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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

del Cavaliere

GAETANO FILANGIERI

CONGIUNTA

DEGLI OPUSCOLI SCELTI

VOLUME SECONDO

MILANO
DALLA SOCIETÀ TIPOGR. DE CLASSICI ITALIANI
MDCCCXXII


LIBRO SECONDO CAPO I CAPO II CAPO III CAPO IV CAPO V
CAPO VI CAPO VII CAPO VIII CAPO IX CAPO X CAPO XI
CAPO XII CAPO XIII CAPO XIV CAPO XV CAPO XVI CAPO XVII
CAPO XVIII CAPO XIX CAPO XX CAPO XXI CAPO XXII CAPO XXIII
CAPO XXIV CAPO XXV CAPO XXVI CAPO XXVII CAPO XXVIII CAPO XXIX
CAPO XXX CAPO XXXI CAPO XXXII CAPO XXXIII CAPO XXXIV CAPO XXXV
CAPO XXXVI CAPO XXXVII CAPO XXXVIII NOTE

LIBRO SECONDO

Delle Leggi politiche ed economiche

CAPO I

Delle leggi degli antichi, e particolarmente

de Greci e de' Romani, riguardo alla popolazione.

Due sono, come si è veduto nel piano di quest’opera, gli oggetti delle leggi politiche ed economiche: la popolazione e le ricchezze. Senza uomini non vi è società, e senza mezzi di sussistenza Don vi son uomini. Ognuno vede lo stretto rapporto di questi due oggetti tra loro. Io parlerò, prima d’ognaltro, della popolazione. Fedele a ciò che ho promesso, io comincio questo libro dall'esporre colla maggior brevità ciò che si è pensato dagli antichi legislatori, e particolarmente da Greci e da Romani per incoraggiare la popolazione. Ogni ragione di metodo richiede che, prima di dire quel che si deve fare, si parli di quel che si è fatto. Penetriamo dunque nell'antichità. Dimentichiamoci de' secoli che la dividono da noi, ed erigiamoci in censori di ciò che si è pensato, è operato presso le nazioni più culti per la moltiplicazione della specie.

Presso tutte le nazioni, in tutte l’età, in ogni specie di governo, i legislatori han veduto nella moltiplicità degli uomini un bisogno di

prima necessità Ecco perché la popolazione ha richiamata la prima loro cura. Io non parlo degli Ebrei. E troppo noto in quale abbominio era presso questo popolo il celibato e la sterilità. Era il rispetto per l'opinione pubblica, che obbligava un Ebreo a riprodursi, era il timore dell'infamia che lo costringeva a secondare il voto della natura. In niuna nazione dice il dotto Seldeno (1), il crescite et multiphcamini si è osservato con maggior religione quanta gli Ebrei. Noi leggiamo nelle sacre carte i rapidi progressi della loro popolazione (2). le loro manate dalla sapienza infinita potevano non essere le più ammirabili, riguardo a questo oggetto? Ma lasciamo da parte il popolo d'Israele. le sueleggi son troppo note per obbligarmi a rinnovarne in questo luogo la memoria. Vediamo quello che si è fatto presso le altre nazioni: cominciamo da Persiani.

In ogni anno, dice Strabone, i Re di questa fertile regione propongono premj a que cittadini che daranno più Egli allo Stato (3)). Quest’era, come si può vedere in Erodoto (4), il grand’oggetto delle leggi di questa Dazione. La loro religione istessa, le loro massime di morale, le loro opinioni, tutto contribuiva a questo fine comune. Uno de' dogmi della religione de' Maghi, che era la religione della Persia in quel tempo, insegnava che l’azione più grata alla Divinità era di fare un figlio, di coltivare un campo, di piantare un arbore. Se l’Abate di s. Pietro avesse voluto creare una setta, non avrebbe sicuramente potuto predicare un dogma più utile di questo.

Mi piace di rapportare qui il decimonono articolo del loro Sadder che è il ristretto del celebre ed antico libro del Zenda Vesta: Prendi una moglie nella tua gioventù: questo mondo non è che un passaggio: bisogna che il tuo figlio ti segua, e che la catena degli esseri non sia interrotta. Qual miglior mezzo potevano adoperare i legislatori della Persia per incoraggiare la popolazione, che di chiamare in soccorso la morale, i dogmi, e la religione? Ma se la religione de' Persiani era ammirabile per promuovere la popolazione, quella della maggior parte delle repubbliche della Grecia non lo era meno.

In tutta la Grecia, dice Musonio, non si poteva essere celibe impunemente. le leggi stabilivano mille premj pe padri di famiglia, e la sterilità era punita nell'uno, e nell'altro sesso (5). Siccome era un delitto il disporre della sua vita, così era un delitto di disporre della sua posterità. La legge vedeva egualmente nel suicida, che nel celibe un uomo che abusava de' suoi diritti, un cattivo cittadino, un distruttore della società Bisognava dunque allontanar l’uomo da questo delitto, bisognava animarlo alla virtù opposta. Ecco lo spirito di tutte quelle leggi greche relative al coniugio ed al celibato. L’istoria non ci ha tramandate che quelle degli, Ateniesi, e degli Spartani, che giova qui rapportare (6).

In Atene, dice Dinarco (7), né gli oratori, né i comandanti degl'eserciti potevano essere ammessi al governo della repubblica prima di aver figli; ed in Sparta, per quel che ne dice Eliano (8), bastava aver tre figli per essere esente dell'obbligo di far la guardia, e bastava averne cinque per esser libero da tutt’i pesi della repubblica. Più: siccome nell’una e nell'altra repubblica il celibato era punito, s(1)introdussero alcune formole d’accuse proprie per questo delitto. In Atene, dice Polluce, si chiamava l’accusa dell'agamia o sia del celibato, ed in Sparta all'accusa del celibato vi aggiunsero anche quella della opsigamia e della cacogamia, cioè di coloro che tardi prendevan moglie, o che la prendevan male (9).

L’unione legittima de' due sessi era dunque un dovere presso gli Spartani, un dovere che non bastava solo di soddisfare, ma che bisognava soddisfarlo bene, ed in un tempo opportuno. Tutti gli organi del corpo, quelli particolarmente della generazione, si indeboliscono a misura che l’uomo s’invecchia. Il coniugio di due vecchi è inutile; ma quello d'un vecchio con una giovane, o d'un giovane con una vecchia è doppiamente pernicioso; perché nel primo caso si lascia incolto un campo, che potrebbe essere coltivato, e nel secondo si perdono a fecondare un terreno sterile quelle acque che potrebbero essere con maggior profitto impiegate in un terreno più fertile. Queste riflessioni fecero che gli Spartani alle pene contro l'agamia, aggiugnessero anche quelle dell'opsigamia e della cacogamia, le quali altr’oggetto non avevano che di prevenire questi ed altri simili disordini, che la natura condanna, che il buon ordine civile non soffre, e che le leggi debbono punire (10)).

Ma con quali pene erano puniti questi delitti? le leggi ebbero ricorso all'infamia, rimedio il più opportuno per prevenire i delitti in una repubblica, nella quale i cittadini non hanno ancora imparato a disprezzare I opinione pubblica. La pena de' celibi, dice Plutarco (11), era di essere esclusi da giuochi gimnici, e di dover andar nudi nell'inverno per la piazza pubblica, cantando un inno pieno di derisione per i celchi. Quella poi degli opsigami, cioè di coloro che tardi si ammogliavano, era, per quel che ce ne dice Ateneo (12)), d'esser condotti in un giorno di solennità vicino all’ara, e d’esser quivi battuti dalle donne. L’istoria non ci parla delle pene minacciate contro la cacogamia, ma è da presumersi che non erano meno oltraggiose.

Queste erano le leggi delle due repubbliche dominanti della Grecia, per incoraggiare la popolazione. Quelle dell'altre repubbliche si sono perdute co' secoli. E per altro da credersi che fossero foggiate sull’istesso piano. Molti fatti della storia ce lo fanno congetturare: uno, fra gli altri, rapportato da Diodoro Siculo, ce lo fa vedere chiaramente. Nel mentre che Epaminonda generale de' Tebani, dice quest’istorico, ferito da un colpo mortale era per morire, gli si fa innanzi Pelopida, e gli dice: Amico, tu mori così senza figli? No, rispose, Epaminonda, io ne lascio due: la vittoria di Lenotri, e quella di Mantinea sono i due figli che io lascio alla patria (13)). Felice età, fortunata repubblica, dove la riproduzione è il primo dovere del cittadino, e dove un uomo, che muore senza figli, ha bisogno di due vittorie per lavare questa macchia! (14)).

Dalla Grecia io passo finalmente a Roma. Io relego presso questo popolo le leggi per promuovere la popolazione incominciare con Roma istessa. Io veggo Romolo accordare le maggiori prerogative ai padri di famiglia; dare i maggiori diritti a mariti sulle mogli (15), ed a padri su i figli (16); ed incoraggiare con questo mezzo la popolazione col soccorso dell’amore del potere, che, come altrove si è veduto (17), è il gran principio d’attività in tutti gli uomini, ed in tutte le specie di governo. Io sento Augusto, che dice nella sua aringa riportata da Dione, che ne primi tempi della repubblica i Re, il senato, ed il popolo fecero di continuo regolamenti per determinare i cittadini al matrimonio (18)). Io veggo Numa prendere le migliori misure, affinché la prostituzione, inimica della popolazione, non allignasse in Roma (19)); io lo veggo andare in cerca de' mezzi, per eccitare i figli ad ottener da padri il permesso di ammogliarsi (20), e per allontanarli da sediziosi piaceri della vaga venere, che rendono insopportabile il matrimonio a coloro, che han perduto il gusto a piaceri dell’innocenza. Io veggo quindi ne tempi posteriori stabilita la censura; io veggo i censori scagliarsi di continuo contro il celibato, e favorire la popolazione; io li veggo obbligare i celibi ad una pena pecuniaria chiamata la multa uxoria (21)). Io leggo in Gellio un frammento d'un’orazione di P. Scipione africano Censore, dal quale si rileva con certezza che la censura non si contentava solo di punire il celibato, ma che accordava mille premj a que cittadini che avevano somministrati figli alla repubblica (22). Io veggo i celibi esclusi dalla confidenza pubblica, e per conseguenza privi per legge del diritto di poter esser chiamati in testimonio (23). Io veggo finalmente colla maggior meraviglia ne tempi posteriori l'abbonimento dei Romani pel matrimonio in mezzo a tante leggi, che lo proteggevano, e sotto gli occhi de' censori, che pareva che non avessero altro oggetto che di moltiplicare il numero de' coniugi. Ma a che servono gli urti, quando gli ostacoli sono maggiori? A che servono le leggi, quando i cittadini non sono in istato di profittarne? A che serve la censura, quando la corruzione è universale? Noi sappiamo a qual eccesso era giunto il lusso delle donne Romane, quale era la loro corruzione, quale era il fasto de' loro ornamenti, e quanti erano i ministri della loro voluttà. L'istoria ci ha conservati i lussuosi nomi delle ornatrici, delle vestiplici, de' cinfloni, delle psecadi, delle tessitrici, delle untatrici, e di tanti altri esecri fastosi, che il lusso de' Romani rendeva un oggetto di prima necessità per le donne. Noi sappiamo i progressi che aveva fatti l'incontinenza pubblica in Roma (24)); la moltiplicità de' servi ci è nota; ci sono noti gli sforzi dell'Asia, dell'Africa, e di tutte le provincie per rimpiazzare questa infelice classe li uomini, destinata ad essere l’istrumento, il pascolo, e la vittima del lusso e dell’ozio de' Romani (25)). Noi sappiamo che l'agricoltura languiva nell'Italia (26); che le campagne, abbandonate interamente da cittadini liberi, non erano abitate che da schiavi (27)), e che la terra, irrigata dal sudore di quest’infelici, aveva perduta sotto le loro mani servili la sua antica libertà. Noi sappiamo che le civili discordie, che gli spaventi della tirannia, che i sospetti, i timori e le vendette dell’ambizione, che i contrasti sanguinosi del nascente dispotismo colla moribonda libertà, involavano di continuo una porzione numerosa di cittadini alla patria, e privavano l’altra di sicurezza e di tranquillità (28).

Che potevano produrre i deboli sforzi delle leggi, contro l'azione distruttrice di tutte queste forze combinate? Ed in fatti Cesare (29) ed Augusto, iquali vedevano che la popolazione s’indeboliva di continuo, e che i matrimoni divenivano ogni giorno più rari, vollero, senza per altro distruggere le cause, scemarne gli effetti, ed entrambi s’impegnarono a trovare nuovi urti per indurre i cittadini a quello appunto, che essi più d’ogni altro abborrivano, cioè a divenir padri e mariti.

Essi ristabilirono la censura, e vollero essere essi medesimi censori (30)); ma se un censore può conservare i costumi d’uno Stato, egli non può giammai ristabilirli. Essi fecero diversi regolamenti, ma tutti inutili. Cesare destinò varie ricompense a coloro che avevano molti figli (31). Egli proibì alle donne, che avevano meno di quarantacinque anni, e che non avevano né marito, né figli, di portar giojelli, e di far uso delle lettighe (32), metodo eccellente, dice Montesquieu (33), d’urtare il celibato col soccorso della vanità. Augusto fece anche di più. Egli impose nuove pene a coloro che non erano ammugliati, e accrebbe i premj per coloro che lo erano, e che avevano figli. Ma queste leggi andavano troppo direttamente al loro scopo: esse incontrarono in fatti mille ostacoli. Noi sappiamo che i cavalieri Romani ne cercarono la rivocazione alcuni anni dopo (34) Questa oltraggiosa richiesta diede occasione a quella celebre aringa d’Augusto rapportata da Dione (35), la quale spira da per tutto la gravità d’un censore, e lo stato deplorabile d’una repubblica, che una lenta febbre insensibilmente consuma e distrugge. Quest’aringa è lunghissima. Io non ne riporto qui che le ultime parole. Dopo aver egli dimostrata la necessità della popolazione; dopo aver fatto vedere il bisogno, che vi era de' matrimonj, per supplire alla perdita di quei cittadini che la guerra, le malattie, e le civili discordie toglievano alla patria; dopo aver attribuito alla loro corruzione l'abborrimento ch’essi avevano pel più dolce legame; dopo aver loro rinfacciati i premj, che egli aveva destinati al matrimonio; dopo avere assicurato il suo amore a padri di famiglia, e la parzialità che avrebbe sempre per essi avuta nella distribuzione delle magistrature, si volge quindi a celibi: egli fa vedere il suo imbarazzo nel sapere come debba chiamargli. Voi non siete uomini, dice loro, perché niun segno di virilità apparisce in voi. Molto meno posso chiamarvi Romani, perché dal canto vostro voi fate i maggiori sforzi per distruggere la repubblica. Vi chiamerò io dunque omicidi, giacché voi private lo Stato di quei cittadini che potreste generare? Vi chiamerò io empj, giacche disubbidite al volere de' Numi? Vi chiamerò io sacrileghi, giacche soffrite di buon animo che le immagini e i nomi de' maggiori periscano? Vi chiamerò io perfidi, giacché cercate di desolare la patria, e di privarla di abitatori? Ma tutti questi nomi non basterebbero per dichiararvi per quello che in fatti voi siete... Uscite dunque da questo stato se mi amate, e se non per adularmi, ma per onorarmi mi avete dato il nome di padre, prendetevi una moglie, procreate de' figli: io avrò allora parte a questo beneficio, che voi arrecherete alla patria, e mi renderò con questo mezzo degno di questo nome sublime, (36). Cosi termina questa aringa d’Augusto, dopo della quale egli emanò la celebre legge chiamata col suo nome Giulia, e Papia Poppea dal nome de' consoli d’una parte di quell’anno. La grandezza del male compariva nella loro elezione istessa. Dione ci dice che essi non erano ammogliati, e che non avevano figli (37)).

Io non intraprendo a comentare questa legge né a rapportare i diversi capi da quali ella è composta. Quest’intrapresa mi strascinerebbe fuori del mio soggetto. Io rimando volentieri il lettore alla profondissima opera del celebre Eineccio, che ha illustrata questa legge col soccorso della più vasta erudizione, che si possa desiderare (38). Mi contento solo di dire, che gli sforzi d’Augusto furono inutili, e che i Romani seguitarono ad aborrire il matrimonio, ed i figli, come prima. Questo è quello che voleva dire Tacito, allorché, parlando de' costumi de' Germani, scrisse; Numerum liberorum finire aut quemquam ex adnatis necare flagitium habetur plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges (39). Non si può dubitare, che Tacito in questo luogo voleva alludere al costume de' Romani, i quali, per non incorrere nelle pene minacciate dalla legge Papia Poppea contro coloro che non avevano figli, si ammogliavano, e dopo aver procreato un solo figlio, ripudiavano la loro moglie, o la facevano abortire subito che si avvedevano ch’ella avea concepito Essi aveano trovato questo infame rimedio per eludere quel capo della legge Papia Poppea, che proibiva a coloro che non erano ammogliati, di ricevere alcuna cosa o per eredità, o per legato dagli estranei, e che non ne accordava che la metà a coloro che erano ammogliati, ma che non avean figli (40). Ecco perché Plutarco disse, che i Romani si ammogliavano per esser eredi, non già per aver eredi (41). I premj dunque, e le pene stabilite da Augusto per incoraggiare la popolazione, non giovarono a Roma. II male era superiore a rimedj, e gli ostacoli erano maggiori degli urti. I Germani, come l'abbiamo veduto nel luogo rapportalo di Tacito, senza pene, e senza premj vedevano nel matrimonio il primo dovere dei cittadino, e nella procreazione de' Figli il maggior beneficio del conjugio. I Romani al contrario, quantunque costretti dalle leggi, abbonavano l’uno, e temevano gli altri, (42).

Qual giudizio faremo dunque noi di queste leggi d’Augusto? Furono esse le migliori? Non può mai dirsi buona una legge, quando non è atta a produrre l’effetto che il legislatore vuol conseguire; e l’inutilità non è stata mai una circostanza indifferente per una legge. Che se il giudicare dagli effetti è un cattivo sistema, questa regola può aver luogo in tutt'altro, fuorché nella legislazione. Ecco perché, dopo aver io esposto ciò, che si è pensato dagli antichi legislatori per animare la popolazione, per giudicare quindi dello stato presente della legislazione riguardo a quest’oggetto, per vedere se le leggi presenti dell’Europa, che riguardano la popolazione, sieno le più proprie per accrescere il numero degli uomini, io ricorro agli effetti. Per formare dunque questo giudizio, io mi propongo di esaminare, se oggi l'Europa sia così popolala come potrebbe essere.

Questa ricerca molto interessante per la scienza della legislazione, sarà l’oggetto del seguente capo.


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CAPO II

Stato presente della popolazione di Europa

Io non entro qui ad esaminare la questione celebre agitata da tanti scrittori, se l'Europa sia stata in altri tempi molto più popolata di quel che oggi lo è. Malgrado il soccorso, che presterebbe alle mie mire l'opinione di coloro, che si son dichiarati in favore della maggior popolazione dell’antichità, nulla di meno la buona fede, della quale io fo professione, non mi permette di tradire il mio sentimento riguardo a quest'oggetto. Per poco che si faccia uso della buona critica, leggendo i loro scritti, si vedrà facilmente quanto sieno fallaci i dati, su quali essi appoggiano i loro calcoli chimerici. Quelli del Torsio, e del Pipali a e ristuccano ogni lettore di buon senso. Se questi due Scrittori, quanto eruditi, altrettanto poco filosofi, e poco sinceri, avessero ottenuta una procura ad defendendum dall'antichità, non avrebbero potuto dimenticarsi così vergognosamente di tutte le regole della critica, né tanto abusare dell'istoria come han fatto, mossi solo dallo spirito di sistema, e da quella mania così comune a filologi, ed agli oratori, di far pompa de' loro talenti nell’intrapresa d’una cattiva causa.

Dopo i lumi, che il celebre Hume ha sparsi sopra questo soggetto (43)), non è più da mettersi in dubbio che, malgrado la diminuzione che ha ricevuta nel particolare la popolazione in alcune regioni dell'Europa, nulla di meno nei tutto essa è piuttosto cresciuta, che diminuita.

Ma è essa nello stato, nel quale potrebbe, e nel quale dovrebbe essere? Ecco un'altra questione molto più interessante della prima, molto più facile a risolversi, ma che ci conduce al alcuni risultati pericolosi per chi gli enuncia, ed umilianti per coloro, che ne sono le caute.

L'indizio più sicuro dello stato delta popolazione d’un paese, è senza dubbio lo stato della sua agricoltura (44)). Se questa per esempio è molto lontana da quel grado di perfezione, al quale avrebbe potuto pervenire, se una porzione del territorio di questo paese non è coltivata, e l’altra, pel difetto di coltura, non produce quello che potrebbe produrre, se maremme micidiali, che si avrebbe potuto diseccare, nascondono una parte del suo suolo; se molti boschi inutili non si sono recisi; se terreni ubertosi, che potrebbero esser coverti ii spighe, sono, per mancanza di coltura, condannati ad offrire ad una languida pastura le loro erbe selvaggie; se, in una parola, si osserva che gli abitanti di questo paese esigono dalla natura molto meno di quello, che essa potrebbe offrire alla loro industria, senza andare in cerca dell'enumerazioni, de' calcoli ed altre vane congetture, si può asserire con certezza, che la sua popolazione è molto indietro. Questa verità è tosi chiara, è cosi evidente, che sarebbe una stranezza l’impegnarsi a dimostrarla. Stabiliamoladunque come un dato sicuro, e gettiamo quindi un’occhiata Filosofica sullo stato dell’Europa.

Quale è, io domando, quella nazione Europea, che possa gloriarsi d’aver portata, non dico al massimo grado di perfezione, ma alla semplice mediocrità la sua agricoltura? Qual è quella che non vegga una metà, o una terza parte almeno de' suoi terreni o incolti, o coverti da boschi inutili, o da acque ristagnanti, o da pascoli superflui?Qual è quel popolo in Europa che possa dire cogl industriosi Chinesi, la terra che noi abitiamo, è tutta impiegata a provvedere alla nostra sussistenza? Noi non dividiamo colle fiere i suoi prodotti preziosi: il riso, che è il primo nostro alimento, cuopre tutta la superficie del nostro vasto Impero; le acque de' fiumi sono i piani su quali noi innalziamo, quando ci è permesso, le nostre mobili abitazioni; Noi abbiam costruiti su di esse i nostri villaggi nuotanti, per non defraudare la coltura di quella porzione di terra, che occuperebbero le case (45); gli alberi, che altrove si ammucchiano gli uni su degli altri, e che coprono i terreni più fertili, sono da noi con una savia economia distribuiti in que luoghi, che sarebbero disadatti ad ogni altra produzione; la terra, che in altre parti si lascia in ozio, è costretta dai nostri sforzi vigorosi a darci i suoi doni tre volte ogni anno; la generosità della natura, in una parola, è proporzionata alla moltiplicità delle braccia che noi impieghiamo a soccorrerla, Ahi! che, molto lontano dal potere usare un simile linguaggio i popoli dell'Europa, (se noi n’eccettuiamo qualche piccolo Stato dell'Italia, se noi n eccettuiamo alcune poche repubbliche, il territorio delle quali è cosi piccolo, che non si può mettere neppure a calcolo) noi non dobbiamo far altro che allontanarci dalle capitali de' nostri grandi Stati, dove una gran consumazione anima la coltura delle vicine terre, per vedere, a misura che da esse ci di scosti amo, lo spettacolo funesto della sterilità.

Lo stato dunque dell’agricoltura dell’Europa ci assicura dello stato infelice della sua popolazione.

Qual è la conseguenza che noi dobbiamo dedurre da questa riflessione? Noi dobbiamo dedurre, che la legislazione è difettosa nell’Europa, giacché, come si è detto, in politica bisogna sempre dagli effetti giudicare del merito delle cause. Nel corso ordinario delle cose la natura umana tende a moltiplicarsi prodigiosamente. Sempre che un uomo ha di che alimentare senza stento una moglie ed una famiglia, egli seconda il voto della natura. Il piacere di perpetuarsi nella sua posterità, e la condizione delle nozze, è così seducente che, a meno che non vi sia l’impossibilità di supplirne a bisogni, ogni cittadino vi viene guidato dalla medesima natura. Questa è una verità, che alcune mani maestre bau dimostrata fino all'evidenza (46), e che l'esperienza di tutti i secoli ha resa incontrastabile. In ogni stato dunque, ove, senza uno straordinario flagello del cielo, la popolazione non si aumenta, o si aumenta lentamente, cioè, non colla proporzione della naturale fecondità, couvien dire, che vi sia tanto difetto di politica, quanta è la distanza da quel che è a quel che potrebbe essere (47). Che si paragoni nell’Europa il minierò degli ammogliati col numero de' celibi, e si giudichi quindi da questo solo calcolo quali sieno i difetti della nostra politica, e i vizj distruttori della presente legislazione. I nostri legislatori han conosciuto il male; ma ne hanno essi conosciute le cause, ne hanno essi trovati i rimedj?Che si è fitto fin ora, che si fa tuttavia per curarlo? Quello che fa un medico allorché, non conoscendo i causi del male, vuole impedirne gli effetti Si stabiliscono alcuni premj al matrimonio ed alla paternità; si danno alcune tenui esenzioni a quei cittadini che han «lato un certo numero di figli allo Stato; si privano d'alcune prerogative i celibi, e si lasciano intanto sussistere gli ostacoli, che impediscono alla maggior parte degli uomini di prendere tutti moglie e divenir padri. Questo è l'istesso che innaffiare il terreno senza seminarlo.

Togliete gli ostacoli, e non vi curate degli urti o de' premj. La natura ha dato un sufficiente premio al matrimonio per aver bisogno d’altri soccorsi. Che il Principe, dice Plinio, non dia niente, ma che non tolga niente; che egli non nudrisca, ma che non uccida; ed i figli nasceranno da per tutto (48)). In vece dunque di pensare a premj, alle ricompense, agli urti, la scienza della legislazione deve rivolgersi agli ostacoli. Essa deve esaminare quali sono gl’impedimenti che si oppongono a progressi della popolazione, e quali sono i mezzi che si debbono impiegare per toglierli o per superarli. A questi due oggetti si deve ridurre tutta quella parte di questa scienza, che riguarda la moltiplicazione della specie. Per andar con ordine in questa ricerca, premettiamo qui un principio generale, che è stato adottato come un assioma da tutti gli scrittori economici e politici del secolo: Tutto quello che tende a render difficile la sussistenza; tende a diminuire la popolazione.


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CAPO III

Picciolo numero di proprietarj; immenso numero

di non proprietarj: primo ostacolo alla popolazione (49)))

La proprietà è quella che genera il cittadino, ed il suolo è quello che l'unisce alla patria. Un cittadino che vive alla giornata, abbonisce il matrimonio, perché teme i figli. Un proprietario desidera l'uno e gli altri: ogni nuovo braccio è per lui un beneficio della Previdenza, e la dolce speranza di acquistare un soccorso per la sua vecchiezza, ed un erede della sua proprietà, eccita in lui il vivo desiderio di procreare una robusta prole. Ci vorrebbe poco per dimostrare coll'istoria di tutte le nazioni, e coll’esperienza di tutti i secoli questa verità. Ma io non voglio allontanarmi da principi che si sono premessi. Si è detto, che tutto quello che tende a render più difficile la sussistenza, tende anche a diminuire la popolazione. Or il picciolo numero dei possessori, e l'immenso numero de' non possessori deve necessariamente produrre questo effetto. Io lo dimostro.

Osservate lo stato di tutte le nazioni, leggete il gran libro delle società, voi le troverete divise in due partiti irreconciliabili. I proprietarj. e i non proprietari, 0 sia i mercenari: sono queste due classi di cittadini infelicemente inimiche tra loro. Invano i moralisti han cercato di stabilire un trattato di pace fra queste due condizioni diverse: il proprietario cercherà sempre di comprare dal mercenario la sua opera al minor prezzo possibile, e questi cercherà sempre di vendergliela al maggior prezzo che può. In questo negoziato quale delle due classi succumberà? Questo è evidente: la più numerosa. E qual è la più numerosa? Per la disgrazia comune dell'Europa, per un difetto enorme di legislazione, la classe de' proprietarj non è che un infinitamente picciolo, relativamente a quella de' mercenari Or da questa funesta sproporzione deriva il difetto della sussistenza nella maggior parte de' cittadini, che son quelli che compongono la classe de' mercenarj. La concorrenza, che nasce dalla loro moltitudine deve necessariamente avvilire il prezzo delle loro opere Essa l’avvilisce in fatti. Quindici, o al più venti grana, sono il prezzo ordinario, col quale si paga presso di noi il lavoro d’un giorno intero d’un agricoltore, il quale non trova da lavorare che in alcuni mesi dell'anno. Questo prezzo si può sicuramente scemare d’un terzo, perché, per lo meno, in una terza parte dell’anno egli non trova da impiegare le sue braccia. Andate ora a supplire a bisogni d una famiglia con dieci o dodici soldi per giorno.

Ecco la causa della miseria della maggior parte; ecco il difetto della sussistenza nella classe de' non proprietarj; ecco quello che toglie alla maggior parta de' cittadini il desiderio, la speranza, e i mezzi di riprodursi col soccorso d’un legame incompatibile colla miseria, e funesto allorché la produce e l’accresce.

Che non mi si opponga, io prego, il fatto e l’esperienza. É la facilità di parlare, e l'impotenza d esaminare, dice Montesquieu, che han fatto dire ad alcuni, che più i cittadini sono poveri in uno Stato, più le famiglie sono numerose. Coloro, che non hanno assolutamente. niente, come i mendicanti, ha uno molti figli: io lo concedo. Ma questo deriva, perché essi sono nel caso de' popoli nascenti: non costa niente al padre d’insegnare la sua arte a suoi figli, i quali nascendo sono gl’istrumenti di quest’arte istessa. Ma per coloro, che non sono poveri, se non perché privi di proprietà, se l’opera delle loro mani, avvilita dalla concorrenza, non somministra loro quello che si richiede pel mantenimento d’una famiglia, costoro, io dico, daranno pochi figli allo Stato. Essi non hanno neppure il loro nudrimento: come potrebbero essi pensare a dividerlo? Essi non posson curarsi nelle loro malattie; come potrebbero mai allevare i loro fanciulli che sono in una malattia perpetua qual è l’infanzia?

Abbandonate le capitali, dirà taluno, penetrate Dell'interno delle provincia, osservate i paesi soggetti al dominio feudale, dove per lo più il Barone è il solo proprietario de' terreni: voi vedrete in questi la maggior parte degli uomini costretti a ripetere la loro sussistenza da una tenue e giornaliera mercede, che li condanna alla più spaventevole miseria. Voi vedrete l’indigenza dipinta nel loro volto, voi la vedrete nel loro letto istesso. Ma voi troverete raro volte questo Ietto riscaldato da un solo. Ciascheduno di questi infelici vuol avere una compagna alle sue pene, e cerca di compensar cogl’innocenti piaceri della natura l’irritante molestia della sua miseria. Ma io domando a quest’ostinato partigiano della povertà: se i matrimonj fossero in questi paesi cosi frequenti, non dovrebbe forse la loro popolazione crescere in ogni giorno? Da che deriva che, a misura che noi ci allontaniamo dalle capitali, noi troviamo la desolazione nelle campagne? Da che deriva, che la loro popolazione, invece di crescere, si vede sensibilmente diminuire? Bisogna dunque dire o che il fatto non è vero, o che i figli, che nascono da quest’infelici coniugi, periscono nell’aurora istessa de' loro giorni, o che il germe fecondatore è sterile, allorché è inaridito dalla miseria.

Ritorniamo dunque al nostro assunto. Io credo d’aver bastantemente dimostrato, come il picciolo numero de' proprietarj, e l’immenso numero de' non proprietarj, e come la grande improporzione, che nell’Europa si osserva fra queste due classi di cittadini, deve necessariamente produrre nella più numerosa il difetto della sussistenza, e per conseguenza della popolazione. Vediamo ora quel che si è pensato da legislatori più celebri per prevenire questo male: vediamo quello che converrebbe oggi di fare.

Tutte le società han cominciato dalla distribuzione delle terre. le leggi agrarie sono state sempre le prime leggi de' popoli nascenti. Il prim'oggetto di queste leggi è stato di assegnare a ciaschedun cittadino una egual porzione di terreno; il secondo è stato di procurare che questa distribuzione ricevesse la minore possibile alterazione. Per ottenere questo fine Moisè ordinò la restituzione de' fondi in ciaschedun anno del giubileo (50)). Un Ebreo non poteva spogliarsi della sua proprietà in perpetuum. La vendita de' fondi non poteva farsi che ad tempus. L'anno del giubileo era il termine di questo tempo, che la legge non permetteva d'oltrepassare. Il compratore era allora obbligato di restituire il fondo al venditore, o alla sua famiglia. Questa legge si estendeva anche a tutte le specie di donazioni che riguardavano i fondi. Di questo mezzo si servì Moisè per impedire che il numero de' non proprietarj crescesse molto nella sua nazione, e che le sostanze di molti ai riunissero nelle mani di pochi.

Non si può dubitare che questo istesso fosse l'oggetto di quelle leggi degli Ateniesi, che proibivano a cittadini di testare (51); che prescrivevano che l’eredità paterna si dividesse per uguali porzioni tra i figli (52); che non permettevano all’istessa persona di succedere a due eredità (53); che permettevano di sposare la sorella consanguinea e non l’uterina (54); e che obbligavano il più prossimo parente per parte di padre a sposare l’ereditiera (55).

Licurgo fece anche di più. Egli proibì le doti: egli volle che tutti i figli partecipassero egualmente alla porzione del loro padre, e che i beni di colui, che moriva senza figli, si distribuissero a coloro che ne avevano più (56)).

I Germani, per quel che ce ne dice Tacito, distrussero sino la proprietà, per moltiplicare il numero de' possessori de' fondi. La nazione, che era l’unico proprietario perpetuo di questi fondi, li distribuiva in ogni anno a padri di famiglia. La ripartizione si ripeteva in ogni anno, per proporzionarla al numero de' cittadini, che poteva crescere o diminuire, ed all’estensione del territorio, che per i popoli guerrieri è soggetto alle giornaliere vicende (57)).

Io veggo finalmente l’istess’oggetto nelle leggi, che riguardavano le successioni ne primi tempi di Roma. I primi legislatori di questo popolo conobbero il bisogno, che vi era, di moltiplicare in una nazione il numero de' proprietarj, e di conservarlo. Per ottenere il primo fine, essi assegnarono a ciascheduno cittadino una porzione di terra: per ottenere il secondo, essi ne regolarono le successioni: essi vollero che non vi fossero che due specie di eredi stabiliti dalla legge; i figli, e tutti i discendenti che vivevano sotto la patria potestà, che si chiamavano eredi suoi} ed in mancanza di questi, i più stretti parénti per parte di maschio che si chiamavano agnati (58). I cognati, o sia i parenti per parte di femmina, non potevano succedere, perché questi avrebbero trasportati i beni in un’altra famiglia.

Per l'istessa ragione la legge non permetteva ai figli di succedere alle madri, né alle madri di succedere a figli. I beni della madre andavano agli agnati della madre, e i beni de' figli andavano agli agnati de' figli (59)). Per l’istessa ragione finalmente i nipoti per parte di figlio succedevano all'avo, e i nipoti per parte di figlia non gli succedevano (60). Questo sembrerà forse strano. Ma Futilità pubblica era l’unico oggetto della legge, e l'utilità pubblica richiedeva che la proprietà restasse nelle famiglie, e che il numero de' proprietarj non si diminuisse (61).

Per moltiplicarle poi, furono fatte le leggi agrarie. Si sa, che queste regolavano la distribuzione delle terre de' vinti. Una metà era venduta in beneficio della repubblica, e l’altra metà la legge voleva che si distribuisse a più poveri cittadini.

Quest’è quello che si è pensato da primi legislatori degli uomini, per impedire che il numero dei non proprietarj si moltiplicasse troppo in una nazione. Ma questi rimedj sono utili per prevenire il ma le, ma non giovano allorché il male è di già fatto. La restituzione, per esempio, de' fondi prescritta da Moisè, nello stato presente delle cose, in vece di diminuire il numero de' non proprietarj, l’accrescerebbe. Oggi, che tutti i fondi sono in mano di pochi, se si togliesse a questi la libertà d alienarli, si metterebbe il suggello al male. le circostanze sono diverse: diversi debbono dunque essere i rimedj. Ricordiamoci di quel che si è detto altrove. La bontà delle leggi è una bontà di rapporto. L'oggetto di questo rapporto è lo stato della nazione. Lo stato presente delle nazioni dell’Europa è, che il tutto si ritrova fra le mani di pochi. Bisogna fare che il tutto sia fra le mani di molti. Ecco a che deve dirigersi il rimedio che si desidera. La ricerca di questo rimedio sarà l'oggetto del seguente capo, dove considerandosi i gran proprietarj come un ostacolo alla popolazione, io andrò in cerca di tutte quelle cause che concorrono per far crescere nell'Europa il numero di questi, e che, perpetuando i beni nelle loro mani, conserveranno per sempre questa fune sta sproporzione fra la classe de' proprietarj, e quella de' non proprietarj che, conte si è dimostrato, è la rovina della popolazione.


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CAPO IV

Molti gran proprietarj, pochi proprietarj piccioli: second'ostacolo alla popolazione

Quest’ostacolo è una conseguenza dell’antecedente

Quando in una nazione vi sono molti gran proprietarj, e pochi proprietarj piccioli, bisogna che ci sieno molti non proprietarj. Gli spazj non sono infiniti: la gran proprietà d’un solo suppone il difetto di proprietà di molti, non altrimenti che ne paesi, ove la poligamia ha luogo. e dove il numero delle femmine no né maggiore di quello degli uomini, un uomo che ha dieci mogli, suppone nove celibi. I gran proprietarj moltiplicando dunque la somma de' non proprietarj, debbono, in vigore delle premesse, essere un ostacolo alla popolazione (62).

Ma non è colla sola diminuzione de' proprietarj, che questi gran proprietarj impediscono i progressi della popolazione. Essi la ritardano maggiormente coll’abuso, che fanno, de' terreni. Se in vigore de' principj, che si sono premessi, la popolazione cresce a misura che si moltiplica la sussistenza; se due moggia di terra tolte alla coltura tolgono forse una famiglia dallo stato, qual vuoto non debbano lasciare nella generazione tutti quei boschi immensi, che questi gran proprietarj sacrificano alla caccia, e tutte quelle ville superbe e fastose, la veduta delle quali destinata a sollevare lo spettatore ozioso, sembra interdetta al popolo, e nascosta a suoi occhi, come se si temesse di mostrargli un furto fatto alla sua sussistenza? No, non è tra le mani di costoro, che l'agricoltura si perfeziona: non sono questi pochi felici, circondati da uno stuolo immenso di miseri, che compongono la felicità nazionale, non sono i gran proprietarj quelli, che costituiscono la ricchezza d’una nazione. L’agio comune della maggior parte de' cittadini, il ben essere della maggior parte delle famiglie, è il vero barometro della prosperità d’uno Stato, e l’unico veicolo della fecondità. In questo sublime equilibrio, in questa mediocrità di fortune, i Greci e i Romani de' primi secoli trovarono il germe della generazione. È un cattivo cittadino, diceva Curio, colui che riguarda come picciola un porzione di terra, che basta per alimentare un uomo.

Come dunque moltiplicare il numero de' piccioli proprietarj; come smembrare oggi queste gran masse, alle quali il tempo ha fatto acquistare una consistenza, che le rende più pesanti ai popoli che ne sono oppressi? Qual rimedio a questo male? Si dovrà forse far uso di quello che ci additò Tarquinio, tagliando colla sua canna i papaveri più alti del suo giardino? A Dio non piaccia, che io voglia qui proporre un rimedio peggiore del male, lo avrei perduto in vano il mio tempo, se ardissi di predicare la tirannia, e se avessi la stupida presunzione di render gli nomini più felici colle massime d'un despota. Si può rimediare a questo male senza lederei diritti d’alcuno: vi si può anzi rimediare moltiplicandoli, e rendendoli più giusti e più sacri. Togliete, prima d’ogn’altro, le primogeniture, togliete i fidecommissi. Sono queste la causa delle ricchezze esorbitanti di pochi, e della miseria della maggior parte. Sono le primogeniture, che sagrificano molti cadetti al primogenito d’una famiglia, sono le sostituzioni che sacrificano molte famiglie ad una sola. L’una e l’altra diminuiscono all'infinito il numero de' proprietarj nelle nazioni dell'Europa, e l’una e l’altra sono oggi la rovina della popolazione.

Quanti disordini nascono da un istesso principio! Quanti mali derivano da una sola legge ingiusta e parziale! Un padre, che non può avere che un solo figlio che sia ricco, vorrebbe non averne che un solo. Egli vede negli altri tanti pesi per la sua famiglia. L’infelicità d’una casa si calcola dalla moltiplicità de' figli. Il voto della natura si crede soddisfatto subito che si ottiene un erede. I sacri vincoli del sangue sono rotti dall'interesse. I fratelli, privati da un altro fratello del comodo che godevano nella casa paterna, non veggono in lui che un usurpatore che gli opprime, e li spoglia d'un bene al quale essi avevano un diritto comune. Costretti a mutilarsi, essi maledicono il momento che gli ha veduti nascere, e la legge che li degrada.

Tanti cadetti privi di proprietà, e per conseguenza del diritto d’ammogliarsi, obbligano altrettante fanciulle a rimaner celibi, Prive d’uno sposo, costrette da padri, queste infelici sono spesse volte loro malgrado obbligate a chiudersi in un chiostro, dove col loro corpo esse seppelliscono per sempre la loro posterità.

I nostri posteri saranno sorpresi nell’osservare una contradizione cosi grande tra la maniera di pensare de' nostri politici, e le loro leggi, tra le massime colle quali si dirigono i nostri governi, e le determinazioni de' loro codici. Uno spirito d anti monachismo è penetrato in tutti i gabinetti dell’Europa. La diminuzione di questi asili del celibato e della sterilità, è divenuta uno degli oggetti più serj dell'amministrazione. Il Ministero vede da per tutto con dispiacere il vuoto che lascia nella generazione il monachismo de' due sessi. Egli fa i maggiori sforzi per restringerlo, ma lascia nel tempo istesso aperta la sorgente che l’alimenta. I chiostri racchiuderebbero forse tanti frati e tante vergini, se in una gran porzione delle famiglie dello Stato non fosse il solo primo a nascere destinato al coniugio? Senza i maggiorali la religione vedrebbe forse tra suoi ministri( )e tra le sue vestali, tante vittime della disperazione? E i chiostri, senza questa barbara istituzione, racchiudendo meno uomini e meno schiavi, non racchiuderebbero forse più virtuosi?

Queste sono le funeste conseguenze delle primogeniture oggi rese altrettanto più micidiali, quanto che sono più frequenti. Non vi è cittadino che abbia tre o quattrocento scudi di rendita, che non istituisca un maggiorato. Egli crede di nobilitare la tua famiglia con una ingiustizia autorizzata dalla legge, e dal costume de' grandi. Il numero de' non proprietarj si aumenta intanto sempre di più: le sostanze si riuniscono sempre più nelle mani di pochi, e quelle istesse leggi, che sostengono le primogeniture e le sostituzioni, credono di poter incoraggire la popolazione con una tenue esenzione accordata all'onestà de' padri. Esse formano un vulcano, e pretendono quindi d’impedirne le eruzioni con un argine di vetro. Esse mutilano la maggior parte de' cittadini, e pretendono quindi di moltiplicarne il numero col dispensare da pesi della società un padre che ha dodici figli. Misera imbecillità degli uomini e de' legislatori, le sue stragi non fanno che accelerare la morte degli uomini, ma le tue impediscono loro di nascere, e ne rendono meno sensibile la perdita!

Il primo passo dunque, che dovrebbe darsi per moltiplicare il numero de' proprietarj, e per ismembrare queste grandi masse, che innalzano la grandezza di pochi su la rovina di molti, sarebbe di abolire le primogeniture ed i fidecommissi, che pajono due istituzioni fatte espressamente per diminuire nell’Europa il numero de' proprietarj e degli uomini.

Un’altra legge converrebbe abolire presso di noi. Questa è quella che preferisce nella successione de' feudi la figlia del primogenito a suoi fratelli. Questa legge dettata dalla passione, e dall'amore d’una voluttuosa Regina, questa legge che trasporta i beni d’una casa in un'altra, e che impoverisce un fratello per arricchire un estraneo, questa legge è quella che ha cagionata la rovina della famiglia dell’autore, e che ne porta il nome.

Questa è la prammatica Filangeria (63). La legge Voconia proibiva d’istituire per erede una donna (64); e noi, che abbiamo adottati gli errori istessi della Romana giurisprudenza, ci siamo poi allontanati tanto da questi suoi più antichi principi che abbiamo in alcuni casi preferite le femmine agli uomini. Io mi taccio sopra questo oggetto, perché temerei d’abusarmi del sacro ministero che mi dà la filosofia, rendendola l'istrumento d’una vendetta inutile, o d’una vanità puerile. Mi contento solo di dire, che fra le cause che concorrono ad impedire tra noi la moltiplicazione de' proprietarj, questo barbaro stabilimento non deve aver l’ultimo luogo. Non minore è l’ostacolo, che vi oppone la proibizione di alienare i fondi feudali.

Se il sistema de' feudi potesse mai combinarsi colla prosperità de' popoli, colla ricchezza degli Stati, colla libertà degli uomini, questa sola istituzione basterebbe per renderlo pernicioso, e funesto. Un supposto interesse del Principe fa che resti immutabilmente segregata dalla circolazione de' contratti una gran porzione del territorio dello Stato. Tutto quello, che è terreno feudale, non si può ne vendere, né dare a censo perpetuo, né alienare Questi sono per lo più terreni oziosi che potrebbero dare un gran prodotto allo Stato, se la legge, che proibisce l’alienazione de' fondi feudali, non li privasse di quella coltura, che è sempre languida, che non può mai essere attiva, quando non è unita a preziosi diritti della proprietà Molti terreni incolti direbbero coltivati, molte braccia mercenarie diverrebbero proprietarie, se il Fisco, abolendo questa legge perniciosa, facesse all'utilità pubblica un tenue sacrifizio. del quale egli sarebbe il primo a risentire i vantaggi. Se nella devoluzione de' feudi egli perderebbe come uno, egli guadagnerebbe come cento ne progressi della popolazione e dell’agricoltura, sempre relativi a progressi della proprietà.

Finalmente i fondi demaniali, questi fondi che essendo comuni, non sono d’alcuno, non lasciano di diminuire il numero de' proprietarj in quelle nazioni nelle quali questo avanzo dell’antico spirito di pastura, che spira a traverso delle nostre barbare leggi, sussiste ancora, malgrado l’evidenza de' disordini che questa fatale istituzione cagiona. Noi ne parleremo da qui a poco, esaminando gli ostacoli che si oppongono a progressi dell’agricoltura. Ma oltre le sostituzioni e i maggiorati, oltre i demanj, oltre la vietata alienazione de' fondi feudali, oltre la legge che preferisce nella successione de' feudi la figlia del primogenito a suoi fratelli, che non so se sia stata molto adottata dalle altre nazioni, ci è un altra causa quasi universale nell’Europa, che diminuisce il numero de' proprietarj, e che più di tutte le altre diminuisce quello degli uomini. Di questa si parlerà nel seguente capo.


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CAPO V

Ricchezze esorbitanti, ed inalienabili degli Ecclesiastici:

terzo ostacolo alla popolazione

I primi sacrifìci degli uomini, dice Porfirio, non furono che d’erba. Il padre riuniva i suoi figli in mezzo d una campagna per rendere alla Divinità quest’omaggio. Non vi erano allora ne tempj, né altari. L'aperta campagna era il tempio: poche zolle di terra ammucchiate eran l’ara; ed un fascio di spighe, o poche frutte erano l’olocausto, che l’uomo offeriva all’Autore della natura. Per un culto così semplice ciascheduno poteva esser pontefice nella sua famiglia.

Il desiderio naturale di piacere alla Divinità moltiplicò quindi le cerimonie. L'agricoltore non potè più allora essere sacerdote. Si consecrarono alla Divinità alcuni luoghi particolari: bisognò che vi fossero alcuni ministri destinati a prenderne cura, e l’attenzione continua, che richiedeva il loro ministero, obbligò la maggior parte de' popoli a fare del sacerdozio un corpo separato. Questo corpo alieno da tutte le occupazioni domestiche bisognava che fosse nudrito a spese della società. Gli Egizj, i Persiani, gli Ebrei, i Greci e i Romani assegnarono alcune rendite al sacerdozio (65). Ma presso niuna religione questa giusta obbligazione d'alimentare i ministri dell'altare, fu trasportata più in la quanto nella nostra, che è la più aliena dall'avidità, e dall'interesse. La devozione diede il primo passo, il fanatismo lo distese quindi a dismisura. Si disse da principio, che coloro che servivano l’altare dovevano vivere a spese dell’altare, e quest’era giusto. Ma i sacerdoti, non contenti di questo, cominciarono quindi a predicare, che la religione che viveva di sacrifici, esigeva prima d’ogn’altro quello de' beni, e delle ricchezze (66)). Questa massima proferita in mezzo all’ignoranza, el in un tempo nel quale tutti i semi della ragione erano estinti, e una gran parte de' principj della morale erano corrotti, fece la più grande impressione. I nobili, che avevano concentrate nelle loro mani tutte le proprietà, cominciarono a disporne in favore de' preti, e de' monaci. I Re stessi diedero al clericato quello che avevano usurpato a popoli (67). Esenti da tutte le cariche della società, dispensati da tutti i tributi, arricchiti a vicenda dalle donazioni, e dalle offerte, essi divennero, per così dire, i soli proprietarj dell’Europa.

Squarciato finalmente il velo della superstizione, dissipate le tenebre dell'ignoranza, combattuti gli errori del fanatismo, gli uomini si sono avveduti, che fra i dogmi della nostra santa Religione non ci è stato mai quello d’arricchirne i ministri. Ma il male era di già fatto, e se le offerte sono mancate, la maggior parte delle proprietà è tuttavia rimasta tra le mani d'una società, che non può perire, né disporne. Basta scorrere per le campagne per vedere che due terze parti de' fondi sono tra le mani degli ecclesiastici.

In questo stato di cose, come potrà mai fiorire la popolazione nello Stato, giacché i progressi di questa derivano dalla moltiplicazione de' proprietarj? Se i fidecommissi e i maggiorati sono contrarj alla popolazione, perché restringono il numero dei proprietarj, quale ostacolo non ci deve opporre questo fatale disordine, che fa di quasi tutta l'Europa il patrimonio d'una sola famiglia? Se i progressi della popolazione, come abbiam detto, sono relativi a progressi dell’agricoltura, come potrà mai questa fiorire tra le mani d'un beneficiato che non può avere alcun interesse nel migliorare un fondo, che non può trasmettere ad alcuno, né a seminare o piantare per una posterità che non gli appartiene? Come migliorerà l'agricoltura tra le mani d'uno, che in vece d’impiegare una porzione delle sue rendite per migliorare il suo fondo, arrischierà piuttosto di deteriorare il suo beneficio per aumentare quelle rendite, che non sono per lui che passeggiere. Queste funeste conseguenze degli esorbitanti, ed inalienabili dominj degli ecclesiastici, si sono finalmente mostrate a governi con tutta la loro deformità. La filosofia ha parlato in favore degli uomini, e la sua voce è penetrata fino ne troni. Essa ha aperti i santi libri della Religione istessa, e vi ha trovate le armi per difendere la felicità de' popoli contro l'avidità de' suoi ministri. Da per tutto sì è cercato di urtare contro quest'abuso. Molte leggi si sono emanate riguardo a quest’oggetto. Lo scopo di queste leggi è stato d'oppilare quella sorgente perenne, che portava tutte le acque in questo fonte immenso, dove, per mancanza di scolo, si putrefanno, e marciscono. I nuovi acquisti sono stati proibiti agli ecclesiastici. I testamenti han lasciato di essere le miniere del sacerdozio. Un padre che muore, non ha più il barbaro diritto di placare la Divinità con un legato, che trasmette ad un convento di frati una porzione di quelle sostanze, delle quali egli non può più godere, e sulle quali i suoi figli hanno già acquistato un diritto. Ma funestamente i governi non si sono impegnati fin ora, che ad impedire i progressi del male. Il disordine, se ne può più ingrandirsi, è restato per altro in tutta la sua antica estensione. Se le loro cure si fossero dirette alla radice dell'albero, essi avrebbero estirpata la pianta con maggior facilità, e con minore strepito. Disordini infiniti, conseguenze necessarie di tutti i rimedj palliativi, si sarebbero risparmiati: le calunnie della superstizione, gli scandali dell’ignoranza, e i clamori del sacerdozio si sarebbero con ugual gloria prevenuti; i fondi immensi, che egli possedeva, e che sono tuttavia tra le sue mani immortali, sarebbero già rientrati nella circolazione de' contratti; e questa classe di uomini così necessaria allo Stato, e così degna di esigere il rispetto del governo, sarebbe stata la prima ad applaudire alla vigilanza delle leggi, quando la riforma fosse caduta sulla natura delle sue rendite, e non sulla sola proibizione d'aumentarle.

Il rigore del metodo mi obbliga a lasciare qui sospesa la curiosità del lettore sulla scelta de' mezzi, coi quali si dovrebbe perfezionare quest’intrapresa.

Dal piano, che ho premesso, si può vedere che il luogo opportuno per isviluppare queste mie idee, sarà il quinto libro di quest'opera, dove si parlerà delle leggi che riguardano la religione, e dove, distinguendo sempre questa dall'abuso che se n’è fatto, non mi dimenticherò mai del rispetto, che si deve all’altare, ed a suoi ministri. Mi basta di aver qui considerato Io stato presente delle ricchezze degli ecclesiastici come uno de' più forti ostacoli alla popolazione. Ma che deve dirsi del loro celibato?

Si è troppo parlato in questi ultimi tempi di questa pratica della nostra religione, per poterla qui passare sotto silenzio. Tutti i moderni politici si sono scagliati contro il celibato de' preti, e molti hanno attribuito a questa sola causa la popolazione presente dell'Europa.

Per me, io ardisco di dire che sono di contraria opinione. Io credo che se il numero de' preti fosse così ristretto come dovrebbe essere, il picciolissimo vuoto, che il loro celibato lascerebbe negli spazj della generazione, non sarebbe da paragonarsi coi disordine, che produrrebbe ogni novità in questo genere di cose. Non sarebbe poi questa la prima volta, che la popolazione ha fiorito in uno Stato in mezzo al celibato del sacerdozio.

La Frigia è stata senza dubbio molto più popolata di quel che oggi è, nel tempo che i sacerdoti di Cibele erano eunuchi; e la Siria non lasciò d’essere un paese popolatissimo nel mentre che i suoi sacerdoti si mutilavano, ed ardivano di spogliarsi della loro virilità in un paese dove si adorava la figura di quello, che noi chiamiamo Priapo. Non ci sono forse un milione di Bonzi consecrati al celibato nella China? Eppure la China sola è più popolata di tutta l’Europa.

Non distogliamo dunque i ministri dell'altare dal sacrificio, che essi offrono all’Altissimo, di quel che ci è di più caro: permettiamo loro di rinunziare ai più vivi piaceri della natura, per accostarsi alla mensa del Signore colle mani meno imbrattate, e collo spirito più puro. Facciamo che la riforma venga piuttosto a cadere sul loro numero, e più d'ogni altro sulle loro ricchezze. Questo è il vero ostacolo che il sacerdozio oppone oggi a progressi della popolazione in quasi tutta l'Europa, e questo è quello che si deve estirpare.

I nostri augusti legislatori han conosciuto questa verità. Essi perfezioneranno, io spero, la riforma che han cominciata; ma dopo di aver riformato il sacerdozio o, per meglio dire, la natura delle sue rendite, resta ad essi ancor molto da fare. Essi debbono riformare loro stessi, se vogliono che la popolazione fiorisca ne loro domini. Lo stato presente. delle ricchezze, e de' dominj del sacerdozio la fan languire, e l'impediscono di prosperare; ma i tributi eccessivi, i dazi insopportabili, la violenza, colla quale si esigono, la distruggono, l'annientiscono.


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CAPO VI

Tributi eccessivi, dazj insopportabili, maniera violenta d'esigerli: quart’ostacolo alla popolazione (68).

Siccome la società ha i suoi vantaggi, a quali ciascheduno de' suoi membri deve partecipare, così ella ha i suoi pesi, a quali è giusto che ciascheduno abbia parte. Questo compenso però, al quale tutti gli individui della società sono obbligati a contribuire, deve esser proporzionato al beneficio, che ciascheduno di essi ne riceve, ed alle sue forze. Senza questa proporzione l'ordine sociale, invece di migliorare la loro condizione, la renderebbe infinitamente peggiore: il danno sarebbe maggiore del beneficio; e lo stato di società sarebbe effettivamente il peggiore di tutti.

Secondo questi principi, che la filosofia, meno forte dell'interesse, ha inutilmente considerati come. i primi dogmi della morale de' governi, secondo questi principi, io dico, che diremo noi dello stato presente de' dazj, e de' tributi della maggior parte delle nazioni d’Europa? Dov’è oggi questa proporzione così necessaria tra quello che si dà, e quello che si riceve, fra il tributo che si esige, e le fortune di colui che lo paga? Ci è stato mai tempo, nel quale gli uomini abbiano pagato più, e forse meno ottenuto dalla società? Che ce lo attestino i clamori de' popoli, la miseria delle provincie, le violenze delle esazioni; che ce lo attesti, più d’ogn’altro, la moltiplicità delle contribuzioni. Tasse, capitazioni, catasti, dazj su i fondi, dazj su i prodotti, dazj su i generi, dazj sulle manifatture, dazj sulle braccia, dazj allorché s’immette, dazj allorché si estrae, dazj allorché si trasporta da un luogo in un altro, foraggi, sussidj, diritto de' passi, io non la finirei mai, se volessi individuare tutte le bocche di quest’idra spaventevole, che si chiama col nome generale di contribuzione.

Premessa dunque questa confusa dipintura dello stato presente delle contribuzioni della maggior parte delle nazioni d’Europa, io vengo alle conseguenze. Se la misura della sussistenza è la misura della popolazione, come potrà mai questa far progressi nelle nazioni Europee, quando si vede che il cittadino deve torre dalla propria sussistenza quello che lo Stato esige da lui; quando si vede un infelice strappare il pane dalla bocca de' figli per soddisfare un appaltatore, un percettore del fisco, che col braccio del governo va spargendo la desolazione nello Stato? Quante volte non si semina, e si lascia in ozio la natura, perché quella porzione di frumento, a stento serbata per la riproduzione, viene occupata dall'esattore del fisco? Quante volte la capanna dell’innocente agricoltore diviene il teatro, ove l’esazione va a far pompa della sua avidità, della sua ingiustizia, della sua ferocia? Se l’infelice che l’abita, non ha come pagarla, invano egli oppone l’eccezione della necessità alla determinazione della legge; invano egli si sforza di giustificare la sua impotenza colla moltiplicazione de' figli, coll'accrescimento de' bisogni, colla diminuzione delle forze: tutto è inutile. Il fisco vuol esser pagato. Il maggior favore, che gli si fa, è di dargli una brieve dilazione. Durante questo tempo, l’uomo della capanna raddoppia la sua fatica, e diminuisce il suo alimento: egli condanna i figli all’istessa ingiustizia, e fascia alla moglie la cura di vendere tutto ciò, che vi è nel desolato tugurio; quei vili mobili, che la miseria aveva lasciati al bisogno; il letto sul quale essa aveva pochi giorni indietro dato un cittadino allo Stato; quella ruvida veste colla quale essa cercava di nascondere la sua miseria nel giorno destinato ad assistere alla mensa del Signore; e, quando tutto questo non basta, si vendono gl'istrumenti stessi del lavoro. Ecco come una gran porzione de' cittadini dello Stato sodisfà ai pesi fiscalità questo prezzo si pagano nelle campagne dell’Europa i benefici dei la società.

No, non sono queste le tenere descrizioni del Tasso, o dell'Ariosto: questi sono fatti, che forse i soli Principi ignorano, che i ministri fingono di non sapere, che la distruttiva politica d’alcuni cortigiani procura di tener lontano da troni per non turbarne il brio; ma che il resto degli uomini vede di continuo sotto i suoi occhi, e che turbano in ogn’istante la pace del sensibile filosofo, il quale è troppo lontano dalle reggie de' Principi per potervi procurare un rimedio.

Non ci lusinghiamo dunque: finché i dazi resteranno ne!lo stato, nel quale ora sono, finché quello, che i cittadini sono obbligati a dare al Sovrano, assorbirà il prodotto delle terre, e quello del lavoro, o finché quella porzione, che ne resta dopo la contribuzione, non basterà per assicurare la sussistenza dell'agricoltore, e dell’artiere, sino a questo, tempo, io dico, la popolazione dell'Europa non andrà mai innanzi: essa andrà anzi indietro; giacché la popolazione è costantemente subordinata a mezzi della sussistenza. Bisogna persuadersi: dovunque un uomo, ed una donna, hanno di che sussistere senza stento, ivi la specie si propaga. Dovunque manca questo appoggio, ivi la specie diminuisce. La natura, e il ben essere sono due forze, che spingono gli uomini a riprodursi con quell’istessa energia, colla quale la miseria, e l'oppressione gl’inducono a distruggersi. Quelle rendono popolate le lagune della Olanda, e le fertili campagne della Pensilvania, e queste indussero, a relazione del celebre Drake, alcuni popoli dell'America a fare l’esecrabile voto di non avere alcun commercio colle loro mogli, per non moltiplicare le vittime dell’avidità del conquistatore. Questa funesta congiura contro la natura, e contro il più dolce de' suoi piaceri, l'unico avvenimento di questa specie, che l’istoria ha tramandato alla memoria degli uomini, si leggerà forse un giorno anche negli annali dell’Europa, se la moderazione de' Principi, che oggi la reggono, trascurerà di sollevarci da un peso superiore alle nostre forze, e che non si è portato fino a questo tempo, che a spese della popolazione.

La riforma dunque de' dazj e de' tributi è necessaria nell'Europa: è necessaria anche una riforma nella natura delle contribuzioni, e nella maniera di esigerle. Un oggetto cosi interessante non sarà trascurato in quest’opera. Io ne parlerò di qui a poco in quest’istesso libro, dove la teoria de' dazj sarà trattata ex professo. Mi basta qui di prevenire un obbiezione che mi si potrà fare. Mi pare già di sentirmi dire:, questo è un male necessario! bisogni delle nazioni sono così grandi, che tutte queste contribuzioni non bastano neppure per provvedervi. I debiti della maggior parte delle nazioni ne sono una prova. Come dunque diminuirle? Funesto raziocinio derivato da una falsa supposizione. Quali sono, io domando, questi bisogni dello Stato, per provvedere a quali queste insopportabili contribuzioni divengono un male necessario? Si può forse chiamar bisogno dello Stato una guerra, che s'intraprende per la conquista d una provincia, sulla quale si vantano alcuni diritti antichi appoggiati sopra alcune antiche usurpazioni? Si può fore chiamar bisogno dello Stato tutto quello che si spende per rendere più risplendenti i troni, e per alimentare i vizj eia mollezza d una turba di cortigiani avidi e fastosi? Non sarebbe meglio per le nazioni che vi fossero meno schiavi, e più cittadini? meno adulatori e più filosofi? Spargere i tesori della società, il frutto de' sudori de' popoli sopra alcuni uomini che, molto lontano dal servirla, non sono ordinariamente che l’istrumento della sua rovina, non è forse un furto, un’ingiustizia, un peculato commesso da quella mano istessa, che dovrebbe punirlo? Un Sovrano colmando di doni e di ricchezze un indegno ministro, un adulatore che gli nasconde i suoi difetti un favorito che lo tradisce, non costringe egli il suo popolo ad onorare e pagare quelle adulazioni, quelle frodi, que tradimenti, que cattivi consigli, que vizj, e quelle follie, che riducono questo medesimo popolo alla mendicità? Questo non è forse l'istesso, che vendere la lana dell’agnello per pagare colui che deve condurlo al macello? Si può finalmente chiamar bisogno dello Stato il mantenimento di centomila combattenti, che fan vedere gli orrori della guerra anche in mezzo alla pace, e che, in vece di difendere la nazione, la spopolano col loro celibato e co' loro vizj, con quello che consumano senza riprodurre, e colla miseria alla quale sono condannati i popoli per provvedere al loro mantenimento? Lo Stato si opprime; la nazione si spopola, per alimentare tanti spopolatori. Sono questi i bisogni dello Stato? Sarebbero forse meno sicuri i popoli, e meno tranquille le nazioni se si ristabilisse l'economia militare degli antichi? Questo è quello che si esaminerà nel seguente capo, dove si considererà lo stato presente delle truppe dell’Europa, come uno de' più forti ostacoli alla popolazione.


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CAPO VII

Stato presente delle Truppe d’Europa:

quint’ostacolo alla popolazione

Un milione e dugento mila uomini compongono lo stato ordinario delle truppe dell’Europa, quando il mondo è in pace (69). Questi non sono altro che un milione e dugento mila uomini destinati a spopolare l’Europa colle armi nel tempo di guerra, e col celibato durante la pace Essi son poveri, ed impoveriscono gli Stati. Essi non difendono le nazioni al di fuori, ma le opprimono nell'interno. Noi manteniamo più truppe nel tempo di pace, che non ne mantenevano i più gran conquistatori allorché facevano la guerra a tutte le nazioni del mondo. I popoli sono per questo più sicuri, e i confini delle nazioni sono forse meglio difesi? Questo è un errore di calcolo. Ogni Principe ha accresciute le sue truppe a proporzione, che i suoi vicini l’hanno aumentate. le forze si sono equilibrate come lo erano prima. Una nazione alla quale bastavano dieci mila uomini per difendersi, bisogna che ora ne abbia il doppio, perché del doppio è cresciuta la forza della nazione, contro della quale vuol garantirsi. I vantaggi dunque della maggiore sicurezza sono ridotti al zero: l’eccesso non si ritrova che nelle spese, e nella spopolazione.

Nn era questo il sistema militare degli antichi. Né la Grecia, che urtò e vinse tutte le forze dell'Asia; né Roma, finché fu libera (70), né Filippo né Alessandro, che portarono da per tutto la vittoria dietro i passi delle loro falangi; né Attila, né i Barbari, che disfecero l’impero di Roma; né i Germani, che vinsero e trionfarono di Varo e delle sue legioni; né Timur Beg, né Gengis Kan che, partendo dal fondo della Corea soggiogò la metà della China, la metà dell’Indostan, quasi tutta la Persia fino all’Eufrate, le frontiere della Russia, Casan, Astracan e tutta la gran Tartaria; né Carlo Magno finalmente, che combatté con tutta l’Europa congiurata, per distendere i limiti della sua monarchia, e per fondare quella de' Papi; niuno, io dico, di questi popoli guerrieri, niuno di questi conquistatori celebri ebbe mai l’idea di conservare in tempo di pace quell’esercito, che egli aveva condotto innanzi all'inimico durante la guerra. Il cittadino diveniva soldato, allorché il bisogno lo richiedeva, e lasciava di esserlo, allorché il bisogno finiva (71).

Quest’economia militare adottata in tutte l’età, e presso tutte le nazioni fu, dopo il fatale esempio de' tiranni di Roma, per la prima volta alterata nella Francia sotto il governo di Carlo vii. Questo Principe profittando del credito che gli avevano fatto acquistare le sue vittorie sopra gl'Inglesi, e profittando egualmente delle impressioni di terrore, che questi spaventevoli inimici avevano scolpite nell’animo de' suoi sudditi, riusci in un'intrapresa, che i suoi predecessori non avevano neppure ardito di tentare. Sotto il pretesto d’avere alcune forze sempre in piedi per difendersi da qualche incursione non preveduta, che gl'Inglesi avrebbero potuto fare ne suoi Stati, congedando le altre truppe, si conservò un corpo di novemila uomini di cavalleria, e di sedicimila d'infanteria (72).

Questa novità, che diede il primo urto alla libertà civile de' Francesi, cagionò una rivoluzione universale nel sistema militare del resto dell’Europa. Ciaschedun Principe si credè allora costretto a difendersi da una nazione sempre armata. In vece di collegarsi tutti contro colui, che si era messo in uno stato di guerra perpetua, in vece di obbligare Carlo vii. a disfarsi di queste truppe che si era riserbate, ciascheduno si affrettò d’imitarne l’esempio.

Il sistema di mantenere un esercito sempre in piedi, fu in un istante adottato in tutte le nazioni d’Europa. Ciaschedun popolo si armò, non per essere in guerra, ma per vivere in pace.

Questo disordine nato nella Francia si accrebbe quindi nella Francia istessa, e per contatto si accrebbe nel resto dell’Europa. Noi dobbiamo a Luigi xiv. questa eccessiva moltiplicazione di truppe, che ci offrono lo spettacolo della guerra nel seno istesso della pace, e che han fatto di quasi tutta l’Europa un quartiere d’inverno, ove il soldato foraggia, sta in ozio, e consuma.

Per mantenere questo corpo inutile l’Europa è oppressa, e la popolazione languisce. Si consumano le sostanze de' popoli per alimentare un milione e dugentomila celibi sempre esistenti, che non si riproducono e che bisogna rinnovare di continuo con altri celibi, che si tolgono alla propagazione, Non è questa un’antropofagia mostruosa, che divora in ogni generazione una porzione della specie umana? Si declama tanto contro il celibato de' preti, e pure tra preti vi sono l’impotenti e i vecchi;e si soffre poi con indifferenza il celibato di tanti esseri, che sono il fiore della gioventù e della robustezza. Ma finché il sistema militare dell'Europa si conserverà nello stato nel quale ora è, il celibato delle truppe è un male necessario.

Non è più il tempo, nel quale i soli feudatarj, i soli proprietarj delle terre facevano a loro spese il servizio militare: oggi le truppe non sono composte che di mercenarj, che non hanno altro bene che il loro soldo, il quale appena basta pel loro mantenimento. Chi nudrirebbe le loro mogli e i loro figli? Che se non è tanto il celibato delle truppe, quanto la miseria che cagiona nello stato il loro mantenimento, quella che impedisce i progressi della popolazione, quest'ostacolo, in vece di diminuire, crescerebbe molto di più, se per mettere il soldato in istato di ammogliarsi, gli si aumentasse il soldo.

Le truppe dunque saranno celibi, finché saranno mercenarie, e saranno mercenarie, finché saranno perpetue, un legislatore potrebbe forse porre un rimedio a questo male? Potrebbe egli torre questo doppio ostacolo alla popolazione? Potrebbe forse anche nello stato presente delle cose imitare l'economia militare degli antichi senza esporre a niun rischio la sua nazione? Vediamolo.

Progetto di riforma nel sistema militare presente

Non è questa una digressione inutile, o estranea all’argomento che ho per le mani, Io perderei in va no il mio tempo, io non sarei altro che un declamatore importuno, se rilevando i mali, che opprimono gli uomini, io lasciassi ad altri la cura di cercare i rimedj proprj per guarirli. Questo sarebbe un funestare la società senza soccorrerla; un delitto nella persona d’un filosofo, ed un’impertinenza nella persona d’un cittadino. Vediamo dunque quale sarebbe il sistema da prendersi per rimediare al doppio ostacolo, che oppone alla popolazione il sistema militare presente: vediamo prima d’ogn’altro, se questo sistema è oggidì necessario.

Io non so se ci sia mai stato un tempo, nel quale il mantenimento d’un esercito sempre in piedi abbia potuto esser necessario per la sicurezza de' po poli. La troppo recente introduzione di questa perpetuità delle truppe me ne fa dubitare. Quello, che è indubitabile, si è che, se ci è mai stato questo tempo, il nostro non Io è sicuramente. Oggi che la comunicazione de' popoli è universale; oggi che i Principi hanno mille occhi stranieri che li guardano; oggi che una nazione non può armare un bastimento da guerra, senza che tutta l’Europa dopo pochi giorni ne sia informata; oggi, io dico, le incursioni istantanee, le guerre non prevedute, sono mali che non ci sovrastano, e da quali è inutile il garantirsi. Questo panico spavento non può dunque oggi autorizzare fuso de' lle truppe perpetue.

Molto meno potrà scusarlo il vantaggio che se ne ricava per la tranquillità interna dello S ato. Il miglior garante di questa non è la truppa, non è il soldato che spesse volte sarà il primo a sostenere il ribelle, allorché l’oppressione armerà il cittadino contro il Sovrano. La giustizia, e l’umanità de' Principi, che oggi ci governano, è il vero scudo contro i furori del popolo, il vero sostegno de' troni, e l’unica arme che debbono maneggiarci governi. le soldatesche e le guardie, diceva Marco Antonino, sono inutili ad un principe, che fa conoscere a suoi popoli che, ubbidendo a lui, essi ubbidiscono alla giustizia ed alle leggi (73).

Rendete felice una nazione. Uno spirito sedizioso non troverà compagni, e, se gli riuscirà di trovarli, tutto il popolo s’armerà contro di lui, ed egli diverrà giustamente la vittima della pubblica indignazione. A che serve dunque innalzare un argine contro un torrente, che non può nuocerci? Non è forse utile l’indurre i Principi ad esser giusti ed umani per proprio interesse, come oggi lo sono per loro sola virtù?Senza la guardia pretoriana, Tiberio avrebbe forse proscritto la metà de' Romani, e Caligola avrebbe forse fatta piangere la morte di Tiberio. Avrebbe egli fatto impallidire il Senato Non è Corse un abuso della politica, e dell'autorità, il cercare un mezzo per garantire le oppressioni? Io lascio alla penna di Machiavelli questa oltraggiosa ricerca, che se non fosse equivoca, discrediterebbe per sempre la memoria di questo grand’uomo. Il mio fine è di garantire la felicità de' popoli, e non le oppressioni d’un despota. Un Principe sempre armato può divenire, quando vuole, il padrone assoluto d'un popolo disarmato. Ma è questo il vero interesse d’un Principe? Un’esperienza, antica quanto la società, non ci ha forse fatto vedere che questo dominio assoluto, che quest’autorità senza freno e senza limiti, alla quale una gran parte de' Re son pervenuti, o han cercalo di pervenire; che questa onnipotenza dispotica, che l’ambizione d’un ministro offre al Principe come lo scopo della sovranità; che l’adulazione gli mostra come un diritto incontrastabile; che la superstizione santifica, e colloca sul trono in nome degli Dei; che la stupidezza de' popoli degradati ha qualche volta applaudita e difesa, non è altro che una spada a due tagli sempre pronta a ferire l’imbecille che la maneggia.

Augusto, circondato dalle sue coorti pretoriane, persuaso della fedeltà delle sue legioni, vedeva nulladimeno nell’estensione del suo potere il motivo de' suoi spaventi. Egli sapeva che, se queste potevano renderlo sicuro contro gli sforzi impotenti d’un’aperta ribellione, non potevano sicuramente garantirlo dal pugnale d’un repubblicano risoluto. Egli sapeva che i Romani, che veneravano la memoria di Bruto, avrebbero lodato l'imitazione della sua virtù. Egli non trovò, che nell’apparente diminuzione della sua autorità l'unico scudo della sua sicurezza. II solo suo interesse lo rese da principio l'inimico della repubblica, e lo determinò quindi, a dichiararsene il padre.

Persuadiamoci: non vi è sicurezza per i Principi fuori della virtù, dell’amore de' popoli, della moderazione del governo, della saviezza delle leggi, e della loro religiosa osservanza (74). Il solo tiranno, privo di questi mezzi ha bisogno d’una truppa di mercenarj, che lo difenda da un popolo sempre irritato e sempre oppresso; ma chi lo difenderà dai suoi difensori? Egli deve esserne o lo schiavo, o la vittima. Per essere adorato da suoi sudditi, egli deve adorare le sue guardie. Dal loro capriccio dipende di farlo venerare come un nume, o di farlo strascinare come un malfattore. Che l’esempio de' dominatori di Roma sia la prova di questa verità. le loro statue erano adorate: l'adulazione e 'l timore offeriva loro gli onori divini; ma queste statue si rompevano, la divinità spariva, l’adorazione si cambiava in disprezzo ed in ischerno, subito che cessava il timore, subito che il tiranno era ucciso. L’istessa guardia pretoriana che le faceva adorare, le faceva calpestare sempre che voleva. Divenuta il solo sostegno della sovranità, e del trono, essa più spesso lo insanguinò che lo difese. Col suo soccorso il tiranno calpestava il senato, il popolo, le leggi; ma finalmente per le sue mani istesse egli periva. Sotto i suoi auspicj egli faceva tutti tremare, ma egli tremava all'aspetto de' suoi difensori. Egli era nel tempo istesso l'oggetto più vile agli occhi della nazione, ed il più venerato, finché le coorti pretoriane lo voleano. le statue, le medaglie, le apoteosi erano dunque delle coorti, e non del fantasma, che le otteneva.

Finalmente, se per sostenere il sistema delle truppe perpetue, si ricorre a vantaggi che un corpo disciplinato, ed addestrato nell’arte di combattere, ha nella guerra sopra una truppa di cittadini, che non han lasciato la zappa e l’aratro, che pochi giorni prima di combattere, io rispondo, che questi vantaggi sono molto compensati dalla mollezza, che l’ozio delle guarnigioni ispira al soldato, e che due o tre mesi di maneggiamento d'armi basteranno per addestrare un agricoltore robusto ed indurito al lavoro, nel mentre che tre settimane di fatica distruggeranno in una guerra le legioni intere de' soldati agili e disciplinati, quando questi non sono avvezzi al travaglio, ed al rigore delle stagioni (75).

Ma che diremo noi del valore? Io son di opinione, che questo sentimento, che nasce dalla cognizione della propria forza, può allignare in tutti gli animi; ma che il soldato mercenario indebolito dall'ozio ne sarà sempre meno suscettibile dell'agricoltore robusto. Tutta l’istoria è una prova di questa verità, e noi ne abbiamo un attestato domestico nell’ultima guerra contro la casa d’Austria sostenuta con tanta gloria dall’Augusto padre del nostro Sovrano per la difesa di questi regni. Quelli, che resistettero col maggior coraggio all'inimico, i primi ad esser esposti e sacrificati, furono i reggimenti provinciali formati d'agricoltori tolti dalla zappa poche settimane prima dell'azione. Io non so, se quest’istessi avvezzi oggi alle mosse sceniche della tattica moderna (giacché il gusto frivolo del secolo si è mescolato anche nell'arte di combattere) non so, io dico, se questi reggimenti mostrerebbero oggi l’istesso coraggio.

La miseria dunque, che l’ozio ed il celibato dei soldati cagionano nello Stato, gli ostacoli che oppongono alla popolazione, l'incontinenza pubblica che fomentano, tutti gli effetti della perpetuità delle truppe, non sono compensati da alcun vantaggio per quel che riguarda l’interna e l'esterna sicurezza delle nazioni. Vediamo ora se questi mali si eviterebbero, e se si otterrebbero questi vantaggi con un sistema militare tutto diverso.

Una nazione, per povera ch'essa fosse, potrebbe avere trecentomila combattenti sempre pronti a difenderla, quando questi non lasciassero in tempo di pace di essere agricoltori, artieri, cittadini liberi, e padri. Alcune esenzioni, alcune prerogative d’onore, un diritto, per esempio, esclusivo d’andare armati, una preferenza nella provvista di quelle cariche, che non ricercano altro che l'onoratezza, e la fedeltà in coloro che debbono esercitarle, potrebbero mettere il governo in istato di scegliere fra i suoi cittadini gli uomini più atti a difendere la nazione in tempo di guerra, ed a farla rispettare in tempo di pace. Tutti i cittadini farebbero a gara per essere assentati nel libro militare, quando l’obligo del soldato non fosse altro che di difendere la patria in tempo di guerra. Ogni vantaggio, per picciolo che sia, è un bastante compenso per un pericolo remoto ed incerto. le truppe non sarebbero allora composte di mercenarj, e di delinquenti fuggiti dal rigore della giustizia. Non sarebbe più allora un’infamia Tesser soldato. In tempo di guerra le diserzioni sarebbero più rare, perché un cittadino che ha proprietà, che ha moglie, che ha figli, non lascia così volentieri il suo posto, come lo fa un mercenario, al quale torna sempre conto di rivendere la sua persona ad un altro Principe, e che non perde niente perdendo la sua patria.

Con questo sistema si eviterebbe anche un altro disordine. Siccome, per la maniera colla quale oggi si fa la guerra, niuna nazione può tenere un esercitocosì numeroso che possa, senz’aver bisogno di far leva di nuove truppe, resistere ad un inimico; allorché il pericolo d’una guerra sovrasta, si ricorre alla violenza. Qual tristo spettacolo! qual presagio funesto! quei cittadini che non han potuto nascondersi, che non han potuto fuggire, o sottrarsi da queste leve forzose col soccorso de' privilegi o del denaro, sono legati, sono strascinati innanzi a un delegato, le funzioni del quale son sempre odiose, e la probità sospetta a popoli. I parenti accompagnano quest'infelici: essi danno tremando in mano del delegato i nomi de' figli, ed aspettano la decisione della sorte. Un biglietto nero esce allora da un'urna fatale, e destina le vittime, che il Principe sacrifica alla guerra. Questa cerimonia accompagnata dalle lagrime de' padri, dalla disperazione delle madri, da pianti delle mogli, qual coraggio può ispirare a questi nuovi combattenti, a quali tutto annunzia una morte sicura?

No, non si comprano a questo prezzo i veri soldati. Non era a questo modo, che i popoli del settentrione, che devastarono l’Europa, venivano chiamali alla guerra. Gli Alani, gli Unni, i Gepidi, i Turchi, i Goti, i Franchi furono tutti i compagni e non gli schiavi de' loro barbari capi. Un apparato così luttuoso, e così tetro, non precedeva allora gli orrori della guerra, come non li precederebbe neppure oggi, quando in una nazione vi fossero trecentomila combattenti, che volontariamente si sono obbligati a difender la patria, e che non sono stati strascinati dalla forza, né destinati dalla sorte.

Finalmente questi agricoltori, questi artieri, questi proprietarj, questi liberi soldati potrebbero anche esser istruiti ne militari esercizj. Prima di essere ascritti, i nuovi iniziati potrebbero ricevere una competente istruzione. Durante questo breve tempo, potrebbero essere alimentati a spese dello Stato. In ogni due o tre anni si potrebbe quindi fare una rassegna generale. Gl'incumbenzati dal governo dovrebbero girare allora perle provincie, ed in ciaschedun paese esaminare i soldati che vi sono; e rinnovare alla loro memoria quegli esercizj che furono loro insegnati allorché si ascrissero. La presenza continua degli ufficiali, i quali dovrebbero essere scelti da proprietarj più nobili, e più ricchi di ciaschedun paese, non lascerebbe di mantenerli esercitati ne giorni di festa, anche a costo di qualche premio, che questi non sdegnerebbero di offrir loro per farsi un merito col Principe, che premierebbe colla gran moneta degli onori la loro vigilanza. Allora gli ufficiali, senza dissipare tra vizj e tra l'ozio delle guarnigioni le loro rendite, servirebbero il Sovrano senza abbandonare i loro fondi, i quali sarebbero migliorati dalla loro assistenza.

Ne paesi finalmente di frontiera, nelle piazze d’armi, la guarnigione potrebbe essere supplita da una guardia urbana, che si mutasse oggi giorno, e basterebbero due soli reggimenti per custodire la sacra persona dei Principe.

Ecco come, senz’aggravare i popoli e senza ritardare la generazione, si potrebbe provvedere alla loro sicurezza al di fuori, ed alla loro tranquillità nell’interno.

Io conosco che questo progetto è informe, ma nell’esecuzione si perfezionerebbe, e i governi, molto meglio di me istruiti ne bisogni degli Stati, supplirebbero a quello, che io ho mancato di proporre.

Chi sa dunque, se un giorno la moderazione dei Principi soddisfarà i voti d'un oscuro politico, intraprendendo una riforma, che potrebbe far mutar d'aspetto l'Europa? O desiderio giusto ed umano, che non lascia alcun rimorso all'anima che l’ha formato! Dovranno forse, potrò io dire con un gran Genio, dovranno forse i sospiri dell'uomo virtuoso, perla prosperità delle nazioni, costantemente perire, nel mentre che quelli dell’ambizioso e dell'insensato sono così spesso soddisfatti, e secondati dalla sorte? No, i progressi delle cognizioni utili hanno oggi ingentiliti i troni. Pare, che la politica illuminata dalla ragione abbia cominciato a far conoscere ai Principi, che la sola felicità de' popoli, che si governano, deve determinare Fuso dell'autorità Essi sanno, che la forza è l’istrumento di colui, che vuol regnare sopra una nazione di schiavi, ma chef le buone leggi, la moderazione, la dolcezza sono le sole catene che uniscono i veri cittadini al Sovrano.

Pare, che l’esperienza cominci a persuaderli che è inutile l’armare tante braccia sempre innalzate sulla testa de' popoli, poiché, se i loro sudditi tremano innanzi alle loro truppe, le loro truppe fuggono innanzi all'inimico. Malgrado i prestigj dell’opinione e dell’errore, essi son costretti a confessare. che, allorché una nazione non fosse oppressa, ma felice; tutt i cittadini diverrebbero soldati, allorché il bisogno lo richiederebbe; che questi soldati sarebbero tanti Spartani, tanti Ateniesi, tanti Romani, interessati come essi nella difesa della patria; che l’inimico non guadagnerebbe niente allora, guadagnando una battaglia, perché troverebbe sempre nuove resistenze, finché troverebbe nuovi cittadini da combattere (76); che le guerre sarebbero allorarare e giuste, e le vittorie onorevoli; che i trionfi non sarebbero allora, come oggi lo sono, mescolati e turbati da sospiri degl'infelici che han pag ito colla perdita de' loro parenti, o col sacrificio delle loro sostanze la gloria, e le usurpazioni dell’ambizioso, che gli ha traditi; che le benedizioni de' popoli sarebbero allora le trombe vittoriose, che annunzierebbero il passaggio dell’eroe che ha salvata la patria; che allora, senza offendere la Divinità, si potrebbe chiamare un Dio benefico il Dio degli eserciti, e che allora finalmente i ministri dell’altare potrebbero, senza fremere, supplicarlo di benedire le loro bandiere.

Queste massime molto divulgate ne troni; i progressi gloriosi che comincia a fare la libertà presso quella nazione istessa ch'è stata la prima ad introdurre il fatale sistema della perpetuità delle truppe e ch'è stata la prima a sperimentarne le conseguenze funeste; lo zelo degli scrittori, che si sforzano a gara d’illuminare i Principi, e di prevenirli contro le seduzioni perniciose de' loro ambiziosi ministri; e più d’ogni altro l'evidenza della verità, mi fanno sperare, che la riforma da me additata sarà un giorno intrapresa. Quella nazione, che sarà la prima a metterla in esecuzione, sarà la prima a sentirne i vantaggi. Riformando le sue truppe di terra, essa si metterà anche in istato di meglio difendere il territorio comune, quel territorio sul quale tutte le nazioni hanno uguali diritti, ma che la forza non ne ha dato oggi il dominio che a poche; quel territorio che rende tutti i popoli confinanti, e che gli espone a tutt'i pericoli, come a tutti i vantaggi de' paesi limitrofi; quel territorio finalmente, sopra del quale ciascheduno popolo dovrebbe tenere alcune forze capaci a conservare la libertà generale, sola ed unica legge, che una nazione può dare al di fuori; e questo territorio è il mare.

La marineria militare converrebbe dunque innalzarsi sulle ruine delle truppe di terra. Queste cagionano, come abbiamo dimostrato, la miseria dei popoli, senza difenderli, e quella li difende, non solo senza impoverirli, ma arricchendoli. Non è questo il tempo da descrivere tutti i vantaggi che recherebbero ad una nazione i progressi della marineria militare. Io potrei anche dimostrare, come la popolazione istessa vi guadagnerebbe, ma mi distenderei troppo se volessi mettere tutti questi vantaggi in veduta. Mi contento d’aver qui gettata questa verità come di passaggio.

La riforma dunque delle truppe perpetue, senza esporre ad alcun rischio la sicurezza della nazione, toglierebbe alla popolazione due grandi ostacoli, il celibato de' soldati, e il celibato che cagiona il loro mantenimento nelle altre classi de' cittadini. Da questo doppio beneficio ne nascerebbe un terzo. S'indebolirebbe la resistenza d'un altr’ostacolo, che oggi non contribuisce meno ad impedire i progressi della popolazione, e l’attività del quale è sempre relativa al numero de' celibi, ed alla miseria nazionale. Quest’ostacolo è l’incontinenza pubblica.


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CAPO VIII

Ultimo ostacolo alla popolazione; l'incontinenza pubblica

Funesta riflessione! i vizj e i disordini hanno, per cosi dire, una filiazione reciproca fra loro. L'uno produce l’altro, e il prodotto dà nuova forza al produttore. Così la miseria e i celibato violento cT alcune classi de' cittadini, impedendo i matrimoni, cagionano l'incontinenza pubblica, e l’incontinenza pubblica diminuisce il numero de' matrimonj. Dove ci è corruzione, l'uomo sdegna una moglie, e dove ci è povertà, dove ci sono molli celibi per forza, ivi ci deve esser corruzione. La natura vuol essere soddisfatta: pochi sono coloro che sanno vincerla. Bisogna dunque ricorrere o ad una moglie, o ad una prostituta. La morale ci offre la prima: la povertà e 'l celibato violento ci condannano alla seconda. '

Un cittadino che non può avere una moglie, trova nella vaga venere un compenso piacevole a questa privazione. Il senso è allora soddisfatto, ma la generazione resta in ozio. Questa malattia, che da principio non infetta che coloro soli, che o dalla povertà, o dal governo, o dalle leggi sono condannati al celibato, allorché il numero di questi è cresciuto nella nazione, diviene quindi contagiosa, e si comunica in tutte le classi dello Stato.

La corruzione diviene allora generale, e generale diviene Podio pel più dolce de' legami. Il ricco abborrisce allora il coniugio per volontà, come l’abborisce il povero per miseria. L’artiere trova allora più conto a dividere il guadagno delle sue mani con una prostituta che può abbandonare, che può cambiare sempre che vuole, che con una moglie, la quale diviene subito nojosa, allorché si è perduto il gusto a piaceri dell'innocenza. Tutte le altre classi finalmente de' cittadini riguardano allora il coniugio come la tomba della libertà, e della felicità. Gli innocenti piaceri che compensano i sacrificj, che due sposi onesti fanno a preziosi vincoli della loro tenerezza, scompariscono agli occhi dell'uomo corrotto. Egli è incapace d’apprezzare quella placida, e secreta soddisfazione, che deriva dalla loro intima unione, dal loro reciproco amore, da loro mutui servizi, e da piacevoli, e sacri doveri che essi adempiono, formando lo spirito ed il cuore de' loro teneri fanciulli.

Queste dellzie sono troppo semplici, troppo uniformi, troppo dellcate per lui. le sole voluttà grossolane possono penetrare, e commuovere i cuori senza onestà. Or queste sole somministrano oggi quelli, che si chiamano gran piaceri della vita, in tutte le nazióni d’Europa, dove, per la nostra disgrazia, e per la rovina della popolazione, la classe di questi celibi, che non fa altro voto che quello d'astenersi da una moglie, si è moltiplicata all’infinito, e dove per vergogna della nostra specie e del nostro secolo, ci è un altro vizio che vi ha fatti i più grandi progressi, un vizio, che allorché io voleva proferirlo, il pudore me lo ha impedito, un vizio che degrada l’umanità, dando ad un sesso tutte le debolezze dell'altro, un vizio vuoto di generazione, che spopola il mondo con quell’islrumento istesso, col quale dovrebbe popolarlo, e che cagiona una rivoluzione tale fra gli uomini, ch'essi possono astenersi dalle femmine. Qual Vuoto non deve lasciare nella popolazione quest'eccesso della pubblica incontinenza? Qual meraviglia, che nella maggior parte delle nazioni Fra cento uomini si fa appena un matrimonio in ogn’anno (77)? Ma questo disordine, che in ogni tempo ha fatta la rovina della popolazione, oggi più che mai è divenuto micidiale, da che l’America, in compenso di tutti quei mali che noi le abbiamo arrecati, si è vendicata comunicandocene uno, che ha la 6ua sede nella sorgente istessa del piacere: da quest’epoca, io dico, la prostituzione spopola doppiamente le nazioni, perché nel tempo istesso che aliena gli uomini dal conjugio, comunica a coloro, che si danno in preda a questo vizio, un veleno distruttore della fecondità, della virilità, della vita; un veleno che, dopo essere stato la pena del delitto, diviene anche la rovina dell'innocenza; un veleno finalmente, che non risparmiando la posterità istessa di colui che l’ha intromesso nel suo sangue, fa nascere una razza degenerata, imbastardita, snervata, priva spesso della virilità, monumento della depravazione, o della disgrazia d'uno de' suoi autori. Se tanta è dunque la strage che cagiona nella popolazione l'incontinenza pubblica, qual rimedio le leggi debbono opporre a questo male? No sicuramente quello di Teodosio, il quale, per bandire la prostituzione da Roma, ordinò che si demolissero i lupanari (78).

Questo è l’istesso che fare un lupanare d’un paese intero; questo è mettere in pericolo l’onestà coniugale questo è curare un disordine con un disordine maggiore.

Per diminuire l’incontinenza pubblica, bisogna togliere, o almeno indebolire quelle cause che la cagionano e la fomentano. Diminuite il numero de' celibi: fate che Dello Stato le leggi, il governo, il ben essere permettano a ciaschedun cittadino di prendere una moglie, e voi vedrete allora l'incontinenza, la prostituzione, la scostumatezza sensibilmente diminuire nella nazione, giacché i loro progressi sono, come l’abbiamo dimostrato, sempre relativi al numero de' celibi ed alla miseria delta maggior parte (79).

Noi ne abbiamo una prova di fatto nell’America settentrionale presso le colonie Anglo Americane. Che si legga ciò che ne dice il celebre Franklin e l’immortale Raynal, e si osserverà come una certa ricchezza universale, ripartita saviamente colla prima distribuzione delle terre, o dal corso dell'industria, moltiplica in esse il numero de' matrimoni, e come l’una, e gli altri, si uniscono per conservare i costumi, e la pubblica onestà. La prostituzione non ha potuto ancora allignare in quella felice regione, dove ogni uomo è nello stato di prender una moglie, e di mantenerla senza stento. Quel libertinaggio, che è sempre una conseguenza della miseria, non ha potuto ancora ispirare a suoi felici abitatori il gusto per quelle dellzie ricercate, per que piaceri brutali, l’apparato e 'l dispendio de' quali consuma, e stanca presso di noi tutte le molle dell’anima, ed eccita i vapori della malinconia dopo i sospiri della voluttà. Gli uomini non vi consumano in un celibato vizioso i migliori anni della vita. Allorché essi vanno al matrimonio, il lungo uso della venere non ha illanguiditi i loro organi; la sensibilità del loro cuore non si trova snervata dagli antecedenti piaceri; essi non portano all’ara sacra dell'amore un cuore indegno di questa adorabile deità. le donne sono ancora quali debbono essere, dolci, modeste, compassionevoli, benefiche, dotate di tutte quelle virtù, che perpetuano l’impero delle loro attrattive. Ne boschi della Florida, e della Virginia, dice Raynal, nelle istesse foreste del Canada si può amare per tutto il corso della vita ciò che si amò per la prima volta, vale a dire, l’innocenza, e la virtù, che non lasciano mai interamente perire la bellezza.

Questo è lo stato de' costumi dell’America Inglese. Qual tristo paralello con quelli dell’Europa!

Questi sono i principali ostacoli, che si oppongono a progressi della popolazione dell'Europa, e questi sono i mezzi proprj per toglierli. Io credo d’essermi bastantemente dilungato in questa ricerca. E ormai tempo di passare all’altr’oggetto delle leggi politiche, ed economiche: bisogna parlare delle ricchezze.


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CAPO IX

Secondo oggetto delle leggi politiche, ed economiche: le ricchezze

Una volta le leggi non pensavano che a far nascere gli eroi, e la povertà era il primo grado dell’eroismo. Si temevano le ricchezze, e si temevano con ragione: noi l’abbiamo altrove osservalo. Quando queste non sono che il frutto della conquista, quando non è il sudore dell’agricoltore, dell’artiere, de! mercadante, che le richiama, le ricchezze debbono necessariamente corrompere i popoli, fomentare l’ozio, ed accelerare la rovina delle nazioni. Così Sparta dominò nella Grecia finché le leggi di Licurgo tennero lontano dalla Laconia l’oro e l’argento; e Roma fu grande e virtuosa finché sacrificò agli Dei di legno, o di creta.

Ma lo stato presente delle cose è tutto diverso. Non sono oggi i bottini, non sono i tributi de' popoli soggiogati, né le alleanze vendute, né i titoli fastosi di Re, che Cesare, Pompeo, e i Patrizj di Roma vendevano al più offerente (80)), non sono, io dico, questi i mezzi co' quali si richiamano oggi le ricchezze negli Stati. Un lavoro assiduo, una vita interamente occupata, unita alle buone leggi, ed alla moderazione de' governi, è la sola sorgente, che le trasporta; e dove prima un popolo ricco era sempre un popolo d’oziosi, e per conseguenza, vicino ad esser ingojato dalle avide fauci del dispotismo; oggi le nazioni più ricche sono quelle, ove i cittadini sono più laboriosi, e più liberi. Non sono più dunque oggi da temersi le ricchezze; sono anzi da desiderarsi; e il principale oggetto delle leggi dev’essere di richiamarle, giacché queste sono il solo sostegno della felicità de' popoli, della libertà politica al di fuori, e della libertà civile nell’interno degli Stati.

Persuasi di questa gran verità, che io non ho fatto qui che accennare, ma che ho altrove dimostrata (81)), veniamo ora alla ricerca delle cause o, per me introducono e si conservano in una nazione. Noi (tarleremo quindi di quelle, col soccorso delle quali e ricchezze si distribuiscono colla minor possibile disuguaglianza.


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CAPO X

Delle sorgenti delle ricchezze

L’agricoltura, le arti, il commercio, queste son le tre sorgenti universali delle ricchezze. Coll’agricoltura si ottengono i prodotti della terra; colle arti ai aumenta il loro valore, si estende il loro uso, si accresce la loro consumazione; col commercio si permutano si trasportano, e si dà loro con questo mezzo un nuovo valore. La prima dunque ci dà la materia, la seconda ci dà la forma, la terza ci dà il moto. Senza la forma e senza il moto, vi può essere la materia; ma senza la materia non ci può essere né la forma né il moto. La sola sorgente dunque assoluta, e indipendente delle ricchezze è l’agricoltura; le sole nazioni agricole possono dunque vivere da loro; ma le manifatturiere, e le commercianti debbono dipendere dalle agricole. Senza l’agricoltura un popolo può dunque partecipare a frutti del commercio, e dell'industria, ma l’albero non se ne appartiene che a popoli agricoli: ogni prosperità, che non è fondata sull'agricoltura, è dunque precaria; ogni ricchezza, che non viene dal suolo, è dunque incerta (82)); ogni popolo che rinuncia ai benefi dell'agricoltura, che abbagliato da lusinghieri beneficj delle arti, e del commercio, trascura quelli delle produzioni del suo terreno, che preferisce, in una parola, la forma alla materia, può dunque esser paragonato a quell’avaro imbecille, che mosso dall'avidità d'un tenue guadagno, sdegna d’impiegare su fondi d’un ricco proprietario il suo danaro, per darlo tra le mani d'un figlio di famiglia disordinato, che lo priverà ben presto del capitale, e de' suoi frutti, lo credo che queste conseguenze sieno così semplici, come lo sono i principi da quali derivano

Lasciamo al lettore il giudicarne, e stabiliamo per principio sicuro, che in ogni nazione, dove l’agricoltura si può con vantaggio esercitare, le leggi non debbono trascurare i progressi delle arti, e del commercio, ma debbono sempre subordinare questi ai progressi dell'agricoltura; che questa deve essere il punto, dove debbono andare a finire tutte le linee economiche; il grande interesse, col quale debbono tutti gli altri combinarsi; la divinità, a fronte della quale debbono tutte le altre sparire, il fondamento eterno, sul quale il legislatore deve innalzare il grande edificio dell’opulenza nazionale.

Premesso questo principio, veniamo all’esame degli ostacoli, che nella più gran parte dell’Europa si oppongono a progressi della agricoltura, nella soppressione de' quali deve tutta interporsi la necessaria protezione delle leggi. Per serbare un certo ordine in questa ricerca, io distribuisco tutti questi ostacoli in tre classi. Nella prima saran compresi tutti quelli, che vi oppone il governo, o sia l’amministrazione; nella seconda quelli, che vi oppongono le leggi; nella terza quelli, che derivano dalla grandezza immensa delle capitali. Si cominci dal governo.


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CAPO XI

Prima classe degli ostacoli che si oppongono a progressi dell'agricoltura: quelli che derivano dal governo

Se qualche volta è lecito di mirare con occhio d’artefice le statue de' numi; se il mostrare i difetti e i vizj de' governi non è un delitto che ne paesi ove regna il dispotismo, o dove un’oscura e misteriosa politica dirige i sospetti, e le mire d’un corpo aristocratico, timido perché debole, ma è una virtù, un beneficio in un paese, come quello dove ho avuta la sorte di nascere, nel quale il governo istruito dall'esperienza comincia a sentire la necessità di sradicare gli antichi disordini, che pur troppo si oppongono alla pubblica felicità; se finalmente il dovere del filosofo è di accelerare il tempo delle correzioni, e di risparmiare ad una nazione molti esperimenti e molte prove, che essa dovrebbe fare a sue spese, e che spesso dovrebbe pagare a «aro prezzo; se è vero tutto questo, io oltraggerei me, e la moderazione presente de' Principi, se parlando degli ostacoli, che impediscono i progressi nell'agricoltura nella maggior parte delle nazioni di Europa, trattenuto da un sentimento vile di debolezza, o d’adulazione non opportuna, né desiderata, io trascurassi di parlare de' più furti, di quelli che derivano dal governo.

L’amministrazione, che dovrebbe essere il sostegno della prosperità de' popoli, e dell'opulenza delle nazioni; l'amministrazione, che non dovrebbe in altro mostrare la sua influenza che nello spianare la strada per la quale gli uomini dovrebbero correre verso la loro felicità; l'amministrazione, che dovrebbe adottare per regola generale della sua condotta quei gran principio: INGERIRSI QUANTO MENO SI PUÒ, LASCIAR FARE QUANTO PIÙ SI PUÒ; l’amministrazione, io dico, per essersi allontanata da questi salutari principi, è divenuta nella più gran parte delle nazioni la causa della loro miseria, la destruttrice dell’industria degli uomini, e la sorgente più feconda degli ostacoli più forti, che impediscono alle arti, al commercio, e più d’ogni altro all’agricoltura, di prosperare. Il primo tra quelli, che riguardano l’agricoltura, è senza dubbio il difetto di libertà nel commercio de' suoi prodotti.

Un errore, derivato da una falsa supposizione, ha fatto credere a1 governi, che potesse uscire da uno Stato col moto naturale del commercio anche parte del necessario alla sua interna consumazione. Per liberarsi da questo panico spavento si son chiusi i porti delle nazioni, si sono circondate di guardie le loro frontiere, si sono intimate le pene più spaventevoli alle clandestine estrazioni di alcuni prodotti necessari alla vita; espediente fatale, che ha distrutta la proprietà, rovinata l’agricoltura, illanguidito il commercio, impoverite le campagne, spopolati gli Stati, e moltiplicate le carestie in una gran parte delle nazioni Europee. In vano si è cercato in questo secolo di mostrare quest’errore con tutta la sua deformità. In vano la penna degli scrittori economici ha dipinto co' colori i più vivi il flagello che reca agli Stati questo pregiudizio funesti. L’antico sistema combattuto da tanti scrittori, da tanti filosofi, dal voto pubblico istesso, si è conservato in tutta la sua estensione. I vincoli, che prima ci erano, ci sono ancora; le catene, che tenevano inceppato il commercio delle biade, e d’alcuni altri prodotti del suolo, in vece di sciogliersi, si sono in molte parti ristrette di più; e l’agricoltura intanto languisce sotto il loro peso; il governo rispetta con superstiziosa venerazione gli antichi errori; ed i filosofi, dopo aver inutilmente declamato e scritto, aspettano con impazienza l’estremità de' mali, che può solo risvegliare i governi dal loro lungo, e profondo letargo.

Ma potrei io in un’opera di questa natura incontrarmi in un oggetto così interessante, senza aggiugnere qualche cosa del mio a tutto ciò, che si è da tanti scrittori pensato? Se questa intrapresa è difficile, se sarà forse inutile, non debbo per questo trascurarla. Per riuscirvi, bisogna fissar lo stato della questione.

Si è detto che il motivo, che induce i governi a vincolare il commercio di alcuni prodotti del terreno necessari alla vita, è il timore della carestia di questi generi. Ma cosa è carestia? Bisogna convenire nel significato di questa voce. La carestia d’un genere è di due maniere; o quando la quantità, che ve n’ha nello Stato, è inferiore a quella che l'interna consumazione richiede; o quando il prezzo di questo genere è tale, che una porzione dei cittadini non ha come provvedersene. Se la quantità dunque necessaria all'interna consumazione esiste; se il prezzo è caro, ma è nel tempo istesso tale, che tutti i cittadini sono nel caso di provvedersene, non si può mai dire che ci sia carestia di questo genere. In Inghilterra, per esempio, il grano costa ordinariamente il doppio, il triplo di quello che costa in molti paesi dell’Italia. Si può dire per questo, che in Inghilterra ci è sempre carestia di grano?

Premessa questa definizione, vediamo ora se l’una, o l’altra di queste due specie di carestie può derivare dalla libertà illiminata «lei commercio de' prodotti del terreno, o se piuttosto entrambe possono essere le conseguenze della privazione, o restrizione di questa libertà. Supponiamo che il commercio d’un genere sia interamente libero, che non sia da alcun vincolo ristretto: in questo caso quale sarà l’uso, che il proprietario ne farà? Egli lo venderà al maggiore offerente. Se questi è un negoziante straniero, egli lo manderà fuori dello Stato; se un cittadino, lo venderà al cittadino, con tal differenza però che nella ipotesi dell’uguaglianza delle due offerte, il cittadino sarà sempre da lui preferito perla sicurezza del negoziato. Io non valuto qui le spese ed i rischi del trasporto, né il pagamento del dazio sull'estrazione, se mai ci è, perché tutte queste spese le suppongo a carico del compratore.

Supponiamo in oltre, che in una nazione la quantità della raccolta d'un prodotto del suo terreno superi la quantità necessaria alla interna consumazione: non si può negare, che l’interesse universale dello Stato esigerebbe in questo caso che il superfluo uscisse, fuori, e che nel paese non vi restasse altro che la quantità proporzionata all’interno bisogno: con una libertà illimitata si potrebbe questo ottenere? Esaminiamolo. É un assiomi nella facoltà economica, che il prezzo di qualunque merce è in ragion diretta delle richieste; e inversa della quantità della merce, e del numero de' venditori. Nella nostra ipotesi dunque i proprietarj del genere, del quale 6i parla, per venderlo con vantaggio dovranno mandarlo fuori dello Stato presso quella Dazione, nella quale la quantità del genere è infe riore a quella, che la sua respettiva consumazione richiede. A misura che questo genere uscirà dallo stato, crescerà il prezzo Dell’interno; ed a misura che s’ammetterà nell'estera nazione, diminuirà l'estero prezzo. Il beneficio dunque dell'estrazione si anderà sempre doppiamente scemando, e per l’accrescimento del prezzo nell'interno, e per la diminuzione del prezzo nella estera nazione. Quando finalmente, dopo varie oscillazioni, i prezzi delle due Dazioni andranno a livellarsi, allora, cessando il beneficio, cesserà il moto, e colla massima libertà non escirà più dallo Stato neppure la minima quantità di questo genere.

Mi si potrà qui fare un’obbiezione. Mi si dirà che questo livello ne prezzi di queste due nazioni potrebbe avvenire, quando dalla nazione venditrice si è non solo estratto il superfluo di questo genere, ma anche parte del necessario alla sua interna consumazione. La carestia allora non sarebbe una conseguenza di questa illimitata libertà, che tanto si desidera? Quest’obbiezione non può reggere che in un solo caso, quando si voglia interamente negare quell'ordine universale della natura, che si osserva in tutte le sue parti.

Se non si vuol negare quest'ordine inalterabile, si troverà che la terra riproduce in ogni anno una quantità corrispondente all'universale consumazione. Egli è malinconico errore, dice uno scrittore molto sensato (83)), il creder gli uomini condannati a gittare il dado per vedere chi debba morir di fame. Riguardiamoci con occhio più tranquillo, e riceveremo idee più vere e più consolanti. Fratelli d’una vasta famiglia sparsa sulla superficie del globo, spinti a darci vicendevolmente soccorso, noi vedremo il gran Motore della vegetazione averci largamente provveduti di quanto fa d'uopo per sostenere i bisogni della vita. Il commercio, quando fosse libero, secondando i disegni della natura, supplirebbe col superfluo d'una terra al bisogno di un’altra, e colla legge di continuità basterebbe a periodicamente equilibrare bisogno ed abbondanza.

Premessa questa verità, che non si può negare senza oltraggiate la Provvidenza, vediamo ora se regge l'obbiezione. Si è detto che il pericolo, che sovrasta alla nazione venditrice, è che il beneficio dell'estrazione finisca, quando si è estratto non solo il superfluo di quel tal genere, ma anche parte del necessario. Or supponiamo che questo avvenga x(cosa per altro molto difficile per motte ragioni, che lascio a colui, che legge, d’indagare), supponiamo, io dico, ché ciò avvenga; ci sarebbe per questo carestia d’un tal genere in questa nazione, quando il commercio ne fosse libero? Quale è la causa, che ha indotti i proprietarj di questo genere a mandarlo presso la nazione, che ne aveva bisogno? Un guadagno considerabile, un prezzo sempre maggiore dell’interno. Quest’istessa causa dunque indurrebbe un’altra nazione a portare presso di lei quell'istesso genere, del quale si è privata per provvederne un'ultra. L’istessa libertà, che pareva che dovesse recarle la penuria, le ricondurrebbe l’abbondanza. I suoi porti, che non sarebbero chiusi né all'uscita di questo genere, né al suo ingresso, darebbero da una parte e prenderebbero dall'altra. I prezzi sarebbero allora sempre ad un giusto livello, e non si vedrebbero quelle alterazioni istantanee che, o fanno impallidire il ministro, o conducono al fallimento il negoziante, il proprietario e l’agricoltore.

La massima libertà dunque nel commercio d'un genere non può mai produrre in uno Stato la prima specie di carestia, che si è detto essere il difetto della quantità necessaria all'interna consumazione. Vediamo ora se può produrre la seconda, cioè l’alzamento del prezzo a tal segno, che una porzione de' cittadini non potrebbe provvedersene. Questo Don può mai avvenire, ed io lo provo con due ragioni. La prima di queste è semplicissima. Quando avviene, io domando, che il prezzo d’una merce, della quale esiste in uno Stato la quantità necessaria al suo bisogno, sia oneroso, alterato, superiore al giusto livello? Quando tutta la quantità esistente della merce si è unita in poche mani. Allora manca la concorrenza ra venditori; allora, il numero di quelli che vendono essendo picciolissimo, esorbitantemente crescerà, in vigore delle premesse, il prezzo della merce; allora finalmente il monopolio è inevitabile. Or questo disordine appunto è quello, che si evita colla libertà del commercio. Quando ciaschedun proprietario può fare quell'uso, che vuole, de' prodotti del suo terreno, ciaschedun proprietario sarà il negoziante di questi prodotti. Egli non vorrà sicuramente spogliarsi di questo vantaggio. Isoli vincoli artificiali, le sole proibizioni possono obbligarlo a metterli tra le mani d'un monopolista avveduto, per non sapere qual uso farne. Ecco la prima ragione: la seconda poi è fondata sulla conseguenza necessaria, che deriva dall’aumento istesso del prezzo, allorché quest'aumento non va in beneficio di tre o quattro monopolisti, ma de' proprietarj de' terreni. Quando questi son ricchi, è ricco lo Stato; quando essi son poveri, lo Stato è povero. Tutti gli ordini della società debbono confessare che la loro sorte è unita a quella dei proprietarj de' terreni. L’artefice che veste i loro corpi, che fabbrica le loro case, che costruisce i loro mobili, che lavora gli utensili necessarj alla coltura de' loro fondi, che provvede, in una parola, al loro comodo ed ai loro lusso; il mercenario che li serve; l'avvocato che li difende; il mercadante che commercia per loro; il marinaro e il vetturale che trasporta i loro prodotti ecc. tutti questi individui travaglieranno più, e saran meglio pagati dai proprietarj de' terreni, quando essi vendono a più caro prezzo i loro prodotti. Se i non proprietarj debbono pagarli a più caro prezzo, le loro opere debbono anche a più caro prezzo esser pagate da proprietarj. Il prezzo dunque le generi sarà caro, ma non sarà superiore alle forze di coloro, che debbono pagarlo.

Da queste riflessioni, che ho appena accennate, per non mancare a quella brevità della quale fo professione, si può con sicurezza dedurre, che né luna, né l’altra specie di carestia, può esser la conseguenza d'una libertà illimitata nel commercio de' prodotti del terreno. Vediamo ora se l'una e l'altra, sono le frequenti appendici della privazione di questa libertà.

Se l'esperienza non ci facesse vedere la frequenza delle carestie ne paesi ove ha luogo questo sistema funesto, malgrado l'ubertà de' loro terreni e la regolarità delle stagioni, la sola ragione basterebbe per mostrarci quanto essi debbono essere esposti a questo disastro. Per persuadercene ritorniamo all'ipotesi che si è premessa, affinché il parallelo tra due sistemi sia più esatto.

Si supponga, che la quantità della raccolta d'un genere, il commercio del quale è vincolato, superi quella che la sua consumazione interna richiede: in questa ipotesi quale sarà l’uso, che si farà di questo superfluo? O si lascerà marcire nel paese, o con una limitata estrazione accordata dal governo e preceduta da informazioni, da richieste e da calcoli, ai permetterà che esca dallo Stato. Or nell'uno, e nell'altro caso, io dico che la coltura di questo genere si risentirà de' vincoli, che il governo impone al suo commercio, e nell'uno, e nell’altro caso la nazione è esposta al pericolo d'un’imminente carestia. Questo è evidente. Nel primo caso lasciandosi marcire questo superfluo, vietandosene con rigore l’estrazione, il prezzo del genere si deve necessariamente avvilire, e, se questo superfluo è grande, si avvilirà a tal segno, che scoraggirà l’agricoltore dal proseguirne la coltura. L'abbondanza d’un anno produrrà dunque la carestia d’un altr’anno.

Nel secondo caso avverrà l’istesso effetto riguardo alla coltura, ma si recherà un danno anche peggiore allo stato. Questo sembra un paradosso, ma io lo dimostro.

In un paese, ove il commercio d’un genere non è libero, prima che il governo sappia se la quantità, che n’esiste nello Stato, superi quella che l’interna consumazione richiede, deve lungo tempo passare. le frodi che si possono commettere in quest’appuramento, e la difficoltà di fare un calcolo, i dati del quale sono tutti incerti, esigono la massima oculatezza del governo. L'estrazione dunque di questo superfluo non si accorderà che scorsi varj mesi dopo la raccolta, cioè, dopo che i possessori delle terre, costretti dall'inesorabile bisogno, l'han già venduto; dopo che la derrata si è già tutta ammassata presso i monopolisti. Che ne avviene da questo? Succeduta l’estrazione, il prezzo del genere si vede istantaneamente crescere senza che i proprietarj de' terreni possano profittarne, perché si trovano già venduta a vilissimo prezzo la derrata in un tempo, nei quale e la concorrenza de' venditori e la quantità della derrata, e 'l picciolo numero delle richieste si combinavano per renderne tenuissimo il valore. L’istesso motivo dunque, che gli avrebbe distolti dalla coltura di questo genere nel primo caso, gli distoglie anche nel secondo, colla differenza però, che le spese della sementa essendo maggiori allorché l'estrazione ha fatto crescere il prezzo del genere, l’impedimento sarà anche maggiore. In oltre, siccome il profitto di quest’estrazione va tutto in beneficio degl’incettatori e non de' proprietarj, i non possidenti (la sorte de' quali, come si è osservato, è sempre dipendente da quella de' possessori delle terre) non trovando ad impiegare le loro braccia e i loro talenti, o almeno non trovando ad impiegarle con maggior vantaggio di prima, perché la miseria de' proprietarj non permette loro di fare quelle spese, che farebbero essendo ricchi, i non possidenti, io dico, vedranno crescere dopo l’estrazione il prezzo di quel genere senza che cresca proporzionatamente in essi la possibilità di pagarlo.

Nel primo caso dunque l’abbondanza d’un anno produce una carestia di quantità nel seguente anno, e nel secondo caso essa produce una carestia di prezzo nell'istesso anno, e una carestia di quantità nel seguente anno. Quando dunque il commercio d una derrata è vincolato, un’estrazione data accidentalmente dal governo, molto lontano dall’esser giovevole, è perniciosissima, e più perniciosa, dell’istessa proibizione (84)). Sotto qualunque aspetto adunque, che si consideri questa ingerenza del governo, questo difetto di libertà nel commercio de' prodotti del terreno si troverà sempre essere fatale alla popolazione per la sussistenza che diminuisce, e funeste all’agricoltura, alle arti e all'industria per lo scoraggimene e la miseria che cagiona nei proprietarj de' terreni.

Ma non finiscono qui gli ostacoli che il governo oppone a progressi dell’agricoltura. Ve ne sono degli altri che mi contento solo d’enunciare, per evitare le ripetizioni inutili, che con ragione contribuiscono tanto al discredito d’un’opera. Questi sono: 1. l'alterazione continua delle tasse su terreni: 2. l’alienazione delle rendite del fisco; 3. la natura d’alcuni dazi; 4. la maniera d’esigerli; 5. la moltiplicità degli uomini, che si tolgono all'agricoltura, non per giovare, non per difendere, ma per defraudare la nazione ed il Principe nell’esazione delle sue rendite; 6. il sistema militare presente. Di quest'ultimo si è già a lungo parlato, e degli altri si parlerà nel decorso di questo libro, dove l’ordine delle mie idee e la distribuzione della materia, che ho per le mani, mi permette di osservare questi disordini in tutta la loro estensione, sotto tutti i loro aspetti, e mi permette, più d’ogni altro, di distendermi sulla scelta de' mezzi proprj per estirparli.


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CAPO XII

Seconda classe degli ostacoli che si oppongono ai progressi dell’agricoltura: quelli che derivano dalle leggi

Gli Ateniesi sacrificavano agli Dei non conosciuti, e noi dovremmo sacrificare al Dio conosciuto, affinché ci preservasse dagli errori che non si conoscono. Questa preghiera pubblica, che la provvidenza non sdegnerebbe d’ascoltare e d'esaudire, ci farebbe forse vedere nelle nostre leggi alcuni difetti ed alcuni errori, i quali se non distruggono interamente l’agricoltura, la mantengono almeno in quello stato d'avvilimento, nel quale noi la vediamo, avvilimento, che il declamatore attribuisce a vizj degli uomini, il volgo a flagelli del cielo, l’agricoltore all'intemperie delle stagioni, il progettista inetto all'ignoranza delle macchine, e degl'istromenti proprj per facilitare la coltura, ma che il solo filosofo. che medita ed osserva, ritrova ne vizj de' governi a negli errori delle leggi (85)).

Vi sono in molte nazioni dell'Europa alcune leggi, che pajono espressamente emanate per distruggere l’agricoltura. Alla testa di queste io ritrovo quella, che proibisce a proprietarj delle terre di murare i loro poderi, e di chiuderli con ogni specie di siepe, o di argine. Se non si fosse dimostrato e colle ragioni e coll’esperienza, quanto la chiusura de' terreni contribuisca all’ubertà delle raccolte; quanto acceleri la riproduzione; quanto moderi i rigori del freddo, e l’urto de' venti così distruttori nella primavera; se l’esperienza dell'Inghilterra non avesse fatto vedere, che il prodotto delle terre rinchiuse supera d’un quarto, per lo meno, quello delle terre che non lo sono, e che la pastura, invece di risentirsene, vi trova i più grandi vantaggi; se non si fosse, io dico, dimostrato tutto questo, per assicurarsi dell'ingiustizia, e de' mali, che arreca questa legge all’agricoltura, basterebbe scorrere per le campagne, per vedere quanto questa proibizione scoraggisca l’agricoltore, il quale vede una metà della sua raccolta perire in ogni anno per dover tenere esposto il suo campo e dagli animali che vanno a pascolarvi, da quali è quasi impossibile di garantirsi, ed alle vetture, che vi passano per risparmiare i cattivi passi delle strade pubbliche, ed a furti, che vi si fanno colla protezione istessa della legge.

Avendo io domandato un giorno ad un agricoltore di buon senso, perché non piantasse egli nel suo podere niuna specie di piante, di gelsi particolarmente, così profittevoli oggi che la seta è divenuta uno de' principali oggetti dell’industria, a questa domanda, dopo aver mandato fuori un profondo sospiro, egli mi rispose: Signore, io sono troppo avveduto ne miei interessi, io non avrei trascurato un oggetto così profittevole, se la legge non me lo proibisse. E vero, seguitò egli, che non ci è alcuna legge espressa, che mi proibisce di piantare quante piante io voglia nel mio podere, ma ciò una legge espressa, che mi proibisce di chiuderlo. Or sappiate che dieci sole capre, che s’introducano nel mio campo, basterebbero per distruggere in poche ore cinquecento piante tenere di gelsi, se io ardissi di piantarle. Ancorché io avessi il diritto di proibire a qualunque specie di animali di venire a pascolare nel mio podere, diritto che la legge non mi dà che in alcuni mesi dell’anno (86)), ancorché, io dico, avessi questo diritto, potrei forse soggiacere alla spesa, che si richiede, per custodire, come si conviene, un campo aperto da tutte le parti? Non sarebbe una stranezza lo spender tanto a migliorare un fondo, che le leggi condannano a languire? Che queste mi permettano di chiuderlo, che mi permettano di far valere nel mio campo quel diritto, che io ho nella mia casa, che mi restituiscano finalmente la libertà di disporre di quello che è mio, e voi vedrete dopo pochi giorni tutto il mio podere circondato da gelsi, da olivi, e da ogni altra specie di piante, che questo terreno è atto a nudrire.

Questa semplice risposta di quest'agricoltore mi sorprese. Io ne dedussi da principio l’ostacolo che questa legge oppone a progressi dell'agricoltura, e riflettei quindi al colpo fatale che reca a sacri diritti della proprietà. Io non so intendere, come i legislatori l’abbiano rispettata cosi poco. Ancorché la chiusura de' terreni fosse una cosa indifferente per i progressi dell’agricoltura, ancorché giovasse a qualche cittadino, io non veggo nella legge che la proibisce, che un’ingiustizia manifesta, un attentato contro gl’imprescrittibili diritti della proprietà.

Non bisogna confondere le leggi proprie per dirigere un ordine di Frati colle leggi proprie per dirigere una società civile. In un chiostro tutto è di tutti, niente è individualmente d’alcuno, i beni formano una proprietà comune. Questo è un solo essere, dice uno Scrittore celebre (87)), fornito di venti, trenta, quaranta mila, diecimila teste. Non è così d’una società. In questa ciascheduno ha la sua testa e la sua proprietà, una porzione della ricchezza generale, della quale egli è il padrone, ed il padrone assoluto, e della quale egli può usare, ed anche abusare a capriccio. Ancorché il bene pubblico esigesse che egli ne facesse uso in una certa maniera, il legislatore non deve prescriverglielo espressamente. Egli deve ricorrere alle vie curve: egli deve in tal maniera combinare i suoi interessi, che questo proprietario faccia della sua proprietà quell'uso che la legge desidera, ma che lo faccia spontaneamente, senza l'espresso comando delle leggi

La differenza tra una nazione ben regolata, e una nazione mal regolata, è questa. Nella prima gli uomini vanno direttamente, ed obliquamente vanno le leggi, e nella seconda obliquamente vanno gli uomini, e direttamente le leggi. Nella prima il legislatore maneggiando l’interesse privato del cittadino, l’induce a fare quello che egli vuole senza obbligarlo, senza neppure palesaglielo; e nella seconda egli lo innasprisce, lo irrita, Indispone a divenir refrattario, mostrandogli il suo disegno, la sua volontà, la sua forza, e nascondendogli i suoi interessi.

Lo stabilimento, per esempio, dell’lmperadore Pertinace, il quale volle, che un campo lasciato incolto si appartenesse a colui che l’avrebbe coltivato, andava troppo direttamente al suo scopo. Per proteggere l’agricoltura egli offendeva la proprietà, che dev’essere il primo nume del legislatore (88)).

Se un campo è mio, io posso consecrarlo alla sterilità, e 'l decoro della proprietà richiede che la legge mi permetta, riguardo a quest’oggetto, d’essere un cattivo cittadino; poiché, se essa mi toglie questa libertà, se essa mi comanda di coltivarlo, e coltivarlo a suo talento, io non sono più il padrone del mio fondo, io non ne sono che un amministratore dipendente dalla volontà d'un altro. Premesse queste riflessioni, che diremo noi della legge, che proibisce al proprietario di chiudere e di murare il suo fondo? Ancorché questo giovasse in qualche maniera a progressi dell'agricoltura, non altrimenti della legge di Pertinace, basterebbe questo per giustificarla dall'oltraggio che fa alla proprietà? Si può forse cercare un bene col soccorso d'un ingiustizia, e gittare a terra una città per inalzare su le sue rovine un sontuoso edificio? Ma se questa legge non solo non è favorevole, ma distrugge l’agricoltura; se nel tempo istesso, che ferisce ed altera tutti i principi della sacrosanta proprietà, scoraggisce l’agricoltore dal piantare, dal seminare, dal coltivare (come si è veduto); se nel tempo istesso che è ingiusta, è anche perniciosa, non si dovrà forse considerare come l’ignominia de' nostri codici, e come il ramo più irregolare e più informe di quella quercia mostruosa ed antica, misero e vergognoso emblema della legislazione presente delle unzioni d’Europa?

Uno spirito di pastura male intesa ha dettata questa legge, e l’istesso spirito fa ancora sussistere i fondi demaniali in una gran porzione dell’Europa. Questi fondi che, essendo di tutti, si può dire che non sono d'alcuno questi fondi che sacrificano alla sterilità una parte considerabilissima de' terreni delle nazioni, questi fondi che, vendendosi a particolari cittadini, farebbero crescere quasi d’un terzo la massa dell’annua produzione, questi fondi finalmente che potrebbero somministrare ad un legislatore avveduto i mezzi per cominciare la gran riforma, che si dovrebbe intraprendere nel sistema universale delle contribuzioni, questi fondi, io dico, sono condannati a languire per essere il pascolo di poche pecore, che l’indigenza vi conduce per non avere né proprietà, né richieste per impiegare le sue braccia. Il timore di nuocere a questa classe infelice de' cittadini, i quali per altro sarebbero i primi a profittare della vendita de' demanj, questo timore, io dico, distoglie i nostri legislatori da un’intrapresa, che potrebbe forse far mutar d’aspetto l’agricoltura nell’Europa, e questo istesso timore fa ancora sussistere in molte parti la legge che proibisce la chiusura de' terreni. Misera condizione dell’amanita! La barbarie, l’ignoranza, i pregiudizi, fino la pietà istessa de' legislatori, tutto cospira alla sua miseria. Ma non sono questi i soli ostacoli, che le leggi oppongono a progressi dell’agricoltura (89)). Ce ne sono degli altri, una porzione de' quali è mescolata tra le rovine ancora esistenti del sistema feudale.

Quando questo sistema fatale era il sistema di tutta l’Europa, quando l’anarchia de' feudi era nel massimo suo vigore, i metalli non entravano nelle contribuzioni pubbliche o private. I nobili servivano lo Stato, non colle loro borse, ma colla loro persona, e i loro vassalli somministravano loro le rendite o in derrate, o in opere. Da questo ebbero origine le decime sopra tutti i prodotti, e quella prestazione d’opere che il Barone esigeva da vassalli, e che i barbari chiamavano Corvaia. Questi disordini, che distruggono direttamente l’agricoltura, avrebbero dovuto interamente svanire colla rovina del sistema feudale. Ma il fatto non corrispose alle speranze de' popoli. Ciaschedun Principe, divenuto solo padrone ne suoi Stati, abolì come magistrato alcuni abusi nati dal diritto della guerra, diritto che distrugge tutti i diritti; ma molte usurpazioni consecrate dal tempo furono rispettate, malgrado le grida della libertà e dell’interesse pubblico. La maggior parte delle prestazioni personali non sono state abolite in molte nazioni d’Europa, e le decime sopra tutti i prodotti della Datura, che avrebbero dovuto essere abolite o permutate, sono, per la rovina dell’agricoltura, ancora in uso nella maggior parte di questi scheletri non ancora inceneriti delle moderne baronie.

Sussiste ancora quasi universalmente il barbaro diritto della caccia: questa è un’altra reliquia della feudalità. I popoli del Settentrione, questi Irocchesi dell'Europa, de' quali noi abbiamo vergognosamente conservate le leggi, erano cacciatori per professione e per bisogno. Quando essi discesero nel mezzogiorno, quando strapparono all’impero moribondo le sue più belle provincie, quando essi s’impadronirono de' paesi più favoriti dalla natura, non sì poterono dimenticare del loro antico mestiere. Essi non vollero lasciare d’esser cacciatori. Ma siccome non più era il bisogno che ve li chiamava, ma il piacere, quest’esercizio, dopo essere stato l’oggetto dell’occupazione dell’indigenza, divenne una delle dellzie e delle ricercate distrazioni dell’opulenza, della noja, e della voluttà. Il padrone del feudo, il Barone solo, potè disporre della caccia nel suo feudo. Per soddisfare senza molto stento a questo piacere, per moltiplicare le vittime del suo ozio distruttore, ciaschedun feudatario volle avere, a spese dei suoi vassalli, alcuni vasti spazj riserbati a sé per questo piacere, in maniera che, dovunque si trovavano i segni della proibizione, ivi si trovava una quantità immensa di animali privilegiati, autorizzati a devastare le campagne, e destinati a perire esclusivamente per le sue mani. Questo diritto, che risente di tutta la barbarie de' tempi ne quali ha avuto origine; questo diritto contrario alla proprietà, e all'interesse pubblico, e che non lascia di nuocere infinitamente a progressi dell’agricoltura; questo diritto, io dico, non solo non è stato abolito, ma si esercita col massimo rigore in una gran porzione dell’Europa, e questo avviene ne paesi, ne quali non vi è che l’ombra sola della feudalità. Or che dovrà avvenire in quelli ne quali questo mostro conserva ancora il suo antico vigore?

Che dovrà dirsi della Danimarca, della Polonia, d’una gran parte dell’Alemagna, e della Russia, ove la filosofia, che ha illuminato il resto dell’Europa e fissati i diritti dell’umanità, non ha potuto ancora annientare la servitù della gleba. Chi lo crederebbe? Questa specie di schiavitù sussiste ancora in alcuni paesi, che da più di dieci secoli vantano la loro libertà, e combattono per essa. Questa libertà risiede in poche migliaja di nobili, e di preti: il resto della nazione è composto di schiavi attaccati al suolo ove nascono, che non conoscono né la proprietà reale, né la personale, che coltivano un terreno che non è loro, e i frutti del quale vanno interamente a colare tra le mani del tiranno che gli opprime. La loro fortuna, indipendente dall’esito della raccolta, li priva del dolce sentimento della speranza, unico sprone della fatica. Essi coltivano per timore del bastone sempre innalzato sul loro dorso. Se questo scomparisce, se si ritira per un momento, il corso del lavoro è interrotto, e natura irritata vendica colla sua sterilità i torti che la legge reca a suoi coltivatori. Qual meraviglia, che l’agricoltura sia nel pessimo stato in questi paesi? Potrebbe essa prosperare fra le rabbie della disperazione, fra le minacce della forza, fra l’avvilimento, la bassezza, e l’ignoranza della schiavitù, sotto la verga della tirannia? Ma io non la finirei mai, se volessi esaminare distintamente tutti gli ostacoli, che le leggi feudali oppongono a progressi dell’agricoltura nelle diverse nazioni dell’Europa. Siccome queste leggi non sono da per tutto le istesse (90)), siccome in un’istessa nazione esse variano relativamente a privilegi accordati nelle concessioni dei feudi, siccome finalmente il difetto dell'uniformità, questa caratteristica d’una legislazione difettosa, è propriamente il vizio inerente de' codici feudali, per rilevare tutti gli ostacoli, che questi oppongono a progressi della agricoltura, io dovrei entrare in un dettaglio che ricercherebbe un’opera a parte. Mi basta d’avere accennati i più grandi e i più comuni: quelli che non han luogo che in un sol paese, non entrano nel mio piano (91)).

Io passo finalmente a rilevare un altro disordine che non è né piccolo né particolare, che non nasce dal difetto delle leggi, ma dall’esecuzione, e che ci dimostra quanto anche le buone leggi sono inutili, quando tutto il sistema della legislazione è difettoso.

Di questo disordine io parlerò nel seguente capo, che non sarà che un appendice di questo che io termino.


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CAPO XIII

Proseguimento nello stesso soggetto

Che dovrebbe dirsi d’un paese, nel quale le cattive leggi si osservano, e le buone si trascurano, e sono messe in disuso? Tutti i presagj circa la sua aorte non gl’intimerebbero forse una rovina imminente? Or questo è infelicemente lo stato di molte nazioni dell’Europa.

Noi abbiamo così nel diritto comune, come nel municipale, alcune leggi utilissime per proteggere le cose necessarie al lavoro della terra, e per vegliare alla sicurezza, alla tranquillità, ed al comodo degli agricoltori. I vecchi codici delle Romane leggi ci han tramandati molti stabilimenti degl’imperatori relativamente a quest’oggetto. Noi sappiamo, che Costantino il grande ordinò, sotto pena di morte, agli esattori del fisco di lasciare in pace l’agricoltore indigente (92)). Egli fece anche di più. Siccome, tra gli altri pesi delle provincie, ci era quello di somministrare i buoi per le vetture pubbliche, Costantino escluse da questa contribuzione que buoi, che erano addetti alla coltura della terra (93)). Non contenti di questo gl'imperatori Onorio e Teodosio vollero anche con altre leggi garantire gli agricoltori da quella specie di nemici nascosti, che vanno in nome della legge a toglier loro da mezzo a solchi il bue compagno de' loro sudori, e fino a privargli degl’istrumenti stessi del lavoro. Per ottenere questo fine essi proibirono al creditore di privare il debitore di tutto quello, che poteva servire alla coltura della terra, per costringerlo al pagamento. Gli schiavi, i buoi, e tutti gl’istrumenti agrarj erano compresi in questa proibizione, e la pena di morte fu destinata a coloro che avrebbero violata la legge (94)).

Gl’Imperadori Valente e Valentiniano non trascurarono un oggetto così interessante, e la maggior parte de' codici municipali dell’Europa ha confermati questi stabilimenti della Romana politica, se non in tutto, almeno in parte (95)) Ma chi non sa quanto queste leggi sono poco osservate nella maggior parte delle Dazioni, quanti mezzi si sono trovati per eluderle, quanti attentati si commettono contro la più giusta di tutte le immunità, contro quella, che considera come sacre le cose destinate alla riproduzione?

Il bue, il cavallo, la porzione istessa della raccolta destinata alla sementa, tutto s'immola all’avidità del creditore, e alle cento bocche sempre aperte del fisco.

Il sistema funesto d’indagare Io spirito della legge, sistema distruttore della libertà civile, ha somministrato nostri magistrati il mezzo più strano, che si possa immaginare, per eludere il senso espresso di queste leggi. Allorché un creditore ricorre contro un agricoltore insolvibile, se questi ha un bue, il magistrato gli ordina di darlo al suo creditore in soddisfazione del suo debito, e crede di secondare lo spirito della legge proibendo al creditore di vendere questo bue al macello. Che importa, dicono essi, che il bue sia di questi, o di quegli? Basta che non si tolga alla coltura quest'istrumento di riproduzione, per secondare l’idea del legislatore.

Bisogna dunque supporre, che gl'Imperatori di Roma, e tutti gli altri legislatori, che han confermate queste determinazioni, credessero che non ci fosse in natura che un numero fisso di buoi atti a strascinare l’aratro, e che per conseguenza non potesse alcuno provvedersene senza privarne un altro. Sj può forse ideare un giudizio più mal fondato di questo? Si può forse indagare lo spirito di una legge, con maggior bassezza? Se Montesquieu fosse riuscito con altrettanta felicità in questo mestiere, il suo Dome, che oggi fa la gloria della sua patria, non farebbe che occupare una riga di più nell’elenco alfabetico de' miseri glossatori. Se i governi dunque, le leggi, i magistrati, se tutto contribuisce a rendere dura e penosa l’arte più antica e più necessaria, che speranza avrem noi, che le campagne divengano feconde, che queste fioriscano fra i sudori e le lagrime dell’indigenza, e sotto i passi distruttori dell'oppressione? Quando tutti i privilegi, e tutte l’esenzioni sono per le città, e tutti i pesi per le campagne; quando il nome di villano è divenuto oltraggioso; quando la condizione istessa di colui, che vende nelle città la sua persona al più offerente, è divenuta migliore di quella del cittadino, che nudrisce il Sovrano e la patria; quando torna più conto d’andar mendicando nelle grandi città, che soccorrer la natura nelle campagne; quando finalmente i clamori, e le lagrime di quest'infelici non si curano, e si disprezzano, nel mentre che tutto si sacrifica nelle capitali alle grida insensate di una turba di esseri senza beni, senza proprietà, senza onore, ed il solo merito de' quali è d’esser sempre irritabili e sempre turbolenti; quando, io dico, questo è il sistema politico del secolo, qual meraviglia ci dovrà recare il vedere in quasi tutte le nazioni dell’Europa ingrandirsi sempre più, a spese delle campagne, questi colossi fastosi delle capitali, i quali pare che contribuiscano al decoro degli Stati, ma in fatti gli opprimono col loro peso, e ad altro non servono che a perpetuare l’inganno nel quale sono i governi circa la prosperità de' loro popoli? Di questo funesto disordine, di questo disordine di strutture dell’agricoltura, delle cause che più particolarmente cooperano a fomentarlo, e de' rimedj più opportuni per indebolirlo, io parlerò nel seguente capo.


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CAPO XIV

Terza classe degli ostacoli che si oppongono a progressi dell’agricoltura: 

quelli che derivano dalla grandezza immensa delle Capitali

Il tolgo, al quale tutto quello che è grande impone, ammira le grandi città e le capitali immense. Il filosofo non vi vede altro che tanti sepolcri suntuosi, che una moribonda nazione innalza ed ingrandisce, per riporvi con decenza e con fasto le sue ceneri istesse. Io non dico, che non ci dovrebbe esser una capitale in una nazione ben regolata. L’etimologia istessa della voce ci fa vedere che questa è così necessaria ad uno Stato, come la testa è necessaria al corpo: dico solo, che se la testa s’ingrandisce troppo, se tutto il sangue vi corre e vi si arresta, il corpo diviene apopletico, e tutta la macchina si discioglie, e perisce. Ora in questo stato & apoplessia sono infelicemente la maggior parte delle nazioni dell'Europa. La loro testa si è ingrandita a dismisura. La capitale, che dovrebbe essere una porzione dello Stato, è divenuta il tutto, e lo Stato non è più niente. Il numerario, questo sangue delle nazioni, vi si è funestamente arrestato, e le vene, che dovrebbero trasportarlo nell’interno dello Stato, si sono rotte o oppilate. Gli uomini, che seguono il corso del metallo, come i pesci seguono la corrente delle acque, hanno abbandonate le campagne per

fissare la loro sede nel solo paese ricco della nazione. Uomini e ricchezze, tutto si è concentrato nell’istesso punto: essi si sono ammucchiati gli uni sa gli altri, lasciando dietro di loro spazj infiniti, e ciascheduna di queste grandi capitali è divenuta una seconda Roma, che conteneva tutti i suoi cittadini fra le sue mura. Questo è lo stato presente della maggior parte delle nazioni dell’Europa, stato incompatibile co' progressi dell’agricoltura, e colla prosperità de' popoli. Bisognerebbe contrastare un assioma per sostener l’opposto. E un assioma nella facoltà rurale che, indipendentemente dalla sua fecondità, la terra produce sempre a misura di quel che se le dà. Or se le darà sempre poco, finché tutto quel che ci è di ricco nello Stato, abiterà nella capitale; finché il proprietario abbandonerà il suo fondo tra le mani d’un fattore poco impegnato a migliorarlo; finché il danaro, che corre nella capitale, vi resterà sepolto; finché le spese, che vi si fanno, non permetteranno al proprietario che l’abita, di serbare una porzione delle sue rendite per migliorare i suoi fondi sempre mal coltivati lontano da suoi occhi;finché tanti esseri, che potrebbero coltivare la terra e moltiplicare la somma delle sue produzioni, perseguitati dalla miseria, fuggiranno nelle capitali, per andar mendicando un pane che essi potrebbero som. ministrare agli altri, o per vendere il loro ozio ad un ricco più ozioso di essi: finalmente si darà sempre poco alla terra, finché la sua coltura si abbandonerà tra le mani dell’indigenza sempre deboli, e sempre sterili.

Queste sono le conseguenze necessarie della grandezza immensa delle capitali, e questi sono gli ostacoli che questo disordine reca a progressi dell’agricoltura. Per cercare un rimedio a questo male un Principe de' nostri tempi lia proibito a tatti gli agricoltori del suo Regno di fissare la loro dimora nella città. Ninna legge ha mai ottenuto meno il suo fine di questa. Invece di proteggere l’agricoltura, l’ha degradata, e la popolazione delle sue città, in vece di diminuirsi, è cresciuta. I mali sussistono, i rimedj sono inutili, quando non si volgono gli occhi alle cause. Or molte sono quelle, che concorrono ad ingrandire le capitali sulle rovine delle campagne. Io le distribuisco in due classi. Altre sono necessarie, altre sono abusive. Contro le prime bisogna cercare un compenso, contro le seconde una riforma.

Vediamo adunque, prima d’ogn’altro, quali sono le necessarie, e quale sarebbe il compenso da opporre alla loro azione sempre viva.

La capitale, considerata come sede del governo, deve necessariamente richiamare a se molte ricchezze e molti uomini. Siccome ciaschedun proprietario deve pagare allo Stato una porzione delle sue rendite; o una tassa sopra i suoi fondi; siccome l'industria di ciaschedun uomo gli deve anche più, o meno, secondo le leggi, o gli usi fiscali di ciaschedun paese, secondo i diritti stabiliti sulle consumazioni, sull’esportazioni, sulle materie prime, sulle manifatture ecc.; tutte queste somme immense vanno necessariamente a colare nella capitale. I gran ministri del Sovrano, e dello Stato, i magistrati de' tribunali superiori, tutti i cortigiani dove ci è un trono, e tutti gli altri impiegati nel numero infinito delle cariche, che richiede l'organizzazione superiore del governo, tutti questi, io dico, consumano nella capitale non solo i loro soldi, ma anche le rendite de' loro fondi. L'ambizione, la speranza di fare una fortuna sotto gli occhi del governo, l’attrattiva dei piaceri più raffinati e più numerosi nelle capitali, il fasto della corte e de' cortigiani, l’abborrimento naturale dell’uomo per levita oscura, l'amore istesso della sociabilità, sono tante altre sorgenti perenni, e che non si possono oppilare, le quali tutte richiamano nella capitale molte ricchezze e molti uomini, e che l’ingrandiranno sempre più, se le leggi non danno un compenso alle campagne, se esse non danno a quest’acque uno scolo, che le riconducano nell’interno dello Stato donde sono partite, se finalmente la loro tacita sanzione non istabilisce un equilibrio tra le ricchezze delle campagne con quelle della capitale, equilibrio che non sarebbe difficile ad ottenersi, quando la legislazione fosse l’opera della ragione e della filosofia.

Vediamo dunque quale sarebbe questo compenso come si potrebbe dare questo scolo, come si potrebbe ottenere quest’equilibrio.

Bisogna persuadersi che tutto è catena in questo mondo. I beni, come i mali, hanno la loro filiazione, e questa filiazione è in certa maniera reciproca. Da un solo male nascono molti mali: da un solo bene nascono molti beni. Cosi un commercio interno (iù libero, un’esportazione più facile, proscrivendo a miseria dalle campagne, primo e grande ostacolo all’agricoltura, diminuirebbe nel tempo istesso queste grandi masse, le quali da per loro istesse la struggono anche di più. Il proprietario, potendo allora unire i beneficj dell'agricoltura a quelli dei commercio, quelli della produzione a quelli del traffico, non abbandonerebbe le sue terre, le quali avrebbero bisogno della sua presenza continua per recargli tanti vantaggi. L’agricoltore, che troverebbe sempre a vendere la sua opera ad un prezzo ragionevole, quando i proprietarj cercassero di far valere i loro fondi, molto meno abbandonerebbe la campagna per fare il mestiere di mendicante in una capitale, mestiere naturalmente disgustevole, ed al quale l'uomo non si determina, che o per un estremo bisogno, o per un abito preso dalla infanzia. Finalmente queste cause, che alienerebbero i proprietarj e gli agricoltori dalla dimora nella capitale diminuirebbero anche la somma di quegli esseri oggi così eccessiva nelle grandi città, di quegli esseri, io dico, che fanno un commercio infame della loro libertà, e la condizione de' quali non differisce in altro dalla vera schiavitù, che nel diritto di poter mutare un padrone, diritto, che unito alla facilità di poter esser licenziati a capriccio, gli espone ad un pericolo, al quale lo schiavo istesso non è soggetto, cioè di perire dallo stento, o di passare i giorni della loro vecchiezza nell'indigenza. Ecco il primo compenso che si potrebbe dare.

La moltiplicazione de' proprietarj sarebbe il secondo. A misura, che in una nazione cresce il numero de' proprietarj, si diminuisce il numero dei grandi possessori, i quali fanno non solo, come si è osservato, la rovina della popolazione, ma anche dell’agricoltura, sì per l’abuso che fanno de' terreni, come per le ricchezze, e per gli uomini che richiamano nelle capitali. Se ciò che si possiede da uno di questi gran proprietarj, si possedesse da venti o da trenta piccioli proprietarj, questi non potendo reggere al lusso della capitale e della corte, abiterebbero nelle provincie e nelle campagne, e farebbero valere i loro fondi colla loro presenza continua. Il gran proprietario al contrario sdegna il soggiorno campestre. Egli non sa vivere senza esser riscaldato da raggi del trono. Quest'astro che l’oscura, che lo tormenta, che lo degrada, è l’unico oggetto della sua vile ambizione. Per essergli vicino, egli consuma le sue rendite, egli trascura i suoi interessi, egli vive nella capitale. Ivi, per palesare il suo lusso e le sue ricchezze, egli occupa, abusa e profana il pennello del pittore, lo scalpello dello statuario e dello scultore, il genio dell'architetto, la fantasia del poeta, e tutti gli ordini delle manifatture e delle arti. Ivi egli mantiene uno stuolo prodigioso d’oziosi, che servono più al suo fasto che al suo comodo. Ivi finalmente egli consuma le sue rendite e quelle della sua posterità. Ecco come la riunione di molte proprietà nelle istesse mani coopera all’ingrandimento delle capitali, ed ecco come lo smembramento di queste, e la moltiplicazione de' piccioli proprietarj cagionata da una savia legislazione, darebbe un gran compenso alle campagne.

Lo stabilimento di molte manifatture nell'interno dello Stato, dando uno scolo alle ricchezze che molte sorgenti trasportano nella capitale, non contribuirebbe meno a diminuire la loro prodigiosa grandezza. Questo stabilimento, che gioverebbe all'agricoltura aprendo una strada, per la quale una porzione delle ricchezze della capitale potessero ritornare Dell'interno dello Stato, gioverebbe anche alle manifatture istesse; poiché la sussistenza essendo sempre a miglior mercato nelle provincie che nella capitale, il manifatturiere, spendendo meno, diminuirebbe anche il prezzo delle sue manifatture, diminuzione che ne aumenterebbe la consumazione generale. Noi sappiamo che Colbert riuscì in ques’intrapresa. Che non mi si opponga dunque la solita obiezione dell’impossibilità e della difficoltà. Il germe salutare dell'industria si può sviluppare così nelle provincie come nelle capitali. Da per tutto gli uomini nascono col desiderio di migliorare la loro condizione, e di profittare di tutto quello che li circonda. I soli errori delle leggi, la sola avidità de' governi può alienarli, può scoraggiarli, può finalmente ispirare una certa inerzia nell'uomo, che per natura è l’essere più elastico e più attivo. Senza premj, senza incoraggiamenti, senza molta fatica si potrebbe tutto ottenere: basterebbe che si togliessero gli ostacoli. Basterebbe forse abolire la miglioria presso di noi, basterebbe liberar le seterie da tanti replicati dazj, e dalla schiavitù nella quale gemono, per far rinascere le manifatture nelle nostre provincie. Il primo di questi oggetti ha già richiamate le cure del presente ministero. Il primo passo, che si è fatto, se non può da se solo produrre il bene che si desidera, ci assicura almeno della vigilanza del governo. Questo solo basta per dargli un diritto alla nostra riconoscenza. Se l'esperienza ci insegna a dichiararci contenti d’un’amministrazione che non moltiplica i nostri mali, quanto bisognerà dunque adorare quella che cerca ai diminuirli?

Finalmente tutto quello che giova ad accrescere la circolazione interna, le strade pubbliche, i canali di comunicazione ec, tutto questo giova ad equilibrare lo stato delle provincie a quello della capitale. Ma siccome questi oggetti debbono piuttosto esser l’opera dell’amministrazione, che delle leggi, io lascio ad altri la cura di parlarne.

Dopo aver dunque parlato delle cause necessarie, che cooperano all’ingrandimento delle capitali, e del compenso che si potrebbe dare alla loro azione sempre viva; vediamo ora, quali sono le abusive, contro delle quali non ci è bisogno d'un compenso, ma d’una riforma.

La prima fra queste, e la più perniciosa, è l’appellazione dalle decisioni de' tribunali delle provincie a quelli della capitale. Non ci vuol molto a vedere quante ricchezze, e quanti uomini questo funesto sistema richiami nelle capitali, oggi particolarmente che lo spirito litigioso è divenuto l’anima delle nazioni, oggi che la moltiplicità delle leggi rende ogni intrapresa sostenibile, oggi finalmente che i litigi sono dispendiosi ed eterni.

A Dio non piaccia che si abbia a credere, che io voglia dichiararmi contro un diritto, che è il miglior garante della libertà civile, contro quel diritto, io dico, che la legge dà a ciaschedun cittadino, di appellarsi ad un tribunale superiore dalla prima sentenza d’un tribunale inferiore. La confidenza pubblica richiede alcuni rimedj, e l’appellazione è il più ragionevole. Ma questi tribunali superiori non potrebbero forse erigersi nelle istesse provincie? Ciascheduna provincia non potrebbe forse avere il suo? I tesori del Principe si risentirebbero forse d’un tenue sacrificio, che si farebbe al bene pubblico. Ma, senza incomodare l’erario del Sovrano, basterebbe sopprimere tre o quattro cariche fastose ed inutili, per recare allo Stato un beneficio che spopolerebbe la capitale di tanti avvocati, che vi consumano la quinta parte delle ricchezze della nazione, di tanti infelici litiganti che vi dissipano le loro sostanze, e di tanti altri cittadini che, avvezzi alla dimora della città, durante quel tempo che han dovuto fermarvisi per condurre i loro affari, vi si fissano quindi per sempre, allettati da piaceri che questa loro offre.

In Inghilterra non si conosce questo disordine. I giurati sono sempre presi ne luoghi, ove è insorta la contesa. Essi debbono avere un presidente, o essere convocati da un de' dodici gran giudici d’Inghilterra, i quali si dividono tutto il Regno, e ciascheduno di essi va dc! corso dell’anno a fare il suo giro nel suo dipartimento, per fare ultimare tutte le liti. Or siccome il tempo della sua dimora in ciaschedun paese è fissato, ed il momento del suo passaggio da un luogo in un altro è determinato, se i giurati non si sono ancora uniti di parere, quando questo tempo è giunto, il giudice parte dal luogo, e conduce i giurati seco. Sono dunque i magistrati, sono dunque i giudici quelli che viaggiano in Inghilterra, e non i miseri litiganti.

Il ristabilimento de' Presidiali in Francia pareva che dovesse divenire in questa nazione il primo passo di questa desiderata novità. Questi tribunali provinciali destinati a decidere in ultimo grado d’appellazione i litigi, che non passavano una somma determinata dalle leggi, avevano da più di due secoli perduto il loro antico vigore. L’Editto del 1774. gli aveva risvegliati da questo languore, al quale la potestà legislativa gli aveva condannati. Gli applausi della nazione, e dell’Europa, avevano premiato lo zelo del Principe che l’aveva dettato; ma per disgrazia de' popoli gl’interessi privati prevalgono spesso sulle grida dell’interesse pubblico. I risentimenti delle Corti parlamentarie han fatto modificar l’editto, e la modificazione ne ha distrutti tutti i vantaggi. Quest'avvenimento ci trasporta ad una riflessione molto rattristante per l’umanità. Ci vuol molto per liberarla da mali che l’opprimono, ma ci vuol poco per privarla de' beneficj che le si arrecano.

L'appellazione dunque a tribunali della capitale è la prima causa non necessaria, ma abusiva, che più dogn’altro coopera al suo ingrandimento, e che si potrebbe facilmente abolire. La seconda sono i privilegi accordati a coloro che l’abitano.

Io non so se converrebbe una volta cancellare dal diritto pubblico delle nazioni l'articolo de' privilegi. Io lascio ad altri l’esame di questa questione; ardisco però di dire, che se mai l'economia civile richiede che una certa classe dello Stato sia più favorita delle altre, questa parzialità dovrebbe cadere in favore di quella che più la merita, della più utile cioè, della produttrice. Ma la giustizia distributiva ha rare volte guidate le operazioni de' governi. L’interesse, e il timore sono due passioni, che hanno troppa forza sul nostro cuore. Il Principe, quantunque abbia tra le mani tutte le forze della nazione lascia di temere coloro che lo temono; e siccome si teme sempre più un cane vicino che un leone lontano, gli abitanti delle capitali, come i più vicini al trono, sono stati sempre i più temuti, e per conseguenza i più favoriti dal governo e i meno oppressi. Una volta forse questa funesta politica era perdonabile a Principi. Quando il loro potere era diviso, o per meglio dire oppresso dalla feudalità, quando una porzione de' loro sudditi era schiava dell’altra che era più forte di loro; quando essi non erano Re che nelle capitali de' loro regni; essi avevano almeno un motivo che poteva indurli e sacrificare gli interessi della nazione a quelli della capitale, a rovinare l’agricoltura per tener contenti, e moltiplicare il numero di coloro, che erano più vicini a loro vacillanti troni. Ma oggi che la pienezza del loro potere si fa egualmente sentire in tutte le parti dei loro vasti imperj; oggi che l’interesse particolare de' Principi si unisce con quello dello Stato per conseguire l’effetto opposto; oggi che la ricchezza delle campagne deve decidere della forza del Sovrano, dell’opulenza pubblica, e della sicurezza del governo, oggi, io dico, questo motivo istesso più non esiste: la sola ignoranza, la sola forza, che il tempo dà agl’inveterati disordini, può conservare questa parzialità funesta, che è contraria alla giustizia e alla politica, che nuoce allo Stato intero per giovare apparentemente ad una porzione di esso, e che non contribuisce poco al pernicioso ingrandimento delle capitali.

Finalmente, il trasporto de' pubblici ricettacoli, come, per esempio degli alberghi de' poveri, di quelli degli Esposti de' matti, degl’invalidi ecc. nell’interno dello Stato potrebbe ravvivare le provincie, e scemare nel tempo istesso la gran popolazione della capitale.

Noi sappiamo per esperienza che un solo reggimento, che formala guarnigione d’una città di provincia, basta ad arricchirla. Quanti paesi potrebbe dunque arricchire il trasporto di questi pubblici ricettacoli in diverse parti dello Stato? La magnificenza, e 'l decoro della capitale se De risentirebbe, io lo confesso: questi pubblici beneficj sepolti nell’interno delle provincie rimarrebbero, è vero, nascosti agli occhi del viaggiatore, che non cerca altro che di vedere la capitale d’uno Stato, questa corteccia lusinghiera d’un pomo inverminito: ma il bene pubblico non è da mettersi in paragone cogli applausi d’un viaggiatore poco filosofo. Quello è il vero decoro delle nazioni, quello è il vero fasto, che rende risplendenti i troni, e più augusta la sovranità. In multitudine populi dignitas Regis. Or la popolazione languirà sempre, quando languisce l’agricoltura, e l’agricoltura sarà sempre in decadenza, finché la capitale sarà ricca e popolata a spese della desolazione e della miseria delle campagne; finché io dico, sarà piena di proprietarj tolti da loro fondi, di servi strappati dall’aratro, di fanciulle rapite all'innocenza ed al coniugio, di uomini consecrati al fasto ed all’ostentazione, istrumenti, vittime, oggetti, ministri, e trastulli della mollezza e della voluttà. Io m’avveggo d’essermi immerso in alcuni dettagli troppo minuti in questo capo; ma io prego coloro, che mi accuseranno di questo difetto, di ricordarsi di quel che si è detto nel piano di questo libro, che nella scienza del governo e delle leggi, non altrimenti che nella natura, le fibre più oscure delle piante, nascoste nelle viscere della terra, sono propriamente quelle che alimentano i boschi più maestosi. Molte picciole cause riunite possono produrrei i più gran mali. le corde più forti sono composte da fili sottilissimi: bisogna separarli per poterle spezzare.


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CAPO XV

Dell’incoraggiamento che, tolti gli ostacoli, si potrebbe dare all’agricoltura,

rendendola onorevole per coloro, che l’esercitano

Prima che nel mondo ci fossero gli eroi distruttori degli uomini, l’umanità già da gran tempo venerava i nomi d’Osiride, di Cerere e di Triptolemo. Gli uomini riconoscevano allora tutto dalla terra, ed un’abbondante raccolta era in que tempi il maggior beneficio della natura. Essi non avevano l’arrogante stranezza di mettere sotto la protezione d’un nume una flotta o un’armata che, mossa dall’ambizione, fosse andata a distruggere una porzione de' loro simili; ma prostrati innanzi ad alcune zolle di terra ammucchiate, su questi altari della natura essi immolavano vittime agli Dei per ottenere l’ubertà de' loro campi. Alle spinte dell'interesse e del bisogno i primi legislatori de' popoli accoppiarono anche quella degli onori e della gloria, per animare gli uomini alla coltura della terra. Essi videro quanto questa occupazione aveva bisogno, più di tutte le altre, della protezione delle leggi: essi videro quanto interessala il rendere onorevole l’agricoltura e l’agricoltore. Nella Persia si stabilì una festa solenne destinata a risvegliare questa gloriosa opinione, ed a rappresentare la reciproca dipendenza del genere umano. In ogni anno nell’ottavo giorno lei mese chiamato da essi corrent-ruz, i fastosi Monarchi del Persiano impero deponevano le vane loro pompe, e circondati da una più vera grandezza si vedevan confusi colla più utile desse de' loro sudditi. L’umanità riprendeva allora i suoi dritti, e la vanità deponeva le sue assurde distinzioni. Con ugual dignità e con ugual decenza si vedevan seduti all’istessa mensa i contadini, i Satrapi ed il gran Re. Tutto lo splendore del trono pareva destinato ad illustrare gli agricoltori dello Stato. Il guerriero e l’artista erano esclusi da questa pompa, alla quale la legge voleva che non si ammettessero se non coloro che coltivavano la terra. Miei figli, diceva loro il Principe, a vostri sudori noi dobbiamo la nostra sussistenza: le nostre paterne cure assicurano la vostra tranquillità: giacché noi ci siamo dunque a vicenda necessarii, stimiamoci come uguali, amiamoci come fratelli, e la concordia regni sempre tra noi (96).

Una festa simile, destinata all’istesso oggetto, si celebra fin dalla più remota antichità nella China. Il capo della nazione diviene in ogni anno per otto giorni continui il primo agricoltore dello Stato. Egli conduce un aratro, fa un solco, agita con una zappa la terra, e dispensa alcune cariche a coloro che han meglio coltivato il terreno (97).

Finalmente noi sappiamo quanto le leggi, i costumi, la polizia del governo ed ii culto istesso contribuivano in Roma a render onorevole l’agricoltura ne primi tempi della repubblica. Noi sappiamo che la prima istituzione religiosa di Romolo fu quella degli Arvali sacerdoti addetti ad implorare dagli Dei la fertilità de' canapi, che la prima moneta ebbe per impronto un irco o un bue, emblemi dell'abbondanza, e che le tribù rustiche furono preferite all’urbano per render migliore la condizione di coloro che abitavano la campagna per coltivarla. I Consoli, i Dittatori, i Magistrati supremi della Repubblica coltivavano colle loro inani la terra: essi si gloriavano spesso di dare alla loro famiglia un cognome che ricordava alla loro posterità l’occupazione favorita de' suoi padri (98).

Questa fu l’idea onorevole che si ebbe in Roma dell’agricoltura ne primi secoli della Repubblica. Che se ne tempi posteriori le cose cambiarono d’aspetto; se quasi tutte le nazioni giunte alla grandezza hanno sempre abbonite quelle cause che hanno maggiormente contribuito a farvele pervenire; se Roma nella ubbriachezza delle ape conquiste abbandonò quindi la coltura della terra; se Sparta ne fece il mestiere degl’iloti; se i Barbari, che seguirono e cagionarono la decadenza dell’impero, lasciarono agli schiavi la zappa e l’aratro, per non portare in mano che la spada e lo scudo; se dopo la scoperta del nuovo mondo le nazioni europee, abbagliate dallo splendore dell'oro, preferirono le miniere dell’America a più fertili campi dell’Europa; se la Spagna non coltivò più, da che si vide tra le mani, i metalli del nuovo emisfero; se la Francia trascurò sotto il ministero di Colbert i beneficii reali dell’agricoltura per accelerare i progressi delle sue manifatture; se finalmente l’arte la più necessaria, la più onorata in altri tempi, è stata per tanti secoli trascurata, degradata ed avvilita; questo non ci deve parere strano, allorché si riflette al solito corso dello spirito degli uomini, il. quale prima di ritornare a quel punto, donde è partito, scorre per tutti quegli spazi che compongono la circonferenza del cerchio. Ma siamo noi ancora molto lontani dal ritornare a questo punto 1 Possiamo noi lusingarci di rivedere l’agricoltura nel suo antico splendore? Malgrado gli avanzi degli antichi pregiudizi; malgrado le reliquie ancora esistenti dell’ignoranza di molli secoli; malgrado Palle razione funesta che ha cagionata nella nostra maniera di pensare il lungo vigore della legislazione de' barbari, de' loro usi, delle loro massime, e delle stravagantissime leggi della Cavalleria e dell’onore; malgrado, io dico, gli sforzi combinati di tutte queste appendici fatali de' mali che hanno per tanto tempo oppressa l’Europa, potremo noi sperare di vedere i agricoltore onorato, distinto, decorato dalle leggi, da governi e dall’opinione pubblica istessa? I rapidi progressi delle utili cognizioni, le accademie a agricoltura stabilite in molli paesi dell’Europa, i premii accordati ad alcune scoperte utili, la molti pii cita degli agricoltori filosofi che sono comparsi in questi ultimi tempi, sono forse bastanti a giustificare le nostre speranze? Sì, ma in un solo caso: quando i governi cominciassero dal provvedere al beo essere dell’agricoltore.

Persuadiamoci. L’onore è una molla che può agire in tutti i cuori, quando si sappia comprimerla. Da per tutto gli uomini sono riguardo a quest’oggetto presso a poco gl’istessi. Da per tutto essi saranno sempre spinti dalle distinzioni e dalle ricompense. Ma prima che il villano sappia ciò che è onore, bisogna che egli sappia ciò che è l'agio ed il comodo. Un cuore oppresso dalla povertà non ha altro sentimento, se non quello della sua miseria. Or questa miseria si perpetuerà nella classe la più necessaria e la più benemerita della società, finché dureranno le cause che la producono; si perpetuerà, finché le leggi restringeranno nelle mani di pochi tutte le proprietà, tutti i fondi dello stato; finché le sostituzioni faranno passare per una sequela non interrotta di secoli i continenti interi ne medesimi rami delle famiglie; finché il elencato secolare e regolare ingoierà una gran porzione de' fondi delle nazioni; finché le leggi e gli abusi feudali non saranno riformati; finché nelle campagne dell’Europa il colono servo della gleba, o mercenario libero rimuoverà di continuo un terreno, il suolo ed i frutti del quale non gli appartengono; finché le tasse esorbitanti, ingiuste, o almeno mal collocate obbligheranno l’agricoltore ad un lavoro assiduo che gli farà sentire tutto il peso della fatica, peso insopportabile, allorché non é unito alla speranza di migliorare la sua condizione; questa miseria finalmente si perpetuerà, finché queste cause, unite a quelle delle quali si é parlato negli antecedenti capi, non saranno abolite. Che s’intraprenda dùnque questa riforma salutare; che si procuri un certo agio agli agricoltori; che si secondinola per tutto i voti del benefico Arrigo; che la mensa frugale del colono sia almeno munita d’un pollo in ogni giorno di festa; ed allora, per perfezionar l’opera a tanti ordini fastosi che adornano gli oziosi nobili e le corti de' Re, si aggiunga un ordine pacifico e laborioso; che questo sia il premio dell’agricoltore che avrà meglio coltivato il suo campo, e del proprietario che avrà saputo colla sua industria e colla sua vigilanza dare un nuovo prezzo al fondo che possiede; che il Sovrano decori quest’ordine col vestirsene; che una mano avara lo distribuisca colla maggior economia, e che una bilancia esatta pesi il inerito di coloro che lo cercano; che in ogni provincia dello Stato ci sia una società di agricoltori filosofi destinata a spargere nelle campagne i semi salutari di questa scienza, ed a bilanciare il merito di coloro che si saranno resi degni del premio che la legge ba destinato; finalmente che coloro che l’avranno meritato ed ottenuto, partecipino agli stessi dritti, e godano degli stessi privilegi che le leggi hanno assegnati ad una nobiltà acquistata finora con un titolo qualche volta meno giusto, acquistata, io dico, con la spada o con la toga, colla distruzione degli uomini, o col deposito spesse volte mal custodito della giustizia. L’agricoltura decorata allora con questo mezzo basterebbe di essere l’occupazione degli uomini più vili dello Stato; essa diverrebbe il sollievo delle noie del ricco, e riempirebbe i momenti d’ozio del magistrato; essa farebbe le dellzie del filosofo e dell'uomo di lettere, come in altri tempi lo era del Romana illustre (99). L’uomo dissipato o immerso nella mollezza, familiarizzato allora colle occupazioni e colla vita dell’agricoltore, deporrebbe 1 suoi pregiudizi, conoscerebbe l’importanza della fatica e della coltura, e aprirebbe il suo chore a sentimenti di benevolenza e di stima per coloro che l’esercitano. L’agricoltore dal canto suo animato da questa familiarità, e dalla speranza di partecipare d’un onore che le sue braccia gli offrono, e che per ottenerlo non dovrebbe far altro che meritarlo, sentirebbe rinascere il suo coraggio: l’attività de' suoi muscoli sarebbe allora agitata da una nuova forza, tutto si perfezionerebbe tra queste braccia attive ed onorevoli; la classe più necessaria si moltiplicherebbe, le campagne diverrebbero più popolate, ed allora la terra che noi abitiamo, e che oggi languisce con noi quando la natura la chiama alla fecondità, le pianure che non offrono a nostri occhi che deserti, e che sono la vergogna delle nostre leggi e de' nostri costumi, comincierebbero a cambiarsi in tanti fertili campi, e i nostri Stati fiorirebbero allora col soccorso dell’agricoltura e dell’industria, che oggi fuggono lontano da noi.


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CAPO XVI

Delle arti e delle manifatture

Se l’agricoltura dev'esser considerata come la prima sorgente e come il sostegno delle ricchezze de' popoli; le arti e le manifatture non debbono per questo essere trascurate. Se queste non debbono occupare il primo rango nel gran sistema economico, debbono almeno occupare il secondo. Quando l’agricoltura ha fatti i maggiori progressi in una nazione; quando sotto i suoi auspicii la popolazione è cresciuta, quando questa è superiore a quella che la terra richiede per la sua coltura, e la società per il suo buon ordine; quando l’abbondanza istessa delle cose necessarie alla vita mette l’uomo nel dritto di ricercare quelle che gliela rendono più piacevole; quando finalmente molte braccia resterebbero oziose, se non si addestrassero a dare una certa forma a prodotti del suolo, allora una porzione degli abitanti di questo paese diviene manifatturiera; allora, se questo popolo non è immerso nella conquista, o non è oppresso dalla schiavitù, unisce i benefici! dell’agricoltura a quelli dell’industria, produce con una mano, e perfeziona coll'altra. Ecco quale fu la sorte dell’Indie, della China, della Persia e dell’Egitto; di paesi che accoppiarono. a tutti i tesori della natura le più brillanti invenzioni dell’arte: ecco quale sarebbe stata ancora la sorte della nostra Italia, se avesse potuto lasciare per un momento d’essere schiava, o di combattere.

La natura istessa delle cose induce dunque un popolo a divenire in questo caso manifatturiere ed artista, e il legislatore deve dirigerlo in questa nuova carriera. Di questa necessaria direzione io parlerò in questo capo. Questa è una delle operazioni più difficili della legislazione economica. L'indole dell'uomo, trasportato quasi sempre per gli estremi, è la prima causa di que sta difficoltà. I due più gran ministri della Francia (100) urtarono tutti e due in questo scoglio; l'uno trascurando le arti, l'altro proteggendole troppo. La via di mezzo è quella che si deve ritrovare. Bisogna proteggere le arti senza nuocere all'agricoltura: bisogna incensare la vittima senza oltraggiare il nume.

Il prim'oggetto dunque della legislazione economica è di combinare i progressi delle arti e delle manifatture con quelli dell'agricoltura. Per ottener questo fine il legislatore deve, promuovere più d'ogni altro quelle arti e quelle manifatture che impiegano una maggior quantità di quelle materie prime che sono i prodotti del suo suolo. Questa verità molto infelicemente ignorata merita qualche illustrazione.

Si supponga che ci sieno due artefici, ciascheduno de' quali in un anno guadagni colla sua industria mille, ma con tal differenza, che l’uno di essi debba impiegare nella sua manifattura due quantità di prodotti del suo suolo eguale a dieci, e l’altro una quantità eguale a mille: io domando, qual è più profittevole allo Stato, l'industria del primo, o quella del secondo? io dico l’industria del secondo; e questo è per due ragioni. La prima, perché nel caso che. queste due manifatture escano al di fuori, il primo richiamerà nello Stato una quantità di numerario eguale a mille e dieci, e 'l secondo una quantità eguale a due mila. L’altra ragione poi è il vantaggio dell'agricoltura. Se i progressi di questa dipendono dalla maggior consumazione, l’industria di colui che deve impiegare mille ne prodotti del suolo, consumerà novantanove volte. più dell’industria di colui che non ne deve impiegare che dieci.

Ecco i vantaggi delle manifatture che impiegano una maggior quantità di prodotti del suolo, su quelle che ne impiegano una quantità minore: ed ecco la ragione per la quale il legislatore deve proteggere le prime molto più che le seconde. Ma questa regola generale ha le sue eccezioni. Tutto è relativo nella scienza delle leggi. Non tutti i paesi sono atti alla coltura. Ve ne sono molti che la natura ha condannati alla sterilità; altri che non hanno che un territorio molto piccolo, e i prodotti del quale sono molto minori di quello che la consumazione intera richiede. Or in questi paesi, siccome le arti e 'l commercio possono essere le sorgenti delle sue ricchezze, e non l’agricoltura; siccome in questi paesi il legislatore deve cercare piuttosto di diminuire la consumazione che di accrescerla (101), perché o tutta, o almeno la maggior porzione di essa deve ripetersi dagli stranieri; così in questi paesi le manifatture che impiegano una minor quantità di materie prime, debbono esser preferite a quelle che ne impiegano una quantità maggiore.

Le leggi dunque che dirigono le arti e le manifatture ne’ paesi agricoli, debbon. esser tutte diverse da quelle che le dirigono ne’ paesi sterili.

Or la diversità del clima e della situazione non influiscono meno in questa parte della legislazione economica che riguarda le manifatture e le arti. Io credo. d’aver bastantemente dimostrata questa verità in quei due capi. del primo libro di quest’opera, dove si. è ragionato del rapporto. delle leggi col clima e colla situazione del paese. Io credo dunque inutiledi ripetere quello che già s’è detto. Mi contento solo d’aggiugnere qui alcune riflessioni, che non potrebbero esser senta difetto trascurate in un’opera che riguarda tutti i popoli e tutte le circostanze possibili nelle quali essi possono trovarsi. .

Supponiamo, per esempio, che una nazione sia perfettamente mediterranea, che il suo terreno sia fertile, ma che quello de' suoi vicini lo sia egualmente, o almeno tanto. che non abbia bisogno de' suoi prodotti; supponiamo che lontana da fiumi navigabili, circondata da montagne, essa non sia nel caso di poter trasportare né i suoi prodotti in natura presso e nazioni più lontane né di offrir loro quelle manifatture che, impiegandone, una quantità considerabile, si renderebbero, e pel loro volume e pel loro peso, egualmente difficili ad esser trasportate; in questa nazione, siccome il legislatore non può sperare i progressi del l'agricoltura che dalla sola consumazione interna, né una bilancia vantaggiosa di commercio esterno che dalle sole arti e dalle manifatture facili ad esser trasportate; in questa nazione, io dico, il numero degli artieri e de' manifatturieri in tutti i generi non sarà mai troppo numeroso; in questa nazione potrebbe adottarsi senza pericolo il sistema di Colbert; in questa nazione finalmente la facilità della sussistenza derivata dall’abbondanza de' prodotti del suolo potrebbe facilitare lo smaltimento delle manifatture, al di fuori, pel vantaggio che potrebbero avere nella concorrenza con quelle delle altre nazioni, e la moltiplicazione de' manifatturieri potrebbe sostenere e animare i progressi dell'agricoltura.

Io non nego però che la prosperità di questa nazione non potrebbe esser che precaria: dipendente da soli prodotti dell'industria, essa durerebbe finché le altre nazioni troverebbero il loro interesse nel comprarli. Or subito che la bilancia vantaggiosa del suo commercio comincerebbe a moltiplicare le sue ricchezze, subito che la somma del suo numerario crescendo farebbe crescere il prezzo della piano d’opera, subito. che le sue manifatture incarendosi comincerebbero a perdere, quel vantaggio nella concorrenza che ne facilitava lo smaltimento, essa dovrebbe ritornare nella sua povertà, alla quale la sua posizione la condanna. Un solo rimedio ci sarebbe per questo male. Questo sarebbe così singolare, come singolari sono le sue circostanze. Questa nazione dovrebbe temere egualmente una bilancia vantaggiosa di commercio che una bilancia svantaggiosa. Essa dovrebbe procurare di dar molto agli stranieri, per moltiplicare collo smaltimento delle sue manifatture l'interna consumazione, ma dovrebbe anche cercare di comprar molto da essi, e di comprar tanto che il vantaggio e lo svantaggio in questa permuta fossero ridotti al zero. Allora il prezzo delle sue manifatture conservandosi sempre nello stesso stato, potrebbero queste avere un; vantaggio costante nella concorrenza; allora l’agricoltura, dipendente in questa nazione da progressi delle manifatture e delle arti, potrebbe prosperare; ed allora finalmente questa nazione potrebbe trovare nella mediocrità delle sue ricchezze quella prosperità che non conoscerebbe nella miseria, e che perderebbe ben presto nella soverchia opulenza. Ci è più d’una nazione nell’Europa alla quale potrebbero adattarsi questi principii. Io lascerò a colui che legge d’indovinane.

Dopo aver fatta questa breve digressione sopra i particolari principii che dovrebbero dirigere la legislazione economica di questa nazione, ritorniamo ora a generali principii di questa teoria.

La Provvidenza volendo unir le nazioni, come gli uomini, cogli stretti vincoli de' reciprochi bisogni, ha dato a ciascheduna di esse qualche cosa di proprio e di particolare che la rende, per così dire, necessaria alle altre. Si appartiene al legislatore di conoscere questo dono esclusivo, e di ricavarne il maggior possibile vantaggio. Se questo dono è in qualche prodotto del suo suolo, egli deve animarne la coltura; se è in qualche specie di manifattura che pel concorso di molte circostanze favorevoli, come del clima, della posizione, della natura delle acque ecc, non si potrebbe intraprendere o, perfezionare altrove, egli deve questa promovere più di tutte le altre. Egli non deve al contrario cercare di togliersi dalla dipendenza d'un’altra nazione, violentando il suo suolo e l’industria de' suoi cittadini colf introduzione di quelle piante esotiche che resterebbero sempre straniere, sempre imperfette nel suo paese.

Le. arti dunque e le manifatture han bisogno della tacita direzione delle leggi; esse però han maggior bisogno delta loro protezione. Ab in che deve questa consistere? Io replicherò sempre l'istesso: allorché si tratta di protezione, bisogna cominciar sempre dal togliere gli ostacoli. Or i maggiori ostacoli che si oppongono a progressi delle arti e delle manifatture ì sono tutti quegli stabilimenti, tutte quelle leggi che tendono a diminuire la concorrenza degli artefici. Persuadiamoci: i migliori regolamenti del inondo, le migliori leggi, i migliori stabilimenti non saranno mai efficaci a migliorare i lavori delle mani degli uomini senza l'emulazione, senza la concorrenza. A misura che questa è maggiore ì l'artefice cerca di migliorare la sua manifattura per superare quella del suo competitore. Egli sa che, mi giurandola, il compratore preferirà la sua a quella degli altri. Egli sa che, essendo molti i suoi competitori, deve far uno sforzo maggiore per superarli. Or questo sillogismo che ciaschedun artefice fa da se stesso, e che si può considerare come l'unico istrumento della perfezione delle arti, questo sillogismo non può essere che il risultato d’una gran concorrenza. le leggi dunque che distruggono questa necessaria, concorrenza, o che la restringono) sono il flagello delle arti e delle manifatture. Tali sono prima d’ogni altro i dritti di maestranza o sieno le matricole.

L'idea di radunare. ogni arte, ogni mestiere in un corpo, e di dare a questo corpo i suoi statuti, prescrivere l'istruzione, l’esame è le qualità che si richieggono per esserci annoverato; il timore di Veder discreditate le patrie manifatture presso gli stranieri per l’ignoranza, le frodi e la negligenza degli artefici; la vanità e l’ambizione de' legislatori nel voler tutto regolare e dirigere; la loro ignoranza che li ha sempre indotti a ricorrere a rimedi diretti, i quali, come poc'anzi si è osservato, distruggono la libertà del cittadino senza conseguire il loro intento; tutti questi motivi e tutte queste concause han data origine, han perpetuato, han fatto generalmente adottare nell'Europa il sistema perniciosissimo de' corpi, delle arti e del dritto di maestranza.

Un uomo non può esercitare un’arte meccanica senza il consenso dell’intero corpo degli artefici dell'istessa arte. Questo consenso non si ottiene che mediante il pagamento d'una data somma di danaro, il valore della quale è diverso nelle diverse arti. Se un cittadino non ha come pagarla, in vano egli cerca di mostrare il suo talento, la sua destrezza, i progressi che egli ha fatti in quell’arte. Il corpo, del quale egli vuol divenire membro, non cerca altra condizione che quella del danaro che gli manca. Tutti gli altri suoi requisiti sono piuttosto un ostacolo alla sua ammissione. I uoi talenti, invece di procurargli l’indulgenza del corpo, spaventano i suoi competitori. Animati da uno spirito di lega e di monopolio, essi temono la concorrenza che deriva dal numero de' loro individui e dal loro merito.

Non è dunque libera la scelta dell'arte e del mestiere nel cittadino. Prima di consultare la sua abilità, le sue naturali disposizioni, i suoi talenti, egli deve misurare le sue facoltà.

Se il prezzo della matricola d’un'arte, nella quale egli conosce di poter riuscire più che in tutte le altre, è superiore, alle sue forze, egli deve abbandonarla per sceglierne un’altra, per la quale il pagamento è minore, ma è anche minore la sua disposizione. Che ne deriva da questo disordine? Ne deriva che le arti si riempiono per lo più di cattivi artefici. Quelle che richieggono maggior talento, sono esercitato dalle mani che han maggior danaro; le più vili e le più grossolane restano spesse volte per coloro che sarebbero nati per risplendere in un’arte più distinta. Gli uni e gli altri, destinati ad una professione alla quale non sono chiamati, trascurano il lavoro e rovinano l’arte; i primi perché sono al di sotto di essa, e gli ultimi perché conoscono d'essere superiori al loro mestiere.

A questo disordine principale sé ne aggiungono molti altri. Liti continue, brighe capricciose, attentati fraudolenti tra l’un corpo e. l’altro, e tra gl'individui d’un istesso corpo; perdite considerabili di tempo per inutili formalità, misteriosi officii, passaggi. forzosi d’una stessa manifattura per molti artefici di diversi corpi, monopolii inevitabili, vessazioni e persecuzioni continue degl'interessati magistrati di queste ridicole repubbliche contro gli artefici che cercano di distinguersi nel loro mestiere. Queste sono le conseguenze funeste d’uno stabilimento pernicioso ed ingiusto, che impedisce i progressi delle arti, ed offende la proprietà personale del cittadino. Per disgrazia dell’umanità, la più giusta, la più sacra di tutte le proprietà quella che l’uomo acquista col nascere, è stata in tutti i tempi la meno rispettata da legislatori. Presso gli Ateniesi la legge proibiva al cittadino d’esercitare due atti nell’istesso tempo (102). Un uomo dunque che valeva in due arti diverse, bisognava che rinunciasse a beneficii che l'una di esse poteva recargli. L'ingiustizia e la; barbarie di questa legge non è stata conosciuta da nostri legislatori. Essi hanno Ordinariamente adottato ciò che ci era di più strano presso gli antichi.

Che un uomo coltivi una o più arti, che le coltivi bene o male, il legislatori non deve prender parte alcuna nell’esercizio di questa sua facoltà. Il giudizio del compratore, che è sempre il più imparziale, punirà f ignoranza o la negligenza dell'artefice, e ne prerpierà i talenti e la vigilanza: l'artista più abile e più onesto, circondato da compratori, obbligherà gli altri suoi competitori o a seguire il suo esempio, o a perire dallo stento, senza che la legge v'interponga la sua autorità.

Quello che si è detto de' corpi delle arti e de' dritti di maestranza si deve dire anche de' privilegi esclusivi, co' quali il governo dà ad un uomo solo il dritto d'esercitare un’arte che è interdetta al resto de' cittadini, con. tal differenza, che se i primi diminuiscono la concorrenza e l'emulazione, questi la distruggono interamente. Il primo oggetto dunque della protezione, delle leggi riguardo alle arti sarebbe di animare la concorrenza e l'emulazione degli artefici colla soppressione di queste cause, che la ristringono e la distruggono. L’altro sarebbe di liberarle da qualunque sorte di dazio di contribuzione. Ogni specie; d’industria dovrebbe esserne esente. Noi, dimostreremo, questa verità, allorché si parlerà da dazi.

Finalmente, tolti tutti gli ostacoli, bisognerebbe venire agli incoraggiamenti. Alcune distinzioni onorevoli (103), alcuni premii pecuniari potrebbero, offerire al legislatore l'istrumento da incoraggiare le arti e le manifatture, e di promuovere più le une che le altre, secondo che gl'interessi dello Stato lo richieggono. Una tenue ricompensa, accordata con qualche splendida dimostrazione, lusingherebbe, la vanità dell’artista e non molesterebbe il pubblico tesoro. L’autorità può tutto, quando vuole. Se essa fa nascere i genii e crea i filosofi, se essa formarle. legioni intere de' Cesari, degli Scipioni e de' Regoli col comprimere la sola molla dell’onore, con quanta maggior facilità potrà essa far fiorire le manifatture e le arti, che non ricercano né il talento de' primi, né il valore degli ultimi? L’accrescimento de' comodi della vita de' piaceri della società, delle ricchezze dello Stato, sarebbe la prima conseguenza di questo beneficio e i progressi. delle scienze e delle cognizioni sarebbero la seconda, La fiaccola: dell’industria illumina nel tempo istesso un vasto orizzonte. Niun’arte è isolata. La maggior parte hanno alcune forme, alcuni istrumenti, alcuni elementi che loro: sono comuni. La meccanica sola, dice un celebre scrittore (104), ha dovuto prodigiosamente dilatare lo studio delle matematiche. Tutt'i rami dell’albero genealogico delle scienze si sono distesi co' progressi delle arti e de' mestieri. le miniere i molini, i drappi, le tinte hanno ingrandita la sfera della fisica. L’architettura ha migliorata la geometria. Essa ha spesse volte trovata la proporzione prima della regola, e dall’esperienza ha dedotta la teoria. Prima che i matematici avessero dimostrato che l’edificio più debole è quello nel quale fo perpendicolare che si tira dal vertice, esce fuori della base gli Egizi avevano già innalzate le loro piramidi', ed Avevano conosciuto che questa era la forma la più stabile che si poteva dare ad un edilizio (105). I progressi dunque delle arti e delle manifatture sono inseparabili da quelli delle lettere. Si potrebbero addurre mille prove per dimostrare questa verità, ma queste sarebbero mal collocate in questo luogo. Mi contento solo d’averla, accennata per invogliare maggiormente i legislatori ad accelerare questi progressi.

Dopo. la coltura della terra, la coltura dunque delle arti è quella che conviene più all’uomo. L'una e l’altra fanno oggi la forza degli Stati; ma l’una e l'altra han bisogno d’uno spirito che la animi, e questo spirito è il commercio.


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CAPO XVII

Del commercio

Dopo aver parlato dell’agricoltura e delle arti, dopo aver minutamente analizzata queste due sorgenti delle ricchezze de' popoli, le mie ricerche sarebbero imperfette e mancanti se trascurassi di parlar del commercio..

IL commercio sempre profittevole, ma non sempre coltivato dalle nazioni; nume tutelare de' paesi pacifici è bersaglio de' conquistatori; il commercio che ha sofferte tante vicende sulla superficie della terra, che fin dalla più rimota antichità aveva latti i più gran progressi nell’Asia (106); che acquistò una nuova attività fra le mani de' Fenicii, che fondò tante colonie (107) che trasportò in Tiro, in Sidone (108) ed in Cartagine tutte le ricchezze dell’antico emisfero; che dopo avere per molto tempo alloggiato tra le mura d’Atene, di Corinto, di Rodi e d’alcune altre repubbliche della Grecia, cominciò a sparire innanzi. alle legioni vittoriose de' Romani; che si sarebbe quindi interamente estinto nell'Europa, sotto la barbarie delle nazioni del Nord che la soggiogarono, se Venezia, Genova, Pisa, Firenze ed alcune altre piccole repubbliche dell'Italia, sotto l’ombra della loro Ostessa, debolezza non l'avesseroconservato; il commercio finalmente, che durante l'anarchia de' feudi si restringeva in quasi tutta L’Europa ad un semplice traffico d’un villaggio con un altro villaggio, d'un borgo con un altro borgo, e che rare volte passava i confini di una provincia; il commercio, io dico, dopo aver sofferte tante vicende sulla terra, è oggi divenuto il sostegno, la forza e l'anima comune delle nazioni. Qualunque sieno state le cause che abbiano contribuito a produrre quest’effetto, non si appartiene a me di esaminarle. Quel che è sicuro, è che il consenso universale delle nazioni, questo consenso che in altri tempi obbligava ciaschedun popolo a divenir guerriero, questo istesso consenso è quello che oggi ci obbliga a divenir commercianti. Il commercio dunque, divenuto un oggetto essenziale all'organizzazione ed all’esistenza de' corpi politici, non deve essere trascurato nel piano d’una buona legislazione. Al legislatore si appartiene di proteggerlo e di dirigerlo. Egli è quello che deve vedere quale specie di commercio convenga alla sua nazione, quale sia più propria alla natura del suo governo. Egli deve garantirlo dagli ostacoli che le contribuzioni e i dazi mal collocati possono recargli da privilegi esclusivi e dalle proibizioni che lo molestano, da que’ regolamenti minuti e particolari che lo ritardano. Egli è quello che deve combinarlo cogl’interessi delle altre nazioni; combinazione difficile, ma necessaria combinazione, delta quale non se ne sono ancora conosciuti nell'Europa né i mezzi per conseguirla, né i vantaggi che ne nascerebbero; combinazione finalmente, senza della quale la prosperità d'un popolo sarà sempre incerta e precaria.

Il legislatore è quello che deve cercare, tutti i mezzi per dare alla circolazione interna la maggiore celerità, ed al commercio esterno la maggior estensione che sia possibile. Egli deve con pochi regolamenti abbracciare, grandi cose, giacché la moltiplicità di questi è uno de' maggiori ostacoli che si oppongono al commercio. le sue leggi finalmente debbono, col rigore delle pene, e con altri mezzi che noi esporremo, stabilire il credito pubblico e privato, che deve essere da base della morale e della politica delle nazioni commercianti.

Di tutti questi oggetti io parlerò distintamente ne’ seguenti capi. Io comincerò dall’esaminare quale sia il commercio che convenga a diversi paesi e ne’ diversi governi.


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CAPO XVIII

Del commercio che conviene a diversi paesi e ne’ diversi governi

Non ci vuol molto a vedere come una specie di commercio che conviene ad un paese, non giova ad un altro. Un paese sterile non può sicuramente fare il commercio d'un paese fertile; e un paese fertile, quantunque lo possa, non deve fare il commercio d’un paese sterile.

Il commercio, per esempio, d'economia è il solo che conviene a' paesi sterili (109). Sprovveduti di tutto nel loro interno, essi debbono sussistere a spese dell'altri. Essi debbono cercare quello del quale abbonda ciascheduna nazione, e quello che le manca. Essi debbono permutare il superfluo dell'une col superfluo delle altre, e da questa permuta sempre vantaggiosa ripetere la loro sussistenza e la loro straniera ricchezza. Ecco perché in tutte l’età la vessazione e la violenza han fatto nascere il commercio d'economia, allorché gli uomini sono stati costretti a rifugiarsi nelle lagune, nell’isole, sulle arene del mare e sugli scogli medesimi. Così Tiro, Venezia e le città dell’Olanda furono fondate. I fuggitivi vi trovarono la loro sicurezza. Gli elementi combattevano per essi, e, trattenevano le armi vittoriose de' nimici. Ma quel l’istessa causa che li garantiva dalle persecuzioni, gli obbligavamo a perire dallo stento, o a ricorrere al commercio d'economia. ‘

Or ne’ paesi fertili gli uomini non han bisogno di ricorrere a questa specie di traffico per provvedere a loro bisogni. Siccome la fecondità del terreno, unità a beneficio della coltura, loro da il superfluo in alcuni generi, essi non debbono far altro che permutare questo superfluo con quello che' loro manca. Il grand’oggetto della legislazione economica di questi paesi deve essere di moltiplicare quest'eccesso e di diminuire questo difetto, di dare all’estrazione di questi generi la maggior facilità, e di procurare che nella permuta la quantità di quel che si dà, superi sempre la. quantità di quel che si riceve, affinché quel che resta sia pagato colle ricchezze di convenzione, l’introduzione continua delle quali, allorché è moderata, farà sempre pendere dalla parte loro la bilancia della ricchezza relativa delle nazioni.

Ma, oltre la fertilità e la sterilità del suolo, la situazione del paese e la sua estensione debbono anche determinare il commercio che più gli conviene. Un:paese, per esempio, di piccola estensione, che ha molti porti, che ha fiumi e canali navigabili, è più proprio al commercio d’economia. Un paese al contrario molto esteso, che ha pochi porti che non è bagnalo dal mare che da un solo lato, deve sempre preferire il commercio di proprietà a qualunque altro commercio (110). Se, finalmente alla infelicità della situazione si unisce anche l'infelicità del suolo, se il suo territorio è piccolo, ed è mediterraneo, allora il legislatore deve promuovere le manifatture e le arti, e sopra questi fondamenti innalzare il suo commercio (111). Così Ginevra senza mare e, per così dire, senza territorio, è divenuta una delle città più ricche dell’Europa; così essa si acquistò la gloria di soccorrere Arrigo IV durante la lega, e di resistere alle truppe agguerrite di Carlo Emanuele duca di Savoia; così essa trionfò de' tesori e dell’ambizione feroce di Filippo II, e così finalmente molti paesi della Germania potrebbero fiorire malgrado la debolezza de' loro principi e l'indigenza presente de' loro abitatoti. Dopo aver dunque osservato come la qualità del terreno, la situazione ed estensione del paese debba no influire sulla scelta del commerciò più proprio e più profittevole, vediamo ora la parte che vi deve avere la natura del. governo.

Se, dal fatto noi vogliamo dedurre la regola, se vogliamo riposare sull'esperienza di tutt’i secoli, noi troveremo che il commerciò d'economia è più analogo al governo di molti; è che il commercio di proprietà e di lusso è più adatto al governa di un solo. Cominciando dalla più rimota antichità, e seguendo gli annali dell’industria fino a nostri tempi, noi vedremo presso i Fenicii, in Tiro, in Cartagine, in Atene, in Marsiglia, in Firenze, in Venezia e nell'Olanda fiorire il Commercio d economia, e noi vedremo al contrario un commercio di proprietà e di lusso stabilita tra gl’imperi dell’Asia, presso i Persi, i Medi, gli Assirii, e nelle moderne monarchie dell’Europa.

La ragione ne è semplicissima. Nel governo di molti la frugalità è una virtù civile, e il fasto ed il lusso sono proscritti. Ora questa specie di commercio che si raggira ad un semplice traffico, ricerca da coloro che l'esercitano, una frugalità infinità; poiché siccome per. guadagnare di continuo essi debbono contentarsi di guadagnar poco', è di guadagnar meno d'ogni altro per avere n vantaggio nella concorrenza; supposto questo, non è possibile che. questa specie di commercio si faccia da un popolo, presso il quale il lusso è, per così dire, una cosa. inerente alla costituzione del governo. L’istessa causa dunque che fa che il commercio d'economia, sia analogo alla natura. del governo di molti, l’istessa causa fa che questo non lo sia al governo d'un solo. Ma ogni regola deve avere le sue eccezioni. Si può dare una repùbblica alla quale convenga un commercio, di proprietà e di lusso, ed una monarchia alla quale convenga il commercio d’economia. Alcune circostanze particolari che io trascuro, per non perdermi, in un dettaglio troppo minuto, e per. non ripetere quello che si è accennato in altri luoghi di quest'opera; alcune circostanze particolari, lo dico, possono obbligare il legislatore a dimenticarsi di questa regola. La scienza della legislazione ha, è vero, i suoi principi! generali: il legislatore non deve ignorarli; ma egli deve farne quell'uso che. fa Foratore de' precetti della Rettorica: egli fa servire i precetti all’orazione, e non l'orazione a precetti.

Dalla scelta del commercio io passo alla protezione, che gli si deve. Quest'oggetto, che ha mossa la penna di quasi tutti gli scrittori del secolo, è il più trascurato da governi. Gli ostacoli che ne impediscono i progressi presso tutte le nazioni; la schiavitù sotto la quale geme in quasi tutta l'Europa; gli attentati che si commettono di continuo contro la sua libertà; le vessazioni che si fan soffrire in nome della legge a coloro che l’esercitano; lo spettacolo che ci offrono tutte le frontiere tutt’i porti, coperti di satelliti, il ministero de' quali altro non è che di garantire lo Stato dall'industria de' suoi cittadini ecc, sono tante prove che ci dimostrano che tutto quello che si è fatto da governi in favore del commercio, non era quello che si doveva fare. Essi han cominciato d'onde bisognava finire; essi gli han prestati alcuni piccoli soccorsi, ma han lasciato sussistere gli ostacoli. Istruito dunque dall'esperienza e dagli errori de' governi, io terrò un metodo tutto diverso. Io parlerò prima degli ostacoli che si dovrebbero togliere, e poi degli urti che si dovrebbero dare.


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CAPO XIX

Degli ostacoli che si oppongono a progressi

del commercio in quasi tutta 'l Europa

Alla testa di questi io pongo il sistema presente delle dogane. Noi dobbiamo alla politica d'Augusto ed alle sciagure dell’Impero l'origine di questo abusò, del quale. Oggi tutte le nazioni dell'Europa sperimentano le conseguenze funeste. le speserete richiedevano la conservazione d’un’autorità usurpata, la prodigalità necessaria ad un nascente dispotismo, il bisogno delle legioni, l’avidità delle coorti pretoriane v l'organizzazione superiore ed inferiore del governo d’un impero ch$ racchiudeva ne suoi limiti quasi tutta l’Europa, ed una parte considerabile dell’Asia e dell’Africa; l’esorbitanza di queste spese unita all’idea Comune a tutti i tiranni di nascondere a popoli le somme immense colle quali essi pagano le loro vessazioni e la perdita della loro libertà, indussero. Augusto a stabilire un’imposizione generale sopra tutte le cose venali (112), una nuova tassa sopra i legati, e l’eredità (113), e ad introdurre il sistema fatale delle dogane. Tutte le mercanzie, le quali per mille diversi canali abbordavano al centro comune dell'opulenza e del lusso, dovevano pagare un dritto, il valor del quale variando ne’ diversi oggetti su quali cadeva, si estende va dalla quarantesima parte fino all’ottava del valor degli effetti (114).

In un paese dove l’opulenza dipendeva da tutt’’altro fuori, che dal commercio, e dove il commercio non solo non era una sorgente di ricchezze, ma era anzi uno scolo di quelle che da tutte le parti della terra gli pervenivano, l’introduzione di queste dogane poteva essere indifferente, poteva anche, considerata sotto alcuni, aspetti, essere utile; ma qual motivo potrebbe giustificarle oggi che gl’interessi delle nazioni sono così diversi?

Io piango sulla miseria, dell’umanità, allorché veggo in mezzo a tanti lumi, in mezzo allo splendore della verità di continuo illustrata trionfar eternamente l’errore. Imporre una pena pecuniaria, ad ogni cittadino industrioso obbligare il mercadante a pagare una multa; il valor della quale cresce in ragione del benefizio, che egli reca allo Stato; trattare il commercio da inimico; ricevere le sue pacifiche balle colle armi alla mano; circondare tutti i porti, tutte le spiagge, tatti i passaggi del commercio, così interno come esterno, di satelliti e di spie, esseri venali e corrotti, pagati, dallo Stato che tradiscono, dal negoziante che tormentano e dal contrabbandiere che proteggono; dare adito a tutte le vessazioni, a tutte le frodi che gli esecutori mereenarii d’una legge ingiusta possono ideare; Condannare, in una parola,, al negoziante ad esser persuaso che al solo avvicinarsi d’una dogana gli si prepara sicuramente un affronto o una rapina: è mai questa la politica delle nazioni commercianti? Sono mai questi i principii co’ quali deve dirigersi il sistema economico. in un secolo nel quale il commercio è considerato come il principio che decide della vita delle nazioni e del ben essere de’ popoli? È mai questo il fonte dal quale i corpi politici debbono oggi attingere la parte più considerabile delle loro rendite? Senza diminuir queste rendite, non si potrebbe forse liberare il commercio da un ostacolo; contro, del quale ogni urto è inutile? Gl'interessi dell’erario del fisco non si potrebbero forse combinare con quelli del commercio, in maniera che i Re fossero egualmente ricchi, senza che le loro ricchezze fossero egualmente perniciose a popoli? Non basterebbe finalmente dare, un’altra foggia al sistema delle imposizioni, per renderne meno pesante il giogo, senza diminuirne il profittò?

La possibilità di questa intrapresa è stata dimostrata fino all’evidenza dagli scrittori; economici del secolo. Ma i loro sforzi sono restati inutili. La verità da. essi illustrata $i è fermata innanzi alle pareti che la rendono inaccessibile al trono. I loro scritti luminosi rischiarando l’intrigati teoria delle finanze, non han fatto altro che renderci più penoso il peso de' mali che ci opprimono, mostrandoci la facilità che ci sarebbe di curarli, e l’indolenza di coloro che dovrebbono liberarcene. Per disgrazia degli uomini, pare che quelli che sono alla testa degli affari qualche volta chiudano gli occhi contro la luce di quanto si manifesta loro con maggior evidenza. Una riforma, nella quale la giustizia, l’interesse pubblico e l'interesse de' principi. ‘si combinavano così evidentemente, non si è neppure tentata, neppure proposta ne’ gabinetti de' Re, ne’ quali non si parla d’altro che di commercio, e non si lascia mai di perseguitarlo.

Le cose sono rimaste nello. stato nel quale erano; il commercio è restato inceppato tra le catene delle imposizioni fiscali; da per tutto il traffico interno ed esterno, è interrotto; un cittadino industrioso ha mille occhi, che lo guardano; pare che il governo lo tema; egli non può fare mille passi, egli non può passare da un villaggio in un altro senza esser fermato, senza esser tassalo; se vuol negoziare al di fuori, prima che egli sappia se la sua speculazione sarà ricompensata da un buon esito; la dogana queste botte delle Danaidi, e forse, anche più vorace di quella, gli ha già rapita una parte del beneficio futuro. Se egli cerca il soccorso di un’espedizione clandestina, il timore d’essere sorpreso l’obbliga a chiudere cento bocche, l’avidità e la mala fede delle quali diminuiscono il beneficio del contrabbando, senza scemarne lo spavento. Dovunque egli volge le sue mire, egli trova o frodi da prevenire, o spie da corrompere, o dazi enormi da pagare.

In mezzo a tante insidie potrà forse prosperare il commercio? Una pianta che non può germogliare che nel seno della libertà, potrà forse fiorire tra le arene della servitù e del l'oppressione?

Il primo passo dunque che si dovrebbe dare in favore del commercio, sarebbe una riforma nel sistema presente delle dogane. Bisognerebbe togliere così al commercio interno, come all’esterno gli ostacoli che queste gli oppongono. Io lo ripeto: per ottenere questo fine senza diminuire le rendite del fisco, per compensare questa perdita,bisognerebbe dare un altro torno al sistema generale delle imposizioni e de' dazi.

Questo grande oggetto richiamerà le mie cure, allorché si parlerà da qui a poco della teoria de' dazi, che sarà anche compresa in questo secondo libro (115).

Io mi affretto qui di rivolgere lo sguardo ad un altr’ostacolo, il quale se non è più pernicioso del primo, è almeno più difficile a superarsi; ad un ostacolo che è la vergogna del nostro secolo e della nostra politica; ad un ostacolo finalmente, del quale tutti i popoli ne risentono gli effetti funesti, senza che alcuno ardisca d’essere il primo a superarlo. Io voglio parlare delle gelosie di commercio, della rivalità delle nazioni.


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CAPO XX

Delle gelosie di commercio e della rivalità delle nazioni

Un principio non meno ingiusto che falso, egualmente contrario alla morale che alla politica, ha funestamente sedotti coloro che dirigono gl'interessi de' popoli. Si crede comunemente che una nazione non possa guadagnare senza che le altre. perdano, che essa non possa arricchirsi senza che le altre s’impoveriscano, e che il grande oggetto della politica sia l’innalzare la propria grandezza sulle altrui rovine. Questo principio erroneo’, che fu la base della politica de' Romani e de' Cartaginesi (116) e che fu nel tempo istesso la causa della rovina di queste due repubbliche; questo principio istesso ha funestamente introdotta una gelosia universale di commercio nell'Europa, la quale fra gli Stati non è altro che una cospirazione segreta di rovinarsi tutti, senza che alcuno si arricchisca.

Chi può descrivere i mali che questa funesta rivalità reca al commercio generale e particolare de' popoli? Per farsene una superficiale idea, basta osservare il sistema col quale oggi si dirige il commercio delle nazioni d’Europa. Osservandolo da vicino noi vedremo una nazione custodite colla maggior gelosia un ramo di commercio poco profittevole, che le impedisce d’intraprenderne un altro molto più vantaggioso, per timore che la sua rivale non se ne impadronisca. Noi vedremo ciascheduna nazione opporre ostacoli alle intraprese pacifiche d'un’altra nazione, e godere delle sue perdite. Noi le vedremo tutte congiurate contro di ciascheduna. Noi vedremo i fulmini della guerra accesa dal commercio rimbombare fra un polo e l’altro, sulle cosi dell’Asia, dell’Africa e dell’America, sopra l’Oceano che ci separa dal nuovo mondo, e sulla vasta estensione del mare Pacifico. Noi vedremo 1 Inghilterra è la Francia sempre inimiche tra loro, e sempre vigilanti a profittare delle occasioni di scambievolmente rovinare il loro commercio; la Spagna costretta a garantire i suoi galeoni con squadre formidabili sopra un mare immenso, tinto dì sangue e coperto di cadaveri nelle sue guerre contro gl’Inglesi; il Portogallo divenir la vittima d'una nazione che gli ha fatto più male colla sua confederazione, co' suoi trattati e col suo commercio, che non gliene avrebbe fatto colla guerra istesse; l’Olanda, quella repubblica che dovrebbe più delle altre rispettare la giustizia, e fomentare la libertà generale dell’industria e del commercio; noi vedremo, io dico, l'Olanda trascurare i suoi veri interessi, profondere i suoi tesori, preparare la sua rovina in quelle guerre nelle quali né la sua gloria, né la sua sicurezza, né la sua libertà, ma la sua sola, ambizione smisurata, il solo spirito di gelosia e di rivalità poteva impegnarla (117),

Noi vedremo finalmente il commercio, che per sua natura dovrebbe essere il vincolo della pace, essersi permutato in una causa perenne d’ingiustizia, di guerra e di discordia per un effetto di questa funesta gelosia delle nazioni, della quale si risentono anche quei popoli che vorrebbero trovare nella neutralità la loro pace e i loro vantaggi.

Non bisogna lusingarsi: finché durerà questo spirito d’invidia e di rivalità, il commercio farà sempre più male che bene, sarà sempre in uno stato di languore.

Spogliandoci d’ogni prevenzione, investendoci di quel sacro carattere d’imparzialità che le ricerche politiche esigono, noi troveremo l’interesse privalo di ciascheduna nazione così strettamente unito all’interesse universale, e viceversa l’interesse universale così strettamente unito al particolare, che una nazione non può perdere senza che le altre perdano, e che non può guadagnare senza che le altre guadagnino. Che mi si permetta una breve digressione, che mi si permetta di gittate un’occhiata momentanea sugl’interessi delle nazioni d’Europa per dimostrare questa interessantissima verità.

Cominciando dalla Spagna, noi troveremo che l’interesse di questa nazione sarebbe di migliorare la sua agricoltura, d’accrescere la sua popolazione, d’accelerare e migliorare il suo commercio coll'Indie occidentali, e di dare uno scolo all’esorbitanza de' suoi metalli col comprare i prodotti dell’industria straniera (118).

Or tutta l’Europa troverebbe il suo interesse in questi vantaggi. A misura che la sua agricoltura si perfezionerebbe, crescerebbe la sua popolazione; e a misura che crescerebbe la sua popolazione, crescerebbero i suoi bisogni per l'industria straniera. Più essa profitterebbe dal suo commercio coll’America, più le sue navi ritornerebbero cariche di tesori, più si metterebbe jn istato di pagarla. Allora la Francia, l’Inghilterra e l’Italia vedrebbero le loro manifatture più ricercate da una nazione che è più di tutte le altre in istato di comprarle esse venderebbero a più caro prezzo la loro industria, e comprerebbero a miglior mercato le derrate dell'America divenute così necessarie nel l'Europa.

Passando dalla Spagna al Portogallo, noi troveremo che il grande interesse di questo paese, quell’interesse che, trascurato aal suo governo, ha cagionata la. sua miseria, malgrado i tesori che in ogni anno riceve dal nuovo mondo; noi troveremo, io dico, che il suo grande interesse sarebbe di ammettere la più gran concorrenza, così nella vendita delle proprie, come nell'immissione di tutte le manifatture e di tutte le mercanzie straniere. E chi non vede che questo sarebbe anche l’interesse di tutte le altre nazioni che sono in istato di recargliele?

L’istesso deve dirsi della Russia. Se questa nazione si liberasse dal monopolio degl'Inglesi, come dovrebbe liberarsene il Portogallo, se essa fomentasse la concorrenza delle nazioni del mezzogiorno nel sub porto di Cronstat, essa venderebbe a più caro prezzo i suoi prodotti, comprerebbe a miglior mercato le mercanzie straniere, e recherebbe nel tempo istesso un gran vantaggio a tutta l’Europa, aprendo una nuova strada all’industria ed al commercio di molte nazioni(119).

Rivolgendoci quindi alla. Francia, noi ci persuaderemo anche meglio di questa verità. La Francia felice per la fertilità del suo suolo, e per quella de' suoi ingegni, dìspositrice assoluta del gusto e delle mode, abitata da artieri e da manifatturieri celebri, manda più derrate e più manifatture al di fuori di quel che ne riceve dagli stranieri. Or se la Francia fosse così popolata, come potrebbe essere; se le sue leggi non avessero rovinata l’agricoltura; se le mas sime e il sistema col quale sono regolate le sue finanze, fossero più favorevoli al suo commercio, la sua prosperità farebbe l’ammirazione dell’universo, e farebbe nel tempo istesso la felicità del resto dell’Europa. Gli stranieri otterrebbero a minor prezzo i prodotti del suo suola e della sua industria, ed essa consumerebbe una maggior quantità di derrate e di mercanzie straniere che le mancano. La prosperità del|e sue colonie crescendo in proporzione di quella della loro madre, la loro popolazione aumentandosi, e questa perfezionando la loro coltura, recherebbero, anche due altri vantaggi considerabili alle altre nazioni. I prodotti di queste colonie, divenuti necessarii nell'Europa, sarebbero comprati a minor prezzo, subito che si aumenterebbe la quantità della loro raccolta; e nel tempo istesso la Francia trovando nell’America un maggiore smaltimento delle sue manifatture, quelle delle altre nazioni avrebbero minor concorrenza a sostenere o a combattere ne’ mercati e ne’ porti dell’Europa. Finalmente, se essa non avesse quasi interamente rinunciato a benefizi della sua pesca e delle sue saline; se essa imparasse a meglio profittare de' doni della natura, e de' vantaggi della sua situazione; se l'Oceano che la bagna da un lato, e il Mediterraneo che la bagna dall’altro, le facessero conoscere l’inutilità della sua truppa di terra é la necessità di quella di mare; se gli occhi del suo governo, chiusi per io spazio di tanti anni da un profondo letargo, si aprissero un giorno, la sua marina innalzata a quel grado di potenza dove dovrebbe essere e dove pare che oggi sia per giugnere, arricchirebbe il commercio del Nord; l’impero del mare, contrastato fra due potenze egualmente forti per impedire che alcuna di esse se l’appropriasse resterebbe indeciso, e la libertà del commercio dell’Europa tutta sarebbe forse al coperto. Ecco come tutte le altre nazioni troverebbero nella prosperità della Francia i loro vantaggi (120).

L’indipendenza delle sue colonie, io veggo finalmente due gran potenze impegnate per la sua rovina. Io compatisco questo spirito di vendetta, quest’odio qua§i universale contro d’una nazione che l’ha comprato colle sue ingiustizie; contro d’una repubblica che è stata sempre più inclinata ad affliggersi della prosperità degli altri, che a godere della sua; contro un popolo finalmente che non si è contentato di divenir ricco, ma che ha cercato di essere il solo ricco,Il suo patriottismo esclusivo, simile a quello de' Romani; ha dovuto richiamargli l'odio di tutte le nazioni commercianti, come le vessazioni che ha fatto soffrire a suoi coloni; gli han fatto meritare quello, di tutte le anime moderate, di tutti gli spiriti liberi, e di tutti i filosofi difensori arditi, ma deboli, de' sacri dritti dell'umanità.

Ma vediamo, se malgrado i motivi che l’Inghilterra ha dati alle altre nazioni di godere delle sue perdite vediamo, io dico, se l’Europa, molto lontana dal desiderare, debba anzi temere la rovina di questa nazione vediamo se l’interesse universale si unisce anche iti quest’occasione coll'interesse particolare, e se tutt’i membri della gran società europea dovrebbero essere, non meno dell'Inghilterra, spaventati da disastri che ci sovrastano dall’indipendenza de' suoi coloni. Supponiamo che l'evento giustifichi la ribellione degli Americani, supponiamo che questi restino liberi ed indipendenti. Supponiamo che le conseguenze di questo cambiamento politico divengano le più funeste per l'Inghilterra; che il genio che decide della sorte degl’imperi, voglia in questo caso proferire tutto ad un tratto il decreto della destruzione di quello della Gran Brettagna: supponiamo che questa nazione priva de' vantaggi del commercio che essa faceva co' suoi coloni, è che i suoi coloni facevano per lei, indebolita da una lunga e spesosa guerra, fallita pe suoi debiti nazionali, proscritta nel nuovo mondo e oppressa nell'antico supponiamo che essa perisse, che la sua vacillante libertà sostenuta dalle sue ricchezze si mutasse nella più dura servitù, e che la gran Brettagna divenisse o la preda d’un conquistatore, o la vittima d'un despota.

In questo caso, che ne sarebbe delle altre nazioni? La Francia, è vero, si libererebbe da un vicino spaventevole. le sue mani fatture, prive della concorrenza di quelle degl'Inglesi, sarebbero vendute a maggior prezzo. La Spagna riacquisterebbe quello che questa nazione le ba tolto, e vedrebbe un’altra volta tra la sue mani le pretese chiavi del Mediterraneo. L'Olanda, emula dell’Inghilterra, malgrado la perdita delle somme immense che le ha date in prestito, crederebbe forse d'aver tutto ottenuto colla rovina d'una repubblica industriosa e commerciante come lei ma più favorita dalla natura nell’interno, e più rispettata al di fuori. La Russia finalmente, la Danimarca e la Svezia vedrebbero forse con piacere crollare, una potenza che. ha voluto dominare ne loro mari. Ma queste speranze sarebbero forse ben fondate? Questi vantaggi apparenti avrebbero forse qualche cosa di reale? Non sarebbero piuttosto essi i prestigi d’una fortuna. precaria che si cambierebbe ben presto colla rovina universale dell’Europa? Se le colonie Inglesi restano indipendenti, chi tratterrà quelle degli Spagnuoli, de' Portoghesi e de' Francesi? La folgore dell'indipendenza scoppiata una volta nell'America anglicana, non comunicherebbe forse il suo strepito nel resto di questo vasto continente? Tutta l'America non diverrebbe allora indipendente dall'Europa? Che ne sarebbe allora del nostro commercio? Che potremmo noi permutare co’ suoi prodotti? con che potremmo noi pagarli a’ proprietarii del Perù, ai dominatori del Brasile? Forse colle nostre derrate? Ma la maggior parte di queste nascerebbero egualmente nell'America, subito che l’agricoltura le ricercasse dal suo suolo. Colle nostre manifatture, colle nostre arti? Ma queste fioriscono già nella Pensilvania, malgrado Io strepito delle armi e malgrado gli orrori della guerra. Li pagheremo noi forse co’ prodotti dell’Indie orientali? Ma la perdita dell'America ci priverebbe anche di questo commercio, che noi non sostenghiamo che a sue spese. Senza le miniere del Pelosi noi non condiremmo le nostre vivande cogli aromi dell’Asia, né vestiremmo le vaghe tele di Coromandel. Il commercio dunque di tutta l’Europa potrebbe perire con quello degl'Inglesi, se questi perdono le loro colonie. E pure lo spirito di rivalità ha accecati a segno i governi, che alcune nazioni d’Europa ardiscono di preparare i materiali che serviranno un giorno per foggiare la loro rovina, ed ardiscono d’offerire una mano intrepida. agli artefici delle loro catene.

Osservando la questione dalla parte delle colonie, noi troveremo che quando la loro dipendenza dalla gran Brettagna fosse quale dovrebbe essere, una dipendenza di governo e non di servitù; che quando la libertà del loro commercio è i loro dritti fossero così rispettati dalla loro madre, come quelli de' loro fratelli; che quando la metropoli non facesse più una distinzione assurda tra gl'interessi de' suoi cittadini d'America con quelli de' suoi cittadini d’Europa; quando dimenticandosi del mare che li separa, non vedesse nelle sue province Americane. che un prolungamento non interrotto del suo territorio europeo; allora, io dico, la dipendenza delle colonie, molto lontano dall’impedire i progressi della loro prosperità, renderebbe questa più sicura, garantendola, da pericoli a quali potrebbe esporla la loro totale

indipendenza: allora esse non sarebbero nel caso di temere l’ambizione di qualche spirito ardito ed attivo, né le interne discordie che potrebbero insorgere nel riposo della pace, né le dissensioni reciproche tra esse; dissensioni che la greca politica non potè prevenire, tra le sue repubbliche, e. che la sola povertà locale ha forse tenuto per tanto tempo lontano. dalle maremme delle Provincie Unite: allora finalmente l’Europa, senza essere spaventata dalla. lor. o prosperità, potrebbe esservi a parte.

In questa rapidissima scorsa. su gl'interessi delle nazioni europee, io lascio volentieri a coloro che leggeranno questo libro, l'esame di quelli dell'Italia, della Germania, della Danimarca e della Svezia. Gl'interessi delle due prime fondati su i prodotti del suolo e su quelli dell'industria, e quelli delle due ultime dipendenti, dal loro commercio coll'Indie orientali, dalle loro miniere di ferro e di rame (121), da loro legni da costruzione ecc. sono troppo patentemente uniti agl'interessi di tutta l'Europa, per obbligarmi a dimostrarne il rapporto. Mi contento di conchiudere questa breve digressione coll’Olanda.

le tre gran sorgenti delle ricchezze di questa repubblica sono il suo commercio col l’Indie orientali, le sue colonie in America, e 'l suo commercio di traffico, e di cabottaggio nell’Europa. Cogli uni e colle altre essa giova a se stessa ed all’Europa. Col primoessa ci provvede delle droghe e delle mercanzie dell'Oriente, delle quali l’umanità non potrebbe più privarsi, e offre alle derrate ed alle manifatture europee un copioso scolo che le rende più preziose e più profittevoli. Colle sue colonie in America essa supplisce al difetto del suo suolo in Europa; essa può unite i vantaggi dell'agricoltura a quelli del commercio; essa può riparare a colpi che questo soffre da progressi dell'industria universale, essa può essere considerata come una potenza territoriale; essa, in poche parole, non dovrebbe far altro che liberare le dette colonie dal giogo de' privilegi esclusivi che le opprimono, per renderle il sostegno eterno della sua prosperità, e per inondare l'Europa. de' loro preziosi prodotti. Finalmente col suo commercio di traffico e di cabottaggio essa mantiene l’abbondanza, e sostiene la concorrenza in tutt’i porti e in tutt'i, mercati d’Europa; essa diviene il sostegno dell’industria di tutte le nazioni, l’apportatrice di tutto quello che loro manca, la consumatrice di tutto quello che hanno dr superfluo; in. una parola, la benefattrice del genere umano. Sarebbe forse l’interesse dell'Europa che una repubblica, di questa natura perisse? Questo commercio così profittevole per l'Olanda, non lo è forse egualmente per tutta l’Europa? Se per un flagello del cielo l'Olanda fosse in un istante ingoiata dalle acque dell’Oceano, dalle quali la sua industria vittoriosa degli elementi istessi ha saputo garantirla, l’Europa non avrebbe forse bisogno di più secoli per riparare questa perdita? Una gran parte del suo commercio non, perirebbe forse con essa? È vero che a misura che cresce il commercio delle altre nazioni, il traffico dell'Olanda sulle coste europee diviene meno attivo, ma la concorrenza degli Olandesi gioverà sempre l’Europa.

Persuasi dunque dello stretto legame che ci è fra gl'interessi di ciascheduna nazione, e quelli dell’Europa intera, persuasi delle funeste conseguenze della gelosia di commercio, della rivalità delle nazioni; persuasi finalmente de' mali che questo sistema erroneo reca al commercio generale e particolare de' popoli; che ci resta a far altro, che ad incoraggiare ciaschedun legislatore a cercare d'essere il primo a dare agli altri governi l’esempio della più salutare intrapresa, superando gli antichi pregiudizi, aprendo i suoi porti a tutte le nazioni, e gittando i fondamenti di quella necessaria libertà, senza della quale il commercio sarà sempre timido perché schiavo, sempre lento perché oppresso dal peso delle catene che lo stringono? Sì, Legislatori venerandi del genere umano, uomini bastantemente felici pei poter influire. sulla felicità de' popoli; Re e ministri ammessi in que tempii inaccessibili al resto de' mortali, in que tempii, da quali si spediscono gli ordini che aprono o chiudono quello di Giano, persuadetevi di questa gran verità, che, così nel mondo fisico, come nel politico, tutto è dipendenza, tutto è rapporto, niente è isolato. Osservate come quest’ordine inalterabile della natura ha dato origine alla società, ha fatto nascere il. commercio fra gli nomini. Ricordatevi che, per quel che riguarda la sua destinazione, il commercio vuole che tutte le nazioni si riguardino come una società unica, tutt’i membri della quale abbiano eguali dritti di partecipare a beni di tuttet le altre; per quello poi che riguarda il suo oggetto e i suoi mezzi, il commercio suppone il desiderio e la libertà concentrata fra tutt’i popoli di fare tutte le permute e tutt’i cambii che possono convenire a loro mutui bisogni. Persuadetevi che se le nazioni, colle quali voi commerciate, han bisogno di voi, e se voi avete bisogno di loro, a misura che si aumenterà la loro prosperità, dovendo anche crescere la loro popolazione, voi troverete un maggior numero di compratori de' vostri prodotti e della vostra industria, e una maggior quantità di esibitori di quel che vi manca.

Rinunziate dunque a questo spirito di rivalità e di gelosia. Combinate i vostri interessi e i vostri vantaggi con quelli delle altre nazioni. Questo è il solo mezzo da fare acquistare alla prosperità de' vostri Stati un carattere di perpetuità. Rompete questi, argini crudeli, abborrite queste distinzioni assurde di nazione con nazione, funesti avanzi degli antichi pregiudizi della barbarie, sempre destruttivi, ma oggi disonoranti per un secolo che si crede illuminato, e che in fatti dovrebbe esserlo. Abolite quei patti di confederazione e di lega che hanno la difesa per pretesto, e l’invasione per fine e per vocazione; che obbligano un popolo che potrebbe godere e profittare de vantaggi della pace, a mescolarsi nelle brighe di un altra nazione, a spargere il suo sangue, a sacrificare i suoi tesori, a interrompere il suo commercio per garantire ordinariamente l'ambizione d'un Re straniero, per sostenere le sue pretensioni ingiuste, i suoi supposti dritti, i suoi titoli fraudolenti o dubbii, i suoi odii personali, la sua vanità puerile, le sue gelosie mal fondate, i suoi stessi delirii. Considerate come sorgenti d abusi politici que trattati di commercio che divengono altrettanti semi di guerra e di discordia, e quei privilegi esclusivi che una nazione ottiene da un altra per un traffico di lusso, o per un commercio di sussistenza:La libertà generale dell’industria e del commercio, questo è il solo trattato che una nazione commerciante ed industriosa dovrebbe stabilire nel suo interno e cercare al di fuori. Tutto quello che favorisce questa libertà, giova al, commercio; tutto quello che la restringe, gli nuoce. La gelosia di commercio, le rivalità del nazioni la ristringono al di fuori i regolamenti troppo minuti e troppo complicati, la soverchia ingerenza del governo la distrugge nell'interno. Ecco perché io considero questa soverchia ingerenza come un altr’ostacolo al commercio.


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CAPO XXI

Altri, ostacoli che impediscono i progressi del commercio 

nella maggior parte delle nazioni, derivati dalla soverchia ingerenza del governo

Iddio liberi la mia patria, dovrebbe dire ogni cittadino di buon senso, la liberi da due estremi egualmente perniciosi; dalla soverchia negligenza del governo, e dalla sua soverchia vigilanza. Il voler tutto sapere, il voler tutto vedere, il voler tutto dirigere è una sorgente di disordini non meno funesta della trascuraggine e della negligenza. Nella cognizione, nella scienza di quel giusto e difficile mescuglio d’attenzione e d’abbandono, d’ingerenza e di libertà consiste tutta l'arte del governo.Si paragoni per un momento la direzione de' popoli à quella de' fanciulli. Se voi spingete troppo innanzi l'attenzione di dettagli; se voi volete regolare tutte le loro mosse, tutte le loro azioni, l’arte non tarderà molto a soffogare la natura: questa non si conoscerà più nell’allievo, e non saprà più cosa alcuna produrre. Al contrario, se voi lo trascurerete troppo, i vizi dell’umanità s’impadroniranno di lui, e voi lo penderete per un motivo opposto.L’istesso avviene nel governo. La soverchia negligenza dà adito, fa nascere e perpetua tutt’i disordini; e la soverchia ingerenza distrugge tutta l'attività del cittadino, distruggendone la libertà.La prima ci conduce a flagelli dell’anarchia, e la seconda a quelli della servitù.

Or chi lo crederebbe? Il commercio d’una gran parte delle nazioni europee si risente nel tempo istesso delle conseguenze funeste di questi due vizi opposti. Egli soffre e dalla parte della negligenza del governo, il quale trascura di liberarlo dagli ostacoli che gli si oppongono; e soffre egualmente dalla sua molesta ingerenza, volendo dirigere e regolare tutt'i suoi passi, tutte le sue intraprese, tutt'i suoi interessi. Aprendo i codici economici dell’Europa, non troviamo altro che leggi proibitive, che statuti e regolamenti minuti e particolari su tutto quello che riguarda il commercio. I legislatori han voluto far le veci del negoziante; ma bisogna confessare con libertà, che per lo più sono molto mal riusciti in questo mestiere. Essi, è vero, han cercato di favorire il commercio; ma si può mai favorire il commercio diminuendone la libertà?

La Francia credette di garantire uno de' principali rami della sua industria proibendo l'estrazione d'ogni specie di selz non manifatturata. La seta cruda, o soltanto tinta, che era uno de' grandi oggetti del commercio di questa nazione, non potè più uscire da' suoi confini. Il governo emanando questa legge proibitiva, credè sicuramente di mettere un ostacolo a(7) progressi delle manifatture straniere di questa genere, si per averle private dell'apparecchio che i Francesi han l’arte di dare così bene alle loro sete, e dell'arte che hanno nel tingerle, come anche per obbligarle a sostenere una maggior concorrenza ne mercati d'Europa, poiché i manifatturieri Francesi avrebbero a più buon mercato vendute le loro stoffe, subito che la proibizione d'estrarre la seta cruda gli avrebbe messi in istato di comprare a più buon prezzo la materia prima. Ma infelicemente per la Francia queste speranze sono state deluse. Gli stranieri han cercato altrove le sete che una volta compravano dalla Francia, e il bisogno ha fatto imparar loro l’arte d'apparecchiarle e di tingerle della maniera istessa:che si apparecchiano e si tingono in Lione. L’avvilimento del prezzo delle sete ha fatto in molte parli della Francia deteriorare la coltura de' gelsi. La proibizione di non estrarle se non manifatturate, l’ha privata anche del commercio che essa faceva delle sete straniere che rivendeva dopo averle tinte e preparate, e finalmente l’industria nazionale è rimasta doppiamente afflitta e da quel che ha perduto, e da quel che ha fatto acquistare a suoi vicini. Or questi sogliono esser sempre gli effetti delle speculazioni del governo nelle materie di commercio.

Dall’istessa causa l’Inghilterra ha sofferti gli stessi effetti. Allorché il governo Britannico proibì con tanto rigore l'esportazione delle sue lane; allorché dimenticandosi della moderazione, della giustizia e della proporzione che ci deve essere tra le; pene e i delitti, condannò collo statuto VIII, cap. 3, d Elisabetta, coloro che erano convinti di questo delitto, per la prima volta alla confiscazione de' beni, al carcere d’un, anno e a perdere la mano sinistra, e nella seconda volta ad esser dichiarati e puniti come felloni; allorché la ferocia di questa legge fu corretta dal Parlamento sotto il. regno di Carlo II e di Guglielmo III, ma se ne lasciò sussistere l’oggetto; allorché le pene pecuniarie più forti furono sostituite all'antiche, non tanto per togliere lo scandalo della barbarie, quanto per impedire l’impunità che nasceva dal soverchio rigore della legge; allorché il governo Britannico, io dico, prese tutte queste misure per impedire l'estrazione delle sue lane, egli si augurò gl’istessi vantaggi che si augurò la Francia dalla proibizione dell’estrazione delle sue sete non manifatturate. Egli credè che i suoi panni avrebbero avuto maggiore smaltimento, subito che i fabbricanti avrebbero pagata la materia prima a minor prezzo, e credè di nuocere agli stranieri, e particolarmente a Francesi privandoli delle sue lane, dalla perfezione delle quali dipendeva quasi interamente quella de’ loro panni. L'evento ha mostrato l’errore di questa speculazione. le lane, non avendo più lo smaltimento che avevano prima, il loro prezzo essendo stato fissato dalla legge, sono deteriorate in quantità ed in qualità, e la Francia ha perfezionate le sue. Il denaro che entrava in Inghilterra per. l’estrazione delle sue lane, più non vi entra; i suoi panni hanno forse perduta quella perfezione che avevano prima, o almeno non si sono liberati dalla concorrenza di quelli de' Francesi; l’Inghilterra finalmente, e riguardo a quest'oggetto, e riguardo ad infiniti altri} ha come le altre nazioni sperimentati i funesti effetti della soverchia ingerenza del governo negli affari del commercio.

La. Francia ne ha un’altra riprova nel commercio delle Indie orientali. I disastri che ha sofferti la Compagnia dell’Indie in questo secolo sono troppo noti, e l’Autore celebre dell’Istoria filosofica a politica degli stabilimenti degli Europei nelle due Indie, ce ne ha dato un minuto ragguaglio (122). Questo scrittore, che ha sempre osservati 'l disordini e le loro cause, non teme d’attribuirne l'origine all'ingerenza del governo. Dacché il governo volle nominare i direttori della Compagnia;. dacché un commissario deb Refu introdotto nell'amministrazione (123), da quest'epoca la Compagnia cominciò ad andare in rovina. Tutto si regolò per l’influenza, e quasi sempre a seconda degl’interessi e delle mire private dell’uomo della Corte.

Il mistero, questo velo inseparabile da una amministrazione arbitraria, copriva tutte le operazioni del Commercio; gl'interessati ignorarono lo stato de' loro affari, e la perdita della libertà fa seguita da presagi più funesti della rovina intera della Compagnia. Il governo istruito di questi disordini, credette di potervi porre un rimedio. moltiplicando il numero de' suoi commissarii. Egli ne stabilì due da. principio, e quindi vi aggiunse un terzo. Ma il male in vece di diminuirsi crebbe a misura che le mani che stringevano le catene di questo commercio, si moltiplicarono. Il dispotismo aveva regnato, allorché non ce n’era che un solo, la divisione, allorché ce ne furono due; ma dal momento che ce ne furono tre, tutto cadde nell'anarchia.

In questo stato dì cose si vide comparire un progetto di riforma, l’oggetto del quale era di togliere il governo di mezzo agli affari della Compagnia. Il progetto fu eseguito, il governo rinunciò ad una ingerenza che era la causa di tutti i disordini; e durante i cinque anni che durò la nuova amministrazione, la Compagnia prosperò a segno, che le rendite giunsero fino a diciotto milioni per ogni anno, somma alla quale non erano fino a quel tempo ascese, neppure ne tempi che si erano riguardati come i più brillanti.

Io non la finirai mai, se volessi rapportare tutti i documenti della rovina del commercio cagionata dalla soverchia ingerenza del governo. Tutta l’Europa mi somministrerebbe delle pruove e de' fatti per dimostrare questa verità. La sola Francia me né darebbe di che riempirne un libro, e l’Inghilterra istessa me ne offrirebbe in abbondanza.. Ma io tralascio ciò per non distendermi tanto su, d’un oggetto che non ho voluto osservare che di passaggio.

Regala generale: quando voi vedete in una nazione il governo mescolarsi troppo negli affari di commercio, quando vedete che tutte le sue operazioni sono regolate da qualche legge particolare, quando la moltiplicità di queste obbliga il negoziante a fare le sue speculazioni col codice economico alla mano, senza cercare d’informarvi d'altro, voi non v'ingannerete mai supponendo in pessimo stato il commercio di questa nazione.


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CAPO XXII

Ostacoli che recano al commercio le leggi che dirigono

quello delle nazioni europee colle loro rispettive colonie

Oggi che tutti gl'interessi dell'Europa hanno un rapporto con quelli dell'America; oggi che Questo nuovo emisfero è divenuto la fattoria egli Europei, fattoria sempre distrutta, è spesse volte insanguinata da suoi nuovi proprietarii; oggi finalmente che il principale oggetto del nostro commercio è quello che si fa col soccorso delle colonie Americane; oggi, io dico, le cause che distruggono, o almeno che impediscono i progressi di questo commercio, non debbono esser trascurate nella scienza della legislazione. Io le deduco tutte da un principio comune.

Un falso supposto ha fatto credere a governi delle nazioni europee, che si sono stabilite nel nuovo mondo, che per raccorre il maggiore possibile vantaggio dalle loro respetti ve colonie, bisognava obbligarle ad un commercio esclusivo colla metropoli. le leggi proibitive, colle quali si è cercato di stabilire questo sistema erroneo, sono state le più severe e le più destruttive di quella libertà, senza della quale niun commercio di questo genere può prosperare (124). Alcune poche riflessioni basteranno per farci vedere come questa proibizione sia nel tempo stesso contraria agl'interessi delle metropoli ed a quelli delle colonie, e come rovini egualmente il commercio del l’une e delle altre.

Due sono i motivi per li quali i governi han potuto determinarsi a prescrivere questa perniciosissima esclusiva; l’aumento dell'imposizioni su i coloni col soccorso de' dritti sull'immissioni e sull'estrazioni di tutto quello che si riceve da essi e che si manda loro; o il disegno;di far ridondare col soccorso del monopalio, tutto il commercio delle colonie in vantaggio della metropoli.

Se il primo di questi motivi è quello che ha determinati i governi, ci vuol poco a vedere quanto essi si sono ingannati.

Essi han creduto che questi dazi indiretti verrebbero ad esser pagati dalle colonie, quando la metropoli è effettivamente quella che li paga. Questa verità si. comprenderà allorché si parlerà de' dazi indiretti, dove si dimostrerà che questi vengono sempre a cadere sul primo venditore.

Per. far che i coloni fossero a parte de' pesi della società, della quale essi son membri; per ottenere ciò che la giustizia richiede da una parte, e l’interesse pubblico esige dall'altra; per combinare l'interesse della metropoli con quello delle colonie, bisognava tassare i loro Fondi e non le mercanzie che esse ci mandano, né quelle che esse ricevono da noi. In questo caso la libertà del loro commercio rendendone molto più profittevole la coltura, il governo avrebbe potuto ottenere dalle colonie, senza inasprirle, senza oltraggiarle, senza impoverirle, quello che oggi non ottiene da, esse con una esclusiva che le inasprisce, che le. impoverisce, e che fa loro sentire tutto il peso dell'oppressione col desiderio e la speranza di troncare al primo momento favorevole quella mano che le incatena.

Se poi il grand'oggetto di questa fatale esclusiva è stato il secondo, cioè di procurare il maggior guadagno della metropoli nel monopolio colle sue colonie, i governi non si sono meno ingannati. Questo è evidente. Se. la metropoli vende le sue produzioni, e. compra, quelle delle colonie al prezzo corrente del mercato generale, l’esclusiva è superflua. Se al contrario vende loro a caro prezzo le sue rner. canzie, e compra le loro ad un prezzo tenuissimo, essa rovina le colonie, e rovina per conseguenza il suo istesso commercio. A misura che un commercio così svantaggioso le farà impoverire, esse Consumeranno una minor quantità de' prodotti della metropoli, e le. esibiranno una minor quantità de' loro. Esse chiameranno, in soccorso il commercio clandestino; esse ricorreranno a contrabbandi, da quali l’avidità della metropoli non potrà garantirsi né colle pene le più severe, né colla moltiplicazione delle spie e delle guardie, quando sono animati dalla speranza di un gran profitto. In questo caso l'esclusiva diverrà inutile a negozianti della metropoli, ma non lascerà di rovinare le colonie, giacché questo commercio clandestino non potrebbe mai giovare che a pochi armatori avidi ed arditi, che spoglierebbero col soccorso de' monopolii e la patria e le colonie nel tempo istesso. L’Inghilterra e la Spagna ne sono la prova.

L’interesse dunque della metropoli è d’accordare una libertà così intera al commercio de' suoi coloni, che a quello degli altri sudditi dello Stato. La giustizia lo richiede egualmente. Questa Dea che infelicemente per l’umanità rare volte influisce nelle speculazioni delle finanze; la giustizia Jie sempre si unisce a Veri interessi delle nazioni e de' popoli, e che suggerisce sempre a colui che ne consulta gli oracoli, le regole e i mezzi per innalzare la felicità degli uomini e degli. Stati, non sopra i vacillanti rottami de' privati interessi, ma sopra i fondamenti eterni del comun bene; la giustizia, io dico, non può vedere senza orrore un attentato così manifesto contro i più sacri dritti della proprietà e della libertà dell’uomo e del cittadino, prescritto, autorizzate, legittimato dalla pubblica autorità. Questa ha, è vero, il dritto di Recidere e di determinare sovranamente su tutto quello che può nuocere o giovare al bene generale della società. Questa è una prerogativa inseparabile dalla sovranità. Ma la natura istessa di questa prerogativa ce. ne addita l'uso; ci fa vedere che questa deve essere esercitata: in vantaggio di tutt'i membri della confederazione sociale. Fuori di questo caso, l’esercizio di questa prerogativa non è più legittimo: egli degenera in un atto di tirannia, in un tratto di oppressione e di dispotismo. Ancorché dunque il vantaggio delle metropoli esigesse questa esclusiva, contro della quale si ragiona, il male che questa reca alle colonie, basterebbe per renderla ingiusta. I coloni non sono forse membri della società, come gli abitanti delle metropoli? Non sono forse essi figli dell'istessa madre, fratelli del l’istessa famiglia, cittadini dell'istessa patria, sudditi dell'istesso impero? Non debbono forse essi avere dritti e prerogative comuni, e tra questi dritti il più prezioso non è forse quello della proprietà e della libertà. di disporre di quello che è loro? Questi dritti che l'uomo acquista col nascere; che la società e le leggi debbono garantire; che sono essenzialmente in noi, e che formano la nostra esistenza politica, come l’anima, ed il corpo formano l’esistenza fisica: questi dritti preziosi che non ci potrebbero esser tolti senza scioglierci dal nodo che ci unisce allo Stato; questi dritti, de' quali il possesso non ci può mài essere interdetto, e l’esercizio ci può soltanto esser sospeso per un bisogno urgente, inevitabile ed universale dell'intero corpo sociale; ma che al contrario, quando questa causa non esiste (come nel caso nostro}, quando questa divinità che si chiama interesse pubblico, non può essere interamente placata da questo violento e spaventevole sacrifizio; quando essa non ardisce di pretenderlo, allora la soppressione sola anche momentanea di questo esercizio diviene un’ingiustizia spaventevole, un attentato pericoloso, un’oppressione manifesta: questi dritti finalmente che debbono esser così rispettati nella persona d’un privato cittadino, d'un semplice individuo della società, potrebbero essi esser negati ad una parte considerabile del corpo civile, potrebbero essi esser proscritti dalle colonie d’una nazione? Ma si dirà: lo stabilimento di queste colonie è costato molte spese e molti rischi alla nazione fondatrice, e la protezione che essa loro accorda, l'obbliga ad altre spese continue.

Questi benefici non esigono forse un compenso dalla parte, delle colonie? Sì: ma questo compenso si deve cercare in tutti altro fuori che Ih questi esclusiva, la quale non solo è ingiusta, non solo è perniciosa alle colonie', ma, come si è osservato, non giova alla metropoli istessa. Dove dunque cercarlo? Bisogna persuadersi: qualunque sia lo stato degl'interessi della metropoli essa non deve vedere nelle sue colonie, che un istromento di sollievo per le contribuzioni dello. Stato. Il gran vantaggio che il governo deve cercare in queste provincie segregate, non dev’essere il profitto chimerico d'un commercio esclusivo, ma la diminuzione de' pesi della metropoli col soccorso delle larghe contribuzioni che si possono ottenere da una colonia ben regolata. Il prodotto netto delle colonie europee stabilite nell’America potrebbe essere considerabilissimo, e la porzione che ne potrebbe esser serbata per le contribuzioni, potrebbe essere importantissima e di gran sollievo per le respettive metropoli, se le leggi non avessero cercato di distruggere il loro commercio, e di condannare i loro abitanti all'ignoranza, alla miseria ed al dispotismo il più insopportabile. Più che queste ricchezze si sarebbero aumentate, maggiore sarebbe stato il sollievo che esse avrebbero recato alle metropoli, perché maggiori sarebbero stato le loro contribuzioni.

I veri interessi della nazione fondatrice, tutte le sue speranze relativamente alle sue colonie sono dunque fondate nella loro prosperità, nella moltiplicazione delle loro ricchezze. A questo solo oggetto dunque dovrebbero dirigersi tutte. le cose de' legislatori europei nel nuovo emisfero. Or supposto questo, chi non vede, che se i coloni avessero la libertà di ricercare dal loro suolo lotte le derrate, che questo sarebbe in istato di produrre; di provvedersi di quelle che loro, mancano da chiunque le offrirebbe loro a minor prezzo; di vendere e di comprare a qualunque prezzo e da qualunque nazione essi vorrebbero; di soddisfare coll'istessa libertà non solo a bisogni di prima necessità, ma anche a quelli di puro flusso: chi non vede, io dico, quanto sotto questi auspicii le colonie prospererebbero; quanto si decrescerebbe la oro popolazione, la loro forza, il loro commercio; come questa libertà darebbe un nuovo prezzo al suolo che coltivano; come si migliorerebbe la loro coltura; come si accrescerebbe la quantità, il numero ed il valore de' loro prodotti; e come finalmente queste provincie segregate, che oggi sono il teatro della miseria e dell'oppressione di coloro che ubbidiscono, dell'avidità e del dispotismo di coloro che governano, e della stranezza ed ingiustizia delle leggi colle quali son governati, ci offrirebbero allora lo spettacolo raro, ma piacevole, della ricchezza e della felicità d’un paese, sostenuta dall'agricoltura, dalle arti e dal commercio? La sola soppressione dunque di questa fatale esclusiva basterebbe forse per fare la prosperità delle colonie, e per conseguenza della metropoli.

Che non mi si opponga, che queste colonie divenute ricche e potenti sdegnerebbero di dipendere dalla loro madre. Il peso della dipendenza non si rende insopportabile agli uomini, se non quando è unito al peso della miseria e dell’oppressione. le Romane colonie trattate con quello spirito di moderazione che l’interesse e la politica del senato avevano ispirato, molto lontano dall'abborrire, si gloriavano di una dipendenza che faceva la loro gloria e la loro sicurezza. La loro condizione era invidiata anche da quelle città che, incorporate con Roma, avevano accoppiate, sotto il nome importante di municipii, tutte le prerogative della romana cittadinanza alla conservazione de' loro usi particolari, dei toro culto e delle loro leggi. Molte di queste città cercarono il titolo di colonie; e sebbene più distinte fossero le loro prerogative, nulladimeno sotto l’imperadore Adriano non si sapeva quali fossero quelle di cui dovesse esser preferita la sorte (125). La prosperità non le rese mai ribelli, non ispirò mai loro l’ambizione dell'indipendenza. L’istesso avverrebbe alle moderne colonie. Felici sotto il governo delle loro metropoli, esse non ardirebbero di rompere un giogo leggiero e piacevole, per cercare un’indipendenza che le priverebbe della protezione della loro madre, senza la sicurezza di potersi garantire o dall’ambizione d’un conquistatore, o dagl'intrighi d'un cittadino preponente, o da pericoli dell’anarchia. Non. è stato l’eccesso della ricchezza e della, prosperità che ha fatto ribellare le colonie Anglicane, ma è stato l’eccesso dell’oppressione che le ha indotte a rivolgere contro la loro madre, quelle armi che esse avevano tante volte, impugnate per difenderla.

Quest’esempio non basterà forse per disingannare gli altri governi d’Europa? Perché, invece di guardare la rivoluzione dell’America come un semplice gastigo dell’orgoglio Inglese, non vi veggono piuttosto essi una lezione terribile data a tutte le Potenze che si dividono le spoglie di quel vasto continente? Aspetteranno essi che una causa comune renda universale questa fatale catastrofe che separerà per sempre un mondo dall'altro? La mina è preparata. Una scintilla è bastata per accenderla nell’America Anglicana (126). Non ci vorrà più di questo per farla scoppiare nel resto di quel vasto continente. L’epoca di quest’avvenimento è incerta, ma è inevitabile, se non si riforma questo sistema erroneo, se non si aboliscono queste leggi, colle quali si dirige, o, per meglio dire, si distrugge il commercio delle nazioni europee colle loro respettive colonie. La prosperità così dell’antico come del nuovo emisfero ricerca, come si è dimostrato, questa giusta e salutare riforma, e la ribellione delle colonie Anglicane mostra a tutti i principi il pericolo che loro sovrasta, se non l’accelerano. Ór se dallo scandolo de' combattimenti noi potessimo lusingarci di vedere uscire un sistema di riforma così salutare; se quell'istessa causa che ha ispirata la discordia ed ha accesa oggi la guerra tra gl'Inglesi e le loro colonie, rompesse le catene che opprimono il commercio del resto dell’America, la filosofia sensibile, piangendo sull’asprezza del rimedio, si consolerebbe almeno coll'enumerazione de' mali che ha estirpati.


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CAPO XXIII

Ultimo ostacolo al commercio: la mala fede dà negozianti, frequenza de' fallimenti

Se la confidenza è l’anima del commercio, se senza di essa tutte le parti che compongono il suo edificio, crollano da loro medesime; se il credito è una seconda specie di moneta, senza della quale ogni circolazione sarebbe interrotta, ogni commercio racchiuso tra gli stretti confini della somma del numerario; se questo eredito fa circolare nella banca d’Amsterdam 15 milioni di fiorini per giorno, e sé l’istessa causa fa che in questa piazza si trovino de' negozianti che fanno un traffico di 60 milioni in ogni anno; se il credito, in una parola, è così necessario al commercio, come gli elementi lo sono alla sussistenza degli animali; non si può dubitare che tutto quello che contribuisce ad indebolirlo, dev'esser considerato come un ostacolo al commercio. .

Or chi non vede come la frequenza de' fallimenti in una nazione debba produrre quest’effetto? Qual credito si può avere per coloro che commerciano in una nazione, nella quale il fallimento entra nell’assortimento de' mezzi da migliorare la fortuna del negoziante; nella quale un mercadante non è ricco, che dopo il terzo fallimento, e nella quale la strada più breve che lo conduce all'opulenza, è il dichiararsi fallito? Or chi lo crederebbe! Se se n’eccettuano alcune poche nazioni, in tutto il resto dell’Europa, questa bizzarra e funesta speculazione pare non essere interdetta al negoziante. Ma i fallimenti non sono stati così frequenti e così felici, quanto in un secolo nel quale tutti gli occhi de' governi sono rivolti al commercio.

Qual prova più autentica dell’infanzia della presente legislazione? le nostre leggi stabiliscono una pena per i fallimenti} ma l’impunità, conseguenza necessaria della poca opportunità della legge, rende inutile N loro rigore. Vediamo dunque e quel che inutilmente si è fatto, e quel che si dovrebbe fare, per torre al commercio un ostacolo, del quale la morale e la politica, il decoro de' costumi e l’interesse pubblico egualmente si risentono; ma che malgrado tutto questo ha funestamente distese le sue radici in quasi tutta l'Europa.


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CAPO XXIV

Incoerenza ed inefficacia della presente legislazione riguardo a questo oggetto

I dritti sacri dell’umanità, uniti a veri interessi del commercio, ci autorizzano ad attaccar qui la legislazione dell'Europa. le leggi che riguardano i fallimenti, non fanno sicuramente la gloria de' nostri codici, né de' legislatori che le hanno emanate. Esse partecipano de' caratteri più opposti tra loro: esse sono nel tempo istesso troppo severe e troppo indulgenti: esse condannano l’innocenza, nel mentre che offrono un adito per l’impunità a coloro che sono effettivamente rei. Vediamolo.

Ci sono due diverse specie di fallimenti. Altri sono volontarii e fraudolenti, altri sono involontarii e forzosi. Ne primi l’insolvibilità del debitore non è che apparente, e gli effetti che egli cede a suoi creditori, non sono che una parte de' suoi beni; il resto vien traviato o nascosto. Al contrario ne secondi l’insolvibilità è necessaria. Una disgrazia sopravvenuta al negoziante, la perdita di una nave, il fallimento d’un suo corrispondente ecc. l’obbligano a dichiarare» a suoi creditori la sua insolvibilità, il suo fallimento, e l’avanzo de' suoi fondi che egli loro offre in compenso d’una porzione del suo debito. Il primo dunque è un fallimento volontario, è un furto fatto al pubblico, furto altrettanto più funesto, quanto è in potere di colui che lo fa di determinarne il valore; ma il secondo è Un flagello del. cielo, una disgrazia non preveduta, che non lascia altro sollievo all'infelice che la soffre, che la coscienza e la sicurezza della sua innocenza, la quale per altro non lo garantisce dal disprezzo del pubblico, dalla perdita dell’onore, e, quel che è più strano, dall’ingiusto rigore della legge. È vero che l’istessa legge che condanna alla morte il fallito fraudolento (127) e volontario, non dà altra pena al fallito di buona fede, che il carcere perpetuo; ma io domando: può essa punire un uomo che non ha lasciato d’esser giusto?

Quando la sorte lo ha privato di tutto quel che possedeva, può la legge senz'altro motivo privarlo anche di quello che questa gli ha lasciato, della libertà personale? Questi edificii che la potestà legislativa ha fati innalzare per assicurare il riposo pubblico contro la violenza, contro i delitti, contro lutti gli. eccessi, che malgrado le penose cure de' legislatori non lasciano di turbar l'ordine della società; questi edificii, l'esistenza de' quali umilia l’umanità, quantunque fatti per la sua conservazione, potranno forse qualche volta essere anche impiegati per distruggerla? Il carcere può mai divenire l'albergo dell'innocenza? La legge può forse a questa segno moltiplicare i disastri d'un infelice? Qual causa potrà mai legittimare un attentato che essa commette contro la libertà civile, sotto l’ombra dell’interesse pubblico? Qual interesse più grande, più comune, elio la libertà del cittadino sia al coperto? Senza di questa non ci è né commercio, né società. Ma lasciamo di declamare, e contentiamoci di piangere sulla imbecillità degli uomini nel vedere un errore così manifesto adottato in tutta l'Europa, e nel vedere il silenzio della morale su la più irritante stranezza della moderna giurisprudenza. Vediamo ora come nell’esecuzione la legge istessa offre al vero reo l’impunità; vediamo come essa deposita la vendetta pubblica d'un delitto pubblico nelle mani private; vediamo come essa dà agl'interessati un dritto, che la facoltà istessa suprema non ha, di assolvete un reo e di punire un innocente; vediamo finalmente come, subito che gl'interessati firmano un contratto col negoziante fallito, ancorché il fallimento di questo sia volontario, e fraudolento, la legge si dimentica allora della sua severità, del delitto. del reo, e dell’abuso che questi ha fatto della confidenza pubblica.

Appena il fallimento è dichiarato, la legge permette a due terzi, o a tre quarti de' creditori di unirsi, é di decidere della sorte del fallito. Se costoro stipulano un accomodamento col negoziante, se essi si contentano di rinunciare ad una porzione del loro credito, ancorché il fallimento sia volontario e fraudolento, tutto é terminato. La porzione de' suoi fondi che questi ha nascosta, o, per meglio dire, che ha rubata a suoi corrispondenti, resta salva per lui: egli ricomincia un nuovo negoziato con un capitale che ha loro rapito, e se la fortuna seconda la sua. frode» egli si arricchisce col soccorso del suo fallimento.

Se al contrario il fallimento ancorché di buona fede, ancorché per disgrazia, non lascia al negoziante onesto di che conchiudere un accomodamento co' suoi creditori; se qualche privato interesse o il capriccio ispirano a. costoro di rovinare quest’infelice e onorato cittadino, la legge, che ha ceduto un dritto che non aveva, legittima la loro crudeltà, e permette loro di ritenere in un carcere perpetuo un uomo che non ha commesso alcun delitto.

L’interesse solo de' creditori, o il loro capriccio, può dunque togliere ad un fallito onesto uomo quella libertà che non si può perdere dal cittadino senza un delitto, e può metterela mala fede, la frode ed il furto al coperto d’ogni inquisizione e d'ogni gastigo.

A che giova dunque che la legge metta nel rango de' delitti il fallimento fraudolento? a che giova la pena di morte minacciata contro un delitto che offende la pubblica fede, quando il giudizio de' creditori fa ordinariamente tacere la giustizia 1 quando la legge in vece d’innalzare un asilo contro il suo rigore, in favore dell’insolvibilità onesta che geme, e si umilia innanzi al cospetto de' suoi barbari creditori, non fa altro che aprire una strada sicura al impunità per la frode avveduta, orgogliosa ed ardita che la elude? quando finalmente la sua apparente moderazione non è utile che pel fallito fraudolento che IA nascosto il suo danaro per ricavare miglior partito dallo spavento de' suoi creditori?

Non ci è giorno che non si senta un fallimento nell'Europa. Questi sono per lo più fraudolenti. Ma non si è forse ancora inteso un negoziante impiccato per questo delitto. Qual meraviglia che i fallimenti siano così frequenti? Non ci sarebbe forse bisogno di tutta questa pena per estirpare questo vizio, se la legge istessa non assicurasse l’impunità al delinquente, e se cercasse di prevenirlo.

Vediamo dunque quello che si dovrebbe fare.


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CAPO XXV

Efficaci rimedi contro questo disordine

Se la speranza dell'impunità è il gran veicolo de' delitti, questa sarebbe la prima che si dovrebbe estirpare dal cuore de' negozianti per diminuire la somma de' fallimenti fraudolenti. Per ottener questo fine bisognerebbe torre agl’interessati il dritto di decidere della sorte del fallito. Questi non dovrebbero ingerirsi in altro che nell’invigilare su i mezzi d’essere indennizzati della maggior possibile porzione de' loro crediti. Il resto dovrebbe farsi da giudici. Subito dunque che il negoziante si dichiara fallito, il governo dovrebbe assicurarsi della sua persona. Quindi con un rigoroso esame su i bilanci del negoziante, su la condotta da lui tenuta ecc, i giudici dovrebbero determinare la na tura del fallimento. Trovandosi di buona fede il negoziante dovrebbe essere messo in libertà} e basterebbe obbligarlo a dare a suoi creditori l’avanzo de' suoi fondi in compenso de' suoi debiti. Bisognerebbe lasciare a quest’infelice la, strada aperta ad ogni fortuna, e palesare al pubblico la sua buona fede e la sua innocenza.

Ma trovandosi fraudolento il fallimento, il delinquente in qualunque caso non dovrebbe scampare il giusto rigore della legge. Una pena d’infamia sarebbe la più opportuna per questo delitto. Un ferro rovente dovrebbe imprimere nella sua fronte i caratteri che lo esprimono. Privo della confidenza pubblica, egli dovrebbe essere escluso da tutte quelle cariche, da tutti quei mestieri che ricercano l’onoratezza in coloro che li esercitano. Come infame, ogni atto, ogni obbligazione da lui firmata, si dovrebbe avere come nulla e come illegittima. Ancorché una fortuna non meritata lo mettesse in istato di soddisfare i suoi creditori in tutta la somma de' loro crediti, la sua infamia non dovrebbe per questo finire, non altrimenti che la restituzione non libera il ladro dalla pena del furto.. Questa pena finalmente si dovrebbe eseguire con tutti quelli apparati che rendono più terribile la giustizia, e più vergognoso il delitto.

Ecco come andrebbe punito il fallimento fraudolento. Esaminiamo ora come la legge potrebbe prevenirlo.

Il lusso, forse desiderabile in alcune classi de' cittadini d’uno Stato, ma perniciosissimo in quella de' negozianti, è la causa la più frequente de' fallimenti. La mania di comparir nobile co' diplomi del fasto e della profusione fa disprezzare a negozianti una frugalità onorevole e necessaria. Un guadagno considerevole fatto col soccorso d’un'negoziato felice, non è destinato a produrne un altro, né è serbato per compensare una perdita che potrebbe sopravvenire da un secondo negoziato. Tutto s’impiega alla creazione d’un treno fastoso, col soccorso del quale l’imbecille negoziante va accattando un’eccellenza derisa da coloro istessi che gliela vendono. Che ne avviene da questo? Il primo negoziato infelice cagiona il fallimento del negoziante. Privo degli avanzi necessarii per compensarlo, egli ricorre agl’intrighi. Egli non ardisce di riformare il suo trattamento per non palesare il suo disordine. Egli anzi spende qualche volta di più per evitare un sospetto che accelererebbe il suo fallimento, fallimento, che non potendo più evitare, cerca soltanto di ritardare col soccorso di nuove frodi e di nuovi furti.

Queste non sono speculazioni metafisiche, né vani sogni di politica; sono fatti che avvengono di continuo sotto i nostri occhi, e che infelicemente cagionano la rovina di tante famiglie che in ogni giorno sono sacrificate sull’altare del lusso alla mala fede ed alle frodi de' negozianti. Un corpo dunque di leggi suntuarie sarebbe necessario per la classe de' mercadanti (128).

La pena che si dovrebbe minacciare per farle eseguire, non dovrebbe riguardare l’infrazione, ma gli effetti dell'infrazione. Io mi spiego Se il trattamento d’un negoziante oltrepassasse i limiti prescritti dalla legge, limiti che dovrebbero proporzionarsi al fondo che il. negoziante mette in commercio, non dovrebbe per questo esser punito; ma nel caso che egli venisse a fallire, qualunque sia stata la causa prossima del suo fallimento, il giudice raccogliendo da bilanci che egli verrebbe ad, esibire, o dall’esame della condotta da lui tenuta, raccogliendo, io dico, che il negoziante ha speso più di quello che la legge ha prescritto, questo potrebbe bastare per dichiarare volontario e fraudolento il suo fallimento, e per condannarlo alla pena che si è assegnata a questo delitto. Questo stabilimento, oltreché frenerebbe in qualche maniera il. lusso de' negozianti, recherebbe. anche un altro vantaggio non indifferente. Siccome non gioverebbe più allora al fallito l’alterare l’articolo delle spese, il bilancio lascierebbe di essere uno de' segreti dell’arte di fallire con profitto. Egli non troverebbe più nel dettaglio alterato delle sue spese il serbatoio dove nascondere una porzione di quella somma che vuol rubare a suoi creditori.

L'altro segreto dell'arte di fallire con profitto è l’ingrandimento fittizio delle doti. Io mi fo un dovere di svelare a legislatori tutti questi arcani della frode e dell'inganno.

Un negoziante che prende moglie, finge col soccorso d’una carta fittizia d’aver ricevuta una dote molto maggiore di quella che in fatti ha ricevuta. Questo fa che, nel momento nel quale il fallimento si dichiara, la moglie s’impadronisce de' migliori effetti per indennizzarsi della somma enunciata nel contratto, ed intanto i creditori, che la legge pospone alla moglie, veggono restare nella famiglia del debitore le loro sostanze, senza poter reclamare contro un furto che si fa sotto la protezione della legge.

Per prevenire questo disordine, per torre questo incentivo a fallimenti, il legislatore dovrebbe prescrivere che la dote non potesse esser messa in commercio senza il consenso della moglie, la quale potrebbe cercarne I assegnazione su i fondi stabili, come si fa nelle altre classi de' cittadini, e che non cercando quest’assegnazione, e contentandosi che la sua dote sia posta in commercio, essa debba soggiacere alle disgrazie che sono unite alla negoziazione, e per conseguenza, in caso di fallimento, rimanga priva del dritto di ripeterla.

L’ultimo segreto finalmente di quest’arte che ha fatti tanti progressi nell’Europa, sono le polizze simulate. Un negoziante che vuol falli re, ha quasi sempre l’avvedutezza d’avere una persona che di concerto con lui divenga, creditore d’una somma considerabile, la quale somma è stata registrata ne’ suoi libri, e per conseguenza ricevuta senza contradizione nel suo bilancio. Questo credito ipotetica fa che, nel momento nel quale si dichiara il fallimento, il fallito, sotto il nome di questa persona che si finge suo creditore, vede rientrare nella sua borsa una porzione di quella somma che dovrebbe essere interamente data in isconto a suoi veri, creditori.

Se, per esempio, questo credito finto è di centomila scudi, e se il fallito accorda il terzo a tutti i suoi creditori, il fallito è sicuro di riavere 33 mila scudi di sua porzione. Quale sprone a fallire? Per chiudere quest'ultima strada a negozianti di mala fede, la legge dovrebbe prescrivere che qualunque persona sarebbe convinta d’aver prestato il suo nome ad un negoziante prima di fallire per contestare un debito che non esiste, sarebbe considerata come complice del fallimento, e per conseguenza condannata alla stessa pena $ dovrebbe nel tempo istesso ordinare a giudici d’informarsi minutamente della condizione de' creditori, per assicurarsi de' veri, e di quelli che potrebbero non esser che ideali e finti.

Questi sono gli argini che una buona legislazione potrebbe opporre al torrente de' fallimenti, torrente che di continuo, inonda l’Europa, e che lascia spesso per dove passa alcune lagune pestifere che distruggono il commercio e l'industria, questo fuoco sacro che i sacerdoti della patria e del bene pubblico dovrebbero tener sempre acceso, come quello che forma la felicità e la vita delle nazioni.


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CAPO XXVI

Degli urti che si potrebbero dare al commercio

dopo essersene tolti gli ostacoli

Questi sono gli ostacoli che si oppongono al commercio; ma che diremo noi degli urti che gli si dovrebbero, dare? Siccome la maggior parte di questi debbono esser piuttosto l'opera dell’amministrazione che delle leggi, io non farò altro che accennarli, per non distogliermi molto dal mio unico oggetto.

Se il commercio interno è la porta del commercio esterno, le prime cure del governo debbono esser rivolte. nell’interno dello Stato. La costruzione delle strade e de' canali di comunicazione facilitando il trasporto de' prodotti delle varie provincie d’uno Stato, accelerando il traffico interno, e facilitando la comunicazione, sono il più grande urto che si possa dare al commercio ed all'industria Avvicinate gli uomini, e voi li renderete industriosi ed attivi: separateli, e voi li renderete tanti selvaggi incapaci d'avere l’idea istessa della loro perfettibilità.

La mia patria sta aspettando con impazienza i frutti di questo benefizio che essa deve al suo Re ed al ministro che lo consiglia con tanto zelo. La costruzione delle. strade delle due Calabrie e della Sicilia, di queste Indie dell’Italia che è l’india dell’Europa, versandole ricchezze delle più ridenti provincie ne due mari che le bagnano, e i tesori de' due mari nelle più belle provincie, farà la ricchezza di tutto il regno, e la gloria del governo. Faccia Iddio che un’intrapresa così utile non venga frastornata dàgl'interessi e dalle mire private, e che il bene pubblico trionfi una volta sopra l’intrigo e la frode.

L’altro urto che l’amministrazione dovrebbe dare al commercio, è il buon regolamento della moneta. Quanto questo interessantissimo oggetto è stato trascurato da governi, altrettanto ha richiamato le meditazioni degli scrittori economici del secolo.

Il cieco pedantismo di venerare gli errori stessi dell’antichità, ha fatto alle volte credere a governi che il valore delle monete poteva essere arbitrario, poteva dipendere soltanto dalla pubblica autorità. Questa massima erronea, adottata da Aristotile (129) e da romani giureconsulti istruiti nella scuola degli Stoici (130), ha cagionata tante volte la rovina del. commercio di molle nazioni d’Europa. Se essa fu indifferente per gli antichi popoli, essa è stata pur troppo funesta a’ moderni. I nostri legislatori non han. badato alla diversità de' tempi, e alla differenza infinita delle circostanze derivata dalla diversità degl'interessi. Essi non si sono avveduti che un valore puramente legale dato da Licurgo alle sue monete di ferro, era opportuno agl'interessi di Sparta, l'istituzione della quale era di abborrire il commercio. Essi non si sono avveduti che la romana zecca, dando ad alcune monete di rame e di ferro, fasciate di sottil foglia d’oro o d’argento, il valore de' due preziosi metalli de' quali non che avevano che la sola superficie (131)5 che Livio Druse nel suo tribunato, mescolando nella moneta d’argento un’ottava parte di rame, e che Antonio nel suo triumvirato mescolandovene altrettanta di ferro (132), non ebbero altr’oggetto che di facilitare il commercio interno, che era il solo che i Romani conoscevano in quel tempo. La rovina che questo sistema avrebbe potuto cagionare al commercio esterno, non era valutata in Roma, perché Roma non voleva in que tempi commerciare cogli stranieri. Essa non conosceva che i suoi cittadini, i suoi confederati, i suoi sudditi. Il suo unico oggetto, il suo unico interesse era di estendere, i limiti del suo impero, e di arricchire la patria, e i figli della patria co' soli mezzi violenti della guerra. Ma non sono questi i nostri interessi. La moderna politica non può sicuramente considerare con l'istessa indifferenza il commercio esterno. Se questo è ‘ oggi il principale sostegno della prosperità delle nazioni, e se la moneta n’è il mezzo; se essa non solo è l’istrumento delle permute che si fanno tra membri dell'istessa società, che era il solo uso al quale era destinata in que tempi in Roma ed in Sparta, ma è l’istrumento delle permute che si f?nno tra le diverse nazioni, che non tutte dipendono dalla medesima autorità; supposto questo, chi non vede che il valore delle monete non può più oggi essere arbitrano, e che questo deve dipendere non solo dall’autorità che le conia, ma dal valore intrinseco de' metalli de' quali sono composte. Bisogna dunque fare ciò che infelicemente non si è fatto sempre, bisogna abbandonare interamente le idee degli antichi riguardo alla monetazione, bisogna seguire quelle de' moderni. Gli scritti luminosi che da alcuni anni a questa parte sono comparsi su questa teoria, l’impossibilità di svilupparla con quella brevità colla quale ho promesso di trattare tutti questi oggetti che riguardano più l'amministrazione che la legislazione, mi obbligano a tacermi, ed a dirigere il lettore alle mani maestre che l'hanno maneggiata. Io non debbo uscire dall’Italia per trovarle. Il conte Carli, il celebre marchese Beccaria e l’abate Galiani, questo genio sublime, al quale come buon cittadino debbo tutta la gratitudine per l'onore che co' suoi talenti e co' suoi scritti ha recato alla mia patria; questi tre grandi uomini, oltre alcuni altri Italiani illustri, hanno con tanta esattezza, con tanta profondità e con tanto metodo maneggiata questa materia, che sarebbe da desiderarsi che pel vantaggio universale del commercio tutti i governi attignessero da questi fonti le istruzioni necessarie pel buon regolamento delle monete (133). Fidato dunque sul merito delle loro opere, io rivolgo lo sguardo alle truppe di mare. Questo è il gran soccorso che il governo deve prestare al commercio esterno.

Il mare, questa strada per la quale il negoziante fa passare le sue mercanzie, l’artiere l’opere delle sue mani, l’agricoltore i prodotti del suo terreno} il mare, questo territorio comune, sul quale tutte le nazioni hanno eguali dritti, ma #che la preponderanza delle forze d’alcuni popoli cerca di renderlo il loro privato patrimonio; il mare finalmente, questo campo di battaglia ove le nazioni a mano armata si disputano i beneficii del commercio e della navigazione, vuol esser difeso, e ciaschedun paese che ba la fortuna d'esser bagnato dalle sue acque, deve rinunciare al suo commercio, o tenere su questo elemento alcune forze capaci a mantenere la polizia e la libertà generale, sola ed unica legge che una nazione deve dare al di fuori. Che si perdoni ad uno scrittore amico della pace d’indurre oggi le nazioni ad armarsi di vascelli. Non alla guerra, non alla discordia, ma al riposo della terra sono diretti i suoi voti. Egli vorrebbe vedere stabilito sull'impero del mare quell'equilibrio che conserva oggi la sicurezza del continente.

Se la Francia non avesse trascurato quest'oggetto se l’avarizia d’un ministero, le profusioni d’un altro ì l’indolenza di molti; se le false mire, i piccioli interessi, gl'intrighi della Corte, una catena di vizi e di errori, una quantità prodigiosa di cause oscure e disprezzevoli non avessero impedito alla sua marina di prendere per lo passato alcuna consistenza; se invece di profondere tante ricchezze e tanti uomini per dividere con due altre grandi potenze. la vergogna di non potere opprimere un elettore di Brandenburg, il governo Francese avesse diretti tutt'i suoi sforzi dalla parte del mare; se lo splendore momentaneo che acquistò la sua marina sotto il governo di Luigi XIV si fosse alimentato e sostenuto col. sacrificio di tutto, o d’una porzione almeno dèi suo mercenario esercito; se tutto quello che si doveva fare dalla Francia, si fosse fatto, il suo commercio, come si. è detto altrove, avrebbe fatti i più gran progressi sotto gli auspicii del suo padiglione reso più rispettabile, e non sarebbe stato esposte a colpi fatali che la Gran Brettagna gli ha tante volte scaricati, mediante i favori delle sue forze di mare. Della maniera istessa, se le altre nazioni bagnate dal Mediterraneo avessero conosciuta l’importanza di una forza di mare, il padiglione insultante de' pirati barbareschi nonmolesterebbe il loro commercio, né esporrebbe a tanti pericoli l’industria de' loro cittadini (134).

Ma si può forse sperare questo accrescimento di forze di mare senza la diminuzione di quelle di terra? La miseria de' popoli, lo stato presente delle finanze non dà a governi altro partito, che di scegliere o le une o le altre. Se il giogo che gli opprime, è molto superiore alle loro forze, come aggravarne il peso? Finché dunque il sistema militare presente non sarà riformato, è inutile il progettare un accrescimento di forze marittime. le spese che richiede il mantenimento d'una truppa di mercenarii sempre permanente, non è compatibile col mantenimento d’una flotta atta a garantire, le spiaggie d’una nazione, ed a far rispettare il suo nome da per tutto dove ci è mare. Io ho troppo dimostrata la inutilità e gl’inconvenienti della perpetuità delle truppe di terra; ma chi può descrivere i vantaggi di quelle di mare?

Non volendo considerare la cosa che dal solo aspetto della forza, questo solo basterebbe per far cadere la scelta sulle seconde. Popoli, sopra quest’elemento solo le vostre forze possono esser trasportate lontano da voi senza rischiare di distruggersi. Se le vostre truppe di terra vogliono fare un’invasione ne paesi stranieri, tutto le trattiene. le montagne, i fiumi, la difficoltàdelle strade, il difetto de' viveri e delle munizioni, l’intemperie del clima, tutto sconcerta i vostri progetti e moltiplica gl’inconvenienti. Sul mare, al contrario, l’abitazione, l’artiglieria, i viveri, tutto cammina colle vostre truppe sopra un suolo unito. Più: i marinari sono naturalmente i migliori soldati del mondo. Avvezzi a disprezzare di continuo i pericoli della morte, induriti pel loro mestiere alla fatica e all’ingiuria delle stagioni, essi temono meno l’aspetto dell’inimico, e non succombono così facilmente alle fatiche ed agl’incomodi della guerra. La pace, non dispensandoli dal navigare, non ammollisce questi eroi nell’ozio delle guarnigioni. La loro sussistenza non è di peso al pubblico, perché è compensata da beneficii del commercio che garantiscono e promuovono. Finalmente, essendo potenti nel mare, voi sarete rispettati da per tutto; ma essendolo nella terra, voi non imporrete ordinariamente che a vostri vicini.

Le strade dunque, i canali di comunicazione, il buon regolamento delle monete, una forza sufficiente sul mare, sono gli urti che ciaschedun governo dovrebbe dare al commercio. Egli non ha bisogno d’altri soccorsi. S’appartiene all’interesse privalo il compir l’opera. Questa è una forza sempre viva che lo spinge di continuo, sempre che le cause esterne non l’impediscono d’agire. Fra queste, come si è dimostrato, il sistema presente de' dazi è la più forte. Osserviamo dunque più da vicino questo colosso mostruoso, che opprime nel tempo istesso col suo peso l’agricoltura, le arti e il commercio; e vediamo, se senza impicciolirlo; si potrebbe rendere più proporzionato e meno pesante a popoli, sulla testa de' quali è appoggiato. Questo è uno de' più interessanti oggetti di questo libro.


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CAPO XXVII

De’ dazi in generale

Dovunque ci è società, ci deve essere un corpo che la governi nell'interno, e che la difenda al di fuori. Questa doppia cura esige delle spese che debbono essere pagate dalla società, che ne profitta. I membri dunque che la compongono, debbono sacrificare una porzione della loro proprietà per la conservazione dell’altra. È vero che ci sono state alcune nazioni e alcuni tempi ne quali il governo ripeteva altronde la sua sussistenza. Una porzione del territorio della nazione era assegnata alle spese comuni del corpo politico. Ma questo sistema non poteva reggere.

Il governo non potendo invigilare sopra i suoi fondi, doveva affidarli tra le mani degli amministratori, i quali o li trascuravano, ose ne appropriavano le rendite. L’agricoltura e la popolazione dovevano essere egualmente molestate da questa riunione di molti fondi nelle istesse mani. I sacri dritti della proprietà istessa dovevano risentirsene. Siccome le confiscazioni sarebbero allora state l’unico istrumento per ingrandir l’erario del fisco; questa pena, che punisce l’innocente insieme col reo, che punisce in tutta la sua posterità i delitti d’un solo uomo, questa pena contraria alla natura ed alla giustizia, sarebbe divenuta più frequente, che non lo era sotto il governo di Tiberio e de' tiranni di Roma. Finalmente il male irreparabile. era nell’estensione di questo territorio. O il dominio del Re era troppo grande in tempo di pace, o era insufficiente durante la guerra. Nell’uno e nell’altro caso la libertà della repubblica era oppressa. Nel primo lo era dal capo della nazione, nel secondo dagli stranieri. Questi disordini obbligarono i governi a ricorrere alle contribuzioni de' cittadini (135). Ed ecco l’origine semplicissima e il dritto de' dazi. Vediamo ora la regola della ripartizione.

L’agricoltore che conduce un aratro, e il feudatario che vegeta tra le mura del suo palazzo, hanno un interesse comune nel buon ordino e nella sicurezza dello Stato, ma questo interesse non è uguale. Siccome il beneficio che

raccoglie il primo dalla società, è molto minorè di quello che ne raccoglie il secondo; il prezzo col quale egli compra questo beneficio, deve essere anche minore. le facoltà dunque di eia schedun cittadino debbono decidere della parte che egli deve avere nella contribuzione pubblica, e questa deve essere la regola unica della ripartizione. Ma quale ne sarà la misura?

Non ci vuol molto a trovarla. La misura delle, contribuzioni sono i bisogni dello Stato. Or quali sono questi bisogni? Popoli, non vi spaventate. Voi siete stati una volta avvezzi a confonderli colla favorita di un Re coll’ambizione d’un conquistatore, colle speculazioni voraci d’un ministro, colla prodigalità d’un principe, coll’avidità de' cortigiani, col fasto, e con tutti i vizi che qualche volta sogliono circondare i troni. Ma questi non erano i bisogni dello Sta to, nel mentre che Tito, Traiano e Marco Aurelio regnavano in Roma. Se la perpetuità delle truppe, se questo sistema erroneo di tenere, tante braccia innalzate sulla testa de' popoli, sotto il pretesto di. difenderli, si abolisse oggi nell’Europa, questa salutare riforma, unita alla moderazione presente de' principi che la governano, renderebbe molto ristretta la somma de' bisogni dello Stato. Questi non possono giammai sorpassare le forze del popolo che deve soddisfarli: essi non possono giammai condurlo alla miseria. Se per acquistare o per conservare la sua felicità, un popolo è obbligato a contribuire, quando il mezzo che deve impiegarvi, lo rende infelice, allora manca il motivo della contribuzione, allora il bisogno dello Stato è chimerico, allora non ci è più dritto d’esigere, non ci è più ragion di pagare. I veri bisogni d’uno Stato sono dunque quelli che si possono soddisfare senza aggravare il popolo, senza impoverirlo.

Ma non basta che le. contribuzioni siano proporzionate a bisogni dello Stato, per ottenere che esse non siano di peso a popoli che debbono pagarle. La nazione può essere oppressa nel tempo istessa che le contribuzioni sono moderate. L’indigenza del corpo politico e la miseria dello Stato possono andare unite, ed essere entrambe l’effetto delle contribuzioni mal collocate. Tutto dipende dalla posizione de' dazi. I dazi sono come i pesi. Un uomo regge al peso di cento libbre sul dorso, e soccombe a quello d’una sola libbra sul naso. Dallo sviluppo di questo solo principio dipende tutta la cognizione dell’intrigata teoria delle finanze. Esaminiamo dunque la natura de' dazi. Per non perdermi in questo caos, io li distribuisco. in due classi; in dazi diretti, ed in dazi indiretti. Quasi tutta l’Europa è oppressa dagli ultimi. I primi non si ritrovano che ne libri degli scrittori economici. Faccia Iddio che i sudori di questi cittadini benefici siano un giorno premiali colla sola moneta della quale essi sono avidi col Lene pubblico, che sarebbe il risultato dell'applicazione delle loro massime. Il progresso delle cognizioni utili è inseparabile da quello della prosperità delle nazioni. Ogni nuovo urto che si comunica al moto di questo corpo, è dunque un beneficio che si reca all'umanità. Sacerdote di questa deità, io mi fo un dovere di unire i miei sforzi a quelli di tanti grandi uomini che hanno prima di me maneggiata questa materia. Io parlerò prima de' dazi indiretti: mostrandone l'irregolarità e l'incoerenza, mi troverò più in istato di rassodare il gran sistema del dazio diretto.


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CAPO XXVIII

De’ dazi indiretti

Questi dazi sono o reali, o personali. Essi possono cadere sulle persone, o sulle cose. Gli uni e gli altri sono egualmente contrarii a principii coi quali il legislatore deve dirigere a scelta delle imposizioni.

Cominciando da dazi personali, io non veggo altro nella capitazione che un suggello di servitù impresso sulla fronte degli uomini per tassare la loro testa, tassa necessariamente arbitraria che non può essere determinata né da quello che il cittadino può dare allo Stato né da quello che può dargli in tutt’i tempi. La ragione n’è evidente. O questa tassa è uguale in tutt’i cittadini, o è relativa alla loro condizione ed alle lor facoltà. Nel primo caso, la ripartizione è ingiusta, perché il povero paga allo Stato quanto gli paga il ricco. Una porzione de' cittadini è oppressa dalla contribuzione, nel mentre che l'altra defrauda lo Stato di quel che gli deve.

Nel secondo caso, la ripartizione deve essere necessariamente arbitraria. Se deve regolarsi da quello che ciaschedun cittadino può dare allo Stato, come indagarlo?Si fiderà forse sulle rivele che ne fa? Ma, per poter prestar fede alle sue assertive, bisognerebbe che ci fosse tra il monarca e suddito una coscienza morale che stringesse l'uno all'altro col soccorso d'un reciproco amore del bene generale. Or Platone istesso non ebbe il coraggio di supporre questa confidenza e questa buona fede tra i cittadini e 'l governo della sua metafisica Repubblica. Ricordiamoci di ciò che avvenne in Roma, sotto il regno di Galerio. Molti sudditi dell'Impero furono messi alla tortura per istrappare dalla loro bocca lo stato delle loro facoltà (136). Che se il governo, non potendosi fidare sulle assertive del cittadino, desse a’ suoi incombenzati la cura d’indagare lo stato delle sue fortune; se si desse a questi il dritto di penetrare fino nel santuario delle famiglie, nella casa del cittadino per sorprendere e palesare ciò che egli non vuole o non può rivelare; non sarebbe questo un attentato contro la tranquillità pubblica, una violenza irritante, un seminario di frodi e di oppressioni sempre aperto per gP inquisitori del fisco? Il ricco, aprendo la sua borsa, sarebbe sicuro di na scqudere le due terze parti delle sue rendite 5 ed il povero artiere, l'infelice agricoltore sarebbero li oppressi. La libertà civile del cittadino verrebbe ad esser violata in tutta la sua estensione. Tutte le idee morali del popolo sarebbero in pericolo, perché continui esempi della forza pubblica esercitata con violenza sopra gl’innocenti le distruggerebbero La diffidenza regnerebbe nella nazione, e il cittadino si vedrebbe condannato a nascondere con altrettanto mistero lo stato delle sue facoltà, che le infedeltà della sua compagna.

Ma supponiamo, ciò che io credo impossibile, che il governo potesse essere esattamente instruito delle facoltà di ciaschedun cittadino, e della parte che la situazione. presente de' suoi affari gli permette di prendere nella contribuzione; a che gli gioverebbe questa cognizione? le facoltà della maggior parte de' cittadini non debbono forse variare in ogni anno co' prodotti incerti. e precarii dell'industria? Non si diminuiscono esse colla moltiplicazione de' figli, colla perdila delle forze derivata dalle malattie, dall’età, dal travaglio, e con tutte le vicende che il tempo arreca a tutto ciò che dipende dalla natura e dalla sorte (137)? Il censo dunque dovrebbe per lo meno essere in ogni anno riveduto e riformato, e quest'operazione non ne assorbirebbe forse la più gran parte del prodotto? Queste poche riflessioni io credo che basteranno a persuaderci che la tassa personale è di tutte le imposizioni la più arbitraria, la più irritante e la meno profittevole per lo Stato; e che una giusta e proporzionata ripartizione è una chimera, allorché si tratta di capitazione. Noi non troveremo minori inconvenienti ne dazi reali.

Questi sono imposti sulla consumazione e circolazione interna, sull'estrazione e sull'immissione: essi abbracciano i generi di prima necessità e quelli di lusso, le mercanzie nazionali e le straniere, i prodotti del suolo e quell) dell'industria. Qual macchina complicata, nella quale le ruote che la compongono sono infinite, la loro forza incerta, il loro moto irregolare, e per conseguenza facile a consumarsi, ed a strascinare colla sua la rovina dell'agricoltura, dell'industria e della popolazione? Osservandoli nel generale, noi troveremo che tutti questi dazi sono indeterminabili: dico indeterminabili, perché non possono mai esser proporzionati al valore della mercanzia sulla quale cadono. Non si può negare che il prezzo di qualunque merce varia di continuo. L’ubertà o la sterilità d'una stagione fa scemare o crescere il prezzo de' prodotti del terreno, e facilitando o incarendo la sussistenza dell'artefice, fa anche scemare o crescere il prezzo delle manifatture. O bisognerebbe dunque fare in ogni anno nuove tariffe di dazi, ciò che sarebbe impossibile ad eseguirsi, o bisogna rischiare d'urtare in una sproporzione infinita tra il dazio che si esige, e il valore della mercanzia sulla quale è imposto. In un anno il dazio assorbirà la ventesima del prezzo della merce, in un altr’anno una decima, in un altro una sesta ecc. Quale irregolarità, quale incostanza, quale rischio!

Osservandoli quindi nel particolare, per persuadersi de' disordini dipendenti da ciascheduno di questi dazi, basta gittar gli occhi su i diversi oggetti su de' quali essi possono essere imposti. Se s’impongono sulla consumazione interna de' generi di prima necessità, essi debbono necessariamente esser perniciosi, mal ripartiti ed insopportabili ad una porzione de' cittadini. Debbono esser perniciosi, perché rendendo più cara la sussistenza, senza giovare all’agricoltura, la quale non guadagna niente in quest'aumento del prezzo de' suoi prodotti, diminuiscono la popolazione, la qua e, come si è dimostrato, s'equilibra sempre colla maggiore o minore facilità che hanno i cittadini di provvedere alla loro sussistenza. Debbono esser mal ripartiti, perché la consumazione di questi generi di prima necessità essendo comune, così al povero come al ricco, avverrà spessissimo che il misero artiere che ha dieci figli, pagherà più allo Stato di quello che gli paga un ricco cittadino che non ne ha che un solo. Debbono finalmente essere insopportabili ad una porzione de' cittadini, perché non essendo l'indigenza istessa esclusa da questa contribuzione, il cittadino che non sarebbe in istato di aver parte alcuna nelle contribuzioni, dovendola pagare come gli altri, deve toglierla dalla propria sussistenza. Se questa ricerca tre pani per giorno, deve contentarsi di non mangiarne che due soli, per immolare il terzo al dazio che ne lo priva. Or non è questa un’ingiustizia manifesta?

Prima che ci fosse un codice di leggi nel mondo, l’uomo aveva il dritto di sussistere.L’ha egli forse perduto collo stabilimento delle leggi? Obbligare il popolo a pagare più di quel che deve, più di quel che può, i frutti ella terra, è l’istesso che rapirglieli. Questo è l’istesso che condannarlo all'indigenza, all'ozio, alla disperazione, a delitti. Questo è l’istesso che privare le arti di tanti artieri, la popolazione di tante famiglie, l'agricoltura di tanti consumatori, la società finalmente di tanti cittadini utili, per riempierla di ladri, di mendicanti e di oziosi. Questo avviene, allorché la tassa s’impone sulla consumazione de' generi necessarii alla vita. Che se si fa cadere sulla loro estrazione, il male diventa anche più grande. Io credo d’aver bastantemente dimostrata questa verità, allorché si è parlato della libertà del commercio de' prodotti del suolo. Tutto quello che indebolisce questa libertà, tutto quello che ne diminuisce lo smaltimento, nuoce, come si è provato, all'agricoltura. Niuno dubita che i dazi messi sulla loro estrazione producono quest'effetto. Essi dunque nuocono all'agricoltura, e per conseguenza alla popolazione, al commercio, all'industria; in una parola, essi fanno la rovina dello Stato. Dai dazi imposti, tanto sulla consumazione, quanto sul l'estrazione de' generi necessarii alla vita, passando a quelli che s’impongono sulle merci meno necessarie, noi troveremo nuovi disordini e nuove ragioni per distruggere il sistema de' dazi indiretti.

Questi dazi possono essere imposti o sulla estrazione e circolazione interna delle mercanzie nazionali di questo genere, o sull'immissione delle straniere. Il colpo fatale che si reca all'industria co’ primi è troppo evidente. Per quel che riguarda l'estrazione niuno ignora che il venditore, e non il compratore è quello che paga il dazio. Obbligato a misurare le sue richieste col prezzo corrente delle altre nazioni, egli non può alterarle a segno che lo straniero sia quello che paghi il dazio. Ancorché il dazio sia imposto sopra una mercanzia, della quale la nazione sia l’unica posseditóre, in maniera che, priva della concorrenza delle altre, essa possa darle quel prezzo che vuole; non per questo il dazio lascia d’esser pernicioso; poiché il venditore volendo obbligare lo straniero a pagarlo, aumentandone il prezzo, vedrebbe diminuirsi le richieste, e restringersene la consumatone, e lo Stato vedrebbe allora esaurita in parte una sorgente di ricchezze, della quale era l’unico proprietario. La Spagna ce ne offre una pruova. La barille è una produzione unica di questa nazione. In, niun altro paese ha potuto allignare. Il governo, affidato su quest'esclusiva, ne ha caricata l'estrazione d’un dazio che quasi eguaglia la metà del prezzo: lo straniero la compra a caro prezzo, e paga senza dubbio questo dazio; ma che n’è avvenuto? Da una parte la consumazione se n’è ristretta all'infinito, e dall'altra l’agricoltore, il quale non profitta niente da questo aumento di prezzo derivato dal dritto, del quale se n’è caricata l'estrazione, scoraggito al contrario dalla difficoltà dello smaltimento, ne ha quasi abbandonata la coltura. Ecco la maniera di privare una nazione d’un dono che la natura le ha fatto.

Non minore è il danno che si reca, allorché questi dazi s’impongono sulla circolazione interna di queste mercanzie. Qual cosa più ingiusta, più molesta per ì industria e pel commercio, che ogni membro dello Stato sia estraneo alle altre parti dell'istesso corpo? che la stoffa, la tela fabbricata in una città debba pagare la gabella per passare in un altro luogo dell'istesso dominio; che il viaggiatore e ’l negoziante debbano esser fermati, esser visitati e tassati in ogni passo che fanno; che l’avarizia pallida ed inquieta, posta, per così dire, in sentinella sulle strade e su i fiumi, metta in contribuzione il commercio e il viaggiatore per que paesi che non. sono preziosi se non quando sono liberi? Tante braccia strappate all'agricoltura ed alle arti; tanti tribunali innalzati contro l’industria; tante dichiarazioni, tante visite, tante misure, tanti prezzi arbitrari, tante vessazioni, tanti oltraggi, non sono forse tanti sostegni di servitù, tanti decreti di miseria? Il commercio interno, senza del quale non ci è né agricoltura, né arti, né commercio esterno, deve necessariamente languire sotto il peso di queste imposizioni. L'evidenza di questa verità mi dispensa d’illustrarla. Io mi affretto di urtare contro il pregiudizio quasi universale circa l'utilità de' dazi imposti sull'immissione delle mercanzie straniere.

Miseri ed inetti politici, questa è l'ancora sacra alla quale voi ricorrete, tutte le volte che si tratta di protezione, di arti e di manifatture. Voi credete che. questo sia l’unico mezzo per innalzare l’industria nazionale sulle rovine dell'industria straniera, per impedire che il denaro esca dallo Stato, e per restringere la consumazione di tutto quello che non nasce né si manifattura nel paese, incarendone il prezzo. Ma non vedete voi tutta l’illusione de' vostri principi! ì Non sapete forse che allorché si vende meno a voi, si comprerà meno da voi? che il commercio non dà che in proporzione di quello che si riceve che questo non è altro che una permuta di valore per valore; e finalmente che una nazione la quale ai mettesse in istato di non comprar cosa alcuna dalle altre, e nel tempo istesso di vender loro tutto, vedrebbe dopo qualche tempo perire il suo commercio, le sue arti, le sue manifatture per la soverchia moltiplicazione del «numerario, la quale incarendo. all’infinito il prezzo, così de' generi, come delle opere, non potrebbe sostenere la concorrenza delle altre nazioni, né potrebbe impedire a suoi cittadini, stessi di preferire la consumazione de' generi e delle mercanzie straniere. le quali sarebbero loro vendute a minor prezzo che le nazionali, e ritornare finalmente alla povertà per aver voluto troppo arricchirsi?

Questi effetti della soverchia moltiplicazione del numerario si sono sperimentati nel Portogallo e nella Spagna, e si sarebbero sperimentati anche in Inghilterra, se le sue guerre non fossero state tanti salassi opportuni alla pretoria, della quale età minacciata (138). Noi svilupperemo da qui a poco con maggior chiarezza questa verità.

Finalmente, per non trascurare cosa alcuna in quest’analisi de' dazi indiretti, io voglio parlare di un dazio. il quale, quantunque nel l'apparenza sembri il più giusto ed il più proporzionato, è il più vizioso ed il più pernicioso alla sorgente comune delle ricchezze, all'agricoltura. Questo è la decima su i prodotti del terreno. Si è detto che i dazi i quali non sono suscettibili d'una giusta ripartizione, sono sempre perniciosi ed ingiusti. Or quest'è il difetto della decima della: quale si parla. Siccome questa non si fa cadere sul prodotto netto, ma sul prodotto totale del suolo, ne avverrà necessariamente che il proprietario d’un fondo sterile, il quale per raccorre cento, ha dovuto spender cinquanta per la coltura, pagherà egualmente del proprietario d’un fondo fertile, il quale per raccorre l’istesso frutto non ha dovuto spendervi che venti (139). Or qual ripartizione più ingiusta di questa? Qual mezzo più efficace per distruggere l'agricoltura? Regolagenerale: il tributo che segue immediatamente l’accrescimento dell'industria o della coltura, è sempre destruttivo dell’agricoltura e dell'industrja.


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CAPO XXIX

Proseguimento dello stesso soggetto

Scorrendo sopra tutti gli oggetti su i quali possono cadere i dazi indiretti, noi abbiamo da per tutto trovati uguali inconvenienti ed uguali disordini. Ma non contento di questo, io voglio sviluppare un altra ragione, la quale, considerandoli tutti sotto un aspetto comune, non ce ne farà meno conoscere l’irregolarità, e la loro opposizione co' principii co' quali debbono, regolarsi le imposizioni.

Ci è un termine che non si può. oltrepassare nelle contribuzioni senza cagionare la rovina delle proprietà e dello Stato? La cognizione di questo termine dipende dalla distinzione del prodotto netto dal prodotto totale delle rendite nazionali. Il prodotto, netto è l'avanzo della rendita, detrattene tutte le spese della coltura. le contribuzioni de' cittadini non debbono cadere che sopra una porzione di questo. prodotto netto. Subito che si oltrepassa questa porzione, le contribuzioni divengono perniciose, e non si sostengono che a spese della riproduzione. II proprietario d’un fondo che esige il terzo della rendita per la coltura, v'impiegherà allora il quarto questa diminuzione di spese per la coltura produrrà una diminuzione di rendita, e questa aumentandosi per gradi, e rendendosi comune a tutt' i proprietarii, produrrà finalmente la miseria di tutta la nazione.

Persuasi dunque che le contribuzioni debbono cadere sul prodotto netto e non sul prodotto totale delle rendite nazionali, quale sarà ne’ dazi indiretti il mezzo da conoscere se questi oltrepassano questo termine, o se ne sono molto lontani? Che venga il più bravo finanziere del mondo, non potrà mai gloriarsi d’averlo ritrovato. Subito che il dazio non si fa cadere su terreni, ma su’ prodotti, sulla consumazione, sulle arti, sul commercio, il governo sarà nell'incertezza se la somma di queste contribuzioni sia superiore alle facoltà de' popoli che le pagano. Egli se ne avvedrà, quando la rovina dello Stato gli paleserà l’esorbitanza delle contribuzioni, e forse l’impossibilità di ripararla. Qualche volta egli temerà che lo Stato sia oppresso, e forse lo Stato pagherà molto meno di quel che potrebbe. Or questa sola incertezza, questo vizio inerente a dazi indiretti, non basterebbe forse per indurre i governi ad abbonirli, ed a sostituire a questi il gran sistema del dazio diretto?

La moltiplicità de' dazi, inseparabili dal sistema de' dazi indiretti, è anche un flagello pel popolo e pel Sovrano. Il primo paga in cento volte quello che pagando in una volta sola gli risparmierebbe tutte quelle vessazioni che distruggono la sua libertà e cagionano la sua miseria; e il secondo vede per lo meno un quarto, e qualche Volta anche una terza parte delle contribuzioni de' suoi sudditi immolata a coloro che son destinati ad esigerle

I dazi sono come i salassi. Se noi pungessimo in cento parti il nostro corpo, noi ci metteremmo al martirio, e non si estrarrebbe quella quantità di sangue che si fa uscire da uno sola insensibile incisione d’una vena. Frustra fit per plora quod aeque commode fieri potest per pauciora. Qual è, dunque questa vena, quale sarebbe quest’incisione unica, la quale, senza martirizzare il corpo della nazione, farebbe la ricchezza del governo e la felicità de' cittadini? Cerchiamola.


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CAPO XXX

Del dazio diretto

Il dazio diretto non è altro che una tassa che s impone sulle terre. Vere sorgenti perenni delle ricchezze delle rendite nazionali, dovrebbero le terre sole soffrire tutto il peso delle contribuzioni. I proprietarii sarebbero i soli a pagarle in. apparenza, ma tutte le classi dello Stato sarebbero in realtà a parte di questa contribuzione, ciascheduna proporzionatamente alle sue facoltà. Quelli che non posseggono, vi avrebbero parte consumandone i prodotti. e quelli che posseggono, pagando la. tassa. Quelli che posseggono più, pagherebbero più, e quelli che posseggono meno, pagherebbero meno. Tra quelli che non posseggono vi sarebbe anche l’istessa proporzione. Siccome tutt’i fondi sarebbero tassati proporzionatamente al loro prodotto netto, e siccome i prodotti del terreno non sono soltanto i generi necessarii alla vita, ma anche, quelli che ne riguardano i comodi ed il lusso; il più ricco, consumando una maggior quantità di questi prodotti in generale, pagherebbe più allo Stato, ed il povero consumandone meno, pagherebbe meno.

Ogni dazio, di qualunque natura egli sia, ha, è vero, una forza espansiva: ogni tributo naturalmente tende a livellarsi uniformemente su tutti gl'individui d'uno Stato a proporzione delle consumazioni di ciascheduno (140). Ma questa forza espansiva non in tutt i dazi è uguale; il moto che essa comunica, non in tutti è ugualmente celere. Quando il dazio cade sopra la classe del minuto popolo, questo si sforzerà di risarcirsene incarendo il prezzo delle sue opere; ma egli non vi giugnerà mai, ovVi giugnerà molto tardi. L’inesorabile bisogno non gli permetterà di alterare il prezzo delle sue opere proporzionatamente al tributo che deve pagare; o almeno egli deve andare salendo per picciolissimi gradi; altrimenti i ricchi non impiegherebbero le sue braccia come prima, ed egli perderebbe allora nella quantità delle opere molto più di quello che guadagnerebbe nell’incarimento del prezzo. Cadendo dunque il dazio sul minuto popolo, egli deve o per sempre o per molto tempo pagarne una porzione incarendo il prezzo delle sue opere, ed un’altra porzione restringendo la sua sussistenza. Non avviene però l’istesso, allorché il dazio cade direttamente sulla classe de' proprietari de' terreni. Questi, per risarcirsene, regoleranno colla tassa il prezzo de' prodotti del loro suolo. Il bisogno di provvedersi di questi prodotti essendo sempre più forte del bisogno di venderli, obbligherà i non proprietarii ad addossarsi, la loro tangente della contribuzione, e questa suddivisione del tributo si farà sollecitamente e senza ostacolo, perché in questo caso il più potente è quello che richiede ragione dal più debole.

Queste verità sono così evidenti, che io crederei d'offendere coloro che leggeranno questo libro, se cercassi di svilupparle. La mia gran premura è di dimostrare tutt’i vantaggi che produrrebbe in una nazione 10 stabilimento di quest’unico dazio. Io mi riserbo di dimostrare all'ultimo come tutte le obiezioni che si potrebbero fare contro questo sistema, Mono insussistenti e chimeriche. Riguardo a vantaggi, il primo tra questi è l’unità della contribuzione. .

Qual beneficio più. grande per la nazione, che liberarla dalle vessazioni di tutti que nemici interni che la moltiplicità de' dazi rende necessarii alla loro esazione. Qual vantaggio più grande pel Sovrano, che il vedersi dispensato dall'obbligo di dover dividere le sue rendite con questi esattori? Qual consolazione maggiore pel popolo, che la sicurezza che tutto quello ch'egli pagava in beneficio del Sovrano e dello Stato, senza perdersi tra le mani degli nomini che ha più in odio, e la probità de' quali gli è la più sospetta? Pochi percettori basterebbero per esigere tutte le contribuzioni dello Stato (141); tante braccia non Sarebbero tolte all'agricoltura ed alle arti $ ed il fisco potrebbe essere egualmente ricco con Un terzo meno di rendite.

Chi crederebbe che sotto il regno di Luigi XIV in Francia le contribuzioni fossero giunte fino a 750 milioni di lire, nel mentre che non n’entravano nell'erario che 250 milioni (142)?

A misura che si diminuisce in uno Stato il numero de' contribuenti diretti, si diminuisce il numerò di coloro che possono essere vessati: si rendono più difficili le frodi, così dalla parte de' contribuenti, come dalla parte degli esattori; si facilita l'esazione, e si diminuisce il numero degli oziosi che vi sono impiegati. Or nella nostra ipotesi il numero de' contribuenti diretti si restringerebbe a soli proprietarii de' terreni.

Il secondo vantaggio forse più. considerabile del primo sarebbe la soppressione, di tutti quelli ostacoli che il sistema presente de' dazi oppone come si è dimostrato, all'agricoltura, al commercio, alle arti e ad ogni specie d’industria. Quanti beneficii si contengono in questo solo! La libertà del cittadino e del negoziante, quella del commercio e dell’industria, dell’agricoltore e dell’artiere; tanti delinquenti di meno fatti dalle leggi, tant'infelici di meno nelle carceri, in questi alberghi della frode e de' delitti, divenuti oggi il ricettacolo dell'industria pel rigore e la stranezza delle leggi fiscali. Or questi non, sarebbero altro che una porzione sola de' felici risultati del dazio diretto.

Il terzo vantaggio sarebbe la facilità di ben ripartirlo. Ci vuol poco a conoscere il valore de' fondi d’uno Stato, ci vuol poco a papere ciò che essi rendono al proprietario, e ciò che gli potrebbero rendere. Siccome questa tassa sui fondi dovrebbe essere. permanente e fissa, il governo non dovendo che una sola. volta fare la perquisizione delle rendite e del valore di tutti i fondi dello Stato, la probità, la precisione e l’esattezza potrebbero accompagnare quest’interessantissima operazione. Conosciuto il valore e le rendite di tutti, questi fondi, una regola comune ed universale dirigendone le tasse, l’imposizione non sarebbe suscettibile d’arbitrio o di frode. Ciaschedun proprietario. sarebbe tassato proporzionatamente alle sue rendite; e se qualche torto gli fosse stato fatto, avrebbe sempre il dritto di reclamare contro i direttori delle tasse, é non dovrebbe stentar molto per giustificare le sue querele.

La facilità di fissare la tassa sul prodotto netto sarebbe l’altro vantaggio che si, otterrebbe dallo stabilimento del dazio diretto. Noi abbiam veduto quanto interessi nell’imposizioni de' dazi la cognizione del prodotto netto delle rendite nazionali; noi abbiam veduto come in quelle nazioni ove i dazi indiretti sono in vigore, non si può profittare di questa cognizione; che l’incertezza accompagna sempre il governo, il quale non può che dall’effetto conoscere sé la nazione è oppressa dalle contribuzioni, e per conseguenza non può esserne istruito, se non quando la nazione è già vicina alla sua rovina. Ma adottandosi il sistema del dazio diretto, il governo non sarebbe esposto a questo pericola Niente di più facile che tassare un fondo, senza ché la tassa si renda insopportabile al proprietario che deve pagarla.

Subito che il fondo è dato in affitto ad un colono, il prezzo dell’affitto è tutto prodotto netto. Tutte le spese della coltura e della sua sussistenza, il colono Ip, ha già sottratte dal prodotto totale. Quello che va tra le mani del proprietario, è tutto prodotto netto.

Se un fondo non è dato in affitto, da prezzi degli affitti de' fondi vicini, o dal raccolto d’una annata comune, si può subito calcolarne il prodotto netto. Conosciuto questo prodotto, se il governo ha fissato di gravarlo d’una settima, d’una sesta, d’una. ottava o d’una quinta, egli è sicuro che questa imposizione non opprimerà il proprietario, né sarà destruttiva dell'agricoltura, perché;non assorbirà Che una porzione sola del prodotto netto lei fondo. Una sola cosa deve nella ricerca del valore de' fondi richiamare la massima diligenza del governo. Se per difetto di coltura un fondo rende molto meno di quel che potrebbe al proprietario, la sua trascutaggine non deve ridondare in suo beneficio. La. tassa di questo fondo deve essere proporzionata a quella de' fondi vicini, e questo rigore farebbe la prosperità dell’agricoltura. L’unico sollievo che si dovrebbe accordare al proprietario di questo fondo, sarebbe di dispensarlo dalla tassa nel primo anno. Per questa ragione appunto lo stabilimento del dazio diretto dovrebbe esser preparato dalla soppressione di tutti gli ostacoli che impediscono i progressi dell'agricoltura nello Stato. Bisognerebbe prima a ogni altro procurare che le terre acquistassero quel valore che le nostre leggi e gli errori comuni dell'amministrazione europea han loro fatto perdere. La soppressione di questi ostacoli precedendo la tassa, e lo stabilimento di questa producendo la soppressione degli altri ostacoli che nascono dal sistema presente delle contribuzioni, farebbe che da principio la tassa non comparisse onerosa, e quindi la renderebbe in ogni anno più leggiera, a misura che i progressi dell'agricoltura e dell'opulenza pubblica farebbero Crescere il valore de' fondi. Se la tassa si regolasse sul quinto dei prodotto netto, il proprietario che, da principio, pagherebbe un quinto delle sue rendite, dopo qualche tempo non ne verrebbe a pagare che il sesto, e quindi il settimo, giacché la rendita del suo fondo crescerebbe, ma la tassa resterebbe sempre, l’istessa.

Finalmente l'ultimo vantaggio che nascerebbe dall'introduzione di quest’unico dazio, sarebbe lo stretto legame col quale si verrebbero ad unire gl'interessi del Sovrano con. quelli del popolo. Nel disordine delle imposizioni indirette, quest'interessi sono in contraddizione tra loro. Il Sovrano che ignora ciò che la nazione può dargli, cerca di moltiplicare di continuo le sue rendite senza imbarazzarsi della degradazione, delle ricchezze; ed il popolo che crede sempre d’essere oppresso dalle contribuzioni. cerca dal canto suo di reagire contro questa forza col dar il meno che può al Sovrano col soccorso della frode.

Da quest’opposizione d’interessi nasce quello stato di. guerra tra ih popolo ed il principe, contro del quale si è tante volte, declamato. Ma al contrario, quando il Sovrano dividesse moderatamente tra sé e i proprietarii il prodotto netto de' fondi, non potrebbe non interessarsi nella prosperità, dell’agricoltura, sorgente, comune, così delle sue come delle ricchezze dello Stato; ed il popolo dal canto suo, vedendo che la porzione del prodotto netto che egli dà al Sovrano, forma la sua felicità e la sua sicurezza, pagherebbe volentieri un tributo dal quale niuna frode, niun artifizio potrebbe dispensarlo. Questo nuovo sistema dunque d’imposizione sarebbe il legame più forte per unire il Sovrano al popolo, e per restringere tutti i rapporti che passano tra il capo della nazione e la nazione istessa.

Questi sono i vantaggi che sono uniti al sistema del dazio diretto. Vediamo ora le obiezioni che oi si potrebbero fare. La prima, e la più forte, è quella che riguarda l’aumento del prezzo de' prodotti del terreno.

Adottandosi il metodo di ridurre tutte le contribuzioni ad una tassa unica su fondi, e questa tassa dovendo essere bastantemente forte per poter compensare la soppressione di tutti gli altri dazi, i proprietarii delle terre per risarcirsene dovrebbero considerabilmente aumentare i prezzi de' loro prodotti. In questo caso, le nazione trovando maggior vantaggio a consumare le derrate straniere, i patrii prodotti, o non si troverebbero a vendere', o dovrebbero esser venduti all'istesso prezzo degli esteri. Nel primo e nel secondo caso l’agricoltura, dovrebbe risentirsi o de' non valori de' suoi prodotti, o della perdita che ci sarebbe nel coltivarli, ba rovina dell’agricoltura produrrebbe la rovina della nazione, e l’una e l’altra sarebbero la conseguenza del nuovo metodo che i è proposto.

Tutta la forza di questa obiezione è fondata sopra un’ipotesi che al primo aspetto sembra incontrastabile, ma che osservandosi da vicino si trova assolutamente falsa. Il credere che sopprimendosi tutti gli, altri dazi, e caricandosi tutto il valore di questi sulle terre, il prezzo delle produzioni del terreno dovrebbe crescere in proporzione del valore della tassa, è appunto l’ipotesi falsa che fa tutta la forza del raziocinio.

Se, senza sopprimere gli altri dazi, si volesse imporre una tassa sulle terre non si può dubitare che in. questo caso i proprietarii per risarcirsene dovrebbero far crescere il prezzo delle produzioni di queste terre. Ma non è questo il caso nostro. Qui si tratta di gravar le terre dopo essersi tutti gli altri dazi aboliti. Or in questa caso, quale potrebbe essere il motivo che potrebbe indurre i proprietarii ad aumentare il valore de’ prodotti del terreno? Questo trasferimento di dazi non verrebbe forse a giovare prima d’ogni altro ad essi? Tutti i dazi. che si pagano in una nazione agricola, non. sono forse pagati dalla classe de' proprietarii? I dazi imposti sulla consumazione de' generi necessarii alla vita non vanno forse a carico de' padroni de' fondi che gli producono? quelll'imposti sulla circolazione interna, o sull’estrazione di questi generi, non seguono forse l’istessa sorte? Quelli imposti o sulla testa del minuto popolo, o sulle arti che servono a vestire, adornare, alloggiare il contadino che non possiede altro che le sue braccia, e il mercenario che vende la sua persona, non vanno forse a carico del proprietario che impiega le braccia del primo, e che compra i servizi del secondo?. Quelli imposti su’ generi di. lusso, non sono forse pagati dal proprietario, che d li compra per sé, o gli fa comprare a coloro che lo fervono? Se tutti 4 dazi dunque in una nazione agricola vanno a cadere indirettamente sulla classe de' proprietarii delle terre, riducendosi questi ad una tassa unica su fondi, la sorte dei proprietario verrebbe a migliorarsi, e si migliorerebbe in ragione de' vantaggi che il dazio diretta ha sopra gl’indiretti. Il prezzo dunque delle produzioni del terreno dovrebbe anzi diminuire che crescerà, adottandosi il nuovo metodo.

L'altra obiezione che si può fare, è che questo metodo verrebbe a distruggere tutte l'esenzioni d’alcuni corpi, tutti i privilegi. Felice effetto, desiderabile risultato! È forse giusto che una porzione de' cittadini d’uno Stato profitti come l’altra de' beneficii della società senza pagarli? Non sarebbe forse desiderabile che una infrazione così scandalosa delle leggi fondamentali d’ogni società fosse corretta?

Tutti questi privilegi f tutte queste esenzioni non sono forse nulle ed abusive pei dritto inalienabile e indestruttibile che hanno tutti i membri del corpo politico d’esigere da ciascheduno, e ciascheduno da tutti, la contribuzione reciproca delle forze che essi si sono obbligati a somministrare per le spese e la sicurezza comune? Non è forse un abuso dell’autorità il dispensare da questa imprescrittibile obbligazione urta porzione degl’individui della società per farne cadere tutto il peso sull’altra? In Sparta né i due Re, né i magistrati; in Venezia né i nobili, né il Doge; in Roma né i magistrati, né i capi della repubblica, durante la libertà, né quando questa decadde, gl’imperatori istessi erano esclusi dalle pubbliche contribuzioni; e noi che ci vantiamo d’esser giusti ed imparziali, saremo poi così prodighi de' dritti e de' doveri sociali? Non consideriamo dunque come un disordine, ma consideriamo come uno de' risultati più felici del dazio diretto la soppressione di tutte queste esenzioni, di tutti questi privilegi, i quali considerandoli da vicino si troveranno non essere che apparenti per una gran parte di coloro che ne sono in possesso.

L’ultima obiezione che si potrebbe fare, è che forse non ci è oggi popolo nell'Europa al quale la sua situazione permetta di tentare questo gran cambiamento. Da per tutto, si dirà, le imposizioni sono così eccessive, le spese cosi moltiplicate, i bisogni così urgenti; da per tutto il fisco è così disordinato, che una rivoluzione subitanea nell'esazione delle rendite pubbliche altererebbe sicuramente la confidenza e la felicità de' cittadini.

Per rispondere a questa obiezione, io dimando prima d’ogni altro.: tutte queste imposizioni così eccessive, che la moltiplicazione delle spese, l’urgenza de' bisogni, il disordine del fisco, i debiti nazionali esigono nella maggior parte delle nazioni europee; tutte queste imposizioni, io dico, sono o no superiori alle facoltà de' popoli che le pagano? eccedono o no il prodotto netto delle rendite nazionali? Se sono superiori alle facoltà de' popoli, se eccedono la porzione disponibile delle rendite della nazione, in questo caso o bisogna diminuirle, o bisogna aspettare a momenti la rovina intera della nazione. Per diminuirle combinando gl’interessi del fisco con quelli del popolo; per ottenere che il taglio che si dà alle rendite del governo, sia il minore possibile, e che il sollievo del popolo sia il massimo possibile; bisogna, come si è provato, ricorrere al sistema del dazio diretto. Se poi la quantità delle contribuzioni non eccede le forze del popolo, né la parte disponibile delle sue rendite; e se, in vigore delle premesse, in una nazione qualunque dazio che si pagava sempre o direttamente o indirettamente a carico de’ proprietarii delle terre, in questo caso riducendosi tutte queste contribuzioni ad una tassa unica su fondi, il fisco non perderebbe', e la nazione otterrebbe tutti que’ vantaggi che dipenderebbero dal nuovo metodo.

Riguardo poi a disordini che potrebbero nascere da un cambiamento istantaneo in questa specie di cose, io rispondo che questo cambiamento non solo non dovrebbe essere istantaneo, ma dovrebbe essere, con molta diligenza preparato, e sempre per gradi eseguito. Con un tratto solo d’autorità non si possono riparare simili mali. Gli antichi sistemi delle finanze sono vecchie fabbriche ingrandite a piccoli pezzi, in diversi tempi, e da diversi architetti più avidi che istruiti; sono crollanti edificii, che per ripararli ci è bisogno di tutta la diligenza dell’artefice e di tutte le precauzioni dell’arte. Se ogni operazione non vien preparata, se non viene. per gradi eseguita, si corre rischio di vederli crollare tutto ad un tratto, e di rimaner sepolti sotto le loro rovine.


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CAPO XXXI

Metodo da tenersi per riuscire in questa riforma del sistema de' dazi

Si è detto che questa riforma dovrebbe esser preparata, e per gradi eseguita. Per prepararla, il legislatore dovrebbe cominciare dal sopprimere tutti quelli ostacoli che si oppongono a progressi dell'agricoltura, che non dipendono dal sistema presente de' dazi (143): quindi, istruirsi esattamente del valore relativo de' terreni di tutte le provincie dello Stato. le tenebre del mistero non dovrebbero circondare quest'operazione; le violenze non dovrebbero esserne i mezzi. In ogni provincia dovrebbe spedirsi un visitatore illuminato e probo, degno della pubblica confidenza, e animato da quei sentimenti che sogliono esser così poco comuni, ma che producono effetti così grandi in quei pochi uomini che ne sono penetrati'. Dovrebbe contemporaneamente il legislatore procurare che la nazione s’istruisse ne suoi veri interessi. Per riuscire in quest'intrapresa egli dovrebbe diriger la penna de' filosofi. Magistrati nati della loro patria, sono essi che debbono illuminarla, sempre che possono: il loro dritto è il loro talento. Coloro scritti essi dovrebbero dimostrare le conseguenze funeste. che derivano dall'antico sistema de' dazi; la necessità d'una riforma; i vantaggi d’un’imposizione unica sulle, terre; l'interesse chei proprietarii dovrebbero prendere in questa novità, della quale essi sarebbero i primi a sperimentarne i vantaggi.

Prese queste precauzioni, diffusi questi lumi per tutta la nazione, il legislatore dovrebbe venire all'esecuzione dell’opera. Questa, come a è detto, dovrebbe farsi per gradi. Si dovrebbe cominciare dal sopprimere un dazio che fosse il più oneroso, il più molesto pel contadino, il più difficile ad esigersi; calcolarne la rendita netta, e di questa stabilirne l’equivalente con una tassa sulle terre, a vendo sempre innanzi agli occhi il loro relativo valore. Dato questo primo passo, si dovrebbe coll'istesso metodo dare il secondo, e quindi gli altri sempre gradatamente. le operazioni non dovrebbero mai «esser contemporanee, ma l’una dovrebbe cominciare quando l’altra fosse già interamente perfezionata.

Per assicurarsi della confidenza del popolo, il governo non dovrebbe mai guadagnare in queste permute. Quello che si acquista, non dovrebbe mai eccedere quello che si perde, ed il pubblico dovrebbe, essere istruito dell’esattezza di questo calcolo.

Finalmente terminata l'operazione, seguita tutta la riduzione de' dazi in un solo tributo, riparati tutti quei privati inconvenienti che in una riforma universale si possono correggere, ma non prevenire; un editto pubblicato con tutta quella solennità che è necessaria per imporre alla moltitudine, dovrebbe assicurare la nazione della stabilità della tassa. La nazione ed il principe dovrebbero dare a questo stabilimento una cauzione sacra. L’erede del trono dovrebbe ratificarlo. I rappresentanti del popolo dovrebbero giurare di non reclamare giammai contro la tassa stabilita, ed il principe di non alterarla. Questa dovrebbe divenire una legge fondamentale dello Stato, un contratto tra il principe ed il popolo, un’obbligazione che ogni nuovo principe dovrebbe accettare nel momento nel quale egli verrebbe a salire per la. prima volta sul trono de' suoi padri.


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CAPO XXXII

Della esazione delle tasse

Dopo avere esposto un sistema diverso di finanze, io ardisco di proporre un sistema diverso d'esazione. Finora l'esazione. delle rendite del fisco non si è fatta che o dagl'incombenzati del governo, o dagli affittatori di queste. rendite. Oltre agl'inconvenienti comuni all'uno ed all’altro metodo, ciascheduno di essi ha i suoi. che gli son proprii. Le. somme immense che il governo deve sacrificare all’esazione de' dazi, sono gl'inconvenienti comuni all'uno ed all'altro metodo. Sia che le rendite del fisco si esigano da suoi incombenzati, sia che si esigano dagli affittatori del fisco, una terza parte almeno di queste rendite è nell’uno e nell’altro caso, immolata all’esazione. Questo sacrifizio, oltre che costa caro allo Stato, non può nel tempo istesso non inasprire la nazione, e non alterare quella confidenza che ci dovrebbe essere tra il popolo ed il governo; confidenza forse disprezzabile in un paese dove presiede un tiranno, ma necessaria da per tutto dove ci è un principe, e dove il governo è moderato.

Questi sono gl’inconvenienti comuni. Esaminiamo ora i particolari. le frodi continue; i peculati che le più rigorose pene non potrebbero evitare, quando la sicurezza di nasconderli produce la sicurezza dell'impunità; l’incertezza delle rendite; lo sbilancia dell’erario, effetto necessario di questa incertezza, sono i disordini che nascono dall'esazione che si fa dagl'incombenzati del governo.

Quando le rendite del fisco sono date in affitto, e l'esazione si fa in nome ed a conto degli affittatori, i disordini invece di diminuire si moltiplicano, e divengono anche più perniciosi.Non sono io il primo ad attaccare questo metodo assurdo d'esazione, che dà in mano a privati cittadini il dritto di perseguitare in nome della legge i loro concittadini. Tutti gli scrittori patriottici, tutti gl’ingegni che si sono consacrati al bene pubblico, hanno declamato contro questo abuso destruttivo della tranquillità pubblica e del buon ordine dello Stato. Ed in fatti, subito che il Sovrano dà ad uno o a più cittadini l’affitto delle sue rendite, viene nel tempo istessoa conferir loro la facoltà di vessare, offendere, perseguitare, oltraggiare chiunque essi vogliono coll’armi stesse della legge.

Basta leggere gli annali dell’oppressione per persuadersi di tutta l’iniquità di questo sistema, l’origine del quale è antica quanto la tirannia istessa. Noi sappiamo dall'istoria che Roma, la quale non amò mai la libertà fuori delle sue mura, e che non potè quindi neppure tra queste conservare; noi sappiamo, io dico, che Roma aveva condannate a questo metodo funesto d’esazione le provincie conquistate; ma noi sappiamo anche dove giunse l'avidità de' pubblicani (144), e la miseria di queste provincie; noi sappiamo dall’istoria, che un finanziere delle Gallie sotto l’impero di Augusto, vedendo che i tributi si pagavano in ogni mese, ebbe l’ardire di dividere l’anno in 14 mesi; noi sappiamo, da Dione, che le querele de' popoli dell’Asia furono così efficaci, che obbligarono Cesare ad abolire in questa provincia i pubblicani, e ad introdurre un nuovo metodo d'esazione; noi sappiamo da Tacito, che la Macedonia e l’Acaia, provincie che Augusto aveva lasciate al popolo romano, credettero d’aver tutto ottenuto, quando furono liberate da questa specie d'esazione; e noi sappiamo finalmente dall'istesso isterico, che i clamori delle provincie furono cosi forti sotto l’impero di Nerone contro la perfidia e l’estorsioni di questi finanzieri, che obbligarono l'imperatore ad emanare varie leggi dirette a mettere un freno all'avidità e all'autorità de' pubblicani (145). Questi furono i disordini che produsse nelle provincie di Roma il metodo di dare in affitto le rendite del fisco.. Io mi astengo di. descrivere quelli che produce oggi in Europa. Un male che si soffre da tutti, è da tutti conosciuto; e poi è sempre meno pericoloso il piangere sulla miseria de' nostri padri, che sulla nostra. Mi basta di dire che è più il dritto di vessare e di perseguitare, che quello di esigere, che si valuta nell’affitto di queste rendite. Quasi tutta 'l Europa è testimonio di questa verità.

Qualunque de' due metodi d’esazione che si voglia dunque scegliere, si urterà sempre in gravi disordini contrarii egualmente agl’interessi del Sovrano ed a quelli della nazione. Ma durante il sistema de' dazi indiretti, non si può uscire da queste due strade. L’una o l’altra di esse è un male necessario. Un sistema nuovo d’esazione non può andare unito che ad un sistema nuovo d’imposizioni. Il solo stabilimento del dazio diretto potrebbe dare adito a questa interessantissima riforma. Quando non ci fosse altro che un solo dazio nello Stato e questo fosse la tassa su i fondi, il popolo. istesso potrebbe esser l’esattore del fisco. Tutti i capi delle università dovrebbero esigere le tasse de' fondi, compresi nel loro distretto, e far pervenire le loro respettive esazioni al capo della provincia. Siccome tutto è fisso, permanente ed inalterabile in questaspecie di tassa, non. si potrebbe dubitare della minima frode o parzialità nell'esazione. Il fisco vedrebbe pervenire le sue rendite nel, suo erario senza la minima spesa, ed il popolo vedendo che quell'istessi che egli ha scelti per rappresentarlo e dirigerlo, sarebbero incaricati dell'esazione delle tasse, sarebbe pieno di confidenza e sicuro di non esser tradito. L’industria garantita dalla sacra autorità della legge, non avrebbe che temere dalla parte degli uomini. L’arbitrio, la parzialità, la frode non potrebbero aver parte in questa specie d’esazione. le tariffe esatte e permanenti delle tasse di ciaschedun fondo annuncierebbero al proprietario ciò che egli dovrebbe pagare allo Stato. Il contribuente non dovrebbe dipendere che dalla legge e da se medesimo. Il favore o l’odio degli esattori gli sarebbero ugualmente indifferenti. Egli potrebbe disporre di ciò che è suo come gli pare; coltivare a suo talento i suoi fondi; vendere a chiunque le sue derrate, trasportarle, estrarle, custodirle come vuole, senza sentir mai più proferire il nome solo del fisco. L'artefice, il mercadante, il minuto popolo, l’ozioso consumatore pagherebbero la loro porzione senza avvedersene. Lo Stato non sarebbe ingombrato da esattori, da spie, da guardie. La libertà regnerebbe nelle città, nelle provincie, nelle strade, sulle spiagge è ne porti: essa diffonderebbe nel tempo istesso i suoi benefici influssi sull’agricoltura sulle arti e sul commercio 5 essa darebbe la massima attività all'industria, la massima. tranquillità al popolo e la massima sicurezza al trono.


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CAPO XXXIII

Degli straordinarii bisogni dello Stato, e della. maniera di provvedervi

Si è detto che la misura delle contribuzioni sono i bisogni dello Stato. Or questi bisogni non sono sempre gl'istessi. La guerra ha in tatti i luoghi ed in tutti i tempi richieste maggiori spese che la pace. I popoli antichi vi provvedevano coll'economia che essi facevano nel tempo di quiete. Essi serbavano somme considerabilissime per gli straordinarii bisogni della repubblica. L'istoria ci assicura che gli antichi Re d'Egitto e i Tolomei successori d'Alessandro (146), i Re di Macedonia (147), i Re di Siria e quelli de' Medi (148) avevano de' tesori accumulati. Sparta istessa, Sparta così frugale e così inimica dell'oro e dell'argento, aveva, per quel che ce ne dice Platone (149), il suo pubblico tesoro. Gli Ateniesi (150) e le antiche repubbliche de' Galli l’avevano ugualmente (151); e noi sappiamo, finalmente che i Romani ebbero il loro pubblico tesoro, così durante la libertà della repubblica, come sotto il giogo de' Cesari (152). Questo metodo si è perpetuato presso le nazioni d’Europa quasi fino a due secoli in dietro (153). Ma da che si sono conosciuti i vantaggi della circolazione; da che i governi si son persuasi che i loro tesori sepolti facevano la rovina del commercio e dell’industria, si è abbandonato con ragione questo metodo; ma bisogna confessarlo, essi hanno urtato in un nuovo disordine non meno pernicioso dell'antico. Subito che gl'interessi del principe, o quelli della nazione l’hanno obbligato a prender le armi, non trovandosi il danaro per far la guerra, e non volendo nel tempo istesso inasprire la nazione con tasse straordinarie, si è avuto ricorso alle prestanze. Il governo è andato in cerca di danaro, e per ottenerlo ba oppignorata una porzione delle sue rendite a suoi creditori. Questo sistema erroneo ha nel tempo istesso rovinato il principe e la nazione. Io non entro ad esaminare se il Sovrano abbia o no il dritto di farlo; se la corona essendo ereditaria, e l’amministrazione assoluta; se il principe non avendo il dritto di disporre della successione al trono; se una perpetua sostituzione, togliendo all'usufruttuari della corona la proprietà de' fondi, e proibendogli di disporne o nella totalità o nelle parti: non entro, io dico, ad esaminare se questo titolato passeggiero che non può alterar l’ordine della sua successione, né dare a membri avvenire dello Stato, che governa, un altro Sovrano, se non quello che è dalla legge chiamato dopo di lui al trono, possa egli eludere questa disposizione, obbligando la nazione intera pei suoi debita, e consumando anticipatamente le rendite de' suoi successori col caricare di debiti l’erario, la proprietà del quale è della corona, e il solo uso a chi la porta. Io lascio a politici l’esame di questa interessantissima questione, che un secolo di discussione come questo non lascerà di risolvere; e mi piace di nascondere il mio giudizio su quest'oggetto, giacché io temo sempre, allorché ardisco d’innalzarmi fino a Re, che un Dio mi tiri per l'orecchie, e mi dica: Titiro, non ti occupare che degli armenti (154). Contentiamoci dunque di osservare la cosa dal solo aspetto de' mali che produce.

Subito che il principe prende una somma in prestito, si priva d’una porzione delle sue rendite per l’interesse che ne paga al creditore. Il suo erario dunque è il primo a risentirsene; ma sono i popoli quelli che dopo poco tempo sono, condannati a rimpiazzare questo vuoto. Se il danaro si è preso per andare contro i nemici dello Stato, o per soddisfare l'ambizione del Sovrano, finita la guerra, e per conseguenza finito il timore d’inasprire il popolo, si pensa subito ad una nuova imposizione. Il ministro si cura poco che questa sia contraria a vantaggi dell’agricoltura o del commercio: basta che il prodotto compensi l’interesse che si paga pel debito contratto; fatto che è il calcolo, è fatto il tutto. La nuova imposizione si pubblica, il debito resta eterno, ed eterna rimane l’imposizione.; ed in tanto il principe che vede la facilità di aver delle somme a spese del popolo, s’impegna in quelle intraprese che sono superiori alle, facoltà ed alle forze dalla nazione che; governa. Senza. questa faciliti Luigi XIV non avrebbe rovinata la Francia col suo spirito inquieto di conquista; l’Olanda non avrebbe intraprese quelle guerre nelle quali, non già le difesa della sua libertà, o i vantaggi del suo commercio, ma la sua ambizione smisurata e i suoi sospetti mal fondati l'hanno impegnata; e l'Inghilterra finalmente non avrebbe compresse tutte le molle dello Stato; non avrebbe messi in alterazione tutti i muscoli del suo corpo politico; non avrebbe oppresso il suo commercio, i suoi terreni e le sue case; non avrebbe spaventato il lusso istesso con infiniti dazi; e non avrebbe distesa la sua avidità sulle bevande istesse più ordinarie del popolo per pagare l'interesse d’un debito di 3,300,000,000 di lire che aveva contratto fino all'ultima guerra colla Francia e colla Spagna; debito che l'è costato la ribellione delle sue colonie, e che obbligherà un giorno la nazione a dichiararsi fallita in mezzo ad una rendita di 240 milioni di lire (155).

Ecco dove ha trasportati i governi la facilità di contrarre de' debiti, e 'l metodo di ricorrere a questo strano rimedio per provvedere agli straordinarii bisogni dello Stato. Ma non finiscono qui i mali che producono i debiti della corona. I loro flagelli si distendono sull’agricoltura, sul commercio e sull’industria. Non ci vuol molto per assicurarsene. Siccome per lo più il debito si contrae dal governo co' suoi stessi cittadini; siccome la maniera più sicura e più comoda d'impiegare il suo danaro, è quella che si fa impiegandolo ne’ fondi pubblici; siccome questa specie di rendita non è soggetta né all'alterazione del tempo, né all’ingiuri delle stagioni, né all’avidità de’ finanzieri;, tutti questi vantaggi fanno che ciaschedun cittadino cerchi d’impiegare in. queste rendite il suo danaro. Il proprietario si disfa volentieri del suo territorio, o trascura di migliorarlo; il negoziante abbandona il suo commercio, l’uomo, industrioso la sua industria, allorché si tratta d’impiegare il suo danaro nelle rendite, del fisco. Or tutte queste somme che impiegate nell'agricoltura, nel commercio e nell’industria, farebbero la ricchezza della nazione, sono interamente perdute per lo Stato. Esse gli sono, anzi perniciose, come quelle che fomentano l'ozio, che abbandonano la coltura tra le mani le più povere e le più avvilite, ché impediscono la diffusione, delle ricchezze nazionali; come quelle finalmente che popolano le capitali a spese delle campagne, e fanno che le ricchezze, invece di circolare in tutta l'estensione dello Stato, in vece di fecondare le campagne', in vece di eccitare il povero contadino al travaglio restano sepolte in questi asili della mollezza, della profusione e della voluttà.

Se il sistema dunque di ricorrere a debiti è più pernicioso per la nazione; se l'avere un tesoro ozioso, conte l‘avevano gli antichi, nuoce al commercio ed all’industria, togliendo una gran. porzione del numerario dalla circolazione; se la politica non permette sempre d’inasprire il. popolo con tasse. straordinarie che. finissero. col bisogno (che sarebbe per altro. il rimedio più giusto e 'l meno pernicioso di tutti gli altri); se tutto quello che si è fin ora pensato dà governi, è o pericoloso o pernicioso, bisogna dunque pensare ad un metodo tutto nuovo per provvedere agli straordinarii bisogni dello Stato. Io, credo d’averlo trovato.

Qual è la causa che rende oggi pernicioso il sistema degli antichi? Si è detto il dover tenere tanto numerario segregato della circolazione. Se dunque si potesse avere un tesoro che non fosse ozioso, se si potessero avere delle somme considerabilissime sempre pronte senza toglierle dalla circolazione, noi potremmo conseguire tutt'i vantaggi della politica degli antichi senza incorrere negl'istessi inconvenienti. Come dunque fare per combinare due oggetti così opposti tra loro? Niente di più facile. Quella somma che l’economia dell'amministrazione potrà in ogni anno risparmiare, invece di seppellirla, in un tesoro che si dia in mano di quei cittadini che la ricercano, e che possono ipotecarla sopra un fondo stabile che rimarrà inalienabile finché la somma non sarà stata restituita al creditore che questo prestito si faccia col patto di restituire la somma al fisco in qualunque tempo ed in qualunque circostanza sarà per ripeterla; e finalmente che niuno interesse s’esiga per la somma data in prestito.

Questo sacrificio sarebbe necessario, perché moltiplicherebbe le richieste, e per conseguenza permetterebbe al principe di scegliere sempre quelle nelle quali il suo credito sarebbe meglio cautelato. Egli potrebbe servirsi anche di questo mezzo per premiare i cittadini benemeriti dello Stato; giacché non è un piccolo beneficio che si reca, dando una somma in prestito senza il minimo interesse. Ecco come si potrebbe avere un tesoro, senza togliere neppure la minima parte del numerario dalla circolazione. Questo sarebbe, è vero un tesoro metafisico, ma che diverrebbe reale subito che i bisogni dello Stato, lo richiederebbero. Che se il bisogno è così grande, che le somme serbate dal governo non bastano per provvedervi, il solo espediente al quale in questo caso si deve ricorrere, sono le tasse straordinarie. Quando il popolo vede che il governo ha tentate tutte le strade pei non aggravarlo; quando vede che il positiva bisogno dello Stato ricerca il suo soccorso, egli non ardirà di reclamar contro una tassa, la quale, per onerosa che sia, è sempre soffribile quando non è che per un dato tempo, quando non durerà più del bisogno (156).

Prendete una molla. Una pressione momentanea, per forte che sia, non fa che risvegliare la sua elasticità; ma se voi la tenete costante mente compressa, essa reagisce tanto sopra sé medesima, che pervenuta finalmente nel punto nel quale termina la sua elasticità, si spezza tutto ad un tratto, e lacera la mano che la Comprime. Questo è il popolo. Allorché egli è giunto a quest’estremo, egli insegna una gran verità a coloro che hanno l’ambizione di ridurtelo; fa loro vedere che dopo che i sudditi hanno per lungo tempo sofferto per i deliri de’ Re, i Re soffrono per i loro stessi deliri; che viene un tempo nel quale la pretesa onnipotenza del despota svanisce, e costringe il mostro, che crede d’esserne in possesso a chinare il capo sotto la mano potente della necessità; che, in una parola, la tirannia si estingue colla reazione de' colpi che essa istessa ha lanciati dal suo vacillante trono.


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CAPO XXXIV

Della distribuzione delle ricchezze nazionali

Dopo aver parlato delle ricchezze e delle strade che le conducono nello Stato; dopo aver distintamente esaminati gli ostacoli che ne impediscono l’ingresso, e i mezzi per superarli bisogna ora cercare la maniera che deve, tenere il legislatore per ben ripartirle; senza una buona ripartizione le ricchezze, in vece di fare la felicità della nazione, ne accelerano la rovina. Non è questo un paradosso: questa è una verità che l’interesse privato vorrebbe che si tenesse nascosto agli uomini, ed a coloro che li governano, ma che la filosofia ardita non teme di palesare e di dimostrarne l’evidenza.

La felicità pubblica non è altro che l’aggregato delle felicità private di tutti gl'individui che compongono la società. Allorché le ricchezze si restringono tra poche mani; allorché pochi sono i ricchi e molti sono gl'indigenti, questa felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo, anzi, come ho detto, ne farà la rovina. Siccome in una macchina nella quale tutti i pezzi sono consunti; se voi ardite di ripararne alcuni, rinnovandoli, nel mentre che lasciate gli altri nello stato, nel quale sono, il vigore e la robustezza di questi, in vece, di dare una maggior durata alla macchina, ne accelera la destruzione, non potendo l’azione e la resistenza degli antichi pezzi esser proporzionata all’azione ed alla resistenza, de’ nuovi; della maniera istessa nella macchina sociale, se tutti, gl’individui che la compongono, sono nello stato di languore per la miseria, a riserva di pochi che sono nello stato opposto, cioè nel massimo vigore per l’esorbitanza delle loro ricchezze, la facilità che avranno questi d’urtare contro la. moltitudine, colla sicurezza di non potei trovare una resistenza proporzionata alla loro azione, non potrà non renderli oppressori;, ed il popolo calpestato da cento despoti soffrirà allora tutti i flagelli, del dispotismo in mezzo a disordini dell'anarchia. le ricchezze in questo caso non accelereranno forse la destruzione di questa macchina che chiamasi società? Non sarebbe meglio che tutti fossero egualmente poveri? Quali furono in Roma le conseguenze di questa funesta sproporzione? La repubblica d’Atene sarebbe stata forse oppressa da trenta tiranni, se non ci fosse stato in quel tempo l’eccesso della povertà nel popolo, e l’eccesso delle ricchezze in alcune famiglie della classe degli ottimati? L’impossibilità d’ideare una buona costituzione unita al sistema feudale non è forse l’effetto della difficoltà di combinare il sistema de' feudi colla meno ineguale possibile distribuzione delle pochezze. nazionali?

Se le ricchezze dunque non solo sono inutili, ma perniciose a popoli, quando son mai ripartito, il legislatore non avrà fatto tutto, richiamandole nello Stato, se non ha pensato alla maniera di ben ripartirle. Ma di quali mezzi deve servirsi per ottener questo fine? quali sono le vie curve che glielo condurranno, senza che il volgo se ne avvegga? quali sono gl’impedimenti che la presente legislazione vi oppone? Con queste interessantissime osservazioni noi conchiuderemo questo libro delle leggi politiche ed economiche; ma prima d’ogni altro vediamo cosa debba intendersi per distribuzione e ripartizione di ricchezze nazionali.


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CAPO XXXV

Cosa debba intendersi per distribuzione di ricchezze nazionali

Un’esatta distribuzione di ricchezze nazionali, un’eguaglianza precisa nelle facoltà de' cittadini non può aver luogo che nella fanciullezza d’una repubblica nascente. Subito che un certo numero di famiglie si determina di fissarsi in una data regione e di formarvi una società, il capo di questa, o il corpo che lo rappresenta, comincia dall'assegnare a ciascheduna di esse una eguale porzione di terreno ed allora tutte queste famiglie possono dirsi egualmente, ricche. Ma siccome diversi sono. i gradi dell'industria degli uomini f diversa è |a loro economia, e diversi sono i loro bisogni siccome la suddivisione de' fondi è relativa alla moltiplicità de' figli; siccome il dritto di testare (questo dritto creduto fin ora inseparabile dalla proprietà), deve comandare del tempo per l’estinzione delle famiglie riunire nell'istessa persona le ricchezze di più famiglie estinte; siccome finalmente una forza d'attrazione, che costane temente si osserva, fa che il danaro s’acquisti col danaro, e le ricchezze colle ricchezze; tutte queste cause rendono impossibile l’inalterabilità di questa distribuzione, è non sarà ancora scorsa la seconda generazione, che l’eguaglianza stabilita nell’origine della nuova repubblica sarà interamente svanita. Questo verità è stata fino all’evidenza dimostrate da Aristotile nel secondo libro della sua Politica, dove esamina il sistema delle due Repubbliche ideali di Platone e di Falaride Milesio, nelle quali si voleva stabilire l’eguaglianza precisa delle fortune e de' fondi. le conseguenze della legge agraria de' Romani ce ne offrono anche una prova di fatto. Non è dunque possibile l’ottenere una esatta e precisa eguaglianza di ricchezze nelle famiglie d’uno Stato. Ma non per questo è impossibile che le ricchezze vi siano ben ripartite. Io intendo per buona ripartizione e distribuzione di ricchezze una equabile diffusione di danaro, la quale, evitando la riunione di questo tra poche mani, cagioni un certo agio comune, istrumento necessario per la felicità degli uomini. Quando ogni cittadino, in uno Stato può con un lavoro discreto di sette o otto ore, per giorno comodamente supplire a bisogni suoi e della sua famiglia, quello Stato sarà il più felice della terra: egli sarà il modello d'una società ben ordinata. In questo Stato le ricchezze saranno ben distribuite; in questo Stato finalmente non ci sarà l’eguaglianza delle facoltà che è una chimera, ma l’eguaglianza della felicità in tutte le classi, in tutti gli ordini, in tutte le famiglie che lo compongono; eguaglianza che deve essere lo scopo della politica e delle leggi. Ho detto con un lavoro discreto di sette o otto oro per giorno, poiché un’eccessiva fatica non è compatibile colla felicità. Lasciamo a poeti ed a filosofi entusiasti gli elog d’una vita interamente laboriosa, e contentiamoci di piangere sulla disgrazia di coloro che sono condannati a menarla. La natura, che ha dato a tutti gli esseri una forza proporzionata al mestiere che dovevano esercitare, non ha fatto l’uomo per una vita così penosa: egli non può adattarvisi. che a spese della propria esistenza. Non ci lasciamo trasportare dall’errore. Non è vero che gli uomini occupati, dalle penose arti della società, e che non hanno che poche ore della notte per sollievo delle loro fatiche; non è vero, io dico, che quest’infelici vivano tanto, quanto l’uomo che gode del frutto de' suoi sudori, e che fa un uso moderato delle sue forze. Una fatica moderata fortifica, una fatica eccessiva opprime e consuma. Un agricoltore che prende la zappa prima che il sole esca fuori dall’orizzonte, e che non l’abbandona che all'avvicinarsi della notte, è un vecchio all’età di quaranta o di cinquant’anni. I suoi giorni si abbreviano, il suo corpo s’incurva: tutto palesa in lui la violenza fatta alla natura. Non è dunque possibile il trovar la felicità in un genere di vita così laborioso; ma è anche impossibile il trovarla nell’ozio. La noia, compagna indivisibile d’un ricco ozioso, lo seguita in tutti i luoghi, e non lo abbandona neppure ne’ piaceri istessi. Questa è come l'ombra del suo corpo che lo accompagna da per tutto. I piaceri, quasi tutti esauriti per lui, non gli offrono più ché una tetra uniformità che addormenta e stanca. Destinati a sollevare lo spirito dopo le fatiche del corpo o dopo i lavori dell'intelletto, essi lasciano d'esser piaceri subito che non sono preparati dall’occupazione. Privo di questo condimento necessario, l’uomo può passare come vuole senza interruzione da un piacere ad un altro: egli non farà che passare da una noia ad un’altra noia. Invano egli si fa un dovere di scorrerli tutti, invano egli affetta un volto ridente e un linguaggio di contentezza: questa è una felicità imprestata, questa è una felicità d’ostentazione; il cuore non vi prende quasi alcuna parte. Il lungo uso de' piaceri glieli ha resi inutili. Questi sono tante molle usate che s’indeboliscono a misura che si comprimono con maggior frequenza. Che diverranno allorché restano sempre compresse?

No: non è ne piaceri che il ricco ozioso può trovare qualche felicità. Egli non la gusterà che in que’ soli momenti ne’ quali, soddisfa a bisogni della vita. In questi momenti tutti gli uomini sono egualmente felici;, ma la natura non moltiplica in favore del ricco i bisogni della fame, dell’. amore? del sonno, ecc. Se egli mangia cibi più delicati dell’uomo che vive del frutto delle sue braccia, egli non. per questo gode più di lui nel soddisfare questo bisogno. Se il suo letto è più morbido, il suo sonno non è per questo più profondo, e meno esposto agl’incomodi della vigilia. Nel tempo dunque che gli uomini soddisfano a loro bisogni, tutti sono egualmente felici. La diversità dipende dalla maniera di occupare l’intervallo che passa tra un bisogno soddisfatto ed un bisogno rinascente. Or il ricco ozioso che occupa questo tempo tutto in divertirsi è nell’andare in cerca de' piaceri, è egualmente infelice del povero che deve impiegarlo in un lavoro eccessivo. L’uno offre durante quest’intervallo tutto il peso della noia, e l’altro tutto il peso della sua miseria. L’uno va in cerca di nuovi bisogni e di. nuovi desiderii, e l’altro maledice la natura per avergli dati, quelli che gli costa tanto di soddisfare. Un’occupazione, una fatica dunque moderata, quando questa basti per soddisfare i proprii bisogni, e per riempiere l’intervallo che passa tra un bisogno soddisfatto ed un bisogno che si deve soddisfare, è la sola che può rendere l’uomo felice, è che può farlo pervenire a quel grado di felicità che non e permesso a mortali d'oltrepassare.

Or come fare per ottenere che tutti i cittadini di uno" Stato fossero nel caso di partecipare a questa felicità desiderabile, che in una società ben ordinata non dovrebbe esser interdetta che à soli matti ed a soli delinquenti?

Io l'ho detto: per ottener questo fine, non è necessario che tutti i cittadini siano egualmente ricchi; ma che le ricchezze siano equabilmente diffuse; cioè che queste non si restringano tutte tra poche mani, lasciando il resto della società nell'indigenza. Cerchiamo dunque quali sarebbero i mezzi, quali le leggi che potrebbero. facilitare questa necessaria diffusione, e quali sono quelle che vi si oppongono.


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CAPO XXXVI

De’ mezzi proprii per attenere l'equabile diffusione del danaro, e delle ricchezze. 

in uno Stato, e degli ostacoli che la presente legislazione vi oppone

Se si osserva lo stato presente delle società europee, si troveranno quasi tutte divise in due classi di cittadini; l'una alla quale manca il necessario, l’altra che abbonda d’un gran superfluo. La prima, che è la più numerosa, non può provvedere a suoi bisogni che col soccorso d'un travaglio eccessivo. Questa, come si è dimostrato, non può conoscere la felicità. L’altra classe vive nell’abbondanza; ma esposta per l’ozio al quale si consacra, a tutte le angosce della noia, è qualche volta più infelice della prima. La maggior parte degl’imperi saranno dunque condannato a non esser popolati che d’infelici. Sarà forse questo un decreto irrevocabile della natura, o piuttosto una conseguenza della stranezza delle nostre, leggi e degli errori della nostra politica? Sarà forse impossibile il diminuire le ricchezze degli uni, ed accrescere quelle degli altri, senza urtare i sacri dritti della proprietà, e senza offendere il decoro, della giustizia?

Questo non sembrerà difficile, quando si anderà in cerca delle cause produttive di questo disordine. Chi crederebbe che nel mentre che tutti si lagnano della sproporzione infinita che vi è tra le ricchezze de' cittadini, le nostre leggi cerchino di conservarla e di aumentarla? Non si può dubitare che tutto quello che tende a restringere il numero de' proprietarii in uno Stato, tende nel tempo istesso a garantire a fomentare questa funesta sproporzione. Or questo è l’effetto delle sostituzioni, e de' maggiorati.

Noi vediamo i più vasti domini passare senza alcuno smembramento, durante il corso di più secoli, dalle mani de' padri a quelle de' figli, da primogenito in primogenito, come se le terre fossero indivisibili, e coi né se la stabilità della loro posizione dovesse produrre quella del dominio. In una nazione ove questi maggiorati e queste sostituzioni fossero proscritte, le ricchezze sarebbero senza dubbio molto più equabilmente diffuse. L'eredità del padre, divisa presso a poco egualmente a tutti i figli, farebbe di questi tanti piccioli proprietarii e tanti padri di famiglie, i quali tutti, non avendo un eccessivo superfluo, dovrebbero necessariamente occuparsi a far valere le loro terre; e non bastando queste al loro sostentamento, essi sceglierebbero qualche occupazione che lì garantirebbe dall’ozio e da tormenti della noia. L’agricoltura, la popolazione e l'industria troverebbero il loro vantaggio in questa continua suddivisione de' fondi. Coloro ché:resterebbero senz’altra proprietà che quella delle loro braccia, troverebbero anche il loro interesse in quest'aumentazione di proprietarii. Siccome il prezzo delle opere, non altrimenti che quello di tutti gli altri generi commerciabili, dipende dal numero degli esibitori e dal numero delle richieste, essendo molti coloro che richiederebbero le loro braccia, perché molti i proprietarii e pochi coloro che potrebbero loro offerirle, perché pochi i non proprietarii, il prezzo delle loro opere dovrebbe necessariamente crescere: ciò che permetterebbe loro di godere di quell’agio, senza del quale, come si è osservato, non si può trovar felicità in questa terra.

Che non mi si opponga l’impossibilità d’abolire i maggiorati ne paesi dove ci son feudi. O una famiglia ha un solo feudo, ed allora è giusto che la baronia sia del primogenito, ma i fondi del feudo potrebbero esser divisi egualmente agli altri fratelli. O una famiglia ha più feudi, ed in questo caso, perché non ripartirsi fra tutt’i figli? Non hanno questi un dritto comune all'eredità del padre? Qual principio eterogeneo all'investitura d’un feudo si può trovar nella persona d’un cadetto? Un gran feudatario può più facilmente divenire un oppressore, che un feudatario d'un solo feudo. Aumentandosi dunque il numero de' feudatarii, il principe avrebbe tanti difensori di più in tempo di guerra, ed il popolo avrebbe tanti oppressori di meno in tempo di pace. Ma mi si dirà, che il sistema delle sostituzioni e de' maggiorati è adattato alla natura della costituzione monarchica. Essendovi de' gran proprietarii in uno Stato, il governo trova in essi grandi soccorsi ne suoi bisogni. La corona acquista con questo nuovi gradi di sicurezza, poiché i gran proprietarii delle terre avendo molto da perdere, hanno anche un grande interesse nel conservare il sistema dello Stato. Qual pregiudizio più irritante di questo. Se è vero che la moltiplicità de' proprietarii cagiona la felicità dello Stato, così nel governo monarchico, come in tutte le altre costituzioni; se tutte le classi, tutti gli ordini della monarchia sarebbero ravvivati dalla diffusione delle ricchezze che lo smembramento di queste gran masse produrrebbe; non sarebbe allora una porzione sola de' sudditi, non sarebbero allora questi pochi rami primogeniti quelli che veglierebbero alla conservazione dello Stato, ma tutto il corpo della nazione sarebbe allora impegnato a difendere la sua felicità, e per conseguenza a sostenere la corona sul capo di colui che gliela procura. Qual sicurezza più grande di questa?

Se le sostituzioni e i maggiorati sono dunque contrari alla diffusione delle ricchezze, perché restringono tra poche mani tutte le proprietà dello. Stato, i fondi immensi posseduti dagli ecclesiastici vi si opporranno egualmente per l’istessa ragione. Ne’ paesi della nostra santa comunione, dove il celibato è unito al sacerdozio, tutto il clericato si può considerare come una sola famiglia. Una terza parte, per così dire, de' fondi dello Stato posseduti. da una sola famiglia non restringerà forse all’infinito il numero de' proprietarii in una nazione? Noi l’abbiamo altrove osservato (157).

L’altro impedimento finalmente alla diffusione delle ricchezze è la quantità immensa del numerario che corre da tutte le parti dello Stato nella capitale per restarvi sepolto. Tutto lo splendore delle nazioni europee non si trova( )oggi che nelle capitali. Coloro che le abitano, sono i soli cittadini dello Stato; il resto degli uomini non è che una truppa d'infelici, condannati a passar tutta la loro vita ne’ lavori più penosi, colla sicurezza di non poter trasmettere a loro figli altra eredità che l’abito al travaglio, alle oppressioni, alla miseria ed alle imprecazioni vane d'una rabbia impotente.

Parlando dell’ostacolo che la grandezza immensa delle capitali oppone a progressi dell'agricoltura, noi abbiamo fatto colla maggior precisione vedere quali siano le cause che trasportano in esse tutto il numerario de' popoli. Si osservò che alcune eh queste cause, erano necessarie, molte abusive. Si propose dunque un compenso per 1 prime, ed una riforma per le seconde. Io non ho qui che aggiugnere a quel che si è detto su quest’oggetto nel capo XIV di questo libro. Mi piace per altro d’essere spesso nell'obbligo, per non ripetermi, di dirigere colui che legge a quello che si è detto, o a quello che si. deve dire. Questo mi assicura dell'unità, delle mie idee e dello stretto rapporto de' miei principii.

Esaminate le cause che impediscono nella maggior parte delle nazioni d’Europa l'equabile diffusione del danaro, vediamo ora come, tolte queste di mezzo, si potrebbe facilitare questa diffusione.. Ogni piccolo urto basterebbe. Una legge, per esempio, che nella compra de' fondi desse, caeteris paribus, la preferenza a non proprietarii, è che, nella concorrenza di due compratori entrambi proprietarii, desse sempre la preferenza a colui che possiede una minor quantità di terreno, sarebbe utilissima per facilitare la diffusione delle ricchezze sempre relativa a quella della proprietà. Ma che diremo noi del lusso? Può egli contribuire alla diffusione delle ricchezze? Esaminiamolo.


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CAPO XXXVII

Del lusso

Il lusso, del quale si è detto tanto male e tanto bene da moralisti e; da politici; il lusso, che si ammira e si vitupera; che viene dagli uni considerato come ornamento e come cosa utile, e vien dagli altri proscritto come un vizio; il lusso, al quale la declamazione ha attribuito la decadenza di tanti imperii, e l’industria, la conservazione e i progressi delle arti il lusso che, secondo i volgari raziocina de' bassi politici, fa passare le ricchezze d’un popolo agricola tra le mani d'un popolo manifatturiere, ma che in fatti sostiene l’uno e l’altro, e conserva il commercio tra gli ud mini; il lusso è senza dubbio uno de' grandi istrumenti della diffusione del danaro e delle ricchezze in uno Stato. Se coloro che hanno molto, non spendessero più di quello che hanno, per alimentare il loro lusso, come si potrebbe mai sperare la separazione di queste grandi masse, come si potrebbe mai sperare una equabile diffusione di danaro e di ricchezze in mezzo a queste lagune, ove. di continuo andrebbe a ristagnarsi tutto il numerario de' popoli? Questa verità è stata da infiniti scrittori sviluppata. L’esperienza l'ha dimostrata, e la dimostra tuttavia col fatto. In quelle nazioni dove ci è lusso, malgrado l’esistenza degli ostacoli de' quali si è parlato, le ricchezze sono meglio diffuse che in quelle dove minori sono questi ostacoli, ma dove il lusso è proscritto.

Mi si dirà forse, che se il lusso cagiona questo solo bene, produce tanti altri mali, i quali debbono distorre il legislatore dal ricorrere a questo rimedio per ottenere l'equabile diffusione delle ricchezze che si desidera. Ma esaminiamo un poco quali sono questi mali. Vediamo se tutto quello che i moralisti attribuiscono al lusso, si dovrebbe piuttosto attribuire a costumi; vediamo se il lusso corrompa i costumi, o pure se i cattivi costumi corrompano il lusso; vediamo finalmente ciò che diverrebbe il lusso in una nazione ove i costumi fossero nello stato nel quale dovrebbero essere. Prima d’ogni altro, determiniamo l'idea del lusso, e distinguiamo quale sia il lusso utile e quale il pernicioso.

Il lusso non è altro che l'uso che si fa delle ricchezze e dell'industria, per procurarsi un esistenza piacevole col soccorso de' mezzi più ricercati che possono contribuire ed accrescere i comodi della vita ed i piaceri della società. Una nazione dunque nella quale si osserva un gran lusso, deve senza dubbio contenere grandi ricchezze; se in questa il lusso è comune a tutte le classi de' cittadini, è segno che le ricchezze vi sono ben distribuite, e che la maggior parte de' cittadini ha un certo superfluo da impiegare per la sua felicità: se non si ritrova che in una sola classe, è segno che le ricchezze vi son mal ripartite, ma che se altre cause non cooperano a perpetuare questa funesta sproporzione, essa non durerà lungo tempo, perché il lusso istesso non tarderà molto a distruggerla. Tanto dunque nell’uno, quanto nell'altro caso, il lusso è un bene. Nel primo caso, perché anima l’industria, ispira l’amore della fatica, conserva le ricchezze nello Stato, raddolcisce i costumi, crea nuovi piaceri, eccita un’attività salutare che allontana l'uomo dall'inerzia, sparge da per tutto un calore vivificante, incoraggisce il commercio, e. rende comuni a tutti gli uomini le produzioni e le ricchezze che la natura avara racchiude sotto le acque, del mare, nelle voragini della terra, o che tiene sparse in mille climi diversi. Nel secondo caso il lusso è anche un bene, perché promuove la diffusione del danaro e delle ricchezze, le quali quanto sono desiderabili allorché sono ben ripartite, altrettanto, come si è dimostrato, sono funeste allorché sono ristrette tra poche mani. Il laborioso operaio e l'esperto artista, che non posseggono alcun terreno, possono allora sperare di divenire anche essi proprietarii e ricchi. Il lusso apre la cassa del ricco possidente, e l’obbliga a pagare una tassa volontaria a colui che languirebbe nell'ozio e nella miseria senza questo sprone. Egli raffina, inventa, moltiplica le arti. e i mestieri ravviva gl'ingegni, e incoraggisce nel tempo istesso l'agricoltura giacché i proprietarii, privati dal lusso del superfluo delle loro rendite, Vengono; dal loro interesse determinati a coltivare con maggior diligenza quelle produzioni che. cambiano con altri piaceri. Questa reazione, della quale ogni società sperimenta effetti particolaripuò nello stato presente delle cose contribuire anche alla libertà politica d’una nazione.

Presso un popolo grossolano e rustico, che per lo spirito del secolo non può esser guerriero, e che per difetto di lusso trascura le arti, altra occupazione non si conosce, che la coltura della terra. Tutta la società sarà dunque divisa presso questo popolo in due classi; in quella de' proprietarii de' terreni, ed in quella de' loro vassalli o coloni. La dipendenza di questi ultimi, determinata dalla duca legge del bisogno, deve degenerare in una dipendenza di servitù riguardò a proprietarii de' terreni. Se le violenze di questi sì rendono loro insopportabili, altro, rimedio non esiste. pel popolo non possidente che buttarsi dalla parte del monarca, e di cercare nell'aumento della potestà reale un rimedio contro le violenze dell'aristocrazia. Ecco ciò che è avvenuto in quasi tutte le nazioni d’Europa. Il lusso avrebbe prevenuto questo sconcerto. Diffondendo insieme colle ricchezze le proprietà, avrebbe fortificato il popolo, avrebbe indebolita l’aristocrazia, e non avrebbe alterata la forma del governo.

Il lusso considerato dunque sotto l’aspetto nel quale noi l'abbiamo definito; è sempre un bene; ma può essere un male allorché generalizzandosene troppo l’idea, si crede doversi comprendere sotto questo nome ogni spesa destinata al puro fasto ed alla magnificenza. Il togliere, per esempio, una gran quantità di uomini dalle campagne, un’immensa quantità di cavalli dagli usi dell'agricoltura e. del commercio; per ornare le sale o le stalle de' ricchi; il perdere una quantità immensa di terreni per giardini e per cacce, è un lusso di fasto e di consumazione pernicioso allo Stato. Ma questo non è il lusso del quale io ho data la definizione. Questo è il lusso delle nazioni barbare; questo era il lusso degli antichi baroni ne tempi feroci e poveri della feudalità, e de' principali Prelati. ne tempi della superstizione. Si sa che tanto gli uni quanto gli altri non ardivano di dare un passo fuori de' loro feudi, o fuori delle loro chiese, senza esser seguiti da un numero prodigioso di servi e di cavalli. Un concilio tenuto in Laterano nel 1179 rimprovera. a Vescovi questo fasto oneroso, che obbligava le chiese e i monasteri, per dove passavano, di vendere i vasi d’oro e d’argento per riceverli e trattarli nelle loro visite (158). Questo fasto era cresciuto a segno che i canoni furono, come si sa, nell’obbligo, di limitare il seguito di ciaschedun Prelato. Quello degli Arcivescovi fu ridotto a cinquanta cavalli, quello de' Vescovi a trenta, quello de' Cardinali a venticinque. Io lo ripeto questo è il lusso delle nazioni barbare, contro del quale la filosofia e la ragione non potranno mai bastantemente declamare, e dal quale il legislatore dovrebbe distogliere gli uomini non co' diretti rimedii delle suntuarie leggi, ma con altri mezzi che il rispetto dovuto a sacri dritti della libertà e della proprietà gli permetterebbe d’impiegare.

Data la vera idea del lusso, e distinto il lusso utile dal lusso pernicioso, vediamo ora se è vero che il lusso possa corrompere i costumi come i moralisti lo pretendono, o pure se i cattivi costumi possano corrompere il lusso.

I costumi d’un popolo consistono nell'abito di regolare le azioni secondo l'opinione. Vera o falsa giusta o erronea, che sia quest’opinione, è sempre la norma unica delle azioni del popolo. Regolando tutte le sue azioni secondo quest'opinione, egli regola anche con essa la maniera di far uso de' suoi beni. I costumi dunque sono quelli che determinano e dirigono il lusso in una nazione. Se i costumi sono buoni, il lusso sarà quale deve essere; se i costumi saranno corrotti il lusso lo sarà egualmente. Se, per esempio, la perfezione de' costumi, o, che è l’istesso, se l’opinione che regola le azioni de' cittadini, e il governò che la dirige, dà della distinzione a coloro che si consacrano al bene della patria, il lusso di questa nazione sarà un lusso di beneficenza, sarà un lusso tutto patriottico. In questa nazione un cittadino ricco non si farà un oggetto di lusso di collocare ne’ suoi giardini un gruppo osceno di Bacco e di Venere, ma memore dell'impressione che fece nell'anima di Temistocle il monumento innalzato in Atene ad Aristide vittorioso, egli farà piuttosto scolpire da una mano, maestra la statua d’un suo concittadino benemerito della patria, per eternarne il nome, e per mostrare a tutta la nazione ciò che si deve essere per meritarne la riconoscenza. Una strada pubblica da riparare pel comodo del commercio, una maremma da asciugate, una nuova arte da introdurre, un talento da produrre, saranno tanti oggetti di lusso per un cittadino ricco in questa nazione. Questo in fatti è stato il lusso che ha allignato in tutti i paesi della libertà, della virtù e delle ricchezze; questo sarà il lusso che si vedrà risplendere nelle colonie Anglicane, subito che la pace, se sarà unita ad una felice costituzione, permetterà loro di godere de' frutti della loro libertà, delle loro virtù e del loro commercio. Ma se al contrario i costumi sono corrotti in. una nazione; se ogni idea di virtù, ogni sentimento di patriottismo si è perduto in un popolo; se l'opinione che ne regola le azioni, accorda della distinzione a coloro che si sono dati in preda all'ozio ed alla mollezza, il lusso di questa nazione prenderà allora l’impronta de' suoi costumi. Là il cittadino che ha tanto quanto appena gli basta per poter vivere senza bisogno di ricorrere alle sue braccia, si farà un oggetto di lusso di portar lunghe le sue unghie per palesare il suo ozio; la il lusso si perderà tutto nel serraglio; la finalmente il numero delle concubine e degli eunuchi deciderà delle facoltà di ciaschedun cittadino e de' gradi di rispetto e di considerazione che gli si debbono. Questo è il lusso d’una gran porzione dell'Oriente.

Non bisogna dunque confondere la causa cogli effetti. La corruttela de' costumi cagiona la corruttela del lusso, ma non può mai il lusso corrompere i costumi. Egli non può della maniera istessa snervare il coraggio di una nazione. Questo male, che i moralisti hanno anche attribuito al lusso, non è altro che un effetto della corruttela de' costumi, la quale, nel tempo istesso che corrompe il lusso, ammollisce gli animi, e rende gli uomini incapaci di reggere alle penose fatiche della guerra. le arti non snervano né lo spirito né il corpo; l’industria al contrario, che è una conseguenza necessaria del raffinamento delle arti, dà nuove forze all’uno e all’altro. Gli Ateniesi lussuosi non trionfarono forse tante volte della frugalità degli Spartani? La Francia, più lussuosa di quel che è oggi, non fece forse tremar l’Europa sotto Luigi XIV? Qual differenza si può fare tra un Saint-Hilaire, che ferito gravemente: mostra al figlio il gran Turenne perduto per la patria, e il padre d'uno Spartano che corre nel tempio a ringraziare i numi che il figlio sia morto difendendo la patria? La nazione più lussuosa dell’Europa non ha forse risvegliato in noi la memoria del valore de' suoi barbari padri? L’Inghilterra non ha forse veduto nascere sotto, il suo cielo una quantità prodigiosa di uomini che avrebbero oscurato il nome di tutti gli eroi dell'antichità, se questi avessero come essi combattuto sul mare? L’Oceano è stato tante volte il teatro di azioni molto più coraggiose di quelle che si videro in Platea, in Maratona ed alle Termopile. No: il lusso non toglie niente al coraggio, alla forza, al vigore, quando i costumi non si sono ancora corrotti in una nazione. Egli è un bene che non può produrre alcun male, senza il concorso di altre cause. Dipendente da costumi della nazione, il legislatore non ha che a dirigere questi per dirigere il lusso. Se egli vuole che la sua nazione non sia composta né di feroci Spartani, né di molli Sibariti; se vuole evitare questi due estremi; se vuole che l’amore della fatica si conservi in essi insieme co’ comodi della vita e co’ piaceri della società; se vuole finalmente che il lusso sia, quale deve essere, l’anima dell’industria, e il distributore delle ricchezze nazionali; che crei e perfezioni i costumi della società che dirige, che si ricreda una volta: dell'inefficacia di tutte quelle leggi suntuarie che offendono la libertà del cittadino, e che per lo più non sono state dettate dall'amore del bene pubblico, ma piuttosto da quella passione illimitata che hanno coloro che sono alla testa degli affari, di regolare tutte le azioni de' cittadini, e che fa loro riguardare gli uomini come tanti fanciulli che bisogna condurre per mano, e non cerne tanti esseri intelligenti che debbono esser regolati co' lumi della ragione; che si persuada, che se si vuole regolare il lusso celle leggi, egli deve. esporre i suoi codici alle vicende della moda. Se egli proibisce oggi un genere di lusso che crede pernicioso, domani questo lusso uscirà di moda, e dovrà proibirne un altro che gli sarà sostituito. L’immaginazione inquieta, ed irritata dalle proibizioni correrà sempre innanzi alle leggi. Esse diverranno tante ordinanze arbitrarie e particolari, rinascenti in ogni istante, e destruttive del decoro del legislatore, il quale, ad esempio della Divinità, deve regolar gli uomini con leggi generali e conformi all'ordine. Esse diverranno un oggetto di disprezzo e di derisione; esse finalmente rovineranno spesso la propria industria dello Stato e il proprio commercio, distruggendo la loro connessione coll'industria e col commercio delle altre nazioni, per lo spavento mal fondato d'un lusso passivo, come una costante esperienza ce lo ha dimostrato. Che non tema dunque mai i progressi del lusso, qualunque essi siano, finché la disciplina si conserverà in tutti gli ordini della società; questo non deve esser considerato che come una molla necessaria all'opulenta dello Stato, e come il risultato del ben essere della nazione.

Ci sono stati molti politici che si sono scagliati in generale contro il lusso passivo, e che han creduto il solo lusso attivo essere un bene per una nazione. Alcune riflessioni mi si presentano in questo punto su quest'oggetto. Esse contengono alcune verità che i legislatori non dovrebbero ignorare. Io mi fo un dovere di svilupparle.


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CAPO XXXVIII

Del lusso attivo e del lusso passivo e de' casi ne’ quali il lusso passivo

è un bene e il lusso attivo un male per una nazione

Un errore universale, adottato dà quasi tutti gli scrittori economici del secolo, mi obbliga ad una digressione la quale non è tutt'aliena dagli oggetti che ho presi di mira in questo libro. Anche dagli scrittori che si dichiarano in favore del lusso, si declama contro il lusso passivo, come quello che manda fuori dello Stato le ricchezze reali per introdurvi le ricchezze che sono di puro lusso, come quello che alimenta l’industria straniera, come quello finalmente che nuoce alle arti e alle manifatture nazionali, per la concorrenza di quelle delle altre nazioni sempre preferite dal lusso.

Quest’invettiva troppo generale contro il lusso passivo è un errore, il quale non può essere che l’effetto dell’ignoranza de' complicati rapporti degl’interessi delle nazioni tra loro, e delle circostanze particolari de' diversi popoli che abitano la superficie del globo. Contro quest’errore io cerco di prevenire i legislatori in questo capo, pregando coloro che leggeranno questo libro, di non accusarmi d’essermi innalzato un altare di nubi sistematiche, innanzi al quale io immoli tutti gl’ingegni che si sono finora consacrati allo studio delle cose utili al genere umano, credendomi solo incaricato d’una missione espressa per rivelare a popoli, quali siano i principii della loro felicità, quali le strade occulte che possono condurveli. Una presunzione così irritante non può allignare nell'anima d’un filosofo, il quale si dichiara tenuto a tutti coloro che hanno scritto e pensato priora di lui. Ma la politica, l'economia, la legislazione fono teorie complicatissime, nelle quali è facile l’inciampare negli errori, allorché se ne vogliono troppo generalizzare le idee, la bontà delle quali, come si è detto, è tutta relativa, è tutta di rapporto. Questo è stato il difetto di coloro che si sono dichiarati contro il lusso passivo in generale, senza osservare che questo lusso, che si alimenta coll'industria straniera non solo non è sempre un male, ma che per alcune nazioni potrebbe essere il sostegno unico delle loro ricchezze e della loro prosperità.

Per persuadersene, bisogna sapere che ci è un termine che la quantità del numerario non può oltrepassare in una nazione, senza cagionare la rovina della popolazione, dell'agricoltura, delle arti e del commercio. Supponiamo, per esempio, che una nazione che è in possesso o di miniere abbondanti, o di una bilancia molto vantaggiosa di commercio, voglia sottrarsi dalla dipendenza delle altre coll’introdurre tutte le arti, tutte le manifatture, tutte le derrate che possono servire alla sua interna consumazione, proscrivendo l’immissione di tutto quello che potrebbe venirle dagli stranieri, e che potrebbe mandar fuori dello Stato una porzione del suo numerario: quale sarà, io domando, la sorte di questa nazione? Purché uno sconvolgimento della natura non oppili le sue miniere, o purché un turbine politico non distrugga il suo commercio, purché l’ambizione del suo Re, o la sua propria sicurezza non l'obblighi a spesso mandar fuori dello Stato un esercito che consumi una porzione de' suoi metalli, la quantità del numerario crescendo di continuo in questa nazione, ne diminuirà a tal segno il valore, che il prezzo, cosi delle opere, come delle derrate, diverrà così superiore a quello di tutte le altre nazioni, che i suoi cittadini, trovando molto più i loro vantaggi nel comprare le derrate e le manifatture straniere che le proprie, consumeranno quelle, ed allora gli agricoltori, gli artieri e i manifatturieri del paese, non potendo reggere alla concorrenza degli stranieri, abbandoneranno i loro fondi, le loro arti e le loro manifatture; allora essi saranno costretti a disertare dalla patria, che non offre loro che la povertà e l’indigenza; allora finalmente tutto il numerario uscirà fuori dello Stato per essersi troppo moltiplicato, e per non avere avuto uno scolo opportuno al suo superfluo. Questa è la catastrofe infelice delle disgrazie che sovrastano ad una nazione nella quale il numerario si è troppo moltiplicato.

Che non si speri di poterle prevenire col soccorso delle leggi proibitive, sempre più deboli delle leggi della necessità. Malgrado le pene le più severe minacciate contro gl’introduttori delle mercanzie straniere, malgrado tutte le spie e tutte le guardie che si potrebbero impiegare per impedirne l’immissione, il beneficio d’introdurle, allorché sarà considerabile, li starà per corrompere tutte queste spie e tutte queste guardie, basterà per rendere inutili le minacce della legge, e basterà per fare de' ministri stessi delle finanze i principali complici delle clandestine immissioni. L'Inghilterra, la Spagna e tutti i paesi del mondo ce ne offrono delle prove (159).

Il male è dunque irreparabile, allorché la quantità del numerario è esorbitantemente cresciuta in una nazione. Si appartiene alla politica il prevenire quest’eccesso col dare uno scolo al superfluo che potrebbe produrlo. Or per una nazione, la quale al vantaggio d’essere in possesso o di miniere abbondanti d’oro e d’argento, o d’una bilancia molto vantaggiosa di commercio, unisce quello d’avere un terreno bastantemente fertile, atto a provvedere abbondantemente la sua interna consumazione delle derrate di prima necessità; per una nazione, io dico, di questa natura, io non saprei trovare uno scolo opportuno pel superfluo del suo numerario, fuori del lusso passivo. Dove altrimenti cercarlo?

Cercarlo nella guerra, sarebbe un errore contrario a tutti i principii della morale e della politica. La guerra allorché non è unita 0 agli stretti dritti della difesa, o a sacri doveri dell’alleanza, è un’ingiustizia che niuna causa può legittimare; la guerra non consuma solo il numerario, ma consuma anche la popolazione; la guerra finalmente, in un secolo nel quale tutte le nazioni cercano la pace, non farebbe altro che riunirle tutte contro quella che ardirebbe di turbarla.

Cercarlo nella consumazione delle derrate straniere di prima necessità, sarebbe l’istesso che mettere la nazione nella dipendenza delle altre; sarebbe l’istesso che rendere precaria la sua sorte, ed incarta la sua felicità; sarebbe l’istesso che distruggere l’agricoltura, la quale deve sempre esser considerata come il primo sostegno della prosperità de' popoli.

Cercarlo nel mantenimento d’una marineria considerabile, sarebbe cercarlo ih un mezzo troppo utile, ma che tutt’altro beneficio può produrre, fuori di quello che si cerca. O questa marineria è destinata a garantire ed a promuovere il commercio, ed allora vive a spese del commercio; o è destinata a difendere le spiagge della nazione, ed allora si alimenta colle derrate della nazione. Né nell’uno né nell’altro caso può dunque esser considerata come uno scolo al superfluo del numerario. Dovunque noi volgeremo lo sguardo, noi non potremo dunque trovarlo che nel lusso passivo. Questo salasso opportuno alla pletoria, dalla quale è minacciata la nazione; questo scolo, che si può oppilare e riaprire a misura che le circostanze lo richiedono; questo canale di comunicazione che anima il commercio, e somministra una dipendenza libera e volontaria tra questa nazione e le altre, dev'esser considerato come il garante unico che la politica offre alla prosperità d’un paese, il quale è nei caso di lo mere la sua rovina per l’esorbitanza delle sue ricchezze.

Osservando con criterio i veri interessi delle due nazioni europee, le quali sono precisamente nell'ipotesi da noi premessa, ci persuaderemo anche meglio di questa verità. La Spagna ed il Portogallo sono quelle due nazioni nell'Europa, le quali al vantaggio d'essere in possesso di miniere abbondanti d’oro e d’argento riuniscono quello d’avere un territorio bastantemente fertile, atto a provvedere la loro. interna consumazione delle derrate necessarie alla vita. Per quello che riguarda la Spagna, niuno ardirà di negarmi che questo sia di tutti gli Stati dell’Europa, e forse anche dell’universo, quello che la sua situazione naturale, i suoi proprii fondi e i suoi domini in America potrebbero rendere il più ricco; quello che potrebbe colla maggior celerità accumulare una maggior quantità d’oro e d’argento; quello finalmente che potrebbe pervenire più presto di tutti a quel periodo d’opulenza, a quell’eccesso di ricchezza che, distruggendo, come si è dimostrato, l’industria, l’agricoltura e la popolazione, riconduce l’indigenza, e fa che lo Stato succumba sotto il peso de' suoi tesori.

Supponiamo che la fertilità del suo terreno fosse soccorsa da una buona coltura, e che la Spagna s’adattasse a manifatturare tutte le sue materie prime; l’Europa in questo caso si vedrebbe inondata in poco tempo, secondo l’espressione d’un Autore accreditato (160), da suoi grani, da suoi vini, da suoi liquori, dal suo sapone, da suoi olii, da suoi frutti, dalle sue stoffe di lana e di seta, dalle sue tele, dalle sue manifatture d’oro e d’argento, di ferro e di acciaio, nel mentre che la sua pesca basterebbe alla sua consumazione, e che per mantenere la più gran marina, non avrebbe a cercare fuori di sé che l’alborame che il Nord potrebbe offerirle.

Se la Spagna dunque non avesse alcun dominio nell’America, se essa volesse comprimere tutte le molle dell’industria della quale è suscettibile, se volesse aprire tutte le sorgenti delle sue ricchezze, potrebbe con questo solo essere una delle nazioni più ricche dell'Europa, e potrebbe conservare una bilancia sempre vantaggiosa di commercio. Ma potrebbe essa nella sua situazione presente conservare questo spirito d’industria, potrebbe essa seguire questo piano che abbraccia tutt'i rami dell'industria umana, potrebbe conservare questa bilancia sempre vantaggiosa di commercio nell’Europa in mezzo agli ottanta milioni (161) che riceve in ogni anno dalMessico e dal Perù? Non volendo essa considerare l’oro e l’argento che le viene dall’America, come un genere di mercanzia; non volendo considerar questi metalli come un oggetto di permuta, come ùn prodotto del suo suolo, volendoli lutti ritener dentro di sé; promuovendo non solo tutte le derrate che il suo suolo può produrre, ma anche tutte le arti e tutte le manifatture che potrebbero servire alla sua consumazione ed al suo lusso; in questo caso la Spagna non si troverebbe forse tra lo spazio di quarant’anni al più un numerario nella sua circolazione che eccederebbe di più di due terzi quello di tutte le altre nazioni, e che sarebbe altrettanto eccessivo, in quanto che. tutte le altre nazioni industriose si troverebbero in riguardo suo in una povertà relativa? Or la sua condizione non diverrebbe allora quella d’un popolo che la sua esorbitante opulenza riconduce alla più estrema povertà le sue derrate, le sue manifatture cresciute all'infinito di prezzo per l’avvilimento del suo numerario, come potrebbero allora resistere alla concorrenza di quelle delle altre nazioni, le quali verrebbero ad offerirgliene ad un prezzo tenuissimo? Chi potrebbe impedire allo Spagnuolo mangiare, di bere, di vestire, di non consumare, in una parola, altro che le derrate e le mercanzie straniere che potrebbe pagare due terzi meno delle proprie? Tutti i suoi tesori non uscirebbero allora dallo Stato preceduti dalla rovina intera dell’agricoltura e dell’industria? Giacché dunque è impossibile alla Spagna di vendere il prodotto intero delle miniere del nuovo mondo; giacché essa deve necessariamente dividerlo col resto dell’Europa; giacché tutta la sua polizia deve tendere a conservarne una porzione bastante a far pendere la bilancia dal canto suo, e a non rendere i suoi vantaggi eccessivi, per renderli permanenti; giacché la pratica delle arti di prima necessità, e l'abbondanza e l’eccellente qualità delle sue produzioni naturali le bastano per ottenere questa superiorità; giacché finalmente la Spagna non può dare uno scolo all’eccessiva quantità dell’oro e dell’argento che le viene dal Perù e dal Messico, senza rinunciare a tutte le arti e le manifatture che non servono immediata mente alla sua coltura; chi potrà non vedere nel lusso passivo l’unico istrumento necessario alla sua prosperità ed alla sua conservazione? l’unico preservativo contro l’avvilimento del suo numerario, l’unico scolo all’esorbitanza de' suo tesori.

L’istesso si deve dire del Portogallo. Se il suo terreno fosse ben coltivato; se il difetto della sua popolazione non ne lasciasse in, ozio una porzione, il Portogallo non avrebbe bisogno d’alcun’altra nazione per provvedere a suoi bisogni di prima necessità. Ci sarebbero anche de' generi, de' quali egli abbonda, e che potrebbe permutare con quelle derrate che gli mancano. Il suo commercio coll'Indie Orientali e sulle coste dell’Africa, quando fosse ben regolato, potrebbe essere anche una sorgente di ricchezze abbondantissima. Finalmente indipendentemente dagli altri prodotti del Brasile, col soccorso de’ quali egli potrebbe sostenere un gran commercio di proprietà nell'Europa, il Portogallo riceve in ogni anno sessanta milioni (162) dalle sue miniere. Queste sorgenti abbondantissime di ricchezze, quando non fossero state oppilate e parte traviate dalla stranezza delle leggi, dagli errori dell'amministrazione e dal monopolio degl'Inglesi; quando un governo illuminato le riaprisse tutte in beneficio dello Stato, ci mostrano bastantemente la necessità che avrebbe il Portogallo di sostenere un lusso passivo, per l’istesso ragioni per le quali si è dimostrato esser questo lusso necessario alla Spagna.

Io spero dunque d’aver con bastante evidenza dimostrato l'errore di que’ politici, i quali si scagliano con molto furore e con poca riflessione contro il lusso passivo in generale, senza esaminare le circostanze particolari de' diversi popoli, le quali sogliono per lo più distruggere le regole troppo generali della politica. Ma essendo questa una verità poco conosciuta, io mi veggo nell’obbligo di prevenire due obiezioni che mi si potrebbero fare. La prima di queste tende a distruggere quello che si è detto riguardo alla Spagna.

La Spagna, mi si dirà, sotto il governo di Carlo I e di Filippo li suo figlio, possedeva in America miniere così abbondanti, come le possiede oggi; la Spagna provvedeva co' suoi prodotti le sue colonie; la Spagna faceva il più gran commercio nell'Indie Orientali e nell’Europa; la Spagna non solo alimentava il suo lusso coll’industria straniera ma alimentava il lusso straniero colla sua industria; la Spagna, secondo quel che ce ne dice il celebre D. Gironimo de' Ustaris, numerava sessantamila ordegni da seta nella sola città di Siviglia. I drappi di Segovia e quelli di Catalogna erano i più belli dell'Europa, ed erano i più ricercati: le sue fiere erano frequentate da tutt'i negozianti dell'Europa. Nella sola fiera di Medina, per quel che si legge, in una memoria drizzata a Filippo li da Luigi Valla della Cerda, si negoziava in lettere di cambio per un valore di più dì centocinquanta milioni di scudi; e pure la Spagna non è forse mai stata così popolata, come fu allora: i suoi terreni non erano stati mai meglio coltivati; la sua industria non è stata mai spinta tant’oltre; la sua opulenza finalmente non ebbe allora bisogno del lusso passivo da noi creduto così necessario per questa nazione.

Questi fatti son veri, ed io non ardirei di contrastarli: ma essi non formano tutta intera l’istoria della Spagna sotto questi due regni. Essa non ebbe bisogno del lusso passivo, io lo concedo; ma perché? Perché ebbe lo scolo della guerra e dell’ambizione de' due principi che la governavano. Ricordiamoci per poco le spese infinite che questi due principi fecero fuori dello Stato. Carlo V, sempre in viaggio e sempre in guerra, sparse delle somme immense nell’Alemagna, in Italia ed in Africa.

Egli fece durante il suo regno cinquanta viaggi, le rendite della corona uscivano quasi interamente dalla Spagna per provvedere a bisogni ed all'ambizione d’un principe che, e per lo spirito di conquista, e per fa corona imperiale che portava sul capo, era sempre fuori dello Stato. Allorché egli mandò il suo figlio in Londra per isposare la regina Maria e prendere il titolo di Re d’Inghilterra, egli rimise alla Corte di Londra ventisette gran casse d’argento in barra, e il carico di cento cavalli d’oro e d’argento coniato. Ricordiamoci finalmente che le celebri miniere del Potosi non furono scoperte che pochi anni prima della fine del turbolento suo regno. Per quel che riguarda poi il regno di Filippo II, si sa che. questo principe sostenne nel tempo istesso fa guerra ne’ Paesi Bassi contro il principe d’Oranges; in quasi tutte le provincie della Francia contro Arrigo IV in Ginevra e negli Svizzeri, e per mare contro gl’inglesi e gli Olandesi? La sua flotta di cento cinquanta navi che fu spedita contro gl’inglesi, e che ebbe un esito così infelice, non fu una perdita indifferente per fa sua nazione. Il suo dispotismo ne’ Paesi Bassi, e fa sua ambizione in Francia gli costarono più di tre mila milioni di lire di computo. Qual meraviglia dunque che fa Spagna non avesse avuto in questo tempo bisogno del lusso passivo, per prevenire quella soverchia opulenza che suol produrre fa rovina dell’agricoltura, dell’industria e della popolazione? Se si riducessero a calcolo queste somme immense sparse da questi due principi fuori dello Stato, si troverebbe la somma molto superiore a quella che potrebbe estrarne il più gran lusso passivo che si possa ideare (163).

L’altra obiezione che mi si potrebbe fare, riguarda l’Olanda. Se l’Olanda, si dirà, non ha miniere d’oro e d’argento, come la Spagna e il Portogallo, essa è in possesso d’un commercio d’economia, il quale è per questa repubblica una sorgente di ricchezze niente inferiore a qualunque ricca miniera. La bilancia sempre vantaggiosa del suo commercio accresce in ogni anno la somma del suo numerario.

Niuno ignora che questo è il paese dell’Europa nel quale si vede una maggior quantità di danaro: e pure l’Olanda non ha perduto il suo spirito d’economia in mezzo a suoi tesori; la sua opulenza non ha avuto fin ora bisogno del lusso passivo. Non è questa dunque una pruova che ci fa presumere che la Spagna e il Portogallo potrebbero similmente conservarsi senza questo rimedio? No: l'Olanda non ha niente di comune con queste due nazioni. La sua costituzione, il suo suolo, la natura del suo terreno, il principio delle sue ricchezze, tutto è diverso. La Spagna ed il Portogallo hanno non solo di che provvedere la loro interna consumazione co' prodotti del loro suolo, ma hanno, anche un superfluo da barattare. L’Olanda al contrario non può nudrire neppure la terza parte de' suoi cittadini co' suoi prodotti. La Spagna ed il Portogallo fanno un commercio di proprietà, e l'Olanda non fa che un commercio d’economia. Or chi non sa che il sostegno unico di questo commercio è la frugalità di coloro che. lo fanno? Noi l’abbiamo altrove osservato. La Spagna ed il Portogallo non hanno ancora dato danaro in prestito alle altre nazioni, e l’Olanda ha impiegato delle somme immense ne fondi pubblici di Francia, d’Inghilterra e d’alcune altre nazioni. Si fa il conto che le guerre che le Provincie Unite han sostenute dopo la pace di Rvswvck, e le sole somme che esse hanno impiegate ne fondi pubblici di Francia e d’Inghilterra prima della presente guerra co' suoi coloni, hanno fatto uscir fuori dell'Olanda più di cinquecento milioni di lire. Ma malgrado tutti questi scoli che il numerario dell'Olanda ha sofferti, malgrado lo scolo continuo e necessario che la piccolezza del suo suolo e la sterilità del suo terreno le aprono; malgrado l’economia che la natura del suo commercio richiede; malgrado tutto questo, io dico, l’Olanda non ha dovuto forse rinunciare al beneficio delle sue manifatture? Il prezzo troppo caro della mano d’opera che l’avvilimento del suo numerario ha prodotto, non ha forse obbligato i suoi cittadini a vestire le tele e le stoffe dell'Indie? Non ha forse essa adottata questa specie di lusso straniero, che la sua opulenza ha reso necessario? Niente dunque ci deve distogliere dal credere il lusso passivo necessario per alcune nazioni.

Questi sono tutti i principii, queste sono tutte le verità che ho creduto doversi sviluppare in questa parte della Scienza della legislazione, che riguarda le leggi politiche, ed economiche. Il loro oggetto, come si è osservato, altro non deve essere se non quello di moltiplicar gli uomini, e di provvedere alla loro sussistenza, richiamando le ricchezze nello Stato, conservandole e distribuendole colla minor possibile disuguaglianza. Ma ho io corrisposto a quest'oggetto in tutta la sua estensione? Ho io in questa parte della mia opera rivelati sempre nuovi arcani, scoperte sempre nuove verità, contrastati sempre errori sconosciuti? Posso io gloriarmi d’essere stato il primo ad esaminare tutte le cause che producono la miseria de' popoli, ed a proporre i mezzi proprii per estirparle? No: io non ho fatto altro che portare una fiaccola di più in questa caverna tenebrosa, ove giacciono i mostri divoratori delle nazioni. Se questo nuovo lume può contribuire a far maggiormente conoscere il loro numero, la loro forza, la loro relativa dipendenza; se qualche mostro rannicchiato in qualche antro più interno di questa caverna, viene con questo nuovo lume è scoprirsi; se l'illusione che aveva fatto prendere tante ombre per corpi, e tanti corpi, per ombre, viene da questa nuova fiaccola dissipata, io posso esser troppo contento delle fatiche e de' rischi a quali mi sono esposto.

Il filosofo deve esser l'apostolo della verità, e non l’inventore de' sistemi. Il dire che tutto si è detto è il linguaggio di coloro che non sanno cosa alcuna produrre, o che non hanno il coraggio di farlo. Finché i mali che opprimono l'umanità, non saranno guariti; finché gli errori e i pregiudizii che gli perpetuano, troveranno de' partigiani; finché la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla più gran parte del genere umano, finché apparirà lontana da troni; il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, d’illustrarla. Se i lumi che egli sparge, non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte l’età, l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli.

FINE DEL VOLUME II


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NOTE

1 Giovanni Selleno dei Diritto della natura e della genti secondo la disciplina degli Ebrei, lib. V cap. VI.

2Basta leggere nella Bibbia listoria delle guerre di questo popolo per persuader deleccessiva sua popolazione. Noi abbiamo nel lib. 1. de' Paralip. XXI. 5 6. che i combattenti, toltone le trib di Levi e di Beniamino, erano 1, 470, 000.

Supponendosi dunque in queste due tribù un numero uguale d’Ebrei idonei alla guerra, bis gin dire che questo popolo aveva 1, 961, 000 persone in istato di portar l'armi, lo che suppone una popolazione di 6, 764, 000 uomini. Quella popolazione ci sembrerà altrettanto straordinaria, quando osserveremo che la Palestina, per quel che ne dice il dotto Templan. non è d’estensione che la sesta parte dell'Inghilterra. B ‘Sta leggere la descrizione, che ci fa Giuseppe Ebreo (lib, 3. de' Bello Jud. c, 3. ) del a G. dilea, per convincerci della meravigli sa popolazione della Palestina. Leggasi anche ciò che ne dice Dione Cassio lib. LXIX.

3Tifeasi dh kai oi basileij alla polupekniaj kat utoj. Strab. lib. XV. Pag. 73.

4 Lib. I. Cap. CXXV.

5 Nomoudetai polupaidiaj etaxar gera kai andri kai gunaiki kai apaidian epizhmion patejhsan. Leg. Muson apud Stoebaeum serm. LXXIII.

6Io non so come queste riflessioni sieno sfuggite dalla penna del celebre Montesquieu.

Che si rifletta però che io ragiono qui sulle massime dei Greci, i quali non guardarono mai il celibato cogli occhi della religione.

7 Dinarchus Invertiva in Demosth.

8 Nomoj eji Hpartiataij ton parascomenon uiuj treij ateleian ecein fruraj ton de' pente paswn twnleiturgùn ofestai. AElian. var, hist. Lib. VI. cap. VI.

L’istesso riferisce Aristotile, colla differenza che egli credeva, che bastassero anche quattro figli per esentare un cittadino da tutti i pesi della Repubblica. Arist. lib. II. Politic. Cap. IX.

9 A’qhnaioi porison agamiu grafin para dh Dacedaimoniuj kai oqigamiou. Julius Pollux in Onomastico lib. VIII. cap. VI.

10le leggi Romane non lasciarono di mettere ostacoli a quest’istessi disordini. Uno de' capi della legge Papi a Poppea, della quale si parlerà in appresso aveva quest’oggetto: sexagenario masculo; quinquagenariae feminae nuptias contrahere jus ne esto, Leggasi Eineccio ad leg. Jul. et Papiam Popp. comm, lib. X. cap. V. p. 81. 82.

Nel SCto Prisciano si stabilì anche, ut sexagenarii et quinquagenariae, licei infermi matrimonium, poenis tamen caelibatus subtini perpetuo. Eineccio ivi.

11 Plutarchus in vita Lycur. Lo stesso autore ci apporla un fatto dal quale si può dedurre che all'altre pene minacciate in Sparta contro il celibato, vi si aggiugneva quella di privare il vecchio celibe di quegli ossequj che la gioventù gli doveva. Pervenendo in una picciola assemblea un vecchio e rinomato Capitano, un giovane che vi si trovava, non volle cedergli il banco sul qual era seduto, dicendogli: Tu non me ne hai sostituito uno, che debba un giorno a me cederlo: Ou de' gar emoi su ton upeixonta gegennhtaj. Questa risposta arrogante non solo non fu punita, ma fu applaudita: tanto era il disprezzo che si aveva in Sparta per i celibi. Plut. Ivi.

12 Athen. lib. XIII. p. 555.

13O i leutaj atknoj; MDiamen, alla kataleipo duo qugateraj thn te en Leuktruij nikhn tai phien Mantinea. Diodor. Sic. lib. XV. cap CXXVII.

14 La moltiplicità delle colonie Greche stabilite sulle coste dell’Italia, dell’Asia, e dell’Africa, nel difetto di qualunque altra prova, ci dovrebbero bastare per farci conoscere la saviezza delle leggi de' Greci dirette alla moltiplicazione della specie. Dione (lib. XII) e Tucidide lib. III) ci dicono, che i Trachimensi avendo perduti molti cittadini, non ebbero a far altro che ricorrere a Sporta loro Metropoli per ottenerne 10, 000, e riempir cosi il vuoto della loro popolazione; e Plutarco (nella vita di Timoteo ne) ci dice, che Timoleone, avendo coesisto Dionisio da Siracusa, ed avendo trovata questa città, e quelli di Selinurzio, estremamente spopolate, invitò i Greci a stabilirvisi, e subito trovò 60, 000 persone, che ne accettarono l'offerta. Una madre, che ha pochi figli, non ne dà sicuramente ad altri.

15 Gell. lib. XVII, cap. VI.

16 Dionis d’Alic. lib. II. pag. 96.

17 Vib. 1. cap. XII.

18 Dion. Lib. LVI.

19 Era costume presso i Romani che le novelle spose, nel mentre che si faceva il sacrificio a Giunone Da protettrice le le nozze, ne toccassero l’ara; onde ne venne, che tangere aram Junonìs et nubere erano la cosa istessa. Numa dunque per allontanare le donne dalla prostituzione, volle che colei, che si fosse anche per una sola volta prostituita con un marito altrui, non potesse partecipare a quest’onore, se prima non avesse offerto un sacrifizio diallattikon cioè d'espiazione a questa Dea, vestita in abito di lutto, e colla maniera la più umiliante del mondo. Leggasi Einecc. nel suo Comm. ad leg. Juliam et Papiam Poppaeam lib. 1. cap. II. le parole di questa legge di Numa ci sono state tutte conservate da Festa: Pellex aram Junonis ne tagito; sei tagit, Junonei crenebis demiseis acnon. faeminam caeclito. Leggasi Feste nella voce pellex.

20Egli volle che un padre, che aveva dato ad un figlio il permesso di ammogliarsi, non avesse pi il diritto di venderlo. Queste sono le parole di Plutarco: apathr uion sugcrhsei gunaika agagesqai meiketi thn exusian einai t patri plein ton uion. Plutarc. in Numa pag, 71. Non ci vuol molto a vedere quanto questo stabilimento dovesse muovere i figli ad ottenere da padri il permesso di ammogliarsi.

21 Leggasi Festo nella voce uxorem. Censores, dice Valerio Massimo, illos onines, qui ad seneclutem caelibes pervenerant, A E. R. A. poene nomine aerarium deferre jussisse. lib. II. C. IX.

22 Animadvertimus, dice Geliio, in oratione P. Scipionis, quam censor habuit ad populum infer ea, quae reprehendebat, quod contra majorum instituta fiereni, id etiam euni culpasse, quod filius adoptivus patri adoptatori inter praemia patrum prodesset. Gellio lib. V. cap. XIV.

23La prima dimanda, che si faceva a coloro, che si presentavano per far giuramento, era questa: ex animi lui sententia, tu equum abes, tu uxorsm habes? Su la tua fede, ci assicuri tu davere un cavallo, di avere una moglie? Senza questo doppio requisito la legge credeva, che non si potesse prestar fede a colui che giurava.

24Si parla de' tempi della decadenza della Repubblica. Leggasi laringa dAugusto rapportata da Dione (lib. 46. ) nella quale egi rimprovera il libertinaggio de' Romani.

25Tutti gli scrittori antichi ci dicono che vi era un'immissione continua di schiavi in Roma, che venivano dalla Siria, dalla Cilicia, dalla Cappadocia, dall'Asia minore, il dia Tracia, e dallEgitto. rabone (lib. 14) ci dice, che a Deo in Cilicia furono venduti diecimila schiavi in un solo giorno.

Un tristo avvenimento fece conoscere, che un solo palazzo in Roma conteneva 400 schiavi. Questi furono messi a morte per non aver impedito Passassimo del loro padrone. Tacito annaL lib. 13 e 44. A misura che Roma si popolava di schiavi, si spopolava di cittadini.

26Gli autori de' tempi dAugusto, e de' seguenti secoli compiangono la decadenza dell'agricoltura nellItalia. Lggansi Columella (nel proem. lib. 1. c. t. e 17. ) Orazio (lib. 2. Od. 5. ) Marrone (lib. 3. c. 1J Tacit. (Annal. lib. 3. e 34) Svetonio fin vit. August. c. 42. )

27 Partem Italiae, dice Livio ergastula a solitudine vindicant, e Seneca (contro ver 5 lib. V. ) dice: Arata quondam populis rara, sinulorum ergastulorum sunt. At nunc eadem (dice Plinio lib. 18. c. 3. ) vincti pedes, damnatae mali us, inscripti vultus exerceut. Mi si domanderà (dice Livio in un altro luogo lib. IV. ) dove i Volaci abbiano potuto ritrovar tanti soldati per far la guerra, dopo essere stati tante volte vinti? Bisognava che vi fosse una popolazione immensa in queste contrade, che oggi non sarebbero altro che deserti, se pochi soldati e pochi schiavi Romani non le abitassero.

28Leggasi Appiano (de bell. Civ. lib. II. )

29Cesare dopo la. guerra civile avendo voluto fare il censo, non si trovarono che 15 o mila cittadini Romani. Leggasi l'Epitome di Floro sulla XII. Deca di Livio: Svetonio nella vita di Cesare cap. 41. Appiano ivi: Plutarco ella vita di Celare. .

Chi ha letto in Livio la descrizione degli anteriori censi, sì persuaderà de' colpi fatali, che avea sofferta la popolazione di Roma nei tempo del quale si parla. Se il racconto di Fabio Pittore, che egli rapporta (dee. 1. lib. 1. cap. 17. ), non è esagerato, come pare che lo sia, il numero de' cittadini Romani sotto il sesto Re superava almeno del doppio quello dei tempi di Cesare; giacché egli ci dice, che nel censo di Servio Tullio si trovarono 80 mila uomini nello stato di portar Farmi. Ma lasciando da parte questo censo, che non pare verisimile, se si esaminano i censi posteriori, cominciando dal quarto secolo di Roma sino al settimo secolo, si troverà che tra diciotto censi, de' quali si fa menzione ne libri di Livio, e nell’epitome de' perduti, che precedettero quello fatto da Cesare, tutti passarono i 200 mila, sette i 250 mila, cinque i 300 mila, tre i 350 mila, e due i 400 mila.

30 Dione lib. 45.

31Svetonio vita, di Cesare cap. 20.

32Euschio nella sua Cronica.

33Spirito delle leggi lib. XXIII. Cap. 32.

34Dione lib. XVI.

35Dione ivi.

36Io non ho tradotto litteralmente questo tratto, ma baster leggere il testo greco per osservare, che non ho lasciato per questo d'esser fedele all'originale.

37 Dione ivi.

38Leggasi lopera di Eineccio, che ha per titolo: Ad Igem Juliam, et Papiam Poppaeam commentarius.

39 De morib. Germ. 6.

40 Questa determinazione è compresa ne capitoli XXXVI, e XXVII della legge Papia Popper: Caelibes nisi intra centum dies huic legi paruerint, neque haereditatem, neque legatum ex testamento, nisi proximorum, capiunto.

Si qui conjugum, masculus (ultra XXI, annum), foemina (ultra vigesimum) orbi erunt, semissem relictorum tantum capiunto. Leggasi l’Eineccio Comm, ad leg. Jul, et Papiam, Popp, lib. cap. V.

41Plutarco nelle opere morali, dove parla dellamore dei padri pe figli.

42 Leggasi Plinio, lib. 1r, lett XV, l'istesso Tacito negli Annali, lib. xv, ed Ammiano Marcellino, lib XIV, cap. XIX. il quale ci fa vedere, che il male si era conservato sino a suoi tempi, e ci dice: Vale tunc Romae existimatum quidquid extra urbis pomaeria natum fuisset praeter orbos, et coelibes, nec credi pos se, qua obsequiorum diversitate culti sint homines sine liberis, ut hi, qui patres fuerint, tamquam in capita mendicorum coelibes dominarentur.

43 Hume Discorsi politici. Discorso sul numero degli alitanti presso alcune nazioni antiche.

44 Qui non si parla che di paesi agricoli.

45Si sa che vi sono nella China popolazioni numerosissime, le quali abitano sulle acque de' fiumi in alcuni edifici fatti a guisa di piccioli bastimenti.

46Leggasi il Saggio sulla natura del commercio del citato Hume parte i. cap. XV, Ami de Hmmes e molti altri scrittori economici.

47 Vedi l’Opera del conte Verri, che ha per titolo: Meditazioni sull'economia politica §. XXI.

48 Atque ideo nihil largiatur Princeps, dum nihil auferat; non alat, dum non occidat; nec deerunt qui filios concupiscant. Plinio nel Panegirico di Trajano.

49 Il principio incontrastabile che ho premesso, m’indurrebbe a mettere nel primo rango degli ostacoli, che si oppongono alla popolazione, tutte le cause, che impediscono i progressi delle ricchezze nazionali, cioè quelle, che impediscono all’agricoltura, alle arti, al commercio di prosperare giacché tutte queste cause tendono a rendere più difficile la sussistenza. Ma siccome io debbo di queste diffusamente parlare in appresso, per non confondere l’ordine delle cose, mi astengo qui di considerarle distintamente sotto questo aspetto. Mi basta d’aver accennato in questa nota, che esse debbono anche essere annoverate tra 'l numero delle più forti cause spopolatrici.

50 Leggasi Zeppero nell'Opera che ha per titolo: Legum Mosaicarum Forensium Explanatio lib. IV. cap. XXIII pag. 609. 610.

51Solone dispens da questa proibizione coloro che morivano senza figli. Leggasi Plutarco nella sua vita, e PorterArchaeologiae Graeca lib. IV. cap. XV. Egli permise anche al padre di sostituire degli eredi a figli, nel caso che questi fossero morti prima del ventesimo anno della loro vita. O ti an gntwn ui patehr diaqhtai eau apoqavwsiv oi uieis prin epidietej hban thn tu patros diaqhken kurian einki. Haeredes a patri testamento substituti liberi, si liberi ante annum aetatis suae vigesimum decesserint, haeredes sunto. De mosthenes de' Coron. Orat. 2.

52A pantajtuj gnhsiuj diuj isomoirus einai tn patrwn. Omnes legitimi filii haereditatem paternam ex aequo inter se herciscunto. Isaeus de' Haeredit. Philoct.

53ilolao di Corinto fu quello che stabili in Atene che il numero delle porzioni di terra, e quello delleredit fosse sempre istesso. Leggasi Aristotile Polit. lib. II. cap. XII. Montesquieu Spirio delle leggi lib. . cap. .

54Exeitai gamein taj ek patern adelfaj; ororem ex parte patrie in matrimonio habere jus esto. Petit. Leg. Attic. Lib. VI. ti. . de' connubiis. Sposando la sorella consanguinea non si poteva succedere che alla sola porzione del padre $ ma sposando luterina, si poteva succedere a due porzioni nel tempo istesso; a quella del padre dello sposo, ed a quella del padre della sposa.

55Mh exeinai taij epiklhroij exw thj agxijeiaj gamsin alla prothkon einai autaij meta ton xrhmatwn tw eggutatw genuj sunoikein. Virgo dotalis extra cognationem ne enubito; sed agnato proximo nubito, et omnia sua bona in dotem adferto. Petit, ibid.

56 Plutarco, Vita di Licurgo.

57 Tacito de' morib. German. Agri (dic’egli) pro numero cultorum, ab universi per vices occupantur, quos mox inter se secundum dignationem partiuntur: facilitatem partiendi camporum spatìa praestant. Arva per annos mutant, et superest ager: nec enim cum. ubertate, et amplitudine tuli labore contendunt ut pomario conserant, et prato, sepiant hortos rigent: sola terrae seges imperatur. Tra gl'Irlandesi fino al secolo passato, subito che moriva un padre di famiglia, il Capo della Tribù divideva di nuovo tutti beni a tutte le famiglie della medesima. Hume, Istoria dell’Inghilterra

58Framm. delle Leggi delle XII. Tavole in Ulpiano, Tit. altim. de' fragment.

59 Leggansi i frammenti delle leggi delle XII Tavole in Ulpiano tit. 26.

60 Institution. Lib. III tit. I. §. 15. La figlia succedeva al padre finché essa viveva, ma dopo la sua morte i beni patemi non andavano a suoi figli, ma a suoi agnati. In una parola, le donne, dice Montesquieu (Esprit, des lois lib. XXVII) succedevano presso i primi Romani, allorché questo non si opponeva alla legge della divisione delle terre; ed esse non succedevano, allorché la loro successione si opponeva a questa distribuzione.

61Ma come combinare questo spirito delle prime leggi dei Romani, che riguardavano le successioni ab intestato, colla liberinfinita data contemporaneamente da esse al padre di famiglia di testare, e di scegliere qualunque cittadino per suo erede? Non erano istesse leggi delle XII. Tavole, che prescrivevano: Pater familias uti legassit super pecunia, tute lave suae rei, ita jus esto? Montesquieu (ivi) riflettendo sopra questa apparente contradizione condanna da inconseguenti i Decemviri, come quelli che distruggevano con una mano quello, che cercavano di sostenere collaltra. Ma mi si permetta di far qui per un momento da giureconsulto, e di difendere questi savj legislatori da unimputazione niente ragionevole. In unopera di questa natura condonabile allautore una digressione, nella quale il corso delle sue idee, quasi involontariamente, lo conduce.

Vi è stata controversia tra giureconsulti, se prima delle Decemvirali tavole vi fosse l'uso de' testamenti in Roma. Eineccio l'Dissert, de' orig. testam. un. ) Tomasio (Dissert, de' init, succes, testam. § I fino al § VIII e Trechellio (de init, success. testam. cap. II. §. VI) credono di si; ma e il dissenso di molti altri giureconsulti, e molte ragioni convincentissime, delle quali non mi è lecito qui di parlare, c’inducono a dubitarne. Non possiamo però dubitare che, prima della promulgazione di queste tavole, o per legge, o per consuetudine i Romani credevano di poter fare un’alienazione della loro proprietà, che cominciasse ad aver luogo dopo della loro morte. Da ciò che si rileva da molti luoghi di Livio, di Dionisio d Alicarnasso e di Plutarco, si vede chiaramente che frequentissime dovevano essere queste specie d’alienazioni, le quali abusivamente furono da quest’Istorici chiamate col nome di testamenti. Queste alienazioni, quantunque da testamenti diversissime nel diritto, producevano per altro gl’istessi effetti, cioè di alterare la distribuzione delle terre. I Decemviri non essendo i sovrani legislatori del popolo, ma gli autori semplicemente di quelle leggi che dovevano dal popolo essere approvate, non avrebbero sicuramente potuto indurre i Romani a spogliarsi d’un diritto, che è cosi caro all’uomo, cioè di disporre della sua proprietà anche in quel momento, nel quale conosce di non poterla più ritenere per se, e d’influire in certa maniera sulla società anche dopo della sua morte. Tutta la loro arte poteva dunque consistere nel rendergliene difficile l’uso, per render meno alterabile quella distribuzione delle terre, che essi, regolando le successioni, avevano tanto cercato di conservare. Per ottener questo fine, i Decemviri introdussero i testamenti. La libertà infinita, che le loro leggi davano al padre di famiglia, di disporre col testamento delle sue proprietà, soddisfaceva quella naturale inclinazione dell'uomo, della quale si è parlato: al contrario le solennità difficili, che dovevano accompagnare quest’atto per esser creduto valido, ne rendevano così difficile l’uso, che rare volte il cittadino poteva valersi del diritto che la legge gli dava.

Se non si fosse dalla legge richiesta altra solennità che quella di fare il testamento innanzi all’assemblea del popolo, ed alla presenza de' Pontefici, che dovevano approvarlo, quella sola solennità bastava per far morire ab intestata più di tre quarte parti de' Romani. Io non posso qui riportate tutte le autorità che appoggiano questi fatti: io dico solo, per far conoscere quali furono le mire de' Decemviri nell’introdurlo, che delle due maniere che vi erano, di far testamento presso i Greci, l'una innanzi all’assemblea del popolo, e l’altra innanzi ad un magistrato, essi scelsero la prima, come la più difficile ad eseguirsi.

Dopo queste riflessioni io lascio al lettore il giudicare dell’armonia, che ci era tra quelle leggi delle XII Tavole, che regolavano le successioni legittime, cm quelle che regolavano le testamentarie, e lascio a lui il giudicare della pretesa inconseguenza, della quale l’Autore dello Spirito delle leggi le accusa.

62Laudato ingentia rara, diceva Virgilio, exigunm colito.

63 Leggasi Giannone Istoria civile del Regno di Napoli, lib. XXV. cap 8. e la collezione delle nostre Prammatiche sotto il titolo de' Feudis Pramm. Si avverti, che questa Prammatica non ha luogo per i Feudi, che sono de' jure Longobardorum.

64 Il frammento di questa legge, nel quale si stabilisce, ma quis haeredem virginem, neve mulierem faciat, ci vien rapportato da Cicerone (Orat. III in Verrem) Da ciò che egli ne dice, e da un luogo di S. Agostino (de Civit. Dei lib. III) apparisce che non solo la figlia, ma anche la figlia unica era compresa in questa proibizione. Nel lib. II. tit. 12. delle istituzioni di Giustiniano si parla d’un capo di questa legge, che restringeva la facoltà di legare. Pare che questo fosse stato un rimedio trovato dalla legge per evitare, che il testatore non potesse dare ad una donna, come legataria, quello che non avrebbe potuto darle come ereditaria.

La speranza di eludere questi stabilimenti della legge Voconia introdusse i Fidecommissi in Roma. Si istituiva per erede una persona che poteva esserlo per legge, e questi veniva dal testatore pregato di rimettere l’eredità ad un’altra persona che la legge aveva esclusa. Quest’era una preghiera, e non un comando che avesse vigore di legge. L’esempio di P. Sestilio Rufo ne è una prova. Leggasi Cicerone de' nibus bonor. v et malor. Lib. II.

65La Scrittura ci parla in molti luoghi e particolarmente nel Levitico delle prestazioni, che si facevano a Leviti.

Hyde (de Rel. Pers. (19.) ci dà conto delle ricchezze de' Maghi, e del loro capo chiamato Balach, che erano i sacerdoti della Persia.

Riguardo a Greci, da ciò che ci è rimasto delle loro leggi, si può facilmente vedere in qual maniera si provvedeva presso di loro alle spese del culto e a bisogni del sacerdozio. In Atene la legge, dopo aver regolate le oblazioni de' cittadini, stabiliva che una porzione di queste fossero destinate al sostenta mento de' Ministri della Religione.

Ta upoleipomeva thj qusiaj tuj iereas lambanein. Reliqua ex sacris victimis sacerdotibus cedunto. Petito Leg. Att. tit, 1. De Deorum cultu, sacris aedibus, festis, et ludis.

Noi sappiamo, che in Atene una porzione del frumento, che si raccoglieva da pubblici campi, era destinata all'istesso fine. Questo si chiamava ieroj sitoj o sia il frumentum sacrum (Vedi Polluce lib. VI cap. VII) Pottèro (Archaeolog. Graecc. lib. II. cap. IV) ci dice, che il costume delle Decime sacre era in alcuni casi generalmente ricevuto presso i Greci.

Riguardo finalmente a Romani, Dionisio d'Alicarnasso nel lib. II p. 82. ci assicura, che Romolo, prima di distribuire le terre a suoi cittadini, ne avea messo da parte una porzione, che doveva aver luogo di dominio dello Stato, ed un'altra pel mantenimento de' Tempi, e del loro Ministri; e Tito Livio lib. 1. cap. 20. ci parla de' fondi stabiliti per l'istess'oggetto da Numa.

66ll'linguaggio della superstizione stato sempre l'istesso in tutte le religioni, in tutt'i paesi, in tutt'i tempi. Basta leggere lottavo articolo del Sadder che il ristretto dellantico libro del Zenda Vesta, per trovare nella bocca di Zoroastro gl'istessi insegnamenti de' nostri preti de' tempi dellignoranza. Non basta, dice ingordo profeta de' Persiani, che le vostre buone opere superino le foglie degli alberi, le stille della pioggia, le arene del mare le stello del firmamento. Affinch vi sian giovevoli, necessario, che il Destur (il Sacerdote) si degni di approvarle. Voi non potete ottenere un tal favore, se non pagando fedelmente a questa guida della salute la decima de' vostri beni, delle vostre terre, del votro denaro, di quanto in una parola, possedete. Se il Destur sodisfatto, lanima vostra eviter i tormenti dellinferno, sarete in questo mondo ricolmati delogj, e godrete nellaltro uneterna felicit. I Destur sono gli oracoli del cielo; non vi cosa alcuna che rimanga ad essi nascosta, ed eglino sono quelli che liberano tutti gli uomini.

67Chi crederebbe, che losceno diritto del cunnatico sia tato dato insieme co' feudi a molli Vescovi, a molti Abati, a molti Monaci? Chi avrebbe creduto, che i successori degli Apostoli avrebbero avute dellinvestiture, e si avessero arrogato il dirito di darne? Chi avrebbe creduto che la superstizione e ignoranza avessero potuto fino a questo segno deturpare la pi santa, e la pi semplice religione del mondo?

68Io non ardirei forse di scrivere sopra questoggetto, te non avessi la sorte di vivere in un paese, ove il pi umano de' Re, unito a pi zelanti Ministri, cercano co' loro sforzi vigorosi d liberare lo Stato dagli antichi flagelli, che una straniera dominazione, e unantica anarchia avevano introdotti. Questa riforma non si pu fare che lentamente. Alcuni crepuscoli consolanti ci annunciano, che l'aurora de' nostri bei giorni non molto lontana. Il moto si gi comunicato alle acque, che una lunga quiete aveva putrefatte. Noi siamo in uno stato di crisi. I sintomi di questa molto lontano dallo spaventarci, ci debbono fare sperare, che i nostri mali saranno un giorno riparati. Si appartiene a noi dimplorare dalla Provvidenza, che accresca i giorni a colui che deve guarirci.

69Oltre le truppe di mare: leggansi gli Stati Militari dell'Europa.

70La guardia pretoriana fu il primo corpo di truppa oziosa che si conobbe da Romani, e questo abuso non sintrodusse, che nella decadenza della repubblica e della libert; e noi sappiamo quanto ne acceler la rovina. Il loro numero fu da principio di 9, in 10 mila. Vitellio lo port fino a 16 mila, e sotto limperator Severo giunse fino a 5 mila. Vedi Giuste Lipsio (de magnitudine Romana lib. . cap. 4) Erodiano (li. III. p. ) Augusto non lasci che tre coorti di queste guardie nella capitale; ma Tiberio chiam il corpo intero presso la sua persona, passo fatale, che fin di decidere della sote dell'universo, e che sparir fece fino allombra la libert. Leggasi Tacito (nnalib. IV. cap. Svetonio (vita Augusto, cap. 49.

Non si potevano chiamar col nome di truppa oziosa le legioni che erano nelle provincia. Si sa, che queste non abitavano nelle città; che esseri ne vano sempre accampale; e che erano perpetuamente in moto o per le nuove conquiste, o per conservarsi un dominio sempre contrastato, e che teneva il vinto in uno stato di guerra tacito, ma perpetuo.

71le nazioni antiche erano pi libere delle moderne, perch esse erano armate. Ogni cittadino era soldato: il campo era la sua citt: egli cingeva al suo lato il ferro, che assicurava la sua libert. Egli difendeva ordinariamente a sue spese la patria. Nei bei giorni di Roma luso delle armi era riserbato a quella classe di cittadini, che dovevano necessariamente interessarsi per la patria, e che avevano un patrimonio da difendere. Dionisio dAlicarnasso (lb. IV. cap. 17. ) ci assicura, che il pi povero soldato che militava in questi tempi in Roma, possedeva pi di novecento lire, somma molto considerabile in un tempo nel quale il numerario era cosi Scarso.

Nelle repubbliche della Grecia una cittadino poteva esentarsi dalla guerra, se non colui, che o dalla legge era privato di quest’onore, o ne era dispensato per qualche privilegio accordato alla sua età, o per qualche altro requisito: egli era altrimenti privato di tutti i diritti della cittadinanza. (Vedi Eschine in Ctesiphontem, e Demostene in Timocratem) Non altrimenti, che i primi Romani, essi andavano a loro spese alla guerra.

I Carj furono i primi tra Greci, che militarono per mercede. Questo li rese così disprezzevoli in que tempi di libertà e d’eroismo, che nell’antica lingua de' Greci carej e Mancipio erano sinonimi. Pericle fu il primo presso gli Ateniesi, che introdusse il costume di pagare il soldato durante la guerra. Leggasi Pottero Archaeologiae Graecae lib. XIV cap. II.

72 Robertson, Istoria di Carlo V. T. I. introduz.

73 Erodiano nella vita di Marco Antonino: e Sallustio (da Bello Jugurth) dice: Non exercitus, neque thesauri, regni praesidia sunt, verum amici, quos neque armis cogere, neque auro parare queas; officio et fide parantur.

74Qui sceptra duro saevus imperio regit,

Timet timentes: meta in auctorem redi:.

Senaca.

75In Svezia, ove ciaschedun soldato agricoltore, ove egli vive a spese di quel campo, che il governo gli d per alimentarsi, che si chiama Bostell, in Svezia, io dico, il soldato non meno agguerrito, ma pi robusto e pi atto a soffrire i disagi della guerra. Toltine dieci reggimenti stranieri, che vi sono, il resto della truppa di Svezia, che ascende a ottantaquattro mila uomini, sono a questo modo mantenuti. Lo stato ne ha doppiamente profittato, perch questo corpo, nel tempo istesso, che rende rispettabile questa potenza, ha coltivato unestensione immensa di terreni, che fino allepoca di questa savia istituzione erano rimasti incolti.

Probo è rimasto celebre nella storia di Roma, per aver conservata la disciplina delle truppe a lui affidate colle agrarie occupazioni. Egli esercitò le sue legioni nel coprire di vigne le ubertose coline della Gallia, e della Pannonia. Egli ridusse a coltura molti terreni sterili, asciugò molte lagune, e le ridusse a ricchi pascoli. V. Aurel. Victor, in Prob.

Probo non fu il solo tra Romani a conoscere i vantaggi di questo sistema. le mani vittoriose de' soldati di Roma spesso si occuparono ne lavori pubblici in quei paesi che il loro valore aveva occupati.

E un avanzo dell’antico spirito de' nostri barbari padri il credere che l’uomo di guerra debba o combattere, o stare in ozio.

76La conquista delle Gallie cost dieci anni di fatiche, di vittorie, di negoziazioni a Cesare, e non cost, per cosi dire, che un giorno a Clovis alla testa di pochi Franchi. Clovis allet di 15. o 15. anni era forse pi bravo generale di Cesare? I Franchi erano forse pi valorosi de' Romani? No: la differenza fu, che Cesare dov combattere contro popoli che erano stati sempre liberi e felici, e Clovis trov le Gallie oppresse, soggiogate da pi di cinque secoli.

77Leggansi calcoli di M. Sussmilch. Egli dice, che in Olanda si fa il conto che sopra 4 persone vi un matrimonio, nel mentre che in Svezia sene fa uno sopra 126; nella Marca di Brandenburgo e in Finlandia uno sopra 108; a Berlino uno sopra 110; in Inghilterra uno sopra 8. 115. 118.

78Leggasi Zepper nell'opera che ha per titolo: gum Moaica forcesiumxplanatio, lib. IV cap. XVIII.

79Io parler nel decorso di quest'opera degli altri imedj dipendenti dalleducazione, da costumi, e dalla patria potest.

80 Svetonio in Caes. c. 35. 39. 52. Cic. ad Attic. lib. XIV Ep. 12.

81 Nel primo libro, dove si è parlato del rapporto delle leggi col genio e coll’indole de' popoli.

82 La situazione dell'Olanda potrebbe essere una prova di questa verità. Questa nazione, che può senza dubbio dirsi la più ricca dell'Europa, che ha un picciolissimo ed infelice territorio, ed un gran popolo, che da tutt’altro riconosce la sua grandezza fuorché dall’agricoltura, è essa sicura di conservar per lungo tempo la sua prosperità? A quali pericoli non e essa esposta? Quante insidie si possono tramare alla sua fortuna? Il suo commercio, frutto di una grande economia e d’una grande industria, è sempre esposto ad alcuni colpi, che non può né prevenire, né curare. L’Inghilterra gliene diede già uno mortale col suo atto di navigazione, e co' suoi trattati colla Russia e col Portogallo: essa avrebbe potuto farle perdere anche quello di Cadice per la facilità, che gl’inglesi avevano acquistata di dare quella estensione, che volevano al loro commercio clandestino fra la Giammaica e le Colonie Spagnuole. le città Anseatiche si hanno già appropriata una porzione del suo commercio di cabotaggio, e del suo commercio di giro e ài commissione. Per privarla de' vantaggi che le dà il commercio sulle sponde del Reno, il Re di Prussia non dovrebbe forse far altroché stabilire una fattoria a Wesel. Il commercio, che si fa oggi da Danesi, non si fa che a spese di quello degli Olandesi. I beneficj della loro agricoltura, cioè a dire, della loro pesca delle aringhe e delle balene, sono, come si sa, diminuiti all’infinito. Essi non fanno più il commercio d’assicurazione, che una volta facevano per una gran porzione dell’Europa, e dal quale raccoglievano vantaggi considerabilissimi. Finalmente basta osservare il corso presente delle cose nell’Europa, per prevedere, che ciaschedun popolo avrà, presto o tardi, una navigazione relativa alla natura del suo paese ed all’accrescimento della sua industria, e le Provincie Unite vedranno in ogni giorno indebolirsi sempre più il loro commercio, a misura che le altre nazioni distenderanno il loro.

Ecco quale è la sorte d’un popolo, che riconosce la sua prosperità da tutt’altro fuorché dall’agricoltura. Nell’osserva re gli sforzi vigorosi, che oggi fanno tutte le nazioni per liberarsi dall’industria straniera, io ardisco di presagire, che non passerà un mezzo secolo, che le sole nazioni ricche nell’Europa saranno le più agricole, e le più abbondanti de' prodotti del, suolo.

83Verri, Meditazioni sull'economia politica VIII.

84 Io non m’impegno qui a dimostrare l’incoerenza dei sistema proposto da Melon, di regolare l'estrazione col prezza del genere. Quest’erroneo sistema è stato confutato fino all’evidenza da un mio concittadino in un’opera, che fa l’onore della patria dove è nato. Questa è scritta in francese, ed ha per titolo Dialogues sur le commerce des Grains. Io avrei potuto in questo capo profittare de' lumi di questo grand'uomo, se prima di cominciarlo non avessi giurato di chiuder tutti i libri, che son comparsi sopra questo soggetto, e di pensare assolutamente da me. Non voglio però negare a questo scrittore il tributo dell’ammirazione. Io debbo confessare, che i suoi dialoghi mi han sorpreso. Non è possibile di scrivere in una materia cosi sterile con tanta eleganza con tanto brio con tanta amenità. Era riserbato al celebre Galliani il portare ne magazzini de' grani quelle grazie, che Fontanelle aveva con maggior facilità condotte nelle tombe de' morti.

85Questi sono i veri flagelli del cielo, i meno sensibili ma i pi forti, e per nostra disgrazia i pi frequenti.

86Dal tempo della sementa fino al tempo della raccolta.

87Autore dellistoria filosofica e politica degli stabilimenti degli Europei nelle Due Indie.

88Non bisogna confondere la legge di Pertinace con quella di Valentiniano, di Teodosio, e d Arcadio la quale inette il primo occupante in possesso delle terre abbandonate, purch per lo spazio di due anni non apparisca il vero padrone. Questo non distrugge la propriet, perch chi abbandona quello che suo, e vede con indifferenza impadronirsene un altro, mostra un tacito consenso che la legge interpetrain favore del novello possessore.

89In alcuni paesi dellEuropa il proprietario di un fondo non pu venderlo senza il permesso del governo, n pu godere de' suoi frutti, se non dimora nel distretto del paese ove le sue terre sono situate. Ecco una di quelle leggi che vanno direttamente al loro scopo, e che per giovare allagricoltura, divengono un ostacolo fortissimo a suoi progressi. Questa legge ha prodotto un tale aborrimento per il possesso delle terre in questi paesi, che non ci chi voglia comprarle, e per conseguenza farle valere. agricoltura languisce sotto i vincoli, che una legge inetta e perniciosa ha stabiliti collidea di proteggerla. Bisogna persuaderci, che ogni diminuzione, ogni scossa, che si reca a preziosi diritti della propriet, il maggior ostacolo che si possa opporre allindustria degli uomini: ogni estensione, che si d a questi diritti, il pi gran beneficio, che le leggi possano recarle.

90Presso di noi per esempio, e presso alcune altre nazioni, la devoluzione de' feudi al fisco nel difetto deredi laterali in quarto grado, la proibizione dalienare i fondi feudali, e lestinzione di tutti i censi allorch il feudo si devolve, sono tante altre sorgenti feconde dostacoli a progressi dellagricoltura, tutte derivate dal sistema feudale, io non ne parlo qui, perch mi trovo daverne detto qualche cosa nel IV. capo di questo libro, dove si sono esaminati gli ostacoli che le leggi, che impediscono la circolazione de' fondi feudali, oppongono alla moltiplicazione de' proprietarj.

91le decime degli ecclesiastici sono anche un altro forte ostacolo, che le leggi oppongono a progressi dellagricoltura in quasi tutta lEuropa. Niente di pi facile, che la commutazione di questa sorgente di sussistenza del sacerdozio. Noi lo faremo vedere nel quinto libro di questa opera, dove si esaminer la maniera, colla quale lo Stato dovrebbe provvedere al sostentamento del clericato, e se n gi dato un saggio negli antecedenti capi.

In Inghilterra si pagano ancora le decime alla Chiesa, ma i preti si sono convenuti per una certa prestazione fissa, che non è dipendente dall’esito della raccolta. Ne paesi ne quali non si è fatta questa convenzione, ne paesi, ne quali la decima varia siccome variano le raccolte, l’agricoltura, a relazione del dottor Young, è restata molto indietro. Leggasi Youug, Aritmetica politica parte I.

92Cod Theod. lib. II. ti. 5. leg. .

93Cod Theod. lib. 8 it. 5. leg. .

94Leg. 8. Cod. quae ru pign. oblig. Poss. le sopra citate leggi del Codice Teodosiano.

95Arrigo III. Carlo IX. Arrigo IV. Luigi XIII. e Luigi XIV. in Francia, e presso di noi le prammatiche, e le costituzioni del Regno hanno confermate queste savie determinazioni, ma, ardisco di dire, inutilmente. La prepotenza ha ritrovata la maniera di eluderle e i clamori universali della Filosofia ce lo attestano.

96 Hyde de' Religione Pere. cap. 19.

97 La Relazione de' viaggi fatta per gli stabilimenti nelle Indie Orientali.

98 Sono celebri nella storia di Roma i Pisoni, i Lentuli, i Ciceroni e molti altri simili cognomi.

99 Omnium rerum, dice Cicerone, ex quibus aliquid exquiritur midi est agricultura melius, nìhil uberius, nihil dulcius, nìhil homine libero dignius.

100Sully e Colbert.

101 Parlando io qui di diminuzione di consumazione, non si deve ciò riferire, alla diminuzione della popolazione, i progressi della quale sono troppo desiderabili, così ne paesi sterili come ne fertili.

102 Mh duo tecnaj metienai. Duas artes ne exerceto. Demost. in Timocratem.

103 In Atene la legge destinava una distinzione onorevole all’artefice che aveva fatti più progressi degli altri nel suo mestiere. Ton arijn outa twi eatu suntecnwn sinthsin en Prutneiw lambanein kai predoian. Perìtior in sua arte publice in Pritaneó epulator, primamque sedem occupato. Vedi Petito, Leggi Attiche, lib. V. tit. VI de' Artibus.

104 L’autore dell'Istoria filosofica e politica degli stabilimenti degli Europei, nelle due indie, tom, VENETI II. lib. XIX cap. 41.

105 Nelle piramidi la perpendicolare che si tira dal vertice, va perfettamente nei punto di mezzo della base ciò che ne fa la forma più stabile che si possa dare ad un edificio.

106 Eratostene e Aristobulo, per quel che ce ne dice Strabone, rapportavano un’autorità di Patrocle, il quale asseriva che le mercanzie dell'Indie passavano dall’Oxo nel mare del Ponto; e Marco Varrone come sj può vedere in Plinio lib. VI cap. XVII dell’istoria naturale, dice che nel tempo di Pompeo, nella guerra contro Mitridate, si seppe che si andava in sette giorni dall'Indie nel paese de Battriani, e nel fiume Icaro che va a gettarsi nell'Oxo; che di la le mercanzie dell'Indie attraversavano il mar Caspio, ed entravano nell'imboccatura del Ciro; e che non bisognava fare che un cammino di cinque giorni per andare nel Faso, il quale conduceva al Ponto Euxino. Non ci è dubbio che tutte le nazioni che abitavano questo spazio, dovevano esser commercianti, Leggasi anche Strabone lib. xi su quel ch'egli ci dice del tragitto delle mercanzie dal Faso al Ciro.

107 Sono troppo note le Colonie fondate da Fenici pel commercio. Essi ne ebbero nel mar Rosso, e nel Golfo Persico. Essi n’ebbero in molte isole della Grecia, nelle coste dell'Africa e della Spagna. Essi penetrarono nell'Oceano, e giunsero fino isole Cassiteridi, cioè alla gran Brettagna e a Tusa, che si crede essere l'Irlanda. Non mancava loro che la bussola per divenire gli Olandesi dell'antichità.

108 Omero, secondo l'osservazione di Strabone lib. 16. p. 1097, non parla se non di Sidone, e fa vedere chiaramente che il maggior commercio era da principio nelle mani de' suoi abitanti.

109 Qui si parla de' paesi sterili che sono bagnati dal mare. Si parlerà quindi de' mediterranei.

110 Se la Russia, per esempio, volesse preferire al commercio delle sue derrate un commercio puramente di traffico, simile a quello degli Olandesi, fra popoli che abitano questa immensa regione, non ci sarebbero se non quelli che sono i più vicini al celebre porto di Cronstat, che conoscerebbero l'oro e l'argento. Tutti gli altri sarebbero condannati a vivere di permute, come non è gran tempo che i loro padri vivevamo. Questo commercio di traffico giova all'Olanda, perché le vene che trasportano il danaro nell'interno delle Provincie Unite sono così brevi, che la circolazione vi si fa con una celerità infinita. Ma fate che il territorio dell’Olanda divenga così esteso come quello della Francia e della Spagna, e voi vedrete subito questa circolazione ritardata, voi la vedrete dopo poco tempo interrotta, ed un arresto fatale cagionerà ben presto una convulsione, alla quale questo corpo politico dovrà necessariamente soccombere.

111 Io non m’impegno a dimostrare queste verità, perché coloro che hanno consecutivamente letta quest'opera, le considereranno come tanti risultati de' principii antecedentemente sviluppati.

112 L’imposizione sulle cose venali venne stabilita da Augusto dopo le guerre civili. Questo dritto rare volte passò l’uno per cento, ma comprendeva tutto ciò che compravasi ne’ mercati e nelle pubbliche vendite, ed estendevasi dagli acquisti più considerabili in terre, e in case, fino a più piccoli oggetti che costituivano la giornaliera consumazione. Tacito ci dice che Tiberio, per placare il popolo che reclamava contro questo dritto, fu costretto a pubblicare in un editto che il sostentamento degli eserciti in gran parte dipendeva da questa contribuzione, Tacit. Ann. lib. I. cap. 78.

113 Questa, ascendeva al cinque per cento sul valore del legato o dell'eredità, purché questa ascendesse a 50 o 100 pezzi d’oro. Dione lib. 55 cap. 56.

114 A questa contribuzione erano soggette non solo le mercanzie straniere, ma anche quelle delle provincie dell’Impero; non solo quelle che riguardavano il lusso, ma anche quelle che riguardavano i bisogni della vita. La differenza era nella quantità della tassa, la quale era maggiore in quelle di lusso ed in quelle che venivano dagli stranieri. Vedi Filino Hist. natur. lib. 7, lib. 33. ecc.

115 Si crede comunemente che i dazi imposti sull’estrazione delle mercanzie nazionali sieno un male, ma che quelli imposti sull'immissione delle straniere sieno un bene per lo Stato, lo confuterò quest'opinione, allorché parlerò della teoria de' dazi: mi contento solo di rapportare qui anticipatamente alcuni fatti e alcune riflessioni che gli effetti che quest’erroneo sistema ha prodotti nel commercio della Gran Brettagna, mi somministrano.

Il governo Britannico, che ha sempre cercato di favorire. l'estrazione delle mercanzie nazionali, ha esorbitantemente caricato di dazi l'immissione delle straniere. Qual è stato l’effetto di quest’erroneo sistema? 1.° La moltiplicità de' contrabbandi, che le pene le più severe non possono impedire, allorché sono uniti ad un gran beneficio. 2.° La diminuzione del suo commercio d’economia. Quantunque ci sia una legge in Inghilterra che ordini la restituzione de' dritti nella nuova esportazione, questo rimedio non compensa il danno che cagionano al suo commercio d’economia i dazi che si pagano nell'immissione. Questo è evidente. 11 negoziante che compra, sia le mercanzie d’America sia quelle dell’Indie orientali, per estrarle di nuovo è obbligato a sborsare due capitali, I uno pel prezzo delle mercanzie, l’altro pe’ dritti ai dogana, Sul secondo capitale, che in molti articoli è il doppio del primo per 1 esorbitanza de' dritti nell'immissione, egli perde da principio una parte del dritto che paga, il quale va in beneficio degli uffiziali della dogana, e questa parte non gli è restituita nella nuova esportazione: egli perde nell’istesso tempo l’interesse di questo capitale durante tutto il tempo che egli impiega a fabbricare, o a preparare il suo caricamento. Questa doppia perdita l'obbliga ad incarire il prezzo delle sue mercanzie, incarimento, che ne fa in ogni giorno diminuire lo smaltimento ne mercati esteri. 3.° Un altro effetto funesto pel commercio della Gran Brettagna, ha avuto origine dallo stesso principio. Per una nazione commerciante ogni accrescimento nelle spese del trasporto è una. perdita reale per lo Stato. Or le spese del trasporto non potrebbero essere indipendenti dalle spese delle costruzione. Questa costruzione è quella che i dritti di dogana hanno incarita all'infinito in Inghilterra. 4 ° Quest'istessi dritti impedivano agl'Inglesi di manifatturare, o sia di ridurre in polvere il loro tabacco di Virginia. Questo tabacco, che si vendeva agli stranieri per due e mezzo denari sterlini la libbra, per l’eccesso de' dritti di dogana nell’immissione si pagava nell'interno dello Stato 8 e 58 denari la libbra. Il vantaggio che aveva lo straniero sul nazionale nel manifatturario, è di 35 per cento. Queste non sono congetture: sono fatti incontrastabili, che dovrebbero disingannare coloro che governano, da volgari pregiudizi pur troppo funesti alle nazioni.

116 Si sa con quanta gelosia facevano i Cartaginesi il loro commercio. Noi sappiamo che nella negoziazione che Apuone fece co' Romani, dichiarò che i Cartaginesi non avrebbero sofferto che essi si fossero soltanto lavate le mani ne’ mari di Sicilia, e fu loro proibito di navigare al di là del promontorio Bello. Fu loro anche proibito di trafficare in Sicilia, in Sardegna ed in Africa, almeno nella porzione soggetta ai Cartaginesi. Leggasi Polibio lib. III, e Giustino lib. XLIII

cap. V. Per quel che riguarda i Romani, la loro politica distruttiva e il loro patriottismo esclusivo è troppo noto. Mi contento solo di ricordare qtii una legge di Graziano, Valentiniano e Teodosio, nella. quale non solo era proibito di portare dell'oro a quei popoli che essi chiappavano barbari, ma si ordinava anche di usar tutti i mezzi per toglier loro con destrezza quella porzione che ne avevano. Leg. II. cod. de' comnrerc, et mercatore.

117 Io non parto qui detta presente guerra, nella quale le operazioni dell’Olanda non sono state dirette né dalla gelosia, né dall’ambizione, ma dalla forza e dal timore.

118 Noi abbiamo accennata questa verità nel terzo capo del primo libro, e la svilupperemo meglio nel decorso di questo secondo libro.

119 E’ giusto che io prevenga qui un’obbiezione che mi si potrebbe fare. Mi si dirà: liberandosi il Portogallo e la Russia dal monopolio degl'Inglesi, come pare che non tarderanno molto queste due nazioni a riuscirvi, esse recherebbero, è vero, un gran vantaggio a loro stesse ed al commercio universale dell’Europa; ma l’Inghilterra non perderebbe forse molto in questo caso? Gl’interessi dunque di questa nazione non sono in questo caso uniti agl'interessi delle altre nazioni europee. Non sembra questa un’eccezione alla regola? No: io confesso che l’Inghilterra, subito che dovesse fare in concorrenza delle altre nazioni il commercio della Russia del Portogallo, non ne profitterebbe più come prima:'ma questa perdita non sarebbe forse dopo qualche tempo compensata dal maggiore smaltimento delle sue mercanzie più ricercate, subito che l’opulenza universale derivata da la libertà, uni versale del commercio, moltiplicando i bisogni in ragion de' mezzi per soddisfarli, ne moltiplicherebbe le richieste? Più: se l’Inghilterra non si fosse volontariamente impegnata nelle guerre che le han costato tanto sangue e tanto danaro, la bilancia troppo vantaggiosa del suo commercio l'avrebbe trasportata a quell’eccesso d’opulenza che diventa quindi miseria, come lo dimostreremo a suo luogo. Senza questi violentissimi scoli, la perdita di qualche vantaggio non solo non sarebbe stata funesta, ma vantaggiosa a questa nazione. Non sarebbero dunque i veri e permanenti interessi della gran Brettagna, ma la sua soverchia ambizione sarebbe quella che potrebbe renderle sensibili queste perdite.

120 Io preveggo che leggendosi questo articolò su gl’interessi della Francia, mi si farà un’altra obbiezione. Si dirà che l’interesse di questa nazione è di fomentare e proteggere la pirateria delle repubbliche piratiche del Mediterraneo. Sotto questi auspicii funesti essa fa un gran commercio di traffico in questo mare. Ma non è sicuramente questo, mi si dirà, l’interesse delle altre nazioni.

Non ci è dubbio; io rispondo, che l’interesse delle altre nazioni sarebbe, che il loro commercio non fosse esposto a pericoli che sovrastano alla navigazione d’un mare coperto di pirati. L’ostacolo che questo timore reca al loro commercio, è troppo sensibile, e la mia patria ne ha delle pruove troppo convincenti. Ma qual è il vantaggio che raccoglie la Francia da questo spavento universale? L’avere una preferenza dì. trasporto e di traffico in questo mare. Ma questo commercio di traffico, di trasporto, d’economia, è forse quello che conviene a questa nazione? Secondo i principii da me sviluppati negli antecedenti capi, questa nazione non dovrebbe forse rinunciare a questo commercio che è contrario alla natura del suo governo alla fertilità del Suo terreno, alla sua estensione?

Il commercio di proprietà, che è quello che conviene alla Francia, ha forse bisogno di questo istrumento distruttivo per prosperare? Questo diverrebbe al contrario più profittevole, a misura che quello delle altre nazioni diverrebbe più libero. L’evidenza di questa verità mi dispensa dal dimostrarla. Non è dunque l’interesse della Francia il fomentare la pirateria del Mediterraneo, e questo tratto duna politica distruttiva discrediterebbe in eterno il nome di questa nazione senza recarle alcun vantaggio reale.

121 Queste formano un oggetto interessantissimo del commercio degli Svezzesi.

122Tit. II, lib. IV

123Nel 1730.

124 Io mi astengo dal rapportarle, perché sono troppo note.

125A. GellioNoc. Atic. lib. 6. cap. 3) ci dice che sotto l'imperatore Adriano le città di Utica in Affrica, e d’italica e di Cadice in Spagna, che godevano de' privilegi di città municipali, cercarono all'imperatore, ed ottennero il titolo di colonie. Il loro esempio venne ben presto seguito da altre città municipali. Questo ci sembrerà altrettanto più strano, quando si rifletterà che le prerogative della cittadinanza romana, accordate agli abitanti delle città municipali, erano più, estese di quelle accordate a cittadini delle colonie. Questi non avevano il dritto del suffragio accordato a primi, né avevano quello dì potere ambire ed esercitare le dignità della Repubblica, come l’ha dimostrato Sigonio (de Antiq. Jure ìtal. lib. a. cap. 3.): bisogna dunque supporre che fa prosperità e lo splendore di queste colonie fosse così considerabile, che meritasse un sacrificio tanto significante.

126 Si sa che un’imposizione sul Thè è stata questa scintilla.

127 Questa è la pena che dalla maggior parte delle nazioni europee si è assegnata al fallimento fraudolento.

128 Quantunque io mi dichiarerò in appresso contro le leggi suntuarie in generale, debbo confessarne i vantaggi per questa classe di cittadini. Ecco un’eccezione che non distrugge la regola.

129 Lege consistere, ac suam vim retinere, non natura, si quidem ipse Princeps, ipsa Rcspublica, ipsa lex nummum constituit, quasi a vomw, a qua pretium et valorem certum accipit. Arist. Ethic. lib. V. cap. 5.

130 Electa materia est, dice Paolo, cujus publica ac perpetua aestimatio difficultatibus permutationum aequalitate quantitatis subveniret, eaque materia forma publica percussa, usura dominiumque non tam ex substantia praebet, quam ex quantitate, Leg. 1. D. de' contrahiend. empt. Si osservi che per quantità s’intendeva il valore legale e non l'intrinseco del metallo. Per assicurarsene leggansi Perizonio de' aere gravi, ed Eineccio nella dissertazione de reductione moneta ad justum pretium. Si osservi anche, che la media giurisprudenza corresse questo errore dell'antica. L. I. C. de' vet. Numismat, potest.

131 Leggasi Xiphylia, in Vit. Caracallae.

132 Salmas. de' Usur, cap. II e 16.

133 L’istesso motivo che mi fa scorrere rapidamente sopra questi oggetti, m’induce ad accennare appena in questa nota i vantaggi che recherebbe al commercio interno d’uno Stato l’uniformità de’ pesi e delle misure. Gli antichi, meno commercianti di noi, non avevano trascurato questo oggetto. La greca e la romana polizia non soffrì che fra i cittadini d’un istesso paese vi fussero diversi pesi, diverse misure. Cario Magno non per altr’oggetto introdusse nel suo vasto impero l’uso de' pesi e delle misure romane. E noi, che non parliamo, non pensiamo ad altro che a vantaggi del commercio, abbiamo trascurata questa uniformità.

Niente di più facile che di stabilirla, d’introdurla. Per rendere questa misura invariabile, facile a verificarsi e a ritrovarsi in tutt'i tempi, non si dovrebbe far altro che regolarla sopra la lunghezza d’un pendolo semplice, che battesse i secondi sopra un parallelo determinato del Globo. Con questo mezzo la misura si potrebbe rendere universale per tutt'i paesi dell'universo La riforma de' pesi seguirebbe subito quella delle misure, dalle quelli dipende. le tariffe di riduzione esatte e chiare toglierebbero subito l’intrigo per la. riduzione de' prezzi e delle imposizioni.

In Inghilterra appena che il celebre Huygens applicò il pendolo agli orologi, la Società reale di Londra propose d’impiegare questa misura universale. Quest’oggetto non isfuggì dagli occhi di m. Monton astronomo di Lione di m. Bouger e di m. De la Condamine. Leg gansi le loro opere, e leggasi la memoria di m. Beniamino Corrard, che è unita a quella di m. Bertrand sulle Leggi agrarie ecc.

134 Pare che oggi queste verità si comincino a conoscere da governi. Pare che essi si siano finalmente determinati a spendere sul mare, que tesori che hanno finora, così inutilmente profusi sulla terra. La mia patria non sarà l'ultima a sperimentarne i vantaggi.

135 Diodoro (lib. I. num. 78 e seg.) ci dice che il territorio dell’Egitto era diviso in tre parti; una pel Re, una pel sacerdozio e l'altra pel resto del popolo. Da quel che comparisce dal racconto di Strabone (lib. 17) si crede che a tempi di Giuseppe questa distribuzione fosse stata alterata, e che il Re non fosse più proprietario di una porzione del territorio, ma che riscuotesse un tributo su prodotti dell’agricoltura e delle arti. Quel che avvenne nell'Egitto, è avvenuto presso la maggior parte delle nazioni. I Re han cominciato dall’esser proprietarii come i loro sudditi, e quindi hanno abbandonato i fondi e hanno esatti i tributi. L’istoria di Roma e quella delle moderne monarchie nell’origine, nel progresso e nella decadenza del sistema feudale ce ne offrono la pruova.

136 Lattanzio De’ Mort. pers. cap 23.

137 Vedi Raynal Istoria filosofica e politica ecc, lib. XIX. Cap. XLIII.

138 Non si deve per altro numerare tra queste l’ultima guerra colle colonie.

139 Il governo di Roma conobbe l’ingiustizia di questa ripartizione. Ed in fatti allorché, mediante una prestazione, egli restituiva agli antichi proprietarii delle nazioni soggiogate i loro fondi confiscati, egli regolava questa prestazione colla maggiore o minore, fertilità de' terreni. Livio (lib. XLIII c. 3) ci assicura che una porzione delta Spagna pagava la decima, ed un’altra la ventesima de' prodotti del suolo; e Igino ci dice che alle volte questa prestazione giugneva alla settima, e qualche volta fino alla quinta. Leggasi Igino de' Conti. Limit. pag. 198, edizione di Goesio.

140

141 Noi faremo vedere da qui a poco, come si potrebbe ogni spesa d’esazione risparmiare affidandosi questa al popolo istesso, o, per meglio dire, a suoi rappresentanti.

142 Leggansi le Memorie per servire all’istoria generale delle Finanze di M. D. de' B.

143 È inutile, rammentare quali Sono questi ostacoli. Noi ne abbiamo diffusamente parlato. Voglio soltanto qui ricordare che prima di stabilirsi questa tassa sulle terre, ogni altra contribuzione territoriale, come le decime agli ecclesiastici e le decime a baroni, dovrebbero essere abolite. Per le prime si è già accennato in vani luoghi di quest'opera, quale sarebbe la strada che sì dovrebbe tenere per abolirle, senza privare il sacerdozio de' mezzi donde raccorre la sua sussistenza. Riguardo alle seconde, cioè alle decime baronali, ne feudi sottoposti a questo peso la. vendita de' demanii potrebbe somministrare al governo il mezzo per compensare il barone della perdita delle decime.

144Questo era il nome degli affittatoli de' tributi.

145Egli fece, quattro stabilimenti. Il primo di questi prescriveva che le leggi fatte contro i pubblicani, tenute nascoste fin a quel tempo, si pubblicassero; il secondo, che essi non potessero esigere quello che avevano trascuralo di ripetere nel corso dell'anno il terzo, che ci fosse un pretore destinato a giudicare le loro pretensioni senza formalità; il quarto, che i mercanti non dovessero pagare alcun dazio per le navi. Leggasi Tacito: negli Annali lib. XIII, e Burman, de' Vectig. cap. 5.

146 Appiano, che aveva visitati gli archivii e che era nato in Alessandria, li fa ascendere fino a 740,000 talenti.

147 Livio (lib. XIV. cap. 4°.) ci parla de' tesori che si erano ammucchiati in Macedonia sotto il regno di Filippo, e sotto quello di Perseo: Velleio Patercolo (lib. 1. cap. 9) ci dice che Paolo Emilio, il quale non trovò che una porzione di questi tesori, portò in Roma una somma equivalente a nove milioni di ducati; e Plinio (lib. XXXIII cap. 3. della Stor. natur.) fa ascendere quasi al doppio questa somma.

148 Plutarco nella Vita di Alessandro dice, che allorché questo principe conquistò le due città di Sesa è d’Echatana, vi trovò ottantamila talenti serbati per i pubblici bisogni, ed una porzione di questi vi era depositata fin da tempi di Ciro. Quinto Curzio (lib. V. cap. 2) fa ascendere la porzione sola trovata in Susa a più di cinquantamila talenti.

149 Plat. in Alcib.

150 Tucidide (lib. II) e Diodoro Siculo (lib. XII) ci dicono che gli Ateniesi avevano riuniti nello spazio di 50 anni tra la guerra di Media e quella del Peloponneso più di diecimila talenti che si custodivano nel pubblico tesoro.

151 Strabone lib. VI.

152 Il tempio di Saturno era il serbatoio di questi tesori, de' quali ce ne fa una brillante descrizione Lucano I. 3. V. 155. Noi sappiamo quali furono le somme immense delle quali s’impadronì Cesare nella guerra civile, e quelle in appresso serbate da Augusto, da Tiberio, da Vespasiano e da Severo, per gli straordinarii bisogni dello Stato.

153 Si sa che il sistema di contrarre un debito nazionale non cominciò in Spagna che nell’anno 1608, e questa è stata una delle potentissime cause della rovina di questa nazione.

154 Cum canerem Reges et praelia, Cynthius aurem Vellit et admonuit. Pastorem, Tytire, pingues Pascere oportet oves....

155 Ho detto che l’è. costata la ribellione delle Sue colonie, perché non per altro motivo, come tutti sanno, il governo cercò di moltiplicare le loro contribuzioni, se non per l’impossibilità nella quale era la metropoli di provvedere a bisogni dello Stato, dovendo pagare 111,577,490 lire d’interesse per i debiti della nazione. Ho detto anche che questo debito obbligherà il governo a dichiararsi fallito; giacche la nazione non può reggere al peso delle contribuzioni, alle quali l’esorbitanza degl’interessi che si pagano per questo debito, la condanna. L’Inghilterra dunque o deve liberarsi da suoi debiti, o deve succombere sotto il loro peso. Infiniti progetti si sono proposti per riuscire in questa salutare intrapresa; ma fin ora questi non han fatto altro che palesare lo zelo di coloro che gli hanno proferiti.

La cassa di mortizzazione, oltre che è un rimedio lento per un male così violento, è stata sospesa, e lo sarà sempre, perché i bisogni dello Stato non gli permettono questo sacrificio. 11 progetto di Gire una ripartizione del capitale del debito fra tutti i sudditi, in maniera che ciascheduno contribuisse una somma proporzionata, alle sue facoltà, per estinguere cosi tutto ad un tratto i debiti pubblici, mostra da sé stesso l’impossibilità d’eseguirlo. Come indagate le facoltà di ciaschedun cittadino? come indagare lo stato delle fortune di tutti i negozianti, di tutti gli artieri, di tutti que’ cittadini che vivono col commercio o coll'industria? come finalmente Obbligare l’artiere a sborsare tutt’insieme una somma, della quale a stento può pagarne l’annualità? Il progetto ai penetrare nell’interno dell’Affrica per la strada del Senegal, e di fare la conquista delle miniere di Bambuck, di questo paese che si chiama il Regno dell'oro, e che sarebbe forse chiamato il Regno del sangue, se gli Europei vi penetrassero; questo progetto, io dico, ol. tre che costerebbe all'Inghilterra molto per le spese che richiederebbe l’erezione d’infiniti forti che sarebbe obbligata a costruire sulla strada di passò in passo, per garantirsi dalle incursioni de' Mandignos e de' Sarakoies, i quali turberebbero sempre i novelli intraprenditori d’un commercio. del quale es i hanno sempre avuta l’esclusiva; oltre che costerebbe pila gran Brettagna molti Ugolini, ricchezza, della quale infelicemente questa, nazione è molto scarsa; oltre che potrebbe essere attraversato dalla nazione rivale che sarebbe alla portata d’impedirgliene l’intrapresa, o almeno di dividerne i vantaggi senza contribuire alle spese; oltre tutti questi ostacoli che sarebbe molta difficile di superare, chi assicurerebbe l’Inghilterra di trovare, dopo tante spese, que tesori che ne sarebbero l’oggetto? le relazioni di pochi viaggiatori, tra i quali non ci è che un solo che sia conosciuto, chiamato Compagnon fattore della Compagnia. Francese dell’Indie Orientali; le relazioni, dico di pochi viaggiatori spesso false, quasi sempre esagera te, potrebbero forse bastare per indurre il governo Britannico ad una simile intrapresa? le spese dovrebbero precedere la sicurezza dell’esito, giacche non è. permesso ad alcun Europeo di penetrare in queste regioni, gli abitanti delle, quali conoscono bastantemente i loro interessi e la nostra avidità, per chiudercene l’ingresso. Là gran Brettagna dunque si esporrebbe al pericolo d’accelerare la sua rovina con quel mezzo istesso col quale cercherebbe di prevenirla. I mali di questa dazione saranno dunque incapaci di rimedio? No: l’Inghilterra avrebbe una strada da tentare senza pericolo, una strada che l’esperienza e l’indole de' suoi cittadini le addita. Questa sarebbe una sottoscrizione libera e volontaria che dovrebbe rimanere aperta sino all’estinzione totale de’ suoi debiti. L’entusiasmo, la generosità e le ricchezze private de' suoi cittadini non tradirebbero le sue speranze. La legislazione non dovrebbe far altro che impiegare questi istrumenti per conoscerne la forza.

156 Il popolo non s’inasprisce, allorché vede il bisogno che ci è del sub soccorso. Durante la celebre Lega di Cambrai, la Repubblica di Venezia non fu obbligata a ricorrere a prestiti, quantunque avesse dovuto resistere a tante potenze riunite. Tutti i suoi cittadini si sottoposero di buon animo ad una tassa proporzionata alle loro facoltà. L’Olanda non ebbe neppure bisogno di ricorrere a debiti nazionali per mettere in piedi un’armata nel 1672. Tutti i suoi cittadini contribuirono senza inasprirsi a quelle. spese, finché ne conobbero il bisogno. Finalmente, quando in Siracusa le donne diedero i loro capelli per fare le corde destinata a lanciare i tratti della morte sull’inimico; quando in Roma il bel sesso si spogliò de' suoi ornamenti, e sacrificò i suoi gioielli per contribuire, alla difesa della patria, minacciata da un vincitore insuperbito; questi doni erano dettati dal cuore e non estorti dal governo; essi non avevano filtro sprone che il bisogno della patria, altr’oggetto che la difesa, altro premio che la pubblica riconoscenza. Niuna di queste repubbliche trovò l’istessa generosità ne’ suoi cittadini, allorché si trattava di dover soccorrere la patria, per una guerra straniera dettata dall’ambizione e non dalla difesa dall'avidità non dal bisogno.

157 E se ne parlerà diffusamente nel quinto libro di quest'opera, come si è potuto osservare nel piano che si è premesso.

158 Cap. 23 extr. de' censib.

159 L’Inghilterra ha creduto di poter impedire l’immissione di alcune mercanzie straniere col caricarle d un dazio che dà a queste mercanzie un valore fitti zio di 100 o di 200 per cento: ha aggiunto a questo dazio le pene più severe contro il contrabbando: ma ha essa ottenuto il suo intento? le immissioni clandestine di queste tali mercanzie non han fatto forse la ricchezza di tante famiglie, non sono esse così frequenti come ogni altra immissione che si fa sotto gli occhi del magistrato e col permesso delle leggi?

160 L’Autore degl’interessi delle nazioni, tom. I, cap. V.

161 Ottanta milioni di lire: questa è presso a poco la quantità d’oro e d’argento che la Spagna riceve in ogni anno dal Perù e dal Messico secondo i manifesti degli scaricamenti de' bastimenti di ritorno dall'Indie Orientali.

162 S’intende sempre di lire.

163 Basta osservare ciò che produsse in questa nazione il sistema erroneo di chiudere tutte le strade che potevano trasportare una porzione del numerario fuori dello Stato, allorché mancò al superfluo di questo lo scolo che l’ambizione di questi due principi gli aveva aperto La Spagna si risente ancora, e se ne risentirà anche per molto tempo, di quest’ignoranza de’ suoi legislatori. Noi l’abbiamo accennato nel capo III del primo libro di quest'opera.


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF














Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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