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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

E

GLI OPUSCOLI SCELTI

del Cavaliere

GAETANO FILANGIERI

VOLUME PRIMO

FIRENZE

per Niccolò Conti

1820


ELOGIO STORICO INTRODUZIONE PIANO RAGIONATO DELL’OPERA LIBRO PRIMO
Delle Regole generali della Scienza Legislativa
CAPO I CAPO II CAPO III CAPO IV
CAPO V CAPO VI CAPO VII CAPO VIII
CAPO IXI CAPO X CAPO XI CAPO XII
CAPO XIII CAPO XIV CAPO XV CAPO XVI
CAPO XVII CAPO XVIII NOTE

ELOGIO STORICO

DEL CAVALIERE

GAETANO FILANGIERI

COMPOSTO DA S. E.

Il Ministro DONATO TOMMASI

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La Famiglia Filangieri è contemporanea tra noi all'origine della nostra Monarchia. Venne essa con que pochi generosi Normanni, che mossi da' freddi campi della Neustria, senza gente e senza soccorsi conquistarono col solo valore del loro braccio queste nostre contrade. Tuccel fu uno de' quaranta famosi compagni, che verso il cominciare dell'undecimo secolo vennero la prima volta in queste regioni. Angerio figliuolo di Tuccel fu compagno del conte Ruggiero in tutte le sue gloriose conquiste, e fu quindi dal medesime di più feudi investito I discendenti di Angario furon distinti coll'aggiunto di filii Angerii, ad oggetto di far riflettere su loro la gloria, che nasco va dalla ricordanza di questo illustre guerriero, ed a tal modo surse il cognome Filangieri.

Ebbe questa Famiglia una lunga serie di uomini chiari per dimestiche e per civili virtù, e sotto il regno de' magnanimi Svevi e degli Angioini pervenne al più alto grado di splendore e di opulenza (1). Ma una legge della regina Giovanna II (2) alterando l'ordine della successione feudale, preferendo la sorella del defunto vassallo al zio paterno di essa, fece passare la maggior parte de' feudi di questa famiglia in quella del famoso Sergianni Caracciolo. Non restò allora alla famiglia Filangieri che un solo feudat, il quale oggi da essa tuttavia si possiede; ma le restarono sempre le più luminose vestigio dell’antica grandezza Continuò essa a venire annoverata tra i quattro primi Baroni del Regno, e conservò inalterabilmente nel suo seno una nobiltà sempre pura per le sue virtù, sempre utile per li suoi servizj, sempre gloriosa per li suoi impieghi e per le sue parentele.

Ma che vagliono le famose immagini degli avi nella storia di un filosofo? che cotta luce della sua propria gloria rese debole quella della sua nascita? Arrestiamo i nostri sguardi su Gaetano Filangieri) e lasciamo nell'elogio Ai un genio superiore tutto ciò che dovrebbe concorrere a formar l'elogio di un uomo volgare.

Nacque Gaetano Filangieri in Napoli a' di diciotto agosto dell’anno 1762. di Cesare principe di Arianiello, e di Marianna Moltalto dei duchi di Fragnito. Fu egli terzogenito tra i suoi fratelli, e venne da' genitori destinato a servir lo Stato colle armi. Avviato fin dall’età di cinque anni per la carriera militare nel 175, trovavasi già decorato del grado di Alfiere nel Reggimento di Sannio 5 ma non prese a servire se non che nell’anno 1766.

Erasegli intanto cominciata a dare fin da' primi anni quella istituzione che, secondo la volgar consuetudine, si credea più adattata alle circostanze dell’età sua. La lingua latina, presentata con quell’ispida farragine di rudimenti grammaticali, che tanto arresta i primi paesi de' migliori talenti, produsse nel Filangieri somma avversione allo studio. Questa nausea, ed alienazione decisa, ch’ei dimostrava, fece credere sul principio a coloro, che non ne vedevan la vera ragione, che l’ingegno di lui non fosse atto a verun genere di letteraria applicazione. Ma un accidente mostrò quanto essi ingannavansi, e di quanta fecondità era quel terreno fornito, che da essi sterile del tutto si riputava. .

Ripeteva al maestro uno de' suoi fratelli maggiori la dimostrazione di una proposizione del primo libro di Euclide, quando, avendone smarrita la traccia, Gaetano che si trovava ivi presente, e che, quantunque non ammesso ancora a quegli studj, pure ne ascoltava attentamente le lezioni, lo avverti dell'errore, e lo rimise in istrada. Si conobbe allora onde la noia per lo studio nel Filangieri nascesse, e concependosi di lui altissime speranza, fu rivolta a più utile metodo la sua letteraria istituzione.

Io non intendo arrestarmi sul dettaglio e sul corso di questa. Nelle anime straordinarie, negli uomini di genio fa mestieri considerare soltanto quell’educazione ch'essi danno a se stessi, e che sovente consiste nella distruzione della prima. Il Filangieri, già infiammato nell’età di diciassette anni di grand’amore per le scienze, volle lasciare il servizio militare, per consagrare unicamente alle lettere ed alla filosofia. Allora fu che cominciò la sua vera istituzione; ed allora fu che i rapidi progressi del suo spirito fecero sembrare, ch'ei divenuto grande ad un tratto non passasse per que’ gradi, che alla comune debolezza ha la natura segnati.

Vide egli allora, che tutte le scienze si porgon vicendevolmente la mano, ed ha ciascuna la sua parte nell’ampliare le idee, nel moltiplicarne le relazioni, nel formare in somma Fumano intendimento, e nel perfezionarne le forze. Conobbe quanto grave errore egli sia il volersi concentrare in un solo oggetto, e negligentare i tanti altri rami delle umane cognizioni. Ravvisò che la mente di un filosofo deve abbracciare tutto e tutto vedere; che tutte le verità concorrono ad unirsi in pochi punti comuni; e che la vera e solida filosofia è riposta nella cognizione di questi punti comuni, di queste verità universali, e della catena che ci presenta le loro moltiplici, e grandi relazioni.

Quindi il genio nascente del Filangieri percorse per tutti l'campi dell’umana sapienza. Resasi vie più famigliare la lingua di Omero e di Demostene, e quella di Cicerone e di Orazio (3) cominciò fin da quel tempo a meditare sugl’illustri monumenti del Greco, e del Romano sapere, che la forza distruttrice del tempo Ci ha pur conservati. L’Istoria non fu più per lui una sterile lettura diretta a render grave la memoria, ed opprimere in conseguenza l’ingegno. Essa conducendolo all’ampia cognizione di tanti popoli e di tante nazioni, gl’insegnò a rettamente giudicare degli nomini, delle loro azioni, de' progressi, e dello stato de' loro lumi, e delle loro scoverte, e non meno degl’intrinseci e necessari, che dei fattizi ed accidentali rapporti delle loro società. La scienza di Euclide e di Archimede, che mentre ci disvela le proprietà generali della estensione figurata, e c’insegna a calcolare le diverse relazioni delle sue parti, ci comunica quello spirito di combinazione, che forma la base ed il più saldo fondamento di tutte le scienze; l’Algebra, lingua taciturna, che rappresenta con pochi segni un’innumerabile serie di pensieri, guida fedele, che colla benda sugli occhi ci conduce alla scoverta de' più ascosi misteri della natura, e ci apre finanche le porte dell'infinito; le Matematiche tutte, e pure, e miste, senza il di cui alimento il genio rimane infecondo, né può a nobile ed eccelso segno levarsi; la Metafisica la più pura e sublime, la più lontana dalla in temperanza delle vane sottigliezze e de' chimerici sistemi, e la più conducente alla contemplazione della prima cagione, e delle leggi generali di quell'ammirabile economia che regna nell'universo, e che da tutte le parti ci circonda e ci sorprende; tutte in somma le facoltà, e le discipline tutte figlie della ragione formavano l'oggetto degli studj del giovane Filangieri e della nuova educazione scientifica ch'egli dava a se stesso.

Nell’età delle passioni e de' desiderj, lontano dal tumulto e dalla dissipazione de' piaceri, l'amore della verità era la sua sola passione, e le nuove istruzioni formavano il suo fervente desiderio. Aggiungendo la propria riflessione a quella degli altri, congiungendo all’avidità del sapere ed all’assiduità della lettura i calcoli della propria ragione, quali progressi ei non fece nella grand'arte delle profonde meditazioni? in quest'arte tanto necessaria al filosofo, tanto ignota agli spiriti volgari, e tanto straniera all’uomo, quanto è possente in lui l’invecchiato impero dell'autorità, e la lunga abitudine di una cieca e servile dipendenza?

Pur la meta delle sue meditazioni e de' suoi studj eran la Morale, la Politica e la Legislazione, la Scienza, in somma, del Diritto, presa nell’ampia e vera significazion sua. Queste parti della Filosofia, che intendono più direttamente alla felicità degli uomini, e che sono le più degne per l’importanza loro e per la loro sublimità, eran quelle, alle quali il Filangieri veniva ardentemente trasportato dalla forza del suo ingegno combinata con quella del suo cuore. Analizzando l'uomo indipendentemente? dalle Leggi positive, deducendo dalla sua Stessa natura i principi del giusto e dell’ingiusto, paragonane do insieme le leggi delle nazioni antiche e moderne, studiando que’ codici, che son riguardati dalla moltitudine come i capi d'opera della sapienza civile, egli, senz’avvedersene, già preparava i vasti materiali, che dovevano un giorno servirgli per innalzare il gran tempio alla felicità del genere umano. Il suo spirito già era agitato da un salutare fermento. Già egli vedeva l’imperfezione e la poca opportunità di quelle leggi, che dirigono la maggior parte delle nazioni di Europa; ed il suo genio già cominciava a formare il sublime disegno d illuminare l’umanità, di migliorarla, di renderla felice, con rivolgerla alla cognizione de' suoi veri diritti, ed alle più utili ed interessanti ricerche.

In fin dall’anno 1771, e nell'età di soli anni diciannove, meditò egli il piano di un’opera intorno alla pubblica, e privata educazione, che a diritta ragione e’ riguardava come la pietra fondamentale de' costumi e della legislazione, come quel rispettabile ministero, che dirigendo i primi moti dell'anima, e formando il carattere, giunge spesso nelle nazioni intere a correggere l'avvenire e come quella, senza di cui la prosperità degli stati, ed il loro splendore, non è che precario, parziale ed incerto. Uno de' più celebri letterati del Nord, lo Svedese Giacomo Giona Bjoerustachl, che con altri coltissimi suoi compatriotti fu in Napoli circa quel tempo, avendo conosciuto ed ammirato il giovane Filangieri, fe’ onorata menzione di lui nell'eleganti lettere, colle quali descrisse i suoi viaggi, ed aggiunse che il medesimo trovavasi già travagliando all'opera anzidetta (4).

Ma quest’opera non fu condotta al suo fine, come del pari non fu terminata un’altra opera alla quale indi si volse, e che avea per oggetto la Morale de Principi fondata sulla natura sull’ordine sociale, se non che si valse egli delle speculazioni profonde fatte su questi argomenti, allorché intraprese e prosegui la grande opera della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, di cui a suo luogo ragioneremo. Basterà per ora notare, che i tentativi delle due opere anzidette si debbono riguardare come i gradini, per li quali il cavalier Filangieri montava in questo tempio della sapienza, e come la base, su cui elevò poscia il maestoso edificio.

Intanto nell’anno 1774 la tranquillità de' suoi studj fu per breve tempo interrotta. Il voler de' suoi, che intendevano incamminarlo alla magistratura ed a politici onori, lo trasse al Foro ed al mestier di Avvocato. Non eran più allora i nostri Tribunali in quello stato di squallore odi barbarie, in cui eran lunga stagione giaciuti per la spessa nebbia dell'ignoranza de' tempi passati, e per lo spirito di cabala, di raggiro a d’intrigo ispirato in queste pacifiche e felici contrade dalla diffidente politica del governo Viceregnale. Non più, come ne' secoli scorsi, la scienza de' casi, delle opinioni, delle distinzioni, delle limitazioni, e la giurisprudenza de' Consigli, delle Risoluzioni e delle Decisioni formavano tutto il sapere forense e l’apice delle cognizioni della nostra Magistratura. La luce della coltura fin dagli ultimi anni del secolo passato era penetrata nel Foro per opera del facondissimo Francesco d’Andrea, e degl’illustri discepoli suoi. L’erudizione, ed il buon senso legale congiunto alla solidità del ragionamento ed alle grazie dell’eloquenza italiana, erano il degno patrimonio di molti Avvocati di quel tempo, e dì alquanti Magistrati eziandio. Pur tutta volta questa stessa coltura del Foro mancava in generale di quello spirito filosofico, che solo può fecondare ed ingrandire la mente. Le sue vedute nella scienza del diritto non erano né profonde, né universali, né estese. Contenta d'interpetrare colla perizia delle antiche lingue, e colla scorta della Storia, e de' contemporanei costumi i frammenti della Ramana Giurisprudenza, prestava a questa un coito di adorazion rispettosa. E se talvolta volea mostrare d’innalzarsi alla filosofia della legge, il suo volo si arrestava alle opere del Grozio, del Seldeno e del Puffendorff, autori, che o fan gemere sotto il peso di una gravosa erudizione, o ben poco spargono del lume salutare della ragione.

Questo era lo stato del nostro Foro, allorché venne in esso il cavalier Filangieri. Non eran che pochi di trascorsi, quando fu pubblicata la legge del Ragionamento delle Sentenze. Questa legge, diretta a restringere ne suoi giusti limiti il potere de Magistrati, a restituire nel suo pieno vigore l'impero delle leggi, d a riparare uno de' più gravi disordini, che accompagnavano l’amministrazione della giustizia tra noi; questa legge, che fu soggetto di molte dispute e di molti ragionamenti, fu quella che diede occasione al giovine filosofo di dar fuori il primo saggio pubblico de' suoi talenti superiori.

Dopo la gloriosa conquista di Carlo Borbone, cui la nazion nostra deve un’eterna riconoscenza, questo Regno, comeché fosse ridotto dallo stato infelice di Provincia a quello di florida Monarchia, tuttavolta serbava ancora le orme funeste di quei tanti mali, che lungamente l'avean lacerato ed oppresso. Le provide cure di quell’Augusto Sovrano, e quelle del suo gloriosissimo Successore eran tutte rivolte a togliere i germi di questi mali, ed a prevenirne le triste cagioni. Assistiti amendue dal marchese Tanucci, da quel savio ministro, il cui nome onora il secolo, e gli annali politici de' nostri tempi, le loro leggi, le loro utili innovazioni eran tutte guidate da chiaro lume di civile prudenza, ed eran tutte dirette a ricondurre questi popoli alla loro antica grandezza ed al primiero splendore.

Uno de' principali oggetti, cui il marchese Tanucci intendeva di recar riparo, erano i vizj dell’ordine giudiziario, ed i difetti tutti della nostra Legislazione. Bramava egli una forma di giudizj, ne lasciasse da una parte alla verità tutti i soccorsi necessari per farsi conoscere, e per istabilire i suoi dritti, e togliesse dall’altra la lunghezza delle vane formalità e degli artifici, che uomini nemici dell'ordine e della giustizia hanno inventato per oscurar la ragione, ed eluder la legge. Aveva egli ben anche tentata la compilazione di un nuovo Codice, in cui con precisione e chiarezza venissero allogate le nostre leggi, restandone risecate le superfluità, tolte le incertezze, e conciliate le contradizioni (5). Ma, qual che la cagion se ne fosse, tutti questi grandi disegni eran rimasi vuoti di effetto. Nell’incertezza di vederne il compimento, il marchese Tanucci non tralasciava di proporre al Sovrano i più opportuni rimedj per li mali più gravi, e per li più patenti disordini ch'egli scorgeva nell'amministrazione della giustizia.

Tra questi ei ravvisò che i maggiori nascevano dall’arbitrio de' Magistrali, il quale aveva da più tempo stabilito il suo trono ne' nostri Tribunali. Il ministero della facoltà decisiva ad altro non dovrebbe aggirarsi che ad un puro sillogismo j la cui maggiore fosse nel Dritto, la minore nel fatto, la conseguenza nel decreto. Se dunque è chiara la volontà della legge, non rimane alla logica giudiziaria altra funzione che quella di verificare le circostanze del fatto, da cui agevolmente deriva la conseguenza legale della sentenza. Ma, se manca la legge, o il suo senso è affatto dubbio ed equivoco, il giudice lungi dall’arrogarsi una facoltà interpetrativa, che non gli appartiene, deve ricorrere al sovrano oracolo dell’Autorità imperante, ch'è l’unico legittimo interpetre delle sue positive determinazioni.

Tra noi tutto il contrario avveniva. L’immensa moltiplicità delle nostre leggi, l'oscurità che regna nella maggior parte di esse, sarebbero state cagioni bastanti ad introdurre e stabilire l’arbitrio giudiziario. Ma a queste si aggiunse la giurisprudenza de Dottori, la di cui autorità fu spesso, in preferenza della legge medesima, rispettata nel Foro. Si aggiunse un pernicioso spirito di mal intesa equità, cui si accordava il diritto di corregger gli eccessi della legge e di temperarne il rigore. Non vi era quindi sconcia interpetrazione, che non avesse un’ampia schiera di Dottori in suo sostegno, non mostruosa opinione, che non fosse abbracciata come legittima figlia dell'equità. Alla certezza della legge fu sostituito un nero e torbido probabilismo, che favoriva grandemente l’arbitrio de' Magistrati e ne ampliava l’impero. Garantiti dalle dottrine forensi essi potevano estendere, restringere, interpetrare a lor talento la legge, e ne potevano spiegar il dettame; o a seconda del loro guasto modo di ragionare, o a seconda delle loro private passioni.

Questo abuso, ch'avea messe profonde radici nel Foro; era seconda cagione di sommi vizj nell'amministrazione della giustizia. Col dispaccio del 1774. si cercò di estirpare l’arbitrio giudiziario, e di togliere a' Magistrati tutto ciò che li rendeva superiori alle leggi. Fu per tanto ordinato, che tutte le liti si dovesser decidere secondo un testo espresso di legge; che, quando questa non fosse chiara, l’interpetrazione se ne facesse da' Giudici in maniera, che le due premesse dell’argomento fossero sempre fondate su le leggi espresse; che, quando il raziocinio non potesse in questo modo condursi, o la legge interamente tacesse, allora se ne dovesse implorare la spiegazione o il supplemento dall'Oracolo della legge vivente; che l’autorità de' Dottori fosse affatto sbandita dalle giudicature; e che il Magistrato dovesse esporre in istampa la ragion legale, su cui fondava la sua sentenza.

Una legge cosi salutare ricevè l'accoglienza e gli applausi de' soli filosofi. Il volgo e la turba forense la riguardò come una perniciosa innovazione. Per altro non era questa la prima volta che le utili riforme, e la libertà istessa parvero insopportabili alle nazioni, quando, per istabilirle, bisognò estirpare alcuni disordini, che il tempo, e l’interesse di alcune classi potenti avean consacrati. Uno de' supremi nostri tribunali, geloso di deporre l’ingiusta prerogativa, rappresentò al Sovrano varj dubbi, che diceva che questa legge incontrasse. Ma la saviezza del Re non attese tai dubbj; inculcò l'esatta osservanza della nuova legge; e la subordinata autorità giudiziaria dové acchetarsi all'augusta voce dell'autorità Sovrana.

In mezzo a questo strepito forense, mentre che tanto si parlava di questa legge, e mentre che pochi ne inteudevan lo spirito, il Filangieri innalzò la sua voce, e pubblicò un picciolo libro intitolato: Riflessioni Politiche sull'ultima legge Sovrana, che riguarda l'amministrazione della giustizia (6). In questa operetta scritta nello spazio di pochi giorni egli volle dimostrare al pubblico la grande utilità, che dalla nuova legge proveniva. Divise questa dimostrazione in due parti.

Nella prima fece vedere come tutte le disposizioni della nuova legge eran dirette a proteggere la libertà sociale. Questa libertà, la quale è composta dalla sicurezza e dalla opinione della sicurezza medesima; questa libertà, in cui siffatti oggetti sono cosi strettamente uniti tra loro che non si può separar l’uno dall'altro, senza distruggerla tutta; questa preziosa libertà non si rinviene se non che nell'esatta osservanza de' patti sociali nelle leggi compresi. Quanto dunque è maggiore il vigor delle leggi, tanto è maggiore la libertà civile; e quanto è maggiore l’arbitrio giudiziario, la cui forza direttamente si oppone al vigor delle leggi, tanto è minore la libertà medesima. Or, come mai potrà mantenersi questa libertà, come potrà ottenersi la necessaria opinione di essa, quando la tranquillità del cittadino può essere ad ogn’istante turbata dall’ignorante, o venale interpetrazione del Magistrato? Lasciandosi adesso l’arbitrario diritto d’interpetrare, la legge non serberebbe quella uniformità e quella uguaglianza, ch'è tanto necessaria a produrre la libertà sociale. La volontà del Legislatore, ehè una, verrebbe in tanti modi spiegata, quanto sono diverse le combinazioni delle idee di ciascun Magistrato). La costituzione istessa del nostro Governo ne verrebbe grandemente scossa ed urtata. La diversa distribuzione della facoltà legislativa e della esecutiva, che accompagna la natura ck’ governi moderati, e le differenti serie di dritti e di prerogative, che partono da queste diverse facoltà, e che son di loro natura incomunicabili tra di esse, sarebbero confuse e turbate.

Da questi princìpi trasse il cavalier Filangieri la dimostrazione dell’utilità della nuova legge, e col lume degli stessi principi mostrò la saviezza della medesima nel prescrivere ai Giudici di render ragione della loro sentenza, deducendola dalle sole leggi, e di pubblicare la sentenza ed il ragionamento in istampa. L’idea di un pubblico intero, che inesorabile nei suoi giudizj esamina le decisioni de' Magistrati, non solo accresce la confidenza de' cittadini, ma richiama ben anche a maggiore attenzione l’esercizio di un ministero da cui in gran parte dipende la sorte e la felicità dello Stato.

Ma non si sarebbe tolto l’arbitrio giudiziario, se non si fossero sbandite le opinioni e le autorità de' Dottori. Eran esse quelle che principalmente lo proteggevano, e il nascondevano. La diversità delle loro interpetrazioni, le tante loro eccezioni, ed ampliazioni avrebbero sempre somministrato al Giudice un velo da covrire le sue arbitrarie decisioni, ed il mezzo più efficace da eludere il vero senso delle leggi.

Nella seconda parte di questa operetta il Filangieri si volse a dileguare le obbiezioni, che riguardo all'esecuzione della nuova legge si promoveano dal sofisma e dal libertinaggio forense. Egli dunque dimostrò che per effetto di questa legge il corso de' giudizj, lungi dal divenire più lento, sarebbe di molto accelerato; e che una riforma diretta a ristabilire il vigor delle leggi, ed a render sicuro e preciso quel Diritto, che la barbarie degl In ter pe tri avea reso equivoco, ed incerto, dovea diminuire di molto il numero delle liti. Dimostrò che, quando anche dovendosi in tutti i dubbj ricorrere all'autorità suprema, si fossero maggiormente moltiplicate le leggi particolari, pure la loro moltiplicità sarebbe un male infinitamente minore di quello che nasceva dall'accordarsi a Magistrati il diritto di decidere de' casi non compresi nelle leggi. Divisò che un mezzo da evitare questo accrescimento di leggi particolari, sarebbe la creazione di una Magistratura di Censori, a quali fosse affidata la cura di proporre al legislatore i modi da generalizzare le leggi, rendendole applicabili a quei casi che aveano sfuggito il loro sguardo primitivo, e di esaminare di tempo in tempo quali sieno le leggi che dovrebbero essere abrogate, perché divenute inutili, o perniciose per li necessari e costanti rivolgimenti dello stato sociale. Finalmente rifletté, che le antimonie e le contradizioni nelle leggi venivano di leggieri conciliate per le note regole dell'arte critica legale, e che il Re non avea proscritto la lettura e lo studio degl'lnterpetri, ma avea soltanto vietato che la ragion di decidere fosse fondata sulla loro opinione ed autorità.

Questo librò, che fece la prima volta sentire nel Foro il sacro linguaggio della vera filosofia, ricevé il concorde plauso di tutti i buoni e letterati ingegni del paese, i quali mirarono in esso le prime scintille di quella luce, che dovea tra non molto tempo illuminare l’Italia e l’Europa. Il marchese Tanucci fu quest’opera dall'Autore indirizzata, riguardò con sorpresa tanto sapere in cosi giovine età, e fece alla patria i più lieti presagi, per la sorte di possedere un si raro e straordinario talento.


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Ma gli uomini grandi nascono tutti con una specie d’istinto, Che prima insensibilmente li dispone, ed indi apertamente gli strascina a cose grandi in tutti i punti della lor vita, facendo ad essi sormontare coraggiosamente gli ostacoli delle circostanze, e disprezzare i calcoli e le speranze della fortuna. È questo un arcano della natura, impossibile a spiegarsi, ma di cui la storia de' progressi dello spinto umano ci dimostra frequentemente gli effetti. Il Filangieri destinato dalla Provvidenza ad essere l’interpetre della verità e della ragione, ad essere il ministro della felicità e della virtù delle nazioni, non doveva arrestarsi nell’oscuro e tumultuoso vortice de' nostri tribunali. La discordia e la contenzione forense mal poteano combinare col suo spirito filosofico e tranquillo. Qual alimento potea rinvenire la sublimità della sua mente nella picciolezza di’ particolari interessi, che formano tutto il grande oggetto del nostro Foro? Egli dunque fuggi da questa strada, che tra noi, mentre conduce alle dignità ed agli onori, apre un’ampia tenebrosa voragine, che inghiotte miseramente e soffoga i migliori talenti della nazione

Persuaso che i veri mezzi da soddisfare alla società ciò che le dobbiamo, son quelli di acquistare tutta la perfezione, di cui son suscettibili il nostro spirito ed il nostro cuore, e d’impiegare in pro de' nostri simili le forze e le qualità acquistate; persuaso, che questo sacro dovere è di accordo col sentimento di compassione che noi troviamo nel fondo del nostro cuore, come la prima di tutte le impressioni morali; spinto da un vivo amore per l'umanità, fiamma celeste che vivifica, alimenta e riscalda le anime grandi ed elette, il Filangieri ubbidisce alla voce segreta della sua sublime destinazione, e s’immerge nuovamente ue’ più penosi travagli della meditazione e dello studio. Non lo distraggono dal suo costante proponimento i piaceri, le debolezze e gli errori, che accompagnano ordinariamente i fervidi anni di giovinezza, e che concentrando in questa età sopra noi stessi tutta la nostra attenzione, sembra che ristringano tutto l'universo al nostro solo individuo. Non lo distolgono i contemporanei esempi di tanti altri nobili,, che addormentati sotto le vecchie immagini de' loro antenati, orgogliosi di un nome che spesso disonorano, nudriti d’ignobile ozio, e paghi di pompose leggerezze disprezzano il vero merito, ed a scherno prendono la letteratura. Filangieri è esente dall’impero de' primi, deplora il tenebroso stato dei secondi, e cercando di entrare in altri più chiari ordini di nobiltà, tra le famiglie si ascrive de' filosofi e de' maestri, e dei savj del mondo, a cui con più alta ragione il sublime suo spirito si apparteneva. Costanza indicibile di osservazioni, vigor sommo di ragionamenti, e filosofico ardire son le fide ministre che da questo istante lo accompagnano ne' gravi suoi s(udj, e che svelandogli l’errore delle opinioni e de' pregiudizi consacrati dal tempo, lo innalzano a nuove verità, ed a più sublime e riposta dottrina. Lontano da quelle frivole cognizioni, che sol producono vento di fama gonfia presso il volgo imbecille, divenne egli ben tosto il custode (Fogni utile genere di prisca e di moderna sapienza.

Tratto dalla sua somma sensibilità a volgere incessantemente lo sguardo sopra i diritti, ed i doveri degli uomini e della società, formava di essi il principale oggetto de' suoi studj e delle sue filosofiche speculazioni. Queste scienze, le quali tendendo alla nobile rigenerazione della specie umana, portan seco quel vivo interesse, che accresce nelle anime ben formate la forza della beneficenza, e che fa loro trovare i più puri e sublimi piaceri nella pratica delle virtù sociali ugualmente che nella teoria delle interessanti idee che le riguardano; queste scienze, che richieggono, per consentimento di tutti i savi, maggior perfezione delle altre e che sono perciò le più degne di occupare gl’ingegni migliori, eran sempre le più analoghe allo spirito del Filangieri e gli divenivano di giorno in giorno più care.

Nel corso delle sue meditazioni avea egli veduto che la Legislazione di Europa, in vece di essere un chiaro lume, che rispondendo innanzi agli sguardi de' cittadini, ne assicurassi la tranquillità, ne sostenesse i diritti, e ne guidasse le azioni, non presentava da per tutto che un uniforme edificio, un ammasso di ruine accumulate dal tempo e. dal caso, un oscuro labirinto in cui si smarrivano gl'incerti passi degli Uomini. Aveva egli veduto nell'istoria delle nazioni l'innocenza e la virtù sempre calunniate, ed oppresse dall'ingiustizia e dal delitto. Avea veduto che tanti Imperj stabiliti colla forza e sostenuti da erronei principi, sparivan subito per dar luogo ad altri Imperj fondati sull'istessa base, e soggetti a subire la stessa sorte. Aveva veduto che l’uomo si aggirava con sicurezza in mezzo alle tenebre, e che, in vece di tornare indietro, e di purgare il suo spirito da tutte quelle idee perniciose che opprimono i sentimenti della natura, egli s’immergeva maggiormente e si ravviluppava nel bujo. Avea veduto che la verità, comeché fossa sulla terra ed in mezzo a noi, pure la sua bellezza ci era ancora nella maggiore e più interessante parte nascosta da un denso velo, di cui il corso di tanti secoli l'avea ricoverta. Avea veduto che nello stato attuale delle civili società, ogni giorno rallentavano maggiormente i nodi sociali, ed ogni giorno vie più si obliavano le sacre nozioni degli antichi e rispettabili nomi di Umanità e dì Patria. Aveva in somma veduto in tutta l’ampia estension loro la turba immensa di errori, e l’infinita schiera di mali, che circondano questo globo infelice. A quest’orrida vista il giovine filosofo crasi arrestato. Un torrente di lagrime gli era caduto dagli ocelli. Aveva egli pianto sulle sventure de' suoi fratelli; e da questo momento non era più stato l’involontario complice de loro delitti, lo spettatore ozioso delle loro miserie, il testimonio imbecille delle loro ingiustizie.

In questo prezioso momento aveva il Filangieri formata la magnanima risoluzione di ristabilire su i loro inalterabili fondamenti i dritti della natura contaminati e guasti per tanto tempo dalla ferocia delle antiche costumanze, e dall’inconseguenza delle moderne istituzioni, di combattere i principi distruttivi dell’ordine sociale, d’istruir gli uomini sopra i loro veri interessi, di sviluppare ad essi l’ordine semplice e costante de' loro rapporti morali e civili, di spargere in somma le più utili verità sulla terrà, di stabilirvi la pubblica e la privata felicità, e di perpetuarne la durata e l’impero. A questa coraggiosa risoluzione dovete, o mortali, la maggior parte declami migliori di cui oggi godete, e dovrete forse i giorni tranquilli di cui goderete in appresso.

Per ottenere il grande oggetto, che egli si era proposto, ìl cavalier Filangieri determina di ridurre la Legislazione all'ordine, al nesso ed all’unità di teoria e di Scienza. Si prefigge quindi di scrivere per tutti i paesi, per tutti i popoli e per tutti i tempi, e di fondare il suo sistema su i cardini eterni dell’universale e del perenne, L’immensità della carriera che doveva a tal uopo percorrere, non lo spaventa. La face luminosa del genio gliene mostra la strada, ed il costante amore della umanità sostiene il suo coraggio nell'eccelsa intrapresa. Ah! perché non son io da un raggio almeno di quella luce rischiarato, che guidò il Filangieri ne' più segreti penetrali della ragione e della filosofia? Non sarebbe allora una temerità il seguirlo nell’ascoso e difficile cammino, ed il mostrare gli uomini il metodo sublime, secondo dì cui avanzava i suoi passi nell'interessante lavoro. Potrei io allora additarlo tutto intento a raccogliere con diligente cura e con avido affetto gli sparsi tesori della prudenza de Legislatori di ogni gente, e de' Giureconsulti e de' Filosofi di ogni nazione. Potrei mostrarlo fermarsi su i più grandi monumenti della politica sapienza, sulle opere immortali di Platone e di Aristotile, d in esse non appagarsi del risultato solo delle loro profonde dottrine, ma rimontar sempre a' loro principi, ed aprimi anelli dell’aurea catena de' loro pensieri. Potrei additarlo registrare con istancabile studio tutti questi principi, a' quali egli dava il nome di Aforismi politici, e di cui fortunatamente si è rinvenuto tra le. sue carte un brevissimo saggio (7). Potrei finalmente additarlo giugnere fino all'ultima serie delle verità primordiali della Scienza Legislativa) e dedurre da esse con pochi sguardi la folla immensa delle verità subalterne. Ma una mano profana non può diradare quelle tenebre sacre? che circondano gli uomini grandi nel progresso del loro spirito alla scoverta del vero. Più rispettosi verso i travagli di una sublime intelligenza contentiamoci soltanto di vederne da qui a poco i luminosi prodotti.

Mentre il cavalier Filangieri trovavasi immerso in queste fatiche, avvenne che suo zio monsignor Serafino Filangieri, dopo essersi grandemente distinto nel governo dell'Arcivescovado di Palermo, ed ivi condottosi ca sommo accorgimento e prudenza in più gravi e scabrosi affari, fu trasferito all’Arcivescovado di. Napoli. Era stato. costui monaco Cassiuese, e fornito di non volgare ingegno aveva in sua gioventù insegnato Fisica sperimentale nella Cattedra ordinaria della nostra Università, ed avea ben anche occupata la rispettabile carica di revisore. de' libri che ci vengon di fuori, nella quale a somma lede tornavagli l’aver seduto affianchi del Delegato della Real Giurisdizione marchese Friggi anni, magistrato di acre giudizio;, di. consumata prudenza; e di eminente dottrina. Se a differenza de' tanti suoi, predecessori non fu all'Arcivescovo Filangieri conceduta la Porpora Cardinalizia, avvenne ciò per ragioni le più. gloriose ad un buon cittadino e ad un rispettoso vassallo, e tali che faranno certamente. narrate dalla storia civile de' nostri tempi, quando sarà perduta la collisione de' particolari interessi, e quando al racconto degli effetti si potranno aggiugnere le tracce delle loro cagioni.

Or quest'uomo rispettabile, e degno per più titoli dell'affezione e della stima del cavalier Filangieri, fu quelli che lo spinse ad adempiere uno de' principali doveri del suo rango, e ad intraprendere il servizio di Corte. Fu dunque il Filane gieri nell’anno 1777. ricevuto in essa in qualità di Maggiordomo di settimana di S. M. e di suo Gentiluomo di Camera. Quasi nello stesso tempo fu dichiarato Uffiziale del Real Corpo de' Volontari di Marina, nel quale erano allora allogati tutti quei nobili, ch'eran destinati a circondare più da vicino e più frequentemente la sacra persona del Principe. Il cavalier Filangieri, contento per queste nuove. decorazioni di ammirar più dappresso le virtù di due Sovrani pieni di religione, di umanità e di giustizia, impiegava tutto il tempo a' suoi doveri sopravanzante nel proseguimento de' suoi letterarj lavori, e nel condurre a fine i due primi volumi della grand’Opera, su cui trovavasi travagliando. Conservò egli in mezzo alla Corte inalterabilmente una rigida ed austera condotta di virtuoso ed innocente costume. Nemico di tutto ciò che può fomentare una perniciosa mollezza, forzando la notte a restituirgli quel tempo, che il giorno per li doveri e per le convenienze rapito gli avea, continuò a serbare colla filosofia un commercio sublime, e tanto più raro, quanto questa Divinità è più nemica del tumulto, e. quanto è più amante della tranquillità e del silenzio.

Ma siam già vicini all’epoca, in cui il cavalier Filangieri cominciò a pubblicare la sua SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE. Per distinguere quindi la linea, dalla quale egli partissi, e quella alla quale pervenne; per vedere cosa mai ricevé dal suo secolo, e cosa vi aggiunse; per determinare questo punto, che e forse il più interessante nella storia letteraria degli uomini grandi, richiamiamo alla nostra memoria lo stato in cui erano le scienze Morali e Politiche, allorché fu data fuori quest’opera immortale.

Poiché cominciarono a sgombrarsi Le folte caligini di barbarie e d’ignoranza, che aveano per più secoli, coverta V. Europa, ed una luce novella scosse gl'ingegni dall'antico letargo, gl’Italiani furono i primi a. levar. la testa nel mondo letterario, e furono in ogni cosa i primi maestri delle altre nazioni. Pur la rinascente coltura segui 0 Italia il progresso, e l'ordinario sviluppo dello spirito umano. L’erudizione e le bell’arti, il regno in somma della memoria e della immaginazione procedé. Quello della filosofia, e la maturità della severa ragione. Le prime dottrine, che t'innalzarono indi sulle vane sottigliezze della Scolastica, furono le Platoniche, alle quali seguirono i nuovi sistemi de' Campanella, de' Telesi, dei Cardani, e di altri grandi ingegni di quella stagione, che forniti di sommo acume aprirono l'adito alla vera filosofia, e cominciarono a squarciare il velo de suoi più augusti misteri. Tuttavolta, delle dottrine di Platone fu illustrata e promossa la sola parte metafisica, lasciandosi in oblìo quella che riguardava le Scienze Politiche. E del pari, le sublimi cognizioni degli additati filosofi non si estesero a quella parte delle cose civili, che sola può condurre le nazioni ad utile ed efficace coltura. L’universale servitù degl’ingegni, figlia della regnante superstizione, l’esistenti reliquie di un’anarchia non ancora distrutta, ed altre note circostanze politiche opponevano a queste Scienze una barriera, che sembrava insormontabile. Il solo Machiavelli ardì slanciarsi a traverso gli ostacoli, che per ogni parte lo circondavano; ma furon particolari le vedute di questo filosofo, il quale, ciò non ostante, può stare a lato de più grandi Politici dell’antichità. Le sue dottrine furon empie ed abbominevoli, se pure non vogliamo riguardarle come dirette ad istruire obbliquamente i popoli nei dettami della forza e della frode de' tiranni.

Intanto, comunicata dall'Italia al resto dell'Europa la luce del bello e del vero, furono la Politica e la Morale successivamente illustrate in Inghilterra dal cancellier focone, gran maestro in filosofia civile, e grande maggiormente per le lezioni, che diede agli uomini sull'avanzamento della Scienza universale; dal Locke che, dopo avere analizzato l’umano intendimento, dopo aver dileguato tutti gli spettri dell’immaginazione, analizzò ben anche la complicata macchina della Società Civile; e dal Shaftesbury il quale per altro innalzò troppo la natura dell'uomo, supponendo in essa l’istinto della virtù, dopo che l’Hobbes l’avea troppo degradata, supponendo in essa l’istinto del vizio. In Francia il Montagne avea penetrato co suoi sguardi nel fondo del cuore umano, ne avea sorprese tutte le più strane attitudini, e le avea dipinte con uno stile originale ed energico. L’Elvezio in questi ultimi tempi avea considerato l’uomo in tutto il corso di quello sviluppo, che vien dato al suo spirito ed ai suo cuore dalla forza dell’attardo a dal complesso delle circostanze morali in cui si ritrova. Il Rousseau, dopo avere scoverto nella ineguaglianza degli uomini e nel loro patto primitivo i primi anelli della catena sociale, e la gran base della Morale e della Politica, avea accompagnato l’uomo ne primi passi della vita, ed avea dettato le leggi della sua educazione. Il Montesquieu, poco prima del Rousseau e dell’Elvezio, area tentato di determinare la natura e la differenza di tutte le leggi finora esistenti per gli rapporti, che hanno col carattere degli uomini, colla natura dà’ differenti climi e colle diverse costituzioni di Governo: ma l’inesattezza della maggior parte delle sue idee, l'irregolarità delle parti, ammirabili spesso in se stesse, e non costituenti un sol tutto; lo spirito di sistema, per cui pretese di condurre la moltiplicità degli effetti morali e civili a cagioni fisiche e necessarie, fecero che lo Spirito delle leggi lasciasse un vuoto considerabile anche in quel solo ramo di dottrine politiche, che prese ad illustrare.

Or mentre queste Scienze avevano tanti sublimi cultori presso queste nazioni, qual era là loro sorte in Italia? Si è detto per quali potenti cagioni in questo suolo fosse apparso ne' secoli scorsi una tarda indolenza per le Politiche e Civili dottrine. Ma l’Italia era pur essa la madre degli Zaleuchi, dei Charanda e de' Numa.

Conteneva pur essa i germi più nobili della sapienza legislativa. Tolti appena alcuni ostacoli, lo sviluppo di questi germi fu celere. Fin dal principio di questo secolo lo straordinario ingegno del nostro Giambattista Vico vide i primi lampi della nuova Scienza delle origini e de' progressi delle società, e condusse ad alto grado di sublimità quella parte metafisica delle cose civili, per cui si conosce ne' fatti particolari degli uomini un costante sviluppo, secondo certe astratte verità. Ampio lume sparsero anche sopra altri rami della civile dottrina Gianvincenzo Gravina e Paolo Mattia Doria e ne' tempi più vicini l'Abate Genovesi, il quale diffondendo le più utili verità elementari della morale ed economica filosofia, e comunicando in generale agl’ingegni Napoletani il filosofico moto, concorse eminentemente a stabilire tra noi la libertà di pensare, ed a render la nostra vera coltura più universale ed estesa.

Intanto il marchese Beccaria erasi innoltrato colla fiaccola della ragione negli oscuri e tortuosi aditi di quella parte della Legislazione, che riguarda i delitti e le pene; ed una folla di Scrittori presso quasi tutte le nazioni si affannava a svelare i vizj, che ingombrano tante altre parti del corpo legislativo, ed univasi a formare un grido universale e concorde sulla di. convenienza degli assurdi Codici, da cui è regolata la più gran parte di Europa, e sulla necessità della loro riforma.

Per opera di tanti filosofi il corso morale delle idee e delle utili opinioni erasi di molto accelerato. La ragione avea di giorno in giorno ricoverati maggiormente i suoi diritti. Si eran tolti alla maggior parte degli uomini t pregiudizi e gli errori, che per lungo tempo gli aveano tiranneggiati, ed avvilitij e gli animi della moltitudine eran di già bastantemente preparati a ricevere e a sostenere una nuova luce. Questa opportuna preparazione facea si, che l’Europa presentasse da per tutto quell’epoca di necessaria maturità che Bacone richiedevi per potersi dettare una nuova Legislazione (8). I Principi stessi ascoltando con onore la voce libera de' filosofi, facean vedere in piccola, distanza quell’istante felice, in cui la legislazione divenisse, quale dev’essere, l'opera ed il prodotto di due diverse potenze, cioè del concorso in un punto comune della rischiarata volontà del Filosofo, e dell’efficace volontà del Legislatore.

Non pertanto in i questo stato di cose, mentre le critiche fatterello leggi esistenti, e le scoverte de' mali erano ammirabili, quanto non erano insufficienti, e quanto impraticabili i tanti piani di riforma che si disegnavano, ed i rimedi che si proponevano? Sembrava, che gli sforzi dell’uomo nel rompere. le vecchie? barriere, lo facessero cadere nel lato opposto,, e che orgoglioso di aver infranto alcune catene, egli non si accorgesse che si cingeva di altre e che si sottoponeva al giogo della più assoluta prevenzione nel momento istesso in cui credeva di scuoterlo. Sembrava, che la tendenza generale del secolo fosse di saper meglio distruggere che edificate. Ciò avveniva, perché le parziali riforme, che si proponevano, incontravano l'insuperabile ostacolo della sproporzione tra la parte riformata, e le altre che conservavano i loro antichi difetti. La distruzione di un edificio può ben farsi a pezzi, a a bocconi, ma l'elevazione di un nuovo richiede unità di dir segno, cospiranza di lavoro nell’esecuzione, e perfetta armonia in tutte le parti sue.

Facea dunque mestieri, che s’inalzasse tra la schiera degli altri filosofi un ingegno superiore, che abbracciasse il campo delle riforme legislative in tutta la sua vasta estensione, e che giugnesse a disegnare l’intero piano di una riforma generale. Facea mestieri, che questa venisse. calcolata in tutti i suoi punti con proporzioni atte a formare un sol tutto simmetrico, in cui ciascuna parte sostenesse e vicendevolmente fosse sostenuta dall’altra, ed in cui, si rinvenisse (come dice l'eloquente Raynal) la rara e difficile combinazione, l'accordo felice dei tre Codici, sotto i quali l’uomo vivo, il Codice Naturale, il Codice Religioso, ed il Codice Civile.

Ma per sì grande intrapresa qual sublimità di talento, qual forza di genio non si richiedeva? Quella sublimità di talento i che giugneese a vestirsi, per così dire, dello spirito dell'Essere supremo, ad attingere nel suo seno l'amore dell'ordine e del bene generale, ed a conóscere dall'armonia dell’universo quale e quanta debba essere l’armonia delle leggi sociali; quel la 'forata di genio, per cui si scovrissero nuove verità morali e civili; per cui quelle, ch'erano fino allora scoverte, divenissero più. feconde di luminose conseguenze; e per cui si giugnessero a vedere, ed a mostrare i più ascosi rapporti che legano insieme queste stesse Verità, le quali prima sembravano isolate.

Questa forza di genio, questa sublimità di talento sorse finalmente nel cavalier Filangieri. Venuto egli precisamente in quel punto, in cui le verità particolari sommamente avvicinate tra loro aprivano già la strada a' principj generali, formò il. suo grande ed universale sistema, e la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE apparve improvvisamente, come un astro luminoso e benefico, che innalzandosi sul nostro orizzonte, dovea ben tosto illuminare le altre nazioni Quantunque egli avesse formato l’intero pieno, ed avesse preparati i materiati per la maggior parte di esso, pure non ne aveva disteso che due soli volumi i quali comprendevano il primo e secondo libro dell'operaio. Veniva questa divisa in sette libri. Nel primo ripropose di esporre le regole generali della Scienza legislativa nel secondo di ragionare delle leggi politiche ed economiche, nel terzo di trattare delle, leggi criminali; nel quarto di sviluppare quella parte detta legislazione che riguarda l’educazione, i costumi a l'istruzione pubblica; nel quinto di parlar delle leggi che riguardano la Religione; nel sesto di quelle, 'che riguardano la proprietà; e nell'ultimo di quelle leggi, che riguardano la patria potestà ed il buon ordine delle famiglie. Nel cominciare adunque dell'anno 1780. Il Filangieri pubblicò i detti primo è secondo volume (9).


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Le gran verità seguite da una schiera di moltissime altre, ed enunciate tutte con un’eloquenza così chiara, che colpisca l’intendimento, come la luce del cielo colpisce gli occhi di coloro istessi che non vi fanno attenzione; le idee rendute vive e parlanti dal colore delle immagini, e dall'energia del sentimento; questi due volumi, che da per tutto respirano la pia pura e benefica morale, ed in cui i più astratti ragionamenti sono messi a portata degli spiriti più ordinarj, furono accolti dal pubblico con quel trasporto ed applauso universale, che è sicura caratteristica del merito deciso e dell'eminente pregio di un’opera. Ognuno restò sorpreso dall’ingegno grande ed originale di questo giovane Scrittore. In leggendosi questi due libri sembrava che una nuova luce si spargesse intorno al lettore, la, quale distendesse i limiti dell’esistenza sua, e l’innalzasse e l’abbellisse. Quindi la gloria, che per molti è il frutto degli anni, ed è per molti il tardo tributo della posterità, divenne tosto indivisibil compagna del cavalier Filangieri. I più onorati Giornali Italiani e forestieri, nell'annunziare la pubblicazione di quest’opera, la colmarono di giuste lodi, ed i personaggi i più celebri per chiarezza di fama, e per lume di vera dottrina, gli offrirono, o per lettere, e nelle loro opere un sincero tributo di alta stima, e di venerazione rispettosa.

Riserbandoci a più opportuno luogo di ragionar di costoro, basterà dire per ora, che alle grida di plauso, di meraviglia e di riconoscenza formate da tutta Italia, fecero sollecito eco le altre colte nazioni, e che in mezzo a tante acclamazioni perderonsi del tutto le deboli voci di que’ pochi, che spinti da ignobile invidia, o da intollerante ed oscuro spirito di partito, mossero all’apparire della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE un importuno gracchiare. Fortunatamente per gli uomini la libertà filosofica, che risplende in quest’opera, non ebbe di che temere. Il nostro illuminato Governo,permetterdone la pubblicazione, mostrò all'Europa, che in Napoli si godeva il prezioso vantaggio, che da Tacito si attribuiva ai tempi felici di Trajano(10); mostrò che si ascoltavano, con lode i liberi insegnamenti di un filosofo, il quale indicava sapientemente gli errori i più rispettati; mostrò di rendere una sacra espiazione alle ombre onorate del Giannone e del Genovesi, recenti e tristi esempj delle feroci persecuzioni mosse dall'insensato fanatismo tra noi.

Dopo la pubblicazione degli anzidetti due volumi, e nello stesso anno 1780, il nostro clementissimo Re cominciò a spargete le Sovrane beneficenze sul cavalier Filangieri, conferendogli la Commenda del Real Ordine Costantiniano, detta di S. Antonio di Gaeta. Animato egli dal favorevole successo dei due primi libri della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, con maggiore alacrità si era accinto a scrivere il terzo libro, che riguardava la Legislazione Criminale. Comeché fosse in mezzo al rumor della Corte, ed obbligato h. seguire il Re adempiendo al servizio militare ed a quello di. maggiordomo, tutta volta ei non tralasciava un sol giorno di progredire nel suo sublime lavoro. L’abito delle meditazioni, che fin dalla prima età avea superiormente acquistato, lo seguiva da per tutto. L’istesso Carpo di guardia diveniva sovente, il suo gabinetto di studio. Ivi. richiamava spesso le sue idee, ed in esse si concentrava, ed ivi fu meditata e scritta una gran parte di quelle sublimi dottrine, che sembran dettate nel profondo raccoglimento di una tranquilla solitudine. Pareva, che nel soggiorno di Marte non isdegnassero per lui di discender le Muse, e che la pacifica Minerva non si atterisse allo strepito delle armi e del fragor militare.

Intanto verso la fine dell’anno 1782 trapassò l’Arcivescovo suo zio, cui, oltre al vincolo del sangue, era' il cavalier Filangieri dalla più tenera benevolenza legato Allora fu che il nostro Augusto Sovrano gli diede nuovo splendido attestato di sua Real munificenza conferendogli il Priorato di S. Antonio di Sarno. Commenda eziandio del Real Ordine Costantiniano, ha quale precedentemente Si godeva dal defunto Arcivescovo. Tra i vivi sentimenti di rispettosa gratitudine verso il suo. bene fico Sovrano, e d’intenso desiderio di liberare l’umanità dai tanti mali che nascono dalla viziosa legislazione Criminale, il Filangieri affrettò il suo travaglio, e pubblicò nell’anno 1783 il terzo, ed il quarto volume della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE(11). Comprendono questi il solo libro terzo di essa, il cui oggetto son le Leggi Criminali.

Orchi può esprimere la nuova ammirazione dei dotti, ed i nuovi applausi dell'Europa, che seguirono la pubblicazione di questi altri volumi? All'apparire di essi non vi fo più chi dubitasse, che l’Autore non avrebbe potuto reggere al vasto impegno che aveva contratto. Il cavalier Filangieri fu da questo punto considerato veramente come uno degli uomini straordinarj nell’Impero delle Scienze; ed il nostro secolo assunse giustamente per lui tutto il rispetto.

Ma le idee esposte nel terzo volume contro la giurisdizione de' Baroni ed i vizi del feudale sistema, gli mosser contro la classe numerose di coloro, che, pieni tuttavia di un assurdo spirito di distinzioni vergognose ed umilianti l’umana natura, adorano, come numi, la perpetuità e la superiorità delle famiglie. Costoro, dolenti ancora dell'alienabililà de' feudi, e della distruzione da' maggioratile, da' fedecommessi, ’che il Filangieri; aveva proposta nel secondo libro dell'opera sua, lo riguardarono da questo trio mento, come un loro implacabile nemico, e come quegli che tentava l'intera loro distruzione, e rovina Infelici, che non conoscono i loro veri interessi! Ostinati, che voglion sempre tener chiuse le pupille alla luce del vero, e stretto il cuore a' più soavi ed irresistibili inviti del bene!

E qui crediamo opportuno di riferir brevemente la storia d'un’oscura ed ignobile critica, da cui fu assalita la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE. D. Giuseppe Grippa versatissimo nelle Scienze Matematiche, e pubblico Professore di esse nelle Regie Scuole della Città di Salerno, avea fin dall’anno 1782 pubblicata per le stampe una Lettera diretta al cavalier Filangieri, in cui prese a. dimostrate che la dismissione de' maggiorati e de' fedecommessi, e l'annullazione del divieto fiscale di potere alienare i fondi feudali, che si eran proposte dal Filangieri nel secondo libro, eran gravi errori in buona politica; poiché recavan seco direttamente ed in modo pronto e sollecito la distruzione intera del sistema feudale e la totale rovina del Baronaggio, difetti sommamente perniciosi ad una Monarchica costituzione Questa lettera del Signor Grippa, colla quale erasi ben anche rivolto a censurare alcune altre idee economiche del cavalier Filangieri aveva avuta la sorte, che sogliono avere tutte le critiche che si fanno alle opere grandi ed originali. Era morta nell'istesso momento della sua nascita; e fu dopo bastantemente fortunata, per ottenete l'onore di una risposta da D. Giuseppe Costanzo. dotto Avvocato Catanese. Costui, pieno di, lodevole zelo, pubblicò nell’anno 1785 una Dissertazione politica in risposta della lettera di D. Giuseppe Grippo (12), e mostrò in essa l'utilità della dismissione delle primogeniture, e dell'uguale distribuzione de' fondi feudali tra tutti figliuoli del feudatario. Facendo uso degli stessi principj del cavalier Filangieri, ed aggiungendovi delle molte altre sue degne riflessioni, divisò chiaramente, che queste operazioni politiche non avrebbero mai potuto, produrle l'estinzione dello; splendore nella nobiltà, il quale non consiste nella riunione di molte ricchezze nelle mani di un solo, ma è l’effetto di altre più utili e più sublimi cagioni, e che, perciò, continuando, a sussistere il lume di questo corpo intermedio, non soffrirebbe lo Stato Monarchico alterazione veruna.

Ma il signor Grippa niente spaventato, dalla favorevole accoglienza del pubblico alla sua Lettera avido di aggiungere alla fama di Matematico quella ancor di Politica, la riprodusse pel 1784, inserendola nel primo volume di un’opera, che promise in più volumi, ed a cui diede il fastoso, ed imponente, titolo di SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE sindacale, ovvero riflessioni critiche sulla SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE del signor cavaliere D. Gaetano, Filangieri(13). Di sì fatta opera egli non pubblicò che il primo volume, in cui, oltre alla suddetta Lettera comprese il primo ed il secondo foglio delle sue Riflessioni critiche. Con queste, ergendosi nuovamente in difensore del baronaggio, imprese a censurare le idee del Filangieri sulla giurisdizione feudale, ed;il piano di lui per la nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie funzioni; per gli affari criminali, che si contengono nei capi, 17, 18, 19 della Parte prima del libro terzo della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE.

Il cavalier Filangieri poco curando e la Lettera, antecedentemente pubblicata, ed il fiero sindacato dell'opera sua che si era intrapreso, s’impose un nobile e degno silenzio. Ma eran bastante risposta a qualunque critica le tante edizioni, di quest’opera che in si brieve tempo si eran fatte in varie città d’Italia, e le diverse traduzioni che nella Francia, nell'Alemagna e nell'Inghilterra se n’erano di già cominciate.

E’ intanto, a quest'epoca dell’anno 1784, che convien rapportare la proibizione di quest'opera fatta dalla corte di Roma La superstizione, che non nasi perdona. agli uomini il grave delitto di osar. di pensare; la superstizione, che ha tanto interesse di occultare e di distruggere le verità più utili all’uomo; la superstizione, che fonda il suo tuono nell’ignoranza e nell’errore, avea tremato all’aspetto di un libro, che spargeva da per tutto la luce benefica della verità e della ragione Le insidiose sue voci mossero un torbido e confuso rumore, chegiunte alla congregazione dell’Indice. Non degenere figlia, e cieca vicaria dell'Inquisizione Romana, questa congregazione esercitò ben tosto sull’opera del cavalier Filangieri quell'ingiusto diritto che suole esercitare su tutti i libri che portan l’impronta di una vera filosofia. La purità della morale, la sublimità della Religione che in quest’opera per ogni parte lampeggia, furono agir sguardi della Congregazione dell’Indice oscurate dall’abolizione delle ricchezze degli Ecclesiastici, che l'Autore proponeva nel secondo libro, e dalle riforme sugli abusi del potere de ministri del Santuario, che prometteva di proporre nel quinto libro. Furon queste per la Congregazione dell’Indice tanti errori nel dogma; e quindi con decreto de' 6 dicembre dell'anno 1784 condannò e proscrisse la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE.

Fu questa proibizione fomentata da un segreto ed inferno concerto formato in Napoli dà alquanti pii ed intriganti calunniatori, i quali non potendo più, mercé i lumi del presente Governo, innalzar tra noi il nero stendardo del fanatismo si volsero a chieder l'ajuto della Congregazione dell’Indice. Ma il fulmine di questa restò del tutto ignoto ad alcuni, ed in altri fu brieve soggetto di riso, solito destino, chela crescente coltura ha preparato a somiglianti fulmini tanto in altri tempi temuti. Il Filangieri, consapevole di non avere co’ suoi libri in niente macchiato il candore della più pura dottrina del Vangelo e della Chiesa, fornito di quel coraggio, che non mai si scompagna dalla ragione, dall’innocenza e dalle virtù, non provò in questo fatto altro dispiacimento, se non che di vedere alla testa dell'oscuro partito un distinto ecclesiastico da lui sommamente beneficato, e che a tutto ciò si era(:)mosso per ispirito di bassa invidia e‘ d’ignobile ipocrisia. Possa costui, se forse volgerà lo sguardo a queste carte, esser sensibile alla moderazione, che uso, nel nascondete il suo nome all’esecrazione di questa e dell’età futura. Possa il suo cuore sentire almeno gli utili movimenti del rimorso, che sono spesso i forieri di un nobile pentimento.

Mentre che la Congregazione dell'Indice proibiva la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, e mentre che il signor Grippa, si affannava a sindacarla, la Società economica di Berna la colmavi di giuste lodi e di nobilissimo elogio. Questa Società, che ha tanto contribuito nel presente secolo all'avanzamento delle Scienze economiche; questa Società, che ha caputo colla sua istituzione e co’ travagli suoi tanto ben soddisfare a' due più vivi bisogni, che sente il cuore dell'uomo, quello di sapere e quello di essere e di. render felice; questa illustre Società, mossa dalla fama della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, ne fece un degno oggetto del suo esame, e giusta il suo costume, pronunziò su di essa in una generale Assemblea il seguente giudizio: L’opera della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, in vista dell'esame fattone dal signor Professore Ischarner, è da mettersi nel rango delle primarie produzioni politiche moderne. Questo, elogio fu registrato negli Archivj della Società, la quale volle anche dare all'Autore un pubblico attestato della sua stima, e lo aggregò al suo corpo nella classe de' Membri Onorarj. Il degno ed onorifico Diploma che segnato in data de' 14 aprile 1784 gli fu a tal uopo trasmesso, venne accompagnato da un’elegante lettera del segretario della Società signor F. Frendenrych, nella quale disse che l'opera della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE era già talmente celebre, ed avea già ricevuto da tutta Europa un’accoglienza cosi distinta, che una Società letteraria, accordando ad essa i più pubblici attestati di stima e di ammirazione, non era che l’eco della pubblica voce. Proseguì con fare i più fervidi voti, perché la patria riconosca la felicità ch'essa ha di possedere nel suo seno un cittadino così capace di perfezionare il suo Governo, e di esserle utile in ogni senso per li suoi lumi. Possiate, o signore, egli conchiuse, trovarvi in istato di sviluppare cogli effetti e nella pratica i grandi principi, che il vostro libro racchiude. È guasto un volo, il di cui compimento sarebbe degno di voi, e che sarà formato da tutti coloro, che vi renderanno giustizia (14).

Aveva intanto il cavalier Filangieri fin dall’anno 1785. tolta in moglie D. Carolina Frendel nobile Ungherese, e Direttrice della educazione dell'Infanta secondogenita di S. M. Era stata costei nell'anno 1780. mandata a tale oggetto in questa corte dall’imperadrice Maria Teresa madre, e sovrana di. eterna gloriosa ricordanza. L’anima del Filangieri ardente e sensibile, cui la natura da più tempo parlava in tuono possente, erasi abbandonata a' soavi ed indissolubili nodi, che gli avea presentati una prima. e virtuosa passione. L’istesso candore nelle azioni, l’istesso trasporto per la virtù, la stessa fedeltà per tutti i doveri della vita, rendettero più perfetti i legami che strinsero questi sposi, ahi! breve tempo felici.

Fu allora che il cavalier Filangieri potè, recare ad effetto il disegno, che avea da più tempo formato, di abbandonare la corte ed il soggiorno della capitale, e di ritirarsi per alquanti unni in campagna, ove potesse senz'alcuna distrazione più rapidamente condurre al suo fine l’opera che avea per le mani.

Lo spirito suo ripieno delle più vaste idee, e lungamente abituato ad un’ampia serie di raziocinj diretti al grande oggetto che lo agitava, sentiva un pressante bisogno di liberarsi il più presto possibile di questo peso, e d'intraprendere molli altri utili lavori letterari, che gli venivano indicati dalla estensione e dalla sublimità del ano intendimento. Sembra veramente che il tumulto delle grandi Città tenda a snervare la forza de' grandi talenti, e che al contrario nella solitudine si conservi, si accresca, e tutto si raccolga e si dispieghi il loro vigore. Sembra che i loro sguardi non debbano arrestarsi e mirar la natura annebbiata in quelle picciolo forme, che l’ozio frivolo e voluttuoso delle grandi città ad ogn’istante ci offre, ma debbano contemplarla nella di lei primitiva grandezza, e nella pura sua originaria beltà.

Chiese adunque il cavalier Filangieri ed ottenne dal Sovrano il permesso di ritirarsi per qualche tempo dal servizio militare e da quello della corte. Disprezzando in tal modo rutta le speranze di grandezza e di onori, cui pareva ohe potesse più sicuramente condurlo il rimaner nella corte e l'esser vicino a' Sovrani, ben egli mostrava quanto il suo cuore fosse esente dalle agitazioni di un personale interesse, e quanto fosse sensibile alle scosse benefiche di quell’ardente passione, che incessantemente il traeva ad istabilire co’ suoi libri la felicità 0 ht virtù sulla terra, e che facea riguardargli come un niente le più brillanti fortune à fronte di una soia utile 'verità che, spargendosi tra gli uomini, facesse germogliar tra di loro frutti per lunga stagion salutari.

Scelse pertanto per luogo del suo ritiro una campagna della città di Cava circa 25 miglia distante da Napoli. Ivi si condusse colla sua sposa nell’estate dell’anno 1785, ed ivi nel più profondo raccoglimento intese egli unicamente a’ suoi studj, ed al compimento dell'opera sua. Fu perciò in istato di poter pubblicare nella fine dell'anno 1785 (15)tre altri volumi della medesima i quali ne comprendevano tutto il quarto libro. Gli oggetti di questo libro sono l’educazione, i costami, e la pubblica istruzione.

Dopo la pubblicazione di questi tre volumi si rivolse il cavalier Filangieri con pari alacrità a scrivere il quinto libro, che trattava delle leggi risguardanti la Religione Ma alcune non leggieri indisposizioni, alle quali cominciò ad essere frequentemente soggetto gli fecero più volte sospendere l'incominciato lavoro.

Mentre egli intanto nella campagna di Cava attendeva al compimento dell'opera sua, ed era tutto ingombro di filosofici pensieri, la voce del pubblico. nella capitale il disse più volte innalzato ad alcune sedi, d’onde avrebbe più da vicino potuto intendere a prestar rimedio a' nostri mali, e condurre la patria a felicità ed a grandezza. Ma la voce del pubblico, la quale non era che l’espressione degli ardenti suoi veti, restò più volte sfornita di effetto. Tentino pure i figli dell’ambizione ogni viltà per conseguire l’onore d’innalzarsi; agiscano pure da schiavi per rendersi un giorno tiranni: il cavalier Filandieri, figlio della verità e della virtù, è superiore a al fatti mezzi vergognosi Simile ad un Nume sembra destinato, ad esser utile agli uomini, senza chieder da essi alcuna mercede.

Ma quando i talenti son giunti ad un certo grado di celebrità, i Principi son guidati dal loro secolo a valersi di essi, e la pubblica fama loro serve, per cosi dire, di legge. Invano l’arte dell'intrigo muove allora contro di essi le audaci menzogne, l'apparenza di buona fede, la maschera istessa dell’utilità. Son vani allora tutti i suoi sforzi; soprattutto, quando i Principi, ed i loro supremi ministri, son cosi saggi, che prima delle sue mosse abbian prestato attento orecchio alla voce del merito, ed abbiansi formata un’idea decisa de talenti e della virtù di que’ cittadini, che vivono lontani dal trono.


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FERDINANDO IV padre della patria, Sovrane che accoppia alla dolcezza del più benefico cuore la dirittura del più penetrante, ingegno, Principe che fornito delle qualità che rendettero tanto cari e preziosi all’umanità i nomi di Trajano e di Tito, non tralascia modo da procurare il pubblico bene, persuaso del merito del cavalier Filangieri e destinandolo forse in sua mente a più alti impieghi ed a cote, maggiori,, volle per allora conferirgli la carica di consigliere del nostro Supremo Consiglio delle Finanze.

Chiamato dal Re con dispaccio de' 23 marzo 1787ritornò egli nella capitale, e dal profondo raccoglimento delle scienza passò al governo degli affari civili, ed a prender, parie nellapubblica amministrazione delle nostre Finanze. Dopo averlo guardato sino a questo punto dal lato della sola letteratura, reggiamolo ora per poco in un altro aspetto, tanto più per noi, quanto che cel presenta in uno stato, nel quale più direttamente al nostro bene intendeva.

Aumentare la farsa pubblica senza nuocere al ben esser de' particolari, discovrire la vera sorgente delle ricchezze nazionali, accrescerle, dirigerle, distribuirle; ecco i grandi oggetti dell'amministrazione delle Finanze e della scienza del governo economico. Ma quali e quanti non ordinar; talenti, quali e quante non comuni virtù si richieggono per superare gli ostacoli che al conseguimento di questi oggetti si oppongono! I sentimenti personali d’interesse e di attaccamento alla propria fortuna; la gran varietà di opinione sulle generali teorie della pubblica economia; la diversità degl’interessi delle tante classi della società, le quali riguardan sempre le operazioni dell’Amministrazione con uno sguardo particolare relativo al loro stato ed alla specie di loro fortuna; la continua vacillazione de' governi ne' loro piani e ne' loro sistemi; il diffidente e tenebroso spirito fiscale; il timore, l’ignoranza, l’indifferenza, l'impero possente delle circostanze, e più di tutto la mancanza di patriottismo, eccelsa virtù che nello stato di società dovrebbe servir di sostegno a tutte le altre; questi ostacoli, che da per tutto si oppongono alle migliori operazioni dell'Amministrazione, di quanto non vengon tra noi accresciuti dallo stato particolare delle nostre pubbliche rendite? Chi v’ha che non sappia quanto siasi molteplice e complicata la serie delle nostre contribuzioni? quanto diversi sieno i fanti da cui emanano le nostre Finanze, e quanto ascosa ne sia la sorgente di alcuni?

Tanti dazj annuali indiretti sulle persone e su i fondi; tanti temporanei tributi, tanti diritti di percezione sull'immissione ed estrazione delle derrate che si commerciano e su quelle che si consumano; tanti vizj inerenti nella natura di quasi tutte le nostre imposizioni, e nella loro forma di esigerle; il pernicioso sistema da' nostri arrendamenti;il complicato metodo delle nostre Dogane;tutto in somma concorre a rendere vie più difficile il governo economico tra noi, ed a richiedere ohe le importanti funzioni di questo rispettabile ministero vengano affidate a que’ rari individui, che per la superiorità de loro talenti e delle loro cognizioni in questo genere, e più per la perfezione e per la rettitudine del loro cuore, richiamano i meno equivoci sentimenti della pubblica confidenza.

Il cavalier Filangieriuniva nella sua persona eminentemente l’accordo prezioso di tutti questi titoli.O miei concittadini, voi, che tanto gioiste nel sentirlo ammesso a somministrare i suoi lumi ed i consigli suoi al nostro benefico Sovrano, voi, che concepiste le più fondate speranze di giugner presto a felicità ed a splendore, voi, che formaste a vostri figli l’augurio di una sorte migliore e più lieta, voi, che da questo momento riguardaste nel Filangieri il più saldo sostegno de' diritti della nazione e de' veri interessi della sovranità, o miei concittadini, è questo il luogo, io cui farebbe mestieri che io vi rendessi ragione delle sue azioni, de' suoi consigli de' suoi pensieri, de' sui grandi disegni nel brieve corso di questa carica, di tutto ciò che operò, di tutto ciò cui mirava per rendervi fortunati e felici. Ma fino a quai termini non dovrebbe in (al caso trascorrere il mio ragionamento? in quali augusti penetrali non dovrebbe esso innoltrare gli audaci suoi passi?

Basterà dire, che i moltiplici oggetti delle discussioni del nostro Supremo Consiglio delle Finanze, i dettagli dell’amministrazione delle provincia, gli affari contenziosi di que’ tribunali, cui è affidata la giurisdizione per ciò che riguarda il patrimonio dello Stato, la teoria del nostro numerario; quella di tutte le nostre imposizioni, l’avanzamento della nostra agricoltura, delle nostre manifatture e del nostro commercio, i vari rapporti di queste parti che costituiscono la ricchezza nazionale collo stato del credito o debito rispettivo delle altre nazioni, e della rispettiva bilancia delle loro permute, tutto ciò in somma che si proponeva per oggetto o di pronto consiglio, o di meditato sistema, tutto sentiva gli effetti della benefica attività, de' sommi talenti e del cuor virtuoso del cavalier Filangieri. I suoi pensieri e le riflessioni sue presentavansi sempre accompagnate da quella viva persuasione della parola, ch’egli aveva sulle labbra, e da quell’animata eloquenza, che se gli leggeva fin negli occhi e nell’aria della persona, e nella fronte liberale ed ingenua. Basterà dire che la saviezza de suoi consigli era sempre sostenuta da una nubile fermezza di carattere, forza dell’animo, che disgiunta da lumi e dalla prudenza è una cieca durezza degna dell'esecrazione degli uomini, ma che quando è animata dalle regole della sapienza, diviene la più salda base de' governi, e forse la prima virtù dell'Amministrazione Basterà dire che l’entusiasmo del pubblico bene infiammava tutti i pensieri suoi, ed in tutti i suoi detti traspariva, e che questo entusiasmo non era in lui un’affezione pericolosi dello spirito, per cui sovente si sostituiscono perniciose astrazioni alle utili idee somministrate da una saggia esperienza, e si convertono in Idoli vani le più vaghe e chimeriche nozioni. Dopo aver meditato i suoi piani, e preparato i suoi consigli nella calma e nel silenzio della ragione dopo esser giunto con passo tranquillo a guardare la verità, egli abbandonavasi all'entusiasmo del cuore, a tutta la forza di questo benefico movimento dell’anima, da cui soltanto possono ottenersi que sentimenti che sostengono la verità, e che rendono sensibile la ragione. Basterà finalmente dire che la guida fedele, cui sembrava che unicamente il cavalier Filangieri si attenesse nel difficile e tortuoso sentiero dell'Amministrazione, era la tutela della povera gente, dell'ultima, ma della più numerosa e più rispettabile classe della Società. Cogli sguardi costantemente rivolti sopra l’umanità che soffre, egli bramava che in tutte le operazioni delle finanze il nome de suoi cari Sovrani venisse benedetto piuttosto nelle capanne e ne tugurj de poveri, ed in mezzo alla mendicità delle provincie, che in mezzo all'orgogliosa opulenza ed al lusso insensato della capitale, e nelle dorate magioni de' grandi.

Ma a questo lieto spettacolo una funesta e desolante scena rapidamente succede. Le applicazioni profonde sostenute dal Cavalier Filangieri fin dalla prima età oltre alle forze del suocorpo, comeché di esse abbondevolmente fosse stato dalla natura fornito, ne aveano da più tempo indebolito il vigore. Fin dall’anno 1781 gli erano sopraggiunti i mali dello stoma co e de pervi, e l’ipocondria, malattia familiare alle persone di vivo ingegno e studiose. Per la reciproca amichevole corrispondenza di ciò che pensa cogli organi destinali a ricevere tutte l'esterne impressioni, avviene che lo sforzo frequente, e la continuata e molta tensione in una parte, produce infallibilmente sconcerto nell'altra, fa mancare quella nascosta armonia, ch'è il principio essenziale di nostra vita.

Il grande amore del vero, che agitava il cavalier Filangieri, e più di questo l’intensissimo desiderio di giovare all'umanità co’ suoi libri, passione che gli era a' fianchi, e lo seguiva in tutti i momenti della vita, gli fecero sempre negligentare di sottoporsi ad un costante e seguito metodo di cura, la di cui principal parte doveva essere l’abbandono della meditazione e dello studio. Cominciò quindi ad essere di tempo in tempo assalito da fierissime coliche. Passato a dimorar nella Cava, la mancanza di una più frequente società di amici, che in qualche ora del giorno il distraessero, fece si che maggiormente s'immergesse ne' letterari travagli. Quasi ogni di dodici ore egli dava alla più profonda applicazione, e spesso queste formavano una continuata sequela. Costante nel sistema di concedere al sonno brevissimo tempo, era egli sempre l'invero nel suo gabinetto di studio molte ore prima che il sole si levasse. Queste gravi ed incessanti fatiche, congiunte all'umido e freddo cielo di Cava, gli rendettero più frequenti e più terribili le Coliche, ed in generale gli scossero grandemente la' salute. Lo stato di questa, allorché egli ritornò in Napoli per occupar la carica conferitagli, era già rovinoso ed era per molti lati assalito. Nell'estate dell'anno scorso, e nei seguente inverno ben due volte il vedemmo sull’orlo della tomba in due fierissimi accessidi colica. Le vive istanze della virtuosa sua consorte, e quelle de' parenti e degl'intimi amici suoi appena lo strappavano per pochi dì dal travaglio e dalla meditazione. Egli vi ritornava con trasporto maggiore, e rinfrancar volendo quel tempo, che queste brievi intermissioni tolto gli aveano, a più lungo studio si consagrava.

Un infelicissimo parto della moglie, avvenuto nel mese di maggio del corrente anno 1788, ed una grave infermità del suo figliuol primogenito, se l'obbligarono contemporaneamente a tenersi lontano dalle applicazioni, il gittarono per contrario in massimo affanno ed agitazione di cuore. Per sollevare se stesso, e per far che il figliuolo respirasse un’'aria più pura nel corso della di lui convalescenza, si recò coll’intera famiglia in Vico Equense.

Gran Dio! quanto è brieve la vita dell'uomo! quante tenebre circondano i nostri giudizj! Noi tutti lieti credemmo, che in questa dimora avrebbe il cavalier Filangieri prestato un potente soccorso alla sua preziosa esistenza; e questa dimora doveva essere il teatro ferale della sua morte. Ivi dovea dispiegarsi tutta l’irresistibile forza di quel veleno, il cui germe funesto dal troppo assiduo travaglio era stato nel suo seno gittato.

Assalito improvvisamente da fierissima affezione iliaca, fu questa seguita da una febbre putrida e maligna, i cui nuovi violenti accessi a capo a pochi giorni indicarono pur troppo quanto si dovea temere. Divennero allora inutili i tanti soccorsi che dall'arte medica furon somministrati. Il dardo della morte era già nel suo cuore. Un assopimento letargico aveva ingombrate tutte le sue facoltà intellettuali fin dal giorno dì venerdì 8 di luglio. La mattina del di seguente rinvenne per brevissima ora. In questi pochi momenti vide egli con intrepido sguardo lo stato cui si trovava ridotto. Volle quindi adempiere prontamente agli estremi doveri di nostra augusta Religione, e l'anima sua inondata dall'aurea pace e dalla soave Coscienza della virtù, si mostrò già sciolta da tutti i legami che la stringevano a sensi, e già pronta ed avida di raggiungere l'Essere Supremo. Immantinente il male raddoppiò il suo furore, e violentissime scosse convulsive il gittarono nuovamente in un profondo letargo assai più terribile del primo. Oh immagine fiera, che mi sien sempre d’intorno, ed alimenti sempre il mio acerbo dolore! Il più puro ed ardente amor coniugale, la più cara amicizia, l'affezione de' parenti circondavano piangendo quel letto funesto, ove languiva l'adorabile sposo, il tenero amico, l'uomo grande ed illustre. Ma né l’affezione de' parenti, né l'amicizia, né l'amor coniugale potettero ottenere un solo interrotto sospiro, un solo languido sguardo. L’improvvisa nebbia, che avea preventivamente occupate le facoltà del suo spirito, ci tolse anche in tanto lutto ed in tanta amarezza la debole consolazione di ascoltare quei ricordi di virtù, che la fioca ed interrotta eloquenza degli ultimi momenti rende cosi penetranti e cosi rispettabili. Restò in questo stato fino alla notte seguente al lunedi a i luglio, in cui l’Italia e la terra il finirono di perdere, non avendo egli ancora terminato l'anno trigesimosesto dell’età sua.

Una morte cosi immatura fu per Napoli una pubblica calamità, e fu per tutta Europa un’amara e luttuosissima perdita. All’infausta novella il dolore si sparse per tutte le classi de' cittadini. Il pianto universale de' deboli e degl’infelici, e le calde lagrime de' letterati e de filosofi, ben mostravano che questo colpo fatale avea tolto il vindice coraggioso, ed il più forte sostegno degli uni, e l’amico, il promotore e il più degno ornamento degli altri. I nostri amabilissimi Sovrani, persuasi che il dono più prezioso fatto dalla natura a' Monarchi è quello di un virtuoso ed illuminato vassallo, capace di comprendere tutti i doveri del trono, e degno di agevolarne co’ suoi talenti l'adempimento, onorarono colle loro lagrime la morte del cavalier Filangieri. La loro virtuosa sensibilità fece anche di più. Sparse i raggi della regale beneficenza su i piccioli figli di questo illustre cittadino, ed attestò in un sovrano diploma i sentimenti più onorevoli alla cara ed immortale memoria di lui(16).

Il suo cadavere fu sepolto nella Chiesa cattedrale di Vico Equense, ove una lapida, tanto più angusta quanto più semplice, ne serberà a' posteri la rimembranza. Di sì grand’uomo ci son rimasi tre sol piccioli figli, pegni di una troppo tenera e sagra unione (17). I due maschi Carlo e Roberto mostrano già ne' primi anni dell’infanzia, in cui sono, chiare scintille di pronto ed elevato ingegno. Possa lo sviluppo delle loro facoltà intellettuali e morali offrirci una viva immagine di ciò, che la natura ci ha troppo sollecitamente rapito. Possano essi divenire nobili frutti, non degeneri dell'eccelsa pianta che gli ha prodotti. Possano i Sovrani e la Patria trovare ne figli un giusto compenso alla perdita grave che han fatto nel genitore. E noi occupiamoci intanto a dare una fedele contezza di quanto si è rinvenuto ne' pochi suoi manoscritti rimastici, i quali avendoci conservato una porzione de' suoi sublimi pensieri, si debbono riguardare come una parte superstite dello spirito suo, e come la sua imprezzabile eredità. Percorriamo il contenuto di questi manoscritti, ed avremo nuovi titoli da celebrare, e da piangere il cavalier Filangieri. Mi si presenta prima di tutto l’ottavo volume della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, il quale si è ritrovato interamente terminato. Comprende esso la prima parte del quinto libro, il cui oggetto eran tutte le leggi appartenenti alla Religione.

Aveva il cavalier Filangieri da poco tempo terminato quest’ottavo volume, ed erasi accinto alla composizione del nono, col quale voleva conchiudere tutta quella parte della scienza legislativa, che riguarda la Religione. E poiché doveva egli parlare del cristianesimo, che, quando fosse ridotto alla sua primitivi purità era da lui riguardato come quella religione) che conteneva tutti i caratteri degl'indicati beni, e tutti quelli, che allontanavano gl’indicati mali, s’immerse quindi in uno studio profondo de' sagri Codici, e delle opere de' primi Padri della Chiesa. Aveva di già, secondo il suo costume, disposto in sua mente tutto il vasto argomento di questo volume; ma fu impedito per più mesi di cominciare a distenderlo, per quelle infauste circostanze dimestiche, che si sono antecedentemente narrate. Vi aveva appena posto mano nella campagna di Fico, quando fu colpito dall'ultima fatale infermità. Ivi poche carte io rinvenni, allorché dopo il momento terribile della sua morte, dolente ed inconsolabile per la perdita di un tanto amico, mi volsi tra i sospiri ed il pianto a salvare almeno tutti i preziosi frammenti de' suoi scritti. Queste carte altro non contengono che un notamento di alquanti libri che doveva consultare per alcuni particolari oggetti del nono volume; lo schema semplice, o sia l’indice de' capi, che venivano a formarlo, ed alcune poche più precise indicazioni degli argomenti, di cui intendeva ragionare in ciascun capo. Mi fo un dovere di rapportarne fedelmente il contenuto; poiché combinandosi tutto ciò colle teorie esposte nell'antecedente volume, si potrà almeno desumere qual fosse l’intero sistema, che in questa parte della Scienza legislativa aveva il Filangieri formate.

Egli dunque disegnava in esso di percorrere prima su tutte le false religioni, dimostrarne gl’inconvenienti, e suggerirei mezzi per riparare a' medesimi (18). Disegnava indi di ragionare (19)de' vantaggi inestimabili del cristianesimo, e (20)degli estremi ugualmente perniciosi della superstizione e dell’irreligione, da cui dovrebbe esser tenuto ugualmente lontano. E qui, dopo aver fatto l’istoria de' mali, che la superstizione e l’irreligione han cagionate nel cristianesimo, egli intendeva parlare de' mali prodotti in esso dalla mescolanza della cura spirituale colla temperale, dall'eccessive ricchezze de' Preti | dalla loro ignoranza, dalla loro venalità, dalla sovversione dei Veri principj dell’espiazione, dalla introduzione delle immunità personali, e dal potere del Sacerdozio sommamente accresciuto.

Passava poi a rinvenire i veri principi co’ quali possono fissarsi i confini tra il Sacerdozio e l'impero (21). E qui disegnava di mostrare l’insussistenza del principio da cui parto no i difensori de' due opposti partiti, deducendo il partito dal fatto, e di trattar inoltre delle abusive pretensioni degli Uni e degli altri; delle rivoluzioni del diritto Ecclesiastico; dell'autorità de' Concilj e della loro superiorità su i Papi; della fallibilità di questi ultimi; della libertà delle diverte Chiese de' requisiti che aver dovrebbero le leggi ecclesiastiche per aver Vigore; e de' veri principi, da' quali si dee dedurre il diritto dei Sovrani in ciò che riguarda il governo della Chiesa.

Da questi oggetti il cavalier Filangieri dovea far pasteggiò al modo, col quale, la legislazione dee far uso di questi principi, prevenire o distruggere gl’indicati estremi (22), ed alle cagioni, per le quali questi estremi s’introducono (23)E qui parlar volea dell’ignoranza, da cui Sempre nasce la superstizione; della superficialità di sapere, che conduce all’ateismo; e della smodata ambizione de' preti. Si era indi proposto di far vedere quali rimedj oppongano all’introduzione de' divisati estremi le altre parti del suo legislativo sistema (24)e quali rimedi vi dee specialmente opporre questa parte che riguarda direttamente la religione (25)«Avea determinato perciò di fare una distinta analisi di questi Ultimi rimedj, e ragionare prima di tutto delle leggi relative alla scelta non meno de' capi (26); che degli altri individui del Sacerdozio (27)indi delle leggi relative alla loro sussistenza (28), delle leggi relative all’esercizio della giurisdizione ecclesiastica (29), delle leggi relative all’esercizio delle funzioni ecclesiastiche (30), delle leggi relative al culto pubblico (31), e finalmente della tolleranza religiosa (32).

Ecco tutto ciò, che ci rimane del pii vasto monumento che siesi mai da un uomo innalzato ad onore, ed a vantaggio dell’umanità. Lei felice, che ha riconosciuto nell’opera della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, ed ha mirato in essa con religioso rispetto l’immagine di una divinità protettrice, e più felice ancora, se la saviezza de' Monarchi della terra, adottandone i precetti, animerà quest’opera, come un Dio animò quella di Prometeo!

Osservando quest’opera in generale, noi troviamo in tutto il suo sistema quel carattere di unità e di scienza, che la rende veramente originale, e degna del rispetto de' secoli e delle nazioni. Poche idee fondamentali servono di base alle tante interessanti idee, che concorrono a formarne la tela. Una verità dà lume all’altra che segue, e la luce, sempre maggiormente crescendo, diviene in tal modo il più chiaro meriggio. Le verità istesse dette precedentemente da altri, acquistano in tal modo un nuovo carattere, ed un aspetto più degno, ed in, tal modo la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE ci offre quell’accordo felice di tutte le parti, in cui unicamente è riposto il vero, che cerchiamo ne' pensieri e nelle combinazioni, ed il bello, che soggioga i nostri desideri e gli alletti Sembra in una parola, che il cavalier Filangieri abbia imitato ed uguagliato ancora la meravigliosa condotta della natura, poiché tutta l’opera non è che lo sviluppo, e l’emanazione di pochi principi universali e costanti.

Or, se l'unità, l'ordine, ed il nesso formano la solidità ed il nerbo di quest'opera, il fuoco di un retto e vigoroso sentimento le comunica quel grado di calore, che è tanto necessario per interessare e commuovere l’anima de' leggitori, e per condurla volontariamente alla troppo abborrita luce del vero. Mille tratti sparsi nella medesima additano un uomo superiormente virtuoso, penetrato dalle calamità, che percuotono l’umano genere per le viziose politiche costituzioni e pe’ difetti legislativi, e tormentato dal desiderio di prestargli un possente soccorso. Lontano da quella freddezza di sterile ragionamento, che non può certamente risvegliare il necessario entusiasmo delle grandi cose e del pubblico bene, egli espone tutte le dottrine con un eloquenza maschia ed insieme abbondante, che spesso rigetta gl'inutili ornamenti, spesso si veste di quelle robuste e maestose immagini, che aggiungono nuovo splendore alla verità, e ne rendono più toccante, e persuasivo il linguaggio, con un’eloquenza, che ricca di cognizioni e d’idee talvolta ne spiega la pompa, e talvolta le suppone o semplicemente le addita; con un’eloquenza, che ora cammina con imponente e tranquilla grandezza, ed ora si slancia, e s’innalza, e si sostiene, e discende, e si arresta, traendo la sua beltà e l’ordine suo dall’istesso disordine, e da un’apparente irregolarità; con un’eloquenza, che lungi di piegarsi al giogo dell’espressioni, le domina imperiosamente e le comanda, ed in cui la negligenza di alcune di esse è figlia de' gran movimenti dell'anima dello scrittore; con un’eloquenza in somma, che comunica il moto e la vita al più arido soggetto, e che ragiona, dipinge, istruisce, persuade e diletta.

Or di quanto una tale eloquenza non è superiore a quell’arte vana e volgare, che freddamente misura le parole e le frasi? Di quanto non è superiore a quell’eloquenza, che si arresta alla sola melodia della lingua, e si restringe a combinar parole, per incantare i sensi con una sequela armoniosa di voci? Di quanto non è superiore a quell’applaudita rapidità che confonde ed intralcia gli oggetti; a quel preteso raffinamento, che sopprime tutte le idee intermedie; ed a quella creduta sublimità, che affetta di rinchiudere in un solo pensiero il germe di una lunga serie di altri?

Non pertanto non è da tacere, che v’ha in quest’opera talune idee di riforma, che ad alcuni son sembrate a prima vista d’impossibile esecuzione. Son sembrate filosofici sogni, da mettersi all’istessa scranna colla pace perpetua dell’Abate di S. Pietro, e con altre tali benefiche immaginazioni di nomini soverchiamente riscaldali dall'entusiasmo dell'umanità. Ma, tralasciando, che queste stesse illusioni sarebbero in se stesse bastantemente preziose, poiché ben possono preparare alla posterità felici rivoluzioni; tralasciando ciò, ò da riflettere, che i cangiamenti e le riforme proposte dal Filangieri ne' diversi rami della Legislazione, non si dovrebbero separatamente praticare. Suo intendimento si è, che tutto unitamente si avesse ad eseguire. In questo sol modo tutte le parti del suo sistema conseguirebbero senza dubbio un effetto felice. Le utili riforme, ch'ei propone, rinvengono tatto l’ostacolo negli abusi, ne' mali, ne pregiudizi introdotti dall'oppressione, dall’infelicità de' tempi, dall’ignoranza, dalla superstizione, dalla collisione e dalla diversità de' particolari interessi Si educhino dunque i cittadini, s’istruiscano, s’illuminino, si faccia loro godere il massimo grado di civile libertà, si leghino i privati interessi col vantaggio comune; e la pubblica morale congiunta alla pubblica coltura non farà riguardare come sogni alcune forme di procedere ne' giudizj criminali, alcune benefiche operazioni economiche, ed il piano stesso di popolare educazione, che si propongono dal cavalier Filangieri. L’una cosa porga la mano all’altra. Ciascuna sia cagione ed effetto nel tempo medesimo; e la felicità degli nomini la loro virtù, la tranquillità loro, e la sociale sicurezza ne saranno gli utili e salutari prodotti.

Ma non era la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE l’opera sola che occupava tutte le filosofiche cure del Cavalier Filangieri. Mediocri talenti, che guardate il termine delle vostre vedute come la più vasta misura di ogni possibile estensione, spiriti volgari, che consumate tutta la vostra energia sopra di un solo oggetto, e che vi sopite in seno di qualunque scarsa e debole gloria, ascoltate quali altre letterarie fatiche quest’illustre filosofo si era già proposte, e quanto spazio a voi ignoto intendeva di percorrere. Comeché quello che si trae da pochissimi manoscritti rimastici, a soli disegni ed a brievi e smorte linee riducasi, pure se tralasciassi di conservar ne la rimembranza, crederei di mancare a quell'esattezza, di cui mi son fatto debitore versò l’umanità intera, subito che ho intrapreso a registrare la storia del cavalier Filangieri.


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Egli adunque disegnava di scrivere dopo terminata la SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, la NUOVA SCIENZA DELLE SCIENZE. Intendeva in quest'opera ridurre tutte le Scienze a quegli ultimi e pochi generali principi, da' quali derivano, come da fonte, tutte le serie di verità, e di dottrine che concorrono a costituirle. L’idea di un’opera si fatta gli nacque allorché scrisse nel sesto volume della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE il piano, secondo cui si dee regolare la scientifica educazione degli individui della seconda classe del popolo. Ragionando ivi del modo, come si debbano comunicare agli allievi le istruzioni scientifiche, rifletté, che tutte le verità hanno un nesso tra loro, a che questa catena di continuo interrotta agli occhi degli uomini è cosi continuata nella suprema intelligenza della Divinità, che tutto il sapere di essa si riduce ad un principio unico ed indivisibile, del quale tutte le altre verità non sono che le conseguenze più o meno remote. Egli aggiunse che, se noi potessimo conoscere tutte le verità, noi potremmo discovrire questa catena, noi potremmo giugnere a questo principio. Allora ogni scienza dipenderebbe da un solo principio, ed i principi delle diverse scienze non sarebbero altro, che le conseguenze giù immediate di quel principio unica ed invisibile, nel quale verrebbero tutte comprese(33).

L’oggetto dunque di questa nuova opera era di scovrire, il più che fosse agli stretti limiti dell’umana intelligenza possibile, il nesso, ed il legame delle verità, che a ciascuna scienza appartengono. Nell’impossibilità di giugnere fino al primo duello della gran catena del sapere onde partono le varie diramazioni costituenti le scienze diverse, il cavalier Filangieri si prometteva almeno di giungere a' primi anelli delle diverse serie di verità che a ciascuna diramazione appartengono, e per questo mezzo sforzarsi di pervenire a' primi principi di ciascheduna scienza. Intendeva in somma di sviluppare la metafisica di tutte le scienze, di condurre tutte le verità particolari al principio il più generale; e di fare per tal modo di tutte le scienze una scienza sola universale e superiore, guidando l’intendimento umano fino all’ultimo ed eccelso grado di sapere, di cui sia suscettibile la sua perfettibilità.

Per sì fatta opera il cavalier Filangieri nutriva un indicibile passione, ed il germe d’una produzione così grande era già cominciato a fecondare nello spirito suo. Quindi, allorché interrompeva per qualche tempo il suo continuo travaglio sulla SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE si rivolgeva a meditare su di quest'opera, del cui oggetto amava di fare un mistero anche ai più scelti amici suoi. Ma tra le sue carte non si è rinvenuto altro su questo argomento, che un foglio, dove son notati alcuni libri che dovea consultare per questo gran lavoro; ed un frammento dell'introduzione dell’opera, che io qui, fedelmente trascrivo, poiché disegna con somma energia tutto il gran piano della medesima. Dobbiamo queste poche linee preziose ad un momento di nobile e rischiarato entusiasmo;; momento felice in cui lo spirito dell’uomo osò innalzarsi fino a quest’altezza infinita. Per quanto deboli sieno i raggi, che di un’immensa luce questo frammento lascia cader su di noi, essi ci debbono riempire di ammirazione, ed elevare il nostro spirito, mostrandoci fino a qual punto possano giungere le forze delle facoltà intellettuali dell'uomo.

Che sappiamo noi (egli dice) che possiamo sapere? Da qual parte i confini delle scienze sono irremovibili, ed a qual parte si possono estendere? Quale è la loro imperfezione necessaria, e quale la riparabile? Quali sono i vuoti, che interrompono la gran catena della verità; e quali di questi si possono empire, e quali saranno eterni? Fin dove è permesso all’uomo di restringere il numero de' principi, o sia, che è lo stesso, fin dove gli è permesso di avvicinarsi a quella verità unica, dalla quale tutte le altre procedono e quali sono gli ostacoli insuperabili) che gl'impediranno sempre di giugnervi? Ecco gli oggetti della Nuova Scienza delle Scienze, ed ecco il gran passo ch'essa presenta all'intelletto umano.

Guardiamo dunque le scienze come le guarda la Divinità. Poniamoci al di sopra di esse per contemplarle, esaminarle, giudicarle. Ciò che ora ha un solo aspetto, allora ne avrà più. Ciò che ora non si risguarda, che da un lato, allora si guarderà da tutti. Noi vedremo da sopra in giù il vertice di queste gran masse, e noi convertiremo, quanto più si può, questi arcipelago d? isole in una gran catena di Montagne.

Meditava inoltre un nuovo sistema d’istoria, cui dava il titolo d’ISTORIA CIVILE UNIVERSALE e PERENNE. Con questo egli intendeva sviluppare nell'istorie particolari di tutte le nazioni l’istoria generale e costante dell’uomo, delle sue facoltà, delle inclinazioni sue, e del loro successivo sviluppo, della prodigiosa varietà delle costituzioni civili e politiche che ne son risultate; della influenza di queste sulla condizione generale della specie umana, e sulla felicità o infelicità degl’individui; del corso delle loro idee morali e scientifiche, delle loro opinioni, de' loro sistemi religiosi; e de' progressi tutti della società dalla capanna del selvaggio fino alla reggia del despota, dillo stato della prima rozzezza fino agli ultimi raffinamenti della civilizzazione, seguendo esattamente in tutto il còrpo d’istoria dell’antico e del novello emisfero i diversi periodi della sociabilità, del perfezionamento e della coltura dell’uomo.

Dell’idea di quest’opera egli fece qualche motto nel sesto volume della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE(34),ove anche disse di aver preparati alcuni materiali per la medesima. Ma tra le sue carte appena si è rinvenuto un brieve foglio contenente i titoli di alquanti libri, che consultar dovea per la precisa e distinta serie di fatti, che servir poteano di base ai ragionamenti suoi ed al suo sistema. Era per altro suo invariabile costume di non mai cominciare a distendere e scrivere pensiere alcuno relativo agli oggetti delle opere sue, se prima non avea pienamente digerito e maturato interamente si fatti oggetti, e formato l’intero piano, secondo cui dovea travagliare. La sua mente era sì vasta e sì vigorosa, che senz’altro notamento da se sola bastava non solo a divisare ed ordinare, ma a ritenere eziandio entro di se qualunque più ampia, e più difficile serie di argomenti e d’idee.

Ma che son mai tutte queste grandi produzioni dello spirito; che son mai le più difficili combinazioni delle scienze, ed i più maravigliosi calcoli della ragione a fronte delle virtuose azioni, delle sublimi qualità di cuore, di quell’aurea condizion di costumi, che non contenta di riscuoter rispetto ed applauso, ha il pieno diritto d’intenerire, e di accender gli animi altrui di soave interesse e di amore? Se l'elogio degli uomini di lettere di rado oltrepassa la sola commendazione de' talenti; se di rado le sublimi doti dello spirito sono accompagnate da quelle più sublimi di una virtù rischiarata; se questa, che dovrebbe esser sempre l’effetto de' lumi, di rado si vede ad essi con amichevole nodo congiunta; se di rado al genio di Platone si rinviene unita l’anima di Socrate e di Aristide; qual prezioso tesoro non si possedeva da noi nel cavalier Filangieri, in cui trovavasi compiutamente questo raro ed insieme quest'ammirabile accordo tra lo spirito ed il cuore, formati grandi dalla natura, e renduti più grandi da un’utile e vera filosofia, Or, chi mi darà la voce e le parole convenienti a degnamente dipingere la beltà dell’anima sua; quel candore che la distingueva; quell’universale beneficenza; quell’ardente amore dell’umanità; quella singolar dilezione della patria; quel tenace attaccamento sincero a' suoi doveri ed a' principi suoi; quell’esatta giustizia, non degenerante in rigore; quell’amicizia santissima, e sempre vie più fervida e cara: quella pura e sublime religione, e tutto il resto di quell’ampia schiera di eccelse virtù, ch'erano. annidate, come in lor sede, entro il suo nobile petto?

Il carattere morale di un uomo è quell'ultimo, ed eminente risultato della combinazione naturale e fattizia delle facoltà, delle. opinioni, delle affezioni, de' sentimenti e delle abitudini, per cui è somministrata all'anima un’incognita forza, che unisce quasi in un punto solo l’azione alla volontà e la volontà al pensiere. V’ha degli uomini, ne' quali un costante sistema di principi e d’idee tien luogo di carattere; ve n’ha degli altri, ne' quali il carattere solo tien luogo di principi e d’idee: ma quando in un uomo il carattere morale, ed i più saldi e veri principi stringono insieme, allora è questa l’opera grande, e privilegiata della natura, e dell’educazione, ed è quello per appunto, che perfettamente avveniva nel carattere del cavalier Filangieri.

La più viva ed energica sensibilità ne formava la base, non quell’apparente sensibilità, che dee piuttosto chiamarsi vana e ridicola ipocrisia del nostro secolo, né quella vera, ma comune, la quale si agita al solo aspetto della pena e del dolore, e si calma ben tosto volgendo altrove gli sguardi; ma una sensibilità cosi vasta, così durevole, cosi profonda, che giungeva ad unire la particolare felicità di lui a quella di un'intera nazione, che presentavagli ugualmente l’infelice che gli era vicino, ed il povero ignoto nel feudo della più remota provincia; che gliene faceva ascoltar i pianti e gliene mostrava le lagrime, che nell'immensità dell'universo distrugggeva le distanze che separano gl'infelici, e gli approssimava in ogn’istante tutti quegli oggetti, che poteano colpire ed interessare il suo cuore, e che lo identificava in un certo modo con questi oggetti, e sembrava confonder colla loro la sua propria esistenza.

Da un fonte sì ampio sorgeva nel cavalier Filangieri la beneficenza, amabile virtù, il cui solo nome risveglia una folla d’idee consolanti, virtù, che sola basterebbe alla felicità del genere umano, se ricevesse ugual culto in tutti i cuori degli uomini. La sua grande anima non fu mai chiusa all’afflitto, né la sui mano all’indigente o all’oppresso. Per seguire gl'irresistibili e soavi impulsi del cuore, si formava egli un superfino, col restringere grandemente i suoi pur troppo pochi e moderati bisogni. Deh! perché non uscite dagli oscuri tetti, ove vi nascondono la povertà e la vergognasfortunate famiglie? Perché non mi dite con quanta abbondanza, con quale delicatezza, con qual fertile e raffinata pietà taceva egli colare nel vostro seno i suoi non preveduti e non implorati soccorsi? Con quanto amore, con qual tenerezza la sua mano asciugava le vostre lagrime, i suoi detti consolavano il vostro dolore? Quanti tratti di generosità, degni per sempre della posterità e della luce, nascose egli in tenebre vie più generose! Quante infelici e neglette, a timide e vereconde virtù raccolse sotto la sua ombra benefica! Quanti talenti mancanti di autorevol favore, non sempre a chi più lo merita accordato, promosse e sostenne! Tutte in somma le disposizioni dell’anima sua gli offrivano una perenne sorgente, e fin anche le occupazioni dell’intelletto gli presentavano costanti oggetti di soave interesse per la sua sensibilità. Niente nella natura, niente nell’ordine della società gli era indifferente; poiché tutto ei rapportava alla sorte migliore degli uomini, ed al grado di felicità di cui possono essere suscettibili. Il loro bene, la loro morale e civile rigenerazione incessantemente occupavate; e nei solitario suo gabinetto mentre meditava in silenzio, la dolce immagine dell'umana felicità gli era sempre presenta, e il rinfrancava nel corso delle più gravi fatiche e delle più lunghe vigilie.

A quest’ardente ed estesa beneficenza, a questo spirito di umanità in generale, congiungeva egli un più fervido speciale amore per la sua patria, cui bramava, che i pregi tutti di natura e di fortuna, ond'è fornita, fossero eminentemente accresciuti per florido commercio, per viva sollecitudine ed industria, per utile ed universale coltura; onde questa felice parte d'Italia alla primiera dignità ed all’antica floridezza compiutamente giugnesse.

E chi può dire come avvampasse nel cavalier Filangieri il sacro fuoco di quegli altri sentimenti, che dispandono la loro energia in una sfera più stretta, e fan quindi sentire con più dappresso i loro benefici effetti? Quale spettacolo più tenero e più grande, che quello di due esseri uniti sincerameli te da' legami dell'ancore e della fedeltà, ne quali questi sentimenti si succedono scambievolmente, si variano, e lungi dall'esaurirsi, sempre con nuova forza si producono? Secolo voluttuoso, che stanchi tutte le parti per crear nuovi piaceri, e sdegni quelli che partono dalla virtù e da' costumi; anime guaste e corrotte, che deridete l’innocenza de' coniugali trasporti, a voi non ragiono. Voi non intendereste i miei detti, e ridereste di essi. Cuori sensibili e puri, venite, contemplate il cavalier Filangieri a fianco alla sua virtuosa consorte, in mezzo ai suoi figli. Ivi egli abbandonavasi a tutta la semplicità dell’anima sua, ed a tutta l’espansione del suo cuore. Ivi apprendevasi coll'esempio le più chiare lezioni di costume e di virtù. Ivi vedevasi appieno non esservi felicità paragonabile a quella, che serbano alle anime incorrotte le dolcezze dell’amore coniugale e della vita domestica.

L’amicizia, che discende nelle anime umane insieme colla virtù, ed insieme con essa ne parte; l'amicizia che non può sorgere né dall’interesse né dalla vanità, né da quel cieco istinto cui si dà il nome di simpatia, ma nasce e si alimenta per più nobili ed elevate cagioni; l’amicizia, che attenta dalla grandezza vive sotto l'ombra della più perfetta uguaglianza, e che, simile al sole, il quale non giunge a riscaldar le campagne, allorché le nubi si oppongono all'attività de' suoi raggi, non riscalda quel cuore, in cui non respirasi l'aura felice della più pura innocenza; l'amicizia, io dico, qual forza non ebbe nell'anima del cavalier Filangieri, in cui avean tanta forza l’innocenza, la virtù, la saviezza ed i più cari sentimenti di umana uguaglianza? Lontana da que’ vani legami di convenienza e di rapporti, da quel reciproco commercio di modi apparenti e di velato amor proprio, di affettata sollecitudine e d’indifferenza fatale, cui a torto si accorda un si sagro nome, l’amicizia vestivasi nel suo cuore del più sublime carattere. Tutto ciò che poteva aumentarla, dandole nuovo splendore, o rendendola più viva e fervente, diveniva per esso un potente bisogno. Intendendo sempre a giovare coll’opera, col consiglio e con ogni maniera di amoroso ufficio, la semplicità, l’espansione, la dolcezza, l’attività, la costanza ne formavano le principali caratteristiche, siccome i talenti e le virtù ne formavano l’unico oggetto.

A queste principali qualità del suo cuore aggiungevasi il corteggio di tante altre ugualmente virtuose e pregevoli, che difficile sarebbe, non che il descrivere, il sol noverarle. Un nobile disinteresse, che non solo gli facea sdegnare d’invocar la fortuna, ma gliela facea anche sdegnare, quando essa volontariamente volea andare da lui; una sincerità così naturale, e così esente da ogni spezie di affettazione e di arte una buona fede di carattere che agiva sempre secondo la realità delle cose, e non secondo le artificiali convenzioni; un amabile bontà di cuore; un’adorabile semplicità di costumi, eran tante invisibili e soavi catene, per le quali il cavalier Filangieri a se legava tutti i cuori degli uomini, ed a se traeva il concorde suffragio e la venerazione di loro. Nemico del fasto indocile e dell’ostentazione, unico patrimonio della debolezza e dell’ignoranza, velo imponente, di cui sempre la mediocrità e la falsa dottrina si copre; esente del pari da quell’orgoglio che s’innalza e da quello che si umida, e’ temperava di tal piacevolezza la gravità de' suoi portamenti, che non meno i valorosi e saggi uomini, ma il volgo eziandio era invitato ad amarlo. Indulgente con uguale dolcezza verso tutti coloro che gli si accostavano, egli mette vasi all'istesso livello col filosofo e coll’ignorante; e tanto nella corte quanto nella capanna, tanto col saggio quanto collo stolto, i suoi modi eran sì semplici ed uguali, che ben può dirsi, che ei cercasse di nascondere la sua superiorità con cura maggiore di chi cerca di occultare i suoi vizj.

Lieto, ameno, favellatore, ed anche talvolta scherzevole in compagnia degl'intimi amici suoi, presta vasi colla stessa facilità a' più profondi ragionamenti scientifici, ed a quelle compagnevoli dispute letterarie, che fan rivivere l’antica accademica libertà, e rendono gli amichevoli trattenimenti, e la piacevole consuetudine, reciproca disciplina degl’ingegni. Erano allora que’ momenti felici, ne' quali vedeasi scorrere dalle sue labbra un torrente di sapienza, e spargere a lui d’io torno un’ampia luce, che rischiarava qualunque più ardua ed inviluppata quistjone.

La modestia (35), la moderazione (36), la sincera negligenza per la gloria letteraria, l’avversione decisa per tutto ciò che si chiama gran mondo, eran tante altre doti, che concorrevano a formare il carattere morale del cavalier Filangieri, e che congiunte ad una indicibile superiorità di coraggio, venivali coronate da una nobile e sublime prudenza, di cui poche anime, e quelle soltanto che più approssimavano atta sua giugnevano a vederne il leggerissimo impasto, non quella prudenza che, figlia di un'ambizione fatale, a torto usurpa un tal nome; non quella, che ripone la sua forza, ed i vantaggi suoi nel solo nascondersi e mascherarsi, e sempie. ne' tortuosi giri dell’intiigo e dell'artificio si avvolge, ma quella chiara e virtuosa prudenza, ch'è figlia della saviezza e della giustizia, quella rara prudenza, che illuminata sempre da' raggi purissimi della verità è madre feconda di felicità e di pace.

Egli e pur noto, che tutti gli uomini assorti in profonde meditazioni, ed occupati d’idee grandi e genera' i vivono nell'oblio e nell'ignoranza di alcuni cortesi doveri del commercio ordinario della vita, e degli usi e delle attenzioni del mondo. Insensibili ad ogni altra specie di desiderio, la loro anima non si apre che a quello solo di rischiararsi, e di rischiarare. Ma il cavalier Filangieri combinava alla profondità de' lumi ed all'originalità del genio, quella facilità di tratto, quelle grazie possenti e lusinghiere, quelle avvenenti e gentili maniere, che non acquistate con arte, ma donategli liberalmente dalla natura, non prodotte dall’efimero desiderio di piacere, e da un raffinato calcolo di amor proprio, ma da una semplice umanità, e da una pura beneficenza, negligentavauo talvolta l'esteriore, ma annunciavano sempre l’onesto uomo, il virtuoso cittadino, ed il filosofo amabile ed indulgente.

Tante e si pregevoli qualità, tante singolari virtù avevano il lor germe nel cuore, ma venivano animate e sostenute dai lumi de l intelletto, e da quella forza ed energia dell’animo, in cui è unicamente riposto il fondamento dell’eroismo, ed il supplimento di tutte le più grandi virtù. É per essa, che queste progredendo oltre i limiti ordinari divengono rare, straordinarie, meravigliose ed eroiche; ed era per essa, che tali divenivano nel cavalier Filangieri; siccome erano nell'istesso tempo elevate e più che umane rendute per una sublimissima religione, alla cui aura felice e feconda eran esse cresciute.

O religione! O amabile figlia del cielo! O tu, che presenti alla speranza il dono prezioso dell’eternità, e le idee consolanti di un Essere supremo e di una eterna esistenza! O tu, che somministri un potente sostegno alla virtù, e la rendi più sublime e più sovrumana! ove mai avesti un tempio, ed un’ara più augusta e più pura di quella, che ti aveva innalzata in suo cuore il cavalier Filangieri! Fornito di quei genio sublime che dal:’ intelligenza delle idee generali del buono, del bello, del grande e dell’onesto, è rapidamente condotto all'eccelsa cognizione dell'ottimo e del massimo, chi più di lui prestar potea la più degna adorazione alla santità, alla giustizia, alla perfezione della cagione primiera? Chi più di lui sapeva innalzarsi alla concezione di quest'Essere infinito, che con un tratto solo di potere e di amore formò l’universo, e ne regge e governa l’ammirabile economia? Meditando su questa, adorava egli profondamente il saggio Autore che vi si fa conoscere, conversava con lui, si penetrava della sua essenza divina, s'inteneriva a' suoi beneficj, benediceva i suoi doni.

Riponeva il cavalier Filangieri la parte principale del culto religioso nella imitazione della divina beneficenza, e nel rendere diffusiva, ed utile la propria sapienza e la propria virtù; ma non perciò trascurava veruna di quelle pratiche ragionate ed auguste di nostra santa ed illuminata religione. Persuaso intimamente della sua verità per interna chiarissima convinzione, ei rinveniva in queste pratiche nuovi motivi da elevarsi alle più rischiaranti contemplazioni; ed un tenero e raro sentimento lo accompagnava sempre nella meditazione de suoi agri misteri. In somma, nel culto di quest'illustre filosofo era sublimata la dignità della religione rivelata, siccome in tutte le azioni sue era essa commendata col fatto, e renduta tanto più amabile e cara, quanto è più rispettabile ed augusta.


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Oh com’egli abborriva quegli ernpj sedicenti filosofi che spargendo col precetto e coll'esempio il germe funesto delle più desolanti dottrine, scuotono da' fondamenti la salda base de' costumi, sciolgono il più fermo legame della società, calpestano, e rovesciano ciò che v ha in terra di più grande e di più maestoso, tolgono agli afflitti l’ultima consolazione nelle loro miserie, a deboli l'unico sostegno nelle loro disgrazie a' potenti l’unico freno, che arresta le loro dirotte passioni, e strappano dal fondo del cuore umano l'utile rimorso al delitto, e la dolce speranza alla virtù!

Ed oh come nell'istesso tempo era pieno di quell'amabile tolleranza, per cui riguardar si dee l’errore de' nostri fratelli non come un delitto che convenga punire, ma come una infelicità che bisogna scusare, come un’ignoranza che bisogna istruire! Quante volte ei non disse, che quando non si può rischiarare l'ottenebrato, quando non si può ricondurre nel diritto sentiero lo smarrito, altro non resta, che pregare per lui quell'Ente supremo, che solo può regnar sulle idee, ed ammollire i pensieri ed i cuori? Lo spirito d’intolleranza e di persecuzione era per esso un orribile mostro, figlio dell’orgoglio e del fanatismo, più funesto all’umanità che la peste e la guerra, il quale ha spesso cangiato la più tranquilla e pacifica religione in maschera artifiziosa, sotto cui uomini malvagi han celato l’ambizione, l’avarizia, eia privata vendetta, cercando di soddisfare le più ree passioni col pretesto di vendicare gli oltraggi della Divinità.

Un’anima dotata di quest'ultimo apice di Religione, ch'è ignoto al volgo ed agli spiriti mediocri, e che slanciandosi fino al santuario della più occulta verità, sapea tenersi ugualmente lontana dagli estremi, dovea certamente esser accusata di ateismo da' fanatici bigotti, e di bigottismo da' pretesi spiriti forti. Tanto in fatti avvenne nella persona del cavalier Filangieri, il quale non però, dispregiando del pari i sarcasmi degli uni e le calunnie degli altri, ritrovava in se stesso un testimonio, che ben lo dispensava da quello degli uomini

E ciò basti aver detto del carattere morale del cavalier Filangieri, di cui non pochi lampi trasparivano nella forma esteriore del corpo. Dotato dalia natura di dignitosa bellezza, e di sanità robusta, la sua statura era piuttosto alta, e la sua persona maestosa ed elevata; il suo portamento era agile e decoroso: la sua figura era svelta; ed i tratti del suo viso nobili e leggiadramente regolari. Gli sguardi pieni di dolce malinconia, e l'intera fisionomia ben esprimevano ciò che occupava il suo vasto intendimento, e ciò che dominava nel tuo benefico cuore.

L’analisi di questo carattere morale avrebbe richiesto uncarattere che perfettamente somigliato gli fosse. Nell’impossibilità di distinguere ed enunciare i tanti pregi che l'adornavano, e di cui la più gran parte era agli sguardi volgiti velata, ho parlato soltanto di quei, che in sì difficile uopo il profondo colore e la piangente amistà han saputo confusamente rammentarmi. Ma non si creda, che l'amistà o il dolore sieno stati capaci d’ingrandire per poco al mio sguardo l'immagine di si nobili oggetti. La memoria del cavalier Filangieri è pur troppo recente, e la sincerità de' miei detti è pur troppo attestata dall’universale consenso

Tempo e ora che io dica più distintamente del rapido e generale successo della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE e dell’amplissima gloria letteraria, che dalla pubblicazione di quest’opera al Filangieri provenne. Non vi ha forse libro Italiano o estero, che avesse avuto in sorte nel corto giro di pochissimi anni tante e così varie edizioni, che fosse in più lingue così rapidamente, tradotto, e che s’innalzasse a tanta riputazione in tutta Europa, e fin nel novello emisfero. Dal 1780. finora. e ne contano già tre copiose edizioni Napoletane, altrettante fatte in Venezia (37), due in Firenze (38), una in Milano (39), ed una in Catania (40).

Gli esteri furon solleciti a spargere tra di loro un libro così grande e cosi utile. Il primo ad intrapenderne in Francia la traduzione fu un tal signor Lafisses, il quale ne scrisse al Filangieri fin da' 22 marzo 1783. e gli mandò in seguito un saggio della sua traduzione. Ma questo saggio non incontrò l’approvazione di lui. Molto più felice fu quella, che ne intraprese posteriormente il signor Duval Orgia, avvocato e pensionario del Re in Nogent le Retrou. Egli ne mandò alcuni quaderni al cavalier Filangieri, e gli dimandò alquanti rischiaramenti in data de' 22 maggio 1783. Ma la miglior traduzione, e quella che forse ha fatto rimaner gli altri dal cominciato lavoro, è stata quella del dotto sig. Gallois avvocato al parlamento di Parigi, di cui ne furono pubblicati i due primi volumi fin dal 1786. Una breve, ma degna ed elegante Prefazione di questo traduttore, premessa al primo volume, dipinge co’ più veri colori l’oggetto ed il merito di questa grand’opera, e la giusta celebrità, di cui essa gode nell’Italia, paese della terra, egli dice, in cui la scienza de diritti, e dei doveri degli uomini è coltivata con maggiore ardore, e forse anche con. maggiore successo.

In Germania se ne hanno due diverse traduzioni. La prima fu fatta in Zurigo dal signor C. R. Zink, e stampata in Altdorf net 1784. È premessa a questa traduzione una Prefazione del signor L C. Siebenkees pubblico professor di Diritto, nella quale si dà contezza delle varie edizioni Italiane di qp ics l’opera rapidamente l’una all’altra succedute, del risonante applauso e favorevole accoglienza di essa in Italia, del sud merito intrinseco, e delle particolari ragioni che facevano desiderare, che fosse sollecitamente trapiantala nel suolo Alemanno. Si rivolge anche il signor Siebenkees a mostrare la differenza degli oggetti del Montesquieu, e del Filangieri, ed a prevenire, che spesso le più applaudite opinioni del primo sono state degnamente combattute dal secondo. Finalmente vi ragiona di taluni abbagli nelle citazioni di varj scrittori, che erano corsi nell’edizioni Italiane, e che si eran corretti dal traduttore signor Zink, e di alcune dilucidazioni che questi avea stimato di fare in tanto note distinte di alcune espressioni dell’autore, che alludono a fatti, ed a persone delle antiche e delle moderne storie, che altrimenti non sarebbero stati intelligibili ad Una certa classe di leggitori.

L’altra traduzione Tedesca fu quasi contemporaneamente fatta dal signorGustermann,e venne altresì pubblicata in Vienna nell'anno 1784. Il traduttore dice nella sua Prefazione, ch’egli non crede di offender l’ombra del MontesquieuchiamandoilFilangieri il Montesquieu dell'Italia.Aggiunge, che tutti due questi tutori han meditato sull'istoria degli antichi con quello spirito di speculazione, e con quell'occhio osservatore ed esaminatore ch'è proprio del filosofo e del politico. Tutti due conoscono appieno l’istoria delle Nazioni presenti e passate, e le costituzioni loro. Essi ne giudicano da grandi filosofi, ciascuno relativamente a rapporti del soggetto che tratta. La differenza che passa tra questi due grande uomini, è, che il Montesquieu mostra le leggi come sotto, e perché così sono; ilFilangieri al contrario insegna come debbano essere, e perché debbano esser così. Il Montesquieu non osserva veruna progressione nelle dimostrazioni, e nelle conseguenze. Egli salta sulle idee intermedie e dice per conseguenza in gran parte degli aforismi, o come l’istesso Filangieri le chiama, delle grazie epigrammatiche. Il Filangieri all'incontro propone gli assiomi per ciascun oggetto principale della legislazione; e dopo averne stabilito e fissato le idee, da queste idee chiare, e dalla loro applicazione agli assiomi, fa nascere le conseguenze, e formandone nuovi assiomi subordinati, ne trae da essi nuove conseguenze. Egli fa vedere con una progressione distinta da un oggetto all'altro il rapporto ed il legame, che hanno gli oggetti isolati. In una parola, egli procede metodicamente, e cote ciò facilita infinitamente lo studio di questa scienza a coloro che vi si applicano. Egli non sagrifica all'idolo de nostri tempi, ch'è quello di declamare invece di ragionare. È vero che anche talvolta declama, ma lo fa soltanto dopo aver dimostrato bastantemente, e rischiarato per via di principi la materia che tratta. È allora ch'egli riscalda il cuore, per far riposare la ragione, e per prepararla a ciò che segue.

L’ultima traduzione, finora divolgata per le stampe, è la Castigliana, fatta in Madrid e cominciata ivi ad imprimere nel 1787. L’autore di questa traduzione è D. Giacomo Rubio avvocato ne regi Consigli. Ha egli premesso al primo volume una dotta prefazione in cui dice, che tra i moderni Savj, che han conosciuto 0 dimostrato i difetti delle vecchia legislazioni, e la. necessità delle loro riforme, occupano il primo luogoilMontesquieu ed ilFilangieri. Il Montesquieu ha unito alle sue vaste cognizioni una profonda erudizione, ed abbracciando il sistema di tutti i governi nel suo Spirito delle leggi, esamina queste filosoficamente, ed occupato tutto in investigare ciò ch'è succeduto; ci spiega lo spirito particolare, che animò i legislatori e le cagioni delle rivoluzioni avvenute. Il Filangieri all'incontro, volgendo le sue vedute a ciò che dee farsi, e seguendo da natura in tutte le parti sue, insegna a legislatori i mezzi più facili, per cui ne loro stati regni l’abbondanza e la tranquillità. S’egli sembra meno profondo delMontesquieu, le sue massime sono più semplici e meno esposte al! errore. Amendue, come due cittadini ed amici dell'umanità, han procurato la felicità degli uomini, segnando il cammino per andare alla perfetta legislazione e le loro opere debbono studiarsi da tutti coloro che bramano perfezionarsi nella scienza legislativa.

Il dotto signor Rubio ha aggiunto anche al secondo ed al terzo volume finora pubblicati altre brevi prefazioni. Ha inoltre stimato più opportuno di dividere l’intero piano di tutta opera, che il Filangieri premise al primo volume, in tanta parti quanti sono i libri della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE ed ha messo innanzi a ciascun libro la parte del piano ad esso corrispondente, a guisa di tanti particolari sommari. Vi ha aggiunto inoltre alcune note, soprattutto nel terzo volume. L’oggetto di queste note, non meno che delle prefazioni, è stato principalmente quello di far vedere che la legislazione della Spagna, per le savie cure di quel Sovrano e del suo degno Ministero, non sia ingombra di que’ tanti mali, che formano il soggetto delle forti declamazioni del Filangieri.

Io non credo di dover tacere, che quest'opera produsse all'Autor suo i più grandi letterari onori, e gli fece tanti amici ed ammiratori tra gli esteri e gl'Italiani letterati. Ma troppo lungo catalogo mi converrebbe di tessere, quando anche non altro segnassi, che i soli nomi di coloro, le cui lettere, scritte al Filangieri in attestato di osservanza e di stima, formano un ampia collezione. di cui sarebbe a desiderare che una scelta si facesse, e si pubblicasse ad onore dell'illustre defunto e della Napoletana letteratura.

Nondimeno, tacendo di moltissimi altri, non tralascerò di ricordare le lodi e gli applausi, che gli fecero tra gl'Italiani il conte presidente Carli, ed il conte Pietro Ferri, celebri ambedue per le loro vaste cognizioni economiche, e per le dotte opere pubblicate su questa parte interessantissima della Legislazione (41); l’abbate Isidoro Bianchi, troppo noto nellarepubblica delle Lettere pr varie eleganti filosofiche probazioni (42); il chiarissimo signor Cremani professore di giurisprudenza criminale nell'Università di Pavia, ed autore di applaudite opere su questo argomento (43); il celebre Clemente Sibiliate professore in Padova di belle lettere Greche e Latine (44); il senatore Gio. Bonaventura Spannocchi, uno de' migliori ornamenti del Senato di Milano, siccome la pubblica fama lo decanta, il quale strinse per lettere grande amicizia col cavalier Filangieri(45); e, per tacer di tanti altri, il conte Giulio Tomitano degnissimo, e colto letterato Veneziano (46); e tra i forestieri il dottissimo Francese Boullenois de Blezij (47), il celebre consigliere d’Yverdon signor de Bertrand (48), il maggior Weiss di Berna; il dottissimo signor Pastore!, autore di così celebrate opere sulla storia de' più grandi Legislatori; l’eruditissimo Danese Federigo Mùnter (49); e, per non distendermi in una lungi nomenclatura, il celebre Borno di Vienna (50), ed il filosofo e liberator dell'America, il chiarissimo dottor. Franklin, il quale mentre trattene va si in Parigi ks$e ed ani mirò i primi volumi della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE; ne scrisse all’Autore in più lettere i giusti encomj; ed indi, allorché inviò al nostro Sovrano il volume delle Costituzioni de' nuovi Stati confederati, ne mandò per lo stesso mezzo una copia al cavalier Filangieri, nobile e degno attestato dell’alta stima, che si aveva di lui nellapatria dell’umanità e de' fratelli, nel felice angolo della terra, dove si son rifuggite la buona fede, la libertà, l’uguaglianza e la virtù (51).

Ricorderemo ancora, che non forvi, dopo la pubblicazione della Scienza dilla Legislazioni, uomo di lettere, o altro colto. d illuminato forestiere, che tratto in Napoli dalla dolcezza del clima, da' moltiplici e maravigliosi oggetti della storia Naturale del paese, e dalle rispettabili reliquie dell’antichità che vi esistono, non avesse principal cura e pensiero di conoscere il cavalier Filandieri, e non ne partisse pieno di alta venerazione per le grandi qualità di spirito, e di cara amicizia per quelle viepiù grandi del suo nobile e virtuoso cuore.

Dopo tutto ciò era veramente a desiderarsi, che la nazione nostra nella morte del cavalier Filangieri non fosse rimasta paga di onorarne la memoria colle sole lagrime, e co’ più chiari segni d'universale lutto e dolore. Si avrebbero per essa in questo rincontro, più che in altro qualunque, dovuto imitare i pregevoli esempi della saggia antichità, e di non poche coltissime moderne nazioni, le quali rendendo funebri onori, ed innalzando durevoli monumenti a quegl'illustri cittadini che si son distinti nel loro seno, non hanno inteso di aggiungere altra gloria a quella già acquistata da essi, ma unicamente d’infiammare gli altri cittadini, ed i più tardi nipoti di lodevole emulazione e di nobile entusiasmo, promovendo in tal guisa la patria coltura ed il virtuoso costume, senza le quali cose mal può stabilirsi, e mal può reggere il bramato impero della felicità nazionale (52). Ma di altro finora jo dir non posso, se non che de' religiosi funerali celebrati al cavalier Filangieri nella chieda cattedrale della città di Vico ed in quella della città di Cava, in amendue i quali un’affettuosa eloquenza ne ricordò le lodi, ed una sincera stima ed affezione ne fu la promotrice e la fabbra (53),delle molte particolari dimostrazioni di letterato, ed amichevole culto rendutegli per varj chiari ingegni con eloquenti prose, e con eleganti poesie (54); e finalmente di quella solenne rannnemoranza di dolore e di plauso, celebrata per li più degni modi da una scelta società di veri amici, di cui questo grand’uomo non isdegnò di essere gran tempo la parte, l'ornamento migliore.

Ma queste memorie son pur oltre cresciute di quello che mio primo intendimento si fosse. O gran Filangieri, o tu, che cominciando la carriera della vita sorpassasti gli uomini i più grandi delle auliche e delle moderne nazioni, o tu, che insegnasti all’uman genere grandi cose, e più grandi ancora dovevi insegnare ed eseguire; o tu, che offristi a noi tutti l’esempio di ogni più rara, e pregiata e sovrumana virtù! anima grande! Se dal seno della bontà Suprema, ove riposi; se dalle perenni sorgenti, onde muove quella piena di felicità, che t’inonda, ti compiaci ancora delle più pure umane affezioni, non isdegnare il tributo, che ha ardito di renderti il tuo inconsolabile amico (55). Rivolgi a noi, alla patria, all'umanità tutta i tuoi sguardi. Fa' cessare le inutili lagrime, i vani sospiri, e sempre più e innalza, e tien fermi nella contemplazione delle tue grandi virtù, e nella memoria de' tuoi insegnamenti sublimi. No: né questi, né quelle debbono oltraggiarsi con un debole pianto. Ammirandole, e, se la nostra debolezza non fosse al di sotto di così gran modello, imitandole perfettamente, noi dobbiamo onorare le prime. Serbandone sempre viva la rimembranza, e praticandone compiutamente i precetti, noi dobbiamo onorare i secondi. Ecco il più degno omaggio, chi ti è dovuto: ecco il voto sincero che oso formare a nome di tutti coloro, che hanno in pregio la tua cara memoria, ed adorano insieme la virtù, la verità e la ragione.

Voglia il cielo, che il nome eterno del cavalier Filangieri faccia sopravvivere questo rozzo ragionamento a' primi momenti della pubblica curiosità e del pubblico dolore. Sapranno almeno i secoli venturi, che non la più eloquente, non la più dotta, ma la più tenera, la più sincera, la più dolente amistà ne ha pronunciato l’elogio.


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LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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INTRODUZIONE

Quali sono i soli oggetti che hanno fino a questi ultimi tempi occupati i Sovrani di Europa? Un arsenale formidabile, un’artiglieria numerosa, una truppa bene agguerrita. Tutti i calcoli, che si sono esaminati alla presenza de' Principi, non sono stati diretti che alla soluzione d’un solo problema: trovar la miniera di uccidere più uomini nel minor tempo possibile.

Si è proposta per oggetto di premio la scoverta d’unaevoluzionepiù micidiale. Non si è pensato a premiare l’agricoltore, che ha tirati due solchi nel mentre che gli altri non rito tirano che un solo: ma si è raddoppiato il soldo all'artigliere che ha avuta l’arte di caricare un cannone fra lo spazio di 4 secondi. Noi ci siamo addestrati tanto in un mestiere cosi distruttore che noi siamo in istato di distruggere ventimila uomini fra lo spazio di pochi minuti. La perfezione dell’arte la più funesta all'umanità ci fa vedere senza dubbio un vizio nel sistema universale de' governi.

E più d'un mezzo secolo che la filosofia declama contro questa mania militare; è più d’un mezzo secolo che i filosofi si affaticano per richiamare le mire de' Principi agli oggetti più utili, edopo Montesquieu non ci è stato scrittore che abbia intimato agli uomini la necessità di una riforma nella legislazione:Quasi tutti gli scrittori d’un secolo, dice un grand’uomo, Poeti, Oratori e filosofi, sono trascinati e ristretti da ciò che gli circonda.La natura in ogni epoca imprime, per così dire, il medesimo suggello a tutte le anime, e i medesimi oggetti ispirano le medesime idee. La legislazione è oggi questo oggetto comune di coloro che pensano. Gli errori della giurisprudenza ci circondano: ogni scrittore procura di rilevarli; e da un’estremità dell’Europa all’altra non si sente altro che una voce, la quale ci dice che le leggi del Lazio non giovano più all'Europa.

Queste tante voci riunite, questo strepito universale, questo grido della ragione e della filosofia è finalmente giunto sino a troni. La scena si è mutata, ed i Principi han cominciato a conoscere che la vita e la tranquillità degli uomini merita maggior rispetto; che ci è un altro mezzo indipendente dalla forza e dalle armi per giungere alla grandezza; che le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale; che la bontà delle leggi è inseparabile dall'uniformità; e che questa uniformità non si può ritrovare in una legislazione fatta tra lo spazio di ventidue secoli (56), emanata da diversi legislatori in diversi governi, a nazioni diverse, e che partecipa di tutta la grandezza dei Romani, e di tutta la barbarie de' Longobardi.

Si sarebbe senza dubbio dato un gran passo nello spazio della felicità de' popoli, dimostrando solo ai Sovrani che la legislazione merita una riforma. Ma si è anche dato un altro passo che più c’interessa: si sono tolti gli ostacoli.

Il popolo non è più schiavo, ed i nobili non ne sono più i tiranni. Il dispotismo ha bandita nella più gran parte dell'Europa l'anarchia feudale; ed i costumi hanno indebolito il dispotismo. Se prima non si urtava la gran macchina de' feudi, niuna riforma utile era da sperarsi nelle leggi. Nel mentre che la più gran parte del genere umano era la più avvilita; nel mentre che tutti i diritti erano incerti, che la spada teneva il luogo della giustizia, che le oppressioni regnavano da per tutto, perché coloro, che dovevano ubbidire alle leggi, erano più forti di colui che l'emanava; nel mentre che gli odj inevitabili tra vicini gelosi e deboli mettevano da per tutto gli argini, ed impedivano la comunicazione; nel mentre che ogni città, ogni paese era separato, come si sarebbe mai potuto intraprendere una riforma nelle leggi? come maneggiate tanti interessi opposti? chi avrebbe ardito fra le tenebre d'un governo militare, superstizioso e feroce, di mirare un oggetto così complicato? chi avrebbe potuto combinare tanti rapporti? I Re, privi della maggior parte delle loro prerogative, erano troppo deboli per sostenerla. I nobili, che avevano rotto quel Dodo che gli univa allo stato, erano troppo potenti per soffrire una riforma che doveva prima d’ogni altro cadere su i diritti che si erano usurpati; e il resto de' cittadini degradato ed avvilito, era troppo ignorante per ispirarla e per dirigerla.

Siccome lo stato era allora diviso in tante por rioni per quanti feudi conteneva; siccome ciascheduna di queste parti era isolata; il talento privo della comunicazione si restringeva in una certa sfera di cognizioni e di lumi, nella quale era costretto a fermarsi. La picciolezza medesima degl'interessi doveva allora indebolire gl'ingegni, ea impedire che le idee si estendessero. La legislazione doveva dunque essere un oggetto troppo sublime, etroppo complicato per un anima avvezza a non conoscere altro cielo, se non quello che l’aveva veduto nascere, né altra specie di governo, né altri interessi, se non quelli d’un tiranno che la opprimeva. In questo stato di cose non sarebbe nato né un Montesquieu, né un Lock, né alcuno di quegli uomini necessari allo stato, che debbono precedere e dirigere i governi nelle grandi intraprese. Per togliere dunque questi argini, per dare agl'infegni quel grado d’elevazione che un lavoro così difficile richiede, bisognava che i gran Sovrani e i Re cominciassero dal formare alcuni corpi da tante masse disperse, bisognava ristabilire i legami tra gli uomini, bisognava sopratutto che gli uomini lasciassero d’essere schiavi, poiché la natura ha proibito allo schiavo di pensare (57).

Tolto questo primo ostacolo, bisognava superarne un altro. L’utilità pubblica richiedeva che si estirpasse tutto quello, che si opponeva a' progressi de' lumi e delle cognizioni, senza de' quali ogni riforma, e particolarmente quella delle leggi, sarebbe stata difettosa e funesta. Indebolito il potere de' nobili, bisognava dunque prima d'ogni altrodissipare alcuni errori che il fanatismo aveva consacrati, e che l'ignoranza, troppo facile ad esser sedotta, aveva ricevuti. Per ottener questo fine la filosofia è venuta in soccorso de' governi, ed ha prodotti gli effetti più salutari. La superstizione più non esiste. Questa nemica dichiarata d’ogni utile riforma, questa leva che agita la terra, fissando il suo punto d’appoggio ne' cieli, questa tiranna degli ingegni, che in tutti i secoli ha dichiarata una guerra a coloro che per fortuna degli altri, ma che per loro propria disgrazia, la natura ha condannati ad esser grand'uomini, che nella Grecia condannò Socrate a morire, caricò di catene Anassagora, esiliò Demetrio Falereo, che in Olanda innalzò un rogo per sacrificare all’obblio ed al zelo d’un ministro imbecille le opere di Descartes, che io Inghilterra perseguitò Bacone (58), che in Francia accusò Gerbert come mago, e turbò sino le ceneri di que’ solitari restauratori delle scienze e della morale ec. la superstizione, io dico, che perpetuando tra gli uomini l’ignoranza e gli errori, avrebbe per sempre impedita o renduta funesta ogni riforma delle leggi, è stata proscritta; e la religione, che il fanatismo aveva per più secoli imbrattata col sangue delle nazioni e colla miseria de' popoli, è divenuta quale deve essere, e quale è stata nella sua origine, il vincolò della pace, e la base delle virtù sociali. Già il sacerdozio più non si mescola col governo. Lo stato è più tranquillo, e l’altare è meglio servito.

Tutto si è mutato: l’idee politiche istesse hanno perduto quel carattere di ferocia e d’intrigo che le rendeva perniciose, invece di renderle utili. Più non si sentono quelle massime, se non insegnate, almeno messe in un'equivoca veduta da un politico, che ha ottenute le indi degli uomini, quantunque abbia compromesso contro i loro dritti (59). Che un nuovo Machiavelli ardisca oggi di dire, che un Principe, che vuol mantenersi, deve imparare a non esser virtuoso, se non quando il bisogno lo richiede; ch'egli deve custodir con cura i suoi beni particolari, e profondere quelli dei pubblico; ch’egli non deve adempire alla promessa, se non quando può farlo senza arrecarsi svantaggio; che non deve esser virtuoso, ma apparirlo; che deve mostrare d’esser umano, fedele, giusto e religioso, ma che deve imparare ad esser l’opposto; che egli non può osservare tutto ciò che fa passare per buoni gli altri uomini, perché i bisogni dello stato l’obbligano spesse volte ad operare contro l'umanità e contro la religione; che dee piegare il suo spirito, secondo soffia il vento della fortuna, senza allontanarsi dal bene; finché si può, ma anche senza farsi uno scrupolo di commettere il male quando gli giova: che questo nuovo Machiavelli procuri finalmente di stabilire il vizio accanto a' troni; tutta l’umanità si scaglierà contro di lui, e la pubblica disapprovazione sarà il giusto premio della sua bassezza.

Era forse desiderabile una riforma nelle leggi in un tempo, nel quale coloro che dovevano proporla e dirigerla pensavano e scrivevano a questo modo? Ma a tutti questi vantaggi se ne aggiugne un altro, forse il più necessario, ma il più difficile ad ottenersi. Questo è il diritto di poter proferire impunemente la verità a' Principi.

Si sa che in questi ultimi tempi un suddito ’d'un gran Re dell'Europa, destinato a parlare al suo Principe nella più augusta cerimonia dello stato, nel momento della sua coronazione, momento nel quale in altri tempi si stringevano le catene de' popoli, in questo momento, io dico, questo suddito coraggioso ardì di chiamare il suo Re innanzi al tribunale della pubblica opinione, ricordandogli che questo tribunale dovrebbe un giorno giudicarlo; ed ebbe il coraggio di mostrargli in picciola distanza quel punto, nel quale finiscono i suoi diritti, e cominciano i suoi indispensabili doveri (60). Questo linguaggio, che fin da che la Grecia è decaduta, da che Roma ha lasciato d’esser libera, più non si è inteso fra gli uomini, oggi è divenuto il linguaggio comune de' filosofi e degli scrittori. Che se il nascondere la verità a Principi, è stata sempre la causa che ha perpetuati i mali degli uomini; se il silenzio è stato in tutti i secoli il garante della tirannia e de' disordini; se finalmente per ottenere una riforma nella legislazione, bisognava prima d’ogni altro scagliarsi contro l’inopportunità delle leggi antiche, e contro i mali che un'amministrazione difettosa ed imbecille ha cagionato alle nazioni, non è stato un picciolo ostacolo quello che noi abbiamo superato, arrogandoci il diritto di pensare e di scrivere con una libertà, che fa egualmente onore a' Principi che la soffrono, ed a coloro che ne sanno far uso (61).

Tolti adunque tutti questi ostacoli, altro non ci resta che intraprendere la riforma della legislazione. Pare che questa sia l’ultima mano che resta a dare per compire l'opera della felicità degli uomini: pare che la situazione istessa delle cose l’abbia preparata.

L'Europa divenuta per undici secoli il teatro della guerra e della discordia; l'Europa schiacciata sotto le rovine dell’impero di Roma; misera e fuggitiva innanzi alle armi di Attila, occupata e divisa a vicenda dagli stabilimenti de' Barbari, dall'incursione de Normanni, dall'anarchia de' feudi, dalle guerre sacre delle crociate, dal contrasto continuo del sacerdozio e dell'impero, dalle dispute religiose che hanno alterata la morale e perpetuata l’ignoranza, oppressa finalmente dalla tirannia di tanti piccioli despoti, coverta di fanatici e di guerrieri, ed accesa in ogni parte dal fuoco distruttore de' partiti, oggi è divenuta la sede della tranquillità e della ragione. La stabilità delle monarchie che la confederazione e la lega ha prodotta, mette un argine all'ambizione de' Principi, e costringe i Sovrani a badare a' veri interessi delle nazioni. Già ne' troni non si parla d'altro che di leggi e di legislazione. Già in favore di questa porzione dell'umanità, che l'Europa contiene, una pacifica rivoluzione si prepara. I disordini, che la opprimono l'si sono mostrati a' governi con tutta la loro deformità. Più lontani, di quello ch'erano prima, dallo strepito delle armi, essi hanno inteso i gemiti e le lagrime d'una turba di vittime, che una legislazione artificiosa, oscura, complicata, e non adattabile allo stato presente delle cose, sacrifica in ogni giorno. Già da per tutto si cerca di porre un rimedio a questo male, e da per tutto si sente un fermento salutare, che ci fa sperare prossimo lo sviluppo del germe legislativo. Ardirò io dunque d’alzare una mano per, affrettare, questa produzione sublime?

La gloria dell'uomo che scrive è di prepararsi i materiali utili a coloro che governano. I Principi non hanno il tempo d'istruirsi. Costretti ad operare, un gran movimento gli agita, e la loro anima non ha il tempo di fermarsi sopra se medesima. Essi debbono confidare ad altri la cura di cercare i mezzi proprj per facilitare le utili intraprese. A’ ministri della verità, a' pacifici filosofi, si appartiene dunque questo sacro ministero.

E’ vero che non so per quale funesto destino, l’uomo di lettere non; è sempre ammesso a discutere i grandi interessi dello stato alla presenza de' Principi. Egli non può penetrare in quella rispettabile! assemblea, ove il Sovrano presiede; per fissare la sorte de' cittadini. Il libero filosofò non può far altro che confidare la sua anima ad alcuni scritti interpetri muti de' suoi sentimenti. Ma si può tutto sperare in un secolo; nel quale lo spirito dì lettura non è incompatibile collo spirito di sovranità, ed in un secolo nel quale il corso rapido dell’immaginazione non vien trattenuto dagli ostacoli che il dispotismo’ vi suole opporre. Or questa speranza è quella che mi fa intraprendere un lavoro cosi difficile, e così complicato. Scrivendo la scienza della legislazione; il mio fine altro non che di facilitare ai Sovrani di questo secolo l’intrapresa: di una nuova legislazione.

E’ cosa strana; fra tanti scrittori, che si sono consacrati allo studio delle leggi, chi ha trattato questa materia, da solo giureconsulto, chi da filologo, chi anche da politico, ma non prendendo di mira che una sola parte di questo immenso edificio, chi, come Montesquieu, ha ragionato piuttosto sopra quello che si è fatto, che sopra quella che si dovrebbe fare; ma niuno ci ha dato ancora un sistema compiuto e ragionato di legislazione, niuno ha ancora ridotta questa materia ad una scienza sicura ed ordinata, unendo i mezzi alle regole, e la teoria alla pratica. Questo è quello ch'io intraprendo di fare in quest'opera, che ha per titoloLA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE.

Principi che regnate, se a voi si appartiene l’esame de' miei principi e la censura delle mie idee, io vi prego coll’immortale Montesquieu di non condannare colla lettura di pochi momenti un’opera di più anni, e di risparmiare il nome di fanatico novatore o progettista ad uno scrittore, che oltrepassa qualche volta i confini della cieca consuetudine per cercar l'utile nella novità. L'uomo istruito dalle scoverte de' suoi padri, ha ricevuta l’eredità de' loco pensieri. Questo è un deposito, ch’egli è nell’obbligo di trasmettere a' suoi discendenti, aumentato con alcune idee, sue proprie. Se la maggior parte degli uomini trascura questo sacro dovere, io mi protesto di volere adempire, allontanandomi egualmente dalla servile pedanteria di coloro che niente voglion mutare, e dall'arrogante stranezza di coloro che vorrebbero tutto distruggere.

Quest'opera sarà divisa in sette libri. Nel primo libro si esporranno le regole generali della Scienza legislativa, nel secondo si parlerà delle leggi politicheed economiche,nel terzo si parlerà delle leggi criminali, nel quarto libro si svilupperà quella parte della scienza legislativa che riguarda l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica;nel quinto libro si parlerà delle leggi che riguardano la religione, nel sesto di quelle che riguardano la proprietà;nel settimo ed ultimo libro finalmente si parlerà di quelle leggi che riguardano la patria potestà, ed il buon ordine delle famiglie. La moltiplicità degli oggetti che riguarda quest’opera, mi obbliga a premetterne un piano. Questa sarà una dipintura complicata, nella quale le figure saranno picciolissime ma distinte. Io prego coloro che vorranno leggere questo libro, di non trascurare questo piano, giacché mi pare necessario per far conoscere il sistema e l’ordine dell’opera: e per dare un’idea generale di tutte le parti, che compongono l'immenso edificio della legislazione, mi pare altrettanto più necessario, in quantoché io non sono nel caso di pubblicare per ora altro che i primi due volumi di quest’opera.


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PIANO RAGIONATO DELL’OPERA

LIBRO I
In ogni facoltà bisogna premettere alcuni dati, che sono come la base dell’edificio che si vuole innalzare
CONSERVAZIONE E TRANQUILLITÀ

Questo è il primo dato; e questo, e non altro, è l’oggetto unico ed universale della scienza della legislazione.

Da' semplici principi della riunione degli uomini, e dalla natura istessa dell'uomo noi. dedurremo questa verità preliminare, che nella scienza del governo è quel punto, ai quale debbono andare a finire tutti i raggi, che si vogliono tirare dalla circonferenza del cerchio.

Ma l'uomo non può conservarsi senza mezzi, né può esser tranquillo, se non è sicuro di non poter esser molestato. Possibilità dunque d'esistere, e d'esistere con agio, libertà d'accrescere, migliorare e conservare la sua proprietà; facilità nell’acquisto de' generi necessarj o utili pel comodo della vita; confidenza nel governo; confidenza ne' magistrati; Confidenza negli altri cittadini; sicurezza di non poter esser turbato, operando secondo il dettame delle leggi, questi sono i risultati del principio universale della conservazione e della tranquillità. Ogni parte della legislazione deve dunque corrispondere ad uno di questi risultati. Ogni legge, che non. reca alla società uno di questi beneficj, è dunque inutile.

Premessi questi dati, noi passeremo rapidamente a sviluppare colla maggior brevità possibile quelle regole generali, senza delle quali la scienza della legislazione sarebbe priva di principi fissi e sicuri, e sarebbe nel tempo istesso vaga ed incerta.

Cominciando dal distinguere la bontà assoluta delle leggi dalla bontà relativa, determinando l’idea precisa dell'una e dell’altra, distinguendo l'armonia, che deve avere la legge co’ principi della natura, dal rapporto che essa deve avere collo stato della nazione, alla quale si emana, sviluppando i principi più generali, che dipendono da questo doppio carattere di bontà che deve avere ogni legge, osservando le conseguenze che ne derivano, deducendone gli errori delle leggi, la diversità necessaria, l’opposizione anche frequente delle legislazioni, le vicende de' codici, la necessità di correggerli, gli ostacoli che rendono difficili queste correzioni, le precauzioni che fanno svanire questi ostacoli; prendendo, io dico, di mira tutti questi oggetti, noi non faremo altro che dare un’idea generale della teoria della bontà assolutadelle leggi, e disporci allo sviluppo della teoria molto più complicata della loro bontà relativa, che è, per così dire, l'aggregato di tutte le regole generali della. scienza della legislazione.

Se questa bontà consiste nel rapporto delle leggi collo stato della nazione, alla quale vengono emanate, bisogna vedere quali sono i componenti dì questo stato.Noi li troveremo nella natura del governo, e per conseguenza nel principio che lo fa agire; nel genio e nell’indole de' popoli; nel clima, forza sempre attiva e sempre nascosta; nella natura del terreno; nella situazione locale; nella maggiore o minore estensione del paese; nell'infanzia o nella maturità del popolo; e nella religione, in quella forza divina, che influendo su i costami de' popoli deve richiamare le prime cure del legislatore.

Non si dovranno maravigliare coloro che leggeranno questo libro, se vedranno trattati alcuni dà questi oggetti, dopo che l’Autore delio spirito delle leggi ne ha così diffusamente parlato. Quando essi perverranno a questa parte della mia opera, si avvedranno che lo scopo, che io mi propongo, è tutte diverso da quello di quest'Autore

Montesquieu cerca in questi rapporti Io spirito delle leggi, ed io vi cerco le regole. Egli procura di trovare in essi la ragione di quello che si è fatto, ed «io procuro di dedurne le regole di quello che si deve fare. I miei principi stessi saranno perle più diversi da' suoi: le cose saranno considerate sotto un altro aspetto; e contento di cercare sole quello che mi giova, lasciando volentieri tutto quello, che il decoro e ’l fasto scientifico potrebbero usurpare sopra quella specie di sobrietà, che deve risplendere ne' lavori consecrati all'utile pubblico, contento, io dico, di questa sobrietà d'erudizione, io ristringerò in poche carte una teoria, che maneggiata diversamente richiederebbe molli volumi. Non voglio però lasciar di confessare che io debbo molto a' sudori di questo grand'uomo. Questo tratto di gratitudine è un tributo che io offro ad un uomo, che ha pensato prima di me, e che coi suoi errori istessi mi ha istruito, e mi Ita insegnata la strada per ritrovare la verità.

Dall'esame dunque del rapporto che debbono aver le leggi con questi diversi oggetti, noi dedurremo le regole generali della scienza della legislazione. Questa sarà quella parte di questa scienza, che ne renderà applicabile Fuso in tutti i governi, in tutti i climi, in tutti i tempi, in tutte le circostanze particolari della posizione, dell'. estensione, della fertilità d'un paese, del culto, del genio, dell'infanzia o della maturità d’un popolo. Questa parte sarà l'aggregato di que principi generali, a' quali i particolari, che saranno quindi sviluppati, debbono costantemente riferirsi. Questa è quella che, generalizzando le idee legislative, ci farà vedere i diversi oggetti, le diverse mire, il tuono diverso che deve prendere la legislazione ne diversi popoli o negl’istessi popoli, ma ne' diversi tempi; che ci farà vedere nella diversità delle costituzioni de' governi i diversi vizj che vi sono uniti, e la diversità de' rimedj; il principio unico d'azione che produce il moto politico in qualunque società civile, e la diversità della direzione che si deve dare a questo principio unico. De’ diversi governi, l'influenza che deve avere nello spirito d’una legislazione il genio universale delle nazioni e lo spirito de' secoli, e il genio e l’indole particolare del popolo pel quale si emana; quella che vi deve avere il clima, sia per secondarne gli effetti, allorché sono utili, sia per contrastarli, allorché sono perniciosi. Questa è quella, che ci farà vedere come la natura del terre no, la sua fertilità, la sua sterilità, la sua estensione, la sua posizione debbono regolare la parte economicadella legislazione, e qual diversità debba produrre nella parte morale la falsità de dogmi delle false religioni, e la loro perfezione nella vera; come in un popolo ingombrato da' primi, bisogna sostenere con una mano quello che si urta coll'altra, e come in un popolo illuminato da' secondi, bisogna garantirli dagl'impostori che gli alterano, e da' miscredenti che li discreditano. Questa sarà quella parte finalmente della scienza della legislazione, che facendoci conoscere le diverse età dei popoli, e i diversi periodi della loro vita, ci mostrerà come la legislazione debba seguire questi diversi periodi, come debba adattarsi alla loro fanciullezza, come debba seguire l'effervescenza della loro pubertà, come debba aspettare e profittare dell'epoca favorevole della loro maturità, e come prevenire quella della decrepitezza e della morte.

Ecco quali saranno le prime vedute di quest’opera. Ma queste vedute generali non ci darebbero che un’idea confusa del tutto insieme, o per meglio dire della sola superficie di quest'immenso edificio. Per ben conoscerlo bisogna osservarne le parti, bisogna vedere i rapporti, che ciascheduna di esse dev'avere colle altre, i materiali; de' quali debbono esser composte, i fondamenti sui quali debbono essere innalzate.

Per riuscirvi, noi cominceremo dunque a scomporre la gran macchina della legislazioneper considerarla distintamente nelle parti che la compongono. Tutto si ridurrà ad un minuto esame, e gli oggetti più nascosti e meno conosciuti non saranno per questo trascurati; poiché nel governo, non altrimenti che nella natura, le fibre più oscure delle piante, nascoste nelle viscere della terra, sono propriamente quelle che alimentano i boschi più maestosi. Noi cominceremo dalle leggi politiche ed economiche.

LIBRO II

Due sono gli oggetti di queste leggi, la popolazione e le ricchezze. Lo stato ha bisogno di uomini e gli uomini han bisogno di «negai per alimentarsi. Il loro numero è sempre relativo alla loro felicità. Questi due oggetti, che compongono la felicità nazionale son dunque reciprochi. La popolazione richiamerà le prime nostre cure.

Dopo alcune brevi riflessioni sul sistema della legislazione degli antichi, e propriamente degli Ebrei, e’ Persi, de Greci e de' Romani, noi dimostreremo che tutto è inutile per incoraggiare la popola azione, quando non ai tolgono gli ostacoli. La maggior parte de' legislatori sono urtati in questo scoglio. Se noi andremo rivolgendo i polverosi ed infiniti volumi, che contengono il caos della legislazione dell'Europa, noi non troveremo un governò, che non abbia riserbate alcune prerogative a padri di famiglia, che non accordi alcuni privilegi ed esenzioni a quei cittadini che han dato un certo numero di figli allo stato, e che non abbia leggi dirette ad accrescere il numerò de coniugi. Ma con tutto questo la sterilità della natura si perpetua; la procreazione è lenta; i matrimoni sono rari nel seno stesso della voluttà; una larga tomba, ove nna generazione intera si seppellisce con tutta la sua posterità, si apre in ogni giorno: e all'Europa mancano per lo meno cento milioni d’abitatori di più, che essa potrebbe contenere. Dopo questi fotti, che saranno da noi dimostrati coi calcoli più esatti, chi potrà dubitare ohe non ci sia in quest'oggetto un vizio enorme nel sistema delle legislazioni?

Io non nego che questi mezzi fin ora adoperati da' legislatori, per incoraggiare la popolazione, abbiano qualche grado d’utilità, ma essi non sono altro che tanti piccioli urti. Che potrebbero forse accellerare il moto della generazione, quando non vi si opponessero alcuni ostacoli, la resistenza dei quali supera infinitamente l’intensità della loro azione.

Bisogna dunque cercare questi ostacoli, e ritrovare i mezzi per superarli. A questi due oggetti noi ridurremo quella parte della scienza legislativa, che riguarda la moltiplicazione della specie.

Osservando le sciagure de' popoli, e lo stato infelice dell’agricoltura: il lusso delle corti, e la miseria delle campagne; l’eccesso dell’opulenza in pochi, e il difetto della sussistenza nella maggior parte, il picciolo numero de' proprietari, e l'immenso numero de' non proprietari; la moltiplicità de' fondi riuniti in poche mani, e l’abuso che si fa de' terreni, la stranezza delle leggi, e l’avidità della finanza; la perpetuità delle truppe, e il celibato dei guerrieri; la miseria che cagiona ne' popoli il loro mantenimento, e il vuoto che lascia nella generazione il loro celibato; il doppio ostacolo che questo abuso cagiona alla popolazione, e lo spavento che reca alla libertà del cittadino; osservando i progressi dell’incontinenza pubblica, e la sua origine, la povertà che la fa nascere, e il celibato violente d’alcune classi de' cittadini che la fomenta; gli errori della giurisprudenza che la proteggono, e la sterilità che n’è la conseguenza; osservando, io dico, questi ed altri simili mali, che opprimono l’Europa noi non stenteremo molto a trovare le vere cause e i veri ostacoli, che impediscono i progressi della popolazione nelle nazioni che l'abitano, e non stenteremo molto per conseguenza n trovare gli opportuni rimedj, che una savia legislazione vi dovrebbe opporre.

Sviluppata con questo metodo, e con questi principi quella parte delle leggi politiche ed economiche, che riguarda la moltiplicazione della specie, noi rivolgeremo lo sguardo all’altr’oggetto di queste leggi: noi cominceremo a parlare delle ricchezze.

Se questo era un oggetto sterile per la politica d’alcuni secoli, ne' quali la povertà era il primo grado della virtù dell’uomo e del cittadino, oggi è divenuto il primo principio della felicità delle nazioni. Questa riflessione ci trasporterà all'esame d’una verità, che c’interessa molto di sapere: cioè, che noi dobbiamo tutto alla corruzione, e che per giungere alla grandezza noi abbiamo dovuto abbandonare quelle virtù, che vi ci facevano pervenire gli antichi. Strano prodigio della volubilità degli uomini! L’industria, il commercio, il lusso e le arti, tutti questi mezzi che alle volte contribuivano ad indebolire gli stati, e che forse resero Tiro la preda d’Alessandro, e Cartagine quella di Scipione, sono oggi divenuti i più fermi appoggi della prosperità de' popoli. Ed infatti, da che il tempo della fondazione e del rovesciamento degl’Imperj è passato; da che non si ritrova più l’uomo, innanzi al quale la terra taceva; da che le nazioni, dopo gli urti continui, e i perpetui contrasti dell’ambizione e della libertà, si sono finalmente fissate in uno stato di riposo, che le induce a cercare l’agio, piuttosto che la grandezza e la gloria; da che l’oro è divenuto la misura di tutto; da che la grandezza degli stati si calcola; da che le nazioni commercianti ed agricole hanno alzato un trono sa le nazioni guerriere; da che la privativa d’una derrata, il commercio esclusivo d’un aromo, e da che il trasporto della cannella dall’Indie è divenuto la causa delle guerre più sanguinose; da che finalmente le ricchezze non corrompono più i popoli, poiché esse non sono più il frutto della conquista, ma il premio di un lavoro assiduo, e d'ima vita interamente occupata; da quest’epoca, io dico, le ricchezze, e i canali che trasportano, sono con ragione divenuti il primo oggetto della legislazione.

Quali saranno dunque le cure del legislatore su quest’oggetto così interessante? Noi le divideremo in due classi. Bisogna richiamare le ricchezze nello stato: bisogna ben ripartirle, equabilmente diffonderle. Quali saranno dunque i mezzi, che la legislazione deve impiegare per ottenere il primo di questi effetti, e quali quelli che deve impiegare per ottenere il secondo? Se l’agricoltura, le arti, il commercio sono le tre sorgenti delle ricchezze, quale è la specie di protezione, che loro conviene? quale di queste merita la preferenza delle leggi? quali sono le circostanze, che debbono decidere di questa preferenza? come combinare i progressi dell'una con quelli dell'altre? come proteggere l’agricoltura in un paese agricola, senza trascurare le arti? come combinare i suoi progressi con quelli del commercio? come distendere le vedute dell'agricoltore sul commercio, e del negoziante sulla coltura? come unire Fune all’altre con rapporti seguiti e continui? Quali sono gli ostacoli, che loro si oppongono dagli abusi dell’amministrazione, dalla soverchia ingerenza del governo, dalla stranezza delle leggi civili, dalla barbarie de codici feudali, dagli avanzi dell’antico spirito di pastura e di caccia de' nostri barbari padri, dagli attentati legali contro la proprietà reale e contro la proprietà personale, dal corso giudiziario, dagli abusi del credito pubblico, dall’alienazione delle rendite del Principe, da' debiti nazionali, da' privilegi esclusivi, dalle corporazioni, dalle false massime di politica, dal sistema presente de dazj? Se questo sistema erroneo fa nel tempo istesso la rovina della popolazione, dell’agricoltura, dell’industria e del commercio: se allontana gli uomini dal coniugio, spopola le campagne, scoraggisce le braccia dell'artiere, chiude i porti delle nazioni; se spaventa la sicurezza del cittadino e la libertà dell’uomo; se priva il viaggiatore di riposo e 'l mercadante di proprietà; se espone l’uno e l’altro a tutte le insidie d’una legislazione artificiosa, che semina i delitti colle proibizioni, e le pene coi delitti; se separa le città dalle città, i borghi dai borghi, i villaggi da' villaggi; se mette uno stato di guerra e semina la discordia tra i membri d’un istesso corpo, tra i sudditi d'un istesso impero, tra i figli d’una istessa patria: se fa che il diritto delle genti aia violato da coloro stessi che dovrebbero proteggerlo, i diritti del cittadino, dal cittadino, quelli dell'uomo dello stato dall'uomo del Principe, e quelli del negoziante dal finanziere; se in una parola da qualunque aspetto che si consideri il sistema presente de' dazi, si troverà sempre esser la causa prossima della rovina delle nazioni, della miseria e dell'oppressione de' popoli, malgrado la moderazione e romanità di coloro che li governano; quali saranno le correzioni, che la scienza legislativa deve proporre riguardo a quest’oggetto? Quali i principi su i quali deve esser fondata la gran teoria de' dazj? quali gli oggetti su i qui debbono cadere? quale la classe che deve immediatamente pagarli? come proporzionarli alle facoltà del popolo? come livellarli sul prodotto netto delle rendite della nazione? come conoscere questo prodotto netto? come diminuire il numero de' contribuenti diretti, rendendo nel tempo stesso più facile l’espansione del tributo? come combinare in un diverso sistema di contribuzioni una giustaripartizionecolla più facile, meno dispendiosa, e meno arbitraria percezione? il sollievo del popolo coll’opulenza del corpo politico, la prosperità dell’agricoltura, delle arti, del commercio, la ricchezza della nazione colla ricchezza del Sovrano? come facilitare con questo mezzo la diffusione delle ricchezze? quali sono gli ostacoli che impediscono questa diffusione? quali gli urti che potrebbe ricevere dal lusso? sotto quale aspetto deve questo esser considerato dal legislatore? come deve dirigerlo senza offendere la libertà del cittadino? come prevenire col suo soccorso l'eccesso dell’opulenza, che Suol condurre all'eccesso della miseria? in quali casi anche quello, che si alimenta col soccorso dell'industria straniera, dev’esser considerato come uno strumento necessario alla prosperità d'uno stato? quali sono le nazioni in Europa, che avrebbero dovuto vedere nel lusso passivoil sostegno della loro agricoltura, della loro industria, del loro commercio? '

Ecco m'abbozzo le serie de' più principali oggetti, che si prenderanno di mira nel secondo libro di quest’opera, dove si parlerà delle leggi politiche ed economiche. Noi pasceremo quindi alle leggi criminali.

LIBRO III

Se la popolazione e le ricchezze seno gli oggetti delle leggi politiche ed economiche, la sicurezzae la tranquillitàsono lo scopo delle leggi criminali. Quelle tendono allaconservazione, equeste alla tranquillitàde' cittadini, che, come si è detto, sono i due oggetti, intorno a' quali si raggira tutta la scienza della legislazione.

Sviluppando ciò che debba intendersi per tranquillità, noi troveremo, che questa è inseparabile alla sicurezza, e che questa sicurezza non può essere altro che la coscienza, o sia l’opinione che un cittadino deve avere, di non poter essere turbato, operando secondo il dettame delle leggi. Or questa specie di libertà politica, che rassicura tutte le classi, tutte le condizioni, tutti gli ordini della società civile, che mette un freno al magistrato, che dà al più debole cittadino l'aggregato di tutte le forza della nazione; questa voce, che dice al potente, tu schiavo della legge, e che ricorda al ricco che il povero gli è uguale; questa forza che equilibra sempre nelle azioni dell'uomo l'interesse che egli potrebbe avere nel violare la legge, coll’interesse che egli ha nell’osservarla, Don può essere che il resultato delle leggi criminali. Sopra questo piano dunque noi tratteremo quella parte della facoltà legislativa, che riguarda l'emanazione di queste leggi. Noi cominceremo dall'esaminare come dovrebbe dirigerai in una nuova legislazione l'accusa e la difesa giudiziaria; quale dovrebbe esser l’ordine de' giudizj criminali; quali i principi e le regole per determinarne la procedura; quale la natura e la forma degli atti che dovrebbero costituirla, quali sarebbero i mezzi più opportuni per estirpare da una nazione il germe fatale delle calunnie; se converrebbe adottare alcune leggi degli Ateniesi dirette all'istess’oggetto; se la lentezza de' giudizj favorisca la libertà de' cittadini; se sia contrario a questa libertà preziosa il sistema di strascinare in un carcere l'accusato prima di assicurarsi del delitto, e di ritenervelo finché dura il giudizio; se la legge possa privare il cittadino della sua libertà personale per assicurarsi della sua innocenza; se possa supporlo, reo, perché accusato; se possa oltraggiarlo prima di condannarlo; se ne' soli delitti capitali si potrebbe venire a questo passo violento, ma necessario in questo caso, perché qualunque pena si minacciasse all'accusato, qualunque sicurezza si cercasse da lui, sarebbero sempre insufficienti a impedirne la fuga; se in tutti gli altri casi converrebbe adottare la legge dell'habeas corpusdegl'Inglesi; quali modificazioni si potrebbero dare a questa legge, cosi in favore della libertà personale del cittadino, come in favore della sicurezza pubblica; in quali circostanze si dovrebbe esigere la confessione del reo, ed in qual maniera cercarla da lui; se sarebbe finalmente più giusto e più conseguente il trascurarla, che di strapparla dalle sue labbra col soccorso de' tormenti.

Dall’esame de' principi, co’ quali in una savia legislazione converrebbe dirigere l’ordine della procedura criminale, e dell’accusa e difesa giudiziaria, passando a quelli che dovrebbero stabilire la natura delle azioni, che la legge dovrebbe considerare come delitti, e la maniera di punirle, noi distingueremo quali siano quelli che dovrebbero considerarsi come pubblici, e quali quelli che si dovrebbero considerare come privati; quali quelli che offendono la Divinità, il Sovrano, il governo, l'ordine pubblico, la. fede pubblica, il diritto delle genti.; 0 quali quelli ch'offendono la sicurezza privata del cittadino, la sua vita, il suo onore, i suoi beni, fa sua proprietà la sua casa, i suoi preziosi diritti. Noi esamineremo quindi in qual maniera la legge dovrebbe trovane la pena adattate alla natura di ciascheduna specie di delitto, e come proporzionarla alfa gravezza del reato; in qual maniera la sanzione legale dovrebbe distinguere la persona del delinquente, le circostanze del delitto, lai facilità di commetterlo, il danno che reca, la maggiore o minore speranza dell'impunità che ispira, il maggiore o minore urto che il cittadino può avere nel commetterlo; come, quando, con qual moderazione il legislatore debba far uso delle pene capitali; a quali delitti converrebbe prescrivere la pena d’infamia; come queste pene dovrebbero seguire l'opinione pubblica, e non distruggerla; con quanta riserva, con quale solennità, con quale economia il legislatore dovrebbe servirsene; come l'infamia si scemi a misura che cresce il numero degl'infami; come dovrebbero esser prescritte le pene pecuniarie; se queste potrebbero anche aver luogo nel piano d una buona legislazione criminale, se volendosi far uso di queste pene si debb’avere ugualmente di mira alle ricchezze dell’offensore, che alla condizione dell’offeso, ed alla natura del delitto; se le pene che privano i rei del consorzio degli altri cittadini, oche li rendono utili alla serietà, sieno da preferirsi a tutte le altre; se fra la sommai de delitti ve ne. sieno alcuni che il legislatore, noni deve punire; se ne' delitti occulti la loro proporzione colle; pene possa essere alterata per la maggiore speranza, dell'impunità, che questi delitti inspirano se ne' veri delitti di fellonìa, non già in quelli a' quali il dispotismo ha dato questo nome, convenga mettere per un momento un velo sulla moderazione, come si nascondevano altre volte le statue degli Dei; se finalmente l'impunità sia l'effetto necessario dell’eccessivo rigore delle pene, e se la sicurezza d’una pena mediocre abbia maggior forza ad allontanare gli uomini da' delitti, che il timore d’una pena molto più grande, quando questo timore viene unito alla speranza di rimanere impunito. Tutti questi oggetti richiameranno le nostre cure nel terzo libro di quest'opera, dove si parlerà delle leggi criminali. Noi passeremo quindi alle leggi che riguardano l’educazione, i costumi, e la pubblica istruzione, che. saranno comprese nel quarto libro.

LIBRO IV

Se le leggi criminali impediscono i delitti, spaventando il cittadino colla minaccia delle pene, esse non possono sicuramente far germogliare le virtù. Quella specie di onestà negativa, che deriva dal timor delle pene, si risente sempre della sua origine. Essa è pusillanime, è vile, è languida, è incapace di quegli sforzi che richiede la virtù ardita e libera, allorché è ispirata dalle grandi passioni.

Il timore potrà dunque diminuire il marnerò dei delinquenti, ma non farà mai nascere gli eroi. Questa produzione sublime non può derivare che dal concorso di varie altre forze dirette tutte a quest’oggetto comune. L’educazione, considerata come prima di queste forze, richiamerà le prime nostre cure. Essa è o pubblicao privataQuella è riserbata al governo, e questa a' padri. Le leggi non possono dirigere che la prima. Esse non possono, né dovrebberomai penetrare nelle mura domestiche. Tra queste il padre è il Re, è il magistrato, è il legislatore in tutto quello che riguarda l’educazione de' figli.

La legge non potendo dunque dirigere che l’educazione pubblica, e non potendo che da questa sola sperare un’uniformità d’istituzione, di massime, di sentimenti, deve procurare di non abbandonare all'educazione domestica che la minor parte possibile de' cittadini. Per ottener questo fine, noi proporremo un piano d’educazione pubblica per tutte e classi dello stato. Io preveggo che al primo aspetto quest'idea sarà considerata come un tratto duna di quelle lente e penose ricerche d uno sterile filosofo, che crede di veder tutto in quel picciolo vortice di pensieri che lo circondano Ma allorché questo piano si vedrà sviluppato, allorché si diranno i mezzi per metterlo in esecuzione, e allorché si troverà che questi mezzi sono i più semplici e i più facili, allora io spero che se ne giudicherà diversamente, e che si confesserà per l’onore dell'autore, che questo è tutt'altro che un vano progetto.

Dalla direzione dell'educazione passandogli direzione delle passioni, noi verremo all’analisi della seconda forza produttrice delle virtù, senza la conoscenza, senza l'uso della quale la legislazione sarà sempre il lavoro più informe, più inutile, più pernicioso anche, che può uscire dalle: mani dell’uomo. Questa sarà una delle parti più interessanti di quest'opera, perché da questa dipende la soluzione di tutti i problemi morali della, scienza legislativa; perché da questa dipende la confutazione di alcuni errori, che la politica del secolo ha, malgrado i suoi progressi, funestamente adottati; perché da questa dipende lo stabilimento d’una verità che e’ interesse di sapere più di tutte le altre, ma che ha bisognodi essere molto bene sviluppata, come quella che urta contro una prevenzione comune.

Si crede da tutti che la virtù non possa allignare in mezzo all'opulenza d una nazione. Funesta opinione, alla quale noi dobbiamo forse lo stato infelice della presente legislazione. Sarà dunque così infelice l'umanità, ch'essa debba essere o povera o viziosa? Oggi, che le ricchezze sono necessarie alla conservazione ed alla prosperità degli stati, la virtù dovrà forse essere esclusa dalle società civili? L'agricoltura, le arti, il commercio non potrebbero forse essere esercitate da mani virtuose? il lusso istesso, che oggi è necessario per la diffusione delle ricchezze, sarà forse incompatibile co’ buoni costumi? Lo spirito feroce della guerra degli antichi, perché unito allo spirito di frugalità doveva forse esser più analogo alla virtù, che lo spirito pacifico e laborioso de moderni, perché unito allo spirito di lusso? Questa è invero l’opinione comune de' moralisti; ma noi riprenderemo l'ardita di dimostrare che questo è piuttosto il loro errore comune. Noi faremo vedere che la sola ignoranza delle diverse strade nell’apparenza opposte tra loro, ma che in realtà derivano da un istesso principio, e conducono ad un istesso fine, ha potuto dare origine ad un errore così rattristante per l'umanità; noi faremo vedere come una savia legislazione servendosi del gran mobile del cuore umano, dando una direzione analoga allo stato presente delle cose, a quella passione principale, dalla quale tutte le altre dipendono, a quella passione che è nel tempo istesso il gei? me fecondo di tanti beni e di, tanti mali, di tante passioni utili, e di tante passioni perniciose, di tanti pericoli e di tanti rimedj, servendosi io dico, dell’amorproprio, potrà introdurre la virtù tra le ricchezze de' moderni coll’istesso mezzo, co! quale Te antiche legislazioni l'introdussero tra le legioni degli antichi.

Sviluppata la gran teoria della direzione delle passioni, dalla quale dipende la direzione de' costumi, noi volgeremo lo sguardo all'istruzione pubblica, che è il terz'oggetto che si prenderà di mira in questo quarto libro. Chi non vede l'influenza che ha questa sulla prosperità de' popoli, sulla loro libertà, su i loro costumi stessi? Se l'uomo diretto epersuaso dalla ragione, opera con maggiore energia, che allorché la forza o il timore lo spingono, senza che egli sappia dove è condotto; se i tempi d’ignoranza sono stati sempre i tempi di ferocia, d'intrigo, di bassezza e d'impostura; se il difetto de' lumi, mettendo un velo sopra tutte le cose, rendendo incerti tutti i diritti, alterando, sformando, sovvertendo le massime e i dogmi, ha imbrattato i sangue i troni e gli altari, ha fatto nascere i tiranni e i ribelli, ha dato agli errori tanti martiri, alla verità tante vittime, al fanatismo tanti roghi, agli impostori tanti seguaci, alla religione tant'ipocriti e tanti inimici: se in mezzo all'ignoranza il Principe non è mai sicuro del suo popolo, il popolo non è mai sicuro del suo Principe; il rispetto non è altro che viltà, l'obbedienza non è altro che timore, l’impero non è altro che forza; la magistratura è arbitraria, la legislazione è incerta, gli errori sono eterni e venerati, le correzioni pericolo? se e derise, l’opinione pubblica disprezzata, l’amministrazione è patrimonio degli adulatori che cir, condano il trono, e che tradiscono il Principe con una mano e la nazione coll’altra; se la vera sapienza sempre accompagnata dalla giustizia, dall'umanità, dalla prudenza, non invita mai gli uomini ai delitti; se sicura d'ottenere, presto o tardi, il trionfo che inerita, essa non ha bisogno, come l'impostura, di comprarlo col sangue e colle sciagure dei mortali; se la filosofia enunciando con intrepidezza e con zelo la verità, mostrando agli uomini i tragici effetti della tirannia, della superstizione de' delirj de' Re, de' pregiudizi de' popoli, dell'ambizione de' grandi, della corruzione delle corti, se scovrendo a' Principi i loro veri interessi, facendoli anche qualche volta arrossire de loro difetti, non ha mai acceso il fuoco della discordia, non ha mai prodotte le fazioni negli stati, non ha mai, come l’ignoranza, impugnato il coltello regicida: se in una parola tanto coloro che comandano, quanto coloro che sono comandati, tutti trovano i loro veri interessi ne' progressi della ragione: è giusto che la scienza della legislazione non si taccia su d’un oggetto così interessante, troppo trascurato per altro ne' nostri codici: è giusto che essa esamini quali sieno gli ostacoli che si oppongono a questi progressi; quale il metodo da tenersi per dissiparli: quale la direzione che si dovrebbe dare a' talenti: come richiamarli allo studio della patria sotto gli auspicj della libertà; come distrarli dalle occupazioni più fastose che utili; come ottenere che le meditazioni de' filosofi precedessero sempre le operazioni del governo, che i ministri della ragione preparassero la strada a' ministri de' Principi in tutto quello che riguarda l’interesse pubblico; come servirsi del loro ministero per disporre gli animi alle necessarie riforme, alle utili novità: come profittare della discussione, madre feconda delle verità, discussione, che la diversità delle opinioni produce allorché l’autorità non spaventa la penna dello scrittore, e non ritarda il corso delle sue speculazioni: come guidare tutti i talenti diversi degli uomini a un oggetto comune; come indurre le belle arti stesse a pagare un tributo all'utilità pubblica; come trovare a moltiplicare le strade, per le quali si potrebbero diffondere nelle provincie i lumi delle capitali, e si potrebbe rendere più comune il prezioso deposito delle utili cognizioni: come ottenere finalmente che i cittadini stessi, occupati nelle arti più subalterno, sapessero ciò che essi debbono a Dio, a loro stessi, alla famiglia, allo stato, che essi avessero le vere idee dell’uomo e del cittadino, e che fossero bastantemente istruiti per conoscere tutta la dignità del proprio carattere, e il rispetto che gli si deve?

Questioni troppo interessanti son queste per noti essere trascurate in quest’opera, l’oggetto della qua le è di analizzare distintamente tutti gli anelli che compongono quella misteriosa catena, colla quale la legislazione deve condurre gli uomini alla felicità. Noi verremo quindi alla Religione. I principi, coi quali deve essere regolata quella parte della legislazione, che riguarda il culto e la religione de' popoli, saranno compresi nel quinto libro di quest’opera.

LIBRO V

L’ordine pubblico, la tranquillità privata, la sicurezza del cittadino, richiedendo che la legge non cerchi di voler tutto sapere, di voler tutto vedere, sigendo che l’autoritàsi fermi innanzi alla porta della sua casa, che rispetti quest’asilo della sua pace e della sua libertà, che non cerchi d’indagare i suoi pensieri, le sue intenzioni, che lasci libero il corso de' suoi desiderj, che lo consideri come innocente ancorché reo, purché il suo reato non si manifesti, segregando in una parola dall’ispezione deh la legge tutto quello che è occulto a' suoi occhi, esige nel tempo istesso che un altro freno supplisca a questo suo necessario difetto; esige che un altro tribunale, un altro giudice, un altro codice regolino le azioni occulte del cittadino, spaventino i suoi secreti trasporti, incoraggiscano le sue occulte virtù, dirigano al comun bene i suoi desiderj stessi che non sono palesabili, obblighino finalmente il cittadino ad esser giusto, onesto e virtuoso, anche in quei luoghi, in que’ momenti, in quelle circostanze, nelle quali egli è lontano dagli occhi della legge e dei suoi ministri. Ecco l’opera della religione, allorché non è indebolita dalla irreligione, o non è alterata dalla superstizione. Questi due estremi, de' quali una costante esperienza c’insegna che il primo è sempre la conseguenza del secondo; questi due estremi, uno de' quali teglie alla religione la sua forza, e l'altro ne fa l'istrumento di que’ delitti, di quelle ingiustizie, di quegli orrori, dei quali per vergogna dell’umanità risuonano pur troppo i fasti sanguinosi della superstizione; questi due estremi, io di' co, debbono essere egualmente prevenuti dalle leggi.

A quest'oggetto generale saranno dunque diretti tutt'i principi, che noi ci proporremo di sviluppare in questo libro.

Noi esamineremo dunque quale dovrebbe essere la natura della protezione, che la legislazione dovrebbe accordare alla religione ed al culto; quali i mezzi direttiche dovrebbe impiegare per prevenire i due estremi de' quali si è parlato, e quali gl’indiretti,quali le prerogative che dovrebbe concedere al sacerdozio, e quale la dipendenza che dovrebbe esigere da lui; quali i diritti che dovrebbe dare a' suoi capi, e quali la magistratura che dovrebbe invigilare sull’uso che essi ne farebbero; con quali principi si dovrebbe dirigere l’articolo dell'immunitàecclesiastica; fin dove dovrebbe giugnere l’immunitàreale e personale, quali restrizioni si dovrebbero dare all’immunità locale, e quale l’incoraggiamento che questa dà a' delitti; quali i requisiti che la legge dovrebbe cercare in ciascheduno individuo del sacerdozio, e quale la misura che dovrebbe regolarne il numero; quali le classi sacerdotali che dovrebbero meritare la parzialità della legge, e quali quelle che dovrebbero essere o abolite, o riformate; quale l’età che si dovrebbe cercare in coloro che si consacrano al sacro ministero, e quale la direzione che si dovrebbe dare dalle leggi alla loro predicazione; quale finalmente il metodo da tenersi per provvedere a' loro bisogni, oggetto interessante, pel quale infinite riforme si sono tentate, infiniti scritti si sono pubblicati, ma che resterà sempre informe finché non si penserà a curare il male nella sua origine, finché la riforma non si farà cadere sulla natura stessa delle rendite del sacerdozio.

Sviluppati tutti questi articoli con tutto quel rispetto, che si deve al santuario ed a' suoi ministri, noi volgeremo lo sguardo alle leggi che riguardano la proprietà, che saranno comprese nel sesto libro di quest'opera.

LIBRO VI

Ogni diritto, che ha un uomo di disporre d'una cosa esclusivamente da ogni altro, si chiama proprietà. Questa non può passare né per sempre, né per. un dato tempo, ad un altro, senza il suo libero consenso. Questo consenso è o espresso, o tacito, ó presunto. Garanti della proprietà di ciaschedun cittadino le leggi evitano la violenza ed il furto colla minaccia delle pene; evitano la frode e l'inganno col determinare le circostanze, che debbono accompagnare questo consenso per esser creduto valido. Da qui derivano le solennità che si ricercano, allorché è espresso, i segni che lo palesano allorché è tacito, le congetture che lo fan supporre allorché è presunto: da qui i requisiti legali ché si ricercano nella persona che lo dà; i diversi titoli, co’ quali può o per sempre, o per un dato tempo disporne in favore d’un altro; i diversi diritti che nascono da questi diversi titoli, e le diverse obbligazioni che ne derivano: da qui la differenza legale tra' i patti e i contratti; da qui i privilegi in favore de' minori, e di tutti quelli che la legge considera come tali; da qui i rimedj contro le lesioni; da qui la teoria delle prescrizioni; da qui l'origine, la ragione e la solennità de' testa menti; da qui quella delle successioni ab intestato; da qui in una parola tutti i rimedi inventati dalle leggi per garantire la proprietà di ciaschedun individuo dalle insidie della frode, e tutt’i mezzi impiegati da esse per distinguere i sacri diritti della proprietà dalle secrete rapine dell'usurpazione.

Ecco ridotto in un solo punto di veduta il motivo di tutte quelle innumerabili leggi che compongono oggi i codici civili dell’Europa, le quali smarriscono il loro scopo per averlo voluto troppo minutamente cercare. In questa parte dunque della scienza legislativa noi non proporremo altro che riduzione. Sviluppando questa teoria, spogliandola da quelle piante esotiche che la ravviluppano, riducendo tutte quelle teorie particolari, delle quali è composta, a pochi principj generali, noi cercheremo di far vedere a' legislatori la facilità, colla quale si potrebbe con poche leggi rassicurare quella proprietà, che sarà sempre precaria, sempre incerta, sempre male appoggiata, finché le armi, che son destinate a difenderla, saranno superiori alle forze di coloro che debbono maneggiarle; finché la moltiplicità delle leggi, la loro oscurità, ed il linguaggio nel quale sono scritte, le terrà nascoste al popolo; finché gli oracoli di Temi avranno bisogno a' interpetri; e finché non venga una mano diligente ed ardita, la quale dopo aver colte quelle poche rose che si ritrovano sparse tra' bronchi innumerabili della presente giurisprudenza, ammucchi il resto in un rogo per immolarlo al Dio della giustizia e della civile concordia.

Dopo aver parlato della proprietà, nei porremo finalmente termine a quest’opera con un breve saggio sulle leggi, che riguardano lapatria potestàed il buon ordine delle famiglie.

LIBRO VII

Siccome il ben essere di qualunque corpo dipende dal ben essere delle parti che lo compongono, così il buon ordine dello stato dipende dal buon ordine delle famiglie. Or siccome una società non potrebbe reggere, senza un capo che la governi, nella maniera istessa una famiglia, che non è altro che una società più picciola, ha bisogno d'un capo

Considerato sotto questo aspetto bisogna dunque che egli abbia de diritti sugl'individui che la compongono. Oggi che la religione, la politica e l'umanità si sono unite per proscrivere la schiavitù domestica, i membri della famiglia sono la moglie ed i figli. Noi esamineremo dunque quali sono i diritti che la legge dovrebbe dare al padre della famiglia sulla prima, e quali sodoquelli che dovrebbe dargli su i secondi. Il solito trasporto degli uomini per gli estremi ha cagionato una opposizione infinita tra le antiche legislazioni, e la moderna su quest'articolo. Gli antichi legislatori dettero sicuramente troppo al padre di famiglia; ma chi può dubitare che i moderni gli han tolto anche troppo? Il vizio ai trova egualmente nella prodigalità de' primi, che nell'avarizia degli ultimi. La dimostrazione di questa interessantissima verità sarà, per così dire, l’esordio di questo settimo libro, nel quale dando una scorsa rapida sul sistema delle antiche e moderne legislazioni, noi rileveremo colla maggiore imparzialità gli errori dell'une e delle altre su quest'oggetto.

Noi faremo vedere che se la giustizia, l'interesse pubblico e la morale, si risentivano de' diritti dati da' primi legislatori delle nazioni a padri di famiglia; che se il trono, che essi cercarono d’innalzare al padre nel seno della sua famiglia, era troppo indipendente; che se il diritto di disporre della vita, e della morte de' figli, era un attentato pericoloso che si faceva alla pubblica autorità; che se il diritto d’esporli e di venderli, era un oltraggio recato alla natura sotto la protezione istessa della legge; che se il potere dato da essi al marito sulla mogli», era troppo esteso, che se questo era piuttosto una proprietà che una preeminenza (62); che se era un’ingiustizia manifesta il fere che il contratto istesso Destinato alla moltiplicazione della specie, desse ad uno de' contraenti il diritto di disporre della vita dell'altro; che se era scandalosa la legge di Roma, che dava al marito ne' primi tempi della Repubblica il diritto di uccidere la moglie per aver bevuto, anche con moderazione, d’un liquore, l’abuso istesso del quale non era interdetto al marito; che se il diritto del divorzio, dato presso la maggior parte degli antichi esclusivamente al marito, faceva che questi potesse tutto sulla moglie, senza che la moglie potesse almeno avere un rimedio contro l’abuso della sua autorità (63); che se in una parola gli antichi legislatori oltrepassarono i limiti del giusto e dell'onesto nel determinare l’estensione della patria potestà; noi faremo vedere che non per questo. i moderni sono meno condannabili per averla così dispoticamente ristretta, o per meglio dire distrutta. Si potrebbe anzi dire con verità, che la tranquillità pubblica e privata si è risentita più del difetto, che non si risentì dell'eccesso de' paterni diritti. L'amore naturale de' padri verso i figli era un gran preservativo contro le funeste conseguenze d’un autorità cosi estesa; e il timore istesso, che essa ispirava, doveva rendere molto rare le occasioni d’esercitarla. I delitti doveano essere molto meno frequenti nelle famiglie, allorché si rifletteva alla forza, alla vicinanza, ed all'indipendenza della mano sempre armata per punirli.

L'estensione dunque del potere, e la condizione della persona che ne era investita, potevano restringerne l'uso, ed evitarne l'abuso; ma quale istrumento, essendo la patria potestà distrutta, potrebbe riparare al disordine delle famiglie, che, coi né si è detto, porta anche seco quello dello stato? Dove trovare un’autorità, che, come quella de' padri, potesse agire in tutti tempi, e col medesimo vigore, che potesse, come quella, tutto vedere, tutto sapere; che non avesse bisogno né di assistenza per far rispettare i suoi ordini, né di formalità per trasmetterli; che potesse confidare l'esecuzione dei suoi decreti ad un braccio che fosse cosi vicino alla bocca che gli emana; che Don ammettesse né prevenzione nel giudice, né lentezza nell'esecutore; che potesse ottenere che i suoi ordini, appena dati, fossero conosciuti, appena conosciuti, eseguiti; che fissata finalmente che fosse una volta dalla legge ne' giusti confini, ne' quali dovrebbe raggirarsi, non vi fosse un’usurpazione da temere dalla parte di colui che ne sarebbe investito?

Da queste ragioni noi dedurremo la necessità, che vi sarebbe di rialzare l’edificio della patria potestà, che gli antichi legislatori avevano troppo ingrandito, e che una mal fondata diffidenza ha quindi quasi interamente distrutto. Ma su quali fondamenti, con quali materiali, con qual ordine dovrebbe esser costrutto?Quali dovrebbero essere i diritti della nuova magistratura de' padri? quali quelli dei mariti? fin dove dovrebbero estendersi le loro cure? quali dovrebbero essere i confini della loro giurisdizione? quale l’uso della loro autorità? quali i rimedj per prevenirne l’abuso? quale l'influenza che questa novità potrebbe avere sull'ordine sociale? quale quella che potrebbe avere su i costumi? quali gli ostacoli che si opporrebbero a quest'intraprese dal sistema presente delle successioni? quali quelli che gli si opporrebbero da alcune leggi feudali in quelle nazioni, ore esiste ancora lo spettro squallido di questo colosso antico?

Questi saranno gli oggetti delle nostre discussioni nel settimo ed ultimo libro, e questo è il piano dell’opera, della quale io offro i primi due volumi al pubblico. Materia troppo vasta e troppo delicata è questa, per esser maneggiata dalle mie mani, io lo confesso: essa è superiore alle mie forze, alle mie cognizioni, a' miei talenti; ma ardisco di dire che è inferiore al mio zelo. A traverso degli errori, che vi si troveranno forse sparsi, a traverso della bassezza, colla quale saranno esposte le più grandi verità, a traverso degl'infiniti difetti che vi si potranno incontrare, comparirà sempre il mio cuore, che l’ambizione non ha contaminato, l'interesse non ha dedotta, il timore non ha avvilito. Il bene pubblico è il solo oggetto di quest’opera, e il zelo, col quale è scritta, è il suo unico ornamento. Ecco il fondamento delle mie speranze, ecco il titolo che mi dà il vero diritto alla gloria.

Savj della terra, filosofi di tutte le nazioni, scrittori, o voi tutti a' quali è affidato il sacro deposito delle cognizioni, se volete vivere, se volete che il vostro nome venga scolpito nel tempio della memoria, se volete che l’immortalità coroni i vostri lavori, occupatevi in quegli oggetti che fra duemila leghe di spazio, e dopo venti secoli interessano ancora.Non scrivete mai per un uomo, ma per gli uomini; unite la vostra gloria agl’interessi eterni del genere umano; abborrite que’ talenti posseduti cosi spesso da quelle anime schiave, che bruciano un incenso servile sull'altare dell'adulazione; fuggito quello spirito timido e venale che non conosce altro sprone che l’interesse, né altro freno che il timore; disprezzate gli applausi efimeri del volgo e le riconoscenze mercenarie de' grandi, le minaccio della persecuzione e le derisioni dell'ignoranza: istruite con coraggio i vostri fratelli, e difendete con libertà i loro diritti; ed allora gli uomini interessati per la speranza della felicità, della quale voi mostrate loro la strada, vi ascolteranno con trasporto; allora la posterità grata a' vostri sudori, distinguerà i vostri scritti nelle biblioteche; allora né la rabbia impotente della tirannia, né i clamori interessati del fanatismo, né i sofismi dell’impostura, né le censure dell'ignoranza, né i furori dell'invidia potranno discreditarli o seppellirli nell’obblìo: essi passeranno da generazione in generazione colla gloria del vostro nome; essi saran letti, e forse bagnati dalle lagrime di quei popoli che non vi avrebbero altramente mai conosciuti, ed il vostro genio sempre utile sarà allora il contemporaneo di tutte l'età, ed il cittadino di tutti i luoghi.


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LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

LIBRO PRIMO

Delle Regole generali della Scienza Legislativa

CAPO I

Oggetto unico ed universale della Legislazione dedotto dall'origine delle Società civili

Qualunque fosse lo stato degli uomini prima della formazione delle società civili, qualunque fosse l’epoca di queste riunioni, qualunque la loro primitiva costituzione, qualunque il piano sul quale esse furono foggiate, non si può dubitare che una fu la causa che le produsse, uno il principio che le fece nascere: l’amore della conservazionee della tranquillità.Io non sono così strano per supporre uno stato di natura anteriore alle società civili, simile a quello de' selvaggi, come alcuni misantropi sofisti lo pretendono; né così ignorante della natura della mia specie, e de' caratteri che la distinguono dalle altre, per credere che l’uomo sia nato per errare ne' boschi, o che lo stato di società sia uno stato di violenza per lui.

Molto lontano dall'esser sedotto da un’opinione così erronea, io ardisco dire che l’Autore della na tura sarebbe stato inconseguente nella più augusta delle sue produzioni, se non avesse fatto l'uomo per la società. Ed in fatti, perché dargli una ragione, la quale non si sviluppa che colla comunicazione, e colla società degli altri uomini? perché al grido del sentimento, che forma tutto il linguaggio de' bruti, aggiungervi il dono esclusivo della parola? perché dargli il vantaggio inestimabile d'attaccare tutte l’idee possibili ad alcuni segni di convenzione necessari per trasmetterle agli altri? perché privarlo d'un istinto, il quale regola e rassicura tutte le azioni de' bruti, e far che l'uomo solo si determini per un atto libero della sua volontà, la quale per non ingannarsi nella deliberazione de' diversi partiti che si presentano, ricerca un'istruzione che non si può acquistare fuori della società? perché avvezzarlo ah la società con una lunga infanzia? perché non dare a tutti gli uomini gl’istessi gradi di forza, d’industria, di talento? perché renderli disposti a diverse occupazioni, a diversi mestieri? perché dar loro diversi desiderj, diversi bisogni, appetiti diversi (64)? perché render l’uomo suscettibile d'una moltitudine di passioni, che fuori della società non sarebbero d’alcun uso, eche non possono convenire ad un essere solitario? perché ispirargli l’ambizione di piacere a' suoi simili, e di avere un impero su di essi, o almeno sulla loro opinione? perché piantare nel suo cuore il germe della compassione, della beneficenza, dell’amicizia, in una parola, di tutte le passioni che dipendono dal senso morale d’un’anima ben nata, e che ci danno il bisogno singolare di spargere sopra gli altri una parte della nostra esistenza? perché finalmente non restringere tutti i suoi appetiti nella stretta sfera, nella quale sono ristretti quelli di tutti gli altri esseri che abitano la superficie del globo, cioè nella soddisfazione de' bisogni fisici, i quali non offerendosi all’uomo che per intervalli e per momenti, lasciano dietro di loro un vuoto che ci avverte della loro insufficienza per produrre la nostra felicità, e che ci annunzia che l’anima ha i suoi bisogni come il corpo, e che questi bisogni non si possono da noi, soddisfare senza darci in preda alle affezioni sociali?

Io credo che queste poche riflessioni basteranno per farci vedere sulla terra la società cosi antica come l’uomo, e per farci vedere nel selvaggio, che erra nei boschi, non già l’uomo naturale, ma l’uomo degenerato, l’uomo che vive contro il suo istituto, contro la sua destinazione, in poche parole, la rovina e la degradazione della specie umana, piuttosto che il simulacro vivente della sua infanzia.

Io sono dunque il primo a credere che la società sia nata coll'uomo. Ma questa società primitiva, questa società della quale io parlo, era tutt’altro che una società civile.

Non è da presumersi che gli uomini destinati a vivere insieme abbiano fin dal principio rinunciato alla loro indipendenza, prima di sperimentare il bisogno e la necessità di questo sacrificio.Questa società primitiva dunque non poteva essere una società civile. Questa doveva essere una società puramente naturale, una società nella quale erano ignoti i nomi di nobile e di plebeo, di padrone edi servo, ignoti i magistrati, ignote le leggi, le pene e i pesi civili. Questa era una società, nella quale non si conosceva altra disuguaglianza che quella, che nasceva dalla forza e dalla robustezza del corpo, altra legge che quella della natura, altro vincolo che quello dell'amicizia, de' bisogni e della parentela. Questa era una società, i membri della quale non avevano ancora rinunziato alla loro naturale indipendenza; non avevano ancora depositata la loro forza tra le mani d'uno o più uomini; non avevano ancora affidata a questi la custodia de' loro diritti; non avevano ancora messo sotto la protezione delle leggi la loro vita, la loro roba, il loro onore. Questa era una società, io dico, nella quale ciascheduno era sovrano perché indipendente, magistrato perché custode ed interpetre della legge che portava scolpita nel suo cuore, giudice finalmente perché arbitro de litigi che nascevano tra lui e gli altri socj, e vindice de' torti che gli venivano fatti.

Ma, infelicemente per la nostra specie, una società così fatta non poteva durare lungo tempo tra gli uomini. Pare che la natura non abbia data che ai soli castori l’arte difficile, o per meglio dire il dono piacevole di combinare la società coll’indipendenza. Quella disuguaglianza di forza e di robustezza, della quale si è parlato, questa disuguaglianza unica, che non si poteva estirpare da queste primitive società, doveva, coll’andare del tempo e collo sviluppo delle passioni, produrre i maggiori disordini. L’eguaglianza morale non potendo reggere a fronte, della disuguaglianza fisica, doveva necessariamente soccombere sotto la preponderanza della forza. L’uomo più debole doveva necessariamente essere esposto a capricci del più forte, finché gli attentati della forza erano meglio appoggiati e meglio sostenuti de' diritti della debolezza. La sua sussistenza, frutto de' suoi sudori, doveva spesso divenire l’oggetto della rapina dell’uomo più forte di lui. Il suo onore, la sua vita istessa erano beni precarj,; de 'quali poteva rimaner privo in ogni istante, sempreché uno spirito malefico si univa ad un corpo più robusto del suo. La diffidenza, l’incertezza, il timore dovevano dunque turbare la pace di queste primitive società. Bisognava opporvi un rimedio. Non se né trovò che un solo. Si vidde che non si poteva distruggere la disuguaglianza fisica senza rinunziare all'eguaglianza morale. Si vidde che per conservarsi, e conservarsi tranquilli, bisognava non essere indipendenti. Si vidde che bisognava creare una forza pubblica, che fosse superiore ad ogni forza privata Si vidde che questa forza pubblica non si poteva comporre che dall’aggregato di tutte le forze private. Si vidde che vi era bisogno d’una persona morale che rappresentasse tutte le volontà, che avesse tra le mani tutte queste forze. Si vidde in fine, che questa forza pubblica doveva esser unita ad una ragione pubblica la quale, interpetrando e sviluppando la legge naturale, fissasse i diritti, regolasse i dover ri, prescrivesse le obbligazioni di ciaschedun individuo colla società intera, e co’ membri che la componevano; che stabilisse una norma, alla quale il cittadino adattando le sue azioni, non avesse di che temere; che creasse e custodisse un ordine atto a mantenere E equilibrio tra i bisogni di ciaschedun cittadino co’ mezzi per soddisfarli; finalmente che compensasse il sacrificio dell'indipendenza edella libertà naturale coll’acquisto di tutti gl’istrumenti proprj per ottenere la conservazione ela tranquillitàdi coloro, i quali per quest’oggetto solo se n’erano spogliati.

Ecco l’origine ed il motivo delle società civili; ecco l’origine ed il motivo delle leggi; ed ecco per conseguenza l’oggetto unico ed universale della legislazione.

Se la conservazionee la tranquillitàde' cittadini è dunque l’oggetto unico ed universale della legislazione, prima di passare innanzi esaminiamo ciò che ai comprende sotto questo principio generale, e le conseguenze che ne derivano, per vedere quindi come ogni parte della legislazione deve corrispondere a questo fine comune.


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CAPO II

Di ciò che si comprende sotto il principio generale della tranquillità

e della conservazione, e de' risultati che ne derivano

La conservazioneriguarda l’esistenza, e la tranquillitàriguarda la sicurezza. Per esistere ci è bisogno de' mezzi, e per esser sicuro bisogna confidare.

I mezzi dell'esistenza si riducono a due classi; a quelli che riguardano i bisogni indispensabili della vita; ed a quelli che mettono il cittadino in istato di gustare una certa specie di felicità inseparabile da una certa quantità d’agio e di comodo pubblico. Io non intendo per agio o comodo pubblico le ricchezze esorbitanti d’alcune classi di cittadini; molto meno lo stato di coloro che, immersi nell’ozio, possono impunemente fomentare questo vizio distruttore della società. Le ricchezze esorbitanti d’alcuni cittadini, e l’ozio d’alcuni altri suppongono l’infelicità è la miseria della maggior parte. Questa parzialità civile è contraria al bene pubblico. Uno stato non si può dire ricco e felice che in un solo caso, allorché ogni cittadino con un lavoro discreto d’alcune ore può comodamente supplire a' suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. Questa era la misera condizione dell'infelice Sisifo. Niun istante era per lui, perché li dovea tutti al lavoro.

Lo stato bisogna dunque che sia ricco, e che le ricchezze vi sieno bene distribuite: ecco quello che riguarda la conservazione. .

Ma questo non basta. Si è detto che l’uomo non vuole solo conservarsi, ma vuol conservarsi tranquillo. Or per esser tranquillo bisogna che egli confidi. Che confidi dunque nel governo, il quale non usurperà i suoi diritti. Che confidi nel magistrato, che estinato alla custodia delle leggi non abuserà di questo sagro deposito per opprimerlo; che confidi negli altri cittadini, che sia sicuro che la sua pace non può esser turbata: che la sua vita protetta dalle leggi non gli può esser tolta che in un solo caso allorché i suoi delitti gli hanno fatto perdere il dolce diritto di conservarla; che sia sicuro che una proprietà pervenutagli per giusto titolo, è una proprietà protetta da tutte le forze della nazione; che acquistando nuove proprietà senza violare i diritti degli altri, i suoi acquisti sono sagri; e che il lavoro istesso delle sue mani è difeso dalla pubblica forza.

Questi sono i risultati del principio universale della conservazionee della tranquillità.Ogni parte della legislazione sarà dunque destinata a recare alla società uno di questi beneficj.

Ecco perché (come si è osservato nel piano cheho premesso) io divido le leggi in varie classi, distinguendole più dall'effetto che debbono produrre che secondo i diversi rapporti, che essi possono avere tra di loro.

Ma prima di parlare di queste leggi in particolare, prima d’entrare in questo caos, dove la materia è confusa, e dove gli oggetti sono tanti, che ci è bisogno di tutta la forza del metodo per non intrigarsi, conviene premettere alcune regole generali, senza delle quali la scienza della, legislazione sarà sempre vaga ed incerta Questo sarà l’oggetto di questo primo libro. Io comincerò dunque dal dimostrare la necessità di queste regole.


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CAPO III

La Legislazione, non altrimenti che tutte le altre facoltà,

deve avere le sue regole; e i suoi errori sono sempre i più gravi flagelli delle Nazioni

È più facil cosa descrivere una curva che una retta. La geometria ci dà molte regole per tirare una perpendicolare: la pittura, la scultura, l'architettura hanno certe proporzioni fisse, fuori delle quali non si ritrova l’esattezza. Senza una regola, la retta che ai vuol descrivere, degenererà facilmente in una curva: senza il quadrante, volendo tirare una perpendicolare, voi tirerete forse un’obliqua: senza le regole che ci additano le proporzioni che debbono avere le parti tra di loro e col tutto, il pittore e lo statuario farebbero spesso de' mostri, e l’architetto sarebbe spesso deluso, e nella solidità e nella vaghezza de' suoi edifizj.

L’indole dunque dell'uomo è incompatibile coll’esattezza e perfezione arbitraria. Ogni facoltà ha dovuto avere le sue regole, ed a proporzione che si sono perfezionate le regole, le facoltà si sono migliorate. La scienza della legislazione sarà forse l’eccezione d un principio cosi universale e costante?

Fu un linguaggio del dispotismo e della tirannia il dire che la sola regola della legislazione è la volontà del legislatore; ed è un errore dell’ignoranza il credere che in mezzo alle rivoluzioni, che cambiano di continuo la natura degli affari e l’aspetto delle società, la Scienza della legislazione non possa aver alcuni principi fissi, determinati ed immutabili.

Lo stato, è vero, è una macchina complicata: le ruote che la compongono non sono sempre l'istesse, e le forze che la fanno agire sono anche diverse, ma questo non prova che le regole che ci fanno conoscere queste diverse ruote, queste diverse forze, e la diversa maniera colla quale conviene maneggiarle, non possano essere sempre fisse e costanti.

A Dio non piaccia che una scienza, dalla quale dipende l’ordine sociale, e nella quale ogni errore può essere’ più pernicioso alle nazioni de' più gravi flagelli del cielo, dovesse esser priva di principi fissi e di regole, vaga ed incerta. La diversa maniera di pensare degli uomini, le infinite ed oscure combinazioni delle nostre idee derivate da alcuni dati spesso falsi a' quali ciaschedun uomo si consacra, i diversi rapporti, i pregiudizi e le massime diverse, sono tante prove, che ci dimostrano la necessità d’una guida per non traviare negli spazi immensi e difficili della legislazione.

Quanti mali si sarebbero risparmiati agli uomini, se si fosse sempre avuta e consultata questaguida! Niuna cosa è più facile che urtare in un errore di legislazione, ma niente è più difficile a curarsi, niente è più pernicioso alle nazioni. Una provincia perduta, una guerra male intrapresa, sono flagelli di pochi momenti. Un istante felice, una vittoria d’un giorno può compensare le sconfitte di più anni; ma un errore politico, un errore di legislazione può produrre l’infelicità d'un secolo, e può preparare quella de' secoli avvenire.

Sparta, tante volte oppressa dalle armi de' suoi vicini, si vidde sempre risorgere più formidabile. La celebre sconfitta di Canne non servi che a rendere i Romani più coraggiosi: ma una trista esperienza ci ha fatto pur troppo vedere, come un solo editto, mai calcolato, sopra le finanze, ha rese sterili le campagne più fertili, ed ha tolte migliaia di cittadini alla patria; e come un solo errore nella legislazione politica d'un popolo è stato bastevole a chiudere i porti d’una nazione, ed ha trasportate altrove le ricchezze dello Stato.

Quale spettacolo non ci offrono in questi ultimi tempi gli annali politici dell’Europa?

Noi abbiamo veduto in meno di due secoli quattro o cinque Potenze a vicenda dominare, ed esser dominate, e passare in un istante dalla grandezza all’avvilimento. Se noi anderemo in cerca della causa di questo turbine politico, noi non la troveremo altrove che nel difetto della legislazione di questi popoli, Cominciando dalla Spagna, noi troveremo che questa nazione, che sotto Carlo V. era, per così dire, il capo, dal quale partiva tutto il gran movimento dell’Europa; che questa nazione, la quale, per essere stata la prima ad innalzare i trofei della conquista in un nuovo emisfero, aveva avuta la sorte unica di unire i vantaggi della più felice posizione, e del terreno più fertile nell'Europa, col dominio de' paesi più ricchi dell’America; che questa nazione, che avrebbe potuto essere la più felice e la più ricca del globo, che avrebbe potuto dar la legge alla terra, e che avrebbe potuto trovare dentro di se i materiali proprj per gittare i fondamenti eterni della sua grandezza; noi troveremo, ) io dico, che le Spagna deve non solo all’espulsione degl’industriosi Mori, seguita dall’accrescimento istantaneo ed insopportabile delle contribuzioni e de' dazi, ma deve forse più d’ogni altra ad un falso principio d’economia, ed agli errori che questo principio erroneo ha cagionato nella sua legislazione, la perdita di tutti questi vantaggi, e lo stato deplorabile della sua agricoltura e della sua industria, della sua popolazione e del suo commercio, dal quale gli sforzi gloriosi della presente amministrazione non hanno potuto ancora sottrarla. I suoi Legislatori poco illuminati, e poco cosmopoliti, non avendo conosciuto che la prosperità della Spagna era dipendente dalla prosperità delle altre nazioni Europee; non avendo preveduto che, senza far crescere le ricchezze de' suoi vicini, essa non poteva conservarle proprie; che, senza diffondere nel resto dell'Europa una porzione de' suoi metalli, essa non poteva conservarne l'altra; che, aumentandosi di continuo la somma del suo numerario, senza che quello delle altre nazioni Europee crescesse in proporzione, la sua agricoltura e la sua industria oppresse dall'esorbitanza de' prezzi dei loro prodotti, non potendo reggere alla concorrenza dell’agricoltura e dell'industria straniera, sarebbero fuggite dallo Stato, e per conseguenza avrebbero seco loro trasportati tutti que’ tesori de' quali, come si è detto, andava sacrificata una porzione per la conservazione dell'altra; non avendo, in una parola, conosciuto che l’oro e l’argento era un dono dell’America, che la Spagna non poteva ritener tutto per sé, ma che doveva contentarsi di ritenerne quella sola quantità, che bastava per fare che la bilancia delle ricchezze relative pendesse dal canto suo, e lasciare il resto peri suoi vicini; non avendo i suoi legislatori conosciuta questa importantissima verità, hanno colle loro leggi, dirette tutte ad impedire che i metalli uscissero dallo Stato, rovinata l’agricoltura, la popolazione, l’industria, il commercio di questo paese, il quale per la sua soverchia sete dell'oro e dell'argento, è divenuto un corpo idropico, che non può più ritenerle acque, delle quali non ha saputo bere con moderazione (65).

Passando dalla Spagna alla Francia, noi troveremo anche nella legislazione la causa della decadenza di questa nazione, che dopo essere stata dominante nell’Europa come la Spagna, è divenuta, come quella, vittima degli errori delle sue leggi, e della stranezza de' suoi Legislatori. Un solo editto dettato dalla superstizione e dal fanatismo d'un Principe vecchio negli ultimi anni della sua vita, che sogliono per lo più essere quelli dell'imbecillità, ed un Solo errore d’un suo ministro, che cambiò tutto il sistema della sua legislazione economica, han fatto più male alla Francia, che non le han fatto di bene i suoi quarant'anni di vittorie, i suoi guerrieri celebri, le sue accademie, i suoi grandi uomini, così nelle lettere come nelle arti, e la sua dispotica influenza nell’Europa.

Il primo, esiliando dalla patria una porzione dei suoi cittadini, che l'errore aveva traviati, non solo diede un colpo fatale alla sua popolazione, ma privò nel tempo istesso lo Stato de' tesori delle arti, che quegl'infelici esuli offerirono alle altre nazioni, le quali videro il loro interesse nell’accoglierli; ed il secondo, preferendo i prodotti dell'arte a quelli della natura, fidando più nelle mani de' suoi cittadini, che nella fertilità del suolo del suo paese, tolse dalla terra gli agricoltori per farne gl'inventori delle mode e i manifatturieri delle stoffe; diede alla Francia una prosperità lusinghiera e precaria, che i progressi dell'industria Europea han fatto sparire, ed insegnò con questo alle altre nazioni l'arte d'impoverirla, arricchendo loro stesse. Ed in fatti la prima a profittare di questi lumi fu l'Inghilterra, e la Francia dovette cederle il primato. Ma quest'istessa nazione dopo aver per tanto tempo dominato in tutti i. mari, in tutt’i porti, in tutte le spiagge, dopo aver umiliati tutt'i paviglioni dell'Europa, dopo aver. influito sul commercio dei due emisferi, è oggi all’orlo della sua rovina, per non aver avuto un buon Legislatore che le abbia fatto conoscere, che una madre, che ha pochi figli, non deve somministrarne agli altri; che la Gran Brettagna con dieci milioni d'abitanti non era in istato di popolare tante colonie; che la sua popolazione non era suscettibile di tanti sacrifici; che invece d’eccitare i suoi cittadini ad abbandonare la loro patria, le leggi dovevano mettere un argine alle loro frequenti emigrazioni; che doveva contentarsi di quelli stabilimenti che erano assolutamente necessari pel suo commercio; e finalmenteche mossa dalla mania universale di dominare ne! nuovo mondo, doveva almeno ricordarsi che un uomo, che abbandona la sua patria per servirla al di là de mari, non lascia d'esser cittadino; che l'oppressione è altrettanto più ingiusta, quando viene dalle mani di un popolo libero; che la moderazione è l'unico garante delle possessioni segregate; che obbligare le colonie ad un commercio esclusivo colla capitale era un’ingiustizia che doveva di continuo inasprirle; che privarle del diritto di esser sempre giudicate da' proprj giurati era l’istesso che diminuire la loro confidenza nel governo; che condannarle alle contribuzioni arbitrarie era un attentato che si faceva alla loro libertà; che toglier loro il diritto di tassarsi da loro stesse era privarle d’una prerogativa, che un’Inglese non può mai perdere in qualunque parte della terra si ritrovi, una prerogativa che forse è il solo garante della libertà dell'Inghilterra, una prerogativa, che per conservarla, i suoi cittadini han tante volte versato il loro sangue e detronizzati i loro Re. Finalmente un buon legislatore avrebbe preveduto che queste colonie divenute ricche avrebbero un giorno lasciato d aver bisogno della loro madre, e che per conseguenza bisognava governare e dirigere colla maggior moderazione un popolo, che avrebbe ben presto ritrovato il suo interesse nell'indipendenza. Uu altro disordine avrebbe anche prevenuto questo legislatore. Se alla testa del governo Brittannico vi fossero stati in questi ultimi tempi un Lock o un Pen, questi due Legislatori celebri avrebbero fatto vedere alla loro patria, che l'abuso ch'ella ha fatto e fa tuttavia, del suo credito, accrescendo di continuo la somma dei suoi debiti nazionali, e moltiplicando all’infinito la circolazione delle carte rappresentanti un danaro che non esiste, dovea, sì per l’avvilimento del numerario, come per l’eccesso delle imposizioni, accrescere a dismisura il prezzo delle opere e de' lavori, accrescimento che doveva recare all’Inghilterra un grandissimo svantaggio nella concorrenza di qualunque altra nazione, e che non doveva tardar molto a cagionare la rovina della sua industria. Queste semplici riflessioni, che una savia legislazione non avrebbe senza dubbio trascurate, sfuggite dagli occhi degl’inglesi, possono cagionare la rovina duna nazione, che fin ora è stata la più avveduta ne' suoi interessi.

Funesta riflessione! Le nazioni, non altrimenti che gli uomini, hanno i loro momenti d'imbecillità.L’Inghilterra rimbambisce: essa moltiplica le sue contribuzioni in vece di diminuirle; essa perde la sua influenza nell'Europa per averla voluta troppo distendere nell’America; essa sarà ben presto priva dell’una e dell’altra, e lo scettro dell'Europa, dopo esser passato dalla Spagna nella Francia, e dalla Francia nell’Inghilterra, pare che oggi sia per fissarsi tra le mani de' Moscoviti, ove le buone leggi lo chiamano. Ci resterà forse per lungo tempo, e gli Europei dovranno forse un giorno ricever tutti la legge da questa sobria nazione. Il Codice di Caterina mi dà più da pensare, che la sua flotta spedita nell’Arcipelago.

Per venir dunque alle regole, delle quali si è dimostrata la necessità, per evitare gli errori, dei quali si sono dimostrati i funesti effetti, io comincio dal distinguere la bontà assolutadelle leggi dalla bontà relativa. Nello sviluppo di questo doppio carattere di bontà, che deve avere ogni legge, si contengono tutte le regole generali della scienzadella legislazione. Io parlerò, prima d'ogni altro, della bontà, assoluta.


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CAPO IV

Della bontà assoluta delle Leggi

Io chiamo bontà assolutadelle leggi la loro armonia co’ principj universali della morale, comuni a tutte le nazioni, a tutti i governi, ed adattabili in tutti i climi. Il diritto della natura contiene i principj immutabili di ciò che è giusto ed equo in tutti i casi. E’ facile il vedere quanto questa sorgente sia feconda per la legislazione. Niun uomo può ignorare le sue leggi. Esse non sono i risultati ambigui delle massime de' moralisti, né delle sterili meditazioni de' filosofi. Queste sono i dettami di quel principio di ragione universale, di quel senso morale del cuore, che l’Autore della natura ha impresso in tutti gl'individui della nostra specie, come la misura vivente della giustizia e dell’onestà, che parla a tutti gli uomini il medesimo linguaggio, e prescrive in tutti i tempi le medesime leggi; che è più antico, dice Cicerone, delle città, de' popoli, e de' senati; che ha una voce più forte di quella degli Dei, e che, inseparabile dalla natura degli esseri che pensano, sussiste e sussisterà sempre, malgrado gli sforzi di tutte le passioni che lo combattono, malgrado i tiranni che vorrebbero annegarlo nel sangue, e malgrado gli impostori che avrebbero voluto annientarlo nella superstizione.

Il Taita sente, cosi bene che Lock, che una fiera uccisa da un altro non può esser sua; che prodotti del suolo coltivato da un altro non gli possono appartenere senza il consenso del proprietario, e che la sola difesa può dare ad un uomo il diritto sulla vita d’un altro uomo. Ecco come la morate decide; ecco il diritto della natura; ecco la prima norma delle leggi.

Ma i legislatori hanno sempre consultata questa guida? Anche quelli, che haD fatto maggior pompa di moderatezza non l’hanno essi qualche volta trascurata? Io compiango la miseria dell'umanità, allorché veggo un Platone, che pensa nella maniera istessa che penserebbe un ignorante tiranno.

Se un servo, dice egli, nel mentre che si difende, uccide un uomo libero che gli si era scagliato addosso per ucciderlo, sia punito corno parricida (66). La propria difesa diverrà dunque un delitto nella persona d’un servo? E cosa è un servo, se non che un uomo, che ha avuta la disgrazia di cadere fra le mani di un altr’uomo per difendere la sua libertà, la sua patria, i suoi diritti? Le antiche legislazioni, e particolarmente quella de' Romani, erano scandalose riguardo a quest’oggetto. I legislatori gli negarono anche il nome di uomo. La legge Aquilia condannava all’istessa pena l’uccisore di un servo, che l’uccisore del cane o del cavallo altrui (67).

Tiranni politici, sono queste le vostre leggi? Uomini infelici, ove sono i vostri diritti? la vostra specie si sarebbe forse a questo segno degradata, se si fosse sempre consultata la natura? L’istesso Licurgo, che ha fatta la maraviglia dell’antichità, avrebbe egli condannato a perire que’ fanciulli che avevano la disgrazia di nascere d'un temperamento poco robusto, e gracile, se avesse letto nel santo libro della natura il dogma inalterabile della conservazione della specie (68)? Avrebbe egli permesso l’adulterio, allorché si faceva per ordine del marito (69)? E’ vero che ognuno può dare quello che è uso; ma nella somma de' diritti, che possono competere ad un uomo, ce ne sono molti che non sono suscettibili di trasferimento e di cessione: tale è il diritto dell’esistenza: tali sono per natura i diritti che porta seco il matrimonio.

Il signor di Montesquieu (70) rapporta una legge di Gondebaldo re di Borgogna, nella quale si ordinava se la moglie, o il figlio di colui che aveva commesso qualche furto, non avessero rilevato il delitto, fossero ridotti in ischiavitù. Egli ne rapporta un altra di Recessuindo, che permetteva a' figli della adultera di accusarla e di mettere alla tortura i servi della casa (71)Ecco due leggi, che per conservare i costumi, distruggono la natura, dalla quale traggono origine i costumi. Il rispetto e l’amore filiale ne sono i primi dettami. E’ la natura quella che s’ispira altrettanto orrore nello svelare i delitti de' nostri padri, che per i delitti stessi. Sono i suoi accenti che ci eccitano il piacere di vederli nascosti. Ma la legge vuole che si svelino. Ma la natura ce lo proibisce « e ci comanda di celarli. Non sarebbe una follia il paragonare la forza dell'una coll'energia dell'altra. I sentimenti della natura prevalgono sempre quelli della forza. Le leggi non debbono distruggerli; debbono anzi fomentarli. Essi non sono altro che tanti argini contro il torrente de' delitti. La vergogna, per esempio, è un sentimento della natura figlio della verecondia, che allontana gli uomini da' delitti. Una legge, che procurasse di distruggerla, sarebbe perniciosa. Tale era una legge d’Arrigo II. che condannava a morte una donzella, il parto della quale fosse morto, in caso che questa non avesse rivelata la sua gravidanza al magistrato.

A Dio non piaccia, che io voglia qui difendere il delitto enorme di quelle Medee, che violando le più sacrosante leggi della natura rendono quei miseri fanciulli le vittime de' loro trasporti. Io prego solo il lettore di prestare qualche attenzione a queste riflessioni che io sono per dettare.

Non sono forse le leggi quelle che appongono un certo grado d'infamia a' parti clandestini? L opinione e ’l pudore fomentano questa vergogna salutare. Non è dunque una contradizione il pretendere che una giovanetta sveli al magistrato il suo delitto? Il fine della legge di Arrigo era la conservazione del parto. Essa avrebbe potuto ottenerlo senza servirsi d'un mezzo così violento, e contrario alla natura. Bastava obbligarla d'avvisarne un probo uomo di sua conoscenza, che avesse avuto cura, della conservazione del fanciullo. A che dunque punire in una giovane l’effetto del pudore naturale? Perché confondere la morte del fanciullo cagionata dalla deficienza di que’ soccorsi, che il timore di palesare il suo fallo ha impedito alla madre di dargli, coll’infanticidio? Perché privare lo stato di due cittadini nell'istesso tempo cioè del fanciullo che muore, e della madre che potrebbe abbondantemente supplire a questa perdita con una propagazione legittima? E’ altrettanto tirannico l’esigere da una donzella l’accusa de' suoi trasporti, che di comandare ad un uomo di uccidersi colle proprie mani Una legge di quest’indole non può serbare neppure un grado di quella bontà che io chiamo assoluta (72).

Ma vediamo un poco se questi principi universali della morale possono in certi casi esser modificati dalle leggi. E un dogma della natura il reciproco soccorso del marito e della moglie. Una legge degli Achei toglieva questo peso al marito dell'adultera. Il precetto della natura non veniva sicuramente alterato in questa legge; era però modificato, e la modificazione era utile.

Il matrimonio era presso i Greci un contratto che obbligava da' due lati. Dopo l’adulterio, la legge non vedeva nel marito e nella moglie che due cittadini. Le sue mire erano tutte politiche. Il legislatore conosceva benissimo che ’l fondamento d’una nazione sono i costumi. Una legge di Solone obbligava i figli di nudrire i loro padri oppressi dalla miseria: essa n’eccettuava quelli che erano nati da una prostituta; quelli, la pudicizia de' quali era stata esposta dal padre con un commercio infame (73)); e finalmente n’eccettuava i figli, a' quali il padre non aveva fatto imparare alcun’arte, onde potersi alimentare (74).

Il signor di Montesquieu, riflettendo in un luogo (75) su questa legge degl'Ateniesi, dice “che nel primo caso la legge considera che, essendo incerto il padre, egli aveva resa precaria la loro obbligazione naturale; che nel secondo egli aveva denigrata quella vita Che loro avea data, e che avea loro recato il peggior male, che si possa faread un figlio privandolo del suo carattere; e finalmente nel terzo caso il padre aveva resa ai figli insopportabile una vita, che essi trovavano tanta difficoltà a sostenere”.

Tutte queste eccezioni non son altro che tante utili modificazioni del precetto naturale d’alimentare i padri.

L’altr'oggetto della bontà assoluta delle leggi è la Rivelazione. Se questa è lo sviluppo e la modificazione de principi universali della morale, le leggi non debbono distruggerla né alterarla. Questo sarebbe urtare un edificio innalzato da un Essere, che ha i primi diritti alla nostra ubbidienza. Essa deve anzi servir di guida alla legislazione. Il solo decalogo contiene in pochi precetti quello che appena cento codici di morale potrebbero racchiudere. I doveri dell’uomo verso Dio, verso se stesso, e verso gli altri uomini, vi sono splendidamente definiti. Il culto interno ed esterno, che vi si prescrive, è tutto pieno di purezza e di pietà. Ivi la superstizione e l’idolatria sono egualmente proscritte. La pace privata delle famiglie, l’onestà coniugale, e la pubblica tranquillità ne sono come le conseguenze. Chi non vede di quanto utile può essere alla legislazione un modello così perfetto? Se qualche tratto d'umanità e di beneficenza si vede risplendere a traverso degli errori della presente Legislazione dell’Europa, questo èun beneficio, che noi riconosciamo dallo stabilimento di una religione, la quale sviluppando i principi naturali dell’affezion reciproca, ed eguagliando a più dell'altare le condizioni degli uomini, ha messo un suggello di più alla libertà dell’uomo, proscrivendo la schiavitù domestica. Questa quercia annosa, l'ombra della quale ha in tutt’i tempi coverta la terra da un polo all’altro, ha lasciato d’ingombrare l’Europa dopo lo stabilimento del Cristianesimo. Noi possiamo con ragione disputare a' nostri padri il primo posto accanto al trono dell’umanità edella ragione. Né l'Egizia, né la Greca, né la Romana giurisprudenza può essere messa in confronto colla nostra riguardo a quest’oggetto. Noi non troveremo nell’istoria di questi popoli un legislatore che abbia rispettati gli imprescrittibili diritti della libertà dell'uomo, e che ne abbia adottata l'inalienabilità. Noi non ne troveremo uno che abbia neppur supposto, che nel codice della natura non ci è alcun titolo che possa render legittima la schiavitù, né un prezzo che possa pagarla.

La ferrea Logica, che da un supposto diritto del vincitore sulla vita del vinto, ne deduce un diritto anche più falso, quale è quello di privarlo della libertà, compensando colla schiavitù il preteso dono della vita, non è più ammessa nel moderno diritto delle genti, come non sono ammesse nel moderno diritto civile le vendite della propria libertà, o della libertà de' figli. Finita la guerra, le catene de' prigionieri si sciolgono, ed il vincitore restituisce al vinto la sua libertà, la sua patria, i suoi beni (76). Il guerriero non teine più la schiavitù, e molto meno la teme il cittadino.

Un figlio infelice non è esposto, come lo era in Roma, al pericolo d'esser venduto dal padre per non avere come alimentarlo(77). Le leggi hanno innalzati gli asili, ove l'indigenza va a riporre i frutti de' suoi piaceri (78).

La vendita della propria libertà non è mai valida presso di noi, come io era in alcuni casi presso i Romani (79). Il cittadino non ha né il diritto né il bisogno di privarsi della sua unica prerogativa. Le leggi istesse che gli proibiscono questo contratto oltraggioso, gli offrono la sussistenza e la libertà.

Finalmente, il debitore insolvibile condannato dalle leggi delle XII tavole o a divenire schiavo del suo creditore, o ad essere sbranato nel caso della pluralità de creditori (80), non deve far altro che dichiarare la cessione de' suoi beni con una cerimonia più impropria e sconvenevole, che dolorosa, per ottenere presso di noi la sua libertà e la sua pace (81)). Ecco come il diritto delle genti e il diritto civile è stato ingentilito e migliorato dalla religione. Piacesse al cielo che i nostri legislatori avessero sempre adattate le loro leggi a' suoi principj. La superstizione non avrebbe sporcati di sangue i nostri codici, e là schiavitù, proscritta dall’Europa, non sarebbe andata a stabilirsi in America sotto la protezione di quelle leggi stesse che l’avevano da noi esiliata. Le barbare sponde del Senegal non sarebbero il mercato ove gli Europei vanno a comprare a vii prezzo i diritti inviolabili dell’umanità e della ragione. L’avarizia ardita ed insaziabile non anderebbe, a traverso de' naufragi a comprare tra barene e le tigri dell'Africa le umane vittime della sui cupidigia, e gli Europei non avrebbero il rossore di vedere i loro navigli spesso carichi di Catoni, che sanno preferire l’indipendenza alla vita, la morte alla schiavitù.

Ma chi lo crederebbe? Nel mentre che il Cristianesimo fa sentire nell’Europa i suoi benefici influssi; nel mentre che le nostre leggi si dichiarano in favore della libertà dell'uomo; nel mentre che l’umanità reclama da per tutto i suoi diritti, l’America Europea è coperta di schiavi: la legislazione non solo si tace su quest’abuso, ma ne protegge il commercio infame; e in tutto l’immenso spazio di questo vasto continente non si ritrova che una sola picciola regione d’eroi, che ha voluto sottrarsi a' rimorsi di quest’ingiustizia, ed allo scandalo della posterità. La sola Pennsylvania non ha più schiavi.

I progressi de' lumi e della filosofia, uniti alla virtù de' troni, ci fanno sperare che il suo esempio sarà imitato dal resto delle nazioni. I nostri codici saranno allora più.. analoghi a principi della natura e della rivelazione, o il loro trionfo su gli antichi sarà allora più deciso.

Io scorro rapidamente sopra quei oggetti, perché temo sempre di urtare nell’errore di coloro, che si distendono inutilmente nel dimostrare, alcune verità, Delle quali tutti gli uomini convengono. Preferirei volentieri il partito di tacerle, se la natura del lavoro che ho intrapreso, e le leggi del metodo non me lo. proibissero.

Dopo aver dunque date alcune idee generali della bontà assoluta delle leggi, io passo alla bontà relativa.


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CAPO V

Della bontà relativa delle Leggi

La diversità de' caratteri, del genio e dell’indolo degli uomini, e la loro incostanza si comunica ai corpi politici, non altrimenti che i difetti delle parti si comunicano al tutto. Le nazioni non si rassomigliano alle nazioni, i governi non si rassomigliano a' governi. Pare che la nature, avida di mostrare la sua grandezza nella varietà delle sue produzioni fisiche, voglia egualmente far risplendere i suoi prodigi nella diversità de' corpi morali.

Ogni governo ha le sue molle particolari che lo fanno agire; ma quelle, che lo ranno agire in un tempo, lo lasciano nell’inazione in un altro. I costumi d un secolo non sono mai quelli del secolo che lo precede, né di quello che lo siegue. Gl'interessi delle nazioni si mutano come le generazioni, e pochi anni di tempo, o un meridiano di distanza bastano per render pernicioso in un tempo o in un luogo quello, che era utile in un altro tempo o in un altro luogo.

Le leggi dunque debbono, o no, seguire questa incostanza, e questa prodigiosa varietà de' corpi politici? Un fatto solo basta per risolvere questa interessantissima questione.

Un legislatore odia le ricchezze; bandisce dalla sua repubblica l’oro e l’argento; proibisce il commercio; procura di stabilire un’eguaglianza di condizioni, e per conservarla regola le doti e dirige le (successioni; distrugge ogni proprietà; vuole che le terre siano della repubblica, e che questa ne distribuisca una porzione a ciaschedun padre di famiglia, per goderne in qualità di usufruttuario; condanna il lusso, introduce una specie di gloria e di onore nella frugalità; avvilisce le manifatture; vuole che la terra si coltivi da' servi, e che un cittadino libero non abbia altra occupazione che quella, che riguarda la robustezza del corpo e l'arte della guerra.

Egli immerge i suoi cittadini in un ozio guerriero; e per prevenirne le funeste conseguenze, regola tutte le loro azioni. I loro cibi, il loro pranzo, sino gli oggetti su i quali debbono cadere i loro discorsi ne' pubblici portici, sono determinati dalla legge. Il ballo, la corsa, la lotta, e tutto ciò che può fortificare il corpo e disporlo alle fatiche della guerra, diviene l'oggetto de' pubblici spettacoli e il gran decoro del cittadino. Egli previene la dissolutezza de' due sessi col soccorso d'un rimedio che pare che dovrebbe fomentarla. Egli vuole che le donzelle vadano sempre col volto scoverto, e che dell'intutto nude combattano co’ giovanetti negli esercizj pubblici, persuaso che il rimedio più sicuro contro le impressioni della natura è d’avvezzare i sensi al suo spettacolo.

L'evento giustifica tutto il sistema della sua legislazione, e la sua repubblica diviene l'ammirazione dell'universo, e conserva la sua felicità e la sua forza per sei secoli.

Un legislatore d’un’altra repubblica, separata dalla prima da uno spazio di poche leghe, pensa tutto all'opposto. Le sue leggi proteggono il commercio, animano le arti, incoraggiscono l’agricoltura, promuovono il travaglio, e richiamano da ogni parte le ricchezze. Consapevole della sterilità del suolo della sua repubblica, questo legislatore chiama in soccorso l’industria.

Egli vuole che ciascheduno de' suoi cittadini eserciti un mestiere; dispensa il figlio dall’obbligo d’alimentare un padre, che non gli ha insegnata alcun’arte, onde poter vivere; e dà ad un congresso de' più rispettabili cittadini la cura d'invigilare su i mezzi, da' quali ciaschedun individuo della repubblica raccoglie la sua sussistenza.

Egli vuole che tutti sieno occupati, ma non vuole che si prescriva ad alcuno il mestiere, la scelta del quale deve dipendere interamente dal suo arbitrio, e dà la cittadinanza agli artieri esteri, che si vengono a stabilire colla loro famiglia nella città per esercitarvi la loro arte: la libertà, il bisogno, la legge, tutto favorisce le arti in questa repubblica. L’ozio è punito come un delitto: le donne istesse debbono esser laboriose e sedentarie, perché la legge vuole che lo siano; ed il legislatore crede di poter respinger la corruttela de' costumi, e di poter sostenere l’onestà de due sessi in mezzo alle ricchezze, che egli cerca di richiamare, e del lusso che deve esserne l’effetto, col solo appoggio della fatica. La sua repubblica diviene col soccorso di queste leggi felice, ricca e potente, e se non può conser var le sue leggi per sei secoli come la prima, ha in compenso la gloria singolare di sopravvivere alla sua libertà.

Quale di queste due legislazioni è la migliore? A questa domanda io rispondo che Sparta non poteva avere una miglior legislazione di quella di Licurgo, e Atene di quella di Solone. L'effetto di queste due legislazioni fu l'istesso, malgrado l'opposizione e la diversità delle cause. L'una e l'altra erano opportune allo stato delle due repubbliche, alle quali furono date, e questa opportunità, questo rapporto tra le leggi, e lo stato della nazione che le riceve, è quello che io chiamo bontà, relativa.


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CAPO VI

Della decadenza de' Codici

Se la miglior legislazione è quella, che è la più adattata allo stato della nazione alla quale si emana; sein questo stretto rapporto consiste tutta la bontà relativa delle leggi; se due legislazioni opposte tra loro possono essere entrambe utili a due nazioni diverse; se lo stato d'una istessa nazione può mutarsi, cambiandosi le circostanze che lo compongono; se una nazione può passare dalla miseria alle ricchezze, e dalle ricchezze alla miseria; se una provincia perduta, o una provincia acquistata, possono far cambiare d’aspetto gl’interessi d’un popolo, e se ogni picciola alterazione nella costituzione del governo può produrne una nel carattere della nazione; chi potrà dubitare che la miglior legislazione di questo mondo può divenire la peggiore, e che la più utile per un popolo in un tempo potrà divenire la più perniciosa per l’istesso popolo in un altro tempo? L’istoria di Roma, e delle sue leggi, ce ne offreuna prova.

Roma nata per perire nell’aurora istessa de' suoi primi giorni; Roma egualmente incapace di soffrire le catene del dispotismo, che di godere de' vantaggi d’una libertà tranquilla (82); Roma, che appena discacciati i Tarquinj, si dette in preda alle civili discordie; che l’opposizione eterna de' due partiti irreconciliabili della nobiltà e del popolo esponeva di continuo a tutti i pericoli dell'anarchia; Romadoveva necessariamente combattere per non perire, doveva cercar la guerra al di fuori per conservar la pace dentrole sue mura.

I suoi savj legislatori conobbero questa ferità, e su questo piano innalzarono tutto i| sistema della loro legislazione.

La conquista fu il grande oggetto delle loro leggi, ela loro legislazione era l'unica che poteva in quel tempo convenire a' Romani. Essi cercarono d’interessare tutti i cittadini, tutti gli ordini della repubblica nella guerra. A soldati era distribuito il bottino; a' cittadini, che restavano in città, si dava una porzione di frumento a conto de' tributi, che ai pagavano dalle nazioni soggiogate. La gran molla dei premj e degli onori fu anche compressa. Le corone, quest'ornamento della Divinità, del sacerdozio e dell’impero, furono in Roma destinate al valore, alla vittoria, alla conquista. Si sa che essi n'ebbero diverse, e si sa anche che la meno pregevole era quella di lauro, che si dava a coloro che avevano trattata o confermata la pace cogl'inimici (83). Lo spirito della legislazione si osserva ammirabilmente nella destinazione di questo premio. Il procurare la pace alla patria era l'azione meno premiata dalla legge, perché la meno desiderata.

Bisognava quindi interessare i Consoli nella guerra. Si stabilì dunque che essi non potessero ottenere gli onori del trinfo, se non dopo una conquista o una vittoria.

Finalmente il sacerdozio istesso, il sacerdozio così avido in Roma, come in tutt’i paesi, ove il fanatismo, ha preso il luogo della religione, trovava anche il suo interesse nella guerra. Siccome gli Dei delle nazioni soggiogate erano adorati nel Campidoglio; siccome i Romani credevano di compensare gli oltraggi fatti alle nazioni coll'introdurre un nuovo culto agli Dei che le proteggevano; il sacerdozio vedeva moltiplicarsi insieme colle conquiste gli Dei, i tempj e le offerte, tre sorgenti fecondissime delle sue ricchezze.

Coloro dunque che ubbidivano, coloro che comandavano, quelli che maneggiavano la spada, e quelli che incensavano i Numi, tutti vedevano nella guerra il fondamento delle loro speranze. Questa combinazione sublime, questa prodigiosa unità negl interessi di tutt'i cittadini doveva senza dubbio tener sempre aperta la guerra al di fuori, e sempre tranquillo il popolo nell'interno, perché sempre occupato e distratto dalla conquista; ma doveva' anche mettere un giorno i Romani. nello stato di Don aver più nemici da combattere. Essi in fatti vi pervennero, ed allora la loro legislazione, che era stata fino a quel momento la più opportuna per garantire la loro domestica pace, e la loro libertà sotto gli auspicj della guerra, priva di questo istrumento, divenne incompatibile col nuovo stato della repubblica, la quale immersa di nuovo nelle civili discordie che le sue leggi non potevano più evitare, perde la sua libertà in mezzo a' bollori dell'anarchia.

I migliori codici possono dunque avere le loro vicende (84). Quell'istesse leggi, che hanno. prodotta la grandezza e l'opulenza d un popolo, possono essere inefficaci a conservarlo in questo stato. Noi abbiamo osservato questo fenomeno nella legislazione di Roma. Noi potremm'osservarlo anche nella legislazione di alcune nazioni moderne, come lo faremo nel decorso di quest'opera. Bisogna soltanto distinguere, che qualche volta il difetto è nelle parti, qualche volta è nel tutto. Qualche volta dunque basta riparare l’antica legislazione, qualche volta bisogna mutarla interamente. La prima di queste intraprese non è molto difficile. Ma quanti ostacoli a' incontrano nella seconda?


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CAPO VII

Degli ostacoli, che incontrano nel cambiamento della Legislazione d'un popolose de' mezzi per superarli

Se la legislazione opera allorché persuade; se i voti del pubblico non sono indifferenti per le leggi; se il loro vigore è inseparabile da quel convincimento degli spiriti, che cagiona un’obbedienza libera, piacevole e generale; se tutte le novità non basta che nascano dal bisogno, ma debbono essere ispirate da una specie di grido pubblico, o almeno accordarsi col voto generale; se' agire senza consultare la volontà de' popoli, e senza raccogliere, per così dire, la pluralità de' suffragi nell'opinione pubblica, è un errore, che aliena i cuori è gli spiriti, che fa tutto discreditare anche il buono e l’onesto; se finalmente questo è difficile ad ottenersi nel caso nostro più che in ogn’altro, supposti i sospetti dell'ignoranza, supposti i clamori degl'interessi privati, che si debbono urtare, sempre più strepitosi e più seducenti delle grida dell'interesse pubblico; supposte le congiure dell’invidia; supposta finalmente la cieca venerazione del vulgo in favore di tutto quello che è antico, e ’l suo irritante disprezzo per tutto quello che è nuovo, anche pel bene istesso che si fa sotto i suoi occhi; supposto tutto questo, io dico, non saranno piccioli gli ostacoli, che la politica ci offre a superare, allorché si tratta di abolire l’antica legislazione d’un popolo per sostituirgliene un’altra più adattata allo stato presente della nazione, che deve riceverla.

Queste interessantissime riflessioni, comprovate dalla ragione e dall'esperienza, m’inducono a proporre qui alcuni rimedj atti a dissipare, o almeno a diminuire la resistenza di questi ostacoli.

Il primo passo, che si deve dare, è di fare in maniera che il pubblico desideri questa riforma. Per ottenere questo fine bisogna che gli animi si preparino. Questo apparecchio non si può fare in un istante. Fa d’uopo far sentire a' cittadini l'inefficacia delle antiche leggi. Questo può ottenersi attribuendo alla legislazione tutte le cause de' disordini, e questo è uno de' casi, ne' quali il governo deve ricorrere al genio. Allora la penna degli Scrittori, diretta dall'amministrazione, aprirà la strada alla nuova legislazione. Essa istruirà il pubblico negli errori delle antiche leggi; e ne' mali che ne derivano. Essa farà vedere a' cittadini la necessità, che ci è di abolirle. Allora finalmente la voce dell’istruzione, unita alle mire del governo, dissiperanno uno dei maggiori ostacoli, qual è il cieco trasporto della moltitudine per l’antica legislazione. Nello stato presente delle cose questo preparamento è di già fatto.

Le migliori penne si sono impegnate a scuotere l’ignoranza pubblica su questo articolo. Lo stato informe della legislazione della maggior parte delle nazioni Europee è stato dipinto co’ colori più vivi. Composta dalle leggi d’un popolo prima libero, epoi schiavo, compilate da un giureconsulto perverso sotto un Imperatore imbecille, accoppiate ad un immenso numero di leggi particolari che si contradicono, di decisioni del foro che le eludono, di usi e di consuetudini grossolane fondate su i capricci dell'ignoranza e della stupidezza nella notte dell'anarchia feudale, ed incompatibili coi cambiamenti sopraggiunti in tutti i generi, composta, io dico, la nostra legislazione da tante parti eterogenee, non doveva costar molta fatica il discreditarla. Essa, in fatti, è così decaduta dall’opinione pubblica, che, se se n’eccettua il sacerdozio destinato a custodire e consultare questi misteriosi libri della Sibilla, non vi è cittadino che non desideri la riforma de' nostri codici.

Dato questo primo passo, bisogna farne un altro: non basta persuadere il pubblico contro l’antica legislazione; bisogna prevenirlo in favore della nuova. Gli argomenti per ottenere questa necessaria prevenzione, debbono essere sensibili. Essi debbono nascere dall’opinione istessa. Sarebbe per esempio un errore il far credere a' cittadini che questo gran lavoro sia confidato ad un solo. Le continue radunanze degli uomini, che sono in maggiore stima presso la moltitudine, mettendo un argine contro il torrente dell’invidia, fomentano nel tempo stesso la confidenza, il rispetto e l'amore per le nuove leggi. Presso tutte le nazioni, in tutt'i governi, in tutte l’età, questi mezzi non si sono trascurati.

In Atene una nuova legge non si potea proporre al popolo, se il Senato non l'approvava. Preceduta quest'approvazione, essa si leggeva all’assemblea del popolo, e se ne affiggeva una copia a' piedi delle statue de' dieci Eroi, affinché tutti avessero potuto leggerla ed esaminarla. Durante questo tempo, ogni privato cittadino aveva il diritto di esporre al Senato le sue riflessioni sulla nuova legge. In un’altr’assemblea essa era di nuovo letta al popolo, il quale, trovandola plausibile, eleggeva col consiglio de'Pritani,che presedevano in quel giorno, i Nomoteti,o sia i Legislatori che dovevano sovranamente decidere, se la nuova legge doveva aver vigore (85). Questi Nomoteti dovevano essere scelti tra quei giudici che avevano dato il giuramento Eliastico, ne' quali, come si sa, il popolo aveva la massima confidenza (86). Il Senato, il popolo, i più savj giurisperiti dovevano dunque aver parte in una nuova legge in Atene. Lo stabilimento degli Ateniesi è stato imitato da' Veneziani. Prima di proporsi una nuova legge alla grande assemblea degli Ottimati, deve esser approvata da' Savj, quantunque la sola approvazione de' primi bastasse a dar vigore ad una legge in una repubblica aristocratica Ma questi Savj sono in Venezia quello che erano i Nomateti in Atene, le persone le quali godono la maggior opinione del volgo, che non saprebbe dubitare di ciò che è stato da essi approvato (87).

Se si riflette sulla storia politica delle nazioni, si vedrà che i Legislatori più savj han fatto sempre uso di certe solennità misteriose, per procacciarsi l'opinione del volgo. Omero ci dice che Minos andava in ogni nove anni nell’antro di Giove, dove faceva credere che questa divinità gli ispirava quelle leggi, che egli quindi emanava a' Cretesi (88). Zamolxi in Tracia (89), e Zeleuco in Locri (90), vollero egualmente appoggiare ne cieli le loro leggi.

Licurgoconobbe nella maniera istessa la necessità, che ci era. di servirsi dell'ignoranza e della superstizione del volgo per guadagnarne I’ opinione: egli attribuì le sue leggi ad Apollo (91)). Sono finalmente celebri nella storia di Roma i nomi del dio Conso, e della ninfa Egeria, che Romolo, e Numa Pompiliofacevano credere come gl’ispiratori delle loro leggi.

Ci è differenza tra una nazione che nasce, ed una nazione adulta. Romolo e Mima seppero trovar la moneta, onde comprar l’opinione dal popolo nascente, e i loro successori seppero mutarla, allorché si doveva comprare da un popolo adulto. Ed in fatti, ne' tempi più illuminati, fu stabilito tra i Romani che i Consoli, i Tribuni del popolo, e tutti i Magistrati superiori non potessero ne' Comizj proporre alcuna legge senz'aver prima consultati i più savj giureconsulti del tempo (92). Questa forse fu una delle cause del rispetto, che i Romani ebbero per le loro leggi. Io non ho fatto dunque altro che imitare la condotta di questi savj legislatori, allorché ho fatto vedere quanto interessi il far credere al volgo, che le persone che sono in grande opinione presso la moltitudine, sieno anche adoprate nella nuova legislazione. In un trono del Settentrione, presso una nazione che oggi fa la maggior comparsa sul teatro dell’universo, questi lumi non giugneranno nuovi. Là Caterina nell'intrapresa del nuovo codice, intrapresa anche più augusta di quella di dar la legge ad un vicino, che ignorava che i tesori e gli schiavi sono un argine troppo debole contro il genio ed il valore, nell'intrapresa di questo codice, io dico, Caterina ha chiamati da tutte le parti dello Stato gli uomini più degni di questo lavoro. Essa ha fatto anche di più: ha lasciato ai suoi sudditi la scelta de' loro legislatori (93).

“Miei figli, ha essa detto a' deputati di tutte le città del suo vasto Impero, miei figli, discutete con me gl'interessi della nazione; facciamo che la mano della libertà sia destinata a pesare la sorte di un popolo intero nella bilancia della giustizia; facciamo che tutti i membri dello Stato abbiano in certa maniera parte al beneficio, che loro sì prepara: formiamo dunque insieme un corpo di leggi che stabilisca solidamente la felicità pubblica, e che fissi per sempre la sorte de' vostri concittadini.”

Con questi felici auspicj, con questi esordj, i più proprj per imporre e per guadagnare la moltitudine, potranno forse le sue leggi non esser unite alla acclamazione ed a' voti del pubblico? Vi sarà forse un cittadino che dubiterà dell’utilità del nuovo codice, eche esiterà un momento nel preferire le nuove leggi alle antiche?

Si, voi corrisponderete alla loro aspettazione. Legislatrice augusta delle Russie, voi farete la felicità dell’antica patria degli Sciti, e preparerete col vostro esempio quella dell’Europa intera.

Finalmente, l'ultimo mezzo, e forse il più efficace, per conquistare l'opinione del volgo, è il mettere nel maggiore aspetto quelle leggi, che prevengono i disordini più conosciuti e più deplorati dalla moltitudine.

Conobbe questa verità un Principe filosofo, che in questi ultimi tempi ha reso egualmente glorioso il suo nome nelle reggie de' Principi, che ne gabinetti de' pacifici filosofi (94). Alle altre savie istituzioni, che egli racchiuse nei nuovo codice, vi aggiunse anche quelle, che impedivano la lunghesso delle liti, male che opprime la maggior parte delle nazioni d’Europa, e che tutt'i popoli deplorano. Un processo passando per tre istanze non può durare più di due anni negli stati di questo Principe Questo solo stabilimento basterebbe presso noi altri per prevenire gli animi del volgo in favore della nuova legislazione, come è avvenuto in Prussia. Il popolo, vedendosi allora privo d’un peso che di mal animo sopportava, non potrà non benedire la mano, che glielo ha tolta Egli amerà la legislazione, e la preferirà all'antica.

Queste sono le precauzioni, che la politica c'inspira per prevenire i disordini, che il cambiamento della legislazione potrebbe produrre in uno stato. Vediamo ora se ci è mai un mezzo da ritardare la decadenza istessa de' codici.


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CAPO VIII

Della necessità d'un Censore delle leggi,

e de' doveri di questa nuova Magistratura

Ladecadenza de' cedici è una rivoluzione politica, ma una rivoluzione, che si fa lentamente, che cammina con passi quasi insensibili, e che ha bisogno di secoli per giungnere al suo termine. Non è dunque istantanea; né può esserlo che in un solo caso: quando una nazione passasse in un istante da una forma di governo ad un'altra. Or questo è difficile ad avvenire, quando non s’incontrino nell'istesso tempo e nell'istessa nazione un Tarquinio, una Lucrezia, un Bruto, e un popolo intero amante della libertà e mal contento del governo. Toltone dunque. questo caso, la legislazione non potrà decadere che lentamente. Essa potrà dunque essere riparata. Quest'oggetto così interessante, quest'oggetto così trascurato da' governi m’induce qui a dimostrare la necessità, che vi sarebbe, d’un Censore delle leggi. Questa magistratura, composta da' più savj e più illuminati cittadini dello Stato, potrebbe avere la maggiore influenza sulla perpetuità dell’ordine legale. Comincia una legge ad essere in contradizione coi costumi, col genio, colla religione, colla opulenza ecc. della nazione? Il Censore destinato alla perpetuità ed alla conservazione di questi rapporti, farà subito vedere la necessità che vi è di riformarla. Più: ogni legislazione, per ammirabile ch'essa sia, deve avere i suoi vizj ed i suoi difetti. Questi sono i compagni inseparabili dalle produzioni umane. Il tempo ce li fa conoscere; ma non è il tempo che può dissiparli o che può toglierli. Il governo è quasi sempre l’ultimo ad avvedersene. Distratto dalle altre occupazioni, egli non si. avvede, né può avvedersi che tardi degli errori della giurisprudenza. Intanto i popoli soffrono, i filosofi declamano, e la legislazione corre a gran passi alla sua rovina.

Un Censore delle leggi dissiperebbe tutti questi disordini: consacrato di continuo alla loro custodia, istruito dello stato della nazione, attento ad analizzare tutte le cause de' disordini, egli sarebbe il primo ad avvedersi degli errori delle leggi. Conosciuto il male e la causa del male, il rimedio è sempre più facile e più opportuno (95).

Rivolgiamoci per poco all’istoria d’un popolo, le leggi del quale superando gli ostacoli del tempo e della filosofia, conservano ancora il loro vigore nella maggior parte delle nazioni d’Europa. Ricorriamo a' Romani. I Romani avevano un Censore de' costumi.Essi avrebbero dovuto anzi aver un Censore delle leggi.La loro legislazione, che fino ad un certo tempo fu ammirabile nel tutto, fu sempre difettosa nelle parti.Questi difetti non venivano curati; e questa è la ragione per la quale le loro leggi erano spesse volte in contradizione co’ loro costumi, e collo stato presente della nazione. Le leggi suntuarie, per esempio, de' Romani nel tempo di Cesare, avrebbero potuto convenire a' Romani del secondo e terzo secolo (96); e pure esse facevano una porzione del codice della nazione, nel tempo che cinquantamila dramme appena bastavano per somministrare la spesa d’una cena, che Cicerone e Pompeo chieggono a Lucullo, avendolo colto all'improvviso. Fra lo strepito d'una truppa di servi, che formavano l’accompagnamento giornaliero de' cittadini di Roma, le leggi prescrivevano una frugalità che i Romani disprezzavano, e che le ricchezze della nazione non potevano tollerare. Un Censore avrebbe sicuramente fatto vedere la necessità, che vi era, di abolire queste leggi, ed emanarne altre più adattabili allo stato nel quale era in quel tempo la nazione.

Finalmente, l’ultimo vantaggio che si potrebbe raccorre da questa magistratura, sarebbe un rimedio contro la moltiplicità delle leggi. Un legislatore che emana una legge, può egli avere innanzi agli occhi tutt'i casi particolari che vi si debbono comprendere? Al contrario non ci vuol molto a vedere che uno di questi casi, che sfugga dagli occhi de! legislatore, la rende imperfetta. La politica non ha ancora ritrovato un rimedio a questo disordine.

Basta por mente sul sistema presente de' governi d’Europa, per vedere quanto noi siamo ancora lontani dal ritrovarlo.

Se un disordine si fa appena sentire in una nazione, una nuova legge si emana. Essa non ha per oggetto che quel caso particolare, che potrebbe essere facilmente compreso in una legge anteriore, la quale con due o tre parole di più, con due o tre parole di meno, potrebbe comprenderlo. Ma il destino delle legislazioni è di correre sempre innanzi senza mai rivolgersi indietro. Ecco la causa dell’immenso numero delle leggi che opprimono i tribunali d'Europa, e che rendono lo studio della giurisprudenza simile a quello delle cifre de' Cinesi, i quali, dopo uno studio di venti anni, appena hanno imparato a leggerle (97).

Agli altri doveri dunque del Censure si potrebbe anche aggiugnere quello di supplire al difetto delle leggi, rendendole applicabili a quei casi che il legislatore non ha prevenuti, senza moltiplicarne inutilmente il numero. Così la legislazione di continuo riparata, riformata e supplita nelle sue parti potrebbe acquistare un certo grado di stabilità e di perfezione atto a garantirla dagl’insulti del tempo, e dal torrente delle vicende che agitano i corpi politici, e che fanno di continuo mutare l’aspetto della società. Così non si vedrebbero più tante leggi d'eccezione per una sola legge di principio, tante leggi interpetrative per una sola legge fonda mentale, né tante leggi nuove che si contradicono colle antiche; così finalmente i codici delle leggi, che oggi sono i libri del disordine e della confusione, potrebbero divenire i monumenti del buon ordine, e l'aggregato di molti principi uniformi concatenati, e diretti ad un oggetto comune.

Gli Ateniesi conobbero la necessità d’una magistratura che avesse sempre gli occhi aperti sulla legislazione. Noi sappiamo che quest’era la principale funzione de' Tesmoteti.Essi dovevano di continuo rivedere la legislazione, esaminare se vi era contradizione tra le leggi dirette all’istesso oggetto, se vi era ambiguità nel loro linguaggio: in una parola, essi dovevano in ogni anno istruire il popolo delle correzioni, che credevano doversi fare nel corpo delle sue leggi (98). Oltre la loro particolare ispezione, in ogni anno nell'undecimo giorno della prima Pritania si dovevano rileggere al popolo tutte le leggi, e si doveva esaminare dall'assemblea se conveniva, o no, correggerle, riformarle, o farvi qualche addizione. Se si trovava in qualche parte difettosa la legislazione si rimetteva Tesarne di quest’affare all’ultima assemblea nell’istessa Pritania, durante il tempo i Nomoteti erano incaricati d’esaminare l'oggetto della quistione, per palesare quindi al popolo ciò che ne pensavano, ed il popolo, istruito da essi, deliberava (99). Ecco la maniera di prevenire la decadenza de' codici.


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CAPO IX

Della bontà relativa delle leggi considerata

riguardo agli oggetti, che costituiscono questo rapporto

Dopo aver in questa maniera esposto il principio generale della bontà relativadelle leggi; dopo aver dedotto da questo principio le cause delle vicende de' codici; dopo essermi disteso a rischiarare alcune verità utili, che non si dovevano trascurare, io passo rapidamente a sviluppare colla maggior brevità possibile gli oggetti, che compongono questo rapporto, ed i principi e le regole che ne derivano.

Si è detto che la bontà relativa delle leggi consiste nel loro rapporto collo stato della nazione, alla quale si promulgano. Or varie cose compongono questo stato. La prima fra queste è la natura del governo. Vediamo dunque come la legislazione vi si deve adattare, e quali sono le regole, che la scienza legislativa deve dedurre dallo sviluppo di questo primo oggetto del rapporto delle leggi.


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CAPO X

Primo oggetto di questo rapporto: la natura del governo

Vi sono diverse specie di governi. Io non curo di numerarli né di definirli, poiché l’idea, che ne hanno gli uomini anche meno istruiti, basta per conoscerne la natura.Ognuno sa quanto il governo popolare è diverso dall’aristocratico, e niuno ignora gli spazj infiniti, che separano la repubblica dalla monarchia.

Supposta questa diversità nella loro indole, non vi vuol molto a vedere come le leggi proprie per uno di questi governi non possono convenire ad un altro. Il popolo, per esempio, nella democrazia è in certi momenti monarca, in certi altri è suddito (100).

Egli fa le leggi, egli crea i magistrati, egli elegge i giudici; ma egli quindi deve ubbidire, anche non volendo, a queste leggi, e deve esser condannato o assoluto, anche non volendo, da questi magistrati, da questi giudici. Le leggi dunque, che debbono dirigerlo in questi due aspetti, sarebbero inutili nelle aristocrazie e nelle monarchie, nelle quali il popolo non èche suddito.

Siccome nelle democrazie il potere supremo è tra le mani dalla nazione intera; siccome la sovranità, racchiusa altrove tra le mura d'un palazzo, non si rappresenta in questi governi che nella piazza pubblica; siccome finalmente dove il popolo regna, ogni cittadino è niente da se solo, ma è tutto unito agli altri, non vi vuol molto a vedere, come il primo oggetto delle leggi in questo governo sarà di regolare le assemblee, e di stabilire il numero e la condizione de' cittadini, che debbono formarle; regolamento che, trascurato in Roma, fu, come si sa, la causa feconda di tanti disordini.

Nelle monarchie e nelle aristocrazie la semplice cittadinanza non è che un beneficio, ma nelle democrazie èuna parte della sovranità. Nelle due prime un uomo, che s'investe di questo carattere, nota fa che partecipare a vantaggi che vi sono uniti; ma nell'ultima è un intruso, che si mescola nell'assemblea del popolo, per alzare una mano, per dare una voce, dalla quale può dipendere la rovina della repubblica. Ne' governi popolari dunque la legge deve essere più vigilante ad evitare questo disordine; più avara neIl’accordare la cittadinanza; più austera nel punire cedui, che se ne è fraudolentemente investito (101).

Il determinare il modo, col quale si debbono dare i suffragi, è un altro oggetto principale delle leggi in questi governi. Allorché questi son pubblici, sono sempre più giusti; allorché son pubblici, si discute su quello che si deve deliberare; allorché son pubblici, finalmente, la plebe è regolata dai principali cittadini; è contenuta dalla gravità de' più savj; ha un freno di più per non tradire la verità e la patria.

Cicerone(102)si lagnava con ragione d’un metodo contrario stabilito ne' comizj in Roma. Una gran porzione de' cittadini si abusava del secreto, che li garantiva da' giusti rimproveri, per commettere le più grandi ingiustizie. Per disgrazia dell’umanità ci son pochi uomini, che sappiano arrossire innanzi a' propri occhi delle loro debolezze. Spesso si scrive senza pudore ciò, che non si pronuncerebbe senza il massimo sconcerto. I suffragi secreti sono un indizio del difetto di libertà in una repubblica, perché, dove la verità non si può dire apertamente, è segno che la virtù è timida, e che la forza prevale; è segno che l'intrigo e la cabala ha parte nelle assemblee; è segno finalmente che una mano occulta, ma tirannica, chiude la bocca della libertà, per non far sentire le grida dell’interesse pubblico.

Regolati i suffragi, le leggi debbono dividere il popolo in certe classi, oggetto che ha sempre richiamata la prima cura de' legislatori, che contribuì tanto alla grandezza d’Atene (103), e che ha sempre avuta la maggiore influenza sulla stabilità ed il buon ordine delle democrazie.

Esse debbono determinare come e da chi si debbano proporre le leggi al popolo che deve approvarle; quali sieno i requisiti che deve avere un cittadino per potere parlare all'assemblea del popoIo; quali gli oggetti, sui quali deve cadere il suo di scorso; quali i rimedj per evitare le seduzioni d’un oratore sospetto o corrotto; e quali i mezzi per combinare questa specie di libertà col buon ordine delle assemblee (104). Esse debbono inoltre rimediare alla lentezza inseparabile de' governi popolari, lentezza spesse volte utile, ma che negli affari, che han bisogno divina risoluzione istantanea, potrebbe cagionare la rovina della repubblica, e che per prevenirla furono creati in Sparta i due Re, in Atene gli Arconti, ed in Roma i Dittatori.

Finalmente il popolo, non altrimenti che i monarchi, ha bisogno di esser condotto da un consiglio oda un senato; egli ha bisogno d’un capo che lo guidi nella guerra; egli deve avere i suoi magistrati ed i suoi giudici; egli deve eleggerli. Le leggi debbono dunque fissare la maniera, colla quale egli deve procedere in quest’elezione; esse debbono distinguere le cariche, che si debbono dare per sceltada quelle, che conviene dare per sortegiacché ne' governi popolari conviene lasciare ad ogni cittadino una speranza ragionevole di servire in qualche maniera la sua patria (105). Ma quest’elezione per sorteha i suoi pericoli: essa può esser funesta alla repubblica. Le leggi debbono dunque trovare un mezzo atto a prevenire i disordini, che potrebbero nascere da questa specie d’elezione, come fece SoIone. Egli volle, che l’elezione non potesse cadere che sopra que’ cittadini, che si sarebbero presentati da loro stessi al popolo; ma quello, che sarebbe stato eletto, sarebbe stato esaminato dai giudici, e che ognuno avrebbe potuto accusarlo d’esserne indegno. L’istesso araldo, che avvisava il popolo del nome del candidato, sul quale era caduta la sorte, domandava ad alta voce chi vuole accusarlo(106)Quest’elezione partecipava nel tempo stesso de' vantaggi dellasortee della scelta.

Questi sono i principali oggetti, che costituiscono il rapporto delle leggi colla natura del governo democratico, e queste sono le regole, che ne derivano. Vediamo ora quello che riguarda l’aristocrazia (107).

In questa specie di governo l'autorità sovrana è tra le mani d’un certo numero di persone: il corpo degli ottimati è quello che fa le leggi, e l’istesso corpo è quello che le fa eseguire: il resto del popolo é riguardo ad essi, dice Montesquieu, quello che nelle monarchie sono i sudditi riguardo al loro monarca. Ma questa proporzione non è esalta. Nelle monarchie il Sovrano lascia a' sudditi la facoltà esecutiva, ma nelle aristocrazie il popolo non è né legislatore, né esecutore. Tutte le tre facoltà sono riunite tra le mani de' nobili. Si vede benissimo, che questa distribuzione così parziale deve di continuo inasprire il popolo contro il corpo, che rappresenta la sovranità. Le leggi debbono dunque dargli un compenso: le leggi debbono placarlo. Esse debbono dare ad ogni cittadino la speranza d’entrare nel corpo degli ottimati, o in premio di qualche servizio reso alla patria o per mezzo d'una certa somma determinata, come si fa Oggi in Genova: quest’adito, questa speranza fa tutta fa prosperità di questo popolo (108).

Ci è un altro vantaggio in questa determinazione. Se è vero che l’aristocrazia s’indebolisce, e si corrompe, a misura che il numero de' nobili che la compongono, si scema; se le famiglie aristocratiche debbono esser popolo per quanto è possibile; se la migliore aristocrazia del mondo è quella che si avvicina più alla democrazia, come quella che stabilì Antipatro in Atene (109): se finalmente il tempo distrugge le famiglie, e distruggendole distrugge l’aristocrazia istessa, le leggi che suppliscono a queste perdite e che prevengono questi mali, saranno le più necessarie e le più adattate alla natura di questo governo.

Finalmente, giacché lo spirito dell'aristocrazia non permette di lasciare al popolo niuna parte del governo, le leggi debbono invigilare, affinché queste parti siano almeno bene distribuite nell’istesso corpo degli ottimati. Esse debbono distinguere quello, che si appartiene di fare a tutto il corpo de' nobili, da quello che si appartiene al senato, e da quello che si appartiene a(1)magistrati. Senza questo metodo, senza questa distribuzione, il disordine regnerà da per tutto, e l’aristocrazia sarà il peggior governo di tutti, poiché l'anarchia è più funesta del dispotismo istesso (110).

Fissata questa distribuzione, le leggi debbono conservarla. Esse debbono creare una magistratura

destinata a conservare l'equilibrio nelle divèrse parti del governo. In tutte le repubbliche, così aristocratiche come democratiche, bene ordinate, qoesto rimedio non si è trascurato. Questo era l'officio degli Efori in Sparta, e questa è una delle terribili ineumbenze del consiglio de Pregati in Venezia (111). Ma per evitare che il rimedio non sia peggiore del male, le leggi debbono in tal maniera limitare e combinare l'autorità e i diritti di questa magistratura, che, anche volendo, essa non possa abusarne. Un’autorità esorbitante, data ad un cittadino in una repubblica, è il peggior de' mali: essa fa, dice Montesquieu (112), una. monarchia, e più che una monarchia. In questa le leggi hanno provveduto alla costituzione, o vi sono accomodate. La costituzione, istessa del governo frena il monarca; ma in una repubblica, ove un cittadino si fa dare un potere esorbitante, l’abuso di questo potere è più grande, perché le leggi, che non l’hanno preveduto, non possono neppure frenarlo..

Tra tutti i mezzi per prevenire questo male, il più efficace è di restringere quanto si può la durata di questa magistratura.In tutte le cariche la legge deve compensare l’estensione del potere colla brevità della sua durata.

Le romane Leggi erano ammirabili riguardo a quest'oggetto.Il Dittatore, al quale la sorte della repubblica era affidata, il Dittatore, che non riconosceva alcun capo, alcuna autorità superiore alla sua, il Dittatore nelle mani del quale l’assassinio istesso diveniva legittimo (113), il Dittatore non regnava, che finché il bisogno lo richiedeva presso i Romani (114). Egli non aveane il tempo di concepire grandi speranze, né l’ozio per servirsi del suo potereper renderlo pernicioso alla libertà ed alle leggi (115). Il Censore al contrario, il ministero del quale richiedeva più austerità che talenti, il Censore, che aveva più impero su i costumi, che influenza nella direzione delle forze pubbliche, il Censore, che incuteva più timore a' cittadiui che alla repubblica, conservava per cinque anni la sua autorità (116). Finalmente il Consolato, la Pretura ed il Tribunato erano annuali, perché la loro magistratura era tale, che poteva farsi un partito nella repubblica.

I Cretesi, non contenti di questo preservativo contro l'abuso dell’autorità, ebbero ricorso alle insurrezioni.Subito che questi magistrati supremi cominciavano ad abusarsi de' loro diritti, una porzione de' cittadini si sollevava, li degradava e e li obbligava a ritornare nella condizione privata. Quest’atto era considerato legittimo, e quantunque pernicioso in ogni altro governo, fu utilissimo in Creta, si per la natura della sua costituzione, come pel patriottismo che regnava ne suoi cittadini (117).

Questi sono i prìncipi generali, queste sono le regole che derivano dal rapporto delle leggi colla' natura del governo aristocratico. Io passo finalmente alla monarchia.

Si chiama monarchia quel governo ove regnanti solo, ma con alcune leggi fondamentali. Queste leggi fondamentali suppongono necessariamente alcuni canali, pe’ quali il potere si comunica, ed alcune forze reprimenti, che né conservino la moderazione e lo splendore,

La natura dunque della monarchia richiede, che vi sia tra il monarca e ’l popolo una classe, o un rango intermedio destinato, non ad esercitare alcune delle porzioni del potere, ma a mantenerne piuttosto l’equilibrio, e che vi sia un corpo depositario delle leggi, mediatore fra i sudditi e ’l Principe. I nobili compongono questo rango intermedio, e i magistrati questo corpo depositario delle leggi.

Le leggi debbono dunque fissare i privilegi e i diritti degli uni, e le funzioni degli altri: esse debbono fissare i limiti di ciascheduna autorità nello stato: esse debbono dichiarare quello che infelicemente in quasi tutte le monarchie dell’Europa si ignora; debbono dichiarare, io dico, quali sieno i veri diritti della corona, e quale il ministero dell’individuo che la porta; esse debbono determinare fin dove debba estendersi il potere legislativo,edove debba cominciare e finire l'esecutivo: le suddivisioni di questo, i diversi ordini delle magistrature, le loro dipendenze, l'ordine delle appellazioni, le loro rispettive incumbenze, tutto deve esser determinato e stabilito dalle leggi. Se da quest'ordine, se da questa ripartizione dipende la sicurezza del cittadino nelle monarchie; se ogni acquisto, ogni usurpazione dall’una delle parti che si faccia, è sempre una perdita per lo stato; se subito che, o il monarca vuol far da giudice, o il giudice vuol far da legislatore, non vi è più né libertà, né sicurezza nella nazione; se finalmente il dispotismo, o sia nei magistrati, o sia ne' nobili, o sia nel capo della nazione, è sempre un dispotismo, non vi vuol molto a vedere quanto questi articoli debbano richiamare le cure del legislatore e la precisione delle leggi in questi governi.

Ma, io |o ripeto: in una materia così interessante, in una materia cosi delicata, tutto è incerto tequivoco, indefinito nella moderna legislazione. Il talento più esercitato può appena distinguere il sofisma dal vero, l’usurpazione dal diritto, la violenza dall’equità. Noi vediamo nelle controversie, che ogni giorno si agitano su questi oggetti, gli uomini stessi più istruiti nel pubblico diritto essere strascinati da' volgari pregiudizi; ricorrere all’istoria per cercare nelle decisioni e ne' costumi antichi delle nazioni gli esempi, o i fatti proprj per regolare i loro giudizi; confondere, finalmente la forza, l'uso, il possesso, l’usurpazione istessa col diritto. Ma né l’istoria, né l’uso, né gli esempj, né le concessioni, né le cartepossono dare a' Re, a' magistrati, a nobili, un diritto che è contrario alla libertà del popolo, alla sicurezza del cittadino, all’interesse della nazione, la felicità della quale deve sempre essere la suprema legge. Questa parte della legislazione, non meno che le altre, deve da questo solo principio esser regolata, deve a questo solo oggetto esser diretta. Or la libertà del popolo, la sicurezza del cittadino, la prosperità dello stato richieggono, che nelle monarchie il monarca garantisca la nazione dagli esteri inimici col disporre della guerra, della pace, e di tutto ciò che dipende dal diritto delle genti, e stabilisca e conservi il buon ordine, e la tranquillità nell’interno con leggi generali, precise, semplici e chiare, che lasci a' magistrati l’adattare queste leggi a' casi particolari; che questi magistrati non arbitrino sulle leggi; che non le interpetrino a capriccio; che non si allontanino col pretesto dell'equità da loro espressi dettami; che il cittadino non vegga nel legislatore il suo giudice, né nel suo giudice il suo legislatore; che vi sieno alcuni rimedj stabiliti dalla legge atti ad assicurarlo della giustizia de' suoi decreti; che egli sia persuaso, che la legge è quella che lo assolve o lo condanna, e non il favore o l’odio del giudice. Finalmente il decoro è l’ordine della monarchia richiede, che vi sia un corpo di nobili, il quale rifletta sulla nazione lo splendore che egli riceve dal trono, e che, situato tra il monarca ed il popolo, indebolisca gli urti che questi due corpi si potrebbero dare, se non fossero ritardati da un mezzo che li separa. A tutti questi oggetti deve dunque il legislatore dirigere le sue mire, per adattare le sue leggi ella natura del governo monarchico, e per correggere i vizj e prevenire i mali a' quali è esposta questa specie di costituzione.

Io non entro nel dettaglio de' mezzi, che la legislazione deve impiegare per riuscirvi, giacché, come si è potuto osservare nel piane che ho promesso, io ne debbo parlare in varj luoghi di quest'opera, ne' quali la distribuzione delle mie idee mi trasporta. Quello, che ne ho detto qui, basta per dare un' idea generale degli oggetti, che costituiscono il rapporto delle leggi colla natura del governo monarchico, e del gran principio, col quale debbono essere ideate e dirette.

Ma oltre queste tre specie di governi, dei quali si è parlato, ve n’è un’altra, la quale non è assolutamente né monarchia, né aristocrazia, né democrazia, ma è un misto di tutte queste tre diverse costituzioni, che, quando non è ben riparata dalle leggi, partecipa più de' vizj inerenti a ciascheduna di esse, che de' vantaggi che vi sono uniti, ch'è stata più lodata da' politici del secolo che analizzata; che Montesquieu istesso non ha conosciuta a fondo, e che è esposta ad un pericolo che non sovrasta alle altre, cioè di cadere nel dispotismo, senza che la costituzione ne venga alterata, di soggiacere ad una tirannia reale, senza perdere una libertà apparente.

Questo è il governo d'una nazione, che da un secolo a questa parte richiama a se tutti gli sguardi dell’Europa, e che oggi è stata nel procinto di richiamarne le lagrime: questo è il governo della Gran Brettagna, dove il Principe non può niente senza la nazione, ma può tradirla sempre che vuole; dove il voto del pubblico è quasi sempre contrario alla pluralità de' suffragi coloro che lo rappresentano; dove si prendono per sintomi di libertà quelli, che infelicemente non son altro, che compensi dell'oppressione; e dove per disgrazia dei suoi abitatori vi è più licenza, che libertà. Esaminiamo dunque i principi, e le regole, che derivano dal rapporto delle leggi colla natura di questa specie di governo, che comunemente si chiama misto; e vediamo come la legislazione potrebbe correggerne i difetti e scansarne i pericoli.

Io mi distenderò forse più di quel che dovrei in questa ricerca. Che mi si perdoni questo difetto in favore della novità delle idee, che non posso fare a meno di bene sviluppare (118).


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CAPO XI

Proseguimento dell’istesso oggetto su d’una specie di governo, che chiamasi misto

La moltiplicità e la diversità delle costituzioni, che sono state o con ragione, o abusivamente chiamate con questo nome, non mi permette di generalizzare le mie idee su quest’oggetto.

Questa ricerca richiederebbe un’opera a parte, ed un’opera diffusa e voluminosa. Siccome l’esame del rapporto delle leggi colla natura d’un governo non è altro, che l’esame de' principi e delle regole, che fan conoscere al legislatore i difetti della sua costituzione, e i rimedj proprj per correggerli; io non potrei, senza immergermi in un dettaglio minutissimo, conseguire questo fine, se mi proponessi di parlare in questo capo di tutte le forme possibili di governo, che possono annoverarsi tra la classe di quelli, che generalmente chiamansi misti.Non potendo dunque parlare di tutte in generale, ho creduto dover dirigere le mie mire ad unaspecie di governo, nel quale, più che in tutti gli altri, si manifesta la combinazione di tutte le tre costituzioni moderate, al quale debbono presso a poco andare a riferirsi tutti gli altri, che son compresi sotto il nome di governi misti, è nel quale finalmente trovandosi una perfetta analogia col governo più conosciuto dell’Europa, io posso combinare la ragione coll'esperienza, ed unire la forza de' raziocini all’evidenza de' fatti.

Il governo Brittannico sia dunque il modello di questo governo, sul quale io mi determino di ragionare in questo capo. Si Cominci dal definirlo.

Io chiamo qui governò mistoquello, nel quale il potere sovrano, o sia la faesiti legislativa è tra le mani della nazione, rappresentata da un congresso diviso in tre corpi, in nobiltà o sieno patrizj, in rappresentanti del popolo (119)) e nel Re, i quali d accordo tra loro debbono esercitarla; ed il potere esecutivo, cosi delle cose che spendono dal diritto civile, come di quelle che dipendono dal diritto delle genti, è tra le mani del sola Re, il quale nell’esercizio delle sue facoltà è indipendente (120).

Or considerato sotto qui sto aspetto un governo misto, tre sono i vizj inerenti alla sua costituzione; l'indipendenza di colui, chi deve far eseguire dal corpo che deve comandare la segreta e pericolosa influenza del principe ne congressi de corpi, che rappresentano la sovranità; l'incostanza della costituzione. La legislazione non deve mutare l’essenza della costituzione, deve solo correggerne i difetti. Tutt’i principi dunque dipendenti dal rapporto delle leggi colla natica di questo governo debbono esser diretti alla scelta de' mezzi proprj, per. prevenire le funeste conseguenze di questi tre vizj. Ma, prima di venire alla ricerca de' rimedj, assicuriamoci dell’esistenza degnali.

In tutte le tre diverse forme de' governi, delle quali si è parlato nell’antecedente capo, le diverse porzioni del poteresono distribuite secondo la natura, sono ripartite nelle) diverse mani destinate a porle in azione; ma queste mani non sono indipendenti l’une dall'altre; e h loro mosse non possono essere, che uniformi pila loro direzione comune. Una è la sorgente dalli quale scaturiscono. Una è la ruota principale chi comunica il moto a tutte le altre in questi governi. Se il Sovrano, che fa la legge, non è l’istrumento che la fa eseguire; se egli deve riporre tra le ulani de' magistrati la facoltà giudiziaria; egli ha però presso di sé la forza pubblica, e per conseguenza l’istrumento proprio per far rispettare i suoi ordini, e per obbligare i magistrati a non adontarsi ai loro dettami.

Ma in questo governo misto il magistrato, unico incaricato dell'esecuzione della legge, è quello che ha tra le mani tutte le forze della nazione. Il Sovrano, o sia il congresso che rappresenta la sovranità, può emanare leggi come vuole, ma colui, che dove farle eseguire, non solo è indipendente, ma è anche più forte del Sovrano che l’emana. Come spaventare la sua negligenza? come punire le sue infrazioni?

Nelle democrazie 'l popolo, nelle aristocrazie il corpo degli ottimati, nelle monarchie il monarca può disfarsi, sempre che vuole, d’un magistrato che si abusa del suo potere, che disprezza le leggi, o che arbitrariamente dispone della vita e delle sostanze de' cittadini. Ma in questo governo, ove il magistrato è il Re, e il sovrano è l’assemblea, nella quale il Re istesso è considerato come uno de' tre corpi, che d’accordo tra loro debbono esercitare la sovranità, in questo governo, io dico, presso di chi può risedere il diritto e la forza di punirlo?

In Inghilterra il parlamento può egli detronizzare il suo Re? Ha egli il diritto e la forza di farlo? Non dovrebbe il Re istesso sottoscrivere il decreto della Sua condanna per legittimarlo $ Non dovrebbe egli stesso dirigerne l'esecuzione? Non è forse una massima fondamentale di questo governo che il Re è infallibile, che niuna giurisdizione sulla terra può avere il diritto di giudicarlo o di punirlo? Che se il parlamento istesso avesse questo diritto, la costituzione nazionale verrebbe ad esser distratta, per ache la facoltà legislativa verrebbe ad usurpare i diritti dell'esecutiva, la quale par la natura di queto governo è indipendente.

Non è forse una legge fondamentale presso questa nazione, quella che dichiara, che la persona del Reè sacra, ancorché egli si faccia lecito di commettere delle azioni tiranniche ed arbitrarie? (121)

Gli scrittori del diritto pubblico di questa nazione non hanno forse dovuto confessare, che la legge non ha previsto il caso d’un Re, che voglia distruggere la libertà politica del popolo Inglese, e che in questo caso non vi sarebbe altro rimedio, se non quello delle insurrezioni de' Cretesi? (122)

Per legittimare l’atto che tolse a Giacomo II la corona Anglicana, non si dovette forse supporre, che questo principe avesse rinunciato al trono, fuggendo fuori dello stato, e che egli avesse volontariamente deposta una corona, che niuna potenza poteva togliergli legittimamente dal capo, malgrado gli attentati, che egli aveva commessi contro la costituzione, e la guerra aperta che egli avea dichiarata alla libertà della nazione? (123)

L’indipendenza dunque della facoltà esecutiva dalla legislativa, questo vizio particolare della costituzione di questo governo, questo vizio fondato aopra una prerogativa che non si potrebbe distruggere senza distruggere la costituzione, è il primo male che la legislazione deve riparare. Il secondo, come si è detto, è la segreta influenza del Principe ne' congressi che rappresentano la sovranità.

Ne’ governi misti di questa natura il Re ha una doppia influenza in questi congressi. Considerato come uno de' tre corpi, che li compongono, è troppo giusto che egli abbia la facoltà negativa, cioè il diritto di opporsi alle determinazioni degli altri due corpi, sì perché la costituzione del governo esige, che questi tre corpi d’accordo tra loro esercitino il potere legislativo, sì perché, se questo diritto non si appartenesse al Re, il potere esecutivo potrebbe esser distrutto dal potere legislativo, il quale non troverebbe alcuna resistenza nell'usurpazione dei suoi diritti.

Questa influenza è legittima e necessaria; ma il Re considerato ne' governi misti come il distributore unico di tutte le cariche, così civili come militari, e come l'unico amministratore delle rendite nazionali, ba in mano la moneta per comprare, sempre che vuole, la pluralità de' suffragi e per fare del congresso, che rappresenta la nazione, l’organo de' suoi voleri. Or questa è quell'influenza segreta e pericolosa, che può distruggere la libertà dei popolo, senza che la costituzione ne venga alterata, che può opprimere la nazione, senza far tremare la mano che l'opprime. In tutti gli altri governi, il timore è il compagno inseparabile dell’oppressore. Se un monarca in una monarchia assoluta vuol stringere le catene de' suoi popoli, se vuol rompere que patti co’ quali è salito sul trono, se vuol opprimere i sudditi con un dazio insopportabile ha sempre innanzi agli occhi il furore del popolo che lo spaventa, vede vacillare il suo trono sotto i suoi piedi, e vede il pericolo al quale espone la sua esistenza istessa. Ma ne' governi misti, il Re che può 'servirsi del braccio del congresso per opprimere la nazione, può farlo senza tanti timori. Sa che il congresso sarà sempre responsabile alla nazione, sa che i furori dei popolo non verranno mai a piombare sulla sua persona. Egli ha dunque un istrumento di più, e tanti ostacoli di meno per divenire un oppressore. Egli lo diverrà facilmente, se alla volontà ai esserlo unisce i talenti per riuscirvi. Basta che non distrugga di propria mano l’apparenza della costituzione; basta che rispetti i diritti del congresso; basta che si contenti di disporne, egli farà sempre quel che vuole senza pericolo (124). Se Giacomo II avesse avuto ricorso al parlamento per ristabilire il cattolicismo; se per richiamarlo egli si fosse servito di quell’istrumenti stessi, de' quali si servì un dei suoi antecessori per proscriverlo: se in vece di seguire l'esempio di Giacomo I. suo avo, e di Carlo I. suo padre, egli avesse imitato la politica d’Arrigo VIII, e di Elisabetta; se avesse saputo, confessi, fare del parlamento l’esecutore cieco non solo de' voleri, ma de' capricci stessi della corona; se egli non avesse commesso un attentato aperto contro la costituzione, emanando nuove leggi e distruggendo le antiche senza l’autorità del parlamento, la corona d’Inghilterra non sarebbe andata a posarsi sul capo del principe d’Oranges, e la nazione non si sarebbe scagliata contro il suo Re. Il partito della Chiesa Anglicana avrebbe alpid bruciate le case di qualche parlamentario, e tutto sarebbe finito. Il solo regno d'Arrigo VIII, non è forse una prova incontrastabile di questa verità?

Che non fece egli sotto gli auspicj del parlamento? Quali attentati non commise contro la libertà del popolo, contro la sicurezza pubblica, contro il decoro de' costumi e contro la santità della Religione? Non fu forse col braccio del parlamento, che egli inalzò i patiboli, ove le madri degli eredi del trono andavano ad espiare la disgrazia d'ave re acconsentito all’amore del più abominevole de gli uomini? Non fu forse colle mani delle due ca mere, che egli accese i roghi dove i migliori cittadini dello stato andavano a terminare i loro giorni? Non fu forse il parlamento quello che stabilì, che la semplice volontà del Re avrebbe vigor di legge (125)? Tutte le bestemmie della tirannia non furono forse adottate dal parlamento come tanti principi di giurisprudenza sotto il suo regno? La somma de delitti di fellonia non divenne forse più numerosa, e più bizzarra nel codice Anglicano, che nella giurisprudenza de' Nerum e de' Tiberi? La mania comune de' tiranni di dominava sugli spiriti, come su i corpi, questa mania che è costata tanto cara al genere umano, non fu forse legittimata da questa augusta assemblea? Qual differenza passa tra l'istoria di questo principe, e quella de' mostri più spaventevoli che hanno imbrattato di sangue i troni su i quali se devano, Se non che gli ultimi han fotte con mano tremante quello, che Arrigo fece colla maggior sicurezza sotto l’ombra del parlamento?

Nel difetto di qualunque altra ragione questo tratto solo dell’istoria della Gran Brettagna ci dovrebbe bastare a persuaderci, che ne' governi mi «ti di questa natura, il Re potrà sempre fere quel che vuole, potrà anche opprimere lunazione senza alterare la costituzioni, e senza esporre ad alcun rischio la sua persona: basta che abbia l’arte di corrompere l’assemblea che rappresenta la sovranità. Egli ne ha i mezzi. Come dunque impedir gliene l’uso senza distruggere la costituzione? Ecco il secondo oggetto della legislazione considerato nel suo rapporto colla natura di questo governo.

L'ultimo vizio finalmente inerente alla costituzione di questo governo è quella continua fluttuazione di potere tra' diversi corpi che si dividono l’autorità, fluttuazione difficile a prevenirsi, fluttuazione che in ultimo risultato produce l'iuconstanza della costituzione. Non ci vuol molto ad assicurarsene.

In tutti i governi del mondo l'autorità di creare, abolire, mutare le leggi fondamentali della nazione è un diritto privativo della nazione stessa. Questo potere dunque non è unito alla sovranità che in que’ soli governi, ne' quali la sovranità é tra le mani della nazione intera. Or ne' soli governi popolari e ne' soli governi misti, il sovrano è la nazione istessa: in questi due governi soltanto il sovrano può dunque mutare o alterare, sempre che vuole, a costituzione.

Ne’ governi popolari l’esercizio di questa autorità dev’esser molto raro, perché non vi è un’opposizione di forze, di mire, d’interessi tra i diversi corpi, tra i quali sono distribuite le diverse parti del potere. Ma ne' governi misti, ove i diversi corpi, tra quali è divisa l’autorità, sono in una perpetua gara di estendere quella porzione che è stata loro affidata, e dove il corpo che rappresenta la sovranità, e che può disporre della costituzione, ha sempre un interesse nell'alterarla, o per estendere la porzione del potere che ha come sovrano, o per diminuirla in favore di colui che può ben ricompensare i suoi membri d'un sagrificio, che costa ad essi molto poco, ne' governi misti, io dico, di questa natura, la costituzione non può esser mai stabile: essa deve soffrire continue alterazioni,giacché ogni alterazione giova o al corpo che te fa, o a' suoi membri.

L’Inghilterra, che mi ha somministrate tutte le prove di fatto delle mie proposizioni in questo capo, me ne offrirebbe anche in abbondanza per quest'ultima verità, se io non temessi di dilungarmi più di quel che conviene. Mi contento soltanto di dire, che l'istoria di questa nazione è, per cosi dire, l’istoria delle vicende della sua costituzione; che il carattere del Re ha sempre dato il tuono alla sua costituzione, che sotto un Principe debole per la povertà de' suoi talenti, o inceppato dalle circostanze le più infelici, le due camere hanno sempre usurpato sulla prerogativa regia, ma che sotto un Principe avveduto ed ardito, han sempre venduta una gran porzione della loro; che chi avesse osservato questo governo sotto gli antecessori di Carlo I. non l’avrebbe riconosciuto sotto i successori di Giacomo II; che il vigore presente dei parlamento non è l’effetto d’una causa soda e permanente, ma d’alcune circostanze passeggiere, che lo rendono precario; che finalmente basterebbe, che l’erede di Giorgio III. d’Annover lo fosse soltanto de' suoi talenti e della sua corona, ma non delle sue virtù e della sua moderazione; che un regno turbato dalle guerre, e dalla discordia d’una porzione de' suoi stessi cittadini, fosse seguito da un regno di pace; che l’obbligo di trattare dolcemente i sudditi della corona, per indurgli a pagare fino l'aere che respirano, per somministrare di che sostenere una guerra vergognosa co’ loro stessi fratelli, venisse a svanire; basterebbe, io dico, che queste circostanze accompagnassero sul trono della gran Brettagna l'erede di Giorgio III. per vedere come le pretese catene della real dignità diverrebbero un’altra volta flessibili; come il parlamento perderebbe il suo vigore; e come il trono si renderebbe un’altra volta onnipotente. Ricordiamoci di ciò che avvenne sotto Cromvvell, e dell'ascendente subitaneo, che riprese sulla nazione l'ombra medesima della corona fissatasi sulla testa d’un usurpatore assoluto (126)).

L’incostanza dunque della costituzione è il terzo vizio inerente alla costituzione di questa specie digoverno, che la legislazione deve riparare. Persuasi della loro esistenza, cerchiamo ora i mezzi, che dorrebbe impiegarvi.

Si è detto, che il primo di questi vizj è l’indipendenza di colui, che deve fare eseguire, dal corpo che deve Comandare; si è detto, che questa indipendenza. è dell'essenza della costituzione. La legislazione non può dunque distruggerla. Ma potrebbe essa modificarla senza distruggerla? Sì: in una sola maniera, distinguendo la facoltà esecutiva,dallagiudiziaria.Io mi spiego,

In un governo misto bene organizzato è dell’essenza della costituzione, che il Re abbia tutto il potere esecutivo delle leggi, ma non è dell’essenza della costituzione che egli eserciti personalmente questo potere in tutta la sua estensione. O che lo eserciti da sé, o che lo faccia esercitare da altri insuo nome e colla sua autorità, la natura della costituzione sarà sempre l'istessa. Tutto quello, che io fu fare ad un nomo in mio nome e colla mia autorità, si suppone come fatto da me.

Supposto questo, non sarà dunque contrario alla natura di questo governo, che il Re abbia de' tribunali fissi ed immutabili, i quali, senz’avere alcun potere appartenente ad essi, ma esercitandone uno che non è altro, che un'emanazione della sua autorità, esercitino, io dico, in nome del Re e colla sua autorità, il potere giudiziario. Or se l’esistenza di questi tribunali non è distruttiva della natura di questo governo, non lo sarà neppure il dovere imposto al Principe di non poter far uso del potere giudiziario, che coll’organo di questi tribunali stessi. Il Re, quantunque costretto a servirsi de' suoi tribunali nell’esercizio del potere giudiziario, non perderà niente della sua prerogativa, finché questi tribunali saranno considerati come gli organi dei suoi voleri. Separata in questa maniera la facoltà giudiziaria dall’esecutiva, separata, io dico, nel fatto, ma non del diritto, il Re, malgrado l’invulnerabilità e l’indipendenza, che gli accorda la costituzione del governo, non potrà con questo eludere la legge, non potrà arbitrariamente giudicare della vita, dell’onore, e delle sostanze de' suoi cittadini. Se egli è indipendente, se non vi è persona che possa chiamarlo in giudizio, né potenza legittima che possa giudicarlo, non è così de' suoi tribunali e dei membri, che li compongono. Le determinazioni d'un tribunale possono esser esaminate e contradette da un tribunale superiore. Un cittadino oppresso da un magistrato può accusarlo ad un giudice competente, ed il magistrato può esser punito. Ninna di queste procedure sarebbe contraria alla costutuzione del governo. L’indipendenza del Re non verrebbe ad esser distrutta, verrebbe soltanto ad esser modificata in favore della sicurezza pubblica.

La legislazione Anglicana La conosciuta la necessità di questo rimedio, e l’ha adottato. Ne’ tempi, ne' quali la sua costituzione era molto più difettosa di quel che oggi è, il Re soleva spesso decidere da se solo le controversie de' cittadini e giudicare i loro processi. L’uso solo di questo diritto fece subito conoscere le funeste conseguenze, che ne potevano derivare. Fu dunque stabilito che il potere giudiziario fosse sempre esercitato in nome del Re da' suoi tribunali, e che questi fossero i depositari immediati delle leggi (127).

Ne’ tempi posteriori si tolse anche al Re il diritto di deporre i membri di questi tribunali a suo capriccio. La legge, che aveva cercato di mettere tra le mani de' magistrati l’esercizio del potere giudiziario per potere spaventar l’ingiustizia e l’oppressione nell'esecutore delle leggi, volle quindi assicurare anche la loro esattezza. Lo Statuto13. cap.2. dì Guglielmo III dice, che l’incumbenza de' magistrati durerà finché adempiranno con esattezza al loro ministero: quamdia bene se gesserint,non finché piacerà al Re, durante beneplacito(128).

Ecco come là legislazione potrebbe riparare ab primo vizio inseparabile dalla costituzione di questi governi. La legislazione Anglicana è ammirabile riguardo a questo oggetto; ma lo è essa egualmente riguardo agli altri due vizj de' quali si è parlato? Qual rimedio ba essa opposto all’influenza segreta del Principe ne' parlamenti? Essa ba preso, è vero, alcune misure per fare che l’elezione de' membri, che compongono la camera dei comuni, non venga a cadere sulle persone che sono più apertamente consacrate al Principe. Essa ha dichiarato, è vero, incapaci d’essere scelti per sedere in quest’assemblea de' comuni coloro, che sono impegnati in una porzione di quelle cariche, la provvista delle quali dipende dal solo arbitrio del Principe. Tutti i pensionisti del Re ne sono, è vero, esclusi(129); ma questo solo a che giova? Una volta, che vi sono entrati, non sono forse nel caso di sperare, e di ottenere quello che non avevano prima d’entrarvi? La speranza e l'ambizione non sono sempre più attive della gratitudine è delle riconoscenza?

Ma supponiamo ciò che non è, supponiamo che questo ritrovato potesse essere di qualche vantaggio per assicurare l’imparzialità de' membri dellacamera de' comuni, qual rimedio la legislazione Anglicana ha opposto all’influenza del Principe nella camera de Pari, la quale per la perpetuità de' suoi membri, e per la loro condizione, ha sempre parte maggiore nelle deliberazioni? In vece di diminuire questa pericolosa influenza, non l'ha essa fomentata? Non ha forse essa dato al Principe il diritto di creare quanti Lordi egli vuole(130), e un Lord creato non è sempre un voto di più pel Re? I Vescovi, o sieno i Lordi spirituali, non sono forse tutte creature del Principe (131)? Non sono questi, altri ventisei voti consecrati a lui? Non vi è Principe nell'Europa che abbia tante cariche da dare, tanti benefizj da compartire, quanto il Re in Inghilterra. La legislazione, in vece di ristringere la sua munificenza, l’ha resa inesauribile.Un Inglese può tutto sperare dal suo Re, ma non può sperare cosa alcuna dal Parlamento.

Lasciamo dunque la legislazione Anglicana, la quale non ci offre alcun rimedio opportuno contro questo vizio della sua costituzione. Contentiamoci di proporne uno che, per la sua semplicità e per la facilità d’impiegarlo, mi pare il migliore. Non si può in un governo di questa natura negare al Re la provvista di tutte le cariche, così militari come civili. Questo è un diritto che gli deriva dalla costituzione, la quale gli affida tutto il potere esecutivo così delle cose che dipendono dal diritto civile, come di quelle che dipendono dal diritto delle genti.

Noi sappiamo quanto poco si profittò in Polonia ed in Isvezia della diminuzione della prerogativa regia riguardo a quest'oggetto. Non pensiamo dunque ad abolire, o a diminuire un diritto che la costituzione istessa del governo rende inseparabile dalla corona. La legislazione, io lo ripeto, non deve, né può distruggere la costituzione: deve solo riparare a’ suoi difetti, a' suoi vizj. Lasciamo dunque al Re la libertà di disporre di tutte là cariche dipendenti dalla doppia facoltà esecutiva a lui affidata. Cerchiamo soltanto di bilanciare l’influenza, die potrebbe dargli questo diritto, col darne degli altri all’assemblea che rappresenta la sovranità. Che questa abbia quella specie di munificenza, che l’è propria. Come sovrana essa sola può disporre dei membri della sovranità. Qual cosa più strana del diritto dato al Re in Inghilterra di creare così i Lordi spirituali come i temporali? Non sono questi tanti membri della sovranità! Ed H Re non essendo sovrano per la natura di questo governo; può egli comunicare agli altri quel che non ha?

Non è questo un sacrificio assurdo e pernicioso fatto dalla facoltà legislativa in favore dell’esecutiva? Non è questo un mezzo da privare il popolo de' suoi tribuni, per farne tanti realisti perversi. Non si debbono forse considerare come perduti per sempre i principi d’una libera costituzione, allorché la porzione la più rispettabile della facoltà legislativa vien creata dalla potenza esecutrice' Se dunque non solo non è contrario, ma è della natura di questa costituzione, che l’assemblea, che rappresenta la sovranità, abbia il diritto d’ornarla di qualche individuo degno di esserne a parte, che questa alfe bia dunque, prima d’ogn’altro, l'autorità privativa di concedere il premio delle grandi azioni, e de' servizj resi alla patria a coloro che ne crederà degni, il diritto di sedere nella camera degli ottimati, o di divenire un membro perpetuo di quella del popolo: che i diplomi di nobiltà non sieno l’emanazione del Principe, ma sieno i documenti di gratitudine che quest’augusta assemblea mostra ad un cittadino, che si è distinto o per le sue virtù o pe’ suoi utili talenti, o pel suo zelo mostrato ne' congressi, urtando con libertà contro le pretensioni ingiuste della corona: che si appartenga esclusivamente al congresso la destinazione di tutti gli onori, o sia de' premj fondati sull’opinione, qualche volta più lusinghieri e più desiderati in una nazione libera, che nonio sono tutte quelle cariche mercenarie che il Principe può dare, e che come tali portano per lo più impresso su di esse il suggello della servitù; che tra gli altri diritti dell’assemblea vi sia anche quello di esiliarne que’ membri che le sono divenuti sospetti; che quest’espulsione renda per sempre colui che l’ha meritata, indegno di servir la patria, e che l’escluda anche da quelle cariche che potrebbe ottenere dal Principe; che il numero di queste sia ristretto, quanto si può, dalle leggi; che nell’esercizio di questa autorità parlamentaria, che riguarda il premiare o il punire i suoi membri, basti il concorso de' due corpi delle due camere, anche afronte della negativa del Re per legittimarne gli atti (132)); che la legislazione finalmente non si contenti solo di prevenire la corruttibilità ne' membri di questa augusta assemblea, ma che cerchi anche di prevenirla nei loro elettori; che col soccorso dell’educazione, dei premj, degli onori, perfezioni i costumi, risvegli l’amor della gloria sempre unito all’entusiasmo patriotico ne' suoi cittadini. Quando questi non faranno un traffico infame de' loro suffragi, quando essi non cominceranno dal vendere la loro libertà a' loro rappresentanti, quando il solo merito avrà parte nella scelta, quando la legge per assicurarsi dell'imparzialità dell'elezione escluderà dal corpo degli elettori l’indigenza sempre sospetta di venalità(133); allora la virtù sostenuta ne' congressi dalla speranza, dal timore, e da' costumi, richiamerà con costanza la pluralità de' suffragi in favore dell'interesse pubblico; allora la nazione sarà veramente libera, e si persuaderà di esserlo; ed allora finalmente si conoscerà la possibilità di sostituire un’assemblea, di cittadini ad un congresso di cortigiani.

Messo, con questi ed altri simili mezzi, un ostacolo all’influenza, che il Principe potrebbe avere in questi governi sulle deliberazioni dell'assemblea, che rappresenta la Sovranità e la nazione, la legislazione deve rivolgere, i suoi sguardi all'ultimo vizio di questo governo, all’incostanza della costituzione.

Si è detto che il diritto di alterarla, o di mutare le leggi fondamentali, che la determinano, non si può togliere al congresso senza distruggere la natura istessa della costituzione. Bisogna dunque pensare a rendergliene difficile l’uso. Questo si può ottenere determinandosi che, allorché si tratta di alterare, o di abolire, o di creare una legge fondamentale, non basti la pluralità de' suffragi per. ammettere la novità, che si propone d’introdurre nella costituzione, ma che si debba richiedere la pienezza de voti, per renderla valida e legittima. Questo rimedio non toglierebbe all'assemblea quel diritto, che non può mai perdere, ma garantirebbe nel tempo istesso la costituzione dalle continue vicende, che la rendono pericolosa ed incostante. II combinare tutte le volontà de' membri, che la conti pongono, è un’intrapresa così difficile, che non può riuscire che in un solo caso; allorché i vantaggi che potrebbero risultare dalla novità che si propone, fossero troppo universali per non essere da tutti desiderati, troppo evidenti per noti essere da tutti conosciuti; ed in questo casto la costituzione non verrebbe ad esser alterata, ma perfezionata. Ecco il solo caso, nel quale il liberum veto potrebbe divenir utile in una Repubblica (134).

Questi sono i rimedj, che una savia legislazione potrebbe opporre a' vizj inerenti a questa specie di costituzione, e questi sono i principi, che derivano dal rapporto delle leggi colla natura di questo governo(135). Io credo d averli bastantemente sviluppati: ma porrò io termine a questa ricerca col rimorso d'aver mostrato poco rispetto verso una nazione che ha, più di tutte le altre, il diritto d’esigerlo?

Né, filosofi dell’Europa, venerandi Inglesi! Non prendete a male la libertà colla quale un uomo, che vi venera e vi ammira, ardisce di parlare del vostro governo. Io non cerco che la vostra salute, scoprendo le vostre piaghe.

Vergognatevi d’aver illuminata, istruita, sorpresa l’Europa colle vostre invenzioni, coi capi d'opera delle vostre produzioni, colle vostre scoperte, e d'aver nel tempo istesso così vergognosamente trascurata la vostra legislazione.Composta di ciò che la barbarie de' vostri padri aveva di più assurdo, di ciò che l'antico sistema feudale aveva di più strano e di contrario alla libertà, della quale vi credete in possesso, di tanti usi e di tante consuetudini, l’origine istessa delle quali vi è ignota, di tante leggi nuove che contrastano colle antiche, di tante decisioni de' tribunali che han vigore di legge, di tanti stabilimenti utili uniti a tante leggi perniciose, di tanti mali e di tanti rimedj, di tanti garanti dell’indipendenza, e di tanti sussidj del dispotismo, essa offre agli occhi d'un filosofo un centone informe, che non può né rimediare a' difetti della vostra costituzione, né assicurare per sempre la vostra libertà. Che i vostri talenti si determinino dunque una volta a questo sublime lavoro. Create una nuova legislazione, nella quale i vizj della vostra costituzione siano riparati; tutti i diritti, cosi della corona come del parlamento fissati, tutti gli usi antichi, incompatibili collo stato presente delle cose, aboliti; che abbia quell'unità, che non può avere una legislazione fatta in tanti secoli, in tante diverse circostanze, in tanti periodi diversi della vostra sempre alterata, sempre riformata, ma mai perfezionata costituzione, che richiami nella vostra patria quella virtù, senza della quale non ci può essere libertà, que’ costumi, senza de' quali non ci può esser patriottismo, quell’educazione, senza della quale non ci possono esser costumi; che premiando io zelo, punendo la frode e il cortegianismo,rendendo finalmente incorruttibili per interesse, e per virtù i membri del parlamento, sostituisca una libertà soda e durevole ad una licenza pericolosa e precaria, che suol essere la vigilia dell’anarchia o del dispotismo. Cercate in una parola, ciò che non è impossibile ad ottenersi, ciò che il vostro entusiasmo pel bene pubblico, unito alla profondità de' vostri talenti, vi renderà anche facile; cercate, io dico, di conciliare in un codice la libertà, la pace, e la ragione: allora sì, che non ci sarà che aggiugnere a fasti della vostra gloria (136).


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CAPO XII

Secondo oggetto del rapporto delle leggi:

il principio che fa agire il cittadino ne’ diversi governi

Prima di ricercare i caratteri di questo rapporto, e le regole che ne derivano, convien fissare quale sia questo principio. In ogni forma di governo, dice Montesquieu, ci è un diverso principio d’azione: il timore negli stati dispotici, l'onore nelle monarchie, la virtù nelle repubbliche, sono questi diversi principi motori.

Ma sopra quali prove, dice un celebre pensatore, (137)Montesquieupoggia egli questo sistema? Sarà forse vero che il timore, l'onore, e la virtù sienorealmente le forze motrici de' diversi governi? Non si potrebbe al contrario dimostrare che una causa unica, ma varia nelle sue applicazioni, è nel tempo stesso il principio comune d'attività in tutti i governi, e che questa causa è l'amor del potere?Se è vero, che l’amor del piacere, e l'avversione ai dolore, sono le due molle che fanno agire l'uomo, non vi vuol molto a vedere come l'amor del potere aia il vero principio d'azione in tutti i governi; giacché quest’amor del potere prende la sua origine nell'amore istesso del piacere. Ognuno desidera d'essere il più felice che sia possibile: ognuno dunque desidera d’aver tra le mani un potere, che obblighi gli altri uomini acontribuire con tutte le loro forze alla sua felicità, e questa è la ragione per la quale si desidera di comandarli. Questa è dunque una passione che nasce coll’uomo, che è inseparabile dalla sua natura, e che, essendosi resa più attiva collo sviluppo de' sociali rapporti, è divenuta il vero e comune principio d'azione degli uomini in tutt'i corpi civili, qualunque sia la loro particolare costituzione. Io potrei dimostrare fino all’evidenza questa verità.

Ma questa dimostrazione sarebbe inutile. Io non scrivo per i solitari, né per gli oscuri misantropi. Io scrivo per coloro che vivono in mezzo alle città, e che possono in ogn’istante vedere in loro stessi la vera causa che li spinge ad agire. Ognuno che legge può giudicarne da sé solo, senz’avere bisogno d'altra prova. Che esamini il suo cuore, che analizzi le sue voglie, ed allora, se avrà il coraggio, che dica, che questo sistema è erroneo. Ma come mai possibile, mi si opporrà, che l’istesso principio possa, agire egualmente in tutte le specie de' governi, la natura de' quali è così diversa? Per distruggere questa obbiezione, basta por mente aquello che son per dire. In ogni nazione il potere supremo è o tra le mani d un solo, o d’una certa porzione de' cittadini, o distribuito nel corpo intero della nazione. Relativamente a queste diverse distribuzioni dell’autorità si vede benissimo, che tutti i cittadini ne' diversi governi possono contrarre alcuni abiti e costumi diversi, e nulladimeno proporsi tutti il medesimo oggetto, cioè a dire quello di piacere alla potestà suprema, di rendersela favorevole, e d’ottenere con questo mezzo qualche porzione o emanazione della sua autorità.

Il mezzo dunque è sempre l'istesso, ma gli effetti sono diversi. L'istesso amore del potere, che in una repubblica libera, e bene ordinata, rende il cittadino virtuoso e amante della patria, lo fa divenire un mostro in un governo dispotico. Egli farà nascere nel tempo istesso un Curzio, un Decio, un Fabio in Roma, e nell'Asia il più vile degli schiavi. Egli farà nascere nell'istesso paese, ma in diversi tempi, in diverse circostanze, un Cincinnato, un Papirio, un Cleandro, un Perennide, ed un Sejano.

Premesse queste idee generali, non vi vuol molto a vedere come tutto quello, che Montesquieuattribuisce a' suoi principi, non è in fatti che il risultato dell'amoreistesso del potereconsiderato nei diversi governi.

Per esempio: dove vi è dispotismo, dice egli, non vi è virtù. Io lo concedo, ma perché? Perché quando il governo è puramente arbitrario, quando l'autorità sovrana è tra le mani d’un tiranno, per lo più educato tra le mura d'un serraglio, e fra gl'intrighi d'una truppa di cortigiani avidi e corrotti, egli non sceglierà sicuramente per suoi ministri, se non che i complici, o almeno i fautori de suoi vizj In questo paese non si vedrà né un Aristide, né un Cimone, perché col soccorso delle loro virtù e dei loro talenti non si perverrebbe mai ad ottenere una porzione di potere, che non può essere che l’emanazione dell’autorità del più corrotto degli uomini. Là il vizio, l’indecenza, la crapula, la dissolutezza, le voluttà vergognose, l'oppressione, l’ingiustizia, la rapina, la frode, la bassezza, sono onorate, approvate, autorizzate, ricompensate dal potere supremo, applaudite dalla voce pubblica, legittimate, per cosi dire, dal consenso tacito d’una società, che non ardisce di reclamare. Là il favorito è superiore all’eroe. Là il traditore della patria diviene il più potente cittadino dello Stato. Là, colui che non è oppressore, è oppresso. Là l'uomo virtuoso procura li nascondere le sue virtù. La finalmente il più coraggioso procura di comparire il più vile, perché il valore è la virtù sono niente, ove il despota è tutto. Per meglio sviluppare questa verità io ricorro ad un fenomeno politico. Supponiamo che salga sul trono di questa nazione un despota uomo da bene. Voi vedrete in un istante le cose cambiare d’aspetto. Ognuno cercherà di rendersi utile al pubblico, e tutta la destrezza dell'ambizione si ridurrà a rendersi, o almeno a mostrarsi degno delle cariche alle quali si aspira. La voglia di piacere all’eroe passeggiero che è sul trono, formerà, è vero, una quantità ippocriti in questa nazione, perché la virtù non ha il tempo di distendervi le sue radici, ma quest’istesso è un omaggio glorioso ed utile, che il vizio rende alla virtù, onorandosi anche delle sue apparenze. Il virtuoso romperà quel velo col quale nascondeva le sue virtù, e colui, che non lo era, procurerà di divenirlo, o almeno d’apparirlo. Ecco come la virtù ha qualche volta onorata anche la aedo del dispotismo. Ecco come Trajano, e i due Antonini fecero cambiar d'aspetto Roma.

L’amoredunque del potereè la vera causa che determina il cittadino ad operare, e quest’istessa passione è quella, che lo & divenir virtuoso nei governi liberi e popolari.

Dove il popolo regna, la nazione intera è il despota. Essa non può desiderare che il bene della maggior parte. I servizj dunque resi alla patria sono i soli mezzi, che possono mettere il cittadino in istato d’ottenere una porzione di potere in premio dei suoi meriti. L’amore del poteredeve, dunque in questi governi necessariamente spingere il cittadino all’amore della giustizia e della patria. Si sa che in Roma si videro per più secoli i prodigi del valore uniti a’ prodigi della virtù. Si sa che per più tempo ogni cittadino di Roma era un Fabricio, un Regolo e un Cincinnato. Ma fino a quando durarono questi prodigi? Finché il valore e la virtù furono un merito per pervenire al Consolato, ed alla Dittatura. Ma appena che la libertà cedé il suo luogo alla tirannia, appena che la guardia Pretoriana e le legioni cominciarono a decidere del merito di coloro che dovevano comandare la terra, appena che s’introdusse nel Campidoglio un commercio infame di cariche. di delitti, la virtù divenuta inutile, disparve; gli eroi si mutarono in delatori; il Senato divenne l’istrumento de' sospetti e degli odj del tiranno; e finalmente, per dir tutto in poche parole, non vi fu più patria nel paese dell’universo, che doveva ispirare il maggiore affetto a suoi abitatori (138). In ogni governo dunque in generale i cittadini saranno sempre quello, che l’amore del potere li farà essere (139). Si appartiene alle leggi il dirigere questa passione per renderla utile. Ma questa direzione dovrà forse essere sempre l’istessa, ed uniforme in tutti i governi? Questo non può avvenire. Siccome gli effetti di questo principio unico ed universale variano, siccome varia la natura de' governi nei quali agisce, la direzione delle leggi deve nella maniera istessa variare. Questo è quello che io mi affretto di esaminare con distinzione giacché tutto quello, che finora si è detto, sarebbe estraneo al mio argomento, se dovendo parlare del rapporto delle leggi col principio che anima i governi, io avessi potuto sviluppare le regole, che derivano da questo rapporto, senza prima determinare il principioche n’è l’oggetto. Io comincio dunque dalle democrazie.

Nelle democrazie le leggi debbono lasciare al popolo l’elezione de' suoi magistrati e dei suoi ministri. Quest’è il miglior mezzo per rendere in questi governi l'amore del potere una sorgente feconda di grandi virtù e di gran meriti. Un pubblico intero difficilmente si inganna e si corrompe; ma un senato può facilmente essere ingannato e corrotto. Sono sempre infinitamente maggiori i rapporti, che un cittadino può avere coi membri di un senato, che col corpo intero della nazione. Senza un gran merito non si può sperare qualche cosa dal Senato, ma senza un gran merito non si può sperar niente dal popolo. L’istoria di Soma e di Atene mi offre una prova di questa verità: Si sa che in Roma, dopo che il popolo ottenne con tanto strepito il diritto di potere innalzare alle cariche i plebei, non poteva risolversi ad eleggerli (140); ed in Atene, quantunque per una legged'Aristide si potessero sciegliere i magistrati da tutte le classi, non avvenne giammai dice Senofonte (141), che la plebe domandasse quelle, che potevano compromettere la sua salute e la sua gloria. Vi è un altro vantaggio nell’elezione dei popolo. Il popolo non esamina i talenti o le virtù private ed occulte: in questa ricerca si potrebbe ingannare. Egli non si determina, dice Montesquieu, che dalle cose che non può ignorare, e dai fatti che cadono sotto i suoi occhi.

Egli sa, per esempio, che un uomo è stato spesse volte alla guerra, che ha difesi con coraggio i diritti della libertà e della patria, che è riuscito in una o in più intraprese: questo gli basta per dargli il comando delle truppe.

Egli sa che un giudice è assiduo, che molti ritornano dal suo tribunale contenti di lui, che non è stato ancora convinto di corruzione: questo basta per fareche lo elegga Pretore.

Egli sa finalmente che un cittadino è ricco; egli vede la sua magnificenza: costui, dirà allora, deve esser l’Edile. Ogni cittadino dunque sarà persuaso allora che, per ottenere qualche porzione di potere, deve acquistare l’opinione del popolo, e che per acquistarla deve servirlo, deve impiegare i suoi talenti per farli conoscere, deve finalmente far risplendere le sue virtù colle azioni utili e co benefici resi alla patria. Ecco come si fan nascere gli eroi: ecco come il celebre e virtuoso Penn, filosofo per costume, uomo degno di vivere in que’ secoli, nei quali gli uomini erano più poveri, ma erano nel tempo istesso più grandi, legislatore che avrebbe oscurata la gloria di Licurgo e di Solone, se fosse nato venti secoli prima; ecco come il celebre Pennrese la Pensilvania(questa fortunata regione dell’America, perché destinata ad obbedire ad un uomo che non abbandonò la patria, che per mostrare i primi tratti di beneficenza e d'umanità nel nuovo emisfero) rese, io dico, la Pensilvaniala patria degli eroi, l’asilo della libertà e l’ammirazione dell’universo.

Egli vidde, che il grande oggetto della legislazione è di unir gl’interessi privati co' pubblici; egli vidde che l’unico mezzo, per riuscire in quest’intraprea ne’ governi liberi, era di dare al popolo la distribuzione delle cariche: egli lo fece, egli ottenne il suo fine, egli gettò a questo modo i primi fondamenti di una repubblica, che oggi chiama a se gli sguardi di tutta la terra; e i fasti della filosofia non Nasceranno di rendere immortale la memoria d'un uomo, che portò per la prima volta la felicità nell'America, in un tempo nel quale l’Europa tutta pareva congiurata per portarvi la strage e la miseria.

La prima legge dunque che protegge, dirige, e rende utile l’amoredel poterene' governi liberi e popolari, è quella che lascia al popolo intero la scelta di coloro, a' quali egli deve confidare qualche porzione della sua autorità. La seconda è quella, che dà ad ogni cittadino il diritto di poter pervenire alle prime cariche dello Stato, purché per qualche delitto, che la legge deve esprimere, non ne sia escluso. La necessità di questa legge è da per se stessa evidente. Essa non è altroché un risultato degli antecedenti principj. Se ogni cittadino serve la sua patria a misura de' beneficj che in ricompensa questa gli offre; se l’amor del potere è l’unico oggetto di queste speranze; se finalmente i diversi gradi di autorità, che si possono conferire ad un cittadino, sonola sola moneta, colla quale egli vuol esser pagato de' suoi meriti, supposto tutto questo, non ci vuol molto a vedere, che, subito che una porzione de' cittadini viene in tutto, o in parte, esclusa da questo diritto, la repubblica si vedrà divisa. in due classi, in coloro che non hanno alcuno o picciolo interesse nel bene della patria, ed in coloro che hanno tutto l’interesse nel servirla

Chi non vede quanto questa parzialità civile offende il principio del governo, altera l'equilibrio, distrugge l’eguaglianza, non già quell’eguaglianza metafisica desiderata ne' sogni de' politici, ma quell'eguaglianza che è l'anima de' governi popolari, che non ha per oggetto le facoltà, ma i diritti, e che, alterata, fa nascere lo schiavo accanto all'eroe, ed una truppa d’iloti in un paese di Spartani? La legge dunque, che dà a tutti i cittadini nelle democrazie eguali diritti per le cariche, è una delle più necessarie per proteggere, fomentare, e dirigere il principio del governo.

L’ultima legge finalmente, diretta all’istesso oggetto, è quella che impedisce l’abuso del potere. Siccome l’abuso del potere è quasi sempre unito al potere istesso; siccome questo abuso pernicioso da per tutto, è più di ogn’altro fatale ne' governi liberi e popolari, le leggi debbono prevenirlo.

Questo era come si sa, l’oggetto dell’ostracismopresso gli Ateniesi. La legge, che lo prescriveva, racchiudeva un doppio vantaggio. Essa impediva l'abuso del potere, esiliando que’ cittadini, che per la loro autorità erano divenuti sospetti alla repubblica; essa proteggeva nel tempo istesso il principio del governo, perché, siccome non è il potere soltanto che si desidera, ma l'opinione del potere, un cittadino credeva d’aver bastantemente conquistata questa piacevole opinione, quando i suoi meriti lo facevano esiliare dalla patria. Ecco come l’ostracismodivenne un premio in Atene: ecco come una savia legislazione può, maneggiando le passioni degli uomini, mutarne, per così dire, la natura, sino a far loro desiderare la perdita delle cose più care, de' parenti, degli amici, della patria.

Ma senza ricorrere all'ostracismo, che a primo aspetto sembra un rimedio violento e tirannico, le leggi potrebbero impedire l'abuso del potere col soccorso dell’amore istesso del potere.

Che la legge disegni la strada, per la quale si deve pervenire a' primi posti, e la durata di ciascheduna magistratura; che essa stabilisca un certo ascenso, una certa graduazione; che l’esercizio d’una carica serva, per così dire, di probazione e di merito per ottenerne un’altra più luminosa, ma che vi sia sempre un interstizio tra l’una carica e l’altra; che durante quest'interstizio indispensabile, il magistrato, che ha terminata la sua incumbenza, sia ridotto Della privata condizione, affinché il cittadino possa accusarlo senza spavento; che ci sia un tribunale destinato a ricevere tutte le accuse che si faranno contro qualunque magistrato, ad esaminarne la condotta e ad informarne il popolo; ed allora si vedrà se, senza l’ostracismo, l’amore istesso del potere possa prevenirne l’abuso.

Queste sono le leggi, che proteggono e dirigono l’amore del potere ne' governi popolari. Vediamo ora quali sono quelle, che lo proteggono nelle aristocrazie. L’aristocrazia, come si è veduto, è, riguardo a' nobili, quello che la democrazia è riguardo al popolo. La scelta dunque di coloro, a' quali ai deve confidare una porzione di potere, si deve fare da tutto il corpo degli ottimati, per l’istessa ragione che nelle democrazie si deve fare dal popolo intero. Il merito avrà allora maggiore influenza nella distribuzione delle cariche, e l'amore de) potere diverrà allora utile, perché metterà il cittadino nell’obbligo di esser giusto, e di servir la sua patria.

Più: siccome in questi governi i nobili sono tutto ed il popolo è niente, siccome tutto il potere è tra le mani degli ottimati, qual principio potrà spingere il popolo ad adoprarsi pel bene della patria? Qual oggetto può in lui avere l'amor del potere, se non quello di distruggere l'aristocrazia, e di togliere quella distinzione abominevole, ed umiliante, frai diritti d'un cittadino con quelli d'un altro cittadino, fra i diritti de' nobili e quelli del popolo? Questo male, che potrebbe rendere la costituzione de' governi aristocratici la peggiore di tutte, e la più soggetta alle civili discordie, può essere riparato dalle leggi. Senza ledere la natura di questo governo, esse potrebbero placare il popolo, ed interessarlo nel pubblico bene con due mezzi: con lasciargli l’adito ad alcune cariche subalterne, e con dare ad ogni cittadino il diritto di poter essere ascritto nella classe degli ottimati, quando s’uniranno in lui tutte quelle circostanze, e quei meriti, che la legge deve fissare. Questo stabilimento racchiude un doppio vantaggio. Egli eccita e dirige il principio del governo nella classe del popolo, il quale, senza questa speranza, non avrebbe interesse alcuno nel servire la patria, e mette nel tempo istesso un argine a' trasporti della plebe, perché i più potenti, e i più ragguardevoli cittadini di questa classe, vedendosi già vicini, o almeno in istato di essere un giorno ascritti al corpo de' nobili, trovano il loro interesse nei difendere i loro diritti. Ecco perché i patrizj in Roma trovarono qualche volta nel tribuno della plebe un difensore della loro causa.

Io termino finalmente questo capo col dare alcune idee generali su i mezzi proprj de' quali le leggi debbono far uso, per proteggere l’amor del potere nelle monarchie.

In questi governi ogni porzione d’autorità, che si confida ad un cittadino, non può essere che l’emanazione del potere supremo, depositato tra le mani del monarca. Il Sovrano è quello, che dà le cariche. Il Sovrano è quello, che distribuisce le diverse porzioni d’autorità tra i suoi sudditi. Il cittadino dunque in questi governi, spinto dall’amor del potere, non si proporrà altro oggetto se non quello di piacere al Sovrano, e di renderselo favorevole per ottenere da lui qualche porzione d’autorità in ricompensa de' servizj che gli ha prestati. Ma quest’oggetto, siccome può riempiere lo Stato d’eroi sotto il governo d’un principe dabbene, così può riempierlo d’adulatori e di schiavi sotto il governo d’un monarca imbecille e corrotto. Che possono dunque fare le leggi per prevenire questo male, e per dare nelle monarchie una direzione più utile, e più sicura all’amor del potere? Togliere al Sovrano la distribuzione delle cariche sarebbe un ledere i. suoi diritti, e alterare la costituzione del governo. Sottoporla all'approvazione del pubblico, sarebbe un rimedio ineseguibile, e non degno del decoro della sovranità. Il solo mezzo utile allo Stato, e non distruttivo nel tempo istesso, de' diritti del Sovrano, sarebbe quello di assegnare alcune cariche per quei cittadini, che avran prestati alcuni servizj alla patria, espressi e determinati dalle leggi, di stabilire in tutte le altre i meriti che si debbon avere per ambirle. Questo solo stabilimento fa da più secoli tutta la prosperità d’una nazione, ove ogni virtù reca qualche vantaggio, ogni talento utile diviene dominante; dove la nobiltà non è una sola rimembranza ereditaria, ma una ricompensa personale; dove colui, che ha lumi e virtù, è sicuramente preferito a colui, che non hà altro che avi illustri; e dove non è il solo arbitrio del Principe, non sono i favori d’un cortigiano, né le cabale, o gl’intrighi della corte, ma la legge è quella che distribuisce le cariche; la legge è quella, che le propone all'emulazione di tutti i cittadini; la legge è quella, che le assegna non all'uomo, non al rango, ma ad alcune azioni utili e virtuose. Io parlo della China. Con questo metodo si conserva il buon ordine d’una famiglia nel più vasto impero della terra: con questo metodo le leggi animano e dirigono nella China l'amor del potere, questo principio unico ed universale di tutti i governi (142).

I moralisti in questo paese, come in tutti quelli,ove i principj della vera morale e della vera filosofia sono stabiliti, non condannano nell’uomo l’ambizione di dominare, se non quando questa è unita alla voglia d'opprimere. Persuadiamoci: L'amordelpoterepuò avere diversi aspetti. Egli è una virtù in un’anima, che si sente bastantemente forte per far un gran numero di felici. Egli è un vizio in coloro, che non sanno che nuocere.

L’ambizioso in un governo libero non è altro che un cittadino dabbene, che desidera una carica come un mezzo legittimo per far la propria felicità, contribuendo a quella degli altri. Egli è uno schiavo avveduto sotto un tiranno, uno schiavo che cerca d’uscire dalla classe degli oppressi, per entrare in quella degli oppressori.

L'ambizioso in un governo moderato, in un governo dove una savia legislazione ha saputo dirigere questa passione, è un eroe che desidera tanta autorità, quanta ce ne vuole per far osservare le leggi, per difendere la patria, per mantenerla nei suoi diritti, per conservarla nella sua libertà, eper richiamarsi con questo mezzo la stima e la riconoscenza de' suoi cittadini, i quali si sforzeranno a gara di contribuire alla sua felicità. Egli è un mostro in un governo dispotico, che desidera di godere del diritto infame di violare impunemente tutte le regole della giustizia, di disprezzar le leggi, di calpestare gl’infelici, d’opprimere la patria, e di rendere più pesanti le catene che la stringono.

Che la morale non si scagli dunque contro l’ambizione, contro l’amore del potere: che si scagli piuttosto contro il governo, contro le leggi, che non sanno dirigerlo. Senza quest'urto le società sarebbero senza moto, i corpi politici perirebbero nell’inerzia. Con questo urto, con questa forza mal diretta, nella società vi è un moto, ma questo è un moto che la spinge verso la sua rovina. Con quest’urto finalmente, con questa forza ben diretta dalle leggi, la società si riempie d'eroi, la società si muove acquistando sempre maggior vigore, la società si avvicina sempre più alla sua perfezione.

Dal principio che anima i governi, io passo al genio e all'indole de' popoli.


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CAPO XIII

Terzo oggetto del rapporto delle leggi:

il genio e l’indole de' popoli

Il genio e l'indolede' popoli si può considerare sotto due aspetti; rapporto a quello spirito universale, che in ogni età anima la maggior parte delle nazioni, e rapporto a quell’inclinazione, ed a quell’indole propria di quel popolo in particolare, al eguale le leggi vengono promulgate. Sotto l’uno, o l'altro aspetto che si consideri, quest’oggetto deve avere una grande influenza sul sistema della legislazione. Io cercherò prima d’ogni altro di far vedere quella, che vi deve avere lo spirito universale del secolo, e quindi l’indole ed il genio particolare del popolo, che deve riceverla.

L’incostanza, che accompagna tutto ciò che ha rapporto all’umanità, si mostra ancora nel genio dominante delle nazioni ne' diversi tempi. Lo spirito de' secoli si cambia col cambiamento delle circostanze che concorrono a formarlo, e le vicende, che il tempo cagiona nel fisico, le cagiona ancora nel morale e nel politico de' popoli. La legislazione potrebbe forse trascurarle?

Per persuadersi di questa verità, basta gittar gli occhi sull'istoria delle nazioni e de' secoli. Cosa abbia m noi che ci rassomigli agli antichi. Cosa ha di comune il nostro genio e la nostra indole colla loro? Dov'è quel trasporto per la guerra e per le conquiste. Dove quel genio belligerante che invasava tutti gli spiriti, che armava tutte le nazioni, e che, alterando i sentimenti istessi della natura, rendeva meno cara la vita, e meno spaventevole la morte? Dove sono quei prodigi di valore e di virtù? Dove quei giuochi, ove il Greco ed il Romano faceva pompa della sua forza e della sua destrezza innanzi ad un popolo immenso, dove col soccorso dei premj e delle acclamazioni si nudrivano i vivi sentimenti della gloria, e dove il piacere istesso pagava un tributo alla forza ed al coraggio? Oggi questo coraggio, e questa forza istessa e divenuta inutile. Gli uomini combattono senza toccarsi, e muoiono senza distinguere chi gli uccide. Una materia combustibile, sulfurea, ed elastica eguaglia il più debole al più forte, e ’l più coraggioso al più vile. L’oggetto istesso della guerra è diverso. Una volta le nazioni si armavano per distruggere, o per fondare i regni, o per vendicare i diritti naturali dell'uomo. Si combatte oggi per la presa d’un porto, per la conquista d'una miniera, per l’esclusiva d'un aromo, o pel capriccio di qualche uomo potente. Queste guerre, per lo più fatte da lontano e sulle acque dell’Oceano, sono meno sensibili alle nazioni. Quelle, che si fanno sulla terra ferma, sono lente e rare. I nostri padri, senza truppa fissa e mercenaria, erano in un continuo stato di guerra, e noi oggi siamo iu pace in mezzo ad un milione e duecentomila uomini armati di continuo. Uno spirito di permuta e di commercio agita la terra, e da per tutto non si pensa ad altro che ad essere in pace, ed arricchirsi. Chi non vede qual diversità di principi deve produrre nel sistema della legislazione questa prodigiosa rivoluzione nell’interesse, nell’indole e nel genio de' popoli? Che ne sarebbe oggi d'una repubblica, le leggi della quale bandissero, come in Sparta, Toro e l’argento, proibissero la navigazione ed il commercio, avvilissero l’agricoltura e le arti, ed attaccassero un certo carattere d’infamia alla mercatura, alla mercatura che altre volte contribuiva tanto alla decadenza degli Stati, ma che oggi è divenuta il sostegno e l’anima delle nazioni? Che ne sarebbe oggi dell'Inghilterra, e dell'Olanda con queste leggi? Amsterdam e Roterdam sarebbero allora nell'oceano quello, che oggi sono nel mediterraneo Tunisi ed Algieri; quello che furono un tempo i Danesi e gli antichi abitatori della Norvegia; quello che furono nell’America i Filibustieri; e quello che sono stati la maggior parte de' popoli barbari, che la natura ha fatti nascere su i lidi del mare. Esse sarebbero due repubbliche piratiche condannate a raccorre la loro sussistenza dall’ingiustizia, e dalla frode: esse sarebbero povere, perché la pirateria non ha mai arricchito alcun popolo: esse sarebbero sempre vacillanti, perché sempre esposte alla giusta vendetta delle nazioni, nel mentre che oggi, con un sistema opposto di legislazione, trasportando presso tutte le nazioni i tesori della natura e delle arti, e dando all'une il superfluo dell’altre, esse dominano da per tutto dove vi è mare, e s’arricchiscono col consenso dei popoli, de' quali accrescono la felicità moltiplicandone i bisogni.

Ricordiamoci per poco della maniera di pensare degli antichi, e paragoniamola a quella de' moderni politici. Platone vuole che le arti non si perfezionino (143), e che nella repubblica non vi sieno se non quelle, che sono essenzialmente necessarie per la vita. Egli rifiuta di dar le leggi agli Arcadi ed a' Coronesi, sapendo che questi due popoli erano ricchi ed amanti delle ricchezze; e Focione, che vede nelle ricchezze d'Atene la causa della sua rovina, vuole che gli artieri sieno considerati come schiavi, e per conseguenza privi de' diritti della cittadinanza.

Tutta la classe de' politici, e degl’istorici dell’antichità attribuiscono la decadenza delle nazioni alle ricchezze che vi sono penetrate, e le leggi di Licurgo, che seppero tenerle lontane dalle mura di Sparta per più secoli, sono state da essi considerate come il capo d'opera della politica, e ’l modello d’una perfetta legislazione.

Persuasi de' vizj, che portavano seco loro le ricchezze, persuasi degl’istrumenti di corruzione e di servitù, che l'opulenza e il lusso offrivano alla tirannia, persuasi in una parola de' vantaggi della povertà, essi compatiscono Solone, il quale fu, costretto ad allontanarsi da questi principi emanando le sue leggi agli Ateniesi; e ci fan vedere che questo legislatore istesso conosceva i difetti della sua istituzione, dicendo che egli non aveva dettate le migliori leggi agli Ateniesi, ma le migliori tra quelle, che essi erano nello stato di ricevere.

Così pensavano gli antichi. Questo era il sistema della greca e della romana politica. Il loro grand’oggetto era di conservare colla povertà la frugalità, e colla frugalità la forza, il coraggio, la tolleranza della fatica, e la rigidezza de' costumi. Rivolgiamo ora lo sguardo a' moderni. Molto lontani dal credere la povertà un bene, i nostri Politici non vanno in cerca che di ricchezze e di tesori. I loro voti sono diretti a' progressi dell’agricoltura, delle arti, del commercio. Siate ricchi, essi dicono a’ popoli, se volete esser felici. Procurate, dicono a' Sovrani, che i vostri sudditi abbiano un gran superfluo, se volete esser rispettati al di fuori e tranquilli nell’interno dello Stato; la vostra corona sarà sempre male appoggiata, il vostro trono sempre vacillante, le vostre provincie sempre esposte alle rapine de' vostri vicini, finché i vostri sudditi saranno nell'indigenza. In mezzo all’opulenza il vostro nome sarà temuto, la vostra alleanza sarà desiderata, i vostri diritti rispettati, le Vostre pretensioni bene appoggiate: voi darete la legge a' vostri vicini, ma essi la daranno a voi se voi siete più poveri di loro.

Qual è dunque la causa di questa diversità, o per meglio dire, di questa opposizione di mire tra gli antichi e moderni politici? Si dovrà forse supporre l'inganno e l’errore ili una delle due scuole, o dobbiamo piuttosto ammirare e gli uni, e gli altri per aver adattate le loro massime allo spirito ed al genio dominante del secolo, nel quale hanno parlato? La istoria dell’antichità non ci fa forse vedere i popoli più ricchi ricever la legge dappiù poveri, e gli annali moderni dell’Europa non ci fan forse vedere l'opposto? Vi sarebbe forse niente da temere nello stato presente delle cose da una repubblica, che avesse l’istesso principio, l’istesse mire, e l'istesso. istituzioni di quella di Roma? Io l'ho detto, la natura delle cose si è mutata. Non è il più forte che dà la legge, al più debole, ma il più ricco è quello, che domina il più povero. É finito il tempo, nel quale con due legioni si andava a muover guerra ad una nazione intera. Vi vogliono eserciti oggi per combattere, e gli eserciti han bisogno di tesori. Dugeuto e più mila uomini armati per dare o per ricevere la morte, e cinquanta e più milioni di lire sono stati oggi i documenti su’ quali la casa d'Austria ha dovuto appoggiare le sue pretensioni sopra pochi palmi della Baviera.

Le ricchezze sono dunque divenute il primo istrumento della guerra e l’oro e l’argento sono gli argini, o i veicoli delle conquiste.Secondo questi principi incontrastabili, perché fondati su i fatti che passano sotto i nostri occhi, secondo questi principi, io dico, è altrove che noi dobbiamo rivolgere i nostri sguardi timorosi. In un angolo dell'America, presso un popolo libero e commerciante, figlio dell’Europa, ma che l’oppressione ha reso inimico della sua madre; presso questo popolo, io dico, s'innalza una voce che ci dice: Europei, se per servirvi, noi siamo venuti nel nuovo mondo, sappiate che oggi le nostre ricchezze, e la cognizione di quelle che possiamo acquistare, non soffrono più una servitù oltraggiosa, che può essere permutata con una specie di libertà, che non tarderà molto a metterci nello stato di darvi la legge, e che vi farà un giorno pentire di essere stati gli artefici delle vostre catene. La nostra indipendenza, frutto delle vostre ingiustizie e del nostri) risentimento; i vantaggi della nostra posizione; la celerità che può avere il nostro commercio; la facilità di richiamare a noi con un solo atto di volontà le ricchezze e gli agj de' due emisferi; i progressi della nostra popolazione accresciuta nel tempo stesso e dalla moltiplicità de' matrimonj, che l’opulenza pubblica produce, e dal concorso degli stranieri, che la speranza di migliorar fortuna richiamerà sulle nostre rive ridenti per i raggi d’una nascente libertà; tutti questi vantaggi uniti alla superiorità, che dà agli Stati ed agli uomini il vigore della gioventù, accoppiato al sentimento della prosperità, ci renderà gli arbitri del destino dell’America e della sorte dell'Europa: noi potremo con facilità strapparvi dalle mani le sorgenti delle vostre ricchezze: lo spazio immenso, che ci separa da voi, ci permetterà di compire i preparativi delle nostre invasioni, prima che lo strepito ne sia pervenuto ne' vostri climi: noi potremo scegliere i nemici, il campo, e'1 momento delle nostre vittorie: i nostri tesori, e la nostra situazione ci assicureranno sempre della felicità delle nostre intraprese: i nostri navigli vittoriosi compariranno sempre innanzi alle coste, che non possono essere né ben custodite, né ben difese da potenze lontane: i vostri soccorsi giugneranno sempre tardi: le vostre colonie finalmente o diveranno le nostre provincie, o spezzeranno le loro catene col soccorso della nostra alleanza, che noi non negheremo mai, allorché ci sarà richiesta dalla voce della libertà contro la tirannia. Privi allora dell'America, e per conseguenza dell’Asia, che non va in cerca che del nostro argento, voi ritornerete nell'oscurità e nella barbarie, dalla quale siete usciti, e la vostra sola povertà potrà garantirvi dalle nostre giuste, ma non profittevoli vendette.

Questa è l’imitazione funesta, che le colonie Anglicane possono fare all’Europa, e un popolo come questo, e non già una repubblica di Romani poveri e guerrieri, può oggi divenir l’oggetto de' suoi timori.

Conchiudiamo: se lo spirito ed il genio dominante del secolo è l’acquisto delle ricchezze; se la superiorità non è oggi dalla parte della forza, del coraggio, e delle virtù guerriere, ma dalla parte dell’opulenza, se le nazioni le più ricche sono le più felici nel fin terno, e le più rispettate e temute al di fuori; all’agricoltura, allearti, al commercio, all’acquisto, alla conservazione, alla ripartizione delle ricchezze dovranno dunque oggi dirigersi le prime cure del legislatore, una volta impiegate interamente a formare un animo coraggioso in un corpo robusto ed agile.

Questa è la grande influenza, che il genio e lo spirito dominante del secolo deve avere sul sistema della legislazione, e questo è il gran principio legislativo, che io deduco dall’esame del rapporto delle leggi col genio e l’indole de' popoli, considerato riguardo a questo primo aspetto. Consideriamolo ora sotto il secondo aspetto: vediamo l’influenza che vi deve avere il genio e l’indole particolare di quel popolo, al quale viene emanata.

Malgrado le tante cagioni, che concorrono oggi!er distruggere ogni differenza tra il genio, l'indole, e il carattere rispettivo delle nazioni Europee: malgrado la comunicazione continua, che hanno tra loro i popoli che l’abitano; malgrado l’origine quasi comune, che hanno avute le costituzioni de' loro governi; malgrado le conseguenze dell’antico sistema feudale, che si stabilì presso a poco cogl’istessi principi in quasi tutta l’Europa, e che per conseguenza ha dovuto egualmente imprimervi le sue massime, le sue distinzioni, i suoi cavallereschi pregiudizi, la sua galanteria, la sua giurisprudenza della spada, il suo capriccioso ed inconseguente codice delle leggi dell’onore; malgrado finalmente l’armonia delle massime della morale derivata da una religione comune, la quale se è stata alterata presso alcune di queste nazioni, è rimasta sempre l’istessa circa quella parte de' suoi precetti che influiscono su i costumi; malgrado io dico, tutte queste cause, il carattere, l’indole, il genio delle diverse nazioni Europee non si rassomiglia: vi si osserva ancora una differenza, se non così grande, come vi era tra quelle degli antichi popoli de' secoli eroici, li quali non si avvicinavano che per uccidersi, almeno tale, che basta per non poter essere trascurata dal legislatore, e per dover avere una grande influenza nello spirito delle loro legislazioni.

Io non cerco la causa di questa differenza: ne osservo solo gli effetti. Io veggo, per esempio, nei Francesi una nazione vivace, attiva, facile all'invenzione, raffinata nel gusto, che ha nella sua vanità uno sprone incredibile per le arti e per le manifatture: questo mi basta per dedurne, che in questa nazione, più che in ogn’altra la legislazione deve incoraggi re l’agricoltura, l’arte penosa della quale, lontana da tutto ciò che può lusingare la vanità, ha bisogno in Francia, più che in qualunque altra nazione, di un soccorso particolare delle leggi per non essere aborrita e trascurata. Senza un forte incoraggimento le manifatture e le arti di gusto fioriranno sempre in questa nazione: essa darà sempre il tuono alla moda; essa deciderà della maniera colla quale gli Europei debbano vestirsi, ornarsi, addobbare le loro case, deformare fino le loro femmine, le quali perdono nelle caricature della moda quella bellezza, che la natura non permette che si ritrovi fuori della semplicità. Tutto questo si otterrà da' Francesi senza un forte incoraggiamento: ma senza un forte incoraggiamento le loro campagne resteranno deserte; esse languiranno come languiscono, per difetto di coltivatori. Se il gran Colbertavesse conosciuta questa verità egli non avrebbe sacrificata l’agricoltura alle arti: pro. movendo la prima, avrebbe combinati i vantaggi dell'una e dell’altre, e la gloria del suo ministero non sarebbe ancora indecisa.

Dando un passo fuori della Francia verso, il mezzogiorno, io trovo diverso genio, diversa indole, ed un carattere tutto diverso.

Io veggo nello Spagnuolo una certa onestà, che risplende ne' suoi discorsi, nelle sue amicizie, che si palesa nella sua maniera di contrattare (144); io vi veggo anche una certa ruvidezza di maniere, un certo attaccamento particolare a' suoi antichi usi, un'anima disposta alla superstizione, ed un certo spirito d’orgoglio, che gli fa comparir vile la fatica. Questo mi basta per dedurne che il legislatore deve in questa nazione profittare, riguardo ad alcuni oggetti, dell’indole e del carattere de suoi cittadini, e correggerla negli altri,

Egli può servirsi, per esempio, della loro onestà, e della loro buona fede per promuovere e facilitare il commercio interno, ed esterno: egli può sbarazzare i contratti da una gran porzione di quelle solennità che li ritardano, ma che le leggi hanno do vuto altrove opporre alla frode ed all'inganno (145). Egli può servirsi della loro ruvidezza nelle maniere, come d’un sostegno per la rigidezza de”costumi. Il loro attaccamento particolare agli antichi usi deve avvertirlo del disprezzo, nel quale potrebbero cadere anche le più utili novità; deve avvertirlo che in questa nazione, più che in ogn’altra, queste debbono esser molto ben preparate, e con molta sobrietà intraprese. La loro disposizione alla superstizione dovrebbe far vedere al legislatore, che la Spagna avrebbe piuttosto bisogno d un inquisizione contro la soverchia credulità, e contro gl'impostori, che ne profittano, che d'un’inquisizione contro l’irreligione alla quale lo Spagnuolo non pare disposto, e dovrebbe mostrargli chei progressi desumi e delle cognizioni (quest’argine universale della superstizione) si dovrebbero in questa nazione, più che in ogni altra, accelerare. Finalmente quello spirito d’orgoglio, che fa loro comparir vile la fatica, dovrebbe fargli conoscere, che nella Spagna non basterebbe solo che le leggi rendessero profittevole la fatica per promuoverla, ma che dovrebbero nobilitarlo, dovrebbero impiegare quell’istesso spirito d’orgoglio che oggi la disprezza, per farla desiderar da tutti, rendendola onorevole. Che non mi si opponga la solita obbiezione dell’impossibilità. Niente è impossibile ad un savio legislatore. Se l'esilio dalla patria, come si è osservato poc'anzi, divenne un onore presso i Greci, se una buona legislazione seppe render desiderabile l’ostracismo; se quest'era l’ultimo voto, che l’Ateniese illustre dirigeva agli Dei in compenso delle sue grandi azioni; se un legislatore de' nostri tempi ha saputo dare nel settentrione dell'Europa un nuovo tuono alla sua nazione; se la Svezia non si riconosce più, da che Gustavo è salito sul trono; se una rivoluzione universale nella costituzione del governo, ne' costumi, è fin nella maniera di vestire dei suoi sudditi, è stata preparata e perfezionata in pochi anni da questo giovane Principe, sarà forse impossibile farne una così facile nella Spagna? Se il mio grande oggetto fosse di fare un piano di legislazione per questa sola nazione, farei vedere la strada che si dovrebbe tenere, gl’istrumenti che sì dovrebbero impiegare, e la facilità di quest'operazione; ma non è questo il mio assunto. Io non ho parlato in questo capo della Francia e della Spagna, che per mostrare in qual maniera deve influire sul sistema della legislazione il genio, l’indole e ’l carattere del popolo, che deve riceverla. Contento della chiarezza, colla quale mi pare d’avere sviluppate le mie idee, io passo ad esaminare come debba influirvi il clima.

L’opposizione de' filosofi e de' politici riguardo a quest’oggetto; la difficoltà di dare qualche chiarezza ad una questione così oscura come questa; e gli ostacoli, che s’incontrano, allorché si vogliono generalizzare i principi legislativi che ne derivano, mi faranno dilungare più di quello, che vorrei in questo esame. Io spero che questo difetto sarà compensato dalla novità, dall'importanza, e dall'evidenza de' risultati.


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CAPO XIV

Quart’oggetto del rapporto delle leggi, il Clima

Si è creduto, e si crede forse ancora, che Montesquieu sia stato il prime a parlare dell'influenza del clima. Quest’è un errore. Si sa che prima di lui quest’oggetto non isfuggì dalla penna del delicato ed ameno Fontanelle (146). Chardin, uno de' viaggiatori che ragionano, fa molte riflessioni circa l’influenza del clima sul fisico e sul morale degli uomini. L'abate Dubos sostenne e sviluppò i pensieri di Chardin; e Budino, che aveva forse letto nelle opere di Polibio, che il clima forma la figura, il colore, ed i costumi delle nazioni, ne aveva già fatta la base del suo sistema nella sua Repubblica, e nel suo metodo dell’istoria centocinquanta anni prima di loro(147)Prima di tutti questi scrittori, Ippocrate, il divino Ippocrate ne aveva diffusamente parlato nel suo trattato celebre dell’arie,delle acque, e de' luoghi. Viene finalmente l’Autore dello Spirito delle Leggi, e senza citare alcuno di questi autori, non fa che alterare i principi d’Ippocrate, e spingere più in là le idee di Dubos, di Chardin, e e di Budino. Egli volle far credere al pubblico di esser il primo a parlar di questo; ed il pubblico lo credette. Bisogna per altro perdonare questa frode ad un genio creatore, il quale avvezzo a pensare da secredeva d’inventare, anche quando copiava. A’ pensieri di questi celebri scrittori io ardisco di aggiungere anche i miei, giacché non è difficile inventis addere.

Io lascio volentieri all'Autore dello Spirito delle leggi tutte le sue osservazioni sulla lingua d’un irco’ coverta di picciole eminenze vestite d’alcuni peli, o d'una specie di lanugine, ed intermezzati d’alcune piramidi, che formano nella parte superiore alcuni piccioli pennelli, che spariscono subito che questa lingua si fa gelare, i principi da' quali l’autore deduce i diversi gradi di sensibilità, di forza e di coraggio, il maggiore o il minor urto delle passioni, e il trasporto più o meno grafide per i piaceri ne' diversi climi. Io tralascio volentieri queste osservazioni, che sarebbero meglio collocate in un istoria del microscopio, che in una ricerca politica; né credo che si debba estendere tanto in là l'influenza del clima, fino a crederla la causa universale di quasi tutti i fenomeni morali e politici, come fa questo autore celebre, il quale in questa ricerca ha mostrato più bizzarra, più genio, che esattezza d’osservazioni e verità di conseguenze. Io mi guarderei bene dall’urtare nelli stessi suoi difetti; e mi guarderei bene dall’abusare dell’istoria, e della sacra fiaccola dell’esperienza, come egli fa.

Potrei io per esempio, asserire coll’Autore dello Spirito delle leggi, che il clima è quello che fa che i popoli settentrionali abbiano sempre soggiogati i popoli più meridionali, allorché trovo altrettante prove nell’istoria per contrastare quest’opinione, quante se ne possono trovare per sostenerla? I Romani, che furono soggiogati da popoli del Nord in un tempo, non soggiogarono essi gl’istessi popoli in altri tempi? Le loro armi vittoriose non trionfarono forse de' Sarmati e de' Brettoni? Tamerlano, partendo dalle sponde dell’indo, non portò forse la conquista fin ne' climi gelati della Siberia? I Peruani non soggiogarono forse molti popoli situati al Settentrione del loro paese? Gli stendardi superstiziosi delle Crociate non furono forse messi in pezzi da' valorosi Saraceni? Questo istesso popolo, uscendo dalle arene ardenti dell’Arabia, non soggiogò forse molte nazioni, non trionfò degli Spagnuoli, non portò la desolazione fin nel centro della Francia? Gli Unni non abbandonarono forse le paludi Meotidi per caricar di catene molti popoli situati al Nord del loro paese? I Parti non furono forse l’oggetto del terrore di Roma in un secolo, nel quale i Romani non avevano ancora niente perduto del loro antico coraggio? Tra' popoli più guerrieri, che abbia avutala terra, non vi è stato forse un tempo, nel quale vi si potevano numerare gli Elamiti e gli Egizj? Il sole era forse più lontano dalla Persia ne' bei giorni di Ciro? La Laconia, abitata oggi da più timidi schiavi, non fu torse la patria de' guerrieri e degli eroi? E forse il clima quello, che fa che non si ritrovino più Focioni in Atene, Pelopidi in Tebe, e Decj in Roma?

Potrei in oltre asserire coll’istesso autore, che il clima è quello, che fa che i popoli settentrionali sieno più amanti della libertà de' popoli meridionali, quando veggo il dispotismo stabilire egualmente il suo trono nelle arene infocate della Libia, e nelle foreste gelate del Settentrione; ne' piani fertili dell’Indostan, e ne' deserti della Scizia? Potrei io credere che i popoli più settentrionali sieno fatti per essere liberi, quando veggo la feudalità distendere le sue radici nella Russia, nella Danimarca, nella Svezia, nell’Ungheria, in Pollonia, ed in quasi tutta l’Europa? Potrei io credere che il clima caldo condanni l'uomo alla schiavitù, nel mentre che veggo l’Arabo vagabondo eludere per tanti secoli il giogo del dispotismo, che opprime il Perso, l’Egiziano, ed il Moro, suoi vicini? Sotto l’istesso parallelo, per così dire, non vediamo noi il Tartaro indomabile, e il Siberiano schiavo?

Potrei finalmente attribuire al clima la frequenza de' suicidj in Inghilterra, nel mentre che vegga più di cinquanta infelici darsi la morte colle proprie mani in un solo anno a Parigi (148); nel mentre che in Ginevra si contano dieci suicidj in ogni anno; e nel mentre che in Roma per sette secoli non. si conobbe altro suicidio che quello di Lucrezia, e quindi nello spazio di pochi anni, senzaché il clima si fosse mutato, Catone, Bruto, Cassio, Antonio, e tanti altri diedero questo fatale esempio al mondo?

Io non la finirei mai se volessi passare sotto rivista tutti gli effetti che Montesquieu attribuisce al clima, ma che, in fatti, la ragione e l’esperienza ci obbligano ad attribuire ad altre cause, se non in tutto, almeno nella più gran parte da esso indipendenti. Il lettore potrà dirigersi all'opera celebre del signor Hume (149), il quale ha saputo colla vastità' delle sue cognizioni, e colla profondità de' suoi raziocini disingannare il pubblico da questi paradossi, a' quali l’eloquenza, e le grazie epigrammiche di Montesquieu, avevano data un’aria di verità. Ma, siccome gli estremi sogliono esser sempre viziosi, io credo che questi due autori celebri sieno egualmente condannabili, l’uno per aver dato troppo al clima, l'altro per avergli tutto negato. Scegliendo la via di mezzo, io mi contento di dire, I. che il clima può influire sul fisico e sul morale degli uomini, come causaconcorrente,ma mai come causa assoluta;II. che la sua influenza è sensibile, è grande ne' climi forti, cioè, in quelli che sono o estremamente caldi o estremamente freddi; ma che appena si può discernere ne' climi temperati; in. che non è la sola posizione d’un paese riguardo al Sole quella, che ne deve determinare il clima; iv. che, qualunque sia la forza della sua influenza, questa non deve essere trascurata dal legislatore, il qua le deve riparare agli effetti del clima, allorché sono perniciosi; deve profittarne, allorché sono utili; deve rispettarli, allorché sono indifferenti.

Io prego il lettore a non precipitare alcun giudizio poco favorevole al metodo, che son costretto a tenere in questo capo prima d’averlo interamente letto; io lo prego a non condannarmi di superfluità, vedendo che io m’impegno in alcune questioni, che al primo aspetto pare che sieno estranee al mio unico oggetto. Allorché egli vedrà dove vanno ad unirsi tutte queste fila, egli si persuaderà della necessità, nella quale io sono, di fissare con precisione tutti questi «lati, per venire quindi allo sviluppo de' principj legislativi da essi dipendenti. Per rischiarare dunque queste proposizioni, coll'istesso ordine, col quale le ho esposte, io comincio dalla prima.

Non si può dubitare che il clima influisca sul fisico e sul morale dell’uomo. La materia ignea, sparsa sulla superficie del nostro globo, è senza dubbio una delle forze della natura, e questa forza non può rimanere senza attività. Essa deve far sentire i suoi urti cosi sopra i vegetabili, come sopra gli animali. L'uomo, quantunque distinto da questi per le perfezioni della sua anima può, facendo uso delle sue facoltà intellettuali, riparare in parte agli effetti di questa forza sempre attiva; ma non può sicuramente distruggerla. L’eccesso, o la scarsezza, di questa materia sparsa nell'atmosfera}nella quale egli vive, è ciò che produce o il calore, o la freddezza del clima. L’uomo potrà dunque riparare in parte aquesto caldo, o a questo freddo; ma non potrà distruggerne interamente l’azione. Un grado estremo di calore derivato dall'aspetto dei Sole, o da una causa locale, deve rilassare le sue fibre, rendendole più delicate; deve, agitando gli umori, snervare il suo corpo con traspirazioni troppo copiose; deve finalmente diminuire il suo calore naturale, il quale, come da Fisiologi si è dimostrato, è sempre in ragione inversa del calore del clima. Posto questo, la parte morale dell’uomo potrebbe non esser sensibile a questa alterazione, che si cagiona nella sua parte fisica? Per noi che viviamo ne' climi temperati, quando un caldo eccessivo sopravviene, non sentiamo noi la nostra memoria illanguidirsi? Non ci sentiamo noi sull’orlo dell'imbecillità? Pare che un velo ci nasconda le nostre idee; pare che una forza straniera opprima tutte le nostre facoltà intellettuali; pare che noi abbiam perduto il diritto di disporne. Sono tanti e cosi forti i rapporti del nostro spirito col nostro corpo, che le percosse dell’uno debbono necessariamente dall’altro risentirsi. E una stranezza dunque il credere che il clima non influisca sul fisico e sul morale degli uomini; ma non è minore stranezza il pretendere che questa forza sia l'unica, che agisca sull'uomo.

Se lo spirito deve soggiacere agli urti del corpo, il corpo deve anche soggiacere agli urti dello spirito. La dipendenza reciproca, che hanno tra loro, gli obbliga a questa legge. L’educazione, le leggi, la religione, lo spirito, le massime e i principi del governo, sono tante forze che agiscono di continuo sull'uomo civile. Queste accelerano, o ritardano lo sviluppo delle sue facoltà intellettuali; queste o promuovono, o frenano, o dirigono le sue passioni; queste fanno che egli sia o vile, o coraggioso, amante della libertà, o insensibile al peso delle catene del dispotismo; tutte queste cause morali unite alle cause fisiche, tra le quali il clima ha qualche volta il primo luogo e qualche volta l’ultimo; tutte queste cause, io dico, concorrono a modificare l'uomo civile; tutte queste cause fanno, che egli sia quello che è. E difficile il determinare precisamente quali sieno i gradi d'attività di ciascheduna di queste forze; ma riducendo in generale la questione, si potrà dire che presso una società di selvaggi, le cause fisiche hanno il primato, e presso una società più incivilita lo hanno le morali (150)). Il clima dunque influisce sul fisico e sul morale degli uomini come causa concorrente, ma mai come causa assoluta. Ma, tutte le altre cause uguali, agisce egli in tutti i luoghi colf istessa forza? Eccoci pervenuti alla seconda proposizione.

Si è detto chel'influenza del clima è sensibile, è grande ne' climi forti, cioè in quelli che sono o estremamente caldi, o estremamente freddi, ma che si può appena discernere ne' climi temperati.Esaminiamolo.

L’uomo, secondo l’osservazione de' Fisiologi, non è suscettibile che d’un grado determinato di calore. Questo calore non è altro che il composto del suo calore naturale, e del calore atmosferico del paese dove egli vive. A misura dunque che il calore atmosferico è maggiore, il suo calore naturale sarà minore, e viceversa,a misura che il calore atmosferico sarà minore, il suo calore naturale sarà maggiore. Ne’ climi temperati il calore naturale ordinariamente si equilibra col calore dell'atmosfera, o se vi è qualche differenza, questa è così picciola, che si può dire essere quasi insensibile, se non nella sua intensità, almeno ne' suoi effetti. Ma ne' climi forti, ne' climi o estremamente caldi, o estremamente freddi, questa differenza deve essere molto grande, deve essere necessariamente molto sensibile. Se, per esempio, in un paese il calore atmosferico supera di due terze parti il calore naturale, e se in un altro paese il calore naturale supera di due terze parti il calore atmosferico, l’alterazione che si produrrà nel meccanismo degli abitanti di questi due paesi, è così grande, è così opposta, che gli effetti che deve produrre così nello sviluppo delle loro facoltà fisiche, come delle loro facoltà morali da quelle in gran parte dipendenti, debbono necessariamente palesarsi anche all'occhio dell'osservatore meno avveduto. Chi non vedrebbe nella Groelanda, o nel Senegal l’influenza del clima sul temperamento, su’ costumi, sulla maniera di vivere degli abitanti di questi due paesi?Ma chi potrebbe avvedersi di questa influenza iti Parigi, in Genova, in Napoli, in Costantinopoli? Io non dico che in questi paesi il clima non abbia alcuna influenza; dico solo che questa è così piccola, è così insensibile, che vi è bisogno d’una prevenzione molto favorevole al sistema di Montesquieu per avvedersene. Ne’ climi dunque forti l’influenza del clima è grande, è sensibile, ma ne' climi temperati appena si può congetturare. Ma, si domanda: è la sola posizione d'un paese riguardo al Sole quella, che determina la natura del suo clima? Sotto l’istesso parallelo non si potrebbe forse trovare un clima estremamente caldo, ed un clima estremamente freddo, un clima temperato, ed un clima forte? Questa è la terza proposizione che ci siam proposti d’esaminare.

Io mi contento d’illustrarla col fatto. Se la sola posizione d’un paese riguardo al Sole dovesse determinare la natura del suo clima, per calcolarne i gradi del caldo, o del freddo, non si dovrebbe far altro, che osservare il numero de' gradi e de' minuti, che separano il parallelo, sotto il quale è situato, dall’equatore. Quest’operazione sarebbe molto facile; ma il geografo, che la farebbe, non dovrebbe far altro, che salire su d'una montagna vicina, e discendere verso una vicina spiaggia del mare situata precisamente nell'istessa latitudine, per conoscerne la fallacia. Egli troverebbe che, tra dugento paesi situati sotto l’istesso parallelo, appena due o tre potrebbero godere dell’istesso clima: egli troverebbe negli altri delle diversità, più o meno sensibili, a misura che le circostanze locali sarebbero più o meno diverse: egli vi troverebbe anche qualche volta un’opposizione decisiva Sotto l'istesso parallelo, nel quale l’Affrica è bruciante, le Cordeliere del Perù non sono forse sempre coverte ili neve? Tutto il rigore della zona fredda non si diffonde forse nel nuovo mondo sopra la metà di quella che, per la sua posizione, riguardo al Sole, dovrebbe esser temperata? Terra Nuova, una parte della Nuova Scozia e del Canada sono paesi situati nel medesimo parallelo di quello, che passa per la Francia; il paese degli Eskimaux, parte di Labrador, e i paesi situati nella baja meridionale di Hudson sono sotto il medesimo parallelo della gran Brettagna; e nulla di meno, qual distanza infinita traforo climi (151)?

Non è dunque la sola posizione d un paese riguardo al Sole, quella che deve determinarne il clima. Ciò che costituisce la natura del clima d'un paese, è il grado costante di calore o di freddo, che vi regna nell'atmosfera, e questo non dipende solo dalla latitudine, ma può dipendere anche da molte altre circostanze locali, come dall’elevazione dei paese sul mare, dall'estensione dei continente, dalla natura del suolo, dalla vicinanza de' boschi, dall’altezza e posizione delle montagne adiacenti, da' venti che vi spirano con frequenza, e da molte altre simili circostanze (152).

Persuasi dunque della verità delle tre prime proposizioni da me esposte, io vengo alla quarta, che è quella, che più interessa al mio argomento.

Si è detto che, qualunque sia la forza dell’influenza del clima, questa non deve essere trascurata dal legislatore, il quale deve riparare agli effetti del clima, allorché sono perniciosi, deve profittarne, allorché sono utili; deve rispettarli, allorché sono indifferenti. Ecco dove vanno ad unirsi tutte le linee che si sono finora tirate.

Noi abbiam detto (153)) che sebbene il clima non influisca mai sull'uomo come causa assoluta, ma come causa concorrente, nulla di meno i suoi influssi debbono necessariamente agire così sul fisico, come sol morale degli uomini. Il legislatore potrebbe dunque trascurarli?

Si è detto inoltre (154), che l'influenza del clima non è sempre l’istessa; che i suoi influssi si fanno dove più, e dove meno, sentire; che la sua influenza ne' climi forti è molto grande, ne' climi temperati lo è molto meno. Qual diversità dunque deve produrre nel sistema legislativo questa diversa forza del clima? Esaminiamolo.

Riguardo a' climi, la massima generale, che gli estremi si toccano, si avvera. Ne’ climi estremamente caldi, e, ne’ climi estremamente freddi, lo sviluppo delle facoltà morali dell'uomo viene egualmente impedito dal clima. Il calore naturale dell’uomo, come si è osservato (155), essendo sempre in ragione inversa del calore del clima, viene estremamentediminuito ne' climi estremamente caldi, ed estremamente accresciuto ne' climi estremamente freddi.. Queste due cause fisiche opposte producono l’istesso ottetto morale. Siccome esse alterano ugualmente il naturale meccanismo dell’uomo, debbono ugualmente impedire lo sviluppo delle sue facoltà morali, che non possono nell’uomo essere indipendenti dal suo fisico. Il massimo rilassamento delle fibre, il tenuissimo attrito de' fluidi, la lentezza del moto dell’animale, ne' climi estremamente caldi rendono l’uomo d’una estrema debolezza, d’una sensibilità tenuissima, e per conseguenza d'una stupidità grande. Nell’istessa maniera, ne' climi estremamente freddi la massima rigidezza e tensione delle fibre, il massimo attrito de' fluidi, la strettezza somma de' vasi sanguigni, un sangue crasso ed infiammabile, debbono necessariamente produrre il torpore e la stupidezza. Che ne deriva da questo? Ne deriva che gli urti delle leggi debbono essere, tanto ne' climi estremamente caldi, quanto ne' climi estremamente freddi, ugualmente forti per ottenere gli effetti che si desiderano. Ne climi temperati basterà al legislatore di torre gli ostacoli per produrre quel moto politico, che dà vita alle società; ma ne' climi, de' quali si è parlato, non basta torre gli ostacoli, ma vi è bisogno degli urti, e degli urti fortissimi. Grandi premj, grandi minacce, un’educazione più robusta, un’emulazione risvegliata con la massima energia dalle leggi, un’industria animata un solo dalla libertà, i beneficj della quale basterebbero ne' nostri climi temperati per portarla al massimo grado d’attività, ma animata anche dalla munificenza del governo ec. Questi sono i mezzi co’ quali il legislatore può riparare agli effetti del clima, allorché sono perniciosi. Ma vediamo un poco s’egli può qualche volta riparare alla causa istessa.

Si è detto (156), che non è la sola posizione d’un paese riguardo al Sole quella, che ne determina il clima, ma che le circostanze locali vi hanno anche la loro parte. Or queste circostanze locali sono molte volte riparabili. Se esse dipendono dalla multiplicità de' boschi, dal ristagno delle acque, dalla vicinanza delle maremme, o da altre simili cause, la legislazione in questi casi, favorendo la popolazione l'agricoltura, vedrà i boschi tagliati, vedrà asciugatele maremme, vedrà tolti gli impedimenti che trattenevano il corso delle acque, vedrà, in una parola, diminuirsi i rigori del clima, a misura che si sopprimono le cause, che concorrevano ad inasprirlo. Non è questa una vana ed astratta speculazione. Noi ne abbiamo infinite esperienze così nell’antico, come nel nuovo emisfero. L'istoria delle vicende fisiche del nostro globo ci somministra infiniti esempj delle alterazioni locali avvenute ne' climi di molti paesi derivate da' progressi o dalla decadenza della popolazione, e dell'industria de' popoli che l’hanno abitate. La dolcezza del clima d’Italia non si riconosceva più, dopo che i barbari venuti dal Nord la devastarono colle loro armi, coi loro costumi e colle loro leggi. La popolazione, e l’industria degli Olandesi animata dalle loro savie leggi e dalla loro libertà, ha corretti i rigori dell’antico clima de' Batavi. L’istesse cause han prodotti gli stessi effetti in molti paesi della Germania, nell'Inghilterra e nella Pensilvania. Gli eroi che abitano quest’ultima regione, han saputo sottrarsi con ugual gloria così da' rigori del loro clima, che dalle oppressioni della loro antica metropoli Una buona legislazione può dunque qualche volta temperare i rigori del clima, può sempre riparare a' suoi effetti, allorché sono perniciosi; con quanto maggior facilità potrà dunque profittarne allorché son utili?

Ne’ nostri climi temperati, ne' quali la natura, in vece di ritardare, accelera nell'uomo lo sviluppo delle facoltà intellettuali; dove la moderata elasticità dell'aere pare che destini l'uomo che lo respira, a godere del dono esclusivo di spiegare rapidamente tutta la sua attività; dove né la soverchia rigidezza, e tensione delle fibre derivata da un estremo freddo, né il soverchio loro rilassamento derivato dà un estremo caldo, non cagionano la stupidezza, né diminuiscono la sua sensibilità; dove l’energia della voluttà, unita alla robustezza de' corpi, al vigore degli uomini, alla fecondità delle femmine, promuoverebbe infinitamente la popolazione, se le cause morali non rendessero, per cosi dire, inutili gli sforzi favorevoli delle cause fisiche; ne' nostri climi finalmente, ove la dolcezza dell’aere offre all’industria un campo che non ha confini; ove tutte le arti, e tutte le manifatture, cosi quelle che han bisogno dell'aria aperta come quelle che han bisogno del fuoco, cosi quelle, che richieggono il genio come quelle che richieggono la forza negli artefici, tutte possono essere con egual fortuna coltivate; ne' nostri climi temperati, io dico, con qual facilità la legislazione potrebbe ottenere i progressi della popolazione, dell'industria, delle arti, delle manifatture dell'istruzione pubblica? Io l'ho detto: per ottenere queste cose ne' climi estremamente caldi o ne' climi estremamente freddi, vi vogliono degli urti e degli urti fortissimi; per ottenere queste cose ne' climi temperati, per ottenerle, per esempio, nella nostra Italia basterebbe torre gli ostacoli. Sforzi piccoli si richieggono dunque da voi, o felici legislatori di queste felici regioni. E la natura quella che ha spianata la strada, per la quale i vostri popoli possono esser condotti alla prosperità. Sono le vostre leggi quelle che l'han riempiuta di sassi, di bronchi, d"impedimenti vergognosi. Rimettete dunque questa strada nello stato, nel quale la natura l’aveva lasciata, e abbandonate a lei la cura di perfezionare la sua opera.

Ecco come il legislatore può profittare degli effetti del clima, allorché son utili: vediamo ora come debba rispettarli, allorché sono indifferenti.

Tra gli effetti del clima ve ne sono alcuni, che non sono né perniciosi, né utili, ma che sono indifferenti. Contrastare in questi casi colla natura è uno sforzo inutile, che non può produrre mai alcun bene, ma che spesso può cagionare de' disordini molto perniciosi.

Se una specie d’industria, per esempio, se alcune arti, se alcune manifatture sono contrarie al clima d’una nazione, il legislatore, promuovendole, non urterebbe forse in un errore grossolano? Quest’industria, queste arti, queste manifatture ad onta del le leggi non rimarrebbero forse sempre imperfette? Non sarebbero forse sempre poco profittevoli a coloro, che l’esercitano? Le braccia sagrificate a queste occupazioni non potrebbero forse, con maggior profitto degli artefici e dello Stato, essere impiegate a quelle manifatture, a quelle arti, a quella specie d'industria, che il clima soffre e richiede? Non potrebbe la nazione col superfluo di queste, abbondantemente provvedersi di quelle che il clima le nega? Se un’arte ha bisogno di molto fuoco, potrebbe ella esser coltivata con prefìtto in un paese ove il clima è estremamente caloroso? e se ha bisogno dell’aria aperta, potrebbe ella esser esercitata con vantaggio in un paese estremamente freddo? Che dovrebbe dirsi d'un legislatore, che volesse stabilire l’arte de cristalli nel Zanguebar, o un commercio di costruzione di navi sulle spiagge gelate della Lapponia? Troppo lontano, o troppo vicino all'equatore, in un clima molto caldo, o in un clima molto freddo, l'uomo può essere inabile ad alcuni lavori ed a certe occupazioni, nelle quali riuscirebbe con felicità in un clima diverso.

Non omnis fert omnia tellus.

Questo si può dire anche dell'uomo. Opporsi alla natura in questi casi è una bizzarria inutile e perniciosa. Che il legislatore dunque ripari agli effetti del clima, allorché sono perniciosi; che ne prefìtti allorché son utili; che li_rispetti allorché sono indifferenti; e che imiti la politica del legislatore degli Ebrei, il quale proibì di mangiare la carne di porco, i pesci senza squama e senza ali, stabilì alcune lavande purificatone, ordinò l'astinenza ed il digiuno, ma non prescrisse mai l'uso dell'olio ad un popolo che viveva sotto un cielo caloroso, ed in un paese, nel quale il clima rendeva perniciosa questa specie di condimento a' suoi abitatori.

Dal clima io passo all'altr’oggetto fisico del rapporto delle leggi, alla natura del terreno.


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CAPO XV

Quint’oggetto del rapporto delle leggi:

la fertilità, o la sterilità del terreno

I terreni considerati relativamente alla loro fertilità, o sterilità, possono ridursi in tre diverse classi. In quelli ne' quali il suolo dà tutto con picciolissimo soccorso dell'uomo; in quelli, ne' quali la generosità della natura è relativa all'industria di coloro che li coltivano; ed in quelli finalmente che rimangono sempre sterili, quantunque innaffiati dal sudore de loro abitatori. Sotto questi diversi aspetti il legislatore deve considerare il terreno della sua nazione. Nel primo di questi casi, siccome la classe produttiva richiede un picciolo numero di persone, il legislatore può con meno pericolo proteggere le manifatture e le arti, perché in un terreno così fertile la classe de' manifatturieri non sarà mai cosi numerosa da poter togliere alla terra quelle poche braccia, che essa richiede per raccorre i frutti della sua fertilità.

Nel secondo caso al contrario, quando la terra richiede molte braccia per coltivarla, la soverchia moltiplicazione della classe degli artieri, e de' manifatturieri, deve esser prevenuta dalle leggi. Facendo esse l’opposto, e moltiplicando le arti e gli artisti a spese dell'agricoltura, recherebbero un doppio male allo Stato. Esse trascurerebbero i benefici dell'agricoltura, che sono le prime sorgenti della ricchezza delle nazioni, senza per altro giovare alle manifatture, poiché il prezzo caro delle derrate derivato, non dall’eccesso della consumazione, ma dal difetto della produzione, senza giovare a' proprietarj dovrebbe necessariamente diminuire lo smaltimento delle manifatture, alzando il prezzo de' lavori. Questo fu l'errore del celebre Colbert.

Nella terza supposizione finalmente quando il terreno è così sterile, che non produce niente col maggior soccorso dell’uomo, allora le leggi debbono eccitare all'industria, alle arti, al traffico quelle braccia, che i rifiuti del suolo scoraggiscono, per compensare colle produzioni delle mani l’avarizia della natura. Ecco come Atene divenne il paese dell'abbondanza su le arene del Pirèo: ecco come Tiro e Sidone chiamarono l’opulenza ne' paesi della sterilità: ecco come l'Olanda sotto un cielo tempestoso, e sopra un terreno vacillante ed esposto di continuo agl'insulti del mare, ha innalzata la sua grandezza co’ beneficj dell’industria e del commercio, altrettanto più profittevoli, quando sono uniti a' beneficj della libertà (157). La natura del terrena non è dunque un oggetto da trascurarsi nell'intrapresa de' codici. Non lo è meno la situazione e l'estensione del paese.


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CAPO XVI

Sest‘oggetto del rapporto delle leggi:

la situazione locale, o l’estensione del paese

Se la situazione e l'estensione d’un paese influiscono sul genere proprio dell'industria di quel popolo che l'abita, debbono necessariamente influire anche sui sistema della sua legislazione. Supponiamo, per esempio, che una nazione sia situata su’ lidi del mare; che sia provveduta di canali di comunicazione e di porti; che abbia d'intorno nazioni sprovvedute di arti e di mestieri, e per conseguenza obbligate a ripetere altronde i fratti dell'industria; che l’estensione del suo terreno sia cosi picciola, che non possa supplire a' bisogni de' suoi abitanti; questo Stato avrà allora tutte le apparenze, che possono eccitare un popolo ad essere manifatturiere e commerciante, e le leggi debbono in questo caso secondare i disegni della natura.

Tutte queste circostanze s’incontrarono nell'Olanda, allorché gli abitanti delle Provincie Unite scossero la dominazione Spagnuola, e cominciarono a pensare a' loro interessi. Il mare che bagna questa ibera regione, offeriva loro le produzioni di tutta la terra e la comunicazione coll'universo. La sterilità del suo terreno, la picciolezza della sua estensione, e le acque che ne nascondevano il suolo, nel tempo istesso che facilitavano la comunicazione nell’interno, l’obbligavano a cercare altrove i mezzi della loro sussistenza. L’Europa, nella quale essa occupava un posto così infelice, era ancora nell'ignoranza. La maggior parte delle nazioni che 'l’abitavano, separate dalla guerra e dalla discordia, si contentavano di ciò che loro offeriva un terreno mal coltivato, e un traffico, che non si estendeva più in là de’ limiti di ciascheduna provincia.

Tutto dunque invitava, o per meglio dire, obbligava gli Olandesi a formare un popolo di manifatturieri e di commercianti. Essi viddero nel commercio, che forse per la maggior parte delle nazioni non è che un interesse accessorio, l’unico appoggio della loro libertà, della loro vita, e delta loro sussistenza. Senza terra e senza produzioni, essi si determinarono dunque di far valere quelle degli altri popoli, sicuri che dalla prosperità universale nascerebbe la loro prosperità particolare. La loro educazione, le loro massime di goveruo, tutto il sistema finalmente della loro legislazione fu diretto a quest'unico oggetto, e l’evento ha giustificata la loro condotta. Ma non si trovano da per tutto le istesse disposizioni.

Quando Pietro il Grande, questo Principe che avrebbe fatto più se avesse meno intrapreso, quando Pietro il Grande, io dico, intraprese il gran progetto di eccitare i suoi popoli alle manifatture, alle arti, ed al commercio; quando egli volle creare miri marineria formidabile per facilitare e proteggere questo commercio, non si avvidde, che la situazionee l’estensionedel suo paese si opponevano a questo disegno. Un impero che racchiude, considerato nella sua maggior estensione, uno spazio di duemila e dugento leghe di lunghezza, e di ottocento di larghezza, un impero cosi sprovveduto di uomini che, per calcolo fatto, non può contare che sei uomini per ogni lega quadrata, potrebbe, senza distruggere interamente l'agricoltura, torre tante braccia dalla coltura della terra, per destinarle alle manifatture, alle arti, alla nautica? Ma quando anche la sua popolazione fosse stata proporzionata alla sua estensione, e quando l'una e l'altra avessero potuto permettere questo sagrificio, glielo avrebbe impedito la sua situazione. La Russia ha poche coste: la maggior parte non sono abitate; molte sono inaccessibili: essa è sprovveduta di porti, e quell'istesso di Cronstadt, che serve di porto a Pietroburgo, è uno de' più infelici e de' meno sicuri dell’Europa. I due mari che bagnano questo vasto impero, sono, come si sa, dei meno favorevoli alla navigazione ed al commercio.

Finalmente la sua vicinanza coll'Inghilterra, Coll'Olanda, e co' Danesi doveva far comprendere a questo Principe, che il commercio di proprietàe di produzionedoveva solo convenire a questa gran monarchia, e che conveniva, nelle circostanze, nelle quali erano allora le cose, di lasciare a' suoi vicini quello di trasporto.

La concorrenza era quella che egli doveva promuovere, e quest'è quella che fu trascurata. Si è lasciato per quasi un secolo intero il commercio della Russia tra le mani de' soli Inglesi, che han data la legge, così nelle compì come nelle vendite. La grand'arte consisteva non nel formare una marineria commerciante, ma nell'invitare i Danesi, gli Olandesi, e le nazioni istesse del mezzogiorno a concorrere cogl'Inglesi a questo commercio. La Russia avrebbe allora venduto più e comprato a meno. Ma queste riflessioni non bastarono per distogliere il Czar Pietro dalla sua intrapresa. Egli vidde l'Olanda fiorire sotto gli auspicj della sua marineria. Egli credè di potere ottenere l’istesso fine cogl'istessi mezzi, senza badare alla diversità infinita delle circostanze. Questa funesta ignoranza dell'arte, più interessante per chi governa, dell’arte io dico, di combinare, accompagnò infelicemente l’amministrazione di Pietro il Grande, ciò che la rese più brillante che utile. Ed in fatti, qual vantaggio recò egli a' suoi sudditi. Con tutto il suo genio, con tutti i sudori che sparse, non fece che togliere alcuni piccoli mali, ma mise il suggello a' più grandi. Egli diede alla Russia pittori, statuari, manifatturieri e piloti; ma accrebbe il numero degl’infelici. Egli volle cominciare da quello dove doveva finire: cercò di ripulire la sua nazione, prima di farla uscire dalla miseria; cercò di riformare i co turni, prima di riformare la costituzione: credè finalmente di poter far nascere un popolo d'Olandesi e d’Inglesi in mezzo al dispotismo ed alla feudalità de' Russi.

Ecco perché tutte le sue leggi, il suo zelo, i suoi viaggi non furono utili che per Pietroburgo, ed adornando questa produzione delle sue mani, non fece altroché richiamare alla memoria degli uomini l’idea di quel colosso mostruoso, che aveva una testa doro sopra un busto di fango. Regola generale: bisogna cominciar sempre dal principio, e contrastare, quanto meno si può, colla natura. É per questa ragione appunto, che la situazione, l'estensione del paese, e la natura del suo terreno sono tra ’l numero degli oggetti più interessanti, co’ quali il legislatore deve combinare le sue mire nell’intrapresa d'un nuovo codice.

Ogni piccola differenza in questo genere di cose può produrne una grandissima negl'interessi delle nazioni, e per conseguenza nel sistema della loro legislazione economica.

Nei seguente libro si svilupperanno meglio tutte queste verità, che io non ho fatto qui che accennare, per dedurne i principi generali di questa scienza.

Non vi è cosa' che io tema tanto, quanto il dir troppo. Io rigetto in ogni capo una quantità d’idee che mi si presentano. Questo è un sacrificio che io fo alla sobrietà, virtù necessaria per chi scrive, ma che costa infiniti sforzi per acquistarsi. Tra le altre verità, che io avrei voluto dimostrare in questo capo, e che l’esame del rapporto delle leggi coll'estensione del paese avrebbe resa opportuna all'argomento che ho per le inani, vi era quella della possibilità d’ideare un buon piano di legislazione anche pel più vasto impero della terra.

Un errore, del quale l’autore dello spirito delle leggi è stato forse l'origine, e che da una falsa esperienza ha ricevuta un’apparenza di verità, ha sedotto una gran porzione ne’ moderni politici. Si crede generalmente che i dominj di grand'estensione non sieno suscettibili d'altro governo che del dispotico, e che il problema d’una buona legislazione non sia risolvibile che ne' piccoli stati.

La grand'estensione d’un paese dovrà dunque privarlo di questo beneficio? Dovranno dunque i grand'imperi languire sotto il giogo del dispotismo? Sarà forse vero, che i corpi più grandi in natura sieno i più imperfetti, e che l’arte non possa perfezionare un colosso, come perfeziona una piccola statua?

Quest’opinione sarebbe troppo funesta, troppo rattristante per l’umanità, per non essere oppugnata Ma io lascio all’istitutrice Augusta delle Russie il far ravvedere l’umanità da quest’errore, e il mostrarle col fatto la possibilità di quest’intrapresa. Nel caso che il suo codice non sia per corrispondere all’aspettazione dell’Europa, ed al suo zelo: nel caso che questo sia per somministrare una prova di più in favore dell'opinione di questi politici, io li prego di ricordarsi dell'estensione immensa dell’impero della China, e degli elogj, che essi stessi han fatti della moderazione del suo governo e della saviezza delle sue leggi.


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CAPO XVII

Settimo oggetto del rapporto delle leggi: la Religione del paese

Niun oggetto ha tanto richiamata la cura de' più celebri legislatori della terra, quanto il rapporto delle leggi colla religione del paese.

Nell’infanzia delle nazioni, presso i popoli nascenti, la religione è stata piuttosto un culto, che un aggregato di dogmi. Si erigeva un altare, s'immolava una vittima, si spargevano alcune libazioni per ottenere qualche favore de' Numi, o per placarli, e questo era quello, che si chiamava avere una religione.

Si cominciò quindi a credere che gli Dei dovevano un giorno premiare le virtù, e punire i delitti. Ma l’idea di queste virtù, e di questi delitti, era vaga, e spesso erronea. La religione alle volte ordinava quello che la morale proibiva, e proibiva quello che la morale ordinava. Tra questi contrasti tra la religione e la morale, tra questi errori, tra le nozioni de' delitti e delle virtù, del bene e del male, le leggi dovevano interporsi per sostenere con una mano quello che si urtava colf altra(158).Gli Dei viziosi del paganesimo non potevano sicuramente prescrivere a' mortali una morale, che le loro pretese azioni avrebbero contraddetta, né un culto che non si risentisse delle loro follie e di que’ loro delitti istessi, che la cieca e stupida credulità aveva imparato a venerare insieme co’ sogna ti mostri che gli avevano commessi. Il Greco ed il Romano poteva farsi un dovere di religione di credere agli oracoli o a' sogni, di regolare le sue azioni colle profezie della Pizia, col volo degli uccelli, coll’appetito de' polli sacri, colle osservazioni degli auguri o degli aruspici; ma non poteva sicuramente farsi un dovere di religione d'esser casto, sobrio e moderato. Nel mentre che colui, che aveva rapita la bella Europa, e il giovane Ganimede, era da lui venerato come il padre de' Numi; nel mentre che egli vedeva, che i delitti più vergognosi non avevano impedita l’apoteosi d’alcuni uomini, che egli aveva imparato a venerare come Numi; nel mentre che gli emblemi di Venere, delle Grazie, e degli Amori risvegliavano la sua voluttà, ed accendevano i suoi viziosi desideri; nel mentre che il Dio osceno degli orti, e del vino esigeva il suo culto; nel mentre che la Deaonorata con e guai fanatismo, e con eguale indecenza, in Amatunta, in Citera, in Pafo, a Guido, ed in Italia, pareva che non volesse altro incenso, che quello che si mescolava co’ vapori della voluttà, che non si compiacesse d'altri sacrifici che di quelli del pudore, che non esigesse altro culto che quello delle passioni; in una parola, nel mentre che il credulo politeistasi vedeva circondato da Dei, che proteggevano i suoi vizj e i suoi piaceri, in questo mentre, io dico, i costumi, molto lontano dall’óttenere un soccorso dalla religione, ne ricevevano le più fatali scosse. Il loro unico punto d’appoggio doveva esser la saviezza delle leggi, le quali dovevano riparare i mali che la religione cagionava, senza distruggere la religione istessa, la quale era, riguardo ad altri oggetti, assolutamente necessaria ai buon ordine della società. Non vi vuol molto a vedere quanto dovesse essere diffidi cosa il riuscire in questa intrapresa. Ma non si può dire l’istesso nello stato presente delle cose.

Oggi che nell'Europa si professa una religione divina, una religione, che non altera, ma che perfeziona la morale, che non distrugge, ma che garantisce la società e l’ordine pubblico; che alle minacce delle leggi contro i delitti aggiunge quelle d’un giudice giusto, contro del quale non giovano né le tenebre, né le mura domestiche; una religione che frena e dirige tutte le passioni; che non è gelosa soltanto delle azioni, ma de' desiderj e de' pensieri, che unisce il cittadino al cittadino e 'l suddito al Sovrano; che disarma la mano dell’offeso, nel mentre che ordina al magistrato di vendicare i suoi torti; che prescrive un culto, che ordina alcune pratiche religiose, dalle quali l’uomo è dispensato subito che i bisogni dello Stato lo richieggono; una religione, io dico, di quest'indole non deve molto imbarazzare un legislatore. Basta che egli la garantisca dagl'insulti della miscredenza e della superstizione; basta che egli procuri di conservarla nella sua purezza, purezza che può essere alterata da' suoi nemici, come da' suoi ministri; basta ottener questo per poter tutto sperare dalla religione, e niente temere dai suoi abusi.

Ecco la gran differenza che vi è tra il rapporto delle leggi colle false religioni, ed il rapporto delle leggi colla vera.

I principj che derivano dal primo, debbono essere principi di correzione, e quelli che derivano dal secondo, debbono essere di semplice protezione, di semplice protezione. io dico, giacché tutto quello, che previene gli abusi della religione fra di noi, giova più d’ogni altro alla religione istessa. Un corpo di leggi, per esempio, che limitasse il numero degli ecclesiastici, che cercasse di proporzionarlo ai veri bisogni della religione, che impedisse egualmente a' membri di questo sacro corpo di nuotare nell’opulenza, che d’avvilirsi nelle miserie; che privando una porzione del sacerdozio de fondi e de dominj, che stanno male impiegati tra le sue mani, sottraesse nel tempo istesso l'altra dalla umiliazione d’andar mendicando i mezzi della sua sussistenza, sostituendo, come si osserverà altrove, alle proprietà della prima ed alla mendicità della seconda, uri salario proporzionato alla gerarchia, alle funzioni, agli obblighi di ciaschedun ministro del Santuario; un corpo di leggi di questa natura, prevenendo una gran porzione degli abusi che macchiano la religione, ne sarebbe il più fermo sostegno ed il miglior garante: egli favorirebbe nel tempo istesso il decoro della religione e la prosperità dello stato. Questo è evidente. Quando il numero degli ecclesiastici fosse ristretto, quando fosse proporzionato a' veri bisogni della religione, allora il sacerdozio potrebbe trovare maggior rigidezza di costumi e maggior perfezione ne' suoi individui; allora l’agricoltura, le arti, il commercio conterebbero tante braccia di più, che oggi intruse nel Santuario discreditano la religione, e son di peso allo Stato; allora nella nostra comunione, più che in ogn’altra, ove il celibato è unito al sacerdozio, a misura che si verrebbe a diminuire il numero di coloro che dovrebbero reggere a quest’astinenza, la mensa del Signore si vedrebbe meno macchiata dalle sozzume di coloro che la servono; la pace delle famiglie, e l’onestà coniugale sarebbero meno turbate da' ministri dell’altare, e la popolazione si risentirebbe meno del sacrifizio che essi fanno della loro virilità.

Nella maniera istessa, quando gli ecclesiastici non conoscessero né l’eccesso delle ricchezze in una parte, né l’eccesso della povertà nell’altra, essi non irriterebbero gli uomini col loro fasto, né si richiamerebbero il loro disprezzo colla loro miseria.

Finalmente quando lo Stato intero, e non la privata carità. de' fedeli, provvedesse al loro sostentamento, allora la loro lingua destinata a predicare le verità della religione, e i dogmi della morale, non si degraderebbe col mendicare una sussistenza, che essi hanno un diritto di ripetere dallo Stato che servono; allora la verità, che essi predicano, non essendo più l’esordio d'una richiesta, o il titolo d’una prestazione, lascerebbe di divenire sospetta; allora finalmente l’impostura e la superstizione fuggirebbero lontano dal Santuario, non potendo più divenire una sorgente di ricchezze.

Ecco come dovrebbe esser protetta la religione cristiana; e questi sono i principi generali, che derivano dal rapporto delle leggi colla religione dell’Europa. Per non cadere in ripetizioni inutili io mi riserbo di sviluppare questi, e di esaminare gli altri meno generali principi, nel quinto libro di quest’opera, dove si parlerà delle leggi che riguardano la religione.


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CAPO XVIII

Ottavo oggetto del rapporto delle leggi: la maturità del popolo

Tuttii popoli cominciano dall'esser fanciulli: tutti gli Stati cominciano dall’esser deboli. Essi vacillano per molto tempo intorno alle loro cune, prima d’acquistare bastante forza per abbandonarle. Durante questo tempo, le loro leggi debbono necessariamente risentirsi della loro debolezza e della loro infanzia. L’inconseguenza e la leggerezza di questa età deve necessariamente trasparire a traverso de' loro codici, come si palesa nella loro maniera di pensare, ne' loro usi, ne' loro costumi, nel loro culto.

Essi cominciano quindi ad uscire da questa fanciullezza. Quasi insensibilmente i loro corpi si sviluppano: essi acquistano una giusta estensione. L'effervescenza della pubertà seguita dal vigore della gioventù fa loro tutto intraprendere. L’orgasmo nel quale sono allora tutte le loro fibre, gli obbliga ad agire. Questa è per gli Stati come per gli uomini, l’età delle passioni, de' desiderj, delle speranze, de' pericoli: questa è l’età nella quale o essi soccombono alle loro intraprese, o s’arricchiscono coll’industria, o s’ingrandiscono colle conquiste. Qui comincia la maturità de' popoli, e questo è il tempo della rifazione de' loro codici.

Finché durava la loro fanciullezza, l’infanzia della legislazione era propria dello stato nel quale essi erano. Allorché cominciavano ad agire; allorché l'azione divenne per essi un bisogno; allorché gli avvenimenti interessanti si succedevano colla massima rapidità; allorché l’aspetto della società si cambiava in ogni giorno col cambiamento degli interessi e de' rapporti, coll’acquisto o di nuove provincie, o di nuove sorgenti di ricchezze; durante questo tempo una savia amministrazione doveva supplire al difetto delle leggi; doveva contentarsi di ripararle come poteva, ma doveva aspettare, che la sorte del popolo cominciasse a fissarsi; doveva riserbare ad un tempo di maggior quiete la grande intrapresa di gittare a terra l’antico edificio delle leggi, che nella prima età del popolò era forse opportuno, e che nella seconda non poteva esser che riparato

Questo tempo di maggior quiete, questo tempo, nel quale la sorte d’un popolo comincia a fissarsi; questo tempo, nel quale i veri interessi della nazione si possono conoscere; questo tempo finalmente, nel quale si manifestano a chi governa i materiali proprj per gittare i fondamenti stabili, e durevoli d’una prosperità, che derivata da una serie d’avvenimenti fortunati, non potrebbe, senza di questi, esser che precaria; questo tempo, io dico, è quello che chiamasi maturità d’un popolo. L’epoca dunque della maturità d'un popolo dovrebbe esser quella della rifazione del suo codice.

Quest'epoca è venuta per la maggior parte delle nazioni Europee: ne hanno esse profittato? hanno esse pensato a questa necessaria rifazione?

Ahi! I nostri co lici sono ancora quelli della nostra infanzia. Le leggi che ci dirigevano dieci secoli fa, seguitano ancora a dirigerci. Noi eravamo nella nostra fanciullezza cacciatori e pastori, e noi lo siamo ancora ne' nostri codici (159)). Se si è creduto doversi fare di tempo in tempo alcune addizioni a questi codici, queste nuove leggi si sono fabbricate sul piano delle antiche, dalle quali i nostri governi non hanno ardito d'allontanarsi, e che si lasciano sussistere tutte insieme. A questa raccolta immensa, a questo mosaicodi centomila pietre di diversi colori accozzate senza ordine, e senza proporzioni, si è dato il nome di giurisprudenza.Nel tempo della nostra maturità noi non abbiamo fatto altro che moltiplicare il numero di queste pietre. La massa è cresciuta in volume ed in deformità.

Questi sono i monumenti innalzati alla giustizia presso la maggior parte de' popoli dell'Europa, e questa è l'indifferenza colla quale i loro governi han messo mano al grand’edificio della legislazione. Qual meraviglia dunque che la loro prosperità sia stata cosa precaria, e che la loro maturità sia stata seguita così presto da una decrepitezza che gli avvicina alla morte.

Popoli, non disperate. Il tempo di riparare a questo difetto, di supplire a questa negligenza, non è ancora interamente scorso. Se i vostri governi han lasciato passare la stagione più propria e più opportuna per la vegetazione di questa pianta salutare della legislazione, sappiate che la saviezza, lo zelo ed i talenti di coloro che oggi li compongono, i soccorsi che la filosofia ha loro dati, i libri luminosi che sono comparsi su tutti gli oggetti, che interessano ia felicità pubblica, la prevenzione istessa del volgo contro i disordini che oggi esistono, e contro la giurisprudenza che ci priva di proprietà e di sicurezza, formano un concorso di. circostanze così favorevoli per la rifazione de vostri codici, che non si sarebbero sicuramente incontrate prima di questo tempo. Se i governi vi si determinano, se essi vogliono profittarne, se non isdegneranno di chiamare in soccorso la ragione e i suoi ministri per questo lavoro, le loro ommissioni, la loro antica oscitanza, la perdita d’un tempo più opportuno sarà sicuramente compensata al centuplo: voi non vedrete soltanto la vostra decrepitezza sparire, ma acquisterete col vigore della gioventù la speranza istessa dell'immortalità(160).

Con questo felice augurio io termino questo libro nel quale non ho fatto altro, che sviluppare le regole generali della scienza della legislazione. Sviluppando i principi generali della bontà assoluta delle leggi e della bontà relativaesaminando gli oggetti, che costituiscono questo rapporto, cercando in questi rapportii diversi stati delle nazioni, e per conseguenza la differenza che vi deve essere nel sistema delle loro leggi, io non ho fatto altro che osservare il tutto insieme, e la sola superficie di questo immenso edificio. Approssimiamo ora lo sguardo, volgiamo ora le nostre mire alle parti che lo compongono. In questa nuova ricerca le leggi politiche ed economiche saranno le prime a richiamare la nostra osservazione. Queste saranno l'oggetto del seguente libro.

Fine del Libro Primo

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NOTE

1 La Pramm. 1. de feud, detta comunemente la Filangeria.

2Si trae tutto ciò da varj Diplomi esistenti nell'Archivia della Trinità della Cava, ed in quello del Monistero di s. Sebastiano, come anche dalla celebre Cronaca di Riccardo da s. Germano, e dal Registro di Federigo.

3Un'elegante traduzione italiana del primo libro di Tacito, ed una esattissima traduzione latina di due Orazioni di Demostene, fatte ire quel tempo, le quali si sono trovate tra suoi manoscritti dimostrano quanto valore avesse acquistato nell’intelligenza, e nell'uso dell'una e dell’altra lingua.

4Vedi le Lettere ne' suoi viaggi stranieri di Giacomo Giona Bjoernstachl professore di filosofia in Upsal, scritte al signor Giorwel bibliotecario regio in Stokolm, lett. VIII.

5Il Codice Carolino.

6 Napoli 1774 in 8.° presso Michele Morelli.

7 Ecco alcuni di questi Aforismi tratti da Aristotile.

I. I barbari non han padrone perché son tutti servi. Fra essi non vi è chi sia fatto per. comandar gli altri. La libertà pressa H. di loro é una qualità negativa non positiva.

II. A misura che cresce in una società la libertà civile, si diminuisce la libertà naturale. Nelle società barbare vi è molta indipendenza o sia libertà naturale e poca sicurezza x sia libertà civile. Fi è anche più la libertà naturale del Dispotismo che nella Democrazia, ma in quella la libertà civile è uguale zero ed in questa è tutto.

III. L’uomo è per natura un animale socievole. Il suo istinto lo spinse a convivere co’ suoi simili. Colui che desidera di vivere solo o è un uomo degenerato, o un uomo molto superiore agli altri. Egli è o un mostro, e un Nume.

8 Bacon, Nov. Orig. Part. 2 Aphorism. 36.

9Tacit. Lib. , Hist. parag. 1.

11Napoli 1783, nella Stamperia Raimondiana in 8.

12In Catania 1785. nelle stampe di Francesco Pastore in 8.

13 Napoli 1784 nella stamperie di Amato Cons. 8.

14Lettera dal signor F. Frendenrych in data de' 10 agosto 1784.

15 Napoli 1785 nella stamperia Raimondiana in 8. Questo quarto libro forma il volume V, VI e VII.

16 E’ troppo noto che quando accadde la morte del cavalier Filangieri, avendo alcuni cavalieri di Corte detto in presenza del Re, che si era fatta una perdita gravissima ed irreparabile, S. M, traendo un profondo sospiro, rispose che egli avea più di tutti perduto nella morte immatura di questo degno ed illuminato vassallo, parole, le quali formano l’elogio più grande del cavalier Filangieri, e nell'istesso tempo del cuore e dell'ingegno del nostro Augusto Sovrano, che sa conoscere il vero merito, e sa accordargli il dovuto pregio ed onore. E’ troppo noto eziandio che, oltre ad un'annua pensione, che assegnò subito per lo mantenimento de' figli dell’illustre defunto, S. M. fece sentire all'inconsolabile vedova del medesimo, ch'egli l’assicurava di prendere special cura della loro fortuna, e di aver sempre per essi tutti quei riguardi, che convengono sull’attaccamento ed alla stima, di cui egli onorava il defunto cavaliere. La nostra clementissima Sovrana gli ha ben anche presi sotto la sua particolare e benefica protezione, di cui fa ad essi sperimentare continuamente gli effetti.

17 Mentre quest’elogio era sotto al torchio per la prima edizione, che se ne fece nell'anno 1788, finì di vivere la femmina.

18 Cap. I, II, III. IV.

19 Cap. V.

20 Cap. VI.

21 Cap. I.

22 Cap. II.

23 Cap. III.

24 Cap. IV.

25 Cap. V.

26 Cap. VI.

27 Cap. VII.

28 Cap. VIII.

29 Cap. IX.

30 Cap. X.

31 Cap. XI.

32 Cap. XII.

33 Vol. VI. Cap. XXIV. art. VII.

34 Cap. XXV. Art. V.

35 Non può esprimersi quanto egli evitasse le nuove conoscenze, e quanto amasse di tenersi chiuso tra lo stretto numero de pochi amici suoi. Soffriva una pena sensibilissima, quando i forestieri cercavano di vederlo e di rendergli omaggio.. Egli desiderava, co suoi libri d’illuminare e migliorare soltanto gli uomini, non già ottenerne vane lodi ed applausi.

36 È qui da notare, che quantunque la sua prima produzione letteraria, cioè Riflessioni politiche sull'ultima legge ecc, contenesse grandi vedute, e fosse bastante ad onerare qualsivoglia miglior talento giovanile, pure egli pieno della più grande idea della perfezione, la riguardava come una cosa sfiderà e tentava ritirarne tutte le copie, per distruggerla interamente. Avendogli nel 1783. gli editori Veneziani della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE richiesto il manoscritto di questa operetta per ristamparla, egli non solo non lo mandò ad. essi, ma lo consegnò immantinente alle fiamme.

37Presso Giovanni Vitto.

38Presso Antonio Benucci, e Comp.

39Presso Giuseppe Galeazza.

40Presso Gio. Riscica.

41Il Conte presidente Carli, dopo la lettura del primo e del secondo volume della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE scrisse ad un suo amico: L opera della Legislazione porta seco l'impronta di un'opera classica Io confesso di non aver letto fino ad ora libro alcuno, che possa accostarsi alla verità de' principi, alla concatenazione delle cose, alla giustezza delle osservazioni, alla utilità de' pre celti e delle conseguenze, che indi ne nascono. Fi si aggiunge l’eleganza, e forza dello stile e dell'espressionista libertà filosofica, e la precisione cosi necessaria in opere di tal natura. A primo aspetto credeva, che ci fosse qualche analogia coll'opera di M, Smith, Priucipes de la Législation universelle ma poi ho veduto quanto l'opera di Filangieri sia a questa superiore, e quanto più utile. Questa sarà pregiata e stimata da tutto il mondo; ed io non fo che unire. il mio al sentimento universale.

Il Conte Pietro Ferri gli scrisse in. data de' 29 agosto 1780, che al primo aprire del libro egli aveva dubitato che l'impegno fossa cosi vasto, che difficilmente l'Autore reggerebbe nell'immensa carriera. Ma alla pag. 5$ del primo tomo: ho ascoltata, dice egli, la voce di Ercole, che ha rimbombato sul mio cuore, ed ogni dubbio è svanito. A misura poi, che mi sono avidamente inoltrato nell'interessantissima lettura, sempre più ho sentito, che grandeggiavano le idee, e le primordiali verità luminosamente posavano appoggiate a fatti di una vasta erudizione. Vorrei poterle esprimere e la venerazione, che hanno fatto nascere in me i sublimi suoi lumi, e più ancora l'uso nobile e generoso, ch'ella ne fa in beneficio della società umana.

42 L’Abate Bianchi gli scriveva da Cremona a' 5 maggio 1781 a queste nostre contrade è giunta fino all'entusiasmo la stima che si ha di voi, della vostra degna fatica.

43 Il signor Cremani gli contesta con un'elegante lettera de' 11 giugno 1781. i più vivi sentimenti di stima, e gli manda i due primi volumi della sua opera Criminale, e la Dissertazione del signor Nani suo degno scolare, sugl indizj e loro retto uso ne' processi.

44Ecco come egli scrive ad un suo amico, dopo aver letto i due primi volumi della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE: Io vi assicuro, che pochissimi libri in mia vita mi han cacciato addosso tanto entusiasmo, quanto questi due tomi. Vi ho ritrovato molte idee originali, e le non tali modificate, e scritte originalmente. Certamente del tutto è nuovo l'intreccio, l’ordine, la combinazione; cosicché gli altri, che ne scrissero, sembrano oggimai manovali e scalpellini, ed egli il solo Palladio di sì vasto e bene architettato edificio. Questa è un’opera, che farà epoca nel nostro secolo sì ubertuoso di giornaliera produzioni, e sì scarso di fruttuose e pregiabili. E chi può non ammirarne la chiarezza somma, la discussione sensata, l'acconcia eloquenza, l’oculata circospezione, l'acceso zelo della gloria dei (Sovrani e del bene dei popoli? Né solo vi traluee da capo a fondo lo spirito analitico, e l'intelletto universale e comprenditore, ma eziandio si cuore benfattissimo, che desta in chi legge tacite irresistibili propensioni di giusto affetto, non che di encomio. Iddio Signore gli conceda lunga felice vita, onde non solo compia quest'opera rilevantissima, ma arricchisca la nostra età e la nostra Italia di opere, che la rivendichino dell'ingiusta taccia, che sia spossata ed isterilita la di lei antica fecondità.

45Il presidente Spannocchi in compagnia di molti altri Letterati Italiani, che si trovavano in Milano, pieni tutti di ragionato trasporto ed entusiasmo verso il cavalier Filangieri incaric un giovane pittore, che si rec in Napoli, di voler fare il ritratto di questo illustre filosofo, e preg il Filangieri con varie lettere a far che la sua modestia consentisse a soddisfare tale amichevole brama. Il Filangieri non pot negare ci ad un amico tanto merito, ed il ritratto fu fatto dal giovane pittore, e fu trasmesso in Milano. Esiste tra le lettere scritte da varj uomini illustri al cavalier Filangieri unamorevole lettera in data del 24 luglio 1781, del signor Giuseppe Maria Colle Veneziano di sommo spirito di pari coltura, che fu in Napoli pi temo, e che fece grande amicizia col cavalier Filangieri, in cui d conto al medesimo di un lieto convito di molti amici ammiratori di lui, col quale si celebr larrivo in Milano di quel ritratto, ed il dispiacere di tutti, e spezialmente del senatore Spannocchi che si era dato tanta premura per procurarsi questa compiacenza, nell'averlo trovato molto dissimile dall'originale, del che erasi dovuto stare al giudizio di esso signor Colle, dellabate Bianchi e dellabate Pecchi che lo avevano in Napoli personalmente conosciuto.

46Costui con lettera de' 3 dicembre 1784, ed indi con altre successive lo richiese con somma premura delle notizie storiche della sua vita, per forarne un articolo nella continuazione dell'insigne e vastissimo Dizionario Isterico degli Scrittori dItalia cominciato dal celebre fu conte Mazzuchelli; alla qual continuazione dice in questa lettera il signor conte Tornitane che stava travagliando da pi tempo un valorosissimo scolare dell'istesso Mazucchelli e che, avendo fino a quel punto allestito le notizie di circa 8000. Scrittori, di brieve ne avrebbe cominciata la pubblicazione. Il Cavalier Filangieri ricus per molto tempo di mandare s fatte notizie, ma finalmente le fece distendere da un suo amico e content la brama del conte Tomitano. Queste stesse notizie servirono poi alla compilazione dell'articolo Filandieri messo dal nostro diligentissimo signor Giustiniani nel secondo tomo delle sue emorie istriche degli Scrittori legali del regno di Napoli pubblicate in Napoli nellanno 1787.

47II signor Boullenois de Blezij, gli scrisse da Roma in data dell'8. aprile 1785, che nella lettura della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE gli era surta una riflessione, chegli non sapeva nascodergli, cio che Mois ispirato dalla Divinit ci ha lasciato l'Alpha di tutte le opere che trattano della legislazione, ed il cavalier Filangieri ispirato nellopera sua dall'amore del lumanit che gli ha suggerito la generosa risoluzione dintraprenderla, offre al mondo una produzione, che messa a fine atta a completare una materia cosi necessaria, e pu esser l'Omega dellalfabeto legislativo.

48 Ecco come questo vecchio, ed illustre letterato ne scrisse al signor professore de Felice il 26. dicembre 1783 nel restituirgli il terzo volume della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE: Io vi restituisco il terzo volume dell'eccellente opera del cavalier Filangieri. Questo libro dovrebbe essere il manuale de Principi e de loro Ministri, e la guida di tutti i Legislatori. Esso dovrebbe essere tradotto in tutte le lingue per servire a tutti i popoli. Qual edificio! Tutte le parti saggiamente ordinate formano un’armonia, che mostra l’estensione delle mire del saggio architetto. Io desidererei di avere ancora occhi per tradurlo in Francese: e se io fossi meno vecchio l'desidererei ritornare in Napoli, non per Studiarvi la storia naturale di quel bel paese, ma per vedere quel grand’uomo, e presentargli l’omaggio della mia alta stima, del mio rispetto e della mia ammirazione. L’opera di Montesquieu è quella di un uomo di spirito spesso inesatto, che cammina senza ordine, re con una sola apparenza di metodo, Questa è la produzione di un genio vasto, che ha il coraggio di dir tutto con chiarezza, con forza, con ordine e con precisione.

Ecco come posteriormente egli scrisse allo stesso Filangieri in data del 30 marzo 1784.: Uomo illustre, filosofo rispettabile, amico degli uomini, possiate godere della sola ricompensa degna del vostro nobile cuore, cioè di vedere i Re le Repubbliche, adottando i vostri principi, correggere le loro leggi, per rendere i loro sudditi migliori e più felici. Tra la moltitudine immensa de' savi, che si sono illustrati ne rami diversi del dritto, e della politica in Italia da semplici compilatori, o interpetri, non ve ne ha alcuno, che siasi avvisato di riguardare la Legislazione, come il soggetto d’una scienza che bisognava trovare, creare ed insegnare. Questa gloria era a voi solo riservata. Essa è stata pura, poiché sollevandovi al disopra de' pregiudizi della nascita, della nazione e della religione, voi avete osato sacrificar tutto con coraggio alla verità, che sola deve essere rispettata dal filosofo.

49Questo virtuoso e dottissimo giovane autore di varie opere piene della pi vasta ed interessante filologia. Egli strinse grande amicizia col cavalier Filangieri, allorch fu in Napoli nel 1786, ed oltre varie elegantissime lettere a lui scritte, scrisse a me pure da Coppenaghen in data del 30 agosto 1788 una lettera piena di slanci veramente unghiani, co quali espresse il suo vivo dolore per la morte immatura del. medesimo. Ne ha poi scritto un brevissimo elogio, pieno di sentimento e di alta venerazione nelle due ultime pagine della prefazione, che ha premesso alle sue Memorie Sicule, di cui ha gi pubblicato il primo volume.

50 Scrisse questo grand’uomo nel 178}. alla moglie del cavalier Filangieri. Assicurate il vostro rispettabile sposo della mia più, profonda stima, la quale gli è dovuta da ogni uomo illuminato. Voi dovete essere, 0 signora, ben contenta di possedere l’uomo unico, che disputa con ragione al Montesquieu il posto tra i più savj legislatori.

51Il dottor Franklin gli scrisse agli n. gennaio 1783. da Parigi, contestandogli la più alta ammirazione, non meno sua, che di tutti que’ letterati Francesi per li primi volumi della SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE, e gli mostrò il gran desiderio, che nudriva di veder subito i di lui travagli sulle leggi criminali. Non vi è cosa, egli soggiunse, che abbia a parer mio più bisogno di riforma quanto questa. Sono da per tutto in si gran disordine, e con tale ingiustizia si pongono in esecuzione, che sono stato più volte inclinato a credere, ch'era meno male che tali leggi non esistessero nel mondo, e che la punizione delle ingiurie si fosse abbandonata al risentimento privato.

Continuò indi a scrivergli di tempo in tempo, e fin da Filadelfia non ha tralasciato fino a questi ultimi tempi di chiedergli con lettere amorevole conto dello stato di sua salute, e de' suoi letterari lavori, e sempre più nuovo numero di copie della sua opera immortale, che faceva lo stupore, e l’istruzione di quei liberi cittadini.

52 La stima (scrisse il celebre signor Zimmerman nel suo libro sull'orgoglio nazionale cap. 15) che si accordava a coloro che si distinguevano per il loro spirito, produsse una moltitudine di grandi uomini presso i Greci e presso i Romani. Atene avea situato nel Ceramico le statue de' suoi più illustri cittadini. La Grecia offriva da per tutto agli sguardi consimili monumenti. La loro riputazione inspirava da per tutto a coloro, che amavano la gloria, il desiderio d imitarli. Sembrava che le tombe si aprissero, e le ombre de defunti ritornassero sulla terra per insegnare alla gioventù nella lingua de' Numi la strada del bello, del nobile e del grande: ed essa dovea certamente infiammarsi dell'amor della gloria, allorché in alcune cerimonie solenni volgeva gli sguardi sulle immagini de suoi maggiori Una nazione non giunge mai con tanto ardore all'amore delle scienze a della virtù, che quando essa considera con nobile orgoglio i grandi. esempi di coloro che si sono distinti nel suo seno Ogni popolo dunque non solo deve la sua stima agli uomini, che l hanno illuminato; ma deve ben anche onorare le loro immagini e celebrare la loro memoria. In questa guisa tutti i cuori bruceranno di desiderio di uguagliarli.

53In Vico Equense furono celebrati i funerali da quel reverendo Capitolo il di 24 luglio 1788 prima di dar sepoltura al cadavere, ed in essi fu recitata una brieve Orazione funebre dal Canonico D. Vincenzo Staiano.

Il degnissimo monsignor Tafuri Vescovo di Cava, che ammirò le virtù del cavalier Filangieri nel tempo della dimora ivi fatta dal medesimo, ne volle celebrare colla maggior pompa possibile nella sua chiesa cattedrale i solenni funerali officj il 26 agosto 1788. Fu recitato in tale occasione un eloquente e degno Elogio funebre dal dottissimo D. Niccolo Carlucci vicario generale della diocesi di Cava, uno de più stretti amici del defunto, il quale Elogio insieme coll'eleganti iscrizioni del canonico curato D, Bernardo Gagliardi fu pubblicato indi per le stampe di Pietro Perger ed ha meritamente riportato un applauso universale.

54 Di queste alcune sono state finora impresse, ed altre partecipate manoscritte allammirazione di pochi. Io ne ricorder le principali. Un Epicedio in elegantissimi versi sciolti, scritto dal nostro virtuoso concittadino e profondo filosofo D. Francesco Mario Pagano avvocato e regio professore di diritto criminale, uno de' pi cari ed intimi amici del cavalier Filangieri, impresso per il Raimondi in 8; unepistola in versi sciolti diretta a me dal coltissimo nostro poeta e filosofo D. Antonio erocades anche carissimo amico del defunto, intitolata la Gloria del Saggio, presso lo stesso Raimondi, ed una prosa eloquentissima, e piena de' pi cari tratti di sensibilit e di amicizia del chiarissimo D. Domenico Cirillo pubblico professore di medicina nella nostra Universit e celebratissimo medico de' giorni nostri, parimente grande amico de! Filangieri, produzione, della quale il pubblico a ragione avidissimo, e spera di esserne tra poco dal degno Autore soddisfatto.

Meriterebbero del pari la pubblica luce un brieve, ma dotto Elogio scritto dall’avvocato D. Giacinto Bellina, un’elegante prosa del giovane avvocato D. Vincenzio Marulli de' duchi di Ascoli; e varie poesie composte in sì funesto rincontro da molli Autori, tra i quali si sono grandemente distinti il cavalier D. Giuseppe Pagliuca, il cavaliere Giuseppe Spiriti, l’avvocato D. Francesco Santangelo, il pubblico professore di matematica nella città dì. Salerno D. Gennaro Fiore, e i due giovani di somma espettazione D. Alessandro Petrucci, e D. Matteo Galdi.

55 Si quis piorum manibus locus, si, ni sapientibus placet non cum corpore extinguuntur magnae animae, placide quiescas, nosque, domum tuam ab infirmo desiderio, et muliebribus lamentis ad contemplationem virtutum tuarum voces, quas neque lugeri, neque plangi fai est: admiratione te potius, immortalibus laudibus et, si natura suppeditet, similitudine decoremus, Tacit. de Vit. Cn. Jul. Agric. cap. XLVI.

56Il principio della legislazione si pu calcolare dall'anno 303 di Roma, allorch furono emanatele Leggi delle XII Tavole.

57Omero dice che Giove toglie la met dello spirito ad un uomo nel giorno che lo fa schiavo Iliade.

58 Ruggiero Bacone.

59 Machiavelli.

60Su questo tuono è lavorata la celebre orazione del Vescovo di Aix, pronunciata alla presenza di Luigi XVI nel giorno della sua coronazione a Reims.

61Rara temporum felicitate, ubi sentire quae velis, et quae sentias dicere licet. Tacit. hist. Lib. I.

62 Cicer. Or. pro Murena.

63 vero che presso molte nazioni nel progresso del tempo si estese anche alla moglie il diritto di cercare il divorzio; ma le cause per le quali esse potevano cercarlo, a gli ostacoli che vi si opposero, furono tanti e tali, che quasi eludevano i beneficio della legge. Basta leggere la novella 11 cap. i5. e la novella 117. cap. 8. cap. 15. e cap. 14. per vedere quanto fosse difficile presso i Romani, e quanto doveva. costare alle mogli il cercare il divorzio, e quanto facile dalla parte del marito Tutto questo si osservera suo luogo.

64Autor della natura avendo destinato luomo a con vivere co suoi simili, ha variati i desiderj e le inclinazioni, per impedire che queste venissero a cadere sopra un oggetto che sarebbe unico, la qual cosa moltiplicherebbe i mali che possono turbare la societ: trahit sua quemqu voluptas.

65Nel decorso di questopera si svilupper meglio questa verit riguardo alla Spagna, come si svilupperanno anche meglio quelle verit, che io sono per accennare riguardo alla Francia.

66Plat de Rep.

67Digest, lib. IX. tit II. Leg. 3. ad leg. Aquiliam.

68Debilem et distortum amandabant in locum voragnosum prope Tagetum, quos Apothetas nuncupabant; quasi nec illi ipsi, nec civitati, qui non esset a primordio ad bonum abitum eque ad robur compara tus, expediret vivere. utarco nella vita di Licurgo.

69Nam viro natu grandi ori, cui floreus aetate erat coniux, si quem probum et pudentem adolescentem carum haberet probaretque, ju erat eam huic jungere, et qum impleta esset egregio semine, sibi vindicare partum. Piut. Ivi.

70Exprit da Loix lib. XXVI cap. 4.

71Questa legge nel Codice de' isgoti lib. III. tt 4, . 15.

72Questa legge dArrigo II. che, malgrado i progressi della filosofia, conserva ancora il suo vigore nella Francia somministr unoccasione opportuna alla contessa Dubarr favorita dellultimo defunto Re di questa nazione, di mostrare, forse per la prima volta, alcuni tratti di beneficenza nella persona d'una giovanetta, la quale era stata gi condannata morire, perch incinta da un suo amico, aborti dun fanciullo morto senzave rivelata la sua gravidanza al magistrato. Siccome la sentenza di morte era gi stata confermala dal Parlamento, e la delinquente era vicina ad essere appiccata, un moschettiero nero chiamato M. de Mandeville, mosso da un sentimento di compassione implor la protezione della favorita, prevedendo che questo delitto non dovea per niun riguardo inorridirla. Levento giustific la sa condotta. La contessa Dubarr, commossa dal racconto del moschettiero, scrisse la seguente lettera al Cancelliere, la quale ci fa vedere quanto sia grande leloquenza che nasce dal cuore. Io la riporto qui fedelmente.

Signore. Io non conosco le vostre leggi, ma so benissimo che queste sono ingiuste e barbare: esse sono contrarie alla politica, alla ragione ed all’umanità se fanno appiccare un’infelice donzella, che si è abortita d'un fanciullo morto, sena' aver dichiarata la sua gravidanza. Dal memoriale, che qui vi acchiudo, saprete che questo è il caso della supplicante.

“Pare che ella non sia condannata, se non per avere ignorata la legge, o per averla violata per un effetto del pudore il più ragionevole. Io rimetto l’esame dell’affare alla vostra equità, ma quest’infelice merita qualche indulgenza. Io vi chieggo almeno una commutazione di pena. La vostra sensibilità vi detterà il resto. Io ho l’onore etc,,

Questi sentimenti di verità, quantunque proferiti da un’anima poco avvezza a dirla, e che spesso la faceva immolare dal suo Principe sull’altare del piacere, non lasciarono di fare la più grande impressione nell’animo del Cancelliere, il quale facendo riesaminare l’affare, fece assolvere la delinquente. Non è per altro da credere, che l’avvocato della fanciulla avesse trascurato di rilevare l’istesse verità, ma l’eloquenza della favorita era più propria a persuadere il Cancelliere che quella dell’avvocato. Or chi potrà proibirmi, dopo questo racconto, un sentimento di compassione per la sorte d'una nazione, dove un segreto ispirato dal pudore naturale è punito di morte, e dove una semplice lettera di una favorita basta per far rivocare una sentenza confermata da un Parlamento intero? La pena e l’assoluzione mi rivoltano egualmente.

73 Samuel Petito, leggi Attiche lib. VI. de Connubiis Tit. v. de puerorum amoribus, et productione, et scortis.

74 Leggasi Plutarco nella vita di Solone.

75 Spirito delle Leggi lib. XXIII.

76Se questa generosit non si usa coi pirati delle coste dellAffrica, questo deriva perch con costoro lo stato di guerra perpetuo.

77Le leggi delle XII. tavole dando a' padri un diritto il, limitato su i figli davano loro anche quello di venderli. Leggasi Gotofred. in frag. ad LL. 12. tab. lib. . tab. 4. Queste vendite furono quindi condannate con leggi corretene delle antiche tavole. Leggasi la legge abdcatio C. de Patr. potest. Ma finalmente dopo qualche tempo si stabili che leccezione della Necessit rendesse legittime queste vendite. Leggasi la legge 2.C. parib. qui filios etc.

78In Atene si commetteva unaltra barbarie. Vi era un tribunale espresso per esaminare la nascita de' cittadini. Se alcuno si trovava non essere legittimo cio non esser nato da legittimo coniugio era privato della libert e venduto coma fervo. Leggasi PotieroArchaeologiae Graecas lib. . cap. IX.

79La vendita della propria libertà era valida presso i Romani, allorché un uomo libero, mascherando la sua condizione, si faceva vendere da un mentito padrone: renum se dari passus est. Leggasi la legge liberi 3: §. Si quis minor, ff. de liberal caus.

80La barbarie di rendere il debitore insolvibile schiavo del creditore non stata ispirata dalle sole leggi delle XII. tavole. Questa inumana istituzione ha avuto vigore presso la maggior parte de' popoli dellantichit. Gli Ateniesi, per quel che ce ne dice Plutarco nella vita di Solone, avevano adottata, e i Germani per quel che ce ne dice Tacito (de morib. German.) adottarono anchessi malgrado il loro trasporto per la libert. Ma non si ritrova, che nelle sole leggi delle XII. tavole legittimato latto pi atroce che l'umana ferocia abbia potuto inventare. Se vi sono pi creditori, dicono esse, che questi taglino in pezzi il debitore. Se essi tagliano pi o meno, che questo si faccia senza frode. Se loro piace, lo vendano al di l del Tevere. At si plures erunt, rei (queste sono l'espresse parole della legge) tertiis nundinis partes secanto. Si plus minusve secuerint, sine fraude esto. Si volent, ultra Tiberin peregre venumdanto.

Il tempo, nascondendoci tanti bei regolamenti che si trovavano in queste leggi, ci ha funestamente conservato questo frammento, ch’è uno de' monumenti più vergognosi della ferocia degli uomini e della stranezza da' loro Legislatori. Io non ignoro che il celebre Binchersoeck ed altri moderni Giureconsulti han dato un senso diverso dalla lettera a questo frammento. Ma io trovo che Quintiliano (Instit. Orat. lib. cap. 6.) e molti altri scrittori antichi han preso il testo di questa legge nel suo senso naturale. Io veggo in Aulo Gellio (Notti attiche lib. 20. cap. 1.) un Filosofo che la condanna, ad un Giureconsulto che l’approva, e né l’uno ne l’altro vi suppongono la menoma allegoria. Io veggo finalmente Tertulliano che vi si scaglia contro, mostrando l’imperfezione delle romane Leggi (Tertull. Apologet. Cap. 4) In ragion di prossimità l'opinione degli antichi deve prevalere.

81La cerimonia colla quale il debitore insolvibile dichiarala cessione de' suoi beni presso di noi, pi atta a muovere il riso che la compassione. Si conduce il debitore vii ino ad una colonna a questufficio destinata; egli!abbraccia nel mentre che un araldo grida cedo bona, ed un altro gli alza le vesti, e palesa agli spettatori le sue natiche. Finita questa cerimonia, il debitore messo in libert.

82 Nec totani liberta tem, noe totani servitatem pati possunt. Tacito.

83La corona trionfale era anche di lauro, ma questa non si dava che al Generale, che aveva data qualche battaglia, o conquistata qualche provincia. Questa era la pi onorevole, e forse per maggiormente distinguerla dalla corona di lauro, he si dava a chi aveva trattata la pace cogl'inimici, che era meno desiderata, il console Claudio Pulcro nellanno 56 di Roma introdusse luso dindorare il cerchio della orona.

84Nino pi di Lock ha conosciuta questa verit. Egli ne era cos persuaso che, destinato ad essere il legislature della arolina, volle che dopo cento anni si fosse cambiata la sua legislazione. Cos pensano i legislatori filosofi

85Leggasi il trattato di etito tutte leggi Attiche, e Legibus lib. 1.it. i. Legum recensio.

86Leggasi Poluce Lib. VII, cap. , Stefano Bizantino nella voce vitata, e leggasi ci che amuele Petit istesso ci dice del giuramento che si dava da' iudici in Atene, e particolarmente di ci che si comprendeva nel giuramento liastico. Si chiamava con questo nome, perch coloro che lo davano, allorch dovevano esercitare gli oficj del loro ministero, dovevano riunirsi in un luogo a cielo scoverto esposto al sole.

87Il Witena-gemot degli Anglo-Sassoni era il consiglio de' Savj di Venezia Questo era una specie di Senato, dove si esaminavano le leggi che si dovevano proporre alla grande assemblea della Nazione.

88Ecco perch Omero lo chiama E'nnrosdios mgal o ari, Novennali Legislator Supremi Numinis. Plut. in Min.

89Erodoto lib 4. n. 94 e 9

90Eliano, Var. Hist. lib. 2. cap. 37. e lib. 13. cap. 24.

91Plut. nella vita di Licurgo.

92 Gravina de Origine Juris Civilis lib. 1. cap. XXIX.

93Ciascheduna citt ha mandato i suoi Deputati, e questi Deputati debbono aver parte al nuovo codice.

94Federigo re di Prussia.

95Si avverta che la Magistratura che io propongo, non dovrebbe essere che consultiva. Essa lederebbe altrimenti la principale prerogativa della facolt legislativa.

96Le leggi Orchia, Fannia, Didia, Licinia.

97Queste istesse verit si troveranno sviluppate in un piccolo libro da me scritto pochi anni fa, che ha per titolo Riflessioni Politiche su l'ultima legge del Re, che riguarda la riforma nell'amministrazione della giustizia.

98 Eschin. in Ctesiphontem, Potter: Archaeologiae Graecae lib. 1. cap. XXVI.

99Leggasi Samuele Petito nel trattato delle leggi Attiche, Lib. 1. de Legib. Tit. I. legum recentio. Questo stabilimento fu di Solone.

100 L’indivisibile verità mi obbliga a seguire qui, riguardo 'alle repubbliche, alcuni de' principi adottati da Montesquieu, stabiliti prima di lui da molti altri Politici.

101In Atene la cittadinanza non si poteva dare che dal popolo intero, e questa doveva esser ratificata da una seconda assemblea, nella quale dovevano almeno intervenir seimila cittadini (Orat. in Neaeram falso Demostheni tributa). Non ba stava esser nato nella repubblica per esser cittadino. Bisognava che uno de due genitori almeno fosse cittadino, e che tutti due fossero liberi. L'adozione poteva anche dare la cittadinanza, quando il padre adottatore era cittadino. Si sa con qual religione si conservava, e si rivedeva dal Prefetto di ogni quartiere il lhxiarcikon grammateion, o sia il libro che conteneva i nomi del cittadini. Si sa anche quanto spaventevole fosse per gli Ateniesi l'accusa detta ths xeniaj, cio dell'estraneit. Questa cadeva sopra quelli, che si avevano arrogati i diritti di cittadinanza. Se l'accusa costava, il reo era annoverato tra la classe de' servi, e come tale venduto - Leggasi Polluce lib. VIII. e Pottero Archaeologiae Graecae lib. cap IX. Sigonio ci dice che la principale funzione di alcuni Magistrati chiamati ubrijodikai era d'istruirsi in ogni mese del nome de figli de' peregrini, per evitare che fossero ascritti alle pubbliche tavole. Leggasi pi d'ogni altro il trattato di Petito sulle leggi Attiche lib. 1. de Legib. tit. dir. de civibus ab origini bus, et adscitiiis.

102Cicerone lib. I e III. de legib.

103Dionisio dAlice masso nell'Elogio et Isocrate

104 Le leggi degli Ateniesi non trascurarono alcuno di questi oggetti. Veggasi Petito nelle leggi Attiche lib. III. de senatu Quingentorum, et Concione tit. 3 de Oratoribns.

105In Atene si distinguevano i magistrati detti eirotonhtai, cio creati per suffragi da' clhrtoi cio eletti per sorte Pottero Archaeologiae Graecae lib. I. cap. XI.

106Tijbai kathgorein, leggasi lorazione di Demostee de falsa legatione, ed Eschino nellorazione contro Cteifante.

107Da quel che si detto si pu facilmente dedurre che una perfetta democrazia non pu aver luogo che in un picciolissimo stato. Se la repubblica singrandisce, se dopo d'essere stata una citt, diventa una nazione, allora o bisogna interamente mutare la costituzione, o bisogna ricorrere alla rappresentazione. Ciascheduna citt, ciaschedun villaggio deve nominare i suoi rappresentanti, i quali eserciteranno il potere legislativo in nome del popolo, che non potrebbe pi unirsi come prima.

Allorché le città dell’Italia furono incorporate alla cittadinanza di Roma, allorché i cittadini di queste città avevano anche il diritto del suffragio, il tumulto che, dopo quest’epoca, accompagnò l’elezioni e le deliberazioni popolari, l’impossibilità di distinguere colui che aveva il diritto di dare la sua voce, da colui che non l’aveva, e tutti gli altri disordini, che nacquero da questa incorporazione, somministrarono, come si sa, a Mario, a Siila, a Pompeo, a Cesare l’occasione opportuna per distruggere la libertà della patria, e per rovesciare la repubblica. Vedi Appiano de bell. Civil. lib. I Vel. leo Patercolo lib. 2. cap. 15. 16. 17.

108La legge, dalla quale ha avuto origine quest'uso in Genova, è anche molto più giusta e mollo più adattata alla natura di questo governo. Essa stabilisce che in ogni anno si debba prendere una famiglia dalla classe del popolo per incorporarla a quella de' nobili. Ci è anche l'alternativa stabilita da questa legge tra le famiglie plebee della città e della riviera. Questa legge però non si osserva in tutta la sua estensione. La scelta non è più annuale, né si fa senza il denaro, e senza un gran merito.

109 Egli volle che tutti que’ cittadini, che aveano duemila dramme, non fossero esclusi dal diritto del suffragio. Diodoro lib. XVIIII.

110 Non vi è governo più vizioso di quello, ove l’autorità è divisa, senza che niuna potestà dello stato sappia precisamente il grado, che se le appartiene. Questo era lo stato deplorabile degli Svezzesi prima del governo di Gustavo Va sa. Le pretensioni opposte del Re, del sacerdozio, della nobiltà, delle città, de' cittadini, formavano una specie di caos, che avrebbe cento volte cagionata la rovina del regno, se i popoli vicini non fossero stati immersi nella medesima barbarie. Gustavo Vasa, riunendo nella sua persona una gran parte di questi diversi poteri, strascinò il governo nel dispotismo, ma gli Svezzesi furono meno infelici sotto il dispotismo di Gustavo, che sotto l’antica anarchia.

111Se in Roma vi fosse stata questa magistratura, il Decemvirato non sarebbe stato onnipotente, la consolare, e la tribunica potest non si sarebbero soppresse; durante il governo di questi dieci legislatori, non si sarebbe tolto lappello al popolo, non si sarebbe sospeso il corso delle altre magistrature, e Appio Claudio, e i suoi compagni, non avrebbero fatto impallidire nel tempo istesso il senato i nobili, e la plebe.

112Esprit ds Loix lib. 11. cap. II.

113Ricordiamoci di ci che avvenne sotto la dittatura di Quinzio Cincinnato, e della memorabile azione del suo luogotenente Servilio Ahala. Livio de. 1. lib. IV. Cap. VIII.

114Purch la guerra o l'affare, pel quale era stato no minato, terminasse prima de sei mesi; giacch la maggior du rata di questa magistratura non poteva essere pi di sei me si, scorso il qual tempo il Dittatore doveva disfarsi del suo potere. Se l'affare terminava prima de sei mesi, egli si dimetteva da se stesso; ma questa abdicazione era volontaria, non derivava dalla legge. Ecco quello, che ha dato origine all'opinione d'alcuni Istorici e Politici, i quali credono di vedere nella dittatura una carica spaventevole, giacch, dicono essi, la sua durata dipendeva dalla volont di colui che ne era in vestito. Ma essi han confusa la libert, che il Dittatore ave va di restare nella sua carica, finch non erano scorsi i sei mesi, col supposto diritto di non poterne essere rimosso scorso questo tempo. Per ricredersene, basta che si legga Dionisio d'Alicarnasso lib. . p, 331., Dione Cassio lib. XXXVI p. 18 B. Ma per confutare in tutto l'opinione di questi Politici, io mi fo un dovere di rapportare le parole della leg. 2. 18. ff de orig. juris: Populo deinde aucto, cum crebra orirentur bella, et quaedam acriora a finitimis inferrentur, interdum, re exigente, placuit majoris potestatis magistratum constitui: itaque Dictatores proditi sunt, a quibus nec provocandi jus fuit, et quibus etiam capitis animadversio da sa est: hunc Magistratum, quoniam summam potestatem habebat, non erat fas ultra sextum mensem retinere.

Da queste ultime parole si vede chiaramente che non era in potere del Dittatore di non deporre la carica, giacché que sta spirava co' sei mesi stabiliti dalla legge. Qualche volta il Senato prolungò questa durata fino ad un anno, come fece nella persona di Camillo, per quel che ce ne dice Livio lib. VI. t. r. e Plutarco in Cammillo p. 144 E. Cosi non avesse introdotto mai quest’abuso pernicioso. La prolungazione degl’ìmperj, dice Machiavelli, fece serva Roma. Machiavelli, discorsi sulla prima deca di Livio lib. III. cap. XXIV.

115Sila fu il primo a render la dittatura continua, e Cesare a renderla perpetua nellistessa persona. Ma questa fu unusurpazione, e non lesercizio dun diritto che le leggi espressamente negarono alla dittatura. Ed in fatti, da che si rovesci questo stabilimento, non vi fu pi libert nella repubblica. Leggasi Lipsio Comm. in lib.. Annalium Tacil. p. 1. num. 3.

116Mamerco Dittatore la restrinse a diciotto mesi. Leggasi Machiavelli, discorsi sulla prima deca di Livio lib. 1. cap. XLIX.

117Leggasi Aristotile nella Politica lib. 11. cap. . Le eggi d'Atene imitarono in certa maniera il sistema de' Cretei. Esse permettevano ad ogni cittadino duccidere colui, che avesse attentato contro la libert della repubblica esercitando qualche magistratura. Petito, leggi Attiche lib. III. de Senatu Quingentorum, et Concioni. Tit. u. de Magistratibus.

118Polibio Lib. VI. dice, che la miglior forma di governo quella, nella quale si riuniscono tutte le tre forme dei governi semplici e moderati. Ma determinando egli lidea di questa specie di governo, egli chiama con questo nome il governo, che stabil Licurgo in Sparta. Dopo aver accennati i difetti della monarchia, dellaristocrazia, e della democrazia, egli dice: L’ pronokmenos Luks rgoj, oucaplhn oude monoidhn sunejhsato phn politreian alla pasaj omou sunhfrixe taj aretaj cai taj idiotetaj tùv arijùv moliteumtùn. Avendo prevedute queste cose, Licurgo, egli non istituì una repubblica semplice ed uniforme, ma riunì in una tutte le virtù e le proprietà di ciascheduna delle migliori forme di governo. Ma io domanderei a Polibio, che cosa intendeva egli sotto il nome di democrazia semplice. Forse quella, nella quale il popolo è nel tempo istesso legislatore, magistrato, senato, giudice, condottiere dell'esercito in tempo di guerra? Se questa era secondo lui una semplice democrazia, l’esistenza di questa specie di governo è un impossibile politico. Se egli poi chiamava democrazia semplice quel governo, nel quale il poter sovrano è tra le mani del popolo, quello nel quale il popolo fra le leggi, crea i magistrati, forma un senato de' più rispettabili cittadini, sceglie uno o più capi, che debbono dirigerlo negli affari della guerra, o perpetua quest'onore nell’istessa famiglia, in questo caso il governo di Sparta era una semplice democrazia, e non un governo misto. I due Re, quantunque ereditar), non avevano alcuna autorità in Sparta in tempo di pace. Nella guerra istessa essi dovevano dipendere da un Consiglio, che si procurava di formare de' loro maggiori inimici. Arist. de Rep. lib. 2. p. 331. Ciò che si face? va dal senato, i suoi decreti istessi, non avevan vigore, se non erano approvati dal popolo. Dove è dunque la monarchia, dove l’aristocrazia?

Polibio dunque fa l'elogio della democrazia di Sparta, e non del governo misto in generale.

Nell'istesso errore urtò il Segretario Fiorentino. Leggansi i suoi Discorsi sulla prima deca di Liv. Lib. I. Cap. II.

119 Scelti dal popolo per un dato tempo, o sostituiti dopo questo tempo altri rappresentanti scelti nella maniera istessa dal popolo.

120La legge ha dovuto, dice Blackston, considerare in Inghilterra il Re indipendente nelesercizio delle due facolt a lui affidate, altrimenti sparirebbe da questo governo la parte monarchica. Veggasi la sua opra de' Comentarj sulle legge di Inghilterra. Noi osserveremo ne!decorso di questo capo, come la legge istessa ha saputo riparie a questa indipendenza senza distruggerla.

121Blackston T. . Cap. III. p 555. 354; 555. Si osservi ohe questo scrittore celebre il pi grande Apologista della costituzione del suo paese.

122Blackston ivi.

123Blackston ivi.

124Allorch Augusto ristabil l'autorit dal senato, egli vidde che il suo grande oggetto doveva essere il poter disporre di quest'assemblea e non l'indebolirla. Tutto intento a nascondere in mezzo alle nubi il suo onnipotente trono: tutto intento ad involare allo sguardo de' suoi sudditi l'irresistibile sua forza, egli volle comparire il ministro del senato, e lesecutore de' suoi supremi decreti, i quali per altro venivano da lui medesimo dettati. Molto lontano dal vedere in quest'assemblea un ostacolo alle sue mire, ed un contrappeso alla sua autorit, egli vi trov il sostegno della sua segreta onnipotenza e lo scudo della sua sicurezza. Persuadiamoci: non ci dispotismo peggiore di quello che nascosto sotto il velo della libert. Osservisi Gravina Romano Imperio.

125 Statuto 13. d’Arrigo VIII. Cap. 9.

126 Nessuno Stato si può ordinare dice Machiavelli, che sia stabile, se non è o vero principato, o vera repubblica; perché tutti i governi, posti intra questi due, sono defettivi. La ragione è chiarissima, perché il principato ha solo, una via alla sua risoluzione,, h quale è a scendere verso la repubblica; e così la repubblica ha solo una via da risolversi, la quale è salire verso il principato. Gli Stati di mezzo hanno due vie, potendo salire verso il principato e scendere verso la repubblica, d’onde nasce la loro instabilità. Leggasi il suo Discorso sopra la riforma dello Staio di Firenze fatto ad istanza di Leone X.

127Blackstan ivi p. 387. 388.

128Blackston ivi. Questo stabilimento unito alla soppressione della camera Stellata, assicura in una certa maniera in Inghilterra il vigore e limpero delle leggi. La camera Stellata, a differenza degli altri tribunali, che no riconoscono per legge altro che la comune legge, o sia la legge immemorabile, e gli atti del parlamento, riconosceva le proclamazioni particolari del consiglio del Re, e ne faceva il motivo de suoi giudizi. Finch questa pianta esotica allignava nella costituzione rittanica, la protezione della legge non bastava a garantire linnocenza del cittadino.

129Biackston ivi T. . p. 251. 252. Io non so come questo giureconsulto possa vedere in questi stabilimenti i baloardi inespugnabili della libert della sua nazione. Per quel che riguarda i pensionisti del Re, questo ha luogo per quelli che sono compresi nella lista civile. Ma come si potrebbero evitare i pensionisti occulti? La loro amovibilit non un vincolo di pi, che unisce colui, ce lottiene, col ministero? Finalmente la camera bassa sempre piena di persone in cariche, le quali tutte sono dipendenti dal Principe. Le cariche eccettuate sono mollo poche in confronto di quelle, che non lo sono.

130Il Re può creare quanti Lordi vuole: leggasi Blackston T. 1. p, 227.

131Il Re ha il diritto esclusivo di nominare a tutti i Vescovadi: leggasi Blackston ivi p. 405. 406.

132 Non sarebbe questo contrario alla costituzione, giacché qui non si tratta d’esercitare la facoltà legislativa, nella quale il Principe deve aver parte, come uno de' tre corpi che compongono l’assemblea.

133Secondo la legge fatta sotto Arrigo VI i cittadini che possono dare il loro suffragio nellelezione de' rappresentanti del popolo, debbono possedere un fondo di terra di due lire sterline di rendita. Chi sa lo stato presente dellInghilterra persuaso, che venti lire sterline neppure bastano per non far conoscere ad un privato cittadino lindigenza in questo paese.

134Per assicurare il vigore e la durata di questo interessantissimo stabilimento, bisognerebbe introdurre una nuova formula di giuramento, colla quale ciascheduno membro del parlamento, nell'apertura che se ne fa, promettesse di non proporre n di dar mi il suo voto in favore di tutto quel che pu riguardare la revocazione di questa legge; e bisognerebbe fare un piccolo codice a parte delle vere leggi fondamentali che determinassero la vera natura della costituzione, i diritti e i limiti dellautorit di ciascheduno de tre corpi, e non ammettessero nterpetrazione, n ambiguit. In questo codice vi dovrebbero essere soltanto le vere leggi fondamentali, non gi quelle alle quali abusivamente si dato questo nome.

135o non ho parlato del diritto di tassare, o dimporre nuovi dazj, o d accordare de' sussidj. La natura istessa della costituzione d questo diritto al congresso che rappresenta la sovranit, e non gli si potrebbe togliere senza distruggerla. Ma da quel che si detto si pu vedere, che questo Palladio della libert de' governi misti inutile, finch i vizj, de' quali si parlato, non saranno da una savia legislazione riparati. Lo stato presente de' dazj della gran Brettagna ne una incontrastabile prova. Che importa al Re di non poter imporre nuovi dazj, n tassare i suoi sudditi, quando ha il mezzo da farli imporre e tassare dal parlamento, come e quando egli vuole?

136I componenti della giurisprudenza Anglicana sono i seguenti; 1. Il diritto combinato degli Anglo-Sassoni e de Danesi raccolto da Eduardo il Confessore, e aumentato da Guglielmo il Conquistatore, e questo ci che si chiama diritto comune; 2. Le decisioni parlamentarie, e queste van comprese sotto il nome di statuti; 3. Le carte delle citt, che si chiamano diritto particolare; 4. Le leggi forestiali, 5. Le militari, le quali non han vigore, che in tempo di guerra; 6. Il diritto Romano seguito nella corte dellAmmiragliato; 7. Il diritto Canonico seguito dal Clero in tutto ci che non ripugna allautorit del Re, ed alle leggi del regno.

Da questo, che si è detto, si può vedere, che la giurisprudenza Anglicana non ha che cedere in confusione, ed in moltiplicità a quella del resto dell’Europa.

137Elvezio de lHomme etc. Sez. IV. Cap. XI. La mltiplicit degli scrittori, che han confutato il sistema di Montesquieu, induce a stabilire qui il mio, senza pensare a contrastare il suo.

138 Noi abbiamo nell’istoria delle nazioni barbare, cho vennero a devastare l’Europa, un monumento troppo vivo della degenerazione de' Romani. Allorché noi vogliamo insultare un inimico, dice Luitprando, e dargli un nome odioso, noi lo chiamiamo Romano, Hoc solo id est quidquid luxuriae, quidquid mendacii, immo quidquid vitiorum est comprehendens Luitprand presso Murat. Script, Ital Vol. 2. part. 1. p. A. VI.

139o non nego che anche in que governi, ne' quali lamor del potere spinge i cittadini al vizio, non vi possano essere alcuni uomini dabbene, che preferiscano le occulte delizie della virt allambiziosa voglia di dominare col soccorso de' vizj. Nel mentre che Catilina coi suoi furiosi complici condannava a morte colui, che avesse ardito di proferire da Romano il dolce nome della patria, Tito Labieno fu un cittadino, un uomo da bene, ed un eroe: e nel mentre che Cesare sulle rovine della libert gittava i fondamenti della pi dura tirannia, Catone parl al popolo, Catone fugg in Utica, Catone si uccise colle proprie mani per non vedere la sua patria priva della primiera libert. Ma simili eccezioni non possono distruggere una regola generale, poich non solo due, ma cento cittadini da bene, sono un infinitamente picciolo, rapporto ad un pubblico intero depravato e corrotto.

140Chiedendo il popolo che i plebei fossero anche ammessi al consolato, fu stabilito, per placarlo, che si creassero quattro Tribuni con potest consolare, i quali potessero essere cosi plebei come nobili. Allorch si venne allelezione di questi Tribuni, furono tutti e quattro presi dalla classe de' nobili. Onde Livio dice: Quorum comitiorum eventus docuit alios animos in contentione libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina in incorrupto judicio esse. E troppo noto lespediente preso da Pacurio Calano in Capua per prevenire la sedizione, che era per iscoppiare in questa citt contro il Senato. Machiavelli, dopo aver minutamente descritto questo avvenimento, ne deduce una gran verit; che se il popolo. inganna qualche volta nel generale, non singanna mai nel particolare; che egli pesa colla vera bilancia i meriti di coloro a' quali vuol confidare qualche carica, e che rare volte inganna nel giudizio che fa delle persone. Leggansi i suoi Discorsi sulla prima deca di Livio lib. . cap. 48.

141 Scnof. pag. 691. edizione di Wechelie dell’anno 1596.

142Per quel che riguarda i governi misti, io rimando il lettore allantecedente capo, ove si fatto vedere come le leggi potrebbero interessare i cittadini al bene pubblico colla direzione di questo universale principio d'azione.

143Egli voleva, che le dipinture, che si consacravano ne' tempj degli Dei, fossero fatte in un solo giorno, e non ne accordava che cinque agli scultori per costruire un tumulo. Plat. de Repub. Per persuadersi del consenso degli antichi riguardo a' funesti effetti delle ricchezze, leggasi Plutarco nella vita di Pericle, e Seneca nelle sue lettere 8, 17, 10, 94, e 115.

144La loro buona fede si ritrova lodata anche dagli Storici dellantichit. Giustino lib. XLIV. cap. . loda la loro fedelt nel conservare i depositi.

145Non sarebbe questa la prima volta, che le leggi lasciano al genio ed al carattere del popolo il far le veci della loro sanzione. oi sappiamo che i Rmani per molto tempo non ebbero leggi particolari contro il peculato; e quando questo delitto cominci a comparire in Roma, fu creduto cos infamante, che la semplice restituzione di ci, che si era preso, fu considerata come una gran pena. Leggasi ci, che dice Livio di L. Scipione lib. XXXVIII. Platone (de legibus lib. XII) dice, che Radamanto, che governava un popolo pieno di religione non esigeva per prova che il giuramento.

146Anche il Machiavelli parla dell'influenza del clima sul fsico, e sul morale de' popoli in varj luoghi delle sue opere.

147 Septentrionales populos, dice egli nel lib. 5. cap. 1, vi et armis subditos fere in officio conterene: australes religioni ac huminis metu; ceteros aequitate, et imperio rationis.

148Nellanno 1774.

149Essais Moraux Essai24 leggasi Esprit di Elvezio in tutta lopera, e particolarmente nel discorso III

150Niuno più d’Ippocrate conobbe questa verità. Mi piace di riportare qui un tratto di questo scrittore celebre, per far vedere quanto i miei principi sieno a' suoi analoghi. Esaminando egli i motivi, pe’ quali quasi tutti i popoli dell’Asia odiano la guerra, egli non ne esclude, è vero, il clima, ma ne attribuisce principalmente la cagione alla natura del loro governo. Dopo aver accennati i motivi fisici, egli dice: Propter quas sane caussas imbelle universum Asianorum genus exsistit, atque adhuc amplius propter leges. Maxima enim Asiae pars sub regibus est Ubi autem non in sua potestate vivunt homines, neque sui iuris sunt, sed dominis subjecti, ibi non multum curiosi sunt, quo modo se ad bellum apparent, imo magis hoc curant, ut ne bellicosi videantur. Pericula enim eis non aequalia instant. Nam hi in militiam proſicisci, laboresque perferre, ac mortem oppetere pro dominis suis coguntur, relictis interim domi liberis, uxoribus, ac reliquis ami cis: atque si quidem viriliter et feliciter bellum gesserint, dominis inde commoda accedunt, eorumque facultates inde augentur, verum ipsis, praeter pericula et caedes, nihil demetitur... At quod quicum que in Asia Graeci, itemque Barbari dominis non subsunt, sed jure suo degunt, sibi ipsisque omnes labores lucrifaciunt, illi bellicosissimi omnium existunt..... Unde bellicosiores quoque Europaei extant, non ob hanc solam causam (allude al clima), sed et propter leges. Non enim regibus obediunt, quemadmodum Asiani. Ubi enim sub regibus vivitur, ibi necesse est homines timidissimos esse, quemadnodum et supra ostendi, Ippocrate de Acribus, aquis et locis: § 39. 40. 41. 54.

151 Roberston Istoria dell’America lib. IV.

152 Vedi Varenio Geographiae generalis Cap. XXVI. Prop. 1.

153 Nella prima proposizione.

154Nella seconda proposizione.

155Nell’esame della seconda proposizione.

156Nella terza proposizione.

157Non si dovranno maravigliare coloro, che leggeranno questo libro, nel vedere la velocit, colla quale io scorro sopra questi oggetti, i quali pare che dovrebbero richiedere un esame pi distinto: ma siccome questi principi dovranno essere sviluppati nel seguente libro di questopera, io non ho voluto far qui altro che accennare le cose pi generali, per dare unidea de' principi che derivano dal rapporto delle leggi, colla natura del terreno.

158Allorch il rispetto per gli antichi usi, o la semplicit, o la superstizione hanno stabilito in una repubblica alcuni mister, o alcune cerimonie, che offendono il pudore, allora, dice Aristotile, (Poli. Lib. III. Cap. XVII la legge de' e permettere, che i padri di famiglia vadano al Tempio a celebrare questi misteri per le loro mogli, e pe loro figli. Svetonio in Augusto cap. XXXI ci dice, che Augusto proib a' giovani deluno e dellaltro sesso, dassistere ad alcune cerimonie notturne, e che ristabilendo le feste Lupercali, proib 'giovani di corrervi nudi. Noi sappiamo finalmente che le leggi, nel tempo istesso che permettevano agli stranieri di onorare Cibele colle Frigie cerimonie, proibivano a' Romani di mscoarvisi ed allorch da' Romani si celebrava questa fsta, tutte le cerimonie indecenti ed oscene erano proscritte.

159 Per poco che si abbia cognizione della presente giurisprudenza, non si prenderà per enfatica questa espressione.

160Io potrei a questo proposito dire, che Demostene disse agli Ateniesi, per indurli a non disperare nellinfelice loro situazione. Ateniesi, disse egli, non disperate, io vi prego, riflettendo sulla vostra sorte presente, per quanto funesta possa questa apparire agli occhi vostri. La causa istessa delle vostre speranze. Non forse la vostra negligenza, e lindifferenza, colla quale si maneggiano da voi gi affari, la causa de' vostri mali? Quest'istesso dunque vi deve incoraggiare, poich se avend operato come si conveniva, le cose fossero nello stato nel quale ora sono, allora si che non vi resterebbe niente da sperare Prùton men oun ouc a fumhton ù andrej A'dhnaioi tois parousi pragmasin ou ei panu fauloj ecein dokei o gar eji ceirijon auton ek tà parelhludotoj crovu tuto proj ta mellota belticon upaecei ti oun eci tuto oti ouden ù andrej A'dhnaioi tùn deontùn pdicuntù u mùu kakoj ta pragmata ecei eppeitdige ei pant aa proshke prattontùn utùj eicen ud’ an elpij hn auta beltiù genestai. Demostene netta prima Filippica. Il pessimo staro della nostra legislazione ci fa vedere, che i mali che soffriamo non sono necessari. Correggiamo le nostre leggi, e noi sarem guariti.


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF














Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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