezze in mano degli uomini non producono lo stesso effetto; e che non è vero quello, che ci dice la storia (per non uscire da Roma) del lusso degli uomini Romani, precisamente ne’ tempi della decadenza della Repubblica: finattantoché, dico, tutto ciò non mi si dirà, io sempre avrò motivo di sospettare, che lalegge Voconia sia stata prodotta piuttosto dal capriccio, dall'interesse, e dalla passione di chi la propose, che dalla ragione politica.

(51) L’oggetto dette quali era: I. di assegnare a ciascheduno cittadino una eguale porzione di terreno: II. di procurare, che tale ripartizione ricevesse la minore possibile alterazione. Ma le leggi agrarie sono state sempre leggi di popoli nascenti, e non mai di popoli adulti.

(52) I Politici in andare riconoscendo i mali, per poterli poi guarire, non debbono mai usare né telescopj,microscopj: cioè non debbono far conto né de’ mali troppo lontani, né de' mali troppo piccioli.

(53) Avvertasi che questo numero non è costante. Leggasi nella pag. citata la nota (1) coll’intero periodo a cui spetta.

(54) Petit. Leg. Attic. lib, Vi. tit. I, de connubiis.

(55) Non vi ha chi ignori, che i divorzj, ed i repudj, sono stati praticati da tutte le Nazioni, in tutt’i tempi. Gli Ebrei stessi, in virtù della legge Mosaica, li praticarono. CRISTO però li proibi, excepta fornicationis causa: nisi ob fornicationem (dice S. Matteo nel capo 5. v. 92, e nel capo 10.v. 9. Leggasi anche S. Marco capo 10. v. 114, S. Luca capo 16. v. 8.; e S. Paolo I. Cor. capo 7. v. 10. 11. I. Gl’imperadori Teodosio,e Giustiniano, tutto che Cristiani, permisero il repudio non solo per causa di adulterio, ma per altre cagioni ancora (veggasi il C. Tb. I, a. de repudiis. ed il C. Just. 8, et seq. cod. t. come pure novell. 107. cap 8, e 9). i Padri de’ primi secoli della Chiesa furono tra di loro di discordanti pareri circa la permissione del repudio accordata da CRISTO fornicationis causa. Alcuni di essi sostennero, che s’ intendeva, per tale repudio, sciolto affatto il vincolo del matrimonio, per cui si potesse passare ad altre nozze: ed altri affermarono, che la sola comunione della vita veniva sciolta, ma non già il vincolo del matrimonio. Quel? ultima opinione dal decimo secolo a noi acquistà nella Chiesa Lati. na nuova forza, mediante i decreti di alcuni Romani Pontefici. E finalmente i Padri del Concilio di Trento, Per togliere ogni dubbiosità, nella sessione 24. de Sacramenta Matrimonii dettarono il canone VII ne’ seguenti termini.

Si quis ’dixerit, Ecclesiam errare, cum docuit, et docet juxta Evangelium, et Apostolicam doctrinam, propter adulterium alterius conjugum matrimonii vinculum non posse dissolvi, et utrumque, vel etiam innocentem, qui causam adulterio non dédit, non posse, altero conjuge vivente, aliud matrimonium contrahere, moecharique eum, qui dimissa adultéra, aliam duxerit, et eam, quae, dimisso adultero, alii nupserit: anathema sit.

(56) Federico II. imperadore colla sua novella costituzione Cum haereditarium, ch’è la seconda sotto il tit. De uxore non ducenda fine permissionis Curiae, esagerando grandemente la corruttela de' costumi tra i suoi sudditi, nata, com’ egli dice, da’ matrimonj, che i medesimi contraevano cogli stranieri, venne ad ordinare: Ut nulli licent amado de filiis, et filiabus Regni matrimonium cum exteris, et alienigenis, qui vel quae non sunt de Regno, absque speciali requisitione, et mandata ac consensu nostrae Curiae contraire. Eo videlicet modo, ut nec aliqua de Regna nubere alienigenis audeat, nec aliqui filias alienigenarum ducere in uxores. Eos, qui contra praesumpserint,bonorum omnium spoliatione muletamus.

Andrea d'Isernia, ne’ suoi commentari alle costituzioni del Regno, di questa legge di Federico cosi dice: Haec iniquitatem continet, peut et superiores, ideo omnino non servatur. Multum autem studuit hic imperator homines Regni non foedari moribus, et conversationibus exterorum.

Io non entra ad esaminare se la legge di Federico sia stata giusta, o iniqua; e se il motivo, ch’egli adduce in essa, sia stato, o no ragionevole: non essendo tutto ciò del mio assunto. Ma quantunque io abbia detto, che non è di te ne che le donne nostre sieno' private del dritto di una libera elezione nella scelta del marito; pure bramo una legge nel, nostro Regno, colla quale si proibisse alle donne ereditiere tanto di feudi, quando di ogni altro stabile, ed a quelle ancora, che hanno delle doti pingui, di potersi maritare con uomini stranieri, qualora dovessero uscir di Regno per andare a’ loro mariti. Come pure vorrei che si ordinasse, che non fosse lecito ad alcuno de' nostri uomini possessori di beni tanto feudali, quanto d’ogn'altra specie potersi ammogliare con donne, che non fossero regnicole. Soggettando i trasgressori di tal legge alla confiscazione de' beni vita loro durante. Riserbandosi però il Principe la facoltà di dispensare a tal divieto ne’ casi urgenti, ma con ragion veduta.

Il fine di questa legge sarebbe: I. d'impedire (tutto che rarissime volte accade) che colle donne nostre uscisse di Regno anche del danaro: II. di evitare che non si andasse sempre più minorando per le nostre donzelle la speranza di aver marito. Noi abbiamo nel Regno più femmine che maschi: de' nobili, e de' civili pochi uomini son quelli che si casano: dunque in questi due ceti necessariamente vi dee rimanere (com’ è in fatti, ed ènoto a tutti) un gran numero di femmine senza mariti. Ed oggi, in cui le voci della seduzione, impiegate a far prendere alle donzelle il Sacro-Velo(inconveniente molto antico, al quale sin dall'anno 458 su dato riparo da Majorianoimperadore con ordinare, che le Vergini non si potessero consecrare a Dio prima dell'età di quarant’anni, legge, che si credé procurata da S. LeonePapa, il quale, come sappiamo dalla sua vita, scritta da Anastasio Bibliotecario, pubblicò un tale imperiale umanissimo decreto) le voci della seduzione, dico, non operando tanto presso di noi oggi, quanto operavano prima; perciò le nostre case si ritrovano piene all'accesso di afflitte incessanti adoratrici d'imeneo, divenuto affatto sordo alle loro preci. E pure (a chi non è noto?) moltissimi degli uomini più ricchi, cosi della nostra capitale, come delle nostre provincie, sono ammogliati, e tutto giorno se ne vanno ammogliando degli altri con donne straniere. Questo inconveniente questa l’attenzione del nostro governo.

(57) Del resto è troppo nota la grazia accordata al nostro Baronaggio nell'anno 1595 dal Re Cattolico Filippo II a come si legge nella Prammatica i de Feudis, cioè che sia lecito a ciascheduno Barone, escludendo le femmine in grado più prossimo, disporre de' suoi feudi, e de' suoi titoli, tam in aelu inter vivos, quant in aelu ultimae voluntatis, in beneficio di quel maschio della sua famiglia, il quale, secondo le leggi del Regno, succederebbe adetti feudi, se non vi fossero appunto le femmine anzidette. E’ troppo noto ancora che questa grazia nell’anno 1710. (conte appare dalla prammatica 38 sotto l’istesso titolo) su confirmata dall’imperadore Carlo Vi ne’ seguenti più precisi termini: Placet Sacrae, Caesareae, Catholicae Majestati gratiam concessum, Pragm. 31 de feudis, eu jus vigore possunt feudatarii, quibus est legibus Regni essent foeminae successurae, illis posthabitis, instituere proximiorem masculum, cui dietis foeminis non extantibus, deserenda esset successio, procedere, ac vires habere, quamvis agatur de filiabus, aut aliis foeminis descendentibus ab ultimo possessore.Questa grazia unita all’altra di poter istituire majorascati, e fedecommessi sopra de' feudi, e dell'ampliazione della successione feudale sino al quarto grado inclusive,concessa a’ nostri Baroni nell’anno 1655. dal Re Cattolico Filippo IV. (come appare dalla prammatica 14 de feudis) pone in istato que’ Feudatarj, a quali, come ai Signor Cavaliere, dasse fastidio la successione delle femmine nel feudale in esclusione de' maschi più remoti, di poter escludere le medesime da tale successione. Sicché le querele del Signor Cavaliere sempre più oggi si riconoscono inopportune.

(58) Qui dal Signor Cavaliere viene destinata la Nobiltà a far l’officio di lente di cristallo. Veggasi la nota seguente.

(59) Qui la Nobiltà vien destinata dal Signor Cav. far l’officio di specchio. Veggasi la nota precedente.

(60) La differenza che passa tra la nobiltà ereditaria, e la nobiltà personale, si comprende da ogni uno. Ciò non ostante, mi ritrovo aver abbozzato un Discorso sull’idea della Nobiltà, che darà alla luce tra miei opuscoli (se il Cielo mi ha destinato altri giorni) subito che avrò finito la presente opera.

(61) io mi trovo aver detto nella pag. 41$. della lettera parlando delle Monarchie di Europa, che la potestà esecutrice in mano de' Principi. Qui il Signor Cav. dice, che la facoltà esecutiva è in mano de' Magistrati. Bisogna dunque rischiarare quella contrarietà, in cui par che siamo: e tanto più bisogna farlo, in quantochè sinora non si è data da’ Politici un'idea precisa del numero, a del carattere delle principali facoltà della Sovranità in generale, per poi vedere come sieno distribuite in ciascheduna specie di governo. La poca precisione, colla quale il Signor di Montesquieu tratta questo punto, può vedersi nel capo Vi. del lib. XL dello Spirito delle Leggi: né il suo anonima dotto Annotatore intieramente lo ha raddrizzato.

Sicché dico, che nella Sovranità (cioè a dire nel potere di governare) di qualsivoglia Stato, sia Monarchico, sia Repubblicano, sia Misto, sempre si distinguono due specie di potestà, o di facoltà: cioè la potestà, o la facoltà legislativa, e la potestà, e la facoltà esecutrice. in virtù della prima si sanno le leggi ed in virtù della seconda si eseguono. Secondochè dunque l'oggetto degli affari, tanto stranieri (come il far la pace, o la guerra lo spedire, o il ricevere ambascerie lo stabilire la sicurezza dello Stato, e del commercio: il prevenire le invasioni, e le piraterie: ecc.) quanto interni dello Stato (come il provvedere a’ bisogni economici, politici, militari, e civili) si riferisce alla semplice volontà, o all'esecuzione) cosi viene a cadere sotto la potestà legislativa, ovvero sotto la potestà esecutrice.

Or è noto a tutti, che il poter sovrano nelle Democrazie si esercita da tutto il corpo della Nazione, nelle Aristocrazie da una parte soltanto della medesima, cioè da un’Ordine d’Ottimati:nelle Monarchie, tanto moderate, quanto dispotico-tiranniche, da’ soli Principi: e ne’ Governo-misti dal Principe, e o dall'intera Nazione, o da una patte soltanto di essa. Le moltiplici diverse maniere poi, nelle quali le due anzidette facoltà della Sovranità possono essere distribuite, ed esercitate ne’ governi di una medesima specie, formano tutte quelle piccole differenze, che passano tra Democrazia, e Democrazia, tra Aristocrazia, ed Aristocrazia, tra Monarchia, e Monarchia, e tra Governo-misto, e Governo-misto.

Essendo dunque noto, che nelle Monarchie, tanto moderate, quanto dispotico-tiranniche, tutto il potere Sovrano è in mano desoli Principi quindi facilmente si comprende, che ciascheduno di questi può manifestare la sua Volontà in ogni oggetto del governo, sia straniero, sia interno dello Stato, cioè a dire può dare la legge a tutte le tose, che occorrono, ma non può certamente eseguire personalmente tutto quello, che necessità fare: non potendosi moltiplicare per quanto è il numero de' bisogni. Sono perciò nella necessità i Principi di dover incaricare dell'esecuzione degli affari quegl’individui dello Stato, che conoscono più idonei all’uopo e questa necessità è assolutamente indispensabile nelle Monarchie moderate in quella parte della facoltà esecutrice, che riguarda l’amministrazione della giustizia, per serbare appunto la dovuta moderazione in questa parte del governo: cioè acciocché i Principi non sieno legislatori, e giudici insieme. Tutto però quanto da altri si esegue, in nome de' Principi si esegue, e sotto la loro soprantendenza: e perciò non può dirsi, che la facoltà esecutrice non sia esercitata da’ Principi istessi, tutto che ad altri sia comunicata.

Il Signor Cav. dunque avendo detto, che i Magistrati sono i depositarj della facoltà esecutiva (cioè di quella parte della medesima, che riguarda l’amministrazione della giustizia, e che, per eccellenza, vien detta ancora da’ Politici la potestà, o la facoltà giudiziaria) non è con me in contradizione alcuna: sebbene siasi espresso con poca precisione.

(62) Si ammette però la dinunzia.

(63) Detto presso di noi Avvocato fiscale: e di più abbiamo un Procurator fiscale, ed un Sollecitatore fiscale.

(64) La coltura delle Scienze, divenuta oggi generale in Europa, ha messi in una virtuosa emulazione i Principi co’ loro Ministri a chi più si distingue nella moderazione: sicché quanto qui, ed appresso si dice, niente è adattabile al tempo presente, ma solo ipoteticamente si dice.

(65) Paragrafo III. del capo XVIII della parte I. de lib. III.

(66) Per rimanere di ciò convinto, basta leggere la Storia de' Persiani.

(67) Leggasi il Signor di Montesquieudal cap. VII. si no al cap. XII. del lib. XI. dello Spirito delle Leggi: e leggasi ancora il capo VII. dell*opera del nostro Signor Cavaliere D. Gio: Donato Rogadei, intitolata Dell'Antico Stato de' Popoli dell’Italia Cistiberina.

(68) Cioè il sistema feudale intende qui dire il Signor Cav.

(69) Soggiungo. purché si sappia fare senza far peggio.

(70) E’ troppo vero, che vi sono degli Uomini nimici di ogni novità, ancorché utile: ma di questi da chi governa non se ne deve avete alcun conto. Però siccome non vi è novità, pan utile che sia, che non disgusti qualche chisse di persone; percià non è prudenza di chi governa affollarne molte in picciol tempo. Ogni eccesso è vizio.

(71) il Regno di Napoli non è molto grande, ed è diviso in dodici Provincie. Sicché noi stiamo bene.

(72) Perché no? Anzi assolutamente da’ testimonj si dee ricercare. Rimettendosi le leggi, per la cognizione del carattere, e de' costumi dell'accusato, alla scienza privata del Giudice, ne verrebbe un atroce dispotismo nel giudicare.

(73) Mi riserbo esaminare nel secondo tomo il valore, che il Signor Cav. vorrebbe dare alla privata certezza morale de' Giudici ne’ giudizj criminali. Leggasi intanto il capo XIV. della parte I. del lib. III. della sua opera.

(74) La 1. 3. ff. de officio Assessorum,la l. 37. ff. ex quib. causis,la l. 38. ejusdem tit., la l. 3. C. de crimine sacrilegii, e la nostra costituzione Justitiarii dell'imperadore Federico II. tit. $ 1., proibiscono a’ Magistrati provinciali di esercitare il loro ministero in quelle Provincie, ove godano la cittadinanza, ed ove vi abbiano o parenti, o averi. Non Vi ha legge più savia di quelle. il rapporto delle parentele, e de' propri interessi toglie a’ Magistrati quella indifferenza tanto necessaria a serbarsi da loro nel giudicare. Lontani dall'officio del Principe, la giustizia ne può rimaner lesa. Sicché non conviene disporre altrimenti. Questo che qui ho detto, intendo dirlo ancora de' Presidi, e di ogni altro Magistrato.

(75) Veggasi la nota (1) pagina 169, nella quale si è detto, che la cognizione del carattere, e de' costumi dell'accusato, si dee ricercare da’ testimonj.

(76) Nota del Signor Cav. io prego il lettore di rileggere ciò, che si è detto di questo Magistrato accusatore.

Quanto sia per riuscir perniciosa alla pubblica tranquillità, ed all’adempimento della giustizia l’istituzione di questi Magistrati accusatori, che il Signor Cav. progetta ad imitazione de’ Romani, lo farà vedere nel secondo tomo. Dove pure dirò i miei sentimenti intorno alla libertà di accusare, permessa dall’antiche Nazioni a chi non era parte offesa; e che oggi si vorrebbe ristabilire dal Signor Cav.

(77)Nota del Signor Cav. “Vedi il capo 3. di questo libro.”

(78) Nota del Signor Cav. “Nel capo IV. di questo libro a pag. 6$. n, I, si è indicato il motivo di questa disposizione.”

Ogni altra persona, fuorché il Preside, e qualunque altro Magistrato, dovrebbe ciò fare. La ragione di questa mia discordanza da’ detti del Signor Cav. si comprende facilmente da ogni uno, subito che si bada alle prevenzioni, ed a' rapporti, che vj possono essere, o pro,o contra dell'accusato, e dell'accusatore.

(79) Nota del Signor Cav. “Quando il privato accusatore, che si presenta in giudizio, non avesse i requisti, che la legge richiede, dovrebbe in suo luogo subentrare il Magistrato accusatore. Veggasi ciò, che si è detto su questo oggetto nel citato capo IV., e V.”

(80) Nota del Signor Cav. “Vedi l’istesso capo IV. pag. 58., e il capo II a pag. 29.”

Queste citazioni sono erronee, ma veggasi il solo capo II a pag. 23.

(81) Nota del Signor Cav. Capo VII di questo libro.

(82) Che, come si vedrà appresso sarà il giorno del giudizio universale.

(83) Ogn’un vede, che quelli Giudici, eligendosi dal Preside, farebbero tutti suoi aderenti.

(84) Nota del Signor Cav. “Io lascio indeterminato questo valore, perché siccome io non scrivo per un solo paese, ma le mie vedute sono generali, cosi bisognerebbe esaminare lo Stato delle ricchezze di ciaschedun popolo, per poterlo fissare. Si sa a che ascende questo valore in Inghilterra.”

(85) Nelle note all'articolo XII. farà vedere, se la legge dovrebbe, o no fissare le qualità positive, necessario questi giudici, per le funzioni, che dovrebbero esercitare, secondo il piano del Signor Cav.

(86) Anch'io prego il lettore a rileggere questi due capi: a mi riserbo dire i miei sentimenti, tulle funzioni, che devono esercitare i giudici dei fatto, nelle note all'articolo XII.

(87) La proibizione di abbandonare il luogo del giudizio, prima di convenire tutti ad uno stesso sentimento, servirebbe per obbligare quelli del numero minore, ad unirsi agli altri del numero maggiore. E non sarebbe lo stesso, io dico, di far conchiudere ai più, discordanti i meno? Sicché d'unanimità de’ suffragj non recherebbe alcun vantaggio. Mentre per ottenerla col mezzo proposto, potrebbe cagionare un disordine funesto. Un giudice più tollerante, ma meno giusto, fidandosi più degli altri di resistere ali' arresto, potrebbe strascinare tutti gli altri al suo partito, in pregiudizio della giustizia. La legge dunque d'Inghilterra, che il Signor Cav. ci propone, sebbene modificata a suo modo, per ogni verso che si considera, non è la più savia di questo Mondo.

E poi, perché le parità, che potrebbero nascere, non dovrebbero dar luogo ad una nuova discussione da farsi da nuovi Giudici? So, che mi si risponderà, che per abbreviare la lunghezza de’ giudizj, perciò si procura di evitare le parità. Ma io ripiglio, che le parità, per quanto più si può, si debbono evitare? ma di ogni altra maniera bisogna farlo, fuorché coll’espediente proposto.

(88) Nella seconda parte del lib. 3, e propriamente nel Cap. 37. tit. Del delitto in generale, e nel cap. 38. tit. Della misura de' delitti, il Signor Cav. ha sviluppate le sue idee sopra i gradi de' delitti. Su quest'altra importante funzione de' giudici del fatto, mi riserbo anche dire i miei sentimenti nelle note all'articolo XII.

(89) Veggasi ciò che si è detto nel soglio I. pag. 137 e seg.

(90) Nota del Signor Cav., “La differenza tra quel che propongo, ed il sistema inglese, è che in Inghilterra quest'albo, che si chiama Pannel, si rinnova in ogni tre mesi (cioè nel tempo delle ordinarie sessioni, ed io, ad esempio de’ Romani, credo che basterebbe, che si rinnovasse ogni anno dal Preside, nel principio della sua Magistratura.”

E’ difetto comune il proporre per modello a’ Governi le operazioni delle Nazioni lontane o di tempo, o di luogo. lo ho per vero, che se fossimo presenti a tutto ciò, che si encomia delle medesime, spesso ne riproveremo la condotta. Poco appresso farò vedere tutte le sconcezze di questo piano, che ci propone il Signor Cav., sull'esempio de’ Romani, e degl'inglesi. Qui però è di bene riflettere, che assomigliandosi le teste degli uomini nel pensare, nel giudicare delle cose, molto agli oriuoli nell'indicare, e nel battere che fanno delle ore, de’ quali rade volte se ne ritrovano due perfettamente corrispondenti: perciò non so comprendere come mai si possa pretendere, che i dodici giudici, che in ogni giudizio decidere dovrebbero del fatto (colle precisioni stabilite nell’articolo precedente ne' capi 14 e 15 del libro, a cui questo piano si appartiene) unanimamente lo facciano. Nella nota alla pag. 183. ho fatto vedere quanto è improprio l'espediente proposto per ottenerlo.

(91) Lo che, se questo piano fosse praticabile, accaderebbe spessissimo. imperocché volendosi le Provincie di piccola estensione, e ciaschedun Preside natio di quella stessa, che governa; che vale a dire, avendo ciaschedun di loro colle medesime de’ rapporti molto stretti; percià quelle sospezioni sarebbero alla giornata.

(92) Ragionevolmente: perché dovendosi formare dal Preside l’albo di questi giudici (che, come si è avvertita nella nota (2)pag. 175, sarebbero tutti suoi aderenti); perciò, valendo la sospezione dei Preside, tutto l’albo dovrebbe cadere.

(93) il rimedio, che qui si propone dal Signor Cav., i peggiore del male, ch’egli vuol guarire. Nell'articolo XII si porrà in chiaro.

(94) Per questa cagione, veramente, non vi sarebbe troppo da fare. il Signor Cav. ha detto nell'articolo Vi., che La legge non potrebbe fissare che le qualità negative; le positive dovrebbero esser lasciate all’arbitrio del Preside nella scelta di questi giudici.

(95) Questa si che sarebbe una fonte perenne di motivi per le ripulse Non meno di 48 Giudici, scelti in una piccola Provincia, facilmente s’incontrerebbero avere tali rapporti.

(96) Nota del Signor Cav. in Inghilterra a’ motivi qui sopra accennati, se ne aggiugne un altro, e questo è della disuguaglianza della condizione, giacché, come si è detto, i Giurati debbono essere pari del reo. Un lord non può esser giudice di cittadino, che non potrebbe aver fede nella Camera de’ Pari, e viceversa quelli non potrebbe esser giudice di un Lord. Ma siccome nelle altre costituzioni Monarchiche, quando la feudalità sorte abolita, la distinzione di Nobiltà e di popolo, sarebbe una distinzione di onore, ma non d’impero, cosi sarebbe inutile di adottare questa specie di eccezione, come inutile sarebbe lo stabilire, che i giudici del fatto fossero dell'istessa condizione del reo.”

Si è detto nel primo soglio, che la feudalità non si può abolire senza distruggere le Monarchie: e poiché quello piano, che ci propone il Signor Cav. è ineseguibile, percià passo in silenzio su quant’egli ha detto in quella nota.

(97) E quando l’albo de' giudici del fatto farà formato da uno de' giudici del dritto, chi mai giudicherà delle sospezioni deprimi, giacché de’ secondi (non essendo il loro numero più di tre, come progetta il Signor Cav. nell’articolo XI) non ne rimarrebbero altri che due? Una causa di sospezione non interessa meno un reo di quello lo interessa la sua causa principale. Se convinse, che tali giudizi sieno formati da due soli giudici, lo dica il Signor Cav. il quale è tanto lodevolmente interessato per la libertà civile de’ cittadini, E poi, come si farebbe nelle parità, che necessariamente dovrebbero esser frequenti in simili casi? io, mi dichiaro, non saprei determinarlo, nel supposto dell'esistenza di questo piano. Veggasi la nota alla pagina 193.

(98) Domando. Questi nuovi giudici, che si nominerebbero dal Preside in simili occorrenze, si potrebbero, o no ripulsare dal reo? Se mi si risponde di no: io ripiglio, ecco il caso, nel quale la libertà civile de' cittadini è messa a rischio, non ostante il piano di riforma, che ci propone il Signor Cav. E se mi si risponde di si: io domando, la ripulsa potrà essere perentoria,o dovrà farsi assolutamente per causa? Per non andare all’infinito, mi si dirà, la sola ripulsa per causa dovrebbe esser permessa in simili casi, e non altra. Ecco dunque finito per i rei il gran vantaggio delle ripulse perentorie.

(99)Nell'articolo XII sivedrà se ciò èvero.

(100) Giusto perché si dovrebbe decidere per pluralità de’ suffragj, perciò il numero di tre giudici non sarebbe niente sufficiente: come non lo è in alcuni nostri Tribunali, e precisamente nelle Udienze provinciali.

(101) Qui il Signor Cav, incomincia a conoscere, ed confessare, che le sole qualità negative, da lui stabilite nell'articolo Vi, non bastano a’ Giudici del fatto, per l’esatto disimpegno del loro ministero. Ma com’egli vi rimedia? Lo vedremo.

(102) S'incomincia a sviluppare l’enimma: e da qui a poco si vedrà, che tra le altre funzioni, che debbono esercitare i Giudici del dritto ( secondo questo piano, che ci propone il Signor Cav.) vi è quella di fare da pedagoghide’ Giudici del fatto.

(103) Nota del Signor Cav., “Io prego il Lettore di riscontrare il Capo XIV e XV di questo libre, altrimenti ciò, che io qui accenno, gli sembrerà oscuro.”

Nella nota (2) pag. 169. mi ho riserbato esaminare nel secondo tomo il valore, che il Signor Cav. vorrebbe date alla privata certezza morale de' Giudici ne’ giudizj criminali; facendo ivi vedere i disordini, che ne nascerebbero se loro si dasse il progettato valore. Sicché qui altro non dico, che sarebbe certamente bello il risultato della combinazione, che dovrebbero fare i Giudici del fatto della loro moral certezza col criterio legale: che, come seguita a progettare il Signor Cav., dovrebbe loro esser infuso da Giudici del dritto.

(104) E perché non si dovrebbe presupporre? Non per altro, perché il Signor Cav. ha detto nell’articolo Vi, che La legge non potrebbe fissare, che le qualità negative; le positive dovrebbero esser lasciate all’arbitrio del Preside nella scelta di questi giudici: cioè de' giudici del fatto.

(105) Che vale a dire, che i Giudici del dritto dovrebbero spiegare delle lezioni di legge a’ Giudici del fatto. E chi sa, se gli scolari ne profitterebbero?

(106) A buon conto i Giudici de! fatto non sarebbero Diente di più delle canne degli organi, le quali tanto rendono del suono, in quantoché uno da' loro il vento co’ mantici, ed un altro batte la tastatura.

(107) Cioè i dodici Automati, testimonj della liquidazione del fatto.

(108) in questo stesso modo, col quale i fanciulli si avvezzano a scrivere: cioè portando la penna pe’ punti fatti da’ loro Maestri.

(109) Bisogna qui riepilogare quanto si i detto intorno alle funzioni, ed a’ requisti, tanto de’ Giudici del fatto, quanto di quei del dritto, per fare su quest’oggetto l’ultime riflessioni dovute.

Il Signor Cav. ha progettato, che i Giudici del fatto dovrebbero decidere dell'esistenza, o della non esistenza della pruova legale in conseguenza della verità, della falsità, o dell’incertezza dell'accusa; ed in ultimo della qualità, e del grado del delitto. Quelle sarebbero le loro funzioni: vediamo quali dovrebbero essere i loro requisiti. Essi (il Signor Cav.) dice, che nella scelta di questi Giudici la legge non potrebbe fissare che le qualità negative (accennate nell’articolo Vi); le positive dovrebbero esser lasciate all’arbitrio del Preside.

E poi, parlando delle funzioni de’ Giudici del dritto, progetta, che questi dovrebbero non solo ammaestrare i Giudici del fatto in tutto ciò, che vi bisognerebbe di scienza legale, e di espertezza nell’esercizio del loro ministero; ma ancora profferire la sentenza a tenore delle leggi. E perciò i requisiti di questi Giudici dovrebbero essere una probità manifesta, ed un ntera conoscenza, e perizia tanto delle leggi patrie, quanto delle pratiche del foro.

Or io domando,che altro si richiederebbe,oltre di quanto dal Signor Cav. si vorrebbe esigere da’ Giudici del fatto, per vedere, se le azioni di un cittadino cadrebbero, o no fatto il rigor delle leggi? Cioè, domando, che altro vi vorrebbe, per formare un compiuto giudizio nelle cause Criminali? Vi bisognerebbe vedere, mi si dirà, sotto quali leggi cadrebbero le imputazioni date a’ rei. Ma, nel supposto dell'esistenza di un codice penale, nel quale si distinguessero i delitti per qualità, e per gradi, e si assegnasse a ciascheduno di essi la pena proporzionata, nel modo appunto, che dal Signor Cav. si progetta (nel capo 39. tit. Della proporzione tra delitti, e le pene, e negli altri due capi su(seguenti della parte II. del lib. III: progetto, che, senza equivoco, manifesta la sublimità de' talenti dell'Autore e che io ardentemente desidero vederlo eseguito nella mia Patria) nel supposto, dico, dell'esistenza di un tal codice, e dopo d’essersi deciso della qualità, e del grado del delitto non sarebbe la funziune la più triviale, e perciò da esercitarsi da chiunque sappia appena leggere, quella di vedere sotto quali leggi cadrebbero le imputazioni date a' rei? Or se è cosi, come certamente non mi si può negare, dee perciò il Signor Cav. necessariamente convenir meco, che, secondo questo piano, ch’egli ci propone tutto il difficile della formazione de' giudizj criminali è addossato a’ Giudici del fatto cioè a quei Giudici, de' quali la legge (com’egli dice) non potrebbe fissare che le qualità negative; e che le positive dovrebbero esser lasciate all'arbitrio del Preside.

E’ vero, ch'egli, il Signor Cav., prevedendo l’ignoranza di quelli Giudici del fatto nelle cose legali, e la loro insufficienza nelle pratiche del foro, li soggetta ad una perpetua scuola de' Giudici del dritto: ma chi vi ha, che non conosca la sconcezza di tutto quello progetto? i Giudici del fatto, a buon conto, altro non verrebbero a fare, che una rappresentanza da burattini;i quali quanto figurano, e quanto dicono in iscena, tutto è opera di quel comici, che alla scena si nascondono.

Finalmente lascio decidere al Signor Cav., se sarebbe, o no esposta a pericoli la libertà civile de’ cittadini nel caso, che l’albo de' Giudici del fatto (come si è accennato nell'articolo IX.) fosse formata da quegli stessi Giudici del dritto, che dovrebbero fare da loro maestri, e direttori.

(110) in questo articolo il Signor Cav. entra nella considerazione di alcuni inconvenienti annessi al suo piano; ma egli subito vi rimedia come da qui a poco si vedrà.

(111)Se pur sarebbe vero questo beneficio.

(112) Ma presso a poco quanti giorni sarebbe per durare, io domando al Signor Cav., ciascheduna di quelle sessioni? Lo vedremo qui appresso.

(113) il Signor Cav, dice,che il Legislatore dovrebbe permettere arei di farsi assistere da uno, o più avvocati. Leggasi il capo XX della parte I, del lib. III. della sua opera.

(114) Questi Canoni di giudicatura sono stati esposti con somma precisione, e giudizio dal Signor Cav. nel capo XV. della parte I. del lib. III.. Egli li ha divisi in Canoni di giudicatura per le pruove testimoniali, in Canoni di giudicatura per le pruove scritturarie, ed in Canoni di giudicatura per le pruove indiziarie. io, in grazia della brevità, mi sono dispensato di trascriverli; e perciò rimetto i curiosi al luogo citato.

(115) Giusto i dettami del Signor Cav. nel capo XXI. della parte l. del libre III.

(116) Della certezza morale il Signor Cav. ne ha parlato con somma e nuova eleganza nel capo XIII della parte I, del lib. III. E della combinazione della certezza morale de’ Giudici coi criterio legale, per decidere della verità, della falsità, o dell’incertezza dell’accusa, ne ha data la norma nel capo XIV. del medesimo volume. io mi ho riserbato esaminare nel secondo tomo il valore, ch’egli vorrebbe dare alla privata certezza morale de’ Giudici ne’ giudizj criminali; sicché qui la passo in silenzio su questo oggetto.

(117) il Signor Cav. oltre delle funzioni, che ordinariamente assegna a’ Giudici del fatto, in alcuni casi particolari ne assegna loro delle altre. Nella seconda parte del lit»3, e propriamente nel capo 37. tit. Dal delitto in generale parlando di quelli, che sono incapaci di delinquere, dice che la legge Dee nel secondo periodo (della vita degli uomini) o sia nell'età posteriore all’infanzia lasciare a' Giudici del fatto il decidete, se l’impubere accusato abbia 0 no l’uso della ragione. Ed ancora che Dee sottoporre all'istesso giudizio l’esistenza della frenesia, 0 della stupidezza in coloro, che colla privazione, 0 colla perdita della ragione possono giustificarsi della violazione delle leggi. Questo è un fatto (egli dice nella nota a tal luogo) e per conseguenza l’esame di esso dee, secondo il nostro piano, dipendere dal giudizio, e dall’esame de' Giudici del fatto.

Sebbene il Signor Cav. non abbia detto, che questi giudizj si dovrebbero fare con unanimità de’ suffragj, pure, secondo il solito, cosi è da supporsi ch’egli vorrebbe; ed in conseguenza ne’ casi predetti vi sarebbe maggior consumo di tempo, e crescerebbe ancora il numero degl’incovenienti.

(118) Per rispetto all’ordine, ed al modo, col quale ho esposto la formazione di questi giudizj, acciocché non si creda, che da me siasi inventata alcuna cosa a capriccio, veggasi il capo XXI tit. La Sentenza della parte i del lib III dell'opera del Signor Cavaliere.

(119) Presso i Romani gli stessi Giudici t che decidevano della sorte dell'accusato, decidere dovevano della buona, o della mala fede dell'accusatore; e quello secondo giudizio seguiva immediatamente a quello, nel quale il reo era stato assoluto. Ciò avveniva, perché presso de' medesimi accusatore, e l’accusato instuivano egualmente nella scelta de’ Giudici. Ma poiché il Signor Cav. nell’articolo IX. del piano, che stiamo esaminando, non so per qual ragione, ha lasciata questa influenza al solo accusato; perciò gli è convenuto poi di supplire al difetto nel modo espresso.

(120) Da quanto si è detto nell'interruzione del piano (e nel supposto dell’esecuzione del medesimo) si comprende facilmente, se vi sarebbe, o no luogo per quelle sessioni straordinarie, che qui ci propone il Signor Cavaliere.

(121)Nota del Signor Cav. “Nelcapo IX di questa libro”.

(122) Scommetto, che non vi sarà mai alcuno, che voglia ammetterla questa tranquillità. il Signor Cav. doveva dire: il momento, nel quale gli si manifesta il terribile decreto, è sovente il momento nel quale comincia in lui la stupidità.

(123) in un consimile proposito ho inteso raccontare, che ad un reo condannato alle forche, mentre, quasi all’intutto fuor di sensi, saliva la scala del patibolo, fu detto dal suo Confortatore: Piglio t’invidio, sei già incaminato per la scala del Paradiso, ove godrai un'eterna felicità. Padre (gli rispose con fioca voce il disgraziato, ripigliando alla meglio i suoi perduti spiriti) se volete fare questo scambio, vi cedo volentieri il posto.

(124) Nota del Signor Cav. “Esse però si convertono nel più duro de' tormenti, se si ritarda molto l’esecuzione. Quelle morali scosse s’indeboliscono a misura, che si prolunga il tempo, e gli orrori della morte subentrano allora nel luogo di quelle consolanti idee. Noi l’esamineremo da qui a poco”. Cioè nel capo XXIV. della parte 1. del libro III.

(125) Questi motivi sono molto ragionati; le sessioni straordinarie sarebbero molto buone; se il piano però fosse praticabile.

(126) Nota del Signor Cav. “Io ho qui corretto un difetto della legislazione inglese su questo articolo. Vi sono de' casi, ne’ quali lo Sheriff nomina ciò, che chiamasi uno speciale Giurato, cioè un albo di 48 giurati per la decisione di quella particolare accusa. Or questa circostanza può divenir funesta in alcuni casi; come l'è divenuta più volte in Inghilterra. in quelle cause particolarmente, ne ile quali è interessato il Governo, lo Sheriff può formare un albo di persone tutte addette alla Corte, ed in questo caso con tutte le ripulse permette dalla legge, non lascerebbe l'accusato di esser giudicato da’ giudici prevenuti. Or questo non può avvenire, quando, secondo il nostro piano, l’albo, che il Preside ha pubblicato nel principio istesso della sua carica, è quello, dal quale si debbono, anche negli straordinarj giudizi, estrarre i giudici, che decidere debbono del fatto. Un nuovo albo non si dee formare per un particolare giudizio, che nel solo caso, che da noi si èesposto nell'articolo IX, cioè, quando l'accusato può sopra motivi legali dichiarar sospetto il Preside, che l'ha fermato.”

(127) Nota del Signor Cav. “Veggansi le seguenti leggi, L. levia 6. D. de accusat. L. unius 18. D. de Quaest. L. nes quicquam 9. §. de plano D. de off. procons. Riguardo agl'inglesi leggasi Blakstone Codice criminale d'Inghilterra cap. XX, dove paria della procedura sommaria. E per quel che si fa in Ginevra, leggasi l’opera, che ha per titolo i Elementi della procedura criminale di Francia, di Savoja, e di Ginevra, cap, II.”

(128) Sarebbe assolutamente desiderabile, che la giurisdizione de' Governatori locali del nostro Regno, i quali hanno oggi il mero impero nelle mani, fosse ristretta in que’ termini, che qui dice il Signor Cavaliere. in quanto poi a chi dovrebbe eleggerli, io non mi uniformo interamente, né interamente mi oppongo a ciò, ch'egli ha qui progettato. in appresso manifesterò i miei sentimenti su questo oggetto.

(129) Leggasi qui appresso il mio Progetto di riforma da farsi nella ripartizione della potestà giudiziaria nelle Provincie del nostro Regno.

(130) De Magistrati accusatori, e delta libertà di accusare da chi non è parte offesa, mi ho riserbato parlarne net secondo tomo.

(131) Nota del Signor Cav. Questi sono i delitti, che i Forensi chiamano fatti permanenti. Vedi nel capo XV il canone ultimo.

Leggasi qui appresso il mio Progetto di riforma etc.

(132) L’elezioni de' soggetti per gli impieghi pubblici, fatte per pubblici suffragj, e per tempi limitati, non sono nuove presso de’ Popoli; e l’esperienza (mastra di tutte le cose) ha fatto conoscere in ogni luogo, in ogni tempo, ed in ogni circostanza, Che non sempre riescono lodevoli. in tutte le. Comunità del nostro Regno gli Economi pubblici (chiamati Sindaci, ed Eletti, i quali debbono amministrare le pubbliche rendite, pensare alla pubblica annona,ed invigilare su i venditori della grascia) sono eletti appunto ne’ pubblici parlamenti, giusto perché, atteso l’importanza della loro carica, debbono esser degni della pubblica confidenza: e la loro durata non è più di un anno. E pure (a chi di noi non è noto?) la fiducia delle Comunità non di rado ne rimane delusa. Ciò non ostante, non mi oppongo interamente, io ripeto, a quanto qui propone il Signor Cavaliere. Veggasi il mio Progetto di riforma etc.

(133) Per una carica della durata di un anno, e per un picciolo lucro, chi mai sarebbe quello, io domando, che, avendo (come vorrebbe il Signor Cav.) una probità conosciuta, una rendita stabilita dalle leggi, ed una onorevole condizione, si riporrebbe ad uno esame di criminale giurisprudenza?

(134) il quale dovrebbe procedere coll’assessore, giacché il Signor Cav. altro requisito non ricerca in questo Magistrato, che quello di essere una delle persone le più rispettabili della Provincia. Veggasi l’articolo II.

(135) Questo male si deve evitare, e non già ricercare per poi curarlo. i Magistrati de' Paesi piccioli non debbono esser mai paesani, né debbono aver parenti, e possessioni in essi. Leggasi la nota alla pagina 171.

(136) La probità, l’onestà, ed i sentimenti di onore, 0 di giustizia negli uomini non sono attaccati né alla condizione onorevole dei medesimi, né al loro stato di opulenza. E’ un errore comune il creder questo. Mentre alla giornata si veggono degli uomini nobili e degli ignobili, degli uomini ricchi e de’ poveri avere della probità, dell'onestà, e de’ sentimenti di onore, e di giustizia. All'opposto se ne veggono degli uni, e degli altri sforniti affatto di tali prerogative. Sicché dunque gli uomini bisogna saperli conoscere, per saperli scegliere.

(137)Veggasi anche suquesto particolare il mio Progetto di riformaetc.

(138)Nel quai punto è pregato il lettore ad aver presenti le mie riflessioni.

(139) Ma contro agli attentati della forza, domando al Signor Cavaliere, con questo piano qual ostacolo fissato?

(140) Sempre che non vorrebbe.

(141) Se non vi fossero quegl'inconvenienti nel piano, che io ho rilevati nelle note.

(142) L’arbitrio, che il Signor Cav. ne’ suoi progetti lascia a coloro, i quali dovrebbero esercitare la potestà giudiziaria, è maggiore di quello, che vorrebbe loro togliere. Lo farà vedere chiaramente nel secondo Tomo.

(143) Questa sarebbe una illusione. Poiché i Giudici del fatto, come ho rilevato nelle note, non sarebbero altro, che tanti echi de’ tre Giudici del dritto; i quali, tutto che in ogni anno dovrebbero cambiar dimora, sarebbero però perpetui nella carica. Tutti Magistrati provinciali del nostro Regno anche cambiano dimora.

(144)Ma non quelle, che io ho esposte.

(145) io senza alcuna difficoltà, per vedere eseguito questo piano, unisco i voti miei a quelli del Signor Cav., ma a fine diverso cioè, perché san persuaso, che i disordini, che ne nascerebbero lo renderebbero convinto dell’inopportunità del medesimo, precisamente se si dalle luogo alla privata certezza morale de’ Giudici del fatto, ed a tutte quelle altre particolarità da lui progettate,e che io mi sono riserbato di esaminarle nel secondo tomo.

(146) Questo è vero. Ma è vero altresì, che l’utile delle novità bisogna che sia prima provato, per non mettersi nel rischio di cadere in mali peggiori di quelli, che si vogliono guarire.

(147)Questa riforma è necessaria, ma bisogna saperla, per non far peggio.

(148) Per quelli, i quali non sono usciti mai dalla Capitale, e che in conseguenza ignorano perfettamente il vera stato delle nostre Provincie, ed in particolare quello delle corti locali di giustizia, può servire di rischiaramenti la tetra, e rattristante descrizione, che fa delle Corti baronali il Signor Cav, nel capo 17 della parte I del lib, II, in quanto poi alle Corti Regie, è di ben che si sappia, che il disordine, e lo scandalo è tale, che se per la millesima parte ne giugnesse la notizia a' Ministri del Re nella Capitale, son sicuro che la bisogna andrebbe diversamente.

(149) La ragione di questa disposizione può leggersi nella nota alla pagina 171.

(150) Non sono per negare, che, ogni volta che si accorda ad alcuno l'esenzione dal Foro ordinario, sempre il corso della Giustizia ne rimane perturbato: ed in conseguenza è un male, che si arreca alla Società. Ma (è detto altrove) non tutt'i mali si possono togliere. Gli uomini, generalmente, vanno fanatici per le distinzioni: ed i Sovrani di Europa, profittando della vanità di questa stimolante passione degli uomini (la quale, se ben si considera, anima tutte le monarchie moderate) ne ricavano, tante per le loro persone, quanto pe’ loro stati, de’ vantaggi considerabili. Or tra le altre distinzioni, che i Sovrani di questa nostra parte di Mondo non possono sempre non accordare ad alcune classi di persone, vi è quella per l'appunto dell'esenzione dal Foro ordinaria. Distinzione, che ardentemente si desidera da ogni uno, e che da coloro, che la godono, se ne forma una idea pregevole e di onore: tutto che spesse volte ridonda in loro disvantaggio, a cagione che i Tribunali di esenzioni (com’è presso di noi quello della Casa Reale, quello dell’Udienza Generale degli Eserciti, i novelli Tribunali di milizia nelle nostre Provincie, quello della Dogana di Foggia, ed altri) sono per la più composti da un solo Magistrato: e perciò nelle occorrenze i privilegiati rimangono esposti a tutti rischi, che s'incontrano nelle giudicature di un solo. Ma gli uomini cosi son fatti, tratta che abbiano delle distinzioni non li curano poi del rimanente.

A me per altro rincresce molto il vedere esposto venale nel nostro Regno il privilegio dell'esenzione dal Foro ordinario. E’ noto a tutti noi, che nelle nostre Provincie coi solo merito di pochi soldi annui, che si pagano alla Regia Dogana di Foggia, si ottiene il carattere fittizio o di Locato agli erbaggj, o di Fittajuolo delle terre salde lavoratorieo di Compratore delle lame di detta Dogana e con esso carattere fittizio si ottiene il privilegio reale dell’esenzione dal Foro ordinario in tutte le cause civili, criminali, e miste, tanto attive, quanto passive,cosi per la persona del privilegiato, come per tutta la sua famiglia. Or chi vi ha, che non conosca quanto poco sia lodevole questo costume: ed in conseguenza la necessità che vi ha di correggerlo?

Io però non sono per progettare l’emenda di tal condannabile abuso, prima che nel nostro Regno non li correggano i disordini della giurisdizione baronale. Un Uomo di Feudo, passandola male col suo Signore, (e supposto che questo sia di prava volontà) non ha altro scampo oggi alla sua salvezza suor di quello di procurarli il simulato carattere, di cui si è fatta menzione. Sicché un tal male, per quanto sia grande, mentr’esiste l’altro della feudalità, non conviene toglierlo, se non si voglia veder'csposto alla tirannide il nostro Regno intero.

(151) L’istesso dovrebbe darsi a’ Governatori oltre di un competente ordinario soldo, che si dovrebbe loro assegnare.

(152) Cosi si chiamano da’ Forensi tutti que’ delitti, che lasciano dopo di loro de' vestigj, i quali indicano il delitto istesso, che li ha prodotti i tali sono, per l’appunto, gli omicidj, le ferite, i furti con scassazioni, ecc.

(153) Che i Forensi dicono costare il corpo del delitto: o pure pigliar l'ingenere.

(154)Tutto che sieno privative de' soli Presidi le inquisizioni, e le decisioni dette cause de’ militari di nuova leva (fatta nelle nostre Provincie, per ordine del nostro Sovra. no, nell’antepassato anno 1782) pure da ciaschedun di loro non si può procedere ad alcun atto giuridico, né alla formazione di alcun decreto senza il voto dell’Assessore giurista dato loro dal Re.

(155) Nelle cause civili però anche l’Avvocato-fiscale può, se vuole, dare il suo voto.

(156) E’ qui da notare, che quando manca il fiscale, per qualunque delle accennate cagioni, spetta all’ultimo Uditore del Tribunale il fare le di lui veci. Sicché in tali casi non solo manca nelle decisioni delle cause criminali un Giudice, ma di più si vede la sconcezza che nell’istessecause, chi ha fatto in alcuni giorni da Giudice, sa in altri da fiscale: e coll'istessa indifferenza, ma con maggiore mostruosità, quando ripiglia poi il suo impiego, da fiscale ritorna a far da Giudice. Questo inconveniente non solo è pelle Regie Udienze provinciali, ma ancora ne’ restanti nostri Tribunali del Regno, dove si decidono cause criminali.

(157) Il Signor Principe di Strongoli D. Salvatore Pignatelli (mio grande amico) nel suo Trattato della Maniera di popolare le Provincie, progetta anch’egli la formazione di un'altra Ruota nelle Città Capitali delle Provincie.

(158) Al presente gli Avvocati de' poveri delle Regie Udienze sono considerati come Ministri del Re,ma non hanno altro soldo che la miserabilissima somma di ducati sei al mese, ed è loro permesso di patrocinare, oltre de' poveri, chiunque altro loro aggrada,. io non nego che tali Signori Avvocati adempiono pienamente al loro dovere verso de' poveri; ma poiché il guadagno è un esca molto seducente per gli uomini; percià non mi sembra lodevole il lasciare i medesimi tra gli urti continui del guadagno, e del dovere. Sicché dico, che sarebbe necessario il proibir loro di poter patrocinare altri fuori de’ poveri ma nel tempo medesimo dico che si dovrebbe lor dare lo stesso grado, lo stesso soldo, e lo stesso ascenso, che hanno gli Uditori. Vale a dire che si dovrebbero porre in un piede con si mi le a quello degli Avvocati de' poveri della Gran Corte della Vicaria.

(159) Al presente le parità, che accadono nelle nostre Regie Udienze provinciali, si mandano a dirimere in Napoli.

(160) Della pena di morte ho luogo di parlare ne! tomo secondo, dove esaminerà il sistema circa alla medesima tenuto dal Signor Cavalier nel capo 29 della patte II del lib. III.

(161) Il permettere al Preside d’intervenire arbitrariamente ora ad una Ruota, ed ora ad un’altra, servirebbe per Carlo invigilare al buon ordine delle medesime, e per lare arrecare soggezione a’ Giudici, ossiachè con esattezza adempissero al loro dovere. Il non dargli poi il voto, che solo pelle unioni delle Ruote, ed in mancanza di qualche Giudice, servirebbe per evitare l’abuso, ch'egli, secondo le sue prevenzioni, potrebbe fare delle sue facoltà, se si unisse il voto all’arbitrio d’intervenire a quella Ruota, che più gli aggraderebbe.

(162) Al presente la sola Provincia di Terra di Lavoro ha il suo Commissario di Campagna, il quale è scelto tra Giudici della Gran Carte della Vicaria, e nelle sue ordinarie incumbenze criminali sa da inquisitore,e da Giudice interne; le sue sentenze però passano sempre alla revisione del Soprantendente della Campagna, il quale è uno de’ Consiglieri della Camera Reale.

(163) Ed acciocché ciascheduna Ruota fosse sempre fornita di quattro Uditori (oltre del Capo di Ruota, come si è detto-nell’articolo primo) perciò in ogni Regia Udienza vi dovrebbero essere nove Uditori.

(164) Il ristrignere ad un anno solo la durata de' Commissarj di Campagna, servirebbe per non farli divenire i tiranni delle Provincie, e per non farli abusare del loro ministero, sulla considerazione, che i loro successori potessero scoprire le loro frodi.

(165) Prima dell'anno 1772 i Presidi, i Capi di Ruote, e gli Uditori delle nostre Regie Udienze provinciali venivano obbligati a cambiare Provincia ogni due anni. Questo tempo, sulla considerazione del grave incomodo, e dell'esorbitante spesa, che vi vuole per il passaggio da una Provincia all'altra, è stato prolungato per Sovrana disposizione ad anni tre. Or io bramerei (oltre di quanto ho detto negli espressi articoli di riforma non solo che a questa legge non si dispensasse mai per qualunque ragione, ma che alla medesima venissero soggettati angora gli Avvocati fiscali, ne’ quali più che negli altri concorrono i noti motivi di essa legge.

Di più vorrei, che si eseguisse ancora Con pieno rigore la legge colla quale si proibisce a’ nostri Magistrati provinciali di esercitare il loro ministero in quelle Provincie, che godono la cittadinanza, ed ove abbiano o parenti, o averi.

(166) Questo mio progetto, fatto per-le nostre Provincie, con alcune poche, e picciole diversità, è praticabile ancora nella Capitale. La divisione de' Quartieri, che ritrovasi già fatta nella medesima, per ordine del nostro provvido Monarca FERDINANDO IV, ne facilita l’esecuzione. Altro non resterebbe a farsi, che unire al Giudice di ciascheduno Quartieri (in luogo de' Deputati, che oggi vi sono) quattro Magistrati inquisitori: l’officio de' quali, sa dora durata, e la maniera di eleggerli, tutto dovrebb’essere come si è detto pe’ Paesi Regj delle Provincie. In oltre ciaschedun Giudice dovrebbe ogni anno cambiar Quartiere non dovrebbe intervenire nelle decisioni di quelle cause, nelle quali si troverebbe aver fatto da Inquisitore.

(167) M’immagino già, che coloro, i quali si studieranno di discreditare questo mio progetto, certamente diranno, tra le altre cote, che per mettere le Regie Udienze provinciali sul piede da me progettato, bisognerebbe che lo Stato si gravasse di una spesa esorbitante. Or che questo sia uno de’ mali inerenti al mio progetto, io nol nego: anzi, per dare più pabulo a’ miei sindicatori, dico, che converrebbe, che agli Uditori si accrescesse il soldo, e che a’ Commissarj di Campagne si dasse il doppio degli Uditori. Sicché, presso a poco, vi vorrebbero da centomila ducati di più di quello, che vi vuol oggi, per mantenere i Ministri Regi per tutte le Provincie. Ma qual altro uso migliore, io dico, e più necessario di questo si potrebbe fare del danaro dello Stato? Per poco che vi si voglia badare (senza ricorrere a nuovi dazj) non mancherebbero opportuni mezzi per soddisfare al bisogno; e così il male che s’indica, all’in tutto svanirebbe.

(168) Questo inconveniente non è solo nelle nostre Provincie, ma ancora esiste nella Capitale, sicché ivi pure si dovrebbe correggere.

(169) I disordini della giurisdizione feudale del nostro Regno sono stati minutamente descritti dal Signor Cav. nel capo 17 della parte I del lib. 3, io prego il Lettore a leggere questo capo nel tempo stesso, che leggerà il mio progetto , e giudichi poi, se io, senza distruggere il Baronaggio, o pure interamente privarlo della sua principale prerogativa, abbia o no saputo ritrovare il modo da correggere tali disordini.

Per altro, in grazia della verità, è di bene che si sappia, che non tutt’i nostri Baroni abusano delle loro facoltà intorno alla giurisdizione. L’istesso Signor Cav. Filangieri la confessa questa verità. Egli dice (nella prima nota al capo citato), che nel corpo de' Feudatari vi è una quantità d'individui, che esercita colla maggiore esattezza, ed equità quelle prerogative, delle quali i per gli altri cosi facile, cosi frequente, e cosi inevitabile l’abuso. Ch’egli conosce in esso corpo degli uomini, che uniscono a tutte le virtù del cuore que' talenti, e que' lumi, che sono necessari per conoscere i vizj di quel sistema, del quale i loro colleghi sono i feroci difensori. Che conosce molti Feudatari, che fan voti per l'abolizione della loro giurisdizione. E finalmente, che ne conosce degli altri, che la difendono di buona fede, perché non ne hanno giammai abusato.

(170) Cioè della giurisdizione feudale.

(171) Il Signor Cav. chiama clamori del fanatismo, e calunnie dell'ignoranza tutte le ragioni addotte contro i suoi progetti distruttori del sistema feudale. Ma vi vogliono altre che declamazioni, ed espressioni ingiuriose, per sostenere i suoi progetti.

(172) Leggasi il Signor di Montesquieu, Spirito delle leggi lib. 18 capo 17.

Nel nostro Regno prima del governo degli Angioini esisteva il sistema feudale, ma i nostri Baroni non aveano il mero impero.


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF















Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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