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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

COMENTO

SULLA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

DI G. FILANGIERI

SCRITTO DAL SIGNOR BENIAMINO CONSTANT

PRIMA TRADUZIONE ITALIANA

SECONDA EDIZIONE

ITALIA

1828


PARTE I
CAPITOLO PRIMO
Piano  Comento
CAPITOLO II
D’un epigramma di Filangieri contro...
CAPITOLO III
Degl'incoraggimenti per l’agricoltura
CAPITOLO IV
Della conversione de' principi al sistema...
CAPITOLO V
Della rivoluzione salutare preveduta...
CAPITOLO VI
Dell’unione della politica e della...
CAPITOLO VII
Dell'influenza che Filangieri attribuisce...
CAPITOLO VIII
Dello stato di natura, della formazione...
CAPITOLO IX
Degli errori in fatto di legislazione

CAPITOLO X
Delle osservazioni di Filangieri sulla...
CAPITOLO XI
Delle osservazioni di Filangieri sulla Francia
CAPITOLO XII
Della decadenza pronosticata da...
PARTE II
CAPITOLO PRIMO
Oggetto di questa...
CAPITOLO II
Della tratta dei neri
CAPITOLO III
Della Popolazione
CAPITOLO IV
Continuazione dello stesso soggetto
CAPITOLO V
Del sistema del Signor Malthus sulla...
CAPITOLO VI
Degli scrittori che hanno esagerato...
CAPITOLO VII
D’un'inconseguenza di Filangieri

CAPITOLO VIII
Della divisione delle proprietà
CAPITOLO IX
Del commercio de' grani
CAPITOLO X
Dell’agricoltura considerata come
CAPITOLO XI
Della protezione accordata all'industria
CAPITOLO XII
Nuova prova dall’errore sistematico di Filangieri
CAPITOLO XIII
Dell’istituzione dei giurati e maestri...
CAPITOLO XIV
Dei privilegi in materie industriali
CAPITOLO XV
Delle imposizioni
PARTE III
CAPITOLO PRIMO
Delle accuse affidate...
CAPITOLO II
Del segreto dell’istruttoria
CAPITOLO III
Delle denunzie
CAPITOLO X IV
Nuove riflessioni sull’idea di affidare...
CAPITOLO V
Del dritto d'accusare affidato ai mercenari...
CAPITOLO XX
Che il Magistrato accusato dev’essere...
CAPITOLO VII
Della prigionia
CAPITOLO VIII
Dell’abbreviazione delle formalità
CAPITOLO IX
Dei testimoni a discolpa
CAPITOLO XI
Del giudizio per via di Giurati
CAPITOLO XII
Della pena di morte
CAPITOLO XIII
Dei pubblici lavori
CAPITOLO XIV
Della deportazione
PARTE IV
CAPITOLO PRIMO
Dell’educazione
CAPITOLO II
Della religione
CAPITOLO III
Dell'andamento del politeismo
CAPITOLO IV
Del sacerdozio
CAPITOLO V
Dei misteri
CAPITOLO VI ED ULTIMO
Conclusione
NOTE

COMENTO – PARTE I

SULLA

SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

______________________________


CAPITOLO PRIMO

Piano di questo Comento

Allorché mi determinai a fare un Comento all’Opera di Filangieri, fili mosso da due considerazioni: la prima, perché trovai piacere nel rendere omaggio alla memoria d'uno scrittore benemerito del suo paese e del suo secolo; la seconda, perché gli stessi difetti della sua Opera mi somministrarono motivo di rettificare le sue idee, quando queste erano Else; di svilupparle, quando erano mancanti di estensione e di chiarezza; di combatterle finalmente, quando non erano in perfetta armonia co’ princìpi di quella libertà politica, e specialmente di quella libertà individuale, che io considero come il solo scopo delle associazioni umane, ed il cui stabilimento siamo noi destinati ad ottenere, sia con dei progressivi e blandi miglioramenti, aia in forza di terribili ma inevitabili sconvolgimenti.

L’intenzione di Filangieri non è mai stata quella di opporsi a questi principj; ma l’epoca in cui venne alla luce la sua Opera, e il di lui carattere personale, per nobile e disinteressato che fosse, gli impedirono di camminare per la dritta strada del vero, con passo abbastanza fermo e sicuro.

Non può dirsi di lui come di Montesquieu, che, osservatore ingegnoso e profondo di quanto esisteva, sia divenuto sovente l'apologista sottile di quanto aveva osservato. L'immortale autore dello Spirito delle leggi mostrassi di frequente zelante partigiano delle inequalilA, e dei privilegi. Egli riguardava quelle cose, che un tempo immemorabile aveva consacrate, come altrettante parti costituenti l’ordine sociale; e nella sua qualità d’istoriografo più che di riformatore delle instituzioni, non altro ei dimandava che conservarle col descriverle. Il suo genio però, ed una certa acrimonia, inseparabile dal genio, gli dettavano talvolta delle espressioni, con cui fulminava gli abusi medesimi, pe' quali le sue abitudini e la sua posizione sociale inspiravangli deh la parzialità e

dell'indulgenza. Filangieri all'opposto più libero di Montesquieu da' pregiudizi di nobiltà, non ebbe alcuna ripugnanza a dichiararsi riformatore. Egli non opinava che una cosa dovesse essere rispettata, perché esisteva; e tutti gli abusi sarebbero caduti, se la sua volontà fesse bastata a distruggerli. Ma Filangieri non aveva il genio di Montesquieu. Una specie di dolcezza o di ritegno nel carattere, lo trascinava a concessioni contrarie ai suoi principi, mentre la veemenza inseparabile da una gran forza intellettuale costringeva Montesquieu, malgrado la sua moderazione, a profferir sentenze, incompatibili colle sue concessioni, in favore dei sistemi stabiliti. Ne risulta, che Filangieri, dopo avere scritto contro gli abusi con una mira più ostile di Montesquieu, gli ha combattuti realmente con molto maggior debolezza. Gli attacchi di lui divennero transazioni e più sforzossi di mitigare il male che di estirparlo. Havvi nella sua Opera un’umile e dolorosa rassegnazione, che tende a impietosire il potere che disarmar non ispera. Forse prima della formidabile rivoluzione, che ha scosso e minaccia tuttavia il mondo questa stessa rassegnazione non era priva di qualche merito, di quello cioè della prudenza. Se gli uomini avessero potuto ottenere la riforma dei mali di cui si lagnavano, con le ragioni unite alle preghiere, invece di conquistarla con delle scosse, dolorose tanto per i vinti che per i vincitori, le cose avrebbero probabilmente preso una piega molto migliore. Ma in oggi il più è stato fatto, i sacrifici sono da ambe le parti consumati, ed il linguaggio di popoli liberi, che s’indrizzano ai loro rappresentanti, non potrebbe esser simile a quello di sudditi, che implorano pietà dai loro padroni.

Mi si troverà dunque frequentemente in opposizione con Filangieri, non quanto al fine, ma quanto ai mezzi. Per rendere più chiara la mia idea citerò un esempio: Filangieri si mostra convinto ad ogni pagina, che i privilegi ereditari sono oppressivi e funesti, ma propone agli stessi nobili il sacrifizio delle loro prerogative. Egli è coll’illuminarli per via d’argomenti, col commuoverli con delle preghiere, col mettere sotto i loro occhi il quadro del male cagionalo da essi, e che sovr’essi stessi ricade, ché egli spera di scuotere i loro animi, esulta loro stessa generosità fonda il successo di cui si lusinga. Persuaso al par di lui, che l'ineguaglianza, dalla nobiltà proveniente, sia un flagello, non è da quelli, che ne traggon profitto, che io aspetto d'esserne liberato. Lo aspetto bensì dai progressi della ragione, non in una casta, ma nella massa del popolo, in cui risiede la forza, e dal cui seno per l'organo dei suoi mandatari partono le riforme e le instituzioni conservatrici delle riforme

Questa differenza tra la dottrina di Filangieri e la mia, si applica a tutto ciò che in generale concerne il governo. Il Filosofo napoletano sembra di voler sempre affidare all’autorità la cura d’imporre a se stessa dei limiti, ma questa cura, a parer mio, appartiene ai rappresentanti delle nazioni. E’ ormai passato il tempo, in cui si diceva, che conveniva' far tutto per il popolo, e nulla col popolo. Il governo rappresentativo in null’altro consiste, che nell'ammissione del popolo a prender parte nei pubblici affari. Egli è dunque col suo concorso che ora si fa quanto per lui si fa. Cognite e definite sono le funzioni dell'autorità. Non devono già emanare da lei i miglioramenti, ma dall'opinione, che comunicata nella massa del popolo colla libertà che deve attorniarla al suo manifestarsi, ripassa da questa massa popolare in quelli da essa scelti per suoi organi, e così perviene nelle assemblee rappresentative che pronunziano, e nei consigli dei ministri, che eseguiscono.

Credo d'aver sufficientemente indicato le discrepanze, che vi saranno tra il Comento ed il testo.

Io voglio, che una costituzione prescriva, al potere in favore della libertà, quanto Filangieri vuole ottenere dal potere medesimo. L'industria, a senso mio, deve conquistare colla sua sola indipendenza i vantaggi ch'egli implora dal potere in favore dell'industria medesima. Altrettanto dicasi della morale e dell'istruzione. Laddove Filangieri vede una grazia, io scorgo un dritto, e dovunque egli. implora protezione, io reclamo libertà.

Quanto agli altri difetti, che si possono rimproverare a Filangieri, l'indulgenza a loro riguardo è una mera giustizia.

S’incontrano, a dire il vero, in questo scrittore molte massime, che appariscono al giorno d’oggi triviali. Ma nel 1780 esse avevano, se non il merito d'esser nuove, almeno quello di esser utilissime a ripetersi; poiché l'autorità, che le disprezzava di già come declamazioni, le trattava anche come paradossi.

Filangieri si abbandona spesso all'enfasi ed alla declamazione; ma scriveva in presenza degli abusi, e si deve perdonare alquanta prolissità ad uno sdegno, che si parte dall'intima convinzione. Era egli d’altronde piuttosto un cittadino di rette intenzioni, che un uomo di spirito vasto. Esacerbato dai mali della specie umana, e colpito dall’assurdità di alcune instituzioni, da cui questi stessi mali derivavano, sembra d’aver preso la penna piuttosto da filantropo, che da scrittore trascinato dal suo talento. Mancano in lui e la profondità di Montesquieu e la perspicacia di Smith, e l’originalità di Bentham. Egli nulla scopre da per se stesso, ma consulta i suoi antecessori, raccoglie i loro: pensieri, sceglie i più favorevoli alla felicità del gran. numero, i di cui dritti vengono da lui determinati in un modo molto mite, e riuniti così i materiali dà ad essi quell’ordine, che gli sembra più conveniente. Quest’ordine' medesimo non è sempre il più naturale, o il migliore. Filangieri consuma un tempo inutile a dimostrare ciò, di cui nessuno dubita; consacra delle intiere pagine ad eccitare. nell’anima del leggitore quei sentimenti di entusiasmo, o di sdegno, che l’autore dello Spirito delle leggi v’inspira con due linee. Ma anche nelle divagazioni del pubblicista Napoletano si ritrova la coscienza e l’amore del bene, e siccome nei momento, in cui fu pubblicato il suo libro, l’opinione pendeva pei miglioramenti, e riconosceva la necessità di limitare il dispotismo, cosi, accade sempre di veder Filangieri divagare o declamare in favore dei miglioramenti medesimi, ed in onore della libertà risulta dal carattere di Filangieri (ed io prendo quest'osservazione dalla prefazione del suo traduttore) che la sua ragione non si solleva al disopra della ragione pubblica qual era quarant'anni fa, e certo la ragione pubblica d'allora era molto inferiore a quella formatasi dopo trent'anni di contrasti, di rivoluzioni e di esperienza; ma per l’appunto questa mediocrità di ragione, se mi è permesso di esprimermi così, è, secondo me, il vantaggio principale dell’opera di Filangieri rispetto a noi. Noi vi troviamo il mezzo di assicurarci dei progressi della specie umana in punto di legislazione e di politica da un mezzo secolo in poi, e di paragonare i principj altre volte ammessi su queste materie da uomini molto istruiti, con quelli che formano presentemente l’oggetto del nostro esame, e delle nostre dispute quotidiane. Se questo paragone ci conduce da un lato a rigettare le esagerazioni, figlie dell’inesperienza, e che rendono inapplicabili le migliori teorie, e se dall’altro ci preserva dal ricadere, mediante un impulso retrogrado, sotto il giogo dei pregiudizi, che i nostri predecessori avevano scosso, il lavoro a cui Filangieri avrà servito più di motivo che di guida, non sarà, cred'io, senza vantaggio.

Dal conto che ho reso del piano di questo Comento, chiaramente rilevasi, che io aveva la scelta, o di seguitare il filo delle mie proprie idee, richiamando quelle di Filangieri, o di render subordinato al suo il mio lavoro, adottando l’ordine stesso delle materie quale esiste nella sua opera.

Quest’ultimo partito mi è sembrato preferibile, quantunque mi abbia spesso costretto a separare; ciò che avrei voluto riunire. Ma il lettore sarà più in grado di confrontare il Comento col testo, e di decidere quando vi sarà disparere tra Filangieri ed il suo commentatore.


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CAPITOLO II

D’un epigramma di Filangieri contro i perfezionamenti nell'arte militare

«Tutti i calcoli, che si sono esaminati alla presenza a dei principi, non sono stati diretti che alla soluzione a d’un solo problema: trovar la maniera di uccidere v più uomini nel minor tempo possibile.»

Introduzione, p. 4.

Per poco che leggasi Filangieri con attenzione, si osservano in lui molti di quei difetti, di cui gli scrittori del secolo decimottavo gli avevan dato l'esempio. Uno dei più palpabili si era il bisogno di faredetto, cosa, che impegnavali a ricercare dei giri inaspettati per darsi un'aria di ardire e di novità. La definizione del problema, che i sovrani dell'Europa hanno cercato di sciogliere, nei loro perfezionamenti dell'arte militare, si risente di questo vizio in alto grado. Certamente vi era molto da dire sulla mania belligera dei principi, e sulle garanzie da opporre ad una tal mania. Ma un epigramma che colpisce in falso, era certamente il peggior ritrovato, da cui si poteva incominciare. Con ciò veniva a discreditarsi anticipatamente l’esame d'una questione importante, lasciando presumere, che non si attaccherebbe, che con esagerazioni, declamazioni e motteggi.

Ecco, a quanto mi sembra, la serie delle idee che l’autore italiano avrebbe dovuto seguitare a questo riguardo.

Vi sono nello stato sociale, delle epoche, nelle quali la guerra è nella natura dell'uomo, e nel novero delle necessità dei popoli. Allora quanto può rendere terribili le guerre e con ciò appunto abbreviarle, è buono ed utile. Conseguentemente, quando ad una simile epoca il governo si occupa nell'indagare qual sia la maniera di uccidere il più gran numero di nemici nel minor tempo possibile, questo governo si occupa di una ricerca salutare nel descritto stato di cose. In fatti, subitoché si rende indispensabile di uccidere i nemici, è meglio ucciderne subito molti, anziché pochi, per non essere obbligati a far lo stesso in più volte, e sarebbe desiderabile di poter ritrovare un mezzo sicuro di uccidere oggi quelli, che ad ogni modo converrà uccidere domani.

Ma vi sono anche dell'epoche nella società, nelle quali la civilizzazione avendo creato per l'uomo dei nuovi rapporti con i suoi simili, e con ciò una nuova natura, la guerra cessa di essere una necessità nazionale. Non bisogna allora applicarsi a render la guerra meno micidiale, ma a frapporre degli ostacoli a qualunque guerra inutile.

Ora la questione consiste nel sapere, in quale delle due epoche noi ci troviamo, ed egli è evidente che noi ci troviamo nella seconda (1).

Perché mai i popoli dell'antichità eran guerrieri? Perché, divisi in piccole popolazioni, si disputavano a mano armata un ristretto territorio; perché, spinti dalla necessità gli uni contro degli altri, o combattevano, o si minacciavano costantemente; perché, quelli stessi, che non volevano essere conquistatori, non potevano deporre il ferro senza sottoporsi ad essere conquistati. Tutti compravano la loro sicurezza, la loro indipendenza, la loro esistenza al prezzo della guerra.

Il mondo odierno è, sotto questo rapporto, precisamente l'opposto del mondo antico.

Mentre ogni popolo formava altra volta una famiglia isolata, nemica nata delle altre famiglie, esiste al presente una massa d'uomini, sotto differenti nomi e sotto diversi modi d'organizzazione sociale, ma per natura omogenea. Essa è forte abbastanza per non aver nulla a temere dalle orde ancor barbare; essa è abbastanza civilizzata per risentire il peso della guerra: essa ha una direzione uniforme verso la pace.

Noi siamo giunti all'epoca del commercio, epoca, che necessariamente deve succedere a quella della guerra, nel modo stesso che è stata necessariamente preceduta da questa.

Non è questo il momento di sviluppare tutte le conseguenze di questo cambiamento, che, come ho detto poc’anzi, ha dotato l’uomo d’una nuova natura. Ritornerò più tardi su queste conseguenze; Mi basta per ora d’aver posto il principio.

Egli è evidente, che essendo trascorsa pei moderni popoli l'epoca della guerra, il dovere dei governi è quello di astenersene.

Ma perché i governi non si discostino da questo dovere, non conviene confidare nei governi medesimi.

In tutti i tempi la guerra sarò per i governi un mezzo di accrescere la loro autorità; sarà per i despoti una distrazione che presenteranno ai loro schiavi, onde meno si accorgano della loro schiavitù sarà per i favoriti dei despoti una diversione, a cui ricorreranno per impedire alloro padroni di penetrare nelle particolarità della loro amministrazione vessatoria; sarà per i demagoghi un mezzo di accendere le passioni della moltitudine, e di precipitarla in quegli estremi, che saranno confacenti con i loro violenti consigli o colle loro interessate vedute.

Ne risulta, che se si lascia ai governi (e per governi io intendo tutti quelli che s’impadroniscono del potere, i demagoghi al pari dei ministri), se, dico, si lascia ai governi la libertà di cominciare o di prolungare le guerre, il frutto che i popoli dovrebbero raccogliere dai progressi della civilizzazione, sarà per questi perduto, e le guerre continueranno lungo tempo dopo terminata l’epoca della loro necessità.

Non perverremo dunque a preservare i governati dall’arbitrario dei governanti, che separando dall’arbitrario la questione della guerra. Ma, come fare questa separazione? Mediante una costituzione rappresentativa, in forza della quale, i mandatari della nazione abbiano il dritto di ricusare all’autorità i mezzi d’intraprendere o di continuare le guerre inutili, e quello di sottoporre ad una grave ed inevitabile responsabilità i depositari del potere, che si permettessero di por mano a tali imprese.

Ciò nulla stabilisce anticipatamente sulla questione propriamente detta del dritto di pace e di guerra, quale è stata discussa nelle nostre assemblee, e quale viene decisa dalla nostra Carta attuale. Sia pure, che il monarca costituzionale abbia, in circostanze urgenti, la prerogativa di dichiarare la guerra; questa è una cosa di semplice formalità, purché si possano ricusare ai di lui ministri i fondi indispensabili per sostenerla, e purché questi stessi ministri siano responsabili alla dichiarazione da essi suggerita al re.

Vedesi subito, che in una simile questione (e Io stesso accaderà in molte altre) lo scioglimento della difficoltà dipende dallo stabilire le garanzie costituzionali. Filangieri, col suo inopportuno epigramma, non fa che renderla più oscura. Se la guerra fosse necessaria, il governo avrebbe ragione di voler uccidere il più gran numero di nemici nel minor tempo possibile; se poi la guerra è inutile, egli è un delitto l’intraprenderla. Il numero de' morti e gl’istrumenti di distruzione sono cose indifferenti.


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CAPITOLO III

Degl'incoraggimenti per l’agricoltura

«Non sì è pensato a premiare l’agricoltore, che ha il tirati due solchi nel mentre che gli altri non ne tirali no che uno solo.»

Introduzione, p. 4.

A prima vista qui scorgesi un sintomo dell’erroneo sistema di Filangieri relativamente all’influenza della protezione dei governi. Siccome poi sempre ritorna su questo punto nel corso della sua opera, mi prevalgo di questa prima occasione per confutarlo. Ma prima di tutto rimonterò all’origine del suo errore, che è stato a lui comune con molti uomini illuminati del decimottavo secolo.

Allorché i filosofi di quest’epoca cominciarono ad occuparsi delle principali questioni della sociale organizzazione, rimasero colpiti dai mali prodotti dalle vessazioni e dalle inette misure dell’autorità. Ma, principianti nella scienza, pensarono, che facendosi differente uso dell’autorità medesima, si otterrebbe un bene proporzionato al male che era derivato dal di lei uso vizioso. Non si avvidero essi che il vizio consisteva nell’intervento stesso di questa autorità, e che lungi dal sollecitarla ad agire in altra guisa, era meglio pregarla a restare nell’inazione. Conseguentemente voi li vedete chiamare il governo in soccorso di tutte le riforme che propongono: agricoltura, industria, commercio, lumi, religione, educazione, morale, essi gli sottomettono tutto, a condizione di regolarsi sulle loro vedute.

Sì annoverano pochissimi scrittori dell’ultimo secolo, che non siano caduti in quest’errore. Turgot, Mirabeau e Condorcet in Francia, Dohm e Mauvillon in Germania, Tommaso Payne e Bentham in Inghilterra, Franklin in America; tale si è a un dipresso la lista di quelli che hanno sentito, esser d’uopo affidare alla libertà, all’interesse individuale, all’attività, che l’esercizio delle proprie facoltà e la soppressione di qualunque impedimento inspirano all’uomo, tutti i progressi egualmente che tutti i bisogni, la prosperità di tutte le condizioni egualmente che il successo di tutte le speculazioni, la quantità relativa delle produzioni egualmente che il loro equilibrio. Gli altri hanno preferito la protezione all'indipendenza, gl’incoraggimenti alle garanzie, i benefici alla neutralità.

Gli economisti stessi, la maggior parte almeno, non andarono esenti da questa colpa. Essi erano però tanto meno scusabili, inquantoché sembrava che dovessero esserne preservati dalla loro stessa massima fondamentale.

Lasciate fare e lasciate passare era la loro divisa, che applicavano però alle sole proibizioni. Gl’incoraggimenti li sedussero. Essi non videro, che le proibizioni e gl’incoraggimenti sono due diramazioni d’un sistema medesimo, e che mentre si ammettono gli uni, si è minacciati dagli altri.

L’agricoltura era, tra tutte le professioni, quella che gli economisti desideravano di poter trarre a preferenza dallo stato di avvilimento, in cui era immersa. Il loro favorito assioma, cioè che la terra è l’unica sorgente delle ricchezze, faceva sì, che riguardassero come cosa importantissima il lavoro che la feconda, ed eran compresi da giusto e legittimo sdegno quando consideravano l'oppressione sotto cui gemeva la classe, agli occhi loro, la più indispensabile e la più laboriosa.

Quindi i loro progetti chimerici per sollevare questa classe, renderla considerata, ed anche illustre. L'idea di accordare delle ricompense agricoltore intelligente, che con il suo lavoro, o con dei metodi nuovi avrebbe trovato il mezzo di accrescere la ricchezza pubblica non appartiene dunque a Filangieri. Ha potuto prenderla dagli economisti, dal marchese Mirabeau, per esempio, l'autore dell’Amico degli uomini; ma ben si scorge, aver egli sposato particolarmente questa idea. Egli vi ritorna con maggior calore e con maggiori particolarità in un'altra parte della sua opera (lib. Il, cap. XV) ed in aumento della sua prima proposizione, vuole, che indipendentemente dagl'incoraggimenti pecuniali, s’istituisca un ordine, che, portato dal sovrano medesimo, sia destinato a decorare gli agricoltori più abili.

Sarà facile di concepire l’assurdità di questi espedienti puerili e bizzarri, considerando l’epoca, in cui Filangieri li proponeva.

Quest'era in un tempo, in cui la classe agricola era sottomessa a leggi, e pagava imposizioni né discusse, né consentite da alcun suo rappresentante: in un tempo, in cui senza organi per reclamare, senza mezzi per difendersi, essa sopportava in silenzio la parzialità di queste leggi, l'ineguaglianza di queste imposizioni: in un tempo, in cui delle servitù di ogni specie pesavano sudi lei, interrompevano i suoi lavori, turbavano il suo riposo; in un tempo finalmente, in cui riposta nel più basso gradino della gerarchia sociale essa sopportava in ultima analisi tutta la soma dei pesi sociali: poiché ciascuna delle altre classi ne rispingeva più basso il carico per esentarne se stessa.

Aggiungete a questi infortuni, per cosi dire, legali, le oppressioni casuali, effetti dell’isolamento della stessa classe agricola, della sua povertà, della sua posizione disarmata, l'intervallo immenso che la separava dal potere supremo e condannava i suoi gemiti a perdersi e svanire nell'aria, l'insolenza delle autorità intermedie che intercettavano i suoi declami, la facilità che v’era di opprimere contro le leggi, e in forza delle leggi, uomini ignari egualmente delle loro protezioni e delle loro minaccie, la rapacità del fisco, che, spossato da' ricchi, doveva risarcirsi a spese del povero; un arbitrario tanto più sfrenato in quanto che si esercitava alla spicciolata contro vittime oscure da una turba suddivisa di agenti subalterni, veri visir dei villaggi, oppressori nelle tenebre.

Ed in tale stato di cose, e nella veduta di arrecar rimedio a questo stato di cose, Filangieri proponeva degl'incoraggimenti all’agricoltura e delle distinzioni per gli agricoltori. Ma l'agricoltura era ferita nel suo principio vitale. I mezzi di riproduzione le erano rapiti. Gli agricoltori erano degl'iloti, delusi in tutti i loro dritti, caricati di lavori, condannati a tutte le privazioni. L'autorità stessa, con delle intenzioni benefiche, era incapace a sanare questa piaga incurabile. La natura è più forte dell'autorità, e la natura vuole che ogni causa sia seguita dal suo effetto, e che ogni albero porti il suo frutto. Qualunque progetto filosofico è una chimera allorché non ha per base una libertà costituzionale.

Simili progetti possono servire di testo alle declamazioni oratorie di sinceri declamatori. Possono offrire a dei ministri accorti il mezzo di dare un pascolo nuovo e piccante agli ozj del loro padrone. Essi possono, ingannando il loro padrone, calmare i suoi rimorsi, se lo spettacolo della miseria pubblica eccita in lui qualche rimorso. Ma né la classe agricola, né l’agricoltura traggono alcun profitto da questi palliativi impotenti.

Deplorabile sarà la condizione della classe agricola dovunque questa classe non avrà in sé medesima, vale a dire, per mezzo di mandatari identificati con essa, mediante la loro scelta, una certezza di rimedio pubblico e legale. La condizione della classe agricola in Francia era deplorabile prima della rivoluzione. Ne chiamo in testimonio la taglia, i lavori sulle strade pubbliche, la milizia, i ventesimi, i testatici, i sussidj, le decime, le manimorte, ec., e tutti gl'innumerevoli pesi si pecuniarj che personali, la di cui diversa e bizzarra nomenclatura empirebbe delle pagine intiere. Ne chiamo in testimonio le non meno numerose esenzioni reclamate con tanto scandalo ed ottenute con tanta facilità dalle classi superiori, come se i loro doveri verso la società fossero stati in ragione inversa dei vantaggi garantiti loro dalla società. Ne chiamo in testimonio le terre smunte, e mal coltivate, limitrofe a dei sontuosi parchi, e le capanne ricoperte di strame attorno a dei magnifici castelli, tacite proteste, che finirono coll’essere pur troppo energiche contro un ordine sociale di tal fatta.

Filangieri, ed i pubblicisti suoi successori, avrebbero dovuto ben penetrarsi di queste verità. Invece di sognare degl’incoraggimenti parziali, delle vane distinzioni dispensate necessariamente a caso dall'alto del trono, e distribuite a seconda del capriccio di agenti mal fidati, avrebbero dovuto reclamare le garanzie, che ogni paese deve al cittadino che l'abita, le garanzie stesse, senza le quali ogni governo è illegittimo.

Con queste garanzie l'agricoltura ed ogni altro genere d'industria potranno fare a meno della protezione dell'autorità. Egli è inutile, che questa s'ingerisca d'incoraggire ciò che è necessario; basta che non frapponga ostacoli. La necessità si farà obbedire. Quando il governo non agisce in modo vizioso, le produzioni sono sempre in perfetta proporzione colle dimande. N’eccettuo i casi imprevisti, le calamità repentine, d'altronde assai rare, allorché si lascia fare alla natura, ma che sono, più spesso che non si pensa, l'opera delle false misure dei governi. Ma di ciò ragionerò in un'altra parte di questo Comento. Nel corso ordinario delle cose, l’agricoltura non ha bisogno d’incoraggimento, ma di sicurezza. Ora la sicurezza non trovasi che in buone istituzioni costituzionali. Quando l'agricoltore può essere arrestato, ed imprigionato, perché ha per vicino un delatore, o per nemico qualche domestico d'un uomo potente; quando il fruttcrd suo lavoro può essere gravato di eccessive imposizioni, perché tale e tal proprietario, ricco o nobile, ne ha ottenuto l'esenzione;quando i suoi figli, utili soci delle sue giornaliere operazioni, gli sono sfati strappati per andare a perire in guerre lontane, potete voi credere, che inquieto del presente, spaventato dall'avvenire, egli continui a consumarci in isforzi, il di cui benefizio può essergli rapito? Siete voi, che portate nel di lui animo la disperazione e l'abbattimento, e pretendete poi d'incoraggirlo! voi vessate, opprimete la classe intiera, ed immaginate, che una leggiera elemosina, o (cosa veramente ridicola!) una decorazione da voi creata e conferita con disprezzo a qualche individuo protetto dai vostri agenti, sia per dar nuova vita a questa classe impoverita e denudata! La vostra sciocchezza o il vostro dispotismo hanno isterilito il suolo, e voi credete, che i vostri favori, simili ai raggi del sole, renderangli la primitiva sua fecondità! Voi apparite, sorridete, distribuite non so quali Vane ed immaginarie distinzioni, e già, a sentir voi il lavoro va a riputarsi onorato per un tratto di secoli! Strana arroganza! ciarlatanismo grossolano, che sedurre poteva per lo passato qualche buon vaneggiatore, ma che, là Dio mercé perde di credito ogni giorno più. L'imperator della China, egli pure, si degna di condurre un aratro colle sue mani imperiali, e di tracciare un Solco, in Una festività solenne. Ciò non impedisce, che la China non sia sempre in preda al la farne e che i parenti non espongano sulle sponde dei fiumi i figli ch'essi non sono in istato di nutrire. Ciò nasce dall'essere la China uno stato dispotico; e quando gli acricoltori sono esposti alle bastonate per tutto il corso dell'anno, l'onore che credesi far loro una volta l'anno né li ricompensa, né li consola.

Mi troverò costretto a ritornare più d'una volta Sul sistema degl'incoraggimenti, quando Filangieri tratterà dell'industria, e darò allora nuove dilucidazioni, che proveranno esser nocivo questo sistema anche in riguardo alla morale.


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CAPITOLO IV

Della conversione de' principi al sistema pacifica

«Il grido della ragione e della filosofia è finalmente h giunto sino a' troni.... ed i principi diane cominciato n a conoscere.... che vi è un altro mezzo, indipendente dalla forza e dalle armi, per giugnere alla grandezza.»

Introduzione, p. 2.

E’ poi ben vero, che se i principi hanno finalmente sentito ch’essi dovevano maggior rispetto alla vita degli uomini, e che la vera grandezza non consisteva nella forza e nelle armi, ne andiamo noi debitori alla ragione, che è giunta a farsi strada sino presso ai troni? Nulla manderebbe più a genio, quanto il poter convincermi di quest’idea lusinghiera, ma non posso vincere certi miei scrupoli. Io rimonto all’epoca, in cui Filangieri scriveva queste linee, e getto lo sguardo sullo spazio di quarantanni. Vedo finita la guerra de' sette anni, ma non tarda a cominciare quella d’America. Durante la guerra americana, Giuseppe II minaccia la Prussia, ed attacca i Turchi. La Svezia si slancia pazzamente contro la Russia. La Polonia è divisa, e se non ne risulta una guerra, ciò nasce, perché i condividenti si mettono tre contro uno. Finalmente i re dell’Europa si coalizzano contro la Francia, che vuol darsi un governo libero: dopo dieci anni di fieri combattimenti essi sono vinti; ma allora il governo francese abiura la moderazione e la giustizia, e per altri dieci anni lo spazio che separa Lisbona da Mosca, ed Amburgo da Napoli, è nuovamente inondato di sangue. Son queste soddisfacenti prove dell’impero della ragione?

Havvi nulladimeno nella proposizione di Filangieri un fondo di verità, sfigurato da' complimenti, che partono da una buona intenzione, ma che sono poco meritati dal potere.

Come ho già osservato (cap. Il) un sistema di guerra è in contradizione collo stato attuale della specie umana. L'era commerciale è giunta, e. quanto più domina la tendenza al commercio, tanto più si indebolisce quella per la guerra.

La guerra ed il commercio, non sono che due differenti mezzi di ottenere il medesimo scopo, quello cioè di possedere ciò che si brama. Il commercio non è altro che un omaggio, che, chi aspira al possesso, rende alla forza del possessore. Esso è un tentativo per ottenere di buon grado quanto non si spera più di ottenere colla violenza. Un uomo, che sarebbe sempre il più forte, non avrebbe mai l’idea del commercio. L’esperienza sola, provandogli, chef la guerra, l’impiego cioè della sua forza contro la forza altrui, è esposta a varie resistenze ed a molte disfatte, lo sprona a darsi al commercio, vale a dire, ad adottare un mezzo più dolce e più sicuro d’impegnare l’interesse degli altri ad acconsentire a ciò che conviene al suo proprio.

La guerra dunque precede il commercio: quella è l’impulso d’un desiderio privo d’esperienza, questo è il calcolo d’un desiderio illuminato. Il commercio dunque deve prendere il luogo della guerra, ma nel prenderlo la discredita, e la rende odiosa alle nazioni.

Questo è ciò che si osserva ai giorni nostri. L’unico scopo delle moderne nazioni è il riposo, col riposo gli agj, e, come loro sorgente, l’industria.

La guerra diviene, ogni giorno più, un mezzo inefficace ad ottenere questo scopo. Le sue vicende non offrono più né agl’individui, né ai popoli, dei benefici corrispondenti ai resultati dei lavori pacifici e delle permute regolari. Presso gli antichi una guerra felice aumentava le ricchezze pubbliche e private dei vincitori, cogli schiavi, coi tributi, colle terre che si dividevano; presso i moderni una guerra felice è per certo più costosa che fruttuosa.

La situazione dunque dei popoli moderni vieta ad essi d’essere bellicosi per interesse; e delle ragioni parziali, sempre però derivanti dai progressi della specie umana, e conseguentemente dalla diversità dell’epoche, riunisconsi alle cause generali per impedire alle nazioni odierne d’essere bellicose per inclinazione.

La nuova maniera di combattere, le armi variate, l’artiglieria, hanno spogliato la vita militare delle sue più grandi attrattive. Non v’ha più lotta contro il pericolo: non resta che la fatalità. Il coraggio deve penetrarsi di rassegnazione, o comporsi d’indifferenza. Non è più lecito di abbandonarsi a quella compiacenza di volontà, di azione, di sviluppo di forze fisiche e morali che faceva amare agli antichi eroi, ai cavalieri del medio evo i combattimenti di corpo a corpo. La guerra ba dunque perduto il suo allettamento, del pari che i suoi vantaggi.

Ne risulta, che un governo, che in oggi parlasse della gloria militare, e per conseguenza della guerra come fine, mal conoscerebbe lo spirito delle nazioni e quello del secolo. Il Figlio di Filippo non ardirebbe più di proporre ai suoi sudditi d’invadere l’universo, ed il discorso dì Pirro a Cinea parrebbe il colmo dell'insolenza o della follia (2).

I governi, che riconoscono le verità più tardi che possono, ma che malgrado i loro sforzi, non possono evitarle per sempre, hanno osservato il cambiamento operatosi nella disposizione dei popoli. Essi gli rendono omaggio nei loro atti solenni e nei loro discorsi; essi sfuggono di apertamente confessare l'amore delle conquiste, ed è sempre gemendo che impugnano le armi. In questo aspetto, come Filangieri l'osserva, la ragione si è aperta l'accesso sino ai troni; ma forzando il potere a cambiar di linguaggio, ha essa, come piace al Filosofo italiano di sperarlo, illuminato lo spirito o convertito il cuore di quelli, a cui il caso ha conferito l'autorità?

Molto mi duole di non poterlo credere. poiché non vedo nella loro condotta maggior amore di pace; soltanto vi scorgo maggiore ipocrisia.

Allorché Federigo attaccava l'Austria per impadronirsi della Slesia, ei diceva di far valere soltanto antichi diritti per dare più conveniente estensione al suo regno; allorché l'Inghilterra si spossava di uomini e di danari per soggiogare l’America, essa non aspirava che a ricondurre dei figli sedotti, sotto le leggi protettrici della metropoli; allorché essa porta la devastazione nell'Indie, essa non intende far altro che vegliare sugl'interessi del suo commercio ed assicurarne la prosperità; allorché tre potenze coalizzate, facevano a brani la Polonia, esse non avevano altra veduta, che quella di rendere ai Polacchi agitati la tranquillità, perturbata dalle loro intestine discordie; allorché queste stesse potenze invadevano la Francia divenuta libera, esse si proponevano solo di consolidare i troni vacillanti; se al dì d’oggi esse opprimono l’Italia e minacciano la Spagna, egli è in favore dell’ordine sociale, il quale reclama la loro intervenzione. In tutto ciò non si pronunzia mai la parola conquista. Ma il sangue dei popoli è egli perciò in minor procinto di scorrere? Che importa loro il pretesto sotto cui si versa? Il pretesto stesso non è altro, in fondo, che una derisione di più.

Non bisogna dunque seguir la traccia indicataci dal troppo credulo Filangieri, e fidarsi all’influenza della ragione su i troni, ed alla saviezza dei principi, per preservare il mondo dal flagello delle guerre ingiuste o inutili. Conviene che anche la saviezza delle nazioni se ne ingerisca, e sul modo digerirsene ho già ragionato al cap. II.


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CAPITOLO V

Della rivoluzione salutare preveduta da Filangieri

«Da per tutto si sente un fermento salutare, che ci h fa sperare prossimo lo sviluppo del germe legislativo.»

Introduzione,p. 9.

Se si giudicasse dalle sole apparenze, non sarebbe possibile di non esser commossi da un sentimento di tristezza, e di pietà per la specie umana, paragonando l’avvenire, che Filangieri qui le promette, collo’ stato odierno di quasi tutti i popoli dell’Europa. Cosa è divenuta quella brama di miglioramenti e di riforme, che animava le classi più elevate della società? Dov’è quella libertà della stampa, che onorava ad un tempo ed i principi che non la temevano, e gli scrittori che ne facevano uso? La superstizione stessa, di cui il pubblicista Napoletano celebra la disfatta, non è forse l’oggetto dei rincrescimenti di tutti i depositar} del potere? Impotenti a ristabilirla quale esisteva in passato, cieca e crudele, ma sincera, non si sforzano forse essi a sostituirvi delle dimostrazioni comandate, ed un’intolleranza calcolata, non meno innesta e molto meno scusabile? Non vediamo noi l’ipocrisia applicarsi dovunque a riedificare ciò che i lumi avevano abbattuto? Non si posano delle pietre d’appoggio per il fanatismo in ogni paese?Cosa importa, che le pretensioni spirituali abbiano ceduto alla politica autorità, se questa autorità stessa fa della religione un istrumento suo proprio, raddoppiando così la sua forza a danno della libertà?

A che ci serve l’aver privata l’oppressione aristocratica del suo antico nome di feudalismo, se questa ricomparisce esigente quanto lo era prima, ed anche più astuta sotto una nuova denominazione? Se il dominio, perduto per i signori feudatarj, deve passare ai grandi proprietarj, che per la maggior parte sono i signori feudatarj dei tempi antichi? Se la grande proprietà, resa inalienabile per mezzo delle sostituzioni e sempre crescente appunto per non essere alienabile, ri( 4 ) costruisce l'oligarchia? E finalmente, nel modo stesso in cui il feudalismo procura di mostrarsi sotto un vocabolo meno spaventoso, il dispotismo, che i costumi avevano raddolcito, non abjura forse le sue dimostrazioni filantropiche? Non ha egli forse sostituito all'assioma ormai rancido del dritto divino una fraseologia, che non ha altro vantaggio che quello di essere più astratta, e non se ne prevale egli forse per interdire egualmente ai popoli ogni specie di esame delle leggi, ed ogni resistenza all'arbitrario?

Tuttavolta questo affliggente paragone tra ciò che è stato e ciò che abbiamo il dritto di sperare, non deve in conto alcuno scoraggici. Il restare momentaneamente delusi era nella natura delle cose, come vi è anche l'ottenere in ultimo un pieno successo.

Allorché i filosofi proclamano i principi della giustizia e della libertà, accade spesso, che le classi chiamate superiori applaudiscono loro, perché le conseguenze di questi principi relegate in una oscura distanza non eccitano alcun sospetto. C'inganneremmo però a partito, se ne conchiudessimo, che queste classi persevereranno a volere il sistema, che esse sembrano, e dirò di più, ch'esse credono allora di adottare. V' è nel cuore dell'uomo un bisogno di approvazione, pel quale si lascia trasportare anche lo stesso potere, ogni qualvolta si lusinga che per soddisfarlo non dovrà fare alcun sacrifizio reale. Ne deriva, che quando l'opinione s'innalza con forza contro il dispotismo, contro l'orgoglio dei nobili, o contro l'intolleranza religiosa, i re, i nobili ed i preti cercano d'ingraziarsi con questa opinione, ed i privilegiati di diverse specie fanno ostensibilmente causa comune colla massa delle nazioni contro le loro proprie prerogative. Talvolta anche sono essi sinceri nella rinunzia che esternano. E siccome acquistano applausi ripetendo degli assiomi, la di cui applicazione non si annunzia in conto alcuno come prossima, così l'ebbrezza delle loro parole cagiona loro dei moti disinteressati, ed immaginano che all'opportunità, e sempre colla convinzione che questa non si presenterà mai, sarebbero pronti a fare quanto essi dicono.

Ma se viene il momento di realizzare queste idee speculative, il loro interesse si fa avanti per dimandar conto al loro amor proprio degl'impegni contratti. L'amor proprio gli aveva resi facili per la teoria, ma questo interesse li rende nemici accaniti della pratica. Vantavano essi le riforme a condizione che non si farebbero, simili a coloro che celebrerebbero l'astro divino, purché la notte durasse sempre: ed in fatti l'aurora è spuntata, e quasi tutti quelli che l'avevano invocata, si sono dichiarati di lei nemici, e tutte le predizioni di miglioramenti, di cui Filangieri ci offre minutamente il pomposo treno, sono svanite come fuochi fatui.

Questo movimento retrogrado era inevitabile, come vedesi, e questo stesso movimento ci dimostra una importantissima verità, cioè, che le riforme che vengono dall'alto sono sempre ingannevoli.

Se l'interesse non muove tatti gl'individui, perché ve ne ha di quelli che la loro nobile natura innalza al di sopra delle ristrette idee dell'egoismo, l'interesse muove tutte le classi. Non possiamo aspettarci nulla di efficace o d'intiero da una classe che sembra agire contro il suo interesse: avrà essa un bell'abjurarlo per pochi istanti, che sempre ad esso farà ritorno; giunta al punto consumare irremissibilmente il sacrifizio, volgerà indietro i passi, allegando restrizioni e riserve, alle quali neppure sognava, in mezzo alle sue proteste di annegazione e di abbandono. Di tutto ciò siamo noi al giorno d'oggi testimoni. Monarchia assoluta, clero, nobiltà, ciascuno vuol riprendetele prerogative, alle quali rinunziò, accusando il popolo d'usurpazione per aver accettato ciò che eraglisi offerto, e gridando all'ingiustizia e all'inganno, unicamente per essere stato preso in parola.

Ma da questi serotini sforzi inferiremo noi, che le nostre speranze saranno per sempre deluse e la causa dell'umanità irremissibilmente perduta? All'opposto. Noi dobbiamo render grazie all'entusiasmo effimero o alle vane imprudenze delle diverse classi dei privilegiati. Esse hanno reso popolari quei principi contro i quali attualmente cospirano. Per dichiarare la guerra alle istituzioni che le opprimono, le nazioni si trovano bene spesso nel caso di aver bisogno di capi scelti in quelle stesse classi, in di cui vantaggio ridondano le istituzioni medesime. L'eccessiva degradazione toglie il coraggio, e quelli che profittano di questi abusi sono talvolta i soli in istato di attaccarli. Questi capi riuniscono l'armata popolare; essi la disciplinano, l'illuminano. Felici, allorché gli restano fedeli! Ma se essi disertano; non perciò l’armata si sbanda. Essa con facilità sostituisce agli apostati che l'abbandonano, degli uomini scelti nel suo seno e più immedesimati colla sua causa. La vittoria; forse differita; ne diviene più certa e più completa, perché non esistono più tra i vincitori degl’interessi estranei che ne rallentino il corso o ne distolgano il fine.

Non abbiamo dunque alcun timore delle coalizzazioni momentanee; delle declamazioni di circostanza; delle dimostrazioni di forza presentateci con ostentazione per inspirarci terrore. Niuno ormai si riveste impunemente delle insegne della filosofia: il dispotismo, l’orgoglio aristocratico; il potere sacerdotale; tutti hanno voluto farsene un onore: conviene ora, che ne sopportino gli oneri. Questi possono venir diminuiti da una rassegnazione ragionevole; ma possono esser crudelmente aumentati dalla resistenza. È decisa però la sorte della specie umana: il regno del privilegio è finito.

La tirannide non è formidabile, dice un autore inglese, che quando soffoca la ragione nella sua infanzia. Essa può allora mettere un argine ai suoi progressi e ritenere gli uomini in una diuturna imbecillità. Ma non v’è che un solo momento per proscrivere fruttuosamente questa onnipotente ragione. Passato questo momento, ogni sforzo è vano: la lotta è impegnata, la verità penetra in tutti gli animi: l’opinione, si separa dal potere; ed il potere respinto dall’opinione, rassomiglia a quei corpi colpiti dal fulmine, che il contatto dell'aria riduce in polvere.


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CAPITOLO VI

Dell’unione della politica e della legislazione

«È cosa strana; fra tanti scrittori, che si sono consacrati allo studio delle leggi, chi ha trattata questa materia da solo giureconsulto, chi da filosofo, chi anche da politico, ma non prendendo di mira che una sola parte di questo immenso edificio.... niuno ci ha li dato ancora un sistema compiuto e ragionato di legislazione...»

Introduzione,p. 10.

Questa frase di Filangieri racchiude il germe d’una gran verità, ma a me sembra non averla esso né sufficientemente sentita, né sufficientemente sviluppata. S’egli biasima quelli scrittori, che hanno trattato di legislazione separatamente dalla politica, ciò fa piuttosto sotto il rapporto di letteratura per non aver saputo abbracciare l’intiero soggetto che trattavano, che sotto quello, molto più serio, dell’errore pericoloso, ch’essi accreditavano; errore tanto più importante a combattersi, in quanto che anche i governi accreditano con tutta la loro possa. Vorrebbero essi persuadere ai popoli, che delle buone leggi adatte a mantenere l’ordine tra gl’individui, sono sufficienti per la sicurezza e per la prosperità generale, senza che vi sia bisogno di ricorrere ad istituzioni costituzionali per proteggere queste stesse leggi. Ciò vale il pretendere, che le fondamenta d’un edilizio non siano necessarie alla sua solidità. La legislazione disgiunta dalla politica, non offre, a chi è governato, alcun riparo, e non oppone alcun ostacolo a chi governa. Non esiste, fuori delle garanzie politiche, alcun mezzo d’impedire ai depositari dell’autorità di violare le leggi da essi stabilite. In tal modo i despoti i più gelosi deploro assoluto dominio; non( ) hanno esitato a dare ai loro schiavi dei codici maravigliosi, sicuri che questi codici non avrebbero( ) altro valore che quello che sarebbe tollerato dalla volontà del padrone. Due pagine d’un libro; due parole ad una tribuna sono migliori salvaguardie non solo per la libertà, ma per la giustizia, per quella giustizia che ogni individuo è nel caso di reclamare ogni giorno, che i codici meglio composti, ed in apparenza perfettissimo. Poiché un codice è un ente morto ed inerte sino a che gli uomini non lo mettono in( :) esecuzione. Ma se essi possono non trasformarvisi che a loro capriccio, se quando essi se ne allontanano; nessuno può portar dei reclami tutto il merito del miglior codice svanisce.

La distinzione, che si vuole introdurre tra la legislazione e la politica, è simile a quella che molti pretendono di stabilire tra la libertà civile e la libertà costituzionale. La miglior legislazione è nulla, se non è garantita da una buona organizzazione politica, come anche non v’è sorta di libertà civile, se non è coperta dall'egida della libertà costituzionale. Senza dubbio, anche nei paesi ne' quali l’arbitrario è la sola legge, non sono invase tutte le libertà civili di tutti gli abitanti, come negli stati del Gran Signore tutte le teste non sono tagliate. Ma basta che questa invasione sia possibile, e che non vi sia mezzo di repressione, perché non vi sia sicurezza. Oggi dunque più che mai diffidiamoci di qualunque sforzo si faccia per isvolgere i nostri sguardi dalla politica, e fissarli sulla legislazione. Dico, oggi più che mai, perché oggi più che mai s’impiegherà questa sottigliezza come ultima risorsa per ingannarsi e per illuderci. Quando i governi offrono ai popoli dei miglioramenti nella legislazione, i popoli devono risponder loro colla dimanda d’istituzioni costituzionali. Senza costituzione i popoli non avrebbero alcuna sicurezza dell’osservanza delle leggi. Senza costituzione, non solo il potere fa le leggi che vuole, ma le osserva come vuole; vale a dire, che le osserva quando gli convengono, e le rompe quando vi trova il suo vantaggio. Allora le migliori leggi, del pari che le più cattive, non sono che un arme pelle mani di chi governa. Esse diventano il flagello di chi è governato, inceppandolo senza difenderlo, e, privandolo del dritto di resistenza senza fargli godere il benefizio della protezione.


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CAPITOLO VII

Dell'influenza che Filangieri attribuisce alla legislazione

(Piano ragionato dell'opera, p. 12.)

Il piano ragionato, da cui Filangieri ha fatto precedere il suo libro, altro non essendo che un’analisi abbreviata dell’opera intiera, e tutte le idee rinchiuse in quest'analisi ritrovandosi per conseguenza nell’opera medesima, ho creduto di dovermi qui astenere da ogni osservazione parziale. Avvene però una relativa al sistema generale dello scrittore, e che, quantunque indicata nei precedenti capitoli ha bisogno d'essere rimessa in campo onde riceva più ampio sviluppò Filangieri, come ho detto altrove, è cadutolo un equivoco comune parecchi filosofi bene intenzionati. Dal molto;male, che l'autorità può fare, ne ha conchiuso, ch’essa poteva fave anche molto bene Egli ha veduto in un dato paese, che le leggi proteggevano la superstizione e comprimevano lo sviluppo delle facoltà individuali; egli le ha vedute incoraggire, in altra contrada, modi di educazione viziosi ed assurdi; in tale altra anche dare al commercio, all’industria, alle speculazioni d'interessò personale, una falsa direzione. Ha creduto dunque, che dei governi, che batterebbero opposti sentieri, sarebbero tanto favorevoli alla felicità ed al progressi della specie umana, quanto i primi gli era' no stati dannosi. E conseguentemente nella sua opera considera sempre il legislatore, Còme un ente particolare, superiore al resto degli uomini, necessariamente migliore e più illuminato di loro: ed entusiasmandosi per questo fantasma, figlio della sua immaginazione, accorda ad esso sopra gli esseri ai suoi ordini, sottoposti un’autorità, ohe appena di tratto in tratto cerca di restringere o di limitare. In tal modo ci parla del diverso genio che deve avere la legislazione presso i diversi popoli in diversi tempi della maniera, con cui, nel distruggere, errori funesti, essa deve sostenere con una mano ciò che, abbatte con l’altra delle leggi, (debbono adattarsi all’infanzia delle nazioni, seguiterò gli andamenti della loro pubertà, aspettare la. loro virilità e prevenire la loro decrepitezza; della cura che deve porre il legislatore nel fissare le ricchezze nella stato e distribuirle con equità; della protezione, che devesi accordare all’agricoltura, senza trascurare, le arti; dei mezzi di, prevenire colle leggi l’accesso della opulenza, che conduce, necessariamente all’eccesso della miseria della distribuire legale dell’onore e dell’infamia, per muovere, potentemente l’opinione degli ostacoli ch’è da desiderarsi di frapporre all’educazione. domestica, troppo indipendente dalla legislazione, e che non deve essere tollerata che presso un piccolo numero di cittadini; della direzione da darsi ai talenti; del partito che il legislatore può trarre dalle passioni, e della forza produttiva delle virtù. .

In tal maniera, in questa parte del suo sistema, Filangieri conferiscasi legislatore un impero quasi illimitato sull’esistenza umana,. mentre da un altro lato si scaglia con molta forza contro le usurpazioni dell’autorità.

Cosi egli cade nella, stessa contradizione, in cui sono caduti molti altri scrittori, che pure la liberti annovera tra i suoi più zelanti difensori.

Per dare una spiegazione di questa incoerenza, mi si rendono necessari alcuni sviluppi, e mi è d’uopo ottenere dai miei leggitori alquanta attenzione.

Tutti quelli, che hanno scritto su i governi, li hanno considerati in un tempo stesso sotto due diversi aspetti, e li hanno giudicati, e spesso nella medesima frase, ora quali realmente sono, ora quali avrebbero desiderato che fossero. Giudicando i governi quali sono, questi scrittori li hanno trattati con gran severità. Essi hanno esposto all'odio ed allo sdegno pubblico i vizj, gli errori, i falsi calcoli, le maligne intenzioni, le passioni invidiose degli uomini investiti, del potere. Ma quando essi hanno giudicato i governi quali avrebbero desiderato che fossero, si sono spiegati in termini ben diversi. La, loro immaginazione ha dipinto loro i governanti, come enti astratti, e di tutt’altra specie che quelli, da essi governati, e muniti d’un’incontestabile superiorità in virtù, saviezza e cognizioni.

Una volta osservato, non è difficile a spiegarsi questo, doppio andamento. Siccome ognuno brama il trionfo della propria opinione, così nessuno rinunzia completamente a procurarle l’appoggio dell’autorità; e l’uomo che vien contrariato da questa autorità, non desidera già di vederla annientata, ma di vederla traslocata.

Prendete chi vi piace, de' nostri più. rinomati filosofi, Mably, per esempio, egli consacra sei volumi a dipingere, sulla scorta dell’istoria di Francia, le calamità dei popoli e i delitti del potere. I fatti; da lui raccolti e comentati non ci offrono certo i governanti migliori dei governati: ed ogni retto, intelletto inclinerebbe a conchiudere da questi fatti, che l’autorità dev’essere più limitata che sia possibile, e che conviene sottrarre alla sua azione malefica tutta quella porzione degli uomini che non vi sia imperiosa necessità di ridurre al servaggio.

Seguite ora Mably nelle sue teorie. L’autorità medesima, ch’egli ha riconosciuta si funesta e sì dannosa nella pratica, se la figura egli ad un tratto benefica, giusta, illuminata, e le abbandona intieramente l’uomo come ad un protettore, a un tutore e ad una guida. La legge, dic’egli (e dimentica che la legge non si fa da sé sola, e ch’essa è l'opera dei governi), la legge deve impadronirsi di noi sin dai primi momenti della nostra vita per attorniarci di esempi, di precetti, di ricompense e di castighi. Deve essa dirigere, migliorare, istruire quella classe numerosa ed ignara, che, non avendo il tempo di esaminare, è condannata a ricevere le verità stesse sulla parola altrui, e come altrettante cose incontestabili. Il tempo in cui la legge ci abbandona, viene accordato alle passioni per tentarci, per sedurci, per sottometterci. La legge deve eccitare l’amor del lavoro, imprimere nell’animo della gioventù il rispetto per la morale, colpire l'immaginazione con istituzioni destramente combinate, penetrare sino nel fondo de' cuori per isvellerne i pensieri colpevoli in vece di limitarsi a comprimere le azioni nocevoli, prevenire i delitti in vece di punirli. La legge deve regolare i nostri minimi moti, dirigere l’estensione dei lumi, lo sviluppo dell’industria, il perfezionamento delle arti, condurre come per mano la massa cieca, che conviene istruire, eia massa corrotta, che fa d’uopo correggere (3).

Chi non crederebbe, nel leggere tatto ciò che la legge deve fare, ch'essa scenda dal cielo pura ed infallibile, senza aver bisogno di ricorrere a mediatori, i di cui errori la stravolgono, i di cui calcoli personali la sfigurano, i di cui vizj la contaminano e la pervertiscono? Ma se pur non è cosi, se la legge è l'opera degli uomini, se essa porta l’impronta delle loro imperfezioni, delle loro debolezze e della loro perversità, chi non sente che l'opera non merita maggior confidenza de' suoi autori, e che questi stessi non hanno dritto ad ispirarcene una maggiore sotto un nome piuttosto che sotto un altro? Noi li paventiamo come governanti, perché sono despoti noi li paventiamo come popoli, perché sono ignorane ti e ciechi. Un cambiamento di nome, non cangia la loro natura. Mi sembra che siano queste forti ragioni per diffidarci di loro, quand'anche trovino conveniente d’intitolarsi legislatori.

Io l'ho detto già da gran tempo (4) e lo ripeto qui: una fraseologia astratta ed oscura ha illuso i pubblicisti. Si direbbe, essersi essi lasciati ingannare dai verbi impersonali, di cui si son serviti; essi si sono immaginati di esprimere qualche cosa di grande col dire: bisogna dirigere l'opinione degli uomini non si debbono abbandonare gli uomini alle aberrazioni del loro spirito. Bisogna influire sul pensiero. Vi sono delle opinioni, di cui si può trarre un partito, utile per ingannare gli uomini. Ma queste parole è necessario, si deve, non si deve, non si riferiscono forse ad uomini?

Quasi si crederebbe che si voglia parlare duna specie differente. Tutte queste frasi magnifiche però si riducono a dire: gli uomini debbono dirigere le opinioni degli uomini; gli uomini non debbono abbandonare gli uomini alle loro proprie divagazioni. Vi sono delle opinion di cui gli uomini, possono trar partito per ingannare i loro simili. I verbi impersonali hanno apparentemente fatto credere ai nostri filosofi, che i governanti fossero tutt’altro che uomini.

Egli è sicuramente ben lontano dalle mie idee il voler diminuire il rispetto dovuto alla legge quando essa si applica agli oggetti che sono di sua competenza. Io l’indicherò tra pochi istanti. Ma il pretendere, come fanno Mably, Filangieri e tanti altri, di estendere sopra tutti gli oggetti la competenza della legge, vuol dire organizzare la tirannia, e ritornare dopo una serie di vane declamazioni allo stato di schiavitù, dal quale si sperava di liberarsi: vuol dire sottomettere nuovamente gli uomini ad una forza senza limiti, egualmente pericolosa, sia che venga indicata col suo vero nome di dispotismo, sia che, rivestita di un vocabolo più dolce, si chiami legislazione.

Io condanno dunque quest'intiera parte del sistema di Filangieri, da cui d’altronde si distacca egli stesso subitoché scende alle particolarità. La legislazione ed il governo, non hanno che due oggetti: il primo si è quello d'impedire i disordini interni; il secondo, quello di respingere le invasioni straniere. Al di là di questi due confini tutto è usurpazione La legislazione non deve dunque ergere modellata diversamente presso i diversi popoli, o presso i medesimi popoli in diverse epoche; poiché in tutti tempi i veri delitti, le azioni cioè ad altri dannose, debbono essere represse, e quelle che ad alcuno non nuocono, non debbono esserlo. La legislazione non deve in conto alcuno occuparsi a distruggere gli errori, né, quando essa li distrugge, a sostenere con una mano ciò che abbatte coll’altra. Gli errori non debbono distruggersi, che da loro stessi, ed è soltanto coll'esame e colla esperienza che si distruggono; la legislazione non se ne deve mescolare. Non si devo parlare di leggi, che si adattino all’infanzia delle nazioni, alla loro pubertà, alla loro virilità, alla loti decrepitezza, perché, lo ripeto, dell’infanzia egualmente che nella pubertà, nella virilità come nella decrepitezza dei popoli, gli attentati contro la vita, la proprietà, la sicurezza sono delitti, e come tali debbono essere puniti. 11 rimanente de v'esser libero. D’altronde quando una nazione è nello stato d’infanzia, anche i suoi legislatori sono nell'infanzia. 11 titolo di legislatore non conferisce alcun privilegio intellettuale (5). La legislazione non deve cercare di fissare le ricchezze nello stato, e di distribuirle con equità. Le ricchezze si fissano in uno stato, allorché v’è libertà e sicurezza, ed acciò vi siano queste due cose, basta la repressione dei delitti. Le ricchezze si distribuiscono e si ripartiscono da loro stesse in un perfetto equilibrio allorché la divisione delle proprietà non soffre ostacoli, e quando l’esercizio dell’industria non è inceppato. Ciò che può accadere ad ambedue di più propizio, si è il silenzio, la neutralità della legge. La legislazione (l’ho detto altrove, al cap. IlI) non deve proteggere l’agricoltura. L'agricoltura sarà efficacemente protetta, allorché tutte le classi godono le loro garanzie, e sono al coperto delle vessazioni. La legge non deve prevenire l’eccesso dell’opulenza, perché quest’eccesso non s'introduce presso i popoli, che quando la legge lo promuove ed in certo modo lo chiama. È ordinariamente col soccorso delle leggi, delle instituzioni, dei privilegi ereditari che si formano e si mantengono le fortune colossali. Dipoi fansi delle leggi per opporsi al loro eccessivo accrescimento, ed ancor questo è un male. Annullate le leggi che le favoriscono, e voi non abbisognerete di leggi che le reprimano. Questo sarà un doppio vantaggio, poiché le prime vessano ed avviliscono il povero, le seconde angustiano e corrompono il ricco. Le prime armano le diverse classi di cittadini, gli uni contro gli altri: le seconde armano contro le istituzioni la classe dei cittadini che serve di modello al rimanente. La distribuzione dell'onore e dell’infamia appartiene esclusivamente all'opinione. Quando la legge vuole intervenirvi, l'opinione si adombra, ed annulla i decreti legislativi. L'educazione appartiene ai genitori, ai quali la natura ha confidati i figli. Se questi genitori preferiscono l’educazione domestica, la legge non puole opporsi senza essere usurpatrice. Finalmente i talenti non hanno bisogno che la legge dia loro una direzione. Le passioni debbono essere represse quando conducono ad azioni contrarie all’ordine pubblico; ma la legge non deve mescolarsi né di farle nascere, né di trarne partito; la liberti è la forza produttrice delle virtù e non già la legge.

Tutte l’espressioni di Filangieri in quest'analisi del suo libro, ed in molte parti del medesimo, sono di loro natura generiche ed improprie, ed è questo il gran difetto della sua opera. Vedesi chiaramente che le idee dell’autore non erano sufficientemente stabilite. Egli sospettò, che quasi tutti gli ostacoli alla felicità degli uomini ed allo sviluppo delle loro facoltà, derivavano dalle misure stesse, che i governi prendono, col pretesto di facilitare questo sviluppo e di assicurare questa felicità; ma egli non erasi abbastanza convinto, che questi ostacoli non sarebbero già tolti con altre misure governative, bensì coll’astenersi da qualunque misura positiva e facendo, osservare esattamente gl'inconvenienti di ciò ch’esisteva, ha sempre fatto uso di espressioni che implicano un’azione diretta. Questo vizio di complicatone fa si, che l’opera non abbia un resultato caratteristico, ed impedisce il lettore di giungere al risultato che vien confermato da tutti i fatti, vale a dire, che le funzioni del governo sono puramente negative. Esso deve reprimere i disordini, allontanare gli ostacoli, impedire in una parola che il male accada. Si può quindi riposarsi con fiducia sugl’individui per trovare il bene.

Ritoccherò ciascuno degli oggetti sommariamente qui indicati, a misura che i capitoli di Filangieri mi ci ricondurranno. Ho dovuto soltanto mettere in chiaro la verità fondamentale e si vedrà, che l’esame di. ciascuna questione particolare non farà che: rendere più palpabile l'evidenza di questa verità.


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CAPITOLO VIII

Dello stato di natura, della formazione della società, e del vero scopo delle associazioni umane?

«Io non sono così strano per supporre uno stato di natura anteriore alle. società civili… Io sono il primo a credere che la società sia nata coll’uomo; ma questa società primitiva era tutt'altro che una società civile… Bisognava opporvi un rimedio... si vide che bisognava a creare una forza pubblica, che fosse superiore ad ogni w forza privata che compensasse il sacrificio dell'indipendenza e della libertà naturale coll’acquisto di tutti gli strumenti proprj per ottenere la conservazione e la tranquillità.»

Lib. I, cap. I, pag. 43 e seg.

Si deve saper buon grado al Filangieri d'aver purgato le sue ricerche dalle questioni relative allo stato primitivo dell'uomo. Gli scrittori del decimottavo secolo avevano messo in gran voga simili questioni, insolubili ad un tempo e puramente speculative. Nell'istoria di qualsivoglia origine vi sono dei fatti primordiali, dei quali non si deve più ricercar la cagione, eccettuata quella della loro esistenza. L'esistenza è un fatto, che conviene ammettere senza pretendere di spiegarlo. Il volerlo tentare ci riconduce a quel problema che quanto triviale, e burlesco, non cessa però di sgomentare il ragionamento, cioè, se la gallina abbia esistito prima dell’uovo, o l'uovo prima della gallina? Il solo filosofo, che si sia espresso sensatamente sopra tal materia, è quello che ha detto: noi veniamo dopo quelli che ci precedono, e precediamo quelli che ci seguono. Accade del modo di esistere di ogni specie d'enti, quello che accade dell’esistenza medesima. Questo stesso modo è un fatto primordiale, una legge stabilita dalla natura; gli uomini religiosi possono attribuirla alla volontà del Creatore; gl’increduli alla necessità; ma il fatto non è tale da potersi spiegare, come si spiegano tutti gli altri fenomeni, colla successione delle cause e degli effetti.

L’uomo è socievole, ma non a cagione della sua debolezza, giacché vi sono degli animali più deboli, che non sono socievoli. Egli vive in società, ma non perché abbia calcolato i vantaggi che la società gli avrebbe procurati, giacché per calcolare questi vantaggi avrebbe dovuto antecedentemente conoscere la società. In tutto ciò vi ha un circuito vizioso ed una petizione di principio. L’uomo è socievole, perché è uomo; come il lupo. è insocievole, perché è lupo. Sarebbe lo stesso che voler indagare perché il primo cammina con due piedi, ed il secondo con quattro.

Il Filangieri dunque ha avuto ragione, di prendere per base resistenza della società, e di partire da questo primo fatto per esaminare il modo in cui la società debb’essere costituita, quale sia il suo scopo, é quali i suoi mezzi per ottenerlo.

La definizione ch’egli dà dello scopo della società è sufficientemente esatta: la conservazione cioè, e la tranquillità. Ma qui, l’autore si ferma, e non deduce da questo principio le conseguenze che debbono derivarne.

Se lo scopo della società è la conservazione e la tranquillità de' suoi membri, tutto età che è necessario a garantire questa conservazione, ed a non alterare questa tranquillità, appartiene alla legislazione, poiché la legislazione è unicamente lo sforzo che fa la società per adempire le condizioni della sua esistenza. Ma tutto ciò che non è necessario alla garanzia della conservazione, ed al mantenimento della tranquillità, esce dalla sfera sociale e legislativa.

Ora due cose sono indispensabili alla conservai aione ed alla tranquillità delle società: la prima, che l’associazione sia al coperto dai disordini interni; l’altra, che la medesima non sia esposta ad invasioni straniere. Appartiene dunque alla società il reprimere questi disordini, ed il. respingere queste invasioni. E. perciò la legislazione deve punire i. delitti, organizzare una forza armata contro i nemici, esterni, ed imporre. agl’individui il sacrifizio d’una porzione della loro proprietà particolare per supplire alle specie di questi due oggetti. Punire i delitti, resistere alle aggressioni, tale è la sfera della. legislazione nei limiti del necessario.

Bisogna, inoltre distinguere due specie. di delitti le azioni nocive per loro natura, e quelle unicamente nocive per essere violazioni d’impegni contratti. La giurisdizione della legislazione, quanto alle, prime è assoluta, ma è relativa quanto alle seconde. Essa dipende e dalla natura dell’impegno e dal reclamo dell’individuo leso. Quand’anche la vittima d’un assassinio o d’un furto volesse perdonare al colpevole, la legislazione dovrebbe punirlo, perché l’azione commessa è essenzialmente dannosa. Ma quando la violazione di un patto riceve il consenso di tutte le parti contraenti o interessate, la legislazione non ha il dritto di prolungarne forzatamente l’esecuzione, del pari che essa non ha dritto di risolverla sulla dimanda d’una sola parte.

É evidente, che la giurisdizione della legislazione non può restarsi al di qua di questi limiti, ma che essa vi si può fermare. Non è possibile di formarsi l'idea d'un popolo, presso il quale i delitti individuali restassero impuniti, e che non avesse preparato alcun mezzo di resistere agli attacchi che le nazioni straniere intraprendessero contro di esso. Ma è facilissimo di formarsi l’idea d’un popolo, il di cui( ) governo non avesse altra missione, che quella di vegliare a questi due oggetti; resistenza degli individui e quella della società sarebbero perfettamente assicurate, il necessario sarebbe fatto.

In molte parti del suo libro sembra che Filangieri abbia indovinato per istinto questa verità, ma in nessun luogo la stabilisce con sufficiente chiarezza. Egli lascia sussistere in tutte le sue espressioni una incertezza ed un'oscurità, che probabilmente, e forse realmente, è stata in ogni tempo là sorgente di molti abusi. Per restarne convinti, rileggiamo l’intero paragrafo dedicato a spiegare, come dice l'autore; Paggetto unico ed universale della legislazione, dedotto dall’origine delle società civili. «Si vide che bisognava creare una forza pubblica, che fosse superiore ad ogni forza privata. Si vide che questa forza pubblica non si poteva comporre che dall'aggregato di tutte le forze private. Si vide che vi era bisogno di una persona morale, che rappresentasse tutte le volontà, che avesse tra le mani tutte queste forze. Si vide in fine, che questa forza pubblica doveva essere unita ad una ragione pubblica, la quale, interpetrando e sviluppando la legge naturale, fissasse i dritti, regolasse i doveri, prescrivesse le obbligazioni di ciaschedun individuo colla società intera, e co’ membri che la componevano; che stabilisse una norma, alla quale il cittadino adattando le sue azioni, non avesse di che temere che creasse e custodisse un ordine atto a mantenere l’equilibrio tra i bisogni di ciaschedun cittadino coi mezzi per soddisfarli; finalmente, che compensasse il sacrificio dell’indipendenza e della libertà naturale con l'acquisto di tutti gl'istrumenti proprj per ottenere la conservazione e la tranquillità di coloro, i quali per quest'oggetto solo se n’erano spogliati.»

Senza dubbio, interpetrando ogni espressione di Filangieri, è possibile di provare, ch’egli restringe ja competenza della legislazione entro i suoi giusti confini ma si potrebbe anche con una interpetrazione opposta, estendere questa competenza a tutti gli oggetti.

Se la legislazione è una persona morale, la di cui volontà rappresenta sempre tutte le volontà, ne risolta, che tutte le volontà in tal modo rappresentate, non hanno altra particolare esistenza ad esse appartenente. Se la legislazione è l’interpetre della legge di natura, l’uomo non potrà più conoscere la natura stessa, che a traverso questa legislazione medesima, la quale infine è una cosa di convenzione ed artefatta. Un eterno silenzio viene imposto all’interno senso, che questa stessa natura gli aveva dato per guida. Se il legislatore è colui, che determina i dritti di ciascun individuo, gl’individui non hanno più altri dritti, che quelli che la legislazione vuol pur lasciar loro.

Concepito di tal sorta, il sistema di Filangieri, non differisce in cosa alcuna da quello di Rousseau, che io ho combattuto in un’altra opera e di cui credo aver mostrato le terribili conseguente e gl’incalcolabili pericoli (6).

La legislazione secondo Filangieri, e la società secondo Gian Giacomo, sarebbe una potenza senza limiti, dispotica, a di cui vantaggio si troverebbe alienato tutto l’essere individuale.

Non si saprebbe insorgere con troppa forza e perseveranza contro tal dottrina. Io non istarò a riprodurre qui la serie dei ragionamenti, de' quali ho fatto uso nell’opera testà mentovata. Mi limiterò a citarne le conclusioni.

Evvi una porzione dell’esistenza umana, che necessariamente resta isolata ed indipendente, e che è di dritto fuori di qualunque competenza sociale o legislativa. L'autorità della società e per conseguenza della legislazione, non esiste che relativamente, ed in certi limiti: nel punto in cui comincia l’indipendenza dell’esistenza individuale, cessa l’autorità della legislazione, e se la legislazione oltrepassa questa linea, diviene usurpatrice.

In quella porzione dell’esistenza umana, che deve rimanere indipendente dalla legislazione, risiedono i dritti individuali, dritti ai quali la legislazione non deve giammai stender la mano, dritti su i quali la società non ha alcuna giurisdizione, dritti ch’essa non può invadere senza rendersi colpevole di tirannia, del pari che il despota, che ha per solo suo titolo il ferro sterminatore. La legittimità dell'autorità dipende dal suo oggetto, non meno che dalla sua origine. Allorché questa autorità si stende sopra oggetti posti al di fuori della di lei sfera, essa è illegittima. Quando la legislazione porta una mano usurpatrice su quella parte dell’esistenza umana che da lei non dipende, importa poco l'origine, dalla quale si dice emanata; importa poco, ch’essa sia l’opera d'un solo uomo o d’una nazione. Emanasse pure dall’intiera nazione, meno il cittadino vessato da lei, i suoi atti non sarebbero perciò più legali. Vi sono degli atti, che nulla vale a rivestire del carattere di legge.

«Si sono definite» (prendo in imprestito questa osservazione, giusta e profonda, da un autore di cui non mi ricordo il nome) «si sono definite le leggi, l’espressione della volontà generale, ma questa definizione è falsissima. Le leggi sono la dichiarazione delle relazioni degli uomini tra loro. Nel momento stesso, in cui la società esiste, si stabiliscono tra gli uomini alcune relazioni. Queste sono conformi alla loro natura, poiché se tali non fossero, non potrebbero stabilirsi. Queste leggi altra cosa non sono, che queste relazioni osservate ed espresse: ma non sono la causa di queste relazioni, le quali anzi sono anteriori ad esse. Le leggi dichiarano, che queste stesse relazioni esistano; sono la semplice dichiarazione d’un fatto; non creano, non determinano, non istituiscono nulla, se non che alcune formalità per garantire ciò ch'esisteva prima della loro istituzione. Ne siegue, che nessun uomo, nessuna frazione della soli cietà, né la società intiera possono, parlando propriamente ed in un senso assoluto, possono, dissi, attribuirsi il dritto di far leggi: le leggi altro non essendo che l’espressione delle relazioni esistenti tra gli uomini, e queste relazioni essendo anteriori alle leggi, una legge nuova altro non è, che una dichiarazione, che non era per anche stata fatta, di ciò ch’esisteva antecedentemente.

«La legge non è dunque a disposizione del legislatore. Essa non è un’opera spontanea. Il legislatore è per l’universo morale ciò ch'è il fisico per l’universo materiale. Lo stesso Newton non ha potuto far altro che osservarlo e dichiararci le leggi ch’egli vi riconosceva, o che credeva riconoscervi. Egli al certo non s’immaginava d’essere il creatore di queste leggi.»

Come io ho osservato di sopra, il Filangieri nel corso della sua opera, si riavvicina frequentemente a questi principi, ma non li dichiara mai positivamente; e lo vedremo anche in più d'un capitolo, accordare alla legislazione un’estensione di competenza, alla quale egli non sembra dare alcun limite.

Ne’ miei successivi ragionamenti proverò, che la dottrina da me stabilita non presenta alcun pericolo per il buon ordine; che il governo ristretto nei suoi legittimi confini, non è per questo meno forte, e non ne ottiene che con maggior sicurezza i suoi intenti; che permettendogli di oltrepassare questi limiti, viene a debilitarsi ed a compromettersi; che i dritti individuali, in tutta la loro latitudine ed inviolabilità, non sono mai in opposizione con i giusti dritti delle associazioni su i loro membri; e che il riposo e la felicità di tutti, sono meglio preservati dall’indipendenza di ciascheduno, in tutto ciò che non è di nocumento ad altri, di quello lo siano dai tentativi aperti o nascosti, violenti od equivoci, replicati incessantemente dall’autorità, ed infelicemente consacrati da filosofi di corta vista, per dotare la società, vale a dire, un ente astratto e fittizio, a spese degl'individui, cioè t dei soli esseri reali e sensibili.


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CAPITOLO IX

Degli errori in fatto di legislazione

«Niuna cosa è più facile che urtare in un errore di legislazione, ma niente è più difficile a curarsi, niente è più pernicioso alle nazioni. Una provincia perduta una guerra male intrapresa, sono flagelli di pochi moli menti. Un istante felice, una vittoria d'un giorno può compensare le sconfitte di più anni; ma un errore politico, un errore di legislazione può produrre l'infelicità d’un secolo, e può preparare quella de' secoli avv venire. »

Lib. I, cap. III, p. 52,.

Dall’essere di tanta facilità l'errore in fatto di legislazione, e dall'essere gli errori di questo genere mille volte più funesti di qualunque altra calamità, ne deriva, secondo la mia opinione, che bisogna diminuire per quanto è possibile, i risici di cadere in tali errori. Se per diminuire questi risici, gli uomini sono ridotti a sacrificare una porzione dei vantaggi, che speravano di ottenere dall’azione delle leggi, fa d’uopo, che si rassegnino a questo sacrifizio, purché esso non trascini seco la distruzione dello stato sociale: e si deve forse acconsentire che le leggi facciano piuttosto un poco di bene di meno, onde esser sicuri che non cagionino un male per piccolo che sia.

Ristringendo la loro intervenzione entro limiti tanto angusti, quanto il comporta la sicurezza pubblica, si ottiene questo fine: quanto meno il legislatore avrà motivo d’agire, tanto meno sarà esposto ad ingannarsi.

Il marchese di Mirabeau, nel primo capitolo dell'Amico degli uomini, stabilisce una giustissima distinzione tra le leggi positive, e le leggi speculative. Le leggi positive, die' egli, si limitano alla conservazione; le speculative abbracciano la direzione. Da questa distinzione egli non ne deduce estese conseguenze. Il suo scopo non era quello di fissare i limiti della legislazione, e quantunque nel rimanente del suo libro, sia sempre trasportato dalla forza delle cose a ristringere in fatto le funzioni speculative dei legislatori e dei governanti, pure le ammette in dritto, e soltanto si sforza d’indicare in qual modo possano essere esercitate utilmente e con vantaggio.

Io ho tutt'altro scopo; pure non ostante adotterò la medesima distinzione per seguirla fino al termine de' suoi incontrastabili risultati.

Allorché il governo, o la legislazione, puniscono un’azione dannosa, allorché reprimono la violazione d’un impegno contratto, esercitano una funzione positiva; allorché seviscono contro un’azione innocente sotto pretesto che questa potrebbe indirettamente condurre ad un’azione che tale non fosse; allorché impongono agl’individui certe obbligazioni o regole di condotta, che non fanno parte necessaria degl'impegni contratti da questi individui; allorché angustiano la disposizione della proprietà o l’esercizio dell’industria; allorché cercano di dominare sull’opinione, sia con castighi, sia con ricompense, sia rendendosi padroni dell’educazione, essi si arrogano una funzione speculativa.

Il legislatore, nelle sue funzioni positive, non agisce spontaneamente. Egli reagisce contro delle azioni antecedenti, contro dei fatti accaduti indipendentemente dalla sua volontà. Ma nelle sue funzioni speculative, egli non reagisce contro dei fatti, contro delle azioni commesse, ma soltanto contempla le azioni future, e perciò agisce spontaneamente, ed i suoi atti sono il prodotto della sua volontà.

Le funzioni positive del legislatore sono naturalmente semplicissime: e nel loro esercizio Fazione del potere non è né incerta, né complicata.

Le sue funzioni speculative sono di un altro carattere: esse non hanno né basi determinate, né limiti fissi; il loro esercizio non cade sopra fatti, si fonda bensì sopra speranze o timori, sopra probabilità, e ipotesi; sono esse in una parola speculazioni, e per tal motivo possono variare, estendersi e complicarsi all'infinito.

Le funzioni positive permettono spesso all’autorità di starsene immobile. Le funzioni speculative non le permettono mai questa immobilità. La sua mano, che ora raffrena ed ora dirige, ora crea ed ora ripara, può essere talvolta invisibile, ma non può mai restare oziosa. Voi allora vedete il legislatore porre a vicenda al di qua del delitto delle barriere di sua propria scelta, per prescrivere quindi delle pene contro chi rovesciasse queste stesse barriere, ovvero ricorrere a misure proibitive contro azioni per loro stesse indifferenti, ma le di cui conseguenze indirette gli sembrano pericolose, o accumulare leggi coercitive per forzare gli uomini a fare ciò che gli sembra più vantaggioso. Altre volte egli estende la sua autorità sull’opinione; altre volte ancora egli modifica o limita il godimento della proprietà, ne regola a suo arbitrio le forme, ne determina, ne ordina, o ne proibisce la trasmissione. Egli assoggetta a moltiplici ostacoli l’esercizio dell'industria, l’inceraggisce da un lato, la ristringe dall’altro: azioni, discorsi, scritti, errori, verità, idee religiose, sistemi filosofici, affezioni morali, intimi sentimenti, usi, abitudini, costumi, istituzioni, ciò che v'ha di più ideale nell'immaginazione dell’uomo, di più indipendente nella sua natura, tutto ciò fa parte del dominio del legislatore; la sua autorità allaccia da ogni lato la nostra esistenza, consacra o combatte le nostre più incerte congetture, modifica o dirige le nostre più fugaci impressioni.

Esiste dunque tra le funzioni speculative e le positive questa differenza, che queste ultime hanno dei limiti fissi, mentre le prime una volta ammesse non hanno alcun limite. La legge, che ordinasse ai cittadini di marciare alle frontiere per difenderle da un attacco, sarebbe una legge positiva: poiché il suo scopo sarebbe quello di respingere un’aggressione commessa, e d’impedire l’occupazione del territorio. La legge, che autorizzasse i governi a portare la guerra presso tutti i popoli sospetti di meditare un attacco, sarebbe speculativa: poiché non vi sarebbe alcun fatto anteriore, alcuna azione commessa: vi sarebbe presunzione d’azione, speculazione, congettura. Osservate perciò quanto nel primo caso, la funzione del legislatore e quella dell’esecutor delle leggi sarebbero limitate. L’uno' non avrebbe pronunziato che contro un fatto: l’altro non potrebbe agire, se il fatto non esistesse. Ma nella seconda ipotesi, l’autorità non avrebbe nessun limite, poiché la congettura riposerà sempre sulla discrezione del depositario dell'autorità.

Da questa differenza tra le leggi positive e le speculative, ne risulta evidentemente, che quando il legislatore si limita alle prime, non può ingannarsi. Avventurandosi poi nelle seconde, si espone ad errori d’ogni genere. Una legge contro l'assassinio ed il furto, e che punisce delle azioni determinate, può essere più o meno buona: può essere troppo indulgente, o troppo severa, ma non potrebbe essere concepita in un senso opposto al suo fine. Una legge diretta ad impedire la decadenza del commercio o a rimediare al ristagno dell'industria, rischia di prendere per mezzi d’incoraggimenti ciò che non è. Immaginandosi d’incoraggire il commercio, essa può distruggerlo; e credendo di favorire l'indù'stria, può contrariarla.

Se dunque glinconvenienti gravi, moltiplici, prolungati, che risultano dagli errori in fatto di legislazione e di politica, debbono impegnarci a ridurre al minor numero possibile le eventualità di questi errori, egli è evidente, che quanto appartiene alle funzioni speculative, debb'essere escluso dalla sfera della legislazione. E così, anche per questa strada, del pari che per tutte le altre, arriviamo a quel risultato unico, eterno, solo ragionevole e solo salutare: repressione dei delitti, e difesa; tale è lo scopo legittimo, vale a dire necessario, della legge. Il rimanente è puro lusso, e lusso funesto.

Certamente, rinchiudendo l'azione della legge ìq uno spazio sì angusto, si rinunzia al vedere realizzarsi molti sogni brillanti, e s'impone un termine a mille gigantesche speranze. L’immaginazione può concepire che la legislazione sia impiegata in una particolare utilità, supponendola, nella sua indefinita estensione, in esercizio a favore della ragione, dell'interesse di tutti e della giustizia, facendo sempre scelta di mezzi nobili e d’un sicuro successo, giungendo ad assoggettarsi le facoltà dell’uomo, senza degradarle, operando, in una parola, come la Provvidenza, quale viene ideata dai devoti, colla riunione della forza, che comanda, e della convinzione, che penetra nel fondo dei cuori.

Ma per adottare questa seducente ipotesi, fa d’uopo ammettere un principio, che i fatti sono ben distanti dal presentarci come dimostrato, cioè, che coloro che fanno le leggi, sono necessariamente più ilminati di quelli che loro obbediscono.

Questo può accadere pressi orde selvagge, cui delle colonie arrecano la civilizzazione, ma non già presso popoli inciviliti.

Allorché una popolazione, che altre nozioni non possiede, se non se quelle grossolane indispensabili all’esistenza fisica, riceve colla conquista o in qualunque altro modo le leggi, che le somministrano i primi lumi elementari, e che la sottomettono alle prime regole dello stato sociale, gli autori di queste leggi sono certamente più illuminati di quelli che essi istruiscono. Così è da credersi, che Cecrope, se pure ha esistito, possedesse maggiori cognizioni degli Ateniesi, Numa dei Romani, Maometto degli Arabi.

Ma l’applicare questo ragionamento ad un’associazione già incivilita, è, a parer mio, un errore madornale. In una simile associazione, una numerosa porzione non s’illumina, è vero, che con gran difficoltà, impiegata, come lo è naturalmente, in occupazioni meccaniche: egli uomini incaricati della composizione delle leggi, sono incontrastabilmente superiori a questa porzione. Avvi però una classe istruita, alla quale questi uomini appartengono, e di cui non sono che una piccolissima frazione: non è già tra essi e la classe ignorante, ma tra essi e la classe istruita che deve farsi il paragone. La questione ridotta a questi termini, non può risolversi a vantaggio del legislatore. «Se voi supponete, dice Condorcet, la potenza pubblica più istruita della massa del popolo, dovete supporla meno istruita di molti individui (7)

Se la cosa è tale, se il legislatore non ha il privilegio di distinguere meglio degl'individui sottomessi al suo potere, ciò ch’è utile da ciò ch’è dannoso, qual vantaggio ne risulta per la felicità, l'ordine o la morale, dall'estendere le sue attribuzioni? Noi diamo l'essere ad una forza cieca, la di cui disposizione viene abbandonata all'evento; noi tiriamo a sorte fra il bene e il male, fra l'errore e la verità; e la sorte decide chi sia colui che venga del potere investito (8).

Con ciò non vuol dirsi, che le leggi non Siano rispettabilissime, quando si rimangono nella loro sfera. Il risico degli errori nella legislazione non è tale argomento da superare il risico o piuttosto la certezza della dissoluzione di ogni società, dissoluzione, che risulterebbe da una mancanza completa di leggi. Ristrette d'altronde al puro necessario, la loro intervenzione, nel tempo stesso che è più indispensabile, ha minori pericoli. Allorché le leggi si limitano alla conservazione della sicurezza esterna ed interna, esse non esigono per essere ben fatte, che intelligenza e cognizioni comuni: lo che è sempre un non piccol vantaggio. La natura, nel destinare la moltitudine alla mediocrità, ha voluto che la mediocrità fosse in istato di concepire i regolamenti adatti a conservare il buon ordine e la pace nella società. Siccome in fatto di giudicatura gli uomini sono bastantemente contenti delle sentenze da altri uomini pari a loro profferite, così in fatto di legislazione, saranno eglino bastantemente contenti di leggi da uomini pari a loro promulgate. Ma ugualmente che le questioni sottomesse ai giurati, debbono essere semplici e precise, così fa d'uopo, che semplice e preciso sia l’oggetto delle leggi.

Prevedo, che l’opinione da me qui emessa susciterà infiniti schiamazzi.

Uno degli artificj del potere consiste a rappresentar sempre la legislazione, il governo, il maneggio degli affari, come un'impresa difficilissima; ed il pubblico lo crede, per essere essai docile a prestar fede a quanto gli vien ripetuto: i depositari dell’autorità vi guadagnano erigendosi in profondi genj, unicamente per essere incaricati di sì ardue funzioni. Avvi però nel loro ciarlatanismo su tal riguardo questo di rimarchevole: cioè, che nel tempo stesso, in cui stabiliscono il principio, combattono con tutte le loro forze la di lui più rigorosa conseguenza. Se il potere, per essere esercitato, richiede tanta capacità, non è forse evidente, ch'esso debb’essere confidato soltanto al più capace (9)?

I signori del mondo sono ben lungi dal convenirne. Quando piace loro di farsi ammirare, parlano degli ostacoli che debbono superare, degli scogli che evitano, della perspicacia, della saviezza, dei lumi superiori, di cui debbono essere dotati. Ma quando siamo in sul trarre dalle premesse la conclusione, che uopo, cioè, sarebbe indagare se possiedono essi di fatto queste cognizioni trascendenti, questa perspicacia, questa sapienza, si collocano allora immediatamente sopra un terreno opposto, ed affermano, che il governo appartiene ad essi, per limitate che siano le loro facoltà; che questo è loro proprietà, loro dritto, loro privilegio; e così risulta ad un tempo stesso dal loro sistema, che l’arte di governar gli uomini esige un’intelligenza sovrumana, e che possiamo abbandonarci al più cieco degli eventi, a quello cioè della nascita, per confidare l'esercizio di quest’arte al primo che s’incontra.

Credo poi d’esser più favorevole ai veri interessi dei governanti, di quello che non lo sieno i governanti medesimi, dimostrando, che il governo ristretto ne' suoi confini legittimi non è cosa in conto alcuno difficile. Con questa dimostrazione mi propongo di rendere un eminente servigio alla monarchia costituzionale ereditaria, e lo fo tanto più volentieri, inquantoché nell’epoca attuale della nostra specie, in Europa, la monarchia costituzionale ereditaria può divenire il più libero ed il più pacifico dei governi.

Ma l’estendere la sua giurisdizione sopra oggetti che sono fuori della sua sfera, è lo stesso che snaturar la questione: egli è un confidare ad un piccolo numero d'uomini, che in nulla son superiori al rimanente, funzioni innumerevoli ed illimitate; funzioni meno necessarie ad esercitarsi che quelle positive, poiché la società sussisterebbe anche se non fossero esercitate; funzioni quasi impossibili a bene esercitarsi, perché vi si richiedono cognizioni superiori; più pericolose, se male esercitate, poiché attaccano le parti più delicate della nostra esistenza e possono disseccare tutte le sorgenti di prosperità. Tutto dunque conferma il mio principio. Abbiate delle leggi positive, dando a questa espressione il senso medesimo, nel quale l’impiegava il marchese di Mirabeau, voi non potete esistere senza queste leggi. Non abbiate leggi speculative; voi potete fame a meno.

Rigettate in ispecial modo col massimo accorgimento il trito pretesto delle leggi di quest’ultima specie, l'allegazione, cioè, della utilità. Questa una volta ammessa, voi sarete ricondotti malgrado i vostri sforzi verso tutti gl’inconvenienti, inseparabili dalla forza cieca e colossale creata sotto il nome di legislazione.

Si possono trovare motivi d’utilità per tutti i comandi e per tutte le proibizioni. Sarebbe utile di proibire ai cittadini di uscire dalle loro case; poiché così 8’ impedirebbero tutti i delitti che si commettono sulle strade pubbliche. l’obbligare ciascuno a presentarsi ai magistrati tutte le mattine, sarebbe pure utile; poiché si scoprirebbero facilmente i vagabondi ed i malviventi, che si nascondono per aspettare le occasioni di far del male. Ma con questa logica appunto si era trasformata la Francia, venti anni fa, in una vasta prigione.

L’utile non è suscettibile di alcuna dimostrazione precisa. Egli è oggetto di opinione individuale, e per conseguenza di discussione, di contestazione indefinita. Nulla è indifferente in natura; tutto ha le sue cagioni ed i suoi effetti; tutto ha dei risulta' ti reali o possibili; tutto può essere utile, tutto può esser pericoloso. La legislazione, autorizzata che sia una volta a giudicare di tali possibilità, non ha più limiti, né può averne. «Voi non avete» dice un Italiano di molto spirito (10) «voi non avete mai legato in vostra vita qualunque cosa siasi, con 'dello spago o del filo, senza dare una voltata, o senza fare un nodo di più. Egli è istinto in noi di oltrepassare, tanto nel piccolo, come nel grande, la misura naturale.» Trascinato da questa disposizione inerente all’uomo, il legislatore agisce in tutti i sensi, e commette quegl’innumerevoli errori descritti da Filangieri. Egli deve commetterli, poiché, come l’ho dianzi provato, non è più infallibile degl’individui. Io dico, ch’egli non è più infallibile, e se lo volessi, dimostrerei anche, che lo è meno.

V’ha nel potere qualche cosa che stravolge l’intelletto. L’eventualità degli errori della forza, sono più numerose che quelle della debolezza. La forza trova in se stessa le sue risorse: la debolezza ha bisogno della ragione. Supponete due uomini egualmente illuminati, l’uno investito d’un potere qualunque, l’altro semplice cittadino: non sentite voi forse, che il primo, situato in luminosa posizione.

Non potendo esser lento nelle decisioni che deve adottare in un dato momento, impegnato da queste decisioni divenute pubbliche, ha minor tempo per riflettere, maggior interesse a persistere nella sua opinione, e conseguentemente è in maggior risico di errare che il secondo, il quale esamina a suo bell’agio, non prende impegno per alcuna opinione, non ha motivi per sostenere un’idea falsa, non ha compromesso né la sua autorità, né il suo amor proprio, e che finalmente se venisse ad appassionarsi per quest'idea falsa, non ha alcun mezzo di farla trionfare (11)?

E non crediate già di trovare a ciò un rimedio in una tale o tal’altra data forma di governo. Per que. Sto, perché in un’organizzazione rappresentativa, il popolo sceglie coloro, che gli dettano delle leggi, immaginate voi, che questi non potrebbero ingannarsi? Siete voi stesso nell’inganno. Supponendo un sistema perfetto e la meglio garantita libertà di elezioni, ne seguirà che le opinioni degli eletti saranno conformi a quelle degli elettori. Saranno dunque questi a livello della nazione: non saranno dunque più infallibili di essa.

Dirò inoltre, che le qualità, le quali ottengono a preferenza la scelta del popolo, spesso escludono questa superiorità di lumi. Per acquistare e specialmente per conservare la confidenza della moltitudine, ci vuole tenacità nelle idee, parzialità nei giudizi, deferenza per i pregiudizi tuttavia dominanti, maggior forza che sottigliezza, maggior prontezza a prender le cose in grande, di quello che delicatezza a distinguerle nelle loro suddivisioni. Bastano queste qualità, per ciò che v’ha di fisso, di determinato, di preciso nella legislazione. Ma trasportate nel regno dell’intelligenza e dell’opinione, esse hanno un non so che di ruvido, di grossolano, d’inflessibile, che si oppone al fine propostosi di miglioramento o di perfezionamento (12).

Un Inglese di moltissimo spirito mi diceva un giorno: Nella camera de' comuni, l’opposizione è più illuminata del ministero. Fuori della camera de' comuni, la porzione istruita del popolo inglese è più illuminata dell’opposizione.

Tollerando le leggi speculative, vale a dire, mettendo la legislazione fuori della sfera, in cui bisogna per necessità ammetterla, voi dunque assoggettate il genere umano agli errori inevitabili di uomini a questi sottoposti, non solamente a cagione della debolezza inerente alla natura di tutti, ma anche per l’effetto accessorio della loro speciale posizione.

Quante riflessioni non potrei aggiungere, se qui ragionar volessi del peggioramento inseparabile da tutte le decisioni collettizie, che sono in fondo semplici transazioni coartate tra i pregiudizi e la verità, gl'interessi ed i pregiudizi! se io volessi esaminare i mezzi, ai quali la legislazione è astretta a ricorrere per essere obbedita, descrivere le leggi coercitive o proibitive sulla morale dei cittadini, e la corruzione introdotta tra gli agenti del potere da questa stessa moltiplicità di leggi! Ma ho già toccato di volo quest’oggetto in un’altra opera (13), e d’altronde vi sarò ricondotto nella continuazione di questo Comento.

Mi recapitolo. Gli errori in materia di legislazione, hanno numerosi inconvenienti. Indipendentemente dai mali diretti da essi cagionati, essendo gli uomini obbligati a rassegnarvisi e ad uniformarvi le loro abitudini ed i loro calcoli, sono essi, come osserva Filangieri, egualmente pericolosi a rimediarsi che a rispettarsi.

I particolari possono senza dubbio ingannarsi, ma se deviano, le leggi vegliano per reprimerli. All’opposto, gli errori della legislazione prendono viepiù maggior forza dalle leggi stesse. Questi errori sono generali e condannano l'uomo all'obbedienza. I falli dell’interesse privato sono individuali: l’errore dell'uno in nulla influisce sulla condotta dell'altro. Allorquando la legge si rimane neutrale, ogni errore, nocivo essendo a quei che lo commette, vien bentosto riconosciuto ed abiurato. La natura ha dato all'uomo due guide: l’interesse e l'esperienza; egli s'istruisce a sue proprie spese. Qual motivo avrebbe egli per ostinarsi? tutto avvicina entro lui stesso. Egli può inosservato retrocedere, avanzare, cambiar via, in fine correggersi liberamente. Il legislatore poi trovasi in situazione del tutto inversa. Più lontano dalle conseguenze delle sue misure, e non provandone gli effetti d'una maniera tanto immediata, scopre più tardi i suoi abbagli, e allorché gli scopre si trova in presenza di osservatori nemici. Correggendosi, teme a buon dritto di perder di considerazione. L'intervallo, tra il punto in cui la legislazione devia dal retto sentiero, ed il momento in cui il legislatore se ne avvede, è molto lungo; ma è più lungo ancora quello che passa tra quest'ultimo momento, e quello in cui il legislatore si risolve a retrocedere; e lo stesso retrocedere non va esente da pericolo, né per il legislatore, né per la società.

Ogni qualvolta dunque non vi sia necessità asso, lqta, ogni qualvolta la legislazione può non intervenire, senza che la società sia messa in iscompiglio, ogni qualvolta infine non si tratti che di un meglio ipotetico, conviene che la legge si astenga, lasci fare, e taccia.


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CAPITOLO X

Delle osservazioni di Filangieri sulla decadenza della Spagna

«La Spagna deve non solo all’espulsione degl'industriosi Mori… ma deve forse più d’ogni altro ad un falso principio di economia, ed agli errori che questo principio erroneo ha cagionato nella sua legislazione… lo stato deplorabile della sua agricoltura e della sua industria, della sua popolazione e del suo commercio».

Lib. I, cap. III, p. 53.

Egli è, senza dubbio, con molta ragione, che Filangieri annovera tra le cause della decadenza della Spagna, l'espulsione dei Mori e l'assurdità di molte leggi commerciali che vigevano in quel regno. Ci si presenterà più d’un'occasione di ritornare sulla disastrosa influenza di queste leggi proibitive, di cui tutti i governi europei hanno fatto ih passato si prodigo uso; leggi, che tutti gli adulatori di questi governi, tutti i progettisti, tutti gli speculatori ignoranti, tutti i negozianti avidi, facevano a gara di raccomandare; leggi, che frequentemente sedussero lo stesso Montesquieu, e che i dettami dell’esperienza e gli sforzi di tutti gli uomini sensati, non giungono ancora ad estirpare: tanta ripugnanza prova il Potere a credere ai buoni effetti della libertà! Riguardo all'espulsione dei Mori, questa al giorno d’oggi viene felicemente equiparata alla giornata di San Bartolommeo ed alla revocazione dell’editto di Nantes; e per grande che sia l’impudenza degli scrittori venduti all’autorità, i progressi del secolo hanno almeno ottenuto questo, che simili misure, le quali se fossero nuovamente prese troverebbe forse dei complici, sarebbero ben lontane dal trovare ammiratori.

Tuttavolta, queste cagioni, da cui Filangieri ripete la decadenza d’un impero favorito in tutti i tempi dalla sua posizione e dal suo clima, e per lo spazio di molti secoli dal concorso unico di molte circostanze, non sono che secondarie ed accidentali; o, a meglio dire, sono esse piuttosto gli effetti d’una causa generale e permanente, intendo del dispotismo e dell'abolizione di ogni istituzione costituzionale.

La Spagna non era caduta improvvisamente nello stato di debolezza e di avvilimento, in cui trovavasi immersa allorché l'invasione di Bonaparte venne a risvegliare dal suo stupore un popolo generoso; la sua decadenza data dalla distruzione della sua libertà politica e dalla soppressione delle Cortes. Avendo altre volte una popolazione di trenta milioni di abitanti, ha veduto ridursi questa popolazione a nove milioni. Sovrana de' mari e padrona d'innumerevoli colonie, ha veduto la sua marina deteriorarsi al punto di essere inferiore a quella dell'Inghilterra, dell'Olanda, della Francia. Arbitra dell'Europa sotto Carlo V, terrore dell'Europa sotto Filippo II, si è veduta cancellata dal catalogo delle potenze, che durante gli ultimi tre secoli, hanno regolati i destini del mondo. Tuttociò non si è fatto in un giorno. Ciò è accaduto in conseguenza del lavoro ostinato e della sorda compressione d'un governo, che aggravava la sua mano sull'intelligenza umana, e che per non vedersi nel caso di dover temere i suoi sudditi, paralizzava le loro facoltà e le riteneva nell'apatia.

La prova si è, che se noi volgiamo i nostri sguardi verso l’Inghilterra, scopriremo presso gl’inglesi delle leggi commerciali non meno assurde, non meno vessatorie, non meno ingiuste; vedremo nelle stragi dei Cattolici, specialmente in Irlanda, e negli esecrabili regolamenti, in virtù dei quali tutta questa porzione del popolo irlandese è ridotta alla condizione degl’iloti, il paralello della persecuzione, e, sino ad un certo punto, dell’espulsione dei Mori; niente di meno l'Inghilterra è rimasta nel primo ordine delle nazioni. Ciò proviene dall’essere stati i vizj delle sue leggi, e del suo governo, controbilanciati dalle istituzioni politiche, dalle discussioni parlamentarie, e dalla libertà della stampa, di cui essa gode senza interruzione da centoventisei anni a questa parte. Si è conservata l'energia del carattere de' suoi abitanti, perché non sono stati diseredati della loro partecipazione all’amministrazione de' pubblici affari; questa partecipazione, quantunque quasi immaginaria, dà ai cittadini quel senso della loro importanza, che la loro attività tien viva, e l’Inghilterra governata, tranne poche eccezioni, dai tempi di Sir Roberto Walpole sino ai nostri, da ministri macchiavellisti, e rappresentata da un parlamento corrotto anzi che no, non ha meno conservato ciò non ostante il linguaggio, le abitudini e molti dei vantaggi della libertà.

Che se mi venisse obiettato, che già sotto Filippo II non esisteva più la costituzione, di Spagna, e che pur la sua potenza era formidabile, rispondere che l’effetto dei dispotismo non è immediato una nazione, che è stata libera, e che è andata debitrice alla sua libertà dello sviluppo delle sue facoltà morali ed industriali, vive per alcun tempo dopo perduti i suoi dritti, sopra i suoi antichi capitali, e, per così dire, sulle ricchezze da lei acquistate. Essendosi però disseccato il principio riproduttivo, la generazione attiva, illuminata, industriosa, sparisce a gradi a gradi, e la generazione, che ad essa succede, precipita nell’ignavia, e nell'abbrutimento. Se mi si oppone l'esempio di altre nazioni europee non meno che la Spagna straniere ad ogni costituzionale istituzione, e non giunte pertanto a tal grado di decadenza, spiegherò facilmente siffatta diversità, provando che queste nazioni avevano conservato un simulacro di libertà incerta e senza garanzia, reale però ne' suoi risultati quantunque di precaria durata, e troverò l'occasione di produrre relativamente ad un effetto politico dell'invenzione della stampa, alcune riflessioni da me riputate importanti, e quali credo d’essere stato il primo a sviluppare (14).

Altre volte in tutti i paesi d'Europa, vi erano delle istituzioni miste di molti abusi, ma che accordando ad alcune classi dei privilegi da difendere, e dei dritti da esercitare, pur mantenevano in queste medesime classi un'attività preservatrice dello scoraggimento e dell'apatia; ed a questa sola cagione devesi attribuire i energia dei caratteri sino al decimosesto secolo, energia di cui non troviamo più le vestigia prima della rivoluzione che ha scosso i troni e rigenerate le nazioni. Queste istituzioni sono state dovunque distrutte o talmente modificate, che hanno quasi del tutto perduta la loro influenza. Ma circa l'epoca stessa della loro sovversione, l'invenzione della stampa ha somministrato agli uomini un nuovo mezzo d’interessarsi alla loro patria; essa ha fatto scaturire una nuova sorgente di moto intellettuale.

In quei paesi, ne' quali il popolo non prende una parte attiva nel governo, dovunque cioè manca una rappresentanza nazionale liberamente eletta e munita d’imponenti prerogative, la libertà della stampa tien luogo in parte di dritti politici. La porzione illuminata della nazione s’interessa all'amministrazione degli affari, allorché essa può esprimere la sua opinione, se non direttamente, almeno su i principi generali del governo. Ma allorché in un paese non v'ha né libertà di stampa, né dritti politici, il popolo si distacca intieramente dagli affari pubblici; ogni comunicazione è rotta tra i governanti ed i governati. Per qualche tempo, tanto l’autorità, quanto i fautori dell’autorità, possono riguardar ciò come un vantaggio. Il governo non incontra ostacoli: nulla gli si oppone; ma ciò accade, perché esso solo è vivo, e la nazione è morta. L’opinione pubblica è la vita degli stati; quando l’opinione pubblica è ferita nel suo principio, gli stati s’illanguidiscono e cadono in dissoluzione.

Di fatti, osservatelo attentamente: dall’epoca dell’invenzione della stampa alcuni governi hanno favoreggiata la pubblicità delle opinioni col mezzo di essa; altri hanno soltanto tollerata, altri poi totalmente soffogata questa pubblicità. Or quelle nazioni sole, presso cui questa occupazione dello spirito è stata incoraggita, o permessa, hanno conservato energia e vitalità; quelle i di cui governi hanno imposto silenzio ad ogni opinione, hanno gradatamente perduto qualunque specie di carattere e di vigore.

Tal sorte era toccata alla Spagna, sottomessa più che alcun’altra contrada dell’Europa al dispotismo politico e religioso. Al momento, in cui la libertà costituzionale fu rapita agli Spagnuoli, nessun’altra carriera essendosi offerta all’attività del loro pensiero, essi si rassegnarono e si assopirono. Lo stato ne portò la pena. Il decreto della sua decadenza fu pronunziato.

Né bisogna credere, che i lucri del commercio, i proventi dell’industria, la stessa' necessità dell’agricoltura sieno motori sufficienti di attività per gli uomini. Viene spesso esagerata l’influenza dell’interesse personale.

L’interesse è limitato ne' suoi bisogni, e grossolano ne' suoi godimenti: ei lavora perii presente, senza portare i suoi sguardi in un lontano avvenire. L’uomo, la di cui opinione languisce soffogata, non. viene per lungo tempo eccitato neppure dal suo interesse; una specie di stupore s’impadronisce di lui, e simile alla paralisìa, che si estende da una porzione del corpo ad un’altra, questa specie di stupore si estende del pari da una delle nostre facoltà all’altra.

I depositari del potere bramerebbero i loro sudditi passivi ad un tempo per il servaggio, ed attivi per il lavoro, insensibili alla schiavitù e bollenti in tutte le intraprese che non dipendono dalla politica, servi rassegnati, ed abili istrumenti. Questa riunione di qualità tra loro opposte, non può esser durevole: non è dato all’autorità d’addormentare o di risvegliare i popoli a seconda delle sue convenienze o de' suoi momentanei capricci. La vita non è cosa da togliersi e da rendersi a vicenda; le facoltà dell’uomo son collegate; le cognizioni tono applicabili ad ogni cosa, esse fanno progredire l’industria, tutte le arti è tutte le scienze, quindi analizzando questi progressi, estendono il loro proprio orizzonte. Ma loro principio è il pensiero, se voi lo scoraggite dal volgersi sopra se stesso questo non si eserciterà se non che languidamente sopra altri oggetti: si direbbe, che sdegnato di vedersi respinto dalla sfera sua propria, vuol esso vendicarsi con un nobile suicidio dell’inflittagli umiliazione. L’esistenza umana, attaccata nel suo centro, non tarda a sentire il veleno che circola sin nelle sue più remote parti. Voi credete di averla limitata soltanto in alcune superflue libertà, o averla privata di qualche inutile lusso: la vostra arme avvelenata l’ha colpita nel cuore. La umana intelligenza non può essere stazionaria; se non la fermate si inoltra, se la fermate retrocede, ma non può starsi immobile nel punto medesimo. Accade dunque, che i governi, i quali vogliono spegnere l’opinione credendo d’incoraggir l’interesse, si trovano con loro grave rammarico, avere spento ambedue colla loro duplice e mal immaginata operazione, ed il movimento non tarda a rendersi più debole nell’autorità medesima. La letargia d’una nazione, in cui non esiste opinione pubblica, si comunica al suo governo; non avendo potuto tenerla vigilante, esso finisce coll’addormentarsi con lei. Così tutto tace, tutto s’indebolisce, tutto degenera e langue.

Tale fu, io lo ripeto, la sorte della Spagna, che né la bellezza del clima, né la fertilità del suolo, né il dominio di due mari, né le ricchezze del Nuovo mondo, né ciò ch'era ancor più da valutarsi, l’eminenti facoltà di questa nazione al dì d'oggi ammirabile, poterono salvarla.

Egli è sì vero, che il governo era colui che aggravava la sua mano in tal maniera sul popolo, che appena la di lui azione venne sospesa dall’invasione straniera, l'energia della nazione ricomparve in tutto il suo vigore. Ciò che non erano riusciti a fare i gabinetti coalizzati dell’Europa, ciò che avevano invano tentato l’abilità consuetudinaria dell’Austria, l’ardor bellicoso della Russia, gli Spagnuoli lo fecero, senza re, senza generali, senza tesori, senza eserciti, abbandonati, scoraggiti da tutti i sovrani, avendo a combattere non solo Bonaparte ed il valore francese, ma la cooperazione docile e zelante dei principi da lui ridotti o ammessi nel rango di suoi vassalli.

Varj scrittori di partito hanno attribuito un sì grande eroismo alla religione, ai costumi antichi, alle dottrine trasmesse scrupolosamente da un secolo all’altro, e soprattutto alla privazione di quelle idee che essi chiamavano rivoluzionarie 2 la religione però, i costumi antichi, le dottrine ereditarie, non avevano preservato la potenza spagnuola dal decadere, l’industria dal languire, la gloria dall’eclissarsi: ciò vuol dire, che ogni Spagnuolo chino sotto il giogo, erasi staccato dal proprio destino, su cui non poteva in conto alcuno influire la sua volontà. Ma da una non preveduta rivoluzione reintegrato nel possesso della propria natural parte d’influenza, investito del dritto di difendere la sua patria se stesso, ogni Spagnuolo ha sentito rinascere la sua forza, e riaccendersi il suo entusiasmo. La mancanza di governo, rendendo a tutti gl’individui la pienezza delle loro facoltà, questa si è immediatamente ritrovata. Nessuna virtù, nessun talento, è mancato alla rassegna; tanto la lotta la più disuguale è preferibile al serraggio.

Desiderate voi un’altra prova di quest’importante verità? Una fatalità deplorabile ha fatto succedere a questa lotta animata, a queste vittorie patriottiche un’amministrazione oppressiva. Delatori e cortigiani, razza inimica dei re e dei popoli, hanno ingannato un monarca traviato dall’inesperienza, e dominato dai pregiudizi. Ad un tratto l’apatia, lo spossamento, il gusto dell’ozio, il ristagno dell’industria, l’interruzione del commercio, la caduta del credito, tutti i sintomi di decadenza e di rovina che avevano segnalato il decremento dell’antica Spagna, sono ricomparsi nella Spagna non più occupata dagli stranieri. Eppure le cause, alle quali si pretendeva d'attribuire i suoi trionfi, nulla avevano perduto della loro intensità. La Spagna possedeva ed il suo culto esclusivo, ed il suo attaccamento ai costumi de' suoi antenati. Ma la libertà l’aveva abbandonata; ella vi è tornata, e già per di lei opera si riaprono tutte le sorgenti di prosperità.

Mentre io sto così scrivendo della Spagna, una riflessione mi si presenta: e perché mai tacerla?

Nel momento, in cui una nazione magnanima, che ha spezzati i suoi ceppi, associa alla sua liberazione il re che la governa; nel momento in cui questo stesso re con dei solenni giuramenti consacrali nuovo patto sociale, che mai vuol dire, che in altre parti di Europa vi ha chi sembra essersi preso a cuore l’assunto di soffogare i germi del bene, di rendere eterni gli odj e di risuscitarci sospetti? Come mai addiviene, che in Francia, organi di non saprei dire qual fazione, amhasciadori creatisi da per se stessi, o missionari d'un ignoto potere occulto, si attentano di offrire colpevoli soccorsi al principe che compromettono, e fare oggetto di loro pietà, non meno insolente che ipocrita, il monarca costituzionale? Ignorano forse, che in tal modo gli stranieri cagionarono la perdita dell'infelice Luigi XVI? Dimenticarono forse che le stolte loro minacce, le pretese loro intelligenze han favorito i più diretti, ma i non più pericolosi nemici del regio potere (15)? Spettatori tranquilli, lontani dal teatro delle agitazioni e dei pericoli, poco ad essi importa, se scavano profondi abissi sotto i passi delle nazioni ed intorno ai troni.

Spagnuoli illuminati e generosi, di non poche sciagure questi perversi vi sono stati cagione. Dal 1814 in poi hanno instancabilmente inculcato ai principi vostri e la legittimità del potere assoluto, e la giustizia dei mezzi orribili per conservarlo necessari. Disinteressata sembrava la loro opinione… Chi l'autorità da essa spiegata farassi a determinare? le loro voci ne venivan da lunge, e sarebbero state credute imparziali come quelle di una imparziale posterità… Chi può conoscere quanta influenza abbiano elleno avuta sopra i vostri infortuni?…

Son costoro di tutti i vostri nemici i meno degni, anzi i soli indegni di scusa. Senza passione, senza un immediato interesse, colla massima freddezza applaudivano essi alle persecuzioni, alle torture, ai supplizi dei vostri difensori. Possa il sangue delle vittime sul capo lor ricadere!

A malgrado di tali perfidi avversari, degni del più profondo disprezzo, voi procederete pacificamente per la nobile vostra carriera. Ben sapete che la base della libertà è la giustizia; che per fondare una costituzionale monarchia, uopo è rispettare il suo principio primo, la inviolabilità del monarca; che la volontà dei più in tanto è legittima in quanto che non lede i meno in alcuno dei loro dritti. Voi pur sapete, ammaestrati da una immortale gloriosissima esperienza, che è bastante la volontà vostra contro la collegata Europa. Resisteste a Bonaparte, né un secondo Bonaparte creerà il cielo. I generali vinti da Napoleone, da lui cui la Spagna debellar non fu dato, non guerreggieranno contro di questa più felicemente che contro di quello dal quale furono i loro eserciti distrutti. Se di uno fra essi la vittoria accompagnò sempre le insegne gloriose, ciò avvenne perché di una santa causa era difensore: questa causa abiurando, ei perderebbe ogni antico valore, e Salamanca, e Città Rodrigo, sarebbero soltanto i testimoni del suo scorno, e delle sue sconfitte.


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CAPITOLO XI

Delle osservazioni di Filangieri sulla Francia

«Passando dalla Spagna alla Francia, noi troveremo anche nella legislazione la causa della decadenza di questa nazione, che dopo essere stata dominante nell'Europa come la Spagna, è divenuta come quella, vittima degli errori delle leggi, e della stranezza dei suoi legislatori.»

Lib. I, cap. Ili, p. 54.

Filangieri commette, rispetto alla Francia, un errore consimile a quello, fatto da me rilevare nelle sue riflessioni sulla Spagna, e come attribuisce la decadenza di quest'ultimo regno all’espulsione dei Mori ed alle cattive leggi commerciali, così assegna per causa dell’illanguidimento del primo là revocazione dell’editto di Nantes, e gl'incoraggimenti esclusivi accordati da Colbert all'industria, senza riguardi e senza considerazioni per l’agricoltura.

Colbert è indubitatamente caduto in molti errori, né io certo, dopo i miei principi sulla neutralità che debbono osservare i governi in tuttociò che riguarda l’industria, il commercio e le speculazioni individuali, mi erigerò in apologista di questo ministro altre volte sì vantato. La revoca dell’editto di Nantes fu altresì un gran delitto, ed un atto di delirio. Ma né Colbert avrebbe potuto abbandonarsi senza ritegno alle, sue ingannevoli teorie sulla necessità di dare alle manifatture un’attività artificiale e forzata, né Luigi XIV avrebbe potuto bandire i Protestanti da una patria ch’essi arricchivano, se la Francia, mediante una libera costituzione fosse stata garantita dal dispotismo de' suoi re, e dalle fantastiche idee dei loro ministri.

Esistono nondimeno molte diversità tra la Francia e la Spagna, quali meritano d’essere rilevate.

L’oppressione intellettuale non ha mai gravitato sopra dì noi in quel grado stesso che ha gravitato al di là dei Pirenei. La totalità dei Francesi non è stata completamente privata dei dritti politici, che sotto Richelieu, ed ho già detto nel capitolo precedente, che le istituzioni difettose, ma che pure investano di certi privilegi alcune potenti classi occupate costantemente a difenderli, hanno, in mezzo a molti inconvenienti, questo di buono che non lasciano cadere la nazione intiera nell’invilimento nella degradazione. Il principio del regno di Luigi XIV fu agitato dalla guerra della Fionda, guerra veramente puerile, ma ch’era il residuo d’uno spirito di resistenza accostumato ad agire, e che continuava ad agire quasi senza uno scopo prefisso. Il dispotismo si accrebbe molto verso la fine di questo regno. Ciò nonostante, l’opposizione si mantenne sempre, rifugiandosi nelle dispute di religione, ora dei calvinisti contro i cattolici, ed ora dei cattolici tra loro. La morte di Luigi XIV fu l’epoca del rilassamento dell’autorità. La libertà delle opinioni prese giornalmente maggior vigore.

Non intendo dire perciò, che questa libertà venisse esercitata nel modo il più decente ed il più utile; intendo dire soltanto, che fu esercitata, e che per tal motivo non si possono assimilare i Francesi in alcuna epoca, sino alla rivoluzione del 1789, agli altri popoli condannati ad un completo servaggio, e ad una morale letargia.

É certo tuttavia, che nel tempo in cui scriveva Filangieri, la Francia era degradata dal suo rango, decaduta dalla sua potenza, e che il suo carattere nazionale erasi alterato.

Ma donde proveniva questo languore, questa alterazione, questa decadenza?

Comoda e facil cosa ella è quella di attribuire effetti generali a parziali cagioni. Ai nemici della libertà piace non poco questo modo di scioglier le difficoltà, avvegnaché ogni qualvolta ai principi rimontisi, la necessità della libertà si manifesta a prima vista, mentre, se si prende per soluzione del problema tal particolarità, tale individuo, tale accidente, ciò non porta seco conseguenza veruna.

Gli uni vi diranno dunque, che l’indebolimento della Francia nell’ultimo secolo è stato l’effetto delle guerre infelici, sostenute da Luigi XIV verso la fino del secolo precedente.

Gli altri accuseranno di quest'indebolimento la corruzione, che venne introdotta dalla reggenza, in tutte le classi, e la poca resistenza opposta ai progressi di questa corruzione dai successori di Luigi XIV, che voluttuosi, indolenti o deboli, si mostrarono incapaci d’esercitare nella sua pienezza l’autorità reale.

Ma queste spiegazioni cadono nel vizio di tutte quelle che non risalgono ai remoti principi.

Le guerre della vecchiezza di Luigi XIV furono la cagione più prossima dei mali della Francia. Ma se questo paese avesse goduto d’istituzioni costituzionali, né Luigi XIV avrebbe potuto intraprendere queste guerre inutili, né persistere in quelle aggressioni temerarie, che dovevano attirare sopra di esso le forze collegate di tutta l’Europa. Non sarebbe dipeso da uno de' suoi ministri il trascinarlo in simili spedizioni, per distrarlo dai suoi dispiaceri i più passeggieri ed i più frivoli.

Rispetto poi alla corruzione, di cui i successori di Luigi XIV sono accusati d’aver dato l’esempio, e favorito o tollerato i progressi; questa corruzione fu la conseguenza necessaria dell'oppressione morale, che nella sua decrepitezza aveva esercitata Luigi XIV sopra una nazione di già troppo illuminata per sopportarla: la reazione fu proporzionata all’azione, e questa reazione si faceva scorgere anche prima della morte di Luigi XIV. Le memorie di quei tempi ci parlano di lettere intercettate offensive egualmente per Iddio e per il Re(16): e queste lettere erano scritte da cortigiani, che vivevano sotto la sferza di lui; ma il vecchio principe gravitava sulla sua vecchia corte, la quale a vicenda imponeva la dissimulazione eia frode alla generazione nascente. Morto il re, il torrente, a cui il suo dispotismo opponeva delle dighe, le rovesciò tutte. Il ragionamento s’indennizzò colle stravaganze e coll’audacia, dell’oppressione sopportata con tanta rassegnazione. Si può asserire, e questa dovrebbe essere una lezione istruttiva pei governanti, che ogni qualvolta la menzogna ha regnato, la verità si vendica con usura. Appena scomparve Luigi XIV, si vide apparir la reggenza. Madama di Prie subentrò a madama di Maintenon, e la depravazione s’assise sulla tomba dell'ipocrisia.

Date all'opposto alla Francia una costituzione libera. La superstizione d’un monarca non eserciterà alcuna influenza sopra un popolo che ha il dritto di non adattarsi servilmente alle opinioni del suo signore, perché non vi sarà stata una forza comprimente in favore del falso zelo e della finta devozione. Altrettanto può dirsi dei principi, che succederono a Luigi XIV. I costumi rilassati di Luigi XV, e l'irresolutezza di Luigi XVI, sarebbero state in Inghilterra cose di poco momento, perché il carattere personale del re non è di alcun peso in un governo costituzionale.

E dirò anche di più, che è stata una felice circostanza quella, che i successori di Luigi XIV sieno caduti in questa rilassatezza di costumi ed in questa debolezza; giacché ad una tal cagione deve attribuirsi la differenza, che ho fatta rilevare tra la Francia e la Spagna, e che è tutta in favore della prima. Se Luigi XIV avesse avuto per successore, come Carlo V, un principe severo, sospettosa, abbastanza destro per opprimere la nazione senza innalzarla, egli è probabile, che la Francia sarebbe caduta nella stupidezza e nell'apatia. Sotto quest'aspetto, noi dobbiamo forse felicitarci delle orgie della reggenza, è dell’immoralità della corte di Luigi XV. La licenza dei grandi venne in soccorso della libertà del popolo e gli arrecò qualche vantaggio.

La Spagna, sotto un governo serio, oppressivo e secondato da un'implacabile inquisizione, perdè ogni sorta di attività e d'interesse per la cosa pubblica; la Francia, sotto un governo arbitrario, ma inconseguente, frivolo, e contrariato da un'opinione che trovava mille vie per esalarsi, conservò qualche interesse per la cosa pubblica, conservando, se non il dritto, almeno la facoltà di occuparsene; e se le due monarchie lentamente degenerarono, ciò accadde in differenti modi, ognuna secondo le cause del suo infievolimento,

La paralizzata Spagna non è stata di alcun sollievo né per se stessa, né per l’Europa nel periodo di questi ultimi due secoli, malgrado le qualità sublimi; ch’era no come sepolte nel carattere de' suoi abitanti. La Francia, nel suo più profondo avvilimento, ha diffuso attorno a sé i lumi, ha mantenuto ne’ suoi scritti la vita intellettuale, e ha dato finalmente la prima il nobile segnale della libertà.


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CAPITOLO XII

Della decadenza pronosticata da Filangieri all’Inghilterra

«L'Inghilterra è oggi all'orlo della sua rovina, per non aver avuto un buon legislatore.»

Lib. I, cap. III, p. 86.

Tutte le osservazioni di Filangieri su i vizj delle leggi inglesi, sull’assurdità e la barbarie delle proibizioni commerciali vigenti nella patria di Adamo Smith, sull’ineguaglianza e l’ingiustizia delle relazioni, che l’Inghilterra aveva stabilite e che ha voluto perpetuare tra sé e le sue colonie, sono d’una verità evidente. La legislazione di quest’isola celebre, in quanto si riferisce all’industria, alle manifatture, al fissare il prezzo della mano d’opera, in una parola all’esistenza dell’uomo ridotto a vivere del suo lavoro, rassomiglia ad una cospirazione permanente della classe potente e ricca, contro la classe povera e laboriosa. Sarebbe facile di riunire numerosissime prove di ciò. Non si possono aprire gli statuti d’Inghilterra, anche lasciando da parte i tempi barbari, e non consultando questi statuti, che dal regno di Elisabetta ai nostri giorni, senza scorgervi i rigori, i supplizj e la morte, inflitti con profusione ad azioni che non è possibile di considerare come delitti. L’esportazione d’un montone o d’un agnello porta seco la confisca dei beni, la perdita della mano sinistra, e pei recidivi quella della vita. Chiunque si avvicina alla spiaggia con della lana greggia, è punito con una pena non meno severa, come sospetto d’aver voluto far passare all'estero una materia non peranche lavorata. Se degli operaj che spirano di miseria colle loro famiglie, si concertano per ottenere dei salarj proporzionati al prezzo delle derrate, sono castigati come altrettanti ribelli. In questo paese, che ciascuno de' suoi abitanti si vanta di potere scorrere in piena libertà, l'indigente per passare da una parrocchia all'altra, ha bisogno del consenso di quella parrocchia, nella quale vuole stabilirsi, per timore che sprovvisto di mezzi di sussistenza, non sia a peso de' suoi novelli concittadini. La donna incinta, il vecchio, l'orfano, ritrovano così ad ogni passo, nella loro stessa patria, delle barriere artificiali, che la trasformano per essi in una terra inospitale, ove la povertà si vede proscritta, perché la proprietà ha Conservato la primitiva ferocia dell'usurpazione.

Non dobbiamo maravigliarci, se, sdegnato da questo spettacolo, Filangieri abbia creduto di riconoscere delle cause di rovina, colà dove si sviluppava una tal serie d'iniquità. Nulladimeno sono trascorsi più di quarantanni dalla predizione da lui fatta all'Inghilterra d'una prossima ed inevitabile decadenza. Le sue predizioni sono state ripetute ogni anno da scrittori d'opinione diversa, gli uni di buona fede, gli altri che attaccavano l'Inghilterra in quanto essa ha di cattivo per toglier credito a quanto essa ha di buono.

Queste lugubri profezie non essendosi realizzate, noi cadiamo oggi, a parer mio, in un altro estremo, ed immaginiamo, che per essere stata l'Inghilterra per lungo tempo minacciata senza esser colpita, essa è per sempre al coperto delle conseguenze delle sue viziose istituzioni.

É questo un soggetto di somma importanza, non solo sotto l’aspetto dottrinale, ma ancor sotto quello dei futuri destini della repubblica europea. Due potenze si disputano l’Europa come una preda, e queste sono l’Inghilterra e la Russia.

Non è mio scopo d’indagare qui cosa diverrebbe l’Europa sotto l’influenza russa. Dipendere dalla Russia è lo stesso che dipendere da un individuo. Tutto ciò che riposa sopra un uomo, è passeggiero come la vita di questo. Governata da principi assoluti, la Russia, non potrebbe avere, sotto due generazioni imperiali, un identico sistema. Ciò, a cui ha dato cominciamento un principe assoluto, viene abbandonato dal suo successore; ciò che il primo ha minacciato, viene risparmiato o protetto dal secondo. I fatti ci provano questa verità. Sulla fine della guerra dei sett’anni, la morte d’una imperatrice salvò la Russia; ed al principio di questo secolo, un imperatore versatile avrebbe salvato la Francia, se una sregolata ambizione non fosse andata a provocare la Russia sino nel mezzo de' suoi ghiacci. E così l’influenza russa avrebbe per l’Europa questo particolare inconveniente, che i re, vassalli di questo gigante civilizzato appena, diverrebbero i trastulli d’incalcolabili capricci. Se comprassero colla loro sottomissione la sua assistenza contro i loro popoli, non tarderebbero a rimaner vittime ed istrumenti delusi di questo vergognoso trattato. Ma ripeto nuovamente, che una tal questione non ha alcun rapporto con quella che mi occupa: debbo ora ragionare dell’influenza inglese.

L’Inghilterra è in una condizione totalmente differente da quella della Russia. Le sue istituzioni costituzionali le danno tutti i vantaggi d’un governo aristocratico. Nella costituzione britannica il re è ciò che dev'essere il potere supremo, un moderatore innalzato al di sopra della sfera delle agitazioni, e calmando, disarmando o aggiungendo peso agli altri poteri. La vera quotidiana azione risiede nel ministero, riunione d'uomini sempre più o meno distinti per il talento e per l'esperienza, al sicuro come corpo collettivo dalle vicende dell'eredità, che trae seco alternativamente la fanciullezza e la vecchiaja, la debolezza e la violenza, la pusillanimità e la presunzione; formando, in una paròla, una specie di senato, costante nelle sue vedute, uniforme nella strada che batte, e preservato in forza della sua stessa composizione dalla versatilità e dai capricci, inseparabili da una successione d'individui, che subentrano uno all’altro per dritto di nascita.

Di qualunque natura sieno sempre state le divisioni dei partiti, il governo inglese, passando dalle mani di uno di questi partiti all'altro, non ha mai realmente deviato dal suo principio aristocratico. Il ministero whig di Cbatam, non era, cinquantanni fa, più cosmopolita, o meno geloso della prosperità e dei dritti del continente, di quello sia al dì d'oggi il ministero tory di lord Castelreagh. Eravi sicuramente nel primo qualcosa di nobile, di vasto, di. generoso, che non si osserva nel secondo. Le dottrine della libertà, ristrette anche all’amministrazione interna, comunicano sempre questo colore a chi le professa. Ma allorché, rientrato nei ranghi dell'opposizione, il padre di Pitt prendeva la difesa dell'America oppressa, gridava pur anche: pace coll'America, e guerra coll’Europa! E donde ciò? perché il continente europeo è per gl'inglesi di tutte le opinioni, non già una riunione di paesi alleati, popolati di esseri della stessa natura, ma un oggetto continuo di speculazioni, più o meno macchiavellesche; e se essi non lo trattano come quello dell'Indie, ciò è dovuto all'esser noi Indiani troppo abili e troppo agguerriti per loro.

La questione di sapere, se la decadenza dell'Inghilterra sia una pura chimera, o se il momento di vedersi realizzare questa decadenza sia vicino, è dunque, lo ripeto, d'una somma importanza. Una tale questione è quella dell’indipendenza del commercio, dell'industria ed anche della politica dell'Europa. Ma io devo far osservare, che per decadenza non intendo soltanto un indebolimento momentaneo, contro del quale sarebbero sempre in corrispondente opposizione le istituzioni costituzionali dell'Inghilterra; intendo una distruzione di queste istituzioni e dell’ordine sociale, che sovr'esse riposa, e perciò un colpo mortale portato alla sua interna prosperità, ed alla sua influenza esterna.

Le cause solite ad allegarsi, come doventi produrre un tal risultato, dagli scrittori che predicono la caduta dell'Inghilterra, sono in numero di due: 1.( a) , la miseria della classe degli operai 2.( a) , l’enormità del debito pubblico.

La miseria della classe degli operai è innegabile, e le leggi dell'Inghilterra sono su tal riguardo egualmente assurde che atroci; desse si aggravano sulla indigenza, contrastano a questa l'uso legittimo delle sue facoltà e delle sue forze, rendono eterne le sue sofferenze, poiché le tolgono ogni mezzo di giungere ad una condizione più felice. Conseguentemente in un momento in cui altre cause condurrebbero ad una gran crisi, l'effetto di queste disastrose leggi sarebbe incontrastabilmente quello di accrescere i disordini e le calamità di questa crisi.

La classe povera è sempre divisa. Perseguitata da bisogni rinascenti a tutte l'ore, cede alla prima speranza, che le si dà di soddisfare, non fosse che per metà, ai suoi pressanti bisogni. La fame, che è il motivo delle sue sollevazioni, la forza nel tempo stesso a cedere a tutte le tentazioni, che le si presentano. Abbandonata a se stessa, questa classe sfortunata, ai di cui danni tutte le altre cospirano, può bene agitare i suoi ferri, ma non già spezzarli; essa li riprende, dopo averne battuti i suoi padroni, e non è temibile, se non quando dei capi appartenenti ad ordini più elevati la dirigono.

Ora, questi ordini più elevati, sono tutti collegati in Inghilterra a' danni di questa classe infelice. In un paese, in cui esiste libertà politica, ed in cui le persone e le proprietà nulla hanno da temere dall’arbitrio, tutti i possidenti anche i minori, si coalizzano in favore dell'ordine stabilito, subitoché l'anarchia si manifesta. In tal guisa le istituzioni costituzionali degl’inglesi li preservano dagli effetti dei loro errori in punto d'industria e di commercio, ciò che rende tanto più strana la follìa di quei pubblicisti, che ci propongono di adottare le leggi proibitive di questa nazione, nel tempo stesso che c'invitano a star ben lontani dal suo sistema costituzionale.

D'altronde, tra le misure e le precauzioni prese per tenere a freno la classe inferiore, se parecchie ve ne sono ostili e rigorose, altre ve ne son pure, che consistono in alleviamenti ed in palliativi, di un’efficacia almeno passeggiera.

Così la tassa dei poveri, tassa sì gravosa per molti riguardi, e di cui l’Inghilterra si alleggerirebbe in un attimo se facesse ritorno ai principi della liberti dell’industria, ella è una specie di restituzione accordata dal monopolio a coloro ch’ei spoglia dei loro dritti; ella è un’ammenda col di cui prezzo la proibizioni acquistano il privilegio di prolungare la loro esistenza. Questa tassa, quantunque insufficiente, mantiene la speranza del povero e calma la di lui irritazione.

Aggiungerò, che malgrado la sua affezione pei regolamenti vessatori, l’Inghilterra si è alquanto rilassata, da un secolo a questa parte, dai suoi antichi ostacoli contro l’industria.

Le sue leggi più barbare sono raramente eseguite, ed i tribunali accolgono con parzialità le distinzioni sottili, tendenti a sottrarre agli statuti proibitivi un più gran numero possibile di mestieri. I tirocini, per esempio, stabiliti da Elisabetta, sono stati ristretti alle professioni ch’esistevano sotto il suo regno (17). Così la libertà, sotto questo aspetto, si estende, e le leggi concernenti l’industria, raddolcite o deluse, non debbono essere riguardate come una cagione diretta ed immediata di rivoluzione

Lo stesso accade dell’enormità del debito pubblico, enormità, nella quale Filangieri e tutti gli scrittori che hanno percorso dopo di lui l’arena dell'economia politica, hanno veduto il germe di un gran rovescio.

Questo debito è certamente un gran flagello; il suo progressivo aumento deve finire col renderlo insopportabile. Ma fino al presente il debito pubblico dell'Inghilterra, consolidando in certa guisa con le private fortune quella dello stato, dà all'ordine esistente dei sostegni anziché dei nemici, lo che durerà ad esser così fintantoché il governo inglese sarà penetrato di questa verità, che cioè quando un debito è considerevole egli è d'uopo occuparsi del di lui pagamento, anziché della di lui riduzione; imperocché la riduzione, per forte che ella sia, non può mai presentare un profitto equivalente al colpo mortale che i mezzi impiegati per ottenerla arrecano al credito dello stato. Con questo principio, un paese può per lunga pezza sfidare tutti i calcoli, e far fronte a tutte le probabilità umane. L'Inghilterra, meno indebitata, vedrebbe forse radunarsi attorno al potere, responsabile e garante del suo debito, molto minor numero di difensori, o dei difensori molto meno zelanti. Ma il timore di perdere dei capitali lotta nello spirito di tutti i creditori dello stato, con il desiderio di riacquistare dei dritti, e la riforma invocata in teoria, è rigettata in pratica, perché una riforma reale e completa, sarebbe forse o preceduta o susseguita da una bancarotta.

Il pericolo adunque dell'Inghilterra non ha le radici nella miseria della classe laboriosa, né nell’esorbitante suo debito, ma bensì nell'annientamento, che io reputo ormai inevitabile, del suo principio aristocratico, lo che esige ulteriore sviluppo: L'Inghilterra, come già dissi, altro in fondo non è, che una vasta, opulente e vigorosa aristocrazia; immense proprietà riunite nelle stesse mani, ricchezze colossali aumentate sulle medesime feste, una clientela numerosa e fedele aggruppata intorno ad ogni gran possidente, a cui essa consacra l'uso dei dritti politici, quali sembra aver ricevuti costituzionalmente al solo fine di farne il sacrifizio; e finalmente, per risultato di questa combinazione, una rappresentanza nazionale, composta da una parte, di salariati del governo, e dall'altra di eletti dall'aristocrazia: tale è stata, sino al dì d'oggi, l’organizzazione dell'Inghilterra.

Quest'organizzazione, 'che sembra esser molto imperfetta, ed anche molto oppressiva in teoria, era mitigata in pratica tanto dai buoni effetti della libertà conquistata nel 1683, quanto da molte circostanze particolari all’Inghilterra, alle quali circostanze si è avuta, a mio credere, la necessaria considerazione allorché si son volute prendere dalla costituzione britannica, e trapiantare altrove, certe istituzioni riguardanti i privilegi e le loro modificazioni. Io stesso converrò di buona fede, che non sempre mi sono abbastanza garantito da quest'errore (18).

L'aristocrazia inglese non era mai stata, come quella di molti altri paesi, la nemica del popolo. Chiamata nei secoli più remoti a rivendicare contro la corona i così da lei chiamati suoi dritti, essa non aveva potuto far valere le sue pretese, che fissano alcuni principi utili alla massa dei cittadini. La magna carta, quantunque composta nel seno del feudalismo, e portante molte vestigia del sistema feudale, consacra la libertà individuale ed il giudizio per via di giurati, senza distinzione di ranghi o di persone.

Nel 1688 un gran numero dei Pari inglesi, aveva preso parte alla rivoluzione, che ha fondato in Inghilterra un governo costituzionale; e dopo quest’epoca in vece di dedicarsi alla cortigianeria, e alle anticamere, questa porzione di nobili era rimasta alla testa d'un partito di opposizione, ch’essa serviva col suo credito e colla sua fortuna, nel tempo stesso che da lui riceveva vigore.

E così, facendo collettivamente della sua aristocrazia una delle basi della libertà, essa si conciliava partitamente l’affezione della classe dipendente, con un patrocinio, che la sua durata e la fedeltà con cui ne compiva i doveri, avevano reso quasi ereditario. Le grandi proprietà dei Signori inglesi erano in parte tenute in affitto da ricchi fìttajuoli, che le coltivavano da padre in figlio subordinatamente, a dei patti per lunghissimo tempo invariati. Piene erano le case loro di servi numerosi, che il padrone pagava generosamente e che gli sembravano un peso inseparabile dal suo rango. Ciascuno di questi gran signori era in un certo modo il capo d’un piccolo popolo, la di cui fortuna dipendeva da lui, e che lo serviva col proprio zelo, e coi diversi mezzi che erano in potere di ciascun individuo (19).

Da una simile organizzazione era risultato, che in Inghilterra non era l'aristocrazia in conto alcuno odiosa alla massa della nazione. Le leggi stesse, che ha emanate il partito popolare allorché ha avuto in mano il potere, non sono state mai dirette contro la nobiltà. Non bisogna oppormi l'abolizione della camera de' Pari nel corso delle guerre civili; questa misura rivoluzionaria non era punto in armonia col senso veramente nazionale. I privilegi della nobiltà, modificati più dall'uso che dalla legge, si erano conservati nella Gran Brettagna senza eccitare la irritazione che cagionano altrove.

La guerra della rivoluzione francese ha sconvolto improvvisamente questa combinazione di libertà e d’aristocrazia, di clientela e di protettorato.

Una tal guerra aggiungendo ancora gravezza al grave peso delle tasse, ha introdotto tra la fortuna dei grandi ed i bisogni della popolazione da essi dipendente, una disproporzione, che ha rotto qualunque equilibrio. Mal sofferenti una molestia cui non erano accostumati, i grandi ed i ricchi hanno voluto sottrarvisi. I proprietari hanno aumentato i prezzi dei loro affitti, o cambiato di fittajuoli, i padroni hanno licenziato i loro numerosi servitori. In questa maniera d’agire essi non hanno veduto che una misura economica: questa però è divenuta il germe d’un cambiamento nell’ordine sociale; ed i sintomi di tal cambiamento sono già visibili, abbenché la causa ne resti ignota.

Dovunque la massa delle nazioni non è compres sa da una forza maggiore essa non consente all’esistenza di classi, che la dominino, se non se perché crede scorgere nella supremazìa di queste classi qualche utilità per se stessa. L'assuefazione, pregiudizio, una specie di superstizione e l'inclinazione dell’uomo a considerare ciò che esiste come necessariamente esistente, prolungano l'ascendente di queste classi anche dopo cessata la loro utilità. Ma la loro esistenza diviene allora precaria, e la durata delle loro prerogative incerta. Così il clero ha veduto diminuire il suo potere, subitoché non è più stato il solo depositario delle cognizioni necessarie alla vita sociale: i popoli hanno ricusato di obbedire implicitamente ad una classe, di cui potevano fare a meno. L'impero dei signori ha cominciato ad eclissarsi tostoché non hanno più offerto ai loro vassalli, in compenso dei privilegj, che questi consentivano a rispettare, una protezione sufficiente ad indennizzarli della loro sommissione ai privilegj medesimi.

I grandi signori inglesi non possedevano né il monopolio delle scienze, come gli ecclesiastici, né quello della protezione, come i baroni del medio evo; ma essi avevano quello del protettorato, e rendevano più tollerabile per le classi inferiori questo monopolio, affezionandosi e conciliandosi una estesa clientela. Ora hanno licenziata questa clientela credendo per un errore, in cui sempre cade l'aristocrazia, di potersi liberare dai pesi, e conservare il benefizio. Ma i clienti scacciati dai patroni, pel fatto stesso di tal discacciamento si son tosto sentiti uguali ai medesimi; un sordo, e rapido istinto, gli ha di ciò avvertiti; e così la moral disposizione dell'Inghilterra si è cambiata. Gli antichi fittajuoli, che pagano un canone più gravoso di quel di una volta, o i nuovi che agli antichi han succeduto, non dipendono più dai proprietarj, ma con essi avendo trattato a tenor delle leggi, non riconoscono altri mediatori che queste medesime leggi, in di cui nome sono state loro di recente imposte delle condizioni più gravi. I servitori licenziati hanno accresciuto il numero di quella classe, che non ha nulla da perdere; classe di già numerosissima in Inghilterra, a motivo delle di lei leggi detestabili, leggi proibitive, e delle parish laws (leggi di parrocchia) sì orribili contro i poveri. Ed in tal modo una gran porzione del popolo, che formava in passato il sostegno dell’aristocrazia, ora è alla medesima divenuta apertamente contraria.

Questo primo resultato del congedo dato alla classe dipendente, un secondo ne ha prodotto; e questi due effetti si sono vicendevolmente l’uno per l’altro accresciuti.

Sino al presente una porzione dell’aristocrazia difendeva sinceramente la libertà; conoscendosi in salvo dalle tempeste popolari, godeva di limitare a suo particolar vantaggio il potere del trono. Lusingava i nobili dell’opposizione la idea di comparir quai tribuni di un popolo da essi diretto. In oggi questa stessa porzione dell’aristocrazia britannica si avvede, che il timone del governo le è fuggito di mano, e paventa i principi democratici, che fanno dei progressi; per conseguenza il di lei cammino è incerto; non dimanda più quanto in prima dimandava, nò desidera ciò che domanda. Per esempio, di tutti gli antichi whigs che avevano cominciato dal reclamare la riforma parlamentaria, ve ne sono ben pochi che ne parlino ancora, ed ardisco dire, non essercene un solo che l’effettuerebbe, se lo potesse, con un atto della sua volontà. Così l’opposizione, propriamente detta, ha perduto la confidenza della moltitudine. Egli è un inconveniente: coloro che vogliono condurre il popolo al di là dei limiti, profittano della circostanza in cui esso trovasi di non avere altri capi che loro.

Per far, ben comprendere tutta l’estensione, e tutta l’importanza di un tal cambiamento, basterà una sola osservazione.

Il momento del più grande imbarazzo dell’Inghilterra è stato quello della cessazione della guerra, terminata colla pace del 1814 la guerra era stata la cagione di quest’imbarazzo; ma la pace n’è stata il segnale.

Nel corso della guerra, l’attività inglese si era rivolta verso alcuni generi d’industria, e verso alcune speculazioni, che avevano per base una lotta gigantesca contro Buonaparte ed i re suoi vassalli, Erasi formata una popolazione di intraprenditori, di manifattori, di armatori, di contrabbandieri, popolazione in qualche sorta militare; era essa succeduta alla popolazione industriosa e manifatturiera dei tempi pacifici, ed era anche venuta in soccorso della porzione di questa popolazione, che restava senza impiego diretto, associandola per vie indirette alle sue intraprese ed ai suoi lucri. La sua prodigiosa attività, necessitata e favorita dalle circostanze, non solo faceva illusione, ma riparava in realtà alla giornata gl’inconvenienti d’una simile posizione. D’indi quella specie di prodigio, per cui si è veduto, che più l’Inghilterra ha avuto nemici, più è sembrata crescere in forza ed in potere.

La pace è venuta. L’attività ha dovuto cessare momentaneamente in un colla guerra, che l’aveva creata e che sola l’alimentava: essa ha dovuto cessare prima che vi fossero sostituite altre speculazioni ed un’altra industria, perché i canali da lungo tempo negletti non potevano immediatamente riaprirsi, né la direzione dei capitali cambiare colla stessa prontezza, con cui si firmava un trattato. Per questo stesso motivo le tasse sono divenute insopportabili. Ciò che aveva coadiuvato a sopportarlo, era la rapida circolazione dei capitali impiegati nelle intraprese della guerra, e gli utili, non meno rapidi, che si ricavavano da questi capitali. Queste molle non essendo più in attività, non solo le tasse dovevano opprimere coloro che le pagavano, ma questi ultimi non avendo più di che occupare la classe laboriosa, doveva risultarne anche per questa classe una miseria spaventevole, ed è appunto ciò ch'è accaduto.

A quest'epoca, degli attruppamenti di gente ridotta alle più disastrose estremità, si sono formati in diverse provincie sino nelle vicinanze di Londra. Questi attruppamenti, stante il vigore, che una lunga libertà comunica sempre ad una costituzione, non hanno posto in pericolo lo stato; ma in tutt’altro paese avrebbero fatto temere una completa anarchia. I contadini entravano a bande nella capitale per domandare del pane; i carbonaj coi loro carri, che trascinavano da loro stessi, venivano da diverse contee per supplicare il Principe reggente. Nulladimeno in una crisi simile, allorché gli operaj erano senza lavoro, i manifattori senza consumatori, i proprietari senza rendite, i poveri senza alimenti; allorché delle radunanze di popolo, spinte dalla fame a dei saccheggi parziali, e mal combinati, affrontavano pene eguali a quelle che avrebbero meritale commettendo dei delitti politici, niuna parola di ribellione fu pronunziata, niun segnale di ribellione inalberato; il popolo in disperazione, trascinato dalla miseria a molti atti illeciti, mostrossi non ostante completamente alieno da qualunque intenzione di sollevarsi contro l’autorità e di attentare contro la costituzione dello stato. Per lo contrario il seguente anno, a malgrado che la miseria fosse diminuita, che il popolo rinvenute avesse delle risorse, e il povero del lavoro, si formarono cospirazioni, sette e società pericolose, e si scoperse una quantità di uomini della infima classe, che nudriva desideri e progetti di rovesciamento, e si apparecchiava a correr gli eventi di una rivoluzione senza direzione, senza scopo fisso, e senza termine

Ammetto, che siasi esagerata la gravità dei sintomi. Il terribile espediente di mandare emissari per agitare degli spiriti ignoranti, e proporre la rivolta per poi denunziarla, concorse ad aumentare questi movimenti disordinati. Alcuni vili sciagurati hanno sedotto quelli che hanno avuto la disgrazia di ascoltarli, e probabilmente hanno accusato anche quelli che non avevano potuto sedurre. Siccome le misure prese erano di natura straordinaria, così è convenuto dare la maggior verisimiglianza possibile a delle supposizioni allarmanti, nelle quali non è pertanto mancato un fondo di realtà.

Effetti tutti del cambiamento del morale stato dell'Inghilterra. Il congedo dato alla clientela, l’abdicazione del protettorato (poiché egli è un abdicare il protettorato, quando non se ne vogliono adempire gli obblighi) hanno portato una modificazione Dell’ordine sociale. L’aristocrazia inglese ha fatto contro se stessa ciò ché la potenza regia aveva operato in altri paesi contro l’aristocrazia.

Ecco la causa d’una rivoluzione possibile'e forse prossima. Questa causa non esisteva nel tempo in cui Filangieri scriveva. Ad onta dei vizj del suo» sistema proibitivo, malgrado l’enormità del suo debito, l’Inghilterra era tuttavia inespugnabile nelle sue istituzioni, perché le sue istituzioni erano d’accordo cogli interessi, e colle opinioni, prodotte sempre dagl’interessi della pluralità.

Oggigiorno le dette istituzioni stanno in opposizione diretta coi detti interessi: è perciò difficile che possano le prime ai secondi resistere.

Ciò che le salva tuttora è il diritto conservato dall’opposizione di manifestarsi in tutta la sua violenza a malgrado di leggi bene spesso oppressive. L’opposizione, che in tal guisa manifestandosi evapora, ove fosse compressa scoppierebbe con una esplosione terribile, ed il governo, che si affligge di non aver contro essa dei mezzi repressivi a sufficienza, deve la sua salvezza all’impotenza medesima ch’egli deplora.

Paragonando queste osservazioni a quelle di Filangieri, si troverà, io credo, che queste ultime già poco esatte e superficiali nel momento in cui l’Autore italiano le scriveva, sono totalmente inapplicabili allo stato attuale delle cose.

Il pericolo, che minaccia l’Inghilterra, non ha la sua sorgente principale né nella miseria d’una porzione numerosa della sua popolazione, né nell’accrescimento del suo debito. Questo pericolo deriva da ciò, che fondate come sono le sue istituzioni sull'aristocrazia, dal momento che questa base è scossa, queste istituzioni debbono crollare. Dovrà dunque concludersene, che sia d’uopo riformare l’aristocrazia? Se ne farebbe in vano l’esperimento. Non si rimonta punto il torrente; è necessario di seguitarlo, dirigendo in tal guisa il naviglio, che questo non vada a rompersi sugli scogli. Conviene che l’Inghilterra conservi ciò che v’ha di buono nella sua organizzazione attuale: una rappresentanza nazionale, la libertà delle discussioni, quella della stampa, le garanzie giudiciarie. Conviene, ch’essa rinunzi a quella sua concentrazione di proprietà, che crea dei milioni di proletari, ed alla sua aristocrazia, mancante ormai di clientela ed in conseguenza di utilità.

P. S. Mentre quest'opera stava sotto il torchio, molti fatti si sono riuniti per corroborare le mie asserzioni.

Delle associazioni agricole, composte di ricchi proprietari, hanno preso sopra diversi punti del regno, delle risoluzioni, quali, sotto differenti forme, e in un modo più o meno diretto, tendono tutte ad una proposizione di bancarotta.

Fra queste risoluzioni, quelle dell’associazione agricola della contea di Worcester, presieduta da sir Tommaso Winnington, meritano una seria attenzione.

È stato unanimemente risoluto in quest’assemblea:

1.° Che l’imbarazzo dell’agricoltura ed il pregiudizio degl’interessi agricoli sono stati pienamente provati:

2.( 0) Che il comitato della camera dei comuni si oppone ad ogni rimedio efficace, partendo dal principio, che la cagione di quest'imbarazzo è stata l’elevazione dei prezzi cagionata dal corso forzato delle cedole di banco, e supponendo, che al giorno d’oggi questi prezzi scenderanno naturalmente a quello stesso livello, che questo concorso di cedole aveva alterato:

3.° Che l'opinione dell'associazione si è quella, che il prezzo di tutti gli oggetti, produzioni, lavoro e rendite, siasi raddoppiato dipoi l'emissione delle cedole di banco; che l’aumento delle tasse è fondato su questi prezzi raddoppiati, e che la massa del debito nazionale, e dei debiti e delle obbligazioni particolari, è stata contratta sul raddoppiamento di questi prezzi:

4.° Che l'associazione non saprebbe comprendere, come mai sarebbe compatibile colla buona fede, che i prezzi della produzione e del lavoro, vale a dire, le rendite del proprietario di terre e del coltivatore, fossero ridotti al limite anteriore all'introduzione forzata delle cedole di banco, mentre gl'interessi del debito ed il salario degl'impieghi e delle sinecure le rendite cioè del creditore dello stato, e dei salariati del governo, anderebbero esenti da questa riduzione.

Se si traducono in istile volgare queste risoluzioni, si troverà il loro significato esser quello, che il ristabilimento dei pagamenti in numerario, facendo bassare il prezzo delle derrate e conseguentemente la rendita di quelli che le producono e le vendono, conviene, in buona giustizia, far bassare in un'egual proporzione l'interesse dei fondi pubblici ed i salar} de' funzionari.

Quanto alla diminuzione de' salarj, questa misura è evidentemente giusta. Nessuno essendo astretto ad accettare delle funzioni salariate, nessuno ha dritto dì lagnarsi della mediocrità delle loro retribuzioni, poiché ciascuno è libero di ricusarle.

Ma la diminuzione del debito, o degl'interessi di questo debito, è una questione d’un’altra natura. Io non mi fermerò a dimostrare l’iniquità d’una tal manifesta violazione della fede giurata; né pure insisterò su quanto essa avrebbe d’impolitico. Chiunque possiede le prime nozioni del credito pubblico sa che vi sono delle infrazioni, da cui questo non si ristabilisce mai più; o almeno non si ristabilisce che quando un completo rovescio avendo colpito a morte il governo colpevole di queste infrazioni, un nuovo governo si presenta e sembra offrite maggiori garanzie. Così, dopo la caduta del direttorio, che aveva fatto bancarotta nel 1797, il credito della Francia è potuto risorgere sotto Bonaparte, che avea rovesciato il direttorio, perché non era egli responsabile delle fedeltà direttoriali, e che potevaglisi supporre l'intenzione di riparare gli errori d’un governo, di cui era ad un tempo l’erede ed il vincitore. Ma il governo inglese, mancando ai suoi impegni, non riacquisterebbe mai la confidenza. Ci vorrebbero altri uomini, altre cose, altre istituzioni, altre forme; ci vorrebbe, in una parola, una rivoluzione. Se questa rivoluzione non si effettuasse, cosa diverrebbe in Europa il governo inglese privato del credito? La sua popolazione non gli permette d’intromettersi da per se stesso nelle querele continentali: egli non vi figura che mediante i suoi alleati. Ora esso non ha altri alleati che quelli da lui pagati, ed esso non gli paga, che per via d’imprestiti. Diseccata una volta la sorgente degl’imprestiti, cosa mai sarebbe di lui? L’Inghilterra non occuperebbe allora nella politica europea un posto più importante della Sardegna.

Non ragionerò dello scompiglio interno, che trascinerebbe seco la diminuzione del debito. Una parola sfuggita agli autori delle risoluzioni dianzi trascritte l'indica a sufficienza. I debiti e le obbligazioni particolari, essi dicono, come anche il debito nazionale, sono stati contratti sul raddoppiamento dei prezzi delle derrate e del lavoro. Essi non aggiungono, invero, che i debiti particolari dovrebbero essere diminuiti in proporzione del debito pubblico; ma la conseguenza deriva dai loro principi. L’ingiustizia ha la sua logica egualmente perentoria di quella della lealtà; e coloro che in oggi vogliono spogliare i creditori dello stato per diminuire le tasse con le quali debbono esser pagati, applicheranno tanto più volentieri la regola da essi invocata ai loro propri creditori, in quanto che la desumeranno dall'applicazione medesima.

Passa certamente una gran distanza tra le associazioni di alcune adunanze di provincia e le risoluzioni del parlamento, dominato da ministri sufficientemente al fatto della loro situazione: nulladimeno è ben rimarchevole il progresso delle idee da quattr’anni in qua.

Nel 1817 una petizione appoggiata alla dottrina adottata al presente dall’associazione agricola di Worcester, fu firmata in campo aperto da quattromila individui delle infime classi: nessuno prestò a quest’atto la menoma attenzione. Nel 1818 un'altra petizione, nel medesimo senso, fu indirizzata alla camera dei comuni: non se ne volle far la lettura sul pretesto che era troppo lunga. Nel 1819 un ministro trattò di colpevole e di delitto di alto tradimento qualunque dimanda 0 progetto di diminuzione del debito pubblico. Nel 1820 furon messi in istato d’accusa dei riformatori, per aver detto, che i creditori dello stato erano creature rapaci (irapacious creature): ecco per la resistenza. Ecco poi per i progressi: nell’ultima sessione, il signor Littleton, gran proprietario, ha detto, che questi medesimi creditori erano dei mostri divoratori (monsters of consumption); eppure per quest’espressione, più forte di quella di creature rapaci, non fu né anche richiamato all’ordine. Finalmente ecco che nel 1821 vien tenuto il medesimo linguaggio, non già da riformatori o da un individuo isolato, imbevuto delle loro dottrine, ma da possessori di vaste proprietà territoriali, da un gran numero di persone appartenenti alle più alte classi.

Che se ora mi si domanda ciò che dovrebbe farsi per non rompersi contro lo scoglio, verso cui si è spinti da una forza quasi irresistibile, risponderò che io vedo le cause, che prevedo gli effetti, ma che allorquando i rimedj sono di natura da offendere tutti gl’interessi attivi, e da trovar degli ostacoli in tutte le forze organizzate, vi sarebbe un'inescusabile presunzione ad indicarli. Dirò peraltro, ch’essendo l’Inghilterra agitata sino nelle sue fondamenta, sarebbe un ben grave azzardo il cambiare queste basi con delle violenti e repentine innovazioni. Ch'essa impieghi gli avanzi delle sue artificiali risorse, mentre tuttavia gliene rimangono, a guadagnar tempo, e che si crei, in quest'intervallo, delle risorse meno fittizie; ch'essa rechi sollievo al povero coll’abolire le sue leggi proibitive: l’industria libera le renderà al di là delle tasse, che perpetuano la sua miseria, soccorrendola alla giornata; ch'essa permetta agli agj di sussistere da loro medesimi, non opponendosi ulteriormente alla divisione delle proprietà; che rinunzi a quella sua concentrazione aristocratica di ricchezze e di potere. Forse in tal maniera, prima del termine inevitabile della sua vita artificiale, giungerà essa a procurarsi i semi d’una vita politica più in armonia colla direzione imperiosa ed invincibile delle società europee. Io dico forse perché non so, se già non sia troppo tardi.

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COMENTO – PARTE II

SULLA

SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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CAPITOLO PRIMO

Oggetto di questa seconda parte

Egli è con gioja, mista di amarezza, che io abbandono il campo della politica.

È possibile da un lato, che imponendo a me stesso un perfetto silenzio su quanto concerne le questioni più sublimi dell’organizzazione sociale, io rinunzi allo sviluppo di qualche idea vantaggiosa, che in un’epoca qualunque, avrebbe trovato la sua applicazione: poiché il trionfo delle idee utili è quasi sempre una questione di data; ma il ritardo è talvolta doloroso per gl’individui ed anche per le generazioni contemporanee.

Dall’altro lato, da che gli uomini di stato hanno adottato la massima, che ogni miglioramento dee derivare dal solo potere, e venire accordato esclusivamente da esso, né essere concesso che quando i popoli non hanno fatto alcun tentativo per dettar delle condizioni, o porre dei limiti all’autorità; nessuno, a quanto mi sembra, deve ingerirsi in quanto spetta al governo, né alcuno lo può, senz’affrontare dei pericoli inutili, e, ciò che è molto più serio, senz’assumersi una responsabilità morale, che mi sembra un peso troppo forte.

Difatti non è egli forse incontrastabile, che dimostrando l'esistenza d’un abuso, la necessità d’una riforma, non si esponga taluno a suscitarne il desiderio nell'animo della moltitudine, che soffre per quest’abuso, o che ritrarrebbe qualche utilità da questa riforma? e chi può mai prevedere il risultato d’un desiderio nato dalla convinzione e reso più ardente dagli stessi ostacoli? Ma se questo desiderio trasporta le nazioni a dei reclami troppo arditi, o a degli atti irregolari, ne seguirà ch'esse saranno private, per un tempo molto più lungo, dei beni che vanno sollecitando. Ad un si tristo risultato io non voglio al certo contribuire in conto alcuno.

Io non esagero a me stesso l'influenza, ch'esercitano gli scrittori: io non la credo tanto estesa, quanto i governi la suppongono; ma niente di meno quest'influenza sussiste. Ad

essa è dovuta l'abolizione dei rigori religiosi, la soppressione di ciò che imbarazzava il commercio, la proibizione della tratta dei neri, e molti miglioramenti di diversi generi.

In tutt'altro tempo questa convinzione avrebbe accresciuto il coraggio: attualmente ella inceppa la, coscienza. É ormai stabilito, che la luce debba venire soltanto dall'alto. Le brame, che suggerirebbe ai popoli quella che venisse da basso, sarebbero una ragione per rimandare ad un' epoca indefinita il compimento delle medesime, se venissero manifestate con qualche, benché leggiera, dose d'imprudenza.

Tacerò dunque sulla politica. Il Potere ha reclamato per sé solo la totalità dei nostri destini.

Queste riflessioni, per verità, si applicherebbero forse, prese in tutto il rigore, agli oggetti che mi occuperanno in questa seconda parte, non meno che a quelli, su i quali credo di non dover interloquire. Mi sarà difficile di fare osservare un errore, sia anche in punto di finanze, o di commercio, senza aver l'aria di dare un consiglio, o di suggerire una riparazione.

Nulladimeno questi oggetti non appartengono si da vicino alla Glasse di quelli che adombrano, ed io spero di poter ragionare, prendendo le convenienti precauzioni, senza pericolo della popolazione, del commercio, e dei dazi.


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CAPITOLO II

Della tratta dei neri (20)

«Le barbare, sponde del Senegal non sarebbero il mercato, ove gli Europei vanno a comprare a vil prezzo i dritti inviolabili dell'umanità e della ragione... La sola Pensilvania non ba più schiavi. I progressi dei lumi e della filosofia, uniti alle virtù de' troni, ci fanno u sperare che il suo esempio sarà imitato dal resto delle a nazioni.»

Lib. I, cap. IV, p. 68-69.

Se si considerano le misure prese dai diversi governi europei contro l'abominevole traffico, segnalato da Filangieri alla pubblica indignazione quarant'anni indietro; se si leggono i discorsi dei ministri in tutte le assemblee, le ordinanze dei re in tutti i paesi, siamo indotti a credere, che i voti del Pubblicista italiano, siano, almeno in parte, realizzati.

Ma paragonando i fatti colle teorie, e ciò che accade con ciò che viene promesso, si scorge, che il risultato delle leggi ottenute, e promulgate, è stato quello di aggravare la sorte dell'infelice razza che si è voluta proteggere.

Una funesta e natural conseguenza delle proibizioni male eseguite, quella si è, che le precauzioni necessarie per eluderle introducono nelle operazioni, alle quali si dedica l'avidità in disprezzo delle leggi, una tal precipitazione, che le rende doppiamente irregolari, e, vertendo sopra esseri sensibili, doppiamente crudeli.

La tratta dei neri è divenuta molto più atroce dacché è stata impedita da proibizioni inefficaci. Allorquando era permessa, l'autorità che la tollerava, esercitava almeno qualche sorveglianza, e sopra i bastimenti propri per questo traffico, e sul numero dei neri ammonticchiati in questi funesti alloggi, e sulla salubrità degli alimenti destinati a prolungare la loro trista esistenza, e su i castighi ch'erano loro inflitti dai loro carnefici. Dopo la proibizione della tratta, i bastimenti destinati ad un tal commercio, vengon costruiti in modo da sfuggire con maggior facilità a chi gl'inseguisse, e rinchiudono in uno spazio più angusto un maggior numero di schiavi. Il timore delle visite impreviste induce i capitani di questi bastimenti a rinserrare la loro preda in casse chiuse, ove l'occhio degl'impiegati non possa scoprirli; e quando la scoperta è inevitabile, queste casse e le vittime da esse sottratte agli altrui sguardi, sono gettate in mare»

Questi orrori sono provati da documenti autentici. Si possono consultare i dibattimenti del Parlamento d'Inghilterra, le discussioni delle Camere francesi, e le memorie della Società africana di Londra. Io non inserisco qui alcun fatto particolare esso sarebbe fuor di luogo in quest'opera.

Risulta da ciò, che l'abolizione della tratta, nel modo in cui è stata finora eseguita, ha cagionato più male che bene. L’avidità dei negozianti che speculano sul sangue umano, non si è punto diminuita; e la loro barbarie si è aumentata in ragione degli ostacoli da essi incontrati.

Quest’ostinazione nel più esecrabile attentato, che abbian mai commesso, non dirò già i popoli inciviliti, ma le orde più feroci, dipende da due cause, che agiscono reciprocamente l’una sull’altra.

La prima è l’immensità dei guadagni, combinata coll’indulgenza delle leggi.

La seconda è lo stato delle opinioni vigenti sopra una tal questione in molte contrade dell’Europa.

Di tutti i contrabbandi il più lucrativo è al certo la tratta dei neri; esso rende da tredici a cinque capitali per uno (21).

Il solo mezzo di contrabbilanciare l’allettamento offerto all’avidità da sì enormi guadagni, sarebbe una rigorosa legislazione. Ma le pene pronunziate contro la tratta sono quasi da per tutto molto più miti di quelle dirette contro dei delitti infinitamente meno odiosi. Mentre la pena di morte viene applicata con mano liberale nei nostri codici a delitti cagionati dalla miseria, dalla disperazione, e dai trasporti delle passioni, la tratta, che è una combinazione del ratto, dell’incendio, del furto e dell’omicidio, accompagnati dalla più fredda e più riflettuta premeditazione, la tratta, dico, è punita in Francia, per esempio, colla sola confisca, alla quale il colpevole si sottrae per mezzo delle sicurtà e colla privazione della sua professione, ch'egli elude navigando in apparenza sotto gli ordini di un altro.

Obiettasi che i tribunali applicherebbero con ripugnanza delle pene più severe, e che la indulgenza dei medesimi, impuniti lascerebbe degl’incolpati che di sottrarre bramerebbero a dei rigori da loro creduti eccessivi; e quegli uomini stessi i quali non temono che dalla sensibilità dei giudici possa nascerne la impunità nei delitti politici, dichiarano, esser impossibile di ottenere da questi giudici la medesima obbedienza, la medesima esecuzione della legge, allorché si tratta del più rivoltante attentato contro tutti i principi conservatori della giustizia e della dignità della specie umana.

Non tarderò a dire ciò che vi può essere di vero in quest'obiezione: ma io non la credo sufficiente per iscusare la dolcezza delle attuali leggi. Molti, ardisco sperarlo, vi sono tra quelli, che occuperebbero il posto di giurati, ai quali un istante di riflessione renderebbe evidente l’abuso ed il delitto d’una consimile indulgenza.

In quanto a me io dichiaro che può talvolta esser necessario il fulminare una sentenza capitale contro il cittadino che dalle sue opinioni ingannato, o anche allettato da ambiziosi progetti, ha cospirato contro la libertà, o turbato il riposo della sua patria; ma deplorerò sempre questa necessità, perché i delitti politici non implicano perversità d’intenzioni, o corruzione di cuore: mentre, se io fossi giurato, e se le leggi mi offrissero un mezzo di liberare la società dalla tigre che avrebbe rapito o comperato i suoi simili, avrebbeli ammonticchiati in una prigione infetta nel fondo d'una nave, ne avrebbe lasciato perire una porzione nei tormenti del contagio, della fame, della sete, o d'una lenta agonia, e avrebbe forse gettato in mare i malati, considerandoli quali mercanzie avariate, al certo non esiterei un istante a far cadere sopra di questo mostro la spada della giustizia, e non saprei persuadermi, che il minimo sentimento di pietà sorgesse nell'anima mia contro la sentenza ch'io avrei pronunziata.

V'ha tuttavolta, in fondo del sofisma da me riportato, una porzione di verità che serve a dar peso a quanto esso contiene di falso; e ciò mi riconduce alla seconda causa, che perpetua presso di noi la tratta dei neri.

Egli è innegabile, che in molti stati dell'Europa, ma particolarmente in Francia, l'abolizione della tratta non abbia preceduto l'epoca in cui l'opinione illuminata, si sarebbe mostrata unanime su questo articolo. Quest'abolizione si è presentata sul continente sotto la forma di un decreto venuto d'Inghilterra, e di cui conseguentemente si sono sempre rintracciati i motivi nella politica e nell'interesse, anziché nella giustizia. In tal guisa essa ha preceduto quella moral convinzione, che rende efficaci le riforme; essa è stata comandata autorevolmente, e l'opinione seconda con minor calore le misure legali, allorché queste misure sono proposte da tutt'altri che da lei, a cui essa crede che l'iniziativa appartenga. I negozianti, la di cui avidità infrange le leggi, non sono colpiti dalla riprovazione generale. Sono essi piuttosto considerati come altrettante vittime d'un trattato prescritto dalla gelosia d'un popolo rivale, di quello che, come colpevoli, puniti per un delitto odioso ed infame.

E cosi, accade per la tratta dei neri ciò che accade in tutte le cose umane. Le riforme, che precedono l'opinione, per evidente che sia la loro giustizia, non sono mai né efficaci, né complete nei loro effetti. Gli inimici di queste riforme trovano degli ausiliari nelle abitudini e nei pregiudizi non peranche distrutti, e solo quando i lumi sono sufficientemente diffusi, può ottenersi lo scopo, e le leggi vengono eseguite.

Ciò è tanto vero, che i due paesi, ne' quali quest’abominevole commercio è condannato con maggior pubblicità e buona fede, sono l’America e l’Inghilterra.

Rispetto all’America, le intenzioni del suo governo non mi sono punto sospette. Esso trovasi in circostanze talmente felici, che i vizj della vecchia politica europea non saprebbero introdurvisi. Un territorio immenso, una popolazione che può estendersi a suo talento, ed un’intiera sicurezza da qualunque invasione, preservano l’America dalla maggior parte degli ostacoli che imbarazzano e corrompono i nostri governi. Ma non accade lo stesso del governo o sia del ministero inglese, e il suo interesse, ci vien dettole l’interesse del suo commercio: questa pretesa umanità peri neri non è che un’ingegnosa cospirazione contro la prosperità degli altri popoli.

Io mi servirò per confutare quest'obiezione, a' cui una diffidenza nazionale naturalissima è disposta ad accordare molta forza, delle parole d’un uomo, che ha fatto delle lunghe ed ostinate ricerche su i fatti relativi all'abolizione della tratta, e che essendo Pari di Francia non può essere sospetto d’inclinare per gl’interessi commerciali dell’Inghilterra.

«Il commercio inglese, dic’egli, non ha mai sollecitata l’abolizione della tratta: esso non se n’è mai mostrato né il fautore, né il sostegno. All’opposto, essa è stata decretata a di lui danno. Egli ha combattuto vigorosamente per venti anni ad oggetto di mantenerla; né se n’è lasciato spogliare che dopo aver lottato senza intermissione, dopo essersi spossato in isforzi, ed in imprecazioni. Anche al presente, se alcuni negozianti inglesi ardissero alzar la voce, forse non dimanderebbero, che si rendesse impossibile la tratta sotto bandiera estera; forse sarebbero dolenti, che si togliesse alle loro detestabili speculazioni l’ultimo velo che le ricuopre e l’ultimo refugio...

«Gli attuali ministri dell’Inghilterra non hanno punto riguardato l’abolizione della tratta dei neri come un vantaggio. Essi hanno figurato per lo spazio di venti anni tra gli avversari di questa santa causa. Essi hanno votato per gli ultimi nelle ultime minorità, che hanno persistito sino alla fine nella loro opposizione. Essi hanno predetto come una conseguenza inevitabile di questa misura, e la desolazione delle colonie e la bancarotta universale... Non è la loro politica che trionfa, non è la loro opera, di cui assicurano il successo,

«Occupandosi della distruzione definitiva del commercio dei neri, essi fanno, per così dire, ammenda onorevole dei loro passati errori. Son essi stati soggiogati dall’ascendente dell’opinione pubblica, dalla forza della ragione e della verità. Anche al dì d'oggi la forza della ragione e della verità si è quella, che gli eccita e che li domina (22). »

Sembra a me evidente la forza di questi ragionamenti. Se il governo inglese è in oggi di buona fede per porre un ostacolo alla tratta, ciò accade, perché l'opinione a questo riguardo è stata preparata in Inghilterra da lunghe discussioni e dalla perseveranza instancabile degli uomini i più rispettati.

Troppo in generale è sconosciuta la potenza delle verità dimostrate. Qualvogliasi sfavorevol giudizio la umana specie meritar possa, evvi un grado di evidenza a cui l'interesse non resiste.

Gli antichi, molto più arretrati di noi per le cognizioni, possedevano tutte le nozioni naturali che servono di fondamento alla morale. Essi non ostante tolleravano la schiavitù ne' suoi più odiosi eccessi. Conciossiaché la pratica avendoli riconciliati con una cosa in se stessa esecrabile, la loro coscienza non si risvegliava al nome di schiavo. Ai giorni nostri, l'idea di disporre in Europa, senza una retribuzione del lavoro e senza un giudizio, della vita d'un uomo innocente, solleverebbe l'animo del meno istruito e del meno scrupoloso tra noi.

Ma a tal punto ancora non siam giunti ove si tratti di neri. V'ha infelicemente una porzione di pubblico europeo che non li considera come appartenenti alla razza umana. Questa porzione che arrossirebbe d'assassinare e di rubare sulle pubbliche vie, partecipa senza scrupolo ad un commercio che la seduce co' suoi benefizj; e fassi illusione con sofismi per nascondere a se stessa di andar per lo meno del pari coll'omicida e coll'incendiario. Allorché questa verità sarà ben riconosciuta, allorché le leggi non faranno più alcuna differenza tra i delitti almeno eguali allorché, indipendentemente dalle leggi, l'opinione sdegnata inseguirà per le strade e sulle pubbliche piazze il negoziante che avrà preso parte alla tratta, quasi tutta la popolazione commerciale ricuserà di mischiarvisi. Non vi saranno che dei miserabili, senza risorse e senza riputazione, che per un guadagno incerto, entreranno nei ranghi dei banditi e dei pirati, fuori del seno della società dà cui verranno puniti.

Egli è d’uopo adunque instancabilmente lavorare onde produrre questa moral convinzione. Non bisogna, più sull'esempio di Filangieri, limitarsi semplicemente a porre dei principi, a provare che in teoria la tratta è una violazione di tutti i dritti: bisogna dimostrare con dei fatti, che essa è in pratica il cumulo di tutti i delitti. Bisogna pubblicare nuovamente tutti i tratti di crudeltà, di cui essa contamina anche al dì d'oggi gli annali marittimi di tutte le nazioni. Si deve pubblicare da per tutto, e ripetere senza stancarsi, che trentanove neri divenuti ciechi per essere stati ammonticchiati in fondo della sentina, sono stati gettati in mare (23); che dodici schiavi, rinchiusi entro delle casse per nasconderli alle perquisizioni d’un vascello inglese, sono stati con egual probabilità precipitati nell’acque allorché queste perquisizioni sono state sì severe, che il capitano del bastimento ove erano i neri non ha più sperato di sottrarvisi (24).

Devesi aggiungere, che i delitti della tratta non si limitano a queste incredibili atrocità. Nel numero di questi delitti, e tra gli atti che pesano capitalmente sopra i mercanti di schiavi, deve riporsi lo stato nel quale precipitano le tribù da essi sedotte colle loro proposizioni e colle loro infami stipulazioni; essi esaltano tutti i vizj e tutte le passioni di queste barbare nazioni; essi pervertiscono le loro grossolane istituzioni; essi avvelenano i loro domestici rapporti. I piccoli tiranni di queste contrade condannano alla rinfusa delle intiere famiglie per delitti leggieri o immaginarj, pongono in imboscata i loro soldati, che si scagliano sul viaggiatore disarmato, attaccano improvvisamente nella notte dei villaggi immersi nel sonno, ne fanno schiavi gli uomini, le donne, i ragazzi in istato di servire, e massacrano i vecchi ed i fanciulli. La fame, le devastazioni, le guerre intraprese per procurarsi dei prigionieri, sono l’immediata conseguenza della presenza degli Europei, i quali da speculatori, anzi da complici di questo spettacolo di desolazione, forniscono le armi, alimentano gli odj, mantengono le discordie.

E se si procura, come non cessa di farsi, d’inde bolir l'impressione, che questi errori debbono produrre, ricordandoci le barbarie esercitate dai neri rivoltatisi a San Domingo, bisogna rispondere: Si, i neri che hanno spezzato i loro ferri, sono stati feroci; essi hanno punito delle crudeltà orribili con altrettante orribili crudeltà.

Ma di chi è la colpa? Eran essi venuti sulle coste abitate dagli Europei per portarvi l'incendio e la strage? chi trascinati gli aveva su queste coste? in qual modo vi erano stati trasportati? con qual dritto vi erano tenuti? quali erano i loro doveri verso stranieri colpevoli contra di loro di ratto e di omicidio? Qual era il trattato tra queste due razze d'uomini, se non se il trattato dei ferri e delle sferze da un lato, e dall'altro quello della torcia.

Per decidere con giustizia la questione, ecco in qual modo bisogna porla:

Anche sulle coste della Barberia vi sono delle popolazioni, che portan via gli Europei che possono sorprendere. Se un di questi Europei, rinchiuso nel bagno di Tunisi, o d’Algieri, carico di catene, coperto di stracci, nutrito di alimenti fetidi, spossato dal lavoro, oppresso dalle battiture, si fosse liberato da quest'orribile giogo ed avesse ritrovato la via di far ritorno alla sua famiglia ed alla sua patria, e che raccontandovi la sua liberazione vi dicesse: Io ho messo il fuoco alla prigione in cui ero rinchiuso; io ho ucciso lo scellerato che mi aveva rapito, ho ucciso lui e la sua famiglia: condannereste voi quest'Europeo? Se fosse un vostro amico, un vostro figlio, un vostro fratello, lo rispingereste voi come reo di delitto?

I governi che considerano come un male la pubblicità dei delitti che nascono dalla tratta, e che, per orgoglio nazionale, vogliono risparmiarne la vergogna a quelli tra i loro sudditi che vi si abbandonano, o a quelli tra i loro agenti che la soffrono, fanno un cattivo conto anche per il loro proprio interesse. Se la tratta non fosse il più atroce dei delitti, che solo per essere proibita, egli è dell’interesse dei governi, che la proibizione sia portata ad effetto. Egli è sempre dell'interesse dei governi, che le leggi siano osservate. La disobbedienza è contagiosa, e lo spettacolo d’una legge esistente ma disprezzata, corrompe i popoli, ed è pericoloso per l'autorità.

La tratta è anche contraria agl'interessi dei governi in quanto che coloro, che si abbandonano a quest'orribile commercio, si trovano, in conseguenza delle proibizioni da essi arditamente deluse e dei processi che li minacciano, in uno stato di ostilità e di lotta contro la società. Ribelli alla legge, colpevoli rimpetto alla natura, trafficanti di carne e di sangue umano, contrabbandieri a mano armata, sono slanciati in un sentiero, ove non possono che diventare ogni giorno più decisi e più feroci nemici del pubblico.

«Per una benevola distribuzione della Provvidenza (diceva, venticinque anni sono, il signor Wilberforce nel parlamento d’Inghilterra), tanto nell'ordine morale quanto nel fisico, sorge ordinariamente qualche bene accanto del male. Gli uragani purificano l'aria; la persecuzione riscalda l’entusiasmo a favore della verità; l'orgoglio, la vanità, la prodigalità contribuiscono spesso indirettamente alla felicità della specie umana. Nulla v’ha si odioso che non abbia un palliativo. Il se l vaggio è ospitaliere, l'assassino è intrepido: la violenza va generalmente esente da perfidia; l'arroganza da viltà. Ma nulla qui di simile. Egli è il privilegio di questo detestabile commercio di depravare egualmente il bene ed il male, e di contaminare lo stesso delitto; è questo uno stato di guerra che il coraggio non nobilita; è uno stato di pace che non preserva né dalla devastazione né dalla strage; sono i vizj delle società politiche non temperati dalla delicatezza dei costumi; è la barbarie primitiva dell'uomo sprovvista, d'ogni innocenza; è una mera completa perversità, totalmente spogliata d’ogni onorevole sentimento, e d’ogni vantaggio, che possa contemplarsi senza v sdegno o confessarsi senza obbrobrio. »

Finalmente la tratta è contraria agl'interessi dei governi inquantoché essa non corrompe soltanto quelli che la fanno, ma coloro anche che ne profittano. La speranza di rimpiazzare colla tratta i miseri schiavi i di cui giorni vengono abbreviati da un lavoro eccessivo e da trattamenti atroci, induce i coloni a non prendersi neppur cura di questa razza infelice. Questa speranza li accostuma a veder con occhio indifferente gli esseri sottoposti al loro giogo spirar di miseria, o di dolore, o in orribili supplizj. E tale è il deplorabile effetto del costume, che più d'un colono che nei suoi rapporti co' suoi simili è un uomo probo, integro e degno di stima, ha forse, senza pensarvi, ordinato o tollerato nella sua abitazione un maggior numero di delitti, che un reo condannato dalla legge a morir sul patibolo.

Quest'ultima riflessione, invero, non si applica soltanto alla tratta, essa colpisce d’ignominia e con forza quasi eguale la schiavitù medesima. La schiavitù corrompe il padrone al pari dello schiavo, ed il carnefice al pari della vittima. Frattanto gli amici dell'umanità si rassegnano alla continuazione della schiavitù a condizione che la tratta sia severamente proibita. Ma innalziamo almeno una barriera, che, per l'avvenire, sia efficace e potente; e per una felice conseguenza d'un primo atto di giustizia (giacché il bene è inanellato come il male) l’abolizione della tratta raddolcirà la schiavitù, che noi non osiamo di abolire. I coloni saranno astretti dal loro interesse a trattar meglio i loro schiavi, a dar loro delle abitazioni e degli alimenti più sani, a preservarli dalla dissolutezza, a favorire i matrimoni tra loro, ad aver cura e riguardo per le loro mogli nelle loro gravidanze, ad assisterle nell'educazione de' loro figliuoli, a preparare finalmente con un'insensibile e volontaria gradazione le nuove relazioni che dovranno esistere presto o lardi, nelle colonie come altrove, tra la classe obesi limita a consumare e quella che è destinata a produrre.

Del rimanente, per imperfetto ed affliggente che ancora sia lo stato attuale delle cose, non disperiamo d'un miglioramento infallibile. La predizione di Filangieri si adempirà: l'abolizione della tratta, quantunque questa esista tuttora semplicemente in teoria, è una dimostrazione evidente dell’onnipotenza della verità. Meno di quarant'anni sono trascorsi (dice il duca di Broglio), da che un giovane ecclesiastico, sconosciuto, senz'amici, senza fortuna, denunziò per il primo il commercio dei neri, in una dissertazione latina diretta all'Università di Cambridge. Sette anni dopo tutti gli uo» mini di genio dell'Europa erano collegati in questa causa; sono già quindici anni, ch’essa ha trionfato nei due emisferi (25).


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CAPITOLO III

Della Popolazione

«Io comincio questo libro dall’esporre colla maggior brevità ciò che si è pensato dagli antichi legislatori e li particolarmente da' Greci, e da' Romani, per incoraggiare la popolazione e di ciò che si è operato presso le nazioni più culte per la moltiplicazione della specie.»

Lib. Il, cap. I, p. 87.

Le idee di Filangieri sulla popolazione devono sembrare in oggi effettivamente comuni; esse lo erano sino dal suo tempo.

Il marchese di Mirabeau, adottando lo stesso lato della questione dell’Autore Napoletano, resta molto al disopra di lui per la felicità dell’espressioni e per la sottigliezza dei risultati; ed il signor di Montesquieu, quantunque prenda degli abbagli su questo soggetto al pari di molti altri, dice non ostante più in una delle sue frasi, di quello che Filangieri nei suoi otto capitoli.

E non solo possono accusarsi di rancide e di triviali le idee da lui presentateci, ma altresì d’essere le une false, le altre molto problematiche.

In fatto esse si ristringono a due sole.

Filangieri crede: 1.° Che l’esempio degli antichi nelle loro leggi sulla popolazione può essere utile alle nazioni moderne, e 2.( 0) Che l’aumento della popolazione è sempre un bene.

La prima di queste idee è, in amministrazione, in politica, in religione ed in qualunque altra cosa, estremamente pericolosa.

Ho tentato di provare nel mio Saggio sullo spirito di conquista t che lo stato del. genere umano negli antichi tempi differiva talmente dall'attuale nostro, che nulla di ciò ch'è applicabile all'uno di questi stati, è ammissibile nell'altro.

Per non deviare dal mio soggetto, passerò rapidamente in rivista le citazioni di Filangieri.

Lascerò da parte gli Ebrei, nazione a parte, la di cui popolazione è un articolo di fede, anziché un dato statistico. In quanto ai Persiani, non abbiamo nulla di positivo sulla popolazione di questo vasto impero. È verisimile, che gli storici greci, per dar risalto alle vittorie de' loro concittadini, abbiano esagerato il numero dei soldati, che Serse e Dario conduce vano seco loro; ma accordando ai racconti di questi storici un grado più che ragionevole di confidenza, sarebbe ancora cosa azzardosissima il dedurre dal numero de' suoi combattenti quello degli abitanti della Persia.

L'invasione della Grecia non fu l'effetto d'una sovrabbondante popolazione, come quella dell'impero Romano per parte dei popoli settentrionali. Essa fu l'opera d'un despota irritato, che spinse i suoi schiavi e le sue tribù erranti sul piccolo paese che voleva devastare, senza regola e senza misura; e ciò che prova, che quest'invasione non aveva per motivo né un bisogno, né un'inclinazione naturale, sono le due vittorie, che ad epoche molto prossime l’una all’altra, fecero giustizia di quest'impresa, talmenteché nulla di simile si rinnovò in progresso di tempo. I re di Persia, ravvedutisi, aspettarono che Alessandro venisse ad attaccarli e a distruggerli.

Se si riflette, che l'impero dei Persiani era in gran parte composto di terreni a pastura, ove delle tribù vagabonde vivevano colle loro gregge, riconosceremo, che quest'impero doveva essere molto meno popolato, di quello che lo sarebbe stato se i suoi abitanti fossero stati addetti esclusivamente all’agricoltura ed all’industria. Il citare per esempio in un capitolo sulla popolazione un popolo, di cui una metà si dedicava alla vita pastorale od al saccheggio, è una idea poco felice.

Tutti i precetti religiosi non alterano in nulla la natura delle cose; e i dogmi del Sadder, vantati dal Filangieri, non potevano far sì, che delle orde di pastori, e di assassini trovassero dei mezzi di sussistenza sufficienti a favorire la popolazione, né che la popolazione si aumentasse oltre i mezzi di sussistenza. Ma ben si scorge, che il Pubblicista Italiano non era stato colpito che da un solo pensiere. Egli ave? va trovato negli estratti del Zendavesta dell’esortazioni per la moltiplicazione della specie; e senza esaminarci loro effetti reali aveva ammirato il mezzo in sé stesso.

Questo solo era già un grande errore. Supponendosi che nella Battriana, ove probabilmente il Zendavesta fu compilato, l’esortazioni religiose avessero prodotto il risultato a cui mirava il legislatore, il trasportare questo mezzo di azione nei nostri tempi moderni, industriosi, illuminati, sarebbe un tentativo chimerico.

Io sono ben lontano dal pensare, che i progressi delle cognizioni tolgano alla religione ogni specie d’influenza; ma in tal caso l’influenza della religione non è più sì diretta, da potersi chiamar legislativa. Essa raddolcisce i costumi, innalza l’anima, dà al complesso della vita umana una direzione più pura e più morale; ma essa non saprebbe mettersi in contrasto con la forza dell'interesse, né con l'evidenza del calcolo. L'Evangelo avrebbe un bel raccomandare il matrimonio con altrettanto e maggior fervore del Zendavesta, non accatterebbe per questo un matrimonio di più presso un popolo giunto allo stato di raffinamento, nel quale noi siamo, e la ragione n' è semplice.

Questo stato di raffinamento fa sì, che il matrimonio, per colui che lo contrae senza aver assicurato i mezzi di sussistenza ai figli che si mette nel caso di procreare, è il più gran flagello, e siccome i regolamenti che proteggono la proprietà, condannerebbero ad un'irreparabile miseria la famiglia alla quale quest'imprudente avrebbe dato l'essere, così i precetti religiosi, in contradizione con questo stato di cose, sarebbero certamente violati o delusi.

Se il povero si espone arditamente a questo pericolo, e popola senza misura, ciò nasce dall’esser egli acciecato e trascinato da un'inclinazione irresistibile ed imperiosa, che vuol essere soddisfatta a qualunque costo. Un precetto religioso che trasformerebbe il piacere in dovere, e quasi in penitenza, avrebbe piuttosto la conseguenza opposta, perché questo precetto lasciando la società tal quale è, potrebbe, in altri termini, tradursi così: Mettete al mondo più figliuoli che potrete, acciò la fame che non potrete soddisfare, le malattie che non potrete curare, ve ne portin via la maggior parte nella loro infanzia, ed acciò gli altri, lottando contro le privazioni e la miseria, e cedendo alla fine alla tentazione del delitto, empiano le prigioni, e muojano sopra un patibolo.

Quando Filangieri passa dalla Persia alle repubbliche della Grecia, e di Roma, egli si trova sopra un terreno più solido. Egli incontra delle istituzioni fisse, delle leggi scritte, delle pene e delle ricompense stabilite; egli si compiace nel farne l’enumerazione, e le loda con effusione di cuore. Ma queste enumerazioni e questi elogj si terminano con una conclusione ben singolare: cioè, che ogni qual volta le circostanze, i vizj dei governi, la corruzione dei costumi privati, in una parola quando ostacoli di qualsivoglia natura si sono opposti alla popolazione, le istituzioni, le leggi, la speranza delle ricompense, il timor delle pene, tutto è stato inutile. Non avrebbe egli dovuto concluderne anche, che quando simili ostacoli non esistono, l'intervenzione delle leggi diviene superflua? Lasciate l'uomo a sé stesso, almeno per quanto dipende da un’inclinazione naturale che vi resta difficile di contenere, e che vi sarebbe impossibile di ordinare; la mancanza di vessazioni, il reparto più eguale delle proprietà, e con ciò anche l’aumento dei mezzi di sussistenza: ecco i veri incoraggimenti alla popolazione, e non i discorsi d'un vecchio tiranno, conte Augusto, bramoso di ripopolare, per suo proprio comodo, l’impero da lui devastato per fondare il suo potere, ed inveendo in discorsi di formalità contro la corruzione, base del suo regno, senza la quale questa regno medesimo non avrebbe potuto né stabilirsi né prolungarsi.

Io dico tutto ciò nella volgare ipotesi, che il più alto grado di popolazione sia sempre una cosa da desiderarsi; questione che ora esaminerò. Frattanto ho creduto di dover combattere questa sciocca amttnraziotìe per delle leggi inefficaci anche nei tempi in cui fnron fette, e che sarebbero al dì d’oggi ancor più intollerabili; ammirazione, che non deve rimproverarsi al solo Filangieri, poiché gli scrittori del secolo XVIII gliene avevan dato con vicendevole gara l’esempio.


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CAPITOLO IV

Continuazione dello stesso soggetto

«Felice età, fortunata repubblica, dove la riproduzione è il primo dovere del cittadino!»

Lib. Il, cap. I, p. 193.

Questa esclamazione filantropica di Filangieri ci conduce ad esaminare la vera questione su tal materia: questione, di cui i nostri economisti dell'ultimo secolo non avevano alcuna idea.

È egli favorevole alla felicità, al perfezionamento fisico e morale della specie umana, che la popolazione si aumenti indefinitamente?

Per risolvere una tal questione, convien partire da alcuni dati divenuti incontestabili.

Egli è certo che la popolazione tende ad aumentarsi: il suo accrescimento può essere ritardato o favorito dalle circostanze; ma allorché delle calamità straordinarie, o un'amministrazione totalmente insensata non ispopolano un paese, l'accrescimento della popolazione si verifica sempre a capo ad un certo tempo. Questo tempo è molto breve. In America, ove gli uomini non sono respinti gli uni contro gli altri dai ristretti limiti del suolo che occupano, ma possono ancora liberamente estendersi in deserti immensi, questo tempo è da dieci in quindici anni; altrove esso è di venti; in Francia di venticinque; e se noi prendiamo quest'ultimo segno per regola comune, saremo sicuri di non fissare un limite troppo ristretto.

Ora è egli possibile di sperare, che i mezzi di sussistenza aumentino sempre in ragione di quest'accrescimento di popolazione?

Noi dobbiamo qui repellere una risposta che sembra plausibile, ma che è soltanto speciosa, perché altro non fa che aggiornare la vera difficoltà.

Il nostro globo abbonda di terre incolte; i paesi più coltivati non lo sono al punto in cui potrebbero esserlo. La popolazione può dunque aumentarsi senza inconveniente, sino a che tutto il suolo posseduto dalla specie umana, e tutto quello di cui le rimane ad impadronirsi, sia reso fertile.

Ma in primo luogo l’uomo mette in coltura le terre con minor rapidità che non si moltiplica. La moltiplicazione della specie non ha già luogo nel vicinato di terre incolte. Egli è impossibile di superar gli ostacoli, e di sormontare le distanze, in modo da conservare una esatta proporzione tra l’aumento della popolazione e la quantità delle terre coltivate.

Secondariamente, la risorsa che sembra prometterci la coltura dei terreni nuovi, non è che un rimedio momentaneo. Il tempo deve venire, e se la moltiplicazione della nostra specie prende piede con un progresso sempre accelerato, il tempo presto verrà in cui il prodotto del suolo che somministra la sussistenza alla specie umana, sarà portato al più alto grado che sia concepibile dalla nostra immaginazione. L’uomo non cessando di moltiplicarsi, quest'epoca, ch’è il bello ideale della civilizzazione e dell’agricoltura, sarà immediatamente seguita da una sproporzione sempre crescente tra la popolazione ed i mezzi di sussistenza.

I miei leggitori si avvedranno facilmente, che nell’esporre questa difficoltà essenziale e gravissima ad un tempo, che inopinatamente attraversa tutti i sistemi di popolazione, in favor de' quali i nostri filosofi hanno declamato senza fine, io non altro ho fatto che riunire le idee fondamentali d'un celebre Inglese; idee, la di cui evidenza è incontestabile nel suo libro, perché esse vi sono accompagnate da tutti gli sviluppi e da tutti i fatti, che la ristrettezza di questo Comento m’ha costretto a sopprimere.

Rendendo conto così in fretta delle osservazioni del signor Malthus, e delle conseguenze ch'egli ne deduce, io non ho potuto esser mosso da alcun sentimento di parzialità: si vedrà in appresso che d’accordo con lui sul principio, perché non è possibile di contrastarlo, io ho poca confidenza nei rimedi da esso proposti. Fra questi rimedi, i blandi mi sembrano di poca efficacia; quelli, che ne promettono una maggiore, sono di difficile e soprattutto di vessatoria esecuzione, ed io non amerei che gli uomini arrivassero al bene per la trafila del male. È questa un’operazione complicata, di cui la sola Provvidenza deve incaricarsi.

Ma s’egli è dimostrato, che l’aumento indefinito della popolazione deve condurci ad una disastrosa sproporzione tra i mezzi di sussistenza e questa popolazione, cosa diventano i voti e l’esortazioni dei nostri filosofi? Cosa accaderebbe, se questi voti si realizzassero? Se la specie umana ascoltasse con una sensibile docilità queste esortazioni? Che noi arriveremmo alquanto più sollecitamente ad un’epoca, in cui l’equilibrio tra i prodotti e il consumo, non si ristabilirebbe che con una lenta agonìa e colla morte dolorosa del superfluo dei consumatori; un’epoca, in cui tutte le terre essendo coltivate e producendo quanto sono atte a produrre, l’eccedenza della popolazione ecciterebbe invano la loro fertilità un’epoca in cui tutti i paesi essendo egualmente esuberanti di popolo, l’emigrazione e la colonizzazione sarebbero palliativi illusorj; un’epoca finalmente in cui la miseria e la fame armando coloro che fossero destituiti di proprietà, divenuti ormai innumerevoli, contro i proprietarj in impercettibile minorità, le leggi protettrici della proprietà diverrebbero mute ed impotenti, ed in cui la società perirebbe sotto il peso stesso della divorante popolazione, di cui essa avrebbe incoraggito l’imprudente moltiplicazione. Allorché Filangieri, per una conseguenza di quel costume che regnava sessantanni fa, di ammirare i paesi i più miserabili ed i governi i più tirannici, purché ne fossimo separati dal tempo o dalla distanza, loda i Chinesi per essere le loro terre totalmente impiegate a provvedere alla loro sussistenza; per essere la superficie del loro impero ricoperta tutta di riso; per aver delle abitazioni galleggianti su i fiumi, onde la porzione di suolo che dovrebbero occupare le case, sia destinata alla coltivazione egli non riflette, che in uno stato in cui il terreno fosse impiegato intieramente a provvedere alla sussistenza umana, e dove per conseguenza in nulla potesse aumentarsi il suo prodotto, una sola nascita al di là del numero per cui la morte lascia un posto vacante, spargerebbe il disordine in tutta l’economia sociale. Il fanciullo, che nascerebbe allora, sarebbe destinato a perir di fame, ed il celibatario, che col maritarsi avrebbe adempito uno dei primi doveri del cittadino, vedrebbe, in prezzo dell’adempimento di questo dovere, spirar la sua famiglia di miseria. Strana cecità dello spirito di sistema! Strano effetto degli assiomi adottati sulla parola! È la China, che ci vien citata da Filangieri per modello riguardo alla popolazione; la China che per i risultati giornalieri della sua soprabbondante popolazione sarebbe piuttosto adatta ad illuminarci su i pericoli d’una popolazione eccessiva! È colà che spaventevoli carestie fanno perire migliaja d’infelici; è colà che i poveri sono ridotti a precipitare nei fiumi i figli, che non possono nutrire; e se hanno eretto su questi fiumi le loro mobili abitazioni, si direbbe, aver ciò fatto per essere più vicini all’abisso che deve inghiottire degli esseri infelici, ai quali non hanno dato la vita che per dar loro immediatamente la morte. Ma Filangieri scriveva in un tempo, in cui i nostri filosofi, stimolati dal bisogno di criticare le istituzioni europee, che al certo io sono ben lontano dal giustificare, trovavano più comodo e più sicuro di attaccarle con delle comparazioni indirette: e per rendere questi paragoni più sensibili e più concludenti, essi andavano lontano a rintracciare dei soggetti da encomiare. Poco importava a Filangieri, che la China governata a forza di bambù, offrisse più di tutt’altro paese il vergognoso spettacolo della degradazione della specie umana; come importava poco a Mably che Sparta fosse precisamente l’opposto di uno stato libero, tale, quale vien concepito dai moderni; come importava poco a Voltaire che i bramini esercitassero sull’Indostau un’influenza teocratica, che istupidiva tutte le facoltà dell’uomo. l’uno vantava la China, l’altro Lacedemone, il terzo l’India, come Tacito sdegnato contro i suoi avviliti compatriotti, scriveva il suo romanzo sulla Germania.

L’equità vuole che si faccia un’eccezione in favore di Montesquieu. Il genio non potrebbe mai per lungo tempo compiutamente piegarsi ai pregiudizi ed alle mire di un partito; ed in una delle sue frasi concise ed energiche, Fautore dello Spirito delle Leggi ha stimatizzato la China con una severa e giusta riprovazione.

Confesserò tuttavolta che la conclusione del capitolo di Filangieri è più ragionevole che non permetteva sperarlo il punto da cui egli si è dipartito. Sopprimete gli ostacoli, dic’egli, senza curarvi degli stimoli e degl’incoraggimenti; che l’autorità nulla dia, ma che non tolga nulla, e come diceva Plinio, chissà non nutrichi, ma non uccida, e dovunque si procreerà. E di fatti è questa la verità, che deve servir di norma ai governi in quanto concerne la popolazione; questa non tarderà a giungere al più alto punto, a cui deve giungere, se essi vogliono rispettare i mezzi, che la natura ha dati all’uomo per far vivere la sua famiglia. Le ingiurie contro i celibatari diverranno inutili, quando assicurata una voltala libertà dell’industria, e concesso a ciascuno di far valere senza restrizioni le sue facoltà a suo maggior vantaggio, il matrimonio non offrirà più alla classe laboriosa, in un col rischio di veder aumentarsi i suoi pesi, la prospettiva di veder diminuiti i suoi mezzi, e la sua situazione divenuta irreparabile.


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CAPITOLO V

Del sistema del Signor Malthus sulla popolazione

«… Quali sono gl’impedimenti che si oppongono a' progressi della popolazione, e quali sono i mezzi che si debbono impiegare per toglierli o per superarli?»

Lib. II, cap. Il, p. 207.

Dissi nel capitolo precedente, che col fare un esposto del sistema del signor Malthus sulla popolazione, io non era mosso da alcun sentimento dì parzialità. Questo sistema mi ripugna più che non mi piace, ed allorché mi decisi ad esaminarlo con attenzione per poterne giudicare con cognizione di causa, mi ci avvicinai con uno sforzo penoso, quale ne bisogna per sottomettersi ad un'operazione dolorosa, o per fissare lungamente lo sguardo sopra un oggetto che disgusta.

Ma non è concesso di resistere all’evidenza, ed io sono restato convinto della verità del principia proclamato dall’autore Inglese.

La sussistenza va colla popolazione d’un passo disuguale, e la carestia arriverebbe prima della sussistenza, se la popolazione fosse ciò ch'essa può essere.

Arrendendomi così ad una verità dimostrata, mi sono dimandato, se adotterei le conseguenze che ne deduce il signor Malthus.

Comincerò dal dichiarare, che queste conseguenze non sono tali, quali ci sono state presentate in molte opere destinate a combattere questo sistema, Avvi nella maggior parte delle confutazioni francesi, un miscuglio di malafede e di ridicolo, che ad altro non serve, che a presentare in un falso aspetto tutte le questioni, sfigurando le opinioni impugnate. La mania di passar per uomini di spinto non abbandona i nostri scrittori nella loro maniera di trattare gli oggetti, sien pur questi gravissimi. Essi si son detti una volta per sempre, che il ridicolo è l’arme la più potente, ed i più inetti egualmente che i più abili vogliono maneggiare quest'arme. Ne risulta in quasi tutte le critiche, che si pubblicano in Francia sulle scoperte importanti o sulle idee nuove, un’esagerazione, una sì scarsa fedeltà, una tal pretensione al genere leggiero e gajo, da porre un ostacolo ad ogni investigazione candida ed imparziale. Quindi gli assurdi giudizj pronunziati sulle profonde ed ingegnose osservazioni del dottor Gali; sulle teorie letterarie di molti critici tedeschi; sul sistema di perfettibilità di madama de Staél, e finalmente sull’opera in cui il signor Malthus ha per il primo profondamente trattato la gran questione della popolazione della specie umana.

Questo scrittore non ha preteso, che si dovessero impiegare contro l’accrescimento eccessivo delle nascite dei regolamenti coercitivi e barbari. Egli non si è eretto in apologista dell’infanticidio; egli non ha indicato il vizio e la corruzione come rimedi praticabili contro la moltiplicazione della nostra specie. Ma egli ha pensato che si poteva imporre alla classe povera con delle misure indirette, una privazione di più, oltre quelle alle quali le sue derelitte circostanze la condannano, e che sono già abbastanza numerose. Egli ha attribuito ad un principio, a cui ha dato il nome di restrizione morale, un'influenza più estesa di quella, che questo principio a parer mio non può avere. Ha creduto altresì, che si potesse aumentare l’azione di questo principio colla soppressione dei soccorsi pubblici: e molte delle sue idee su questi diversi oggetti mi sembrano mancanti se non di una esattezza logica, quale un uomo di spirito distinto perviene facilmente a stabilire scrivendo, almeno di una possibilità pratica sufficientemente incontrastabile, e soprattutto, lo confesso mio malgrado, mi sembrano allontanarsi alquanto, certamente contro l'intenzione dell'autore, dai sentimenti di simpatia e di compassione, porzione essenziale di una virtù, che però egli professa, voglio dire l'umanità.

V'ha al certo alquanta durezza e severità nei ragionamenti accumulati dal signor Malthus per provare, che i poveri non hanno alcun diritto ai soccorsi della società. In generale io non sono più partigiano di lui dei soccorsi pubblici, che sono comunemente male amministrati, mal ripartiti, e che tolgono all’uomo, illudendolo con una falsa speranza, il sentimento il più salutare, quello cioè che gl’insegna che ciascuno deve far capitale soltanto della propria industria ed aspettare la sua sussistenza unicamente dai suoi proprj sforzi. Ma far promulgare dall’alto della cattedra evangelica, che d'ora innanzi l’assistenza delle parrocchie sarà ricusata ai figli, i di cui genitori non potrebbero alimentarli, è una troppo libera dichiarazione d'uno stato d’ostilità permanente tra coloro che hanno tutto, e coloro che nulla posseggono. La cosa è possibile, ma a me non sembra né buona, né prudente a promulgarsi; ed allorché, parlando dell'infelice che avrà ceduto all'attrattiva la più. imperiosa, all'inclinazione la più irresistibile, l'autore Inglese esclama:

«Abbandoniamo quest'uomo colpevole alla pena pronunziata dalla natura; egli ha operato contro la ragione, che gli è stata chiaramente manifestata, egli non può accusare alcuno, e deve prendersela con sé stesso, se il suo proprio operato ha per lui delle disastrose conseguenze; dev'essergli chiuso ogni accesso dell'assistenza delle parrocchie, e se la beneficenza dei particolari gli porge qualche soccorso, l’interesse dell'umanità comanda che questi soccorsi non siano troppo abbondanti ti. È necessario ch'egli sappia, che le leggi della natura, vale a dire le leggi di Dio, l'hanno condannato a vivere penosamente per punirlo d'aver. le violate; che egli non può esercitare contro la società alcuna specie di diritto per ottenerne la menoma porzione di nutrimento, al di là di quella che merita il suo lavoro; che se egli medesimo eia sua famiglia sono liberati dai tormenti della fame, ne vanno debitori alla compassione di poche anime benefiche, che per questo medesimo hanno diritto a tutta la sua riconoscenza.»

Quando, io dico, si leggono simili frasi, sono tentato d’esclamare:

Je rende graces aux dieux de n’être pas Romain,

Pour conserver encor quelque chose d’humain

E se si pesano tutte l’espressioni di questo tremendo anatema, troverassi forse, che molte di esso sono azzardate, e che suppongono un certo consenso ad alcuni dogmi fondamentali; consenso, che vien loro ricusato dal cuore, e che può essergli contrastato anche dallo spirito.

È egli ben vero, che le leggi stabilite da Dio, abbiano annesso un castigo tanto severo alla moltiplicazione, imprudente, se così si vuole, della nostra specie? È egli ben giusto per liberare la società, non da un attacco diretto che ne sconvolgerebbe Perdine, ma da un peso incomodo per coloro, che sono i possessori esclusivi di ciò che finalmente poteva non essere un monopolio?è egli ben giusto, dimandiam noi, di chiamare in soccorso di questa società, in cui risiede la forza e per cui stanno le leggi e le armi, la maledizione di quel Dio, che la religione ci mostra all'opposto tendere le sue braccia al povero ed al debole, e riceverli nel suo seno? Le nostre istituzioni sono fisse: convien difenderle e debbonsi obbedire; ma lasciamo almeno alla classe diseredata da queste stesse istituzioni, la speranza del Cielo e la bontà Divina per consolazione.

Non so se m’inganno; ma ogni qual volta una involontaria riprovazione s'inalza in tutti i cuori, credo esservi, nel principio che si attira questa riprovazione, alcuna cosa di difettoso e di rivoltante. Ora, io ho sempre osservato, che quando si rimproverava ad una madre, questuante per i suoi figli affamati, il numero di queste infelici creature, un sentimento d'indignazione si manifestava tra i testimoni di un simile rimprovero.

E qui non mi è possibile di non accennare un'osservazione che deve richiamarci, per quanto mi sembra, a delle riflessioni molto serie. Io non so a qual periodo dello stato sociale siamo noi giunti; ma quando la popolazione è pericolosa perché non v'è sussistenza sufficiente, e quando nel tempo stesso l'abbondanza delle derrate di prima necessità viene predicata come un flagello, non dev'egli Mistero qualche vizio in questo stato sociale?

Peraltro, io lo ripeto, il signor Malthus si è lasciato trasportare dal suo sistema, piuttosto nelle espressioni che negli atti da esso raccomandati: e queste parziali osservazioni in nulla alterano la verità del principio, al quale si appoggia il sistema medesimo. Soltanto l’autore, per istruito ch’egli è, non si è avveduto, che nel considerare la così da lui detta restrizione morale come un rimedio ai mali che descrive, ha dato in un eccesso simile a quello da lui rimproverato ai Condorcet, ai Godwin. Il prevedere un’epoca, in cui la perfettibilità indefinita avrà fatto sparire la proprietà, reso il lavoro inutile, e dotato tutti gli uomini d’una vita interminabile, è indubitatamente una chimera; ma lo sperare che il genere umano, e di questo la classe poco illuminata, perverrebbe a domare l’attrattiva dei sessi colla considerazione dei mali che trae seco un’eccessiva popolazione, e che quest’attrattiva dei sessi ara soggiogata senza sostituirle dei vizj vergognosi, è un pascersi volontariamente d’illusioni e di sogni.

Taluno può dilettarsi nel quadro d’una società, ogni membro della quale farebbe degli sforzi per giungere alla felicità coll’esatto adempimento de' suoi doveri; in cui ogni azione eccitata dal desiderio d’un piacere immediato, ma che trae seco un più forte grado di pena, sarebbe considerato come la violazione d’una legge morale; in cui un uomo che guadagna di che alimentare due figli, non si porrebbe mai nel caso di doverne alimentar quattro o cinque, qualunque fossero a questo riguardo le suggestioni d’una cieca passione; in cui il tempo passato in privazioni sarebbe impiegato a far dei risparmi, ed in cui nel tempo stesso, l'intervallo tra la pubertà ed il matrimonio sarebbe un perpetuo esercizio di continenza e di castità (26). Ma, in buona fede, credesi di vincere così la natura? E l’inclinazione che dà coraggio ai più timidi, che rende frenetici i più infingardi; l’inclinazione, che è stata creata invincibile perché sovr’essa riposa la perpetuità delle razze; quest'inclinazione, che va incontro alla morte, al dolore, a tutte le considerazioni, a tutti i timori, cederà forse ad alcuni ragionamenti metafisici, a dei calcoli d’una lontana probabilità, che potrebbero non realizzarsi, e che avranno tanta minor forza, inquantoché non saranno sostenuti dall'autorità di alcuna legge penale?

E qui si fa totalmente visibile il vizio degli argomenti, che stiamo confutando. «Il più irresistibile ed il più universale dei nostri bisogni (dice il signor Malthus), è quello di esser nutriti, di aver delle vestimenta ed un'abitazione.... Non v'è alcuno il quale non senta quanti vantaggi abbia il desiderio di soddisfare a tali bisogni quando è ben diretto; ma nel caso opposto si sa anche che diviene una sorgente di mali. La società si è veduta costretta di punire essa stessa direttamente e severamente coloro, che per contentare quest’urgente desiderio, impiegano dei mezzi illegittimi. »

Conchiude da ciò l’autore, che essendosi potuta impedire all’uomo di provvedere con mezzi illegittimi alla sua sussistenza, gli si potrà anche impedire di moltiplicare imprudentemente.

Ma a confessione del signor Malthus, non si è potuto ottener questo scopo che con delle leggi penali e severissime. Ora, egli è ben lontano, gli rendo questa giustizia, dal proporre tali misure. Ne siegue non esservi alcuna parità tra i due casi.

Solamente il suo sistema presenta il pericolo di poter indurre degli scrittori meno savj di lui ad invocare l’azione della legge contro l'attrattiva dei sessi rivestita della sanzione del matrimonio, nel mo« do stesso che contro la fame; ed allora cadiamo in una concatenazione di vessazioni assurde e sempre crescenti, e se ne otterrà tra un istante la prova. Ma prima di dar questa prova, consideriamo ancora la questione sotto il suo ultimo aspetto. Misuriamo l’estensione della privazione, che, dal fondo dei nostri gabinetti di studio, ben riscaldati, ben pasciuti, avendo accanto di noi le nostre mogli, o talvolta delle donne che non sono nostre mogli, vien da noi comandata a degli esseri simili a noi nel fisico e nel morale.

Non è solo ad una continenza contro natura, ai dolori, alle malattie stesse, quali questa continenza produce al pari dell’eccesso opposto, non è solo, io dico, a questi maliche noi condanniamo la porzione laboriosa ed infelice della nostra specie; ma la condanniamo altresì ad una disgrazia più durevole, più cruda, quale colpisce questa porzione si crudelmente trattata precisamente al termine della sua trista carriera.

Voglio ammettere tutte le supposizioni necessarie per render possibile la utopia dell’autore Inglese. Gli operaj si asterranno nella loro gioventù e dal matrimonio e dai piaceri illegittimi che al giorno d’oggi consolano i celibatari. La maggior parte della Specie umana riporterà giornalmente sopra i suoi sensi una vittoria, che i Santi i più austeri del cristianesimo riguardano come difficilissima, una vittoria, per la quale l’eterna salvezza non sembrava alla primitiva chiesa una ricompensa troppo sublime; la gioventù dei nostri giorni farà mostra, in mezzo alle tentazioni, d’un'impassibilità a cui giungevano appena i solitari della Tebaide con delle flagellazioni, dei digiuni, e delle penitenze che fanno fremere. Il giovane agricoltore, l’artigiano, pervenuto all’età, in cui l’idea d’una donna fa ribollire il sangue, rimarrà dirimpetto alla seduzione tanto tranquillo quanto lo era sulla sommità della sua colonna S. Simeone Stilita; accordo ancor dì più, non compenserà questa privazione con altri piaceri dispendiosi. Egli viverà casto senza darsi al vino, senza distrarsi co’ divertimenti, senza permettersi di dissipare la minima frazione de' suoi risparmi per procurarsi un momento di sollazzo. E sarà poi sicuro, che i suoi sforzi lo condurranno al fine da lui sperato? Dovrà convenirsi, che non lo è. L’artigiano, malgrado il suo stoicismo pratico, può giungere alla vecchiaia senza che le sue economie gli abbiano mai procacciata una somma bastante a metterlo in grado di ammogliarsi. In quale stato allora si troverà egli? isolato, senza soccorsi, senza famiglia, senza attaccamenti, senza un braccio che lo sostenga nelle sue infermità, o che lo conduca se divien cieco, egli avrà consumato la sua vita in dolorose astinenze, per trovarsi al termine della sua carriera in un deplorabile abbandono. Io amo mollo l'economia politica, applaudisco ai calcoli, che c’istruiscono su i risultati e sugli eventi del nostro tristo ed incerto destino; ma bramerei, che non si dimenticasse, non esser l’uomo un puro segno aritmetico, aver esso del sangue nelle sue vene, e portar nel suo cuore un bisogno d’affetto. I matrimoni dei poveri hanno certamente molti inconvenienti materiali; ma si calcola per nulla l’aprire a questi esseri, spogliati di ogni cosa, dei tesori d’affetto, che tengono ad essi luogo di quei tesori di fortuna che noi tanto temiamo ci sieno da essi rapiti?

Ad onta di tutti gl’inconvenienti della moltiplicazione dei figli, la di cui sussistenza è incerta, egli è specialmente per il povero che il matrimonio è desiderabile ed indispensabile; il ricco potrebbe farne a meno. Egli ha sempre i mezzi di veder rappresentato vicino a sé l’affetto coniugale, fraterno o figliale. Egli è sicuro di farsi attorniare dalle dimostrazioni di tutti gli affetti; e la nostra misera natura è talmente conformata, che starei per dire, che la fortuna dà agli affetti a cui comanda, una specie di realtà. Circonda i grandi ed i ricchi un’atmosfera di tenerezza, che non è sempre tutta artificiale. Ma il povero dove troverà mai queste attenzioni, questi soccorsi, queste simpatie? Egli non saprebbe comprarle come noi, per farsi in seguito come noi un’illusione sulla loro sorgente, profondità, ed estensione. Solo nel matrimonio egli trova un essere, che con lui s’identifica, che sopporta con esso i pesi, di cui il nostro ordinamento sociale lo carica senza misericordia, che lavora con lui, con lui soffre, con lui mendica.

E nota ad ognuno la risposta di quel cieco, a cui si rimproverava di nutrire il suo cane. E chi mi amerà? Diss’ei.

Queste poche parole mi sembrano una confutazione eloquente del sistema freddo e misurato, che per procurare maggiori comodi alle classi ricche, vuol privare le classi povere non solo del piacere fisico il più vivace, ma anche di tutte le consolazioni, che risultano dal nodo coniugale e dalla paternità.

Si direbbe che in oggi siamo giunti a tal punto, che la nascita d’un fanciullo, la di cui sussistenza non è assicurata, ci mette in allarme come l’approssimarsi di un ladro ohe si apparecchia a rapirci il nostro. Egli è ancor questo, io almeno lo penso, uno spingere tropp'oltre i privilegi della proprietà.

Nel dir ciò peraltro io non rigetto che le conseguenze state dedotte da un principio vero. Io adotto quanto si adduce contro gl’incoraggimenti dati alla popolazione. Quest'incoraggiraenti diretti trascinano necessariamente dietro di loro, come dice il signor Malthus, un aumento di mortalità; non incoraggite dunque i matrimoni con mezzi artificiali, non li comandate come un dovere, ma non li proscrivete neppure come un delitto. E giacché voi credete, come lo credo ancor io, chela Provvidenza ha fatto di questa terra un mondo di prove, permettete, che queste cadano in parte sulla classe favorita dalla sorte. Non iscegliete sempre il povero per imporgli delle privazioni; se la classe povera si moltiplica, la classe comoda non ha che a limitarsi e ad incomodarsi.

V’abbisognano molti secoli, a vostra stessa confessione, prima che la popolazione aumenti al segno, che mediante la coltivazione di tutto il nostro globo messo con diligenza in istato di produrre nei luoghi ove n’è suscettibile, la sussistenza non sia bastante. Allora si prenderanno le misuro più adattate ai tempi ma per ora lasciate andar le cose. La natura coi suoi rigori, l’interesse personale co' suoi calcoli, metteranno dei limiti alla popolazione, e la beneficenza l’ai ut erà, soprattutto se ▼oi non erigete anche la beneficenza in delitto.


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CAPITOLO VI

Degli scrittori che hanno esagerato il sistema del Signor Malthus

«Tutto quello» che tende a render difficile la sussistenza, tende a diminuire la popolazione.»

Lih. II, cap. Il, p. 207

H o promesso di provare, che il sistema del signor Malthus, presentato qual è dal suo autore, ha il gran pericolo, che i meno savj scrittori se ne faranno scudo per invocare l'azione delle leggi contro il matrimonio delle classi indigenti, e per così esercitare su di esse la più ingiusta e la più dolorosa di tutte le vessazioni.

Non è senza rammarico, che nel numero dei partigiani d’una proibizione che sarebbe a parer mio non meno oppressiva che immorale, io vedo uno dei nostri migliori economisti, un nome, che a molti riguardi possiede e merita la stima dell’Europa istruita, un istorico distinto per la sua erudizione, per le sue instancabili ricerche, e per la novità delle sue osservazioni; in una parola un filosofo, che difende con zelo e talento la causa della vera libertà, voglio dire il signor Simondo Sismondi, autore d’un’eccellente istoria delle repubbliche italiane, e che ha intrapreso a scrivere una storia di Francia, molto superiore, per quanto n’è stato pubblicato sin ora, a tutte quelle che l’hanno preceduta. Ma, non meno attivo nel campo dell’economia politica, egli ha pubblicato nel 1819 de' nuovi principi di questa scienza; ed è per l’appunto in quest’opera, piena d’altronde d’idee giuste ed ingegnose, e di vedute filantropiche, ch'egli ha inserito le seguenti frasi, che cito testualmente per non essere accusato di affigurare ciò ch'io confuto.

«Egli è un dovere, dic’egli, il non maritarsi, ab lorché non si può assicurare ai suoi figli il mezzo di vivere; è un dovere non già verso sé stesso, ma verso gli altri, verso questi figli, che non possono difendersi, che non hanno chi li protegga. Il magistrato è chiamato a far rispettare tutti i doveri reciproci: non v’è abuso d’autorità, s’egli impedisce il matrimonio di coloro che sono più soggetti a dimenticare questo dovere. Il matrimonio è un atto pubblico, un atto legale; esso è stato posto sotto la protezione delle leggi, appunto perché trovasi altresì sotto la loro ispezione. Il matrimonio dei mendicanti non dovrebbe mai esser permesso; egli è un’odiosa connivenza dell’autorità al sacrifizio, ch'essi si propongono fare dei propri figli. Il matrimonio di tutti quelli che non hanno alcuna proprietà dovrebbe essere sottomesso ad un’ispezione severa. Si dovrebbe avere il diritto di domandare delle garanzie per i figliuoli da nascere: si potrebbe esigere quella del padrone che fa lavorare, richieder da lui un impegno di conservare al suo servizio salariato, durante un certo numero d’anni, l’uomo che si ammoglia, e finalmente si dovrebbero combinare, coll’industria propria d'ogni cantone, i mezzi di far ascendere al padre di famiglia un grado nella scala sociale, nel tempo stesso che non si dovrebbe permetter mai il matrimonio a quelli che re, alerebbero nell’ultimo grado (27)

Non istarò a diffondermi sulla conseguenza immediata di un tal celibato, comandato forzatamente a tutta la classe povera; questa conseguenza sarebbe evidentemente un libertinaggio, spinto ad un eccesso molto maggiore che non lo è attualmente. L'autore confessa questo inconveniente ma non considerandolo che sotto un aspetto parziale, e ristretto, vi annette poca importanza. Vi sono però altri rapporti, sotto i quali sarebbe stato utile di considerarlo, e con una mediocre riflessione si sarebbe avuta la prova ch’esso diverrebbe gravissimo.

Primieramente il biasimo, la riprovazione, il disprezzo annessi al libertinaggio, verrebbero immediatamente a cessare subitoché questo sarebbe, per cosi dire, comandato a coloro, a cui s’impedirebbe di stringere nodi conjugali. Si potran fare delle cifre quante se ne vorranno, gli uomini rimarranno nomini, ed il bisogno della riproduzione li dominerà dai venti ai quarantanni in maniera da non poter essere represso. Avvi in tutti gli animi una giustizia innata, che non annette l’idea di colpa alle azioni che quando esse sono veramente criminose, e quando l'astenersene non è al di sopra delle forze umane.

Nelle alte classi non si è mai pervenuto a far del duello una cosa disonorevole, perché ciascuno sentiva nel fondo del suo cuore che il pregiudizio avendo congiunto al rifiuto di battersi, o di trar vendetta da un affronto, una vergogna sociale, niuno potava essere obbligato ad affrontare ed a sottomettersi a questa vergogna.

Ognuno sentirebbe pure, che gli operai di venticinqu'anni non possono viver casti, e se, anche al presente, non si giudicano con eccessiva severità coloro che non lo sono, si verrebbe a considerare il commercio illegittimo dei sessi come una necessità creata dalla legge, e come totalmente innocente per parte di quelli che vi si abbandonerebbero.

Se io volessi internarmi in tutte le particolarità ributtanti e difficili di tal soggetto, ricorderei, che questa necessità è stata sì ben riconosciuta in molti paesi (28), che i magistrati si sono creduti in obbligo di permettere ai detenuti delle carceri, dei piaceri periodici per non promuovere dei vizj più vergognosi. Non si ha in Francia la medesima condescendenza, e perciò i costumi delle prigioni sono un oggetto di reclami e di rammarico per tutti i buoni cittadini.

Siccome però il libertinaggio, cessando d’essere un soggetto di biasimo, ne diverrebbe al giorno d’oggi uno di repressione (giacché io suppongo che non si vogliano favorire le nascite illegittime proscrivendosi il matrimonio) ne risulterebbe, che il contrasto tra la legge e la natura, avrebbe luogo nelle frazioni povere della società ad ogn’istante della notte e del giorno. Ora non è bene, che l'uomo si accostumi alla violazione delle leggi. Egli passa rapidamente da una all'altra, ed il gran segreto sociale è quello di somministrare agli individui il mezzo di soddisfarsi legittimamente. Frapporre degli ostacoli legali ad una cosa che non può essere impedita, egli è un discreditare la sua legislazione agli occhi dei popoli, e discreditata in que' dati comandi, che impongono dei doveri fittizj, essa lo è ben presto in quelli che comandano dei doveri reali.

Ma questo non è tutto. Passiamo all'esecuzione di questo progetto. Noi non tarderemo ad accorgerci, che la difficoltà ne diviene molto più grande.

Ed infatti, allorché si paragona il bisogno della riproduzione a quello d'esser nutrito o vestito, e quando si vuol concludere, che siccome il timor delle pene trattiene l'uomo affamato o nudo dal derubare il nutrimento eia vestitura, così, questo medesimo timor delle pene, impedirebbe l'azione per cui la specie si moltiplica, si pongono in dimenticanza molte differenze, che fanno delle due ipotesi dei casi dissimilissimi. Quando un infelice invola un pane, o s'impadronisce d'un abito, egli fa al proprietario dell'abito che si mette addosso, o del pane ch'ei divora, un male immediato, diretto, positivo. V’ha dunque qualcuno, che ha interesse a lagnarsi. La giustizia n'è subito avvertita. La metà della sua operazione, cioè la sorveglianza, le viene risparmiata, e questa è la parte più difficile. Ma tutt'altra cosa è, quando si tratta dell'unione dei sessi: ordinariamente il colpevole, in vece di fare a qualcuno il male positivo che impegnerebbe a denunziarlo, gli fa un piacere, che senza dubbio alla lunga ha delle funeste conseguenze, ma che certo nel momento stesso non provoca l’accusa.

Nel caso del furto, v'è una parte pregiudicata; in quello dell( 1) unione dei sessi non ha che un complice. E così la legge penale che può colpire il ladro, non colpirà mai colui che imprudentemente si mette nel risico di divenir padre. Si punisce il ratto, la seduzione, l'adulterio, perché vi sono dei querelanti nella persona dei parenti o dello sposo offeso Ma nella semplice unione di due individui che eluderebbero la legge che si propone, non v'ha alcuno, che abbia interesse a lagnarsi; vi sono all’opposto due esseri interessati a tacersi ed a tener nascosto il fatto.

Pertanto non è già l'unione dei sessi, unione fortuita e segreta, che si vuol punire, ma la sanzione data a quest'unione, che si pretende ricusareI mendicanti non debbono avere il permesso di maritarsi; gli operaj debbono esservi autorizzati con una licenza speciale.

In quanto ai mendicanti, credo che accada ben di rado, che due persone non aventi altro stato che la mendicità, si presentino all'autorità competente per contrarre matrimonio. Ciò mi sembra tanto più diffìcile, inquantoché in oggi quasi da per tutto la mendicità è proibita, e non vedo, come mai degli uomini, che si perseguita a fine di arrestarli, e che vengon presi allorché sono incontrati, si presenterebbero al cospetto dei magistrati; essi verrebbero condotti all'ospizio per loro preparato, prima di giungere all'altare.

Si vuol dunque tenere in un celibato forzato piuttosto coloro che sono esposti a divenir mendicanti, vale a dire gli operaj, che altro capitale non hanno fuori delle loro braccia. Si dimanderanno loro delle garanzie per i figli da nascere: si esigerà quella del padrone che li fa lavorare, il che vuol dire, che si va a dar vita ad una specie di servaggio, che si fa degli operaj una casta ridotta alla più deplorabile dipendenza, e che in nome dell’economia politica si ristabilisce difatti il più oppressivo feudalismo.

Chi sarà il giudice tra l’operajo ed il padrone, se quest'ultimo ricusa il permesso, che gli vien dimandato? Chi non vede, qual porta s’apre all’arbitrio, al capriccio, agli odj personali? Qual sarà quel padrone, che vorrà impegnarsi, come l’autore propone, a tenere al suo salario per un dato numero d’anni un uomo, che appunto perché non temerà più d’esser licenziato, diventerà o più negligente, o più pigro, o più insubordinato? E se, stanco di lavorare per un padrone che s’immaginerà avere dei dritti di cui esagererà a se stesso l’estensione, e che forse vorrà abusare di questi dritti, l’operaio abbandona il padrone, a cui, in prezzo del suo matrimonio, la legge l’avrà, per dir così, incatenato, cosa farete voi? Volete forse, che sia perseguitato come si farebbe d’uno schiavo fuggitivo? Tanto sarebbe il far degli opera) un corpo di Parias: tanto sarebbe il far rivivere in Europa, in quest'Europa ove l’industria prometteva di stabilire il più alto grado di libertà individuale, le istituzioni tiranniche ed assurde dell’Indie e dell’Egitto.

Ancora una parola, e finirò di confutare un’idea che non sostiene esame; se voi attaccate alla proprietà il dritto esclusivo di gustare il piacere il più vivo ed il più dolce, che ci abbia accordato la natura, non temete forse di aumentare al di là di ogni limite e di ogni prudenza le prerogative della proprietà? Non vi basta, che il proletario si rassegni a non partecipare ad alcuno dei beni di cui voi possedete il monopolio: non vi basta, ch'egli rinunzi al fuoco, alla terra, all'acqua, all’aria stessa; giacché la sua condizione l’obbliga, ora a discendere nel fondo degli abissi, ora a seppellirsi in laboratori, ove appena respira, e sempre a privarsi di ciò ch'egli produce per voi e di ciò di cui vi vede godere al prezzo delle sue fatiche e de' suoi sudori: una consolazione gli restava, una consolazione, che la Provvidenza mossa a compassione ha ripartita tra tutti gli esseri, voi gliela disputate! Voi volete che questa facoltà data a tutti, e di cui gli animali stessi non sono privi, sia negata al vostro simile, perché è povero. Avvi in ciò, io lo ripeto, almeno altrettanta imprudenza che iniquità.

Ben si pensa, ch'esprimendomi di tal fatta io non attacco le intenzioni di un autore che stimo, ed a cui sono affezionato si per la conformità delle sue opinioni con molte delle mie, come per la rimembranza d’un'amicizia antica e durevole; ma io credo, che l’entusiasmo, con cui egli ha adottato il sistema del signor Malthus, e la brama di rendere questo sistema più applicabile in pratica che non lo aveva tentato l’autore Inglese, l’abbiano trascinato in gravi errori. Egli ha voluto fare colla legge, ciò ch'è impossibile di fare con essa: e, come accade ai migliori spiriti preoccupati fortemente d’una idea, avendo conosciuti inefficaci i mezzi proposti dal signor Malthus, ha creduto sciogliere il problema coll'invocar quella intervenzione, a cui si ricorre sempre a causa disperata, e che quando esce fuori della sua sfera, fa abitualmente più male che bene, voglio dire l'intervenzione diretta e( 1) minacciosa dell’autorità.


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CAPITOLO VII

D’un'inconseguenza di Filangieri

«Invece d’eccitare i suoi cittadini ad abbandonare |a loro patria (Inghilterra), le leggi dovevano mettere un argine alle loro frequenti emigrazioni.»

Lib. I, cap. III, p. 56.

Ciò che testé abbiamo detto sugli inconvenienti ed i vantaggi della popolazione, ci obbliga a retrocedere per indicare una strana inconseguenza del nostro Autore italiano. Dietro il principio da lui stesso riconosciuto, e che è infatti incontrastabilmente verissimo, voglio dire il rapporto necessario e costante, che esiste tra la popolazione ed i mezzi di sussistenza gli è chiaro, che l’emigrazione è la cosa più favorevole alla moltiplicazione della specie umana. Dovunque v’ha un posto vacante, una nascita lo riempie; eppure il medesimo scrittore, che vorrebbe veder la popolazione accrescersi senza limiti, esortava l’Inghilterra, alcune pagine sopra, ad impedire l’emigrazione de' suoi sudditi. Accade però sempre, che gli uomini dimentichino la metà delle loro opinioni allorché vogliono far prevalere l’altra metà. Essi prendono ciascuna di esse parzialmente come tanti dogmi; e quando hanno riunito quanto credono di dover dire sopra un soggetto, s’immaginano d’essersi ben disimpegnati, e cominciano il medesimo lavoro sopra una nuova questione senza darsi troppa pena, e senza avvedersi delle contradizioni, nelle quali possono cadere. Egli è vero il dire, che la poca attenzione dei leggitori viene in soccorso di quella degli scrittori, e che in mezzo alle distrazioni che si attraversano ed agl'interessi che ci trascinano, ogn’idea ci serve o di trastullo o di arme, senza che noi sentiamo il bisogno di formarne un tutto, soddisfatti come siamo d’aver colpito nel segno, o dato materia alla conversazione corrente.

Non si mette ostacolo all'emigrazione con dei regolamenti, ed il consiglio che qui Filangieri porge al governo inglese svela ancora l’errore di un filosofo, che considera l’uomo come un agente passivo tra le mani dell'autorità. Senza dubbio Filangieri, parlando di savj regolamenti, gl’immaginava dolci e moderali; ma appunto per essere proscritte da questi regolamenti le pene troppo severe, sarebbero essi più facilmente violati. La loro infrazione forzerebbe il Potere ad aumentare il rigore delle pene, e così, per grande che fosse la moderazione dell’autorità nell’entrare in questa via, ella sarebbe condotta all’estremo della violenza e del rigore. I soli regolamenti da farsi onde porre un argine all’emigrazione, sono le costituzioni libere, le leggi eque, le garantie solide. Assicurate questi beni ad un popolo, e potete viver sicuro che i suoi cittadini non emigreranno. Ricusategli questi beni, e tutti i vostri regolamenti non impediranno, ch'egli non abbandoni un paese, in cui la sua esistenza sarà precaria, i suoi dritti minacciati, la sua industria vessata. Io lo dimando ad ogni uomo dì buon senso e di buona fede: con qual misura si riterranno sul suolo inglese quei proletari affamati, ai quali le leggi non permettono di guadagnare la propria sussistenza e quella della loro famiglia? E se per un impossibile, si pervenisse a chiuder loro ogni egresso, cosa ne risulterebbe per la prosperità della pubblica quiete? Parzialmente, degli assassinamenti; in massa, delle sedizioni.

Io qui considero la questione sotto il solo aspetto politico. Ma cosa non avrei a dire, se mi abbandonassi a delle considerazioni morali!

La società, tal quale esiste, ha consacrato il dritto di proprietà, vale a dire, ha voluto, che il suolo appartenesse senza contrasto a colui che l'occupava da tempo immemorabile, o che lo possedeva per effetto di una trasmissione, di cui essa aveva regolato le forme; essa ha voluto che le produzioni, frutto del lavoro, appartenessero, sia al produttore, sia a quelli che per mezzo di convenzioni legali, gli somministrassero i materiali ed i mezzi di produzione.

La necessità scusa quanto ha operato a questo riguardo la società, nientedimeno la condizione n'è dura e severa. I tre quarti della specie umana nascono diseredati; i beni comuni a tutti nell’ordine naturale, divengono nell'ordine sociale il monopolio di pochi, e questi ultimi per conquistarli non si danno, come taluno ha detto energicamente, altra pena che quella di nascere.

In fine la cosa sta così. Due compensi restano, quali consolerebbero la classe spogliata: uno è il lavoro, l'altro l'emigrazione.

Col primo il povero trova nelle sue braccia e nella sua industria, un equivalente della proprietà, di cui oziosi possessori sono forzati di abbandonargli una porzione, acciò egli faccia valere il rimanente a loro vantaggio. Col secondo, se in paese i suoi sforzi sono inutili, egli può andare altrove in traccia d'un cielo più propizio e di occasioni più favorevoli.

Chi 'l crederebbe? L'autorità gli ha suscitate frequenti dispute su queste due risorse. Delle leggi proibitive hanno intralciato la sua industria nell'interno, e dei decreti contro l'emigrazione gli hanno proibito di portar quest'industria all'estero. Con una simile legislazione, io lo dichiaro, non v'ha alcun eccesso, cui non dobbiamo aspettarci, non v'ha disordine, che possa recarci maraviglia.

Dirassi forse, che noi pretendiamo dai governi un' indifferenza ed un'apatia, che offendono i loro interessi? ch'essi non potrebbero rassegnarsi a vedere i loro paesi spopolarsi, la loro industria illanguidirsi per mancanza di braccia ogniqualvolta la da essi chiamata mania d'emigrazione s'impadronisce dell'animo d’una classe ignorante e credula, facile ad essere sedotta da scritti menzogneri, e da ingannevoli promesse? Noi risponderemo, che la mania dell’emigrazione non s'impadronirà di alcun popolo né di alcuna classe, se il governo, colle sue vessazioni, cogli ostacoli che oppone allo sviluppo delle facoltà umane, con ciò in una parola, che a miglior dritto potrebbe chiamarsi la mania regolatrice, e legislativa, non costringe questa classe o questo popolo ad emigrare.

Ed, osservatelo bene, la tendenza all'emigrazione non è il resultato di alcuno degl'inconvenienti fisici, che la natura ha ripartiti tra le diverse regioni del globo. Il Lappone non abbandona il suo clima di ghiaccio, e le nazioni esposte agli ardori del sole sopportano i calori da cui sono oppresse. L'assuefazione, i vincoli di famiglia, le rimembranze della fanciullezza, incatenano l'uomo ai luoghi, ove è nato; ed anche quando il bisogno ne lo scaccia, o che la gioventù vaga di avventure lo porta a viaggiare, lo spirito di ritorno, per servirmi d'un espressione non consacrata dalla legge se non perché essa l'ha trovata esistente nel fondo de' nostri cuori, lo spirito di ritorno accompagna il viaggiatore nelle sue lontane peregrinazioni, e lo riconduce presto o tardi sotto il tetto de' suoi padri, quale egli ama di trasmettere ai suoi figli.

Non v'ha d'insopportabile per l'uomo, che il torto che gli vien fatto dai suoi simili; i rigori della natura sono altrettante necessità; i rigori dei governi sono altrettante ingiustizie. Ci sommettiamo a quelli, ma questi c'inaspriscono.

In conseguenza, mentre si vedono dei popoli rassegnarsi alle intemperie delle stagioni, alla durezza dei climi, alla sterilità del suolo; dei montanari portare sul loro dorso la terra vegetale per render fertili le cime delle loro rocche, il cielo il più sereno, le pianure più feconde, non saprebbero ritenere gli uomini che gemono sotto un'autorità oppressiva. Non sono già le nebbie dell'Ebridi, né le boscaglie che coprono le loro piagge, che inducono il contadino scozzese ad abbandonare il suo paese natio: i suoi padri avevano per il lasso di molti secoli respirato quell'aria nebbiosa, ed avevan pur tratto qualche partito da quelle aride boscaglie. Al presente, l'avidità de' signori, avidità tanto più intollerabile, inquantoché l'eccesso della civilizzazione, nel precipitare questi signori nelle città, non lascia alla classe da essi dipendente nelle loro terre, nessuno dei compensi che risultavano altre volte dalla vita patriarcale di questi contadini del Nord.

Si è molto vantato l’orgoglio nazionale inglese: e quell’orgoglio ha difatti per lunga pezza inalzato tra l’Inghilterra e tutte le nazioni continentali delle barriere, che sembravano insormontabili. Attualmente, malgrado quest’orgoglio, la Francia è inondata d’inglesi divenuti proprietarj o fabbricanti sul suolo straniero. Degli artigiani, degli agricoltori ci portano la loro esperienza e le loro preziose scoperte, e la Gran Brettagna trova ne' suoi propri figli i più pericolosi flagelli della sua industria. Donde procede un tal cambiamento? Dall’essere divenute in Inghilterra le leggi proibitive per il povero, e le tasse enormi pei ricchi, dei flagelli, da cui ognuna di queste classi vuole ad ogni costo liberarsi; ed a superare la pressione continua di questi due flagelli non v’ha né orgoglio nazionale, né patriottismo, né abitudine, né rimembranze di fanciullezza che vagliano.

Non bisogna punto esagerarsi l’influenza dell’amor della patria nei nostri moderni tempi; io ho riconosciuto più sopra il peso di questo sentimento nella bilancia, peso che sino ad un certo grado puù compensare la poca abilità o l’ingiustizia dei governi; questi però non devono riposarsi su questa forza morale, che con diffidenza e discrezione. L’amor della patria non saprebbe esistere presso di noi come esisteva presso gli antichi. Il commercio ha ravvicinato le nazioni, ha dato ad esse dei costumi quasi consimili. L’espatriazione, ch’era una difficoltà e quasi un supplizio per i popoli dell’antichità, ci è divenuta facile, e bene spesso piacevole. Allorché Cicerone diceva:

«Pro qua patria mori, et cui nos totos dedere et in qua nostra omnia ponere, et quasi consecrare debemus», la patria conteneva quanto un uomo aveva di più caro: perdere la sua patria era un perdere i suoi figli, i suoi amici, tutti gli oggetti delle sue affezioni; era un affrontar l'ignoranza e la ruvidezza d’incognite e semibarbare popolazioni; era un rinunziare ad ogni comunicazione intellettuale, ad ogni piacere sociale. Circondati però come siamo da nazioni civilizzate ed ospitaliere, trasportiamo con noi quanto ci è caro, e ritroviamo, meno qualche leggiero divario, tuttociò che con noi non portiamo. Ciò che amiamo nella patria si è la proprietà de' nostri beni, la sicurezza delle nostre persone e di quelle de' nostri parenti, l'istradamento de' nostri figli, lo sviluppo della nostra industria, la possibilità, secondo la nostra individuai situazione, del lavoro o del riposo, della speculazione o della gloria; in una parola, mille generi di felicità adattati ai nostri interessi, o ai nostri gusti. La parola di patria richiama al nostro pensiero la riunione di questi beni anziché l'idea geografica di tale o tal altro paese in particolare: allorché ci sono stati rapiti nel nostro paese natio, andiamo a cercarli fuori di questo, ed i governi non hanno né il dritto né il potere di contrastarci questa facoltà.


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CAPITOLO VIII

Della divisione delle proprietà

«Tutto quello che tende a render più difficile la v sussistenza, tende anche a diminuire la popolazione. Or il piccolo numero de’ possessori, e l’immenso numero de' non possessori deve necessariamente produrre questo effetto.»

Lib. II, cap. III, p. 208.

Un amico dell’umanità non poteva non esser colpito dagl’inconvenienti enormi della concentrazione delle proprietà; e per tutto il tempo che Filangieri impiega a dimostrare quest'inconvenienti, egli non dice alcuna cosa ben nuova, ma certamente dice cose ragionevolissime.

La concentrazione delle proprietà, produce due effetti: la mancanza di sussistenza, e la diminuzione della popolazione. A queste conseguenze immediate vengono ad unirsi per necessità, delle altre meno, dirette e più lente; la coltivazione s’illanguidisce, non solo per mancanza di braccia, ma ancor più per lo scoraggimento ed il disgusto, in cui. cadono i miserabili mercenari; vasti possessi sono lasciati incolti per l’incuria del ricco, o impiegati dal suo orgoglio all’accrescimento d'un lusso inutile; il numero dei proletari si raddoppia; infine la società racchiude una cagione di fermento e di disordine, che dovrebbe mettere in allarme gli amici del potere, eppure son essi, che si affliggono della divisione delle proprietà; tanto il loro interesse particolare supera il loro attaccamento ai principi che professano. Questi principi sono loro utili come un’arme offensiva, ma li abjurano subitoché trattasi di farne l'applicazione. Nulladimeno non è egli evidente, che quanto più è grande il numero di quelli che sono interessati a sostenere il governo, tanto più lo stesso governo è con maggiore zelo difeso? Quando dunque si ripete, che i proprietarj sono amici dell'ordine, non se ne deve forse conchiudere, che per conservar l'ordine conviene aumentare il numero de' di lui amici? Inoltre egli è facile di dimostrare, che anche individualmente il piccolo proprietario è più interessato del grande a prevenire il disordine. In realtà tale avvenimento, che appena dissesta il ricco, distrugge completamente l'esistenza del povero. Cercate nella storia l'epoche che succedono alle pubbliche calamità, alle invasioni, alle guerre civili, e vedrete il piccolo proprietario poter giungere appena dopo molti anni d'un ostinato lavoro a mettere insieme pochi avanzi, ed a crearsi una passabile esistenza; mentre il ricco, angustiato un istante per pochi giorni o per pochi mesi, non ha già veduto intorbidata la sua esistenza, ma soltanto interrotto qualcuno de' suoi piaceri. Una capanna incendiata, un campo devastato, la perdita di pochi animali domestici o di pochi mobili grossolani, riducono quello alla mendicità; il guasto d'un magnifico castello, la perdita d'una ricca ed abbondante raccolta, non diminuiscono punto l'opulenza di questo.

Ora come mai si può credere, che eguali siano i risici tra questi due uomini, ovvero, ciò ch'è anche più assurdo, che l'uno azzarderà tutto il suo avere per un rovescio, da cui non può risultare giammai per esso una sorte felice; mentre l'altro non rischierà neppure una piccola porzione della sua fortuna per un cambiamento da cui la sua situazione nella società gli permette di tutto sperare?

E se si obbietta che l’uomo si fa illusione nelle sue speranze e ne' suoi pericoli, risponderemo a questa obbiezione con una sola parola: può questa applicarsi egualmente ai calcoli ed ai progetti dell’uno, quanto alle passioni dell’altro, e viene anzi in appoggio delle nostre riflessioni, giacché avvi un istinto sicuro che conduce l’uomo al suo interesse immediato. Quest’istinto si fa guida sempre del piccolo proprietario, esposto alla miseria per l’effetto d’una sola imprudenza; mentre il ricco maggiormente dedito ad ogni genere d’idee speculative, spesso ricercando i suoi interessi più lontano da lui, è anche bene spesso esposto ad ingannarsi sul loro oggetto.

Talvolta, a dire il vero, gl’istromenti delle rivoluzioni si trovano nei ranghi della piccola proprietà; ma i capi delle fazioni sortono sempre da quei della grande.

Distruggete i capi, ecco subito divenuto impossibile il disordine, gl’istromenti messi fuori d’azione. Conservate i capi, voi non perciò distruggerete gli stromenti, voi anzi non li distruggerete mai; poiché se i faziosi possono trovarne tra i piccoli proprietarj, a più forte ragione saranno adattati ad un simile impiego i proletari, che hanno minori risici di perdite, un interesse più diretto per agire, una speranza eguale nel successo.

Difattì si propone un curioso mezzo per diminuire la forza di coloro, a cui uno scompiglio può essere utile, volendone aumentare il numero: si vuol diminuire quello dei loro avversarj, ed accumulare nelle mani di questi gli oggetti che si suppongono dover tentare la loro cupidigia.

Un'altra ragione più forte vien forse in successivo appoggio di (pelle già da noi sviluppate in favore della divisione delle proprietà.

L'industria fa ogni giorno dei progressi immensi, crea delle nuove fortune, e pone dei nuovi ricchi accanto a quelli creati dalla proprietà. Essi brillano dello stesso splendore, sono attorniati dalla stessa clientela, o anzi, siccome hanno bisogno di maggiori braccia per cominciare e perpetuare la loro fortuna, di quello che il proprietario di fondi, così una molto più numerosa clientela della sua, si affolla ogni giorno intorno a loro.

In oggi che i segni di cambio formano la ricchezza degl" individui, quelli che vivono dei lavori manuali devono preferire l’industria ai lavori campestri, poiché una vita molto più agiata n' è il frutto. D'altronde v'ha una specie d'omogeneità tra il ricco d'industria ed il semplice manuale, che non esiste tra il proprietario ed i mercenari da lui impiegati, dal che nasce una differenza, che ridonda ancora a vantaggio del primo.

L'operajo vede che la fortuna del suo capo è l'effetto del lavoro e dell’industria; egli spera di giungere alla stessa meta battendo la stessa via, ed è pronto in tal guisa a difendere una situazione sociale che può un giorno divenire la sua.

Ma il mercenario condannato per sempre a dei lavori che arricchiscono un altr’uomo, senza poter mai cambiare di stato, si accorge molto meglio della barriera, che lo separa dal proprietario. È egli mai probabile, che faccia dei grandi sforzi per difenderla? Il ricco proprietario non si trova egli molto più esposto del ricco d'industria?

La massa degli industriosi si aumenta ogni giorno: alcune tra le fortune create dall’industria eguagliano quelle dei più grandi proprietarj. Delle classi intermedie, più o meno opulenti, tutte agiate, vengono a prender posto tra i ricchi ed i semplici operaj; una catena non interrottasi prolunga dal povero manovale sino al manifattore milionario, ed i suoi anelli ineguali vengono stretti dall’interesse della giornata, dalla rimembranza della vigilia, dalla speranza dell’indimani: corpo potente, l’industria estende su di tutto le sue vaste ramificazioni; corpo omogeneo, tutte le sue parti si sostengono e si aiutano tra loro, perché tutte, nelle differenti classi, hanno qualche cosa da difendere, mentre la fortuna del bottegajo il più modesto, non sarebbe al coperto da ogni pericolo, se venisse a vacillare quella dell’opulento banchiere, acquistata co’ medesimi mezzi. E così l’interesse della massa, unico garante di quello del ricco, viene da per se stesso presso la gente dedita all’industria a sostenerlo ed a garantirlo.

Come ma? dunque in un secolo in cui l’industria ha conquistato una sì estesa influenza, la proprietà fondiaria potrebbe conservare la sua, concentrata in poche mani?

Tutta l’influenza di questa proprietà, finché i possidenti saranno in piccol numero, si limiterà ad equilibrare quella dell’alta industria, con la differenza pero in favore di quest'ultima, che la numerosa clientela chiamata a proteggerla non esisterà per la sua rivale.

Non v’ha che un mezzo onde conservare puranche un qualche grado d’influenza alla proprietà fondiaria, e questo è di dividerla, e di creare un gran numero di piccoli proprietarj che s’interpongano tra il proletario e l'uomo opulente. Allora si può stabilire qualche specie di rapporto tra il povero ed il rie'co; inspirare a questi l'interesse, e conseguentemente il desiderio di difender l'altro, e bilanciare efficacemente l’influenza della classe media degli uomini d’industria.

L'industria avrà sempre, egli è vero, questo vantaggio, che l’ultimo dei mercenari vede né suoi mezzi d’avanzamento, quei medesimi, col favor dei quali si è inalzato il suo principale; mentre la proprietà fondiaria pone un ostacolo materiale tra il possidente e quello che, non essendolo, coltiva per gli altri e crea ogni giorno una sorgente di ricchezze, di cui non dee profittare.

Ma questo vantaggio dell’industria sulla proprietà sparisce quando quest’ultima è molto divisa. I piccoli proprietarj, sortendo dalla classe dei proletarj, e vivendo familiarmente con essi, questi si avvedono meno di quella distanza, che deve colpirli ad ogni istante, allorché i loro capi appartengono ad un’altra classe, parlano un altro linguaggio, e non hanno con essi alcun rapporto né alcuna causa na turale di ravvicinamento.

Allorché anche il povero può acquistare un campo, non vi sono più classi; ogni proletario spera di giungere per mezzo del lavoro al medesimo punto; e tanto presso i proprietarj, che presso gli uomini industriosi, la ricchezza diviene una questione di lavoro e di assiduità. Nell’altra ipotesi la proprietà fondiaria è una barriera, che non si può oltrepassare.

Sembra, che quasi tutti i governi abbiano ignorato queste verità, avendo essi cercato di mantenere la proprietà in un piccini numero di famiglie. Questi bizzarri e mal intesi tentativi hanno sempre ridondato in danno dell’autorità medesima, come doveva accadere: il fine era pericoloso, ed i mezzi impiegati per pervenirvi, le sostituzioni, il dritto di primogenitura, ne aggravavano gl’inconvenienti.

Colle sostituzioni voi impedite all'uno di vendere ciò che gli è inutile, voi togliete all'altro la facoltà di comprare ciò da cui trarrebbe partito, voi diminuite il prodotto reale della proprietà ristringendola nelle mani dun proprietario che non sa farla valere, e proibite a quello, che saprebbe farne un utile impiego, di acquistare ciò ch'è sterile nelle mani d’un altro.

Il dritto di primogenitura ha delle conseguenze molto più disastrose: esso allenta i vincoli delle famiglie, introduce la divisione nel loro seno, indebolisce nell’animo dei figli i sentimenti naturali; e seminando tra i fratelli la gelosia da un lato, la diffidenza dall’altro, l'odio da tutte le parti, distrugge i più dolci affetti dell’anima, la reciproca tenerezza dei fratelli, e la pietà figliale.

Prendiamo esempio dall’Inghilterra, ove regna in tutta la sua forza il dritto di primogenitura. L’indifferenza dei figli per i loro genitori, l’odio dei cadetti contro i primogeniti, son cose talmente riconosciute, che non fanno più alcun senso neppure sulle scene. L’opinione, scevra da ogni passione, non soffrirebbe mai alcune lepidezze particolari a quel teatro; essa non tollererebbe che le si mostrassero dei cadetti desiderar la morte dei primogeniti, e soprattutto non tollererebbe che i figli si facessero allegramente delle scambievoli felicitazioni sulla morte del loro padre.

È un destino comune a tutte le leggi che stabiliscono un privilegio a favore di pochi, di vedere l'opinione opporsi al loro scopo, ed in forza d’una reazione continua compensare coll'odio o col disprezzo per la classe privilegiata il torto fatto in favor di lei alle altre classi.

La tendenza del nostro secolo alla divisione delle proprietà è così forte, che i nostri ragionamenti, i quali adesso saranno forse accusati di non essere altro che paradossi, sembreranno tra dieci anni nozioni sì comuni, da non aver alcun bisogno di prova; e se si dubitasse della verità di questa nostra asserzione, citeremo un opuscolo, che indica sino a qual grado queste idee siano di già propagate nella Prussia:

«Il 14 settembre 1811 il sig. de Hardemberg sottomise al re di Prussia un progetto di legge per la redenzione dall’onere dei lavori stradali obbligati. I contadini, astretti in certi casi a restituire ai nobili la metà ed in altri casi il terzo delle terre da essi possedute a questa condizione, divennero i proprietarj reali ed indipendenti dal resto.

«Così fu creata nella monarchia prussiana la classe la più rispettabile, e la più indispensabile alla prosperità d’un paese, quella cioè dei coltivatori, che fertilizzano un retaggio immune da qualunque servitù, e non riconoscono che il trono e la legge. Sino a quell’epoca si trovavano bensì pochi contadini proprietarj nelle provincie orientali; ma essi erano in piccolissimo numero, e la maggiorità della classe agricola apparteneva alle terre signorili e faceva parte della proprietà del signore.

«I nobili venivano a guadagnare nella nuova legislazione; poiché questa aumentava la valuta vendibile ed il prodotto annuale delle loro proprietà. Subitoché il suolo diviene libero e che l'agricoltura si trova sbarazzata da tutti gli osta» coli, la conseguenza necessaria di questa doppia liberazione si è l’aumento della popolazione e dei comodi. L’effetto di questo aumento si è un più alto valore delle terre, e conseguentemente una maggior ricchezza per i possidenti delle più considerevoli proprietà.

«I cittadini ed i villici vi guadagnavano ancor v più della nobiltà. Per l’effetto della nuova legislazione queste due classi saranno nel corso di un secolo proprietarie del suolo della Prussia, come già lo sono sulle sponde del Reno (29). Dovunque v'ha dei compratori, vi sono dei venditori; ma i migliori acquirenti sono incontrastabilmente quelli, che possono dar più per un oggetto, quelli in conseguenza, per cui quest'oggetto ha un maggior valore e rende di più. Ora è per l'appunto per il contadino, che l'agricoltura è specialmente m produttiva, per lui che per il primo la mattina visita il suo campo, e che per l'ultimo lo visita la sera. II sudore del coltivatore è il miglior con, cime delle terre. E nella natura dell'uomo di amare la sua proprietà, e subitoché si permette alla classe agricola di acquistare, essa ne trova i mezzi ed anche in esuberanza. Questa classe allora si marita di buon'ora, perché non è inquieta sulla sua sussistenza; essa sa bene, che la sua ricchezza consiste nel lavoro, e che le sue braccia sono i suoi capitali. La culla non tarda ad esser posta vicino al letto conjugale, e la popolazione aumenta in un tal paese con egual prontezza che sul suolo ancor vergine dell'America Settentrionale. I suoi coloni comprano stiora per isti ora; prima fittajuoli, quindi proprietarj, non tardano a soppiantare quella razza di agricoltori, erede ed imitatrice del feudalismo e della nobiltà, e che ha un precettore per i suoi figli, una cameriera per la sua moglie, un cocchiere per i suoi cavalli, un cacciatore per i suoi cani, un soprastante per i suoi operaj, una sorvegliante per le sue serve. In casa del vero contadino, il padrone e la padrona di casa esercitano soli e personalmente tutte queste funzioni.

«Egli è indifferente per lo Stato, il sapere in quali mani si trovi la terra, purché sia confidata a mani attive e laboriose; che de' privilegiati poi siano gli antenati di queste mani laboriose è cosa di ben poco momento. La proprietà e la libertà, ecco ciò che vi bisogna. Dovunque esistono queste due cose, l'uomo è attivo, e l'agricoltura fiorisce, come lo provano le paludi dell’Olanda. Dove tali cose non esistono, l’agricoltura cade, e con essa la popolazione, come lo dimostra la Spagna, ove i quattro quinti del territorio trovandosi in poter del clero e della nobiltà, una popolazione di venti milioni si è ridotta a dieci. La Prussia, che ha attualmente soli undici milioni di abitanti, ne avrà sedici nel 1850, solo per l'effetto della nuova legislazione sull'agricoltura e della divisione delle proprietà.»

Mentre un autore prussiano dimostrava queste verità nel fondo della Germania, tutti i buoni spiriti rendevan loro omaggio in Francia. Ascoltiamo su tal proposito un uomo, che non abbiamo mai confutato senza dispiacere, e che approviamo sempre con gaudio. «La più forte garanzia che possa ricevere l'ordine stabilito (dice il sig. De Sismon di nei suoi Nuovi principi di economia politica), consiste in una numerosa classe di contadini proprietarj. Per vantaggiosa che sia alla società la garanzia della proprietà, è sempre questa un' idea astratta, difficile a concepirsi da quelli, a cui non sembra garantire altro che privazioni. Allorché vien tolta ai coloni la proprietà delle terre, e agli operaj quella delle manifatture, tutti coloro che creano la ricchezza, e che la vedono incessantemente passare per le loro mani, non partecipano d’alcun godimento. Essi costituiscono la massima parte della nazione; son chiamati i più utili, eppur si sentono diseredati. Una costante gelosia li eccita contro i ricchi: si osa appena discutere in lor presenza i diritti politici, perché sempre si teme, che non si passi da questa discussione a quella dei dritti della proprietà, e ch'essi non dimandino la divisione dei beni e delle terre.

«Una rivoluzione in un tal paese è spaventevole;? l'ordine intiero della società è sovvertito; il potere passa nelle mani della moltitudine, che possiede la forza fisica, e questa moltitudine, che ha molto sofferto, che il bisogno ha ritenuta nell'ignoranza, è ostile ad ogni specie di legge, ad ogni specie di distinzione, ad ogni specie di proprietà. La Francia ha provato una simile rivoluzione, in un tempo in cui la gran massa della popolazione non aveva parte nella proprietà, e conseguentemente nei beneficj della civilizzazione. Questa rivoluzione però in mezzo ad un diluvio di mali ha lasciato dietro di sé molti beni, ed uno dei più grandi si è forse quello, che un simile flagello non potrà più ritornare. La rivoluzione ha prodigiosamente moltiplicato la classe dei contadini proprietarj. Si contano oggi più di tre milioni di famiglie in Francia, padrone assolute del suolo che abitano; ciocché suppone più di quindici milioni d"individui. E così più della metà della nazione è interessata per suo proprio conto alla garantia di tutti i diritti. La moltitudine e la forza fisica si trovano dal lato dell’ordine; e se il governo venisse a crollare, la massa stessa del popoli lo si affretterebbe a ristabilirne uno che proteggesse la sicurezza e la proprietà. É questa la gran causa della differenza tra le rivoluzioni del 1814 e quella del 1789.»

Colpito Filangieri da sì gravi inconvenienti, ha, dunque impiegato tutta la forza della sua dialettica, e chiamato in suo soccorso tutte le risorse della declamazione per raccomandare la divisione delle proprietà.

Ma, per una conseguenza dell’errore in lui abituale, ha creduto che le leggi potessero rimediare al male dalle leggi stesse cagionato. Egli si è abbandonato all’ammirazione la meno ponderata per tutte le istituzioni, colle quali le repubbliche hanno voluto limitare l’accumulazione delle proprietà. Egli Va sino a vantare la saviezza delle leggi agrarie; delle leggi agrarie, che furono sempre cagioni di sommosse popolari e che, col mettere iu moto tutte le passioni, coll’agitar tutti gli animij coll’armare tutte le braccia, coll’eccitare i cittadini gli uni contro gli altri, non giunsero mai a tanto, abbenché tinte del sangue dei loro più illustri e più generosi difensori, da colpire il segno propostosi dal legislatore, e da mantenere per un breve corso d’anni i benefìzi illusori, che il loro stabilimento aveva fatto sperarei

Presso i moderni, l’allettamento che offrirebbero simili leggi sarebbe forse un nuovo soggetto di torbidi; ma esse non avrebbero né anche il risultato d'un ben essere momentaneo. Se alcuni faziosi possono tuttavia invocare il loro nome per eccitare il disordine, degli uomini probi ne sognerebbero invano lo stabilimento: tutte le passioni, tutti gl’interessi, anche quelli della massa, vi si oppongono. Egli non basterebbe di dare un campo eguale a tutti per render tutti felici; bisognerebbe anche far loro perdere tutte le rimembranze d'una raffinata civilizzazione. Si sarebbe strappata ai ricchi la loro fortuna senza dare i comodi al povero: una specie di mollezza si è insinuata nelle classi le più miserabili; lavori d'un altro genere hanno tenuto lontani dai lavori campestri moltissimi individui, che l’allettamento duna mediocre esistenza non potrebbe giammai ricondurvi. Lungi dal cercare di procacciarsi una tal sorte al prezzo del suo sangue, il proletario riceverebbe piuttosto il salario dai suoi nemici onde combattere i suoi difensori, ed i Gracchi perirebbero vittime della loro devozione per le mani dei loro protetti, non meno che per i colpi de' loro avversar).

Filangieri cade in un altro errore che non è molto necessario di confutare, perché nessuna nazione moderna sarà tentata di lasciarvisi trascinare. Egli loda i Germani, presso i quali la nazione era il solo proprietario perpetuo, venendo annualmente distribuite ai padri di famiglia delle porzioni di suolo. Se non si sentisse il pericolo di distruggere il più gran movente de' nostri lavori, cioè il desiderio di migliorare il podere acquistato, si vedrebbe almeno, quanto è impossibile a' giorni nostri lo stabilire un simile sistema, e le nostre confutazioni, del pari che gli argomenti di Filangieri, sarebbero superflue.

Non accade però così, d’un altro errore, se non grave in se stesso, più pericoloso almeno ne' suoi effetti, inquantoché ha esso ricevuto la sanzione d’una assemblea generalmente rispettata, e quella d'uno dei più grandi oratori dei tempi moderni, noi intendiamo parlare del dritto di testare.

Quest'abolizione fu dettata da motivi di circostanza; e nell’ipotesi stessa delle circostanze, perle quali fu decretata, non poteva riuscire che dannosa.

Ma il legislatore era dominato dal timore d'una classe, il di coi giogo erasi di recente aggravato sopra a ciascuno; soprattutto egli voleva impedire, che i beni di questa classe si perpetuassero nelle di lei mani. L’abolizione dei dritti ingiusti, da noi indicati, gli sembrava insufficiente ad ottenere il propostosi fine, se si lasciava all'orgoglio aristocratico dei padri il dritto di accumulare per mezzo dei testamenti sulla testa d'un primogenito quei beni, dì cui la legge investiva poc'anzi questo stesso primogenito in pregiudizio de' suoi fratelli.

Tale è l'inconveniente di tutte le rivoluzioni. Al nascer loro esistono alcune classi mantenute dall'abitudine, ma che la prima tempesta politica deve distruggere. Poste in iscompiglio dalle scosse rivoluzionarie, queste classi si agitano, gl'individui che le compongono si trovano in ostilità reale o presunta contro i nuovi governanti e le nuove forme dì governo. Ma questi individui cadono massimamente in sospetto di mire ostili nell’animo degli autori di questi cambiamenti politici, uomini bene spesso di un carattere ardente, entusiasti, pieni di rancore a cagione degli ostacoli per lungo tempo frappostilisi, certi del male cagionato loro da alcune classi, supponendo in ciascun membro di queste, le idee della classe intiera; ed attribuendo loro tanta maggior bramosia di riconquistare i loro privilegi, quanto più zelo hanno essi stessi dispiegato nel distruggerli.

Così in quel momento di commozione, in cui si vuol gettare le fondamenta d'una novella società, e creare delle istituzioni durevoli, l’animosità della circostanza viene a frammischiarsi alle idee generali, le istituzioni cambiano di natura 9 ed uomini forti per loro stessi, forti anche dell’assenso del popolo, dirigono contro i fantasmi del passato la legislazione, che regolar deve l’avvenire.

Ad onta delle migliori intenzioni un tale risultato è quasi inevitabile, e questo nulladimeno è un gran vizio: giacché esister deve per necessità una gran differenza tra le istituzioni offerte ad un popolo libero da legislatori illuminati, e le barriere opposte da un partito vincitore ad una fazione vinta; e si porta un colpo alla libertà di tutti per comprimere la cattiva volontà di pochi.

Meglio varrebbe lasciare al tempo la cura di produrre il suo effetto: che bisogno v'ha di pene e di minacce per abolire un abuso, fondato su delle abitudini o dei pregiudizi? Il tempo ha creato questo abuso, e delle leggi gli hanno somministrato vigore; distruggete queste leggi, e lasciate che il tempo riprenda il suo impero. Siate ben persuasi che esso distruggerà la sua stessa opera, se questa non è più in armonia con i bisogni del secolo.

Per applicare questa verità all’oggetto, di cui stiamo occupandoci, se le passate abitudini, se lo spirito di resistenza, l’orgoglio e l’approvazione d’un partito avessero influito per qualche tempo su i capi di famiglia della classe che viene indirettamente attaccata, quante cause naturali avrebbero sradicato i loro pregiudizi, quanti interessi, quanti affetti avrebbero combattuto con forza contro un'inutile ostinazione! L’interesse presente, e impreveduti bisogni, avrebbero sovente comandato il sacrifizio delle risoluzioni dell’orgoglio, e cagionato la suddivisione delle proprietà; le affezioni individuali rinascendo insensibilmente nei cuori induriti da un ordine di cose ormai impossibile, avrebbero gradatamente trionfato di abitudini non più sostenute da alcuna forza esterna.

Allorché la divisione della proprietà è libera, essa tende a sminuzzarsi; solo le leggi potrebbero frenarla; spesso anche lo tenterebbero esse invano!. La prodigalità limitando l'esistenza degl’individui all’interesse momentaneo, lo spirito d’intrapresa lasciandosi fuggir di mano la realtà per la speranza, l’amor del guadagno cancellando le rimembranze, mille altre cause della stessa natura debbono portar seco, o presto o tardi, la divisione delle proprietà. Lasciatele pur fare: qual v'ha mai bisogno di venire in loro soccorso? Nel nostro secolo, l’aristocrazia della ricchezza ha occupato il posto di qualunque altra aristocrazia: padrona delle più smisurate fortune, a questo solo titolo essa possiede la vera sorgente della considerazione e del potere. Chi non sente, che un tale stato di cose raddoppia la forza delle cause di sminuzzamento da noi indicate, le rende irresistibili subitoché le leggi ad esse non si oppongono, ed inoltre fa loro presto o tardi sormontar gli ostacoli che le leggi tentano loro frapporre.

L’abolizione del dritto di testare presenta in se stessa un triplice inconveniente: essa è ad un tempo, inutile, inefficace, ed immorale.

Quest’abolizione è inutile. V’ha dunque bisogno di far. delle leggi, acciò i padri non diano in braccio alla miseria una porzione dei loro figli?

I pregiudizi si sono resi, è vero, più forti dell’inclinazione naturale; ma questi pregiudizi erano il frutto di antiquate istituzioni. Correggete questa crudel bizzarria: col distruggere la causa che ha dato vita ad una vanità contro natura, voi distruggerete nel tempo stesso il suo deplorabile effetto; alcune eccezioni all'ordine generale non saprebbero dar motivo a leggi che vincolino la totalità dei cittadini.

Questa proibizione è inefficace; poiché nulla v’ha di più facile quanto l'eludere una simil legge, e noi non conosciamo misure bastevoli ad impedire ad un proprietario di disporre della sua fortuna. Possono forse prevenirsi e soprattutto reprimersi delle donazioni a persone terze, o dei debiti simulati?

Questa proibizione è finalmente immorale: essa inspira agli uomini l'interesse dì eludere la legge, interesse egualmente corruttore per l’effetto che produce sull’uomo, che fatale riguardo alle istituzioni.

Difatti, allorché voi rendete gli uomini interessati ad eludere la legge, voi fate nascere in essi l'abitudine della frode, voi distruggete inoltre il rispetto ch'essi portano alla generalità delle leggi, provando loro l'impotenza di alcune tra esse: quest'abitudine di frode, che voi in tal modo fate contrarre loro per esimersi da una sola vessazione, diviene in essi familiare; essi. la conservano in tutte le loro relazioni, e le leggi le più giuste e le più benefiche sono violate, subitoché hanno oltrepassato la barriera frapposta ai loro interessi da istituzioni vessanti.

È inoltre questa proibizione immorale, in quantoché favorisce la delazione, quale vien provocata dalla stessa frode. La delazione trovasi trasportata nel seno delle famiglie. I figli si credono autorizzati ad esercitare sopra coloro che debbono esser l’oggetto del loro rispetto un'inquisizione, ora clandestina, ora insolente. Viene a contaminarsi il santuario delle affezioni domestiche, e per timore d’un’inegualità passeggiera e poco pericolosa, poiché la forza delle cose vi porta un rimedio, si viene a distruggere la sola inegualità salutare che sia consacrata dalla natura, quella cioè, che pone i padri al disopra dei loro figli.

Una considerazione deve colpirci. All’epoca della nostra eccessiva civilizzazione, i rapporti tra i padri ed i figli sono resi di già molto difficili.

Gli uni vivono nel passato; l’avvenire è il dominio degli altri. Per essi il presente è in qualche sorta un terreno neutro, teatro del gran combattimento, in cui gli uni affrettano coi loro incostanti sforzi la caduta di ciò che gli altri vorrebbero tener fermo: ogni giorno infine il torrente degli affari, dei piaceri, delle speranze, trascina la generazione che prende possesso della vita, lontano da quella cui la vita abbandona.

L’esito di questa lotta è sempre contrario ai vecchi. Il loro isolamento n’è il risultato.

Trasportata lungi da essi, la novella generazione, cerca di crearsi un avvenire; pensa a formarsi uno stato, una famiglia, una situazione, e a procurarsi dei nuovi piaceri; la vecchiaia poi ha ottenuto il suo intento, o lo ha mancato; ma in qualunque ipotesi essa non è in grado di godere di ciò che ha creato. È chiuso ad essa l’avvenire, ed ogn’istante le prova che bisogna affrettarsi a trar partito dal presente. I suoi desiderj non possono esser diretti che alla conservazione, ed alla permanenza nel medesimo stato; giacché ormai qualunque specie di attività ridonderebbe a suo scapito

Così la malinconia è lo stato abituale dell’età senile. Qualunque pena è grande per lei; la perdita d’un istante di felicità le sembra tanto più crudele quanto più rari e più brevi sono quest'istanti. A questo periodo della sua esistenza l’uomo non è più capace di sopportare la solitudine, poiché questa è solo abbellita dall’illusione, e l’illusione non è più bitta per lui. L’esser corteggiato, le attenzioni dell’amicizia, e in difetto della realtà l’apparenza, tutto divien prezioso per degli esseri, che la severa natura si compiace a privare ogni giorno di qualche godimento.

Nulla può, senza dubbio, tener luogo dei sentimenti disinteressati, ed è ben tristo il riflettere che le tenere consolazioni, e le attenzioni dettate dai più delicati sentimenti, possano dipendere da poco nobili motivi. Ma non conviene illuderci: è utile di chiamar l’interesse in appoggio dei sentimenti affettuosi. Si danno forse alcune felici eccezioni; ma, tanto nel bene come nel male, un’eccezione non deve mai dar motivo ad una legge.

Ora restano ben pochi mezzi, negli attuali nostri costumi, di venire in soccorso dell’autorità paterna. Questa viene riconosciuta nel suo principio; ma né essa è, né potrebb’essere fondata come presso gli antichi sopra leggi positive. I nostri costumi rigetterebbero ben presto i tentativi che ci permetteremmo di fare in questo senso. Il dritto di vita e di morte che gli antichi accordavano ai padri ci ripugnerebbe, e coloro che si vorrebbe investire di questo dritto terribile, atterriti al pari di quelli cui vorrebbesi colpire, retrocederebbero dinanzi' a una legge fatta nel loro interesse, ma di cui sarebbe impossibile l'esercizio. Ogni altro potere dispotico affidato ai padri di famiglie sfuggirebbe loro egualmente.

Lasciate dunque loro il solo mezzo che resta, onde conservino qualche potere nella loro famiglia. Se l'interesse può essere tuttavia un freno, lasciate loro l'interesse come mezzo di ricompensa e di castigo. Accordate loro di poter disporre d'una porzione della loro fortuna, e che questa porzione sia grande abbastanza per ottenere il fine da noi indicato.

Noi diciamo una porzione, poiché vedremmo con pena stabilirsi l’abuso contrario, cioè la libertà illimitata, e senza restrizione, del dritto di testare. Questa libertà aprirebbe l’adito alla seduzione dei vecchi, spesso strapperebbe dalle loro mani le eredità contro il loro voto reale, ed introdurrebbe degli stranieri nelle famiglie, a danno dell’interesse degli eredi legittimi.

Cosa veramente degna di osservazione! si è distrutto il dritto di testare, in odio del dritto di primogenitura, e questo ultimo è precisamente l'opposto del dritto di testare.

Il dritto di primogenitura è una restrizione; il diritto di testare è una libertà. E cosi allorché la passione fissa i suoi sguardi sul fine, s’inganna nella scelta della strada, e si allontana credendo di avvicinarsi.

Parla finalmente in favor nostro, non meno l’esperienza che il raziocinio. Noi vediamo ai giorni nostri, che il dritto di testare non racchiude in sé quei pericoli, che i suoi avversari hanno creduto di discoprirvi. I padri di famiglia hanno la facoltà di disporre di una porzione dei loro beni; pochissimi ae abusano; la grande maggiorità non ne fa uso, o ne & un uso moderato e legittimo. l’egualità delle divisioni non vien distrutta da questa facoltà; ciò accade perché lo spirito di egualità è nel cuor dell'uomo; perché l’inclinazione naturale non ha bisogno di leggi per trionfare, ed infine perché, quando esiste un pregiudizio e sembra soffogare l’inclinazione naturale, basta per vederlo dileguarsi, il distruggere l'istituzione, da cui questo pregiudizio prende origine.


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CAPITOLO IX

Del commercio de' grani

«Un errore, derivato da una falsa supposizione, ha s fatto credere a' governi, che potesse uscire da uno stato s col moto naturale del commercio anche parte del necessario alla sua interna consumazione.»

Lib. II, cap. XI, p. 262.

L errore che Filangieri fa qui rilevare, è, per le sue funeste conseguenze, uno dei più pericolosi, che abbiano tormentato i popoli ed indotto in errore i governi: esso è però altresì uno dei più comuni.

I governi che hanno fatto delle leggi proibitive sul commercio de' grani, ne hanno fatte di due specie. Colle une hanno essi voluto che i prodotti dell'agricoltura non potessero essere esportati; quindi le pene severe, annesse in molti paesi all’esportazione de' grani. Colle altre, hanno voluto che il commercio di questa derrata si facesse direttamente dal produttore al consumatore, senza che potesse intervenire tra essi una classe, che facesse acquisto dei prodotti del primo per rivenderli al secondo; quindi i regolamenti contro i monopolisti.

Il motivo delle leggi della prima specie è stato il timore che un’esportazione spinta all’eccesso non producesse la carestia.

Il motivo delle leggi della seconda specie, era probabilmente, che una classe intermedia tra il consumatore ed il produttore, dovendo trovare un benefìzio nel commercio da essa intrapreso, tendeva a fare alzare il prezzo delle derrate, e che questa classe, potendo prevalersi con destrezza della difficoltà delle circostanze, aveva la pericolosa facoltà di spingere quest'aumento di prezzo sino al più disastroso rincaramento.

In ambedue i casi, l'intenzione dei governi era lodevole, ma in ambedue i casi, essi hanno preso dei cattivi mezzi, e nell’uno e nell'altro hanno fallato la loro mira.

La questione dell'esportazione dei grani è non meno delicata che importante. Nulla di più facile quanto il fare un quadro commovente dell'infelicità del povero, della durezza del ricco, e d'un intiero popolo che muore di fame, mentre degli avidi speculatori esportano i grani, frutto dei di lui sudori e delle di lui fatiche. Avvi un piccolo inconveniente in questa maniera di considerar le cose; ciò è, che quanto si dice sul pericolo dell'esportazione libera, la quale altro non è che uno degli usi della proprietà, potrebbe dirsi con altrettanta forza, e con non minor fondamento, contro la proprietà medesima. Certamente i non proprietari sono, sotto tutti i rapporti, alla discrezione dei proprietarj; e se vuol supporsi, che questi ultimi abbiano un forte interesse ad aggravare, ad opprimere, ad affamare gli altri, da una tal supposizione risulteranno esuberantemente descrizioni oltremodo patetiche. Questo è talmente vero, che i nemici della libertà dell’esportazione sono stati sempre forzati di dir qualche ingiuria, almeno superficiale, ai proprietarj. Linguet gli chiamava mostri, ai quali dovevasi strappar la preda senz'essere commossi dai loro urli; ed il più rispettabile dei difensori del sistema proibitivo (30) ha finito col paragonare i proprietarj, e chiunque sosteneva la loro causa, ai coccodrilli.

In quanto a me, vorrei esaminare questa materia sotto un aspetto. tale da porre in disparte tutte le declamazioni, ed a tal effetto partirmi da un principio che fosse adottato da tutti gl’interessi. Ora, ecco questa. principio, se io non m’inganno.

Acciò il grano abbondi, è d’uopo che ve ne sia la maggior possibile quantità; acciò ve ne sia la maggior possibile quantità, convien incoraggire la produzione. Tuttociò che incoraggisce la produzione, del grano favorisce l’abbondanza; tuttociò che scoraggisce questa produzione, chiama direttamente o indirettamente la carestia.

Ora, se voi voleste incoraggire la produzione d’una manifattura, cosa fareste? Diminuireste voi il numero dei compratori? No, senza dubbio; voi vorreste anzi aumentarlo. Il fabbricante sicuro. del suo smercio moltiplicherebbe i suoi prodotti, per quanto sarebbe in poter suo il portare ad effetto questa moltiplicazione. Se, all’opposto, voi diminuiste il numero dei compratori, il fabbricante limiterebbe i suoi prodotti. Egli non vorrebbe che questi eccedessero la quantità di cui potrebbe disporre. Egli calcolerebbe dunque con un’esattezza scrupolosa; e siccome gli sarebbe molto più rincrescevole d’aver pochi compratori, di quello che averne molti, egli ridurrebbe la sua manifattura al segno, che la medesima producesse piuttosto meno che più del necessario.

Qual è il paese in cui si fabbricano più orologi? Quello, credo io, da dove se n’esporta una maggior quantità. Se voi proibiste l’esportazione degli orologi, credete voi che ne resterebbe un maggior numero nel paese? No, ma se ne fabbricherebbero molti di meno (31).

Accade de' grani, rispetto alla produzione, come di ogni altra cosa. L’errore degli apologisti delle proibizioni si è quello d’aver considerato i grani come oggetti di mero consumo, e non anche come prodotti. Essi hanno detto, meno se ne consumerà, più ne resterà: ragionamento falso, inquantochè le granaglie sono derrate preesistenti. Avrebbero essi, dovuto vedere che più sarebbe limitate? il consumo, più ristretta sarebbe la produzione, e che. conseguentemente questa non tarderebbe a divenir insufficiente per l’altro.

Imperciocché la produzione delle granaglie in questo differisce dalle manifatture ordinarie, ch'essa non dipende unicamente del manifattore, ma dalle stagioni. Per altro il produttore, forzato a. limitare i suoi prodotti, non può fondare i suoi calcoli, che sulle annate medie. Limitando la sua produzione allo stretto necessario, ne risulta, che se la raccolta delude i suoi calcoli, il prodotto della sua lavorazione limitato a questo segno, è in sufficiente. La maggior parte degli agricoltori non limita al certo la produzione a bella posta; ma ancor questi si scoraggiscono all’idea che la loro lavorazione ancorché fosse favorita dalla natura, non può loro esser utile; che le loro derrate possono restare senza compratori e divenir loro di aggravio; e quantunque non formino un piano determinato in seguito di tali considerazioni, pure coltivano i campi con maggior (negligenza. Guadagnandovi meno, essi hanno minori capitali per alimentare la loro coltivazione, ed in realtà la produzione diminuisce.

Coll’impedire l’esportazione de' grani, voi dunque non fate restare nel paese il superfluo del grano necessario all'approvvisionameuto di questo stesso paese, ma voi fate sì, che questo superfluo non si produce. Ora, siccome può accadere per effetto dell’intemperie delle stagioni, che questo superfluo divenga necessario, voi fate sì, che il necessario viene a mancare.

Proibire l’esportazione, egli è un proibire di vendere, almeno al di là di una certa quantità, giacché quando l'interno sarà provvisto, il di più della produzione non ha compratori. Ora il proibire di vendere, egli è un proibire la produzione; giacché è lo stesso che togliere al produttore il motivo ohe lo fa agire. Chi mai potrebbe credere, che si fosse scelto questo mezzo, acciò la produzione fosse sempre abbondante?

Io non saprei dipartirmi da questa materia. Gli ostacoli frapposti all'esportazione sono altrettanti colpi portati alla proprietà: ognuno ne conviene. Ora, non è egli evidente che se la proprietà é meno rispettata quando trattasi delle granaglie, ohe quando trattasi di ogni altra derrata, si amerà meglio di avere per superfluo, vale a dire, come oggetto di vendita, tutt’altra specie di derrata, piuttosto che grani?

Se poi permettete e proibite a vicenda ed a piacer vostro l’esportazione, il vostro permesso non estendendosi che alla produzione esistente, e potendo essere sempre revocato, non diviene in conto alcuno un motivo sufficiente per incoraggire la produzione avvenire.

Rispondo ad una obiezione. Il rincaramento delle derrate di prima necessità è funesto al popolo, perché il prezzo delle giornate non aumenta in proporzione. L’esportazione del grano, dirassi, non produrrà forse il rincaramento di questa derrata? Essa impedirà senza dubbio che non cada ad un prezzo vile. Ma se, da un altro lato, l’esportazione proibita impedisce la produzione del grano, il rincaramento non sarà forse molto più inevitabile e più eccessivo?

Credereste voi. di poter forzare la produzione del grano? Consento che facciate un simile tentativo. Voi impedirete ai proprietari di non coltivare a grano le loro terre, ed ecco già una sorveglianza! Ma li. sorveglierete voi anche nella loro maniera di coltivare? Li obbligherete voi a fare le anticipazioni, ad ordinare i lavori, a procurarsi i necessari concimi? e tuttociò a fine di produrre una derrata, che se è. abbondante, sarà. per essi impossibile di vendere, e costosa anche a custodirsi. Quando. il governo vuol usare d’autorità per fere una sola cosa, che presto si trova ridotto a far tutto.

Io non ho messo in campo altri ragionamenti in. favore della libera esportazione, perché sono essi stati sviluppati molte volte. Se il grano è caro, non se n’esporterà; poiché, a prezzo eguale, varrà meglio venderlo su i luoghi stessi, di quello che esportarlo. Non se n’esporterà dunque, che quando sarà utile di esportarlo. Voi potete, supporre una penuria generale, una carestia pel. vostro paese, una, carestia presso i. vostri vicini; vi abbisogneranno allora delle leggi speciali per un disastro speciale. Un terremuoto, che traslocasse tutte le proprietà, esigerebbe un. codice particolare per mia nuova divisione di territorio. Si prendono delle misure particolari per la distribuzione dei viveri in una città assediata; ma il fare una legislazione ordinaria per una calamità che naturalmente non ha luogo una volta in due secoli, è un fare della legislazione una ordinaria calamità.

La natura non è troppo liberale de' suoi rigori. Se si paragonasse il numero delle carestie che sono state l’effetto di annate veramente infelici, con quello delle carestie cagionate dai regolamenti, ci rallegreremmo del picciol male che ci è cagionato dalla natura, e fremeremmo del male che ci è cagionato dagli uomini.

Avrei voluto nell’agitare una tal questione prendere un partito di mezzo. V’ha un certo merito di moderazione, ch’è ben grato d’attribuirsi, e che non è difficile ad acquistare, ogni qual volta non siasi eccessivamente di buona fede. Con ciò taluno rende a se stesso testimonianza, che si sono ben esaminati i due lati della questione; e si dà per una scoperta la propria titubanza: in vece d’aver ragione contro una sola opinione, si comparisce aver ragione contro ambedue. Avrei dunque preferito di trovare per risultato delle mie ricerche, che si poteva lasciare ai governi il dritto di permettere o di proibire l’esportazione; ma nel tentare di determinare le regole colle quali essi avrebbero ad agire, ho sentito che m’ingolfavo nuovamente nel caos delle proibizioni. Come potrà mai il governo, per ogni provincia, a una vasta distanza, a un grande intervallò, giudicare di circostanze che possono variare prima che gliene sia pervenuta la notizia? Come porre un freno alle frodi de' suoi agenti? Come garantirsi dal pericolo di prendere per una carestia reale un imbarazzo momentaneo? una locale difficoltà per un disastro universale? E sono per l’appunto i regolamenti permanenti e generali, fondati sopra difficoltà istantanee o parziali, che producono il male che si vuol prevenire (32). Coloro che raccomandano con maggior calore questa legislazione versatile non sanno a qual partito appigliarsi, quando son giunti ai modi, onde metterla in pratica (33).

Se ogni cosa porta seco i suoi inconvenienti, lasciate che le cose vadano da per loro; non riuniransi almeno i sospetti del popolo e le ingiustizie dell’autorità alle calamità naturali. Di tre flagelli voi ne avrete due soli, ed inoltre avrete il vantaggio di accostumare gli uomini a non più considerare la violazione della proprietà come una risorsa (34): essi allora ne cercheranno e ne troveranno dell’altre. Se all’opposto essi hanno presente quella, vi ricorreranno sempre, per essere la medesima la più speditiva e la più comoda.

Se coll’interesse pubblico voi giustificate l’obbligo imposto ai proprietarj di vendere in un dato luogo, vale a dire, di vendere con perdita, poiché potrebbero vendere meglio altrove, voi giungerete a fissare il prezzo delle loro derrate; una cosa non sarà più ingiusta dell’altra, e la di lei necessità potrà facilmente dimostrarsi al pari di quella.

Io dunque non ammetto che pochissime eccezioni all’intiera libertà del commercio de' grani, egualmente che a quella di ogni altra specie di commerciò, e quest'eccezioni sono di pura circostanza.

La prima si è quella della situazione di un piccolo stato mancante di territorio, obbligato a mantenere la propria indipendenza contro potenti vicini. Questo piccolo stato potrebbe stabilire de' magazzini affinché non si cercasse soggiogarlo per fame; e siccome l’amministrazione d’un simile stato rassomiglia a quella d’una famiglia, gli abusi di questi magazzini sarebbero in gran parte evitati.

La seconda eccezione si è quella d’una carestia non preveduta, naturale o politica: ne ho già parlato di sopra.

La terza è nel tempo stesso la più importante, e quella a cui è più difficile di rassegnarsi. La sua necessità risulta dai pregiudizi popolari, nutriti e consacrati da un invecchiato erroneo costume. Egli è certo che in un paese ove il commercio de' grani non è stato mai libero, la sua libertà immediata produce una commozione funesta. L'opinione si agita, e colla sua azione cieca e violenta crea essa stessa i mali di cui paventa. Sono dunque necessari, ne convengo, dei gran riguardi per ricondurre su questo ponto i popoli ai principi più conformi alla verità ed alla giustizia. Le scosse sono perniciose, sulla strada del bene come su quella del male; ma l’autorità, che spesso fa questo bene a suo malgrado, non si adoprò con molto zelo a prevenire queste scosse, e gli uomini illuminati; allorché giungono a dominarla coll'ascendente delle toro cognizioni, credono pur troppo spesso di maggiormente impegnarla in misure precipitose. Non sentono eglino, che anzi è un offrirle de' pretesti speciosi per retrogradare. É questo per l’appunto ciò ch'è accaduto in Francia verso la metà dell’ultimo secolo.

Passo ora alle leggi che hanno avuto per iscopo d’impedire, che. una classe intermedia di commercianti, non andasse ad intromettersi per il traffico delle granaglie tra il produttore ed il consumatore.

Tutti i vantaggi della divisione del lavoro trovansi nella esistenza di questa classe; ha la medesima maggiori capitali del produttore, ha maggiori mezzi di formare dei magazzini. Occupandosi esclusivamente di quest'industria, essa studia ancor meglio quei bisogni, ai quali imprende a provvedere; essa distoglie il fittajuolo dall’occuparsi di speculazioni, che assorbiscono il suo tempo e che dirigono altrove i suoi fondi, trascinandolo nelle città, ove i di lui costumi vengono a corrompersi, ed i suoi risparmi a dissiparsi: quadrupla perdita per l’agricoltura. Non v’ha dubbio che non debbano esser pagate a questa classe le cure ch'essa si prende; ma queste stesse cure prese dal fittajuolo stesso con minor destrezza, perché non formano l’oggetto della sua principale industria, e conseguentemente con maggiori spese, debbono essergli egualmente pagate, e quest’eccedenza di spesa ricade sul consumatore, che si è creduto di favorire.

Questa classe intermedia, che vien proscritta conte cagione di carestia e di rincaramento, è precisamente quella, che frappone un ostacolo all’eccessivo rincaramento; essa compra le granaglie nelle annate troppo fertili, ed impedisce con ciò, che non se ne faccia abuso, e che non se ne disperda (35); essa le ritira dal mercato, allorché la loro esorbitante affluenza, cagionando un ribasso rovinoso per il produttore, scoraggirebbe quest'ultimo, e farebbegli negligentare o limitare imprudentemente la produzione dell’anno successivo. Quando il bisogno si fa sentire, essa rimette in vendita ciò che aveva ammassato. In tal guisa, ora viene in soccorso del coltivatore, sostenendo ad un prezzo ragionevole il valore della sua derrata; ed ora in quello del consumatore, riconducendo l’abbondanza di questa derrata nel momento, in cui il suo valore venale sorpassa certi limiti (36).

Essa, in una parola, produce quel medesimo effetto, che il pubblico spera dai magazzini formati dallo stato, con questa differenza, che i magazzini diretti e sorvegliati da particolari che non hanno altra cosa da fare, non sono una sorgente di abusi e di dilapidazioni, come tuttociò che appartiene all’amministrazione pubblica. Essa opera tutto questo bene per interesse personale, non v'ha dubbio; ma sotto il governo della libertà, l'interesse personale è il più oculato, il più fermo, il più utile alleato dell’interesse generale.

Si parla d'incette, di macchinazioni, di leghe tra i monopolisti. Ma chi non vede, che la libertà solo da per se stessa offre il rimedio opportuno a questi mali? Questo rimedio è la concorrenza. Non vi saranno più incette, se ognuno ha il dritto d’incettare: coloro, che serbassero le proprie derrate per ottenerne un prezzo eccessivo, diverrebbero vittime del loro calcolo, non meno assurdo che colpevole, poiché altri ricondurrebbero l’abbondanza contentandosi d’un più moderato guadagno. Le leggi non riparano a nulla, perché possonsi eludere; la concorrenza ripara a tutto, perché l’interesse personale non può frenare la concorrenza, quando l’autorità la permette. Ma siccome le leggi danno motivo di parlare dei loro autori, si vogliono sempre le leggi; e siccome la concorrenza è una cosa che cammina da per se stessa, e di cui nessuno fa onore al governo, i governi disprezzano e non curano i vantaggi della concorrenza. Se vi sono s tate delle incette e dei monopolj, ciò è derivato dalle proibizioni, alle quali il commercio dei grani è andato sempre soggetto, ed ai timori che lo hanno sempre attorniato; ond’esso altra cosa non fu mai, se non se un commercio sospetto, anzi il più delle volte clandestino. Ora in fatto di commercio, tuttociò che è sospetto, tuttociò ch'è clandestino, diviene vizioso; tuttociò che è autorizzato, tuttociò ch’è pubblico, ritorna ad essere onesto. Al certo non v’ha ragione di maravigliarsi, che una industria proscritta dall’autorità, disonorata da una opinione erronea e creata dalla violenza, minacciata di castighi severi da leggi ingiuste, minacciata inoltre di depredazione e di saccheggio da una plebaglia sedotta, sia stata sino al dì d’oggi un mestiere esercitato di soppiatto da uomini, avidi e vili, i quali vedendo la società armata contro di loro, hanno fatto pagare alla società, ogni qual volta hanno potuto farlo, in circostanze critiche, la vergogna ed il pericolo a cui questa li sottometteva. A tutti i negozianti che avevano a cuore la loro sicurezza ed il loro onore, veniva precluso l’accesso ad un genere d’industria, ch'era pur naturale e necessaria. Come mai non sarebbe risultato da una sì mal intesa politica un premio in favore degli avventurieri e dei furfanti? Alla prima apparenza di carestia, al primo sospetto dell’autorità, i magazzini erano forzati, i grani portati via e venduti al di sotto del loro valore, la confisca, le multe, la pena di morte (37) erano pronunziate contro i proprietarj. Non dovevano dunque i proprietarj rindennizzarsi di sì pesanti legami, collo spingere all’eccesso tutti quegli utili che potevano strappare a forza di frodi, in mezzo alle ostilità che perpetuamente si esercitavano contro di loro? Nulla v’era di sicuro nei loro guadagni legittimi; dovevano dunque rivolgersi ai guadagni illegittimi, come alla sola indennità che rimaneva loro. La società doveva portar la pena delle sue follie e de' suoi furori (38).

Abbiamo forse combattuto a lungo un errore, che al dì d’oggi sembra insussistente; ma gli errori hanno una forza di risorgimento, ch'è sempre temibile: ed è per l’appunto quando i governi si gettano in un estremo, che diviene verisimile la loro più o meno sollecita ricaduta nell’estremo opposto. Ora, da qualche tempo in qua, l’errore contrario a quello che abbiamo denunziato nelle pagine precedenti, ha acquistato una gran popolarità. Quanto volevasi in passato serbare presso di sé i grani di proprio prodotto, altrettanto si teme ora d’esser inondati da quelli raccolti sul suolo straniero.

Un terrore inesplicabile si è impadronito dei popoli e dei governi; la grande abbondanza sembra loro un flagello. Per quale strana aberrazione d’idee naturali, ha mai potuto propagarsi presso di noi una simile opinione?

Noi crediamo di poterlo attribuire a due cagioni.

La prima è grave; ed è il soverchio aumento dei dazj. Esso fa realmente dell’abbondanza un flagello per gli agricoltori, poiché quest’aumento, nel tempo stesso in cui moltiplica le spese di coltivazione, diminuisce i suoi profitti.

La seconda è in fondo di molto minore importanza; eppure è quella che, nel contrariare una classe clamorosa e potente, è cagione di tutte quelle declamazioni, dalle quali siamo assordati. l’abbondanza delle derrate nuoce alla rendita dei proprietarj che non fanno fruttare le loro terre da per torto stessi; essi non vedono in queste, come i coloni, un mezzo di sussistenza per la loro famiglia. L'abbondanza non viene per essi, come per gli altri, ad aggiungere qualche comodità al loro necessario, che è il frutto delle raccolte ordinarie; considerano essi la vendita delle loro derrate, e non il consumo; le spese di produzione restano le medesime nelle annate di abbondanza, e la concorrenza cagionando un ribasso nel prezzo di vendita, ne risulta per loro una perdita inevitabile.

Agevole è il rimedio al primo di questi in convenienti: diminuite le imposizioni. Distrutta la causa, spariranno gli effetti;

In quanto al secondo, non vedo una gran necessità di porvi riparo.

Difatti, quando l'agricoltura somministra al paese, e principalmente al coltivatore, una sussistenza abbondante, essa ha ottenuto il suo scopo: poco importa che ciò accada a spese della ricchezza dei grandi proprietarj. Spingendo tutte le conseguenze all'estremo, qual calamità possiamo noi temere da un'eccessiva abbondanza? L'imbarazzo, la ristrettezza momentanea dei proprietarj non agricoltori. Questi proprietarj venderanno il superfluo delle loro terre, e questo cambiamento di possessori ridonderà in profitto dell'agricoltura. Le proprietà, più divise, passeranno intieramente nelle mani laboriose degli agricoltori; questi, lavorando oramai per la loro particolar proprietà, faranno necessariamente tutti i loro sforzi per migliorare i loro beni, e le terre saranno meglio coltivate.

E qui osserviamo quante bizzarre forme rivesta l’egoismo dei possidenti. L’abbondanza, dicesi, è un flagello, poiché fa diminuire il prezzo delle sussistenze; e nel tempo stesso si pretende di limitare la popolazione, a cagione della mancanza di sussistenza.

Ma se le sussistenze divengono soprabbondanti, non vi sono forse bocche sufficienti per consumarle? Altrimenti cosa intendete voi per questa parola, soprabbondanza? Lasciate dunque aumentarsi la popolazione, e lasciate anche che il prodotto delle terre scenda a bassi prezzi; la natura s’incaricherà di stabilir l’equilibrio. Coloro che vogliono vivere di questo prodotto senza lavorare, venderanno le terre alla classe dei coloni; voi avrete ben presto una quantità di famiglie agricole, che raddoppieranno i prodotti del suolo. L'abbondanza non favorirà il lusso, ma solleverà la miseria; la popolazione non tarderà a porsi a livello dei mezzi di sussistenza, e voi otterrete ciò che sembra essere il fine delle vostre indagini, cioè una gran popolazione esente da carestie, e l’abbondanza dei viveri senza ingombro.


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CAPITOLO X

Dell’agricoltura considerata come sorgente di ricchezze

«Ogni popolo, che rinuncia a' beneficj dell’agricoltura, che, abbagliato de’ lusinghieri beneficj delle arti e del commercio, trascura quelli delle produzioni del suo 11 terreno, che preferisce, in nna parola, la forma alla materia..... non conosce i suoi veri interessi.…»

Lib. II, cap. X, p. 259.

A leggere ciò che molti hanno scritto, saremmo indotti a credere, che nulla v’ha di più stupido, di meno istruito, di più non curante dell’interesse individuale. Ci dicono essi con tutta gravitò, ora, che se il governo non incoraggisce l’agricoltura, tutte le braccia si volgeranno alle manifatture, e che le campagne resteranno incolte; ora, che se il governo non incoraggisce le manifatture, tutte le braccia rimarranno nelle campagne, che il prodotto della terra sarà molto superiore ai bisogni, e che il paese languirà senza commercio, e senza industria; come se non fosse chiaro, da un lato, che l’agricoltura sarà sempre in ragione dei bisogni d’un popolo: poiché è indispensabile che gli artigiani ed i manifattori abbiano di che nutrirsi; dall’altro, che sorgeranno le manifatture ogni qual volta i prodotti della terra saranno in sufficiente quantità, poiché l'interesse individuale indurrà gli uomini ad applicarsi a lavori più lucrativi della moltiplicazione delle derrate, la cui quantità ne diminuirebbe il prezzo. I governi non possono in verun conto cambiare i bisogni fisici degli uomini; la moltiplicazione ed il prezzo dei prodotti, di qualunque specie essi sieno, sono sempre conformi alle dimande cagionate da questi bisogni. Egli è assurdo il credere che per rendere comune un genere di lavori, non basti l'utile che ne ritraggono quelli che vi si dedicano. Se vi sono più boccia che non ne abbisognano per rendere viepiù fertile il terreno, gli abitanti volgeranno naturalmente la loro attività ad altri rami d’industria; essi sentiranno, anche senza gli avvertimenti del governo, che la concorrenza, passando un certo limite, annienta l'utile del lavoro; l'interesse particolare, senza che sia incoraggito dall’autorità, sarà sufficientemente stimolato dal suo proprio istinto a cercare un genere d’occupazione più profittevole. Se la natura del terreno rende necessario un gran numero di coltivatori, gli artigiani ed i manifattori non si moltiplicheranno, perché il primo bisogno di un popolo è quello di sussistere, e un popolo non trascura mai la sua sussistenza. D’altronde, lo stato di agricoltore essendo il più necessario, sarà per( 1 ) questo solo più lucrativo di qualunque altro. Allorché non vi sono privilegi abusivi, che sconvolgano l’ordine naturale, il vantaggio d’una professione si compone sempre della sua utilità assoluta, e della sua rarità relativa. Il vero incoraggimento per tutti i mestieri è il bisogno che se n’ha. La sola libertà è sufficiente per mantenerli tutti in un’esatta e salutare proporzione.

Le produzioni tendono sempre a proporzionarsi ai bisogni, senza che l’autorità se ne ingerisca (39).

Allorché un prodotto qualunque è raro, il prezzo ne aumenta. Aumentandone il prezzo, questa produzione, meglio pagata, attrae a sé l'industria ed i capitali. Ne risulta che questo prodotto essendo più comune, il prezzo ne ribassa, e ribassandone il prezzo, una porzione dell'industria e dei capitali si rivolge da un'altra parte. Allora la produzione divenendo di bel nuovo più rara, il prezzo torna ad alzarsi, e l'industria visi rivolge nuovamente, sino a che e la produzione ed il prezzo si sieno perfettamente equilibrati.

Ciò che inganna molti scrittori si è l'eccessiva maraviglia ch'eccita in loro, il languore o la. miseria che affligge sotto dei governi arbitrari le classi laboriose della nazione; essi non rimontano alla cagione del male, ma s'immaginano che vi si potrebbe rimediare con far direttamente intervenire l'autorità in favore delle classi che soffrono. Cosi, a modo d'esempio, per l'agricoltura, allorché ingiuste ed oppressive istituzioni espongono gli agricoltori' alle vessazioni delle classi privilegiate, le campagne si spopolano e rimangono ben presto inculte.

Le classi agricole accorrono il più che possono nelle città, onde sottrarsi alla schiavitù ed all'umiliazione. Allora degli speculatori privi di ogni talento suggeriscono incoraggimenti positivi e parziali per gli agricoltori: essi non vedono, che tutto è legato nelle società umane. Lo spopolamento delle campagne è il risultato di un cattivo ordinamento politico. Dei soccorsi accordati a pochi individui, o tutt'altro palliativo, artificiale e momentaneo, non vi porteranno rimedio. Non vi sarebbe risorsa che nella libertà e nella giustizia. Perché dunque appigliatisi sempre il più tardi possibile?

E qui si osservi, che un popolo, appunto per essere sottomesso ad una legislazione arbitraria, non sarebb’esso più commerciante che agricola; anzi meno facile gli riuscirebbe il commercio. Oppresso dalle imposizioni, non avrebb’esso i capitali necessari per prosperare, vessato dalla tirannia, circoscritto ne' suoi mezzi d’attività, tormentato dai sospetti di un’autorità diffidente, ed intralciato nel suo cammino da funzionari assuefatti a sottometter tutto alle loro volontà, non goderebbe esso di quella libertà, che sola può formare i di lui successi.

Il commercio è d’altronde vantaggioso all’agricoltura: l’attività, ch'esso inspira, è il miglior mezzo d’incoraggire tutte le professioni laboriose. Esso pone in circolazione un gran numero di capitali; trova lo smercio delle derrate campestri, come d’ogni altra derrata; è utile dunque all’agricoltore ben lungi dall’essergli dannoso, ed abitua l’uomo ad occuparsi indefessamente, ed a scoprire in un attimo tutte le occasioni che si presentano di utilizzare. E così subitoché la mancanza di braccia per l’agricoltura diverrà sensibile, presentando i di lei prodotti un maggior lucro, i commercianti si faranno agricoltori.


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CAPITOLO XI

Della protezione accordata all'industria

«La Provvidenza volendo unir le nazioni, come gli uomini, cogli stretti vincoli de’ reciproci bisogni, ha dato a ciascheduna di esse qualche cosa di proprio e di particolare che la rende, per cosi dire, necessari alle altre.»

Lib. II, cap. XVI

Ritroviamo sempre Filangieri caduto nel medesimo errore, e sebbene questo derivi naturalmente da un solo principio (principio, di cui abbiamo già dimostrato la falsità), pure rivestendo esso tante diverse forme, siamo obbligati a seguirlo in tutte le sue metamorfosi, ed a combatterlo nuovamente. Quest'errore procede dal sistema, che il governo possa prendere ima parte attiva in tutti i rapporti particolari, e far leggi per comandare ed incoraggire le virtù e le cose utili, ugualmente che per proscrivere e perseguitare i delitti e le cose dannose.

Un tal errore, applicato all'industria, ha dei risultati molto strani.

Filangieri sembra persuaso che i governi possano farla sorgere, e possano proteggerla efficacemente. Egli in conseguenza suggerisce loro di far delle leggi e dei regolamenti per incoraggire l’industria, coi né se vi fossero migliori incoraggimenti della libertà, e, per conseguenza, dell’assoluta mancanza di leggi e dì Regolamenti.

Nella scienza delle leggi tutto è relativo, dice con tutta ragione Filangieri e ne conclude, che abbisognano diverse leggi per i diversi casi che si presentano relativamente all’industria. Ma precisamente per essere tutto relativo nelle leggi sull’industria, non ci vogliono esser leggi sull’industria. Per adattare delle leggi ad ogni circostanza, il legislatore farà molte leggi: o, colpito soltanto da alcune considerazioni rilevanti, farà poche leggi e queste generali. Se fa un gran numero di leggi, tormenterà l'industria con delle minuzie; rallenterà il moto di tutta la macchina ostruendone gl’ingegni con i suoi innumerevoli regolamenti: e che egli non si lusinghi per questo di prevedere tutti i casi e di regolare tutte le circostanze. Egli avrà un bell'indagare tutte le combinazioni possibili, ne accaderà sempre qualcuna non preveduta, prodotta da cagioni, ch’egli non avrà giudicate meritevoli della sua attenzione. E così non verrà a trarre alcun vantaggio dalle sue misure vessatorie. Se all’opposto egli fa poche leggi, ogni legge generale dovrà essere applicata a molte circostanze differenti, e queste differenze sfuggendo al legislatore, foss'egli pur sapientissimo, possono talvolta avere una grande influenza sopra operazioni importanti. Egli urterà dunque l’industria colle sue leggi generali, e le misure colle quali avrà creduto di dare incoraggimenti all’industria, oggetto delle sue inconsiderate cure., l’avranno anzi viepiù inceppata.

Ma, se delle leggi sull’industria potessero talvolta non essere dannose, esse per lo meno saranno sempre inutili.

«Tutti i paesi non sono adattati per la coltivazione (dice Filangieri). Ve n’ha di quelli, i di cui prodotti sono infinitamente inferiori a quanto esige il consumo interno. »

Quindi conclude «che le leggi, che dirigano le arti e le manifatture nei paesi agricoli, devono totalmente diversificare da quelle, che le dirigono nei paesi sterili. »

Meglio sarebbe lasciare agire la natura. Qual bisogno v’ha di leggi per sostenere ciò che la medesima irrevocabilmente tien saldo? In un paese, il di cui territorio è talmente ristretto che l’agricoltura non può bastare al consumo interno, voi non vedrete mai molte braccia dedicarsi all’agricoltura. Il numero dei coltivatori e necessariamente limita to dall’estensione del terreno, ed egli è un timore dei più puerili quello di veder sorpassato questo limite. Filangieri teme ancora che in un tal paese l’industria particolare non si rivolga a certe manifatture che esigono abbondanza di materie prime: si tranquilli pure chi concepisce, com'egli, simili timori. Per poco che questi fossero ragionevoli, sarebbe prima di tutto necessario, che andassero a ferire un oggetto possibile. Ora, può egli mai darsi, che in un paese sterile i manifattori impieghino troppe materie prime? dove si procurerebbero queste materie prime? Alla prima esperienza le farebbero rincarare, ed il solo rincaramento basterebbe a distoglierli dai loro progetti. Qual bisogno v'ha di leggi per secondare l’andamento della natura, sì semplice in questa circostanza? Si reputa sempre cosa utile il crear delle leggi per frastornare dei tentativi, che la natura proibisce in un modo assoluto. La natura è più forte delle vostre leggi. Invano tentereste voi di annientare un’industria, ch'essa seconderebbe, o di stabilire un’industria ch'essa proscrive.

Filangieri, cadendo sempre nel medesimo; errore, suggerisce ai governi d’incoraggire i prodotti particolari dei loro stati. Qual bisogno v’ha mai di quest'incoraggimento? Se il territorio somministra alcun prodotto, di cui i forestieri manchino; se questo prodotto conviene ai forestieri, le loro domande si moltiplicheranno, e l’industria si rivolgerà necessariamente verso quel dato prodotto, perché: da questo appunto ritrarrà essa più sicuri profitti. Non si produce mai, se non se per vendere; e siccome dal fatto impara, e con gran prontezza, il venditore, se vende o non vende, la legge non ha alcun bisogno di avvertirlo; la sola cosa, che possa disordinare le produzioni, è l’intervenzione della legge. Coll’incoraggire tal produzione essa può richiamare a questa maggiori braccia che non abbisognano; può essa contemporaneamente recar pregiudizio a tal altra produzione; essa può prendere degli abbagli ed incoraggire talvolta un’industria poco vantaggiosa a spese d’un’altra industria che lo sarebbe di più. Finalmente siccome la dimanda varia e cambia d’oggetto, essa sarà di nocumento all’industria col far sempre fabbricare in numero eguale tal produzione, per la quale la dimanda sarà notabilmente diminuita. La parola stessa d’incoraggimento prova il vizio di questo sistema: se l’incoraggimento è necessario, ciò nasce dall’esservi perdita per la produzione; ed è evidente, che sarebbe dannoso l’incoraggire una tal produzione. Se v'ha guadagno, l’incoraggimento è inutile, la produzione porta seco il suo incoraggimento; delle leggi per supplirvi sarebbero superflue, ed in altri casi sarebbero perniciose. Simili leggi non possono avere che un solo effetto: questo si è di distogliere l'attenzione del produttore coll'allettamento della ricompensa, e d’impedirlo di giudicare con imparzialità della perdita o del guadagno della produzione.

«Le arti ed i mestieri hanno dunque bisogno della direzione segreta delle leggi» dice Filangieri.

Noi non lo crediamo autorizzato dalle sue declamazioni a concludere in tal modo. Crediamo piuttosto, che i ragionamenti con cui lo abbiamo, contraddetto, ci autorizzino a prendere delle conclusioni opposte. No, esse non hanno alcun bisogno della segreta influenza delle leggi, poiché l'influenza della natura è sufficiente; no, esse non hanno alcun bisogno della segreta influenza delle leggi, poiché, se quest'influenza vuol venir in ajuto delle leggi della natura, ella é superflua, e se vuol contrariarle é disastrosa. Filangieri stesso non tarda a riconoscerlo. Convien prima di tutto sopprimere ogni sorta di ostacoli, die’ egli; e riconosce che si deve cominciare dal riporr nel numero di questi ostacoli la prodigiosa quantità di leggi e di regolamenti, tendenti a prescrivere all'industria quali stradp deve percorrere. Allora egli dà un consiglio salutare; ma questo consiglio rientra nel nostro sistema, e distrugge compiutamente il suo. Una simile contradizione sorprende, e tanto più sorprende, ch'egli stesso non tarderà a dirci, che se l’autorità dà vita al genio, può ben proteggere anche le arti. L'autorità dà vita al genio! E dove mai Filangieri ha potuto attingere questa sentenza, ell'egli promulga come un fatto certo? Ci si citerà, secondo il solito, il secolo d’Augusto, o quello di Luigi XIV? Ma gli uomini sommi del secolo, d’Augusto appartenevano tutti alla repubblica, essi furono, per dir così, gli ultimi splendori ch'ella diffuse sul mondo, prima di spengersi per sempre. L'autorità de' di lui successori ha invano tentato di dar vita al genio. Per questo solo, per aver fatto cioè un simile tentativo, la sua sorgente erasi disseccata, né più risorgere. poteva. Il secolo di Luigi XIV, precursore del secolo della libertà, è dovuto al bisogno, che già manifestavasi, di questa nobile facoltà nessuno ormai ascrive più all’oro di Colbert la gloria dei grandi uomini, che, per la maggior parte, erano già ricoperti di gloria prima del suo ministero (40). Queste vecchie adulazioni non sono più in voga ai nostri tempi.. Del resto, devesi rendere questa giustizia a Filangieri: all’epoca e nel paese in cui scriveva, non poteva parlare diversamente. Era egli indubitatamente convinto, che l'influenza dei governi era nociva, ma non osava dirlo palesemente. E perciò vediamo, che quando parla della necessità dell’influente del governo, egli rimane nella sfera delle riflessioni generali e delle vaghe declamazioni; mentre, se trattasi di distruggere gli ostacoli frapposti dalle leggi alla prosperità dell" industria, scende ai più minuti fatti, combatte, per dir cosi, corpo a corpo ogni regolamento inutile, ed allora il suo stile, animato da una profonda convinzione, riflette un colore vivace ed un calor persuasivo, che non gli sono familiari.


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CAPITOLO XII

Nuova prova dall’errore sistematico di Filangieri

«Tale fa la sorte dell’Indie e della China, della Persia e dell’Egitto.»

Lib. Il, cap. XVI

Ritroviamo sempre in Filangieri quella stessa ammirazione pei popoli antichi e per i paesi lontani, che già eravamo stati costretti a combattere. La frase che serve di testo a questo capitolo, n’è forse uno dei più inconcepibili esempi.

Qual popolo ha mai sopportato un più umiliante dispotismo di quello, ch'è ridotto al servaggio da principi stranieri, per mezzo dell'infame supplizio della fustigazione; un dispotismo più assoluto, di un popolo, che vien governato in nome degli Dei da corporazioni sacerdotali; infine un dispotismo brutale e più insensato, di un popolo, che vien trascinato in terre estranee da un tiranno ridicolo, e che d'ordine del suo signore castiga gli elementi, per essere questi i soli ostacoli, che frappongonsi ai suoi voleri?

Il dire, che la China e l’Egitto hanno posseduto con i tesori della natura le più brillanti invenzioni delle arti, non è forse lo stesso che dare una mentita formale, non solo a tutte le tradizioni istoriche, ma eziandio ai nostri propri occhi?

No, non furono possessori delle più brillanti invenzioni delle arti quei popoli, tutta l'esistenza dei quali era anticipatamente regolata dalla volontà dei loro sacerdoti; ad essi veniva negata sin anche la facoltà di abbandonane la professione de' loro padri per un’altra più analoga al loro genio. Come avrebbero mai potuto far essi delle nobili ed utili scoperte?

No, non possedono le più brillanti invenzioni delle arti quei popoli, che non godono d’un'esistenza morale; essi ignorano per fino le arti, nel senso nobile di questo vocabolo, poiché limitando i loro desideri alla vita fisica, sono egualmente incapaci di entusiasmo e di piaceri intellettuali.

Giammai, all’opposto, le arti, ammirabile creazione di quanto v’ha di divino nella nostra natura, le arti, non quelle connesse colla conservazione fisica dell’esser nostro, ma quelle che sollevano il nostro spirito alla cognizione del bello, e ci offrono per godimento la sola idea della perfezione spogliata di ogni vantaggio materiale; le arti, la cui orma sfugge all’analisi; giammai, dico, le arti non hanno fatto minori progressi, e non sono restate in uno stato più imperfetto che in Egitto e alla China.

Gli Ezigiani sono pervenuti, è vero., molto sollecitamente ad un grado sublime nelle scoperte necessarie alla conservazione ed al miglioramento della vita fisica; si sono sempre però mantenuti mediocri e rozzi nelle arti propriamente dette. Nei lavori eziandio d’un’utilità comune, essi sono stati ben presto arrestati dal dispotismo sacerdotale.

Come potrebbe mai un popolo far dei progressi nelle scienze e nelle arti, allorché i preti se ne impadroniscono, come se si trattasse d’un monopolio? Appena gli si permette allora di divenir l’istrumento delle scoperte del sacerdozio; ogn’altra pretensione gli viene proibita. Si fa di lui una pura macchina; e se talvolta gli si accorda qualche abilità, essa è pur questa Fa perfezione d’una macchina) potendo benissimo associarsi quest’abilità ad una completa mancanza d’intelligenza. L’operajo, assuefatto da un lavoro pratico e continuato, a forbire l’acciaio, o a formarne delle catene, degli uncini, delle ruote, sarebbe tanto lontano dal comprendere l’ammirabile meccanismo dell’orologio, quanto lo sono i pezzi staccati usciti dalle sue mani, se gli si facesse un mistero dell’arte che li riunisce, e se gli s’imponesse la legge severa di prender costantemente parte ad un simile lavoro senza calcolarne il vantaggio.

Tal era in qualche sorte l’ordinamento delle classi laboriose in Egitto; e perciò non fecero esse. giammai scoperte veramente importanti. Si riconosce al dì d’oggi nella concorrenza una delle più grandi cagioni di perfezionamento. Si combattono con ragione le maestranze, le corporazioni, ed altri deboli ostacoli frapposti alla concorrenza, eppure si vantano enfaticamente quelli insormontabili, che la gelosia sacerdotale aveva creati onde ammorzare il genio inventore degli Egiziani; tanto le declamazioni acquistano forza, trapassando, di bocca in bocca, la serie dei secoli!

Rispetto alla China, che con tanta assurdità ci è stata proposta per modello, e di cui il solo Montesquieu ha portato retto giudizio, in mezzo agli elogi universali, egli è difficile di rendersi conto per qual singolar capriccio se ne sia fatto un oggetto di ammirazione. Cosa invero sorprendente! Degli amici della libertà hanno profuso il loro encomi ad un popolo insensibile alla più odiosa e più stomachevole oppressione. Degli uomini, pieni di entusiasmo per le scienze e per le arti, ci hanno augurato, in nome della ragione, la sorte d’un popolo, presso il quale la total mancanza d’ogni sentimento religioso e di qualunque idea generosa, combinata col meccanismo a cui si è dato il nome di civilizzazione, soffoga il germe d’ogni entusiasmo in noi connaturale, il germe cioè di tutti i successi nelle arti non meno che nelle scienze, egualmente che in qualunque altra cosa non dipendente da vane formalità; ed il filantropo Filangieri prende per testo de 'suoi panegirici, delle istituzioni che degradar no l’uomo e distruggono ciò che costituisce la di lui eccellenza.

Da quali sublimi prerogative vien mai dunque compensata una tanta degradazione? Quali importanti scoperte di. questa nazione comandano la nostra ammirazione? Sarebbe forse un’industria ma feriale non altrimenti inerente alla natura umana che quella di tale o tal altro animale, quella delle api o dei castori? Riguarderebbesi forse questo tristo vantaggio come un compenso proporzionato alla perdita di quanto v'ha di morale nell’uomo? Vorrebbesi innalzare il meccanismo dei nostri sensi al disopra della perfezione del nostro spirito!

La religione della China è ormai ridotta ad una pura formalità: ciò si confessa, eppure si resta estatici nel vedere, che questa formalità impone tuttavia qualche grado di rispetto. Si conviene, non esser più la medesima appoggiata sulla credenza, eppur si afferma essere un garante dei costumi. Bizzarro errore! poiché se. la. religione non è più fondata sulla credenza, la di lei caduta è ritardata soltanto dall’influenza del timore o dell'abitudine, ed in tal caso tanto sarebbe l’affidarsi a quest'influenza, e lasciarla operare direttamente sa i costumi, di quello che creare un nuovo ed inutile mediatore. La credenza rende migliori gli uomini, non già col timore dei supplizj, non coll’assuefarli a riti arbitrari, ma mediante il nobile rapporto, ch'essa stabilisce tra l'uomo e dei poteri superiori, più perfetti non meno che più forti di lui. Una religione, a cui più non si crede, non può mai esser utile; il rispetto che si esterna per lei è anzi, sotto un certo aspetto, un sintonia di degradazione. Esso annunzia io ir trionfo dell'abitudine sull'intelligenza, o una pericolosa e colpevole ipocrisia. Ma esaminiamo quali sieno i costumi di questi popoli, di cui pretendesi che la religione preservi i costumi.

Presso di loro, costumi e le virtù, ugualmente che la religione, sono mere formalità apparenti; nessuno dei loro rapporti ha un fondamento di morale! essi son contenti dell’apparenza, a cui si dà il nome di ordine. Se taluno si allontana da quest'ordine, i supplizj lo forzano a rientrarvi; sdegnasi d'istituire un'influenza più sublime. È vero che l'uniformità del governo, fermamente assodata sulla stupidezza di questo popolo, rassomiglia all'ordine, perchè è priva di moto; è vero, che tutto si muove ad un semplice cenno, emanato dalla volontà di un solo; è vero, che in mezzo alle rivoluzioni ed che conquiste, questo popolo educato ad una tanto passiva obbedienza è pronto a prestarla a chiunque vi affaccia delle pretese, è che in tal modo il suo carattere non cambia; ma tutto ciò accade, perché non fa alcun progresso. Finalmente, è vero che un tale ordine di cose deve Sembrar maraviglioso ai tiranni, che ne approfittano; ma non sapremmo comprendere come abbia esso potuto meritarsi gli elogi d’illuminati ed indipendenti filosofi. Se tale è la perfezione che ci si propone per modello, meglio forse sarebbe la rozzezza delle primitive età, q anche l’assoluta mancanza di civilizzazione.


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CAPITOLO XIII

Dell’istituzione dei giurati e maestri delle arti

«I maggiori ostacoli che si oppongono a' progressi delle arti e delle manifatture, sono tutti quegli stabilimenti, tutte quelle leggi, che tendono a diminuire la a concorrenza degli artefici.... Tali sono prima d’ogni altro i dritti di maestranza, o sieno le matricole.»

Lib. II, cap. XVI

Troppi scrittori prima di noi hanno biasimato con forza le istituzioni de’ giurati, maestri ed allievi nelle arti, onde essere noi obbligati ad entrare diffusamente nelle particolarità di tal soggetto. I tirocini impediscono gl'individui di esercitare tale o tal altro mestiere: le corporazioni di giurati, e maestri delle arti, sono associazioni, che determinano il numero dei loro propri membri, e quali condizioni si richiedano per esservi ammessi. Simili istituzioni sono privilegi della specie la più iniqua ed assurda; la più iniqua, perché non permettesi all'individuo il lavoro che lo preserva dal delitto, se non che a piacimento altrui, e perché una delle condizioni dei tirocini si è quella di pagare per essere aggregato ad un mestiere, in modo tale che vengono ad essere esclusi dal lavoro quelli per l’appunto, in cui è maggiore il bisogno di lavorare; la più assurda, perché con il pretesto del perfezionamento dei mestieri, si frappongono degli ostacoli alla concorrenza, il più sicuro movente del perfezionamento, e perché col determinare il numero degli uomini che devono esercitare ciascuna professione, si resta esposti a non averne un numero proporzionato ai bisogni dei consumatori. Infatti ve ne. può esser di troppo, oppure troppo pochi. Se troppi ve n’ha, gli addetti a questa professione non potendo abbracciarne un' altra lavorano a discapito, o non lavorano punto, e cadono in miseria; se ve n ha troppo pochi, il prezzo del lavoro cresce a seconda dell'avidità di questi lavoranti.

L'interesse dei compratori è un garante ben più sicuro della bontà delle produzioni, di quello lo siano dei regolamenti arbitrari, quali emanando da una autorità, che necessariamente confonde tutti gli oggetti, non distingue i diversi mestieri, e prescrive un tirocinio egualmente lungo per i più facili, che per i più difficili. E invero un bizzarro pensamento il credere che il pubblico sia cattivo giudice degli artigiani da esso impiegati, e che il governo, che ha tanti altri affari, conoscerà meglio di questi le precauzioni che convien prendere per apprezzare il loro merito. Non rimane al governo altro espediente che quello di rapportarsi a coloro medesimi, che formando un corpo nello stato, hanno un interesse diverso da quello della massa del popolo, e che, sforzandosi da un lato a diminuire il numero dei produttori, e dall'altro a maggiormente elevare il prezzo dei prodotti, li rendono ad un tempo più cari e più imperfetti. I tirocini sono oppressivi per i consumatori, perché col diminuire il numero dei lavoranti, fanno rincarare il prezzo del lavoro: sono dunque vessanti per il povero, e costano al ricco un aumento di prezzo.

Noi facciamo nondimeno un'eccezione alle nostre osservazioni in riguardo alla libertà del commercio, a favore delle professioni che interessano la sicurezza pubblica, cioè, gli architetti, perché la poca solidità di una casa minaccia tutti i cittadini; i medici, i farmacisti, i di cui consigli e droghe possono compromettere la vita dei cittadini; i notari, ecc. In quanto alle altre professioni, l'esperienza da per tutto ha condannato questa mania di regolamenti. Le città dell'Inghilterra ove l'industria è più attiva, che in un tempo brevissimo si sono dilatate più delle altre, ed ove il lavoro è stato spinto al più alto grado di perfezione, sono quelle, in cui niuno è privilegiato (41), e ove non esiste corporazione veruna (42).

L'Inghilterra, ad onta del suo sistema proibitivo, fu sempre intesa a render libera l’industria. I tirocini sono stati ristretti a' mestieri esistenti all’epoca dello statuto di Elisabetta, che gli stabilì, ed i tribunali hanno ammesse le più sottili distinzioni, dirette ad esentare da questi statuti il maggior numero possibile di mestieri. È necessario, per esempio, aver fatto il tirocinio per costruire dei carri e non per costruire delle carrozze.

E facciasi qui attenzione, come la libertà, e come la semplice deficienza di leggi, mettano ordine a tutto. Le associazioni d'individui addetti ai diversi mestieri, sono ordinariamente altrettante leghe a danno del pubblico. Se ne conchiuderà dunque, che conviene opporsi a queste associazioni con leggi proibitive? No, in verun conto. Col proibirle, l'autorità condannerebbe se stessa a delle vessazioni, ad una sorveglianza, a delle pene, che trarrebbero seco loro gravi inconvenienti: basta che la società non sanzioni simili associazioni, ch'ella non riconosca in queste il dritto di limitare il numero degli esercenti tale o tal altra professione: con ciò soltanto verrà a cessare lo scopo di queste associazioni. Se venti individui d'un dato mestiere vogliono collegarsi per portare ad un limite troppo elevato il prezzo del loro lavoro, altri si presenteranno per fare il medesimo lavoro a migliori condizioni, ed i primi saranno costretti dallo stesso loro interesse a cedere.

Nulla avrei da aggiungere a questi ragionamenti, se non sapessi che i motivi pubblicamente addotti in favore degli abusi, altro per lo più non sono, che meri tentativi per sedurre e disarmar l'opinione. La confutazione di questi argomenti, la di cui debolezza è riconosciuta da quei medesimi che ne fanno uso, è dunque d’un utile subalterno. Sono però i calcoli segreti, che importa di combattere; sono gl'interessi occulti, cui fa d'uopo rendere la tranquillità.

Nel caso attuale, i difensori delle maestranze, delle patenti di giurati, dei tirocini, sono in fondo indifferentissimi al perfezionamento dei mestieri, e poco o nulla valutano l'interesse dei consumatori, quali pretendono di premunire dalle male eseguite o fraudolenti fabbricazioni. Ciò che li rende affezionati a queste ormai rancide istituzioni, si è l'immaginar ch'essi fanno, di poter per esse trovar dei mezzi di polizia e di sorveglianza sulla classe degli artigiani, classe sempre temuta, perché più o meno sempre composta d'infelici.

Ad oggetto di risponder loro, prendendo per base i medesimi timori su cui è fondata la loro logica, timori che negano al loro egoismo l'accesso della verità, io citerò loro uno scrittore che occupa un posto distinto tra quelli che hanno meglio degli altri e con maggiore acutezza sviluppate le questioni della politica economia.

«Ignorasi forse, che se i capi maestri assoggettati alla polizia locale possono ritener nei limiti del dovere i lavoranti, possono altresì eccitarli al sollevamento ed alla sedizione, quando ciò si rende importante pei loro interessi, o convenevole alle loro opinioni? Quante volte non è accaduto, che i capi maestri abbiano opposto una valida resistenza alle mire dei governi i meglio intenzionati ed i più illuminati? Quante mai sommosse non hanno avuto origine dalla seduzione o dalla corruzione dei capi maestri? I governi ben consapevoli della loro forza e del loro potere, non devono più rimanersene tranquilli sull'interesse incostante e vario della classe dei lavoranti. L’interesse generale della nazione, sempre certo, sempre immutabile, offre loro un più solido ed inconcusso punto d'appoggio.» Galnith, dei Sistemi d(})economia politica, I, 233, 234.

Una vessazione viepiù ributtante, per essere più diretta e meno travestita, si è la tassazione del prezzo delle giornate di lavoro (43). Questa tassazione, dice Smith, si è il sacrifizio, che fa il maggiore al minor numero. Aggiungeremo, esser questo il sacrifizio della parte indigente alla parte ricca, della parte laboriosa alla parte comoda, almeno proporzionatamente, della parte che già soffre a cagione delle dure leggi della società, a quella parte già favoreggiata dalla sorte e dalle instituzioni. Non sapremmo figurarci senza esserne commossi questa lotta della miseria contro l'avarizia, nella quale il povero, già stimolato dalle sue necessità e da quelle della sua famiglia, non fondando le sue speranze che nel suo lavoro, impossibilitato ad aspettare un istante senza veder esposta la sua stessa esistenza e quella de' suoi, trova il ricco, non solo forte per la sua opulenza e per la facoltà che ha di ridurre il suo avversario ricusandogli quel lavoro, in cui consiste l'unica sua risorsa, ma armato inoltre di leggi vessanti, che determinano i salarj, senza riguardo alle circostanze, all'abilità, allo zelo del lavorante; e non ci diamo già a credere, che una simile tassazione sia necessaria per reprimere pretese esorbitanti, e rincaramento d'opera: la povertà è discreta nelle sue dimande. Il lavorante non ha egli forse dietro a se la fame che Io stimola, che gli lascia appena un istante per discutere i suoi dritti, e che già non lo dispone che troppo a vendere il suo tempo e le sue forze al di sotto della loro valuta? La concorrenza non diminuisce forse le mercedi al più basso limite compatibile colla sussistenza fisica? Presso gli Ateniesi ugualmente che tra noi, il salario d’un lavorante equivaleva al nutrimento di quattro persone; che bisogno v'ha dunque di regolamenti, allorché la natura delle cose detta la legge, senza vessare e senza far violenza ad alcuno?

La tassazione del prezzo delle giornate, sì funesta all'individuo, non ridonda in verun conto a vantaggio del pubblico. Fra il pubblico ed il lavorante sorge una classe spietata, quella dei capi d’arte: paga essa quanto sia meno possibile, e dimanda il più che può; e così profitta ad un tempo, e sola, dei bisogni della classe laboriosa e dei bisogni della classe comoda. Bizzarra complicazione delle istituzioni sociali! Esiste un’eterna cagione d’equilibrio tra il prezzo ed il valor del lavoro, una cagione che opera senza violenza, ed in modo tale che tutti i calcoli sieno ragionevoli e tutti gl’interessi soddisfatti. Questa cagione è la concorrenza, eppur respingere la si vuole! Si osta alla concorrenza con degl’ingiusti regolamenti; e si vuole quindi ristabilir l’equilibrio con altri regolamenti non meno ingiusti, che convien poi far osservare per mezzo di castighi e di rigori!


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CAPITOLO XIV

Dei privilegi in materie industriali

« I disastri che ha sofferti la Compagnia dell'Indie in questo secolo, sono troppo noti.»

Lib, II, cap. XXI

Cosa è mai un privilegio in materie industriali? È l’impiego della forza del corpo sociale per rivolgere a benefizio di pochi quei vantaggi, che per il fine stesso della società devono esser garantiti a tutti. Queste ciò che faceva l’Inghilterra, allorché prima della riunione dell’Irlanda a questo regno, proibiva agl’Irlandesi quasi tutti i generi di commercio estero, ed è ciò ch'ella fa al dì d’oggi, allorché proibisce a tutti gl’inglesi di fare alle indie un commercio indipendente dalla Compagnia, che si è resa padrona di questo sì vasto monopolio; ed è quello che facevano i cittadini di Zurigo prima della rivoluzione della Svizzera, astringendo gli abitanti delle campagne a non vendere che ad essi soli quasi tutte le loro derrate e tutti gli oggetti che fabbricavano.

Avvi qui manifesta ingiustizia di principio. V’ ha forse qualche vantaggio nella, sua applicazione? Se il privilegio è la porzione riservata ad un piccol numero, v'è indubitatamente del vantaggio per questo piccol numero; ma questo vantaggio è del genere di quelli che vanno uniti ad ogni spogliazione. Non è già quello, che si prende di mira, o almeno che si confessa prendersi di mira. V’ha utilità nazionale? No, senza dubbio; giacché, primieramente, il molto maggior numero dei nazionali resta escluso dal benefizio. V'ha dunque perdita senza alcun compenso per questo maggior numero. Secondariamente, quel ramo d'industria e di commercio che è l’oggetto del privilegio, viene coltivato con maggior negligenza e con minore economia da individui, i di cui lucri vengono assicurati dal solo effetto del monopolio, di quello che lo sarebbe, se la concorrenza obbligasse tutti i rivali a superarsi a gara coll’attività e colla destrezza. In tal modo la ricchezza nazionale non ritira da quest'industria tutto il partito che potrebbe trarne. V’ha dunque perdita relativa per l’intiera nazione. Finalmente i mezzi, quali deve mettere in opera l’autorità per mantenere il privilegio, e per respingere dalla concorrenza gl’individui non privilegiati, sono inevitabilmente oppressivi e vessanti. V’ha dunque di più per l’intiera nazione: la perdita di libertà. Ed ecco tre perdile reali, che questo genere di proibizioni trae seco, e la compensazione di queste perdile è riservata ad un pugno di privilegiati.

La scusa volgare onde pretendesi giustificare i privilegi, si è l’insufficienza dei mezzi individuali e l’utilità d’incoraggire delle associazioni che a questa suppliscono. Ma si esagera di molto quest’insufficienza, e non si esagera meno questa necessità (44).

Se i mezzi individuali sono insufficienti, alcuni individui forse si rovineranno, ma uno scarso numero di esempi aprirà gli occhi di tutti i cittadini, é poche disgrazie particolari sono pur da preferirsi a quella massa incalcolabile di danni e di corruzione pubblica, che viene introdotta dai privilegi. Se lo Stato volesse invigilare sugl'individui in tutte le operazioni, colle quali essi possono scambievolmente danneggiarsi, perverrebbe a ristringere la libertà di quasi tutte le azioni; ed una volta erettosi in tutore dei cittadini, non tarderebbe a divenire il loro tiranno. Se le associazioni sononecessarié per un ramo d'industria o di commercio lontano, le associazioni si formeranno da per loro stesse, né avranno gl'individui ad entrare in gara colle medesime, anzi procureranno di farne parte per dividerne gli utili; che se poi le associazioni esistenti vi si rifiutano, voi vedrete sorgere delle nuove associazioni, e l'industria rivale acquistarne nuova attività: che il governo dunque intervenga soltanto per conservare e alle associazioni ed agl'individui i loro dritti respettivi, e questi nei limiti della giustizia; la libertà s'incarica del rimanente, e se ne incarica con successo.

Egli è d'altronde un grave errore il considerare le compagnie commerciali come per loro natura vantaggiose. Ogni compagnia potente (dice un autore versato in queste materie), anche facendo il commercio in concorso co' particolari, li rovina primieramente col diminuire i prezzi delle mercanzie; e rovinati i particolari, questa compagnia, che sola o quasi sola fa il commercio, rovina la nazione facendo aumentare i prezzi; quindi i di lei eccessivi guadagni ispirando ai suoi agenti una condotta negligente, essa rovina se medesima. Rilevasi in Smith, lib. V, capit. I, da numerosi ed incontrastabili esempi, che quanto più le compagnie inglesi sono state esclusive, investite di privilegi importanti, ricche e potenti, a tanti più inconvenienti sono andate soggette durante il periodo della loro esistenza, e più ebbero esito infausto; mentre le sole che abbian prosperato o si sieno sostenute, sono le compagnie limitate ad un modico capitale, composte di pochi associati, impiegando pochi ministri, vale a dire, accostandosi il più che potevano, colla loro amministrazione e coloro mezzi, al metodo delle associazioni private. L'abate Morellet contava nel 1780 cinquantacinque compagnie munite di privilegi esclusivi nei paesi d'Europa, e che dall’epoca del 1600, in cui furono stabilite, avevano tutte finito per far bancarotta. Accade delle compagnie potenti lo stesso che di tutte le forze troppo grandi, e lo stesso che degli stati troppo estesi, che cominciano dal divorare i loro vicini, quindi i loro sudditi, e finiscono con distruggere loro stessi.

La sola circostanza che renda plausibile l’ammissione duna compagnia, si è quella, in cui degl'individui formino una società per fondare, a loro risici e pericoli, un nuovo ramo di commercio con popoli barbari, e lontani. In compenso dei pericoli, ch'essi affrontano, può allora lo stato accordar loro un monopolio di pochi anni; ma spirato il termine il monopolio dev'essere soppresso, ed il commercio deve ritornare nella sua libertà.

Possono bensì citarsi dei fatti isolati in favore dei privilegi; e questi fatti sembrano maggiormente concludenti, inquantoché non si vede mai ciò che sarebbe accaduto, se simili privilegi non fossero esistiti. Io però sostengo, primieramente, che comprendendo tra gli elementi il tempo, quale invano si cerca di escludere, e non abbandonandosi ad un’impazienza puerile, la libertà finirebbe sempre col produrre, senza miscuglio di alcun male, il medesimo bene, che, al prezzo di molti mali, si tenta di forzatamente ottenere coi privilegi; e secondariamente dichiaro, che se esistesse una branca d'industria, quale non fosse possibile di coltivare senza l'introduzione dei privilegi, sì grandi inconvenienti ne risulterebbero per la morale e per la libertà d’una nazione, che nessun vantaggio varrebbe a compensarli.


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CAPITOLO XV

Delle imposizioni

«Dovunque vi è società, vi deve essere un corpo che la governi nell'interno, e che la difenda al di fuori. Questa doppia cura esige delle spese che debbono essere pagate dalla società che ne profitta.»

Lib. II, cap. XXVII

Spettando all'autorità il provvedere all’interna difesa, ed all’esterna sicurezza dello stato, ha la medesima il dritto di domandare agl’individui il sacrifizio d’ima porzione della loro proprietà, per sovvenire alle spese, necessarie all’adempimento di questi stessi doveri.

Gli amministrati hanno dal canto loro il dritto di esigere dall’autorità, che la somma delle imposte non ecceda il limite necessario al fine per cui è destinata. Questa condizione non può verificarsi, che mediante un ordinamento politico, che ponga dei limiti alle dimande, e conseguentemente alla profusione e all’avidità dei governanti. Si trovano le vestigia di un simile ordinamento nelle istituzioni delle meno limitate monarchie, come sono la maggior parte dei principati in Germania, o gli Stati ereditari della Casa d’Austria, ed il principio n’è solennemente riconosciuto dalla costituzione francese.

Le particolarità di quest'ordinamento non sono di nostra sfera. Una sola osservazione però non ci sembra tale da dover esser trasandata.

Il dritto di dare il consenso alle imposizioni può considerarsi sotto due aspetti: come limite al potere, e còme mezzo di economia. Si è detto mille volte, che un governo non potendo far la guerra, e né tampoco sussistere internamente, se non si fosse sovvenuto alle sue spese necessarie, il rifiuto delle imposizioni era nelle mani del popolo o de' suoi rappresentanti un'arme efficace, e che impiegandola con coraggio, essi potevano forzare il governo, non solo a restare in pace co( 4) suoi vicini, ma a rispettare altresì la libertà degli amministrati. Ragionando in tal guisa si dimentica che ciò che sembra a primo aspetto decisivo in teoria, diviene spesso impossibile in pratica. Allorché il governo ha intrapreso una guerra, fosse pur questa ingiusta, il contrastargli i mezzi di sostenerla non sarebbe un punire esso solo, ma ancora la nazione, non partecipe de' di lui errori. Altrettanto dicasi del rifiuto delle imposizioni per prevaricazioni o vessazioni interne. Il governo si permette degli atti arbitrarj: il còrpo legislativo crede di disarmarlo col non decretare alcuna contribuzione. Ma nel supporre, ciò ch'è difficile, che in questa crisi estrema tutto accada costituzionalmente, sopra chi ricaderà una tanta lotta? Il potere esecutivo troverà delle risorse momentanee nella sua influenza, nei fondi messi antecedentemente a sua disposizione, nelle anticipazioni, che otterrà da quelli, che, godendo de' suoi favori o anche delle sue ingiustizie, non vorranno la di lui distruzione, e di coloro anche, che, persuasi del di lui trionfo, speculeranno su i di lui momentanei bisogni. Le prime vittime saranno gl'impiegati subalterni, gl'impresari di qualunque descrizione, i creditori dello stato, e per consenso i creditori di tutti gl'individui appartenenti a queste diverse classi. Prima che il governo soccomba o ceda, tutte le fortune particolari saranno sconvolte. Ne risulterà un odio universale contro la rappresentanza nazionale. Il governo l'accuserà di tutte le privazioni personali dei cittadini. Questi ultimi non esamineranno il motivo della resistenza, e, senza occuparsi in mezzo alle loro sofferenze di questioni di dritto e di teoria, le faranno un rimprovero per i bisogni e le disavventure che gli opprimono.

Il dritto di ricusare le imposizioni non è dunque da per sé solo una sufficiente garantia a reprimere gli eccessi del potere esecutivo. Può considerarsi questo dritto come un mezzo amministrativo per migliorare la natura delle imposizioni, ovvero come un mezzo economico onde diminuirne la massa; ma convien che vi sieno molte altre prerogative, acciò le assemblee dei rappresentanti della nazione sieno in grado di proteggere la libertà. Una nazione può avere dei così detti rappresentanti, che sieno investiti di questo dritto illusorio, e può gemere nel tempo stesso sotto la più dura schiavitù. Se il corpo incaricato di queste funzioni non gode di molta considerazione e d'una grande indipendenza, diverrà l'agente del potere esecutivo, e l'assenso dal medesimo prestato altro non sarà, che una formula vana ed illusoria. A far sì che la libertà di decretare le imposizioni non sia una frivola cerimonia, fa d'uopo che la libertà politica esista nella sua integrità, del pari ell'è necessario, che nel corpo umano tutte le parti sieno sane e ben costituite, onde le funzioni d'una sola, si facciano in modo regolare e completo.

Un altro dritto degli amministrati in riguardo alle imposizioni si è, che la loro natura ed il modo di raccoglierle siano i meno gravosi possibili per i contribuenti, ch'essi non tendano né a vessarli, né a corromperli, e che con delle spese inutili non aprano l'adito a crearne delle nuove.

Da questo dritto risulta, che gli amministrati hanno quello di esigere che le imposizioni pesino egualmente sopra di tutti, in proporzione delle loro respettive fortune; che nulla d'incerto o di arbitrario esse lascino né nella quantità, né nel modo di raccoglierle; ch'esse non rendano sterile alcuna proprietà, o industria; che non cagionino altre spese, oltre quelle indispensabili alla loro colletta, e finalmente che vi sia nel loro riparto una certa stabilità.

Lo stabilimento d'una nuova imposizione produce sempre una scossa, che si comunica dalle branche sopra cui cade l'imposizione, a quelle stesse, che ne vanno esenti. Molte braccia e capitali rifluiscono verso quest'ultime per {sfuggire alla contribuzione, che minaccia le altre; il guadagno delle une diminuisce colle imposizioni; il guadagno delle altre, colla concorrenza. L'equilibrio non si ristabilisce che lentamente. Il cambiamento dunque, qualunque esso sia, è per un certo tempo doloroso.

Coll’applicar queste regole alle diverse specie di contribuzioni, si potrà giudicare di quelle che sono ammissibili, e di quelle che non lo sono.

Il soggetto di cui trattiamo, non comporta l'esame di tutte. Sceglieremo soltanto alcuni esempi, per dare un' idea della maniera di ragionare, che ci sembra migliore.

Varj uomini illuminati dell'ultimo secolo, hanno commendato l'imposizione territoriale, come la più naturale, la più semplice e la più giusta. Essi anzi hanno voluto farne l'imposizione unica. Il levar le imposizioni sulla sola terra è di fatto una cosa molto seducente, e che sembra riposare sopra una verità incontrastabile. La terra è la più manifesta e più durevole sorgente di ricchezze: perché mai dunque andar in traccia di vie indirette, artificiali, e complicate, in vece di andar dritto alla sorgente?

Che una simile dottrina non sia stata messa in pratica, è dovuto non tanto ai vizj, che si è creduto di osservare nell’imposizione territoriale, quanto alla convinzione in cui erasi che anche nel portarla al limite il più alto, non potevano ricavarsene le somme, che si volevano carpire al popolo. Si è dunque fatta la combinazione di altre contribuzioni con quella; ma nella più gran parte dei paesi europei, non ha la medesima cessato d’essere la più considerabile di tutte, ed in un certo modo, la base d’ogni sistema di finanze.

In tal guisa, rigettato il principio, non si sono rigettate, come avrebbero dovuto esserlo, tutte le conseguenze; ma. per conciliare la contradizione di un tal sistema, si è avuto ricorso ad una teoria, il di cui risultato era appresso a poco il medesimo di quello degli apologisti dell’imposizione territoriale. Pretendevano questi, che per ultimo tutte le imposizioni ricadevano sul suolo; taluni tra i loro comenti hanno sostenuto, che per ultimo erano tutte pagate dal consumatore; e siccome i primi affermavano, che le imposizioni passavano, per dir così, per la trafila dei consumatori per giungere sino alla terra, ne concludevano, che conveniva dal bel principio risparmiare ad esse questo circuito, e farle gravitare sul suolo; i secondi, immaginando che con opposto cammino le imposizioni posando unicamente sul suolo rimontavano ai consumatori, hanno stimato inutile di sollevarlo da un peso che esso in realtà non sopporterebbe.

Se si applicano all’imposizione territoriale le regole da noi già stabilite, esse ci condurranno a conclusioni molto diverse.

Non sussiste, per un lato, che tutte le imposizioni sulle consumazioni ricadano sul suolo. l’imposizione sulla posta delle lettere non è certamente sopportata dai proprietarj del suolo nella loro qualità di proprietarj. Un possidente di terreni, che non prende né tè, né tabacco, non paga nessuna porzione delle imposizioni di cui sono gravate queste derrate nell’atto della loro introduzione, del loro trasporto o della loro vendita. Le imposte sulle consumazioni non gravitano in nulla sulle classi, che né producono, né consumano l’oggetto imposto.

Egli è ugualmente insussistente, che l'imposizione sul suolo influisca sul prezzo della derrata, e ricada sul consumatore che ne fa acquisto. Ciò che determina il prezzo d’una derrata, non è sempre quello ch'essa costa per essere prodotta, bensì la dimanda, che ve n’ha. Allorché vi sono più dimando che prodotti, la derrata cresce di prezzo; diminuisce però, allorché i prodotti superano le dimande. Ora, l’imposizione sul suolo, allorché diminuisce la produzione, rovina il produttore; e quando non la diminuisce, non aumenta in nulla la dimanda. Eccone la prova.

Quando un’imposizione gravita su i terreni ne sieguono di due cose l’una, o l’imposizione assorbisce la totalità del prodotto netto, vale a dire, che la produzione della derrata viene a costare di più che non rende la sua vendita; allora la coltivazione viene per necessità abbandonata. Ma il produttore, che abbandona la sua coltivazione non profitta in conto alcuno della disproporzione che un simile abbandonamento può trarre seco tra la quantità delle dimande e quella della derrata, eh egli non produce più: o l’imposizione non assorbisce la totalità del prodotto netto, vale a dire, che la vendita della derrata rende anche dopo l'imposizione più del costo della di lei produzione: in tal caso il proprietario continua a coltivare. Allora però la quantità della produzione essendo dopo l'imposizione egualmente abbondante di prima, la proporzione tra il prodotto e la dimanda, rimane la medesima, ed il prezzo non potrebbe elevarsene.

L’imposizione territoriale gravita conseguentemente, checché possa dirsene, e continua sempre a gravitare sul proprietario del fondo. Il consumatore non ne paga alcuna porzione, a meno che per l’effetto dell'impoverimento del coltivatore, i prodotti della terra non diminuiscano al segno di esser cagione di carestia; una simile calamità però non può formare elemento di calcolo nel sistema delle contribuzioni.

L’imposizione territoriale, tal quale esiste in molti paesi, non è dunque conforme alla prima delle regole da noi stabilite. Non gravita ugualmente sopra di tutti, ma specialmente sopra una classe.

Secondariamente, quest’imposta, qualunque ne sia il suo relativo ammantare, rende sterile in un paese una porzione indeterminata di terre.

Vi sono delle terre che, a motivo del suolo o della situazione, nulla producono, e conseguentemente restano incolte. Ve n’ha di quelle, che danno soltanto il più meschino immaginabile prodotto, di poco superiore al nulla. Questa progressione, continua, crescendo, sino alle terre che danno il più gran prodotto possibile. Immaginatevi questa progressione come una serie numerica da 1 sino a 100, ovvero rappresentando come una particella di prodotto cosi piccola, che sia indivisibile. L’imposizione territoriale sottrae una porzione del prodotto di ciascuna di queste terre. Nell’immaginarselo il più basso possibile, non sarà però mai al di sotto di 1; conseguentemente tutte le terre che rendono soltanto 1, e che senza l’imposizione sarebbero state coltivate, sono collocate mediante l’imposizione nel numero delle non produttive, e poste nella classe delle terre che si lasciano incolte. Se l’imposizione si porta a 2, tutte le terre che rendono soltanto 2, sperimentano la stessa sorte, e così di seguito. In maniera che se l’imposizione fosse salita a 50, tutte le terre che danno un prodotto di 50 inclusivaruente, resterebbero incolte. Egli è dunque evidente, che quando l’imposizione cresce, essa toglie alla cultura una porzione di terre proporzionata al di lei aumento, e che la medesima diminuendo, le rende una porzione proporzionata al di lei ribasso. Se si rispondesse, che l’imposizione sulle terre non è fissa, ma proporzionale, non si risolverebbe con ciò la nostra obiezione. L’imposizione proporzionale gravita sul prodotto lordo. Ne risulta costantemente, che se voi fissate l’imposizione all’ottava parte del prodotto lordo, le terre che costano 9, per essere coltivate in modo da dare un prodotto come 10, divengono sterili per l’effetto dell’imposizione; se voi fissate l’imposizione al quarto, quelle che costano per dare un prodotto come io, lo divengono in egual modo, e così si dica del resto.

Che l'imposizione produca quest'effetto, è provato dalle precauzioni stesse dei governi. I più illuminati tra essi, come l’Inghilterra e l’Olanda, hanno esentato da qualunque imposizione le terre affittate al disotto d'una data valuta (45). I più violenti poi hanno assoggettato a confisca i terreni lasciati incolti dai proprietarj. Ma qual proprietario lascerebbe incolta la sua terra, se coltivandola vi avesse a guadagnare? Nessuno al certo, poiché il ricco stesso la darebbe in affitto o la cederebbe al povero. I terreni non restano incolti che per una delle ragioni sviluppate disopra, o per non essere essi suscettibili di produrre, ovvero perché l’imposizione assorbisce il prodotto, di cui sono suscettibili. In tal guisa i governi puniscono i particolari, del male ch'essi medesimi hanno loro cagionato. Questa legge di confisca, non meno odiosa che ingiusta, è nel tempo stesso ugualmente assurda che inutile; giacché, in qual si sia mani il governo faccia passare i terreni confiscati, se questi terreni dovranno rendere meno di quanto costa la loro coltivazione, potrà bea taluno intraprenderne la coltivazione, sicuramente però non la continuerà. Sotto questo secondo rapporto, r imposizione si allontana ancora da una delle condizioni necessarie acciò una contribuzione sia ammissibile, poiché essa rende sterile la proprietà nelle mani degl'individui.

In terzo luogo il pagamento dell’imposizione riposa sull’antivedimento del coltivatore, che per mettersi in istato di pagarla, deve anticipatamente mettere a risparmio delle somme assai forti. Ora, la classe laboriosa non è in conto alcuno dotata di tale antivedimento: essa non può contrastare continuamente colle tentazioni, che ad ogni momento l’assalgono. Quel tale, che ogni giorno pagherebbe alla spicciolata e quasi senz’avvedersene una porzione delle sue contribuzioni se questa venisse a confondersi con gli oggetti di suo abitual consumo, non accumulerà mai per un certo tempo la somma necessaria per pagarla in una sola volta. Il modo di raccogliere l'imposizione territoriale, quantunque semplice, non è dunque in conto alcuno facile; i mezzi di forza che conviene impiegare lo rendono dispendiosissimo. Sotto quest'ultimo aspetto, l’imposizione territoriale è viziosa, inquantoché per esigerla, necessitano delle spese, quali potrebbero risparmiarsi adottando un’altra specie di contribuzioni.

Non per questo però ne concludo, che convenga sopprimere l’imposta territoriale. Siccome v’ha delle imposizioni sugli oggetti di consumo, alle quali i proprietarj di terreni possono sottrarsi, egli è giusto ch'essi sopportino una porzione delle contribuzioni pubbliche nella loro qualità di proprietarj; ma siccome le altre classi della società non sopportano in conto alcuno l'imposizione territoriale, fa d’uopo che una simile imposizione non ecceda la proporzione che ricader deve su i proprietarj dei terreni. V’è dunque ingiustizia nel fare dell’imposizione territoriale l’imposizione unica, o anche l'imposizione principale.

Dicemmo poc'anzi, che l’imposizione sul suolo, spinta ad un certo grado, rende la proprietà sterile nelle mani dei di lei possessori. L’imposta sulle patenti colpisce di sterilità l’industria; essa toglie la libertà del lavoro, ed è questo un circolo vizioso, a dire il vero, ben ridicolo. Nulla può pagarsi senza lavorare, e l’autorità proibisce ai particolari il lavoro, a cui sono adatti, se prima non hanno pagato. L’imposizione sulle patenti è dunque un attentato contro i dritti degl’individui. Non solo la medesima carpisce loro una porzione dei loro benefizj, ma ne dissecca la sorgente, a meno che non possedano essi dei mezzi preesistenti onde soddisfarvi, lo che è una supposizione meramente gratuita.

Può nulladimeno esser tollerata quest'imposizione, se viene ristretta a professioni, che per loro stesse implicano un certo grado di comodi già posseduti da chi l’esercita. Questa è allora un’anticipazione, che l’individuo fa al governo, e di cui si rimborsa da per se stesso co’ profitti dell’industria; simile al mercante, che paga i dazj sulla derrata di cui fa traffico, li aggiunge quindi al prezzo di questa derrata medesima e li fa sopportare ai consumatori. Ma applicata a quei mestieri ai quali potrebbe dedicarsi l’indigenza, l’imposizione sulle patenti è d'un’iniquità ributante.

Le imposizioni indirette, o che gravitano sugli oggetti di consumo, si confondono co’ godimenti. Il consumatore, che le paga comprando ciò di cui abbisogna o ciò che gli è grato, assorto nel senso di piacere che procura a se stesso, non distingue la ripugnanza che ispira il pagamento dell’imposizione. Egli la paga soltanto quando gli conviene. Simili imposizioni si accomodano ai tempi, alle circostanze, alle facoltà, ai gusti di ognuno. Son esse talmente divise, che si rendono impercettibili; il medesimo peso, che senza pena sopportiamo allorché è ripartito sulla totalità del nostro corpo, diverrebbe intollerabile, se circoscritto fosse ad una sola parte. Il riparto delle imposizioni indirette si fa, per così dire, da per se stesso, facendosi per mezzo del consumo, il quale è volontario. Considerate sotto quest'aspetto, le imposizioni indirette non si oppongono in conto alcuno alle regole da noi stabilite; ma portano seco loro tre gravi inconvenienti. Il primo si è quello di potarsi moltiplicare sino all’infinito in una maniera quasi impercettibile; il secondo, che la colletta n’è difficile, vessante, e spesso origine di corruzione per più riguardi; il terzo, che danno l’essere ad un delitto artificiale, a quello cioè del contrabbando.

Il primo inconveniente ha il suo rimedio nell’autorità, che approva le imposizioni. Se voi supponete quest’autorità indipendente, saprà ben essa ostare al loro inutile accrescimento; se poi non la supponete indipendente, qualunque sia la natura dell’imposizione, non vi lusingate di poter limitare i sacrifizi che si esigeranno dal popolo. Egli resterà senza difesa a questo riguardo, dei pari che a molti altri.

Il secondo inconveniente è più difficile ad essere prevenuto. Trovo nulladimeno nel primo degl’inconvenienti, la prova che anche questo secondo può esserlo; giacché, se uno dei vizj delle imposizioni indirette si è quello di poter essere aumentate senza limite in una maniera quasi impercettibile, fa d’uopo che il loro modo di raccoglierle sia ordinato in guisa da non renderle insopportabili.

Rispetto al terzo, io sono meno che alcun altro, disposto ad attenuarlo. Ho detto più di una volta, che i doveri artificiali tendevano ad indurre gli uomini all'inosservanza dei doveri reali. Coloro che trasgrediscono le leggi relative al contrabbando, non tardano a trasgredire le altre relative al furto ed all'omicidio; non si trovano esposti a maggiori pericoli, e la loro coscienza si addomestica con lo stato di ribellione al potere sociale.

Se però vi si rifletta bene, si vedrà che la vera cagione del contrabbando non risiede tanto nelle imposizioni indirette, quanto nel sistema proibitivo. I governi mascherano talvolta le loro proibizioni dando a queste il colore di tasse.

Le imposizioni diventano nemiche dei dritti individuali, allorché per necessita autorizzano le vessazioni a danno dei cittadini. Tale è l'imposizione dell'alcavaia in Ispagna, per cui tutte le cose mobili ed immobili vanno soggette ai dritti di vendita, ogni qual volta queste cose passano da una all'altra mano.

Le imposizioni diventan pure nemiche dei dritti individuali, allorché vanno a ferire degli oggetti, quali è facil cosa sottrarre alla cognizione dell'autorità incaricata di raccoglierle. Applicando l'imposizione, sopra oggetti di facile sottrazione voi venite a render necessarie le visite, le perquisizioni; voi siete trascinato a comandare ai cittadini di divenire esploratori e delatori gli uni degli altri; voi ricompensate coloro che commettono simili disonorevoli azioni, e la vostra imposizione ricade nella classe delle inammissibili, perché il modo di raccoglierla pregiudica alla morale.

Altrettanto accade delle imposizioni gravose a segno da invitare alle frodi. La minore o maggiore possibilità di sottrarre un oggetto alla cognizione dell’autorità, si compone e della facilità materiale che può derivare dalla natura stessa dell’oggetto, e dell’utile che si ottiene col sottrarlo. Allorché questo è considerabile, può dividersi tra molte mani, e la cooperazione d’un maggior numero di agenti della frode, compensa la difficoltà fisica, sulla quale il fisco poteva affidarsi. Allorché l’oggetto su cui gravita l’imposizione non permette di eluderla in tal modo, l'imposizione presto o tardi annulla quella branca di commercio o quella specie di negozio, che ne risente il peso. Conviene allora rigettarla come cosa contraria ai dritti della proprietà o dell'industria.

Egli è evidente che gl’individui hanno il dritto di limitare il loro consumo in proporzione dei loro mezzi, o a seconda dei loro voleri, e di fare a meno di quegli oggetti, che non vogliono o non possono consumare. Conseguentemente, le imposizioni indirette divengono ingiuste, se in vece di farle gravitare sul consumo volontario, si dà ad esse per base il consumo forzato. Ciò che v’era d’odioso nella gabella, quale con tanta ridicolezza si è voluto confondere coll’imposizione sul sale, consisteva in ciò, che la medesima dava ordine ai cittadini di consumare una quantità determinata di questa derrata.

A volere stabilire un’imposizione sopra una derrata, non bisogna mai impedire all’industria, o alla proprietà particolare di poter produrre la derrata medesima, come facevasi per lo passato in qualche parte della Francia relativamente al sale, e come fassi in alcuni paesi dell’Europa in riguardo al tabacco. Ella è questa una manifesta violazione della proprietà; ella è un' ingiusta vessazione per l'industria. A far si che queste proibizioni siano osservate, fa d'uopo di comminare pene severe; ed infliggendole, diventano esse ributtanti, tanto per il loro rigore quanto per la loro estrema ingiustizia.

Le imposizioni indirette devono andare a ferire meno che si può le derrate di prima necessità, senza di che si dileguano in fumo tutti i loro vantaggi. Il consumo di simili derrate non è volontario; esso non piegasi alla situazione, né si proporziona più agli agj del consumatore.

Non sussiste, come pur troppo è sovente stato detto, che le tasse sulle derrate di prima necessità, motivando il rincaramento di queste stesse derrate, producano il rialzamento della mandopra; all'opposto, più care sono le derrate necessarie alla sussistenza, e più aumenta il bisogno di lavorare. La concorrenza di quelli che offrono il loro lavoro, eccede la proporzione di coloro che fanno lavorare, ed il lavoro cade ad un prezzo più basso, precisamente quando esso dovrebbe sostenersi ad un prezzo più alto, acciò i lavoranti potessero vivere. Le imposizioni sulle derrate di prima necessità producono l'effetto delle annate sterili e della carestia.

Avvi delle imposizioni, quali è facilissima cosa il raccogliere, e quali peraltro dovrebbero rigettarsi, per esser le medesime tendenti direttamente a corrompere e pervertire gli uomini. Nessuna imposizione, per esempio, pagasi con egual piacere di quella delle lotterie. Non fa di bisogno all'autorità alcuna forza coercitiva per assicurare a sé medesima l'incasso d’un tal contributo; ma le lotterie offrendo dei mezzi di fortuna indipendentemente dall'industria, dal lavoro, dalla sagacità, immergono il popolo in un genere di calcoli, che è l'origine dei più pericolosi disordini. L’adescamento degli eventi illude sull’improbabilità del successo; la modicità delle somme che si arrisicano è un invito ai reiterati tentativi. Quindi ne derivano il disordine, i dissesti, la rovina, i delitti. Le classi inferiori della società, vittime dei sogni seducenti da cui vengono inebriate, portano una mano delittuosa sulle altrui proprietà, lusingandosi che una favorevole combinazione permetterà loro di nascondere la colpa col risarcirla. Non v'ha alcuna considerazione fiscale, valevole a giustificare istituzioni, che a simili conseguenze conducano.

Ogni qual volta gl’individui hanno il dritto d’esigere, che il modo di raccogliere le imposizioni sia il men gravoso possibile per i contribuenti, necessariamente ne siegue che i governi non debbano adottare a questo riguardo un sistema d’amministrazione essenzialmente oppressivo e tirannico; intendo parlare del costume di dare in affitto le contribuzioni. Egli è questo un porre gli amministrati alla discrezione di pochi individui, che non hanno eguale interesse del governo a risparmiarli; egli è, un creare una classe d’uomini, che, investiti della forza delle leggi, e favoriti dall’autorità di cui fan sembiante di difender la causa, inventano giornalmente nuove vessazioni e non cessano d’implorare i più sanguinari espedienti. Gli appaltatori delle pubbliche gravezze sono, per così dire, in tutti i paesi i rappresentanti nati dell’ingiustizia e dell’oppressione. Di qualunque natura siano le imposizioni adottate in un paese, devono esse gravitare sulle rendite, e giammai intaccare i capitali, vale a dire, non devono togliere altro se non che una porzione dell’annuo prodotto, e rispettar sempre i valsenti accumulati anteriormente. Questi valsenti sono i soli mezzi di riproduzione, i soli alimenti del lavoro, le sole sorgenti dell’ubertà.

Questo principio, non valutato da tutti i governi e da buon numero di scrittori, può provarsi col mezzo dell’evidenza.

Se le imposizioni feriscono i capitali, in vece di andare a colpire unicamente le rendite, il risultato si è quello che i capitali vengono diminuiti ogni anno d’una somma uguale alle imposizioni che si levano. Con ciò solo la riproduzione annua viene ridotta in proporzione della diminuzione annua dei capitali. Questa diminuzione della riproduzione diminuendo le rendite nel mentre che l’imposizione resta fissa, viene a togliersi ogni anno una più forte, somma di capitali, e conseguentemente ogni anno si riproduce una minor somma di rendite. Questa duplice progressione va costantemente crescendo.

Supponete un possidente di beni di suolo, che voglia dar valore alle sue proprietà. Tre cose rendonsegli necessarie: il terreno, l'industria, ed il capitale. Se egli mancasse di terreno, il capitale e l'industria gli diverrebbero inutili (46); se non avesse industria, il suo capitale e il suo terreno sarebbero per lui improduttivi; se non avesse capitale, la sua industria sarebbe vana ed il suo terreno infecondo, giacché non potrebbe fare le anticipazioni indispensabili per la sua produzione; egli non possederebbe né istromenti aratori, né concimi, né semi, né bestiami: cose tutte delle quali si compone il suo capitale. Qualsivoglia di questi tre oggetti voi dunque andate a ferire, impoverite ugualmente il contribuente. Se in vece di togliergli ogni anno una porzione del suo capitale voi gli portaste via una porzione di terreno equivalente a una determinata somma, che ne risulterebbe egli, che portandogli via nell'anno successivo la medesima porzione di terreno, voi lo privereste d'una porzione della sua proprietà relativamente più grande, e così di seguito, sino a ch'egli si trovasse intieramente spogliato. Altrettanto si verifica allorché voi gravate i suoi capitali; l’effetto è meno sensibile, ma non meno infallibile.

Il capitale è per ogni individuo, qualunque siasi la sua professione, ciò che è l’aratro per il campagnuolo. Ora, se voi togliete al campagnuolo un sacco di grano testé da lui raccolto, ei si rimette al lavoro, e l’anno seguente ne produce un altro; ma se voi gli prendete il suo aratro, ei non è più in grado di produrre del grano.

E non credasi già che l'economia dei particolari riparar possa ad un simile inconveniente, creando nuovamente dei capitali. Gravando i capitali, si viene a diminuire la rendita dei particolari; poiché si tolgon loro i mezzi riproduttivi di questa stessa rendita. Su quale oggetto pretendesi di far cadere le loro economie?

Neppur mi si dica che i capitali si riproducono. I capitali non sono che valsenti, presi gradatamente alla rendita; ma più il capitale è ridotto, più la rendita è minore; meno dunque si verifica l’accumulazione, meno possono riprodursi i capitali.

Il governo che grava i capitali, prepara dunque la rovina degl’individui. Egli carpisce grado a grado la loro proprietà. Ma essendo la garanzia di questa proprietà uno dei doveri del governo, egli è manifesto che gl’individui hanno il dritto di reclamare questa garantia contro un sistema di contribuzioni, il di cui risultato fosse in opposizione con questo scopo.

Proveremo ora, che l’interesse dello stato, in fatto d’imposizione, trovasi d’accordo con i dritti degl’individui, poiché infelicemente non basta indicare ciò che è giusto, fa d'uopo inoltre il convincere il potere, che ciò ch'è giusto è anche utile.

Abbiamo dimostrato essere iniqua l’imposizione territoriale, allorché questa eccedeva il limite necessario per far sopportare ai proprietarj del suolo fa loro proporzione nel pagamento delle contribuzioni. L’imposizione medesima è dannosa al governo e per l’eccessiva spesa ch'esige il raccoglierla, e per i cattivi effetti che ne ridondano sull’agricoltura. Ritiene essa nella povertà il maggior numero dei componenti la classe agricola; astringe ad una sterile attività una quantità di braccia, che ad altro non sono impiegate che alla di lei colletta; assorbisce dei capitali, che, nulla producendo, son tolti alla ricchezza particolare, e son perduti per la ricchezza pubblica. Le spese compulsive che si fanno, le innumerevoli guardie sedentarie, la forza armata distribuita nelle campagne all’effetto d'incassare le tasse arretrate, devono averci convinti di queste verità. É stato avverato, che il levare 250 milioni di gravezze in tal guisa, trascinava seco, 50 milioni di spese di compulsione. Conseguentemente, la più Celebre delle nazioni per l’abilità sua nell'amministrar le finanze, lungi dal fare dell’imposizione territoriale la base de' suoi proventi, non la spinge, al più, che sino al dodicesimo dell’imposizione totale. Abbiamo condannata come attentatoria ai sacri dritti del lavoro, l'imposizione sulle patenti, applicata a quei mestieri che il povero potrebbe esercitare; e quest’imposizione in tal guisa sistemata è una delle meno facili a raccogliersi, ed una di quelle, che trascinano seco loro una più gran quantità di inesigenze, vale a dire, immense perdite per il tesoro pubblico.

Abbiamo detto, che le imposizioni divengono mimiche dei dritti individuali, se autorizzano delle vessanti perquisizioni; abbiamo addotto l'esempio dell’alcavaia di Spagna, imposizione che assoggettava ad un dritto ogni vendita di qual si fosse oggetto mobile, od immobile. Don Ustaritz la riguarda come cagione della decadenza delle finanze spagnuole.

Abbiamo rigettate le contribuzioni provocatrici delle frodi. V’ha egli necessità di provare sino a qual grado sia funesta una simile lotta tra il potere ed i cittadini? E non vedesi al primo colpo d'occhio, esser la medesima rovinosa anche sotto il rapporto delle finanze? Abbiamo aggiunto, che, quando le imposizioni annientavano colla loro eccessiva gravezza una branca di commercio, quest'era un attentato contro l’industria. La Spagna è stata punita per un simile attentato. Molte delle sue miniere al Perù restavano senza essere scavate, perché la tassa dovuta al re assorbiva la totalità del prodotto de’ proprietarj: era questo un doppio danno per il fisco e pei particolari.

Abbiamo condannate le lotterie, quantunque siano esse di facile colletta, per essere il loro effetto tale da corrompere il popolo; i governi medesimi però portano la pena di tal corruttela. Primieramente, il male cagionato dalle lotterie all’industria, diminuisce la riproduzione, ed in conseguenza, la ricchezza nazionale; secondariamente, i delitti, che per cagion loro commette la classe laboriosa, mettendo da banda qualunque considerazione morale e riguardandoli soltanto sotto i rapporti fiscali, cagionano una spesa pubblica; in terzo luogo, gli agenti subalterni si lasciano sedurre dall’allettamento delle lotterie, e ciò si fa a spese del governo. In un solo anno, sotto il direttorio, vi furono dodici milioni di perdita nei fallimenti di collettori di contribuzioni; e fu avverato, che la lotteria aveva rovinato i due terzi di questi collettori. Finalmente il raccogliere una simile imposizione, per facile che sia, non pertanto è meno costoso. Affinché le lotterie rendano, fa di mestieri moltiplicare le tentazioni; per moltiplicare le tentazioni convien moltiplicare le ricevitorie, quindi le grandi spese di colletta. Nel tempo del Sig. Necker il provento delle lotterie era di 11,500,000 franchi, e le spese di colletta 2,400,000 franchi, vale a dire il 21 per cento; talmente che l'imposizione la più immorale era nel tempo stesso quella che più costava allo stato.

Abbiamo stabilito in ultimo luogo, che le imposizioni devono gravitare soltanto sulle rendite. Allorché esse intaccano i capitali, i particolari sono rovinati i primi, ma poscia è rovinato il governo. La ragione n’è semplice.

Tutti coloro che hanno qualche nozione di economia politica sanno che le consumazioni si dividono in due classi, produttive cioè ed improduttive. Le prime, son quelle, che creano qualcosa che ha un valore; le seconde, quelle che nulla creano. Una foresta che si abbatte per costruire dei vascelli o una città, è consumata ugualmente che una foresta divorata da un incendio; nel primo caso però la flotta, o la città che si è costruita, tien luogo, e con profitto, della scomparsa foresta nel secondo, non ci restano che ceneri.

Le consumazioni improduttive possono essere necessarie. Ogni individuo consacra al suo nutrimento una porzione della sua rendita. È questa una consumazione improduttiva, ma indispensabile. Uno stato in guerra con i suoi vicini consuma una porzione della fortuna pubblica, per sovvenire alla sussistenza delle armate, e per somministrar loro delle munizioni da guerra per l’attacco e per la difesa; non perciò sarà questa una consumazione inutile ancorché improduttiva. Ma se le consumazioni improduttive son di sovente necessarie all’esistenza, o alla sicurezza degl’individui e delle nazioni, non vi sono peraltro che le consumazioni produttive, che possano accrescere le ricchezze degli uni e delle altre. Ciò che viene consumato senza essere riprodotto è sempre una scusabile e legittima perdita, allorché la necessità lo esige; ella è stolta ed inescusabile quando non è giustificata dal bisogno.

Il numerario che si è introdotto tra i produttori, come mezzo di permute, è servito a spargere qualche oscurità in una simile questione. Siccome il numerario si consuma senza annientarsi, si è creduto che comunque impiegato, le cose resterebbero del pari. Avrebbesi dovuto riflettere, che il numerario poteva essere impiegato ad una riproduzione, o che poteva essere impiegato senza nulla produrre. Se un governo spende dieci milioni a far marciare un’armata in sensi diversi, o a dar delle feste magnifiche, degli spettacoli, delle illuminazioni, dei balli, dei fuochi artifiziali, i dieci milioni in tal guisa impiegati non sono distrutti. La nazione non è impoverita di questi dieci milioni, ma questi dieci milioni non hanno nulla prodotto; e di un simile impiego di capitali altro non resta allo stato fuorché i dieci milioni posseduti primitivamente. Se, all’opposto, questi dieci milioni fossero stati impiegati alla costruzione di fonderie, o di fabbricati adatti ad un genere d’industria qualunque; a migliorare le terre, a riprodurre, in una parola, qualsivoglia derrata, la nazione avrebbe consumato da un lato i dieci milioni in tal guisa, dall'altro, avrebbe avuto quell'accrescimento di valsente, che i dieci milioni avrebbero a lei procurato.

Bramerei di maggiormente estendermi sopra quest'importante oggetto, giacché è un’opinione disastrosa quella, che rappresenta come indifferente qualsivoglia impiego di capitali. Una simile opinione è favoreggiata da tutti coloro, che traggono partito dalle dilapidazioni dei governi, e da tutti quelli eziandio, che sulla parola altrui ripetono massime da essi non comprese. Senza dubbio, il numerario, segno di ricchezze, non fa che passare in tutti i casi da una mano all'altra; ma venendo esso impiegato in consumazioni riproduttive, per un valsente ve ne ha due; rendendosi poi improduttiva la di lui consumazione, in vece di due valsenti, non ve n'ha che uno. Inoltre, siccome per essere dissipato in consumazioni improduttive, vien tolto via a quella classe, che in modo produttivo impiegato lo avrebbe, se la nazione non s'impoverisce del suo numerario; s’impoverisce di tutta la produzione, che non si ottenne: conserva essa il segno, ma perde la realtà; e l'esempio della Spagna c'insegna a sufficienza, che il possesso del segno tutt'altra cosa egli è che la ricchezza reale. Certo dunque si è, che nel solo impiego de' suoi capitali in consumazioni produttive, trova una nazione il vero mezzo di prosperare.

Ora i governi, anche i più savj, non possono impiegare i fondi da essi tolti ai particolari, che in consumazioni improduttive. Il pagamento dei salari dovuti ai funzionari pubblici di qualunque descrizione, le spese della polizia, della giustizia, della guerra, di tutte le amministrazioni, sono spese di questo genere. Allorché lo stato impiega in queste consumazioni una porzione soltanto dei suoi redditi, i capitali, restando nelle mani dei particolari, servono alla necessaria riproduzione. Ma se lo stato distoglie i capitali dal loro destino, la riproduzione diminuisce, e siccome conviene allora, come l'abbiamo dimostrato disopra, intaccare ogni anno una più considerevole porzione di capitali, la riproduzione finirebbe coll'intieramente cessare, e lo stato, del pari che i particolari, troverebbesi rovinato.

Simile al dissipatore, che spende al di là delle sue entrate, dice il signor Ganilh nella sua Storia della rendita pubblica, tomo II, pag. 289, diminuisce la sua proprietà di quanto egli ha ecceduto le sue entrate, e non tarda a veder disparire e rendite e capitali, lo stato che grava le proprietà e consuma il loro prodotto come rendita, si avvia ad un sicuro e rapido decadimento.

Così dunque in fatto d’imposizioni come in qualunque altra cosa, le leggi dell’equità sono le migliori a seguitarsi, dovessero pur queste esser considerate sotto il rapporto dell’utile. L’autorità violatrice della giustizia, nella speranza d’un miserabile guadagno, paga a caro prezzo questa violazione; e i dritti degl’individui dovrebbero essere rispettati dai governi, quand'anche questi governi non avessero altra veduta, che quella del loro proprio interesse.

Accennando così, e per necessità compendiosamente, alcune regole relative alle imposizioni, ci siamo proposti di suggerire piuttosto al leggitore delle idee, alle quali egli potrebbe dare da per se stesso l’opportuna estensione, anziché sviluppare noi stessi alcuna di esse. Un simile lavoro ci avrebbe trasportati molto al di là dei limiti, nei quali ci sia mo ristretti. Un assioma incontrastabile, e che verun sofisma non vale ad oscurare, si è quello, che ogni gravezza, di qualunque natura ella sia, ha sempre un’influenza più 0 meno dannosa. Se le imposizioni, mediante il loro impiego, producono talvolta un bene, producono sempre un male colla loro levata. Necessario può essere questo male; ma, come dee farsi di tutti i mali necessari, convien renderlo meno grave che sia possibile: maggiori mezzi si lasciano a disposizione dell'industria dei particolari, maggior prosperità acquista lo stato. Le imposizioni, col solo fatto di togliere una porzione qualunque di questi mezzi, arrecano infallibile nocumento. Più danaro si trae dai popoli, dice il signor De Vauban nella Decima Reale, più danaro si sottrae dal commercio. Il meglio impiegato danaro del regno si è quello, che rimane presso i particolari, tra le cui mani esso non è mai né inutile, né inoperoso. G. G. Rousseau, che, in finanze, non possedeva cognizioni di sorta, ha ripetuto sulla scorta di molti altri, che nei paesi monarchici faceva di mestieri consumare mediante il lusso del principe l’eccedenza del superfluo dei sudditi, meglio valendo che quest'eccedenza fosse assorbita dal governo, di quello che dissipata dai particolari. Scorgesi in questa dottrina un assurdo mescuglio di pregiudizi monarchici e di opinioni repubblicane. Il lusso del principe, lungi dallo scoraggire quello dei particolari, serve loro d’incoraggimento e d’esempio. Non convien credere, che collo spogliarli egli li riformi. Può ben precipitarli nella miseria, ma non già ricondurli alla semplicità. Soltanto la miseria degli uni si combina col lusso degli altri, e di tutte le combinazioni la più deplorabile è questa.

De’ ragionatori non meno incoerenti, dall’essere i più ricchi paesi, come l’Inghilterra e l’Olanda, aggravati d’imposizioni, hanno conchiuso, ch'eran essi i più ricchi, perché pagavano più imposizioni; presero questi l’effetto per la causa. Non si è ricchi perché si paga, ma si paga perché si è ricchi.

Tutto ciò che eccede i bisogni reali, dice una scrittore di cui non si contrasterà l’autorità in questa materia (47), cessa d'esser legittimo. Non esiste altra differenza tra le usurpazioni particolari e quelle del sovrano, se non se quella che l’ingiustizia delle une è collegata ad idee semplici quali può ognuno facilmente distinguere, mentre le altre essendo legate a delle combinazioni la di cui estensione è egualmente vasta che complicata, nessuno può giudicarne in altro modo che congetturalmente.

Dovunque la costituzione dello stato non frappone un ostacolo all'arbitrario moltiplicarsi delle imposizioni; dovunque il governo non è arrestato da insormontabili barriere nelle sue incessanti domande, quando queste non gli vengono mai contrastate, né la giustizia, né la morale, né la libertà individuale possono essere rispettate. Nè l’autorità, che carpisce alle classi laboriose la sussistenza coi loro sudori acquistata, né queste classi oppresse, che vedonsi strappar dalle mani questa stessa sussistenza ad oggetto di arricchirne degli avidi padroni, possono restar fedeli alle leggi dell’equità in questo scandaloso contrasto tra la debolezza e la violenza, tra la povertà e l’avarizia, tra ’1 bisogno e la depredazione. Ogni imposizione, che non sia utile, è un furto non altrimenti legittimato dalla forza che l’accompagna, che qualunque altro attentato di simile natura; ella è un furto tanto più odioso, inquantoché si eseguisce con tutte le solennità della legge; ella è un furto tanto più colpevole, in quantochi è il ricco che l’esercita contro l’indigente; ella è un furto tanto più vile, inquantoché vien commesso dall’autorità armata, contro l’individuo disarmato. L’autorità medesima non tarda ad esserne punita.

I popoli nelle provincie romane, dice Hume, erano talmente oppressi dai pubblicani, che andavano a gettarsi con trasporto nelle braccia de' barbari; reputandosi felici di ritrovare presso di padroni rozzi e senza un lusso, un dominio meno avido e meno depredatore di quello de' Romani.

C’inganneremmo ancora nel supporre, che l’inconveniente delle imposizioni eccessive si limiti unicamente alla miseria ed alle privazioni del popolo. Ne risulta un male più grande, quale non mi sembra essere stato sufficientemente rilevato sino al dì d'oggi, e quale io ho sviluppato in un’altra opera.

Il possesso d’un’immensa fortuna, ho ivi detto, ispira ai particolari dei desideri, dei capricci, delle fantasie disordinate, ch’eglino non avrebbero punto avute in uno stato mediocre e ristretto. Lo stesso accade dei governi. Il superfluo della loro opulenza l'inebria del pari che il superfluo della loro forza, perché l’opulenza è una forza, e di tutte le forze la più reale. Quindi i divisamenti chimerici, le sfrenate ambizioni, i progetti giganteschi, che un governo, che null’altro avesse posseduto oltre il necessario, non avrebbe mai concepiti. Così il popolo non è miserabile soltanto perché egli paga più che non comportano i suoi mezzi, ma lo è anche per l’uso che fa il suo governo di ciò ch'ei paga. I suoi sacrifizj ridondano a suo proprio danno. Ei non paga più le imposizioni per ottenere una pace assicurata da un buon sistema di difesa; ma paga per avere la guerra, perché l’autorità, superba de' suoi immensi tesori, inventa mille pretesti onde penderli gloriosamente, come essa va dicendo. Il popolo paga non affine di veder mantenuto il buon ordine nell’interno, ma acciò dei favoriti, arricchiti delle di lui spoglie, intorbidino all’opposto l’ordine pubblico con le loro impunite vessazioni; dimodoché, una nazione priva di garantie contro l’accrescimento delle imposizioni, compra colle sue privazioni le sventure, i torbidi, ed i pericoli; ed in tale stato di cose, il governi si corrompe a cagione della sua ricchezza, ed il popolo a cagione della sua miseria.

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COMENTO – PARTE III

SULLA

SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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CAPITOLO PRIMO

Delle accuse affidate esclusivamente ad un Magistrato

«Presso una gran parte delle nazioni… l'interesse comune ed uguale, che hanno tutti gl'individui di una società alla conservazione dell'ordine pubblico, all'osservanza delle leggi, alla diminuzione de' delitti, ed allo spavento de' malvagi, ha fatto credere a' legislatori più savj, che non si poteva negare al cittadino il dritto d'accusarne un altro.»

Lib. III, cap. II

Egli è impossibile, che, presso i moderni, ogni cittadino si faccia accusatore. La dolcezza de' nostri costumi, l’intreccio de' rapporti sociali, il bisogno del riposo, finalmente una certa delicatezza o mollezza di abitudini, che non permette ad un uomo di recar danno altrui, se non vi ha un interesse immediato, o se non vi è obbligato dalle sue funzioni (poiché presso noi tutto spiegano e tutto scusano le funzioni), queste diverse cagioni fanno sì, che l’accusa affidata al cittadino privato diverrebbe onninamente illusoria. Se io alcuni casi, una virtù austera, ovvero, ciò che sarebbe molto più comune, degli odj personali lo rendessero superiore al sentimento generale, questi casi sarebbero talmente rarj, da non potersi valutare, e sarebbero essi di sì funesto effetto per chi avrebbe assunto tal penoso dovere, che la condanna della società contro un’azione che si presenterebbe in aspetto di disinteressata malignità (poiché ciò che si perdona il meno in un’epoca di egoismo, egli è il darsi un’aria di disinteresse tanto nel bene quanto nel male), lo perseguiterebbe al punto, da far bastare un solo esempio a distogliere altri per sempre da si pericolosa carriera.

Necessita dunque (checché ne dica Filangieri, costante ammiratore di quanto trova stabilito presso gli antichi) una persona pubblica, costituita dalla legge a perseguitare i colpevoli e a richiederne il castigo.

Non è già che una simile istituzione non abbia degl’inconvenienti gravi.

Investite un uomo d’una funzione qualunque, voi gl’inspirate il desiderio di esercitarla, perché solo coll’esercitarla egli viene a provare la necessità di una tal funzione. I militari credonsi astretti a battersi a favore di tutte le cause; a malgrado che convengano dell’ingiustizia d’una guerra, essi la fanno meglio che possono; ciò è in natura. V’ha di più: è cosa buona, in tesi generale, che ciò sia in natura; imperocché, senza voler contrastare all’uomo il dritto di esame, per cui ho gran rispetto, convengo, che se, in tutti i casi, ognuno volesse esaminare ciò che gli viene ordinato dall'autorità superiore, nella sfera delle sue funzioni, sarebbevi confusione ed anarchia. Ma per la ragione medesima per la quale i militari ameranno di battersi più spesso che sarà per essi fattibile, gli uomini costituiti accusatori, ameranno di accusare ogni qual volta ve n'abbia pretesto alcuno plausibile. Se venissero a trascorrere dieci anni senza commettersi delitto di sorta, cosa diverrebbe mai l'importanza di coloro, che dalla sola persecuzione de' delitti traggono importanza? Supponendoli, come pur fo io, gli uomini i più umani ed i più probi, l'anima loro sarebbe compresa da una segreta afflizione, vedendosi ridotti ad una inazione, che toglierebbe loro qualunque mezzo di celebrità e di successo.

Ne risulta, che i magistrati accusatori moltiplicheranno, forse senza rendersi ragione dei loro privati motivi, le accuse e le persecuzioni. Le più leggiere circostanze, gl'indizj i meno verisimili assumeranno agli occhi loro una gravità, che non vi troverebbero altre persone non interessate nella questione; e se il sistema degli antichi trasportato presso di noi, tende a non ammettere le accuse, perché ognuno potrebbe accusare, il sistema moderno deve produrre, che la persona specialmente incaricata d'accusare, accusi frequentemente, per esser questo un di lei privilegio.

Questo pericolo, che, sino ad un certo grado, esisterebbe pur sempre nei tempi i più tranquilli e quando non si tratterebbe che di delitti ordinarj, diviene molto più imminente, allorché delle agitazioni violente hanno lasciato nella società dei semi di torbidi e di dissensioni. Quando un paese è infelice al segno, che nel paese medesimo possano c0mmettersi dei delitti politici, si può esser certi che le accuse per delitti politici si moltiplicheranno all'infinito. I magistrati accusatori, trovandosi nella dipendenza dell’autorità, nulla trascureranno di tutto ciò, che, da vicino o da lungi, apparentemente o realmente, sembrerà loro minacciare l’autorità. Lasciando sfuggire un’occasione di accusare, essi si renderebbero sospetti di negligenza; accusando di ogni piccola cosa, non si esporranno tutt'al più ad altro rimprovero, che a quello di troppo zelo; ed è questa una colpa che si perdona.

Mi si obietterà che quasi da pertutto, il magistrato incaricato di accusare non è investito del dritto di porre in istato d’accusa. Egli sottomette gl’indizi a giudici men di lui dipendenti, e l’accusa è opera loro; ma convien riflettere che le forme tutelari, osservate allorché l'accusa è ammessa, sono soppresse quando trattasi unicamente della convenienza dell'accusa. L’accusato non ò presente allorché si prende una decisione. Sono dei magistrati, che vivono familiarmente colla persona stessa che sollecita lo stato d’accusa, coloro, che pronunziano sentenza sulla sorte d’uno sconosciuto senza sentirlo, e sul riflesso che per ultimo, se è innocente, ei sarà assoluto. Questa riflessione li rende più facili. Quando taluno può dire a se stesso, che ciò che si fa non è irreparabile, si è molto più accessibili alla debolezza, o per lo meno alla compiacenza.

Se peraltro è in oggi necessario, come pure io lo credo, di far dell'accusa un dovere speciale, ed in un certo modo, un monopolio, egli è da desiderarsi che vengano a sopprimersi o ad attenuarsi gl'inconvenienti ad esso inerenti.

Alcuni vorrebbero che il ministero incaricato d'accusare fosse indipendente dall’autorità. Esso però non potrebbe acquistare quest'indipendenza, ch'essendo reso inammovibile. Ma l'inammovibilità medesima, sarebbe essa efficace? e non avrebbe essa, oltre la sua inefficacia, altre dannosissime conseguenze?

Primieramente, non sarebbe efficace. L’inammovibilità, che sembra essere a primo aspetto una garantia in sommo grado rassicurante, non è in fondo nulla di simile. La posizione, le relazioni personali, il commercio abituale, i segreti favori, distruggono i di lei effetti in modo, tanto più funesto quanto esso è più inosservato.

Secondariamente, respingendo anche qualunque idea di occulta influenza e di colpevole connivenza, subitoché v’ha possibilità d’avanzamento, l'inammovibilità è illusoria.

Ed infine, dal voler noi preservare gl’individui dall'attività indiscreta dei magistrati istituiti per accusare, non ne siegue per questo, che vogliamo esporre la società ai tristi risultati della loro negligenza, e se questi magistrati fossero inammovibili, qual ricorso mai resterebbe alla società contro la loro inerzia e la loro inazione?

L’unico mezzo di risolvere tutte queste difficoltà ai è quello, a parer mio, di sottomettere alla sola potenza, egualmente rassicurante per la salvezza di tutti e per la tranquillità di ciascuno, la questione di sapere se i cittadini saranno accusati. L'accusatore pubblico farà allora il suo dovere, ed eserciterà le sue funzioni con uno zelo, il di cui eccesso medesimo anderà esente da pericolo,

L' idea certamente non è nuova, poiché egli è questo quanto esisteva in Francia, quanto esiste tuttora in Inghilterra, ed è quanto è stato distrutto dal dispotismo.

Senza il giurì d’accusa, i processi senza fondamento o con troppa leggierezza intrapresi, minacceranno costantemente i cittadini. L'accusatore ed i giudici incaricati di esaminare i motivi da questi allegati, venendo scelti da tutt'altra classe di quella degli accusati, saranno sempre d'avviso, che dovendo farsi un giudizio definitivo, l’innocenza sarà riconosciuta. Essi non rifletteranno sulle conseguenze che trascina seco un'accusa, anche quando essa è seguita da un'assoluzione. I membri d'un giurì d'accusa trovandosi nella medesima situazione di quello, che è l'oggetto delle persecuzioni, e potendo trovarsi esposti al medesimo pericolo, ben sentiranno che la sola accusa traendo seco la prigionia, l'interruzione degli affari, il vacillar del credito, la rovina forse, o almeno un grande sconvolgimento di fortuna, e questi mali non venendo in conto alcuno risarciti da una tarda assoluzione, l'accusa è perse stessa una pena, alla quale l'imperfezione della umana penetrazione costringe talvolta gli uomini a condannare un innocente, ma che non devesi infliggere ad alcuno, senza le più grandi precauzioni ed i più severi scrupoli.

In generale, se bramate che un officio si eserciti con zelo ed attività, rendetelo speciale, ed affidatelo a persona, la cui esistenza dipenda da quest'officio. Ma se voi bramate, che una questione sia esaminata con imparzialità, con calma e con sincerità, incaricate di quest'esame, persone, di cui non sia questa l'abituai professione, e che nulla perdano della loro considerazione, e che anzi acquistino sicurezza, decidendola negativamente.

Mi recapitolo. Per indagare tutte le apparenze che possono dar motivo ad una severa ed esatta inquisizione, è utile un accusatore officioso. Per eliminare quelle tali apparenze, che, leggiere o ingannevoli, trarrebbero seco mal fondate accuse, un giurì d'accusa è indispensabile.


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CAPITOLO II

Del segreto dell’istruttoria

«Questa operazione inquisitoria, dalla quale dipende a l’esito del giudizio, si fa col massimo segreto… Il cittadino, sul quale cade o l'accusa della parte, o la denunzia del denunziatore, o il sospetto del giudice, ignora ciò che si trama contro di lui; e se è innocente, non può neppure sospettare della tempesta che si prepara sul suo capo.»

Lib. III, cap. III

Questo capitolo è da cima in fondo eccellente. Alcuni degli abusi rilevati eloquentemente da Filangieri, sono stati resi meno gravi dopo la pubblicazione della sua opera. Non si lasciano più, o non si dovrebbero lasciare, per settimane e mesi i detenuti senza interrogarli, e senza istruirli del sospetto, cagione della loro prigionia. Ma molti ed i più essenziali tra i vizj, contro i quali l’autore Italiano fa sentire i suoi reclami, son tuttavia esistenti, e spesso i rimedi arrecati agli altri, rimangono delusi, sia per una negligenza colpevole, sia per calcoli e considerazioni più criminose della negligenza medesima.

Allorché per soddisfare in apparenza al nome della legge, viene interrogato un prigioniere, nel determinato spazio di tempo, e passato il quale, se nessuno interrogatorio venisse fatto, la di lui detenzione diverrebbe illegale, ed allorché dopo averlo interrogato una voltai si lascia languire nel carcere, senza dar principio ad alcun processo, egli è evidente che il compimento d’una vana formalità nulla cambia all’iniquità, di cui, sia egli colpevole o no, è vittima questo detenuto. La società ha il dritto di privare della loro libertà quelli tra i suoi membri, ch’ella suppone autori o complici d’un delitto. É questo un terribile dritto che la necessità ci astringe ad affidarle; ma un tal dritto è inseparabile da una condizione evidentemente necessaria per renderlo legittimo. Questa condizione si è quella, che la detenzione non sarà prolungata che per il tempo indispensabile a riunire ciò che può aver una tendenza a discoprire la verità. Fra le cagioni che possono influire sulla durata del tempo, non devono comprendersi, né gli altri affari che impedirebbero a' giudici di occuparsi di quello di cui trattasi, né le convenienze di questi giudici, né nulla, in una parola, di ciò che non riguarda l’affare stesso, nulla di ciò che è estraneo all’accusa ed all’accusato. Spetta alla società il prendere delle misure, affinché un uomo sia giudicato subitoché tutti gli elementi ottenuti per convincere i giudici sono riuniti. Se ella lo ritiene nei ferri un sol giorno di più senza metterlo in giudizio, si rende verso lui colpevole d’ingiustizia e d’arbitrio. È di lei incumbenza l’organizzare i tribunali in modo, che vi siano sempre dei giudici disponibili, allorché vi sono dei detenuti.

Un tal principio sembrerà incontrastabile, se si rifletta, specialmente, che la società coll’arrogarsi il dritto di arrestare coloro che le si rendono sospetti, non per questo credesi in dovere d’indennizzare quelli, sopra cui sono ingiustamente caduti i di lei sospetti. Certamente, nell’esentarsi essa in tal guisa da quanto ogni uomo di equi sentimenti considererebbe come doveroso, il meno ch'ella può fare si è dì non prolungare le angosce e le sofferenze, di cui non vuol tenere alcun conto all’innocente colpito dal di lei errore. Da queste riflessioni, dirette contro un abuso riconosciuto dalle leggi, ma da esse inefficacemente ed in modo anche troppo facile ad eludersi represso, facciam passaggio alle viziosità che sfuggirono alla previdenza delle leggi, e che conseguentemente vengono dalle medesime sanzionate.

Mi è impossibile il concepire, io il confesso, di quali argomenti possa taluno prevalersi per {stabilire la massima, che è giusto di lasciar decidere lo stato d’accusa rispetto ad un uomo non presente. Come mai non vedesi, che una parola di lui può schiarire una circostanza che tutti i documenti dell’istruttoria non saprebbero, lui assente, collocare nel suo vero aspetto? Il giudice istruttore lo interroga. Ei risponde; ma non può indovinare quali deduzioni si trarranno dalle sue risposte. Queste risposte possono essere incomplete. Ei non prevede i dubbi, che da esse insorgono, né i nuovi sospetti che possono cagionare. Egli dissiperebbe questi dubbi e questi sospetti, se venissegli accordato d’aver contezza del rapporto, in conseguenza del quale lo stato d’accusa può esser deciso, ed è precisamente in un tal momento, di tutti per lui il più importante, che gli vien proibito d’assistere di persona alla deliberazione che decide della sua sorte.

Non si potrebbe abbastanza ripeterlo. Esser posto in istato d’accusa è già una pena: porre un uomo in istato d’accusa senza sentirlo, e sul rapporto delle di lui risposte, fatto da quello stesso soggetto che è interessato a sostener l’accusa ch'ei medesimo ha messa in campo, egli è un pronunciar sentenza, senza osservare le formalità prescritte dalla ragione della specie umana, e dai principi di giustizia impressi in fondo ai cuori di tutti.

Un’osservazione di Filangieri, piena di verità, e la di cui importanza è estrema, si è quella, che a norma delle giurisprudenze stabilite presso quasi tutti i popoli, la situazione d’un colpevole è di frequente più favorevole di quella d’un innocente. Il colpevole sa di qual cosa si può accusarlo; egli conosce tutte le circostanze del suo delitto; egli pondera qualunque espressione, che deve profferire onde oscurar l’evidenza che le circostanze medesime verrebbero a riunire a di lui danno; egli trovasi in qualche modo a livello col giudice. Ambidue sanno di che si tratta. L'innocente, all’opposto, si dibatte nelle tenebre; non gli vien concesso di prevedere l’aggravamento, che la più innocente risposta può produrre contro di lui; egli non ha alcun' idea del nesso dei fatti, dei quali viene accusato; egli risponde a caso, mentre il colpevole sa ciò che gli è più vantaggioso di dire, per parare i colpi che gli ai scagliano contro.

Prendiamo un esempio. Un uomo è accusato di assassinio; la prova d’un alibi produrrebbe la sua liberazione; ma sono decorsi tre mesi da che il delitto è stato commesso. Vuoisi ch'ei si rammenti dov'era il giorno di questo delitto.

Il colpevole, certamente, sei rammenterà senza sforzo. Questo giorno è troppo importante nella sua vita, onde ogni minuto, e l’impiego di ciaschedun minuto non sieno impressi nella di lui memoria. Se dunque egli perviene a provare, avanzando o retrogradando le ore indicate, di essere stato in quel momento in altro luogo, ed egli può aver prese le sue precauzioni per facilitarsi questa prova, si sottrarrà al rigore delle leggi per l'appunto perché è colpevole.

L’innocente all’opposto, non avendo alcun presentimento dell’accusa, la quale renderà per lui sì importante il render conto della sua condotta e del luogo, dov'egli trovavasi il tal giorno del tal mese, potrà facilmente aver dimenticato quant’egli andava facendo in quell'epoca. Astretto a rispondere con una specie di precisione alle questioni che gli vengono fatte, egli è possibile, egli è anzi probabile, che s'ingannerà in alcune particolarità. Se egli confessa di non ricordarsi di ciò su cui viene interrogato, la sua dimenticanza stèssa gli viene ascritta a delitto; se poi fa uno sforzo sopra se' mezdesimo, e ch’ei s'inganni, gli sarà rimproverato il suo errore, come una prova evidente della sua reità, e' sarà condannato precisamente a cagione della sua innocenza. In generale, il partito che trae il magistrato accusatore, e le conseguenze che fa derivare dalle contradizioni degli accusati, mi sono sempre sembrate un difetto capitale dei nostri sistemi di procedura. Vi è sempre da Scommettere che è l'innocente quegli che si contraddice, ed il colpevole quegli le di cui risposte sono sempre d'accordo, perché l’ultimo sa, ed il primo ignora; e che tra lo sciente e l’ignaro l'evento favorevole risiede nella probabilità che il primo accomodi le sue risposte, e dia a queste un'aria di coerenza.

Con quanto precede non intendo dire però, che secondo il pensar mio, i colpevoli si salvino, e gl’innocenti soli sian condannati; ma se sventura simile non accade pur sempre, non ne andiam noi debitori alle leggi, bensì all’umana natura. La Provvidenza ha voluto che un invincibile turbamento compagno fosse del delitto, e che un tal turbamento fosse tanto più irresistibile, quanto più odioso sarebbe l’atto scellerato. Chiunque leggerà attentamente i processi criminali, vedrà che la scoperta degli attentati non è quasi mai dovuta alla vigilanza dei magistrati o alla saviezza delle leggi, bensì all’imprudenza dei rei, e a quella specie di delirio, che d’essi si fa padrone. Le leggi devono conseguentemente prendere precauzioni molto più forti affinché l’innocenza non sia condannata, di quello sia acciò il delitto non venga assoluto; poiché ella è ben trista cosa il dire, che se il turbamento si associa ordinariamente al delitto, quasi che destinato sia dal cielo a tradirlo, egli è pure un concetto non meno volgare che falso in grado sommo, essere la calma compagna dell'innocenza, come generalmente con soverchia leggerezza si suppone. L’accusa d’un delitto di cui si è incapace, può cagionare spavento egualmente, che eccitare indignazione. Esigere che uno sventurato, contro di cui la società, sopra ingannevoli apparenze si solleva con tutta la sua potenza ed in minaccevole apparato, rimangasi impassibile, egli è un domandare ciò che è al disopra delle forze umane. Possibile è un tale sforzo, allorché é questione di delitti ai quali sì associa un’opinione, ed allorché la compassione, la simpatia, talvolta l’ammirazione, vengono a compensarne la vittima, e trasmutano il supplizio in pompa trionfale. Ma se trattasi d’ignobili o atroci delitti, contro i quali tutti, in massa o partitamente sorgono, il di cui semplice sospetto innalza una barriera tra l’accusato ed i suoi concittadini, e che altra prospettiva non offre se non che il disprezzo, la riprovazione, ed il patibolo, quegli che è accusato di un tal delitto si sente di già ferito il cuore. per aver potuto essere mal conosciuto a tal segno. 'È naturale il suo dolore, il suo terrore è scusabile. Lungi dal portarne conclusioni a lui sfavorevoli, sarebbe forse necessario il trarne un’opposta conseguenza; lungi dall’accrescere il di lui spavento, converrebbe recargli conforto; lungi dall’interpetrare a di lui svantaggio le sue contradizioni, converrebbe indagare come ha egli potuto mai contradirsi senza essere colpevole.


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CAPITOLO III

Delle denunzie

«Per persuaderci della stranezza della moderna a legislazione riguardo a quest'oggetto (l’abolizione della libertà dell'accusa), basta osservare, che, nel tempo a istesso che si è abolita la libertà di accusare, si è permessa la libertà di denunziare.»

Lib. III, cap. III

Quanto dice in questo luogo Filangieri sugl’inconvenienti della delazione è perfettamente ben ragionato; alcune espressioni peraltro mancano, a quanto sembrami, di rigorosa esattezza. Assurda cosa a me pare il rimproverare alle leggi la libertà di denunziare da esse determinata; ella è questa una libertà da non potersi impedire. Punirete voi dunque l’uomo, che, istruito di un delitto, portasi a rivelarlo al magistrato? Voi fareste diluiti i cittadini una nazione di sordi e di ciechi volontari. Si paventerebbe la casualità che condurrebbe alla cognizione di un delitto quanto il delitto medesimo. Pretendereste voi che se la denunzia non dev'essere punita, debba essa almeno essere rigettata? Ciò equivale al dire che obblighereste il magistrato incaricato di perseguitare i delitti di ogni genere, a chiuder gli occhi sopra quelli, di cui avrebbe sovente la più esatta e la più positiva cognizione. Esigereste voi, che il denunziatore si erigesse in accusatore? I ragionamenti medesimi con i quali ho provato che ai dì nostri il dritto d’accusa non verrebbe esercitato, dimostreranno facilmente che la necessità di erigersi in accusatore dopo aver denonziato un delitto, imporrebbe silenzio a tutti i membri d'una società che al riposo soltanto aspira e all’esercizio pacifico di tutte Je facoltà, e nella quale nessuno è disposto a correr dei rischi, a sottometter si a delle interruzioni di lavori o di piaceri, in una parola, a turbare il suo comodo e dolce sistema di vita, perciò che concerne soltanto il pubblico interesse, che non è ormai quasi più collegato coll’interesse privato, grazie all’indipendenza ed alle risorse individuali createsi in forza della civilizzazione.

V’ha, «senza dubbio, nella libertà di denunziare, degl’inconvenienti, ch'esser possono infinitamente gravi. L’odio, l’invidia, tutte le vili e malefiche passioni, profitteranno di questa libertà. L’innocenza potrà essere calunniala; i cittadini i, più integri saranno in balìa d’un nascosto inimico. Ma dipende dalla prudenza del magistrato a cui la denunzia è diretta, il diminuire la massa di quest'inconvenienti; ad esso incombe il dare agl’indizj, alla di lui sagacità sottoposti, il giusto valore che possono meritale; ad esso spetta il riflettere che rare volte per zelo e per disinteresse gli uomini s’inducono a far dei passi che partecipano di odiosità, e che, sopra cento denunzie, egli è probabile che appena una ve n’abbia dettata da amor di giustizia o da odio verso il delitto.

Osservate inoltre che nel sistema moderno, quale specialmente incarica un magistrato di perseguitare per officio i delitti che si commettono, il dovere di un simile magistrato si è quello, di raccogliere tutto ciò che può condurlo alla conoscenza di questi delitti. S’ei s’imbatte in un cadavere sul suo cammino, ne conclude esservi probabilità assassinamento, e adopera la sua vigilanza nello scoprire se, in realtà, l’assassinamento ebbe effetto, e chi ne sia il reo. Una denunzia altro non è che un incontro della medesima specie: essa nulla accerta, nulla prova; avverte soltanto che v'è qualcosa da prendere in esame. Il magistrato che, sopra una segreta denunzia, fa porre nei ferri la persona denunziata, commette un atto ingiusto, e che non ha scusa; ma colui che riceve la denunzia, e ricerca quale può essere il suo grado di verisimiglianza e di verità, adempie ad un obbligo che gli è imposto.

Filangieri si è lasciato ingannare dall’avversione, che naturalmente inspirano ad ogni anima elevata, le delazioni ed i delatori. Nell’attuale nostro stato di società un delatore, quando anche il fatto da esso rivelato è vero, quando il delitto da esso disvelato è grave, non merita né stima, né approvazione morale. La società è sufficientemente provvista di istromenti dedicati a questo rigoroso mestiere, e perciò possono i cittadini riposarsi sullo zelo di coloro che a tal officio si consacrano. Supponendo che il delatore non sia animato da alcuno interesse di passione, di odio, di gelosia, v’ha sempre in lui attività viziosa, indiscreto e poco lodevole zelo di mischiarsi in ciò che non lo riguarda, bisogno di rendersi importante, speranza forse di meritarsi un giorno un qualche titolo alle buone grazie dell’autorità, quale colle sue officiose rivelazioni ei pretende d'aver servita.

Ma dall’esser sempre più o meno spregevole un delatore, fosse pur ei disinteressato, anzi utile, non ne siegue per questo, che le leggi avrebbero potuto mettere impedimento alla libertà di denunziare, e né anche vincolare questa libertà con formalità tali da renderla completamente illusoria. Ciò, su di che Filangieri avrebbe dovuto mettere il suggello della riprovazione la più energica, sono, da un lato, le ricompense destinate ad incoraggire, dall’altro le minacce impiegate a render obbligatorie le denunzie.

Le ricompense in tal guisa promesse son semi di corruttela sparsi nell'intiera società. L’uomo che denunzia e consegna il suo simile, per ottenere un salario, commette un’azione più vile, e per lo meno tanto odiosa, quanto il delitto qualunque siasi, di cui si è voluto facilitar la scoperta con questo premio accordato all’infamia. Nessuno interesse di pubblica sicurezza, nessun pericolo presente, dà alla società il dritto di pervertire e di corrompere i suoi membri. Gl'individui la pagano abbastanza caro: essi l’investono di dritti abbastanza formidabili acciò essa adempia i suoi doveri, senza avvilire quei sentimenti che la medesima deve rispettare, quei sentimenti di pietà che uniscono l’uomo all'uomo, e che retroceder lo fanno dinanzi l'idea di trascinare volontariamente sul patibolo un suo concittadino. Soffocare quest’istinto di nostra natura, armando contro di esso la miseria o la cupidigia, egli è uno schiantare dalle radici qualunque virtù, al solo fine di ottenere un mezzo di più per iscoprire pochi delitti; egli è un sacrificare l’interesse primario e permanente della umana specie ad un interesse transitorio e secondario.

Accade ancor peggio allorché il potere sociale pretende con minacce, con castighi, con delle supposizioni di complicità, costringere a denunziare. Allora, dopo aver tentato di corromperci, ci punk ace per aver resistito alla corruzione; ci assimila ai carcerieri ed ai carnefici da esso prezzolati, con questa sola differenza, che da noi ottener vuole col timore ciò che da questi ottiene col danaro. I governi hanno degl’istrumenti per sorvegliare, denunziare, arrestare e perseguitare, non vien loro permesso d’imporre alcuno di questi dolenti ufficj a colui che non li abbia volontariamente ricercati. Nessuno può essere con giustizia astretto a prender parte in rigori, dei quali non saprebbe valutar la giustizia.

Io giungo ad aver contezza d’un’azione che mi sembra un delitto: ma son io sicuro, che questa contezza è veramente esatta? Posso io valutare una azione da' me non conosciuta che per metà, le di cui più importanti circostanze, quelle che decidono del suo carattere di reità o d’innocenza, sono da me ignorate? E sopra semplici apparenze, che io non ho mezzi di penetrare, mi si ordinerà di fare alla giustizia delle imperfette rivelazioni, che possono attirare sul capo d’un innocente la. prigionia, la rovina, l’umiliazione d’un processo pubblico, e tutti i mal sicuri eventi che accompagnano sempre la umana giustizia nel di lei esercizio.

Ciò si applica a tutte quelle dispositive legali, che rendono obbligatorie le denunzie per qualsivoglia delitto. Ma questi argomenti assumono molto maggior forza, allorché trattasi di delitti in qualche sorta artificiali, vale a dire di delitti per tali considerati unicamente, perché ostano ad un'opinione dominante. Io mi son dimandato talvolta, ciò che farei, se mi trovassi rinchiuso in una città, ove fosse proibito, sotto pena di morte, di dar asilo ad uomini sospetti di delitti politici, ovvero ordinato venisse di denunziarli; e mi sono risposto, che, volendo io mettere la mia vita in salvo, anderei a costituirmi prigione per tutto il tempo in cui sarebbe in vigore un simile regolamento.


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CAPITOLO X IV

Nuove riflessioni sull’idea di affidare ad ogni cittadino il dritto di accusare

«Il primo oggetto della riferma della criminale procedura dovrebbe dunque essere di restituire questo a dritto al cittadino, ed il secondo di combinarlo colla a difficoltà di abusarne.»

Lib. III, cap. IV

Poiché Filangieri insiste sempre sulla necessità di restituire ai cittadini il dritto di accusare, è di necessità il continuar l'esame de' suoi ragionamenti ed il confutarli.

Ho già detto che uno degl’inconvenienti di questo dritto, trasportato nei nostri moderni tempi, sarebbe che i cittadini ripugnerebbero a farne uso. Filangieri risponde con una frase di Machiavelli: «Il dritto di accusare, dice questo scrittore (Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Lib. I, cap. VII), dà via onde sfogare a quegli umori, che crescono nelle cittadi di qualunque modo, contro a qualunque cittadino. »

Egli è evidente che esprimendosi in tal guisa, Machiavelli prendeva di mira le antiche repubbliche, o le repubbliche d’Italia, come si componevano nel medio evo. Colà degli umori potevano realmente formarsi contro i cittadini eminenti. Il dritto d’accusare, questo ricorso della debolezza contro il potere, poteva servire di consolazione, e di mezzo onde calmare ed indennizzare un popolo invidioso de' suoi superiori.

Egli è chiaro inoltre che, nella frase citata da Filangieri, Machiavelli non intendeva di parlare in conto alcuno del dritto di accusare per delitti privati; egli non contemplava che le sole accuse politiche. Sicuramente, nei casi di furto o d'assassinamento, non è questione di umori che si formano in una città contro di un cittadino. Il nostro pubblicista ha dunque confuso due questioni che non hanno tra di esse alcun rapporto (48).

I moderni Stati, non essendo, né potendo essere Stati popolari, poiché nulla v'ha di meno popolare, vale a dire, nulla che metta la massa del popolo in minore attività quanto il governo rappresentativo, che non accorda al popolo se non che un dritto di elezione esercitato in breve spazio di giorni e seguitato da un’inazióne sempre assai lunga, gli Stati moderni non essendo, diciamo, e non potendo essere popolari, gli umori, de' quali parla Machiavelli, non saprebbero formarvisi nella massa della nazione.

Egli è rarissimo al di d’oggi nei tempi ordinar} che un cittadino ascenda a tale considerazione, che sia per lunga pezza il soggetto dell’occupazione, popolare. Ciò diverrà ogni giorno più raro. I progressi dell’industria offrendo a ciascheduno dei mezzi di ben essere, dalla sua volontà e dal suo lavoro dipendenti, assegnano ad ognuno una sfera, nella quale tutti i suoi interessi si trovano concentrati, e fuori della quale solo per accidente egli porta i suoi sguardi. Non vi sono chele società disoccupate, che prendano per oggetto del loro entusiasmo, o del loro odio, degl’individui per ragguardevoli che questi sieno. Gli altri li biasimano o li approvano nelle ore d’ozio; ma tratta l’energia sociale essendo impiegata in intraprese e speculazioni particolari, ed in qualche sorta disseminata, gli umori ai quali il dritto di accusa servirebbe di sfogo, non hanno di questo sfogo alcun bisogno, poiché non esistono.

Se, per altro, la frase di Machiavelli addita un inconveniente divenuto immaginario, e propone per il medesimo inconveniente un rimedio per questo appunto superfluo, questa frase è propria a farci osservare un pericolo, ch'è sfuggito a Filangieri, che renderebbe singolarmente funesto quel dritto, ch'ei vorrebbe far rivivere.

Non sorgerebbero nel popolo degli umori contro i cittadini; ma questi umori potrebbero ben sorgere nelle corti contro di essi. Allorché la saviezza d’un principe, o le necessità d’un governo, avrebbero collocato alla testa degli affari un ministro savio, inimico delle inegualità e dell’arbitrario, soprattutto economo, non vedesi forse quale sciame di accusatori prezzolali potrebbero suscitargli contro i cortigiani? Allorché la scelta del popolo avesse elevato alle funzioni legislative un cittadino incorruttibile, un oratore eloquente per talento e per intima persuasione, il medesimo sciame di accusatori l’attornierebbe e ridurrebbelo a difendere incessantemente innanzi ai tribunali la sua vita, o la sua riputazione o la sua fortuna. Credesi forse, che non troverebbonsi in una società corrotta soggetti abbastanza perversi, che certi, se non dell’impunità, dell’indennità almeno, intenterebbero le più ingiuriose e meno fondate accuse?

Ciò che l’odio e la cupidigia fanno presentemente con i libelli, lo si farebbe allora colle accuse. Si rapirebbe all'innocente il dritto del disprezzo: in vece di poter come in oggi opporre il silenzio a calunnie prive d’ogni carattere officiale o legale, l'integro ministro, il coraggioso deputato, sarebbero astretti a consumare nella loro causa personale il tempo e le forze, ch'eglino bramerebbero pur consacrare alla loro patria. Chi mai può dubitare, che Turgot e Malesherbes, Necker e Mirabeau, non sarebbero ad ogni momento stati strappati dal consiglio dei ministri o dalla tribuna nazionale, a forza d’impudenti accuse e di persecuzioni, cui lo scandalo avrebbe coronate d'una specie di successo?

Né qui finirebbe tutto. In una numerosa associazione, giunta che questa sia ad un sommo grado di civilizzazione, ogni cosa diviene un mestiere; se l'accusa fosse permessa a qualunque cittadino, non v'ha alcun dubbio che non venisse ben presto a crearsi la professione degli accusatori. A Roma, il primo passo di ogni giovine ambizioso, era un'accusa pubblica. Sceglieva egli per gradino della sua gloria avvenire un accusato, la di cui perdita tanto più l’illustrava, quanto più la vittima era illustre era questo in qualche sorta un sacrifizio da esso offerto alla fortuna nell’ingresso della sua carriera.

Altrettanto, per altri motivi e sotto altre forme, accaderebbe. al dì d’oggi; non già per amor di bene pubblico, né per brama di distinguersi, né per un' ambizione che pare alcuna cosa di nobile in sé avrebbe, ma per un acerbo e vile interesse. Far libera l'accusa per tutti i cittadini, sarebbe un armar d’un potere terribile tutti coloro che nulla hanno da perdere, contro chiunque avrebbe una fortuna o una riputazione da conservare.

Indarno Filangieri accumula tutte le precauzioni contro le accuse ingiuste. Le pene non atterriscono né contengono nel dovere, che coloro la di cui situazione diverrebbe peggiore per queste pene medesime. Ma io l'ho già detto: nessun soggetto commendevole, chiamato a coltivare delle onorevoli relazioni sociali, profitterebbe della facoltà di accusare. Uomini già respinti dalla società sarebbero i soli a rendersene padroni, né paventerebbero essi le pene. Cosa importano le multe a chi non ha di che sovvenire alla sua giornaliera sussistenza? Cosa importa la prigione a colui che, fuori della prigione, non ha domicilio veruno?

Filangieri crede di portare un rimedio efficace a quest'inconveniente, restringendo il dritto di accusare; ei si fa forte sull’esempio dei Romani, i quali ricusarono questo dritto alle donne, ai liberti, alle persone infami; allora però il mio primo obbietto riprende tutto il suo vigore. Voi bramate, che i cittadini commendevoli possano essere i soli ad accusare: i cittadini commendevoli non accuseranno giammai. Voi scacciate lontano da voi coloro, il di cui carattere e le di cui intenzioni vi sembrano sospette; ma questi son pure i soli, che ne' nostri tempi consentir possano a far le parli d’accusatore.


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CAPITOLO V

Del dritto d'accusare affidato ai mercenari, allorché trattasi di delitti commessi contro la società.

«Tra le persone eccettuate dalla libertà di accasare vi era, è vero, una classe di uomini, che fortunatamente oggi più non esiste: questi erano i servi. Noi li abbiamo però una classe simile di esseri, che porta li l’istesso nome, quantunque non abbia le stesse sciagure; che ha ordinariamente tutti i vizj della servitù, e sebbene conservi le prerogative della cittadinanza; che il vende per un arbitrario tempo la sua libertà personale quantunque conservi la civile, e che per conseguenza li meritar non dee la confidenza della legge, quantunque li abbia come tutte le altre un dritto a pretenderne la protezione. Questa è la classe de' nostri mercenari servitori, i quali.... dovrebbero essere esclusi dal dritto di accusare, fuorché le proprie offese, o i delitti che si commettono contro il corpo intero della società.»

Lib. III, cap. IV

Jj errore nel quale cade Filangieri sul principiq di questo capitolo è infelicemente quasi universale. Tutti gli scrittori politici hanno ammesso ad uà tempo due proposizioni, che il più semplice buon senso dimostra essere inconciliabili. Una, che in tutte le cause ordinarie ed abituali dovevasi privare del dritto di accusare, e spesso anche di quello di render testimonianza, una classe d'uomini la di cui volontaria abbiezione rende dispregevole; l'altra, che questi uomini stessi potessero ammettersi come accusatori o testimoni, allorché tratterebbesi del delitto più facile ad imputarsi e più rigorosamente punibile. '

Questa singolare contradizione ha origine in una opinione, che se fosse fondata, non farebbe in conto alcuno, bisogna convenirne, l’elogio dell’ordinamento sociale di tutte le moderne nazioni. Questa opinione si è quella, che la società vien costantemente minacciata da uomini, che ad altro non aspirano se non se a perturbarla ed a distruggerla.

Nulla felicemente è meno esatto, nulla è più esagerato di una tal supposizione. La specie umana è naturalmente portata per l’ordine. Le di lei inclinazioni, i di lei interessi, le di lei abitudini si aggruppano attorno di ciò che esiste. Quando un abuso è durato lungo tempo, esso agli occhi di quelli che ne soffrono, altrettanto quasi che agli occhi di quelli che ne godono, perde l’apparenza di un abuso. La ragione n'è semplice. Ogni generazione, ed ogni individuo di ciascuna generazione, entrano nelle istituzioni esistenti come in un edilizio nel quale egli è importante d’alloggiarsi; e per deplorabile che sia lo stato di alcune parti di questo edilizio, per annerite e malsane che sieno le stanze abitate da una gran porzione di coloro ch'entro vi si ricoverano, pur vi si trova un asilo, ove ci accomodiamo ed ove pi accostumiamo.

Quanti secoli sono trascorsi sotto i più abusivi governi, senza che questi governi avessero a lagnarsi d’un sol tentativo per rovesciarli! E se si prendessero in attento esame i tentativi di rovesciamento dai quali è stata interrotta questa serie di rassegnazione, vedrebbesi, che il più delle volte, sono i governi che ne hanno dato il segnale.

Dato una volta il segnale, le scosse senza dubbio son forti, le calamità talvolta spaventevoli; ma son queste eccezioni all'ordine consueto, e non conviene il far delle leggi per le eccezioni.

Consideriamo dunque, sotto quest'aspetto, il consenso che dà Filangieri, affinché vengano ammessi in qualità di accusatori, nel caso di delitti commessi attentatori alla società degli domini da lui stesso dichiarati infetti di tutti i visj della schiavitù.

Certamente, di tutte le classi della società, quella dei mercenari che sottomettono la loro personal libertà alle fantasie d'un padrone, è la meno interessata alla conservazione dell’ordine stabilito. Quest’ordine ha una tendenza ad essi totalmente contraria; gravita esso su di loro più che sopra qualunque altra classe. Il contadino ha il suo campo, il fittajudo che vive sul campo di un altro vien garantito dalle leggi nel possesso più o meno diuturno, assicuratogli da un contratto; l’artigiano ha la sua industria, l'operajo stesso le sue braccia. I domestici salariati non hanno altro a far valere che la loro docilità a servire o a prevenire i capricci, la loro pazienza a sopportare l’insolenza d’un padrone. Si è ben sovente osservato, e con ragione, che più taluno aveva che fare colle cose, più miglioravasi il suo carattere morale; mentre chiunque avesse che fare principalmente con i suoi simili, sperimentava nel suo carattere sensibile deterioramento. Ciò deriva dal rendersi tutti i vizj inutili, nei rapporti colle cose. L’astuzia, il calcolo, la bassezza, non potrebbero essere elementi di successo; l’agricoltore ha un solo mezzo di rendere produttivo il terreno, e questo consiste in ben coltivarlo; il cortigiano ne ha mille per ottenere il favore del principe, e quasi tutti altra base non hanno, che la corruzione, quale fan presupporre o producono. I domestici sono, in miniatura, i cortigiani di quelli che li pagano; e non essendo la loro professione circondata dalla pompa che rende i cortigiani significanti ai loro propri sguardi, cosa sempre salutevole alla morale, la classe condannata alla domesticità diviene di tutte la più abbietta.

Di più aggiungete, esser anche la medesima la più esasperata contro l’inegualità sociale, cagione della sua abbiezione, in contatto perpetuo con i di lei superiori che la maltrattano e l’umiliano ad ogni minuto della giornata; ciò che può restarle di buono nell’anima si converte in odio. Lo spettacolo de' vizj, nel segreto de' quali vengon posti dalla necessità o dall’indiscretezza, l’obbligo di esserne gl’istromepti, il sapere che si apprezza più il loro zelo in questo genere, di quello che si faccia di tutte le virtù ch'essi potrebbero dispiegare, tutte le riflessioni che queste deplorabili connessioni devono suggerir loro, fan sì, che nell’animo dei domestici l’odio si riunisca al disprezzo.

Ben lo sente Filangieri, poiché, come ho accennato di sopra, nelle cause ordinarie, egli rigetta la testimonianza di questi mercenari; ma quando è questione di ciò ch'egli denomina delitti politici, non solo egli accoglie la loro testimonianza, ma li eccita a divenir delatori. Poc’anzi non eran eglino ammissibili a dire ciò di che per pubblica notorietà constava aver essi cognizione, ed ora son chiamati ad erigersi in denunziatori o accusatori, vale a dire, a narrare ciò che possono aver egualmente inventato che scoperto; e così il prestigio del vocabolo sicurezza pubblica accieca i migliori spiriti; autorizzano, questi gli uomini perversi ad impadronirsene. Ricordiamoci cosa erano a Roma gli schiavi, ed i liberti ammessi a denunziare e ad accusare i loro padroni; riflettiamo a ciò che è stata la classe medesima, tranne poche onorevoli eccezioni, durante la rivoluzione. Egli è di già un male della società il degradar certe classi; ma quando essa le ha degradate, deve almen disarmarle; allorché si commette il male, il minimo compenso che sì può adottare si è quello, di prendere delle cautele contro il male che si commette.


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CAPITOLO XX

Che il Magistrato accusato dev’essere responsabile, se non della verità, almeno della legittimità dell'accusa

«Finché vi è persona in uno Stato, che possa impunemente calunniarmi, la mia libertà non è al coverto; la protezione delle leggi non è bastantemente forte per garantirla.»

Lib. III, cap. IV

Non v’ha alcuno, io lo credo, che non senta quanto sia vera l’osservazione di Filangieri. Assoluto da qualunque responsabilità, il ministero accusatore sarebbe una dittatura più formidabile di alcun’altra politica dittatura; poiché andrebbe a ferire ad un tempo l’onore e la libertà di quelli, che del suo odio o della sua vendetta sarebbero gli oggetti. Gittati nei ferri, e privi della facoltà di difendersi, vedrebbero essi aggrupparsi sulle loro veste dei sospetti, quali darebbero un’apparente consistenza ai motivi della loro ingiusta prigionia, e questa stessa prigionia toglierebbe loro qualunque mezzo di dissipare questi sospetti. L’opinione pubblica, già sì distratta, sì disposta alla dimenticanza, allorché le vessazioni sono troppo durevoli, troverebbe nelle calunnie dell’oppressore, dei pretesti onde privar la vittima d’ogni interesse per parte sua; l’egoismo assumerebbe il nome di rispetto per la legge o per la cosa giudicata; ed il magistrato prevaricatore scaglierebbe dall’alto del suo tribunale i suoi inviolabili fulmini contro l’innocenza incolpata, e ridotta al silenzio.

Tale è per altro lo stato delle cose che la legistazione autorizza, se non di fatto, almeno di dritto, nella maggior parte de' paesi civilizzati. Voglio pur credere che i magistrati non abusino frequentemente di queste terribili prerogative. Ma basta che l’abuso sia possibile perché ci affrettiamo a prevenirlo, ed i più cari dritti del cittadino devono trovare la loro garantia nelle leggi, e non cercarla a caso nella probità degli uomini, le stesse virtù de' quali non sono che felici accidenti.

La società, in di cui nome il magistrato intenta un’azione contro un innocente, deve, a quest’innocente medesimo una riparazione proporzionata al danno; ed allorché l’accusa intentata non è motivata da indizj e probabilità sufficienti, il magistrato dev'essere personalmente responsabile della leggerezza dell’accusa.

Si obbietterà, che con sommettere ad una sì pericolosa responsabilità gli uomini incaricati, di perseguitare i delitti in nome dello Stato, verrebbe a scoraggisi il loro zelo. Attorniati da pericoli, esposti a vedersi puniti per un errore commesso colle intenzioni le più pure, essi non compierebbero che tremando la loro severa missione, e la loro incerta e riservata condotta moltiplicherebbe il numero dei colpevoli, moltiplicandole sorti dell’impunità. Questa obbiezione non è totalmente destituita di forza per risolverla, convien fare una distinzione tra la verità e la legittimità di un’accusa.

Un’accusa può essere nel tempo stesso falsa e legittima, vale a dire, che delle infelici circostanze e delle probabilità abbastanza grandi, possono essersi accumulate sopra colui, su cui cade il sospetto d’un delitto; in modo, che la ragion comune, dietro la quale gl’istrumenti del potere sociale devono condursi, sia colpita da queste verisimiglianze, ed esiga una scrupolosa investigazione

Il magistrato che procede ad una simile investigazione, cominciando dalle perquisizioni e dall’assicurarsi dell'individuo sospetto, commette indubitatamente un errore se l'individuo non è colpevole, ma un errore è questo, che impossibile eragli di non commettere. La vittima di quest’errore ha dritto a delle indennità, perché il di lei patimento è stato ingiusto; ma ella non ha il dritto di attaccare il magistrato autore innocente ed irreprensibile dell'errore, per cui la medesima ha sofferto.

Che se, all'opposto, l’accusa non è sostenuta da alcuna verisimiglianza se egli è evidente che per dar principio ai suoi atti il magistrato non possedeva veruno di quei motivi, che il comun senso riconosce per valevoli; s'egli non altro può allegare se non se l'eccesso dello zelo, e l’impegno dell'attività, non è più un semplice rifacimento di danni ch'è dovuto dalla società all'incolpato, bensì il castigo esemplare del magistrato troppo leggiero, troppo credulo, o troppo zelante.

E non si creda già che il principio qui da noi stabilito non sia facile ad applicarsi in pratica. Se si svolgessero i registri dei tribunali criminali di tutti i paesi, vi si troverebbero innumerevoli esempi d’individui processati, detenuti, rovinati, perché è piaciuto ad alcuni magistrati di accusarli di delitti, dai quali il più semplice buon senso sarebbe stato sufficiente ad assolverli.

Ma, dirassi, e come poter mai avverare giuridicamente la legittimità d’un’accusa? Conte deciderà, se il magistrato che l’ha intentata non fosse realmente convinto, ch'essa era ben fondata? Qui, né 'convengo, la questione diviene puramente morale: egli è impossibile che la legge fissi delle basi. E perciò io non vorrei sottometterla ad un tribunale astretto a decidere sulla lettera d’una legge qualunque. Ogni qual volta convien risolvere una questione morale, è questa di competenza de' soli giudici che prendono norma unicamente dalla loro coscienza: voglio con ciò indicare i giurati. Egli è innanzi a loro, che simili Cause sarebbero portate; essi pronunzierebbero se il magistrato, tradotto al loro tribunale, abbia avuto sufficienti motivi d’iniziare un processo e di esperte un cittadino allo scorno, ai danni, alla reclusione, al dolore; risultati inevitabili di un'accusa, anche allorquando vien questa rimossa da una sempre tarda assoluzione.


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CAPITOLO VII

Della prigionia

«Togliete un momento a’ vostri piaceri per condurvi nelle carceri, ove più migliaja de' vostri sudditi languiscono pe’ vizj delle vostre leggi, e per l’oscitanza dei vostri ministri. Gettate gli occhi sopra questi tristi monumenti delle miserie degli uomini e della crudeltà di coloro che li governano. Approssimatevi a queste mura spaventevoli, dove la libertà umana è circondata da' ferri, e dove l'innocenza si trova confusa col delitto.»

Lib. III, cap. VI

Impossibile sarebbe di nulla aggiungere a questa patetica, ed infelicemente troppo esatta descrizione delle sofferenze di coloro, che le imperfezioni del nostro ordinamento sociale, e l’insensibilità dei depositari del potere, condannano a languire nelle prigioni. Ma nel rendere omaggio alla spaventevole fedeltà con cui è delineato un tal quadro, egli è ben doloroso l’aversi a dire, che di tutti i miglioramenti reclamati dall’umanità, quelli che riguardano il destino dei detenuti sono i più difficili a mandarsi ad effetto. L’uomo è colpito da un’imprevidenza singolare, la quale in una certa guisa sembra connessa col di lui egoismo onde preparargli un castigo. Finché egli gode la sua libertà, questa sembragli al coperto dei colpi della fatalità. Si crederebbe, che coloro che gemono nel fondo d’una prigione, appartenessero ad una specie diversa dalla sua; egli è soltanto dopo l'evento che lo precipita in mezzo alla razza proscritta, che si dileguano le illusioni del di lui orgoglio, ma è troppo, tardi allora per portar riparo a ciò ch’egli ha trascurato di prevenire.

Hanno per altro i progressi della civilizzazione questo vantaggio, che l’egualità, la quale necessariamente deriva da questi progressi, sottomette a pene uniformi un maggior numero d’individui. A malgrado delle eccezioni che sopravvivono mercé le tradizioni del privilegio, la prigione si apre ai giorni nostri anche al cospetto di certe classi, che in passato non ne oltrepassavano mai la soglia; e sottomesse a rigori che recan loro ad un tempo sdegno e sorpresa, apprendono le medesime a compatire dei mali, quali por lo passato ignoravano, perché da esse non mai sopportati.

In tal guisa alcuni principi di giustizia o di pietà prendon credito in teoria. Ed è pur ciò di qualche importanza; poiché si può dire ciò che più aggrada, ma la pratica tien sempre dietro alla teorica, quantunque con passo lento ed interrotto.

È già una verità generalmente ammessa, che i de' tenuti per diverse cause, devono essere custoditi separatamente gli uni dagli altri, e diversamente trattati. Questa verità che sembra evidente, non avrebbe forse giammai trionfato, se delle persone di colte maniere non si fossero trovate confuse con de' colpevoli, i di cui rozzi modi più che il delitto scandalizzavali. L'orgoglio del rango ch’essi occupavano nella società ha corroborato le impressioni del disgusto fisico, ed i reclami dell’offesa vanità hanno alla umanità recato sollievo.

Nel modo tesso non tarderassi a convincersi che se la prigione può essere necessaria per assicurarsi delle persone prevenute d’un delitto, o violatrici d’un impegno, questa misura severa essendo soltanto una precauzione (poiché non parlo io qui della reclusione come pena legale), deve limitarsi a ciò che indispensabile si rende ad ottenere lo scopo prefissosi, Quanto eccede i limiti della più stretta necessità è un'ingiustizia; quanto può raddolcire la sorte dei (detenuti, senza favorire la loro evasione, è un sacro dovere.

Ma allorché si vuole l'adempimento d’un dovere, convien comminare delle pene alla trasgressione del medesimo. Ora, in nessun paese, i carcerieri che eccedono i loro legittimi poteri, o che offendono le leggi dell’umanità, non sono minacciati di pene sufficienti. Sembra che la società paventi di scoraggire quest'istromenti del suo rigore; gli investe essa di un’autorità da esercitarsi quasi a. discrezione loro, e frappone ogni sorta di ostacoli affinché non si dimandi loro alcun conto dell’uso che fanno di questa autorità. Singolar propensione dello spirito umano a ragionar falsamente, allorché trattasi di dirigere il ragionamento contro la forza! Più potente è un tal uomo, più credesi necessario di dichiararlo inviolabile; e nulladimeno egli è manifesto che più egli è potente, e più gli abusi del suo potere possono moltiplicarsi e variare.

Questa massima non può applicarsi all’autorità regia, perché un monarca trasmette il potere, ma non io esercitaj per tutte le funzioni però subordinate, dal ministro sino al carceriere o al giandarme, la responsabilità dev’essere tanto più severa, quanto più l’arbitrio è inerente all’esercizio di questa funzione.

Ora, nell'interno d’una prigione, per la forza delle cose, perla necessità di mantener l'ordine tra uomini tutti malcontenti della loro prigionia, per la disproporzione che v'ha tra il loro numero e quello dei loro custodi, un carceriere trovasi investito d’un'autorità quasi illimitata.

Riponete dunque nella gravità del castigo il preservativo che voi non potete introdurre nel limite dell’autorità. Voi siete astretto a consegnare il prigioniere disarmato ad un uomo, il di cui carattere è con ragione sospetto d’insensibilità e d’avarizia; poiché chi vorrebbe mai farsi carceriere, se non avesse un cuore di bronzo ed un’anima avara? Intromettetevi dunque tra il prigioniero e quest’uomo. Voi siete responsabile di tutte le ingiustizie ch'egli può sperimentare; poiché siete voi, che lo avete posto nei ferri; voi, che lo avete messo nel caso dì non potersi difendere contro l’ingiustizia; voi, che avete chiuso tutti gli egressi dinanzi a lui. Aprite dunque tutte le vie di sfogo alle sue lagnanze ed ai suoi reclami, e soprattutto non vi limitate a delle formalità, che altro non sono se non se una crudel derisione; a delle visite di etichetta, che sono meri aguati, poiché quell’infelice detenuto, che lagnasi, si ritrova sotto il giogo d’un padrone ch’egli irrita.

Non ispetta già all’amministrazione, sempre parziale verso i suoi agenti, il decidere su i delitti degli agenti da lei protetti; ella é sempre parte nelle cause di questa natura. Per leggiera che sia la lagnanza del detenuto, spetta ai tribunali, spetta ai giurati ad esaminarla; e devono essi esaminarla con tanto maggior rigore inquantoché chi si lagna trovasi in una situazione tale, che una porzione delle sue forze gli vien tolta, poich’egli è piuttosto interessato a conciliarsi il favore d’un uomo da cui ad ogni minuto ei dipende, il qual uomo può in mille modi vessarlo conducendosi sempre in guisa da non commettere un delitto formale, e che, se affronta gl’inconvenienti inseparabili da una lotta si disuguale, lo fa, costretto da una irresistibile, non meno che dolorosa necessità. In tal caso, ed in tal caso soltanto, tutte le presunzioni sono in favore dell’accusatore contro l’accusato.


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CAPITOLO VIII

Dell’abbreviazione delle formalità

«È facil con il vedere quanto assurda aia la regola de' criminalisti, o quanto sieno ingiuste quelle leggi stabilite in una gran parte dell'Europa, le quali sotto il nome di delitti privilegiati, dispensano da una parte del rigor delle prove, allorché si tratta di alcuni più atroci reati.»

Lib. III, cap. IX

Non istenterà il lettore a persuadersi, che su questo punto io sono di concorde parere con Filangieri. Sono trent’anni che non ho cessato di dire e di pubblicare colle stampe, che solo per effetto della più strana petizione di principio si abbreviavano le formalità in certi casi, sotto pretesto dell'atrocità dei delitti o della sicurezza dello Stato. Non hanno certamente le formalità altro scopo che quello di condurre i giudici alla cognizione della verità. Se queste non giungessero ad ottenere questo scopo sarebbero inutili.

In tal caso, perché introdurle, perché conservarle nei processi ordinarj? In fatto di procedura, quanto non è indispensabile è dannoso; qualunque lentezza è un inconveniente, scusabile soltanto per la sua necessità; e se i fatti potessero essere avverati, il delitto o l’innocenza riconosciuti con ugual certezza mediante la giustizia sommaria dei Turchi anziché colle moltiplici precauzioni, la sommaria giustizia dei Turchi preferibil sarebbe alla moltiplicità delle nostre precauzioni. Ma se la scoperta della verità non può ottenersi che restando scrupolosamente attaccati alle formalità, come mai avviene che' per l’appunto laddove questa scoperta interessala vita o l’onore, voi sopprimete le formalità tutelarj? Una pena infamante o capitale, che rovescia l’esistenza intiera d’un cittadino, lo cancella dal numero dei viventi, o non gli lascia altra sorte se non quella dei ferri, dell’abbandono, e della vergogna, che riflette sopra quanto è a lui caro, sembra a voi, per essere applicata, esigere minori investigazioni, minori scrupoli e lentezze di una leggiera ammenda o di pochi giorni di prigionia? Nell’osservare le disposizioni di quasi tutti i codici, e la costante pratica di tutti i governi, pur si direbbe, che in tal guisa hanno ragionato i legislatori.

Un uomo è accusato di un semplice furto, duna frode, di qualche usurpazione della proprietà o dei dritti altrui, o di un atto di violenza, d’un omicidio dettato dalla gelosia, dalla vendetta, dal bisogno; voi lo munite di tutte le salvaguardie; voi gli lasciate il benefizio de' suoi giudici naturali, voi non lo private né della risorsa protettrice del giurì, né dell’officioso ministero d’un difensore; voi nulla affrettate, o abbreviate, o precipitate. Questo medesimo individuo viene accusato di un delitto più grave, contro il quale più severa è la legge, e più rigorosa la pena; si pone a suo carico la premeditazione d’un attentato alla vita del principe, o una cospirazione, per cui la sicurezza dello stato è minacciata: voi gli ricusate immediatamente tutte le garantie valevoli a proteggerlo s’egli è innocente; per lui non v’ha giurì, sovente neppur difensori; ma delle formalità raccorciate, dei tribunali straordinarj, dei giudizi sommarj! Non direbbesi forse, che più terribile è un'accusa, più egli è superfluo di esaminarla con attenzione?

Ed osservate bene, che questa vostra assurdità di procedere non è la sola. Voi aggiungerete a questa molte altre, subitochè avrete intrapreso a battere questa strada, ed ogni passo che sarete a fare, sarà una contradizione ed un'ingiustizia. Voi punite un uomo anticipatamente, e non è se non quando lo avete punito, che indagate s’egli è convinto.

Imperocché, o sono elleno salvaguardie, o le formalità, son mere superfluità inutili. Se sono salvaguardie, il privarne un accusato, è lo stesso che applicargli una pena, ed è un riporlo prima che sia convinto, in uno stato più sfavorevole di quello degli altri membri dello stato sociale. Ma se certo voi siete che questo accusato merita una pena, perché lo trattate voi da un altro lato come se ammetteste ch'egli può essere innocente?

Risponderete voi, che la pena, seppur n’è una quella che a lui deriva dal raccorciamento di alcune formalità, non è da mettersi al confronto di quella, a cui sarà condannato essendo trovato colpevole? Sia pure, ne converrò; ma questa è pur sempre una pena. Se egli è innocente, non l’ha meritata; e finché voi ignorate s’ei non è innocente, con qual diritto lo sottoponete voi a questa pena?

Ciò dipende dal modo, con cui gli uomini si lasciano costantemente sedurre mediante artificiose compilazioni. Si dice nei codici: i colpevoli di tali o tali altri delitti, saranno giudicati con tale o tal altro metodo di procedura; e, conseguentemente, si trova naturalissimo, che gl’incolpati di simili delitti vengano in tal guisa giudicati. Egli è pertanto come se si dicesse nei codici: dipenderà da chiunque siasi, di togliere a qualunque uomo gli piaccia il benefizio delle formalità protettrici, purché scelga anche il delitto del quale gli piacerà d’incolparlo; poiché può ben taluno non cospirare, non assassinare, ma non può impedire ad un altro di accusarlo d’assassinio o di congiura: e tale è la debolezza dell’umana mente, che la petizione di principio, quale una simile compilazione pone nella sua più odiosa evidenza, passa inosservata, mercé un leggiero cambiamento di espressioni.

Ascoltate difatti gli oratori egli scrittori che prendono a proteggere i giudizj sommarj, i tribunali speciali, le commissioni, in una parola la soppressione delle garantie ordinarie in alcuni casi particolari. Essi rimproverano a coloro che reclamano queste garantie di dichiararsi i difensori dei ladri, de' cospiratori ovvero degli assassini. Ma prima di riconoscerli per assassini, cospiratori o ladri, non fa egli d'uopo di avverare i fatti? Ora cosa son mai le formalità, se non se i migliori mezzi per giungere all’avveramento dei fatti? Che se voi credete poterne far di meno, o supplirvi con ricerche più pronte e non tanto minute, io vel consento; ma appigliatevi allora allo stesso metodo per tutte le cause. Non è forse da stolto il pretendere che per alcuni fatti, e precisamente per quelli che sono meno rivoltanti e men gravi, si debba stare rigorosamente attaccati a delle lentezze; mentre per altri fatti, e precisamente pei più gravi e più odiosi, si crede di poter decidere precipitosamente? Siate, almeno per verecondia, consentanei a voi stessi. Se la precipitazione è priva d’inconvenienti, sopprimete le lentezze, perché seno superflue: se le lentezze non sono superflue, astenetevi dalla precipitazione: è dessa pericolosa.

Se la natura avesse voluto, che per via di segni esterni ed infallibili si potessero distinguere gl'innocenti dai colpevoli, i sofismi che perpetuamente sono messi in campo per abbreviare le formalità sarebbero mere scuse o pretesti; ma in tal caso converrebbe abbreviare non solo le formalità, ma come inutili sopprimere gli stessi giudizj. Contro coloro che sono riconosciuti rei basta l’esecuzione. Ma questi segni non esistono: le formalità sono l'unico mezzo di discernere il delitto dall’innocenza: l’abbreviarle, il restringerle, il modificarle nella più piccola salvaguardia da esse stabilita, egli è un dichiarare, che si ha poca premura di giungere a questo discernimento, e che non si ha cura di colpire soltanto chi è reo, purché si possa colpire qualcuno.

Mi è accaduto più e più fiate di vedere stabilire in principio, che la natura del tribunale veniva determinata dalla natura del delitto. Questa sentenziosa compilazione ad altro non serve che a congiungere l'iniquità alla pedanteria. Lo ripeterò un’altra volta: non bisognerebbe dire la natura del delitto, bensì la natura dell'accusa. Cambiare il tribunale ingrazia dell’accusa, egli è un porre l'accusato alla discrezione dell’accusatore; egli è un trattare il prevenuto come un condannata, egli è un supporre la convinzione prima dell’esame, e far precedere alla colpa il castigo; poiché, lo ripeto, il privare un cittadino de' suoi giudici naturali, egli è un infliggergli una pena, una fortissima pena.


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CAPITOLO IX

Dei testimoni a discolpa

«I testimoni, che depongono in favore del reo, saranno egualmente ascoltati che quei che depongono ii contro di lui.... l'accusatore ed il reo saranno presenti alle loro deposizioni. L’istesso dritto che ha il reo, di altercare co’ testimoni prodotti dall'accusatore, s avrà l'accusatore co’ testimonj prodotti dal reo. Nella eguaglianza delle cose, la prova testimoniale in favore del reo distruggerà la prova testimoniale contro di lui.»

Lib. III, cap. XV

Tutte le regole stabilite da Filangieri. in questo capitolo sono perfettamente conformi alle, leggi dell’umanità e della giustizia. É solamente cosa ben dispiacevole che in alcuni paesi sieno queste continuamente violate, e che in altri Io zelo del legislatore in procurar condanne sia stato sì fervido, ch’egli non abbia neppur posto mente a simili indispensabili precauzioni. Direbbesi che agli occhi di più d’un magistrato i testimoni a discolpa trovansi in situazione poco differente da quella dell’accusato, che gli. uni partecipano del disfavore che attornia l'altro, e che il render testimonianza in favore d’un uomo su di cui è caduto il sospetto d’un delitto, è un atto di complicità o almeno un quasi delitto.

Mentre! testimoni a colpa sono incoraggiti ed avvertiti delle contradizioni nelle quali essi cadono affinché possano distruggerle o conciliarle, mentre si suggeriscono loro delle spiegazioni, o che si fanno loro degli elogi, i testimoni a discolpa sono minacciati, interrotti, e bene spesso accusati anche d’impostura. Il ministero pubblico o i presidenti prendono durante la discussione le loro riserve per falsa testimonianza, e, di tal bitta, la spada di Damocle resta sospesa sul capo di persone, alle quali si è fatto giurare di dire la verità, e alle quali si mostra col gesto e colla voce il banco degli accusati ad esse preparato, se non mentiscono a dispetto della loro coscienza.

Nulla v’ha, a parer mio, di più scandaloso e di più colpevole d'un simil procedere e tra l’accusato ed il magistrato che si comporta in tal guisa, il più reo sembrami essere quest'ultimo.

Esigerebbe la rigorosa equità, che si ponesse per regola fondamentale ed inviolabile, di obbligare l'accusatore ovvero il magistrato, se venissero ad incolpare di falsa testimonianza un testimonio a discolpa, a provare la loro asserzione durante la discussione e prima che si pronunzi sentenza contro l’accusato.

L’uso opposto ha un inconveniente che deve colpire qualunque spirito illuminato.

Il deposto d’un uomo incolpato di falsa testimonianza, perde necessariamente forza nello spirito dei giurati; esso non ha più alcun peso; diviene anzi una nuova presunzione funesta all’accusato, che vien sospettato di un delitto di più, oltre quello per cui è tradotto in giudizio; intendo parlare del delitto d’aver subornati i testimoni, e d’averli indotti a spergiurare: ed imbevuti di tal prevenzione i giurati emanano la loro decisione. Preoccupati da quest’idea, essi ritorcono a danno dell’accusato le circostanze che li avrebbero fatti pendere in di lui favore. L’alibi attestato dal testimone divenuto so» spetto, quest’alibi ohe sarebbe d'altronde una prova d’innocenza, si trasforma in colpa addizionale, e in probabilità. di nuovi delitti.

Che in progresso di tempo, dopo che il giudizio principale è stato pronunziato, dopo ché il carnefice ha fatto sua la vittima, dopoché il patibolo è stato tinto di sangue, sia dichiarato veridico da una tarda informazione il testimone che un accanito accusatore o un implacabile magistrato avevano aggravato di sospetti, cosa importa ciò all’itìtfelice già caduto sotto la scure, e i di cui estremi momenti sono stati resi ancor più amari dall’infamia?

Egli è da osservarsi che, per colmo d’assurdità, e di iniquità, il modo di procedura attuate in tutti quasi i paesi del mondo, separa totalmente la causa del testimone da quella dell’accusato; e che, anche riconosciutasi la veracità del primo, non se ne deduce alcuna conseguenza in favor del secondo. Non è egli per altro evidente che se il deposto del testimone di cui erasi annullata la testimonianza è dichiarato vero, la situazione dell’accusato trovasi totalmente cambiata? Se, per esempio, un testimone avesse attestato la presenza di questo accusato in un luogo distante dal teatro del delitto, e se dopo aver revocato in dubbio la sincerità della sua narrativa, questa fosse stata ammessa come incontrastabile in un giudizio solenne, non ne risulterebbe forse che la questione dell’alibi verrebbe decisa in favore dell’accusato? E non sarebbe forse contrario ad ogni ragione il persistere nella condanna pronunziata contro di questi, malgrado il giudizio che avrebbe ammessa come provata una circostanza, io virtù della quale sarebbe dimostrata l’impossibilità del delitto?

Eppure questo è ciò che appunto è accaduto in un famoso processo. Un prevenuto di ribellione a mano armata, produce tre testimoni che depongono del suo alibi nel momento in cui ebbe luogo questa ribellione. Il ministero pubblico interrompe questi testimonj, li minaccia, gl'incolpa di falsa testimonianza, e fa contro di loro le sue riserve. Frattanto il processo continua, l'accusato vien condannato. Pronunziata la sentenza ed anche, cred'io, dopo essere stata questa; posta in esecuzione, si forma il processo in falsa testimonianza, ed i testimoni vengono assoluti. La loro testimonianza non era dunque falsa: era dunque reale l'alibi da essi attestato. Non è egli dunque manifesto Che, se quest’ultima questione fosse stata risoluta prima che sì pronunziasse sentenza' contro l'accusato principale, la convinzione dei giurati sarebbe stata ben diversa, e ben diversa pur anche la' loro dichiarazione?


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CAPITOLO XI

Del giudizio per via di Giurati

«L'esame del fatto era riserbato (presso i Romani) ad alcuni giudici, la scelta de' quali, dipendeva dalla sorte e dal consenso delle parti... Quattrocento cinquanta cittadini di conosciuta probità, venivano in ogni l'anno nominati.. Il pretore.... gittava in un’urna i loro nomi… Il giudice della questione ne tirava a sorte quel numero che la legge prescriveva.... L’accusatore e l’accusato rifiutavano allora quelli che essi a credevano sospetti, e questi erano sostituiti dagli altri che il giudice tirava dell’istessa maniera dall’urna... ed ognuna delle parti aveva il dritto di cercare dalla a sorte un altro giudice.»

Lib. III, cap. XVI

Ben si scorge che Filangieri non suppone che la nomina dei giurati possa aver luogo in altra guisa che per via della sorte. Non pertanto da molti anni a questa parte una tal nomina viene affidata in Francia alla scelta dell’autorità, e d’un’autorità subalterna. Simil pratica, sovversiva d’ogni principio, ci è stata trasmessa in legato da un uomo a cui dobbiamo tutte le cattive tradizioni che sfigurano o denaturano il nostro ordinamento costituzionale.

Non è per altro possibile il dissimularsi che una autorità, istituita, salariata e revocabile dalla porzione esecutiva del governo, è più incapace di ogni altra di procedere in modo atto a tranquillarci sulla scelta degli uomini chiamati ad inappellabilmente decidere dell'onore e della vita di tutti i cittadini. La norma di qualunque funzionario dipendente, si è l’ordine che gli si dà; il suo più gran merito è il suo zelo; la sommissione è il suo primo dovere; all'opposto un giurato non deve decidere che su i dettami della propria coscienza. Egli non riconosce superiori; la sommissione sarebbe in lui il più atroce dei delitti.

I giurati nominati dall'autorità sono dei commissari; e siccome la corruzione di ciò ch’è buono è di tutte le corruzioni la peggiore, cosi i giurati scelti ad un dato fine, sono trattenuti da minori riguardi, hanno meno erubescenza, si sottraggono più facilmente ad ogni responsabilità morale, di quello che facciano dei giudici permanenti,! quali, almeno, restando sempre esposti agli sguardi pubblici, possono provar qualche ripugnanza nell'incaricarsi di quanto v'ha d'odioso in giudizi iniqui, ed in sentenze che vengon loro dettate; mentreché i giurati rientrando nella massa popolare vi si confondono di bel nuovo, e si lusingano, dopo le più scandalose prevaricazioni, d’essere dimenticati o di vivere inosservati.

Si obbietta, che tutti gli uomini non sono dotati d’istruzione, o non possiedono sufficiente perspicacia per decidere questioni bene spesso complicate. A ciò rispondo, che il più delle volte tali sono simili questioni unicamente perché le si vuol compii care a bella posta. L’intendimento non è con tanta disuguaglianza ripartito tra gli uomini con quanta si compiacciono supporlo coloro, a cui anderebbe agrado di stabilire un’oligarchia intellettuale, a fine di appoggiare e perpetuare l'oligarchia sociale e politica. Non v'ha quasi alcuno che non abbia uq senso abbastanza giusto ed abbastanza retto, quando non sia viziato dalla passione o dall’interesse, per giudicare sanamente e facilmente di un fatto chiaramente esposto, attestato o combattuto da testimonianze che si schiariscono e si equilibrano a vicenda, e rappresentato in tutti gli aspetti, dai respettivi dibattimenti tra l’accusatore e l’accusato.

Quando però fosse vero che la mancanza d’in, tendimento conducesse di tempo in tempo a degli inconvenienti parziali, questi stessi inconvenienti son essi mai paragonabili, dimando io, a quelli che accompagnano la dipendenza e la servilità, e, rispingendo anche il sospetto tormentoso di più colpevoli motivi, a quella disposizione severa ed ostile che gli agenti dell’autorità di tutti i paesi portano nelle loro relazioni coi cittadini, disposizione ch'è un effetto infelice, ma naturale ed inevitabile, d’una situazione differente dalla situazione comune a tutti?

Certamente, se proposto mi fosse d’essere giudicato, a mia scelta, da dodici artigiani senza veruna cognizione, non sapendo, per così dire, né leggere né scrivere, ma estratti a sorte, e non ricevendo ordini ( s) se non se dalla loro coscienza; ovvero da dodici accademici i più formati all’eleganza, da dodici letterati i più esercitati nella sottili delicatezze dello stile, ma nominati dall’autorità, che terrebbe sospesi sui loro capi i cordoni, i titoli e gli emolumenti, io preferirei i dodici artigiani.

Che se mi si dicesse, che questi giurati ignoranti e grossolani non hanno che troppo dimostrato ciò che l’innocenza doveva aspettarsi da loro nei tribunali rivoluzionarj, io risponderei che in questi tribunali rivoluzionarj, vi sono stati indubitatamente tutti gli eccessi dell'ignoranza, riuniti agli eccessi della ferocia. Ma siccome questi uomini volgari ed atroci, non erano che gl’istromenti d’una classe più illuminata, così avevan essi nelle loro file per consiglieri e per guide alcuni membri di queste classi superiori, e il giurì che ha condannato la Gironda era presieduto da un marchese dell’antico reggimento. La classe istruita non è più d’altronde sì scarsa, che non offra il mezzo di trarre a sorte degli uomini dotati di cognizioni. Voi avete due scogli a temere: la parzialità, e l’ignoranza. Allontanate i proletari che sono ignoranti; allontanate gli agenti, dell’autorità che sarebbero servili, e lasciate che la sorte decida tra gli altri, la sorte che è imparziale, perché è cieca, che non distingue tra le cause ordinarie e quelle straordinarie, tra i processi privati ed. i processi politici, che non si risente alla parola di cospirazione, e che sola potrà darvi dei veri giurati e non delle creature del potere.

Non mi è sembrato necessario di entrare qui nella questione generale del giurì. Per altro tra le accuse alle quali questa salutare istituzione trovasi periodicamente esposta, una ve n’ha che prova una tale aberrazione di logica, e che nulladimeno è rivestita talvolta di forme talmente sofistiche, ch'io reputo cosa utile il confutarla di volo, o, a dir meglio, il riprodurre in poche parole una. confutazione già pubblicata.

Se i giurati, è stato detto, trovano troppo severa una legge, essi assolveranno l'accusato, e dichiareranno a malgrado della loro cose senza non constar del fatto. Così, allorché le pene saranno o sembreranno loro eccessive, essi pronunzieranno contro la loro convinzione; e l’autore suppone il caso, in cui un uomo fosse incolpato d’aver dato asilo ad un suo fratello, e che, in forza di un tal fatto, incorso fosse nella pena capitale.

Chi non vede che qui non già del giurì, ma della legge si viene a fare una satira severa?

V' ha nell'uomo un certo rispetto per la legge scritta: gli abbisognano dei potentissimi motivi onde non curarla. L' esistenza di simili motivi prova il difetto delle leggi. Se le pene sembrano eccessive ai giurati, ciò proviene dall'essere le medesime tali; quanto a loro, non hanno alcun interesse a trovarle eccessive.

Negli estremi casi, vale a dire, allorché i giurati son posti tra un irresistibile sentimento di giustizia e di umanità e la lettera della legge, non è punto un male ch'eglino se ne discostino. Non deve aver forza una legge la quale repugni al sentimento universale d'umanità, a segno tale che i giurati, scelti nel seno della nazione, non possano determinarsi a concorrere all'applicazione di questa legge; e l'istituzione di giudici permanenti, il di cui animo fosse conciliato dall'assuefazione ad una simil legge, lungi dall'essere un vantaggio sarebbe un flagello.

L'esempio prescelto dall'antagonista del giurì, ne fa, a parer mio, il più grand'elogio. Esso prova che questa istituzione frappone un ostacolo all'esecuzione delle leggi contrarie all'umanità, alla giustizia, alla morale. Si è uomini prima d'essere giurati; conseguentemente, lungi dal biasimare quel giurato che, in simil caso, mancherebbe al suo dovere di giurato, io lo loderei per aver egli adempito al suo dovere d'uomo, e per esser volato con tutti i mezzi che erano in poter suo, al soccorso d’un accusato in procinto d’esser punito d’un’azione, il quale, lungi dall’essere un delitto, è una virtù. Quest’esempio non prova in conto alcuno che non vi debbano essere giurati; esso prova che non si debbono far leggi che pronunzino la pena di morte contro colui che dà asilo al suo fratello (49).


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CAPITOLO XI

Della pena di morte

«Da quei principj dai quali abbiamo dedotto il dritto di punire deriva il dritto di pronunciare la pena di morte.»

Lib, III, cap. V

Indipendentemente dai ragionamenti metafisici di Filangieri, molte considerazioni pratiche si riuniscono per impegnarci a non rigettare con troppa precipitala, e senza distinguere la natura dei delitti, la pena di morte, contro la quale sono insorti nell’ultimo secolo i più stimabili filosofi.

Nulla v’ha certamente di più orribile quanto la barbarie colla quale i nostri codici applicano liberalmente questa pena contro innumerevoli delitti, che le leggi di natura e di giustizia, i vizj delle nostre sociali istituzioni, e la miseria delle classi diseredate da queste istituzioni, dovrebbero far considerare dal legislatore con occhio d’indulgenza e di pietà.

Mia prima cura dunque sarà quella, di indicare attentamente a quanti pochi delitti debba essere questa pena applicata.

È indubitatamente cosa sacra la proprietà. Ad essa deve la società tutte le garantie che necessarie le sono; essa deve a lei queste garantie per ciò appunto, perché l’ammette. Poiché abolirla è impossibile, il tollerarla imperfettamente sarebbe assurdo. Più l’egualità primitiva può rivoltarsi contro una divisione ineguale la di cui origine rimonta al dritto della forza, più riconosciutasi inevitabile quest’inegualità de v’essa trovar difesa contro le proteste sempre rinascenti della porzione da lei spogliata.

Non ne siegue peraltro, che la società possa legittimamente applicare a questo genere di delitti tutti i generi di pena. Le infrazioni delle convenzioni sociali, per rispettabili che queste sieno, non sono mai tanto colpevoli quanto lo è la violazione delle regole eterne impresse in tutti i cuori. Per questo solo, per essere cioè la pena di morte la più severa, egli è ingiusto di applicarla indistintamente al furto, ed all’omicidio premeditato. Nessuna circostanza scusa colui che deliberatamente toglie la vita al suo simile. Mille cagioni possono riunirsi acciò colui che s’impadronisce d’una porzione di proprietà ricusatagli dalla legge, vi sia trascinato da motivi che, senza assolverlo, attenuino la sua colpa.

Senza dubbio, che maggiori progressi fa la civilizzazione, maggiori risorse offre il lavoro alla classe a cui non rimane che questo mezzo di esistenza; ma non siam noi già arrivati al punto in cui il lavoro sarà per tutta questa classe una risorsa sicura: e, per una deplorabile complicazione, questa risorsa diviene ordinariamente tanto più insufficiente, quanto più grande è il bisogno degl’infelici. Maggiore è il numero degl’indigenti ai quali il lavoro sarebbe necessario, e maggiori ostacoli incontrano essi per ottenerlo, e più è modico il salario che ne ritirano. Se ora noi ce gli rappresentiamo oppressi dalle angosce e dall'agonia delle loro famiglie, potendo in tal guisa rimproverarsi come un delitto di lasciar perire di miseria e di Rime gli esseri ai quali, col dar loro la nascita, hanno essi implicitamente promesso soccorso e protezione; se noi li seguitiamo col pensiere nei miserabili tuguri, in cui sono assediati da tutte le sofferenze; se riflettiamo che cento volte, forse, prima di determinarsi ad affrontare le leggi, si son essi trascinati alle ginocchia del ricco per dimandargli, non già un dono, ma, un'occupazione qualunque; forse porteremo noi meno rigoroso giudizio di delitti, quali, lungi dal supporre, come l’omicidio, l’assenza o la dimenticanza dei sentimenti naturali, possono in questa situazione estrema e terribile, essere il risultato della forza di questi medesimi sentimenti. Conviene indubitatamente punire questi delitti; noi vi siamo condannati dal nostro stato sociale. Ma il far montare sul medesimo patibolo l’uomo divenuto colpevole perché ha veduto sua moglie spirante per mancanza di alimenti, e colui che avesse ucciso la sua, ella è questa un’insensata atrocità, quale sorprende di trovarla anche al dì d'oggi nel codice di più d’una tra le colle nazioni.

E qui mi colpisce una riflessione, la quale non è, per quanto mi sembra, destituita d’ogni importanza. Questa miserabile situazione d’una gran porzione della specie umana, non è il risultato necessario dello stabilimento della proprietà. Ogni qual volta v’ha in un paese pace e libertà, il povero laborioso vi trova la sua sussistenza. Ma allorché un governo intraprende delle guerre inutili, ovvero crea per l’industria dei cittadini delle barriere capricciose, le risorse della classe che lavora, si disperdono. Le intraprese agricolturali, manifatturiere e commerciali periscono, si arrenano, o rimangono per lo meno sospese attese le inquietudini degli speculatori, e la tentazione del delitto diviene per il povero la conseguenza inevitabile dell'impossibilità ch'egli prova di provvedere in modo innocente alla sua sussistenza.

Non è dunque lo sventurato, che non vien punto consultato sulla sorte che deve forzatamente soffrire e che non potrebbe esserne responsabile, egli è il potere ambizioso od arbitrario che sovra di esso pesa, cui dobbiamo incolpare in buona giustizia se le leggi sono violate, la proprietà minacciata; ed è questo stesso potere, che s’incarica di punire, con un' inflessibile severità, i disordini, di cui esso è il vero pel unico autore.

Si direbbe, che più urgenti sono i bisogni, tormentose le angosce, irreparabili le disgrazie, più l’autorità credesi in dritto di raddoppiar di rigore, Osservate qual malcontento si manifesta nella classe comoda alla minima diminuzione o interruzione del suo ben essere. Se i fondi ribassano, se i calcoli commerciali si scompongono, quante mormorazioni, quante minacce anche contro l'autorità, le di cui false misure hanno cagionato questo stato di crisi! Eppure coloro che mormorano, coloro che minacciano non sono lesi che in una porzione dei loro godimenti! Essi hanno il tempo di aspettare delle circostanze più favorevoli; essi non periscono colle loro famiglie prima che queste circostanze si presentino. E si esige minore impazienza, maggior rassegnazione, maggiore scrupolo nel povero che vive alla giornata, nel povero stimolato dalla fame, di cui essa divora le meschine risorse, di cui essa miete i figli!

No, non può mai la pena di morte essere diretta con giustizia contro le semplici violazioni della proprietà. La legge deve armarsi per conservare questa base attuale delle umane società; ma non dev'essa confondere tutti i gradi di reità, né colpire colla medesima scure il feroce omicida che si è mostrato spietato, e l’infelice che si è lasciato forse trascinare dalla compassione per esseri che soffrivano, e le cui grida gli laceravano l'anima ed intorbidavano la sua ragione.

Altrettanto dirò dei delitti politici.

Questi delitti, supponendo il governo organizzato in modo da non precipitare i popoli nella disperazione, provano un’assenza di ragione, cui convien togliere il potere di nuocere, e cagionano dei disordini che fa d’uopo reprimere; ma questi delitti non procedono sovente da alcuna reale perversità, e vanno talvolta uniti ad altre virtù private o pubbliche.

La pena di morte è tanto più ingiusta contro questo genere di delitti, allorché non congiunti all’omicidio ed all’attacco a mano armata, in quanto che questa pena poco atterisce anime abbastanza esaltate per formare il progetto di stabilire ciò che lor sembra essere libertà, o ambiziose a segno da meditare la conquista del potere.

Il premio duna rivoluzione, il di cui esito è felice, è sempre, per colui che n’è il capo, molto superiore ai pericoli che la medesima trae seco.

Non è dunque che nell’aspetto di sicurezza, e per liberarsi da pericolosi avversarj, che i governi applicano ai delitti politici la pena capitale.

Ai giorni nostri però questo calcolo è d’un'estrema incertezza e totalmente inutile.

Esso è incerto, perché in un paese in cui l'opinione condanna la condotta dell’autorità con bastante forza per rendere pericolose le cospirazioni, un’autorità in tal modo condannata non isfugge al destino che le sovrasta che per un tempo necessariamente molto breve. Ergonsi dei patiboli, si versa del sangue; l’opinione sopravvive, trova altri organi, torna a manifestarsi più forte di prima per le sue stesse rimembranze, e trionfa.

Allorché all’opposto, le cospirazioni sono soltanto l'opera di alcune personali ambizioni, egli è inutile il punir di morte i colpevoli, che si è giunti a disarmare. Senza aver gettato radici nella massa del popolo, essi cessano d’esser temibili. L’esilio o la prigionia possono far di essi giustizia senza pericolo per la società; l’esilio è la pena naturale, quella che vien motivata dalla stessa qualità della colpa, e che, allontanando dal colpevole tutte le cagioni d’irritazione, lo ripongono, per dir così, in uno stato d’innocenza, e gli restituiscono la facoltà di restarvi.

Uno scrittore de' tempi nostri, il signor Guizot, ha dimostrato ad evidenza, che l’influenza degl’individui era nulla nel nostro secolo; le sole masse sono da temersi, e siccome non si potrebbe condannarle a morte, conviene occuparsi a soddisfarle.

Molti codici puniscono colla morte l’intenzione del delitto, che da essi viene assimilata all’esecuzione. Una simile disposizione svela una grande ignoranza della natura umana. Molto tempo dopo essersi familiarizzato coll’idea d’un’azione criminosa, l’uomo può retrocedere vicino a commetterla. Il bisogno che lo tormenta, la passione che lo agita, gli hanno suggerito il terribile progetto d’un assassinamento; ma chi vi assicura ch'egli non avrebbe lasciato cadere il ferro in presenza della sua vittima? Il legislatore ha riconosciuto questa possibilità, poiché mitiga la pena allorché costa che circostanze dipendenti dalla volontà dell'incolpato hanno sospeso il compimento del suo attentato. Ma se il risultato medesimo è stato prodotto da ostacoli impreveduti, indipendenti da questa volontà, nulla ci accerta, che, se questi ostacoli non si fossero presentati, la coscienza non si sarebbe risvegliata. L'infelice, che nella sua colpevole esaltazione, si è incoraggito al delitto, e crede di averne la forza, risente in mezzo a questa risoluzione deplorabile un' agitazione, un terrore, un rimorso, di cui non si possono calcolare gli effetti. Sino all'ultimo momento, egli può rinunziare ad un progetto che conturba l’anima sua, e lo rende ai suoi propri sguardi un soggetto odioso. Non apprezzare la possibilità di questo pentimento, egli è un mai augurare della specie umana; non avervi riguardo nelle leggi, egli è un escludere dalla compilazione delle medesime qualunque considerazione di giustizia, e qualunque sentimento di equità.

Stabilite queste diverse regole, la pena di morte mi sembra ammissibile. Contrastare alla società il dritto d'infliggerla, e pretendere che ciò facendo essa eccederebbe i limiti della sua giurisdizione, sarebbe lo stabilire un principio che ci condurrebbe più lontano di quello che si fa sembiante di prevedere. Il rammarico, la reclusione, il lavoro forzato, la deportazione, lo stesso esilio tatti i patimenti fisici e morali, abbreviano la vita; e se lo stato non ha alcun dritto su quella de' suoi membri, esso non è maggiormente autorizzato ad abbreviarla, di quello che a mettervi un termine.

In oltre, è la pena di morte la sola che dispensa i governi dal moltiplicare all’infinito una classe d'uomini dedicati per mestiere a delle funzioni odiose, che adempiute volontariamente e dimandate con fervido impegno, sono una prova di malvagità e di corruzione. L’ho già detto altrove: io stimo meglio pochi carnefici, che molti carcerieri, giandarmi e birri; stimo meglio che. un piccol numero di agenti infami si facciano stromenti di morte attorniati dall’orrore pubblico, di quello che se da pertutto si vedessero degli uomini ridotti per un miserabile salario alla qualità di mastini dotati d’intelligenza, i quali, nemici assoldati dei loro simili, esercitano una sospettosa e truce vigilanza sugl’infelici sottopposti alla loro discrezione.


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CAPITOLO XII

Dei pubblici lavori

«Questa è una specie di pena (i lavori pubblici) che reca un doppio beneficio alla società. All'esempio che dà de' mali che porta seco il delitto, essa unisce i servigj, che il delinquente presta alla società che ha offesa.»

Lib. III, parte II, cap. XXIII

Nel combattere l'opinione di Filangieri in riguardo ai lavori pubblici, io non mi dissimulo, che mi metto in opposizione colle idee le più accreditate di molti scrittori amici dell'umanità. Gravi obbietti per altro insorgono a parer mio, e contro il principio sul quale queste idee son fondate, e contro la loro applicazione pratica.

Quale è mai il dritto della società sopra gl'individui che violano le sue leggi, e gettano nel di lei grembo lo scompiglio ed il disordine? Quello di privarli della possibilità di essere a lei di nocumento. Questo dritto può estendersi, come di sopra si è veduto, sino a privarli di vita. Ma perché io, nel recinto della mia legittima difesa, ho il dritto di uccidere un uomo, ho dunque quello di obbligarlo al lavoro, vale a dire, di ridurlo alla condizione di schiavo? Una massima che mi sembra incontrastabile, e senza la quale la schiavitù abolita dalla religione, e dal progresso delle cognizioni, sarebbe ogni giorno alla vigilia di rinascere, quella si è che l'uomo non può alienare la sua persona e le sue facoltà che per un tempo limitato, e con un atto della sua propria volontà. Se l’uso ch'egli ne fa è dannoso, toglietegliene l’uso, se il male di cui egli è l’autore è tale che la sicurezza pubblica esiga ch'egli ne sia per sempre privato, condannatelo a morte. Ma il rivolgere le sue facoltà a nostro profitto, il servirsi di lui come di una bestia da carico, egli è un ritornare alle più rozze epoche, egli è un consacrare la schiavitù, egli è un degradare l’umana condizione.

Non ci lasciamo sedurre da false apparenze di filantropia: o il lavoro a cui i condannati sono sottoposti è differente da quello che la necessità impone alle classi innocenti e laboriose, della società, o non ne differisce né per il suo eccesso, né per la sua natura.

Nel primo caso è desso la morte la più lenta e la più dolorosa. Vedonsi, e vedevansi specialmente sotto Giuseppe II, dei prigionieri seminudi, col corpo in mezzo all'acqua, trascinare a stento dei navigli sul Danubio. L'infelice che spira sul patibolo prova certamente patimenti meno crudeli e meno prolungati;

Nel caso opposto, il lavoro moderato trasformato in castigo, è a parer mio d'un pericoloso esempio. L'organizzazione delle nostre attuali società obbliga una classe molto numerosa a dei lavori bene spesso superiori alle forze umane. V’ha alquanta imprudenza a mostrarle che senza aver commesso colpa o né anche delitto alcuno, essa trovasi in una situazione equivalente al castigo dei più vergognosi disordini e delle azioni più criminose.

In molte contrade della Germania e della Svizzera, i condannati ai pubblici lavori sono trattati con dolcezza, la loro sussistenza è assicurata; son essi curati nelle loro malattie. Sono eglino, quanto al fisico, più felici del povero; e sormontando ben presto il solo male reale della loro situazione, cioè la vergogna di cui sono coperti, non lavorando più o lavorando meno di quello facessero essendo in libertà vedonsi contenti ad un tempo e degradati, avviliti e soddisfatti, senza inquietudine sull’avvenire e consolati dell’obbrobrio del presente per mezzo di siffatta tranquillità. E non deve un simile spettacolo corrompere la classe laboriosa, la di cui innocenza a null'altro le serve, che a rendere la sua esistenza non meno penosa e più incerta?


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CAPITOLO XII

Della deportazione

«Quando l’esperienza di tutta l’antichità, e gli esempi di molte colonie delle greche repubbliche, mostrato non ci avessero, che coloro che sono il rifiuto di un popolo, possono formare una società molto ordinata; quando l'istorie de' tempi a noi più vicini non ci avessero confermati in questa verità; la sola ragione bastar dovrebbe a persuaderci della possibilità che v’è di convertire un mostro in un eroe, allontanandolo dal luogo ch'è stato il teatro de' suoi delitti, della sua e ignominia, e della sua condanna.»

Lib. III, parte II, cap. XXIII

Alcuno non v'è che scendendo nel fondo del suo cuore, e riportando i suoi sguardi sull’intiera sua vita, non abbia trovato che la maggior parte delle volte le sue colpe, specialmente quelle che, commesse sul cominciar d’una carriera tuttora incerta, influiscono nel modo il più decisivo su tutto il suo avvenire, non hanno avuto altra origine che l’opposizione esistente tra la natura primitiva dell’uomo e le istituzioni impostegli dalla società. Ciò non si vuol dire in biasimo o in odio di queste istituzioni. Ve ne sono delle necessarie, quali peraltro non sono impresse nei cuori, nò suggerite dall’istinto. Queste sono convenzioni divenute sacre, perché il buon ordine riposa su di esse, ma nulladimeno artificiali nella loro essenza. Ne siegue che l’inesperienza giovanile trovasi sovente esposta ad oltrepassare delle barriere di cui appena essa dubita, malgrado gli avvertimenti che vengono a lei copiosamente somministrati; avvertimenti, che in mezzo alle impressioni da cui è agitata, e dalle passioni dalle quali è tratta a forza, essa non ha il comodo di ascoltare; ed ora pecca per ignoranza, ora per impeto naturale. Scusabile allora agli occhi della giustizia morale, non è per altro meno colpevole dinanzi alle leggi positive, o, seppur non giunge al segno di provocare la loro severità, vien essa perseguitata da quella dell’opinione, che giudica con poco discernimento, e condanna senza esame.

Quindi risulta tra quelli colpiti da sì tristo destino e la società, un’opposizione, un’ostilità, che va aumentando in forza del sentimento medesimo da essa prodotto. Variano le sue forme; ma pur si ritrova negl’individui di tutte le classi.

Per gl’individui delle classi inferiori, i quali niun degnasi istruire sulle leggi che li governano, e che non conoscono queste leggi che quando n’esperimentano la sferza, quest'opposizione, queste ostilità divengono sorgenti di molti delitti. Questi delitti, puniti con un rigore accompagnato sempre, più o meno, da infamia, scavano immediatamente sotto i passi del colpevole un abisso che rende impossibile ogni ritorno alla virtù, ogni viver pacifico, ogni innocente ed inoffensiva esistenza. La convinzione che a nulla v'è riparo, è un ostacolo ad ogni tentativo di riforma, ed in tal fatta di frequente accade, che una colpa sola precipita un individuo, ch'era destinato ad una miglior sorte, in una serie di delitti sempre più gravi.

Lo strappare da questo stato deplorabile coloro che l’ignoranza, un istante di passione, le angosce del bisogno vi hanno malgrado loro gettati, è il più gran benefizio che la società, la quale non è forse a riguardo loro senza rimprovero affatto possa conferire ai medesimi. Col sottrarli a forza dalla pressione d'istituzioni non obbedite, e di connessioni perpetuamente corrotte, si renderebbe loro una calma, una sicurezza, una specie di anticipata innocenza, che ristabilirebbe nei loro essere morale l'ordine e l'armonia. Io lo dico con una profonda convinzione: se si potesse far retrocedere miracolosamente un uomo macchiatosi testé d'un delitto, sino all'istante che precedé l'atto funesto, ve ne sarebbe appena, sopra mille, uno, che persister volesse in commetterlo.

La deportazione, ovvero la colonizzazione hanno questo vantaggio. Questa è, per così dire, un rinascere, questa è un'era novella, in cui l'uomo liberato da importune rimembranze, ottiene di bel nuovo la facoltà di scegliere tra 'l bene ed il male; l'esperienza ha dimostrato quanto sia salutare una tale rigenerazione. Non si sono forse veduti, nella colonia della baja Botanica, dei colpevoli, coperti d’obbrobrio in Europa, ricominciare la vita sociale e non reputandosi più in guerra colla società, divenirne degli utili membri?

Quanto dice Filangieri su tal materia è d'una perfetta esattezza; avrebbe però dovuto soggiungere, che a fine di rendere i benefizj della colonizzazione estesi al segno sino a cui possono esserlo, conviene, che, per una parte, i colpevoli ritornati allo stato d’innocenza, dimentichino il loro disonore ed i loro antecedenti delitti, e che per l'altra la società, per quanto lo comporta la pubblica sicurezza, copra del medesimo obblio quanto accadde di funesto in passato. Sono indubitatamente permesse delle cautele contro individui, che non ispirano una perfetta sicurezza; ma meno saranno vessanti queste cautele, più facile e rapida sarà la loro riforma. Acciò l’uomo risorga da uno stato di degradazione, che ad altro non servirebbe che a viepiù corromperlo, la principal condizione si è ch'egli torni a nuovamente stimar sé stesso. Ora, per incoraggirvelo, cominciate dal mostrargli la possibilità di riacquistare la vostra stima. Se nel novello emisfero, su cui lo avete trasportato, voi lo inseguite collo spettro delle vostre diffidenze e della vostra riprovazione, egli non tarderà a stancarsi di battere il retto sentiero, e tornerà ad essere di bel nuovo colpevole oggi, perché voi gli avrete fatto troppo conoscere esser ben presente alla vostra memoria ch'ei fu colpevole in passato.

I governi europei si allontanano troppo spesso da questa massima. L'arbitrio che si esercita sui deportati, il disprezzo che vien loro profuso, le inutili restrizioni da cui sono vessali, gli umilianti castighi che vengono loro inflitti, la convinzione in cui si è, e che loro non si dissimula, di crederli capaci di commettere tutto ciò di cui il caso gli ha resi sospetti, sono altrettante ripetute rimembranze d'infamia, quali la prudenza del pari che l'umanità dovrebbero proibire.

Voi avete reso a questi sventurati un nuovo cielo, una nuova terra; lasciate loro contemplar questo cielo, coltivar questa terra, mostrando loro che l'oceano che li separa dalla loro antica patria li separa egualmente dalle loro colpe, e che è veramente un novello avvenire quello che lor si presenta.

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COMENTO – PARTE IV

SULLA

SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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CAPITOLO PRIMO

Dell’educazione

«Se le orecchie de’ fanciulli si rendono inaccessibili all'errore, la verità troverà lo spazio libero, e vi penetrerà senza stento. Un’educazione regolata dal magistrato e dalla legge sarebbe la sola che ottener potrebbe questo fine sul popolo, e questa educazione regolata dal magistrato e dalla legge, non potrebbe essere che la pubblica.»

Lib. IV, parte I, cap. II

Tutto il libro di Filangieri sull'educazione, disvela la di lui ammirazione per l’antichità, e conseguentemente si risente del medesimo difetto, che ho avuto frequentissima occasione di rilevare. Non ne farò dunque qui altra menzione. Riconoscerò anzi ch’egli osa talvolta di biasimare alcune istituzioni, da lui ritrovate presso gli antichi, e che suggerisce inoltre alcune misure particolari che possono presentare un lato vantaggioso, ma non perciò emendare l’errore fondamentale. Ei riman sempre fermo nel voler affidare all'autorità la direzione quasi esclusiva dell’educazione, ed è un tal errare principalmente che importa di confutare.

L’educazione può essere considerata sotto due aspetti. Si può riguardarla primieramente come ua mezzo di trasmettere alla generazione nascente le cognizioni di ogni sorta acquistate dalle generazioni che la precederono. Sotto questo rapporto, essa è della competenza del governo. La conservazione e l’aumento di qualunque cognizione è un bene positivo; il governo deve garantircene il godimento.

Ma nell’educazione può contemplarsi altresì il mezzo di rendersi padrone dell’opinione degli uomini, onde disporli ad adottare una determinata serie d’idee, sia religiose, sia

morali, sia filosofiche sia politiche. Egli è specialmente come conducente a questo scopo che l’educazione ha ottenuto gli elogi degli scrittori di tutti i secoli.

Potremmo a prima vista, senza revocare in dubbio i fatti che servono di base a questa teoria, negare che questi stessi fatti si potessero applicare alle nostre attuali società. L’impero dell’educazione, nell’onnipotenza che le viene attribuita, ed ammettendo quest'onnipotenza come dimostrata presso gli antichi, sarebbe ancora tra noi piuttosto una reminiscenza che un fatto esistente. Non si valutano a dovere i tempi, le nazioni, e le epoche, e vuoisi applicare ai giorni nostri ciò che praticabile era soltanto in un’era dello spirito umano ben diversa dalla presente.

Fra i popoli i quali, come dice Condorcet (50) non avevano nozione alcuna di libertà personale, e i di cui individui non erano che macchine, delle quali la legge regolava le molle e dirigeva i movimenti, Fazione dell’autorità influiva con maggiore' efficacia sull’educazione, perché quest'azione uniforme e costante non era da alcuna cosa contrasta ta. Ma al giorno d'oggi la società intiera insorgerebbe contro la pressione dell’autorità, e l’indipendenza individuale che gli uomini hanno riconquistata riagirebbe con forza sull’educazione dei figli. La seconda educazione, quella del mondo e delle circostanze, non tarderebbe a disfare l'opera primitiva (51).

Inoltre, possibile ancor sarebbe, che noi prendessimo per fatti istorici i romanzi di alcuni. filosofi, imbevuti degli stessi pregiudizi di quelli, che, ai tempi nostri, hanno adottato i loro principi; ed in tal caso in vece che questo sistema fosse stato, almeno altre volte, una verità pratica, non sarebbe che un errore perpetuatosi di secolo in secolo.

Difatti, dove vediam noi l’educazione esercitare questo maraviglioso potere? É forse in Atene? Ma l’educazione pubblica, consacrata dall’autorità, era quivi ristretta nelle scuole subalterne, che si limitavano alla semplice istruzione; eravi d’altronde completa libertà d’insegnamento. È forse a Sparta? Lo spirito uniforme e monacale degli Spartani dipendeva da una concatenazione d’istituzioni, di cui l’educazione non era che un anello; e questa concatenazione, io lo penso almeno, non sarebbe né facile né desiderabil cosa di vederla rinnovata tra noi. È forse in Creta? Ma i Cretensj erano il più feroce, il più irrequieto, il più corrotto popolo della Grecia. Si separano le istituzioni dai loro effetti, e si ammirano, considerando ciò che le medesime erano destinate a produrre, senza punto riflettere a ciò che hanno in realtà prodotto.

Ci vengono citati i Persiani e gli Egizj; ma tutte le tradizioni che abbiamo sulle istituzioni egiziane e persiane, sono talvolta dimostrate false per la sola manifesta impossibilità dei fatti in esse contenuti, e rese quasi sempre incertissime per inconciliabili contradizioni. Ciò che sappiamo sicuramente si è, che i Persiani, e gli Egizj, erano dispoticamente governati, e che la bassezza, la corruzione, l’avvilimento, eterne conseguenze del dispotismo, erano il patrimonio di queste miserabili nazioni. Ne convengono i nostri filosofi nelle medesime pagine, nelle quali ce li propongono per modelli relativamente all’educazione: bizzarra debolezza dello spirita umano, che non osservando gli oggetti che separatamente, si lascia talmente dominare da un’idea favorita, che i più decisivi effetti non l'illuminano sull’impotenza delle cause, di cui gli conviene di pubblicare il potere. Le prove isteriche rassomigliano per la maggior parte a quella che il signor De Montesquieu mette in campo a favore della ginnastica. L’esercizio della lotta, egli dice, fu cagione, che i Tebani riportassero la vittoria alla battaglia di Leuttra. Ma sopra chi mai la riportarono? Sugli Spartani, che si esercitavano nella ginnastica da quattrocento anni in poi.

Il sistema che ripone l’educazione sotto la direzione del governo, è fondato sopra due o tre petizioni di principio.

Si suppone a prima vista che il governo sarà tale quale sì vorrebbe averlo. Si vede sempre in lui un alleato, senza riflettere che può diventare un nemico. Non si considera, che i sacrifizi imposti agl’individui possono non ridondare a vantaggio dell’istituzione che si crede perfetta, bensì a vantaggio d’una istituzione qualunque.

Questa considerazione è d’un peso eguale per i fautori di tutte le opinioni. Voi riguardate quai beni supremi il governo assoluto, l’ordine ch'esso mantiene, la pace che, secondo il pensar vostro, esso procura; ma se l’autorità si arroga il dritto d’impadronirsi dell’educazione, non se lo arrogherà soltanto nella quiete del dispotismo, ma in mezzo alla violenza ed ai furori delle fazioni. Il risultato ne sarà allora totalmente differente da quello da voi sperato. L’educazione sottoposta all’autorità non inspirerà più alle generazioni nascenti quelle abitudini pacifiche, quei principi obbedienza, quel rispetto per la religione, quella sommissione alle potenze visibili ed invisibili, che sono da voi considerate come la base della felicità e del riposo sociale. Le fazioni faranno servire l’educazione, divenuta ormai loro istrumento, ad imbevere l'animo della gioventù di opinioni esagerate, di massime truci, di disprezzo per le idee religiose che sembreranno loro dottrine mimiche, di propensione a versar sangue, d’avversione a sentir compassione.

Nè minor forza avrà questo modo di ragionare, se noi in simil guisa c’indirizziamo agli amici d’una savia e moderata libertà. Voi bramate, diremmo noi loro, che sotto un governo libero, l’autorità si appropri il dominio dell’educazione onde formare i cittadini dall’età loro più tenera alla cognizione ed osservanza dei loro dritti, onde apprender loro ad affrontare il dispotismo, a resistere alle ingiustizie del potere, a difendere l'innocenza contro l’oppressione. Ma il dispotismo si servirà dell’educazione affine d’incurvar sotto il giogo i suoi docili schiavi, per ispegner nei cuori ogni nobile e coraggioso sentimento, per rovesciare qualunque nozione di giustizia, per rendere oscure le verità più evidenti, per respingere nelle tenebre o per avvilire aspergendolo di ridicolo quanto ha rapporto con i più sacri ed inviolabili dritti della specie umana.

In tutte queste ipotesi tutto ciò che si desidera farsi dal governo in bene, il governo può farlo in male. In tal modo ogni diversa speranza può restare delusa, e l'autorità che si estende all’infinito, sopra supposizioni gratuite, può procedere in senso inverso del fine per il quale è stata creata.

L’educazione che viene dal governo, deve limitarsi alla sola istruzione. L’autorità può moltiplicare i canali, i mezzi dell’istruzione, ma non deve dirigerla. Ch'essa renda certi ed uguali ai cittadini i mezzi d’istruirsi; che procuri alle diverse professioni l’insegnamento delle cognizioni positive che ne facilitino l'esercizio; che prepari agl’individui una libera via onde conoscere tutte le verità di fatto ben certe (52), onde giungere a quell’apice da cui il loro intelletto potrà slanciarsi spontaneamente a nuove scoperte; che raduni per tutti gli spiriti scrutatori i monumenti di tutte le opinioni, le invenzioni di tutti i secoli, le scoperte di tutti i metodi; che organizzi finalmente l'istruzione in modo tale che ciascuno possa consacrarvi quel tempo che sì confà col suo interesse o col suo desiderio, e perfezionarsi nel mestiere, nell’arte o nella scienza, a cui. è chiamato dal suo genio o dal suo. destino; che gl’istitutori non sieno da essa nominati; ch’essa non accordi loro che un onorario il quale coll’assicurar loro il necessario, renda nulla ostante desiderabile l’affluenza degli allievi; che' provveda ai loro bisogni allorché l’età o le infermità avranno posto? un termine all’attività della loro; carriera; ch'essa, non possa destituirli senza gravi ragioni e senza il concorso dì personaggi da essa indipendenti, (53): poiché gl’istitutori sottoposti al governo. Saranno ad un tempo negligenti e servili la loro. servile condotta farà loro perdonatela lor negligenza. Sottoposti poi alla sola dpinione, saranno essi adun tempo; ed attivi e indipendenti (54),

Col dirigere l’educazione, il governo si arroga il dritto e s’impone l’obbligazione di conservare un corpo di dottrina. Questa sola parola indica i mezzi, di cui è. astretto a servirsi. Ammettendo, che a prima vista egli scelga i più dolci, egli è certo almeno che non permetterà d'insegnar nelle scuole:( ) opinioni diverse da quelle alle quali esso accorda la preferenza. (55). Vi sarà dunque rivalità tra l’educazione pubblica e la privata. L’educazione pubblica sarà salariata, vi saranno dunque delle opinioni munite d’un privilegio. Ma se questo privilegio non è sufficiente a render dominanti le opinioni favorite, immaginate voi, che l’autorità, per natura gelosa, non ricorra ad altri mezzi? Non iscorgete voi, per ultimo risultato, la persecuzione più o meno patente, ma compagna inseparabile di ogni azione superflua dell’autorità?

Quei governi che apparentemente non intralciano in conto alcuno l’educazione particolare, nulladimeno favoriscono sempre gli stabilimenti da essi fondati, esigendo da tutti i candidati ai posti relativi all’educazione pubblica una qualche sorta di tirocinio in questi stabilimenti. Di tal fatta, il talento che ha battuto un sentiero indipendente, e che, per mezzo d’uno studio ostinato fatto da per sé solo, si è procurato forse maggiori cognizioni e probabilmente un maggiore sviluppo di genio creatore, di quello che avrebbe fatto coi metodi ordinari delle pubbliche scuole, trova la sua natural carriera, quella nella quale egli può comunicarsi e riprodursi, chiosa dinanzi a sé improvvisamente (56).

Non è già che, a cose uguali, io non preferisca alla privata la pubblica educazione. Questa obbliga la generazione che sorge, ad un noviziato della vita umana più proficuo di tutte le lezioni di pura teoria, che non suppliscono mai se non se imperfettamente dia realtà, ed all’esperienza. Salutevole principalmente nei paesi liberi è la pubblica educazione. Gli uomini riuniti, di qualsivoglia età, ma soprattutto i giovani, contrattano, in forza d’un naturale effetto de' loro mutui rapporti, un sentimento di giustizia e delle abitudini di egualità, che li predispongono a divenir cittadini coraggiosi ed inimici dell’arbitratrio. Si sono vedute, sotto lo stesso dispotismo, delle scuole dipendenti dall’autorità, riprodurre in dispetto di lei, dei germi di libertà, ch'essa sforzavasi invano di comprimere.

Io però sono di parere che questo vantaggio può ottenersi senza violenza. A ciò che è per sé stesso buono non sono mai necessari i privilegi; questi anzi fan sempre cambiar di natura a ciò che è buono» Egli è d’altronde importante che se il sistema d’educazione favoreggiato dal governo, sia o sembri essere difettoso ad alcuni individui, essi possano appigliarsi all’educazione privata, o a degl’istituti che non hanno rapporti col governo. La società deve rispettare i dritti individuali, ed in questi dritti sono compresi quelli dei padri su i loro figli (57). Se il di lei operare li offende, una resistenza sorgerà che obblighi l’autorità a divenir tiranna, e demoralizzi gl’individui costringendoli ad eluderla. Si obietterà forse in riguardo a quel rispetto che noi esigiamo dal governo pei dritti paterni, che le classi inferiori del popolo, ridotte dalla miseria a trar partito dai loro figli, subitoché questi sono in istato di assisterli nei loro lavori, non li faranno istruire nelle cognizioni le più necessarie, ancorché l’istruzione fosse gratuita, se il governo non ha il potere di costringerveli. Ma una simile obbiezione è fondata sull'ipotesi di una sì profonda miseria nel popolo, che con questa nulla di buono può esistere. Ciò ch'è necessario si è, che una tal miseria non vi sia. Subitoché il popolo goderà di quegli agj che gli sono dovuti, lungi dal ritenere i suoi figli nell'ignoranza, si affretterà a farli istruire. Vi metterà anche della vanità, ne sentirà il vantaggio. Il trasporto più naturale ai padri si è quello di educare i loro figli al di sopra del loro stato. Ed è ciò che noi. vediamo accadere in Inghilterra, e ciò che abbiamo veduto in Francia durante la rivoluzione. In quest’epoca, a malgrado delle agitazioni della Francia, e dei gravi mali che il popolo ebbe a soffrire per parte del suo governo, pure per la sola ragione d'esser divenuto più agiato, l'istruzione fece dei maravigliosi progressi in questa classe. Da portello l’istruzione del popolo è in proporzione dei comodi, di cui esso gode.

Dissi sin dal principio di questo capitolo, che gli Ateniesi non avevano sottoposto all'ispezione dei magistrati che le sole scuole subalterne; quelle di filosofia restarono sempre nella più assoluta indipendenza, ed un memorabile esempio, a ciò relativo, ci venne trasmesso da questo popolo illuminato. Sofocle, il demagogo, avendo fatta la proposizione di render dipendenti dall'autorità le scuole dei filosofi, questi, che, a malgrado i numerosi errori in cui sono caduti, devono servire di perpetui modelli e dell’amor della verità e del rispetto per la tolleranza, si dimisero tutti dalla loro professione. Il popolo radunato li dichiarò in modo solenne esenti da qualunque ispezione del magistrato, e condannò il loro assurdo avversario ad una multa di cinque talenti (58).

Ma, dirassi, se venisse a sorgere uno stabilimento d'educazione, fondato sopra principi contrari alla morale, contrastereste voi al governo il dritto di reprimere quest'abuso? No, certamente, e né tampoco quello di usar di rigore contro qualunque scritto ed azione, da cui l'ordine pubblico venisse turbato. Ma il dritto di reprimere è cosa ben diversi da quello di dirigere, ed è le direzione da cui vorrei escludere l'autorità. D'altronde si perde di vista che acciò uno stabilimento d’educazione si formi o sussista, vi devono essere degli allievi; che acciò vi sieno allievi, fa d'uopo che i loro parenti ve li pongano: e che mettendo da parte, ciò che non è in conto alcuno ragionevole, la moralità dei parenti, non sarà mai di loro interesse di lasciare stravolgere la mente e corrompere il cuore di coloro con i quali essi hanno, per tutta la durata del viver loro, le più importanti e le più intime relazioni. La pratica dell'ingiustizia e della malvagità, momentaneamente ed in una circostanza particolare, può essere utile ma la teoria non può esser mai di alcun vantaggio. La teoria sarà sempre professata da soli pochi insensati, quali l’opinione pubblica immantinente condannerebbe, senza verun bisogno che il governo vi prendesse parte. Non vi sarebbe mai bisogno di sopprimere gli stabilimenti di educazione nei quali verrebbero date delle lezioni di vizio e di delitto, perché non vi sarebbero mai simili stabilimenti; e perché, se ve ne fossero, non presenterebbero alcun pericolo reale, poiché gl'istitutori, resterebbero senza allievi. Ma, in mancanza di plausibili obbiezioni, si ha ricorso ad assurdi supposti, né questo calcolo è destituito di sottigliezza: se v'ha qualche pericolo a lasciar le supposizioni senza risposta, sembra che in qualche modo vi sia della sciocchezza a confutarle.

Quanto a me ripongo maggior fiducia, per il perfezionamento della specie umana, negli stabilimenti particolari di educazione, di quello che nella pubblica istruzione organizzata dall'autorità.

Chi può mai prescrivere un limite allo sviluppo della passione per le cognizioni in un paese di libertà? Voi supponete ai governi l’amore delle cognizioni. Senza star qui ad esaminare sino a qual segno sia di loro interesse una simile tendenza, vi dimanderemo soltanto perché mai non supponete il medesimo amore negl'individui della classe colta, negli spiriti illuminati, nelle anime generose? Dovunque la mano dell'autorità non si aggrava sugli uomini, dovunque essa non corrompe la classe ricca, con lei cospirando a' danni della giustizia, le lettere, lo studio, le scienze, l'ingrandimento e l'esercizio delle fecoltà intellettuali sono i piaceri favoriti delle classi opulenti della società. Osservate in Inghilterra, come esse agiscano, si coalizzino, si affollino da ogni dove; contemplate que’ musei, quelle biblioteche, quelle associazioni indipendenti, quegli scienziati dedicati unicamente alla ricerca della verità, quei viaggiatori, che si espongono a tutti i pericoli per far progredire d’un passo le umane cognizioni.

In fatto di educazione, egualmente che in ogni altra cosa il governo vegli pure e preservi, ma sì tenga neutrale; ch’egli sopprima gli ostacoli, che appiani le vie; si può fidare agl’individui onde queste sian battute con successo.


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CAPITOLO II

Della religione

La parte dell’opera di Filangieri di cui andiamo ad occuparci è di tutte la più imperfetta. I suoi difetti non dipendono soltanto dal non aver potuto l’autore impedito da prematura morte porvi l’ultima mano, ma dall’aver quest’autore scritto in una epoca meno suscettibile di alcun altra di adottare sulla religione delle vedute imparziali o delle idee rette. Il dogma e l’incredulità dividevansi i paesi civilizzati dell’Europa; il dogma, armato de' mezzi grossolani, vessanti e sempre insufficienti della legge; l’incredulità, forte per risorse e per destrezza di spirito, ed incoraggita dall’indignazione che l’oppressione intellettuale produce sugli uomini. In tal guisa quella porzione di società investita del potere dal caso o dalla tradizione, altro non vedeva nel raziocinio che sedizione e ribellione; e la massa dei governati, ingannata dall’uso che l’autorità faceva delle opinioni religiose, non voleva riconoscere nella religione se non se un’inimica della libertà. Nel tempo stesso l’intolleranza, sufficientemente minacciosa per eccitare l’irritazione, non era abbastanza formidabile per inspirare il timore. Quindi ne risultava un non so qual disordine morale iu tutte le menti. L’ipocrisia pretendeva di comandare la sommissione, ma si tradiva da per sé stessa, perché ogni qual volta l’incredulità è divenuta una maniera di pensar generale, la vanità individuale, anche in quelli che lottano contro la tendenza all’irreligione, ama di lasciar penetrare il dubbio. Dall’altro canto, l’ostilità dei filosofi violenta ed appassionata, condannava l’esame come una debolezza, e la stessa imparzialità come un tradimento. Nessuno scrittore del secolo decimottavo ha potuto internarsi con passo sicuro in questo laberinto: gli uni si sono precipitati in un’irreligione dogmatica, non meno assurda dei sistemi religiosi dei popoli i meno illuminati; gli altri non hanno evitato quest’eccesso che gettandosi a vicenda nelle più evidenti contradizioni. Voltaire, che teneva in gran conto la parte legislativa e, per così dire, penale della religione, perché divenuto membro delle classi superiori della società temeva per i godimenti del ricco l’ateismo del povero, Voltaire non perciò è men liberale di disprezzo e d’ironia, non solo verso tale o tal altro culto in particolare, ma verso anche quelle idee e quei moti dell’animo, senza de' quali non può sussistere alcun culto. Rousseau, dominato dalla sua anima, mentre Voltaire non lo era che dal suo spirito, distrugge con trasporto ciò ch’egli ricostruisce con entusiasmo. Montesquieu si trae d’impaccio soltanto in apparenza a forza d’un’estrema moderazione, d'una sottile ironia, dun laconismo calcolato, e della distanza che ad arte frappone tra asserzioni, che a vicenda si distruggono.

Ciò che impossibile riusciva ai principali soggetti di quest’epoca doveva esserlo anche maggiormente per Filangieri, che scendeva nell’arena con un cuore puro, colle intenzioni le più lodevoli, ma con un’erudizione senza critica, e con mediocre talento. In tal modo noi Io vediamo, non sapendo fin dove possano andare a ferire i princìpi da lui promulgati, retrocedere costantemente dinanzi alle loro conseguenze. Egli prende. ad imprestito dalla filosofia le di lei degradanti ipotesi, quali felicemente sono false, sulla primaria sorgente delle idee religiose; quindi avendo in tal modo, dal suo bel principio, avvilito la religione, fa causa comune co’ devoti, o a meglio dire cogli uomini di stato, che volevano imporre la devozione alle nazioni incredule, onde rimettere in campo dei sistemi erronei circa l’applicazione delle opinioni religiose alla legislazione positiva.

Il rilevare le di lui incoerenze, i suoi pregiudizi filosofici a vicenda e religiosi, le sue assertive sull’altrui parola, i suoi numerosi errori allorché parla dell’antichità, e sostituire all’intralciata compilazione da lui trasmessaci, una dottrina chiara che partasi dalla natura umana e che venga corroborata dai fatti, sarebbe lo stesso che metter mano a comporre un libro più voluminoso del suo. Tale non è l’assunto d'un commentatore; mi sono sforzato d’altronde a compire l'ultima parte di tale incarico in un’altra opera, di cui è già comparso il primo volume (59). Quanto posso tentare qui, si è di sviluppare in pochi detti ciascun particolare errore coll’indicare quella verità, che secondo la mia opinione, avrebbe Filangieri dovuto sostituirvi.

«La religione, dic’ei, altra cosa non è presso l’uomo selvaggio, se non se il culto ch’egli rende all’oggetto de' suoi vaghi terrori.»

L’autore Italiano non fa con questa frase che ripetere l’assioma triviale sul quale gl’increduli di tutti i secoli hanno fondato i loro sistemi. Osservatori superficiali e giudici preoccupati, hanno essi considerato che il selvaggio temeva ciò che adorava, e ne hanno indotto ch’egli adorava soltanto ciò che temeva. Ma coll’attribuire in tal guisa unicamente al timore le idee religiose del selvaggio, essi hanno trascurato principalmente la questione fondamentale; non hanno punto ricercato perché l’uomo fosse la sola creatura involontariamente compresa dal terrore delle potenze nascoste che agiscono su di lui; essi non hanno dato alcuna spiegazione del bisogno che solo egli prova di scoprire, e di adorare queste potenze occulte.

Se la religione altro principio non avesse, fuorché i terrori dell’uomo, quelli tra gli animali su i quali questi terrori esercitano un impero ancor maggiore, dovrebbero non essere intieramente estranei alle nozioni religiose; poiché osservate bene che i filosofi suppongono sempre, che l’uomo differisca dagli animali soltanto perché possiede in un grado superiore le facoltà di cui essi pure sono dotati. Se dunque l’umano intendimento è della medesima natura di quello degli animali, se desso è nell’uomo soltanto più esercitato e più esteso, tuttociò che da questo intendimento a lui deriva, dovrebbe esser anche prodotto negli animali; in uu grado inferiore senza dubbio, ma pure in un grado qualunque.

Di due cose l’una: o l’uomo ha delle facoltà, degl’istinti, dei sentimenti ai quali gli animali non saprebbero sollevarsi, ed allora bisogna cercar la causa di ciò ch'egli risente nelle facoltà, nei sentimenti, negl'istinti che sono a lui particolari; oppure, non ha sugli animali che una preeminenza relativa; allora, più gli animali si riapprossimeranno a questa preeminenza, più devesi ritrovare in essi tuttociò che si scorge nell’uomo. Se la religione non ha altra origine che il timore, siccome il timore è un’emozione comune all’uomo ed agli animali, la religione non dovrebbe essere totalmente estranea a questi ultimi; se però rimane ad essi estranea, ciò accade perché trae la sua origine da un sentimento, riservato esclusivamente all’uomo, e questo sentimento non è il timore.

Ed in fatti, esaminate gli oggetti che il selvaggio adora; non son questi unicamente quelli, eh egli teme, ma tutti gli altri ancora nei quali s'imbatte. Che successivamente questi gl’infondano timore, perché li crede animati d’una natura divina più forte di lui, nulla v’ha di più semplice; ma il di lui terrore è un effetto della sua adorazione. Esso n’è il risultato, e non il principio. Quest’adorazione ha un’altra cagione: non può essere transitoria, esterna, e casuale; imperocché una cagione transitoria, casuale ed esterna, non cambierebbe la natura interna e permanente dell’uomo, non darebbegli una diversa natura.

Questa cagione risiede in lui, essa è un istinto che gli è proprio. Quest'istinto si manifesta nello stato il più rozzo egualmente che nel più civilizzato, in seno alla più profonda ignoranza come in mezzo alle più estese cognizioni. Esso si sviluppa secondo il grado di queste cognizioni, si livella con questa ignoranza, ma non cessa però mai di agire; e nell’epoche stesse in cui comparisce più oppresso dall’opinione dominante, galleggia tuttavia, combatte, e trionfa.

«Presso le società barbare, continua Filangieri, la religione è il principio di quest’autorità, di cui non si saprebbe tollerar l’esercizio per parte degli uomini, ma che si depone con maggior fiducia nelle mani degli Dei. »

Esprimendosi Filangieri in modo tanto generico, non sembra aver egli avuto un’idea esatta dei distintivi essenziali che fan diversificare una dall’altra le società barbare, delle quali conservato abbiamo qualche rimembranza, Molte tra queste società hanno indubitatamente dovuto la loro civilizzazione ai sacerdoti; ma la più rimarchevole, quella che noi conosciamo meglio delle altre, quella a cui andiam debitori delle nostre dottrine filosofiche, quella che ci serve di guida e di modello nella carriera del genio e delle arti (indovinasi che io intendo parlare dei Greci) lungi dal deporre, sortendo dallo stato selvaggio per passare alla barbarie, primo scalino dello stato sociale, lungi dal deporre, io dico, nelle mani degli Dei l’autorità che agli uomini affidar non voleva, ha sempre accordato al poter temporale una preeminenza incontrastata sulla potenza sacerdotale. I sacerdoti erano fra tutti i più sottoposti nelle età descritte da Omero. Tremante e dopo aver invocatola protezione d’Achille, Calcante si arrischia a resistere alla volontà di Agamennone: Io sono, die’ egli, un semplice plebeo, né valgo ad affrontare lo sdegno d’un re. Sono i capi politici che presiedono per costume e per dritto alle cerimonie religiose. I sacerdoti non vi prendono bene spesso la benché minima parte; e se vi sono chiamati ciò accade per qualche improvviso terrore, e per alcuna impreveduta calamità, la quale spinge i popoli in un’insolita superstizione. E perciò Omero annovera i preti nella categoria dei mercenari, che vivono delle beneficenze e delle largizioni del pubblico, in un coi musici e co’ vivandieri, e con altre professioni ugualmente precarie e subalterne (60).

Ecco di già per conseguenza una società barbara, alla quale non potrebbe applicarsi la regola stabilita da Filangieri. Non è questo il luogo di esaminare, se, prima dei secoli eroici, i Greci non erano andati soggetti a un dominio sacerdotale. Alcune tradizioni favoreggiano questa ipotesi; ma non è perciò men vero, che la religione non fu il fondamento del potere sociale nella Grecia barbara. Questo potere sociale puramente militare, trovava il suo appoggio nell’attrattiva che avevano per orde bellicose le spedizioni che saziavano la loro avidità di saccheggio. La religione ed il sacerdozio esercitavano indubitatamente molta influenza; ma accidentale ed interrotta era questa influenza. La religione greca ha potuto affrettare la civilizzazione, consacrando le tregue, gli asili, le comuni cerimonie } ma non è nulla mai esistito in Grecia di simile a questa teocrazia, di cui l'autore Napoletano stabilisce il principio, e che addita, nella frase che siegue, qual passaggio necessario tra lo stato selvaggio ed il civilizzato.

«Sotto gli auspicj di questa teocrazia, la religione (secondo lui) prepara ed effettua gradatamente il passaggio difficile, lento, progressivo dallo stato d'indipendenza naturale a quello della dipendenza sociale. »

Nulla v'ha di più falso. Non è in conto alcuno sotto gli auspicj della teocrazia che la transizione dallo stato selvaggio al sociale operasi lentamente ed a gradi. All'opposto non vi son gradi in questa transizione, quando essa effettuasi sotto l'impero della teocrazia; essa allora è istantanea. Entra il selvaggio nello stato di società quasi dominato da esterna forza ma si arresta al più basso scalino. La forza medesima che lo spinge a fare i passi indispensabili ad assicurare la sua sussistenza fisica e la sua material sicurezza contro i flagelli della natura, gli vieta qualunque ulterior perfezionamento, e lo colpisce in certo modo d'immobilità. Egli è soltanto allorché perviene alla civilizzazione per cause indipendenti dalla teocrazia, per effetto dei naturali progressi dell’intelletto, o ciò che accade anche più sovente, per la comunicazione dei popoli fra di loro, che il di lui avanzamento si opera lentamente ed a gradi. Paragonate la Grecia all’Egitto, voi avrete la prova di quanto io asserisco; esaminate lo stabilimento del sacerdozio nell'Egitto, e nella Grecia, e voi otterrete la spiegazione di ciò la di cui prova vi viene esibita dai fatti.


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CAPITOLO III

Dell'andamento del politeismo

«L’uomo, penetrato dallo spavento, che i terribili fenomeni della natura destavano in lui.... ha dovuto supporre una forza, una potenza che li cagionava... egli ha dovuto invocarla, non avendo contro di quella a altro rifugio. Ecco il primo passo, che lo spirito umano, abbandonato a se stesso... ha dovuto dare verso la religione; ecco in fatti il primo che ha dato. Ecco... l’epoca nella quale l'ignota forza, che agitava la natura e spaventava gli uomini, era l'unico oggetto devoti e del culto dei primi atterriti mortali… Ma ben presto.... gli uomini… vedendo l'apparente guerra, che le diverse potenze della natura si fanno, e non potendola altrimenti spiegare che coll'idea d'intelligenze diverse, che dirigessero queste diverse forze, queste diverge potenze... personificarono queste forze, queste potenze dettero loro senso e vita; le invocarono, le adorarono a come di loro più forti... questa fu, è, e sarà la prima origine del politeismo;... è.... l'epoca di questo secondo culto, nella quale non più all'ignota ed universal forza diressero soltanto i loro voti, e rendettero i loro omaggi gli orgogliosi mortali, ma con più e particolari potenze della natura medesima gli divisero... Vi è una progressione negli errori, come ve n’è una nelle verità... una volta che si è dato il primo passo nel politeismo, non è egli necessario che si giunga al dio Crepito, ed al dio Stercuzio?»

Lib. V, cap. IV

Egli è impossibile di rovesciare io m odo più completo tutte le idee, e di attribuire all'intendimento umano un andamento più diverso da quello indicato dai ragionamenti, e dimostrato dai fatti. E che! avranno dunque gli uomini incominciato dall’adorare esclusivamente una sola forza, incognita e generale nella natura, prima di tributare i loro omaggi ai diversi poteri che sembrano contrariarsi e combattersi a vicenda! E donde sarebbe mai venuta al selvaggio la nozione di questa misteriosa unità, allorché tuttociò che feriva i di lui sensi e i di lui sguardi suggerivagli all’opposto quella della divisione, dell'opposizione, e del contrasto? Egli é invano che il nostro autore vuol farsi scudo delle tradizioni raccolte da Esiodo in un ordine totalmente arbitrario, o, a meglio dire, senza ordine di sorta alcuna. Non mi è permesso qui di entrare in isviluppi che pur necessari sarebbero a spiegare il modo con cui sembra essere stata compilata la Teogonia e ad assegnare il giusto valore di questo poema confuso e bizzarro (61): mi basta di dire (ciò che, cred'io, non verrà negato da alcuno che abbia studiato la mitologia greca in tutt’altre fonti che nelle opere sistematiche dei nostri scrittori francesi) che mentre Omero ci offre un quadro fedele della religione de' primitivi tempi della Grecia, che sortiva dallo stato selvaggio, Esiodo ci presenta una raccolta estremamente incoerente, estesa senza discernimento e senza critica, di tutte le tradizioni arrecatevi dalle colonie, imbevute dello spirito sacerdotale de' paesi dai quali queste colonie traevano l’origine, e conseguentemente senza alcuna specie di rapporto, sia collo spirito nazionale dei Greci, sia colla indigena loro credenza. Delle dieci parti o epoche, delle quali si compone la Teogonia, nove sono estranee alla religione popolare; ed è soltanto nell’ultima, sotto il regno di Giove, che finalmente apparisce il politeismo qual venne professato nei secoli eroici. Questo metodo naturalissimo in un compilatore, più curioso che illuminato, che raccoglieva tutte le reminiscenze, tutte le relazioni dei viaggiatori, tutte le leggende de' preti erranti, missionari delle corporazioni sacerdotali dell’Egitto, della Fenicia e della Tracia, onde cantare a delle tribù barbare delle misteriose dottrine, ha indotto in errore la turba studiosa, ma credula, del volgo dei nostri eruditi. Essi hanno creduto, perché Esiodo collocava prima degli Dei dell’Olimpo una specie d’unità cosmogonica, dalla di cui mutilazione questi Dei erano discesi, che in realtà quest'unità astratta ed oscura fosse stata il primo oggetto dell’adorazione. Non hanno i medesimi conosciuto, che simile idea era visibilmente presa ad imprestito dalla Fenicia, e da altre contrade soggette ai sacerdoti, nel linguaggio de' quali le mutilazioni degli Dei non erano che emblemi atti ad indicare la cessazione delle forze creatrici; che questi dogmi facevan parte dei sistemi scientifici delle grandi corporazioni di fisici e di astronomi fuse nel sacerdozio, il quale aspirava al monopolio di tutte le scienze, e che nulla aveva minor rapporto colla religione greca, la quale non andava soggetta ad alcun vincolo di corporazione, ed era proprietà comune del popolo preso in 'massa, mentre questi senza darne a se stesso alcuna spiegazione e senza neppure avvedersi di alterarla, la adattava, la piegava, la modificava, la perfezionava, a seconda del progresso delle sue cognizioni e del raddolcimento dei suoi costumi (62).

Quest'abbaglio fondamentale li ha trascinati in tutti gli errori che diminuiscono, se non l’utilità delle loro ricerche, almeno il merito dei risultati di queste. È convenuto loro trovare il modo di spiegare un fenomeno inesplicabile, e render suscettibile di essere concepita l’ipotesi, mediante cui il genere umano ai pretende esser passato dal culto dell'unità a‘ quello delle parti, mentre all'opposto egli è sempre passato dal culto delle parti a quello dell'unità. I Fettisci in prima Dei individuali, ed in numero indeterminato al pari di quello dei loro adoratori; quindi altri Dei più generici ed in minor numero; dipoi un’assemblea di Dei limitata, e che senza infrangere le regole non poteva aumentarsi; successivamente un dio, capo di quest'assemblea, e tutti gli altri sotto il suo comando; più tardi questo dio sola e vera natura divina, ed il rimanente genj a lui inferiori: ecco l’andamento reale dell’intendimento, andamento interrotto e turbato ora per le interne resistenze della superstizione, ora per l’effetto di esterne calamità, ma pure continuato o ripreso, e conducente finalmente l'uomo alla nozione del deismo.

Filangieri si è lasciato ingannare, insieme con molti altri, da un’apparenza che pur non avrebbe dovuto illudere alcuno fuorché un osservatore superficialissimo. Egli ha osservato, essersi moltiplicati all’infinito gli Dei, nell’epoca della decadenza del politeismo, ed ha immaginato che questo progredire in numero, fosse un effetto dell’andamento religioso delle idee, mentre altra cosa non era che il risultato dell’incredulità. Allorché i dogmi d’una religione sono caduti in un totale discredito, i poeti si servono di questi a piacer loro, ne fanno oggetto di scherzo, inventano nuovi Dei, senza trovar contrasto di sorta, perché ognun sa bene, che non si pretende d’imporre l’adorazione di queste immaginarie deità. In qual epoca mai Filangieri trova il dio Stercuzio, e le dee Prema, Pertunda, e Perfica? Nell’epoca in cui l’esistenza del politeismo era vicina a cessare. Quando nessuno adorava più il massimo ed ottimo Giove, allora fu a tutti permesso di fabbricarsi dei numi ridicoli. Se in un secolo anteriore, in un secolo tuttavia grave e religioso, sotto la repubblica dei Cincinnati e dei Camilii avesse taluno profferito il nome del dio Crepito, egli avrebbe suscitato lo scandalo. Nel tempo però degl'imperadori, questo nome eccitava le risa, e ciò a cagione della disfatta sopportata dalla religione. I topi ed i rettili s'insinuano nelle fabbriche in rovina; non si deve per questo concluderne, che vi sono ammessi allorché queste fabbriche sussistono e sono abitate dagli uomini.

Non v'ha quasi una frase di Filangieri che non sia un errore.

Egli cita Porfirio in proposito del culto primitivo dei Greci. Ora ognun sa che Porfirio si occupava unicamente nel riconciliare i suoi con temporanei, non già co' dogmi del culto antico, ma colle sue cerimonie, attribuendogli quella purità che non aveva avuta giammai, e sostituendo al senso popolare, che la ragione sdegnava di più oltre tollerare, delle interpetrazioni allegoriche, conforme ne sorgon sempre allorché le religioni decadono, promettendo a queste un ingannevole appoggio.

Filangieri va daccordo, che, secondo Erodoto, i Pelasgi, che i primi abitarono la Grecia, adiravano un numero infinito di deità, quali essi una dall'altra non distinguevano, ed alle quali non davano alcun nome; ma ei dimanda se molti Dei che nulla distingue, e che non ricevono alcun nome particolare, possono rappresentare altra cosa fuorché Fincognita forza adorata nel principio, la quale Erodoto, imbevuto delle nozioni del politeismo, non aveva saputo indovinare? Si, senza dubbio, gli Del de' Pelasgi null'altro rappresentavano fuorché quest’unità astratta della forza incognita. Anche i Neri adorano migliaja di Fettisci: ancor essi non li chiamano che col nome generico di Fettisci: e non è certamente l’unità della forza incognita che i Neri adorano, ma uno stuolo di forze divise, tra loro nemiche, quali essi suppongono far la loro residenza nella pietra, nel pezzo di legno, o nella pelle dell’animale, innanzi cui si prosternano, offrendo dei sacrifici, o borbottando delle preci.


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CAPITOLO IV

Del sacerdozio

«Introdotto il pubblico culto... varie cagioni obbligarono ben presto questi padri (i padri di famiglia in principio i soli sacerdoti) a dimettersi dal promiscuo ministero del culto, ed a scegliere dal loro istesso corpo un certo numero d'individui, per consecrarli unicamente alle sacre funzioni. Il sacerdozio formò dunque un ordine distinto.»

Lib. V, cap. V

Non sempre accade nel modo indicato da Filangieri, cioè, che la potenza sacerdotale giunga a costituire un ordine distinto in qualità di delegata del potere politico. Presso molte nazioni, le cose prendono un andamento precisamente inverso; egli è il sacerdozio che, costituendosi prima di qualunque altro potere, rimette a mani subalterne la cura di dirigere gli affari del mondo visibile, riservandosi nientedimeno in nome della religione l'ispezione suprema sopra i suoi agenti.

Questa differenza dipende da una distinzione, che, sino al presente, è stata negletta da tutti gli scrittori. Secondo i climi e le circostanze locali, o accidentali, il potere sacerdotale succede o precede il potere temporale.

Allorché i popoli sortono dal fetticismo per effetto solo dei progressi dell'intendimento, i preti, che godono di poca autorità sotto il fetticismo, rimangono per lungo tempo in una posizione secondaria.

In tal guisa presso i Greci dei tempi eroici, l’armata intiera sopporta che Agamennone insulti e discacci il padre di Criseide; e soltanto allorché la peste riconduce gli animi atterriti ad un grado straordinario di superstizione, vedesi costretto il figlio di Atreo a restituire al pontefice la di lui figlia, sua prigioniera. E in quell'istante stesso, noti osa Calcante di spiegarsi, e teme d’incorrere nella collera d’un re; e nell'Odissea Ulisse uccide senta farsene scrupolo, un sacerdote che assisteva a’ festini dei pretendenti.

Non fa parte del soggetto che trattiamo l'indagare, se, prima dei tempi eroici, i Greci non fossero andati sottoposti a corporazioni sacerdotali, come lo furono gli Egizj, e quasi tutti i popoli dell’antichità. Quand’anche un tal fatto, che è sufficientemente probabile, fosse dimostrato, non sarebbe meno certo che una rivoluzione, di cui ci sono ignote le particolarità ed oscure le tracce, liberò i Greci da un simil giogo, e che spezzandolo essi ricaddero nel fetticismo. Il loro andamento fu allora simile a quello che sarebbe stato, se non avessero mai avuto delle grandi corporazioni sacerdotali.

Quando all’opposto per un effetto del clima della difficoltà di procurarsi la fisica sussistenza, del bisogno di rispingere con opere che suppongono calcoli più o meno scientifici, e che esigono assidui e penosi lavori, gli attacchi d’una natura costantemente minacciosa, e quando specialmente in forza del genere di religione favorito da simili circostanze, intendo dire l’adorazione degli astri e degli elementi, formansi accanto alla culla della nascente religione delle corporazioni sacerdotali, allora si è che i preti, in principio soli re, soli giudici, soli legislatori delegano a de' subalterni di loro scelta il potere temporale, l’amministrazione dello stato, il maneggio della guerra.

Ed è questo per l’appunto ciò che è accaduto in Egitto, ove il regno degli Dei precedé quello dei re, e durò diciotto mila anni, se si presta fede agli annali di questa contrada (63); in Etiopia, ove i preti mandavano al principe l’ordine di uccidersi; e probabilmente nelle Indie, ove tutte le tradizioni attestano essere stato di lunga durata il governo dei bramini.

Allorché il potere temporale viene ad essere costituito per tal mezzo, il sacerdozio di cui esso è l’opera, è sempre intento, e momentaneamente vi riesce, a tenerlo da sé dipendente. Ma scoppiano presto o tardi le rivalità, e i delegati divengono gli emuli e ben presto i nemici dei loro padroni.

Da per tutto l’istoria ci offre lo spettacolo di questa lotta ostinata.

Talvolta i libri indiani raccontano che i Cutteri o guerrieri, figli del sole, divenuti orgogliosi, scossero il giogo dei bramini, e fecero sentir loro il peso di crudeli vessazioni. Parasurama, il sesto Avatar della schiatta lunare (64), Bramino egli stesso, ma coraggioso al pari di un Cutterio, vendicò l’oppressa sua casta. Ei vinse i suoi nemici in ventuna battaglia ordinata, empié del loro sangue degl’intieri laghi, divise i loro beni e spinse la severità a sì alto grado, che gli stessi bramini, de' quali ristabilì l’impero, si rattristarono della distruzione da esso operata (65). Tal altra volta questi libri narrano che Bein, o Vena, figlio di Ruchnan, salito al trono in conseguenza della fuga di suo padre, proibì qualunque culto verso gli Dei e qualunque giustizia tra gli uomini. Egli impose il silenzio ai bramini e discacciolli dalla sua presenza. In seguito contrattò con una donna della loro casta un’unione sacrilega. Ei permise che altri imitassero quest'esempio, e che i figliuoli degli Dei si confondessero coi figli degli nomini. Quarantadue caste nacquero da queste criminose alleanze; allora i bramini lo maledissero e tolsero a lui la vita. Non avendo egli posterità, stropicciarono le sue mani l’una contro l’altra, e dal suo sangue nacque un figlio armato dalla testa ai piedi, dotto nelle scienze sante, e bello come un dio; dalla sua mano sinistra i bramini fecero sortire una figlia che gli diedero in matrimonio. Egli governò con giustizia, proteggendo i suoi sudditi, conservando la pace, reprimendo, i disordini, ed onorando i bramini (66). Non si può non riconoscere in queste tradizioni la ricordanza de' contrasti accaduti alle Indie tra i due poteri (67).

L'empietà dei re egiziani verso gli Dei locali, dice Diodoro, ha cagionato frequenti sommosse (68), Due re, che gli annali scritti dai sacerdoti trattano di tiranni e di ribelli, Cheops e Chefren, fecero chiudere i templi per trentanni (69). Il prete Sethos, in seguito, essendosi impadronito del trono, tolse ai soldati le terre che possedevano (70) ma dopo la di lui morte vi fu contro i preti una nuova rivoluzione. Dodici re furono instituiti uno di loro si pose nuovamente sotto l'autorità o protezione sacerdotale onde soppiantare i suoi colleghi, ed ottenne, col soccorso degli oracoli, il governo di tutto l’Egitto (71). Egli è anche credibile che, sino dal tempo della teocrazia, prima dello stabilimento dei re temporali, l’Egitto era stato agitato da consimili rivoluzioni e che queste eransi suscitate ora tra i preti, ed ora contro di loro (72).

L'Etiopia, la quale, sotto il rapporto della religione, non deve in conto alcuno esser distinta dall'Egitto, fu il teatro di dissensioni ancor più sanguinose; i sacerdoti di Meroe condannarono a morte i re, ed uno di questi ultimi, Ergamene, contemporaneo del secondo Tolomeo, fece massacrare nei loro templi medesimi i sacerdoti di Meroe (73).

É nota la festa che annualmente celebravasi in Persia in commemorazione della caduta dei maghi, e durante la quale i membri di questa casta, sebbene impossessatisi nuovamente di un gran potere, erano obbligati a celarsi agli sguardi del popolo (74).

La lotta medesima si ravvisa, abbenché con minor chiarezza, in Etruria, perché la sua istoria ci è meno conosciuta; ma l'ordine dato ai Rutuli dal loro re Mesenzio di presentargli quelle primizie, ch’essi erano so}iti di consacrare agli Dei, ben pot rebbe essere stato un tentativo del regio potere contro il sacerdozio (75).

Se dai popoli dell'antichità passar volessimo alla moderne nazioni, o a parlare con maggiore esattezza, alle nazioni scoperte nei moderni tempi, rammenteremmo, che i Messicani, dopo le loro emigrazioni, nel corso delle quali essi avevano avuto, del pari che gli Ebrei, de' sacerdoti per condottieri, si scelsero, gli uni più presto, gli altri più tardi, dei capi temporali (76). Al Giappone, il dairo o sia micaddo riuniva anticamente al potere spirituale la più assoluta autorità politica. Egli delegò l’amministrazione degl’interessi terrestri ad un ministro, che in prima despota in nome del suo signore, lo divenne ben presto in suo proprio. Una guardia collocata presso il pontefice, sotto pretesto di rendergli omaggio lo privò della facoltà di tentare la benché minima impresa (77) xxxxx$ e da tre secoli a questa parte ridotto a meri titoli vani, spogliato di qualunque influenza reale, egli non ha conservato altro privilegio se non se quello di creare degli Dei, che incarica del governo dell’universo, e i quali in segrete conferenze, gli rendono conto delle loro operazioni. In terra poi, egli conferisce le dignità sacerdotali a coloro che gli vengono proposti dal Cubo (tale è il nome del capo temporale), e fa l’apoteosi di quest’ultimo allorché vien colpito dalla morte (78)

Il Gran lama incontrò lo stesso feto nel Tibet, e simile fu pur quello dei califfi, privati del loro potere dagli Emir-al-omra.

Ben si ravvisa quanto si allontani dal vero chi suppone l'andamento del sacerdozio tanto regolare in tutti i casi quanto lo pretende Filangieri. Questi non è stato diretto nelle sue osservazioni sopra tal soggetto che da uno studio poco profondo del politeismo greco e romano, gli altri politeismi essendo stati conosciuti soltanto in modo imperfettissimo nell'epoca in cui egli scriveva.

Anche, nel trattare della religione romana, egli ha molto mal giudicato lo spirito del sacerdozio, quale veniva a risultare in Roma dalla combinazione di due culti tra loro opposti. Le conseguenze di questa combinazione esigerebbero per ispiegarla (lo che non è stato mai fatto) delle particolarità che ci farebbero troppo deviare dal nostro subbietto. Il sacerdozio romano risentivasi degli elementi costitutivi d’una religione, nella quale eransi fuse ad un tempo e le favole greche e le istituzioni etrusche.

In Grecia, come l’ho detto disopra, il sacerdozio non formava corpo e non godeva di alcuna influenza politica. In Etruria egualmente che in Egitto, il sacerdozio era il primo corpo dello stato, ed il potere politico trovavasi in massima parte nelle sue mani. Numa trasportò in Roma il sacerdozio etrusco; i Targuinj vi fecero trionfare le leggende e soprattutto lo spirito della religione greca. Sopravvisse a sì fatta rivoluzione il sacerdozio, ma venne per lei modificato. Ne seguì che, senza essere tanto estraneo quanto lo era nella Grecia all'ordinamento del corpo sociale, né cosi identificato come in Etruria con questo ordinamento, esso si rimase un potere regolare, che si mosse nella direzione impressa dalle circostanze in tutti i poteri.

Allorché dunque Filangieri attribuisce al sacerdozio le disposizioni bellicose del popolo romano atteso l'interesse che il sacerdozio trovava, al di lui dire, nella guerra, perché le deità dei popoli vinti venendo adorate sul Campidoglio, e perché credendo i Romani di riparare gli oltraggi recati alle nazioni coir adottare il culto delle loro tutelari divinità, il sacerdozio vedeva moltiplicarsi insieme alle conquiste i numi, i templi, le offerte, sorgenti feconde di ricchezze (79), egli prende un effetto per una causa. Il sacerdozio ubbidiva alla tendenza guerriera; esso però non creavala.

Guerreggiandosi continuamente, il sacerdozio, del pari che ogni altro potere dello stato era signoreggiato dalla guerra. Le grandi dignità del sacerdozio appartenendo, non già di dritto ma di fatto, ai soggetti eminenti dell'armala, ed essendo questi nel tempo stesso investiti delle primarie funzioni civili, la religione divenne uno stromento della loro politica conquistatrice.

Il motivo allegato da Filangieri entrava per sì poca cosa nelle determinazioni del sacerdozio, che in nessuna parte gli Dei stranieri furono con maggior costanza e violenza respinti quanto in Roma. Sono non men noti che innumerevoli i decreti del senato su tal particolare. Le divinità de' popoli vinti non superavano gli ostacoli ad esse opposti da questi decreti, che in due maniere: talvolta pubblicamente, nell’epoche di grandi calamità, perché egli è inerente allo spirito del politeismo il cercare, in casi simili dei soccorsi da ogni dove; ed in tal modo s’introdusse, per esempio, in Roma la Cibele di Pessmunte: in altre occasioni, segretamente e per contrabbando, perché egli è anche nello spiritò del politeismo che i suoi settari siano persuasi, in dispetto del corpo sacerdotale il quale vorrebbe, il monopolio, essere un dio di più, un protettore di più; ed in tal guisa penetrarono nell'impero, le divinità egiziane; ma il sacerdozio romano era tanto lontano dal credere che i suoi mezzi d’influenza e di ricchezza si moltiplicassero coll’introduzione degli Dei stranieri, che questi giunger vano sempre a suo malgrado con i loro proprj sacerdoti, rivali ed inimici degli antichi. Non si ha che ad osservare quanto spesso furono discacciate le divinità ed i sacerdoti egiziani. L'adorazione delle divinità straniere era pei preti di Roma nna diminuzione di profitti e di potere.

Tutto ciò, io l'ho già manifestato, non appartiene che in modo indiretto all'opera di Filangieri, e soltanto per provare i di lui numerosi abbagli mi son creduto obbligato a permettermi queste brevi riflessioni.

Che se alcuna delle mie asserzioni offendesse in certi punti l'opinione de' miei leggitori; se, per esempio, essi rimanessero sorpresi dell’aver io negato al sacerdozio greco qualunque partecipazione nel potere politico, e mi obiettassero la morte di Socrate, risponderei non essere mia colpa se i nostri filosofi hanno, la più parte delle volte, volato ascrivere i fatti più rimarchevoli dell’antica istoria a cagioni che non sussistevano, ed hanno in tal guisa messo in voga de' grossolani errori. La morte di Socrate non fu in conto alcuno l’opera dei sacerdoti, fu bensì quella d'una fazione politica; i sacerdoti la servirono, come degl’istrumenti salariati servono la fazione che li paga, come i tribunali in tale o tal altro paese servono il governo. La religione fu, a dire il vero, il pretesto della morte di Socrate, ma il corpo sacerdotale non v'ebbe parte. Esso non avrebbe potuto prendercela; le cause, anche quelle di religione, erano decise da giudici civili. Ma qui mi fermo. Per istabilire un principio erroneo, una linea è sufficiente; per confutarlo, necessitano intieri volumi.


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CAPITOLO V

Dei misteri

«La prevenzione... potè solo far credere... che i misteri contenessero religiose verità, ignote alla moltitudine: questa prevenzione, combinata coi lumi della a nascente coltura, fece immaginare i teologici principj... e questi teologici principj, frutti delle speculazioni degli adepti già culti ed inciviliti, convertirono quindi e effettivamente i misteri in una scuola ed in un tempio, ove s’insegnava e si professava una religione diversa da quella della profana moltitudine.»

Lib. V, cap. VII

Il punto di vista sotto il quale son considerati i misteri da Filangieri, questa interessante porzione di quasi tutti i culti dell’antichità, porzione sì mal conosciuta, sì chimericamente spiegata, è molto più, esatto, che non dovevasi aspettare da uno scrittore, il cui principal difetto era quello di contemplare con un rispetto superstizioso le dottrine, le istituzioni, ed in somma la sapienza dei popoli antichi. Sorprende invero il vedere, che disposto com'egli era, non siasi prosternato dinanzi le ipotesi che ripongono nei misteri il deposito d’una religione depurata e sublime, professata sin dall’origine del mondo, mal ravvisata dai popoli caduti non si sa come nell’ignoranza, e conservata in un santuario, a traverso le stravaganze dei profani e le rivoluzioni de' secoli, da filosofi possessori, non si può indovinare a qual titolo, di superiori e privilegiate cognizioni.

Se però l’autore Italiano si è ravvicinato al vero a questo riguardo, egli se n’è indennizzato ampiamente nel romanzo che si è dato il piacere di comporre, due pagine dopo, sulla cooperazione della legislazione e del sacerdozio onde far servire i misteri a distruggere l’antica religione ed a sostituirle una religione novella.

Trovansi in questo romanzo degl’impossibili di ogni specie.

In primo luogo, l’alleanza tra il potere politico ed il sacerdozio, diretta ad abolire la religione vigente, non può mai realizzarsi.

Né una simile alleanza potrebbe mai aver effetto per parte del potere politico, perché in questa religione esso ravvisa e la sua sanzione ed il suo istrumento; e né tampoco per parte del sacerdozio, perché questi vi trova la garanzia dell’influenza che esercita.

Se i sacerdoti dell’antichità facevano entrare net loro misteri delle dottrine o de' riti differenti dalla religione pubblica, ciò sicuramente non accadeva affine di preparare nelle tenebre e lungi dagli sguardi indiscreti e curiosi, l’abbandono di quest’ultima; ciò all’opposto facevasi per avere un mezzo di più onde mantenerla nella sua imperfezione e nella sua rozzezza, nel mentre che si depositavano in luogo sicuro le loro scoperte in fatto di scienza, le loro sottigliezze metafisiche, in un coi ragionamenti e co’ fatti, che utili a conservarsi come parte del loro monopolio, avrebbero scosso quella credenza che costituiva la base del loro potere. Qualunque progresso dello spirito umano è inimico del sacerdozio; ma esso disarma simili nemici adottandoli, poiché li adotta colla condizione espressa che non abbiano a mettere il piede fuori dell’impenetrabile recinto nel quale li rinchiude. Ed infatti esso li adotta senza distinzione d'origine e del fine a cui tendono; fa sussistere insieme tutti i sistemi e tutti i racconti, per contradittorj che sieno, né si disturba per queste contradizioni, perché quelli tiene depositati nel santuario, l’uno accanto all’altro senza un punto di contatto, e conseguentemente senza mutuo contrasto.

Ed accade appunto per questo, che tutti coloro che hanno voluto scoprire nei misteri una dottrina unica, e costantemente la medesima, sì sono perpetuamente ingannati. Questi misteri erano in qualche sorta un’enciclopedia sacerdotale, il di cui volume cresceva sempre, ingrossandosi di quanto i sacerdoti andavano successivamente inserendovi.

In tal guisa, allorché il sacerdozio greco, sempre privo d'una legale influenza, e compresso dall’autorità politica, trovava nelle antiche tradizioni della Grecia delle rimembranze, quali rappresentandolo come investito di maggior potere, attribuivano a lui l’onore d’aver tratto il popolo dallo stato selvaggio e d’avergli dato i primi rudimenti della civilizzazione, esso introduceva nei misteri la commemorazione dello stato selvaggio, la scoperta di alimenti più salubri e più grati di quello siano le carni crude, la coltura della terra e della vite, ed il raddolcimento de' costumi.

Allorché per un effetto naturale e progressivo delle comunicazioni de' popoli tra loro, de' sacerdoti stranieri, membri di corporazioni molto più potenti di quello fosse il clero in Grecia, recavano in questa regione delle ipotesi cosmogoniche e teogoniche, il corpo sacerdotale greco arricchiva i misteri di simili tenebrose teogonie e cosmogonie.

'Più tardi, allorché la filosofia, che i priori filosofi greci appresero anche dai barbari, creava dei sistemi di deismo, di panteismo e sin anche di ateismo, questi sistemi erano del pari ammessi tra i misteri.

Quindi un caos, la di cui confusione sfuggiva ciò non ostante agli iniziati, perché non comuuicavasi loro che isolatamente e parzialmente quanto meglio adattavasi alle loro idee antecedenti. E così sempre mostravansi i sacerdoti come i primi inventori delle scoperte intellettuali, e cornei depositari di tutto ciò che l’umano intendimento aveva concepito di più sublime e di più astratto. Nel confidare ai neofiti da loro ammessi i risultati delle loro meditazioni, ed i sogni della loro immaginazione come altrettanti segreti di religione, essi separavano questi stessi neofiti dal rimanente della specie umana, e quindi, lungi dall’averli nemici, sene facevano de' fermi ausiliari.

Egli è però evidente, che questo maneggio del clero altro scopo non aveva se non se la propria autorità; poiché, nel tempo medesimo ch'esso teneva l’occhio vigile su i progressi del pensiere e della scienza, onde rendersene padrone e ricoprirli d’un velo, conservava al di fuori, per quanto rendevanlo possibile la credulità individuale e le istituzioni sue particolari, la credenza adottata in tutta la sua integrità (80).

Si parte dunque Filangieri da un falso dato, supponendo il legislatore confederarsi col sacerdozio affine di distruggere una religione materiale, e stabilirne una più pura; ma non meno s’inganna, supponendo nello stesso legislatore una simile intenzione.

In tutto quell’intervallo di tempo abbastanza lungo, per cui sussisterono i misteri, non troviamo un solo esempio di tentativi fatti dai legislatori per depurare la religione (81). Si depura essa da per se stessa; e la legislazione, del pari che l’intiera società, cede a questa inevitabile azione della ragione che si illumina, e della morale, che diviene migliore. Ma la legislazione medesima cede resistendo, e subitoché essa scopre la meta, verso la quale è trascinata, la di lei resistenza ne diviene violenta e non di rado furibonda. Osservate gli sforzi degl’imperatori onde mantenere il politeismo, abbenché tutte le opinioni speculative rivelate agli uomini dal cristianesimo, venissero insegnate nei misteri (82).

Finalmente, quando anche, ciò che abbiamo già dimostrato esser chimerico, quando anche, diciamo, il potere politico ed il sacerdozio, non ascoltando il loro personale interesse e presi da un entusiasmo filantropico, volessero rinunciare ai vantaggi d’una religione già stabilita, e da essi accomodata e conformata alle opportunità, per sostituire a questa dei dogmi più puri e perciò anche più indòcili, almeno nel loro primo prodursi, non sarebbe già per tal mezzo che una religione verrebbe a trionfare.

Per indurre gli uomini a credere, altra cosa si richiede che gl’inviti, sian questi minacciosi, ovvero accarezzanti, del governo. Filangieri ricade in questo particolare nel suo perpetuo errore. Egli pone sempre in fatto, che l’autorità deve volere il bene, e ch’essa può farlo. Infelicemente non è sempre certo ch’essa il voglia, ed allorché il vuole, egli è col lasciar fare, èol tenersi sempre spettatrice, col rispettare l’indipendenza, senza la quale nessun miglioramento potrebbe operarsi, ch’essa ottiene qualche lusinga di veder soddisfatte le sue brame e compiuto il suo intento.


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CAPITOLO VI ED ULTIMO

Conclusione

E qui do fine a questo Comento, certamente non perfetto, ma in cui ho pur tentato di stabilire un’idea essenziale, quale mi sembra applicabile a tutto, e senza la quale non perverremo a nulla di utile, a nulla di durevole. Quest'idea si è, che le funzioni del governo sono negative; ad esso spetta soltanto il reprimere il male, e il permettere che venga il bene da per se stesso.

L’istinto abbastanza giusto ed abbastanza retto di Filangieri l’ha condotto talvolta a questo risultato; ma i pregiudizi, esistenti in allora, e l’imprudente appello interposto da molti filosofi di lui contemporanei a un'autorità, di cui si lusingavano di poter giungere ad impadronirsi, l'hanno fatto costantemente deviare dal buon sentiero.

In tal modo egli passa ad ogni istante da una verità ad un errore. Ammette egli, che i costumi di un secolo non essendo i medesimi del secolo antecedente, né i medesimi del successivo, il legislatore deve cedere a queste necessarie modificazioni? immediatamente egli vuol porre il legislatore alla direzione di queste stesse modificazioni, e ci adduce l'autorità di un Licurgo o di un Solone.

Ben io ravviso, tramezzo il vagar delle sue frasi, non esser egli più bramoso di me di trasformare i moderni in Ateniesi, e molto meno di farne degli Spartani; ma non per ciò egli non cade meno nel grave errore, di considerare i costumi dei popoli come derivanti dalla volontà dei legislatori. A sentir lui, direbbesì che i Lacedemoni rigettarono le ricchezze unicamente perché Licurgo le abboniva; che rinunziarono al commercio, sol tanto perché questi lo proscrisse; che furono guerrieri soltanto perché Licurgo destinati li avea ad un ozio guerresco. Nel modo istesso Filangieri attribuisce lo spirito industrioso degli Ateniesi all'appello fatto all'industria dal loro legislatore, senza riflettere che quando l’industria è indispensabile all'esistenza d'un popolo, o che quando un popolo è giunto all’epoca industriale voluta dal suo stato di società, non v’ha alcun bisogno di eccitare la di lui industria per mezzo dell'autorità e delle leggi. Che l’autorità resti pur neutrale, che le leggi tacciano, ciò che è necessario avverrà da per se stesso, al di là del bisognevole; ed in fatto d’istituzioni null’altro v'ha di buono e di durevole fuorché quelle che sono di un’assoluta necessità.

Prendendo il sistema di Filangieri a rigor di espressioni, ne seguirebbe che i governi avessero a far leggi proporzionate allo spirito de' popoli, nella stessa guisa che i precettori proporzionano le loro lezioni all’intelligenza de' loro allievi. Ed è questo per l'appunto ciò che vogliono i governi, i quali deducono da un tal principio due conseguenze non meno false che funeste.

La maggior parte delle volte perpetuano essi delle leggi assurde sotto pretesto che conviene attendere per il loro miglioramento una maturità più avanzata nei popoli, e siccome è dell’interesse dei governi, nelle cui mani risiede l’esercizio del potare, di non riconoscere mai siffatta maturità in coloro, sopra i quali il potere stesso si esercita, e di ritardarla anzi quando il possono, cosi si danno in braccio con trasporto a questa politica stazionaria e temporeggiante. Vedete la Francia sino al 1789, tranne alcune eccezioni, che provavano piuttosto l'inconseguenza di quello, che uno spirito sistematico; così avvenne che l'antica monarchia lasciò prepararsi la rivoluzione. Osservate altri imperi, i di cui ministri a verun’altra cosa non sono intenti, se non se a reprimere nell’interno dello stato, ed a perseguitare al di fuori i menomi germi di miglioramenti progressivi; ed altri, ove i ministri non fanno che promettere, e ritrattarsi.

Talvolta slanciati da una impreveduta scossa, o da interessi di circostanze e d’individualità, fuori di quell'immobilità, che in tesi generale va loro sì fortemente a grado, i depositari del potere sorpassano il segno in vece di colpirlo. Si dichiarano essi competenti a giudicare a qual grado di maturità sieno pervenuti i popoli, e s’ingannano, ora sull'epoca, supponendo il popolo preparato a riforma quando non lo è peranche, ed ora sul principio, adottando come riforme ciò che è per l’appunto l’inverso di queste.

Desiderate un esempio di simile verità in un paese dispotico? Consultate l’istoria della nazione Portoghese sotto il ministero del marchese di Pombal.

«Voi vedrete, alla morte di Giovanni V, il Portogallo immerso nell’ignoranza, ed incurvato sotto il giogo del clero. Un uomo di genio prende in mano il timone degli affari. Egli non calcola che, per ispezzar questo giogo e per dissipare in questa tenebrosa ignoranza, è forza trovare nelle disposizioni della nazione un punto d’appoggio. Egli lo cerca nell'autorità. Battendo la rocca, ei pretende farne scaturire una viva sorgente. La di lui imprudente precipitazione solleva contro di lui gli uomini i più meritevoli di secondarlo. L'influenza del clero si aumenta in ragione della persecuzione, di cui questi è vittima; la nobiltà si rivolta: il ministro diviene il bersaglio dell’odio di tutte le classi. Dopo venti anni d'inutili sforzi, la morte del re gli rapisce il suo protettore. Egli si sottrae al patibolo coll'esilio; e la nazione benedice il momento, in cui, libera dal governo che pretendeva illuminarla a malgrado di lei, può di bel nuovo riposarsi in braccio alla superstizione, ed all’apatia (83). »

Ho addotto un esempio desunto da un governo assoluto; potr ei addurne un altro non meno sensibile, d'un potere cui animava uno spirito di libertà, quale, anche al dì d'oggi, fa scusare gli errori da lui commessi. Rileggete l'istoria dell’assemblea costituente.

«Sembrava che l’opinione reclamasse da lungo tempo parecchi de' miglioramenti che quest'assemblea si sforzò di portare ad effetto. Troppo avida di secondarla, questa riunione d’uotnini illuminati, ma insofferenti, credè di non poter andare né abbastanza lontano né con sufficiente prontezza.

«L'opinione prese l’allarme per quel bollore de' suoi interpetri, e retrocedé appunto perché volevano trascinarla seco loro. Suscettibile al segno d'essere capricciosa, essa si irrita, allorché si v prendono le di lei velleità per comandi (84). Dal compiacersi ch’essa & nel biasimo, non ne siegue sempre che voglia la distruzione. Sovente, simile ai re, quali stimerebbonsi offesi se ogni parola che pronunziano fosse convertita in azione dallo zelo di chi sta loro dappresso, essa pretende parlare, senza però che le sue parole producano effetto di sorta, affine di poter parlare liberamente. I più popolari decreti dell’assemblea costituente furono talvolta disapprovati da una porzione del popolo; e tra le voci, che si alzarono contro questi decreti, ve n’erano senza dubbio molte, che gli avevano altre volte provocati (85)

Nel momento in cui scrivo mi viene per caso tra le mani un’arringa, che non manca d’essere ingegnosa, contro l'indipendenza che io sostengo doversi lasciare all’opinione pubblica, ed in favore dell’azione esclusiva del potere.

Confutandola, terminerò di mettere in piena evidenza la mia dottrina.

«Allorché lo spirito pubblico (dice un moderno scrittore) è guastato dalla vanità, dall’egoismo, e dalla mania dell’egualità; allorché le opinioni regnanti si oppongono alla superiorità delle virtù e dei lumi; allorché una turba di studenti rigetta tutte le istituzioni politiche e religiose; allorché lo spirito del giorno null’altro dimanda al legislatore che di sanzionare dei sistemi di anarchia, cosa deve far mai il legislatore. Appellarsi dalla nazione illusa alla nazione ritornata padrona de' suoi sensi, dallo spirito del giorno allo spirito de' secoli; e lungi dal lusingare i pregiudizi popolari, riformarli, comprimerli, estirparli. »

Per giudicare un tal sofista, convien ripetere e ponderare ciascuna delle sue espressioni.

Lo spirito pubblico è guastato dalla vanità. Esso non lo è giammai quando le istituzioni non favoriscono la vanità. Certamente, allorché un sistema non ha altre basi che le distinzioni, eui la vanità affannosamente ricerca ed il potere accorda; allorché, a combattere il buon senso del secolo che é stanco di vanagloria, e da cui simili distinzioni sono rigettate, vengono queste accompagnate da preferenze, che le rendono altrettanti positivi vantaggi; allorché in tal modo l’uomo il cui carattere sarebbe molto più grande di queste puerilità è forzato ad abbassarsi sino al loro livello; allorché il manifestare la propria vanità è divenuto una specie di omaggio reso al potere, un mezzo di successo, una via di profitti, lo spirito pubblico può essere, e soprattutto può sembrare, guastato dalla vanità. Ma la colpa n'è del potere, che si affatica a guastarlo.

Del rimanente, egli è possibile che noi non c’intendiamo sul significato delle parole. Nomerebbesi mai vanità il disprezzo di quelle distinzioni, delle quali mostravasi sino al presente avida la vanità? Non tarderemo ad assicurarcene, e vedremo allora che la vanità non risiede in coloro, che ne vengono accasati, ma in quelli che ne portano dei lamenti.

Lo spirito pubblico è guastato dall’egoismo. Abbandonate l’egoismo a sé stesso; gli egoismi particolari si combatteranno fra loro: essi si neutralizzeranno colla reciproca loro azione. L' egoismo, del pari che la vanità, non è pericoloso che quando & incoraggiato dalle istituzioni. Lo spirito pubblico non è pervertito dall'egoismo che quando un cattivo governo irrita tutti i singoli egoismi, collegandoli contro tutte le idee di giustizia: la natura, che ha dato all'uomo l'amor di sé stesso per la sua naturale preservazione, gli ha dato anche la simpatia, la generosità, la compassione, acciò non immolasse a sé medesimo i suoi simili. L’egoismo diviene funesto soltanto allorché questo contrappeso è distrutto. Egli lo è, allorché l'autorità chiama l’egoismo intorno alle sue bandiere, e promettendogli impunità purché si arruoli sotto i suoi vessilli, trasforma in tal guisa un istinto necessario in feroce e sfrenata passione.

Lo spirito pubblico è guastato dalla mania dell’egualità. Questo rimprovero è più chiaro dei precedenti; e come io l’aveva già annunziato, arriviamo a scoprire che ciò che si vuole avvilire sotto la denominazione di vanità e di egoismo, non è altra cosa che l’amore dell'egualità.

Ora, io domando, è egli ben vero, che l'amor dell'egualità possa essere incolpato di vanità? Non vi sarebbe mai maggior vanità nell’opposta pretensione? Voi chiamate vani e presuntuosi coloro che voglion essere vostri eguali; trovate però voi medesimi, che pretendete d’essere superiori a loro, ragionevoli e modesti!

Cosa è mai l'egualità? ella è la giustizia distributiva. Non consiste essa già nell'assenza di qualunque sorta di disparità nei vantaggi sociali. Niuno ha mai reclamato, niuno reclama questo genere d’egualità.

L'egualità consiste nella capacità di ottenere questi vantaggi in proporzione dei mezzi, de' quali ciascuno è dotato; e sarebbe questa una vanità capace a corrompere lo spirito pubblico. Questo medesimo spirito pubblico verrebbe con maggior facilità a corrompersi per la mania dell'inegualità, per questa mania che colloca un pugno d'uomini in una posizione necessariamente ostile, e che, condannandoli a difendere questa posizione contro i dritti della massa, altera le idee di questa minorità sempre militante, offusca il di lei intendimento, imprime nei di lei giudizj il carattere di parzialità.

E perciò paragonate tra loro gli eccessi derivati da queste due distinte manie: io mi servo dell'espressione adottata e sanzionata.

La mania dell'egualità cagiona degli scompigli, ne convengo anche io. L’uomo che geme oppresso da un enorme peso non può rialzarsi con tanta precauzione e delicatezza da non isconvolgere il peso medesimo. Ma osservate il popolo passati che siano questi moti impetuosi: egli resta attonito della sua stessa vittoria, egli cerca la giustizia, la domanda, vi ritorna appena questa viene mostrata a lui; ciò accade perché il suo interesse è nella giustizia, perché la giustizia è la garanzia del maggior numero, e perché lo stato di sospensione in cui essa può rimanere, è profittevole soltanto ad una minorità che creasi a di lui spese dei privilegi o delle esenzioni.

La mania dell'inegualità trae seco, lo confesso, molto minori violenze. Ma ciò accade perché sino ad ora i vizj delle nostre istituzioni, e le nostre imperfette cognizioni, avevano dato all’inegualità il vantaggio del possesso. Ora, si mena molto minor rumore nel mantenere ciò che esiste, di quello sia nello stabilire ciò che non esiste. A mantenere, basta l'immobilità, ma per edificare, convien cominciare dal distruggere. Così accade, che gli oppressi vengono sempre incolpati di tutti i disordini: finché i Neri se ne stanno ammonticchiati nella sentina del vascello addetto al loro traffico, tanto questo che il suo equipaggio godono d’una pace consolante; i Neri sentonsi soffogare, ma l'ordine non è punto turbato. Quando però i Neri vogliono respirare, allora comincia il disordine, e si rimprovera loro qual mania il non poter essi vivere senza aria.

Egli è sì vero che l'apparente moderazione dei partigiani dell’inegualità dipende dall’essere stati i medesimi ordinariamente sino al di d’oggi i possessori quasi non contraddetti dei privilegi, che quando il loro possesso è stato momentaneamente interrotto, si sono slanciati con altrettanto furore e con molto maggior perseveranza in tutti gli eccessi ed in tutti gli attentati, ai quali si dà il nome di popolari. I patrizj romani che frangevano la cervice ai tribuni erano i degni rivali di Masaniello e di Wat-Tyler; e i Des Adrets ed i Tavanes della giornata di S. Bartolommeo, che altro non fu se non se l’opera del privilegio contro l’egualità religiosa, andavano, sotto tutti i rapporti, del pari cogli assassini del 2 settembre 1792.

Non è dunque la mania dell'egualità che corrompe lo spirito pubblico. Osservate per altro il sistema d'inegualità adoperarsi onde farsi dei partigiani, assoldare il sofisma, seminar la corruzione, creare per ogni disertore un interesse particolare, che isolato lo rende dall'interesse generale; dividere la specie umana in tanti corpi vicendevole mente nemici, affine di governarla; confinarla, per così dire, entro una moltitudine innumerevole di corporazioni, ciascuna investita d'un privilegio, vale a dire, arricchita d’uno spogliamento e gratificata per mezzo di qualche atto iniquo; eccitare le passioni vili, dar vita alle passioni insolenti, ricompensare le azioni basse: in questa atmosfera sì, che lo spirito pubblico si corrompe, e che sviluppar si vede quanto mai vi può essere d'ignobile nel cuor dell'uomo.

Le opinioni in oggi dominanti respingono la superiorità delle virtù e delle cognizioni. L’opinione non ha mai respinto la superiorità delle virtù. Nell'epoche della più ributtante immoralità, la virtù è sempre rispettata in teoria. In riguardo poi alla superiorità delle cognizioni, da qual parte trovansi le cognizioni? Qui sta il punto della questione. Altra cosa non & l'opinione, se non se l'assenso che si dà ai principi creduti veri; e nella conoscenza della verità consistono i lumi. L’opinione dunque deve credersi posseditrice di questi lumi. Ma le andate vantando esserne voi gli unici proprietarj: persuadetela; allora essa non respingerà. più la vostra superiorità. La respinge appunto, perché non la riconosce per la superiorità dei lumi. Il troncar la questione non è un risolverla; il troncarla voi stessi in favor vostro, non è un ragionare, egli è un usar d’impertinenza.

SÌ rigettano le istituzioni politiche e religiose. Non dìrebbesi forse che si rigettano tutte le istituzioni politiche e tutte le istituzioni religiose? In fatto di governo come di religione non vi sono forse delle istituzioni di specie diverse? Non Si può forse voler rigettare le une ed ammettere le altre? I partigiani della supremazia intellettuale e dell’azione esclusiva del potere non rigettano forse anch'essi le istituzioni che sono contrarie a questo monopolio? La questione rimane sempre la medesima. I due partiti hanno delle istituzioni che rigettano, e delle istituzioni che adottano; resta a sapersi qual dei due ha ragione. Ma l'accusare gli uomini che bramano il governo dell'opinione, accusare questa opinione medesima di rigettare tutte le istituzioni politiche e religiose, egli è un asserire precisamente l'opposto della verità.

La speciale caratteristica degli amici del potere si è la loro fiducia in certe classi ed in certe persone alle quali attribuiscono dei dritti innati, e dei lumi privilegiati. Conseguentemente poco si curano delle istituzioni, e non le invocano al più che come un mezzo di difesa allorché temono che l'autorità già concentrata nelle loro mani non venga loro carpita. Coloro, all’opposto, che pensano doversi ubbidire all’opinione, che i governi non devono essere che i di lei interpetri, e che la loro missione si è quella di avanzare in un con lei di miglioramento in miglioramento, dimandano che si collochi al seguito di ciascun miglioramento una istituzione che lo garantisca, togliendo al potere i mezzi di nuovamente spogliare la specie umana di ciò che la medesima ha acquistato. In verità essi non vogliono che queste istituzioni sieno immuta' bili, vogliono che l’opinione, in grazia della forza progressiva con cui si sono le medesime stabilite, possa altresì con un’ulteriore progressione migliorarle ancora. Ma frattanto, e precisamente perché non riconoscono nel Potere la scienza infusa e la superiorità dei lumi, non si fidano in lui, ed hanno ricorso alle istituzioni onde sieno presi in ricordo o sien protetti quei progressi, che si operano quasi sempre in dispetto degli sforzi che il potere medesimo fa per ritardarli.

L’opinione corrotta tenta di sostituire a queste istituzioni dei sistemi anarchici. Cosa è mai l’anarchia? È dessa uno stato di cose, durante il quale la società è abbandonata all’azione irregolare di forze tra loro opposte ed mimiche. Ora l'egualità che. sottomette tutte le classi, tutti gl’individui d’uno stato a leggi uniformi, e che in ciò facendo rimuove qualunque càusa permanente di contrasto e di ostilità tra questi individui e tra queste classi, non è forse più adatta a reprimere l’anarchia di quello sia l’inegualità che arma delle minorità, ora le une contro delle altre, ed ora contro la maggiorità?

H governo dell’opinione è quello fra tutti, che ripone più completamente i popoli al sicuro dall’anarchia. L’opinione non avanzandosi che a gradi, tuttociò che l’autorità opera sotto la di lei influenza è preparato, viene opportunamente, trova degli antecedenti negli animi, è vincolato col passato, & legato coll'avvenire, emenda ciò che è vizioso, si innesta su ciò ch’è buono. Se all'opposto vi date in braccio all’autorità, dichiarata indipendente dall'opinione e superiore a questa, vi ponete in balia degl’interessi privati e de' progetti avventizi. Il sistema della supremazìa dell’autorità, che decide sola in virtù di pretesi lumi, non è altro, se non se una specie di sanzione che si dà all'anarchia del caso.

Il legislatore deve appellarne dalla nazione illusa alla nazione ritornata padrona de' suoi sensi. Ma il legislatore è egli un ente astratto, impassibile? Non ha forse interesse ad arrogarsi la più gran somma di potere che le circostanze gli offrono? Ogni qual volta la nazione gli contrasterà qualche particella di un tal potere, non dirà egli, ch'essa s’inganna e che travia? Io ho già trattato questo soggetto (parte I, cap. Vili). Ho provato che i governi, e per l’espressione di legislatore si vuol sempre qui intendere il governo, ho provato, dico, che i governi erano esposti a maggiori eventualità di errare, di quello che gl'individui, e che vi sono esposti specialmente più che i popoli.

L’opinione d’un popolo è il risultato di ciascheduna opinione individuale, separata dagl’interessi privati che questa opinione adulterano in ciascun individuo, e quali, incontrandosi in questo centro comune, si combattono e si distruggono a vicenda. Il governo o il legislatore possiede all'opposto in sé medesimo questi medesimi privati interessi in tutta la loro intensità. Nulla ne lo garantisce; nulla separa le idee generali, ch'egli può aver concepite mediante questa lega funesta. Quando la nazione s'inganna, voi lo incaricate di dichiararlo; ma chi vi assicura, ché egli medesimo non s’ingannerà? Ei dichiarerà che la nazione s’inganna, ogni qual volta i lumi di questa' nazione precederanno i suoi, ogni qual volta questa nazione ricuserà di sottomettersi alle sue fantasie ed ai suoi capricci. Alberto d’Austria diceva, che sicuramente la nazione elvetica era nell’inganno, allorché non piegava il ginocchio dinanzi il cappello di Gesster. Il sultano dice probabilmente in oggi, che i Greci sono nell’inganno, perché si oppongono al palo, allo stupro ed al cordone; e noi stessi abbiamo conosciuto in. Francia, in tutte le epoche, delle persone che, allorquando la nazione lagnavasi di alcuna delle innumerevoli tirannie da noi sopportate, asserivano, essere, la medesima nell’inganno.

Il legislatore deve opporre allo spirito del giorno lo spirito dei secoli. Se il legislatore oppone allo spirito del giorno lo spirito de' secoli trascorsi, noi siamo rispinti in quella politica stazionaria che paralizza tutte le facoltà dell’uomo, rigetta tutti i miglioramenti, rende eterni tutti gli errori; se il legislatore oppone allo spirito del giorno lo spirito dei secoli avvenire, noi ci troviamo esposti a tutte le innovazioni precipitose, premature, fantastiche, di cui ho descritto il pericolo sin dal principio del presente capitolo. Perché mai dunque non voler lasciare allo spirito del giorno la sua giurisdizione? Lo spirito del giorno si compone delle opinioni del giorno, quali sonosi formate per l’azione delle circostanze; e col soccorso degli antecedenti; poiché esse non nascono spontaneamente ed isolatamente nella testa degli uomini; lo spirito del giorno nasce dagl'interessi del giorno, quali li hanno formati le costumanze, le speculazioni, i progressi dell’industria; lo spirito del giorno è l’espressione dei bisogni del giorno. Non vi affaticate dunque a far risorgere con molta pena lo spirito della vigilia, né d’invocare con troppa fretta ed imprudenza quello dell'indomani.

Lungi dal lusingare i pregiudizi popolari, il legislatore deve riformarli, comprimerli estirparli. Qui si presentano due questioni. Ha egli il legislatore una certezza o anche una probabilità di successo, allorché vuol estirpare le opinioni dominanti? E se il successo fosse certo, sarebbe questo mai di tal natura che la società avesse a felicitarsene?

Egli è co’ fatti che mi piace rispondere ad asserzioni tanto dogmatiche. Attingerò dunque nella storia l’esempio il più memorabile, che la medesima ci abbia trasmesso, del contrasto tra l'opinione e l’autorità, e tanto più volentieri lo scelgo in quantoché, in questo particolar caso, la ragione assisteva l’autorità a molti riguardi. Intendo parlare delle misure severe adottate dal sena to romano contro l’introduzione della filosofia greca.

Eranvi certamente molte verità, ma v’eran pure de' gravi errori nella filosofia recata in Roma dall’ambasciata ateniese, della quale faceva parte Carneade. Da un lato, i progressi dei lumi avevano indotto i filosofi greci a rigettare delle favole assurde, a sollevar l’animo a più pure nozioni religiose, a separar la morale dal volgare politeismo, ed a riporne la base e la garanzia nel cuore e nell’intendimento umano; dall’altro lato, l’abuso d’una dialettica sottile aveva, nelle scuole di molti filosofi, indebolito i principi naturali ed incontrastabili della giustizia, aveva tutto sottomesso all’interesse, con ciò corrotto il motivo di tutte le azioni, e spogliato la stessa virtù di quanto ella contiene di più nobile e di più puro.

E perciò il senato di Roma avea de' giusti motivi di desiderare che una dottrina mista con tanta lega non s’impadronisse senza discernimento e senza restrizione, dello spirito della romana gioventù. Che fece egli dunque?. Cominciò dal confondere il vero con il falso, il bene con il male: era questo un primo abbaglio inevitabile per l’autorità, poiché non è negli attributi delle sue incombenze e della sua possanza l'entrare in un esame profondo di veruna opinione; essa non può comprenderne che la superficie. Avendo il senato considerato la filosofia in massa, fu. molto più colpito dai di lei inconvenienti, di quello che dai di lei vantaggi ciò esser doveva. I sofismi di Cameade, il quale recandosi a gloria il dispregevole talento d'attaccare indifferentemente le più opposte opinioni, parlava in pubblico ora per la giustizia, ora contro, dovevano ispirare contro una scienza sino a quell'epoca sconosciuta, delle sfavorevolissime disposizioni. U senato dunque proscrisse tutta la greca filosofia.

In tal modo, primieramente, egli respinse su delle ingannevoli apparenze quella cosa appunto, che, principalmente nell’epoca in cui cominciavano a corrompersi i costumi, sola poteva richiamare i Romani all'amor della libertà, della verità, e della virtù. Catone il seniore, il quale Ai promotore della proscrizione a cui Ai condannata la greca filosofia, non poteva immaginarsi che un secolo dopo di lui, questa stessa filosofia, meglio studiata e meglio conosciuta, sarebbe il, solo asilo del suo nipote contro i tradimenti della sorte e contro l’insultante clemenza di Cesare.

Secondariamente, le rigorose misure prese dal fenato contro la greca filosofia altro non facevano che prepararle un trionfo, il quale, per essere stato ritardato, non ne divenne meno completo. I deputati ateniesi furono con precipitanza rimandati alla loro patria. De’ severi editti contro qualunque straniera dottrina furono frequentemente richiamati in vigore. Inutili sforzi: l’impulso era già dato, nò i mezzi dell’autorità potevano trattenerlo.

Supponiamo adesso che il senato di Roma non avesse voluto né riformare, né comprimere, né estirpar colla forza, e che non fosse intervenuto né a favore né contro la filosofia, cosa sarebbe mai accaduto? Gli uomini illuminati della capitale del mondo avrebbero esaminato senza parzialità la nuova dottrina; essi avrebbero separato le verità che essa conteneva, dai sofismi che in grazia di queste verità si eran pure introdotti. Egli non era, al certo, difficile il provare, che i ragionamenti di Cameade contro la giustizia non erano che miserabili arguzie; egli non era difficile di risvegliare nel cuore della romana gioventù quei sentimenti indelebili scolpiti in quello di ciascun uomo, e di sollevare l’indignazione di quegli animi ancor nuovi contro una teoria, che, consistendo intieramente in equivoci ed in cavilli, doveva colla più semplice analisi vedersi ben presto coperta di ridicolo e di disprezzo. Quest'analisi però non poteva esser l’opera dell'autorità. l’autorità doveva soltanto renderla possibile col lasciarne libero l’esame; poiché l’esame, quando venga proibito, non per questo non si fa, ma imperfettamente si fa, si fa disordinatamente, con passione, risentimento, e violenza. Ad un tal esame vuolsi supplire con degli editti e dei soldati. Simili mezzi son comodi e sembran sicuri; essi apparentemente riuniscono tutto, speditezza, facilità, dignità; hanno per altro un difetto solo, quello di non esser mai efficaci.

I giovani romani conservarono con tanta maggiore ostinatezza nella loro memoria i discorsi dei sofisti, quanto più ingiusto sembrava loro l’allontanamento delle loro persone; riguardarono essi la dialettica di Cameade, meno come un'opinione che conveniva prendere in esame, di quello fosse un bene che bisognava difendere, poiché erano minacciati di vederselo rapire. Lo studio della filosofia greca non fu più un affare di semplice, speculazione, ma, ciò che sembra cosa ancor più preziosa in quell'epoca della vita in cui l’anima è dotata di tutte le forze di resistenza, un trionfo sull’autorità. Gli uomini illuminati d’un’età più matura, ridotti a scegliere tra l’abbandono di ogni specie di studio filosofico, o la disubbidienza al governo, furono astretti ad abbracciare quest'ultimo partito dal loro genio per la letteratura, passione, che in dii n'è acceso va giornalmente crescendo, perché porta in se stessa la sua soddisfazione. Gli uni seguitarono la filosofia nel suo esilio. in Atene; altri vi mandarono i loro figli: e la filosofia, reduce poscia dal di lei bando, ottenne tanta maggiore influenza, quanto più da lontano essa giungeva, e quanta maggior pena costato aveva l’acquistarla.

La moderna istoria ci somministra un esempio, che viene in appoggio delle lezioni da noi attinte nell’antica. Trascriverò su tal proposito alcune riflessioni d’un imparziale e moderato scrittore.

«La metafisica d’Aristotile fu colpita d’anatema da quella formidabile potenza, che piegar faceva sotto il suo giogo e le passioni ed i pensieri, ed i sovrani ed i sudditi. Fu contro le ceneri insensibili d’un filosofo, morto venti secoli prima, che il concilio di Parigi, sotto Filippo il Bello, scagliò i suoi fulmini, e questa polvere inerte sorti vittoriosa dal combattimento. La metafisica del precettore di Alessandro fu allora più adottata che mai nelle scuole; essa divenne l’oggetto d’una religiosa venerazione; ebbe i suoi apostoli, i suoi martiri, i suoi missionari; e gli stessi teologi piegarono i dogmi del cristianesimo onde conciliarli colle massime dei peripatetici: talmente l’opinione è irresistibile nel di lei progressivo avanzamento, talmente il potere civile, religioso e politico è astretto suo malgrado a seguitare l’avanzamento medesimo; felice, per salvar le apparenze, di sanzionare ciò che impedire voleva, e di dirigere quindi quello stesso movimento, che pretendeva in prima di fermare.»

Abbandoniamo ora, una tal questione. Rinuncisi pure alla vittoria che credevamo d’aver riportata. Supponiamo probabile, o possibile, il successo della autorità contro l’opinione; supponiamo inoltre che l'autorità sia assistita dalla ragione, e che l’opinione abbia il torto; che la prima combatta in fondo per il vero, e che la seconda sia del partito dell’errore, e vediamo, in quest'ipotesi, quale sarebbe la conseguenza del trionfo della verità stessa, quando venisse comandata dal potere.

Il sostegno naturale della verità è l'evidenza. Il cammino naturale per giungere alla verità si è il raziocinio, il paragone, l'esame. Persuadere a taluno che l'evidenza, o ciò che gli sembra essere l'evidenza, non sia il solo motivo che debba renderle fermo nelle sue opinioni, che il raziocinio non sia la sola via che gli sia d'uopo battere, egli è un adulterare le di lui facoltà intellettuali, egli è stabilire un rapporto fittizio tra l’opinione che gli si presenta e l'istrumento col quale deve giudicarne. Ei non pronunzia più guidato dall'intrinseca natura di questa stessa opinione, ma da considerazioni estranee, e la sua intelligenza è pervertita subitoché essa siegue una tal direzione. Supponete pure infallibile il potere che si arroga il dritto d'insegnar e la verità; non perciò egli impiega dei mezzi omogenei; non meno perciò egli snatura e la verità che proclama, e l'intelligenza alla quale ordina di rinunziare a se stessa.

Con tutta ragione dice il sig. De Montesquieu (86), che un uomo condannato a morte in virtù di leggi da lui stesso consentite, è politicamente più libero di colui che vive tranquillo sotto leggi stabilite senza il concorso della sua volontà. Può dirsi con egual giustezza, che l’adottare un errore in forza della nostra persuasione e perché questo ci sembra essere la verità, è un'operazione più conducente al, perfezionamento del nostro spirito, di quello sia l'adottare una verità sull'autorità altrui per rispettabile che questa possa essere (87). Nel primo caso, noi ci accostumiamo ad esaminare. Se, in una data particolar circostanza, l’esame non ci conduce a dei felici resultati, noi siamo però nella via per giungervi. Perseverando nella nostra scrupolosa ed indipendente investigazione perverremo presto o tardi alla verità. Ma nel secondo supposto, noi altro non siamo che il trastullo dell'autorità, sotto la quale abbiamo piegato il nostro proprio giudizio. Non solo adotterem noi gli errori in progresso di tempo, se l’autorità dominante s'inganna, o trova di suo vantaggio d'ingannarsi; ma neppur saremo in grado di dedurre dalle verità, che l’autorità medesima ci avrà fatte conoscere, le conseguenze che devono risultarne. L'annegazione del nostro intendimento ci avrà resi altrettanti esseri miseramente passivi. La molla del nostro spirito si troverà spezzata, e la forza che ci resterà non servirà che a farci traviare.

Uno scrittore, dotato di rimarchevole penetrazione, osserva su tal subbietto che un miracolo operato per dimostrare una verità non produrrebbe alcuna reale convinzione nell'animo dei testimoni del medesimo, ma che soltanto degraderebbe il loro giudizio (88), poiché tra una verità ed un miracolo non esiste alcuna naturale connessione. Un miracolo non è già la dimostrazione d’un’asserzione qualunque, ma una prova di forza. Esigere che. in virtù di un miracolo si dia la sua adesione ad un’opinione, egli è lo stesso che volere che si accordi alla forza, ciò che alla sola evidenza accordar devesi; egli è un rovesciare l’ordine delle idee, e pretendere che un effetto sia prodotto da ciò che non potrebbe mai divenir la sua causa.

Simile ragionamento intendo io d’applicare alle sole idee politiche e morali, e, circoscritto in questa sfera, niuno contrastare mel potrebbe.

La morale è il composto di cause e di effetti collegati insieme, nel modo stesso che la cognizione della verità vien composta unicamente della concatenazione dei principi e delle conseguenze. Ogni qual volta voi venite ad interrompere questa concatenazione, voi distruggete la morale e snaturate la verità.

Quanto vien comandato all’opinione dall’autorità, sia la verità, sia l’errore, vantaggioso non può essere, ma diviene nocivo. La verità in tal caso non nuoce per la sua intrinseca essenza di verità, ma per essere penetrata nello spirito umano per tutt’altra via che la naturale.

Obbiettasi, esservi una classe le di cui opinioni altra cosa essere non possono che pregiudizi, una classe, che non avendo il tempo di riflettere, non può imparare che ciò che le viene insegnato; una classe che creder deve a ciò che le viene affermato, e che, incapace di occuparsi dell’esame, non ha alcun interesse a sollevarsi sino all'intellettuale indipendenza. Di questa classe ignorante, dirassi, il governo diriger deve le opinioni, lasciando ogni libertà alla classe istruita.

Un governo però, che quest'esclusivo dritto attribuisse a sé stesso, pretenderà necessariamente che sia rispettato questo suo privilegio. Non vorrà esso mai che alcun individuo, chiunque egli sia, agisca in un senso dal suo differente. Ammetto, che nei primi momenti, il governo nasconderà sotto l’aspetto di tolleranza questa sua volontà. Sin d’allora però ne nascerà qualche ostacolo, e gli ostacoli anderan sempre crescendo. Dalla preferenza per una opinione, al disfavore per l’opinione contraria, v'ha un intervallo che non è possibile di non oltrepassare.

Questo primo svantaggio è causa d’un secondo. Le persone illuminate non tardano a distaccarsi da quell’autorità che le offende. Questo è inerente alla natura dello spirito umano, soprattutto quando è desso invigorito dalla meditazione, e coltivato dallo studio L’azione dell’autorità, abbia pur questa le migliori intenzioni, ha sempre un non so che di duro e di rozzo, ed urta mille delicate fibre in modo sì acerbo, che queste ne soffrono e se ne risentono necessariamente.

Egli è dunque da temersi che attribuendosi al governo il dritto di dirigere, sia pure per condurla alla verità, l’opinione delle classi ignoranti, separando da una tal direzione qualunque di lei azione sulla classe illuminata, questa classe medesima, la quale internamente sente essere l’opinione cosa di sua sfera, non entri in opposizione con il governo. Mille mali ne risultano quindi. L'odio per un’autorità, che si mescola in ciò che non fa parte delle sue attribuzioni, può giungere a sì alto grado, che quando essa operar vuole in favore dei lumi, gli amici di questi si mettano dalla parte dei pregiudizi. Noi abbiam veduto questo spettacolo bizzarro, come l’ho già fatto osservare di sopra, in alcune epoche della nostra rivoluzione. Un governo fondato sopra i più evidenti principi, e che professasse le più sane teorie, ma che per la natura de' mezzi da esso impiegati, avesse da sé alienato la classe delle persone colte, diverrebbe infallibilmente, o il governo il più avvilito, o il governo più oppressore. Bene spesso potrebbe anche riunire queste due caratteristiche, che sembrano escludersi a vicenda.

Cancelliamo dunque, per tutto ciò che non ha connessione con i delitti positivi, cancelliamo, dico, dal dizionario del potere, le parole comprimere, estirpare, ed ancor quella di dirigere. In riguardo all’opinione, all’educazione, all’industria la divisa dei governi dev’essere: Lasciate fare, lasciate correre.

FINE DEL COMENTO.

NOTE

(1) Ho già sviluppato queste idee nella mia opera sullo Spirito di conquista; io non faccio qui che richiamarle.

(2)Dello spirito di conquista, cap. I.

(3)Debbo prevenire il lettore, che essendomi proposto, tempo f, di pubblicare in una seria di articoli d'unedera periodica, un Saggio su i limiti, che la legge non deve ltrepassare, avevo incominciato dallo stabilire alcune delle idee qui sviluppate. Non ho potuto dispensarmi dal riprodurre queste stesse idee, che sono lai base della mia dottrina; e tanto pi ho creduto di poterlo fare, ch io ho rinunziato di buonissima ora al genere di pubblicazione da me adottato, prima di metter mano a questo Consento, in modo ce gli articoli gi stampati sono pochissimi in numero, e compilati con molte modificazioni.

(4)Delle Costituzioni delle Garanzie. 1814

(5)Prego il lettore ad osservare, che io non biasimo in conto alcuno il fondo dell'idea di Filangieri in ci che riguarda la proporzione che deve esistere tra le leggi di un popolo lo stato dell'opinione, delle cognizioni e della civilizzazione presso questo popolo. Una tale proporzione al certo indispensabile, ma sembra che Filangieri nelle sue metafore voglia sempre attribuire al legislatore il dono di giudicare e di determinare questa proporzione. In ci risiede l'errore: ed contro l'ipotesi dell'esistenza duna classe, dotata duna miracolosa sagacit soprannaturale, fuori di proporzione con quella delle nazioni contemporanee, che io insorgo con tutte le mie forze. Questa ipotesi serve di. apologia a tutte le oppressioni: essa giustifica, ora il rifiuto dei miglioramenti i pi opportuni, ora il tentativo di miglioramenti o dinnovazioni premature, che sono puri flagelli. Sotto questo pretesto al giorno d'oggi i capi delle nazioni si oppongono alla restituzione dei dritti da esse reclamati, ed alla distruzione degli abusi, contro dei quali sono sdegnate; e cent'anni sono, in un senso contrario, sotto questo medesimo pretesto, Pietro I tormentava i Russi; cinquantanni fa il marchese di Pombal sottometteva i Portoghesi ad un giogo di ferro; quarantanni fa Giuseppe II rendeva malcontenta la Boemia, il Belgio, l'Austria e l'Ungheria.

Non v'ha alcun dubbio, che la proporzione tra le leggi e le idee popolari non sia necessaria; ma per fissare questa proporzione conviene ricorrere alla libertà, ed il più delle volte v'è maggior necessità di annullare le leggi che farne delle nuove.

(6)Coro di politica costituzionale: to. I, part. I, p. 173-176.

(7) Prima memoria sull’educazione.

(8) Idee sulla sovranità, sull'autorità sociale e su’ dritti individuali, cap. II e III.

(9)Quante false idee si propagano dice uno scrittore oltremodo inimico dei governi popolari e molto bramoso di circoscrivere tutte le eligibilit nelle classi aristocratiche sul modo di elezione? La capacit di eleggere non altrimenti un dritto, che non lo la capacit che abilita ad occupar degimpieghi: essa una commissione conferita dalla legge per il bene di tutti; per fare delle buone leggi, vi abbisognano dei buoni legislatori, e le qualit dun legislatore ssendo rare, convien trovarle l dove sono. Un simile ragionarne rito non si applicherebbe forse egualmente alla monarchia, e non tenderebbe esso a provare che ancor questa debbessere elettiva?

(10)Galliani, Commercio dei gran, pag. 250.

(11) Idee sulla sovranità, sull'autorità sociale, e su’ dritti individuali.

(12)Idee sulla sovranità, sull’autorità sociale, e su’ dritti individuali.

(13)Corso di politica costituzionale.

(14)Dello Spirito di conquista,1814.

(15) Io ho sviluppato quest'idea, mesi fa, in un articolo della Minerva, intitolato: Dei complotti dei controrivoluzionarj francesi, contro la vita e la sicurezza del re di Spagna.

(16)Lettere di Madama di Maintenon.

(17)Bisogna aver fatto il noviziato per fare dei carri, e non per far dlle carrozza. ckstone.

(18)Ci si applica a quanto ho detto sulla dignit dei Pari, nella mia ppera sulle costituzioni e le garanzie.

(19) La verità di questo quadro dell'Inghilterra sino a quasi tutto l'ultimo secolo, è stata contrastata da alcuni scrittori inglesi, che mi hanno rimproverato di aver supposto nei tempi attuali le consuetudini e le istituzioni feudali non più esistenti dipoi Enrico VII. Sicuramente io riconosco benissimo la distanza che passa dall’Inghilterra costituzionale all’Inghilterra sottoposta al feudalismo. Ma allorché le istituzioni gradatamente si distruggono, i rapporti e gli usi sopravvivono. I fìttajuoli dei grandi proprietarj inglesi non erano al certo attaccati alla gleba trenta anni sono; ma gli affitti e le famiglie che ne godevano, erano sempre le stesse, e questa perpetuazione formava tra queste famiglie e quelle dei proprietarj un legame di clientela e di patrocinio. Da che i proprietarj hanno veduto nell’aumento degli affitti una speculazione, questo legame si è spezzato. Non esistono più dei protettori e dei clienti, ma degli uomini, che si regolano egualmente secondo i loro interessi, e privi d'affetti del pari che esenti da doveri gli uni verso gli altri.

(20) La tratta dei neri essendo stata considerata per lunga pezza, a gran vergogna della specie umana, sotto un aspetto commerciale non meno che politico, ho creduto, malgrado la riserva che mi sono imposta in questo Comento, di poter ragionare sopra un soggetto sul quale non v'è disparere, almeno in parole, e che interessa sì intimamente l'umanità.

(21) Si vedano le Memorie della Società Affricana l’Esposto del duca di Broglio alla Camera dei Pari nella sedata del 28 marzo 1822, e soprattutto un Prospetto per un armamento destinato a questo commercio; prospetto pubblicato da alcuni negozianti di una città marittima con incredibile impudenza.

(22)Sviluppi del duca di Broglio.

(23)Questo fatto tanto pi da rimarcarsi, in quanto che non stato conosciuto che per mezzo dun libro scientifico, il di cui autore aveva tanto poca intenzione d'irritare gli animi contro la tratta, che rimasto dipoi molto dolente daver inserito nel suo racconto queste orribili particolarit, e che si data tutta la cura di sopprimerle in unedizione fatta espressamente per istare in luogo della prima. Questa per lappunto una ragione di pi per dargli quanta maggior si pu pubblicit, e per denunziarlo a tutti quelli, che conservano dei sentimenti di umanit. La nave della portata di duecento tonnellate part il 24 gennajo 819 per la costa dAffrica, e giunse al suo destino il 14 marzo seguente. Essa and a dar fondo davanti e Boun nel fiume di Malabar, per farvi la tratta dei neri... I neri, cherano centosessanta in numero, ammonticchiati nella sentina e nel corridoio, avvano contratto una rossezza piuttosto considerabile agli occhi, e questa si comunicava con una singolare rapidit dagli uni agli altri si fecero montar successivamente sul ponte, affine di far loro respirare unaria pura, quei neri ch'erano rimasti sin allora nella sentina: a ma si fu costretti di rinunziare a questa misura, per quanto essa fosse li salutevole, perch molti di questi neri, affetti di nostalgia (il desiderio di rivedere il loro paese natio) si gettavano in mare tenendosi a abbracciati. La malattia si sviluppava tra gli Affricani in un modo spaventevole e rapido, e non lard a divenir contagiosa per tutti, e a il dar dei timori per l'equipaggio I dolori aumentavano di giorno in giorno in un col numero dei ciechi; in maniera che l'equipaggio, gi spaventato dal timore duna sommossa tra i neri, era colpito dal terrore di non poter pi governare la nave per portarsi alle Antille, se ultimo dei marinari, chera stato il solo a non risentire il contagio, e su del quale fondavasi tutte le speranze, fosse divenuto cieco al pai degli altri. Un simile accidente era accaduto a bordo delLeone, bastimento spagnuolo che incrociava davanti il e di cui tutto l'equipaggio, divenuto cieco, era stato costretto di rinunziare al governo della nave, e si raccomandava alla carit del quasi infelice quanto lui stesso.... Giunto alla Guadalupa il 21 giugno 1819, l'equipaggio era in uno stato deplorabile. Tra i neri, trentanove sono a divenuti ciechi e sono stati gettati in mare.Biblioteca oftalmologica del D. Guilli

(24) Il 4 marzo 1820 le barche del vascello inglese il Tartaro arrestarono la Jeune Estelle... L’agitazione e l’allarme, che apparvero sul volto di tutte le persone ch'erano sul bastimento, risvegliarono dei sospetti, e si procede alla sua visita. Durante la perquisizione uno degli uomini dell'equipaggio del Tartaro avendo dato un colpo ad un barile chiuso ermeticamente, se ne sentì uscire una voce simile ai gemiti di una persona spirante, e vi si trovarono rinchiuse due giovani nere di circa dodici o quattordici anni, ell'erano nell’ultimo stato di soffocazione, e che in grazia di questo felice evento, furono rapite alla pili spaventevole morte... Si verificò, che il capitano aveva imbarcato quattordici schiavi a bordo della Jeune Estelle... Una nuova visita ebbe l’effetto di strappare alla morte un altro nero, che però non faceva parte dei dodici, di cui si faceva ricerca. Erasi praticato sulle botti che contengono l’acqua del bastimento, una specie di piattaforma composta di tavole staccate aventi la forma d’un corridojo di circa ventitré pollici d'altezza... Sotto questa piattaforma avendo il corpo coperto da una di queste tavole, stretto tra due botti, fu trovato l’infelice nero, di cui si è parlato. Fu per tutti i testimoni di questo spaventoso spettacolo un soggetto di maraviglia il trovarlo sempre vivo in una situazione siffatta... Si dimanda frattanto cosa sono divenuti gli altri dodici schiavi... Gli uffiziali del Tartaro si ricordarono con un sentimento ai orrore, che quando avevano cominciato a dar la caccia alla Jeune Estelle, avevano veduto molti barili ondeggianti dietro di loro, e sospettavano, che ciascuno di questi barili contenesse uno o più di questi infelici. Documenti ufficiali depositati sul banco della Camera de' Comuni.

(25)Dopo scritto questo capitolo, si sono vedute con piacere molte condanne pronunziate contro bastimenti addetti alla tratta dei neri, e molte circostanze si riuniscono per fortificare le speranze espresse dal Signor di Broglio.

(26)Della Popolazione, tom. III, p. 20-22.

(27) Nuovi principi di economia politica, tom. II, pag. 308. Una cosa molto curiosa si è, che il signor De Sismondi sembra dimenticarsi intieramente in un altro luogo, dei principi, su i quali fonda il suo rigore contro i matrimoni della classe povera, e che soli possono scusare questa severità. Egli dice alla pag. 97 del suo primo volume, parlando d'un fittajuolo, che raddoppiasse ogni anno la sua multa: chi consumerà quest'aumento? Si risponderà: la sua famiglia, la quale senza dubbio si moltiplicherà; ma le generazioni non crescono cosi presto come le sussistenze. Se il nostro fittajnolo avesse delle braccia per ripetere ogni anno la supposta operazione, la sua raccolta in grano raddoppierebbe tutti gli anni, e la sua famiglia potrebbe tutf al più raddoppiarsi ogni venticinqu’anni.

(28)In Olanda, per esempi

(29) Ben m'immagino, che questa profezia, che si verificherà in Francia egualmente che in Prussia, non sarà punto gradita a quella classe, che, decaduta dai suoi privilegi d'opinione, vorrebbe crearsi dei privilegi di proprietà, e sogna le sostituzioni, i fidecommessi, i maggiorascati. Il feudalismo, attaccato nella sua supremazia politica, abbandonò i suoi castelli e le sue signorie, son già due secoli, e si rifuggì nella domesticità delle corti sotto il nome di nobiltà.

Attualmente esso sente mancarsi sotto i piedi il terreno delle corti, e vorrebbe rifuggirsi nuovamente nelle sue terre, rendendole inalienabili sotto la denominazione di grandi proprietà. Ma la gran proprietà inalienabile è tanto contraria allo stato attuale della civilizzazione, quanto il feudalismo. l’effetto della civilizzazione, si è quello di aprire una più vasta e più libera carriera alla forza morale dell’uomo, e di render mobili, se è permesso di esprimersi in tal guisa, di render disponibili tutti i mezzi, col soccorso de’ quali egli esercita questa forza. La proprietà fondiaria non è altro al presente che uno di questi mezzi; essa tende per conseguenza a dividersi per circolare più comodamente. Quanto osterebbe a questa tendenza, rimarrebbe senza risultato. Subitoché una porzione della proprietà fondiaria passò nelle mani del terzo stato, essa abbatté il feudalismo. In oggi l’industria, che trovasi intieramente nelle mani di questo stesso terzo stato, vincerà la proprietà fondiaria, vale a dire, la livellerà a se stessa, la renderà mobile, divisa, circolante all’infinito. Tutti gli sforzi delle caste per impedirla di as sumere questo nuovo carattere faranno inefficaci: essa ha cambiato di natura. Le terre sono divenute in qualche modo dei pagherò all'ordine, che si negoziano allorché si può trarre un miglior partito dal capitale, da esse rappresentato; giacché non sono più capitali che rappresentano le terre, ma sono le terre che in certo modo rappresentano i capitali. La ragione n’è semplice. In un sistema d’industria, il miglior valore è quello ch'esige minori formalità per diventar disponibile, ed allora si tende ad accrescere più che si può la disponibilità di qualunque cosa di valore.

Da ciò deve nascere, che più l’industria fa dei progressi, e più tutte le classi agiate vogliono avere dei capitali a loro disposizione. Nel 1accordare ciò che fa d’uopo accordare alle abitudini della generazione contemporanea, si può affermare, che tra cent'anni le classi non agricole non avranno delle proprietà fondiarie, che come altrettanti godimenti di lusso, e la proprietà fondiaria divisa e suddivisa, sarà quasi totalmente nelle mani delle classi laboriose. La gran proprietà é a un dipresso l'ultimo di quegli anelli, che ogni secolo stacca dalla catena, e che spezza.

«Resistere a questa rivoluzione sarebbe inutile, affliggersene egli è follia. Una quasi insolubile difficoltà ha esistito presso tutti i popoli antichi, e presso molti dei popoli moderni; ha questa ora ritardalo lo stabilimento ed ora intorbidato il godimento della libertà. Questa difficoltà consisteva nella scarsità delle cognizioni della classe dedita al lavoro, e nel poco interesse che questa classe, composta di proletarj, prendeva alla conservazione dell’ordine: l’antichità non aveva saputo applicare a questo flagello altro rimedio che la schiavitù. Tutti i filosofi della Grecia dichiaravano essere la schiavitù una condizione inerente ed indispensabile dello stato sociale. Non è forse una gran felicità, che la divisione delle proprietà liberi da un tal pericolo la società attuale, e ell'essa vincoli il gran numero alla stabilità delle istituzioni per mezzo del suo stesso interesse? Coloro che deplorano questa divisione sono precisamente quelli ch'essa salva, diffondendo i lumi, gli agj e la tranquillità tra la porzione più pericolosa del popolo, mentr'essa è ignorante, povera ed agitata?

«La stessa proprietà fondiaria vi guadagna in coltivazione e valore. Voi pur vedete ciò che dice della Prussia un autore prussiano; contemplate ciò ch'è accaduto in Francia dopo la rivoluzione; paragonate la nostra agricoltura ed i suoi prodotti, all’agricoltura ed ai prodotti dell'ultimo secolo; meditate finalmente sugli effetti della moltiplicità dei proletarj in Inghilterra.»

(30) Il signor Necker, nella sua Opera sulla legislazione dei grani.

(31)Sa, Trattato d'Economia politica.

(32) Queste difficoltà si possono vedere sviluppate in tutta la loro estensione dall'abate Galliani, nei suoi dialoghi sui commercio dei grani. Mi piace rimandare il leggitore a questo scrittore, quantunque egli siasi servito d’uno stile troppo leggiero per una materia sì grave; ma siccome egli è il primo ed uno dei più terribili nemici del sistema di libertà, le sue confessioni sull’inconveniente dell'intervenzione amministrativa a questo riguardo devono avere un gran peso.

(33)Vedasi l'opera del signor Neeker sulla legislazione e sol commercio de' grani. Egli ha esaminato con una notabile sagacit tutte le restrizioni, tutti i. regolamenti, tutte le misure, che compongono o possono comporre una legislazione frumentaria; e sebbene suo unico scopo fosse quello di dimostrare che lazione costante del governo era necessaria, pure si veduto costretto a condannare tutti i mezzi adoperatisi a tal effetto.

(34)Vedasi il carteggio del signor Turgot coll'abate Terr.

(35)Un agricoltore, che non può vendere il suo grano con vantaggio procura di farlo consumare, per evitare le spese ed i guasti, che incontrerebbe conservandolo. Quanto più vile è il prezzo dei grani, in tanta maggior copia se ne dà al pollame ed agli animali d'ogni specie: ora è questo tanto di perduto per la sussistenza degli uomini. Non è già nell'anno stesso, in cui si fa questo sciupinìo, che i consumatori hanno a risentirsene; ma questi grani avrebbero riempito un vuoto in alcuno provincie affamate, ovvero in un'annata sterile. Si sarebbe con questi salvata la vita a famiglie intiere, come anche si sarebbero prevenute dell'eccessive carestie, se l'attività d'un commercio libero, col presentar loro uno smercio costantemente aperto, avesse inspirato a tempo ai proprietarj un grand'interesse a conservarli, e non a farne scialacquo in usi, per i quali si possono impiegare delle granaglie meno preziose. (VII lett. del Signor Turgot all’Abate Terray, pag. 62, 63.)

(36)Smith ha ammirabilmente dimostrato, che l'interesse del negoziante speculatore dei grani nellinterno, e l'interesse della massa del popolo, quantunque apparentemente opposti, sono precisamente i medesimi nelle annate della pi gran carestia. Lib. IV, cap. 5.

(37)Sentenza del Parlamento di Parigi del d 11 dicembre 1826.

(38)Vedasi per gli ulteriori sviluppi, Smith, lib. IV, cap 5; Morellet, Rappresentanza ai magistrati, 1769.

(39)Vedasi Smith, lib. 4, capit. 7, e Say, Economia politica.

(40)Sono stato frequentemente tentato di scrivere un'opera che avesse per titolo: Delle obbligazioni, che a il genio alautorit, In esso non parlerei n punto n poco di politica, eterno soggetto di rivalit e di contrasto tra il potere e la ragione. Io mi limiterei ai fatti particolari indipendenti da qualunque contrariet di principi, e risultanti semplicemente dal rapporto naturale e costante, chesiste tra il pensiere e la forza, tra il talento ed il potere. Io mostrerei Callistene con il naso e le orecchie tagliate, rinchiuso in una gabbia di ferro per ordine dAlessandro; Platone prima chiamato, quindi cacciato via dal capriccioso Dionisio; Augusto, che manda in esilio Ovidio; in unera posteriore, il Tasso imprigionato a Ferrara; Richelieu, che perseguita il Cid; Milton, povero e continuamente in pericolo sotto Cario II; Luigi XIV, che fa morire di pena Macine, e mostrasi importunato da Fenelon; e finalmente ai tempi nostri, il signor De Chateaubriand minacciato, e la signora De Stal proscritte da Bonaparte. Questi esempi stanno in qualche grado, per quanto mi sembra, a fronte dei favori accordati a poeti adulatori e ad istorici infedeli.

(41)Birmingham, Manchester, V. Baert.

(42)La pi sacra e la pi inviolabile di tutte le propriet si quella della propria industria, per esser questa lordinaria sorgente di tutte le altre propriet. Il patrimonio del povero consiste nella forza e nellabilit delle sue mani; ed impedirlo d'impiegare questa forza e quest'abilit nel modo ch'ei giudica pi conveniente ed in quanto ei non reca danno a veruno, una manifesta violazione di questa primordial propriet. ella unabominevole usurpazione sulla legittima libert, tanto di quella del lavorante, quanto di quella di chi disposto a commettergli del lavoro; egli un impedire ad un tempo a quello, di lavorare come pi gli piace, e a questi di dar lavoro a chi crede pi adatto. Ben puossi con piena fiducia riposare sulla prudenza di chi impiega un artefice, per giudicare se l'artefice merita impiego, poich ci va del Suo interesse. Una tale affettata ansiet del legislatore a voler prevenire che non s'impieghino soggetti incapaci, evidentemente assurda non meno che oppressiva cosa. Vedasi Adamo Smith. Vedasi anche Bentham, Principj del Codice Civile, part. III, cap. I.

(43)Vedasi, in quanto ai tentativi che fanno i capimaestri per far diminuire, e in quanto a quelli, che fanno i lavoranti per far aumentare i prezzi delle giornate, e sulla nessuna utilit che v nellintervenzione dellautorit, Smith, I, 432, 459, traduzione di Garnier.

(44) Si è sempre detto che il commercio dell’Indie non poteva farsi che da una compagnia; ma, per più di un secolo, i Portoghesi hanno fatto questo commercio senza una compagnia, con maggior successo di qualunque altro popolo. Say, lib. I, cap. 27, p. 483.

(46)Suppongo a comodo di esempio, che egli non possa impiegare altrove il suo capitale e la sua industria. S'egli lo pu, il ragionamento ci porta a credere, ch'egli l'impiegher sulle materie prime, colle quali far valere il suo capitale e la sua industria.

(47)Il sig. Necker.

(48)Filangieri, a dire il vero, in un altro luogo distingue, o, a meglio dire, promette di distinguere, tra i delitti pubblici pei quali ciaschedun cittadino pu erigersi in accusatore, e i delitti privati, che la parte offesa soltanto ha il dritto di perseguitare. Ma regna s grande incoerenza nelle sue idee, chegli loda gli Egiziani per aver obbligato qualunque testimone dun omicidio a farsene accusatore, ed i Franchi per aver imposto il medesimo dovere a chiunque aveva cognizione di un furto.

(49) Corso di politica costituzionale, tom. I, pag. 114-115.

(50) Memorie sull'istruzione pubblica.

(51) Elvezio, dell'Uomo.

(52)Si possono insegnare i fatti sulla parola, ma non mai i ragionamenti.

(53)Per le particolarità riguardanti l'istruzione pubblica, che non sono della sfera di quest'opera, rimando il leggitore alle Memorie di Condorcet, nelle quali si prendono in esame tutte le questioni relative ad un tale oggetto.

(54)Smith, Ricchezza delle nazioni.

(55)Condorcet, Memoria prima, pag. 55.

(56) Tuttociò che obbliga o impegna un dato numero di studenti a restare in un collegio ovvero in qualche università, indipendentemente dal merito o dalla riputazione dei maestri, ugualmente che, da una parte, la necessità di prendere certi gradi che devono essere conferiti in determinati luoghi, e dall’altra parte, i posti gratuiti ed i soccorsi accordati all’indigenza studiosa, producono l'effetto di abbattere lo zelo, o di rendere meno necessarie le cognizioni nei maestri, in tal guisa privilegiati, sotto qualsisia forma. Smith, V. 1.

(57) Condorcet, Memoria prima, pag. 44.

(58)Diogene Laerzio, Vita di eofrasto

(59)Della Religione, della sua origine, delle sue forme e de' suoi sviluppi, Tomo .

(60)Mi propongo di sviluppare questa verit pi diffusamente ne secondo volume della mia opera sulla Religione.

(61)Nella terza parte della tuia opera alla Religione, dovr trattare del modo con cui ai formato il 'politeismo, greco. Quivi proverche gli abitanti della Grecia, preservati da felici circostanze, o liberati da qualche rivoluzione attualmente sepolte nellobblio, da qualunque influenza sacerdotale, passarono dal feticismo al politeismo omerio, per il solo effetto della proporzione sempre esistente tra questo politeismo ed i loro progressi politici e morali; che Esiodo, posteriore, per quanto se ne sia detto in contrario, allautore o agli autori dell'liade e dell'Odissea, non ha fatto che raccogliere delle tradizioni e dei dogmi, la maggior parte estranei; che questi dogmi e queste tradizioni non hanno mai fatto parte della pubblica credenza, e che, se molte tracce se ne ritrovano nei misteri, ci acade, perch i misteri erano in qualche sorta il deposito di tutto ci che gli emigranti egiziani, fenicj e tracj, non avevano potuto introdurre nel culto nazionale. Si deve per conseguenza riguardare il solo Omero come il poeta della religione popolare, e considerare Esiodo come quello della religione occulte, che il genio greco ha costantemente respinte. Ma tutto questo mi porterebbe troppo lontano in questo Comento. Perci non saprei troppo raccomandare ai miei leggitori di non vedere nelle mie asserzioni attuali che de' frammenti dun gran tutto, frammenti che necessariamente perdono una gran parte della loro verisimiglianza, non essendo sostenuti da tutte le prove, ed accompagnati da tutti gli schiarimenti, indispensabili a corroborarli di tutte quell'evidenza che propria di essi.

(62)tto Ci, io ben lo sento, esigerebbe molte spiegazioni, e le lacune, che a mio malgrado io vi lascio, daran pretesto a delle obbiezioni pi o meno plausibili. Si citeranno, per esempio, in favore dell'esistenza delle corporazioni sacerdotali nella Grecia, gli Eumolpidi, i Branchidi, e tante altre famiglie, nelle quali il sacerdozio veniva trasmesso come un'eredit, e quali sole presiedevano, sia ai misteri, sia anche alle cerimonie dal culto pubblico. Si creder di provare l'influenza formidabile del sacerdozio greco colle persecuzioni da esso esercitate; ed i nomi di Socrate, di Prodico, di Diagora, si affolleranno sotto la penna de' miei avversarj. Ne sono dolente; ma non posso dir tutto in una volta, n tutto dire in questo libro. Coloro che mi combatteranno per il solo piacere di combattermi, sono padroni di profittare del vantaggio che io accordo loro; quelli poi che cercano la verit sono invitati a percorrere, prima di giudicarmi, l'opera da me indicata nella prima nota del CAPITOLO precedente.

(63)od., I, 2, 3.

(64) Schlegel, Sapienza degl'indiani, p. 184.

(65) Mitologia degl’Indiani, I, 280-290.

(66) Ricerche asiatiche, N, 252.

(67) Potremmo moltiplicare le citazioni. Attribuiscono spesse volte i libri indiani alla diminuzione del rispetto per l'ordine sacerdotale la distrazione del mondo. Allorché accadde questa catastrofe, nella seconda era, essi dicono, un piccol numero d'individui della casta dei bramini? di quella de' commercianti? e di quella degli artigiani fu risparmiato; ma nessuno della casta dei guerrieri o principi lo fu, perché essi avevano tutti abusato della loro forza e della loro autorità. Al rinnovellarsi del mondo, fu creata una nuova casta di governanti; ma acciocché questa non fosse più tanto facile a corrompersi, fu tratta dalla casta dei bramini, e Rama, il primo di questa nuova casta, divenne il protettore dei sacerdoti, e si diresse unicamente coi loro consigli. Vedasi Mayer, Dizionario mitologico, art. Vog. pag. 182-184. Le leggi di Menou fanno menzione di parecchie razze di guerrieri divenute selvagge e barbare, essendosi cioè sottratte al potere sacerdotale, ed alla divisione per caste. Schlegel, nell'opera dianzi citata, pag. 184-185; Leggi di Menou, X, 43-45. I libri indiani parlano anche d'un Bramino di Magadha, che fece perir Nanda, re del paese, e mise sul trono una nuova dinastia. As. Ree. Il, 139.

(68) Diodoro, I, 2, 3.

(69) Erodoto, II, 124-127. Il signor Denon osserva che nell’intervallo di questa lotta religiosa fu costruito il solo palazzo che sia appartenuto ai re di Egitto. Viaggio m Egitto, II, 444.

(70) Erodoto. Il, 115.

(71) Erodoto, II, 141-152. Heeren Affrica, 687.

(72) Questo è il senso più naturale della narrativa di Erodoto sul regno degli otto antichi Dei, su i dodici Dei posteriori, e sulle susseguenti divinità nate da questi dodici Dei. Negli antichi tempi (dice egli) gli Dei avevano regnato in Egitto; essi avevano abitato in un cogli uomini, ed uno fra di essi aveva sempre esercitato la sovranità; e vale a dire, che in questi tempi, l’Egitto era stato governato dai preti, e che questo governo teocratico aveva preso il nome da quel dio a cui era dedicato il gran sacerdote al quale era devoluta la suprema autoriti. Larcher, Saggio di Cronol. cap. I, J. 40. Verisimilmente questi Gran. sacerdoti si disputarono e si strapparono di mano l'autorità suprema. La casta dei guerrieri, seconda tra le caste dello stato, sembra anche essersi sollevata contro la prima; questa però riportò la vittoria. Erodoto, II, 41. Vedasi Larcher, Note, II, 460, il quale fa menzione d'una iscrizione destinata a conservare la memoria di quest'avvenimento. A malgrado del cattivo successo di un simile tentativo, il governo sacerdotale divenendo ogni giorno più tirannico, il popolo cercò rifugio nella autorità regia. Il prime re di Egitto fu Menes. L'autorità dei sacerdoti venne limitata colle leggi da lui emanate sulla religione. Diod. I. Queste leggi attirarono sopra di lui lo sdegno dell’ordine sacerdotale, il quale, avendo di bel nuovo acquistato influenza sotto i di lui successori, autorizzò ovvero obbligò Tecnate a far incidere sopra una colonna varie maledizioni contro Menes. Plut. D'Is. e Osir. Larcher, Crono. di Erod. VI, 180-207. Da quell’epoca in poi i contrasti tra i due poteri furono continui ed ostinati.

(73)Diodoro, III, 6.

(74) Erodoto, III, 79.

(75) Macrobio, Satura., III, 5.

(76)In tal guisa Acamapitzin f scelto dai Tenochkau, anno 35di G. G

(77)Maer, Dizion. mtol. art. Dairo, o Cubo.

(78) La cronologia di questa rivoluzione trovasi esposta nel modo il più chiaro nel Dizionario mitologico, articolo Giappone. La potenza del dairo cominciò a declinare sotto 76° dairo, denominato, negli annali di quest’impero, Koujac. Egli regnava Fanno 1142 dopo G. C. L. 81° dairo nominò un Cubo o sia un generale temporale; ed il 107°, l’anno 1585 dell'era nostra, cede il potere ad uno dei successori di questo Cubo. Questo novello monarca si fece chiamare Signore assoluto; regnò dispoticamente, sottomise lo stesso clero a de' sacerdoti da esso lui istituiti, e riunì tutti i principati per lo innanzi indipendenti.

(79) Vedi Lib. I, cap. VII

(80) Io non no potuto far altro che accennare qui rapidamente, e perciò in modo molto imperfetto il vero punto di vista, sotto il quale devonsi studiare i misteri dell’antichità. Entrerò poi nell’esame dei fatti e addurrò le prove che mi sembrano venire in appoggio di tal maniera di farsene un’idea, allorché nella mia opera sulla Religione sarò chiamato a trattare della decadenza del politeismo.

(81)Mi si obietterebbero a torto e Giuliano ed i filosofi della scuola Alessandrina, i quali, tenendosi sulla difensiva, spiegavano per quanto potevano meglio con delle sottigliezze e delle allegorie, il decaduto politeismo. Il cristianesimo, mostrandosi in tutta la sua semplicit, forzava i di lui avversari ad intraprendere un si infruttuoso ed arduo lavoro. E cosa ben naturale che una religione nascente obblighi un culto invecchiato a modificarsi; ma questa specie dinvolontaria e forzata riforma non ha nulla di somigliante al progetto che Filangieri, nella sua utopia, gratuitamente attribuisce al governo ed al sacerdozio.

(82) Confutando Filangieri, io non pretendo negare che i misteri non abbiano contribuito alla caduta della religione riconosciuta nella Grecia ed in Roma; ma ciò accadde a malgrado del governo e del sacerdozio. Il popolo seppe, che ne' misteri insegna vasi tutt'altra cosa che i dogmi ad esso prescritti. Pertanto, subitoché il popolo concepisce dei dubbj sulla conformità della credenza de' capi colla sua, esso la rigetta come un’assurdità e come un insulto.

(83) Dello Spirito di conquista, IV ediz., pag. 200.

(84)Allorch l'autorit dice all'opinione, come Seida a Maometto, Io ho prevenuto il tuo ordine, opinione le risponde, come Maometto a Seida, Conveniva attenderlo e se l'autorit ricusa queste dilaziona l'opinione i vendica.

(85)llo Spirito di conquista, pag. 02.

(86) Spirito delle leggi, Lib. XII, cap. 12.

(87)Fu in questo senso ch'io dissi una volta alla tribuna: errore libero vale pi che la verit comandata. Coloro, di cui quest'espressione eccit il mormorio, non mi compresero, e, a dire il vero, sarei stato maravigliao che mi avessero compreso.

(88) Godwin, Political justice.


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF









Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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