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OCCUPAZIONE DE’ FRANCESI 

DEL REGNO DI NAPOLI DELL ANNO 1799

INVASIONE DEL REGNO NEL 1806

E L'’IMPRESA INTRAPRESA DAI. CARDINALE DON FABRIZIO RUFFO DI BARANELLO DI CACCIARE I FRANCESI DAL REGNO DI NAPOLI, DI CUI L’AUTORE DI QUESTO SCRITTO, MARCHESE FILIPPO MALASPINA, FU L’AIUTANTE REALE DEL DETTO CARDINALE.

PARIGI

DALLA STAMPERIA ORIENTALE DI DONDEY DUPRÉ

RUE SAINT LOUIS, N° 46, AU MARAIS

1846

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

PREFAZIONE

L’avversione alle esagerazioni ed alle bugie, alle volte che corrono ne’ dettagli istorici che discreditano e gli autori e le istorie, mi han determinato, avendo vedute varie operette delle fasi di Napoli del 1799, ed in opere più estese, e varii tocchi non veridici e velenosi di quella epoca; come quella segnatamente di Monsieur Lacretelle, articolo Revolution de Naples,ed altre, mi han determinato, dico, a fare la narrazione vera degli avvenimenti di quel tempo, perché l’autor è stato testimonio in gran parte di ciò che è arrivato, e perché formato il dettaglio degli avvenimenti arrivati, da documenti in appoggio, de’ quali gli altri succinti, o estesi, ne sono sforniti. Ecco il motivo della mia intrapresa, ed anche perché spinto a questo lavoro da una dama di riguardo, ch’era in quell’epoca in Sicilia, di mia conoscenza.

Ha procurato l’autore di cercare la verità di quelle cose che non ha vedute, ed ha procurato col mezzo d’altri, che furono in Napoli in quel tempo, e persone, che per una lunga esperienza ha avuto motivo di non crederle mendaci. Ha tolto da’ racconti tutto ciò che gli è parso esagerato, e vi ha messo quello ch’era più che verisimile; e malgrado che l’opera non meriti l’attenzione, non ostante però detta fatiga può servire di lume a chi volesse fare un’opera a parte di tutte le rivoluzioni del regno di Napoli, dalla fondazione della monarchia a questa parte.

Il lettore a questo titolo sarà indulgente nella lettura di questo lavoro per soddisfare anche la sua curiosità.


OCCUPAZIONE DE’ FRANCESI DEL REGNO DI NAPOLI 1799

NARRATA DAL MARCHESE FILIPPO MALASPINA, AIUTANTE DATO DAL RE FERDINANDO IV, ALLORA CON DISPACCIO DI ACTON, IN NOME DEL RE DA PALERMO, AI 27 GENNAIO 1799.

La rivoluzione di Francia (unica forse nell’istoria umana) ha memoria storica per il carattere e per l’insieme di quell’orroroso flagello, area per l’incendiarie idee che produsse allarmati quasi tutt’i governi di Europa. Particolari motivi ancora vi entrarono ne’ generali, che turbarono la tranquillità del regno di Napoli, che da lungo periodo avea il bene della pace. La regina di Francia era sorella di quella di Napoli, e Maria Antonietta fu messa a morte nell’ottobre del 1793; ma prima di lei subì questo destino il re di Francia suo consorte Luigi XVI. Dopo l’epoca della venuta dell’ammiraglio Lajaucche, che venne con un squadra francese nella rada di Napoli, prima della morte del re di Francia (che avvenne nel 21 gennaio del 1793) ((1)), per obbligare la corte di Napoli a dichiararsi; e la corte e la nazione venne così tolta dal suo riposo.

Una neutralità fu stabilita allora con la Francia; ma dopo l’esecuzione di Luigi XVI, e la presa di Tolone eseguita dalle potenze coalizzate contro la Francia nella fine di agosto del 1793, venne la neutralità spezzata, per aver la corte di Napoli unite le sue truppe in Tolone a quelle de’ coalizzati.

Verso alla fine del dicembre 1793, essendo stata ripresa Tolone da’ Francesi, la corte di Napoli mandò la sua cavalleria in Lombardia per unirsi alle truppe austriache; ma entrati i Francesi in Italia sotto il comando di Bonaparte, il re di Napoli trattò una pace col general Bonaparte ((2)), la quale fu indi a poco infranta, e portò in fine nel 1799 i Francesi nel regno di Napoli.

I due governi francese e napolitano, reciprocamente diffidavansi delle loro promesse; e l’indisposizione verso la corte di un partito napolitano, cagionato dai timori della medesima, mercé il quale si mise mano alle persecuzioni contro gli aderenti, o per opinioni, o per fatti de’ principi della rivoluzione francese, agevolò il funesto ingresso dei Francesi nella capitale, che avvenne a’ 23 gennaio 1799, ma non senza sangue, giacché il popolo di Napoli fece per tre giorni circa una vigorosa resistenza, a segno che il generale Championnet, che comandava la picciola armata francese, che occupò Napoli, disse nella casa dell’intendente di Campodimete, ch’era il fu marchese Malaspina, e nella sua casa alloggiò Championnet per due giorni con alcuni uffiziali, ove per isfuggire l’anarchia in cui essa Napoli si erano radunati varii parenti ed amici dell’intendente; e per la qual via di Capodimonte prese il cammino una parte della sua truppa per avere il castello di Santo Eramo, o Santo Elmo, disse che se più resisteva il popolo (mancante di condottiero) egli avea risoluto di battere la ritirata. Il resto della forza francese prese per Poggio Reale e Capodichino. Il resto dell’armata francese, condotta credo dai generali Macdonald e Rusca entrò negli Apruzzi (ove trovarono anche resistenza). Veniamo al dettaglio de’ fatti.

Il re di Napoli, di concerto con l’Austria, dovea riattaccare i Francesi ch’erano in Italia e nello stato Romano, che non erano in gran numero nel 1798.

Il re di Napoli con tutte le sue forze s’innoltrò a’ 22 novembre detto anno immaturamente per varie parti nello Stato Pontificio, dietro una supposta lettera, che parlava che gli Austriaci erano calati in Italia, locché non era così, mentre così era il piano della campagna.

Tutto cospirò a perdere il re. Per far la guerra a’ Francesi si aumentò l’armata nel settembre del 1798; in un giorno destinato si fece in: tutti i luoghi del regno una leva generale fino alla forza in cui sii voleva portare l’armata. Era allora ministro della guerra il generale Arriola, che venne poi nel novembre del detto anno per un mal inteso, deposto a motivo di: ordini che doveano passarsi al generale Mack, e fu condotto Arriola in Sicilia per tenersi arrestato in un forte. La corte permise anche dì formarsi de’ reggimenti da’ particolari con la vendita degl’impieghi, eccetto quello di colonnello, che si dava a chi formava il reggimento a sue spese in parte. Questo metodo fece riempir l’esercito di malcontenti e di ogni sorte di gente, perché col danaro chiunque potea pervenire; per cui i corpi furono anche ripieni di gentaglia, ed anche di equivoco sentimento, e la campagna ebbe quel fine infelice che si descrive.

L’armata napoletana si trovò sola contro i Francesi, ma era più forte: due azioni di rilievo onorevoli ebbero luogo, una dove il maresciallo di Sassonia al servizio di Napoli fu ferito, e l’altra con la colonna del generale Damas emigrato francese al servizio di Napoli, la quale si ritirò in ordine, sempre battendosi nella piazza di Orbitello ove vi comandava il colonnello marchese don Marcello Gregorio di Sicilia, e distint’uffiziale: il generale Damas io questa ritirata fu ferito.

Siccome queste due azioni sono d’onorata memoria, è bene che si dia il dettaglio della prima di cui fu consequenza la ritirata di Damas: il dettaglio dell’azione l’ho avuto da chi si trovò nella medesima, ond’è il racconto genuino. Il maresciallo di Sassonia comandava una colonna forte di 13,000 uomini: per ordine del generale Mack piazzò la sua truppa ov’è baccano al di là di Roma, ove il general Mack, ignorandosi il motivo, avea lasciato nel castel Sant’Angelo i Francesi che vi erano con i patrioti romani: a’ 3 decembre i Francesi si presentarono a’ vamposti del principe di Sassonia, il quale fece subito marciare una squadra d’ artiglieria alla' testa della sua colonna, per cui Francesi, ripiegatosi sotto le mura della città di Monte rosa, S. A. Sassonia ordinò rompere il fuoco al comandante d’artiglieria (ch’era allora l’attual colonnello don Giuseppe Castellano) odi Francesi abbandonarono la città, ritirandosi nel bosco di Falleri; la notte da Sassonia si penetrò nel bosco, ed i Francesi attaccarono la coda della colonna di Sassonia, ch’era composta di tre battaglioni di reclute, che o per svista, o per malizia l’avevano affidata alla custodia dall’artiglieria di grosso calibro di campagna: la colonna trovandosi in defilata nel bosco, che non permetteva di mettersi in ordine di battaglia, non fu nel caso di soccorrere la coda, per cui i Francesi si resero padroni dell’artiglieria, e bagaglio, che seguiva l’ordine di colonna, mentre avrebbe dovuta esser piazzata nel centro dell’armata. Il dì 4 dicembre i Napoletani s’accamparono sopra Nepi, ove Sassonia ebbe delle conferenze con alcuni patrioti dello stato Romano da’ quali probabilmente si lasciò ingannare, perché ordinò che l’armata avesse defilata con la sinistra in testa per Caprarola, ed i Francesi ruppero il fuoco ne’ lati del défilé,sortendo dall’agguato del bosco anzidetto; i Francesi si avvalsero della gross’artiglieria contro i Napoletani, che aveano acquistata la notte antecedente. Il brigadiere don Silvestro Ricci, che comandava il reggimento di Siracusa, ordinò al comandante di squadra d’artiglieria, addetto al suo reggimento, di far fuoco contra il nemico, ma non potè eseguirsi, che con un sol cannone, giacché la defilata non permetteva manovrare con due, e questo cannone del calibro da 4 fece fronte contro ad otto del nemico del calibro da 12, cambiandolo ad intervalli con l’altro che rimaneva inoperoso; il che portò la conseguenza, che i Francesi vedendo tal resistenza abbandonarono gli otto pezzi che aveano, che da Napoletani furono subito acquistati. Il general di Sassonia, conoscendo dall’altura in cui era il vantaggio di tal fatto, si portò subito alla coda della colonna, incoraggiando la truppa ad inseguire il nemico già in piena rotta; il di lui fuoco lo portò al di là della linea della sua artiglieria, che cessò perciò il fuoco, ed i Francesi profittando dell’errore, assalirono il generale di Sassonia col suo picciolo seguito, nel quale vi era un testo di nome Coeglio che l’autore conosceva e che venne ucciso per diffondere il generale, nella qual zuffa Sassonia restò ferito d’un colpo di carabina; i suoi soldati accorsero per liberarlo dalle mani de’ Francesi, che si ritirarono nel bosco, ed il tenente colonnello don Giacomo Graffi, ed il comandante d’artiglieria Castellano se lo portarono sopra un cavallo del treno; il comandante anzidetto fu da Sassonia per quell’azione promosso a capitano, ed il brigadier Cusano prese il comando della colonna per la ferita mortale del principe di Sassonia, il quale prese la strada di Viterbo, da dove marciò verso la volta di Monterosa: il comandante d’artiglieria Suddetta rimase per accomodar le macchine che aveano sofferto. Vi fu un attacco de’ Francesi uscendo da Viterbo con la colonna del brigadier Cusano, ma essi furono respinti da paesani: la sera de’ 13 dicembre 1798, il brigadier Cusano spedì ordine al detto comandante della squadra d’artiglieria di ripiegare in Monterosa: ritrovò Monte rosa che ardeva, ma intanto passò con l’artiglieria il sopraddetto comandante per Monterosa, e giunse alle Storte la mattina de’ 15 dicembre, ove ritrovò il generale Damas, che comandava i due scheltri d’armata, cioè quella di Sassonia, e la sua, e marciò con Cusano verso Orbitello. Questa ritirata fu condotta militarmente, giacché i Francesi attaccarono l’artiglieria, che chiudeva la colonna di Damas, e fecero prigioniero il comandante maggiore Paulet del grosso calibro di artiglieria, poiché la colonna di Damas si staccò dall’artiglieria, continuando: la sua marcia per Orbitello, battendosi in ritirata, avendo avuta un’azione in Montalto, nel qual fatto Damas rimase ferito. Il capo dello stato maggiore dell'armata non si vide, essendo altrove quando Sassonia fu attaccato da’ Francesi. Il comandante di squadra Castellano rimase prigioniero, come Paulet, ma ebbe il modo di salvarsi, e Paulet fu rilasciato.

Tutt’il resto della truppa, che si deve calcolare ammontare forse più di 50,000 uomini, si sciolse, meno alcuni resti, e già indisposta per la mancatila di viveri, e per le faticose marcie fatte negli Apruzzi; si vuole che la colonna degli Apruzzi, comandata dal generale Micheraux forte di circa di 18,000 uomini si fece sfilare per alcuni siti a due di fronte. Una voce si alza, e dice vi sono i Francesi: si fa passare l'artiglieria alla testa la quale torna in dietro lungo la colonna dicendo, siam perduti, perché vi sono i Francesi, e la medesima si sciolse; chi si trovò nella detta; ha racconto il fatto suddetto: Detta colonna era ancheggiata d’altra picciola colonna, comandata dal colonnello Santo Filippo che si batté, ma dovette cedere alla forza francese, e fu fletta tutta prigioniera.

Il supremo comando dell’esercito l’avea il generale Mach ch’era al servizio austriaco, che espressamente si fece venire da Vienna; ed il quartiermastro generale era iL maresciallo Parisi antico militare e Napolitane, che poi dal re fu destituito dopo il 99, per i viveri mancati all’armata, o per altro motivo.

Nel giro di meno di un mese, il re di Napoli, dopo essere entrato trionfante in Doma, fu obbligate di fuggire da Roma, ove nel castello di Sant’Angelo si i erano lasciati stare, come sta detto, i Francesi là ritirati con i patrioti romani, per non essere fatto prigioniero da una congiura; che quest'oggetto avea per iscopo; dové ritornare in Napoli, vedendo sboccare il nemico nel regno da più parti. Indi vennero rese le due piazze di Gaeta e Capua.

La congiura, o vera o falsa, fu palesata dal console di Napoli in Roma, signor Mora, che disse averne avuta la notizia dal barigello di Roma. Il principe di Migliano, Loffredo don Gerardo, era allora presso del re, come esente dalle guardie del corpo, ed ha attestato questo fatto, e si ottenne di far partire il re da Roma, che fu fuga piuttosto che partenza.

L’esercito in pochi giorni fu dissipato, e quei pochi corpi che rimasero, anche lo furono in seguito. Una colonna del maresciallo di campo Mack depose giù le armi con il comandante che credo che fosse Mech, e si rese prigioniera a’ Francesi vicino Civita Castellana. Il brigadiere don Diego Pignatelli di Marsico di cavalleria, uffiziale distinto, accorse con 2,000 uomini per sostener Mack, e trovò che la colonna si era resa. Il tenente don Giuseppe Gaston era nella colonna di Pignatelli, e fu testimonio del fatto, come dell’altro di 7,000 uomini, comandati dal vecchio generale de Gambs che si trovava essere in Nola, quando i Francesi attaccarono in gennaio 1799 la capitale: de Gambs sentendo i Francesi vicino Napoli, abbandonò la sua truppa e travestito scomparve, ed in nome della repubblica di Napoli venne a Nola, persona distinta, a scegliere e prendere il giuramento di detta massa di uomini. Chi crederebbe che al ritorno delle armi del re de Gambs fu presidente di una giunta di scrutinio per esaminare la condotta tenuta dai militari? — Nella colonna di Mack vi era il reggimento di cavalleria regina, comandato da don Agostino Colonna di Stiglino. Era in quel corpo il tenente don Nicola Sugliani, il quale depose che in quel corpo, per un vestiario non datogli in Lombardia, promise di non battersi, e tenne parola. Il colonnello conte di Catanissetta Moncada di cavalleria, con Friozzi tenente colonnello, col capitano di artiglieria ed altri, furono da Mack destituiti intieramente perché erano fuggiti.

Tal succinto racconto stordisce, ma pure è cosi; chi non sospetterebbe, che tutto ciò non fu così operato in parte, e per secondare i Francesi, e per ridurre la corte di Napoli sotto la dipendenza ligia degl’Inglesi, trasportandosi la corte in Sicilia, come avvenne, prendendo gl’Inglesi la difesa della isola?

Il ministro Acton, che tutto poteva, era tutto Inglese, ed in Inghilterra avea le sue ricchezze; ma il re di Napoli avea bisogno della brittanica protezione nella di lui posizione.

Però la regina volle la guerra, ed infatti avanti che sortissero le truppe del regno per attaccare i Francesi, consultò i generali Colli e Proverà, ch’erano al servizio di Sardegna e di Austria, chiamati a Roma, credo per il papa, per sapere se si trovavano in Napoli, se approvavano un tal piano, che da’ medesimi fu disapprovato; e consigliarono la regina a guardare le frontiere soltanto del regno, e non contare sulle sue forze, e sull’apparenza delle sue truppe, per un attacco fuori del suo territorio.

Il general Colli nel 1807 raccontò questa circostanza in Firenze avanti l’autore di questa narrativa ma l’impegno della regina fu tale, per cacciare i Francesi dall’Italia, che si fecero marciare le truppe di Napoli, nello stato papale, avanti la calata degli Austriaci in Italia.

Per determinare il re a passare in Sicilia, dopo le catastrofe ch’ebbe l’armata, si vuole che si eseguisse il perfido assassinio di Antonio Ferreri, corriere di gabinetto del re, il quale fu mandato al Molo la mattina de’ 21 dicembre di detto anno, o al Molo piccolo, onde portare un piego di Acton sul vascello dell’ammiraglio Nelson, ch’era nella rada di Napoli, con legni inglesi, e qualche portoghese. Caduto in sospetto del popolo il corriere, come giaccobino (denominazione che si dava agli aderenti della rivoluzione francese), quest’infelice fu preso dal popolo, legato con i due piedi e trascinato fino al palazzo reale, sotto i balconi del medesimo, ma già morto dagli insulti fattogli soffrire, portando il popolo una bandiera del re in mano, colla croce sopra. Al rumore S. M. si affacciò a’ balconi, e vedendo un tal spettacolo, gridò ad alta voce di lasciarlo, chiamando birbanti quelli, che lo trascinavano, e nel tempo istesso, fece calare a basso, il colonnello cancelliere, per sedare quella canaglia, che riuscì di sbarazzare dal palazzo; ma il re rimase tanto intimorito, e pieno di terrore di fatti avvenuti alla sua armata, che si risolse di passar subito in Sicilia. Si pretende che l’ucciso corriere Ferrari, fosse a parte di varii segreti, come quello della supposta lettera, che portava la calata degli Austriaci in Italia, per cui il re aderì di far passare le sue truppe nello Stato Pontificio; e che per non far traspirare tal segreto si stabilì di trucidare il corriere.

Il cardinal Capece Turlo arcivescovo di Napoli (che finì i suoi giorni rilegato sotto Monte. Vergini al ritorno delle armi nel regno, per la qui satin pastorale) ((3)) con altri soggetti, unitamente ai deputati della città di Napoli, si portò a Bordo, ove il re era imbarcato (e fu il solo, che vidde S., M.), per indurlo a non lasciare la capitale, ma non vi riuscirono, e la notte del 25 dicembre giunse in Palermo il re, e la real famiglia, avendo avuto nel tragitto una borrasca di sei giorni, con la morte del piccolo principe Alberto suo figlio.

L’imbarco del re fu eseguito per la scaletta segreta del palazzo, che porta alla riva della darsena, ove il conte Thurn, uffiziale di marina, avea apparecchiate le lance. Con il re e la famiglia reale s’imbarcarono Acton, il generale di marina Fortiguerra, il principe di Belmonte Pignatelli, Castelcicala ed il sopraddetto conte di Thurn. Si seppe allora che non si trovò la chiave della sopraddetta scaletta, per cui furono obbligati di scalare per sortire.

Il re temeva il partito francese ch’era in Napoli, e che credeva numeroso, ed anche quello ch’era avvenuto alla sua armata; non volle imbarcarsi su proprii suoi legni da guerra, e con tutta la sua famiglia si mise alla vela sul vascello inglese comandato dall’ammiraglio Nelson. La squadra napoletana, che seguì la corte in Sicilia, era comandata dal duca Don Francesco Caracciolo, uomo di valore e gran marinaro, che rimase di ciò disgustatissimo; si vedrà dopo l’infelice fine che ebbe Caracciolo, che era anche cavaliere di corte. Certamente che se il re si fosse messo alla testa del popolo profittando del di lui attaccamento alla sua persona e dell’avversione che aveva pe’ Francesi, la città di Napoli non sarebbe stata occupata, ed una tale ardita e pericolosa intrapresa poteva esser fortificata dagli avanzi dell’armata. Championnet non aveva ordine di occupare Napoli, e tanto è ciò vero che il direttorio di Francia, disapprovando l’occupazione, richiamò Championnet, né volle riconoscere i due ambasciatori, che dal governo napoletano; eretto in repubblica furono spediti a Parigi per esser riconosciuti, ed il generale Macdonald rimase invece di Championnet.

De’ due personaggi spediti a Parigi, uno fu il principe d’Angri d’Oria, cui fu unito il principe Moliterno per allontanarlo da Napoli, giacché dubitavano del suo attaccamento alla corte. Con i detti vi furono uniti due consiglieri, Ciaja e Don Michele Torcia, uomo di lettere. Ciaja fu poi impiccato ed era fratello del consigliere sopraddetto.

La corte nel partire da Napoli fece disarmare tutto il Cratere, smontandosi i cannoni, per assicurare la partenza, temendo l’interno della città; e tutte le cose più preziose e rare della corona furono imbarcate. Il danaro fu trasportato in moneta ed in verghe nel castel nuovo in barili, e di là recato sui legni inglesi.

Il capo dell’Ireno era allora il brigadiere Bisogna, ed il comandante di esso il capitano don Giovanni de Silva, ed avvocato dell’Ireno don Aniello Cafagna, che ha assicurato, per esser stato incaricato di tale operazione con i sopraddetti capi, che il danaro poteva ammontare a sette milioni circa, tra verghe e monete d’argento situati in barili con alcuni barilotti di moneta d’oro; danaro ritratto dagli argenti che furono esibiti da luoghi pii e dai particolari, a tenore degli ordini reali, non che de’ banchi. In seguito furono brucciate dalla squadra inglese le barche cannoniere, in numero di ottanta, ch’erano nelle grotte di Posilipo, e la polvere ch’era in quel luogo e munizioni da guerra, per non potersi portare fu tutta gettata a mare; oltre a ciò il vicario del re, generale don Francesco Pignatelli di Strongoli (che si poteva chiamare il general fa tutto, perché a tutto metteva mano) fece brucciare i due vascelli che si trovavano disarmati nel porto ed altre barche da guerra. La città di Napoli ed il vicario non correvano bene, perché le viste erano diverse, come si vedrà dalle rappresentanze della città al generale. Nonostante, il generale della corte fu disgraziato, perché forse non eseguì quanto gli si era ordinato, e non potè per un anno, quando arrivò in Palermo nel gennaio del 1799, entrare in città; e con l’aiuto anche di Mositurni si evase da Napoli.

La città di Napoli avea allora i Seggi così detti, l’origine de’ quali era antichissima, provenendo dalle fratrie ch’esistevano in Napoli, che poi Uniti insieme formarono i Seggi ossiano Sedili ridotti a sette, ne’ quali erano asseriti i nobili del quartiere nel quale era il Sedile. La città formava un corpo, che con i Sedili, al ritorno delle armi del re nel regno, vennero abolliti; questo corpo era composto di eletti di città e di deputati, ed in tale occasione detta città, come sempre, prese parte negli affari per la tranquillità della capitale.

Il vicario del re, Pignatelli, era ancora in Napoli quando la città a questo fine dovette mettersi in relazione col medesimo; ed eccone gli uffiziali rapporti degli affari occorsi. Dall’insieme de’ medesimi si rilevano i motivi per i quali varii di detti signori della città vennero poi dal re posti sotto processo, poiché dallo spirito delle rappresentanze si volle che la città in quelle occasioni tirava a mettersi in mano un potere aristocratico, ed il contegno del vicario Pignatelli, e le risposte date provano che le sue istruzioni erano diverse assai dalle vedute della città. Ecco le copie delle rappresentanze della città dirette al vicario del regno, che furono stampate e da esse tirate le copie. Prima rappresentanza de’ Sedili della città di Napoli al vicario generale don Francesco Pignatelli di Strongoli ((4)).

«Eccellentissimi Signori, «Gli eletti e deputati per l’intiera tranquillità di questa città si veggono nel preciso dovere di rendere consapevole le Eccellenze Vostre della condotta di essi tenuta nel grave incarico adossatogli per le attuali critiche urgenze.

«Appena destinati delle loro rispettive piazze a sì grand’uopo, non tralasciarono all’istante di congregarsi insieme ed adoprare tutti gli sforzi ed i mezzi i più conducenti, onde promuovere la pubblica quiete e sicurezza, ad allontanare ogni sconcerto che» avesse potuto per poco alterarla e distruggerla.

«Nella prima unione che seguì nel primo corrente mese (esso era nel mese di gennaio), si applicarono all’ordinata organizzazione della truppa civica, purtroppo necessaria per custodire l’interno della città e mantenere il buon ordine. Fra il decorso di due giorni fu formato il piano, con le istruzioni corrispondenti, e messa inattività immediatamente siccome è a tutti ben noto.

«Alle generali voci del pubblico recate in città, rispetto all’estraregnazione di alcune somme di danaro contante da essi eletti e deputati, se ne rassegnò tantosto a Sua Eccellenza il signor don Francesco Pignatelli, vicario generale del regno, una rimostranza con la data de’ 4 dell’andante mese, in essa esprimendosi la suddetta estraregnazione, si venne quindi a richiedere gli espedienti opportuni per lo maggiore corso possibile del contante e per rimettere nell’opinione il valore delle ((5)) carte, tanto necessario per lo commercio interno. Il tenore della quale rimostranza è il seguente:

«Eccellentissimo Signore, «La città e deputazione dell’interna tranquillità, la quale ieri sera si fece un dovere di commissionare uno de’ suoi deputati per ringraziare a nome di tutto il corpo l’Eccellenza Vostra per le fauste notizie fatte partecipare per lo mezzo del signor principe di Migliano, e che si fece altresì l’altro dovere di farle dal medesimo deputato rappresentare le querule voci del pubblico recate in città e deputazione, in rapporto alla supposta estraregnazione di danari (340000), che ne ricevé dall’Eccellenza Vostra in risposta che la tale voce era assolutamente falsa; dappoiché il danaro che si supponeva estra regnato, era quello di pertinenza del regio tesoriere e serviva per il. re e per la sussistenza dell’armata; ora, nuovamente espone all’Eccellenza Vostra le sue suppliche per un tal rilevantissimo affare.

«L’Eccellenza Vostra, in fatti, con l’attenzione de’ suoi lumi, con la sua sagacità ed esperienza non potrà ignorare quanto conducente a quella pubblica tranquillità (tanto a cuore ed a carico dell’Eccellenza Vostra e della città e deputazione), sia il corso della moneta contante, già da tanto tempo raffreddata nel cammino per le pubbliche critiche urgenze. Senza quindi la rispettosa città e deputazione cercare in questo momento alcuna dissertazione all’Eccellenza Vostra, riduce solo la sua supplica a pregarla acciò si compiaccia assicurare la città e la deputazione (affinché questa si faccia un dovere di parti ci parla al pubblico), che il tanto necessario corso del contante non sarà assolutamente arrestato dimostrando falsissima la sparsa voce non esservi oltre di sabbato inclusivo altra tazza per lo tanto necessario pubblico bisogno; che però la città e deputazione dà alla Eccellenza Vostra le più fervorose preghiere, acciò occupi tutta la massima sua energia per lo maggiore corso possibile del contante, e per rimettere nell’opinione il valore delle carte, tanto necessarie per lo commercio interno; il quale posto nel debito equilibrio, appresta l’espediente il più conducibile alla felicità de’ sudditi di Sua Maestà (D. G.), a Vostra Eccellenza affidati, ed a quella sicurezza ed interna tranquillità, che lo scopo e le mire pur troppo formano, alle quali tendono le laboriose fatighe della città e deputazione e per ovviare quei frequenti sconcerti, che un effetto indispensabile diventano nel momento, che le preghiere della città e deputazione e le mire benefiche dell’Eccellenza Vostra tutte uniforme alle pubbliche preghiere avessero con tutto diverso effetto; e protestando sempre più la nostra stima al merito di Vostra Eccellenza, con tutto il rispetto ci sottoscriviamo. Napoli, da San Lorenzo, li 4 gennaio 1799, dell’Eccellenza Vostra divotissimi servitori obbedientissimi, gli eletti e deputati per l’interna tranquillità di questa città; di V. E. il capitan generale D. Francesco Pignatelli, vicario generale del regno.»

Su di questa rimostranza non furono gli eletti e deputati onorati d’alcun riscontro. Convenne dunque nel dì sei dello stesso mese rinnovare ad esso vicario generale un’altra rappresentanza, con le più fervorose suppliche, intorno allo stesso importantissimo oggetto del numerario, onde rimuovere in quest’emergenze ulteriori reclami del popolo, che a varie riprese e con anzia più che premurosa ne dimandava il disbrigo.

Qual rappresentanza è la seguente.

«Eccellentissimo Signore,«Fin dal dì 4 del corrente mese, ci dammo la gloria di rassegnare a Vostra Eccellenza una nostra umile rimostranza. In essa tra l’altro esponemmo di essere pur troppo conducente alla tranquillità di questi popoli il corso della moneta contante, già da tanto tempo raffreddato nel suo cammino, per le pubbliche Critiche urgenze. La supplicammo inoltre, perché compiaciuta si fosse di assicurare la città e deputazione per rendersi noto al pubblico, che il tanto necessario corso del contante non sia assolutamente per arrestarsi, occupando tutta la massima sua energia per un sì serio oggetto e per rimettere in opinione il valore delle carte, tanto importante per lo commercio interno, il quale messo nel debito equilibrio appresta l’espediente più utile alla pubblica felicità.

«Su tale supplica non si è degnata fin qui darcene alcuna sua risoluzione, la quale vieppiù ritardata fa crescere in noi il timore di qualche inconveniente cui le nostre incessanti fatighe non potranno apportare dovuto compensamento.

«Le reiterate istanze del pubblico, il quale a varie riprese viene con impegno e con fervore a richiederci degli espedienti opportuni per lo maggior corso possibile del contante, viemaggiormente crescono da giorno in giorno per le voce sparse dell’estrazione di esso dalla regia zecca seguita nella scorsa notte, che si viddero su de’ traini trasportare de’ sacchi. A rimuovere dunque in questa emergenza ulteriori clamori, per il vivo interesso che il popolo si prende su tale oggetto, ci siamo spinti ed indotti a rinnovare le più fervorose suppliche a Vostra Eccellenza, affinché colla sua efficacia dia quelle disposizioni, che la gravezza dell’affare e la tranquillità pubblica giustamente richieggono, vivendo noi nella sicura lusinga, che Voglia senza altro ritardo manifestarci le opportuni disposizioni intorno a sì importante e serio assunto. E supplicandola dell’onore de’ suoi pregiati comandi, restiamo raffermandoci per sempre. Napoli, da San Lorenzo, li 6 gennaio 1799, di Vostra Eccellenza divotissimi ed obbedientissimi servitori, gli eletti e deputati per l’interna tranquillità di questa fidelissima città; S. E. il signor capitan generale don Francesco Pignatelli, vicario generale del regno.»

Malgrado le continue assistenze e premure fatte al mentovato signor vicario generale, per parte dei suddetti eletti e deputati, neppure per questa seconda rimostranza si ottenne risposta.

Essi non però sempre intenti colle loro laboriose fatighe a serbare nel pubblico per quanto comportano le attuali circostanze, la tranquillità e la pace, erano già risoluti in discarico del proprio dovere di nuovamente tener pregato il medesimo signor vicario generale, per quelle pronte e salutari determinazioni, che la gravezza dell’affare e la quiete pubblica giustamente richiedevano. Ma ecco che sul momento pervennero in città e deputazione due ricorsi, uno in nome del fedelissimo popolo napoletano; del banco della pietà l’altro. Conteneva il primo di doversi con efficacia implorare dal governo che colla prestezza possibile si montassero le batterie del Cratere e si assicurasse il pubblico del danno, che potrebbero ad esso recare i nostri castelli.

Nell’altro si esponevano gli sconcerti che veggonsi nascere alla giornata per la scarsezza del numerario e per la calca della gente, che corre alle rispettive tasse ne’ banchi, chiedendone gli opportuni ripari, ond’evitarsi danni maggiori.

Pervenuti imperlante i riferiti eletti e deputati con siffatti ricorsi nelle loro già concepite idee, altra rappresentanza fecero al sig. vicario generale intorno agli esposti punti coffa data de’ 7 di questo corrente mese. In esso, rispetto al corso de’ contanti, ripetevano le maggiori premure, fino a volersi occupare per qualche utile e giovevole espediente ed in quanto alla sicurezza del Cratere, dissero di essere pur troppo necessario di montarsi le batterie, onde far argine a qualunque aggressione, pregando similmente il mentovato signor vicario generale, a permettere alla città e deputazione di far guardare l’arsenale da una porzione di truppa civica, il che chiaramente si rileva dalla seguente rimostranza.

«Eccellentissimo Signore,«La città e deputazione dell’interna tranquillità non ha mancato di replicatamente tenere supplicata l’Eccellenza Vostra riguardo a’ clamori che recate hanno ad essa diversi individui di questa fidelissima città. Essa perloppiù non ha tenuta annoiata l’Eccellenza Vostra in iscritto, quando verbali sono state le lagnanze de’ particolari, commissionando quasi sempre uno de’ suoi deputati, per riscuoterne i riscontri corrispondenti; ma siccome nel momento sopra gli stessi oggetti, dei quali ha tenuta varie volte pregata l’Eccellenza Vostra, sono state ad essa rapportate lagnanze in iscritto ed in nome de’ corpi e ceti della città, così ha stimato suo indispensabile dovere rinnovare per via di rappresentanza le sue suppliche, accludendole originalmente ricorsi ricevuti.

«Il rilevantissimo affare de’ banchi che è sicuramente uno de’ più interessanti oggetti della pubblica tranquillità e sicurezza e che le giuste. lagnanze formano tanto del pubblico che del governo del banco della pietà, hanno primo di ogni altro fissate le riflessioni della città e deputazione, che si fanno un pregio di umiliare alle illuminate vedute dell’Eccellenza Vostra. Non vi ha dubbio, infatti, quanto gravoso sia per il pubblico il pernicioso arresto del corso monetario, e quanto vada ad essere per lo medesimo funesto e fatale il solo sospetto, che questo possa assolutamente restare agghiacciato nelle sue vene.

«Una pubblica assicurazione che far potrebbe dell’Eccellenza Vostra, sarebbe per una parte il salutare rimedio che la città e deputazione crederebbe opportuna in tale riscontro; come ancora al caso di discaricarla di una responsabilità tanta seria e pesante, siccome (poiché essendo possibile di allontanare le cause che il discredito hanno formato della carta monetata) poco abile sembri il rimedio proposto ad impedire i necessarii e frequenti sconcerti, che a tale oggetto vanno succedendo, così la città e la deputazione tutta intenta a promuovere la pubblica interna tranquillità, ed a rimuovere questi funesti sconcerti, che potrebbero alterarla e distruggerla, si farà un dovere di tutta sollecitamente occuparsi per rinvenire qualche espediente, acciò possano avere le sue mire il più felice esito, contentandosi nel momento che l’Eccellenza Vostra abbia la benignità di dare un sollecito e decisivo riscontro intorno le liberate che faranno ulteriormente ai banchi, per la giornaliera tazzazione delle polizze.

«Rinnova secondariamente la città e deputazione le sue preghiere, intente ad allontanare ogni sinistro, falso e funesto pensiero del pubblico. La lunga pratica del governo e la saggia esperienza dell’Eccellenza Vostra la mettono in circostanze di ammaestrare chicchessia, chele malattie morali formar debbono la più seria occupazione dell’ottimo governatore, e che meritano più delle fisiche, la più pronta ed efficace apprestazione de’ rimedii. Teme dunque il fidelissimo pubblico di Napoli che si estraggano dall’arsenale le materie distruttive della città, come bombe ed altro di simile genere. La città e deputazione non esita un momento a credere che tale timore sia assolutamente panico, come quello che non può trovare fondamento nelle provvide ed amorose cure del governo, a vantaggio di un popolo che non ha fatto per un momento sospetto della sua lealtà ed attaccamento alle costituite somme potestà, ma conosce altresì la città e deputazione non essere al caso di far entrare il pubblico in queste giustissime vedute. Stimerebbe quindi espediente che, per calmare ogni sospetto, si potrebbe compiacere l’Eccellenza Vostra di ordinare che alla custodia delle materie distruttive dell’arsenale, ci assista un posto della guardia urbana, e che l’Eccellenza Vostra ordinasse sollecitamente di essere montate le batterie del Cratere, che la sicurezza pur troppo formano contra l’aggressione, avendone la città sommamente a temere, anche per parte de’ Barbareschi soliti a fare de’ sbarchi in queste contrade, ne’ tempi trasandati, quando, cioè, sforniti di batterie si vedeva il littorale, credendo la città e deputazione che niente possa aversi a reclamare dalle potenze amiche, alleate e neutrali; avendosi assolutamente a reputare come contraria ad ogni teoria di pubblico dritto qualunque opinione o sentimento in contrario, non meno che indegno di quelle riflessioni che producono le citati lumi in nazioni illuminate ed istrutte nelle cognizioni delle leggi universali e marine.

«Di tutto, la città e deputazione prega l’Eccellenza Vostra del più sollecito riscontro, per discarico del suo dovere e per la quiete di quel pubblico che l’ha onorato della sua più sincera fiducia, e pieni di rispetto, ci sottoscriviamo. Da San Lorenzo, li 7 gennaio 1799, di Vostra Eccellenza divotissimi obbedientissimi servitori, gli eletti e deputati dell’interna tranquillità di questa città; Sua Eccellenza il signor capitan generale dòn Francesco Pignatelli, vicario generale del regno.» Per questa terza rimostranza neppure si è veduta alcuna risposta; nella contingenza però di avere la deputazione frumentaria esposto a questa medesima città e deputazione i suoi ben fondati timori, per i moltissimi legni atti al lavoro de’ bastimenti che si trovano ne’ granili a ponte della Maddalena, ove son riposte ingenti quantità di granone, rassegnarono subito sotto il dì 8 del corrente mese la corrispondente rappresentanza, perché si estraesse da tali granili il legname e tutto ciò che vi si trovi di materia combustibile, chiedendo energicamente da esso signor vicario a darle un esito più felice di tutte quelle altre, che non avevano potuto ottenere grazioso riscontro.

Qual rappresentanza è del tenor seguente.

«Eccellentissimo Signore,.

«La città e deputazione sempre intenta colle sue più laboriose fatighe, di promuovere e mantenere nel pubblico quella tranquillità tanto difficile a tenersi in vigore, mentre nell’esterno è bellicoso fermento, e nell’interno un luttuoso e miserabile aspetto, per vieppiù mostrare all’Eccellenza Vostra l’ottima mira delle sue intenzioni, si fa un dovere di compiegarla una certificatoria avuta dalla deputazione frumentaria, nella quale alla città e deputazione dell’interna tranquillità vengono esposti e giustificati il timore del sospetto di quella deputazione che ha d’un qualche incendio ((6)) che possa accadere da un momento all’altro ne’ granili del ponte della Maddalena, facile ad avvenire per l’accensione del legname ed altre materie combustibili colà esistenti, cosa che porterebbe assolutamente ruina generale per la città, non restando altra risorsa per lo sostentamento della medesima.

«Sebbene adunque la città e deputazione niente avesse a sospetto per l’ottima intenzione e volontà di coloro che assistono a detti pubblici magazzini di grano, nulladimeno non può non avvisare quanto ragionevolmente siano al caso di riscaldarsi le fantasie di questo pubblico? Il vedersi infatti quasi in ogni giorno distruggersi a tutta possa le più valide pubbliche difese, come de’ vascelli ((7)) (di cui ancora se ne osserva il funesto spettacolo), barche cannoniere ed altre, che costruite con il sangue vivo degliindividui di questo pubblico, destinate erano per quella difesa che sembra del tutto lasciata derelitta ed abbandonata dal governo,’non può tuttociò non essere al caso di alterare le fantasie volgari. Per prestare pertanto una salutare medicina all’arme nel quale è il pubblico, stimerebbe la città e deputazione che l’Eccellenza Vostra si contentasse ordinare che nel momento si estraessero da’ granili tutto il legname e tutt’altro ch’eravi di combustibile, per evitare ancora quella responsabilità che potrebbe succedere da un qualche anche eguale accidente.

«Spera intanto la città e deputazione che questa rappresentanza abbia un esito più felice di tutte le altre, che non hanno potuto ottenere un qualunque sia grazioso riscontro, senza poterne indagare il motivo e la ragione, e supplicandola dell’onore de’ suoi venerati comandi, passiamo per sempre a rassegnarci. Napoli, da San Lorenzo, li 8 gennaio 1799, di Vostra Eccellenza divotissimi ed obbedientissimi servitori, gli eletti e deputati per l’interna tranquillità di questa città; Sua Eccellenza il signor capitan generale don Francesco Pignatelli, vicario generale del regno.»

Con nostro infinito rammarico e sorpresa né anche tal preghiera è stata accolta, poiché fino a questo momento non si è ricevuta alcuna carta.

Più, per l’incendio de’ vascelli seguito nella notte degli 8 del corrente, per cui si è infinitamente allarmato il popolo napoletano, il quale con fondamento dubita che possa l’istesso avvenire, non meno nell’arsenale e granili (essendo quest’ultimo un lunghissimo edificio, fabbricato sotto la direzione dello stesso generale Pignatelli, ad oggetto di conservarvi i grani della città, situato al ponte della Maddalena), che in altri edificii pubblici di questa capitale, non si è rimasta la città e deputazione con altra rappresentanza del sottoscritto dì, di rendere inteso il divisato vicario generale, acciò compiaciuto si fosse di permettere che l’arsenale ed i granili venissero guardati dalla truppa civica, secondo che contiensi nella qui annessa rappresentanza, la quale neppure ha prodotto ver un riscontro.

«Eccellentissimo Signore,«L’incendio seguito de’ vascelli ha allarmato infinitamente il popolo napoletano, il quale con un certo fondamento dubita che lo stesso possa accadere non meno all’arsenale e granili del ponte della Maddalena, che in altri edificii di questa capitale. Timore convalidato tanto giustamente, quante che in ogni giorno vede con suo dolore e spavento e con la massima imprudenza darsi in preda alle fiamme ed alla distruzione tutto ciò che potrebbe servire per la sua valida difesa e pubblica salute. Il popolo chiede la sua sicurezza al corpo rappresentante la città, e minaccia di voler tumultuariamente occupare detti luoghi, per non vederli consumati dal fuoco, e forse tutto il paese in fiamme. La città e deputazione intenta sola alla pubblica salvezza e ad evitare qualunque specie di tumulto, fa tutto presente all’Eccellenza Vostra qual vicario del regno, pregandola nello stesso tempo di voler permettere che l’arsenale ed i granili vanghino guardati dalla truppa civica, la quale avrà cura di rendere illesi e sicuri gli accennati siti. Una tale provvidenza assicurerebbe il popolo ed impedirebbe un tumulto fatale, quanto probabili nelle attuali desolanti circostanze.

«La città e deputazione dispiaciuta e sorpresa di non aver riscontro delle sue rappresentanze, e spone con tutta la sua efficacia la necessità di avere sollecita risposta, essendo in altro caso nel dovere di discaricarsi col pubblico di tutte le sue operazioni; e rispettosamente si dichiarano, dell’Eccellenza Vostra devotissimi ed obbedientissimi servitori, gli eletti e deputati per l’interna tranquillità di questa città; Sua Eccellenza il capitan generale, don Francesco Pignatelli, vicario generale del regno.»

Inoltre per vieppiù adempire all’esecuzione di quel dovere dell’Eccellenze Vostre ad essi eletti e deputati, affidato per sincerarsi della ragione del silenzio di Sua Eccellenza, il signor generale Pignatelli, fu da’ medesimi stabilito di mandare a tale effetto due dei loro deputati dalla citata Eccellenza Sua e tenuti da essi colloquio con Sua Eccellenza, riferirono in deputazione, che il signor vicario generale rimaneva sorpreso, come la deputazione avesse rappresentato in materia assolutamente incompetente alla di lei carica, la quale soltanto all’organizzazione della truppa urbana, ed al regime della stessa do vea aggirarsi. E portatosi li suddetti eletti e deputati in corpo da Sua Eccellenza per venire a giorno de’ suoi sentimenti, ripeté ad essi i sentimenti stessi, che esposto avea nella sera antecedente a’ riferiti colleghi deputati e commissarii.

Quindi, ritornati in deputazione, ed avendo spedito al mentovato vicario generale una rappresentanza, questa non è stata né anche aperta dall’Eccellenza Sua, tanto è vero che non riconosce in essa deputazione alcuna di quelle autorità, che credono le Eccellenze Vostre averle comunicato.

La città e deputazione adunque intenta sempre alla pubblica tranquillità, ed a rendere salvo quel pubblico che in essa confida per la custodia della patria, si fa un dovere di tutto passare all’intelligenza dell’Eccellenze Vostre, affinché vieppiù conoscano ch’ella anziché restarsi indolente, ha cercato fra il decorso di circa nove giorni, con le sue non interrotte occupazioni e con i suoi laboriosi sudori, di corrispondere per quanto dal suo canto dipendeva a quella fiducia che il pubblico tutto in lei ha riposto e voglia con ciò il medesimo ad accettarsi della sua costante e leale condotta, e restiamo facendole divotissima riverenza. Da San Lorénzo, li 9 gennajo 1799, dell’Eccellenza Vostra divotissimi servitori, gli eletti e deputati per la interna tranquillità di questa città, duca di Castelluccio, principino di Canosa Minutoli, Ottavio Caracciolo Cicinelli, duca di San Arpino Sance di Luna, marchese di Transo, duca di Bagnoli, Gaetano Spinelli, duca di. Seminara, principe di Piedimonte, Gaetani marchese del Vaglio Pignatelli, Giuseppe Colonna, Vincenzo Severino di Sechli, Principe d’Angri d’Oria, conte della Rocca Marigliano, marchese Caccavone, Michele Vienna, don Gennaro Presti, Raffaele Spasiano, signori delle eccellentissime piazze e della piazza del fedelissimo popolo.»

Qui finiscono le dette rappresentanze.

Il dì 9 gennaio furono spediti dal vicario Pignatelli (avendo Gaeta fin da’ 3 gennaio aperte le porte al nemico, non ostante che pel mare che avea, poteva sostenersi, attenti li soccorsi inglesi), il principe di Migliano Loffredo ed il duca di Gesso Caracciolo, tutti i due signori della corte del re, come deputati al generale Championnet, ch’era a Sparasse, per trattare di un armistizio che fu conchiuso il giorno seguente, che non ebbe poi luogo, come vedremo. Cui andarono con le istruzioni che li diede Pignatelli, il quale ebbe la destrezza di farsela ridare dai medesimi, per cui rimasero senza documenti della loro missione.

Migliano, nel tempo della repubblica, cadde in sospetto de’ repubblicani per una sommossa, che vi fu in Sant’Agata di Puglia, loro ex feudo, della quale fu creduta autore anche stando in Napoli. In quell’occasione il signor don Giuseppe Raffaele li fu di grande aiuto e non fu molestato.

Comandava la piazza di Gaeta il generale don Fridolino Tschudy, egli si arrese alle preghiere del vescovo di Gaeta, monsignor Minutolo, ed a’ deputati della città, che l’indussero a consegnare la piazza ai Francesi. Tschudy, al ritorno del re nel regno fu destituito per questa ragione.

L’armistizio portava di cedersi Capua a’ Francesi, e tirarsi una linea di demarcazione nella Puglia, fino alla foce dell’Ofanto, pezzo che doveano i Francesi occupare, e, per tutto gennaio, la città di Napoli dovea pagare due milioni e mezzo di ducati. Quest’armistizio fu preso dalla plebe di Napoli in cattiva parte, e non fu eseguito; ma costò in seguito a’ sopraddetti signori che l’avevano intavolato la disgrazia del re, che disapprovò tale trattato col suo dispaccio.

Capua, non ostento che la plebe di Napoli non approvasse l’armistizio, fu consegnata a’ Francesi il dì 12 gennaio. Tutto l’avanzo dell’armata del re si era concentrato in Capua e contorni, e si vuoto che il generale Mack non prevenisse la truppa della consegna dellapiazza, per cui essendosi saputa l’entrata de’ Francesi in Capua, la truppa del re, ch’era nelle sue vicinanze, sorpresa dell'entrata de’ Francesi in Capua, creduta presa, retrocedette in fuga ed abbandonò l’artiglieria d’assedio, che si era spedita per sostenere l’assedio di Capua. Ebbe luogo anche un picciolo fatto d’armi tra i Francesi e le truppe napoletane al passo di Cajazzo, vicino Capua, le quali respinsero i Francasi che volevano passarlo. Il generale Mack, ch’era in tant’odio della popolazione e della truppa, li 16 gennaio andò a Caserta, a mettersi nelle mani di Championnet ((8)) (che già là era), onde l’avesse salvato, e con una scorta francese uscì dal regno di Napoli. Egli in Casoria avea riconcentrato il quartier generale, avendo dato il comando al generale duca di Salandra, che, perché preso si disse dalle popolazioni per Mack, ricevette in viso una grave ferita. La plebe di Napoli avendo vedute varie carrozze francesi in Napoli (per conseguenza dell’armistizio), la sera dei gennaio cominciò dalle truppe de’ teatri il disarmo di tutte. Era stata mandata una colonna a Livorno, di sei mila Napoletani, sotto il comando del generale don Diego Naselli de’ principi di Aragona di Sicilia, per sostenere la guerra in Italia contro i Francesi. Ritornati in Napoli per mare questa truppa, ebbe anche lei la sventura, come tutte le altre, d’esser disarmata dal popolo, stante l’ordine dato di non resistere. La plebe nel giorno di gennaio, apri tutte le carceri della capitale, non che i bagni, ove erano i galeotti, dopo aver disarmato la truppa che custodiva i servi di pena e carceri. Si rese padrone del castello nuovo, e con esso delle armi dell’armeria e di quelle della truppa che lo guarniva, la quale dal vicario del re avea avuto già l’ordine di consegnarle al popolo. Il comando del forte, come di altri che gli vennero in mano, fu affidato a mani incapaci e poco degne di averne il comando. Tall’immenso numero di detenuti posti in libertà, per lo più era della classe dei ladri, giacche anni prima si era fatto un truglio, e tutti quei che si trovavano carcerati per altri delitti che de’ furti furono arruolati ne’ corpi militari. Qual disordine dovea produrre quest’immenso stuolo nella capitale èda figurarselo senza descriverlo. Il forte di Sant’Elmo era comandato da Luigi Branli e guarnito da villici. Esso per toglierlo da queste mani s’immaginò un inganno che riuscì, ed il capitano Simeone di artiglieria e don Nicola Caracciolo di Rocca Romana e Vordinuois riuscirono a persuadere il comandante de’ villici a tripulare la loro gente con la civica di Napoli, onde la notte pattugliare, e di dare il comando del forte a persone capaci per far fronte a’ Francesi, e così si riuscì a diminuire la guarnigione de’ villici, pattugliando fuori del castello con la civica, ed avere quindi in mano il castello a’ 19 gennaio, ove s’introdusse Moliterno e Rocca Romana con i loro. Si voleva far morire Brandi, ma fu poi liberato. La plebe di Napoli armata così abusò subito della sua forza. Proruppe in minaccie ed in contumelie contro il generale Pignatelli per l’armistizio intavolato, il quale non vedendosi più rispettato, e temendo della sua vita, di notte tempo, ai 17 gennaio, s’imbarcò colla moglie a San Lucca sopra un legno che a quest’effetto teneva disposto e passò in Palermo, ove non fu ricevuto dal re, e rimase per un anno fuori della città. D. Vincenzo Marulli di Ascoli era in quel tempo nel corpo della città. La città non correva bene con il vicario, ed il detto don Vincenzo ha assicurato che nella città ci fu chi progettò di far atrascinare il vicario Pignatelli dal popolo, ma i più moderati della città scelsero il partito di farlo fuggire. Il 19 gennaio, il duca della Torre ((9)) e D. Clemente Filomarino suo fratello, creduti per una lettera avuta da un loro agente o altro con cui si parlava dell’entrata de’ Francesi, e che vociferò, fu sospettato che fosse un parrucchiere che il duca lo serviva, e furono presi dal popolo, e l’uno dopo l’altro trascinati alla Morinella, ed indi uccisi ed in una botte bracciate, Il loro palazzo fu saccheggiato, e l’istessa sorte sciagurata ebbero varie persone di minor conto, poiché da detto giorno incominciarono le crudeltà del popolo. Varie case in quell’occasione furono saccheggiate, fra le quali quella di Fasulo. Si vuole che il parrucchiere nell’entrata dei Francesi in Napoli venne ritrovato e giustiziato. Il figlio primogenito del duca della Torre. Allora ragazzo, fu salvato dalla di lui ava materna, sotto il sedile della carrozza che trasferì in altro luogo, trovandosi allora nella casa di suo genero, il duca della Torre che, con la moglie, di lei figlia, in carrozza uscirono dal palazzo.

La confidenza che il popolo napoletano avea posto nel valore di un giovane cavaliere militare di una delle principali famiglie napoletane, ed era il duca di Rocca Romana Caracciolo, perché avea date prove di coraggio in campagna, fece che esso lo creasse suo generale, suo capo, con altro di pari valore e condizione che fu sotto capo; e fu il principe di Moliterno Pignatelli. Abbenché la classe militare fosse presa in avversione, ed alla quale appartenevano, costui poi (forse per le circostanze) chiuso nel forte di Sant’Eramo, coll’altro sotto capo e compagni, resero il forte a Francesi non avendo scampo; onde la città di Napoli sottoposta a Sant’Eramo, fu sottomessa.

Questa presunzione del popolo per il coraggio di signore, contribuì a fare, che la plebe di Napoli non si portasse ad eccessi più grandi, e per tenerla in freno piantò anche le forche in varii cantoni della città: furono poi fatti generali della repubblica napoletana. Fu creata in Napoli fin da’ primi di gennaio una guardia civica per la custodia della quiete pubblica, e ne ebbe il comando da’ Francesi il signor Bassetti, antico militare in grado superiore. Ebbe egli tal comando come attaccato alle opinioni francesi, né altrimenti poteva così stare, stanteché nel corpo della civica erano ammesse per la maggior parte i patriotti.

Egli al ritorno del re fu sottoposto ad un giudizio, e salvò la vita, perché denunziò al governo quanto sapeva, manifestandone i nomi, dottor Gennaro Serra figlio del duca di Cassano, al ritorno del re gli fu tagliata la testa, essendo stato eletto da Monthoni ministro della guerra e marina, con Bassetti per generale in secondo della guardia nazionale. Il Serra era uffiziale di real marina al servizio del re, ed era nel bello della sua età.

Tutti quelli del direttorio in numero di cinque, come quello di Francia, furono giustiziati, e furono Agnese, Ciaja, Albanese, Abamonte, che venne salvato dal presidente Iorio e dal vescovo suo fratello, per i buoni uffizii che fecero presso Hamilton ministro inglese, per gli aiuti dati a questi mentre erano in Sant’Elmo ritenuti, e per i consigli dati ai patriotti di gettarsi ai piedi del re una deputazione, che si era opinato di mandarsi a Palermo per lo perdono. Il quinto membro del direttorio, non mi ricordo il nome, ma credo che fosse Mario Pagano, giureconsulto. Il dì 17 gennaio fu presso a Capodichino un uomo del direttore delle finanze, signor dottor Giuseppe Zurlo, che portava un dispaccio al general Mack, che credeva in Casoria al suo quartier generale, ma Mack fin dal giorno avanti era partito. Il detto uomo della casa di Zurlo dovea partire la notte, invece della mattina, e caduto in mano del popolo il dispaccio, siccome in esso si faceva menzione di Championnet dell’armistizio e del danaro, la plebe prese in sospetto Zurlo, andò alla sua casa, e corse rischio d’essere trucidato, e messo in carrozza fu condotto in san Lorenzo alla città: la di lui casa fu saccheggiata. Il vecchio duca di San Valentino, uomo popolare, fece tanto, con altri, che persuase la plebe a trasferire Zurlo nel castello del Carmine, ove a piedi vi fu condotto, in mezzo agli insulti e minaccie, per ivi tenersi finché la città decidesse della di lui persona.

Il cardinal di Napoli si portò in tale occasione al mercato, onde il popolo non avesse ucciso Zurlo, il quale rimase nel carmine fino all’entrata de’ Francesi in Napoli. Il forte del Carmine coll’artiglieria fu consegnato al comandante di squadra d artiglio ria, Castellano, da’ deputati della città, don Giuseppe Buonocore, don Nicola Cerino, non che, dal marchese Verrusio, eletto dal popol il quale presentato avendo il detto Castellano al corpo della città come persona di fiducia e di valore, per averne date riprove nelle azioni della colonna di Sua Altezza Sasso nia, avvenute come già si è descritto al di là di Roma. Il terrore nel governo, e dalla parte sana della città di Napoli per l’anarchia popolare divenne generale, cosicché per necessità si desideravano i Francesi i quali marciarono verso Napoli, ed ai 21 gennaio la picciola armata francese comandata da Championnet in tre luoghi, Porta Capuana, Capodichino e Capodimonte, attaccò Napoli. Un altro corpo comandato da Macdonald e Rusca entrò nel regno per gli Apruzzi ove trovò resistenza percento delle popolazioni, come per parte del popolo la trovarono in Napoli. Il popolo si portò incontro ai Francesi, e di buon mattino incominciò il fuoco a Porta Capuana, che durò fino alla notte avvanzata: fu ripigliato con vigore la mattina susseguente 22 gennaio, ed in tal modo (non essendo i Francesi in gran numero, cominciarono essi a ripiegarsi ed avrebbero battuta la ritirata) siccome già si è detto che lo stesso Championnet palesò in Capodimonte, se uno stuolo immenso di patriotti, e segnatamente gli impiegati degli incurabili (vasto edificio per gli ammalati, e dove allora si tenevano anche i matti), gente tutta, e per timore dell’anarchia popolare, e per aderenza a’ principii repubblicani attaccata al partito francese; si tolse la maschera, andando alcuni di essi, o mandando al general francese per scongiurarlo di non recedere dall’impegno, assicurandolo della loro assistenza nell’interno della città, per cui si sarebbe presto dichiarata a lor favore la vittoria. Infatti dalle finestre delle case e terrazze si vide scagliare sul popolo sassi e fucilate, che da ogni parte ne fu infestato, per cui si trovò assai imbarazzato nel continuare da far fronte al nemico.

Tuttavolta neppure questo terribilissimo disastro potè nel popolo belligerante smorzare l’ardore del suo fuoco. L’attacco del popolo alla sua religione, al suo re, e l’avversione al nome francese, che si era già fatto entrare nelle loro menti, fecero fare ad essi tali prodigi di valore.

Il comandante Castellano del castello del Carmine, con quattro pezzi d’artiglieria e con una parte della guarnigione del forte, consistente in Camisciotti, si era appianato nella strada di Poggio Reale, in imboscata, da dove attaccò i Francesi nel palazzo così detto della regina Giovanna, non che ai molini di don Ignazio Buonocore. I Francesi credendo i Camisciotti per i loro vestimenti anche gente popolare li disprezzò, e senz’attendere il resto della loro forza gli inseguì. L’artiglieria che avea mascherata Castellano, fece allora fuoco sopra di essi, giusta l’agguato concepito da Castellano, per cui vennero i Francesi battuti e respinti, e preso il bagaglio e cannoni. Giunto a’ Francesi il rinforzo della colonna, dimandarono un armistizio; e per tal oggetto fu spedito un colonnello, al che Castellano rispose non esser ciò nella linea delle sue attribuzioni, giacché egli dipendeva dagli ordini della città; il colonnello si propose di entrare nella città, contro l’avviso del comandante, che gli faceva osservare, che non era la truppa, che s’opponeva all’invasione, ma la nazione armata, ed infatti essendosi il colonnello francese incamminato per tale oggetto, giunto al ponte di Casanova, fu vittima del furore popolare, per cui si ripresero le ostilità con accanimento, senza reciprocamente accordarsi quartiere. La strage durò tutto il giorno, ma la notte divenne fatale, perché la plebe si ritirò, restando solo sul campo di battaglia il comandante d’artiglieria con i Camisciotti. I Francesi s’accamparono sotto la collina della Madonna del Pianto, e Castellano con i Camisciotti rimastigli, ripiegò nel castello del Carmine; sera dell’indicato giorno una colonna francese s’aprì la strada dalla parte di Capodichino, e pervenne fino alla piazza degli studii, detto largo delle Pigne, ov’era il vasto edificio degli incurabili e dove il popolo vi avea fatto delle batterie, che vennero smantellate dall’artiglieria di Sant’Elmo, diretta dal maggiore Simeone. Altra colonna si portò a Capodimonte per prendere Sant’Elmo (Sant’Elmo avea già innalberata la bandiera tricolorata) ove la plebe armata sgombrò da Capodimonte in un tratto secondo le relazioni di persone degne di fede, che furono testimonio di vista di tutto l’avvenuto in quel sito, e assicurano che la colonna sopraddetta poteva esser forte di circa due mila uomini. Il castello del Carmine fu cominciato a battersi da’ Francesi lungo la strada detta dei Fossi e la mattina del terzo dì della resistenza fatta a’ Francesi, accorgendosi il generale che il forte del Carmine rispondeva lentamente perché mancante la munizione, ordinò l’assalto del forte, che si eseguì dopo averne bruciata la porta principale del medesimo, ordinando di rispettare la vita de’ Camisciotti, eccettuando la sola vita del castellano, non sapendo che il castellano era Castellano, per cui rimase Castellano come cognome, prigioniere di guerra con l’altra truppa, e fu portato fuori Porta Capuana in san Francesco.

Fu subito intimata in Capodimonte la consegna delle armi da’ Francesi, sotto pena della vita, e furono subito piantate delle batterie nella porta che guarda la città, e che furono fatte esercitare contro l’oppresso popolo.

Il fuoco si attaccò in alcune case della città, ed al convento delle monache di San Gaudioso, ed indi fu saccheggiato, e con la fuga posero in salvo la vita le religiose. Qualche altra cosa venne pure saccheggiata dai soldati francesi, come fu quella del principe di Lauro Lecellotti, ch’era sul largo delle Pigne.

Il generale Matthieu rimase gravamento ferito nella zuffa. Per assicurare i Francesi, che il forte di Sant’Eramo era a loro disposizione, si vuole che dalla guarnigione del castello si mandasse a dire a Championnet, per mezzo del tenente Eleuterio Ruggiero che al ritorno delle armi del re fu giustiziato), del reggimento Sannio, che travestito si recò al quartiere de’ Francesi, per assicurarli che il castello era loro, ed ai 22 gennaio i Francesi ne furono padroni. Il popolo armato, quando i Francesi attaccarono Napoli, voleva alla sua testa il generale, che avea scelto per suo capo; ‘ma egli non sortì da Santo Eramo, a motivo di sostenere la città. Ma quando si vidde la bandiera tricolorata sul castello, il popolo fu scoraggilo, e la mattina dei 23 dopo altro fuoco si resero gli altri castelli.

Il povero commendatore Milano de’ principi d’Ardore, che abitava da quelle parti della città, ove fu l'azione, venne ucciso da un colpo di pistola da un militare francese. Questo signore era nato in Francia, allorché suo padre il marchese di San Giorgio Ardore, era ambasciatore del re di Napoli, presso il re francese, che lo tenne a battesimo, ed avea perciò in Francia una pingue commenda dell’ordine di Malta, di cui era cavaliere commendatore. All’epoca della morte infelice di Luigi XVI, re di Francia, egli era a Parigi, e per la rivoluzione perdi, la commenda, edovette andar via dalla Francia; poiché la di lui persona era a quel governo sospetto. Un Francese della truppa cercò della di lui persona sui prim’istanti della loro entrata in Napoli dalla parte di Capodichino: un suo domestico, o più probabilmente la gente che abitava in quei siti, indicò la di lui casa al militare, che lo cercava. Il commendatore Milano era allora con la podagra, di cui soffriva, e salito sopra il militare, chiese al commendatore medesimo (che se gli fece incontro) della persona del commendatore, il quale avendo risposto esser lui, gli scaricò all’istante una pistolata, che lo distese morto.

Chi si trovava in Napoli, è testimonio in parto de’ fatti narrati, assicura che il generale Championnet fece di tutto per trattenere ed impedire alle sue truppe di trascorrere in maggiori eccessi e sevizie, e finanche punì alcuni.


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Ad onta di tutti questi progressi delle armi francesi la mattina del 23 gennaio con sorpresa si vidde riprendere l’attacco dalla parte di Poggio Reale, ov’è Porta Capuana, dall’infuriato popolo, e dalla parte del Carmine, quartiere affollato di plebe, con un fuoco rumorosissimo. Questo terzo conflitto non andò però oltre la mezza giornata, e furono aperti i castelli della città ai Francesi, che già avevano a lor favore Sant’Eramo, che la dominava, reso da chi lo comandava che vi era dentro con altri, ed alzati gli stemmi republicani; pubblicata una generale amnistia, ed al suono di festose voci de’ fautori della democrazia francese.

Il general Kellerman occupò Napoli nello stesso dì 23 e prima che i Francesi si fossero dilatati per la città ne’ quartieri di essa, varii fatti tragici avvennero; avendo il popolo dato addosso ai così detti giacobini, e lo stesso giorno 23 fu dal popolo saccheggiato il palazzo reale. Tal saccheggio permesso convenne farlo cessare col cannone di Sant’Eramo che tirava sulla ciurma furiosa.

Championnet entrò in Napoli trionfante, ed un certo Pagliuchella, capo lazzaro, andava avanti a quest’entrata. Il generale scorse la città da un capo all’altro, ma ritornò al suo quartiere di Capodimonte.

Pagliuchella, al ritorno delle armi del re, fu impiccato dalla giunta di stato, e con esso fu impiccato altro lazzarone, detto Michele lo Pazzo, per aver segnatato il suo zelo per il partito francese. A questo proposito si racconta che un certo Battistessa, quando Procida fu presa, fu anch’esso impiccato, e che trovatosi vivo, per non essere stato bene impiccato, Speciale, che fu della giunta di stato in Procida, ordinò che venisse scannato. Speciale di uomo orroroso è morto matto a Palermo anni dopo. Championnet, calato in Napoli, dopo un giorno andò ad alloggiare in casa del marchese Rinoncini, al largo del Mercatello.

Chi da vicino trattò Championnet, dice che il suo contegno, e de’ suoi seguaci uffiziali, fu decente e decoroso. O finzione! o natural carattere! Championnet era dottato dalla natura di esteriori attraenti requisiti; o ostentava nel suo discorso e nelle sue maniere un carattere di affabilità e di dolcezza che manifestava un’educazione, ed infine acquistò l’affetto generale.

Si portò subito alla cappella di San Gennaro, e lasciò al santo una collana, e la fascia tricolorata anche all’arcivescovo.

Si fece dire che il sangue che si espose anche si liquefacesse in quell’occasione; ma la combinazione singolare si fu, che il Vesuvio fece fuoco all’entrata de’ Francesi in Napoli. Il giorno 24 gennaio fu subito organizzato in Napoli un governo provvisorio con editto di Cbampionnet, il quale si trascrive ((10)); il detto governo fu diviso in cinque comitati, come si vede nel suddetto Appendice.

Nella zecca fu depositato dal marchese Verrusio mezzo milione di monete d’oro, che fu il danaro che riportò il principe di Ripa, tesoriere generale dell’armata della campagna del 1798, e fu preso da Championnet.

I detti pezzi sono stati raccolti dalla raccolta citata degli editti stampali dal governo republicano napoletano, lib. I, parte i, e così tutti gli altri che si troveranno inscritti in questa memoria.

La comunità de’ Camaldolesi di San Martino, posta in un convento sotto il forte di Sant’Eramo, festeggiò l’entrata de’ Francesi in Napoli con cena e hallo, per cui dopo la venuta del re in Napoli, quella comunità certosina fu abolita.

Il generale Dufresne ebbe il cornarlo della città di Napoli.

La città intanto nel tratto successivo cominciò a risentire per la scarsezza de’ viveri, e per la contribuzione di due milioni e mezzo di ducati che misero i Francesi, e per tutto il regno doveva ammontare a quindici milioni, come dal decreto qui presso annesso (veri due milioni); cominciò a sentire, dico, il peso della loro dimora. La tassa di due milioni e mezzo non fu né anche intiera : mente soddisfatta per l’impotenza in cui era la città e il regno di Napoli, come lo dimostra il citato decreto ((11)).

Il blocco marittimo che si teneva dagli Inglesi, nella rada di Napoli, e l’impedimento del commercio interno, che cagionato veniva dalle moltiplici turbe di paesani armati al sostegno della corona, vietavano il transito delle vittovaglie. La plebe di Napoli, che si era coperta di gloria, si ricopri di vergogna col sacco, che se gli permise, e che seguì furiosamente dal palazzo di quel re per il quale poco prima aveva vigorosamente combattuto. In quanto alle disposizioni che si presero circa le cose di pubblica amministrazione e si aggiunga col peso di un alloggio gravoso nelle case senza entrare in simili dettagli, si dirà che quello che si faceva era il più disanalogo all’indole della massima parte della nazione ed il più opposto alle sue predilette affezioni; giacché il sistema della rivoluzione francese era messo in Napoli.

L’albero della libertà fu quasi messo in tutto il regno dalla forza, ma senza mai solidamente piantarsi per essere continue nel regno le insorgenze, con battersi i due partiti l’un contro dell’altro accaniti e con rapine, fin sui confini della città istessa. A tali patti non vi voleva molto a conchiudere che la repubblica napoletana non avrebbe durata.

Oltre a ciò il governo di Francia, o sia che non era nel suo piano di tenere il regno di Napoli, o che per effetto del danaro diffuso forse dalla corte di Napoli nel governo di Francia per farne disapprovare l’occupazione, richiamò Championnet, che si era attirato per le sue maniere l’affetto generale ((12)) e vi rimase il generale Macdonald, il quale annunziando l’incarico avuto, non lasciò di far vedere in che stato era allora il regno eretto in repubblica, ma che non fu mai riconosciuta dal direttorio francese, giacché, come si è detto, i signori mandati a Parigi dal governo di Napoli per farsi riconoscere, non furono ricevuti.

Tra le persone disgraziate al ritorno del re in Napoli, vi fu il duca di Belforte di cognome Gennaro, che avea l’amministrazione sotto del re dell’azienda gesuitica. In quell’amministrazione vi era Caropreso portato avanti dal detto duca. Il fratello Caropreso, o questo stesso, era in Napoli, l'anno 1824, direttore delle reali finanze sotto il cavaliere de’ Medici. Belforte, in tempo del governo repubblicano fu anch’esso impiegato, come dall’annesso pezzo ((13)), ma il vero motivo pel quale fu carcerato dal re, si vuole che fosse per una lettera scritta al vicario generale Pignatelli, colla quale lo dissuadeva a partire da Napoli; ma nella lettera lasciò qualche pennata contro del ministro Acton.

Pignatelli conservò la lettera, ed in seguito la palesò al potente ministro Belforte, ossia duca di Cantalupo, fu sottoposto ad una processura, ripigliato che fu il regno, e con quelli della città che furono, ancora processati, e fu mandato in un forte della Sicilia; ma all’epoca della pace di Firenze, dopo la battaglia di Marengo fatta dalla corte di Napoli colla Francia, fu liberato come tutti gli altri e restituitigli li beni confiscati. Esso era ciambellano e dopo questa sua catastrofe non mise più il piede in palazzo.

L’autore del libro intitolato: Mémoires pour servir à l’histoire des demières révolutions de Naples, 1803; Génes, chez Fantin et compagnie,di molte cose non è perfettamente informato e va incontro a sbagli radicali. Nella seconda parte della sua opera, pag. 63, dice che i Francesi entrarono in Napoli il 23 giugno 1799. Debbo credere ciò errore di stampa, stante niuno in Napoli ignora che i Francesi entrarono a’ 23 gennaio 1799. Nella prima parte di dett’opera, pag. 10, analizzando le cause della rottura del 1799 tra la corte di Napoli e la Francia, va ad analizzare quella della perdita dell’esercito napoletano.

In quell’occasione tra le cagioni (dice) che i primi impieghi si trovavano occupati da persone vili ed ambiziose le quali col danaro avevano comprate le piazze. Veramente allora il re per avere un’armata forte, permise a de’ particolari di formare de’ reggimenti con la vendita degli impieghi; non vi è dubbio, che così l’armata venne riempita di uffiziali inesperti, e forse senza dubbio varii di equivoche opinioni; ma in quanto a ciò che l’autore aggiunge che la corte, sospettando della fedeltà ed attaccamento degli antichi uffiziali, confidò l’armata e la spedizione ai forestieri, non è la supposizione giusta. Altro forestiere non vi fu che comandò, se non che il general Mack. La corte in ciò fu compatibile. Mack serviva l’Austria con la quale corte era collegato. Mack aveva un nome e nessuno generale napoletano ne avea; giacché dopo il 44 la nazione napoletana non avea avuto guerra, per cui non poteva fidare il re nell’esperienza de’ suoi generali. Altro forestiere in vista fu il maresciallo di Sassonia, il principe di Filipstat, ed il general Damas; oltre altri pochi, che furono dell epoca di Salis, portati nel 1788. Sassonia fu ferito. Damas condusse la sua truppa ai presidii della Toscana, ove si chiuse, e sempre battendosi in ritirata e senza sciogliersi, come avvenne agli altri corpi. Dice inoltre, pag. 73, che Championnet fece frustare il parrucchiere che fu l’autore del terribile sacrificio che fece il popolo, del duca della Torre Filomarino e di suo fratello don Clemente, mentre l’opinione che vi è, è che gli autori del delitto furono fatti giustiziare dai Francesi.

Nelle pagine 78 e 79 fa un quadro esagerato (prima patte) de’ costumi de’ Calabresi. Quando dice, sarà stato de’ tempi anteriori assai ai nostri; ecco ciò che scrive de’ Calabresi.

La principale occupazione di quella nazione è di cogliere nel segno con una palla; il più bravo in questo esercizio, è il più stimato tra i suoi compagni; ed infatti l'opinione è che tirano bene, ma pare che l’autore supponga che per gioco si tirano tra essi.

La morte de’ vinti è ugualmente gloriosa; essi non riguardano come una disgrazia che la morte naturale: allora i figli e la moglie gettano degli urli di dolore dicendo:N’y avait il donc pas une balle pour mon mari, pour notre père? Fallait-il qu il mourut dans son lit comme un vil citoyen? Leurs épouses, dont ils sont fort jaloux, armées comme eux, les accompagnent dans leurs expédiions guerrières, et mêlées parmi eux, combattent avec une bravoure incroyable.Certamente che tutto questo ora non si vede praticato dai Calabresi. Quanto segue è più forte. Ils ne reconnaissent aucune loi, et les magistrats y sont avilis et méprisés.Ripeto che forse tali erano i costumi degli antichi Calabresi, ma non già nell’epoca del 99. Pag. 80 seguita e dice che D. Regio e Raimondi Rinaldi curato della Scalca scrisse al re in Sicilia alla fine di febbraio 1799, per dargli avviso dell’intenzione de’ Calabresi, che egli fomentava alla rivolta contro de’ Francesi, pregando il re d’inviarli una persona rivestita di un carattere, con la quale potesse sentirsela.

Non si nega il fatto che può stare; ma alla fine del febbraio di detto anno già si era manifestata in Calabria la missione del cardinale D. Fabrizio Ruffo di Baranello, ed i Calabresi avevano già in parte abbracciata la causa del re sotto il cardinale, ed alla metà e più di febbraio si trovava il cardinale già a Mileto, ove entrò di notte in quel paese, ed una folla immensa di popolo armato si trovò nella gran piazza di Mileto ov’è la casa del vescovo ad attenderlo per offrirsi per la causa reale; e fu tale il numero, che il cardinale, per mancanza di mezzi, dovette il giorno susseguente congedarne moltissimi. Posto ciò, non è vero quanto dice la sopraddetta istoria parte I, pag. 81: Pendant que lo ut le monde hésitait à la cour, le cardinal Ruffo s’offrit pour conduire cette entreprise alla fine di febbraio 1799. Il cardinale Ruffo alla fine di gennaio partì da Palermo per detta operazione; ed a’ 4 o 5 di febbraio sbarcò in Calabria alla punta del Pezzo proveniente da Messina. Il Pezzo è un luogo appartenente alla sua famiglia alla riva del mare rimpetto alla punta del Faro, ove vi è una casa di legno. S’inganna l’autore parimenti nella detta pagina, quando facendo il ritratto morale del cardinal Ruffo, dice ch’egli in Roma corteggiava la marchesa d’Aria, ove passava la giornata. Era la marchesa Lepri amica del cardinale, non d’Aria. S’inganna ancora allorché dice, pag. 83, che Ruffo s’imbarcò per la spedizione con un certo Spasiani o Sparziani, ex gesuita, che portò Ruffo come segretario, ed il commendatore Ruffo D. Ciccio suo fratello ch’era commendatore di Malta.

Il commendatore Ruffo che venne in Palermo col cardinale, non partì col fratello, ma lo raggiunse in Calabria in marzo innoltrato, quando erano già quasi le Calabrie tutte sottomesse; e con il cardinale, per ordine del re, vi fu mandato sotto i di lui ordini l’aiutante reale del viceré di Sicilia il marchese D. Filippo Malaspina, ch’era antico militare (come dal documento in iscritto di questa memoria), ed il detto Spasiani.

D. Ciccio Ruffo non volle partire con suo fratello perché vidde un’intrapresa disperata, poiché il cardinale fu spedito nelle Calabrie senza truppa e con soli 30,000 ducati di aiuto. Quando D. Ciccio andò a raggiungere suo fratello in Calabria, la regina gli disse, allorché andò D. Ciccio a bacciargli la mano «fai bene a partire, per toglierti questa macchia.» Egli aveva servito nelle guardie italiane, ed era allora un capitano ritirato. Il commendatore ha lui medesimo raccontato questa circostanza all’autore di questa memoria. Egli rispose alla regina, che niuna macchia avvertiva sulla sua condotta.

Alla pag. 84 fa menzione de’ proclami del cardinale emanati a Bagnara in Calabria, minacciando scomunica in istampa. Non è ciò supponibile nel principio della spedizione, stante dopo della punta del Pezzo, egli si portò a Bagnara senza mezzi come era, non avendo che circa 200 uomini, e perciò non in caso di emanarli, ed in un paese ove un uomo non si prestò alla causa del re, ed ove il partito repubblicano era accanito contro il patito realista, che pochi giorni prima dell’arrivo di Ruffo uccisero crudelmente un medico per causa di opinione. Nella pag. 90 della detta opera, parte I, dice che il re, essendo informato de’ progressi di Ruffo in Calabria, gli mandò il cavaliere Micheraux ed il principe di Luperano colonnello allora di cavalleria che si trovava di guarnigione in Palermo. Luperano non si mosse mai da Palermo, ed accettò il tenente colonnello La Marra che raggiunse il cardinale, a cui dal re fu inviato in maggio con due compagnie di linea; non vi fu altro uffiziale di grado ed altra truppa spedita da Palermo, se non che altri scapoli militari come fu il tenente colonnello Fresini, Galmieri e qualche altro, ma senza truppa.

La Marra, già uffiziale superiore, che ebbe il grado di colonnello, raggiunse il cardinale in Ariano di Puglia. Vi fu anche il marchesino Palmieri, che spontaneamente abbracciò la causa del re in quell’epoca, ed era graduato da tenente colonnello di cavalleria. Il cavaliere D. Antonio Micheraux poi si trovava impiegato nel diplomatico, ed avendo la corte di Napoli, per mezzo del suo ministro in Pietroburgo, duca di Serra Capriola, ottenute delle promesse di assistenza dall’imperatore di Moscovia, Micheraux fu incaricato di condurre un corpo di Russi da Corfù di 500 uomini che sbarcarono in Manfredonia e raggiunsero il cardinal Rullo in Ariano di Puglia nel maggio. Prende sbaglio ancora l’autore, quando dice nella pag. 157 che agli il di giugno la forza del cardinal Ruffo attaccò il forte di Viglierà situalo vicino i Granili al ponte della Maddalena e che dai patriotti fu mandato in aria a forza di mine. Il cardinale attaccò Napoli ai 13 giugno e non già ai 11, e nella prima sera del detto giorno andò in parte in aria il detto forte minato.

È una gran menzogna poi che attesta alla pag. 171 di dett’opera, che il cardinal Ruffo pagava ducati dieci ogni testa di patriotto che gli si recava dal popolo. Il cardinale sentiva tutto l’orrore delle stragi che commise allora il popolo, al segno che la mattina del 15 giugno uscendo da una cappelluccia dirimpetto ai Granili (giacché ai Granili avea piantato il suo quartier generale), si avvide che il popolo conduceva una catena de’ così detti giacobini coperti tutti di ferite; non potè trattenersi di esclamare contro tali sevizie, ma la sfrenata plebe li fucilò sotto gli occhi. Di questo tratto di perfidia ne fu testimonio chi lo scrisse.

Giunta la corte di Napoli a Palermo la notte del 25 dicembre proveniente li 26, la squadra dell’ammiraglio Nelson con il re, la regina e la famiglia reale, e con la squadra napolitana il viceré di Sicilia principe de’ Luzzi, si portò a bordo con il marchese Malaspina suo aiutante. La regina calò dal vascello ancora notte, e si recò al palazzo reale, ed il re alle 9 di francia del dì 26 si rese a palazzo in mezzo agli onori della truppa in linea posta lungo il Cassero.

Il Cassero è una lunga strada dritta che divide la città, con l’altra che la taglia detta strada Nuova posta a Croce Greca.

L’abbattimento della corte e (del corteggio, compreso Acton, era annunziato sui loro visi. Già da più giorni prima si dubitava in Palermo di qualche rovescio, stanteché circa un mese prima, da Napoli era stato mandato a Palermo arrestare il ministro della guerra, D. Emanuele Arriola, per essere messo in un forte della Sicilia. Tali preliminari non annunziavano successi felici all’esercito del re, passato sul territorio romano per iscacciarne i Francesi.

Il convoglio della corte fu disperso per una fiera burrasca di sei giorni avuta nel tragitto, por cui il viceré, nel lasciare il palazzo reale per servizio della corte, fu nella necessità di lasciare per servizio delle persone reali tutta la sua casa, gente e scuderia, fino a che l’equipaggio della corte, sprovvista di tutto, non prese il porto di Palermo, ove dai Siciliani (avidi di avere una corte) fu accolto il re con trasporto.

Serviva allora il viceré in qualità di suo uomo d’affari D. Girolamo Ruffo, e questa fu l’occasione della di lui attuale fortuna. Uomo giovane allora, attivo e sagace, fu preso a ben vedere dal re, ed ora è consigliere e segretario di stato della casa del re di Napoli.

I signori che abbandonarono la loro patria, i loro comodi ed i loro effetti per seguire il re, furono varii, oltre quelli imbarcati con S. M., fra i quali il duca d’Ascoli, tutti per lo più di corte, oltre qualche altro al servizio del re, ma non della corte. Il principe de’ Luzzi, uomo non di mezzi ma dotato di prudenza, mosse l’inerzia in cui era caduta tutta la corte afflitta della perdita di un regno e di un figlio morto nel viaggio, sopra tutto la regina, il di cui carattere non era fatto per la rassegnazione, si era abbandonata nell’indolenza. Fece Lezzi riflettere che nella posizione in cui si era, era necessario fortificare le Calabrie. Si sentì la forza di questo pensiero, e s’immaginò di scrivere in Napoli al marchese di Fuscaldo Spinelli, di passare in Calabria, come vicario di Sua Maestà onde fortificarla.

Questo dettaglio l’autore l’ha avuto dallo stesso principe dei Luzzi e da Fuscaldo, il quale per una barca ricevette da Luzzi una lettera con la carta annessa della commissione di Calabria, già data da anni prima, per sistemare gli affari di quelle provincie, a motivo di non esserci voluto andare il generale Pignatelli di Strongoli, perché odiato in quei paesi, per la funesta missione da lui eseguita in occasione del terribile terremoto del 1783 delle Calabrie, con danno di quelle popolazioni, le di cui tracce rimasero impresse con orrore nel cuore dei Calabresi, e la di cui persona era ancora odiosa nel 1799 ((14)). Fuscaldo nel ricevere la lettera (allora non erano ancora in Napoli i Francesi), si portò dal generale Pignatelli, vicario del regno, per vedere se aveva ricevuto avviso di tal commissione, e quali mezzi se li somministravano per andar con successo; Questo racconto si ripete che si ha dallo stesso marchese Fuscaldo. Il generale Pignatelli, lasciato nel regno per vicario del re, rispose che nientone sapeva; ma in questo frattempo capitò in Palermo il cardinal Ruffo con il commendatore di Malta, D, Ciccio Ruffo, suo fratello. Era allora il di 17 gennaio; Ruffo era al servizio del re, perché avea accettata l’intendenza di Caserta, con la disapprovazione della corte di Roma, che avea lasciata per non avervi una sussistenza.

In lui si vidde l’uomo tagliato all’intrapresa per produrre una controrivoluzione nel regno di Napoli. Si fece a lui sentirli pensiero, ed egli rispose: si può tentare; ed il primo pensiero fu di sostenere le Calabrie. Si vuole che la Regina avesse detto che un matto poteva abbracciare tall'impegno senza dar mezzi, e che il cardinale avesse detto, il matto è trovato e sono io.

Era allora Ruffo di 55 in 56 anni, uomo ardito, di un carattere indipendente, ambizioso di gloria, intraprendente; ma non culto, non mancante però di vedute, assai vivo, sospettosissimo e geloso della sua gloria, come sono gli uomini di tal cuneo. Sentito il pensiero che vi era, o che lui si offrisse per l’impresa o che la corte gliene mostrasse il desiderio, Ruffo fu destinato, come vicario di Sua Maestà, a passare in Calabria. Si destinò il marchese D. Filippo Malaspina, aiutante del viceré di Sicilia, alla di lui immediazione, come dal dispaccio qui annesso ((15)), e fu l’unico e solo militare che partisse da Palermo allora per la detta spedizione, e senza truppa, con soli tre mila ducati che la corte somministrò per l’impresa. Partì Ruffo alla fine di gennaio da Palermo con l’abate Sparsianó, o Sparziano, suo segretario e due persone di servizio, e Malaspina con due altri suoi domestici, cosicché l’armata fu di sette persone. Malaspina avea il padre e la madre in Napoli ed altri di sua famiglia. Il principe di Belmonte Pignatelli, che aveva seguita la corte, fu il primo che parlò a Malaspina, e poi il duca d’Ascoli, della commissione che si dava al cardinale, e li soggiunse che Acton voleva parlargli. Portatosi poi l’aiutante da Acton, seppe più esattamente l’affare, e se gli soggiunse che il re non obbligava nessuno colla forza, ma che il piacere di Sua Maestà era che egli fosse partito con Ruffo. Il re, la regina ed Acton, credo che poco contavano sull’esito, giacché non era accompagnata la commissione da mezzi, e si rischiò un tentativo, stanteché la corte contava di riavere il regno, più per una pace, che col mezzo de’ suoi alleati. Ruffo dovette poi contare su tre dati nell’abbracciare l’impresa; sul di lui cognome conosciutissimo nelle Calabrie, per i gran possessi che i Ruffo vi hanno avuto e vi hanno; sull’avversione de’ popoli per i Francesi; e per il carattere cardinalizio sopratutto, a motivo del quale, proclamando una guerra di religione, poteva contare di riuscir molto, che dai Calabresi non si era mai veduto un cardinale per i loro paesi, e Ruffo in ciò non s’ingannò affatto, mentre la di lui spedizione è riuscita e sembra un romanzo.

Giunti in Messina, ne’ primi giorni di febbraio {ove vi comandava il generale D. Giovanni Danero antico militare al servizio del re), si presentarono al cardinale Ruffo i signori D. Francesco Carbone e D. Angelo Fiore, passati dalle Calabrie in Sicilia per la rivoluzione, ove il primo era in impiego infimo, serviva nelle milizie del regno di Napoli, ed il secondo da Caporuota in quella provincia.

Avea allora la corte i miliziotti, truppa che ne’ bisogni era chiamata a servire attivamente. Tanto Carbone che Fiore passarono col cardinale in Calabria di nuovo. Era in questo tempo governatore militare della città di Reggio di Calabria (che è quasi dirimpetto alla cittadella di Messina), il brigadiere D. Nicola Macedonio, il quale, avuto avviso del cardinale in Messina e delle di lui commissioni, spedì subito in quella cittadella il suo maggiore di piazza, Rivera, per sollecitare il cardinale a passare in Calabria, poiché in Reggio non vi era stato messo, e per opera sopratutto del cavaliere Genovesi di Reggio, l’albero della libertà, ordinata dal governo napoletano, di piantarsi dappertutto.

Il cavalier Genovesi avea de’ parenti, come tanti altri Reggitani, chiusi ne’ forti della Sicilia. Questa carcerazione fu eseguita dietro l’uccisione che varii anni prima era avvenuta del brigadier Pinelli, governatore militare di Reggio. Questo fu il motivo pel quale Genovesi persuase i Reggitani a non piantare l’albero, perché piantandosi l’albero in Reggio, peggiorava la sorte de’ Reggitani carcerati in Sicilia. Questa circostanza è venuta delta dall’intendente già di Reggio, signor Don Nicola Sant’Angelo, che fu in quel luogo intendente nel 1820.

Varii luoghi del littorale calabrese, vicino Messina, non l’avevano posto per mancanza di forza, e per resistenza del partito contrario al sistema repubblicano. Con questi poveri soccorsi sbarcò il cardinale e suo seguito in Calabria, alla Punta del Pezzo, ove ricevette il governatore di Reggio, brigadiere Macedonio, che somministrò tutti gli aiuti, che erano in suo potere, e dove il cardinale si rimase per alquanti giorni, onde con gente mettersi poi in marcia. La Punta del Pezzo è una spiaggia nella quale eravi una casa di legno, appartenente alla casa di Ruffo di Bagnara o di Baranello.

Il cardinale si servi sulle prime delle squadre baronali di Bagnara e Scilla Ruffo, stante in quel tempo i baroni, non ancora distrutte avevano le loro squadre, e queste le servirono per far guardare il suo quartiere da qualche colpo di mano.


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Radunati dal governatore Macedonio quanti soldati potette del disciolto esercito napoletano, li mandò a Ruffo, con armi e coll’uffiziale De Vera, promettendo il cardinale a chi volevasi arruolare sotto le sue bandiere per la causa del trono di dare 25 grana al giorno ad uomo, e più, ad ogni capo, di 25 uomini, e di 50 maggiormente durante il tempo di un anno, tempo che prefisse di servire volontariamente, cioè non nome si obbligano i soldati affine di aver gente. L’abito che si fece fare a tale gente fu di sarraca e pantalone oscuro di arbace. Questi elementi composero il reggimento Reale Calabria cosi dichiarato. Si presentò al cardinale il signor D. Davide Vinspear, preside di Catanzaro e colonnello del genio, il quale per essere Catanzaro rivoltata, capitale in quel tempo dell’ulteriore Calabria, vi fu messo l’albero; perciò andò via dalla sua residenza e si unì al seguito di Sua Eminenza. Da Messina si ebbero munizioni da guerra; si chiesero anche de’ piccioli cannoni e palle, e dopo pochi dì di permanenza alla Punta del Pezzo, il cardinale ne partì all’improvviso con pochi uomini per Scilla e Bagnara, lasciando l’ordine al suo aiutante di mettersi in marcia l’indimani colla gente, che in tutto non arrivava a 200 uomini, per la volta di Bagnare. Esso tenne questa condotta per evitare un agguato, occultando la sua marcia.

In quel littorale del Mediterraneo niuno si presentò per la causa del re, e secondo l’ordine del cardinale lasciato, la picciola forza l’indimani lo raggiunse, accompagnata da dirotta pioggia. Egli allora dichiarò ispettore della medesima il di lui aiutante, ma senza dispaccio o sia decreto, stante esso organizzava in reggimento quella truppa. Il detto aiutante, o che non credette la riuscita di tall’intrapresa, per cui non prese a corte il vicario, costringendolo a dare. per iscritto la qualità d’ispettore che dava, perché così avrebbe scoperto se l’intenzione di promuoverlo era sincera, o serviva per illuderlo soltanto così chiamandolo.

In Bagnara palesò l’avviso che avea avuto da Palermo, che in soccorso della causa del re sarebbe sbarcato nel regno un corpo di Russi, coi quali vi erano un centinaio di Turchi, che mandò la Porta, tutti provenienti da Corfù, e condotti dal cavaliere de Micheraux, e detto corpo si fece ascendere a 40 mila uomini, per imporre alle facili popolazioni. Divulgatasi nelle Calabrie la missione del cardinale, ed innoltrandosi egli dentro le stesse, cominciò la insurrezione. Uomini armati condotti da capi ed anche da preti, si presentarono a lui per la causa del trono; ed a poco a poco si fece generale la controrivoluzione. In marcia si sparse la voce essersi veduti alcuni legni francesi all’altura della spiaggia di Gioja delle Calabrie; si accorse in quel sito (ove vi fu qualche disturbo, tra partiti e partiti di quella gente di Massa, del di. cui pagamento giornaliero n’era incaricato il signor D. Francesco. Carbone), senza essersi nulla ritrovato rispetto ai legni.

Marciò poi Sua Eminenza con la sua picciola colonna a Mileto, ove vi giunse di notte. Ciò fu dopo la metà di febbraio, e la piazza di Mileto (che era un vasto locale di casale, ove al fondo vi è la casa di legno del vescovo), era coperta di gente armata per attendere l’arrivo del cardinale. Il medesimo alloggiò in casa di monsignor Minutolo, della famiglia di Canosa, vescovo del luogo, e fu obbligato per mancanza di mezzi, di mandare indietro, tutta quella immensa turba armata la mattina, ritenendo quelli che poteva pagare. Monteleone, paese ricco non lontano da Mileto, sosteneva il regime repubblicano, e perciò vi era piantato l’albero, come era dappertutto il regno, ove non si trovava forte partito contrario. La vicinanza della forza col suo capo, ecclesiastico, che da tutti non si credeva la missione o che si dava a credere a’ più deboli non esser vera, cominciò a far ondeggiare i Monteleonesi. Col mezzo di monsignor Minutolo si aprì una trattativa per la resa della città, la quale, per patti stabiliti nella trattativa, diede armi e munizioni da guerra, alquanti cavalli e danaro; ciò eseguito, si entrò in Monteleone. La caduta di quel paese, l’ingrossamento della forza cardinalizia e la marcia in avanti della stessa, fece che i paesi successivamente aprissero le porti, meno che due luoghi, che resistettero. I Francesi che erano in Napoli ed in Apruzzi, guarnendo piazze e forti, non potevano distendere le loro forze per venire in Calabria, perché non erano imponenti, e travagliati dappertutto, giacché le popolazioni si erano armate, ed in corpi di masse, comandate da capi, li facevano guerra. Una picciola spedizione soltanto fecero nelle Puglie, onde abbattere l'insurrezione incominciata in quelle provincie, e sostenuta da due Corsi, De Cesare e Bocchechamp come si vedrà nel prosieguo.

Al ponte di Campestrino, passato Eboli, al fine della provincia del principato Citra, vi era Sciarpa, altro capo, con un corpo di massa, per impedire il passaggio, ed ove vi furono delle azioni con i patriotti, e civiche inviate da Napoli, per aprirsi la strada, ed in una delle quali vi rimase ucciso uno della famiglia Spinelli, che serviva il governo repubblicano di Napoli. I due documenti qui sotto posti ((16)), con l’altro già messo, mostrano abbastanza la posizione tormentosa in cui erano i Francesi nel regno di Napoli.

Negli Apruzzi vi era l’abate Pronio; Michele Pezza, detto Fra Diavolo, alla testa de' corpi di masse ed un certo Mammone (che si vuole che bevesse il vino nel cranio delle fresche teste che recideva), tutti uomini crudi e di tal mestiere; e cosi in altri luoghi più vicini alla capitale.

Il generale, marchese Nunziante, fu in quell’ex poca della classe delle masse, come capo. Il cardinale sulle prime potè intercettare tutta la corrispondenza della capitale colle Calabrie. Da essa ravvisare potette lo stato degli affari e fu anche a cognizione della pastorale (già scritta) contro di lui emanata dal cardinale arcivescovo di Napoli. Anche da Palermo poteva ricevere notizie della corte, la quale era informata degli affari di Napoli da corrispondenti che ella aveva.

Ove Sua Eminenza potette, si aprì la communicazione con i corpi di massa, per dare un centro di appoggio, com’era regolare, alla riuscita dell’impresa. Dopo alquanti giorni di dimora a Monteleone, necessario per rimettere il governo del re, si marciò al Pizzo, luogo vicino al mare appartenente ad un signore spagnuolo. Il colonnello Davide Vinspear, di cui si è parlato, sottomessa Catanzaro, luogo della residenza del preside, vi fu a sua premura rimandato; essendosi negato di servire nella spedizione del cardinale (da cui era stato invitato) adducendo per ragione, che non conosceva il mestiere delle armi, perché la sua carriera era stata nel corpo del genio. Il cardinale lo riprese con calore e li disse che tutta persona che vestiva uniforme militare in tempo di guerra, avendo onore, era nell’obbligo di prestarsi a servire, e che come vicario del re in Calabria l’avrebbe potuto far tremare in quelle circostanze per il suo rifiuto. Il cardinale era alquanto disgustato di Vinspear, il quale dacché eravamo nella Punta del Pezzo, disapprovava anche in pubblico e con parole indecenti per la porpora, l’impresa abbracciata senza mezzi, e più perché s’innoltrava così nelle Calabrie Sua Eminenza.

Mentre si era ancora in Monteleone, si presentò appena giorno una mattina il brigadiere marchese Cusano, spedito a Sua Eminenza dal generale Naselli, che si trovava al Pizzo. Naselli, arrivato da Livorno, come già si è detto, cercò di passare in Sicilia, e s’imbarcò sopra un piccolo legno, unitamente al brigadiere Cusano, il tenente Trentacapilli, e la loro gente di servizio. Arrivati coste coste in Calabria, avendo saputa la missione del cardinale, fatto alto al Pizzo, mandò, per atto di rispetto, al cardinale per offrirsi per la causa del re, qualora la sua persona fosse stata utile. Ruffo malamente sentì la dimora di questi uffiziali in Calabria, e dopo varie interrogazioni fatte a Cusano, richiedendo per quale motivo Naselli non era accorso colla sua colonna a Civita Castellana, onde soccorrere il maresciallo di Sassonia nell’azione che vi fu tra l’armata napoletana e francese, ed inoltre perché aveva permesso che la sua truppa nello sbarco fatto in Napoli fosse disarmata. Cusano appose delle giuste ragioni a tali dimande, facendo vedere al cardinale la gran distanza, che vi era, da Livorno a Civita Castellana, ed in quanto al disarmo della truppa sua, il convoglio che la riportava, arrivò prima di lui al Molo di Napoli, ove all’istante fu sbarcata per disposizione di quello che comandava la squadra. Sentite queste risposte, Ruffo disse a Cusano, che andassero subito via dalle Calabrie, ove l’uniforme in testa de’ Calabresi non era gradito. Il cardinale, o per gelosia di autorità, o perché Naselli non fosse nella sua testa bene appreso, ordinò che subito partissero. Tal dialogo ebbe luogo avanti l’aiutante reale del cardinale.

Giunta l’armata cristiana al Pizzo, giacché questa denominazione cominciò a darsela, alli 5 di marzo il cardinale fece arrestare tre uffiziali del dismesso esercito ch’erano nella sua truppa e diede il seguente ordine ((17)). La truppa regolare, di cui parla l’ordine, era del reggimento nascente di Calabria, la di cui forza (secondo i rapporti allora del colonnello allo ispettore marchese Malaspina) era di 415 uomini. Il colonnello era allora D. Antonio de Settis tenente colonnello prima e antico uffiziale, e dal cardinale datogli il grado di colonnello. Ecco che si apre una nuova scena con tale ardine. D. Ciccio Ruffo, fratello del cardinale, non volle partire col fratello; ma è da supporsi, che l’avrebbe raggiunto in Calabria, qualora la spedizione fosse felicemente incominciata; e non è inverosimile supporre che i due fratelli si avessero dato questo appuntamento, giacché nell’assenza di Malaspina dal vicario, D. Ciccio Ruffo parti da Palermo per raggiungere suo fratello nelle Calabrie, già quasi tutte sottomesse alla obbedienza del re. Per il cattivo tempo non si potè partire dal Pizzo, circostanza che produsse un ritardo al destino de’ prigionieri in Messina, mentre ad onta che si partisse poi dal Pizzo, si dové pigliare Tropea, per non essere fattibile di andare avanti per il tempo. Ai 19 marzo si rimise in cammino la barca con i prigionieri alla volta di Sicilia, ed allora appunto fu incontrato il commend. D. Ciccio Ruffo, che si portava per mare in Calabria a raggiungere suo fratello il cardinale. Il Vicario generale si dimenticò che aveva interdetta la comunicazione della Sicilia colle Calabrie, a motivo di un legno proveniente da Alessandria, con sospetto di peste, ch’era in contumacia nelle acque di Messina; in conseguenza di ciò il generale Danero non volle dare pratica allo aiutante di Sua Eminenza, arrivato in Messina con i tre suoi prigionieri, per cui egli fu obbligato di condursi a Scilla, per mettere in quel forte i tre uffiziali detenuti, per attendere gli ordini di Sua Eminenza, a cui si scrisse l'avvenuto.

Standosi in Scilla, tutto ad un tratto un giorno si vidde comparire una barca con molta gente dentro: arrivata alla spiaggia si viddero da quindici in sedici persone armate, che avevano in custodia il generale Naselli ed il brigadiere Cusano, Trentacapilli, ed alcuni loro famigliari, carcerati d’ordine di Sua Eminenza. La popolazione che aveva in cattiva opinione i militari, affollandosi intorno a detenuti, mormorava sulla loro condotta.

Naselli che conosceva l’aiutante di Sua Eminenza, mandò a dirgli, che si compiacesse di arrivare dove egli era, giacche l’ordine di Sua Eminenza portava che fossero guardati a vista. L’aiutante calmò Naselli e sua comitiva, avendo saputo il motivo dell’arresto.

L’ordine del loro arresto fu perché non erano passati in Sicilia, siccome il cardinale avea ingiunto a Cusano, e si erano trattenuti in Calabria, contro il suo divieto. L’aiutante del cardinale animò Naselli a scrivere a Sua Eminenza, manifestandogli il motivo del loro ritardo e per pregarlo di lasciarli liberi, onde passare in Sicilia. Questa lettera ebbe il suo effetto, stante il vicario di S. M. permise che fossero partiti, e fecero la contumacia nel lazzaretto di Messina. L’aiutante del cardinale fu in quell’occasione di giovamento a Naselli e compagni, onde fossero trattati con rispetto, e non permise che nella stanza di Naselli vi fosse rimasto di guardia un uomo armato, come appunto era l’ordine, e li fece mettere nel castello di Scilla.

Passarono molti giorni prima che fosse venuto l’ordine di Sua Eminenza, per dar pratica a Messina ai detenuti che aveva il di lui aiutante, ed in questo frattempo vi fu una corrispondenza tra esso ed il vicario, stanteché l’aiutante si dolse della commissione che gli aveva affidata, niente analoga al carattere che egli avea, ma infine consegnò in Messina al generale Danero i tre uffiziali detenuti, riscuotendone un ricevo, e si mise in cammino per raggiungere Sua Eminenza che fu a Poggio Orfino in maggio, ne’ primi di di detto mese raggiunto.

In questo frattempo ricevette una lettera del brigadiere Macedonio (antico amico de’ genitori dell’aiutante), colla quale gli partecipava Macedonio ch’era stato levato dal comando di Reggio con sua sorpresa, e domandava il motivo di tal novità. Si seppe poi che tal risoluzione della corte derivò dai rapporti che fece Sua Eminenza contro il detto brigadiere Macedonio, esponendo che in quelle circostanze, nel comando della piazza di Reggio, ci voleva un uomo di petto, e che Macedonio era anche alquanto sordo. Fece anche rapporto Sua Eminenza contro del generale Danero, comandante di Messina perché non lo secondava nelle ricerche che davagli per le operazioni della sua spedizione, e si vuole che scrivesse anche che Danero era mal circondato. Danero non fu tolto dal comando di Messina, perché Acton sostenne Danero: Macedonio, perché non ebbe questi mezzi, fu tolto dal comando di Reggio. Veramente nella corrispondenza letteraria tra il cardinale e Danero, vi corsero degli errori, forse per mancanza di conoscenza degli oggetti che il cardinale richiedeva da Messina, rispetto a munizioni da guerra ed altro; ma i motivi che il cardinale potette avere per far togliere il comando di Reggio dalle mani del brigadiere Macedonio, a parere d’alcuni, ch’erano in quella spedizione, furono due: uno provenne da parziale inimicizia d’impiegati contro di Macedonio e contro degli aderenti di Macedonio; in conseguenza delle quali rappresentarono al cardinale che Macedonio era mal circondato. L’altro fu opera dello stesso Macedonio, il quale, avendo visitato il cardinale, come si è detto, alla Punta del Pezzo, lasciò scappare qualche sfogo contro del governo per i torti che aveva ricevuti, cosa che nel cardinale produsse de’ sospetti contro Macedonio.

Intanto giunto D. Ciccio Ruffo, verso la fine di marzo, presso suo fratello vicario del re, fu dallo stesso investito di tutti gli ampli poteri, e lo creò ispettore generale di tutta l’armata cristiana; ed ecco la ragione per la quale allontanò il di lui aiutante per attendere nella di lui assenza il suo fratello, ed ecco un colpo dell’uso prelatizio romano che fa anche supporre al cardinale che Macedonio voleva arrestarlo ((18)).

La colonna del cardinale marciò verso Cotrona, perché quel castello si reggeva per la repubblica napoletana. Era esso comandato dal sig. Du Carme antico militare e governatore di quel forte. Tempo prima alcuni Francesi, provenienti da Alessandria, erano sbarcati in quei luoghi, e si misero nel castello per sostenere la difesa con alcuni paesani del partito. Sentendo l’avvicinamento del cardinale, Du Carme s’ impegnò sciaguratamente nella difesa del forte con quelli che vi erano, e fece fuoco contro l’armi del re.

La necessità lo dovette far rendere; Du Carme e due persone Calabresi, di cognome distinto, furono sottoposti ad un giudizio che li condannò alla fucilazione, che subito si eseguì. Questi giudizii si pronunziavano da una giunta di stato ambulante composta da D. Angelo Fiore che seguiva il cardinale, ed altri legali che si pigliavano al bisogno nei paesi. Du Carme era al servizio del re e militare, onde la condanna di morte era quella alla quale dovea soggiacere. Il figlio del march. Lucifero e di Soriano, figli della Riso, furono gli eseguiti con esso.

Nella provincia di Bari e Lecce, ove il popolo si opponeva fortemente al sistema repubblicano, mentre si dava all’anarchia più sfrenata, comparvero in Brindisi, alla metà di febbraio (circa un mese dacché erano i Francesi in Napoli), sette uffiziali Ariglo Corsi emigrati della patria per la rivoluzione; essi erano: D. Gio. Battista De Cesare, D. Francesco Bocchejamp, D. Casimiro Raimondo Corbara, D. Ugo Colonna, D. Lorenzo Durazzo, D. Stefano Pittaluca, D. Antonio Guidone. Essi tutti col mezzo di un certo Bonafede Gerunda di Montejassi, furono accolti in Brindisi.

Fra questi sette uffiziali figurarono il sig. Don Francesco Bocchejamp, ed un certo Gio. Battista De Cesare, che fu poi fatto brigadiere del re con una rendita in proprietà bene vistosa, per i servizii che rese in quell’occasione. Il Corbara, tra i sette, fu fatto prendere dal popolo per il principe ereditario, a motivo della statura ed altri segni nel suo viso consimili, che diedero credito a questo inganno (il quale fu talmente fortificato nella testa del popolo) forse ad arte, che correva rischio chiunque lo metteva in dubbio: intanto giovò molto alla causa del trono questa illusione. Essi erano sull’orlo di passare a Palermo, avendo noleggiato finanche un legno per allontanarsi dalle sciagure della rivoluzione che fuggivano.

Essi volevano disingannare il popolo, ma furono obbligati a sostenere tal carattere; e tra un immenso stuolo di genti, il supposto principe ereditario fu condotto nella cattedrale, ove dal vescovo, fu ricevuto, e tal circostanza fu di grande utile alla causa del re e di aiuto al vicario cardinale.

Divulgata tal nuova da paese in paese, si viddero i deputati delle città vicine accorrere a Brindisi per prestare al supposto principe i loro omaggi. Il popolo cominciò (mercé i loro proclami, giacché il De Cesare passava per il principe di Sassonia) a rientrare nell’ordine, e si vidde scemare l’anarchia.

In Ostuni quel popolo bruciò vivo il dottor Airaldi di quel paese; ma intanto varii luoghi avevano innalberato l’albero della libertà, come si vuole che fosse Taranto, ed ove il partito repubblicano si disse prevalere. I giovani Anglo Corsi furono per alcun tempo vacillanti, e di soppiatto volevano partire. Vi era in Brindisi un legno ancorato che aveva sopra le reali principesse di Francia, le quali, conoscendo quanto profitto potevasi ricavare a favore della causa della sovranità da questo terrore del popolo, indussero questi giovani a sostenere il carattere, che l’accidente gli dava, e vi si aggiunsero le persuasive ancora del conte Chatettieu, maggiordomo delle dette principesse reali, le quali promisero di spedire subito in Palermo per informare il sovrano e Ruffo. Bocchejamp e De Cesare vennero col carattere assunto d’incaricati di S. M, il re delle Due Sicilie per agire contro i nemici dello stato, e gli altri cinque Corsi partirono per Corfù per affrettare i Russi ed i Turchi a passare nel regno di Napoli; ma essi ebbero la disgrazia di essere predati in alto mare da’ Barbareschi, ed indi in fortuna di esame restituiti in libertà per le istanze del console inglese. Bocchejamp fu creduto fratello del re, e De Cesare, come si è detto, per il principe di Sassonia. Cominciarono i detti due individui a formare corpi di gente armata con artiglieria, per cui Bocchejamp e De Cesare a’ 27 febbraio si separarono.

Le masse, mentre sostenevano la causa del re, non lasciarono di produrre anche de’ mali, cosa inevitabile in quelle circostanze, stante lo spirito di rapina era unito al sostegno della causa del trono. Il vescovo di Potenza, monsignor Serao, o Sarao, il quale per le sue pastorali, di cui i vescovi furono anche obbligati a pubblicare, e per aver proclamato il governo repubblicano come il migliore, fu ucciso, e la sua testa portata, si vuole, sopra di un’asta in giro. L’arcivescovo di Taranto, monsignor D. Giuseppe Capecelatro di Morrone, che fu tassato di quattromila ducati da’ Corsi, come ha egli attestato, che ce li chiesero per mantenere le masse, avrebbe avuto lo stesso destino, se non scappava a Martina, ove fu accolto. Quando il detto paese fu preso dalle masse da’ due Corsi, egli era dentro Martina ((19)). Fu arrestato e condotto a Taranto, ove fu consegnato (per non farli aver male) a Bonafede Gerundia, uomo tenuto in conto dalla plebe, perché si suppose che monsignor regolasse i Martinesi nella difesa del paese.

Di questo accidente il benedettino D. Placido Gonzaga fu testimonio oculare, essendo in Taranto. Del resto, ecco ciò che si narra da monsignore sul conto de’ sopraddetti Corsi. Vi era in Puglia il conte Rossi, ch’era sotto la protezione degli Inglesi, come Corso. All’epoca della vicina occupazione de’ Francesi del regno di Napoli, il conte Rossi cercò di passare in Sicilia, per non trovarsi nel regno alla venula de’ Francesi. Monsignor Capecelatro, che aveva dato asilo in Taranto al conte Rossi, li diede i mezzi d’imbarco per farli trasferire in Sicilia. Il conte prevenne monsignore che in Puglia vi erano altri Corsi, tra quali alcuni di cattiva fama. Allorché si sparse nella Puglia che vi era sbarcato il principe ereditario, nell’epoca dell’occupazione del cardinale Ruffo, monsignore mostrò tutto il dubbio di tal comparsa del principe; venendo con tal carattere i detti Corsi a Taranto, conobbe quello tra essi che gli aveva designato il conte Rossi. Da questi ripetette monsignore in seguito tutte le sue disgrazie, lodandosi però di Bocchejamp, il quale trovato monsignore in Martina, quando Martina venne presa dalle masse (che i Corsi comandavano) Bocchejamp ricondusse a Taranto monsignore, che vi fu solennemente ricevuto, da dove quelli di Martina l’avevano chiamato per calmare il caldo de’ partiti ch’era tra i realisti ed i patriotti del paese.

Molti anni prima, per una festa del santo protettore di Taranto, monsignore si fece de’ nemici per riforme fatte in quella festa, che furono prese in contrario senso.

Oltre le giustizie descritte eseguite in Calabria (allorché vi era il cardinale) del figlio del marchese Lucifero e di Soriano, figlio di Donna Eleonora Riso, per l’affare del forte di Cotrona in cui erano, vi furono due altri giustiziati, e furono D. Pietro Malena, figlio del consigliere Malena, spedito in Calabria e preso a Corigliano col di lui segretario D. Paolino Marazzo, spedito il primo come commissario del potere esecutivo di Napoli per organizzare nelle Calabrie il governo repubblicano.


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Il governo repubblicano di Napoli insinuò ai vescovi, di esortare i popoli con pastorali alla sommissione delle leggi vigenti, ma le espressioni messe nelle pastorali potè rendere i vescovi rei innanzi al re; con effetto una delle dette (di monsignor della Torre) tale lo rese.

Poi sotto i Francesi nel 1806 fu vicario dell’arcivescovo di Napoli, come persona meritevole del partito. Una delle di lui pastorali fu delle velenose per il re, e si salvò della processura fuggendo con i Francesi quando evacuarono il regno di Napoli. Monsignor Capecelatro, al ritorno delle armi del re, fu carcerato e condotto in Napoli, ove fu posto in un forte della capitale. Fu costituito da alcuni giudici della giunta di stato, che il re creò per la punizione di coloro ch’erano considerati rei, alla quale monsignore con fermezza resistette anche caricandoli, perché tribunale non a lui competente, secondo i canoni della chiesa; colla pace di Firenze del 1800 fatta dalla corte di Napoli, dopo la battaglia di Marengo, con il governo francese, fu messo in libertà con tutti gli altri detenuti di stato, ma mai più ritornò nella sua sede arcivescovile.

Separato Bocchejamp da De Cesare, s’internò nella provincia di Lecce, e De Cesare in quella di Bari; e ciò anche perché avevano notizie che i Francesi si ponevano in marcia per dette provincie. Taranto, Acquaviva ed altri paesi furono da essi sottomessi, e si accingevano a sottomettere Altamura, che teneva per il partito repubblicano; ma la truppa francese e patriottica, uscita da Bari, ove era giunta, li determinò di andare all’incontro. La zuffa fu dalle due parti alternativamente vittoriosa e succombente, ma il cannone de’ Francesi spaventò le masse, per cui Bocchejamp, alli 7 del mese di aprile si fortificò in Brindisi, e De Cesare in Francavilla.

Brindisi fu attaccata da un vascello francese che vi si trovava, che cominciò a far fuoco dalla parte del castello, il quale in ricambio col suo fuoco fece molto male al legno. Corsero in aiuto de’ Francesi i Barlettani con paranze, e riuscì ad essi d’impadronirsi del castello e far prigioniere Bocchejamp il quale aveva poca gente e poche munizioni. Si vuole che Bocchejamp fosse stato ucciso, giacché di lui mai altro se ne seppe.

Dopo la metà di aprile tra Brindisi ed Otranto venne la flottiglia russa ed ottomana col cavaliere D. Antonio Micheraux, con le poche truppe di quelle potenze che sbarcarono; e per il di lui avvicinamento i Francesi che erano in Brindisi si ritirarono.

Intanto il cardinale Ruffo vicario del re, progrediva la sua marcia per approssimarsi ad Altamura, ed ordinò a De Cesare (locché fu verso la fine di aprile) che l’avesse raggiunto a Matera colla sua truppa per agire di concerto contro Altamura, ed infatti alli 7 di maggio arrivò De Cesare in Matera, non potendo per l'artiglieria sollecitare la marcia. Altamura a 12 di maggio era già in potere delle armi dei re, ma resistette con suo danno, poiché fu solennemente saccheggiata dalle masse, non rispettandosi né anche i monasteri delle religiose. I patriotti con i loro capi, primi di lasciare Altamura, che vedevano di non poter sostenere, fucilarono tutti quelli che tenevano nelle carceri come aderenti al partito del trono. Alcuno di questi si trovò ancora vivo nelle prigioni sotto i cadaveri allorché fu presa Altamura. De Cesare fu indi chiamato con la sua truppa in Manfredonia dal cavaliere Micheraux, ritornato in Puglia col resto del corpo russo destinato per il regno di Napoli, il qual corpo con i Turchi non oltrepassava di seicento persone. Fu chiamato De Cesare per unirsi alla forza russa, per sottomettersi Foggia, che fu tra le prime a mettere l’albero della libertà, e l’ultima a levarlo con altri paesi d’intorno.

Trani e Andria (che in parte fu flagellata dal conte di Ruvo figlio del duca d’Andria, e massime Trani, che molto soffrì, dal partito repubblicano) giacché si vuole che il partito borbonico di Trani, prima di entrarvi i Francesi, uccidessero fino al numero di 80 persone tutti quelli che erano carcerati come patriotti, e così fu anche in S. Severo, per cui entrati i Francesi con i patriotti in quei paesi i medesimi furono flagellati. La città di Altamura è su di un colle picciolissimo, ed è tutta cinta di mura; ha due porte, una dalla parte di Bari, e l’altra di Matera, ove si diede il fuoco, e da quella parte fu assalita dalle masse, e da quella di Bari i patriotti ne uscirono. Il tenente colonnello Palmieri ed il tenente colonnello Fresina, che fu ferito, furono in quell’azione.

La città aveva sette piccioli pezzi di cannone, parte messi alle due porte, e parte in qualche strada.

Allo sbarco del resto de’ Moscoviti in Manfredonia, i Polacchi al servizio francese, con piccioli corpi di cavalleria francese e patriotta ch’erano in Puglia, retrocederono prendendo la via di Campobasso e di Benevento. In quei luoghi questi repubblicani ebbero una rotta nelle vicinanze di Sepino da un corpo di masse comandalo da un certo Vincenzo Tedeschi di Sepino, che colla truppa di De Cesare inseguivano i Francesi. Micheraux si era portato a Montecalvello, vicino al ponte di Bovino, per unirsi alla colonna del cardinale, il quale aveva battuta la strada di Melfi, Ascoli e ponte di Bovino per giungere in Ariano, ove dal governo provvisorio di Napoli era spedito il maresciallo Federici per fortificare quel passaggio; ma all’arrivo delle armi del re, Federici n’era partito, perché mancante di mezzi a poter resistere, e non soccorso da Napoli; e quelle poche forze che le mandarono da Napoli non arrivarono che a Dentecane. Egli al ritorno delle armi del re fu decollato dappresso un consiglio di guerra subitaneo di generali. Questo uomo morì da eroe. La giustizia fu eseguita nella piazza interna di S. Barbara del castel Nuovo di Napoli. Prima di morire fece una predica alla truppa, esortandola ad essere obbediente alle leggi ed al re, dicendo, che per un momento di trasgressione di questi doveri, egli andava a morire. Non volle che il boia gli mettesse le mani addosso, e lui stesso alzò i capelli, aggiustando la sua testa sotto la mannaia. Il vice ammiraglio Soreguin Ruffa che era colla squadra russa nella rada di Napoli, disse all’autore della presente memoria che mai più di così e con tale fermezza aveva veduto morire. Il maresciallo Federici era un abile uffiziale di cavalleria, dotato di talenti, di coraggio, e coll’ornamento di varie lingue estere.

Il governo provvisorio di Napoli aveva già ideato di organizzare un esercito, come dal documento qui sotto trascritto ((20)), ed aveva destinato Federici per l’organizzazione della cavalleria.

Non essendosi trovata resistenza in Ariano, si proseguì la marcia per Napoli con i Moscoviti. De Cesare fu chiamato ad unirsi, e lasciò al comando di Benevento il tenente colonnello D. Luigi De Gambe. In Avellino, il cardinale fu nella necessità di mettere un entusiastico repubblicano, notano di professione, sotto il giudizio della giunta di stato ambulante, che portava dappresso, il di lui capo era D. Angelo di Fiore. Questo uomo volle per forza essere impiccato, come lo fu, perché non volle mai dare la voce di viva il re, dicendo di non riconoscere altre autorità che le costituite. Micheraux ed il cardinale non correvano gran cosa bene, ed in Avellino vi fu tra essi un forte mall’umore, per riguardo al piano di attacco della capitale.

Il signor De Cesare, che raggiunse a Nola il cardinale, ebbe la mortificazione di esserli tolto il comando, per cui nel giorno 13 di giugno, che le armi del re entrarono in Napoli, De Cesare era fuori dal caso di agire. Il commendatore Ruffo, fratello di Sua Eminenza, che faceva da ispettore generale dell’armata, mise il maggiore De Conciliis, antico uffiziale di cavalleria al comando del corpo di cavalleria mal montato di De Cesare, e tanto lui, che gli altri uffiziali, mal soffrivano di esser sotto al comando di uno straniero, e non di rango. Le masse però che comandava De Cesare ripugnarono di passare sotto altro comando, per cui il cardinale, temendo le conseguenze del mall’umore della gente, fu nella necessità di ridare il comando a De Cesare, dimostrando così che egli non diffidava di lui.

Tutta la truppa di Massa ed altro si divise in tre corpi per attaccare la città il giorno 13 giugno. Uno si diresse per la via Capodichino, un altro per le paludi al ponte della Maddalena, e la colonna del cardinale per la via de’ Catini, e venne giù per l’arso a Portici. Una porzione della medesima marciò verso Portici col commendatore Rullo, con una retroguardia che guardasse le spalle e garantisse le le operazioni, e l’altra si pose in cammino per il ponte della Maddalena, con il cardinale alla testa, onde attaccare in un tempo, colla colonna delle paludi, quella parte della capitale. Su questa strada che porta ai Granili del ponte della Maddalena, vi è un fortino denominato Vigliena, che i patriotti minarono, ed in fatti verso mezz’ora di notte saltò del medesimo una gran parte in aria. I patriotti uscirono da’ castelli di Napoli per battere il cardinale, alla testa de’ quali vi era D. Giuseppe Virtz, ma i Francesi ch’erano in Sant’Elmo, in numero di 900 circa, sotto il comando del generale Mejan, non si mossero da Sant’Elmo. Le lance cannoniere, comandate dal cavaliere di marina Caracciolo ((21)), di cui si è parlato nel principio di questo scritto, il quale dopo essersi battuto cogl’Inglesi a Procida, venne a far fuoco sulla colonna del cardinale, per cui poi d ’appresso un consiglio di guerra, essendo stato preso, fu impiccato sull'antenna di una fregata napoletana. Tutta la gente che attaccò Napoli, il di cui popolo era disposto per la causa del re, non oltre passava i cinque o sei mila uomini inclusi i Russi e Turchi. Poca truppa di linea in quest’armata collettizia; oltre il reggimento di Calabria, cominciato ad organizzarsi dalla Punta del Pezzo, principio della spedizione di Sua Eminenza il cardinale, non vi era altro di truppe di linea, che due compagnie che raggiunsero in Ariano il cardinale, condotte dal tenente colonnello D. Scipione La Marra, che con questa gente fu da Palermo spedito; egli ebbe subito il grado di colonnello, per essere protetto dalla regina. Furono anche mandati altri militari, notati in Calabria con Ciccone, dopo i primi tempi della spedizione.

L’azione al ponte della Maddalena non fu di molta durata, poiché i patriotti ebbero a fronte la colonna del cardinale e di fianco quella che marciò per le Paludi; ed essendo stato ferito Virtz che li comandava, in modo che non potè più agire, si ritirarono i patriotti e si chiusero ne’ castelli. I Lancioni di Caracciolo, che facevano fuoco, anche si allontanarono, perché i patriotti si erano ritirati; onde si rimase padrone di tutto il campo de’ Granili, e del ponte della Maddalena. Il popolo di Napoli, messo su e da propria disposizione e da occulta mano, si vidde subito armato; e siccome la ragiono è sempre maggiore dell’azione, si scagliò furiosamente sopra tutti quelli del partito francese, o creduti tali, giacché allorché i Francesi vennero avanti della capitale nel gennaio, il partito repubblicano, come sta scritto, diede addosso del popolo per facilitare ai Francesi l’entrata in Napoli.

L’indolenza di varii di quelli del governo provvisorio, e la loro cecità era tale, che appena crederono che il cardinale fosse al ponte della Maddalena.

Il governo provvisorio si teneva nel palazzo reale, e mentre il cardinale era giunto al ponte, alcuno di essi si trovava in palazzo, non credendo la venuta dell’armata collettizia del re e disprezzandola; cosicché quando intesero la sconfitta de’ patriotti al ponte pensarono di salvarsi, e la sorpresa di essi fu tale che non imaginarono di brucciare tutte le carte che erano in palazzo, o che non lo facessero ad arte per compromettere tutti, e per il numero salvarsi, onde caddero in potere del governo del re, per cui si seppero i compromessi. La mattina del giorno 13, poiché la truppa del re non arrivò che il giorno in faccia della città, il governo provvisorio fece fucilare alcuni di cognome Baccher, perché trovati e coperti organizzatori di una congiura contro il governo repubblicano di allora. I Baccher conoscevano una signora di casa San Felice. Ella del pari era frequentata da Don Vincenzo Coco, e si vuole che con questo vi ci era un’amicizia di cuore (questo Coco è l’autore dell’istoria della Rivoluzione di Napoli, morto poi pazzo). I Baccher confidarono alla San Felice il segreto della congiura ordita, e la consigliarono di nascondersi per la data giornata, in cui dovea scoppiare. Ella confidò all’amante il segreto, il quale andò a rivelarlo al governo provvisorio. Chiamata la San Felice, fu obbligata di rivelare le persone che le avevano svelato l’arcano, ed ecco, che conosciuti i Baccher per autori, li fece il governo fucilare. Tornate le armi del re in Napoli, il padre de’ Baccher reclamò giustizia, per cui la San Felice fu presa, e sventuratamente decapitata.

Quella infelice, saputa la condanna di morte data dalla giunta di stato, manifestò di essere gravida, e datosi parte di ciò alla corte di Palermo, venne l’ordine di essere trasferita a Palermo per verificarsi la gravidanza. Passata l’epoca che dovea partorire, il che non avvenne, fu rimandata in Napoli, coll’ordine di eseguirsi la sentenza. Era allora in Napoli per luogotenente del regno il principe del Cassero siciliano, il quale, fin da dicembre del 99, aveva rimpiazzato il cardinale in questo posto, che ai 4 di novembre del 99, dopo una gran serata che diede per il nome di San Carlo, nome della regina, partì per Venezia per il conclavo che in quella città si tenne per l’elezione del nuovo pontefice. Era il mese di luglio o agosto del 1800, quando quest’infelice donna giunse in Napoli, portando il legno istesso la notizia uffiziale di un erede del trono, che aveva dato alla luce la principessa ereditaria d’Austria.

Si pretende che la principessa, sgravata, nell’entrare il re nella di lei camera, gli avesse chiesto una grazia e che il re li rispondesse: «tutto, eccetto la grazia della San Felice ((22)).» La giustizia fu fatta eseguire sollecitamente dal principe del Cassero, e l’esecutore di quella vittima era tanto mal pratico, che pubblicamente si disse, che la mannaia la colpì in una spalla, invece di troncarli la testa, per cui si dovette ricorrere a scannarla. Vi fu pure altra donna impiccata dalla giunta di stato, e questa fu la Piemmental Fonseca. Costei faceva il foglio repubblicano, e dal la sua penna scaturiva orrore contro il governo cessato del re. In quel giorno che ella fu impiccata, vennero altri quattro con lei eseguiti, uno de’ quali fu il vescovo di casa Natale, ed i due Piatti negozianti; del quinto non si sovviene.

Il vescovo Natale, vescovo di Vico, per quelle solite pastorali piene di veleno, fu giustiziato dalla giunta di stato. Egli si era nascosto nella piazza di Capua, e quando fu resa la stessa, monsignore uscì con i Francesi travestito in abiti villani; ma siccome fu riconosciuto, fu subito preso e condotto in Napoli e sottoposto alla giunta, dalla quale venne fatto impiccare.

Vi sono delle circostanze nella vita talmente imponenti, che sono superiori ad ogni sentimento. L’esempio del marchese D. Michele De Curtis ne è una prova. Si racconta, che all’entrata de’ Francesi in Napoli egli si rifugiò in Ischia, o Procida, dove era già governatore di quell’isola. Si raccomandò al parroco del luogo perché gli avesse facilitato il mezzo di fuggire. Il parroco lo provvide di un legno (servizio rilevantissimo in quell’epoca) col quale si trasferì De Curtis in Sicilia. Alla caduta della repubblica napoletana, le isole del Cratere di Napoli furono le prime che vennero in potere degli Inglesi. La corte mandò De Curtis in quell’isola con altri per processare i nemici del re; il parroco suo benefattore fu carcerato, e De Curtis fu nella dura necessità di farlo condannare a morte.

Il dì 14 giugno si fu sull’orlo di vedere sventata là presa di Napoli. Una colonna di circa mille persone di Veterani e Camisciotti, con uffiziali (tra i detti uffiziali vi è chi vide un certo Cossia e Pignalver prima del reggimento Re fanteria), comandala da Schipani, anche militare, ed aiutante generale al servizio della repubblica, di nome Giuseppe (si crede) provenienti da’ contorni di Castellamare. S’incamminò verso Resina per pigliare alle spalle il cardinale, mentre di fronte sarebbe stato attaccato di nuovo da’ patriotti, e forse da’ Francesi di Santo Elmo. Schipani aveva più pezzi di artiglieria, ed aveva battuti tutti i posti avvanzati di masse che erano posti sulla strada che conduce alla Torre. Il comandante D. Ciccio Ruffo, che come si è scritto, prese il suo quartiere in Portici, e propriamente nel palazzo reale, immediatamente mandò dal cardinale al ponte della Maddalena per aver rinforzi. Furono spedite dal cardinale le truppe russe, cioè una parte di essi e varii de’ corpi di massa, tra quali vi erano parte di quelli che aveva formato il marchese della Schiava, ed a sue spese, alla Schiava ed a Nola. La truppa di Schipani vedendo i Russi si sbalordì, perché credettero quel corpo di forza maggiore di quello che era. Vi fu del fuoco dalla colonna di Schipani, ma i Russi con la baionetta assaltarono l’artiglieria della colonna di Schipani, la presero e parte fu sbaragliata e parte rimasta sul terreno. L’azione fu terminata con la presa del loro eomandante Schipani, che venne fucilato.

Il quartier generale di tutta l’armata del cardinale rimase ai Granili, ove si stette fino che i forti di Napoli e Sant’Elmo non furono resi.

Il giovine comandante della squadra di artiglieria. Castellano, ebbe il modo di uscire da Napoli, nell'epoca della repubblica, e di presentarsi al cavaliere D. Antonio Micheraux, che, come commissario generale del re, avea sbarcati in Manfredonia quei pochi Russi, che furono spediti da Corfù per la causa del re. Castellano con lettere commendatizie si presentò a Micheraux in Ariano di Puglia, ove attendeva con i Russi l’arrivo della colonna del cardinal Ruffo: conoscendo dunque da vicino il detto giovane Castellano, che seguì la marcia con i Russi, lo presentò al cardinale al ponte della Maddalena, come persona atta a servire in quelle circostanze utilmente, ed il porporato gli diede subito l’incarico degli assedi de’ forti della capitale, non che di Santo Elmo, come dallo stesso venne eseguito, costruendosi batterie per battere il castello Nuovo e dell’Ovo a Visita Poveri nella piazza di Porto, Porta di Massa alla strada Nuova, ed in altri siti contro i detti castelli, e palazzo reale, ove vi erano rinchiusi i patriotti che communicavano col castello Nuovo. Quello del Carmine fu subito preso il di 14 giugno. Si piazzarono per la resa di Sant’Elmo batterie ne’ siti delle Pesche, altra da Sinna, Cangiani, Belvedere, e Due Porte, e dopo più giorni di non interrotto fuoco, Sant’Elmo si rese, avendo avuto il giovane Castellano il piacere, durante l’assedio, di spezzare con una bomba l’asta della bandiera tricolorata che aveva Sant’Elmo, il che avvenne nell’atto che il re diede fondo nella rada di Napoli; quando ai 3 di luglio entrò nella detta sul vascello di Nelson, circostanza che da S. M. si cercò della di lui persona e per ordine della M. S., per organo dello stato maggiore conte Ventimiglia, ebbe ordine di passare subito ad assediare la piazza di Capua che da 40 giorni circa era bloccata dalle masse, che con altri capi comandava il duca di Rocca Romana; ed infatti la piazza di Capua ove comandava Girardo generale, si rese dopo pochi giorni di vivo fuoco, e la guarnigione fu trasferita in Napoli ed imbarcata per Francia come quella di Sant’Elmo. Il cardinale, come si dirà in appresso, entrò in città dopo la resa de’ forti, ma si portò prima nella chiesa del Carmine a ringraziare il signore per la impresa riuscita.

Il sito de’ Granili e la città furono luoghi di strage; il popolo si diede ad ogni licenza, e tutte le persone, tra le altre che non avevano il codino cadevano sotto i suoi colpi come giacobini. La gente che veniva presa da esso veniva portata ai Granili per essere in quel luogo detenuta, ma ne’ primi giorni vani non potevano sopravvivere agli strazii che nel condurli il popolo faceva soffrire. La maggior parte di essa veniva portata in camicia, altri coperti, altri crivellati di ferite, vedendosi varii di questi infelici con gli occhi cavati, orecchie tagliate, ed infine martirizzati. Il giorno 14 giugno si fecero venire de’ carrettoni per togliere lunga la strada de’ Granili i cadaveri che vi erano. Il giorno 15 giugno, giorno di festa, essendo andato il cardinale a sentire la messa in una cappelluccia che si trovava alla fine di quel casamento ch'è rimpetto ai Granili, nell’uscire dalla chiesa (essendo l’ora della prima mattina), si avvide che il popolo, sostenuto da gente delle masse, tutti armati, portavano una catena di gente arrestata, che già per le ferite erano tutti sfregiati; non potè resistere a tal veduta, e fece un’arringa al popolo per ammonirlo, dicendo che competeva di punire i rei alla giunta di stato, e non ad esso; in risposta, sotto gli occhi suoi, li fucilarono. Lo stesso arrivò in Calabria, ove rimproverando un tale dissimile attentato, questi gli rispose che si vedeva bene che non era attaccato alla causa del re; indi uccise la persona avanti del cardinale medesimo. L’aiutante reale che raggiunse Sua Eminenza il vicario del re a Poggio Orsino (luogo vicino alla città di Gravina), dopo la commissione eseguita in Messina della consegna de’ tre uffiziali al generale Danero governatore di quella città, che si trovò il detto, aiutante all’attacco di Napoli, ha riferito all’autore di questo scritto l’aneddoto narrato, di cui fu testimonio.

La città era deserta nelle strade ma popolata nelle case, stanteché il popolo colle masse salivano dappertutto per saccheggiarle, e si vedeva da’ balconi gettar la roba in istrada. Le sevizie furono grandi che commise il popolo e le masse! Vi è chi perfino ha veduto arrostire la carne umana della gente che uccideva quell’orda di cannibali, mossa anche forse da mano occulta, ed ha veduto nella strada de’ Ventaglieri inchiodati al muro de’ membri umani, trasportandosi il popolo a tali eccessi di brutalità.

Il tenente colonnello esente ora delle guardie del corpo, sig. Zattera, ha detto di aver lui veduto che nel terzo o quarto giorno che il cardinale era al Ponte (giorni de’ maggiori furori), mentre si erano fatte delle pattuglie per Napoli, miste di ufficiali dell’antico esercito che si erano uniti per la tranquillità della città, domandare dal popolo e masse avanti la casa di Angri a Toledo, all’uffiziale Buemont, ch’era alla testa di una pattuglia, uno dei detti uffiziali ch’era nella sua pattuglia; e per quanto Buemont facesse per non rilasciarlo, promettendo di portarlo al Ponte dal cardinale, essi lo vollero nelle mani e lo fecero in pezzi. Si rileva che il popolo teneva marcati tutti quelli che si erano sognatati nel zelo repubblicano in tempo della breve repubblica di Napoli, poiché il maestro di scherma De Marco innanzi al Mercatello fu preso al ritorno delle armi, strascinato ed indi tagliatole la testa dal collo, si faceva sdrucciolare per la calata di Montoliveto per ischerno. Costui aveva tolta la testa alla statua del re Carlo III Borbone ch’era nel centro della piazza del Mercatello. Un altro uffiziale di nome Costa, giovanetto, fu anche ucciso e laceratole con i denti il cuore, al che il cardinale entrò in Napoli a cavallo per arringare la sfrenata turba per questi orrori che commetteva.

Il fuoco che faceva S. Elmo sopra la città, che non fu mai fatto per rovinarla, non fu d’impedimento né alle sevizie, né alla rapina, e da’ balconi delle case per lo più si tiravano delle fucilate.


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La casa del principe di Stigliano Colonna a Toledo, fu in pochi minuti da cima in fondo saccheggiata. Il figlio del detto principe D. Giuliano con altri patriotti, s’eran rinchiusi in essa con la famiglia, e dai balconi del palazzo, avendo qualche piccolo cannoncino, l’usarono contro del popolo e delle masse ch’erano sbaragliate per la città, ed assalirono subito la casa.

La famiglia tutta di Stigliano scappò per dietro il palazzo, ed il principe di Stigliano venne ai Granili a rifugiarsi, e non avendo altro che gli abiti che aveva indosso, perché tutto fu saccheggiato.

D. Giuliano Colonna, che fu preso, venne decollato.

Gli ordini del cardinale per frenare le sevizie delle masse e del popolo non erano rispettate, e ne’ Granili vennero chiusi più di migliaia di persone, che poi furono poste sotto la giunta di stato.

La giunta fu creata all’istante, ma da lì a poco cambiata d’individui, e nella quale vi furono tre giudici siciliani, uno de’ quali denominato Speciale, che passò per una tigre colla figura umana. Costui poi è morto in Palermo pazzo. Damiani e Sambuto furono i nomi dei due altri.

Il castello del Carmine, non difficile a prendersi, fu presto preso. Nell’entrare in detto castello, le masse ed i Turchi vi si commisero delle stragi, e fu una pura fortuna che si salvassero gli ostaggi che vi erano tenuti da’ patriotti. Fra questi vi era un figlio del duca di Gravina Orsini.

I castelli Nuovo e dell’Ovo furono del pari attaccati, e quello dell’Ovo veniva anche battuto dai legni inglesi ch’erano in mare; ma dopo alquanti. giorni si resero.

Il cardinale Ruffo, non avendo molta forza regolare, aderì ad una capitolazione per evitare che Napoli fosse stata rovinata dalla disperazione dei patriotti che vi erano dentro, quando non ci fosse stato per essi quartiere, e per evitare effusione di sangue.

A quest’epoca il cardinale aveva il piccolo corpo russo, e da 90 Turchi. Del resto la forza del cardinale vicario era quasi tutta massa, eccetto il reggimento Reali Calabresi cominciato alla Punta del Pezzo in Calabria, di cui ne fu colonnello poi un antico uffiziale di milizie di nome De Settis. Esso era composto di veterani la più parte; due compagnie di granatieri portate da Palermo, come fu detto, dal colonnello La Marra, poi brigadiere morto. La massa non aveva unità. La divisione, in compagnie di cacciatori di queste masse, la cavalleria e l’artiglieria, abbenché avessero questi nomi, non esistevano legate come le truppe regolari, poiché scossi si avevano quattro mila uomini; in realtà l’indomani ve n’erano tre mila, onde la forza alzava e calava a vicenda. La cavalleria, abbenché di veterani, erano uomini a cavallo mancanti di tutto, e perciò mal montata e senza uniforme. Il reggimento Reali Calabresi alla Punta del Pezzo fu vestito di pantalone e saracca d’arbace ed armati di fucili; era la forza regolare, oltre l’estera, di poche centinaia di Russi e di 90 Turchi; stante la restante senz’uniformità, ché non si poteva altrimenti avere in quell’epoca, non aveva freno, ed in faccia a truppe non poteva imporre.

Da questo succinto dettaglio della forza del cardinale, si rileva che la moltitudine non giova quando non vi è unità né disciplina. Ma l’impresa riuscì, 'perché i Francesi ed i patriotti, per far fronte al popolo contrario ed alle forze del cardinale, erano pochi.

D. Nioola Macedonio aveva mandato al cardinale armi e uomini da Reggio. Massa che venne al Fonte per trattare col cardinale una capitolazione, essendo poi eseguito colla morte, avanti di morire si assicura che disse al religioso che l’assistette, prendendo in mano il crocifisso, disse: io ho voluto per la capitolazione la segnatura de' capi delle truppe estere e di Tubrige, perché non prestavano fede al governo di Napoli, e non ostante non è bastato, stanteché vado a morte, non ostante la signatura della capitolazione di quattro potenze estere, cioè delle rappresentanti.

Venne al ponte della Maddalena, per trattare di quest’oggetto col cardinale, il generale Massa con un giovine di cognome Pulli ((23)). Massa era un antico uffiziale d’artiglieria e capitano al servizio del re, e venne in seguito eseguito. Pulii era Un paesano patriotta, bollente per la causa della libertà. Il generale Massa comandava il castel Nuovo, giacché D. Giuseppe Virtz, d’appresso la ferita avuta nell’attacco al Ponte il giorno 13 giugno se ne morì. 'Si dice che morisse incoraggiando i patriotti a resistere. Egli, indispettito della riforma che ebbero i reggimenti svizzeri, riforma che accadde nell’esercito di Napoli nel 1788 con la venuta del generale Satis al servizio del re, rimase attrassato; giacché se la riforma non aveva luogo, sarebbe stato il colonnello di uno di quei reggimenti svizzeri, per cui prese un partito accanito a favore del governo repubblicano. Qui appresso si trascrive la capitolazione della resa de castelli indicati ((24)).

In quei giorni Napoli era un sito di orrore. Indistintamente uomini, donne e ragazzi che avevano la testa tosata, erano presi dal popolo e dalle masse, e condotti ai Granili in mezzo alle ingiurie ed alle sevizie.

La marchesa Patrizii con la sua bella figlia, moglie, separala dal figlio, del barone Cugino suo marito, fu presa, spogliata nuda, e così condotta per strada. Dalle loro case si fece fuoco sulle masse, e perciò vi salirono e le presero. La contessa di Sa ponara anche fu insultata; ma varie persone distinte furono dal popolo portate ai Granili, tra le quali non solo il marchese Gonzano Marino, padre di un unico figlio che fu decollato, con Riario Pignatelli Strongoli, e vi fu tra i presi anche il conte di Carinola Grillo in camicia portato e ferito, non che altre moltissime persone di minor nome, ed anche di donne.

L’Assalonna fu presa e tolta di casa in camiciai e fu anch’essa menata dal popolo. La duchessa di Monteleone che fuggiva da Napoli per trasferirsi alla Barra, non ostante munita di un biglietto di sicurezza del cardinale, fu vilipesa sul ponte della Maddalena dal popolo. Ella era madre del duca di Monteleone Pignatelli, marchese del Vaglio, che era stato del governo provvisorio, eche poi nella causa che si fece contro quelli della città, fu condannato a morte, ma poi venne dal re graziato In sequela della trascritta capitolazione, tutti i patriotti ch’erano nei due forti che capitolarono furono imbarcati su due polacche, che secondo la capitolazione furono prese per trasferirli in Francia. Due legni, uno da Castellamare ed altro, fecero vela , un’altra spedizione non era ancor partita, quando capitò, ai 3 di luglio, nella rada di Napoli con la sua squadra, l’ammiraglio Nelson, il quale disapprovò la capitolazione e l’annullò. Egli assunse per motivo che le capitolazioni hanno luogo con i governi riconosciuti, ma non mai con ribelli, come appunto riguardava tutti quelli che avevano prese le armi contro la causa del re per sostenere il governo repubblicano.

Il cardinal Ruffo con ragione si determinò cogli altri comandanti collegati a fare la capitolazione per trovarsi con poca forza e non tutta truppa regolare. Dal Nelson venne la detta capitolazione distrutta (pel motivo che Nelson adduceva, che non era ricevuto di trattarsi con ribelli come si tratta con governi riconosciuti), né potè il cardinale indurre Nelson a fare diversamente. Diceva il cardinale a Nelson, che quante volte esso non dava quartiere a’ patriotti, costoro avrebbero perduta la città, giacché avrebbero alla disperata potuto fare saltare in aria il castel Nuovo; e propose a Nelson che poiché non voleva accettare la capitolazione fatta, di rimettere i patriotti ne’ forti colle armi, e fare l’assedio in regola de’ forti colla sua gente, onde non comparire spergiuro. Ma niente valse, e tutti quelli che erano stati imbarcati per trasferirli in Francia, furono sottoposti alla giunta di stato, e parte giustiziati.

Tra questi detenuti vi fu D. Domenico Cirillo medico conosciutissimo: si vuole che trovandosi Nelson indisposto lo fece venire a bordo, e li promise di portarlo in Inghilterra, quante volte avesse egli implorata la clemenza del re. Si dà per certo, che ad onta di essere giustiziato, se non annuiva al consiglio di Nelson, egli ricusò di ricorrere al re ((25)). Infatti il giorno 14 giugno i patriotti che erano al castello dell’Ovo, e Nuovo, coll’intelligenza de’ Francesi in S. Elmo, o S. Eremo, si proposero di far di notte una sortita (mentre da Schipani si attaccava Resina), ma la truppa del cardinale che fortunatamente, mercé le truppe russe, riuscì, battette la forza di Schipani. La sortita dei patriotti nella notte, non ebbe effetto. Al Mercatello vi era parte della forza del cardinale, tìhe stette perciò sulle armi per opporsi a questa dubitata sortita; altra pure fu fallita in appresso. Una bomba proveniente da mortali che dal cardinale, per battere il castel Nuovo, erano stati situati sull’Immacolatella, cadde nel mezzo della forza patriottica del castello suddetto, preparata alla sortita, per cui furono sbigottiti, ed i Francesi che erano usciti in parte da S. Eramo, ed arrivati alla Madonna dei Sette Dolori, col tamburro battente, per sostenere la sortita, si ritirarono di nuovo in S. Eramo non vedendo con segnati eseguita la sortita dei patriotti, sconcertati dalla caduta della bomba. Ecco su di ciò quanto si disse.

Dippiù emanò Nelson il seguente ordine da bordo del Foudroyant il 29 giugno 1799.

Orazio lord Nelson, ammiraglio della flotta brittannica nella rada di Napoli, a tutti quelli che hanno servito da uffiziali e nel militare o nel civile l’infame repubblica napoletana, se nel termine di 24 ore per quelli che stanno nella città di Napoli, e di 48 per quelli che stanno nelle vicinanze di cinque miglia dalla città, non si rendano ai comandanti del castel Nuovo o del castel dell’Ovo alla clemenza di S. M. Siciliana, saranno considerati da lord Nelson come ancora ribelli di detta S. M. Siciliana. —Nelson.

La corte ebbe in mano tutte le carte della sala patriottica che era tenuta all’accademia de’ cavalieri alla casa sita alla Calata di S. Lucia. Quando le ai mi del re pervennero al ponte della Maddalena, e che in conseguenza del loro arrivo si trattò dai patriotti ch’erano nel castello Nuovo di capitolare, vi fu tra essi chi propose di togliere dalla Sala patriottica i registri e tutte le carte in essa esistente, per togliere dalle mani del governo la materia di una persecuzione. Salfi, patriotto, fu di avviso di lasciarle, poiché esso diceva che se fossero stati costanti, si dovevano chiudere con essi nel castello, e che non avendo ciò fatto, conveniva lasciarli alla persecuzione, giacché con le giustizie che avrebbe praticate, la corte avrebbe aumentato il numero de’ loro aderenti, per l’odio che le giustizie eccitavano contro la corte per il numero de’ parenti di tanti compromessi puniti, ed essi ritornando in Napoli, come di ciò si lusingavano, più aderenti vi avrebbero trovati; altri furono di avviso contrario il che diede luogo tra essi ad una lotta che fini con le armi, e nel qual conflitto varii rimasero feriti, fra i quali D. Peppino Demarco, e Costanzo, morto poi maresciallo di campo fatto dai Francesi quando vennero nel 1806.

Il sentimento però di Salfi prevalse; le carte furono lasciate, ed oltre a queste rimasero anche in parte o in tutto quelle del governo provvisorio che si teneva nel real palazzo. Il marchese di Montrone era tra i patriotti del castello Nuovo. Tra il castello ed il palazzo vi era comunicazione.

Di queste carte si tirarono delle stampe. Varii si andarono a presentate in forza di questo manifesto, e tra i militari vi fu il brigadiere Pignatelli di Marsico, militare che nella corta campagna del 1798 con i Francesi, riportò nella faccia una ferita di sciabola. Sembra che si cacciò quest’ordine assolutamente per conoscere tutti quelli che si erano impiegati nel breve tempo del governo repubblicano (poiché vi fu alcuno, di cui si tace il nome, tra i. militari che i suoi parenti furono avvertiti da miledi Hamilton ch’era con Nelson, di non mandarlo a fare nei castelli questa dichiarazione). Infatti il brigadiere Pignatelli sopra indicato, che già al Ponte si era anche presentato al cardinale vicario, fu carcerato e posto sotto consiglio di guerra subitaneo, in cui ebbe un voto di morte; ma siccome non erano veri tutti i carichi a lui dati, la condanna fu di cinque anni di castello, e la perdite dell’uniforme. Nel sapere Pignatelli il voto di morte, fu colpito; ne prese una malattia, che in pochi giorni lo levò di vite. Chi si trovò presente quando Pignatelli si presentò al Ponte, al cardinale, narra la seguente circostanza.

Vi era il duca della Salandra presente, pel quale il cardinale avea l’ordine del re di darli il comando di capitan generale dell’armata. Vedendo Pignatelli Salandra, chiamò a parte l’aiutante reale del cardinale, e gli disse ch’era necessario avvertire il cardinale di ciò che avea oprato Pignatelli in tempo della repubblica contro del re. L’aiutante ripugnò, ed aggiunse ch’era regolare che esso l’avesse fatto presente che fu testimonio delle operazioni di Marsico, e non già egli che non era stato in Napoli. Il duca della Salandra denunciò Pignatelli al cardinale: si sa che Marsico, in tempo della repubblica, era sovente la sera in casa della Salandra, e non fu amichevolmente ricambiato.

Il 99 fece perdere varii uomini di distinti talenti e dottrina, tra i quali vi fu Mario Pagano, Conforte teologo di corte, Cirillo ed altri, che a corpo perduto presero impiego nella repubblica.

Il gran compositore di musica Cimarosa, fu esiliato da Napoli e morì in Francia, e D. Luigi Serio improvvisatore di grido, sparve: fu creduto ucciso al ponte della Maddalena tra i patriotti, nell’azione che ebbe luogo il 13 giugno. Gli altri perirono sotto la mannaia, fucilati ed impiccati, come appunto lo fu Massa con cui si era fatta la capitolazione.

Parve che la condotta di Nelson fosse piena di animosità verso i Napolitani delinquenti. Da varii motivi poteva essere animata, Miledi Hamilton, moglie del ministro inglese, chiamata Emma, fu in parte lo strumento distruttore. Ella era molto conosciuta. I Napolitani sapevano la sua vita prima che fosse stata moglie del ministro, e tutte queste cose erano state dette con acrimonia. Senza distendersi, basta dire che si sapeva che questa bella donna aveva fatto di modello di nudo nelle scuole di disegno. Ella era l’amica di Nelson, ed oltre a questo, Caracciolo ed i Napolitani si erano battuti cogli Inglesi ad Ischia e Procida.

Essa è da pochi anni morta nella miseria ed oberata di debiti, vedova del ministro. Se non si equivoca, la di lei morte è nel periodo del 1810 al 1820.

L’odio di Acton, ma quello della regina era giustificato per le villanie ingiuriose che si stamparono contro di loro in quel tempo di sfrenatezza. Basta leggere un sol pezzo di quell’epoca per aver idea del cuneo di tutto quello che usciva dalla penna. L’arringa di Giuseppe Lagoteta, membro del governo provvisorio di Napoli ai popoli delle Calabrie, che per decenza si tace, è uno squarcio infernale di quell’epoca di furore. Lagoteta fu poi fatto impiccare dalla giunta di stato.

Lo zelo del duca della Salandra per lo servizio che credeva di rendere al re, non impedì però la sua disgrazia. Il sovrano aveva disposto che il cardinale vicario prendendo Napoli, avesse rimesso D. Giuseppe Zurlo nell’impiego di direttore delle finanze (che come si è letto, già aveva quando il re partì da Napoli), ed il duca della Salandra, a cui Mack aveva depositato il comando delle truppe, si fosse conferito il comando di capitan generale, e ne ebbe una lettera dal cardinale, al suo arrivo, e fu destinato al comando dell’assedio del forte di Santo Elmo (che si teneva da’ Francesi), comandato da Mejan. La di cui capitolazione è qui in fine annessa ((26)). Durante l’assedio, l’aiutante reale di Sua Eminenza andava tutte le mattine al assedio, onde osservare e prendere quelle notizie che la circostanza poteva fare arrivare. Faceva da ministro della guerra il fratello del cardinale, signor commendatore D. Ciccio Ruffo, che stava al picciolo quartiere, accosto ai Granili, ove il vicario eminentissimo era passato a dimorare avendolo fatto suo quartier generale.

Una mattina Salandra, durante l’assedio, commise all’aiutante reale di Sua Eminenza di avvertirlo, che era contornato di gente equivoca e giacobina, e tra questi nominò il colonnello attuale Brocchetti, allora semplice uffiziale, ed un altro di cognome Pieri che D. Ciccio Ruffo, per gli affari della guerra, si teneva presso di sé (come pure teneva il calabrese D. Giovanni Battista Rodio ((27)); era anche della relazione del cardinale, ed il monaco S. Severino messo ancora tra le persone equivoche.

L’aiutante marchese Malaspina stimò di confidare a D. Ciccio Ruffo, quanto il duca di Salandra gli aveva comunicato; ebbe in ricambio la commissione di ridire al duca, che si ricordasse quanto aveva egli operato nell’epoca della repubblica; che si ricordasse aver fatta premura di organizzare gli Apruzzi per la difesa del regno, e di andare a Parigi, come vi andò il principe d’Angri, per far riconoscere dal direttorio il nuovo governo di Napoli.

Ciò che vi è di certo che il duca della Salandra, non molto dopo la caduta del forte di Sant’Elmo, per disposizione della corte fu destinato, con sorpresa di tutti, di andare a comandare in Sicilia la piazza di Trapani. I suoi impegni gli fecero ottenere di passare in Palermo, ov’era il re (avanti di andare in Trapani), ed in Palermo gli fu cambiato il destino, rimanendo comandante delle armi di Palermo, ma non fu capitan generale. Salandra impallidì, quando il sopraddetto Malaspina gli comunicò i carichi che se gli addossavano, ma si possedé e negò la cosa.

Intanto Acton era col re a bordo nella rada di Napoli, e per togliere D. Ciccio Ruffo che disponeva di tutto (da vicino al vicario fratello), per ordine di S. M. fu spedito a Palermo per dare le notizia alla regina della resa di Sant’Elmo, che fu agli 11 di luglio; né venne più in Napoli, durante la dimora di suo fratello cardinale. Egli vi ritornò nell’epoca del signor principe del Cassero, spedito in Napoli in luogo di Ruffo, che partì ai 4 novembre 1799, per il conclave che si tenne in Venezia per l’elezione del nuovo pontefice, perché morto in Francia Pio VI. D. Ciccio Ruffo ebbe dal re una pensione di 3,000 ducati annui, il grado di colonnello, mentre era un capitano ritirato, e fu fatto maggiordomo di settimana.

Intanto tutte le masse de’ luoghi vicini alla capitale, ed anche quelli de’ luoghi lontani, sentendo caduta la città, vennero ad invaderla, che tale si può chiamare il loro sbocco in Napoli, per saccheggiarla; ed infatti il saccheggio durò per più giorni, giacché quante persone con i capelli tosati venivano arrestati dalle masse col popolo, in quei terribili giorni di vendetta, anarchia e di rapina; e le loro persone e case erano spagliate, e gl’individui (non trucidati) condotti al ponte della Maddalena e messi ne’ Granili, ove ne rinchiusero delle migliaia.

Dopo la resa di Sant’Elmo, il cardinale levò il suo quartiere dal ponte ed entrò in città. Sulle prime, si rese alla casa di Bagnara. al Mercatello, e quando fu accomodato il palazzo reale, passò nelle stesso. Allora fu che per dare un sistema alla collettizia armata, quarteriata in varii siti; e pel di loro diario mantenimento, si mise da Sua Eminenza, ed indi dal re, il di lui aiutante, marchese D. Filippo Malaspina, come un intendente dell’esercito, che fu pure premiato e promosso per vigilare sull’economia e mantenimento dell’armata, inclusi i Russi: ecco il dispaccio ed i documenti ((28)).

Indi si cominciò a formare l’esercito di linea; questo incarico durò a tutto marzo 1800, època nella quale già le masse erano licenziate, e che di mano in mano partivano, e la di cui spesa pesava, éd a mi stirasi organizzavano i corpi di linea reggimentali.

Restavano le piazze di Gaeta, Capua e Pescara, tenute le prime da’ Francesi, e la terza da’ patriotti e militari, ove dentro vi era il conte di Ruvo, figlio del duca d’Andria, Carafa, che fu poi giustiziato e che tanto danneggio fece ad Andria suo paese di cui si è parlato.

Sotto Capua vi era un corpo di Massa col duca Rocca Romana Caracciolo che teneva bloccata la piazza dalla parte di Roma, ma dovette scappare.

Il duca Rocca Romana già brigadiere nella cavalleria Re fu perciò perdonato, e la sua persona ed i suoi beni niente soffrirono, ma soltanto perdè il cingolo militare, né mai più fu ammesso a servire nella truppa sotto il governo di Ferdinando fino all’epoca (e molto dopo del ritorno de’ Francesi in Napoli nel 1806). Egli ben consigliato, si vuole da una dama sua amica, si gettò nella causa del re, onde scancellare i carichi, che se gli sarebbero addossati, per l’impegno preso nell’epoca dell’anarchia e nell’entrata in Napoli de’ Francesi e valse molto; ma i Francesi non potettero niente intraprendre contro le truppe del cardinale al ponte della Maddalena, a motivo di un corpo di 1000 e più soldati che commandava l’attual general Nunziante, che al scioglimento dell’armata essendo alfiere del reggimento di Sannio, radunò de’ soldati che giunsero a 600 sulle prime che erano con altri a San Lorenzo della Padula. Quando aprì la comunicazione in marzo col cardinale, era a San Tommasero alle vicinanze di Capua, ed ai 28 luglio 1799 capitolò Capua ((29)).

Nella capitolazione detta, come nell’altra di Sant’Elmo, i patriotti non furono inclusi, anzi nell’articolo 6° di ambidue, abbenché vi fossero in Santo Elmo i Napoletani in ostaggio, con termini generali si dice, che tutti i sudditi di S. M. siciliana, che erano in Sant’Elmo, saranno consegnati agli alleati.

Fra gli ostaggi vi era il principe di Canosa figlio (D. Antonio Minutolo) al quale da Mejan gli fu permesso di sortire del forte, per trattare con Nelson, ch’era in rada colla squadra; vi era anche il cavaliere D. Luigi Medici tra gli arrestati, non già come ostaggio, ma come persona sospetta della repubblica; Medici all’entrata de’ Francesi si fece amico di Pugliuchella, uomo della plebe, che fu poi dalla giunta fatto impiccare. Gli diede Medici o ricevette, un pranzo sopra il casino a Materdei che aveva la San Marco sua sorella. D. Bartolomeo Giordano fu del pranzo e l’ha detto stante si trovò al pranzo con Medici. Egli prima de’ Francesi era reggente della vicaria venne dismesso nel 1795 e carcerato: fu liberato, ma non con sentenza, che lo dichiarasse innocente. Entrati i Francesi in Napoli, venne ad essi sospetto, e fu di nuovo messo in carcere. Ne sorti nell’epoca della ripresa del regno, ma dalla giunta di stato di allora fu di nuovo arrestato, ma poi ne sortì. Sembra che la di lui atmosfera avesse un’attrazione colle prigioni. Il non aver danneggiata Mejan la città, né protetti i patriotti, si diede credito che Mejan ed i Francesi fossero stati comprati; ma si deve riflettere ancora, che Mejan non poteva per allora aspettare soccorsi dalla Francia, per i rovesci che avevano avuto in Italia i Francesi, battuti da Suarove, e dagli Austriaci. Si disse, che arrivando Mejan in Francia fosse stato messo sotto processo. Fu anche all’orlo di una sventura l’eminentissimo vicario, dopo il 1806, il cardinal Ruffo fu per ordine di Napoleone trasportato in Francia, ove poi ebbe la protesone dell’imperatore; e trovandosi un giorno in casa della principessa di Neuchatel a Parigi, gli domandò, la principessa, di quall’arma si serviva nella spedizione del 99, ed egli rispose spiritosamente, «di quella che si servì San Paolo.»

Aggiunse che la regina aveva messe attorno a lui varie spie per osservar la sua condotta in quell’epoca, e che ne mortificò una col farla carcerare, per la quale da Palermo venne l’ordine di scarcerarla; per cui il cardinale disse alla persona che aveva arrestata, che in dette materie era meglio esser franco, giacche voleva che gli avesse fatto capire ch’era con tal commissione, e disse che se parlava chiaro, non l’avrebbe arrestato. Tale aneddoto è portato nell’opera segreta de’ fatti di Napoleone, di Saint Cloud, ed il cardinale domandato al suo ritorno in Napoli se ciò era così, non lo negò.

Il detto cardinale a motivo della fatta capitolazione per i forti dell’Ovo e Nuovo (nel consiglio di stato del re) fu opinato di chiamare a Palermo Ruffo per dar conto della sua commissione. Il principe del Cassero, quando fu in Napoli per luogotenente, assicurò ad alcuno, che la regina si oppose a tal progetto. Ella mostrò che dopo il servizio che aveva reso al trono il cardinale, qualunque svista che avesse commessa, si doveva perdonare; che punirlo sarebbe stato lo stesso che coprire di vergogna il re e non avrebbe più trovato nessuno che si prestasse in caso di bisogno al lor servizio, commettendo un'ingratitudine di tal natura. Il principe del Cassero ((30)) era nel consiglio di stato, e se gli doveva prestar fede; ma ecco da donde deriva quest’animosità contro Ruffo.

Ruffo partì da Palermo coll’ordine di contrarivoluzionare le Calabrie (che si volevano tenere) per difendere la Sicilia. Essendo stati battuti i Francesi nell’alta-Italia, ed obbligati a lasciarla, ed il regno in insurrezione; coll'appoggio della porpora per la causa dal trono, Ruffo, com’era regolare, ebbe la: commissione della corte di proseguire la sua marcia verso la capitale. Si assicurò però da qualcheduno de’ segretarii del vicario (locché è verisimile) che la corte avesse disposto di non attaccare la città, se non arrivavano nella rada di Napoli le truppe, che per questa operarne, avrebbe la corte spedite da Palermo, e come difetti vennero sotto il comando del generale Boucard. ed Acton fratello del ministro, che poi servirono per prendere Roma, per caricare gli avanzi de' Francesi. Ossia che l’amor proprio di Ruffo ripugnasse, che altri avessero avuta la gloria effe a lui toccava di aver compita l’opera, con la la presa della capitale, o che non potesse frenare l’ingordigia delle masse che volevano d'Avellino essere in Napoli per saccheggiarla, marciò alla capitale, la quale era in rischio grande in quei momenti, e il partito sano desiderava la venuta di Ruffo e forse lo sollecitò a portarsi in Napoli ((31)), ed il 13 di giugno batté i patriotti e mise il suo quartier generale ai Granili, prima che da Palermo giungessero le truppe. Inoltre il generale ministro Acton, mentre Ruffo era in Calabria, pensò di mandare un suo nipote, anche all’immediazione del cardinale il quale ebbe là franchezza di rispondere ad Acton di non farlo perché il nome di Acton era odiato nel regno. Chi scrive questa memoria l’ha inteso dal canonico Vitale, che in quell’epoca era presso del cardinale, tra i segretarii che portava; e conoscendo il carattere del porporato incurante e di grandezza, e di corte, ma non di gloria, la risposta data è credibile.

Fatta la pace con la Francia di nuovo, locché avvenne nel 1801 dopo la battaglia di Marengo, che pose l’Italia in mano de’ Francesi, si emanò dal re un indulto, dietro del quale tutte le cause di stato cessarono e furono i detenuti messi in libertà, e ridatala Rolla, che come rei di stato, era stata confiscata.

Questa fa una delle condizioni di detta pace, e l’altra che fu pesante, fu di tenersi in Puglia un corpo di truppe francesi fino alla pace generale. Murat, con cui fu trattata la pace a Firenze dal cavaliere D. Antonio Micheraux, venne poi in Napoli. Chi dovea dire, che un giorno sarebbe divenuto re e poi fucilato!

Tra i carcerati messi in libertà, vi era monsignor di Taranto, il conte Policastro Carafa ed altri; poi a questi ih principe di Montemiletto Tocco. Montemiletto fu ritenuto a motivo di una denunzia che portava di aver ordita una controrivoluzione, contro il governo del re; denunzia tanto insussistente, che Acton assicurò i parenti di Montemiletto che il principe sarebbe uscito dalle carceri, come difatti avvenne.

Fra i giustiziati vi fu un Veneziano, il padre Bellone de' Minimi Osservanti. Egli nel tempo della repubblica si trovava in Napoli. Predicò, o fu obbligato, sotto l’albero della libertà, a predicare. Alla venuta delle armi del re fu ritrovato, e dalla giunta di stato condannato a morte. Le giustizie sorpresero più la quantità delle persone che per il numero e per la durata, mentre per un anno vi furono condanne ed eseguite a lente riprese.

I Sedili della città di Napoli, di cui nel principio di questo storico dettaglio si è parlato, in tale occasione vennero sorpresi; ed invece fu creato il libro d’Oro, ove sarebbero state registrate tutte le famiglie ch’erano de’ Sedili. Si trascrive il decreto dell’abolizione suddetta, coll’altro dell’ammortizzazione delle carte bancali, che si stamparono per l’oggetto della guerra.

Si diede per certo che il principe di Canosa padre, di casa Minutolo, e che aveva il figlio complicato nella causa della città che venne tutta condannata alla rilegazione in varii forti e poi in libertà con l’indulto, accortamente fece registrare per lettere alfabetiche i cognomi di coloro che venivano messi nel libro d’Oro, ove egli ebbe parte, per cui mise il ministro Acton in prima nomina, e perciò n'ebbe una pensione (ma sotto altro titolo) di 1200 ducati Tanno. Ecco il decreto indicato ((32)). In detta causa vi furono alcuni voti per morte.


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INVASIONE DEL REGNO DI NAPOLI DELL’ANNO 1806

Dopo le vittorie de’ Francesi in Austerlitz, riportate ne’ primi di dicembre 1805, sui Russi ed Austriaci, la corte di Napoli fu perduta. La stessa, in forza di un' alleanza conclusa co’ Russi ed Inglesi, rompendo la neutralità combinata poco tempo prima col governo francese (sulla di cui lealtà non si dovea certamente contare), oche fu dal suo ministro a Parigi ((33)) suo malgrado affrettata, fortificò la sua armata colle truppe di quelle due potenze, che sbarcate in Napoli sotto il comando del general russo Lascy, in numero di circa dieciotto mila uomini, dovettero dopo la giornata d’Austerlitz abbandonare il regno, che ne’ primi di febbraio 1806, con tre colonne venne invaso da’ Francesi, le quali passarono per l’Abruzzo, San Germano ed Itri (passo quest’ultimo più facile a difendersi per la sua località, che a prendersi); e siccome l’opinione suppliva al numero, che aumentato anche veniva dai nemici del governo e dalla credulità, con poche forze ne furono essi padroni fino inclusa la capitale, la quale nel dì 14febbraio fu pacificamente occupata da un’avanguardia di più migliaia di genti comandata dal generale Partenèaux, ed il susseguente giorno vi entrò Giuseppe, comandante in capite dell’armata che non oltre passava li trenta mila uomini, prese insieme le tre colonne che il regno occuparono senza ostacolo.

La corte, nel avvicinarsi questa armata nello stato romano da prima comandata dal general St-Cyr e Massena, ed indi da Giuseppe, a tale oggetto spedito dal fratello Napoleone, allora imperadore, mandò in Roma per trattare il duca di San Teodoro Caracciolo (mentre avea già spedito a Parigi il cardinal Ruffo), quello del 1799, con plenipotenze per l’imperadore; ma il di lui viaggio in istrada fu sospeso per ordine del governo francese, che n’impedì il prosieguo.

Giuseppe non era ancora in Roma alla prima edizione dell’inviato napolitano, il quale si conferi dal cardinal de Fesch, ambasciadore di Francia in Roma, per indirizzarsi a Massena, che già era in quella città per l’oggetto della occupazione di Napoli.

San Teodoro, quello stesso che pochi anni prima era stato per la corte ministro. in Spagna (e da dove fu congedato), unitamente al cavalier D. Pio Gomez, incaricato di Spagna in Napoli, in mancanza del l’ambasciadore di Spagna, signor marchese di Mos, che n’era partito, non potevano nulla ottenere da Giuseppe nelle tre volte che a Roma fu spedito San Teodoro ((34)), per cui vana rimase ogni speranza di temporeggiamento fondata ancora dalla corte sull’incaricato spagnuolo per l’alleanza del suo governo con quello di Francia, e per esservi una principessa di Spagna in Napoli maritata all’erede del trono, ed a quell’epoca gravida. Il tempo poi ha svelato quanto l’amico governo francese è stato leale col monarca spagnuolo.

Per la città correva voce che i riscontri alla corte riportati dal duca di San Teodoro fossero, che grandi erano le forze francesi (secondo lo stile usato) destinate per il regno, avvicinate nello stato romano, locché non allarmava di poco il pubblico; ma quando fossero stati veri tali dettagli, era necessario che vi concorresse in questi anche lo Spagnuolo, mandato, per accreditarli, due volte a Roma.

Fin dagli ultimi dì di gennaio 1806 il re era partito per la Sicilia, avendo lasciata in Napoli la regina e tutta la real famiglia.

Pareva agli occhi di limiti che il piano del governo fosse di respingere con stratagemma l’aggressione ostile, insorgendo gli Abruzzi, nella qual regione era stato spedito (ma senza successo), il brigadiere Rodio ((35)) fucilato poi irregolarmente dai Francesi: ritirare in Calabria le truppe, Come si fece, e per dar tempo alla Sicilia di fortificarsi da quella parte che fa fronte alle Calabrie, e per occupare una parte del regno; chiudere in mezzo i Francesi, non avendo forze d’impedirne l’ingresso nello stato, e con avanzare di fronte l’armata ritirata in Calabria, e gli armati Abruzzesi alle spalle, e coll'aiuto della guarnigione di Gaeta attaccare la coda dell’armata francese, ed indi, mosso il regno intero, darle addosso per tutti i lati. Ma d’altronde, riflettendo che la corte, rimasta sola cogli Inglesi dopo la pace di Presbourgo (conseguenza della giornata d'Austerlitz), era difficile che potesse sostenersi a fronte del colosso francese; o non era questo il piano della stessa, o che non fosse secondato," l’andamento delle cose fu tutto differente da quello che si era supposto.

Era tutto naturale però di credere che il governo facesse ogni sforzo per non perdere il regno, e per via della forza e per via delle trattative, e che almeno si facesse di tutto per temporeggiare. Si seppe che si voleva ancora che per l’onore della bandiera reale dovessero far resistenza (prima di rendersi) anche i forti della capitale, ma a quest’idea si opposero altre riflessioni da chi rimaner dovea nella reggenza che la corte avea stabilito di lasciare alla sua partenza, che protestò di non accettare a questi patti la commissione. Il regno di Napoli, di cinque milioni di abitanti presso a poco, è stato due volte in preda alla rapacità del rivoluzionario governo francese nel giro di pochi anni, cioè nel 1799 e poi nel 1806, epoca in cui vi ha perduto la Francia moltissima gente per conservarlo.

La partenza della famiglia reale per la Sicilia (perché l’armata francese si avvicinava) non era che indispensabile, al che la regina (e sono assicurato da chi gli era vicino) non sapeva adattarsi. Il principe ereditario col fratello dovevano passare in Calabria al comando della piccola armata marciata in quelle provincie, e alla cura degli affari, e per il buon ordine della capitale fu lasciato dalla corte un consiglio di reggenza, composto. dal generale D. Diego Naselli della casa de’ principi d’Aragona di Sicilia, che ne fu il presidente, dal principe di Canosa Minutolo cavalier napolitano, e da un magistrato che fu il consiglier del Sacro Consiglio, tribunale supremo del regno, signor D. Michelangelo Cianciulli, oltre un segretario e sotto segretario. Tutte le facoltà furono a questo consiglio dalla corte depositate. Si era ancora risoluto di scegliere due persone di piacere del governo onde andassero a trattare come deputati del medesimo col generale in capite dell’armata francese già entrata nel regno, a seconda delle istruzioni che a loro avrebbe date la reggenza. L’importanza della commissione tanto per l’incertezza dell’esito a fronte del pubblico e della corte istessa, che per l’esempio consimile del 1799 non riuscito col gradimento della medesima ai due signori ((36)) della corte che furono spediti come deputati al generale Championnet, che occupò allora il regno di Napoli, fu un ostacolo non indifferente per abbracciare l’incarico in quest’altra occasione; per cui varii su de’ quali cadeva la scelta, con varie ragioni si ricusarono, e tra questi il conte di Anversa figlio di S. Nicandro che partiva col re..

Il principe di Canosa (uno di quelli della reggenza) aveva posto in veduta della corte il marchese D. Filippo Malaspina; era egli amico della casa Malaspina di Napoli.

Questo soggetto ch’era in corte e cognito al governo, venne accettato, e dal principe ereditario istesso la mattina dei 11 febbraio 1806, ove nel palazzo era stata chiamata tutta la corte, gli fu detto: «io spero (furono le parole del principe) che non vi negherete di andare a trattare come deputato ccl comandante francese, giusta le istruzioni della reggenza che lasciamo», al che rispettosamente rispose che egli mai si era fatto indietro nelle scabrose circostanze dello stato, volendo alludere alla commissione che abbracciò nel 1799 (ma con poca sua fortuna di compenso per effetto d'intrigo) data al cardinal Ruffo, sotto di cui trovandosi egli aiutante del viceré in Sicilia in quell’epoca e da’ suoi primi anni militare, fu spedito all’immediazione del porporato, che senza mezzi e col solo aiuto delle popolazioni, e di circa 500 Russi, con pochi Turchi, riuscì Ruffo di. ricuperare il regno di Napoli, mercé favorevoli cii costanze per la conquista del regno, per aver avuti i Francesi de’ rovesci in Italia.

L’altro deputato fu il signor Ottavio Mormile duca di Campochiaro, scelto l'istessa sera degli 11 febbraio, mentre non si sapeva ove méttere le mani; alcuni non si volevano dal governo, altri noni volevano essere; onde in tale imbarazzò da Canosa fu proposto.

Prima dell’elezione del detto soggetto, l’istessa reggenza propose al deputato Malaspina di proporre il collega che fu nominato, ma che non si volle muovere da Napoli ((37)).

La mattina del 12 la corte, già imbarcata, fece vela per la Sicilia, ed il principe reale col fratello per le Calabrie. La sera innanzi fu mandato il seguente dispaccio ai deputati: «Dovendo trattare col comandante della truppa francese, è precisa real volontà che V. S. lll.ma assuma il carattere di deputato del governo per tale oggetto; a quale effetto comanda la M. S. che senza replica si disponga ella a partire prontamente, e si conduca domani la mattina 12 del corrente febbraio alle 10 di Spagna nel consiglio della reggenza per ricevere le corrispondenti istruzioni, fidando la M. S. nelle ottime qualità che adornano la di lei persona pel buon esito di tale sovrana incombenza nella prevenzione d’essersi anche destinato il duca di Campochiaro per deputato, da unirsi a V. S. Ill.ma per l'indicato oggetto. Nel real nome lo prevengo a V. S. Ill.ma pel pronto adempimento di sua parte

«Dal palazzo. 11 febbraio 1806.

«Per l'assenza del segretario di stato, il primo uffiziale della guerra e segreteria Ant. Castellanj.

«Sig. marchese Malaspina.»

Il consimile fu spedito a Campochiaro.

Io reggenza sopravennero delle discussioni prodotte in parte dall’indeciso carattere del presidente della medesima, come appunto $on quelli che tardano a decidersi per non sapere quale sia il progetto d'abbracciare che meno possa impegnare; ma nella sua per altro imbarazzante posizione veniva combattuto il di lui spirito sulla resa della piazza di Gaeta, non menzionata nelle istruzioni che si dovevano dare ai deputati, i quali domandarono sapere come dovevan condursi su quest'articolo non lieve, caso che dai Francesi fosse richiesta la resa di quella piazza. A tutti questi oggetti che occupavano la reggenza, vi si aggiungevano quelli della mancanza di risorse in un governo non preparato alla guerra, od i rapporti esigenti dello piazze di Gaeta e di Capua che domandavano mezzi in denaro ed altro, e più il comandante di Capua istruzioni, onde sapere come tenersi, essendo già cannoneggiata la piazza da un corpo nemico (quantunque però i Francesi non avessero artiglieria d’assedio).

Ma il principe di Canosa, più risoluto, fece munire i deputati delle facoltative, ed una parte per la resa di Gaeta, onde senza ritardo i medesimi fossero partiti per il campo dell’armata nemica, ch’era al di là di Capua dodici miglia sulla strada che conduce a Roma, ed il quartiere ov’era Giuseppe, a Teano, di unita al suo stato maggiore.

Nella facoltativa la reggenza mise prima il nome del duca di Campochiaro, che quello del collega eletto prima, e vi aggiunse per Campochiaro il carattere di ministro del re ((38)) presso la corte di Danimarca, dal quale impiego da più anni col fatto era fuori, perché mai più ritornato a quella corte, né rimpiazzato con altro ministero. Egli intanto però si fece forte per avere dalla reggenza questa caratteristica com’ebbe:

Copia della facoltativa.

«D consiglio di reggenza stabilito in Napoli, con sovrana determinazione de’ 10 febbraio da S. M. il re delle Due Sicilie, e composto dei soggetti qui sottoscritti, per effetto delle facoltative concedutegli dalla M. S., ha destinato ed autorizzato il duca di Campochiaro, D. Ottavio Mormile, attuai ministro di S. M. presso la corte di Danimarca ed il marchese Filippo Malaspina, gentiluomini di camera di detta M. S., con esercizio a trattare col comandante dell’armata francese, secondo le istruzioni agli enunciati due deputati comunicate.

«Napoli, 12 febbraio 1806.

«Sottoscritto dal presidente e da tutto il consiglio di reggenza.»

La città, ad onta della pochissima truppa che aveva che appena era sufficiente per guarnire i castelli, venne non ostante nel miglior ordine conservata, mediante il mezzo di pattuglie di persone (che la reggenza dispose), interessate a conservare l’ordine pubblico, dell’infrazione del quale molto si temeva, ed in conseguenza, la rinnovazione delle scene del 99. Alle sette di Spagna della mattina del 13 febbraio, erano già al campo francese i deputati, e presentati a Giuseppe, col quale vi era il generale Massena. La prima domanda che fece ai medesimi, fu quella se il duca di S. Teodoro trattatore, ed il duca di Ascoli Marulli, ch’era il ministro della polizia del regno di Napoli, erano rimasti o partiti colla corte.

Il solo duca d’Ascoli ((39)) seguì la stessa in Sicilia; indi, lo stato maggiore e Giuseppe si chiusero in conferenza; da lì a poco sortì Massena, e si venne alla trattativa. La corte, per non aver forze, cedeva la capitale ed i forti (senza cedere però i suoi diritti) e domandava un armistizio non minore di dodici giorni, in compenso del quale dava la piazza di Capua, con altre circostanze, che formavano in sostanza la base dell istruzioni date dalla reggenza in tre articoli.

L’armistizio fu negato, anzi si rispose da Massena: pas cinq minutes. Le circostanze obbligavano a cedere; la quiete della capitale lo esigeva, ed i sentimenti della reggenza che avea comunicati erano tutti rivolti a quest’oggetto. Fu convenuto che le guarnigioni dei forti della capitale sortissero da’ medesimi cogli onori militari; che senz’armi potevano raggiungere in Calabria l’armala del re (circostanza che non fu osservata), e che la guarnigione di Capua rimaner dovesse prigioniera. Dello stato della detta piazza i Francesi n’erano appieno informati; sapevano che le truppe che la guarnivano era un composto di reclute, per la maggior parte, che non erano intieramente vestite, e più, senza mezzi la piazza di sostener un assedio. Tutte queste circostanze obbligarono ad accettar l’articolo della capitolazione enunciato.

Premeva però ai Francesi aver Gaeta, posta sul mare, e perciò poteva essere con comodo sostenuta dal re Ferdinando, per cui le loro vedute furono su di essa dirette, le quali vennero lusingate dalle lettere della reggenza per il comandante di quella piazza che ne ordinarono la resa, ed ai Francesi consegnate per il ricapito, Il principe di Hassia Philipstad la comandava; o che avesse istruzioni segrete della corte, egli non volle affatto riconoscere gli ordini della reggenza, e si batté vigorosamente il bravo generale per cinque mesi e giorni, e forse i Francesi non l’avrebbero avuta, se non fosse rimasto il generale gravemente ferito da una caduta sopra di lui di un muro crollato dalle cannonate; ed in tempo arrivati i rinforzi inviati dalla Sicilia, dietro la ferita lasciò il comando della piazza Philipstad al più graduato uffiziale della guarnigione, mentre già la breccia delle prime mura del doppio riciato della stessa erano alquanto aperte.

Sotto il comando di Massone fu la piazza assediala, la quale capitolò a’ 19 luglio 1806. Si seppe che Masseria ne fece intimar la resa a Philipstad prima della ferita. Il generale rispose con un cartellone scritto posto sulle mura, Gaeta non è Ulma, ed io non sono Mack; alludendo alla resa di quella piazza, che è nota come fu ceduta. L'affare di Ulma era di mesi, e niente più al tempo ed al caso che tal corta e mordace risposta. Le Calabrie in quel tempo, col soccorso di alcuni sbarchi latti dalla Sicilia nei primi di luglio, si erano rivoltale contro de’ Francesi. il governo, per ingannare la sciocca moltitudine, fece stampare nel foglio napolitano, num. 40, sul conto delle novità sorte nelle medesime in data 9 luglio 1806, da Cosenza l’articolo seguente:

«Qui non si parla (dice il foglio citato) nel momento attuale, se non delle nuove militari di Calabria. Il mal talento e l'ignoranza sono due grandi ombre, per cui si rilevano in forma gigantesca i piccioli avvenimenti di quelle provincie, esponendole come sono, si scopriranno di niun rilievo; ma intanto queste notizie di niun rilievo in un tempo che Gaeta ancor teneva per il re Ferdinando, posero sull'orlo i Francesi di abbandonare il regno.»

Il controllore ((40)) della casa del principe Giuseppe allora, di nazione francese, avanti di me confidò questo segreto ad una francese ch’egli frequentava, dimorante da un pezzo in Napoli, per cui molto la conoscevo, e nel palazzo reale l’equipaggio di Giuseppe era preparato per partire ad ogni cenno, ma la resa di Gaeta mutar fece aspetto alle cose. Abbenché la facoltativa data ai deputati per Gaeta, fosse stata in termini generali, le lettere però della reggenza consegnate ai Francesi per il comandante della medesima, ne ordinavano la resa, senza di che inutili sarebbero state per i Francesi.

Copia della carta per Gaeta.

«In coerenza delle istruzioni comunicate ai deputati autorizzati a trattare coll’armata francese, viene il consiglio di reggenza a concedere ad essi deputati anche là facoltà di trattare per ciò che può riguardare la piazza di Gaeta.

«Napoli,12 febbraio 1806. —Firmato tutto il consiglio di reggenza.»

Varie interrogazioni furono fatte al marchese Malaspina dal senator francese M. de Jongour ch’era del seguito di Giuseppe, e dal maresciallo Massena, mentre si scrivevano gli articoli della convenuta capitolazione, e tutto intorno ai piani d’insorgenza, supposti ideati della regina (a lui allatto ignoti) e sulla mossa ad essi nota de’ malviventi rinserrati in un luogo chiamato il serraglio ((41)), accaduta in Napoli, ma senza effetto, perché a tempo con vigor impedita, la sera avanti della partenza dei deputati per il campo francese, la quale dicevano essi promossa dagli emissarii della regina per mettere sotto sopra la città.

Nella capitolazione alquanto cambiata dal convenuto, vi si era messa dai Francesi la cessione delle due isole Ischia e Procida, che sono a poca distanza dalla terra dalla parte della città di Pozzuoli, lontana da Napoli sei miglia, e delle quali non se n’era affatto parlato perché non date nelle istruzioni, e più venivano i deputati della città e non del governo, nelle carte che si dovevano firmare, le quali vennero da Campochiaro e da Berthier capo dello stato maggiore dell’armata nemica, sottoscritte dopo il pranzo, di cui furono trattati da Giuseppe, che accanto di sé mise Campochiaro. Il cambiamento di cui si era prima convenuto, diede motivo al collega deputato di Campochiaro di negarsi alla firma delle carte; che fu cacciato da Berthier irritato per la sua repugnanza e minacciato di ritenerlo alfine in ostaggio. Ciò produsse un dibattimento presente Giuseppe, tra il suddetto Berthier ((42)) e Campochiaro, il quale persuase alfine il compagno a sottoscrivere la capitolazione, sulla veduta del riposo che così si andava a turbare ad una capitale senza forze e piena di popolazione. All’incontro la resa opposta delle due citate isole non recava all'affare alcun pregiudizio, giacché si considerava che i Francesi se ne potevano sempre impadronire (come avvenne) per non essere occupate dagli Inglesi. In tale occasione sì seppe dai Francesi che le loro forze erano al di Sotto di quarantamila uomini, numero che poteva essere minore della loro maniera di contare. Dietro la partenza de’ deputati dal campo francese, occuparono essi all'istante la piazza di Capua, e la mattina de' 14 febbraio furono detti deputati dalla reggenza inviati a Giuseppe colle ratifiche; ma appena essi sortiti dalla città ritrovarono sulla strada il general Partenaux colla sua vanguardia accinto a prender possesso della stessa. Tal circostanza, non ignorata da chi era negli affari, obbligò i deputati di ritornare ad informare la reggenza, la quale dispose che Campochiaro soltanto fosse andato da Giuseppe per portargli le ratifiche, ed il collega fosse rimasto sotto il pretesto di servire al bisogno della colonna francese che entrava nella capitale. La corte aveva lasciato un legno di guerra ed anche una corvetta a disposizione della reggenza per trasportare in Palermo il presidente della stessa ch’era Siciliano.

Su de’ detti legni vi erano imbarcati alcuni signori del paese per passare in Sicilia. La sera del 13 febbraio il tempo minacciava cambiamento: il comandante del legno si presentò alla reggenza nella sera suddetta, protestando che non garentiva l’uscita de’ legni dalla rada di Napoli per il dì susseguente. Stante il tempo, per cui proponeva di portarsi nel golfo di Baja, ove chi doveva imbarcare trasferendosi in Pozzuoli poteva venire a bordo, tal partito non fu abbracciato, ed il legno di guerra colla corvetta rimasero prigionieri; nel dì 14 che seguì l’entrata de’ Francesi fu un tempo dirottissimo.

Le brame della corte dovevano essere differenti di quelli della reggenza. Nella prima vi dovevano esser quelle di conservare, nella seconda quelle di non distruggere e conservare. Quando un governo non ha una forza che sostenga il carattere di una reggenza e de’ deputati, le loro persone divengono come quelle di ogni particolare. La reggenza, sfornita de’ mezzi ordinarii che il governo non aveva potato con anticipazione preparare, per essere stato impedito dal corpo francese, stanzionato nella Puglia, sortito dal regno dopa la neutralità affrettata sul malgrado dell’ambasciatore della corte di Parigi ((43)), non poteva sostenersi con vigore. Ma d’altronde la condotta tenuta verso de’ deputati, nella quale si ravvisa che il solo Campochiaro fu posto a parte delle sue vedute, e non già l’altro deputato, che per carattere non supposero, facile, fa conoscere che la reggenza non doveva ignorare le idee della corte.

L’interesse che doveva avere d’impedire gli orrori del 99, era un sentimento connaturale alla maggior parte de’ viventi, e sopratutto ai possessori; ma in esso doveva più sentirsi che vedersi, ed essere condotto in modo da non cimentar se stessa verso di un’immensa capitale (in caso che l’avesse esposta ad un pericoloso naufragio, al che era aliena), ed a fronte della sua commissione verso di un governo che non aveva ancora lasciato il regno, e che aveva una forza nelle Calabrie. Niente più comprovano gli opposti e cimentosi interessi in cui si trovò circoscritta la reggenza in quell’epoca che la condotta del presidente di essa, il sig. D. Diego Naselli, il quale si contentò piuttosto di finir mendico in Napoli, ove nella miseria, nell’estate del 1809, cessò di vivere, che passare in Palermo, dove appartenente egli ad una distinta famiglia di Sicilia e benemerita della corte; trovandosi gentiluomo di camera di S. M., tenente generale dell’esercito, ed uno degli uffiziali dell’ordine di S. Ferdinando, pareva che avesse dovuto avere le considerazioni dovute al suo rango, e più gli appannaggi dalla sua famiglia. Si disse che i Francesi gli negassero il passaporto per Palermo, cosa difficile a credere, avendo presente l’età avanzata del generale. Si credè dal pubblico che egli temesse la corte, ma questo ch’è un dubbio per il pubblico, non lo è certamente per chi Naselli aprì il suo cuore.

Si vuole che la regina gli avesse mandato qualche soccorso, sapendo lo stato suo miserabile. Da persona degna di fede si è saputo che i Francesi mandarono in Napoli un commissario ((44)) la sera avanti della partenza de’ deputati per il campo francese, per concertare il tutto con la reggenza.

Informati com’erano i Francesi prima di entrare nella capitale, e dello stato del regno, della mossa de’ galeotti detenuti nel serraglio e de’ piani che addossavano alla regina, non v’è dubbio delle loro relazioni nella città ed in Capua ancora.

Il duca di Campochiaro fu subito promosso dal governo francese di Napoli, ed ebbe la carica di ministro di stato di casa reale. Da una delle primarie case del paese, e nella quale il nuovo governo poteva contare per il suo attaccamento al nuovo ordine di cose, si sceglievano le persone e gli impieghi. La circostanza dell’epoca del 99, nella quale il marchese Malaspina aveva servito la corte, non ammetteva indifferenza nell’epoca del 1806. Niente di meglio e di più adattato per impegnarlo contro del governo che cessava, che conferirle il comando della provincia di Teramo negli Abruzzi colla piazza di Gaeta in mano del re Ferdinando, confinante colla provincia suddetta già divisa in partiti. Ricevuto il biglietto di avviso si portò da Giuseppe, e gli riuscì di farne accettare la rinuncia che fece dell’impiego.

Il principe Giuseppe non ricevuto da alcuno al palazzo reale, ove andiede a posare entrando in Napoli, meno che da Naselli e dal signor Michelangelo Cianciulli e dai deputati che se gli presentarono dopo entrato, offrì impiego a Cianciulli, che per motivo de’ figli fu strapazzato dal popolo nel 99. Lo stesso, nel tratto successivo, fu promosso alla carica di ministro della giustizia. Il marchese Malaspina, accolto da Giuseppe nella più lusinghevole maniera, ebbe anch’egli la parte che gli toccava. Gli disse il principe che avesse tranquilizzato il suo spirito; che la dinastia di Borbone di Napoli, por le circostanze politiche (cosa che ripeté a tutti) avea cessato di regnare in Napoli, e che non sapeva quali potevano essere le di lui relazioni colla famiglia reale, aggiungendo delle frasi ((45)) che potevano lusingare il suo amor proprio; ma egli rispose in una maniera gentile, e che le di lui relazioni colla famiglia reale di Napoli erano quelle di. un uomo d'onore; di un uomo di una famiglia che da tre generazioni serviva la casa Borbone all’epoca di Carlo III, dal qual tempo il di lui avo marchese Azzelino fu portato, e fissò la famiglia in Napoli, e che mediante i loro servizii vivevano delle munificenze di quella corte.

Cesare Berthier gli domandò se la conquista della Sicilia era facile, al che indirizzò la sua risposta per il signor generale Naselli che era presente, e che come Siciliano poteva appagare il di lui desiderio. Il general Massena pigliò motivo da ciò per scherzare con Naselli, a cui disse: >«Eh bien mon général nous ferons la guerre ensemble, et nous nous batterons avec les boulets de cannons; n’est il pas vrai mon général?»

Il principe di Canosa ch’era della reggenza, non comparve in quel giorno, e si mise in casa indisposto.

Egli aveva due figli militari che seguirono la corte in Sicilia. Il secondo de’ due aveva prima servito in Spagna, e perciò come generale in Spagna occupava tal grado.

Questa circostanza teneva il padre circospetto, etale circostanza influì forse a proporre, come palesò, il marchese Malaspina per deputato, onde, mettere nella carriera del nuovo ordine di cose le persone che potevano nelle occorrenze sostenerlo. Infatti le intraprese del di lui figlio primogenito (giovine di ardire) per le insorgenze che fomentò nel regno, mise il padre in Napoli nel colmo dei dissapori. Canosa fu fatto consigliere di stato da Giuseppe, ma a causa del figlio il governo lo sospese de’ soldi e dell’esercizio dell’impiego, e senza i di lui rapporti sarebbe stato sacrificato.

Le Calabrie furono dei Francesi dopo circa due mesi, e la guerra che l’armata del re sostenne in quelle provincie, non fu che un masso di confusione. Una parte della nobiltà si dedicò sull’istante al nuovo governo; oltre poi un numero non indifferente di gente di altra classe, e sopratutto quelli che avevano sofferto nell’epoca del 99 per il loro attaccamento alle innovazioni del tempo.

Non parlo delle zizzanie de’ due partili che dai Francesi si procurò di reprimere, né tampoco degli avvenimenti successivi per esser cosa di una materia a parte. Frattanto al marchese Malaspina fu conferito altro impiego dopo la rinuncia del primo: egli fu chiamato da Berthier per la sua ripugnanza a prestarsi, ed accettò l’intendenza di Persano, la quale dopo cinque mesi fu lasciata avendo egli preso un passaporto per l’Italia a motiva de’ suoi affari. Durante la sua assenza vennero tutte le intendenze de’ siti reali, com’era Persano, abolite e messi amministratori. Nel lasciarla, aveva rappresentato al governo che per vantaggio degli interessi reali vi era bisogno di persona che fosse fissa nel sito, il che non si consigliava cogl’interessi proprii.

Da 11 a quattro mesi ritornò in Napoli, non oltrepassando più oltre la sua dimora fuori, stante gli urti dell'ambasciatore di Francia in Roma. Il signor Alquier, che non vedeva bene la di lui persona in Roma come gli altri Napolitani e persona in Napoli, gli scrisse che la sua assenza ((46)) alla lunga non piaceva al governo.

Malgrado un decreto del governo che prometteva situazione ai soppressi intendenti, e malgrado gli urti degli interessati a farlo muovere, egli non stimò di affacciare al governo né anche l’idea per il cambio di situazione, e visse a se stesso, come vive in mezzo alle perdite, che le mutazioni politiche delle cose han prodotte e ne' suoi beai e negli emolumenti di soldi militari e pensioni che aveva dal passato governo, e nella sua carriera.

I Francesi occuparono il regno di Napoli senza fatica, giacché per essi tutto contribuì a favorirli. La corte, non secondata ne’ suoi piani, facilitò la conquista al nemico, il quale riuscì ad imporre secondo l’usato ardito stile, senza forza corrispondente.

Certo si è, che se il re pigliava il partito di mettersi alla testa della nazione, costava cara la conquista del regno, che non poco ha costato per tenerlo, e secondo il sentimento di alcuni, si crede che forse non sarebbero entrati; la data delle istruzioni date dalla reggenza ai deputati fu di un’epoca alquanto posteriore alla vera data de’ 12 febbraio, e questa circostanza non avvertita dallo svelto Campochiaro, ma dal collega, presuppone che la corte desiderava difendersi.

Di passaggio si dirà ciò che l’autore del presente scritto seppe per bocca di persona grandemente decorata in Napoli dal governo attuale, rapportato alla promozione di Campochiaro a ministro di stato. Si voleva promuovere questo soggetto (che si diede tutta l’attività per secondare i Francesi utilmente), e per compensare il suo servizio indegno, si prese per esempio la venuta di Carlo III Borbone a Napoli. Il principe di Centola Pappacoda, all’epoca suddetta, alla testa di una deputazione della nobiltà de’ Sedili di Napoli, andiede in Maddaloni a complimentare il monarca vincitore de’ Tedeschi in nome del paese: questa circostanza fu che lo promosse a cariche: si portò detto esempio, abbenché ben diverso dell’epoca presente ((47)). Senza spiegar si capisce che la cosa era ben differente, poiché in quella si andiede prestar omaggio al sovrano vincitore, ed in questa si andiede per trattare per il principe che non avea abbandonato il regno.


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APPENDICE

TRATTATO DI PACE FRA S. M. IL RE DELLE DUE SICILIE, E LA REPUBBLICA FRANCESE

S. M. il re delle Due Sicilie, e la repubblica francese egualmente animate dal desiderio di far succedere i vantaggi della pace a mali irreparabili della guerra, hanno nominati cioè: 9. M. il re delle Due Sicilie, il principe di Belmonte Pignatelli suo gentiluomo di camera e suo inviato straordinario e ministro plenipotenziario presso S. M. cattolica; ed il direttorio esecutivo in nome della repubblica francese: il cittadino Carlo Delacroix ministro delle relazioni esteriori per trattare in loro nome delle clausole e condizioni proprie a ristabilire la buona intelligenza ed amicizia fra le due potenze, le quali dopo aver cambiate le loro rispettive plenipotenze hanno fissati i seguenti articoli:

1° Vi sarà pace, amicizia, e buona intelligenza fra S. M. il re delle Due Sicilie, e la repubblica francese; in conseguenza cesseranno definitivamente tutte le ostilità dal giorno del cambio delle ratifiche del presente trattato.

Frattanto e fino a quell’epoca, le condizioni stipulate nell’armistizio conchiuso li 5 giugno 1796 (17 prairial, anno 4°) continueranno ad avere il lor pieno ed intiero effetto.

2° Qualunque atto, impegno o convenzione anteriore per parte dell’una o dell’altra delle due parti contraenti che fossero contrarie al presente trattato, saranno rivocate, e riguardate come nulle e non avvenute; in conseguenza ciascuna delle due potenze durante il corso della presente guerra non potrà somministrare a’ nemici dell’altra alcun soccorso, in truppa, vascelli, armi, munizioni da guerra, viveri, o danaro a qualunque titolo e sotto qual si sia denominazione.

3° S. M. il re delle Due Sicilie osserverà la più esatta neutralità verso le potenze belligeranti; in conseguenza la M. S. si impegna ad impedire indistintamente l’accesso ne’ suoi porti a tutti i vascelli armati in guerra appartenenti alle dette potenze, che eccederanno il numero di quattro al più, secondo le regole conosciute dalla predetta neutralità: sarà loro ricusata ogni provvista di munizioni o mercanzie conosciute sotto il nome di contrabbando di guerra. 4° Sarà accordata ne’ porti e rade delle Due Sicilie ogni sicurezza e protezione contro qualunque aggressione a tutti li bastimenti mercantili francesi, ed a tutti i vascelli da guerra della repubblica che non eccederanno il numero stabilito nello articolo precedente.

5° S. M. il re delle Due Sicilie e la repubblica francese, s’impegnano a far togliere il sequestro da tutti gli effetti, rendite e beni arrestati e ritenuti in seguito della guerra attuale, a cittadini e sudditi dell’una e dell’altra potenza, e ad ammetterli rispettivamente all’esercizio legale di diritti ed azioni che loro potessero appartenere.

6° Tutti i prigionieri fatti dell’una e dell’altra parte, compresi gli uomini di maree marinari, saranno reciprocamente restituiti in un mese di tempo, da decorrere dal cambio delle ratifiche del presente trattato, pagando i debiti, che essi avessero contratti durante la loro prigionia. I malati ed i feriti continueranno ad essere curati negli ospedali rispettivi, e saranno resi subito dopo la loro guarigione.

7° S. M. il re delle Due Sicilie per dare alla repubblica francese una riprova della sua amicizia e del suo sincero desiderio di mantenere una perfetta armonia fra le due potenze, consente a far mettere in libertà ogni cittadino francese, che fosse stato arrestato e si trovasse detenuto ne’ suoi stati per ragione delle sue opinioni politiche relative alla rivoluzione francese; tutti i beni e proprietà mobili e stabili, che per la medesima causa potessero essere stati sequestrati, saranno loro restituiti.

8° Per i medesimi motivi, che dettarono l’articolo precedente, S. M. il re delle Due Sicilie s’impegna a far fare tutte le convenienti ricerche per iscoprire per la via della giustizia, ed abbandonare al rigore delle leggi le persone che rubarono in Napoli nell’anno 1793 gli effetti e carte appartenenti all’ultimo ministro della repubblica francese.

9° Gli ambasciadori o ministri delle due potenze contraenti goderanno negli stati rispettivi le medesime prerogative e precedenze delle quali godevano prima della guerra, ad eccezione di quelle che erano loro assegnate come ambasciatori di famiglie.

10° Ogni cittadino francese, e tutti quelli che comporranno la casa, dell’ambasciatore o ministro e quella de’ consoli, ed altri agenti accreditati, e riconosciuti dalla repubblica francese, goderanno negli stati di S. M. il re delle Due Sicilie quella medesima libertà di culto di cui vi godono gl’individui delle nazioni non cattoliche le più favorite a questo riguardo.

11° Sarà negoziato e conchiuso nella più breve dilazione un trattato di commercio fra le due potenze, fondato sulle basi di una scambievole utilità, e tali, che assicurino alla nazione francese vantaggi eguali a tutti quelli de’ quali godono nel regno delle Due Sicilie le nazioni più favorite. Fino alla formazione di questo trattato, le relazioni commerciali e consolari, saranno reciprocamente ristabilite, tali quali erano avanti la guerra.

12° A norma dell’articolo 6 del trattato conchiuso all’Aia nel 1. 6 maggio 1795 (27 floreal dell’anno terzo della repubblica) la medesima pace, amicizia e buona intelligenza stipulata col presente trattato fra S. M. il re delle Due Sicilie e la repubblica francese, avrà luogo fra la predetta M. S. e la repubblica batava.

13° Il presente trattato sarà ratificato e le ratifiche verranno cambiale nel corso di quaranta giorni, per tutta dilazione, da contare dal giorno della firma. In Parigi, li io ottobre 1796 (che corrisponde alli 19 vendemiare), anno quinto della repubblica francese, una ed indivisibile.

(LL.) Il principe di Belmonte Pignatelli

(L. S.) Carlo Delacroix.

Il presente trattato è stato ratificato da S. M. siciliana li 3 novembre 1796, e precedentemente era stato ratificato dal corpo legislativo in Parigi li 3 brumaire dello stesso anno, che corrisponde alli 24 ottobre 1796; il cambio delle rispettive ratifiche avendo avuto luogo in Parigi, tra il principe di Belmonte, plenipotenziario di S. M., ed il signor Delacroix, ministre delle relazioni esteriori, li 20 novembre 1796.

B

LIBERTÀ EGUAGLIANZA

GIUSEPPE MARTA, PER LA MISERICORDIA DI DIO E DELLA ROMANA CHIESA, CARDINAL CAPECE ZURLO ARCIVESCOVO DI NAPOLI, PROCLAMA A TUTTI I FEDELI DELLA SUA DIOCESI ED A TUTTI I POPOLI REPUBBLICANI DEL TERRITORIO DI NAPOLI, SALUTE E BENEDIZIONE

È pervenuta alle nostre orecchie l’orribile voce comunicataci anche dal governo, che il cardinal Ruffo abbia assunto nelle Calabrie il nome di romano pontefice e che con l’abuso di questa sacra autorità si affretti a sedurre quei popoli incitandoli a’ delitti di ogni genere, ed alla più sanguigna strage. Fratelli carissimi, lo spirito della carità di Gesù Cristorifugge anche dal pensare tali cose nella persona di un ecclesiastico, per cui non cessiamo di pregare il Signore, che voglia col suo divino aiuto riparare a questo errore, mentre il ministro a noi commesso da Dio c’impone di smentire una tale impostura che costantemente si afferma. Noi ci facciamo dunque ad istruirvi, che un mascherato pontefice che attenta di sconvolgere la chiesa e lacerarla col più detestabile scisma che esige Fallare, rompe il vincolo dell’unità cattolica, frange la pietra del santuario, mette in sconquadro il tempio della nuova alleanza, ed allontana la società de’ fedeli all’eterna salvezza delle loro anime. Egli è fulminato con tutte le censure della chiesa, e trabalzato da tutti i gradi della gerarchia e separato dalla comunione cattolica, ed è esposto alla maledizione di Dio e degli uomini.

Osservate inoltre fratelli carissimi la carriera che sotto una tale impostura si viene a percorrere. Essa produce in voi questa falsa idea che il nuovo governo tenda a distruggere la religione dei vostri padri, il vangelo di Gesù Cristo e la credenza della chiesa cattolica; e risvegliando il vostro zelo per un affare cotanto sacro, vi respinge a prendere anche le armi contro gli stessi vostri fratelli, e contro una nazione che dà principio foste pronti a proclamare qual vostra liberatrice.

Popoli amatissimi, traetevi dall’inganno, illuminatevi, non tardate un momento di liberarvi da quella umiliante opinione che andate a procurarvi col vostro sangue medesimo. Il nuovo governo organizzato pegli inviolabili e sacri diritti del genere umano, siccome è pienamente uniforme alle pagine dell’evangelo di Gesù Cristo ed è diretto a formare la maggiore vostra civile felicità, così non può non conservare e rispettare Finterò cattolico culto e l’universale disciplina che regola le vostre religiose e sante pratiche. Calmate i vostri cuori, amatissimi fedeli, quella religione che finora avete amala continua senza cambiamento veruno ad essere il pubblico e privato oggetto de’ vostri pensieri e delle vostre azioni.

Tolgano ogni dubbio che potrebbe esservi suggerito i replicali proclama degenerali in capo, le lettere che i medesimi generali ci hanno drizzate, e gli editti dell’assemblea provvisoria. Or via deponete le armi e cessate da una guerra che vi degrada e che vi distrugge; e richiamati alla verità, ritornate nel seno della vostra patria, che distende le braccia per accogliervi e ricolmarvi della felicità, che con sollecitudine vi prepara. Così vegga l’impostura che se vi sedusse per un momento non ha potuto continuare ad ingannarvi e nella confusione del suo spirito, fatalmente si corrucci, che tosto siasi eccitato in voi quel genio di avvedutezza che ha formalo il vostro carattere tra le altre nazioni, riconciliatevi alle vostre famiglie, ed a’ vostri fratelli.

Frequentate i tempi e gli altari de’ vostri maggiori, mostrandovi in tutto degni seguaci di Gesù Cristo e fideli e saggi discepoli di quella verità che il figliuolo di Dio èvenuto ad insegnarvi dal cielo per condurvi colà nel seno beato di Dio a godere di una perfetta e perpetua felicità, che ardentemente vi desideriamo colle nostre paterne benedizioni. Addì 16 germile, anno i® della repubblica napoletana (5 aprile 1799, U. S.). Il cittadino Giuseppe Maria, cardinale arcivescovo di Napoli.

C

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

IN NOME DELLA REPUBBLICA FRANCESE; LA LEGGE CONCERNENTE IL GOVERNO PROVVISORIO DELLA REPUBBLICA NAPOLETANA. — CHAMPIONNET GENERALE IN CAPO DELL’ARMATA DI NAPOLI.

Considerando che la rigenerazione di un popolo non pud effettuarsi sotto l’influenza e la direzione delle istruzioni del dispotismo; Che la circostanza di un popolo libero non può essere severamente calcolala sulle sue abitudini e sui suoi costami, senza il soccorso di un travaglio assiduo ed una profonda meditazione; Che il corso dell'amministrazione generale non può essere sospeso senza un gran pericolo della fortuna pubblica e della privata; Che il tempo della tirannia non può cessare in un paese che invecchiò nella corruzione de’ suoi usi, senza contrariare i più grandi interessi, o irritare le passioni le più vili, e che per conseguenza è del pari urgente e necessario di apporre ai progetti della malevolenza ed ai tentativi de’ malcontenti un governo egualmente attivo e vigoroso, che prepari la felicità del. popolo, per mezzo di leggi savie, ed alieni le manovre de’ suoi nemici, con un’attiva vigilanza,

Ordina ciò’ che segue:

Art. 1° La repubblica napoletana è provvisoriamente rappresentata da venticinque cittadini.

Art. 2° Sono nominati membri della rappresentanza nazzionale, i cittadini: Raimondo di Gennaro, Nicola Rasoio, Ignazio Ciaja, Carlo Laubert, Melchiorre Delfico, Moli terno, Domenico Bisoglia, Mario Pagano, Giuseppe Abbamonti, Domenico Cirillo, Forges Davansall, Vincenzo Porta, Raffaele Doria, Gabriele Manthonni, Giovanni Riario, Cesare Paribelli, Giuseppe Albanese, Pasquale Buffi, Francesco Pepe e Prosdo cimo Rotondo.

Art. 3° L’assemblea de’ rappresentanti è investila dell’autorità legislativa ed esecutiva, sino all’organizzazione completa del governo costituzionale.

Art. 4° I decreti dell’assemblea de’ rappresentanti non hanno forza di legge, se non dopo essere sanzionati dal generale in capo.

Art. 5° L’assemblea de’ rappresentanti non può deliberare, che quando i due terzi de’ membri sono presenti; i decreti sono definitivi alla maggiorità de’ voti.

Art. 6° L’assemblea de’ rappresentanti è divisa in sei comitati per l’esecuzione delle leggi e dj tutti i dettagli dell’amministrazione pubblica.

Art. 7° Vi sarà un comitato centrale, un comitato di legislazione, un comitato di polizia generale, un comitato militare, un comitato di finanze ed un comitato di amministrazione interiore.

Art. 8° membri de’ comitati saranno nominati dall’assemblea generale; lodi loro attribuzioni ed i limiti della loro giurisdizione saranno stabiliti con una legge particolare.

Art. 9° Il generale in capo si riserba di nominare i posti vacanti nella rappresentanza nazionale. —Napoli, il di 4 piovoso, anno 7° della repubblica francese.

Il generale in capo dell’armata di Napoli, Championnet.

I detti posti vacanti con altro decreto de 12 febbraio, furono riempiti, ed ecco il decreto:

DECRETO DEL GENERALE IN CAPO CHAMPIONNET— GOVERNO PROVVISORIO — COMITATO CENTRALE

Napoli, li 24 piovoso, anno 7°della libertà

(12 febbraio 1799.)

Si aggiungono per completare l’assemblea de’ rappresentanti provvisorii della repubblica napoletana, per dare più attività alle operazioni del governo li seguenti individui: Antonio Nolli, Giuseppe Luogoteta, Pasquale Falcigni, Diego Pignatelli del Vaglio, Vincenzo Bruno, sono nominati membri dell’assemblea de’ rappresentanti della repubblica napoletana.

comitato centrale viene incaricato della esecuzione del presente decreto. —Championnet. — Julien, segretario.

D

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

REPUBBLICA NAPOLETANA — GOVERNO PROVVISORIO — NAPOLI, LI 21 VENTOSO, ANNO VII DELLA LIBERTÀ

Il governo provvisorio considerando quanto importi il procurare ai contribuenti tutti i mezzi possibili onde venghino abilitati all’adempimento della contribuzione de’ due milioni e mezzi di ducati; — Che attesa la tariffa del numerario, conviene di dare ai detti contribuenti una nuova facilitazione di poter contribuire, non solamente in numerario ed in diamanti e gioie, ma ancora in derrate, effe ti e mercanzie; Che nondimeno per l’ordine della contabilità conviene che la tesoreria non riceva, se non numerario ed argenteria.

Che sia di necessità in conseguenza di stabilire un luogo d’introito, specialmente destinato a quello de’ diamanti, gioie, effetti, derrate e mercanzie d ogni genere; Considerando finalmente quanto sia importante il confidarsi quest’introito a mani sicure ed a negozianti esperimentati e capaci di conoscere il valore ed il prezzo degli effetti e mercanzie di ogni specie, decreta ciò che segue: i° sarà formata una associazione composta dalle due case di commercio, conosciuta Luna sotto il nome di Piatti padre e figlio, e l’altra sotto quello di Mericoffi zio e nipote, e Sorvillo. Quest’associazione prenderà il nome di Mericoffi e Piatti. — Art. 29. — Ciaja, presidente. — Salii, segretario generale.

E

LIBERTÀ —EGUAGLIANZA

DAL QUARTIERE GENERALE DI NAPOLI 9 VENTOSO, ANNO VII DELLA REPUBBLICA FRANCESE — CHAMPIONNET GENERALE IN CAPO, AI MEMBRI DEL GOVERNO PROVVISORIO

Io parto, cittadini, per Parigi, dove gli ordini del mio governo mi chiamano, e nel partire porto meco la dolce soddisfazione di lasciare alla repubblica napoletana, la quale mi sarà sempre cara, degli uomini virtuosi e repubblicani, che non hanno altra ambizione che la sicurezza della libertà del loro paese. Io non ho che un solo dispiacere partendo, cioè quello di non aver potuto regolare la contribuzione militare che vi era stata imposta; essa è al di sopra delle forze della repubblica, e se io non avessi dato parte di questo oggetto al governo francese, l’avrei regolato in una maniera più confacente alla vostra situazione ed alle circostanze dispiacevoli nelle quali vi trovate.

L’idea del mio successore non è sicuramente diversa, ed io non mancherò dal canto mio di usare i mezzi più efficaci presso il governo, per ottenere le giuste moderazioni che voi avete domandate, e farvi subito pervenire le dilucidazioni che voi impazientemente aspettate su quel tanto che riguarda i beni personali del re. Salute e fratellanza. — Quest’editto Corrisponde alli 29 febbraio,1799. — Championnet.

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

ESTRATTO DAL PROCESSO VERBALE DELLA SEDUTA GENERALE TENUTA DAL GOVERNO PROVVISORIO DELLA REPUBBLICA NAPOLETANA, IL DI 11 VENTOSO, ANNO VII DELLA REPUBBLICA

Il giorno 11 ventoso il generale in capo Magdonald, si è presentato al governo provvisorio. Esso ha tenuto il seguente discorso: La confidenza del direttorio esecutivo, cittadini, mi chiama al comando dell’armata destinala a difendere la vostra indipendenza; nell’entrare in questa carica ho il piacere di annunciarvi le vittorie riportate contro gl’insorgenti e briganti realisti, i quali cercano di abusare della vostra credulità della popolazione, in favore di una corte vile e perfida, discacciala per sempre da un territorio conquistato dalla libertà.

Celerà, Salerno e San Severo sono state le loro tombe e ben pochi Sono scappali dal ferro de’ vincitori; le bandiere, la loro artiglieria e le munizioni sono rimaste in nostro potere: Santa Lucia, altro ricovero di briganti, è stata posta alle fiamme. Terminino pure i nemici dell’ordine e della tranquillità pubblica; l’ora della vendetta è suonala, ed il segno della loro morte è dato.

Il risultato degli attacchi de’ 9 e 10 di questo mese è la pace ristabilita nella fu provincia di Apruzzo, Puglia e Calabria.

Il cittadino Nicola Pietro, tenente di cavalleria napoletana ha presa di sua mano una bandiera. Questo, insieme col cittadino Orazio Pelliccia, si sono comportali nella maniera la più distinta.

Il presidente del governo provvisorio, ha risposto che il governo napoletano era ben sicuro di queste premure del direttorio francese, di consolidare la libertà in queste felici contrade, le quali se nel tempo della schiavitù han mostralo del trasporto per la repubblica francese, maggiore la manifestano al presente, che hanno ricevuto dalla gran nazione il dono inestimabile della libertà.

Che li sentimenti della nostra riconoscenza saranno eterni, come sarà la nostra repubblica, che per mezzo di un gran generale, che per renderci liberi, è marciato alla testa della colonna repubblicana, ed ha disperse le falangi della tirannia, ci auguriamo la protezione della repubblica francese.

Il presidente ha finito il suo discorso co’ termini seguenti: La vostra entrata in questo comune è stata accompagnala dalle più gran vittorie, che si siano riportate fin’oggi contro gl’insorgenti. Questo augurio felice ci annunzia tutti i vantaggi che deve sperare la nostra repubblica dalla vostra presenza. — Per estratto conforme: Ciaja, presidente— Pel segretario generale interino, Paribelli.

F

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

REPUBBLICA NAPOLETANA

Ai commissari della tesoreria generale. — Sono invitati i cittadini di Napoli a soddisfare ne' tempi prescritti ii contributo della decima a tenore della lassa, con polizze bancali da consegnarsi agli uffiziali dei rispettivi carichi giusto il solito, con dirigere però il pagamento alla tesoreria nazionale per conto della decima. Salute e fratellanza. — Napoli, li 2 ventoso, anno 7° della libertà (20 febbraio 1799); Vecchio Domenico di Gennaro, Cantalupo, Antonio Piatti, Felice Saponara, Gerolamo Curtis, segretario.

G

COPIA —IL CAPITAN GENERALE ACTON CON DISPACCIO DI QUESTA DATA, MI HA COMUNICATO LA SEGUENTE SOVRANA RISOLUZIONE DI S. M.

Eccellentissimo signore, Avendo fatta premura il cardinal Ruffo di avere alla sua immediazione, durante la commissione che va a dissimpegnare nel regno di Napoli, l'aiutante reale marchese Malaspina, si è di guato il re di aderire a detta istanza e permettere che il mentovato marchese continui il merito del suo servizio presso il prenominato cardinale, restando sempre in proprietà dell’attuale suo impiego e nel godimento de’ suoi emolumenti. ((48)) Nel reale nome prevengo l'E. V. per sua intelligenza e perché si serva riscontrarne il medesimo marchese. — Palermo. —Io dunque fo sapere a V. S. questa sovrana risoluzione per sua intelligenza e governo. —Palazzo, li 27 gennaio 1799. — Principe de’ Luzzi. — Signor Marchese Malaspina.

H

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

REPUBBLICA NAPOLETANA —GOVERNO PROVVISORIO —ARMATA DI NAPOLI —PRIMA DIVISIONE GENERALE DEI LA CAVA, 8 VENTOSO, ANNO MI REPUBBLICANO — IL GENERALE DI DIVISIONE, OLIVIERI, AL GENERALE C1IAMP1ONNET COMANDANTE IN CAPO DELL’ARMATA IN NAPOLI

Sono in questo punto informato, caro generale, che molti cacciatori, che aveva drizzalo, con al une mie lettere, sieno stati uccisi. Gli assassini che occupano la pubblica strada, ed essi, si sono questa mattina attaccali. Da Celerà il capo di brigata Farnaud mi rende conto di avere interamente battuti gli assassini, che loro ha presi undici pezzi di cannoni del calibro da 4 con le munizioni. Io vi darò i dettagli di questo attacco, subito e che avrò puniti gli assassini e ristabilite le comunicazioni. Vi abbraccio. — Sottoscritto Olivieri.

Il generale in capo Championnet, al generale di divisione Rev. — V’indirizzo, generale, una lettera del generale di divisione Olivieri; vi piego a pubblicarla siccome merita. Salute e fratellanza: — Firmato, Championnet. — Per copia conformo il generale di divisione, firmato, Rev.

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

ARMATA DI NAPOLI —ESTRATTO DI UNA LETTERA DEL GENERALE DI DIVISIONE DUCHESME, AL GENERALE IN CAPO —DAL QUARTIER GENERALE DI FOGGIA, LI 9 VENTOSO, ANNO VII REPUBBLICANO

Generale: L’armata coalizzata della Puglia e degli Apruzzi non era effimera. Una turba di galeotti e gli avanzi dispersi delle truppe, che mi stavano di fronte negli Apruzzi, ingrossati dalla moltitudine di San Severo e de’ paesi circonvicini, formando colà una riunione di diecimila uomini che occupavano un posto veramente militare, sopra un’altura coperta di olive, che domina una vasta pianura, e non interrotta, sgombra dalla loro cavalleria, e protoni da’ loro cannoni, situali nelle principali imboccature. Dopo aver prese le mie posizioni, fu dato il segno della battaglia. — L’assalto delle nostre truppe fu come il fulmine che precede il tuono. Dopo le manovre, valorosamente eseguite dalle truppe, è stata chiusa la ritirata a’ ribelli. Il reato della giornata non è stato altro che un massacro, il quale ebbe termine, perché le donne ed i fanciulli fuggiti il giorno avanti, si misero fra i ribelli ed i soldati. Questi oggetti, sempre rispettabili agli occhi de’ Francesi, ottennero la commiserazione.

I nostri soldati tanto terribili un’ora prima, riconducevano con dolcezza dei drappelli di donne e di fanciulli nelle loro case deserte. Avevo giurato di far incendiare San Severo, sorgente dell’insurrezione generale, i di cui abitanti avevano data morte a lutti quelli che avevano parlato di rendersi e che ave vano nel loro furore incarcerato il loro vescovo, che a norma del vangelo predicava sommissione e la pace, ma fui commosso dalla sorte lacrimevole di una popolazione di ventimila anime. Feci cessare il sacco e perdonai. Sono restali morti più di tremila ribelli, fra’ quali diversi uffiziali napoletani. I loro cannoni sono nelle nostre mani. Non invio che i loro stendardi di cavalleria; quelli di fanteria non erano altro che tovaglie di chiesa. — Manfredonia, San Marco, Torremaggiore e tutti i paesi circonvicini, vennero nella notte a domandare perdono; talmente che la Puglia che era qualche giorno prima (eccettuata Foggia) generalmente in insurrezione, è presentemente pacificala; tutte le truppe hanno continuato a battere la strada dell’onore. — L’aiutante di campo Michaud e l’aggiunto Dathé si sono distinti e quindi meritano le promozioni che vi ho domandate. — Sottoscritto Duchesme. —Per copia conforme, l’aiutante generalo, capo dello stato maggiore generale dell’armata, Leopoldo Berthier.

Pizzo,6 marzo 1799. Signor aiutante maggiore reale, marchese Malaspina. —In inedia a mente ricevuto il presente, arresterà in nome di S. M. gli uffiziali, signor capitano Don Diego Afan deriverà, il tenente Don Giuseppe Spano ed il tenente Don Giuseppe Singlito. Li farà imbarcare immediata niente sopra il Felcuone di Guardia, benché non si posa per ora partire, facendoli guardare a vista dalla truppa sciolta e da ventiquattro uomini di truppa regolare. Quando farà buon tempo, gli trasporterà di persona a Messina, consegnandoli al signor generale Danero, che li terrà a disposizione di S. M. che darà gli ordini direttamente riguardanti il loro destino. Fatta la consegna dei suddetti uffiziali, se ne tornerà ove mi trovo, e riprenderà le sue funzioni di aiutante reale. — Firmato: cardinal Ruffo, vicario generale.

Le rispettive consegne devono essere sempre vita per vita.

K

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

REPUBBLICA NAPOLETANA — NAPOLI IL DÌ..... ANNO I DELLA LIBERTÀ

La commissione militare per l’organizzazione della truppa, a tutta l'uffizialità dell'esercito ed ai patriotti.

Il comitato militare, in data del io ventoso, ci ha comunicalo la seguente determinazione:

Il governo provvisorio si è risoluto di stabilire una commissione militare per l’organizzazione della truppa, ed ha scelti i generali Federici, Virtz e Massa, ed i due cittadini Francesco Pignatelli e Vincenzo Palumbo per comporla; ed ai quali dà 1incarico di prendere nota di tutti gli uffiziali dell'ex esercito, esaminarne le qualità e cii costanze, per impiegare coloro che saranno alti al servizio ne’ corpi repubblicani di fanteria, cavalleria d artiglieria che dovranno formarsi, cd indi proporre agli impieghi di ritiro ed a semplici ritiro quelli, che per le loro circ stanze, li credetele degni; prevenendovi di più, di considerare anche negli impieghi militari attivi qualcheduno de patrioti! che ve ne parrà più meritevole. In seguito di tale disposizione, noi tutti membri componenti la succennata commissione, volendo procedere col maggiore accordo ed in modo da incontrare la comune soddisfa zinne, invitiamo lutti gli uffiziali dell’ex esercito acciò si muniscano di tutti i loro requisì i e patenti, per quindi presentarli a questa commissione, affine di fare il dovuto registro secondo le classi e circostanze di ciascun individuo. Per evitare qualunque confusione, si è stabilito d’invitare in diversi giorni le diverse classi degli uffiziali, e quindi pel giorno 29 ventoso potranno intervenire nell’espressata commissione i soli ex uffiziali di cavalleria, da capitani inclusivi in giù, dalle io del mattino fino alle 4 del giorno, e pel 30 ventoso in avanti gli uffiziali dello stato maggiore della suddetta cavalleria, riserbandoci di invitare successivamente, a misura che il tempo lo permetterà, tutti gli altri uffiziali di tutti i sopra espressati rami, colle rispettive classificazioni.

Preveniamo a tutti gli individui militari del nominato ex — esercito, di qualunque classe essi siano, di dirigere le loro petizioni per le situazioni che domanderanno da ora in avanti a questa commissione, affine di evitarsi il ritardo del disbrigo degli affari pel giro delle dette carte. Salute e fratellanza. Generalo Francesco Federici. Generale Giuseppe Virtz. Generale Oronzo Massa. Cittadino Francesco Pignatelli. Cittadino Vincenzo Palumbo. Cittadino Giuseppe Marzo, segretario.

LIBERTÀ — EGUAGLIANZA

REPUBBLICA NAPOLETANA —DAL QUARTIERE GENERALE DI LI 11 VENTOSO, ANNO VII REPUBBLICANO

Il generale di divisione Francesco Federici, agli uffiziali e soldati di cavalleria.

Avendomi il governo provvisorio, coll’approvazione del generale in capo dell’armata francese, destinato all’organizzazione della cavalleria della nostra repubblica, primo e mio sacro dovere è stato quello di pensare alla vostra sussistenza. Voi avete sofferto, egli è vero, ma non ignorate che i vostri mali sono derivali dalla cecità del passato tirannico governo; mediante però l'impegno preso da tutte le autorità costituite dalla repubblica di radunare le armi, cavalli, foraggi e quanto mai vi possa bisognare, tutte le difficoltà di esecuzione svaniranno. Il prestito, il vestiario, la sussistenza, vi sono assicurati dal governo, lo invito tutti gli uffiziali di cavalleria che vor rannoservire la patria a venire da me per presentare le loro petizioni al governo. Invito tutti i cittadini, e sopra tutto i soldati veterani di cavalleria, ad arruolarsi sotto il sacro vessillo della libertà. Il punto di riunione è il mio quartier generale. — Il generale di divisione, Francesco Federici.

L

LIBERTÀ— EGUAGLIANZA

REPUBBLICA NAPOLETANA — IL CITTADINO MASSA GENERALE D’ARTIGLIERIA, COMANDANTE IL CASTEL NUOVO — CASTEL NUOVO LI 2 MESS1FERO, ANNO I DELLA LIBERTÀ

Essendosi dal comandante Pool della flotta inglese intimata la resa del castel dell’Ovo, ed indi dal cardinal Ruffo vicario generale del regno di Napoli, dal cavaliere Micheraux ministro plenipotenziario di S. M. il re delle Due Sicilie presso la flotta russa ottomana, e dal comandante in capo delle truppe di S. M. 1 Imperatore di tutte le Russie, e dal comandante le truppe ot tornane a questo castel Nuovo, il consiglio di guerra si è adunato, ed avendo deliberato sulla suddetta intimazione, ha risoluto che i due forti saranno rimessi ai comandanti delle truppe dissopra enunciate, per mezzo di una onorevole capitolazione, e dopo aver fatto conoscere al comandante del forte di 8. Elmo i motivi di questa resa. In conseguenza il suddetto consiglio ha redatto gli articoli della seguente capitolazione, senza l’accettazione de' quali la resa non può aver luogo.

1° 1 castelli Nuovo e dell’Ovo saranno rimessi ai comandanti delle truppa di S. M. il re delle Due Sicilie, e di quelle de suoi alleati il re d’Inghilterra, l'imperatore di tutte le Russie, eia Porta Ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglieria ed effetti di ogni specie esistenti ne' magazzini, di cui si formerà inventario da’ commissarii rispettivi. — Accordato. — Dopo, la firma della presente capito azione.

2° Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti fino a che i bastimenti, di cui si parlerà appresso, qui destinati a trasportar gli individui che vorranno andare a Tolone, saran pronti a far vela. — Accordato.

3° Le guarnigioni usi ranno cogli onori di guerra, armi e bagagli, tamburro battente, bandiere spiegate, miccia accisa, e ciascuna con due pezzi d'artiglieria. Esse deporranno le armi sul lido. — Accordato.

4° Le persone, le proprietà mobili ed immobili di tutti gli individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite. — Accordato.

5°Tutti i suddetti individui potranno scegliere d’imbarcarsi sopra bastimenti parlamentarii, che saranno loro preparati per condursi a Tolone, e di restare in Napoli senza essere inquietati essi né le di loro famiglie. — Accordato.

6° Le condizioni contenute nella presente capitolazione sono comuni a tutte le persone de due sessi racchiuse ne’ forti. — Accordato.

7° Le stesse condizioni avranno luogo riguardo tutti i prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S. A. il re delle Due Sicilie e quelle de’ suoi alleati nei diversi combattimenti che hanno avuto luogo prima del blocco dei forti. —Accordato.

8° I signori arcivescovo di Salerno, Micheraux, Dillon (questi erano militari) ed il vescovo di Avellino, ditenuti, saranno rimessi al comandante del furie di S. Elmo, ove restarono in ostaggio fino a che sia assicurato l’arrivo a Tolone degli individui che vi si mandano. — Accordalo.

9° Tutti gli altri ostaggi o prigionieri di stato rinchiusi nei due forti, tutti saranno rimessi in libertà subito dopo la firma della presente capitolazione. — Accordato.

10° Tutti gli articoli della suddetta capitolazione non potranno eseguirsi se non dopo che saranno stati intieramente approvati dal comandante del forte di S. Elmo. — Il generale Massa comandante del forte Castel Nuovo.

En vertu de la délibération prise par le conseil de guerre au fort de S. Elmo, le 3 de messidor, sur la lettre du général Massa, commandant le fort Neuf, en date du 1er dudit mois, le commandant du fort S. Elmo a approuve les articles de la capitulation ci dessus. —Au fort S. Elmo, le 3 messidor an vu de la république française. — Le chef de brigade commandant le fort S. Elmo, St Méjan.

M

ARTICLES DE LA CAPITULATION CONCLUE ENTRE LA GARNISON DU FORT S. ELMO ET LES TROUPES DE S. M. SICILIENNE ET DE SES ALLIÉS

1° La garnison française du fort S. Elmo se rendra prisonnière de guerre à S. M. napolitaine et ses allies, et ne servira contre aucune des puissances qui sont actuellement en guerre contre la république française, jusqu’à ce qu elle soit régulièrement échangée.

2° Lei grenadiers anglais prendront possession de la porte du fort dans la journée.

3° La garnison française sortira demain du fort avec ses armes et le tambour battant. Lea troupes déposeront leurs armes hors de la porte du fort, et un détachement de troupes anglaises, russes, portugaises et napolitaines prendra possession du château.

4° Les officiers garderont leurs armes.

5° La garnison sera embarquée sur l’escadre anglaise, jusqu’à ce qu’on ait préparé les bâtiments nécessaires pour les trans porter en France.

6° Quand les grenadiers anglais prendront possession de la porte, tous les sujets de S. M. sicilienne seront remis aux alliés ((49).

7° Une garde de soldats français sera placée autour du pavillon français, pour empocher qu’il soit détruit. Celle garde restera jusqu’à ce que toute la garnison soit sortie, et qu’elle soit relevée par un officier et une garde anglaise, à laquelle il sera donne l’ordre d’enlever le drapeau français et d’arborer celui de S. M. sicilienne.

8° Toute propriété particulière sera conservée à son propriétaire. Toute propriété publique sera remise avec le fort, ainsi que les effets provenants du pillage.

9° Les mulades hors d’état d'etre transportes seront traités aux dépens de la république. Ils seront renvoyés en France aussitôt après leur guérison.

Fait au fort de S. Elmo, le 22 messidor, an vu de la république française (corrisponde alli 11 di luglio 1799).

Firmati. —Il capo di brigala, comandante dal forte di S. Elmo a Napoli, Mejan. — Il duca della Calandra, tenente generale dell’esercito di S. M. — Troubridge, capt. of His Britannie Majesty’s ship the Culloden, and commandor of the British et Portuguese troops at the attack of S. Elmo. —Capitano luogotenente cavaliere Belli, comandante le truppe di S. M. l’imperatore di tutte le Russie all’attacco del castel S. Elmo.


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N

Ad oggetto che gli ospedali degli incurabili di S. Giacomo e dell’Annunziata possano conseguire prontamente l’importo delle giornate di ospitalità, ho disposto che a tutti gli individui della truppa a massa ed altri corpi conseguiscano il prestito di 25grana al giorno, si ritengano 13 grana al giorno pel tempo che si mantengano infermi in qualcheduno de’ detti ospedali; che il brigadiere Emanuele Carrillo, incaricato di tutto ciò che concerne la buona assistenza de’ malati negli ospedali medesimi, rimetta in ogni sera a V. S. Ill.ma il rapporto de’ soldati infermi, individuando chiaramente l’ospedale in cui trovansi ed il reggimento al quale appartengono, onde sia di sua regola nel dover visitare il rispettivo piedalista; e che in ogni mese ciascuno di detti ospedali produca la nota dalle giornata di ospedalità, che deve conseguire per disporsene il corrispondente pagamento. Lo partecipo intanto a V. S. Ill.ma per l'adempimento di sua parte.

Napoli, 20 luglio 1799. — F. Cardinal Ruffo.

Al sig. Marchese Malaspina.

Dovendo partire per l’Italia il sig. cavaliere Micheraux, scrisse la seguente lettera:

Eccellenza, Coerentemente alle determinazioni di S. £. il cardinal Ruffo, ho l’onore di significarle qualmente avrà l’E. V. per l’avvenire l’incarico di sopraintendere alla special cura del corpo dei Russi; e poiché l’E. V. rimanga dal pensiero de’ piccioli oggetti relativi al loro mantenimento, ho incaricato di questi il signor capitan D. Sebastiano Pousset, il quale fu già da me proposto ad una tale incombenza in occasione degli assedii di S. Elmo e di Capua, e che dovrà intendersela con lei e darle conto di tutto.

Ho l'onore di esserle con sentimenti della considerazione più distinta Napoli,li 6 agosto 1779, Di V. E.

Dev. Ed obb. servitore, il cavaliere Antonio Micheraux, commissario generale e diplomatico per S. M. presso il corpo russo.

Al sig. Marchese Malaspina, Napoli.

Vuole il re che sino a quando non si possano stabilire i metodi regolari e prescritti dalle reali ordinanze, e le particolari sovrane risoluzioni circa i pagamenti della truppa e l’economia dell’esercito, continui V. S. Ill.ma nella commissione incaricatagli, e tanto lodevolmente da lei finora disimpegnata, di visitare i pagamenti delle reali truppe sì regolari, moscovite che in massa, nell’intelligenza di essersi quindi spediti gli ordini al tesoriere Versace, acciò, in vista degli stati delle mentovate truppe, corroborati colla sola firma di V. S. Ill.ma, paghi le somme che le saranno ordinate ai rispettivi quartier mastri per le truppe regolari, ed alla contadoria per le truppe a massa. La real segreteria di stato e guerra, nel real nome io partecipa a V. S. Ill.ma per riempimento di sua parte.

Palazzo, 31 agosto 1799

Ferdinando Lugerot, direttore del ministero di guerra.

Sig. Marchese Malaspina, Comanda il re che durante l’assenza del cavaliere Micheraux ministro plenipotenziario e commissario generale, sia V. S. Ill.ma incaricato della successiva cura delle truppe russe che rimangono al servizio militare di questa capitale.

La real segreteria di stato e guerra glielo partecipa per suo governo ed adempimento.

Palazzo, 24 dicembre 1799.

Ferdinando Lugerot.

Sig. Marchese Malaspina aiutante reale.

O

ARTICLES DE LA CAPITULATION CONCLUE ENTRE LES TROUPES DE S. M. SICILIENNE ET LES ALLIÉ8 ET LA GARNISON DE CAPOUE

1° La garnison française, cisalpine et polonaise de Capoue se rendra prisonnière de guerre à S. M. napolitaine et ses al liés, et ne servira contre aucune des puissances qui sont actuellement en guerre contre la république, jusqu’à ce qu’elle soit régulièrement échangée.

2° Les grenadiers anglais prendront possession des deux portes et de la place, après que les articles auront été échangés.

3 La garnison française sortira demain de la place avec ses armes et le tambour battant: le troupes déposeront leurs armes et leurs drapeaux hors de la place, et un détachement de troupes anglaises, russes, portugaises et napolitaines prendront possession de la place demain au soir.

4° Les officiers garderont leurs armes.

5° La garnison sera embarquée sur l’escadre anglaise jusqu’à ce qu’on ait préparé les bâtiments nécessaires pour la transporter en France. Elle sera transportée, sur la loyauté des Anglais, à Naples.

6° Une garde de soldats français sera placée autour du pavillon français pour empêcher qu’il soit détruit. Celle garde restera jusqu’à ce que tonte la garnison soit sortie et qu’elle soit relevée par un officier et une garde anglaise, à laquelle il sera donne Tordre d’enlever le drapeau français et d’arborer celui de S. M. sicilienne.

7° Toute propriété particulière sera conservée à son propriétaire. Toute propriété publique sera remise avec la place.

8° Les malades hors d’état d’être transportés resteront à Capoue avec des chirurgiens français, et seront traités aux dépens de la république française. Il seront renvoyés en France aussitôt après leur guérison.

Fait à Capoue, le 10 termidor an vii de la république française (28 luglio 1799). Le général de brigade commandant à Capoue, Gérardon. — L. Troubridge, capt, of His Majesty’s ship the Culloden, and commandor in chief of the forces employed at the siege of Capoue. —Il maresciallo de Bouccard, comandante delle truppe di S. M. sicilienne. — Capt, lieutenant Builie, commandor of His Imperiai Majesty’s troops at the siege of Capoue.

Signé: commandant des troupes ottomanes au siège.

P

FERDINANDO IV, PER LA GRAZIA DI DIO RE DELLE DUE SICILIE E GERUSALEMME, ECC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO, ECC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO DELLA TOSCANA, ECC., ECC., ECC.

La nobiltà di ogni ben regolala monarchia, ne forma il più saldo appoggio ed il miglior sostegno, come il più glorioso lustro, quando ha per base della sua condotta la fedeltà ed il valore; a questi sublimi oggetti debbano unicamente tendere tutte le istituzioni che rendono nelle monarchie il corpo dei nobili, distinto ed illustre, tra i differenti ordini dello stato. Quindi con massima pena dell’animo nostro, abbiamo noi veduto nelle passate circostanze, che i Sedili o»siano piazze della città di Napoli, sieno rimasti in una totale indifferenza sulla sorte dello stato, ed abbiano confidato ad abbandonato le loro facoltà in mano ad un drappello di giovinastri corrotti e senza attaccamento alla causa di Dio e nostra; lasciandoli,come è notorio, attentare i primi alla nostra suprema autorità, senza opporsi alla distruzzione da essi fatta di quella potestà che il nostro vicario generale unicamente e legittimamente da noi teneva. E quantunque gli eletti e deputati, dopo aver già criminosamente di molto oltrepassati i confini delle loto incombenze, mossi forse da un momento di rimorso ed imbarazzali dalle circostanze, avessero date alle piazze la di loro rinunzia, queste nondimeno non vollero accettarla, con firmando coi la rivolta e la spedizione di essi deputati ed eletti, quandocché era in libertà delle piazze di accettare una tale rinunzia e di scegliere e proporre coloro che fossero di un riconosciuto attaccamento alla religione, ed al trono: anzi dovevano le piazze, subito che ravvisarono il trascorso degli eletti e deputati, rivocare ogni facoltà loro concessa e venire alla nuova elezione, e proposta di soggetti probi e fedeli.

Il nostro real clementissimo animo è ben lontano dal supporre negl’individui delle piazze, che avessero essi avuto disegni Ostili e poco attaccamento alla nostra real corona, ma non abbiamo non potuto ravvisare nelle medesime quel vizio intrinseco, che ha scoraggito i buoni e data occasione ai,cattivi di mal oprare. É noto che da molto tempo i savi e probi cavalieri, poco e quasi affatto intervenivano nelle unioni de’ Sedili, perché i voti dandosi a testa, e non a famiglia, tutti i sconsigliati giovani che la corruzione de’ tempi aveva resi peggiori, ed aveva fatti degenerare, formando la gran maggioranza nelle risoluzioni, le scelte sovente non cadevano che sopra soggetti non poco degni, ed erano perciò divenute motivo di scandalo per i buoni, in riguardo alle cabale che si ordivano e che infelicemente trionfavano, diretti a procurare gl’impieghi a chi ne faceva solo un oggetto di lucro e di abuso.

L’aggregazione ugualmente ai Sedili, punto così delicato per una illustre ed antica nobiltà, era divenuto il più delle volte un vergognoso traffico, a segno che abbiamo noi stessi dovuto negli ultimi tempi (conscii de’ depositi pecuniari che si erano fatti a tal uopo) impedire siffatte scandalose aggregazioni, giacché quando la nobiltà si compra, non è la ricompensa della fedeltà e del valore, come il risultato di una serie di generazioni che nobilmente vivendo nel valore e nella fedeltà si sian distinte, cessa la medesima di formare il lustro di una monarchia ed il di lui appoggio. E poiché non conviene alla corona di soffrire fra i nobili delle istituzioni, che li degradino, essendo benanche nostro dovere, dopo la riconquista del regno di Napoli, che coll’aiuto di Dio le nostre vittoriose armi hanno fatta di togliere e correggere quelle istituzioni viziose, che vi sieno negli ordini dello stato, e che non abbiano corrisposto a quei principi di fedeltà inviolabile, che si son dovute; abbiamo creduto necessario di dirigere al loro primiero e l indispensabile oggetto tali corrotte istituzioni, e perciò abbiamo risoluto di dare una nuova forma alla nobiltà di Napoli, ripristinandone nell’istesso tempo il lustro, e lo splendore.

A questa nostra determinazione ci ha tanto più spinti quello che si è ardito motivare, e sostenere in iscritto in difesa degli eletti e deputati de le piazze; ciocche queste avessero il privilegio, quando il nemico è ad Aversa, di portargli le chiavi e sottomettersi qualunque invasore come di assumere parte del governo nell’avvicinarsi il nemico. Privilegi assurdi, che non hanno mai esistiti e che non vi è che la più sfrontata codardia» che possa immaginare. Non essendo pertanto da tollerarci qualunque istituzione, che ardisca pretendere tali privilegi, perché sarebbe lo stesso che autorizzare la codardia e l’indifferenza pel bene dello stato, ed il permettere ne’ tempi di crisi l’anarchia e l’insubordinazione. Perciò di questo nostro sovrano editto in perpetuum validumcolla nostra suprema potestà e colla pienezza del diritto che ci appartiene in virtù della riconquista da noi fatta della capitale e regno, aboliamo per sempre le piazze» ossieno Sedili della città di Napoli, e ne proibiamo le unioni sotto pena di delitto di fellonìa contro coloro che si procurassero o le formassero, rivocando ed annullando a tale effetto ogni legge e capitoli e concessioni precedentemente alle medesime ordinate.

In conseguenza aboliamo totalmente il corpo degli eletti, ossia il tribunale di San Lorenzo e tutte le altre deputazioni di città, riserbandoci di provvedere in questo editto, qui appresso al governo degli affari dell’Università della città di Napoli, rispetto alle cose di Annone ed agli altri oggetti dee erano diretti dal tribunale di San Lorenzo e dagli altri tribunali deputazioni della città, che più sopra abbiamo a perpetuo aboliti.

Creiamo quindi un nuovo tribunale che si denominerà Supremo Tribunale Conservatore della nobiltà del regno di Napoli, il quale sarà composto da un presidente e sci consigli ripresi trai dipinti e prodi cavalieri, riconosciuti per loro attaccamento alla corona e per le loro massime e sentimenti di onoratezza, ed al detto tribunale comandiamo che si dia il tratta mento di Eccellenza.

Le basi di queste supremo nobilissimo tribunale, saranno di mantenere sempre illesa la purità e distinzione delle Famiglie nobili, come di mantenere sempre saldi nella nobiltà i principii di onore, fedeltà e valore, e di eseguire, preparare eproporre tutti quelli ordini che noi crederemo opportuni di dar percoli grandi ed importantissimi oggetti.

Perciò sarà di sua ispezione primieramente di conservare un esatto registro di tutte le famiglie ch’erano ascritte alle piazze testano Sedili di Napoli, il quale registro verrà chiamato librò d’Orodella nobiltà napoletana, riservandoci noi colla pienezza della nostra potestà, in vista di segnatali servizi e di riconosciuta antichissima nobiltà, di aggregare al detto libro d’Oroi più distinti e benemeriti soggetti e le di loro famiglie.

Terrà benanche il detto tribunale un registro, ma separato, di tutte le famiglie che non erano ascritte ai. Sedili, ma che posseggono feudi almeno da duecento anni in quà;ed inoltre sarà della pertinenza di questo tribunale di tener registro di tette in famiglie che passano l’abito di malta di giustizia, colla indicazione del tempo nel quale hanno per la prima volta passato la bile suddetto; e conserverà un altro registro di tutti i nobili iscritti ai Sedili chiusi delle città del regno che Formano nobiltà, indicando in libro, a parte, quelle famiglie ed individui, che essendo della sopra mentova la classe, ma non del libro d’oro, siano domiciliati in Napoli.

E siccome ci preme infinitamente che i sentimenti di onore, che fanno il più bel pregio di un animo nobile, siano inviolabilmente conservali nella nobiltà, così sarà cura di questo tribunale di prendere ispezione di tutti gli affari di onore che tra i nobili potessero aver luogo; informandosi severamente di chiunque tra i medesimi avesse potuto mancarvi, e cassando, previa relazione da farsi a noi, l’individuo della nobiltà che vi avrà mancalo, sia dal libro d’Oro, se sarà nobiltà di quella classe, sia dagli altri registri, se sarà delle altre classi sopramentovate, e dichiarando il medesimo decaduto dagli onori, prerogative e preminenze del grado: e stampando ogni anno il detto supremo tribunale conservatore della nobiltà del regno di Napoli, una nota degli individui che mai avessero incorse tale degradazione, ed i soggetti degradati non potranno essere mai più ammessi loro vita durante ai reali baciamani, o allo esercizio di qualunque pubblico impiego.

Vogliamo inoltre che in tutte le decisioni per affari di onore, che il detto supremo tribunale farà, abbiano sempre ad intervenirvi, con voto deliberativo, due uffiziali generali del nostro esercito che noi nomineremo a tale effetto.

Terrà il tribunale un altro esatto registrò che si chiamerà del net quale verranno notale tutte le azioni di fedeltà, di valore ed attaccamento allo stato che i nobili delle differenti classi avranno fatte, ed ogni anno lo pubblicherà colle stampe, essendo noi fermamente risoluti di non accordare onori e prerogative che a quelli tra i nobili i quali nell’indicato modo si distingueranno. Formerà il detto tribunale un sistema relativamente agli stemma che ciascuna classe di nobili può usare, secondo le ricevute regole, lo proporrà a noi, affinché possa, dopoché noi l’avremo approvalo, pubblicarlo ed irremissibilmente farlo eseguire.

Creiamo e stabiliamo pel governo degli affari dell’università di Napoli un Regio Senato, composto da un presidente ed otto senatori i quali eserciteranno nel corso di un anno le stesse facoltà, che aveva l’abolito tribunale di San Lorenzo e di essi faremo noi l’elezione, scegliendoli tra i soggetti i più probi e prendendo il presidente e due senatori da nobili che sono nel libro d’Oro; due senatori de’ nobili che non sono nel libro d’Oro, ma che sono degli altri registri, e domiciliati in Napoli; due senatori del celo de’ negozianti e due senatori del ceto de’ togati. E siccome vogliamo che il detto senato abbia tutta l’autorità convenevole pel disbrigo delle materie di Annone, non solamente uguale ma maggiore di quella che aveva il tribunale di San Lorenzo, così aboliamo la carica di prefetto del l’Annone e l’appello nella nostra real camera di Santa Chiara, e vogliamo che, istallato che sarà il senato, tutte le materie di Annone che prima dal tribunale di San Lorenzo, dalla Corte del regio giustiziere, dal prefetto dell’Annone e dalla real camera di Santa Chiara si decidevano, sieno inappellabilmente decise dal senato suddetto, col voto e parere nelle materie di giustizia da due senatori togati, riserbandoci noi in qualche caso straordinario di accordare la revisione nel detto sanalo con ministri aggiunti.

L’abito di cerimonia del senato suddetto sarà ad instardi quello della città di Palermo.

Il regio senato in corpo avrà, come avea il tribunale di San Lorenzo, il trattamento di eccellenza eie altre prerogative ed onori che quello godeva, e sarà ammesso nelle pubbliche funzioni colle stesse onorificenze.

Le funzioni di regio giustiziere si eserciteranno in giro, per il corso di un mese da tutti i senatori i quali proporranno nel senato le materie più interessanti.

Le funzioni di eletto del popolo saranno esercitate da uno de’ senatori negozianti, un mese per ciascheduno in giro, il quale proporrà tutte le materie di rilievo nel senato, per decidersi quello ed invigilare attentamente al buon ordine del mercato e de’ luoghi e venditori a lui soggetti, come per lo passato, e procederà nelle forme solite e consuete.

Ricreamo il tribunale della Fortificazione, Acqua e Mattonata della città di Napoli, e vogliamo che sia composto dal sepraintendente, come per lo passato, da due deputati presi dal libro d’Oro, da due nobili presi dagli altri registri de’ domicilianti in Napoli e da un negoziante e da un avvocato, i quali tutti verranno da noi destinali ed eserciteranno per un anno le istesse facoltà attribuite per lo passato al detto tribunale della Fortificazione.

Vogliamo che il tribunale della generale salute continui le sue interessanti funzioni, come per lo addietro, e gli diamo soltanto la Seguente nuova forma. Sarà esso composto dal sopraintendente, che avrà le istesse antiche facoltà, e di dodici deputati, cioè quattro presi tra i nobili del libro d’Oro,due da quelli che sono degli altri registri, tre dal ceto de’ negozianti e tre dal celo degli avvocati. Eserciteranno i medesimi, durante il nostro beneplacito e faranno tutto ciò che prima dal detto tribunale di salute si faceva.

Conserviamo la carica di portolano, come per lo passato, e la eleggeremo noi in ogni anno, sciegliendolo un anno da’ nobili del libro d’Oro, ed un altro annoda’ nobili degli altri registri.

Conserviamo benanche la deputazione dell’officio suddetta di regio portolano e vogliamo che sia composta a nostra elezione da sei deputati, cioè due de’ nobili del libro d’Oro, due de’ nobili degli altri registri e due presi indistintamente dal celo dei negozianti o avvocati. Vogliamo che il primario de’ tavolari del sacro regio consiglio, sia da ora in avanti una persona della facoltà, e ci riserbiamo noi di nominarlo, dopo aver preso i necessari informi de’ talenti e de’ servizii resi dai rispedivi individui della facoltà stessa.

Tulle le altre deputazioni di città restano abolite, e riguardo a quelle degli arrendamenti, così detti di città, alle quali le piazze nominavano, vogliamo che il nostro luogotenente e capitan generale del regno di Napoli a quella giunta di governo ci propongano un piano analogo per l’amministrazione de’ medesimi, in conformità dello spirito di questo stabilimento e degli altri arrenda menti. Le opere pie che erano amministrate da talune piazze, continueranno ad essere governate da individui scelti da noi, tra le sole famiglie che avevano dritto di lati governi.

Le famiglie che avevano solo dritto di essere ammesse al monistero di dame di San Gregorio Armeno, continueranno ad esser sole a godere di quella ammissione.

Il regio senato di Napoli e le deputazioni che in questo nostro editto abbiamo conservato, si uniranno nel monistero di Monte Oliveto, che per atto di nostra sovrana munificenza, noi gli concediamo a tale oggetto. Vogliamo che il senato e deputazioni sieno istallati al primo di ciascun anno e che i soggetti, che la prima volta debbono coprirli, ci vengano proposti previi i dovuti esami e nella solita forma perle altre cariche dal nostro luogotenente del regno di Napoli, e dalla giunta di governo, comandando, che la regia deputazione, che attualmente è alla testa dell’Annone della città di Napoli, continui ad esercitare infino allora le sue funzioni in quello stesso plausibile modo che ha finora fatto.

E finalmente Tommaso d’Avalos, marchese del Vasto e di Pescara, avendo abbandonato tutto per seguitarci in Sicilia, nel tempo dell’invasione del nemico, ed avendo con ciò rinnovato il glorioso esempio di fedeltà che l’illustre suo antenato Alfonso d’Avalos marchese del Vasto che dette al re Ferdinando II, nostro augusto predecessore, abbiamo noi risoluto di accordare a questa benemerita famiglia un costante contrassegno della nostra sovrana riconoscenza, creando primo titolo e primo barone del regno di Napoli Tommaso d’Avalos, attualmente marchese del Vasto e di Pescara e tutti i di lui primogeniti maschi dal di cui corpo legittimamente discendendo in perpetuum,volendo ben anche che la nobiltà napoletana abbia un monumento perenne della fedeltà usata da questa illustre famiglia e della ricompensa ottenutane!.

Ed affinché quanto abbiamo prescritto in questo nostro reale editto formato di nostra real mano, munito del nostro real sigillo e roborato della firma dell’infrascritto nostro ministro di stato, pervenga notizia di lutti, comandiamo che si stampi e si pubblichi nelle consuete forme ne’ luoghi soliti della capitale di Napoli e delle provincie del regno.

Palermo,25 aprile,1800.

Firmato: Ferdinando. (L. S.). Firmato: Francesco Serrati.

Napoli, nella Stamperia Reale,1800. — Copia della corte di amministrazione.

REAL DISPACCIO PER LE NUOVE FEDI DI CREDITO

Con real carta del dì 19 maggio 1802, fu da S. M. dichiaralo a tutti i suoi amatissimi sudditi, che essendosi coll'editto degli otto del detto mese provveduto pienamente al disordine delle carte bancali, le quali giravano per lo suo regno di Napoli, senza aver il loro valore reale, corrispondente nominale, si era dato principio al nuovo conto di banchi, il cui fondamentale articolo si è che da banchi istessi non uscirà più la carta, la quale non abbia il corrispondente numerario riposto effettivamente nelle pubbliche casse.

Fa quindi tutto il regno avvertito, che le fedi di credito del conto nuovo correvano, siccome liberamente dappertutto, per le somme in esse descitte, essendone pronto ad ogni istante lo scarni io col numerario effettivo. E perché sulla discernibilità delle nuove carte non cadesse errore, timor di errore o pretesto d’ignoranza, si fece a tutti noto che il distintivo del nuovo conto, era un particolare bollo ad olio di color verde; il solo distintivo che allora si potè meglio combinare con la sollecita premura che S. M. ebbe di provvedere fin dal principio alla sicurtà de’ suoi amatissimi sudditi.

Oggi che la grande opera della ritirata e dell’abolizione delle vecchie carte bancali è venula prosperamente al bramato suo termine in capo di quattro mesi prefiniti nel citato editto; oggi che il nuovo conto de’ banchi, il quale consiste tutto in carte di valore effettivo, in cui l’agio non puote avere più luogo, ha già preso il più felice avviamento, e va di giorno in giorno aumentando, ha S. M. risoluto di assicurare in un modo vieppiù fermo e stabile il libero commercio delle nuove fedi di credito e delle polizze in maniera che non solo indicassero l’effettivo contante, che rappresentano, ma portassero le più conspicue indicazioni del conto nuovo, da cui dipendono, de’ varii banchi, a cui appartengono e di quella integrità che le assicura dalla frode delle mutilazioni.

Dichiara quindi la M. S. che il real editto pubblicato in questo giorno, riguarda solo le carte del vecchio conto, le quali fino al dì 10 ottobre non si ricevevano, che al corso e dopo il suddetto termine rimarranno abolire. Ma in quanto alle carte del nuovo conto continueranno le medesime a correre nel modo stesso che si trova prescritto col citato dispaccio de’ 19 maggio. Ed accioché queste carte del conto nuovo non sieno soggette ad equivoco alcuno e possano da tutti riconoscersi, si sono già formate per tutti i banchi le nuove fedi di credilo. Il loro distintivo comune è un fregio impresso a nero, che termina da ogni lato la prima faccia di ogni fede; mentre vi si legge in tutte la parola contante sulla loro sommità. Il distintivo particolare che servirà a far meglio discernere di qual banco sia ciascuna, sarà la figura del proprio tutelare l’emblema allusivo al titolo del banco, nome di esso banco apposto alla figura o all’emblema.

Le polizze poi avranno a lato alla notata fede il nome del banco impresso in caratteri chiari, con un fregio anche impresso che il contorna.

Avverte espressamente S. M. che il corso di queste nuove carte non altererà in menoma parte il corso di quelle altre introdotte fin dal principio del conto nuovo, distinte co bolli verdi, le quali seguiteranno a rappresentare inviolabilmente il danaro effettivo a cui corrispondono. Però da ora in poi tutte le nuove carte che usciranno da queste, si faranno nella nuova foggia, acciocché a poco a poco e senza incomodo del pubblico processo di breve tempo si trovino uniformi tutte le carte dei banchi.

Vieta finalmente S. M. in conferma delle sue precedenti risoluzioni a tutti i percettori, collettivi ed esattori delle sue Tendile fiscali, e di tutto il danaro appartenente a varii rami del suo regio fisco, di ricusare sotto qualunque pretesto, non solo le fedi e le polizze della nuova ultima divisa, ma ben anche le prime del conto nuovo, fino a che non ne resteranno; come quelle che tutte, a differenza delle vecchie carte abolite, equivalgono al contante effettivo, potendosi ad ogni ora e dà ogni persona farne lo scambio col contante ne banchi di questa capitale.

La real segreteria di stato, di azienda lo partecipa nel real nome alle SS. VV. Ill.me per loro intelligenze, con prevenzione che sarà subito comunicata tal sovrana dichiarazione cosi a’ tribunali urbani e provinciali dipendenti da essa ed ai regii visitatori generali ed economici delle provincia, come alle altre segreterie reali di stato de’ tribunali e le dipendenze loro.

Palazzo, li 7 settembre 1800.

Giuseppe Zurlo alla giunta de banchi. —Napoli, nella Stamperia Reale 1800.

Dopo l’indulto dato, di cui si è fatto parola, il governo, per distruggere le calunnie e le animosità, fu costretto a cacciare altro dispaccio del tenore seguente;

REAL DECRETO

Quantunque le desolanti sciagure che ne' prossimi passati tempi de’ pubblici turbamenti afflissero questo regno di Napoli per opera di alcuni forsennati nemici della patria e di loro medesimi, avessero altamente contristato il paterno animo del re nostro signore, pure S. M., intenta sempre al vero bene de’ suoi amatissimi sudditi, e conservando, anzi accrescendo il rigore nel suo generoso cuore, in mezzo alle comuni calamità ed alla particolare sua amarezza, tenne fermo il pensiero e rivolse tutte le sue cure all'oggetto di minorare al possibile i funesti effetti di tali disavventure, e specialmente di ricondurre in ogni modo nelle popolazioni del regno la tanto desiderata quiete che veniva lacerata dagli odii privati accresciuti per ragione de’ pubblici sconvolgimenti.

A questo fine S. M., fra le numerose provvidenze emanate dalla sua real chiarezza, profuse sopra la classe de"colpevoli dei delitti di stato di quel tempo, particolari, generosi ed ampli perdoni, mitigando colla sua natural pietà il dovuto rigore della giustizia, sulle ferme speranze che i traviali si fossero ridotti al diritto sentiero del ben vivere, e che fossero del tutto cessati le animosità, le denuncie e le calunnie in materia di quei delitti. Ma questa speranza è rimasta in gran parte delusa; poiché ad onta de’ citati provvedimenti, non solamente si è continuato da molli ad assordare le orecchie di S. M. e de’ suoi ministri, con moltiplici accuse e denuncie sopra le passate emergenze di 3tato, ma taluni pochi hanno posteriormente ardito di turbare nel regno la pubblica tranquillità con macchinazioni rivoluzionarie, per cui le nuove processure nella giunta di stato ed altri che ritrovandosi tuttavia fuori de’ reali dominii, ed erano implicati ne’ passati delitti di con simil genere, hanno avuto, l’imprudente ardimento di tessere delle trame contro la quiete delle Sicilie, in complicità di alcuni esistenti in questo regno di Napoli, sul quale gravissimo attentato si è già formato il processo dal governo estero, ed è prossima la decisione della causa.

Per tale stato di cose, S. M. non volendo lasciar mezzo intentato per ottenere con effetti quel fine a cui sono unicamente dirette tutte le sue paterne cure, cioè di rendere per quanto è possibile felici i suoi amatissimi sudditi, soddisfacendo così agli impulsi del proprio cuore negli obblighi dell’augusto ministero dal sommo Iddio affidatogli, come alla particolare sua decisa inclinazione per lo vero bene di essi, che la M. S. riguarda come proprii figliuoli, è venuto a sovranamente ordinare che restando fermi nella parte graziosa tutti gli antecedenti particolari e generali perdoni emanati dal real trono pei passati delitti di stato di qualunque genere, s’intendano di nuovo ampiamente perdonati tali passati delitti, senza la benché minima restrizione. Che sopra de’ medesimi niuno ardisca di esporre o formare denuncie, accuse o rappresentanze a voce o in iscritto avanti a S. M. ed ai suoi ministri, tribunali e giudici, sotto pena della reale indignazione ed anche di castigo secondo i casi; e che ben anche in pubblico ed in privato non sia lecito di rinnovare col rimprovero ai graziati sudditi la memoria de’ loro falli, la quale deve rimanere in perpetua profonda obblivione, riguardandosi i contravventori come disturbatori della pubblica quiete: ed acciocché sieno maggiormente noti al pubblico i paterni pietosi sentimenti del resi animo di S M. verso i diletti suoi sudditi, e la sua costante perpetua volontà di togliere dalla radice la rimembrante funesta de’ passati pubblici disastri, la M. S. si è degnate di dichiarare che tutti coloro i quali cogli antecedenti perdoni particolari o generali emanati dal real trono, e co’ decreti dei magistrati si trovano graziati della loro libertà, ed attualmente vengono anche ammessi alle grazie contenute nel presente clementissimo real decreto, siano abilitati a poter aspirare agli impieghi pubblici e dello stato di qualunque genere corrispondenti alle loro qualità e circostanze, purché ne siano meritevoli per abilità, onestà e rettitudine di sentimenti, e diano di queste prove non equivoche con la di loro condotta, restando perciò annullate tutte le determinazioni sovrane antecedenti e decreti di magistrato che impedissero queste abilitazioni per motivi d’inquisizione di stato.

Dalla grazia della presente perdonanza, S. M. esclude soltanto coloro de’ quali per nuovi delitti di stato si trovino attualmente pendenti le processure nella giunta di stato e tutti quelli che per principale reità o per complicità fossero inquisiti nel processo formato dal governo estero, o ne risultassero tali dalle ultime perquisizioni; essendo mente sovrana che tutti quelli delle dette processure pendenti nella giunta di stato, quanto gli altri del processo come sopra citato, formato fuori per congiura contro le Sicilie, e della sua continuazione, sieno prontamente nel modo che verrà spiegato in separato real dispaccio.

Finalmente S. M. dichiara e vuole che la giunta di stato, dopo terminato le attuali sue incumbenze resti disciolta ed abolita, e dia contemporaneamente alle fiamme tutti i processi e tutte le carie riguardanti ai delitti di stato commessi in occasione delle note passate emergenze del regno di Napoli; riservandosi S. M. di destinare in appressò de giudici che ad modum bellitratteranno e decideranno le cause de futuri delitti di stato, e quali diverrebbero irremissibili, se alcuno scellerato ardisse di commetterli dopo tante perdonarne profusamente concedute dalla M. S. sopra tale materia.

Comanda S. M. che questo sovrano suo real decreto sia comunicato a tutte le sue reali segreterie di stato, e da queste ai tribunali, alle udienze provinciali ed a chi altro convenga.

Caserta, 10 gennaio 1803.

Firmato. — Giovanni Acton. — Napoli, nella Stamperia Reale, 1803.


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FINE

1Vie politique et militaire de Napoléon,p. 26, t I. Paris 1821.

2Vedi l’Appendice A

3Vedi 1 Appendice B.

4Le dette rappresentanze furono dall’aiutante reale del cardinal don Fabrizio Ruffo, marchese Malaspina, consegnato a’ 29 maggio 1823 nell’archivio generale del regno, e vi ebbe il ricevo dell’archivista Spina, a cui furono passati quattro libri voluminosi tanto del pagamento delle masse, che de’ Russi che servirono nel 1799.

5Per lume del lettore è necessario mettere in veduta il motivo del discredito delle carte, ossieno polizze di banco. La corte per far la guerra a’ Francesi allestì un’armata, per cui ebbe bisogno di ingenti somme. Il governo non aveva mai avuto il pensiero, con tanti anni di pace, di mettere a parte ogni anno nel tesoro una somma che potesse far fronte ai casi imprevisti; quindi ebbe bisogno di ricorrere ai mezzi estraordinarii, che l’assoluta necessità solo può alle volte legittimare. Oltre aver posto la decima sopra i beni, imposizione che prima conoscevasi, ma mite, giacché il regime daziale era moderatissimo, prese il partito di raccogliere tutti gli argenti superflui delle chiese, e de’ particolàri, con obbligarli di recarli alla zecca, farsene una annotazione, e peso, e ricevere dal fisco un interesse. Questo non bastò, e si stamparono a vuoto da trenta milioni di polizze, per cui l’agio pubblico crebbe, e diminuiva per lo discredito in cui caddero, non contraccambiandosi la carta col numerario, che in sette milioni fu portato in Sicilia, come sta detto. Questo debito la corte, ricuperato il regno, lo riconobbe, e ne promise l’interesse al 3 per 100, da pagarsi sulla decima generale. Nel 1806 poi i particolari soffrirono un altro detrimento alla venuta de’ Francesi nel regno di nuovo, perché il debito della corona fu diminuito colla liquidazione, secondo le regole date.

6Ecco com’era radicata la opinione della popolazione. L’idea era, che il vicario avesse avuta 1 istruzione dalla corte di mettere fuoco alla città, in caso dell’occupazione de’ Francesi di essa.

7Tutti questi legni furono messi a fuoco dagli Inglesi, col con senso della corte alla vista della città, e ciò fu fatto per non farli cadere in mano de’ Francesi, che andavano ad occupare Napoli.

8Quando l’armata del re di Napoli comandata dal general Mack entrò in novembre sul territorio romano, Championnet scrisse lettera a Mack, e vi rispose dicendo, che mai la repubblica romana era stata riconosciuta dopo la pace di Campoformio. La repubblica francese si dichiarò in istato di guerra con i re delle Due Sicilie, e di Sardegna. A dì 16 glaciale. (Si vegga il tomo II, parte n, pagina 6 di tutt’i problemi, e decreti stampati in Napoli nel tempo della repubblica napoletana presso Aniello Nobile, ove tutto ciò fu stampato). Il direttorio esecutivo di Francia, fece un messaggio al consiglio dei seniori de cinquanta della repubblica, con cui dà parte della lettera del general Mack a Championnet, per l’invasione del territorio della repubblica romana, e soggiungeva questo messaggio, che l’atto di ostilità del Regno di Napoli esigeva pronta vendetta.

9Si vuole che Don Pericco d’Aragona che poi sposò la vedova del duca, ed alla quale faceva essi la corte, avesse sparsa l’opinione che il duca era giacobino; per Don Clemente suo fratello già vi era tall’idea.

10Vedi l’Appendice C.

11Vedi l'Appendice D.

12Vedi l’Appendice E.

13Vedi l’Appendice F.

14Pignatelli fu spedito dopo il terremuoto per vedere i danni sofferti da quelle popolazioni, e con tall’occasione si soppressero i monasteri appropriandosi gli effetti senza il sollievo di quelle provincia.

15Vedi l’Appendice G.

16Vedi l’Appendice H.

17Vedi l’Appendice I.

18L’aiutante del cardinale era un giovine che non aveva quei mezzi che abbisognano nelle epoche tumultuose. Non sveltezza intrigante, non astuzia maligna» di animo non pieghevole, né vile, serio, e non con qualità attivamente nociva, furono questi i motivi della si|a poca fortuna. Non denunziante, non mischiandosi, senz'ordine, nella persecuzione de' rivoluzionarii, non fecondando l'odio di chi ne bramava la distruzione, non saccheggiando, occupato del solo suo impiego, fu non considerato dal cardinale, il quale era di maniere inclinate al lazzarume, carattere opposto a quello dell’aiutante intieramente. Inoltre, il vicario, stante il suo carattere sospettose e geloso del suo potere, aveva in più occasioni dato a divedere che guardava l'aiutante come persona non a lui sincera, e forse vi è da credere che pensava essere una spia occulta della corte mandata appresso di lui; ed infatti si legge quanto disse a Parigi ad una dama di conto di quel paese che gli domandò di che arma si era servito in quell’epoca, ed egli diede quella risposta spiritosa che in questo libro sta detto; fu allora appunto che disse: che aveva presso di lui delle spie, ed una delle quali fu da esso arrestata, per cui da Palermo ebbe ordine di metterla in libertà. Infine non lasciava occasione per disgustarlo, come si rileva dalla qui appresso lettera scritta in risposta del conto che gli dava l’aiutante del tempo per il quale non aveva potuto subito portare gli uffiziali prigionieri in Messina.

Eccellenza,

Mi meraviglio che V. E. non sia ancora a Messina, e si vede che i suoi prigionieri non amano il clima di Sicilia. La ringrazio della notizia che mi dà del legno francese che hanno preso, e scriva subito a Messina che veggano se oltre i fucili vi è cosa che possa farmi utilità, se vi sia qualche picciolo cannone o buona pietriera.

Intanto con parzialissima stima mi confermo Cotrona,29 marzo 1799.

Di V. E., devotissimo servitore, F. card. Ruffo vic. gen. S. E. il sig. marchese Malaspina, aiutante R. T.

19Martina fu presa dalle Masse, perché un guardiano del duca di Martina le fece entrale per un luogo nascosto e non guardato; ed entrato che vi furono i guasti non furono indifferenti. Si assicura che varii anni dopo questo guardiano già segnato dai Martinesi, venne ucciso.

20Vedi l’Appendice K.

21Il cavaliere duca Caracciolo, brigadiere di marina di Napoli» uomo di distinto valore (siccome fu detto), accompagnò il re di Sicilia, allorché per la venuta de Francesi partì da Napoli. Rimase disgustato che, comandando egli la squadra napoletana, sì fosse il re imbarcato colla famiglia reale sul vascello ammiraglio inglese, e più perché da Palermo fu mandato in Messina colla sua squadra, cioè con parte di essa. Penetrato da questi disgusti, domandò restituirsi in Napoli per assistere il vecchio suo genitore che viveva, ed ai suoi affari. Non vedendosi riscontrato dalla Segreteria di Stato, ripeté la domanda, in seguito della quale, con dispaccio del generale Acton, il re gli accordò il permesso di ritornare in Napoli. Quando il cardinale Ruffo arrivò a Messina per passare in Calabria, il che fu al 1° di febbraio 1799, Caracciolo era ancora in Messina ove vi era ancora M. Perier francese, che d’antica epoca era in Napoli, e committente d’affari della regina, ed era amico del cavaliere Caracciolo. Perier confidò all’aiutante reale del cardinale la circostanza seguente che fu aggiunta nel dispaccio del permesso che li dava il re di ritornare in Napoli. Questa soggiunta fu scritta dopo del dispaccio, e diceva: «Si ricorda al cavaliere Caracciolo, che in Napoli vi sono i Francesi.» Acton dubitava che Caracciolo in dispetto andasse in Napoli per prendere servizio. Caracciolo essendo in Napoli, per un pezzo visse a se stesso; mi infine cede agli urli che se li fecero, e prese servizio nel governo repubblicano. Si batté cogli Inglesi con le lance cannoniere nelle acque di Procida, e con le armi del re. Invece di partire con i Francesi, si nascose nelle vicinanze di Napoli, e scrisse una lettera al cardinale di giustificazione, forse senza indicare il sito della sua dimora, la quale venne denunziata al cardinale, mentre stava al Ponte della Maddalena aquartierato, per cui fu arrestato e dietro un consiglio di guerra subì la pena descritta. Il suo cadavere comparve a gala nel mare ove fu gettato, e vicino al vascello del re, giacché il re si riportò alla rada di Napoli a’ 3 di luglio 1799 colla squadra inglese. Caracciolo nella marina stessa di Napoli aveva de’ nemici, e segnatamente nella classe degli uffiziali superiori. Il conte di Thurn fu del consiglio di guerra (se non si equivoca) il presidente.

22Vi è chi sostiene che il re non rispondesse, per cui la madre ed i parenti della S. Felice ch’erano in Napoli supposero che aveva ottenutala grazia della vita, ma s'ingannarono.

23Pulli con una partita di patriotti calati da S. Elmo si battette con le masse alla villa reale, ove vi avevano le masse un posto, ma da una parte all’altra vi lasciarono de’ morti.

24Vedi l’Appendice L.

25Ciò che vi è di sicuro, che avendo il duca della Miranda domandato permesso al re, che già da 3 di luglio era venuto da Palermo nella rada di Napoli, di andare a veder Cirillo per averlo curato in varie sue malattie,essendosi il duca trasferito sulle polacche, si esibì a Cirillo per tutto quello che lui poteva essergli utile; e Cirillo era sì illuso, che domandò al duca della Miranda se niente sapeva quando arrivava la flotta Gallispana che i patriotti aspettavano in loro soccorso. Costui venne impiccato, e morì con un sangue freddo senza limiti. Il tenente D. Francesco De Simone che assistette, per essere di servizio, alla cappella in cui erano stati messi varii di costoro che la mattina doveano essere giustiziati, e nella quale vi era Cirillo, il giovane Riario, che fu tra i giustiziati, od altri di essi, domandò a Cirillo se era penosa la morte dell’impiccato; egli vi fece sopra una disertazione con tanto sangue freddo, come se mai dovess’essere lui impiccato la mattina. Questa circostanza, lo stesso tenente De Simone cavaliere beneventano, l’ha detta all’autore del presente scritto.

La duchessa di Bagnoli, Giulia Manelli, sua moglie e sorella del duca d'Ascoli, che per sicurezza si era chiusa in un convento, gli mandò a dire che si fosse confessato se voleva esserle grato, e Cirillo lo fece. Costui quando fu costituito da Speciale, giudice della giunta di stato, interrogato dal giudice quall’era la sua professione, Cirillo rispose ch’era quella di medico. Interrogato che cosa era in tempo della repubblica, rispose Cirillo membro del governo provvisorio ed avendo soggiunto Speciale che cosa era in tempo che lo interrogava, rispose: «un eroe in faccia di te.»

Egli si rimetteva sempre alla capitolazione fatta, quando l’urtavano a domandare perdono al re. La di lui casa fu interamente saccheggiata.

26Vedi Appendice N.

27Rodio si presentò al cardinale verso Colrona in Calabria: egli faceva la professione legale. Sentendo i progressi del cardinale in Calabria, abbracciò la causa del re. D. Ciccio Ruffo lo fece ritenere da suo fratello il cardinale; si trovò alla presa di Napoli, e protetto dal fratello del cardinale, gli fece avere un grado di uffiziale, indi di capitano, giacché il cardinale aveva la facoltà d’innalzare fino a colonnello, e di poi fu destinato con un corpo di masse a prendere Roma, e fu graduato di tenente colonnello; prima di ciò fu eletto per visitatore di una provincia, perché furono creati varii visitatori per inquirere e purgare le provincie, e sopratutto per gli impieghi. Rodio ricusò, ed ebbe l’altra che si è detta. Egli, non militare, fu battuto a Frascati, ed il suo corpo messo in fuga che commise guasti non indifferenti. Fu sottoposto ad un, consiglio di guerra per questa condottale dal quale sortì innocente per opera dell’amica di Milord vescovo di Bristold che si ritrovava in Roma, già presa poi dalle truppe del re, comandate dal generale Bourcard. Con questa protezione si recò in Palermo, ov’era la corte, raccomandato a Nelson ed al ministro Hamilton, per cui in un giorno fu fatto colonnello; ebbe il piccolo ordine Costantiniano, una pensione di ducati cento al mese, fu fatto preside, ed ebbe il titolo di marchese. Intanto se ne fa la narrazione di quest’uomo che aveva una figura vantaggiosa ed era fecondo, poiché infelicemente alla seconda occupazione de’ Francesi del regno di Napoli del 1806, epoca nella quale si trovava brigadiere, fu preso dai Francesi nella Basilicata e quindi fucilato, non ostante che da una commissione militare inappellabile fosse stato dichiarato innocente de’ carichi dattigli, ma che per ordine di Massena e di Saliceti ne fu creata un’altra per farlo condannare a morte, e fu eseguito. Il colpo della sua morte lo diede il generale Lecchi, il quale avea giurato di vendicarsi di Rodio, perché essendo stato Rodio mandato in Puglia, non permise che Lecchi rubasse quanto voleva rubare, trovandosi in Puglia Lecchi col corpo francese colà stanzionato avant l’invasione del 1806per la pace di Marengo sotto gli ordini del generale.

28Vedi l’Appendice N.

29Vedi l'Appendice O.

30Scilla, persona di riguardo, ha veduto l’ordine originale segnato da Acton a nome del re e comunicato a Nelson, onde nel giungere Nelson in Napoli avesse arrestato il cardinale Ruffo. Nelson non trovò ragione di eseguirlo, ed il re Francesco ha fatto vedere quest’ordine, al soggetto dissopra denotato, negli ultimi anni di sua vita.

Si vuole che il principe di Canosa, figlio, che si ritrovava detenuto come ostaggio de Francesi in S. Elmo, essendo stato mandato, sotto la parola, dal comandante del castello Mejan per conferire con gli Inglesi, vidde ai Granili le forze portate dal cardinale, e che avesse detto nel suo ritorno in S. Elmo ai patriotti che vi erano di star forti, perché il cardinale non aveva le forze che si supponevano. Ciò veramente è difficile a credersi. Nel castello nuovo vi era dentro con i patriotti l’attual ministro di stato (1834), Parisio, ch’ebbe la fortuna di andarsene.

31La stessa cosa avvenne quando i Francesi, nel principio del 99» marciarono verso la capitale, che per l'anarchia del popolo furono spinti a recarsici.

32Vedi l’Appendice P.

33Era il marchese del Gallo, il quale, con la venuta in Napoli di Giuseppe Bonaparte, fu fatto in compenso ministro di stato degli affari esteri. — (Veggasi il gabinetto di S. Cloud di Godsmith, o Goldsmith.)

34Nell’epoca de’ Francesi la Gazzetta di Napoli diede l’onorifico titolo di pazientissimo al duca per questi tre viaggi fatti a Roma, tanto dal governo francese di Napoli veniva compatito! Il suddetto duca, appena istallato il regno francese in Napoli, venne creato da Giuseppe gran cerimoniere e gran maresciallo che corrisponderebbe al suo impiego di maggiordomo, maggiore, e così in parte spogliò l'appartamento del re Murat, e segnatamente in quadri.

35Quest’uomo nativo di Calabria, conosciuto nell’epoca dell’impresa del cardinale Ruffo, si portò avanti nel 1799 nell’anarchia di quel tempo. Dopo varie vicende che soffrì nella sua carriera allora protetto da commendatizie del vescovo lord Bristol, presso dell’ammiraglio Nelson e del ministro inglese Hamilton presso la corte di Napoli, fu onorificamente considerato dal governo, quale gli affidò il comando di una provincia del regno. Al tempo del corpo francese stanzionato nella Puglia, per uno de’ patti della pace di Firenze fatta colla Francia dopò la battaglia di Marengo, la corte si avvalse di detto soggetto nelle competenze sorte con i Francesi in Puglia, a causa dei viveri che si dovevano dal governo somministrare. Sostenendo Rodio fili interessi del suo padrone, disgustò qualche individuo di quella truppa colà stanzionàta, il quale costituito in altro rango nel 1806 alla venuta de’ Francesi in Napoli, volle il sacrifizio di Rodio. Preso egli prigioniero dalla colonna del generale Lecchi nelle montagne di Pommarico in Basilicata, il governo rimunerò con grossa somma di danaro ecol grado di capitano colui che lo diede in mano de' Francesi, che avevano tanto interesse di aver nelle mani Rodio. Il governo francese di Napoli lo sottopose ad un giudizio formato dai carichi dati dai suoi nemici, ed eresse a tale effetto una commissione militare straordinaria ma inappellabile, composta anche di qualche individuo francese, dalla quale venne assoluto e dichiarato innocente. Nello stesso momento, per ordine supremo, fu creata altra commissione onde si rifacesse la causa già giudicata inappellabilmente dalla prima; e da innocente divenne reo e condannato a morte dalla seconda commissione, e benché di domenica, il giorno susseguente alla causa, venne l'infelice fucilato dalla parte delle spalle, volendogli dare la marca di brigante.

Allora Giuseppe era in giro per le provincie del regno, e Massena e Saliceti comandavano in Napoli. Il foglio napoletano del mese di marzo 1806, che con ingiuriosi termini avea parla o due volle dell'arresto di Rodio, non fece menzione né della condanna della causa, tanto proditoria, né fu la caratteristica.

36I due signori inviati a Championnet nel 1799, furono il principe di Migliano di casa Loffredo, ed il duca del Gesso di casa Caracciolo. Essi, per un pezzo, furono in disgrazia del governo, allorché Napoli ritornò al re.

37Era il principe di Fresso Dentice.

38Il duca di Campochiaro, prima del 99, era stato eletto per inviato plenipotenziario presso la corte di Danimarca. All’epoca del 99 egli non era più in Danimarca, ma né anche nel regno di Napoli. La duchessa di Castelpagano sua madre raccomandò il figlio all’anarchico governo repubblicano di Napoli, e scrisse al medesimo che tornasse in Napoli, ove il governo (così si esprimea) avrebbe fatto conto della sua persona. Tal lettera cadde nelle mani del generale Acton che era in Palermo. Tornate in Napoli le armi del re, la detta dama implorò la protezione di Acton onde il figlio fosse situato, ed in risposta, con suo dolore, vidde messa in mano dal prefato ministro la lettera menzionata.

39Il Foglio Napoletano di marzo, n° 9, ossia la Gazzetta, portò di esso duca una circostanza singolare. Un convoglio di legni carichi di effetti e di genti seguì la corte in Sicilia. Da burrasca fu parte del detto convoglio respinta in Napoli: tra questi vi fu il legno ove erano le carte della segreteria di stato, ed il detto foglio, n° 9, portò che fu trovata tra le carte citate una nota di varie persone che dovevano essere prescritte dalla corte, e tra questi vi era il duca d’Ascoli.

40Si chiamava Mr. Meot. La francese madama Beaulieu era la donna mantenuta dal marchese Malaspina padre, per cui ben cognita al figlio.

41Il serraglio è il grande albergo dei poveri, ove ancora son rinserrati i galeotti, ed è situata questa grandissima fabbrica eretta dal re Carlo III Borbone, all’ingresso della città dalla parte di Capodichino.

42Cesare Berthier quando fu in Napoli raccontò questo aneddoto ai padron della casa che alloggiava il generale Loulois nel seguente modo: «avendo saputo che il signore di quella casa era un parante del marchese Mala spio a, gli disse: — Ce petit gaillard, avec beaucoup de fermeté, c’est opposé à tout ce que nous proposions.

43Si vegga Godsmisth, o Goldsmisth, ciò che dice del marchese Gallo ambasciadore della corte di Napoli a Parigi, il quale appena fu Giuseppe in Napoli fu fatto ministro degli affari esteri da Giuseppe.

44Il nome del commissario suddetto fu un certo M. Jilly. È probabile credere che la reggenza si cooperasse di mantenere nelle sue prerogative la nobiltà del paese; il governo, francese sull’istante tutto confermò ma poi tutto cambiò. I soli titoli furono lasciati alla nobiltà, e mai la reggenza notificò al corpo della città la conchiusa trattativa co Francesi.

45Giuseppe rilevò nel discorso fatto la seguente circostanza. Nella Gazzetta Universale, n° 20, Napoli 8 marzo 1803, vi fu l'art. seguente: «La comune di Sarzana, dietro il permesso del governo, si accinse ad innalzare un monumento in memoria della famiglia Bonaparte, che di là ebbe origine. La di lei esistenza è provata, per non interrotta serie, di circa tre secoli prima del 1500.» Fu sempre cospicua e per lo cariche che sostenne e per le di lei attinenze cotte famiglie Malaspina della Verzicola e Malandrini di Sarzana, da cui sortì il cardinale Filippo fratello uterino di Nicolo I papa, anche egli Sarzanese. La famiglia attuale del citalo marchese, e del ramo de’ marchesi di Ferdinando in Lunigiana, e da dove son sortiti i duchi di Massa e Carrara. Il monumento citato non fu mai innalzato.

46E fu il suo parente monsignor Capecelatro.

47Le parole tutto accomodono e coprono il vero senso con astuzia.

48La corte adottò tal linguaggio, ma l'aiutante non conosceva il cardinale che di veduta: è da supporsi che Ruffo avesse detto alla corte ch'era necessario che gli (lasserò un uffiziale, ed il re destinò l’aiuta n le del licere che conosceva; poiché D. Ciccio Ruffo, fratello dei «animale si negò allora di passare nelle Calabrie.

49L’art. 6° di detta capitolazione rimise dagli alleati tutti i sudditi del re; in essi vi furono compresi i patrioti!, de’ quali non presero i Francesi parziale protezione, poiché vi erano gli ostaggi presi dai Francesi, come ii vescovo di Salerno, Spinelli, il duca della Miranda, D. Carlo Aquaviva, il cavaliere D. Luigi Medici, il principe di Canosa, figlio, ed altri, parte de’ quali erano passati al castello Nuovo.


















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