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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

SOPRA L'OPERA DEL CAVALIER GAETANO FILANGIERI

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

ALCUNI SGUARDI DI PIETRO SGHEDONI

MODENA

PER GLI EREDI SOLIANI

TIPOGRAFI REALI

1826


SOPRA L'OPERA DEL CAVALIER GAETANO FILANGIERI

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

ALCUNI SGUARDI

Al primo volgere sguardi sopra l’Opera del Cav. Filangieri, La Scienza della Legislazione, non ondeggiai irresoluto, presagii fermissimo, che quelle usate foggie di lusinghevoli progetti celerebbero frequenti semi delle antisociali massime, che il sostegno della società si denominano. Tosto mi avvenni nelle sospette traccie. L’aure contagiose che già si beevano dalle ingannate nazioni della tradita Europa, agevolarono a quel libro l’applauso di certi non difficili leggitori. Alletta più ciò che tende a sciogliere, che ciò che tende a vincolare. Scioglimento dalle Leggi non di raro spira la Scienza della Legislazione di Filangieri. Ne richiamerò alcune idee: ma siccome spesso con moltissime parole dice ben poche cose, mi guarderò dal seguirne la prodiga loquacità de’ superflui paragrafi.

Allorché su la pubblica istruzione favella riguardo alla prima classe, che degli artieri e degli agricoltori compone., e che insiem riunisce, istruzione ch’egli fa dai cinque anni incominciare, e ne’ diciotto compiere, qual lettura si crederà, che ad essi nell’età de’ nove anni proponga? Propone i romanzi (1). Chi i romanzi per libro de’ fanciulli consiglia nella scienza della Legislazione, non può che intessere della Legislazione un romanzo, non può che rendere un romanzo la vita de’ suoi allievi. Il romanzo desta ne’ giovani un ardor di animo violento, che oltre i confini del carattere regolare li sospinge, fa che al maraviglioso ambiscano, che si rimuovano con gran dispregio dai modi consueti, e odiino gli oscuri doveri della stirpe nativa. Se l’esperienza ciò mostra un disordine ne’ figli delle non volgari condizioni, che sarà poi in quelli, che nascono alle botteghe ed a’ campi, ed ai quali Filangieri prescrive, che traggano dai romanzi istruzione e pascolo? Egli dice., che loro così prescrive, perchè ogni condizione può avere i suoi eroi. Si avranno dunque per la lettura de’ romanzi gli eroi del martello, della sega, dell’ago, gli eroi della zappa e dell’aratro. E che faremo di questi eroi da cucire e da zappare? Popoleremo d’inauditi operaj l'incantato mondo, che Filangieri architetta, ond’essi ognora si rendan eroicamente laboriosi per quel genere umano, ch’egli con le sue concause modella.

Quando poi tratta della istruzione Religiosa, dice, che l'istruttore ne dovrebbe essere il magistrato educatore, non i ministri della Religione (2): e perchè non questi? Forse perchè il Clero non tende a preparare ne’ suoi allievi i sovvertitori dell’ordine universale, i nemici di ciò che ravvisato fu sempre utile, gli schiavi della libertà, i martiri dell’indipendenza, e le vittime dell’atroce felicità di un sempre convulso mondo? Ecco il gran delitto del Clero nell’istruire, il non fecondare nelle menti quei principii, che tanto versarono le sciagure de’ popoli, e di cui tanto arricchì il suo libro l'umanità di Filangieri. Mi si opporrà, egli scrive, che questa cura deve essere affidata ai ministri dell’altare piuttosto che al magistrato educatore, io risponderò, esso continua, che siccome niuna Religione proibisce ai padri d’istruire nei suoi dogmi i figli, molto meno potrà proibirlo al magistrato. Non ora parlasi di ciò che sia proibito, ma di ciò che sia più giovevole: e appunto gli accorti padri così trovano di maggiore utilità l’affidare al Clero anziché a qualunque altro l’educazione de’ figli proprii, che presso che generalmente experientia duce a quello la commettono.

Dice, che il magistrato si dee supporre più istruito nell’arte di' istruire i fanciulli di quello, che lo può essere un uomo, cioè un sacro ministro, che a tutto altro oggetto ha rivolte le sue cure. Anzi l’inverso ordine sarà da chiunque supposto, perchè a niuno è ignoto, che la scienza d’istruire nella Religione è uno de’ sommi oggetti, per cui il Clero se stesso ammaestra, ed una delle massime cure, alle quali trasportasi.

Finché non si combinano, egli segue, gl’interessi del sacerdozio e quelli della società e dell’impero, è sempre pericoloso il metterlo a parte della pubblica educazione. Ogni Governo sa ciò, che il sacerdozio insegni, giacché non da segreti luoghi, bensì da popolose scuole favella, onde nulla v’ha della notissima di lui istruzione recondito. Ogni Governo sa ancora, quanto il sacerdozio non cessi d’imprimere, che si dee alle leggi ed all’autorità ubbidire, onde non si può da queste lezioni che gran beni ripromettersi. I principii che la Religione fa da’ suoi ministri colla pubblica educazione diffondere, sono i più aurei nodi, che meglio riuniscano fra se e se il genere umano, sono i più fermi sostegni, di cui esulti la società intera.

Per comunicare, dice, l’idea della Divinità ai fanciulli si allontani dall’espressioni tutto ciò, che potrebbe associarla alle materiali immagini. Quando mai cesserà questo sogno di voler cangiare, e specialmente pei fanciulli in una metafisica la Religione? Quando mai si comprenderà, che la Religione senza i materiali segni non lascia ne’ popoli che sentimenti sfuggevoli di pronto languore ed obblio, che idee senza vincoli, che parole senza significazione? Quando alfine si convincerà, che una Religione astratta sarebbe per nazioni di celesti spiriti, non lo sarà giammai per quelle della nostra Spezie? Ciò ravvisarono i legislatori di tutte le genti, e non lo ravviserà l’uomo da sistemi? Ma in che modo si concilierà Filangieri con Filangieri? Qualche pagina avanti dice egli istesso, uno degli errori del nostro secolo, e de' nostri contemporanei è di adoperare la ragione troppo denudata, come se l'uomo non fosse che spirito: trascurando la lingua de’ segni che parla all’immaginazione, si è trascurato il più energico de' linguaggi. Sembra che noi dimenticato abbiamo ciò, che gli antichi conobbero (3).

Parlando dello studio istorico per gli alunni estorta a non porre le moralità nella storia (4).Pure morale scuola delle generazioni che succedono, sembrò ognora il morale quadro delle generazioni che si estinsero: i vizii e la saggezza, i delitti e le virtù, le disavventure e la felicità di quelle fecero sempre trarne pei costumi de’ posteri doviziosa messe di utili avvertimenti. Ma dice, che si dipingano i vizii e le virtù con quei colori, che convengono per far nascere da se le moralità: come ripromettersi che gli alunni nella verde età, e coll’immaturo ingegno, e colla non profonda loro filosofia ne facciano da se quelle applicazioni opportune ai casi umani, alle quali li preparerà chi rivolga la storia alla loro educazione? Sempre sarà di maggiore utilità e guida, se l’accorto autore o maestro ne additi loro le traccie, loro né lumeggi le gran verità, ed insegni a vedere Se stessi nell’uomo dell’istoria, a vedervi la loro indole, i loro pericoli, ed i mezzi di vincere la guerra delle proprie e delle altrui passioni. In ciò usar si possono rapidi modi che nulla intralcino la storia^ brevi cenni che nulla destino la noja, e dolci foggio che allettino le attenzioni.

Filangieri scrive, che Minos proibiva ai giovani di porre in dubbio la bontà delle leggi, che venivano loro insegnate, ma soggiunge lo stesso Filangieri, ch’egli non conviene dell’utilità di tal légge quando le leggi fossero viziose (5). E quand’anche fossero viziose, spetta ai giovani il giudicarle? Come fra scarsi ed incerti lumi di quelli permettere loro di sollevarsi giudici della legislazione? La legislazione che è la grand’opera della ragione, dell’esperienza, è della sagacità, l’opera per la quale penetrare è d’uopo nelle più cupe latebre del cuore umano, scorgervi l’origine, l’ardore, la forza delle inclinazioni, e ciò per cui avvampano indomite, e ciò per cui si arretrano frenate., l’opera per cui si hanno insieme a conciliare i diritti di natura e i diritti di società, quelli fra cittadino e cittadino, fra popoli e sovrani, l’opera che richiede la profonda e vasta mente degli uomini i più maturi, si dovrà sottoporre al giudizio delle menti le più indotte, inesperte, e capricciose, quali sono quelle de’ giovani? Si comprende, che l’avveduto Minos col divietare ai giovani simil giudizio pensava di contenere il precipite loro trasporto a rendersi alteri e turbolenti contra ciò che è, a spregiare l’autorità anzi che ad ubbidirvi, ed in vece delle leggi che vi hanno, a pretenderne altre ch'essi sognino. Volge breve stagione, dacché per tal animo irrequieto e furibondo contra le leggi divennero gli alunni di università della Germania e della Francia contra se stessi tanto perniciosi: il provano i terribili editti che contra loro si fulminarono, le scuole che loro si chiusero, l’Europa che li compianse, e le avversità in cui s’immersero. Guardatevi, incauti giovani, da simil massima di giudicare voi le leggi, massima, con la quale tendono insidie alla vostra inesperta età orrendi uomini, onde formare anche di voi gli strumenti de’ loro delitti, e trarvi nel più deplorabile abisso colla vita intera. Minos ravvisava ch'è ben minore male, che nella legislazione si trovi qualche difetto, di quello sia che la gioventù, che di certo non ha i richiesti lumi per correggerla, abbia il tumultuoso ardir di giudicarla. Appartiene agli uomini i più sapienti il giudicare l’opera la più difficile.

Molti plebei, egli dice, porranno sicuramente i loro figli ne’ collegi insieme co’ nobili, se avranno di che mantenerli. Il figlio del ricco plebeo e quegli del nobile dovranno insieme convivere, allorché verranno nel medesimo collegio dai loro rispettivi padri collocati (6). Tal confusione di nobili e plebei non può che a questi ed a quelli nuocere, e così meno vantaggiose render al generale ordine Luna e l’altra condizione: spirerà a’ plebei orgoglio il vivere con quelli, che hanno per la sublime schiatta alto carattere, infonderà a’ nobili avvilimento il vivere con quelli, che traggono dalla rozza origine abjette idee. E specialmente poi co’ nobili alunni misti i plebei, sognano di essere anch’essi alla nobiltà sollevati, perchè co’ nobili cresciuti, e quindi che signoresco fasto in loro non si eccita, che pensieri non proprii della loro condizione li travolgono? Già mirano con accigliata fronte la paterna casa, anelano distinguersi con istravagante lusso dai mal ravvisati congiunti, obbliano ciò che sono, onde apparire ciò che mai non saranno, e torcere lungi da quelle cure, che li mostrerebbero della loro stirpe, che già abborrono, anzi che dell’altrui, colla quale si avvezzarono. Si serbi l’ordine delle condizioni, se si brama l’ordine della società; se quelle andranno indistinte e confuse, questa sovente sarà perturbata e lacera.

Allorché dei morali discorsi tratta, che per gli alunni della prima classe consiglia, dice che uno de’ più importanti oggetti di questi morali discorsi sarà di rendere caro e desiderabile lo stato di conjugio, cioè di matrimonio, agli allievi che sono già vicini ad essere dalla pubblica educazione emancipati, vicini agli anni diciotto (7). Mentre spesso la gioventù suole a desiderii troppo precoci di matrimonio trasportarsi pel fuoco dell’età, l’impeto delle passioni, le immagini della libidine, l’esempio degl’indocili, e i colloquii de’ seduttori, se a tali stimoli che ognor la infiammano, ne sieno anche riuniti altri da chi la educa, qual freno potrà dippoi contenerla? Allora non più lezioni, non congiunti, non leggi rattenerla potranno dal precipitarsi con ardori irresistibili a troppo intempestivi nodi. Se in tali anni si dipinge agli allievi lo stato coniugale, farlo deesi in modo, che s’infondano loro in vece di soverchii stimoli le acconcie massime per sempre meglio sottometterli anche in ciò al ponderato assenso de’ cauti genitori, alla cui esperta sagacità e benevolenza appartiene il presto o tardi concedere il matrimonio affigli secondo gl’ineguali casi, le più o meno numerose proli, e il vitto non dubbio della famiglia novella.

Giunta nel diciottesimo anno al suo termine l’educazione, dice che gli allievi nell’abbandonare il collegio debbono in solenni modi condursi al tempio e che ivi innanzi all’ara la ceremonia comincierà coll’inno della riconoscenza, concepito dal filosofo, cantato dal sacerdote, e che gli allievi ne faranno il coro (8). Dunque il tempio della Religione si renderà tempio della filosofia, cantore di filosofici concetti il ministro de’ religiosi riti., in vece d’inno sacro un inno profano, in vece dell’inno di ringraziamento usato dalla Chiesa generale un inno di fantasia tessuto da mente qualunque. Come in questo coro di giovani agricoltori ed artieri, che innanzi all’altare di Cristo canterà l’inno del filosofo, si ravviseranno gli allievi del cristianesimo, il cristiano artiere ed il cristiano agricoltore?

Volgasi ora ad altri oggetti. Scrive Filangieri; Il dogma di un’altra vita, di un Giudice che tutto vede, e che premia o punisce, questo dogma fondamento degl’indicati beni può divenire inutile, può divenire pernicioso (9). Nulla dire si poteva ne’ più inacconci, nulla ne’ più fallaci modi. Non è il dogma che divenga pernicioso, è l'abuso che gli uomini ne possono fare, che tale può rendersi. Anziché mai per se stesso divenga pernicioso quel dogma, fu in qualunque secolo e nazione sommamente utile pel freno umano. O si ottenebri la notte, o rifulga il giorno, se v’ha un Giudice, che sempre tutto vede, e che premia 0 punisce, da quanti delitti può il timore di quegli immensi occhi e di quegli sguardi universali, da quanti delitti può in ogni dove contenere chi mediti d’intraprenderli? In reconditi luoghi questi penetri, di furtivo passo aggirisi, sia per muovere spergiura lingua sia per involare altrui proprietà, od assalire innocenti vite, quante volte reprimerà nella cupida mente il rapace impulso, o gli cadrà dalla sospesa mano il quasi vibrato stilo, risovvenendo che un Giudice onnipotente allora lo mira, che il Dio de’ fulmini gli soprasta, che il Dio da cui pendono cielo ed abisso, l’eterno giubilo o l’eterna pena, è il testimonio dell’opera, che in quell’istante va a commettere? Se per tal dogma può sempre palpitare il colpevole genere umano, ovunque dello stesso ben applicato dogma eccheggi la terra, Filangieri anziché usare non vero ed oltraggioso annunzio aveva a dire, che l’abuso di questo sempre per se stesso benefico dogma può essere agli uomini dannoso, come lo può essere l’abuso di qualunque altro massimo principio.

Dice, che sole due passioni possono condurre alla virtù, l’amore della patria e della gloria (10). Dubito, che infiammino alla virtù ancora altre passioni. Non l’amore della patria e della gloria trasportò dall’uno all’altro emisfero apostoli della croce, e li fece ignoti alla patria ed alla gloria perire fra boschi ed antri, onde spirare l’umanità a uomini bruti, arricchire d’immensi popoli lo stato sociale, e mettere anche ivi in comunicazione con Dio la nostra Spezie. Quai portenti di virtù non si arrecano anche fra noi da animi maravigliosi, che solo accesi dalla Religione, e prodighi di sé per l’altrui utilità nulla più bramano che di celare agli sguardi pubblici l’olocausto continuo di loro medesimi? Nulla aggiugnerò, poiché tutti comprendono di chi favelli, e troppo vasto quadro richiederebbe il dipingere tai prodigii di virtù innumerevoli.

Il desiderio di distinguersi è la madre comune della vanità e dell? amore della gloria... questo desiderio che si manifesta nel barbaro e nel civile, nell’empio e nell’eroe, nello stolto e nel saggio (11) (12). Come si manifesta nello stolto? Ben manifestarsi può nel barbaro e nel civile, nell’empio e nell’eroe, poiché anche in loro si trovano la ragione e l’avvedutezza, onde volgere a profitto coll’uso o coll’abuso quell’irrequieto stimolo: ma come manifestarsi può nello stolto, che appunto tal egli è, perchè avvedutezza e ragione gli mancano, e cosi gli mancano da non potere fare di quello né uso né abuso? L’abjetta, fosca, ed insensata mente dello stolto non si potrà riguardo al manifestarsi quel desiderio non si potrà mai colla mente luminosa, energica, e sublime del saggio rammemorare.

L’uomo può essere felice senza, convivere co’ suoi simili (13). Ciò forse può dirsi dell’uomo selvaggio, ma non dell’uomo sociale. Riguardo all’uomo sociale quasi ogni passo, giorno, e momento, quasi ogni luogo, bisogno, caso, azione, e l’intera vita dimostrano, che per essere felice si trova atteso lo scambievole soccorso nella necessità di convivere con gli altri uomini. Ne avrebbe Filangieri rinvenuta in qualunque uomo la prova: adunque in se stesso ancora.

Le regole della giustizia mi dicono, che l’individuo di una società, cioè di uno stato viene liberato da tutti i doveri, che ha con essa, subito che rinunzia a tutti i suoi vantaggi... e che quando egli se ne proscrive volontariamente, questa non può punirlo (14). Se ognuno disciogliere si potesse 'volontariamente dallo stato o dalla società, cui appartiene, tutti gli stati o tutte le società, e perciò la società generale, che solo di esse componesi, vacillerebbero in una terribile incertezza e lotta di sempre minacciata dissoluzione. Non avrebbe più base l’edilizio sociale. Non avrebbe più vincolo la sociale costituzione. Ecco l’errore, causa orrenda del massimo fra i delitti contra la società, la ribellione: massimo fra i delitti, perchè di nuovo precipita ai mali della feroce indipendenza il genere umano, da’ quali si trasse con la benefica rinunzia a quella procellosa parte di libertà naturale, con cui non potrà mai godere gl’immensi beni della libertà civile.

La pena altro non è che la perdita di un diritto... perciò l’esilio sarà una pena molto picciola pel uomo del popolo nell’aristocrazia e nella monarchia, e pel nobile nella monarchia, perchè nei primi due Governi l'ignobile, nel secondo il nobile non hanno alcun diritto alla sovranità (15). Se anche non vi fossero pene che nella perdita di un diritto, quanti diritti si possono perdere senza aver diritto alla sovranità? Perciò quante gravi angoscie posson agitare un esule, senza che avesse a divenire sovrano? Non è una gravissima pena il non potere più vivere nel seno della patria, in mezzo a’ suoi beni, e tra i proprii congiunti? Ciò non è una pena picciola, bensì luttuosissima. Tutto quel sovvertimento di famiglia, d’interessi, di agi, e di vincoli i più diletti sommamente affligge, dunque sommamente castiga. Se l’esule è proprietario, ecco il suo patrimonio alle cure altrui abbandonato. Se mercante, ecco che il suo traffico si perturba o spegnesi. Se uomo d’arti o d’impiego, egli nel nativo suolo godeva un prezzo non dubbio delle sudate opere o del conseguito uffizio, ma nell’estere contrade è incerto di ritrovare sicuro vitto e lucrose occupazioni. Se guida seco la famiglia, che insolito dispendio, se seco non la conduce, che tetri affanni! Tutto ciò non è pena leggiere anche per chi non ha diritti sovrani.

La legge dovrebbe torre all’agricoltura gli ostacoli dovrebbe far passare nelle campagne una parte delle ricchezze e degli uomini che marciscono nelle città (16). Appunto perchè marciti nell’ozio delle città, nulla si gioverebbe con essi all’ubertà delle campagne, e molto si nuocerebbe in quelle ai costumi de’ popoli. Che dal languido braccio d’uomini neghittosi attendere pei lavori, i quali richiedono l’incallita mano di gente nerboruta? Come sospignerà l’aratro, come tratterà la zappa, chi sempre visse nell’ignavia? Non potrà ne’ fervidi mesi abbronzare su gli adusti campi, chi trasse sempre nelle ombrose città le arse stagioni, né potrà irrigidire su le brine frequenti, chi ognora ingannò attorno a’ fuocolari i giorni gelidi.

Dissi, che il far passare nelle campagne una parte degli uomini, che marciscono nelle città, nuocerebbe in quelle ai costumi de’ popoli: in gran parte tali uomini atteso i lunghi ozii usi alle taverne, alla dissolutezza, alle frodi, alla rapacità, ai tumulti, e ad ogni genere di vizii ne infetterebbero le genti agresti: ed anzi che rendersi essi più laboriosi e probi non farebbero, che rendere tra quelle co’ perversi discorsi ed esempii meno operosa l’industria, meno costante la fedeltà, meno pudica la gioventù, meno venerata la Religione. In vece di proporre che si faccia passare nelle campagne chi marcisce nelle città, consiglierei sempre l'inversa legge, cioè il vietare che passino nelle città dalle campagne gli operaj per prendervi stabile dimora, al che non di raro si volgono, perchè ivi allucinati dallo splendore dell’altrui opulenza e lusso credono di ritrovarvi con facili mezzi un sicuro vitto, e godere con minor fatica non prima goduti agi, errore lusinghevole, che diviene un male e per le campagne, e per le città, e per essi medesimi. Siccome di ciò favellai altrove (17), nulla ne aggiugnerò al presente. Riguardo poi a chi nelle città marcisce nell’ozio, e rifuggendo di pascersi dei frutti del sudore non fa che nudrirsi di quelli dell’inerzia, dissi ancora nel libro, che dalla nota si accenna, come ripararvi si deggia, ed astrignere a cure profittevoli le vite scioperate.

Mi si conceda di qui richiamare, quanto di opposto a Filangeri su la libertà della stampa e il divieto de’ giuochi ebbi nell’istesso libro ad avvertire.

Non sembra da convenirsi con Filangieri su la libertà della stampa.

Assai assai non ti lacerò, inorridita Europa, la libertà della stampa? Non estinse assai la felicità della generazione presente colla menzogna di procurarla alle generazioni venture? Col far disperdere le leggi, vibrare le scuri, sovvertire ordine politico, morale, e religioso, coll’imbere d’errori immensi sotto sembianze d’immense verità le fantasie non tentò assai di distruggere la Costituzione sociale, ed immolare i traditi popoli al nefando arbitrio d’uomini dispietati? l’esperienza sciolse ormai su la libertà della stampa il problema, e ad eterni caratteri di sangue ne scrisse la soluzione negli annali del mondo. La libertà della stampa sarà sempre la massima tattica della ribellione, e la ribellione il massimo flagello de’ popoli.

Breve intreccio, anziché lungo novero di sofismi protessero le illusioni funeste di quella libertà rovinosa: sofismi che dissimili di linguaggio, il parvero anche d’idee, ma furono sempre le idee istesse, che si reiterarono di volumi in volumi, e tra gli altri si riprodussero nella sempre feconda de’ proprii e degli altrui errori opera di Filangieri, La Scienza della Legislazione (18). Ivi dunque li ravvisiamo, in vece che altrove l’occhio aggirisi.

Tosto Filangieri ripete quella sentenza dolosa, che si dee permettere la libertà della stampa, ma punire poi l’autore, che divenga con questa nocecole e reo. A che giova la pena del reo e nocevole autore? Riconduce essa al nulla il pernicioso libro? Lo svelle dalle altrui mani, il rapisce ai pubblici sguardi, e ne depura l’infetto mondo? A che giova la pena, mentre quantunque sia l’autore punito dalla legge, nondimeno ne sono i popoli depravati dall’opera, ella seduce gl’intelletti, precipita i cuori, si diffonde di nazione in nazione, e tramandasi in perpetuo sovvertimento fino all’ultima posterità? Chi la scrisse, corrompe anche dopo secoli di tomba chi la legge. A che può dunque riparare quel castigo, se continua ad impervertire le genti quel libro? Che mai è la pena di qualche denaro, che mai sono alcuni mesi di carcere in proporzione di un delitto, che reca un danno universale e perpetuo? Tre anni addietro la corte d’assise di Parigi condannò a tre mesi di prigione, a cinquecento franchi di multa, e alla spesa del processo il Sig. Berenger per esser colpevole, dice il decreto, d’aver oltraggiato la pubblica Morale e la Religione con una raccolta copiosissima di canzoni e di altre poesie, delle quali si erano impresse dieci mila copie. All’aspetto di queste dieci mila copie, le quali oltre il potere su le prime depravare dieci mila leggitori, impervertire ne possono tante altre migliaja, sotto quanti occhi sieno per trascorrere di età in età, finché dell’istesse se ne ritrovi fra gli uomini vestigio, all’aspetto di questo universale e perpetuo danno che sono mai, si replichi, i tre mesi di carcere ed i cinquecento franchi dello sconsigliato e pernicioso Berenger? Niuna pena civile adeguare può quel carattere di danno perpetuo e universale. Su la terra è un delitto inespiabile.

Se tal delitto espiarsi non può, non rimane alle Sovranità che il tentare ogni mezzo di prevenirlo, se pure un mezzo vi possa essere: per la felice sorte de’ popoli vi è, esso è la precedente revisione. Piuttosto che il vano castigo dell’autore, perchè nocque con la stampa, si faccia precedere alla stampa la revisione, perchè egli non abbia a nuocere: siccome vi dee essere chi giudichi di qual misfatto divenne reo con un impresso libro, affinché se ne decreti la pena, non è meglio che piuttosto vi sia chi giudichi innanzi d’imprimerlo, di qual misfatto diverrebbe reo, affinché se ne vieti l’impressione? E così in vece dì usare un mezzo che nulla ripari al delitto, quando è commesso, si adoperi un mezzo, che prevenga dal commetterlo. Si obblierà dunque per la libertà della stampa quel gran principio, che la filosofia di qualunque secolo, credè il più utile, che si trovò il più utile dall’esperienza di tutte le nazioni, e che pel più utile anteposero ad ogni altro, quanti legislatori meditarono per la felicità del genere umano, quello di prevenire il più che sia possibile i delitti?

Se anche la revisione possa cadere in qualche errore, possa impedire qualche verità, ciò produrrà sempre minore male, che non ne versa la libera stampa col depravare le intere nazioni, col sovvertire l’ordine sociale, ed avvolgere in calamità estreme. Reca mai effetti così spaventevoli la revisione della stampa, o non previene ella, perchè non accadano? Vi è la precedente revisione della stampa nell’Austriaco impero, ed è uno de’ più tranquilli e più fausti imperi della terra. Vi è di nuovo la precedente revisione della stampa nel regno di Napoli, e di nuovo quel regno rallegrasi di gran quiete e felicità. Richiamata si è la precedente revisione della stampa nel Piemonte, e già esultano di gran quiete e felicità col loro Sovrano quei popoli, ora che la sempre pericolosa libertà della stampa nulla lor la turba, l’avvelena, la estingue.

Filangieri dice: A misura che gli errori si pubblicheranno dalla libertà della stampa, verranno discreditati o combattuti dalla stessa libertà della stampa. Ma è certo, che i libri che li combatteranno, giungano a tutti gli sguardi e luoghi, dove pervennero i libri, che li diffusero? È così agevole, che l'errore si discrediti e combatta, come lo è, che seduca e vinca? L’errore ha un grati sostegno, che manca alla verità, lo ha nelle più nocevoli passioni: inteso ad allettarle, discioglierle, e invigorirle, usano esse ogni arte per dischiuderne le vie, eccitarne il plauso, e condurlo al trionfo: intesa la verità ad assalirle, reprimerle, e debellarle, usano esse ogni mezzo per renderla dubbia, spregiata, ed abborrita: onde per queste arti v’ha sempre a dubitare, che lascino idee più profonde e vittoriose i libri, da cui gli errori, sono sparsi, che quelli, da cui sono combattuti.

In un popolo, aggiugne Filangieri, allontanato dall'errore, approssimato alla verità, condotto alla virtù da tutte quelle concause, che il nostro legislativo sistema porrebbe in azione, in questo popolo il tribunale del quale si parla, quello dell’opinione, sarebbe saggio e virtuoso, ed unendo queste due qualità alla sua originaria ed inseparabile onnipotenza non avrebbe bisogno d’altro, che d’essere avvertito del bene che potrebbe fare, e del male che potrebbe evitare per ottenere l’uno, ed impedire l’altro, ed eternare in questo modo la pubblica prosperità. Quando un sì perfetto popolo, allontanato dall'errore, approssimato alla verità, e condotto alla virtù da tutte quelle concause apparisca su la terra, si potrà concedere, che sia, dalla libertà della stampa avvertito, ma finché esso non soggiorna che nelle carte di Filangieri, vi avrà sempre pericolo, che tutti gli altri popoli sieno dalla libertà della stampa depravati. Allorché si tratta della vera legislazione, allorché del non sognato bene o male degli uomini, è d’uopo che si consultino gli annali dell’esperienza, non s’ intrecci un romanzo d’ipotesi, né si effigino nazioni ad arbitrio.

Vi è un tribunale, egli continua, quello della pubblica opinione, che col fatto ci dimostra, che la sovranità è costantemente e realmente nel popolo, e che non lascia in certo modo di esercitarla malgrado qualunque deposito, che ne abbia fatto nelle mani di molti o di un solo, o d’un Senato o d’un Re» Anzi il tribunale della pubblica opinione, e quello del pubblico interesse, e quello dell'esperienza generale dimostrano, che i popoli coll’unirsi nello stato civile, e deporre nelle mani d' un Senato o d’un Re la sovranità ne rinunziano all’esercizio per non esser vittime della propria volubilità, corruzione, e ferocia: e che niun Re o Senato accetterebbe il deposito della sovranità se la potessero i popoli a capriccio e cederla e ripigliarla, e renderla un flusso e riflusso di perpetuo e orribile tumulto.

Vi è un diritto comune, egli segue, ad ogni individuo... dipende dal dovere di contribuire, per quanto ciascuno può, al bene della società, alla quale appartiene, ed il diritto che ne dipende, è quello di manifestare alla società istessa le proprie idee, che crede conducenti o a diminuire i suoi mali, o a moltiplicare i suoi beni. Ognora risonare si fa il nome di diritto ben più per celarne, che per diffinirne la natura. È desso un diritto assoluto? No senza dubbio, perchè escluderebbe la costituzione sociale, la quale non si forma che dalla rinunzia di una parte dell’assoluto diritto, cioè dalla rinunzia che fanno i popoli di quella parte di libertà, che sarebbe loro perniciosa, affinché colla stessa che rinunziarono, e che sociale costituzione divenne, proteggasi loro l’altra parte che tennero, quella cioè che è innocente, utile, necessaria. Se dunque non serbarono che la libertà necessaria, utile, innocente, non può rimanere ad essi un’ assoluta libertà di stampare, che l’esperienza mostrò divenir colpevole, rovinosa, funesta.

Sinché la libertà della stampa potrà in sua difesa spargere quegli errori su i mal ravvisati diritti de’ popoli, su i diritti che ritennero, e su quelli che rinunziarono per isfuggire ai terribili mali dell’atroce loro indipendenza, vacillerà sempre di nuovo retrograda la società, ricadrà sempre in uno stato peggiore della sua selvaggia origine, di nuovo spariranno le progressive traccie dell'umana sapienza, di nuovo saranno vilipese le leggi, schernite le autorità, estinte le repubbliche, conculcate le monarchie, spente le condizioni, dispersi gl’istituti, riguardata legittima solo la forza che distrugge ogni legittimità, irresistibili le fazioni ch’esterminano, quanto di retto da esso si abbomina, di nuovo vaste calamità, innumerevoli delitti, immensi orrori, e rovina estrema dell’ordine universale. Sono presaghe voci di quello, che per la libertà della stampa accadrà, o sicura storia di quello, che per la libertà della stampa avvenne?

Non sembra da convenirsi con Filangieri riguardo ai giuochi.

Egli scrive: La passione del giuoco, finché non ha cagionato il delitto, non è suscettibile del freno delle leggi (19). Si dovrà dunque obbliare anche pei giuochi quel gran principio, io dissi altrove, che la filosofia di tutti i secoli credè il più utile, che si trovò il più utile dall’esperienza di tutte le nazioni, che pel più utile anteposero ad ogni altro, quanti legislatori meditarono per la felicità del genere umano, il principio di prevenire il più che sia possibile nelle lor cagioni i vizii e i delitti? Ma è pure quell’aureo principio, il cui uso lo stesso Filangieri inculca, la cui trascuratezza deplora: prima di punire il vizio, egli dice, si dovrebbero estinguerne le sorgenti... Contenti di aver punito il vizio hanno trascurato di prevenirlo (20).

Aggiugne: Quando il giuoco renderà ladro il giuocatore, allora sarà punito, come ladro, non come giuocatore. La legge che punisce il ratto e l’adulterio, punisce ella l’amore? Egli vuole con ciò dire, che il giuoco non dee essere vietato, benché possa condurre a delitti, come non dee essere vietato l’amore, benché possa del pari condurre a delitti, quasi che fosse necessario lasciare nel mondo così il giuoco come l’amore: strana e mostruosa ipotesi di eguaglianza in due sì diverse cause di misfatti, che F una viene dal principio della creazione, l’altro dai principii della depravazione, questa senza utilità alcuna è operosissima di sicuri danni, l’altra se non è alle volte innocente, è spesso benemerita per le passioni giovevoli che eccita, ed è sempre necessaria per la conservazione e fecondità del genere umano che produce.

Dice: L’inclinazione al giuoco... come azione è indifferente, come passione non è punibile (21): in altra parte raccomanda egli medesimo quelle leggi di Polizia, che vietano alcune spezie di azioni, che non sono per loro stesse nocive alla società, ma che possono divenirlo per le loro conseguenze (22). Quand’anche l’inclinazione al giuoco, come azione, fosse indifferente, ella può essere per le sue conseguenze nociva: dunque secondo Filangieri le leggi dovrebbero proibirla come azione, che possa rendersi nociva, e permetterla come azione, che debba riguardarsi indifferente.

Continua: Tutti i delitti dipendono dal disordine delle passioni, ma le leggi hanno dovuto contentarsi di punire gli effetti e di semplicemente dirigere le cause (23). Pensarono gli accorti legislatori solo a dirigere, non ad estirpare le cause, quando esse recavano beni maggiori de’ mali, o quando essendo intime alla natura dell’uomo non soggiacevano all’impero delle leggi: ma hanno procurato di estirparle, non solo dirigerle, quando nulla essendo utili riescivano del tutto dannose, e non essendo vincolate alla natura dell’uomo erano solo opera dell’arbitrio», dell’errore, e della corruzione.

Soggiunge: L'impotenza della sanzione penale contra il giuoco si è manifestata in tutte le nazioni, che l'hanno adoperata. Questo è un immaginare ciò, che richiedesi pel suo sistema, ma un dire l’opposto di ciò, che avviene fra tutti i popoli: il che se celasi da Filangieri, ben si dimostra dall'esperienza. Allor che si trasgredisce la legge contra i giuochi, ognun ravvisa, che non è per l'impotenza della sanzione penale riguardo ai giuochi soli, ma per quella impotenza della sanzione penale per cui si trasgredisce alle volte legge qualunque. Vi sono ancora le pene contra il furto e l’assassinio, e pure si rapisce e si trucida, nondimeno veruno stimerà giammai inutili tali pene, benché non contengano tutti da quei misfatti: le pene non reprimono chiunque, frenano i molti, e contengono dal generale disordine. Ecco l’opera utilissima d’ogni penale sanzione.

Due cause fra l’altre rendono spesso inoperose le pene, la prima è il difetto di proporzione, la seconda è il languore della vigilanza: il prova anche lo stesso esempio, che reca Filangieri. Luigi XIII, egli scrive, giunse a dichiarare infami ed intestabili coloro che giuocato avessero ai giuochi d’azzardo. Il pubblico fu irritato dalla ferocia della pena, si chiusero le porte, che si tenevano aperte, e si giuoco (24). Non dice, che il pubblico fosse irritato dalla pena, ma dalla ferocia di questa: dunque non perchè credesse quel vizio immeritevole di pena, ma perchè trovò la pena oltre la proporzione del vizio.

Dice, che si chiusero le porte, che si tenevano aperte, e si giuoco. Adunque la legge ebbe forza d’imprimere assai timore, perchè le porte si chiudessero, ma il governo non ebbe assai vigilanza per sorprendere i trasgressori, che entro le porte si occultavano. Se temevasi l'autorità con le porte aperte, perchè senza entrare avrebbe scoperto, si sarebbe anche temuto con le porte chiuse, se per iscoprire fosse entrata.

Abbia dunque proporzione la pena contra i giuocatori, abbian vigilanza i governi per sorprendere questi, e far eseguire quella, ed essa avrà la sua efficacia, come ogni altra pena contro delitto qualunque. Così appunto riguardo ai giuochi accade ora pressoché fra tutte le nazioni, e se ne vede l’universale effetto, giacché essendosi quasi da ogni illuminato Sovrano proibiti, si ubbidisce generalmente al divieto, ovunque veglia l’autorità: fuor di qualche celata trasgressione vi si ubbidisce nell’ Inghilterra, nella Germania, nella Russia, nella Spagna, nell’Italia, e pressoché in tutti gli Stati dell’Europa; il che ad evidenza mostra, quanto Filangieri erri, allorché dice, che l'impotenza della sanzione penale contra il giuoco si è manifestata in tutte le nazioni, che l'hanno adoperata.

NOTE

(1) Lib. IV. Part. I. Cap. X. Art. III.

(2) Lib. IV. Part. 1. Cap. X. Art. VI.

(3) Cap. XV.

(4) Lib. IV. Part. II. Cap. XXV. Art. V.

(5) Lib. IV. Part. II. Art. VII.

(6) Lib. IV. Part. I. Cap. XXIV.

(7) Lib. IV. Part. I. Cap. X.

(8) Lib. IV. Part. I. Cap. XV.

(9) Lib. V. Cap. III.

(10) Lib. IV. Part. II. Cap. XLI.

(11) Lib. IV. Part. I. Cap. X. Art. IV.

(13) Lib. IV. Part. II Cap. XXXI.

(14) Lib. III. Part. IV. Tit. VIII. Cap. LV.

(15) Lib. III. Part. III. Cap. XXXVI.

(16) Lib. III. Tit. VII.

(17) Delle Influenze Morali T. II. pag. 54. Terza ediz.

(18) Lib. IV. Part. III. Cap. LIII.

(19) La scienza della Legislazione. Lib. III. cap. V.

(20) Come sopra.

(21) Come sopra.

(22) Ivi Lib. III. T. VI.

(23) Ivi cap. LV.

(24) Come sopra.



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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF







Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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