Eleaml - Nuovi Eleatici



Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

BIBLIOTECA DELL'ECONOMISTA

PRIMA SERIE  - TRATTATI COMPLESSIVI

Vol. III

TRATTATI ITALIANI DEL SECOLO VIII

GENOVESI, VERRI, BECCARIA, FILANGIERI, ORTES

TORINO

CUGINI POMBA E COMP. EDITORI - LIBRAI

1852


FRANCESCO FERRARA - Ragguaglio biografico e critico sugli autori contenuti nel presente volume

GAETANO FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche
CAPO I CAPO II
Stato presente della popolazione
CAPO III
Piccolo numero di proprietarii...
CAPO IV
Molti gran proprietarii, pochi proprietarii...
CAPO V
Ricchezze esorbitanti ed inalienabili degli...
CAPO VI
Tributi eccessivi, dazii insopportabili...
CAPO VII
Stato presente delle truppe d’Europa...
CAPO VIII
Ultimo ostacolo alla popolazione....
CAPO IX
Secondo oggetto delle leggi politiche...
CAPO X
Delle sorgenti delle ricchezze
CAPO XI
Prima classe degli ostacoli che si...
CAPO XII
Seconda classe degli ostacoli che si...
CAPO XIII
Proseguimento dello stesso soggetto
CAPO XIV
Terza classe degli ostacoli che si...
CAPO XV
Dell'incoraggimento che tolti gli ostacoli si...
CAPO XVI
Delle arti e dette manifatture
CAPO XVII
Del Commercio
CAPO XVIII
Del commercio che conviene ai diversi...
CAPO XIX
Degli ostacoli che si oppongono a' progressi
CAPO XX
Delle gelosie di commercio e della...
CAPO XXI
Altri ostacoli che impediscono i progressi
CAPO XXII
Ostacoli che recano al commercio le leggi...
CAPO XXIII
Ultimo ostacolo al commercio: la mala fede
CAPO XXIV
Incoerenza ed inefficacia della...
CAPO XXV
Efficaci rimedj contro questo disordine
CAPO XXVI
Degli urti che si potrebbero dare...
CAPO XXVII
De' Dazi in generale
CAPO XXVIII
De' Dazi indiretti
CAPO XXIX
Proseguimento dello stesso soggetto
CAPO XXX
Del Dazio diretto
CAPO XXXI
Metodo da tenersi per riuscire in questa...
CAPO XXXII
Dell'esazione delle tasse
CAPO XXXIII
Degli straordinarii bisogni dello Stato...
CAPO XXXIV
Della distribuzione delle ricchezze nazionali

CAPO XXXV
Cosa debba intendersi per distribuzione...
CAPO XXXVI
De’ mezzi propri per ottenere l'equabile...
CAPO XXXVII
Del lusso
CAPO XXXVIII
Del lusso attivo e del lusso passivo, e dei...
CAPO XXXIX
Conclusione
NOTE

PREFAZIONE

RAGGUAGLIO BIOGRAFICO E CRITICO

SUGLI AUTORI CONTENUTI NEL PRESENTE VOLUME

del Prof. Francesco Ferrara

SOMMARIO

I. Genovesi, sua vita, sue opere. — II. Beccaria, Verri. — III. Filangieri, Ortes. — IV. Colbertismo de' primi tre; liberismo di Filangieri. — V. Loro idee sulla libertà economica all’interno. Concetto dello Stato. — VI. Difetto di nozioni elementari. — VII. In che consista il merito d’idee larghe e complesse, a loro attribuito, e negato a Smith. — VIII. Digressione sulla priorità degli Economisti italiani; Bandini; Serra: risposta al prof. Mancini. — IX. Supposta priorità di Beccaria sulla Divisione del lavoro; particolarità degne di notarsi in Verri. —X. Ortes; stranezza del suo sistema. — XI. Esagerazioni da evitarsi nel giudicare il merito degli Economisti italiani.

I

La più antica fra le cattedre di Economia in Italia, ed una delle più antiche in Europa, è quella di Napoli, dovuta alla generosità d’un privalo, e dalla quale promanano le Lezioni del Genovesi, che occupano le prime pagine di questo volume.

Avanti del 1754, in cui fu fondata, non pare che in alcun luogo esistesse una scuola esclusivamente consacrala ad insegnare il meccanismo con cui il giuoco delle ricchezze sociali avvenga nel mondo. In Edimburgo soltanto, Hutcheson da lungo tempo, e poi Smith, avevano incorporato lo studio de' fenomeni economici nel loro corso di Filosofia morale; ed era così quasi per incidenza che i problemi della ricchezza entravano fra le materie del pubblico insegnamento, in una sola città d’Europa.

Ma dalle varie opere, e generali e speciali, già date alla luce, e dalle gravissime quistioni agitatesi per più che 200 anni in Inghilterra, per circa mezzo secolo in Francia, era nata anche in Italia una lai quale eccitazione d’illuminati intelletti, che si mostravano disposti a mutare in que’ nuovi temi le pedanterie peripatetiche e teologiche, le quali avevano da lungo tempo formalo la vecchia lebbra delle nostre scuole, ed alle quali il clero, più che le autorità temporali, sentiva quanto giovasse il tenersi fermamente attaccato. Malgrado ogni resistenza, un’infima elaborazione nella società italiana avveniva: Un'Economia politica diventava dappertutto un bisogno; e come sorgevano gli Stewart e gli Smith in Inghilterra, in Francia i Quesnay ed i Turgot, così l’Italia che avea cominciato dal dare i più antichi libri sulla Moneta, dovette finalmente offerire i suoi primi Trattali sulla nuova scienza, ed ebbe quasi in un tempo a Napoli, ed a Milano, i suoi professori di grido.

Genovesi fu l’uno di questi spiriti indipendenti. Prete per domestiche convenienze, molto più che per divina ispirazione: —filosofo e ragionatore più di quanto si potesse concedere ad un teologo, in Napoli, alla metà del secolo XVIII; — inviso alla parte elevala del clero, di cui non approvava le dovizie e non adorava la dignità; — inviso ai monaci e preti delle scuole, l’ignoranza de' quali serviva di fondo oscuro alla splendida fama di questo prete novatore, che, evitando quanto potesse il latino, appoggiandosi sopra argomenti ribelli alle strette forme del sillogismo, citando autori inglesi e francesi, pronunziando con labbro ugualmente impassibile la verità della Bibbia ed il passo dello scrittore eretico, era pur nondimeno frequentato con entusiasmo da un’avida gioventù, ascoltato attentamente da uomini adulti, reputato da tutti, da taluni temuto, al segno che, mentre un concilio di teologi, lungamente deliberando, lo trovava colpevole di non meno che dieci proposizioni eterodosse, non fu possibile che la Corte si decidesse a perseguitarlo, e si trovò invece un cardinale ostinato a difenderlo: questo era Genovesi, quando

Una speciale opportunità lo tolse alle lotte canoniche e lo condusse all’insegnamento delle materie economiche.

Viveva a Napoli di quei tempi un cittadino toscano, Bartolomeo Intieri, stabilitovi fin dalla sua prima età; una volta semplice cultore e professore di matematiche elementari; poi gerente de' beni di casa Corsini; più lardi anche de' fondi Medicei che allora la Corte Toscana possedeva in Napoli; e per la sua costante assiduità di lavoro ed integrità di costumi, fattosi poco a poco uomo tanto dovizioso, quanto parecchie ingegnose invenzioni meccaniche ed un animo aperto ai più generosi sentimenti d’umanità lo avevano generalmente elevato nella stima degli uomini.

L’ingegno di Genovesi e le tribolazioni che gli studii teologici gli avevan fruttali, lo misero naturalmente alla conoscenza dell’Intieri, la quale ben presto divenne intimità d’amicizia.

In tempi di esacerbate dispute clericali, ciò che suole costantemente distinguere il raro senno d’un uomo è la tendenza a sprezzarle, per rivolgere sopra argomenti di utilità più diretta e mondana le parole e le forze, che la moltitudine invece tenderebbe a dissipare in contese scolastiche, nelle quali la religione vera del cuore può bensì smarrire molta parte della sua purità, ma non havvi esempio in cui abbia mai fatto un acquisto o riportato un trionfo — essa non più di quello che la causa dell’incivilimento vi possa realmente ottenere.

La mente d’intieri, avvezza a star sempre rivolta verso dell’utile, era molto preoccupala da questa necessità d’imprimere una nuova direzione agli studi napoletani, e distrarre la gioventù dal pericolo delle infingardaggini nelle quali sarebbe andata a finire, continuando a dar tanto peso alle quistioni di privilegi e soperchierie clericali; e la frequenza delle conversazioni che né tenne con Genovesi (1), fe’ sorgere finalmente il disegno di fondare in Napoli una Cattedra di Commercio, elemento, dicea l’Intieri, dal quale, dopo la stampa, i secoli moderni ripetono la loro indubitata superiorità sugli antichi, e dal quale dovrà dipendere l’avvenire del genere umano.

Il progetto fu presentato al Governo. Intieri offeriva di dotare la nuova Cattedra con uno stipendio di 500 ducali all’anno, e vi poneva per condizioni: che l’Ab. Genovesi né fosse il primo titolare — che dopo lui il professore si nominasse a concorso pubblico — che in nessun caso si potesse nominare un religioso di qualunque ordine — che l’insegnamento dovesse esser fatto in italiano.

I patti, se non duri in se stessi, erano arditi. Un marchese Broncone, segretario di Stato, cinto da' sanfedisti dell’epoca, tentò ogni sforzo perché si rigettasse l’offerta; ma essa piacque invece a due altri membri del Gabinetto, il marchese Fogliaci e il duca di Sorada; i quali, per l’influenza che esercitavano in Corte, ottennero la sanzione sovrana al progetto dell’lntieri, e «risparmiarono — dice il biografo del Genovesi — quella nuova vergogna alla nazione».

La scuola fu aperta ai 5 novembre del 1754 (2). Un numeroso uditorio vi accorse, «tuttoché — scrivea Genovesi al suo amico De Sanctis—non si fosse fatto invito. Parlò un ora, «non solo senza aver nulla mandalo a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che disse: con tutto ciò, il discorso fu ricevuto da un applauso... (3)».

Secondo l’uso de' tempi, Genovesi cominciò l’indomani a dettare a' giovani le sue lezioni; ed egli stesso racconta esser sembrato una meraviglia il sentire per la patina volta un professore a parlare in Italiano dalla sua cattedra. Da tanto stupore si avvide che bisognava «incominciare da' pregi della lingua italiana, e urtare di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia»: particolarità che è bene notare, perché il lettore di Genovesi possa agevolmente indovinare il motivo, da cui è trailo egli sì spesso a fare delle piccole digressioni, intorno alla colpa che hanno gli Italiani nel tenere in pochissima stima la loro lingua.

«Lamia scuola—soggiunge nella medesima lettera — è stata sempre piena in guisa, che molti non hanno in essa trovato luogo: ma la maggior parte sono uditori di barba, e di varii ceti. Gli scriventi sono circa 100. I giovani non ancora intendono queste materie, e dove non si oda citar Giustiniano o Galeno, non troppo sentono del gusto. Ma si vuole andar avanti con coraggio: si ha da rompere questo ghiaccio. Gran moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i celi domandano de' libri d’Economia... (4)».

Scorsero, per altro, dieci anni, prima che Genovesi si decidesse a pubblicare le sue Lezioni. È ben da credere che in quell’intervallo egli fu intento a compiere il suo tirocinio economico. La lettura dei suoi varii scritti, se si fa in ordine cronologico, rivela dapprima una grande incertezza ne’ suoi principii, e mostra ch’essi si venivano mano mano modificando cd armonizzando a misura che progrediva il suo studio.

Cominciò dal 1757 a tentare la pubblicità, dando fuori la traduzione, alquanto libera, di due opere inglesi.

La prima, II Tesoro del Commercio inglese, di Tommaso Mun, è una delle più precoci produzioni della scienza moderna; perché, quantunque l’edizione più conosciuta porti la data del 1664, vi ha ben ragione di credere che sia stata scritta sin dal 1625; e basta leggerla, anche nel modo in cui fu tradotta, o fatta tradurre, dal Genovesi, per vedere com’egli, in quel primo suo tirocinio, procedeva tentoni nella scelta de' libri, da' quali gli convenisse attingere i principii della scienza a cui rivolgeva la sua attenzione.

L’altra opera è quella del Carv, e la sua scelta mostra già in Genovesi una maggiore maturità di cognizioni economiche. Cary aveva già scritto sin dal 1696 una prima porzione di quello che fu poi all’epoca appunto di Genovesi, un «Discorso sul commercio ed altre materie ad esso relative» (5). Ad una tal quale attrattiva che naturalmente questo libro doveva esercitare sui suoi contemporanei, per la copia de' fatti che conteneva, si aggiunse la maggiore pubblicità datagli in Francia, ove fu tradotto nel 1755, molto amplialo, e reso ben più interessante che l’originale (6).

Forse questa prima pubblicazione decise la scuola economica del professore napoletano. Le sue teorie emanarono tutte dal sistema mercantile, che allora, come nell’opera del Cary. era già entrato nella sua terza fase, di sistema protettore. Genovesi se né imbevve; ma filosofo e ragionatore com’era, trovò spesso un urto tra i suoi principii generali e le teorie del British merchant; ed il lettore delle sue lezioni si può facilmente accorgere d’una specie di lolla sordamente impegnata Ira la rettitudine del suo intelletto, che lo spingeva a proclamare libertà e giustizia, e i gretti calcoli del protezionismo che assumono l’ardua impresa di far credere agli uomini che le esagerate dogane, violazione palpabile d’ogni idea di libertà e di giustizia, si potessero convertire in sorgente di prosperità — lotta nella quale pur nondimeno il pregiudizio comune definitivamente la vinse sull’intelletto del professore.

Genovesi, si lasciò compromettere da' suoi primi lavori economici. Offri all’Italia l’opera del Cary come una prova sufficiente della bontà del sistema doganale. «La Storia di Gio. Cary fa vedere le cure e le diligenze degli Inglesi per aumentare la lana, la canapa, il lino, i cuoi, i metalli, per avere della seta ed altre tali materie prime, e per ridurre a perfezione le manifatture di tali materie»: questo è il suo concetto, ripetuto di continuo, applicato dapprima alle condizioni del Regno di Napoli, ne’ suoi comcntarii all’opera del Cary, e poi trasfuso nelle sue lezioni (7).

Questi comentarii e la fama delle sue lezioni lasciarono una grave impressione nel pubblico, ed assicurarono la riputazione dell’Ab. Genovesi. Di fuori, si ambiva la sua corrispondenza e si citatano come autorità le sue massime. Ogni distinto straniero che capitasse a Napoli non né sarebbe partito senza avere ascoltato qualcuna delle sue lezioni; la visita del principe di Brunswich fu notata con segni palpabili di gran gelosia (8); ho avuto—scriveva egli stesso sin dal 1758 al suo amico De Sanctis — un’amenissima conversazione col sig. Dangeul gentiluomo di camera del re di Francia, ed autore del famoso libro Remarques sur les avantages et les dés avantages des Anglais et du Francois par rapport au commerce, che io ho citalo con quella lode che gli si dee (9). Ei fu a ringraziarmi. È un uomo di 56 anni... vero patriota, né invaso de' pregiudizii francesi: ciò che mi pare un vero miracolo... Egli ha letto le mie note, e mi ha fatta l’obbligante confessione di essere in lutto e per tutto de' miei sentimenti... ».

Nel paese ancora, la riputazione del suo nome si veniva di giorno in giorno consolidando. Era il momento in cui il Governo napoletano volgeva verso un primo inizio di riforme; e un po’ di favore conceduto dall’alto al talento, bastò per rendere l’Ab. Genovesi universalmente apprezzato, e rintuzzare almeno, se estinguere non era possibile, le antiche ire del partilo pretesco.

L’anno 176't, in seguito ad una scarsa raccolta di cereali, fu anno di fierissima carestia nel regno di Napoli. Il male venne dalla natura, il Governo lo accrebbe. Fissando un minimo ai prezzi, accennando nomi d’accaparratori, mandando appositi magistrati in provincia a cercare monopolisti introvabili, mutò la penuria in assoluta mancanza di viveri, determinò sommosse e assassinii, e sparse la disperazione nel popolo, dalmate, per importazioni dall’estero, le angoscio di quella elise, si pensò all’avvenire. Vi fu un barlume di senno nella Reggenza che le permise di riconoscere come, se, malgrado lo stretto reggime d’annona da lungo tempo adottalo, erasi potuto subire la dura prova di una scarsezza le cui vittime sfuggivano al calcolo, molto più un reggime di libertà, inaugurato opportunamente, avrebbe impedito il ritorno d’una calamità cosi dolorosa. Ma l’opinione del pubblico era profondamente falsata; e bisognava prender le mosse dall’agire sopra di essa, propagando i sani principii che, già divulgati dalla scuola francese, ed illustrali dall’esempio vivo e dagli scritti ufficiali di Turgot, cominciavano ad insinuarsi nel giudizio delle classi più illuminate in Europa. Allora s’era appena destala a Parigi quella viva controversia sul commercio dei grani, nella quale l’Ab. Galiani spese per una pessima causa lutto il brio del suo spirito; ma v’era un’opera sul «Ruggirne del commercio dei grani» giustamente reputata come un capolavoro di logica, di sapere economico, e lino di eleganza d’espressione (10). Il Governo napolitano si avvisò di farla tradurre; e l’Ab. Genovesi, i cui principii restrittivi avevano d’altronde serbato un’eccezione per il commercio de' grani e delle materie grezze, specialmente trattandosi, com’era il caso di Napoli, d’un paese essenzialmente agricola, fu incaricalo di stenderne la prefazione, nella quale riconfermò le idee largamente già svolte nelle sue lezioni e nella massima parte dei suoi lavori economici.

Anzi non disse tutto, e si doleva di non poterlo. «Qui per ordine della Corte si traduce per istamparsi la Police dee grains, con un saggio sull’agricoltura del medesimo autore. Mi hanno fatto l’onore di comandarmi di aggiungervi qualche cosa relativamente al nostro regno. Quel che vorrei dire però noi posso. Per la maggior parte i contadini del Regno non hanno terreno proprio. La massima parte de' fondi è andata in mano de' frati e continua ad andarci a precipizio. Sicché il più de' contadini fatica per ingrassare le budella de' frati... Non so che occhi si abbiano i nostri baroni; fra poco essi co’ loro vassalli saranno tutti addicti glebat de' frati... » (Lettera a Leon. Cortese, 1° settembre 1764).

La stampa delle Lezioni, fatta appunto allora, accrebbe sempre più la fama dell’A., al segno, che nel 1766 fu dal Governo invitato a varie conferenze tenutesi, tanto per avvisare ai mezzi di rimediare', alle monete calanti di Roma, quanto per dare un parere sopra un trattato di commercio che propone vasi dalla corte di Francia.

Il suo principio si era che «ne’ trattati non si voglion chiedere più di due cose: libertà di trafficare ed accomodamento di tariffa (11)»; quindi non esitò a rispondere che:

«Per quelle nazioni, le quali non hanno commercio marittimo né navigazione, non può riuscire che dannevole ogni trattato di commercio: elleno sono legate senza legare; perciò vogliono esser aperte ed accessibili a tutte le altre; solo quelle che possono legare possono utilmente contrarre. Donde né segue che il Regno di Napoli deve essere in pace con tutte le nazioni, e non aver trattati di commercio con nessuna, finché non abbia sufficiente marina da sostener la navigazione (12)».

Un altro segno del conto in cui già tenevasi alla Corte l’ingegno e il sapere del Genovesi fu l’incarico di compilare un progetto di riordinamento degli studii dopo la cacciata de' gesuiti nel 1767. Il Galanti, suo affezionato discepolo, ha raccolto fra le sue carte i frantumi del suo progetto, di cui «si mise in opera quel tanto che i tempi permettevano».

Ma quello fu lavoro incompiuto, e fu l’ultimo: perché da cinque anni un mal di cuore lo minacciava, ed accresciutosi, e presa la forma d’idropisia del torace, in settembre del 1769 lo spense, in età d’anni 57 non ancora compiuti.

Di lui economista, diremo meglio qui appresso; ciò che unanimemente si concede al suo nome è la vastità de' suoi studii, la forza del ragionamento, l’indipendenza del carattere, e l’amore sincero al suo paese, che per lui era l’Italia; l’Italia di cui ricordava sempre le due grandi epoche già passale, e né agognava una terza nell’avvenire.

Genovesi, senz’essere un intelletto creatore, fu una mente esatta di sua natura, e copiosamente nudrita di buoni studii; e coll’instancabile attività che distinse la sua non lunga carriera, e per le persecuzioni di cui fu segno nel miglior periodo della sua esistenza, e per la nuova vita che comunicò all’ardore della gioventù de' suoi tempi, può dirglisi meritato il titolo che Giuseppe Pecchio gli dà, di redentore delle menti italiane.

La casta del basso clero lo perseguitò sino al limitare del suo sepolcro; ed il Galanti ci ha conservala la serie delle proposizioni che un insulso domenicano, per nome Mamachio, da Roma, quando in Napoli la mutata politica più noi permise, andò ripescando e contorcendo, per farne sorgere il concetto d’un uomo profondamente nemico alla Religione ed allo Stato.

Ad un secolo di distanza, possiamo giudicarne con tutta la calma di un’imparziale ragione. Genovesi era, all’incontro, sinceramente religioso, e sinceramente pieno di amore verso i suoi simili ed il suo paese. Era tanto amico al progresso delle sorti umane, tanto attaccato alla pacifica conservazione dell’ordine, quanto franco avversario d’ogni maniera d’usurpazioni e di abusi. Nelle quistioni di domini e privilegi, tra Stato e Chiesa, fu senza dubbio aperto nemico a tutte le esagerale pretensioni, con le quali i falsi amici della Chiesa hanno profondamente sconvolto la purità e la tranquillità della fede cattolica. Ma in verità, se egli ha una colpa, è quella di avere accordato anche nelle sue lezioni, sino al finire della sua vita, un’attenzione qualunque a queste decrepite dispute, destinale unicamente oramai ad alimentare il torpore dello spirito umano, e radicare l’equivoco con cui la gloria de' cieli si vorrebbe confondere colla corte del Valicano. La scienza delle ricchezze non saprebbe occuparsene; e Genovesi, se fosse vissuto un secolo dopo, o le avrebbe riguardate con occhio di profondo disprezzo, o si sarebbe astenuto di professare l’Economia.


vai su

II

Nell’anno stesso in cui l’Italia perdeva, all’una delle sue estremità, l’economista napoletano, una seconda cattedra di Economia si fondava all’estremo opposto, in Milano, sotto gli auspicii d’un nome che, nel fiore degli anni, era già l’ammirazione di lutto il mondo civile.

Caterina il, colpita dall’impressione che il libro De’ delitti e delle pene avea destata in Francia ed in Germania, fece richiedere di Beccaria, offerendogli in Russia una posizione conveniente. Ma Maria Teresa aveva allora un ministro, a cui il lasciar partire un uomo «assai fornito di sapere ed assai avvezzo a pensare» non solo sembrava una perdita per il paese, ma avrebbe fatto «poco onore a tutto il ministero che si facesse prevenire dagli esteri nella stima dovuta agli ingegni».

Beccaria dunque rimase in patria; una cattedra di Scienza Camerale fu fondata nelle scuole palatine a Milano; il giovine pubblicista, già celebre, né fu nominalo professore; le sue lezioni cominciarono nel 9 gennaio 1769; e son quelle appunto che, ora comprese in questo volume, per lungo tempo circolarono manoscritte in Italia, e furono per la prima volta nel 1804 stampate nella Raccolta del Custodi (13).

Come economista, Beccaria aveva già fatto le sue prime prove sin dal 1762. Un argomento che allora preoccupava gli abitanti dell’alta Italia era la continua disparizione di certe monete, e l’affluenza di certe altre. Questo, che ai nostri tempi sarebbe appena soggetto di qualche secondaria misura amministrativa, allora sembrò un tema della più viva importanza; e da un lato correvano ne) volgo de' pensatori le più strane opinioni sulle cause e sui rimedii di un tanto disordine, dall’altro

Il meno a cui si pensasse era di farne, come dovevasi. rimontare la causa sino all’intrusione dell'Autorità, la quale, pretendendo di aver fissato con le sue tariffe il valore delle diverse monete straniere che circolavano in Lombardia, si era ingannata ne’ suoi calcoli. cd avea generato quel traffico del comprare e vender monete, che tanto tormentava l’imaginazione de' popoli.

Beccaria, giovinotto com’era, scrisse un sensato opuscolo Del disordine e de' rimedi delle monete nello Stato dì Milano, nel quale, appoggiandosi sulle idee di Locke, e valendosi delle cifre di Carli, ridussi a poche e nitide proposizioni l’argomento che, nel principio del secolo, erasi tanto discusso in Francia; e con due accurate tabelle provò che la tariffa conteneva enormi errori di calcolo, tanto nella valutazione isolala delle diverse monete, quanto nelle valutazioni relative delle monete di diverso metallo, per poi dedurne il bisogno di riformare la tariffa — e soprattutto di creare un apposito magistrato, che, vegliando sulle successive variazioni della circolazione europea, proponesse in avvenire le mutazioni di tariffa che potrebbero occorrere.

Quell’opuscolo, come è bene da imaginare, fu subito oppugnato da un Marchese Campani (14); ma la sua debolissima critica servì di opportunità a far sorgere un nuovo cultore delle scienze economiche nel Milanese, che poi salì ad una fama, sempre minore di quella che meritassero i suoi lavori e i suoi atti.

Era giovine anch'egli, uscito dalle caserme del reggimento Clerici; era l’uno de' tre Verri, legali dalla più cordiale amicizia con Beccaria, ed alle cui premure è noto che il mondo fu debitore del libro De’ Delitti e delle Pene, il quale, senza la loro importunità. mai forse non si sarebbe prodotto dalla naturale indolenza del suo immortale autore (15).

Nel Dialogo, fra Simplicio e Fronimo, sul disordine delle monete nello Stato di Milano, stampato a Lucca in quell’anno medesimo. P. Verri rese ancora più chiarì gli aforismi di Beccaria, e diede un passo di più. Perché, invece d’insistere sulla correzione delle tariffe, e sulla creazione di un apposito magistrato, osò discreditare l’importanza dell’avere monete coniate ad una zecca nazionale. «Lasciamo batter moneta, diceva, alle nazioni che hanno miniere e grande commercio marittimo, noi, abitatori di un piccolo Stato mediterraneo senza miniere, pensiamo ad accomodare le nostre partile del commercio, a diminuire le importazioni, ad accrescere l’esportazione, ad animare l'industria ecc.».

Queste parole compendiano l’Economia politica di Verri e del suo tempo, in Italia. Si trova ripetuto sempre lo stesso concetto sino agli ultimi de' suoi lavori. Ma allora esso era l’occupazione sua favorita, che gli aprì la carriera delle pubbliche cariche.

Il Custodi ha distesamente raccontato questo tratto della sua vita. Verri, assediato dal timor panico della passività ed attività del commercio, era con indefessa fatica riuscito a compilare un Bilancio del commercio Lombardo: dal quale sarebbe risultalo un eccesso d’importazioni sulle esportazioni, per la somma di non meno che 9 milioni di lire; e questo lavoro lo aveva condotto a scrivere alcune pregevoli Considerazioni sullo stato del Commercio di Milano. Il Bilancio stampalo in pochissime copie e non divulgato, die’ luogo ad una Lettera critica, nella quale invece si volle provare che il commercio dello Stato di Milano presentava un’attività di molti milioni. Le Considerazioni manoscritte furono dall’Autore spedite in Vienna al ministro Kaunilz.

L’affare sembrò gravissimo. Il ministro scrisse una lettera al conte di Firmian, nella quale si doleva da un lato, perché «il dotto cavaliere, di cui per altro gli piaceva l’ingegno e la scelta che avea fatto de' suoi studii, si fosse lascialo inconsideratamente condurre dal ferver giovanile a convertir colla stampa in oggetto di compatimento ciò che, prodotto in iscritto alla sola Giunta ed al Governo, gli avrebbe fatto dell’onore, se non altro per l’idea e per il piano di eseguirla»; e dall’altro lato, riconosceva come unico rimedio la necessità di purificare il fatto, accertare il vero stato attivo e passivo del commercio milanese, «affinché, rimosse le esagerazioni, si potesse conoscere da qual parte pendea la bilancia».

In quel momento erasi creala una Giunta di ministri con l’incarico di regolare i nuovi capitoli dell’appalto e la tariffa de' dazj; i quali, dal 1750 in poi, sotto il nome di Ferma generale, si trovavano dati in fitto ad una Compagnia di Bergamaschi, che né avevan ritratto un guadagno di 100 mila zecchini all’anno. Il conte Veni fu nominato Consigliere presso quella Giunta con voto deliberativo, e al tempo medesimo ebbe lo speciale incarico di compilare, insieme ad un suo collega, il nuovo ed esalto Bilancio del commercio.

Questa operazione fu compiuta in 18 mesi. Nel secolo XVI, dice egli medesimo, l’uguale lavoro non si seppe compirlo che in 50 anni, e nel 1752, disperando di farne un’opera in ogni sua parte compiuta, si limitò a' capi principali di mercanzia. Ora si trattò di svolgere e spogliare 2200 libri, tradurre in semplici e costanti denominazioni le merci tutte, con tutta la varietà di nomi, di misure e di pesi, e registrandole in 60 nuovi libri che servissero di documento alle cifre. In fine, l’opera fu eseguita; a' 30 ottobre del 1765 né fu falla presentazione al Governo: le prime cifre del conte Verri né riuscirono corrette; la passività, da 9 milioni, scese a poco più che 1 e l’autore vi premise una Relazione, nella quale la necessità de' bilanci di commercio, le verità che sia possibile trarne, le pratiche difficoltà che presentano, i metodi che convenissi adottare ne’ lavori avvenire. sono esposti con una sagacità e precisione da disgradarne ogni moderno statistico (16).

Verri era inoltre già noto nel mondo letterario come l'uno tra i fondatori del giornali Il Caffè, al quale collaborarono per due anni e suo fratello Alessandro, e Beccarla. Era un giornale nel genere dello Spettatore; tutti i suoi biografi dicono che né emulò il merito, e Zimmermann lo dichiara superiore. La quistione non ha importanza pei noi. I due articoli economici di P. Verri, che più vi si distinguono, sono le Considerazioni sul lusso, e gli Elementi del commercio. Furono ristampati anch’essi dal Custodi, e il lettore potrebbe ricorrere a quella edizione se si volesse convincere che son di poca importanza.

Le Meditazioni sull'Economia politica, che fan parte di questo volume, apparvero nel 1771; ed è meraviglioso a vederle pubblicate in quell'epoca, allorché si riflette alla moltitudine delle occupazioni di cui il conte Verri si trovò sopraccaricato negli anni anteriori, ed alla diligenza con cui vi attese.

È dovuta all’energia delle sue rimostranze l’abolizione totale della Ferma de' Bergamaschi nel 1770, che cinque anni prima era stata già convertita in Ferma mista, cioè in un appalto nel quale lo Stato rimaneva interessato per un terzo.

Da membro dei «Supremo Consiglio di Economia» — specie di dicastero, come oggi direbbesi, d’Agricoltura e Commercio, allora creato — ebbe l’incarico di liquidare e classificare tutti que’ rami di finanza, che si trovavano alienati, o dati in cauzione, a monti e banchi pubblici, o a famiglie private: e quest'opera, che per il corso di nove anni era sempre rimasta allo stato di semplice desiderio, in poco meno d’un anno fu compiuta da Verri.

Alla caduta de' fermieri che, secondo le parole di un dispaccio imperiale, succhiavano il sangue de' Milanesi e Mantovani, fu pure Verri l’incaricato di metter su un nuovo sistema di amministrazione della finanza, e lo fece con una di quelle decise volontà che accorciano di qualche secolo il processo delle riforme amministrative. Questo è forse tra i suoi atti, benemeriti tutti, quello su cui la Lombardia serba alla sua memoria una più viva gratitudine. «L’importanza del beneficio, che Verri con quest’opera ha reso alla sua patria, risulterà maggiore dal riflettere allo stato delle finanze di quei tempo. La daziaria era allora divisa in altrettante giurisdizioni, quante erano le provincie che componevano il ducato di Milano, e in ciascuna giurisdizione si esigeva un dazio. Perciò la circolazione del commercio era ad ogni tratto vincolata, e perfino 40 erano talvolta i pagamenti, cui soggiaceva una sola merce. Era tanto mal calcolata la tariffa, che in più di 500 casi i rappresentanti la Ferma generale aveano da quella receduto, e si erano accontentati di percepire un tributo minore di ciò che portava la legge, per non annientare molti rami di commercio, e deviar tutti i transiti dallo Stato». — La riforma, di cui più tardi, nel 1774, egli presentò il progetto, distrusse tutte quelle giurisdizioni; e Verri — soggiunge il Custodi — ottenne la gloria di aver applicalo al multiforme tributo indiretto quella regolarità di principii, e quella semplice uniformità, cui era stato già ridotto dal presidente Neri il censo delle terre; e come questa fu l’epoca del risorgimento dell’agricoltura, del pari la nuova tariffa il fu per l’industria e per il commercio.

Il supremo Consiglio di Economia, di cui già Beccaria era stato nominato Membro nel 1771, un anno appresso fu mutato nel Magistrato politico Camerale, preseduto dal conte Carli, ed alla sua morte da Verri.

Beccaria continuò la sua ufficiale carriera sino al 1796, epoca della sua morte, dopo essere stato ancora nominato Membro della Giunta per la riforma del sistema giudiziario, nel 1791. Trascorse tutto quel tempo in una vita solinga, interamente occupata de' suoi doveri di ufficio, e solo interrotta da un viaggio a Parigi, nel 1776, dove si trattenne circa 5 settimane, accoltovi da d'Alembert e dagli altri molti suoi ammiratori, ed al ritorno vide Voltaire nel suo castello presso Ginevra, e né fu festeggiato. Non ci ha lasciato di quell’epoca, che le sue Consulte sugli affari più gravi, delle quali il Governo, che grandemente le apprezzava, il richiese assai spesso. Due o tre se né pubblicarono posteriormente, e fra esse è una sulla riforma del sistema monetario, e un’altra sulla costruzione di un campione per la riforma delle misure.

Verri in quel periodo fu molto più attivo. Anch’egli fece una Consulta intorno a monete, ricalcata sulle medesime idee che entrambi avevano spiegate sin dal 1771. Continuò a sorvegliare e dirigere i suoi lavori di statistica finanziaria. Scrisse sulla Felicità e sull'Indole del piacere, due opuscoli, che se non riescono affatto graditi a' metafisici puri, hanno pur nondimeno delle belle riflessioni, di cui l’Economista medesimo può giovarsi, soprattutto nel determinare il concetto filosofico de' Bisogni.Nel 1796 pubblicò le Riflessioni su le leggi vincolanti nel commercio de' grani, scritte già sin dal 1769, ed una delle migliori produzioni che si abbiano su questo argomento, di cui fu tanto preoccupata la seconda metà del secolo XVIII. Già 15 anni innanzi. Aveva dato alla luce un primo volume di Storia di Milano (17), e nel 1787, le Memorie, dedicate al Condorcet, sulla vita di Paolo Frisi, antico cd intimo amico di lui e di Beccaria, matematico di fama, e morto nel 1784. Lasciò inedito un bell’opuscolo sulla tortura, nel quale si rivelavano le truci particolarità del famoso processo degli untori all'epoca della peste del 1630 (18). Inedite rimasero pure, e furono poi pubblicate dal Custodi sotto il titolo di Memorie, le Considerazioni sul commercio di Milano, quelle stesse da cui avea cominciato la sua carriera ne’ pubblici affari; e che, di mezzo alla loro forma troppo negletta, e malgrado la troppa concisione con cui sono esposte, lasciano pur nondimeno ammirare la moltiplicità e la profondità delle ricerche che io misero in grado di scriverle.

Inedite rimasero finalmente alcune memorie sulle riforme governative del 1786, e sullo stato politico del Milanese nel 1790. Ma allora egli era uscito dagli affari pubblici, perché, sin dal 1786, stanco, come sempre avviene ad uomini di buon volere, delle sorde cospirazioni, che gli antichi nemici delle riforme da lui operate nel sistema finanziario, e i nuovi ambiziosi gli tessevano intorno per attirargli la disgrazia della Corte, chiese a Giuseppe li, cd ottenne la sua dimissione, nella quale per altro si giunse a fargli il torto di negargli l’intiera pensione di riposo, per pochi mesi che ancora mancavano a compire il periodo sacramentale di 25 anni di servizio.

Ne’ mutamenti del 1796 fu strappato di nuovo al suo ritiro, echiamato a far parte del Municipio; ma lì appunto, il 28 giugno del 1797, colpito di apoplessia, spirò in età di 69 anni.

Beccaria e Verri, son due nomi di cui l’Italia oggi è giustamente orgogliosa, e di cui sarebbe soverchio il ripetere ciò che tutti conoscono. Bisogna pur dire che l’Italia noi fu altrettanto, sino a pochi anni addietro, e specialmente di Verri; ché, quanto alla mondiale celebrità di Beccaria, l’indifferenza de' suoi compatriotti non sarebbe bastata ad affievolirla. Ma il conte Verri, se non è un classico economista, è però uno di quegli uomini che, per ampiezza di sapere, per dirittura di mente, per operosità instancabile, per purezza d’intenzioni, starebbe allato a Sully, a Colbert, a Turgot, se invece di avere agito nelle strette dimensioni del ducato di Milano avesse avuto per patria un gran regno.

È ben da soggiungere che gli stranieri medesimi sono stati giusti verso di lui, più giusti forse di quanto il rigore di una sana critica permetteva. E la stessa Milano, sebbene un po’ tardi, ha finalmente riparato il suo torto. Nel 1844 Verri fu, com’è noto, il soggetto d’un’apoteosi: le sue biografie si moltiplicarono e si diffusero (19); l’inaugurazione della sua statua fu fatta davanti al Congresso degli Scienziati Italiani (20).

Più forse che l’indifferenza del pubblico contemporaneo, e che l’oblio della generazione sopravvissuta a Verri, è da deplorare la gelosia da cui vennero le animosità con le quali un uomo, illustre egli pure, il conte Carli, lo amareggiò. Sventura non rara nella repubblica delle lettere, soprattutto in Italia! Noi abbiam dubitato se si dovessero, in questa nuova edizione delle Meditazioni di Verri, ripubblicare le note del Carli; e se esse non avessero, in molti casi, provocato una replica delI’A. che non conveniva di trasandare, noi ci saremmo appigliati al partito di dare il testo dell’opera come in origine uscì dalle mani del Verri. Il lettore decida se ne’ ragionamenti del cementatore sia possibile non iscoprire segni palpabili di qualche cosa che, lungi dall'essere, come talvolta è piaciuto di dire, profondità di dottrina, sarebbe cecità di segreti rancori. Che se poi le annotazioni del Carli si dovessero accettare in tutta la buona fede di una sincera coscienza, noi non dubiteremmo di dedurne che il Verri sarebbe tanto superiore al suo secolo, quanto il miserabile sistema economico del suo annotatore è al di sotto delle verità sulle quali né anco il dubbio possibile è più permesso all'Economista (21).

III

La vita breve e tranquilla di Filangieri è esposta in quelle poche parole che gli scrittori di essa han copiate a vicenda, e che noi trarremo dal Pecchio.

«Nacque in Napoli il 18 agosto del 1752. Essendo il figlio terzogenito d’un’antica famiglia, dovette subire il destino de' cadetti, e fu dai genitori destinato alla carriera militare. Nel 1768 aveva il grado d’alfiere. Ma l’inclinazione per la vita letteraria prevalse in lui, e ai 17 anni abbandonò quella carriera per darsi agli studii. Ai 19 anni abbozzò il piano d’un’opera sulla pubblica e privata educazione, indi quello di un’altra sulla morale de' Principi; ma le meditazioni fatte su questi due argomenti non servirono che a somministrargli alcune idee per la successiva opera della Legislazione.Quando suo zio venne promosso all’arcivescovado di Napoli, egli venne assunto al servizio della Corte, ma la Corte né l’abbagliò, né il corruppe. Nel 1780 pubblicò i due primi volumi della Scienza della legislazione; nel 1785 né pubblicò altri due volumi; e tre successivi né pubblicò nel 1785, essendosi ridotto alla sua vita della Cava all'oggetto di occuparsi a quelli con maggior tranquillità. In seguito nel 1787 fu eletto dal Governo Consigliere di finanza. Indefesso nelle cure dell’amministrazione e negli studii, logorò talmente il vigore della sua robusta salute, che nel 1788 fu costretto a ritirarsi alla campagna in Vico Equense, ma senza frutto. Soccombette colà nella notte del 21 luglio dello stesso anno, non avendo ancor compito l’età di 36 anni».

Della sua opera in generale, a noi non preme di giudicare. Egli non si propose di prendere un posto fra gli Economisti; ma le Leggi politiche ed economiche, che noi riproduciamo, e che formavano il secondo libro della Legislazione, potevano star da sé e furono perciò dal Custodi comprese nella sua Raccolta degli Economisti Italiani. D’allora in poi Filangieri fu messo in riga con Verri e con Beccaria, e divenne autore anch’egli di un Trattato economico che escludere non si poteva dalla nostra Biblioteca, e sul quale è necessario che i nostri lettori si formino un concetto alquanto più preciso di quello che possa nascere da molti ed indigesti giudizii che né furono dati sin qui.

Finalmente, in quello stesso periodo in cui abbiam veduto sorgere Genovesi, Verri, Beccaria, e Filangieri, viveva a Venezia una strana intelligenza, universalmente ignorata, e lieta ella stessa del farsi ignorare, non per modestia, giacché giudicava «le sue dottrine migliori di tutte quelle degli altri»; non per «orgoglio od invidia», giacché voleva «comunicare le sue dottrine a (pie’ pochi che credeva dispostia riceverle», ma perché conosceva che, «trattandosi di economia comune, questa disposizione a que’ tempi era in pochissimi»; a que’ tempi ne’ quali «un popolo di studiosi, fatto un zibaldone di economia, di ricchezza, di politica, e di letteratura, confondevano e corrompevano l’une coll'altre di tutte queste, e in luogo di insegnare e promuovere il possibile e il vero, insegnavano e promuovevano l’impossibile e il falso».

Si chiamava Giammaria Ortes. Nato nel 1715 da un ricco negoziante di cristalli, fu dapprima monaco Camaldolese e discepolo di Guido Grandi, del quale pubblicò la vita; poscia, alla morte del padre, e per le cure di famiglia a cui era chiamalo, ritornò al secolo, benché avesse già professato; più tardi, e perduta la madre, viaggiò in Inghilterra ed in Francia, e finalmente, ruinatisi gli affari della sua casa, si ridusse in patria a vivere una vita più che modesta, e tutta occupata in contemplazioni d’un ordine oltremodo trascendentale. Parecchi libri furono successivamente da lui pubblicati (22), ma non né aveva distribuito che pochissime copie a pochissimi amici; tra i quali, otto o dieci, lo dice egli stesso, in Firenze, niuno in Venezia, né presero un tal quale interesse; il rimanente lo giudicarono un visionario,o chiamarono vani ed ombratili i suoi studii, inutili, inopportuni. I compilatori delle Novelle letterarie lo trovarono strano, oscuro, e di viste ristrette. L’autore, indispettito sempre più, si sentiva raddoppiata la sua tendenza all’isolamento; e fermo nella sua massima di non «pubblicare a tutti ciò che egli credesse di scrivere per suo diletto», giunse silenzioso al 1790, in cui morì, sconosciuto al segno che, se si eccettuano pochissimi fra i suoi concittadini, niuno sapeva che un Ortes scrittore fosse mai esistilo, quando, nel 1804, il Custodi annunziò la stampa delle sue opere come quelle di un autore «originale, profondo, e rivale de' più illustri stranieri».

Il Custodi aggiunse una larga Notizia sulle varie opere di Ortes, nella quale tentò di far sempre spiccare questo suo primo giudizio; ma la lettura dell'opera non sembra che sia riuscita a far trapassare nel pubblica italiano il concetto di questa suprema importanza che quel benemerito editore milanese vedeva ne’ lavori, o se si vuole, nel s sterna del pubblicista veneziano,

È ben raro ohe gli scrittori del nostro secolo abbiano sentilo il bisogno di ricorrere alle teorie di Ortes, e rarissimo che lo abbian citato} quantunque in mezzo alle sue astrusità non manchino de' lampi che con mirabile concisione esprimano un profondo e vivace pensiero (23). Si è spesso, come si suole, nominalo come un precursore di Malthus, e come una gloria italiana, senza ben darsi la pena di esaminare se questo giudizio, macchinalmente attinto alla biografia scritta dal Custodi, era poi realmente fondato sopra buone ragioni. Pecchio è forse il primo che abbia ben letto l’opera di Ortes, e il suo giudizio rivela il contrasto che in lui svegliavano la coscienza di economista e il sangue italiano. Tra gli stranieri, il giudizio di Blanqui è un po’ incerto, e quello di Ganilh non era stato menomamente lusinghiero.


vai su

IV

Son vari i titoli su cui ragionevolmente si possa, e su cui si suole appoggiare il giudizio del merito o demerito d'uno scrittore di Economia; ma il primo, se non in ordine logico, almeno sicuramente in ordine di pratica importanza, è la bontà del sistema governativo che le opinioni dello scrittore tendano a giustificare e volere.

Ora è sorprendente il vedere che noi Italiani, nella foga delle nostre esagerazioni, abbiamo più d’una volta mostrato o d’ignorare qual fosse il sistema governativo preferito da' nostri scrittori, o d’ignorare quanto valesse. L’abbiamo affatto sconosciuto quando — e fu mille volte — per appoggiare una teoria, come quella della libertà, abbiamo invocalo l’autorità di nomi che o non difesero la libertà, o né difesero una, che oggi troveremmo illusoria; abbiamo ignorato quanto valesse, nelle tante altre volte in cui contro le cresciute idee del secolo xix opponevamo le massime d’un secolo indietro, e le rendevamo imponenti collocandole sotto l’ombra di nomi, per cento altri titoli rispettabili e cari, ma di nessun peso in una materia sulla quale non ebbero che lampi di verità in mezzo ad una nebbia di pensieri indigesti.

Un equivoco in cui si doveva naturalmente inciampare leggendo a balzi, o di volo, o non leggendo affatto talvolta, i libri di cui si pretendeva saper profferire qualche superbo giudizio, era quello di lasciarsi ingannare da pensieri isolati e perder di vista l’insieme della teoria, con la quale que’ pensieri o non avevano un vincolo o erano in contraddizione diretta.

Genovesi, Beccaria, Verri, e Filangieri, son essi, come tante volle ci occorre d’udirlo, campioni decisi delle economiche libertà? Nulla è si facile quanto il dimostrare che il sieno a chi non abbia mai letto le loro opere.

Genovesi ha detto: il commercio è di natura sì delicata e ritrosa, che, come le tenere piante, di niente ha maggior paura, quanto del gelo delle oppressioni; gli è più necessaria la libertà che qualunque maniera d’aiuto; libero, vien su bello e rigoglioso, e si protegge da se medesimo; senza libertà non alligna (24). — Un tratto della provvidenza divina, ha soggiunto, è questo dell’aver voluto che gli uomini dipendano gli uni dagli altri, e che vi sia prima tra famiglia e famiglia, poi tra villaggio e villaggio, tra città e città, tra nazione e nazione, uno scambievole legame di perpetuo interesse. Nel commercio vi ha corpo ed anima, e per condizione della sua piena esistenza vi dev’essere la libertà. Annientate le cose permutabili, avrete annientalo il corpo. Annientate il consumo, avrete annientato l’anima. Ma lasciate, se pur si può, il consumo, e rendete difficile, implicato, lento il corso, voi avrete annichilato la libertà (25).

Beccaria non fu così esplicito; ma Verri, che divideva la più gran parte de' suoi principii, ha dato al principio di Genovesi un aspetto ancora più generale. Per lui, non è nel solo commercio, ma in tutte le umane azioni, che il bisogno della libertà si manifesta; ogni limitazione dell’attività umana è un passo che tende direttamente a distruggere la società, perché né scema l’annua riproduzione; perché, ad ogni soverchio esercizio del potere governativo sugli uomini, s'indeboliscono le idee morali nel popolo, si rende dapprima timido, poi simulalo, poi inerte, e si finisce collo spopolare il paese (26).

È soverchio il citare qualche passo di Filangieri. La libertà generale dell’industria e del commercio; lutto quello che la favorisca; nulla di quello che possa nuocerle: questa è la sua divisa, ed io dovrei indicare com'eloquente lo squarcio in cui egli la domanda ai legislatori, se non fosse copiato da qualcuno de' tanti che si leggono ne’ fisiocrati.

Arrestandoci qui, rimarrebbe pienamente provato che appartiene alla scuola italiana la gloria di avere inauguralo il principio d’emancipazione nella quale va in fin de' conti a risolversi l’ultimo consiglio che la scienza abbia dato ai Governi; e le glorie di Smith o Quesnay né sarebbero impallidite.

Ma sventuratamente voltando appena quella medesima pagina di Genovesi, il lettore troverà una prima avvertenza.

«Vi sono di quelli che per libertà di commercio intenderebbero un assoluto potere di estrarre ed immettere ogni sorta di mercanzia senza niuna restrizione, legge, e regola».

E noi, uomini del secolo 19°, certamente la intendiamo così; ma Genovesi ci avverte che questa è licenza non libertà; e la licenza è dannosa a' corpi politici come lo è agli individui.

Andando alquanto più innanzi, il professore napoletano fa chiaramente conoscere che per commercio intendeva qualche cosa diversa da ciò che noi intendiamo, da ciò ch'egli stesso pareva d’intendere in quel momento nel quale ammirava il bel tratto della provvidenza divina, che ha voluto legare le nazioni alle nazioni come l’uomo all’uomo.

Per commercio egli non intendeva che la circolazione delle derrate, e la circolazione non era per lui che il loro viaggio dentro i confini di un regno. Or dunque ciò ch’egli domanda non è che libertà di circolazione all’interno, e con l’espressa riserba che l’accordarla non offenda l’utilità dello Stato: perché è sua massima che il commercio debba servire allo Stato, non lo Stato al commercio!

Da qui, una conseguenza anche più esplicita, e un paragone che la renda evidente. Il commercio potrà esser legato dagli ostacoli più odiosi, e l’economista continuerà a ritenerlo per libero, tutte le volte che la circolazione sia libera: esso è come un generoso cavallo; ogni peso, anche minimo, che gli si ponga tra i piedi, lo arresterebbe; ma i pesi più gravi che gli si mettan sul dorso, purché non superino le sue forze, non si potrebbero considerare come intoppi alla velocità del suo corso (27). Il paragone, come ognun vede, potrebbe mostrare l’inverso di ciò che l’A. voleva; ma Genovesi né fu soddisfatto e credè aver provato il principio, da cui le massime del protezionismo potevano spontaneamente discendere.

Proibire l’estrazione delle materie prime che si possono lavorare nel paese; od almeno non permetterla, se non in quella parie che superi l'occupazione interna, la maggiore possibile (28); e uno de' canoni fondamentali di questa libertà che dee rispondere a' sacri decreti della provvidenza, è uno di questi pesi che si possono impunemente far gravitare sul dorso al commercio.

Proibire l’uscita del danaro non sarebbe mal fatto, se per isvenlura non fosse praticamente impossibile, se l’esperienza non avesse costantemente provato che l’osservanza di queste leggi sfugge a qualunque precauzione e rigore (29).

Ma impedire direttamente od indirettamente l’entrata di lutto ciò che nel paese nasca o si lavori; direttamente, vietandola; indirettamente, attraversandola, principalmente (si noti la parola) con caricarla di diritti d’entrata (30); questo è un altro canone della medesima libertà, dettato dal gran motivo di dovere impedire che le manifatture vengano pian piano a languire, e la coltivazione delle terre a sminuirsi (31). Senza una tale precauzione, «il danaro ricavato dalle arti primitive andrà ad alimentare gli Stati forestieri, lascerà in secco il proprio» (32), e ci costituirà in un perpetuo stato di debito e dipendenza, dal quale è urgente di uscire (33) — urgentissimo a chi consideri quelle tante tele, que’ merletti, que’ galloni, quelle frange, que’ drappi, quelle manifatture di panno, di pelo, di seta, que’ metalli, che Napoli riceve dall’estero; che non si comprende perché si debban ricevere, quando si è visto Venezia liberarsi in un attimo dal bisogno di comprare i libri dall’estero, mercé una semplice legge, con la quale ordinò che fossero tutti stampali all’interno, e proibì a lutti l’entrata, salvo i pochi esemplari destinati ai tipografi che dovevano ristamparli (34).

Una volta diretto su questa via, gli argomenti dovevano moltiplicarglisi sotto la mano. — La nazione che non frena l’irruzione dei prodotti forestieri, che fa? Paga in contanti il bilancio. Da qui tre perdite enormi: danaro perduto, traffico attenuato, e merci vendute a precipizio per il bisogno di riavere un po’ di contanti. Da qui disastri incredibili: l’agricoltura e le arti decadono, la popolazione si scema, l’erario impoverisce, le forze dello Stato si snervano (35). —Lo spirito della pubblica Economia, sta tutto in ciò: che la nazione dipenda il meno che sia possibile dalle altre, vicine o remote che sieno; perché quanto maggiore sarà la sua indipendenza, tanto maggiore la libertà, la ricchezza, la forza (36). — Bisogna che abbia due faccie il commercio, e dall’una sia libero, schiavo dall’altra. Schiavo della gran legge d’ogni nazione, salus publica. Non deve esser lecito ai commercianti né tulio estrarre né lutto immettere. Ogni estrazione che indebolisce l’industria è rea di maestà; ogni importazione che nuoce alle arti domestiche distrugge lo Stato; ogni merce, ogni contratto, ogni traffico che viola la fede pubblica, rovina la nazione (37).

Del rimanente, Genovesi voleva libera l’estrazione, ma de' grani o de' bovi; ma fino a che non fossero sorti a Napoli nuovi molini o nuove concerie, a cui l’estrazione di quelle materie prime avesse potuto far male. Libera, cioè non vietata. Perché, malgrado tutto, voleva la sapientissima scala mobile all’uso inglese; voleva de' dazii d’entrata e d’uscita purché fossero moderati; voleva che in certi momenti si favorissero }e estrazioni a forza di premii, in certi altri si favorissero lo entrate a patto di riesportazione futura; che nel fissare le cifre della tariffa si prendessero particolarmente di mira le manifatture di lusso; voleva tutto ciò che da due secoli e mezzo, da Bodino fino a Forbonnais, da Mun a Stewart, da Colbert a Terrasson, da Eduardo III a Giorgio II, si era domandato, proposto, tentalo, e preconizzato come l’apice della sapienza economica. Ulloa ed Ustariz, Garv e Melun, ecco le autorità sulle quali appoggiavasi, adottandone con religiosità scrupolosa le teorie, copiandone le parole.

lo non rammento in qual libro abbia letto una volta la dimostrazione palpabile delle teorie di libertà commerciale professate da Beccaria, ma il passo che adducevasi in prova era, senz’alcun dubbio, quello che il lettore può riscontrare alla pag. 459 di questo volume, dove non si potrebbe esprimere con maggior precisione cd energia il principio di intima solidarietà che lega gl’interessi degli uomini.

Da questo principio appunto la scuola di Smith ha dedotto che la prosperità di un popolo è prosperità di tutti, e che non può esserlo per l’uno e per gli altri, se tutti non si lascino fare e permutare secondo l’impulso de' loro interessi.

La deduzione di Beccaria è affatto diversa.

Egli ha, sull’estrazione e l’entrata delle materie grezze, le medesime regole di Genovesi; ma ciò che mi riesce ben più singolare è il vederlo appoggialo, non tanto sulle preoccupazioni del commercio attivo e passiva, e del bilancio in contanti, quanto sullo spirito di rivalità tra nazionali e forestieri, come se mai non gli fosse caduto in pensiero quel santo e consolante principio che la ricchezza degli uni è ricchezza degli altri.

Alla pag. 476, son tutte esposte le ipotesi della materia prima. Se ella cresce all’interno, se il forestiere può venirla a comprare e far concorrenza al manifattore nazionale, se è più abile a lavorarla, se può cedere il suo prodotto a miglior mercato che l’altro; in lutti questi casi, ne’ quali «noi lo sborseremmo del nostro valore alla manodopera forestiera, bisogna con ogni sforzo evitare che escano tali valori dello Stato». E perché si ottenga lo scopo, «non si potrebbe e non si dovrebbe far altro che proibire assolutamente l'uscita della materia prima». Ma allora, la sua produzione né sarà scoraggiala, e per contraccolpo né seguirà l’avvilimento della manifattura medesima; e sorgerà l’inestricabile contrabbando e l’ingoiatore monopolio. Il rimedio è pronto: un dazio all’uscita. Con esso si saranno artifizialmente ingrandite, contro il manifattore straniero, le spese di trasporto; la materia costerà per lui più di quanto la pagheremo noi stessi, e nella lotta il nostro paese riuscirà vincitore.

Rovesciando l’ipotesi, s’andrà naturalmente a scoprire che sia nostro interesse facilitare l’entrata alle materie prime che ci si possono offrire dall’estero, perché, lavorandole nello Stato, o il prezzo della materia ci sarà rimborsato dal consumatore straniero, o consumandola fra di poi avrem guadagnato la manodopera.

Ed applicando gli stessi ragionamenti, sorgerà l’altra massima fondamentale intorno alle manifatture: cioè di aggravare l'introduzione delle manifatture estere, ed alleggerire, o meglio lasciar libera del tutto l’estrazione delle manifatture nazionali (38).

Vi ha dunque una prima differenza tra Genovesi e Beccaria, perché non vi è caso in cui il secondo de' due ammetta le proibizioniassolute che parvero indispensabili al primo.

Una seconda potrebbesi rinvenire in una tal quale raffinatezza che Beccaria voleva apportare nel criterio della protezione, ed alla quale attaccava, è ben da crederlo, un grande interesse, poiché tre o qua Irò volte ebbe la cura di rammentarlo. Tra un’arte e l’altra volea preferita ed animala costantemente quella, la cui materia prima meglio si combinasse con altre colture; tra due arti, nelle quali l’esito del prodotto dell’una si opponga al buon esito del prodotto dell’altra, raccomandava sempre quella la cui materia prima esistesse in paese. Così, se si potesse ridurre la seta ad un esito così facile, e ad usi cosi svariati, come la lana, non si dovrebbe dubitare che si abbia da proteggere i gelsi più che le pecore; quantunque, alquanto più sotto, l’autore trovi che sarebbe «un pazzo consiglio» il permettere che spatrii l’accostumato lino per alloggiare il forastiero cotone; e distruggere la popolazione de' nostri gelsi, o dissipare le 115 mila vacche de' nostri prati, per moltiplicare le pecore (39).

In somma, qui il protezionismo è men crudo e men grossolano, ma integro sempre nel suo principio fondamentale; e la scienza camerale di Milano non ha da proporre alla corte di M. Teresa un reggime sostanzialmente diverso da quello che Genovesi ha consigliato alla corte di Napoli.

Verri accettò pienamente egli pure il sistema, e lo credette si ovvio e si ben dimostrato che gli bastò di accennarlo. «Un tributo sull’uscita d’una materia prima può essere un incentivo fortissimo ad accrescere l’annua riproduzione col ridurla a manifattura. Un tributo sopra una manifattura estera può dar vigore a una simile manifattura interna. Io non mi estenderò su questi elementi chiaramente sviluppati da varii scrittori... ma non credo che sia utile mai il proibire l’uscita di alcuna materia prima, sebbene credo utile l’imporre a quell’uscita un tributo... le leggi proibitive o vincolanti l’uscita avviliscono il prezzo... (40).

Verri diede unicamente un passo di più. Egli mise l’ipotesi della libertà come un sogno, e conchiuse pe’ dazii, sicuro che la piena libertà non è che un sogno. Non diede né pur come sua quell’ipotesi: E’ stato proposto il quesito, se qualora tutte le nazioni si accordassero ad abolire le dogane, questo potere liberamente commerciare fra loro sarebbe giovevole. Avea troppo buon senso per non rispondere: che «se mai fosse sperabile un accordo così fortunato, nessun uomo vi sarebbe che volesse contraddire ad un’idea tanto provvida e umana, che tenderebbe ad accrescere il numero de' nostri simili ed aumentare gli agi della vita sopra ciascuno»; ma era troppo ligio al pregiudizio corrente, per osare di sollevarsi fino a non credere che quella nazione la quale adottasse ella sola un reggime di libertà «soffrirebbe colla massima energia i mali che possono cagionare i tributi sulle merci, ed avrebbe rinunziato all’utilità che se né può risentire» (41). — Il vaticinio di Verri è fallito in grande nell’esperienza dell’Inghilterra, ed era prima fallito nelle modeste dimensioni di tutti i porto-franchi del mondo; pur nondimeno la teoria è ancora vigente, e ad umiliazione degli uomini liberi può dirsi che sia la dottrina favorita delle tribune parlamentari.

Il sistema di Filangieri, in quanto a commercio interno ed esterno, è irreprensibile; e se egli avesse scritto all’epoca di Genovesi, le sue dottrine gli darebbero un posto luminoso fra gli scrittori di scienza economica. La libertà ch’egli invoca è senza restrizioni. In tutto ciò che i Governi han fatto, sotto l’impressione, o sotto il pretesto, che la libera esportazione potesse esser causa di penuria all’interno, Filangieri non vide?che la vera sorgente della penuria, la rovina dell’agricoltura, l'annichilazione del traffico, la spopolazione del paese (42). Difficilmente la dimostrazione di questa verità si potrebbe meglio compendiare, del modo ch’egli lo ha fatto nel capitolo in cui passa in rivista i danni che l’agricoltura ha da temere dall’azione del suo Governo. In un altro capitolo posteriore, tornando a considerare il reggime dei commercio sotto l’aspetto de' dazii, tutta la politica del sistema protettore è, in tutte le parti che la compongono, flagellata senza pietà. Le dogane, questa triste eredità raccolta dalle tradizioni dell’impero romano, son da lui presentate come una multa all’industria; e piange sulla miseria dell'umanità, che ha tanto snaturato l’idea del commercio, da ridursi ad accogliere com’oste nemica le pacifiche balle delle merci straniere, e convertire l’innocente alto del cambio in un semenzaio di frodi e corruzioni. Ogni volta che le considera in massa, e come dazii indiretti, Filangieri trova qualche nuova frase per condannarle; ed in ognuna delle loro funzioni, quando tendono a colpire o la circolazione od il consumo, o l’entrata o l’uscita, od il prodotto nazionale od il prodotto straniero, attacca di fronte tutti i sofismi da cui promanano, e conchiude costantemente per una libertà senza limiti. Quando egli scriveva, le illusioni della politica mercantile eran tutte cadute, e la sola che si reggesse era quella della protezione che le tariffe miravano a procurare in favore delle interne manifatture. «Miseri ed inetti politici —qui egli grida con una delle declamazioni che tolgono tanta parte di merito alla sua celebre opera — questa è l'ancora sacra alla quale voi ricorrete... Ma non sapete voi forse che quando meno si vende a voi, si comprerà meno da voi?... (43).

Filangieri, non solo è puro, in questo argomento, dalle velleità di Genovesi, di Verri, e di Beccaria, ma va molto più lungi dal punto a cui si arrestarono poscia i liberisti moderni. Egli il poteva, come prima di lui lo poterono i Fisiocrati, di cui Filangieri adottò il principio dell’unica imposta sopra la terra. La quistione delle dogane non era pe Fisiocrati e pe’ loro seguaci, come spesso è per noi, un problema finanziario; concepita una volta l’idea che questi dazii indiretti riescon funesti all’economia delle nazioni, la loro totale abolizione non avrebbe incontrato il menomo ostacolo nel bisogno di sovvenire alla massa delle pubbliche spese; la terra, il suo reddito netto, sarebbe a tutto bastato.

Ripeto che se questi principii fossero originali, Filangieri sarebbe già un caposcuola. Ma se il lettore riflette che al 1785, la piena libertà di commercio era una teoria esposta, dibattuta, applicata a tutte le specialità, in circa 200 opere fisiocratiche, non gli farà meraviglia incontrare in Italia una voce eloquente che la difenda; e se qualche cosa vi ha che possa sorprenderci, è il vederla mescolata un momento, e nel medesimo libro, con qualche reminiscenza dell’antico sistema: è il vedere che l’autore medesimo, alla distanza di poche pagine, abbia sì ben descritto da un lato la solidarietà degli umani interessi, ed abbia dall’altro pagato il suo tributo al vecchio pregiudizio della bilancia—ponendo come «grande scopo della legislazione economica il procurare che nella permuta delle derrate la quantità di quello che si cede superi la quantità di quello che si riceve, affinché ciò che resta sia pagato colle ricchezze di convenzione (danaro), l’introduzione continua delle quali, allorché è moderata, farà sempre pendere dalla parte nostra la bilancia della ricchezza relativa delle nazioni (44)».

V

Le ristrette vedute, che dirigono le idee di Verri e Beccarla intorno all’esterno commercio, non son, per altro, di accordo co’ principii da loro spiegati circa all'interno reggime dell'industria. Chi è avvezzo oggi a riflettere sulla concatenazione delle idee che compongono la moderna Scienza, si attenderebbe di trovare le teorie più anguste in quell'autore che abbia sostenuto l’utilità de' vincoli alle importazioni dall'estero, ed espresso le sue simpatie verso il bene supremo d’una bilancia favorevole nel commercio. Pur nondimeno, non è così. Genovesi è il solo che si sia religiosamente tenuto attaccato a tutto ciò che possa far pesare di più la mano della Provvidenza governativa sopra l’industria; Beccaria, Verri, e Filangieri, han tutti rinnegato, con tenuissime differenze fra loro, l’efficacia di questa suprema protezione, ohe pure i primi due con tanta fiducia invocavano in quanto all'esterno commercio.

Il lettore potrà vederli perfettamente d’accordo a condannare le corporazioni degli artigiani, e come colpevoli di aver costipato in poche mani l’esercizio de' varii rami d’industria, e come causa di nuovi ed inutili pesi all’uomo laborioso, e come un ostacolo allo svolgimento delle facoltà industriali, e come sorgente di lotte fra corpi e corpi, fra corpo e membri, e come causa di valori dissipati, di tempo perduto, e come solenne e completa delusione di tutte le belle speranze di ordine e di progresso che né suggerirono la prima istituzione.

Verri non ammette che una sola eccezione, in fatto di farmacisti, e per motivi di pubblica sanità che egli dichiara collocati al di fuori della sfera economica. In ogni altro caso, domanda la più ampia libertà all’esercizio delle vocazioni individuali. L’industria impacciata da' privilegi di corpi, a lui non pare che un albero, «artificiosamente annodato nelle angustie de' nostri giardini», e destinatovi a vegetare stentatamente e languire, perché l’aria e Io spazio dell’aperta campagna gli mancano, a sciorne liberamente l’umore e rinverdirne le foglie.

Beccaria presenta come uno fra gli ostacoli più potenti che possano attraversare la prosperità delle arti, le infinite formalità di esami, patenti, permessi ecc., che, sotto il reggime delle corporazioni, accompagnano il tirocinio e l’esercizio delle arti; e Filangieri giustamente vi nota il marchio di schiavitù che tacitamente s’imprime nell’uomo, e il monopolio che si crea a favore dell’operaio agiato, e contro il povero, condannato a restare fuori del Corpo, per poco che la limitazione de' suoi mezzi non gli permetta di far fronte alle assurde imposizioni che il mestiere privilegiato impone ai suoi membri (45).

L’accordo è del pari perfetto intorno alla condanna de' monopolii o privilegi, verso i quali le scuole moderne sono state pur nondimeno indulgenti. In ciò io non temo di dire che si sia indietreggiato. Gli economisti Italiani sono, è vero, ben lungi dall’avere portato in questo argomento la copia e il rigore delle prove giuridiche, di cui lo arricchì Carlo Compie; ma la sicurezza con cui respingono ogni maniera di privilegio, la franchezza con cui disprezzano tutti i sognali vantaggi che se né operano, mi convince che nessuno de' tre, se vivesse ai nostri tempi, avrebbe ammesso la teoria de' brevetti, nessuno avrebbe tollerato in pace lo scialacquo che se né fa nella legislazione francese e nelle sue derivazioni, e nessuno forse — oso pure di crederlo — avrebbe partecipato alla strana aberrazione che, sotto il manto di proprietà letteraria, e col pretesto di custodire il più sacro fra i dritti, ha sostenuto e radicato ogni dove ciò che nel linguaggio di Bastiat va chiamato il peggiore de' monopolii, ciò che per me non può essere che la teoretica negazione della libertà del lavoro.

Con un poco più di energia, Verri avrebbe potuto spingere la sua dottrina fino al sistema de' premii, verso i quali, d’accordo ancora con Beccaria, egli non ha saputo nascondere una speciale predilezione che, se non può dirsi perniciosa, non rivela né anco un’estrema coerenza d’idee. Forse bisognava aver preso le mosse da diversi principii per Ben trovarsi sorpreso dall'illusione sotto cui a prima giunta si offre 1 innocente azione de' premii; ma Carli non partiva da premesse più pure, e Carli annotando il passo di Verri, fu capace di accorgersi che il reggime del premio è ancora più tristo che quello del privilegio (46).

Ad ogni modo, questa parte dell’interno reggime è irreprensibile nel sistema de' nostri autori, che la trattano costantemente con segni tali di convinzione da rendere inconcepibile l’incoerenza da cui furono trascinati a gettarsi nelle assurdità della doganale bilancia. Una sola spiegazione può darsene. Le quistioni speciali delle corporazioni e de' monopolii si presentarono avanti a loro con un sì largo corredo di esperienza e di discussioni, che bisognava un’alta ignoranza per accettare le assurdità dell’antico sistema; la quistione delle dogane, invece, non potea che dedursi da un esatto concepimento dello Stato e delle sue funzioni, e qui i nostri autori peccavano.

Perché, malgrado la generosa politica da loro adottata sulla libertà dell’industria, ciò che sempre nelle opere loro predomina, è l’idea di un Governo, moderatore, attento, affannato, responsabile di tutti i sospiri degli uomini inginocchiati davanti a lui. Era l’idea che predominava nel secolo, e che predomina ancora oggidì, fuori la sfera puramente e sanamente economica. Di massime generali intorno all’indole de' Governi, accettabili anche oggidì, il volume che presentiamo al lettore senza dubbio abbonda; ma appena l’autore si attenti a svolgerle od applicarle, né risorge sempre l’idea di uno Stato, la cui funzione è quella di soffocare i suoi sudditi per troppo carezzarli e curarne le sorti. Filangieri si creò un giusto-mezzo, e imaginò la scienza di «un giusto e difficile mescuglio» nel quale entrerebbero a dosi uguali l'attenzione e l'abbandono, l'ingerenza e la libertà; ma cercando un punto di paragone all’azione del governo sui popoli, noi seppe trovare che in quella dell'uomo adulto sul fanciullo inesperto, che, se curato di troppo, perderà ne’ trovati dell’arte i doni della natura, e se troppo negletto, perderà fra i vizii dell’indole umana i germi della virtù, lo non saprei formolare l’ufficio della pubblica Autorità in termini più ristretti insieme e più precisi, di quello con cui si conchiudono le Meditazioni di Verri; ma torno una pagina indietro, e là m’incontro in un passo nel quale mi s’insegna che, in fatto di riforme economiche, vuoisi impelo, prontezza, risoluzione di un solo, dittatura e dispotismo:proposizione, sulla quale il filosofo milanese avrebbe probabilmente l’assentimento de' più energici riformatori moderni; opinione alla quale io non apporrò la mia firma, ma che qui non discuto; opinione bensì che m’importa di ricordare, perché si possa da lei sola raccogliere come la metafora dello Stato era, fino per Filangieri e per Verri, destinata ad esprimere qualche cosa di sovrumano e di prepotente, e l’idea del Governo era sempre la commedia d’una tutela, nella quale la parte del pupillo sia serbata alla nazione.

Questo è un tarlo che sordamente ha roso le loro opere. Mi Asterrò dall’accumulare in un punto le citazioni di passi che il lettore avvertito potrà da se stesse incontrare. Ai tempi in cui scrissero, l’argomento era quasi vergine e fresco, e il radicale difetto de' loro libri non si lasciava sentire. In due terzi di secolo, il tarlo ha fatto già il suo lavoro di distruzione, e l’occhio dell'osservatore è ammaestrato dalle lezioni dell’esperienza. Abbiamo largamente sperimentato le conseguenze di quel falso concetto, e sappiamo a qual destino è chiamato un popolo quando in fronte alla sua legge fondamentale abbia scritto parole che dividono con un abisso frammezzo la nazione e lo Stato.A misura che più si maturano i tempi, più si corrode il sistema; e si può con sicura coscienza vaticinare che questo solo difetto occulto, più che qualunque, errore sensibile, basterà perché le opere de' nostri economisti si trovino fra non molto completamente sdrucite, nel corredo, della Scienza, benché la gloria de' loro nomi sia destinata a passare in mano alla Storia, sempre splendida ed onorata.

Il vaticinio non è menomamente applicabile a Genovesi. Il sin» libro nacque decrepito. Tutto l’ordine, la chiarezza. la vivacità talvolta, dell’esposizione, il sussidio de' fatti e delle citazioni, non vale a purgarlo della macchia di cecità con cui raccolse e si affannò ad ordinare i pregiudizii più comuni dell’epoca. Questa sentenzi parrà probabilmente un po’ cruda. Ma uno scrittore napoletano, pochi anni addietro, intraprese un confronto tra i quattro economisti italiani di cui parliamo; e malgrado la decisa superiorità che ogni mediocre buon senso sarà disposto a concedere a Verri, gli onori del trionfo furono senza esitazione dispensali al professore napoletano. Poscia il paragone fu istituito tra Genovesi e Smith: e rimase evidentemente provato, che una fatale aberrazioni, è quella da cui il mondo si è mosso a venerare nel modesto filosofo scozzese il fondatore d’una Scienza, che Genovesi trasse dal nulla e lasciò compiuta! Così ha giudicalo il cav Lodovico Bianchini (47). Era indispensabile il ricordarlo nel momento di dovere soggiungere che Genovesi, oltre all’avere in comune con Verri e Beccaria; tutte le preoccupazioni della bilancia e della protezione,

domanda che le corporazioni di arti sieno ritornale allo stato in cui furono concepite —affinché «niuno potesse professare arte veruna, se prima non vi fosse matricolalo, e niuno possa essere matricolato senza certe condizioni di costume e d’ingegno» (p. 245).

domanda che «si riguardi e si. punisca come pubblico delitto ogni contravvenzione a quelle leggi che saviamente stabilirono una comune ed immutabile tariffa, dì materia, di forma, di peso, di misura, di lavoro, di colori, ecc, in ogni traffico interno od esterno» (ivi);

domanda privilegi alle arti; e poiché sa egli pure che l'effetto immancabile del privilegio è quello di scoraggiare lo spirito generale della nazione, e depravare le arti medesime, lo vuole di tal natura che «abbracci, o immediatamente, o mediatamente, una gran parte della nazione: quindi, tutti i favori accordali alle arti della lana e della seta in Napoli, non erano un male se non in quanto non erano generali, come se l’idea del privilegio non escludesse di sua natura la generalità del favore (48): quindi non sa nascondere la sua tenerezza verso le compagnie di commercio» (p. 144);

domanda — è facile dopo ciò indovinarlo — una profusione di premii; né vuole per gli inventori di nuove macchine, pe’ perfezionatori delle antiche; per chi, viaggiando ne’ paesi culti, strappi loro il segreto delle loro arti; per chi si distingua in un particolare mestiere; né vuole di semplice onorificenza, e di interesse sostanziale; invoca il concorso delle feste agrarie e de' riti religiosi; né appella alla sapienza del governo cinese, a Kuperlé, a Solimano, a Pietro il Grande; e ci assicura che il seguirne gli esempi è mezzo infallibile di prendere un posto tra le più culle e le più illustri nazioni della terra (p. 101 e seg.)

E che mai Genovesi non potea domandare allo Stato, dopo avere imaginato che «l’arte del governo è un’agricoltura politica, e il corpo politico è una vigna? e che per ottenere un governo-modello gli uomini bisogna che si apparecchino ad essere sbarbicati come mal erbe, spiantati da un luogo e ripiantati in un altro, sottomenati come vecchi ed appassiti, innestati come selvatici, potati come lussureggianti e difesi da siepi, da fossi, da mura?» (pag. 26).

Mirando a questo fine, s’intenderà agevolmente che cosa debba avvenire della libertà individuale, e di quella legge di responsabilità, alla quale la sapienza del Creatore affidò il progresso di queste creature umane, che finirebbero di progredire se potessero usare la libertà senza subire la pena de' loro falli. E questa legge distrutta, o per lo meno avviluppata nella parabola del vignaiuolo, ognuno può imaginare l’immensità delle faccende che vengano a ripiombare sugli omeri dello Stato. Aprire e custodire mezzi di comunicazione; vegliare alla sicurezza delle persone, ed all’osservanza de' contralti, punire, educare, istruire; tutto ciò sarà il meno, ed è la parte su cuj meno si arresta l’attenzione di Genovesi: il suo governo ha da vegliare sul corso dell’interesse, rompere i monopolii, rispondere della salubrità del paese, promuovere la virtù, annichilare le imposture de' ciarlatani, reprimere il lusso, promuovere i matrimonii, e perseguitare la dissolutezza che fa rare le nozze (p. 50, 185, 141, 268, 41 a 44, 97-8, 168, 237, 468 ec.). — Può darsi, in verità, che in tutto ciò il merito ili Genovesi rispicchi abbastanza per innalzarlo al di sopra di Verri, di Beccaria e di Smith; ma bisogna pur dire che in questo caso il paragone è impegnato sopra elementi eterogenei ed incommensurabili, fra la negazione e l’affermazione, fra l’uomo che abbia empiricamente raccolto dal volgo tutte le idee correnti intorno allo Stato ed alle sue funzioni, e i dotti che, meditando a correggerle, abbian creato un nuovo ramo del sapere umano, dandogli il nome di Economia.

Io spero di parlare a lettori, a' quali la missione della nostra Scienza parrà incompatibile con un sistema in cui lo Stato sia qualche cosa di più che una semplice astrazione mentale, e qualche cosa abbastanza diversa dalla universalità de' cittadini, perché in vece di rappresentare la manifestazione del vincolo che congiunga e contemperi i loro interessi, divenga un vortice in cui l’interesse divoratore possa, nel giorno della sua fortuna, seppellire il suo rivale, debole e sventurato.

Se egli è a questo genere di lettori che io parlo, non mi resta a dire di più, perché essi mi accordino che, nel concetto dell’Economista moderno, l’antica scuola italiana nulla offre che possa raccomandarla alla nostra predilezione, considerandola dal punto di vista delle sue pratiche conclusioni. In altri tempi, si potea non sapere che il protezionismo, o l’economia delle ingerenze, governative, hanno la loro radice sopra principii da' quali, con una logica anche più stretta ed irreprensibile, possono sorgere teorie ben più perniciose e terribili che il semplice monopolio, e le tariffe doganali, e i brevetti d’invenzione; oggi non è più permesso ignorare, clic, falsata così l’idea del governo, il socialismo potrà bene esser battuto a mano annata, ma gli rimane la vittoria della buona logica, secondo la quale io troverei impossibile il dare del classico a Genovesi senza accettare i banchi dei popola di Proudhon.

Se poi il mio lettore non fosse disposto a permettere che gli uomini impieghino le loro facoltà, i loro beni, e le loro braccia, come meglio credano convenire ai loro interessi: se non è abbastanza convinto che i governi, creati per assicurare a ciascuno questo libero esercizio della potenza industriale degli uomini, debbano scrupolosamente astenersi da ogni ingerenza che tenda, in vece, a turbarlo ed attraversarlo; non dipende da me l’impedire che si continui a chiamare italiana, e si presenti come gloria d’Italia, quella che, infin de' conti non è che la scuola de' vincoli (49): io dividerò, come nato in Italia, il sentimento dell'amor proprio nazionale, ma continuerò a svolgere Smith per impararvi l’Economia.


vai su

VI

Il vizio radicale de' nostri scrittori ha la sua origine nella mancanza delle idee elementari. E se dopo un secolo di tentativi e di sforzi che la Scienza ha fatti, ciò che ha potuto insegnarci di più solido e vero, si è questo: che le sue quistioni più complicate si risolvono tutte in qualche idea elementare; si può ben presentire che gli autori così attaccati a' più malintesi sistemi governativi non devono aver ben concepito l’idea del prodotto, del travaglio, del valore, del capitale.

Io sono ben lontano dal pretendere che nella seconda metà del secolo 18° si dovesse aver formato codeste idee nel modo in cui cinquantanni di nuovi avvenimenti e di nuovi studii le hanno oggi modificate; ma quando una critica imparziale è chiamata a decidere dove sieno nate le prime e fondamentali verità della Scienza, e dove si sia comincialo a concatenarle fra loro e farne riuscire un insieme, è impossibile riposare sul giudizio di uomini, ai quali sembri uno scandalo il dire che i meriti della prima fondazione dell’Economia appartengono a Smith inglese, od a Turgot francese, non a Genovesi, a Verri, a Beccaria. che, come italiani, dovrebbero averne il primato. Pure, questa è la verità, e bisogna subirla, e il subirla non sarebbe poi quel gran male che i facitori di glorie nazionali si sforzano di darci ad intendere.

lo credo che un carattere da cui principalmente si distinguono i fondatori., è quella necessità che si sente di associare i loro nomi alle, loro scoverte, lo trovo che nelle nostre scuole odierne, ne’ nostri libri di Economia, non è ancora possibile dare un passo, senza ricordare o l’assunto, o l’argomentazione, o l’applicazione di Smith; e ciò solo mi annunzia che egli deve avere renduto grandi servigi a questo ramo dell’umano sapere. Maio domando, in qual caso, nell’immensa varietà delle quistioni economiche, si sente oggi il bisogno di arrestarsi, a citare, a comentare, a combattere una teoria, una formola, esclusivamente inaugurata nel secolo scorso a Milano od a Napoli. Domando se sia più ai nostri tempi possibile ragionare di produzione, colla scorta di libri, ne’ quali non fu mai parlalo dell’azione degli strumenti se non appena e per caso, non fu spiegato il valore che per farlo consistere in utilità e rarità, non si fece intervenire il travaglio che per citare qualche passo della Bibbia o qualche precetto morale di Aristotele o de' ss. Padri. Certo non si potrebbero né ricusare, né non credere utili a qualche cosa le idee de' nostri autori intorno a questi varii elementi costitutivi del fenomeno industriale; ma bisogna raccorle da cento luoghi in cui si trovano sperperate, bisogna tradurle e porle d'accordo, depurarle da ciò che vi ha di soverchio. inserirvi tutto ciò che vi manca, per ridurle in fine a termini precisi ed intelligibili, ma sempre tali che la cresciuta Scienza de' giorni nostri non saprebbe né anco accettare. Supponendole poi sviluppate abbastanza, supponendole anzi condotte alla più semplice ed alla men censurabile espressione. esse divengono inutili per le grandi lacune che le dividono o mozzano. Ammettete l’idea del Valore alla maniera di Genovesi o di Verri (50): ammettete tutte le loro massime sull’utilità e la necessità del Travaglio (51): sarà egli possibile di trarne la menoma deduzione, o farne un’applicazione efficace a qualunque delle quistioni economiche, senza cominciare dal dire che quell’idea, quelle massime, sono di lor natura incomplete, perché mancanti del soccorso che dovevano ricevere dall’idea del Capitale, di cui non si trova una sillaba nel medesimo libro, dall’idea del modo in cui la produzione distrugge le, forme per conservare o ingrandire i valori, dall’idea almeno, se non dalle leggi, con cui si partecipa alla ricchezza che si sia concorso a produrre, dall'idea de' Redditi, delle loro diramazioni, della Rendita, del Profitto, della Mercede?

Queste, e tante altre nozioni fondamentali che sarebbe soverchio di enumerare, nella Scuola italiana si cercherebbero invano: e io credo che per appagarsi d’una Economia politica, affievolita da questo genere di lacune, bisogna uno sforzo, a cui l’animo d’ogni studente si dee ricusare, qualunque seduzione sia quella che il sentimento della nazionalità possa in lui generare. E questo giudizio vieti poi rincrudito da un difetto ancora più grave, dal difetto di coerenza. Genovesi è forse il solo a cui non si possa rimproverarlo. La sua Economia non fu ideata sopra alcun modello sistematico e misurato. L’autore mirò a sfiorare teoremi isolati, di cui, volendo, avrebbe potuto comporre altrettante opere separate, le quali non avrebbero avuto in comune che la tendenza del Colbertismo, e si sarebbero, ciascuna, appoggiale sopra principii proprii e differenti. Ma Beccaria, Verri e Filangieri. non ci permettono di adoperare per loro questo mezzo, non gran fatto felice di giustificarli. Il sistema da cui cominciano non è mai quello con cui finiscono. Le prime lince di Beccaria sono un sunto di idee fisiocratiche, che, per quanto riescano snaturate, conservano fedelmente la parte essenziale di quel sistema, la teoria del prodotto-netto, formolata più tardi dall’A. in termini che non lasciano il menomo dubbio (52). E noto che, insieme a Bandini, Beccaria è stato talvolta citalo come rappresentante in Italia il primato della Fisiocrazia, e si deve aver notato l’imbarazzo di taluni critici che non volevano né defraudare l'economista italiano del merito di aver messo la prima pietra all’edilizio del prodotto-netto, né lasciar piombare sopra di lui l’imputazione d'aver posto in credito un sistema tanto discreditato oggidì. Ora, partire dalla Fisiocrazia per giungere ad abbracciare il Colbertismo nella sua purità, è un genere di eclettismo che deve naturalmente urtare il buon senso dello studioso, per poco ch'ei sappia come que’ due sistemi si escludano; o come, se l'assioma del lasciar fare si può dedurre da cento principii diversi, il principio del prodotto-netto non può condurre che alla conseguenza del lasciar fare. La medesima osservazione, ed in termini ancora più espliciti, è da applicarsi a Filangieri. Egli è partigiano deciso dell'imposta unica sulla terra. Ciò sarebbe ben poco: lo fu Vauban, senz’essere ancora un fisiocrata; ma Filangieri lo è con l’intento e pe’ motivi per cui lo era Quesnay. Ho già citato le sue declamazioni sulla libertà del commercio, nelle quali il lettore potrà riconoscere il fac-simile di Mirabeau o di Mercier. Un’opinione semi-fisiocratica sulle arti si può riscontrare alla pag. 710. Malgrado ciò, e soprattutto cinque pagine dopo, Filangieri si assimila il canone fondamentale del sistema mercantile, ed è inconcepibile che in una medesima mente ragionatrice si trovino associate tanta pratica della generosità fìsiocratica e tante velleità di bilancia favorevole, e di danaro abbondante. Verri era forse la mente meno soggetta a cadere in simili incoerenze; eppure anch'egli pagò il suo tributo all'incertezza delle opinioni che dominavano l’epoca sua. Parlò della nuova Setta degli economisti, di cui «rispettando il molto di vero e di utile da loro scritto», dichiarava di non sapere accettare né la qualificazione di sterili data alle arti, né l’opinione intorno al tributo. E soverchio ora il mostrare che la sterilità attribuita da' fisiocrati alle arti era bene un errore, ma per motivi radicalmente diversi da quelli che addussero coloro i quali prendevano la parola in senso di inutili, tra cui è Verri: ed egli intanto accettò la teorica del prodotto netto, pietra angolare del Quadro economico; ed egli — ciò deve sorprendere chi ancora noi sappia — egli è partigiano deciso dell’imposta unica sulla terra, come quella che «corrisponde perfettamente a' cinque canoni del tributo», come quella che mai non cadrebbe sui poveri, che si potrebbe riscuotere con lievissima spesa, che escluderebbe gli arbitrii, non impedirebbe la circolazione ec. ec., per modo che le sue difficoltà condurrebbero a differire in un lontano avvenire od introdurre gradatamente, piuttosto che respingere come teoreticamente falso, il sistema finanziario dì Quesnay (53).

VII

Ciò che soprattutto a me duole, è il sentire ritrosa la mia coscienza ad adottare un giudizio, che potrebbe, se fosse fondato, rivolgere ad onore della scuola italiana il suo capitale difetto. Mene duole tanto più, al vedere che questa opinione ci viene da uno straniero, come un atto di giustizia reso all’Italia. Blanqui ha trovalo che «il carattere distintivo della scuola economica degli Italiani consiste principalmente nella loro larga e complessa maniera di considerare le quistioni; perché essi non si occupano della ricchezza sotto il punto di vista astratto ed assoluto, ma sotto quello del benessere generale. Una misura economica non sembra loro importante per questo solo che sia collegata con una quistione pecuniaria, ma perché vi si contenga un interesse morale e politico. Le società non sono per essi tante case bancarie, e gli operai non son tante macchine; l’uomo è l’oggetto perpetuo della loro sollecitudine e del loro studio. Essi son pubblicistiquanto sono economisti; e Montesquieu è colui che meglio, nella scuola francese, rappresenta il tipo della scuola italiana».

È noto che la Storia dell’Economia politica fu scritta in quel periodo, nel quale le opinioni del sig. Blanqui subivano il predominio delle così dette idee filantropiche, le quali attribuivano a colpa della Scienza le dure realità della vita. In quel momento fu un vezzo il declamare contro il sistema artificialmente e ciecamente produttore, preconizzato, dicevasi, dagli economisti inglesi. L’argomento si prestava mirabilmente all’emozione. Nulla di più patetico, e sventuratamente di più reale, che i dolori delle classi laboriose, e la tenacità con cui la miseria, sfidando tutta la potenza dell’umano intelletto, s’incrosta immobile nel fondo d’ogni umano consorzio. Nulla di più vero del fatto che, in questo sentiero dall’industria umana battuto, non si coglie la rosa senza che la spina ci punga, non s’invecchia di un giorno senza che appaia un nuovo sintomo d’infermità inaspettate. Vi fu un momento, in cui contemplando questa dura fatalità, parve agli economisti aver trovato una nuova chiave alla Scienza. Dal vedere che le ricchezze erano mal ripartite nel mondo, furono indotti a supporre che più non era una quistione il produrle, ma tutto il problema era ridotto al distribuirle. In un primo slancio di affetto, Sismondi maledisse la produzione. A mente più riposata, Burel, Droz, Fix, lo stesso Blanqui, accettarono la produzione bensì, ma come l’uno fra' dati di un problema, nel quale venivano a porre la nuova incognita. Questa fase svanì. 11 progresso medesimo della pura scienza poteva da se solo mostrare, ed ha poi difatti mostralo che il fenomeno della produzione non può subire un’analisi in cui non trovisi trascinalo quello della ripartizione, o che piuttosto entrambi non sono che due aspetti di un medesimo fatto. Le strane aberrazioni del socialismo mostrarono poi che la scissura, a qualunque de' due fenomeni si voglia farne un vantaggio, conduce inesorabilmente ad un medesimo abisso, perché si va alla barbarie preconizzando la distribuzione artificiale, come ci si andrebbe ripristinando la corporazione, il privilegio e la guerra delle dogane. Era, pur nondimeno, divenuto proverbiale, direi, il carattere di duro egoismo attribuito all’Economia degli Inglesi: e, come se mai l’industria inglese avesse domandato consiglio da' suoi scrittori prima d’ingigantire le proporzioni del suo lavoro, il pauperismo britannico fu sempre citato come prova della falsa via in cui la scuola di Smith si trovava avviata. Oggi nell'alta sfera delle Scienze economiche queste esagerate affettazioni si rettificarono; ma fu nell’epoca in cui più pre valevano che all’imaginazione del sig. Blanqui si presentò come un merito della scuola italiana ciò che noi medesimi, in pienissima buona fede, siamo, nostro malgrado, costretti a giudicare difetto.

Larga e complessa maniera! Qui avvi un equivoco che e mestieri dilucidare. L’Economia fondata da Smith prese ad analizzare il fenomeno della produzione in se stesso, e nell’influenza che le forme e le istituzioni sociali potevano esercitarvi. Se, dopo cent’anni dacché quest’analisi dura, ci si viene a dire che lo studio del fenomeno industriale non ha interesse per noi, se non in quanto si rivolga allo scopo del nostro benessere, — e ciò si dice allorquando ci si ricorda che le nazioni non son case bancarie e gli uomini non sono macchine — sicuramente non vi ha intelligenza delle più volgari che osi resistere ad una verità così ovvia. La quistione è di sapere se la scuola inglese la ignorasse o abbia mostrato ignorarla. Ove fosse provato che Smith non fece, anch’egli, dell’uomo l’oggetto perpetuo delle sue sollecitudini, io non saprei come si possa la sua scienza innestare sul gran tronco delle Scienze morali e politiche. Ma la verità non è questa. All’epoca nella quale il filosofo scozzese si diede ad analizzare il fenomeno industriale, la maniera larga e complessa era già esaurita; e il suo merito appunto consiste nell’avere, prima che altri, sentito il bisogno di abbandonarla o tenerla in sospeso, per apparecchiarle con un’analisi speciale, i dati da cui potevano unicamente dipendere le soluzioni che da due secoli si cercavano invano sotto formole larghe e complesse.Smith avrebbe dunque il gran torto di avere tentato sulla scienza delle ricchezze il rivolgimento operato da Galileo o da Bacone nello studio della natura sensibile, da Cartesio nello studio dell’umano pensiero; potè aver male osservato i fatti che svolse, e in questo caso il merito della sua dottrina sarà transitorio; ma in quanto al metodo, in quanto all’aver fatto dipendere le quistioni larghe e complesse dalla semplice nozione dell’uomo che travaglia e che cambia, ciò era un immenso progresso, ciò fu il Cogito dell'Economia; e se alcuno vi ha che possa dirsi rimasto indietro, dev’essere unicamente colui che all’epoca stessa di Smith non aveva abbandonato la vecchia maniera, ed a più forte ragione colui che un secolo dopo né faccia ancora un oggetto di preferenza.

A tutti, fuorché all’autore d'una Storia dell’Economia, mi sembrerebbe permesso il cadere in codesto equivoco. È egli forse dalle, idee più semplici ed elementari che la Scienza aveva preso le mosse? È forse un lavoro di composizione quello che ne’ secoli anteriori a Smith erasi venuto operando, e lavoro al quale egli non abbia forse avuto la forza di aggiungere quell'ultima serie di elementi che potea darci la formola più complessa che si potesse bramare? Tutto avvenne all’opposto, né altrimenti era possibile, perché l’Economia in ciò non ha fatto che copiare l’andamento comune a tutti i rami dello scibile umano. Si cominciò dal prendere in digrosso i fenomeni della ricchezza; ciascuno di essi poco a poco si suddivise; ciascuno fu per lungo tempo creduto un sistema a parte, ebbe i suoi principii, le sue regole, i suoi scrittori; v'erano. come ben dice il Blanqui, pubblicisti senza che vi fossero economisti; mancava la mente che avesse comincialo a sospettare la molecola generatrice di tanti corpi a sembianze diverse; v’erano i Montesquieu e la Scienza non v’era — mancava lo Smith; e quando venne, la Scienza fu fatta.

Per trovare scrittori che abbian saputo trattare nel modo più largo e complesso l’argomento della ricchezza, non si deve infatti che sempre più risalire verso l'antichità. Allora vedremmo che Beccaria e Verri, col definire taluni vocaboli, col far discendere la teoria della dogana dalla formola del prezzo, col cercare nella cifra numerica degli abitanti la potenza delle nazioni, divenner troppo analitici, poco larghi e complessi, allato a Contzen, a Grégoire, a Budino, che in uno o due libri delle loro Repubbliche abbracciavano tutta la varietà delle funzioni economiche; e i pubblicisti del cinquecento sono ancora meschini a fronte de' Reggimi del principe di Egidio Romano o di s. Tommaso d’Aquino; e questi, andando ancora più in là, bisogna che cedano il passo alla Repubblica di Platone, agli Economici d’Aristotele, alle finanzed’Atene di Senofonte; e continuando così, si arriverebbe a sorprendere nelle labbra medesime del Creatore la formola più complessa dell’Economia, perché uscì veramente da lui il fatale decreto che tutta la riassume, quand’egli disse all’uomo: «Cresci e moltiplica, ma tu e la tua razza non mangerete che un pane bagnalo dal sudore del vostro volto».

D’altronde io ho ragionalo sopra una supposizione che non può sostenere le prove d’una stretta logica. Ho adottato questo modo di definire la complessività e la semplicità del soggetto; e devo ora soggiungere che questo modo è inesatto. Il lettore non sarà sicuramente disposto a seguirmi in una quistione di metodo in generale, ma non si ricuserà, spero, a concedermi che, quando l’analisi è diretta a cercare l’elemento comune a più oggetti, il risultalo delle sue ricerche si converte da sé nella più bella fra tutte le sintesi. Questo è forse inoltre un bisogno ineluttabile dell'umano intelletto, perché probabilmente e. il segreto di tutto lo scibile. La nostra mente non avrebbe ragione di analizzare, se non sentisse la necessità di scoprire ciò che sia di comune nelle parti diverse della natura. Or quando giunge a scoprirlo in mezzo ad un dato gruppo di esseri, giunge realmente ad un fatto che, sotto sembianza speciale e meschina, abbraccia una sfera che niuno de' fatti antecedenti abbracciava. Allora la semplicità sarà nella forma, ma l’idea acquista una potenza di complessività tanto più estesa quanto più si riesca a semplificare. Colui che vide la prima volta un cilindro, e colui che vide una sfera, videro cose ben più complesse che il punto e la linea; ma il cilindro non dominava la sfera, né la sfera il cilindro, e il punto o la linea li domina entrambi. In tutte le ramificazioni degli studii umani, un istinto segreto, o piuttosto una vecchia esperienza e insegna che ogni analisi nuova è il vestibolo ad una sintesi inaspettata. È questo che ci fa tanto avidi di dissecare gli oggetti su cui fissiamo l’attenzione; è per ciò che, quando conobbimo i quattro elementi del mondo fisico, vi cercammo l’ossigeno, ed ora cerchiamo l’atomo nell’ossigeno; è per ciò che non ci arresteremo in eterno, finché il fatto sensibile non abbia confermato il nostro antico sospetto, che il più complesso degli enti si dee trovare nell’unità. Ora, la Scienza delle ricchezze non aveva alcun privilegio che la dispensasse dalla necessità di seguire il metodo universalmente prescritto agli studii umani; e costantemente il seguì. Di secolo in secolo, la parola complessa del Creatore si venne spezzando in più brani. Pei filosofi greci non furon che due, il diritto all’ozio nel cittadino, il dovere del travaglio nello schiavo. In mano a s. Tommaso, uno è il criterio che regge la Casa del Principe, un altro è quello da cui deriva l’opportunità del danaro, ve n’ha un terzo per la salubrità del paese, un quarto per la successione al trono, un quinto per il soccorso de' poveri ec. Trascorrendo ancora su cinque secoli, la materia si va triturando di più, le sue parti si slegano, ciascuna attira dintorno a sé quanti più elementi le si possano offrire, ciascuna è un sistema, un mondo a parte: la dottrina della moneta non è quella delle colonie, la mendicità non ha vincoli colla proprietà della terra, l’uomo non né ha con l’annona. Alla metà del secolo scorso, questo era lo stato della Scienza. Una lunga elaborazione delle sue materie s’era compiuta. La loro moltitudine stessa facea sentire il bisogno di una pausa in questo lavoro disgregamento. Perciò sorsero quasi contemporanei in ogni punto del mondo incivilito i tentativi di ricomposizione. Ve né furono prettamente meccanici, e l’opera di Genovesi è forse il migliore esempio che si possa citare. Raccolse lutto ciò che rinvenne, ed ordinandolo per sezioni e per capi, fece l’opera più apparentemente complessa,che far si poteva in un libro, vi concentrò i resultali delle osservazioni di venti secoli. Ma ve né furono essenzialmente intellettuali, Quesnay e Smith sono i soli che abbiano seriamente pensato a trovare in tanti sparsi frantumi uno stipite comune, un vincolo di sangue più che di nome, una prossimità d’idea dove il professore napoletano non avea collocato che la prossimità della pagina. Fra l’uno e gli altri un posto fu preso da Verri e da Beccaria, troppo filosofi perché non sentissero la necessità de' principii, e poco economisti perché potessero improvvisamente scoprirli. Blanqui ha ben detto: le quistioni delle quali la scuola italiana si è più occupata son quelle delle monete, de' porto-franchi, dell’agricoltura, de' monti di pietà, degli istituti di carità. Bisognava unicamente soggiungere che erano quistioni da due secoli e con poco frutto agitatesi; erano studi, non erano ancora scienza; sembrerebbero materie larghe e complesse, ma in quel tempo non erano che altrettante monografie; e la Scienza cominciò ad aver vita quando vi fu chi disse che tutte potevan forse nascondere qualche elemento generatore di tutte. Si potè non riuscire a scoprirlo. Ma non importa; già aveva carattere di scienza il prodotto-netto posto all’apice di questa grande piramide che costituisce l’ordine della sussistenza; poi fu vera scienza la semplicissima idea del valore; laddove continuavano ad esser mero empirismo i più vasti argomenti, della moneta, del portofranco, dell’agricoltura, dell’ospizio, del monte.


vai su

VIII

Cosi, io mi trovo naturalmente condotto alla quistione di priorità, che avrei volentieri negletta, se la parola d’un mio ottimo amico, il cui giudizio, quando non sia volto a lodarmi, pesa enormemente nella mia opinione, non mi costringesse di farlo.

L’egregio prof. Mancini, rendendo conto del primo volume della Biblioteca dell'Economista, ha mosso un’obbiezione sulla materialità del prodotto, che qui non occorre discutere; ma sì è poi doluto a non trovare nel mio Ragguaglio sui fisiocrati qualche cenno intorno ai titoli di priorità che hanno gli economisti italiani; priorità di Bandini nella dottrina fìsiocratica, priorità di Scaruffi, Davanzati, Turbolo, Sola, Tesauro, nella teorica del cambio e delle monete; priorità soprattutto di Antonio Serra, che, esaminando sin dal 1615 «le cause che possono far abbondare gli Stati di oro e di argento», non lascerebbe temere che si commetta «un atto di vanità nazionale, se ad alta voce si proclami che i suoi lavori gli danno pure un qualche diritto alla gratitudine de' cultori delle scienze economiche.»

Questa doglianza muoveva dall’aver veduto che io, facendo eco ai Francesi, a ho salutato ne’ fisiocrati i creatori della Scienza economica».

Il prof. Mancini era uomo troppo al di sopra dell’ordinario livello de' critici da gazzette, per partecipare a quel sentimento di scandalo che altri aveva affettato nel veder posti in capo alla nostra Raccolta autori non nati in Italia; ed era troppo economista per non conoscere «i titoli che questa classe di scrittori avevano ad occupare una pagina gloriosa nella storia della Scienza ed a vivere nella riconoscenza della posterità»: e se io dovessi giustificare la mia scelta, non potrei bramare che la capacità di scriver parole cosi belle ed energiche com’egli né ha scritte per approvarla, e di cui gli sono gratissimo.

Son dunque due quistioni diverse quelle che qui sarebbe possibile di agitare; e distinguendole, io non mi credo che un eco del concetto medesimo del mio benevolo critico. Tra l’essere creatore della scienza. e l’aver diritto alla gratitudine de' posteri, non v’era, mi sembra, confusione possibile. Ciò che in allora ho detto, ciò che ora ripeto si è: la scuola de' fisiocrati ha indubitatamente il merito di aver dato alle materie economiche le basi, le proporzioni, e l’aspetto d'una scienza.

«Il momento, ho soggiunto, in cui dall’ordine morale e sociale si sia staccalo qualche principio per dedurne una serie di dottrine concatenate, per formarne un nuovo ramo dello scibile umano, ed un ramo capace di adescare le intelligenze elevale colla promessa d’un radicale sollievo a' vecchi dolori dell’umanità, quel momento data, non si può dubitarne, dalla scuola de' fisiocrati. Avanti di loro, né pur la parola s’era creala (54)».

Si tratta, come ognun vede, di creazione d’una scienza, non di titolo alla gratitudine della posterità; ed in questo senso, il professore Mancini poteva permettere a me il mio giudizio sul merito de' fisiocrati, e poteva permettere al sig. Cantò d’asserire che «gl’inglesi soltanto eressero l’Economia a vera scienza» senza chiamarle crudeli e non vere parole,consacrazione d’un'oltraggiante ingiustizia.

Ma la questione di priorità può prendere un altro aspetto, ed è probabilmente in esso che il professore Mancini reclama un attestato di gratitudine verso gli economisti italiani. Nella massa de' materiali che erano già apparecchiati all’analisi di Smith e di Turgot, l’Italia non ha ella un deciso primato? «I primi albori forieri della scienza» non ispuntarono dunque in Italia?

Io potrei concedere il fatto, ed il mio giudizio pur nondimeno starebbe. Potrei, in vece di cinque o sei, attribuire agl’italiani duecento e più opere, che anteriormente alla metà del secolo scorso s’eran prodotte, sui varii soggetti che ora entrano nella sfera della scienza; e sarebbe pur nondimeno costante che la forma ed il carattere di scienza non apparterrebbe ad alcuna di loro; apparterrebbe a tutte soltanto il sentimento di gratitudine che il prof. Mancini reclama.

Ma il tatto non esiste; e se, parlando de' Fisiocrati, io avessi dovuto rendere omaggio a tutti coloro dalle cui opere si possano trovar derivate le loro idee, od avrei scritto la storia antica della scienza, o avrei commesso una volgare ingiustizia attribuendo alla nostra patria un merito, al quale ognuno de' popoli, che han partecipato al Risorgimento delle lettere, conserva i suoi titoli, e nel quale sventuratamente il retaggio italiano non è più pingue che gli altri.

Il fatto non esiste, né relativamente alla dottrina fisiocratica al cui proposito si desiderava citato, né riguardo all'Economia in generale.

Bandini! Io lo avea nominato, e mi contentai di soggiungere che «quantunque avesse qualche punto di contatto colla dottrina francese, non sj potrebbe senza grave affettazione rivendicarlo alla scuola di Quesnay (55).

Il discorso di Bandini è una delle non molte scritture che facciano veramente onore all’Italia; la bontà delle sue massime, la purezza e la dirittura delle sue intenzioni, vi sono raddoppiate da quel candore d’espressione che noi non toscani non possiamo imitare senza cadere nel falso o nel goffo.

Ma l’idea di farne un fisiocrata, mi è sempre sembrala uno strano capriccio del Gorani; ed io non dissimulo che non avrei aspettato dal prof. Mancini questa facilità d; adottare il giudizio del biografo, piuttosto che ricorrere al testo e giudicarne col suo criterio.

Tutta la fisiocrazia di Bandini starebbe nell’aver proposto «una decima, o vogliam dire un tanto per cento, da pagarsi a ragione delle sementi, de' pascoli, de' (erratici, non già dai lavoratori, né da' pastori, né da' coloni, ma da' padroni delle terre» in vece di tutto ciò che si pagava nella Maremma «per sale, tabacco. carta, per tratte, sopratratte, estimo, lavori non descritti, bicherna, ed altre tasse comunali ecc. ecc.» — E senza dubbio, se questa proposizione fosse stata da lui dedotta, come conseguenza dei principio che il prodotto agrario sia il solo prodotto della società, e che la sola ricchezza stia nelle messi, la parte fondamentale del sistema di Quesnay si troverebbe in Bandini. Ma niente di ciò. Bandini non si è per nulla impaccialo dell’indole della ricchezza, o dell’analisi del prodotto. La sua imposta unica sulla terra gli è suggerita come un rimedio alla moltiplicità delle gabelle, all’imbarazzo che recavano nella finanza, alle durezze che cagionavano sui poveri contadini. — I tanti modi ingegnosi, diceva, che si sono inventati da due secoli in qua, non possono «compararsi a quelle gabelle semplici, di censi, di capitazione, di tributi, di vettigali, le quali praticavansi ne’ secoli antecedenti»… Che però non credo che sia da stupirsi se. dopo di essersi introdotta questa nuova moda di tassare... e per venirne a capo essersi cominciato

Il pensiero dunque di Bandini era non altro che avversione alla moltitudine ed alle avanie de' dazii indiretti, e per contraccolpo era una tendenza a rifonderli tutti nell’imposizione diretta. Ma il professore Mancini mi vorrà, spero, concedere che la fisiocrazia non consiste in ciò; che l’idea dell’imposta unica sulla terra appartiene ai fisiocrati, soltanto quando si vuole come conseguenza del principio di un prodotto-netto: che Quesnay la dimostrò non la creò; e che non essendovi alcun punto di contatto tra il principio fondamentale de' fisiocrati ed il Discorso del buon prete sienese, vi sarebbe tanta ragione per dire, che Bandini fu precursore a Quesnay, quanto per dire, in vece, che il modesto arcidiacono italiano abbia rubato di peso il progetto a qualcuno de' tanti da cui trovavasi preceduto. Vauban e Boisguillebert erano di circa 40 anni più antichi, e la loro Decima reale fu un progetto ispirato da' motivi medesimi su cui lo appoggia Bandini. Tre anni prima di lui, l’idea dell’imposta unica era stata messa innanti in Inghilterra da un Vanderlint; 45 anni più indietro, da Locke, e si può andare a trovarla fino al 1641 nel Tesoro del traffico (56). Il Lettore s’accorgerà ch’io qui non miro a stabilire come un fatto questi plagi ipotetici, ma intendo offrire unicamente l’esempio della facilità con cui, appena si abbia la pazienza di spolverare, qualche vecchio libro, spariscono i titoli alla proprietà delle idee.

Io poi non credo che si pensi desumere il carattere fisiocratico del Discorso di Bandini dalle sue massime di libertà, perché allora sarebbe ben facile il riconoscere che la sua libertà, né esclusivamente appartiene a lui, né è gran fatto analoga a quella de' Fisiocrati. Bandini vuol libera estrazione de' prodotti agrarii toscani, ma teme la concorrenza de' prodotti stranieri; e Bandini è tutto compreso della necessità di «trattenere il danaro perché non uscisse dal principato»: e tutto ciò —non occorre provarlo — sarebbe qualche cosa molto diversa dal lasciar fare di Quesnay e di Turgot. — Molto meno, in fine, io crederò che la fisiocrazia del Bandini si vorrà farla consistere in una speciale predilezione che egli genericamente dimostra verso la coltura della terra: il mio ottimo amico sa che Cicerone, Varrone, e Senofonte, sarebbero, in questo caso, Fisiocrati d’una data più antica; e ciò che sarebbe ancora più decisivo, non solo la predilezione generica, ma la preferibili là della terra nel senso puramente economico, come unica fonte della ricchezza, ha, se non altro, due precedenti nel secolo XVII, senza parlare di quello che risalirebbe non meno che ad Artaserse (57). Ciò — non lascierò di ripeterlo—non proverebbe, sicuramente, chela teoria di Quesnay appartenga ad Asgill, od all’autore d’un libercolo sull’esportazione della lana nel secolo XVII; prova sempre meglio che la priorità di data, in qualunque ipotesi, non appartiene a Bandini; o piuttosto che queste priorità di pensieri isolati son quistioni puerili in se stesse, ed a ragionarvi sul serio è come lanciarsi senza bussola sopra un oceano, in cui si conosca da qual punto si sciolgan le vele, senza potersi vaticinare in qual altro ci sarà permesso di gettare le ancore.

Del resto, non esiterò a dichiararlo: ho cercato in lutto il lavoro del Bandini qualunque altro punto di coincidenza colla teoria di Quesnay, non ho mai saputo incontrarlo.

L’ho cercato nell’elogio medesimo del Corani, e mi è toccato vedere che egli, ben lungi dal dimostrare il suo assunto, lo sfugge. Un largo sunto dell’opera, una breve esposizione del sistema fisiocratico, è tutto ciò ch’egli ha fatto. Al momento di dover dimostrare che l’una e l’altro avessero qualche cosa in comune, egli si contenta d’aggiungere che «non si darà la briga di fare un parallelo delle due dottrine» perché basta «aver letto con qualche attenzione il Discorso o l’estratto ch’egli né ha dato...».

Io ho letto con grandissima attenzione e l’uno e l’altro: e son rimasto sempre meglio convinto che la fisiocrazia dei Bandini è un mero sogno del suo biografo, ed una meccanica ripetizione de' critici posteriori.

Vengo ora ad esaminare se il fatto della priorità italiana esista per gli studii economici in generale; e soprattutto a riguardo del Serra.

Galiani fu, com’è noto, il primo a far menzione del suo trattato. Come compatriota di quell’alto ed infelice ingegno, destinato a marcire in una prigione e subirvi i tormenti d’un cospiratore. Galiani ebbe ragione di dedicargli alcune belle parole che né tirassero dall'oscurità e né consacrassero la memoria. Cominciò dall’ammirare «quanto sanamente il Serra giudicasse delle cause de' nostri mali e de' soli rimedii efficaci; finì col dichiararlo il primo e più mitico scrittore della scienza politico-economica, porlo allato al Melon de' Francesi, al Locke degli Inglesi, ed al di sopra di entrambi per ragione d’antichità (58).

Successe l’elogio del Saffi, la vita del Custodi, la ristampa dell’opera nella Collezione degli Economisti classici italiani: e d’allora in qua si era sempre creduto che, spogliando le parole del Galiani da quel poco di esagerazione patriottica che gli era ben perdonabile, il cosentino Antonio Serra si potesse ritenere per uno scrittore ch’avea discusso un argomento relativo alla moneta, con una tal quale superiorità di vedute, tanto più pregevole quanto più si rifletteva alla data del libro (1615). Come tale a un dipresso fu giudicato dagli stranieri.

Il conte Pecchio, adottando in parte le iperboli del Galiani, astenendosi intanto dal consigliare la lettura del libro a coloro che «non amassero di vedere le origini della scienza», lasciò per incidenza trascorrere la frase di primo fondatore de' principii della scienza.

Ludovico Bianchini adottò pienamente questa formola lusinghiera, e stemperandola quanto più si poteva, trovò nel suo concittadino, un uomo levatosi contro la comune credenza che solo la moneta fosse ricchezza— uno scrittore sulla materia de' cambii in modo che niente di meglio erosi scritto avanti di lui, poco s’è aggiunto inseguito—un generalizzatore di prim'ordine che avendo assegnato non meno di cinque cause alla ricchezza, vince Sully e Colbert che né assegnavano sole due, e Quesnay che le ridusse ad una — lo trovò abilissimo a trattare la «difficilissima quistione dell’importazione ed esportazione, e nel dare la preferenza alla prima—e tutto ciò oltre a quel colpo d’occhio con cui «guardava l’uomo e gli Stati». oltre alle considerazioni elevale e franchissime ccc. ccc. (59).

Non farò all’egregio e coscienzioso prof. Mancini il torto di supporre che egli si sia lasciato ispirare dalle parole di questo libro, nel quale la sola parte non riprovevole è quella che l’autore non ha trattata (60). Ma mi permetterò di notare al mio amico. che un gravissimo errore di fatto e quello in cui egli cade scrivendo le parole seguenti:

«Né il Say, né il M’Culloch lessero quest’opera, e però dal titolo né fraintesero lo scopo, supponendola rivolta a dimostrare non esservi altra ricchezza fuori dell’oro e dell’argento, nell’atto che essa tende, propriamente a dimostrare il contrario… Ed il Serra erasi avvicinato al vero assai più de' Fisiocrati; perciocché se costoro assegnavano alla ricchezza una sola sorgente, cioè la terra, l’altro a moltiplica cause riportava la creazione della ricchezza additandone le principali».

Io credo che una semplice occhiata al libro del Serra basta a convincere pienamente il lettore che egli non ha menomamente inteso dimostrare non esservi alcun’altra ricchezza nel mondo, all’infuori dell’oro e dell’argento. Say e M’Culloch, se non lessero il libro (e di quest’ultimo potrei asserire il contrario), non s’ingannarono punto nel giudicarne lo scopo; né è possibile poi dimostrare che il libro non corrisponda letteralmente allo spirito indicato dal titolo. Serra parlò di cause che possono far abbondare l’oro e l’argento, appunto perchè l’oro e l’argento era per lui Tunica e suprema ricchezza possibile; né una parola vi ha in lutto il suo libro che mostri. non dico di contraddire, ma di porre menomamente in dubbio questo canone de' suoi tempi. Io posso all’incontro, per que’ lettori che non vogliano darsi la pena di ricorrere alla fonte, riportare de' passi, ammettendo i quali, bisogna necessariamente escludere la possibilità di supporre ciò che il prof. Mancini ha asserito, se non si possa o voglia per altro mostrare che Serra sia caduto in aperte e puerili contraddizioni con se medesimo.

Sin dal proemio, per esempio, il lettore incontrerà che «l’essere tanto poche monete in Napoli» è qualificato per «un tanto male potente di causare l’ultima rovina del regno» (61). — Prima che il proemio finisca, troverà «esser noto a ciascuno quanto possa importare al beneficio pubblico e particolare del principe l’abbondare il suo Stato di oro e di argento, o esserne povero» (62). — Viene immediatamente il 4° Capitolo, e comincia così:

«Quanto importi, cosi a rispetto de' popoli, come a rispetto dei principi, un regno abbondare d’oro e d’argento, e quanto benefìzio arrechi… non mi è parso discorrerlo al presente; e cosi ancora quanto danno cagioni esserne povero; parendomi che da ognuno, se non distintamente, almeno in confuso s’intenda. Perciò avendola per proposizione provata, e che coloro che tengono la contraria opinione debbono essere inviati in Anticira… » (63). — E a questo punto io credo ogni lettore si arresterà, perfettamente convinto che Antonio Serra, non solo non ebbe in animo di detronizzare l’oro e l’argento, ma avrebbe condannato ad una cura di elleboro, chiunque osasse pensarlo, e perciò molto più chiunque osasse di attribuirgli un’ opinione diversa.

Ciò non è tutto. Le moltiplici cause, alle quali il prof..Mancini allude, ben lungi dall’esser cause a cui si riporli la creazione della ricchezza, come cosa diversa dall’abbondanza d’oro e d’argento, non sono, né più né meno, che cause per cui abbondi l’oro e l’argento. Serra, forse, non ha né pur profferito la parola ricchezza; è certo al meno che non l’ha mai adoprata nel senso che il prof. Mancini suppone. Eccone alcune prove:

«Gli accidenti proprii che possono far abbondare mi regno d’oro e d’argento, sono ecc. … Portandovi delle robe in paese… di necessità bisogna portarvi oro o argento. — Causa del traffico grande … e perciò causa anche dell’abbondanza dell’oro e dell’argento… (64).

«La quantità degli artifici! (arti) farà abbondare un regno o città di danari… » (65) — «… d’onde se né cavano tante e tante robe per gli artificii e per quello vi entrano denari com'è notorio… (66).

«… le loro industrie, per le quali senza dubbio abbonderà la città d’oro e d’argento… e questo accidente tiene il primo luogo in fare abbondare la città o regno di monete… (67).

«… e dall’effetto si conosce quanto sia importante questo accidente della qualità delle gentiChe con essere il paese (si parla di Genova) sterilissimo, abbonda di tanti danari (68).

«… e questo accidente del traffico farà abbondare il paese di danari… (69).

«… e che dove è traffico grande, di necessità vi debba essere quantità di monete, non accade provarlo, poiché il traffico non si può fare senza quella ed. a tal fine si fa… » (70).

Le città di Venezia e Genova essendo prive dell'accidente proprio ecc. «ed all’incontro essendo la città di Napoli quella in cui si ritrova in perfezione ecc. … tuttavia le prime città sono abbondantissime di moneta e Napoli poverissima…(71).

«Le condizioni di Napoli tutte sono e devono essere causa di farla abbondare di danari, come all’incontro quelle di Venezia causa di impoverire (72).

«Sono causa del male che non vengono danari in regno, l’entrate che tengono i forestieri (73).

«Questo... al regno... non sarebbe espediente, che sarebbe privarlo affatto... anzi che farlo abbondare di danari (74)».

Queste citazioni non sono, come ognuno intenderà agevolmente, che un piccolo saggio del frasario dell’Autore. Si potrebbe moltiplicarle; marni paiono già soverchie per dimostrare che il Bianchini, da cui è nato il sospetto che Say e M’Culloch abbiano giudicato di Serra senza leggerne il libro, è appunto colui al quale si possa l’imputazione, ritorcere con sicura coscienza.

Pure, fin qui, si tratta di frasario. Serra scrisse al principio del secolo XVIII. Non sarebbe poi meraviglia che il suo linguaggio fosse gravido delle false espressioni del tempo; ciò non impedirebbe ch’ei sia il fondatore della Scienza. Un cenno dunque sul contenuto dell’opera.

Il suo scopo è noto. Verso i principii del secolo XVII le monete ed i cambii erano in uno stato di estremo disordine a Napoli; e soprattutto la povertà del paese, nudrita da un secolo di oppressioni, lo aveva poco a poco vuotalo di danaro, perchè il danaro va via quando le occasioni di adoperarlo come strumento di circolazione spariscono. Il disordine del sistema monetario, effetto in parte ancor esso della povertà del paese, fu in vece reputato generalmente come unica causa, non di ciò che noi chiamiamo oggidì povertà, ma di ciò che allora chiamavasi, cioè della penuria di danaro. Tra le tante scritture che si produssero, una di Marcantonio de Sanctis (che non è giunta a’ posteri), proponeva che una nuova tariffa di monete si decretasse, per modo che il cambio legale tra la piazza di Napoli e le piazze estere venisse obbligatoriamente ad eseguirsi sopra un nuovo ragguaglio. Antonio Serra scrive contro una tale proposta. Il suo scopo è di provarne l’inefficacia. Due terzi di tutta l’opera sono intieramente occupali della quistione tecnica del cambio; la prima parte è un’ introduzione tendente a dimostrare in tesi generica quali sono le circostanze sotto le quali avviene che il danaro abbondi.

È in questa che noi dobbiamo cercare il fondatore dell’Economia; giacché in quanto alla quistione speciale, se anche si dovessero ammettere tutte le sue teorie, la sua gloria non avrebbe alcun titolo di priorità, essendo quello un argomento già molto discusso da più anni avanti di lui.

Perchè si cominci dall’avere materialmente un’idea di questo trattato fondamentale della Scienza, io amo fino n are che esso si contiene in 12 o 15 delle nostre pagine (75), nelle quali l’Autore asserisce (cosa diversa dal dimostrare) che il danaro abbonda:

1° Naturalmente, dove sono miniere d’oro e d’argento;

2° Accidentalmente, dov’è «soprabbondanza delle robe (prodotti agrarii) eccedenti l' uso necessario e comodo del paese proprio, poiché portandosi dette robe in paesi dove mancano..., di necessità bisogna portarvi oro o argento»;

3° Dove il sito è «occasione potente e causa del traffico grande, così a rispetto delle altre parti del mondo come a rispetto di se medesimo, e perciò dell’abbondanza ecc.»;

4° Dov’è «quantità di artifici! (manifatture) soprabbondanti al bisogno del paese»; causa migliore che l’abbondanza delle robe,perchè l’artefice è più sicuro che il contadino di «guadagnare»; perchè gli artificii si possono moltiplicare; perchè si spacciano con più facilità; perchè «si cava più dall’artificio che dalla roba».;

5° Dove sono abitatori industriosi «che non solo trafficano nel medesimo loro paese, ma fuori, e discorrono dove e in che modo possano applicare le loro industrie, per le quali senza dubbio abbonderà la città ecc.»;

6° Dov’è «traffico grande... delle robe d’altri paesi per altri paesi». (Cioè commercio di transito; perchè il commercio d’estrazione è limitalo alla soprabbondanza delle robe proprie, e quello d’importazione farà impoverire il paese e non abbondare di danari);

7° Dov’è «la provvisione di colui che governa». (Cioè, dove il Governo sa prendere le misure opportune «secondo li diversi effetti che vuol causare, rimovendo gli impedimenti che potrebbero ostare all’effetto che si desidera; cosa difficile ecc.)».

Qui l’A. soggiunge che, all’infuori di queste cause, nessun’altra ve n’ha: cosicché non mi pare né anco esalto il dire col prof. Mancini, che egli abbia riportato la creazione della ricchezza a moltiplici cause, additandone le principali. Il Serra in vece ha inteso definire precisa- mente il numero delle sorgenti di danaro, ed escluderne qualunque altra; e queste, come si vede, sono: l’estrazione de' proprii prodotti agrarii o manufatti, ed il commerciò di trasporto; giacché il rimanente — sito favorevole, carattere degli abitanti, provvidenza del Governo — sebbene egli né faccia delle cause a parte, non sono, anche nel modo in cui le presenta, che cause delle cause; vi ha estrazione e commercio, ove il silo, il carattere, la provvidenza, contribuiscono ad eccitarli e mantenerli.

Ora io invito il lettore a leggere il testo, per decidere se, al di là della gretta enumerazione, gli sia possibile rinvenire la menoma frase che possa chiamarsi sviluppo, dimostrazione, un primo lampo di scienza economica. Non una sillaba sola. Si tratta unicamente di annunziare che un paese il quale, non avendo miniere, mandi all’estero i suoi prodotti, riceve in cambio di essi argento ed oro! Io chiedo al prof. Mancini, che egli dimostri come mai l’avere annunziato un’idea così falsa, così al tempo medesimo creduta vera dal volgo, e così vecchia nella credenza degli uomini, possa, perchè fu fatto in Italia, o perchè fatto da uno sventurato martire della libertà, divenire fondazione della Scienza economica? — Idea falsa, perchè si può praticare una larghissima estrazione di prodotti, o un estesissimo commercio di transito, senza che perciò si abbondi di danaro, ma abbondando di merci; idea volgare, perchè è quella che qualunque donnicciuola vi sa meccanicamente ripetere, se voi le domandale da dove venga il danaro che noi ci facciamo passare di mano in mano; idea vecchissima, perchè se egli apre anche i più oscuri trattati di moneta nel cinquecento, la troverà messa per fondamento e ripetuta ad ogni pagina, la troverà, se vuole, largamente svolta in Bodino, la troverà nel Reggane del Principe di S. Tommaso, la troverà in Senofonte, e implicitamente riconosciuta da Aristotele e da Platone, i quali non temevano tanto il commercio ed il contatto co’ forestieri se non perchè vi trovavano il pericolo di far abbondare il danaro, e con esso destare ne’ cittadini quell’amore dell’oro che è incompatibile colle grandi virtù.

Ma bisogna andare più in là. Serra passa a fare un confronto tra Napoli e le città di Venezia e Genova, intento a mostrare che queste avrebbero il meno possibile delle circostanze favorevoli alla dovizia di oro ed argento, e quella né avrebbe molto di più; e pur nondimeno le prime né abbondano, e Napoli né scarseggia.

Qui finisce la parte per dir così teoretica. Segue la discussione sul cambio, che mira a mostrare come la proposta del De Sanctis sarebbe inefficace ad ottenere lo scopo di far venire gran copia di danaro a Napoli. Si giunge finalmente alla terza, ove ci aspetteremmo la soluzione del gran problema, ed ove dovrebbe finalmente apparire il fondatore dell’Economia. Or ecco ciò che egli nc dice.

A far abbondare il regno di danaro, non giova il proibire l’estrazione della moneta; non giova «il bassamento del cambio»; non giova «l’apprezzo della moneta forestiera»; non giovano gli artificii di innalzamento nominale; che cosa dunque abbisogna «Levar la causa che non lascia venir danari per la roba che si estrae; e introdurre gli accidenti (le condizioni opportune) de' quali il regno è privo». Ma levar la causa non si può. Il danaro non viene, perchè il prezzo di tutte le robe che si estraggono rimane all’estero e serve a pagare l'entrate che i forestieri posseggono in regno. Introdurre gli accidenti non si può, perchè «la gente del paese è di una contraria inclinazione (non è di carattere industrioso)»; e lutto dipenderebbe dalla provvidenza del Governo, la quale «similmente è difficilissima da esercitarsi al proposito». Ma ad ogni modo, è certo che «a colui che vuole e puote non è cosa difficile, e non si concede cosa alcuna senza gran travaglio di vita»; dunque (si noti bene la conseguenza). l’Autore si limita ad accennare in confuso e in generale, che vi sarebbe il modo, ma non gli conviene per più rispetti dirlo in particolare. «E perchè da alcuni non s’immagini che questa sia escusazione dell’ignoranza, sempre che il padrone lo comandi se gli farà palese il modo in particolare, con riforma grandissima e benefizio universale del regno e della Maestà Cattolica, senza spogliare il privato del suo, contro la disposizione della giustizia, la quale deve sempre avere il primo luogo ecc.». Ed essendosi così «accennato in generale e in confuso il modo e rimedio certo per il bisogno del regno, secondo la materia ricercava, e conforme si era promesso, l’Autore ci congeda, e dà fine a quest’operino.

Io domando di nuovo a tutti i facitori delle nostre glorie nazionali che si compiacciano di indicare qual sia questa prima pietra gettata dal Serra a fondamento della Scienza; e quanto al mio ottimo amico, io lo prego di dire se vi ha la più lontana, la menoma analogia, tra il concepimento sistematico del Quadro di Quesnay, e il Trattato del Serra; lo prego di dire se egli possa coscienziosamente ripetere che quel Trattato tende a mostrare che la ricchezza non consiste nell’oro e nell’argento — che tende ad additare le, principali fra le moltiplici cause della creazione, delle ricchezze; e dopo ciò decidere egli stesso se il Ferrara, salutando ne’ Fisiocrati i creatori della Scienza economica, lo abbia fatto per far eco «Francesi (passione, che egli, siciliano, con difficoltà potrebbe sentire); e se, per qualunque cagione lo abbia fatto, poteva a proposito di Turgot e di Quesnay, indicare. alla gratitudine de' cultori delle Scienze economiche il nome del Serra. senza il rimorso di avere dal canto suo contribuito a rendere. presso i cultori delle Scienze economiche, ridicole le glorie Italiane. che, quando si ha la cura di mantenerle ne’ limiti della lor verità, sono all’incontro reali, splendide, indubitate.

Io ora aggiungerò difatti ciò che a Galiani il Governo assoluto non permise forse di dire intorno al libro del Serra, ma che avrei volontieri riconosciuto se il prof. Mancini lo avesse accennato. V'è una parte misteriosa in quel libro, non priva, se si vuole, di importanza teoretica, ma mirabile certamente, perchè sempre meglio rivela la tempra d’animo, l’invitto coraggio civile, di cui Napoli ha sempre dato i più splendidi esempi. Quest’uomo, dal fondo del carcere in cui lo lasciarono gemere e sette volte lo torturarono, perchè accusato di complicità nella cospirazione repubblicana di Campanella; quest’uomo, così apparentemente tenero di S. M. Cattolica; quest’uomo, che ha un certo segreto da comunicare all’orecchio de' suoi padroni; non intese, se io l’ho compreso, che fare un’energica apologia del governo repubblicano; e tentando di corre gli uomini dal loro lato più debole, presentò l’abbondanza dell’oro e dell’argento, come effetto di molte cause sì, ma effetto dubbio finché non venisse dalla provvisione del Governo. Ad ascoltarlo quando getta le prime idee su questo accidente.parrebbe di non alludere che a delle misure dell’ordine puramente economico; ma andando più innanzi, il lettore non può non rimanere colpito dal paragone che costantemente, anzi affettatamente istituisce tra Napoli e Venezia o Genova; e per ultimo si arriva al punto, in cui, calata la maschera, impiega parecchie pagine a dimostrare che il Governo veneziano presenta una stabilità che «in altre signorie e repubbliche» non fu mai — che ne’ regni, ove risieda il principe, non vi ha Governo che possa durare più di 50 anni; ed ove il principe non risiede (caso di Napoli), tanto dura quanto l’ufficio del viceré che, morendo un re, il successere «non si conforma in tutto nell’opinione col predecessere, e perciò è in proverbio, nuovo re nuova legge» — e ignora che cosa il predecessore giudicava disordine, né «che provvisione avea da fare, né quelle che avrà falle ecc.» e «cominciando a provare a suo modo, non vi è così certezza che debbano riuscire, per la qual cosa i sudditi di santa Chiesa, per la continua mutazione, non conseguiscono quel Governo buono che potrebbero conseguire se il Governo fosse stabile». Ma nel Governo di Venezia, essendosi atteso dal principio della sua propagazione a governar bene, avendo per oggetto il beneficio pubblico, hanno istituito più e diversi ordini, né fanno ognora de' nuovi, migliorano o sopprimono i vecchi, e particolarmente circa alla creazione de' magistrali, che s’è mai ritrovato in altre signorie e repubbliche simil modo di creare magistrati. Quindi l’esperienza ha dimostralo che. «non vi fu mai dominio o repubblica al mondo che abbia tanto duralo, quanto ha durato e dura Venezia, che ancora è vergine, e sono circa 1200 anni che è edificata dopo il flagello di Attila. E qui continua a descrivere con una speciale compiacenza, come il mirabile meccanismo dell’elezione de' magistrali in Venezia conferisca stabilità e costanza nello spirito del suo Governo, onde conchiudere che è sicuro di non essersi ingannato allorché ha dichiarato decisamente preferibile ad ogni abbondanza di roba e di artificii l’accidente del buon Governo; o in altri termini per dire ai Napoletani che, nella causa per cui egli e i suoi gemevano in carcere, non si agitava l’interesse della sua vita, ma il benessere e la ricchezza del paese, la quale non si potea sperare di conseguire senza prima sforzarsi a sostituire la stabilità degli ordini repubblicani all’incostanza del Governo regio e viceregio.

Ecco, secondo me, la sola scienza che il Serra volea fondare. Io l’argomento dalla frequenza delle allusioni, dalla lunghezza di quel tratto, dalla lindura tutta eccezionale, con cui procede in quelle idee, dallo stile medesimo che si anima tutt'insieme e poi ricade. Così si spiega la puerile reticenza con la quale chiude il suo libro; così sarebbe un bel sarcasmo, e degno della sublimità del suo animo, quella promessa di svelare il suo pensiero all’orecchio de' suoi padroni, tostoché. nc lo avrebbero chiesto. I padroni lo lasciaron gracchiare, e forse lo premiarono con nuovi tratti di corda; i suoi contemporanei non lo compresero; è probabile che Galiani abbia inteso, esagerando il merito dell’economista, accennare al politico; mi sembra però inescusabile che ai nostri giorni il suo storico e suo compatriota, spenda tante parole a collocare il miserabile cicaleccio economico al di sopra, quasi, della Ricchezza delle nazioni, e non abbia veduto che il vero intento dell’Autore mirava a tutt'altro. Ma ciò necessariamente accade quando a scrivere un libro di tanta gravità si ponga la poca coscienza e la molta fretta che il Bianchini ha posta nel suo.

Uscendo di questo scopo tutto speciale e politico, e tornando nel campo dell’Economia, io trovo inconcepibile che il prof. Mancini, impegnato a cercare in Italia l’origine della Scienza, non l’abbia piuttosto trovata in Bolero, che circa 25 anni prima di Serra aveva, soprattutto nella sua Ragion di Stato, abbracciato sotto vedute ben più larghe e complessive quanto nel secolo xvi potea sapersi, non solo in materia di legislazione economica, ma in fatto di agricoltura, di arti, e di commercio, senza tener alcun conto del suo speciale trattato sulle Cause della grandezza delle città, né delle sue celebri Relazioni universali. Io non so se questo primo avversario di Machiavelli si possa, come un sentimento di cittadinanza fe’ dire a Napione (76), collocare al di sopra del Segretario fiorentino; ma certo, in quanto a materie puramente economiche, io non oserei né anco tentare il confronto tra gli accidenti che fanno abbondare, di denaro li Stati, e le ragionate opinionidi Bolero — e la sua distinzione fra l’imposta diretta e l’indiretta — e la ritrosia con cui piega il collo a’ pregiudizii doganali del tempo — e l’interesse all’incontro con cui si dichiara per l’economia delle pubbliche spese — e la superiorità con cui disprezza la pratica del tesoreggiare — e i buoni consigli sugli incoraggiamenti da dare all’agricoltura — e l’acume con cui vuol dimostrare l’importanza delle arti — e le saggie riserbe con le quali accetta la pratica delle colonie — e i principii, per la più parte irreprensibili, su cui appoggia le sue idee intorno a commercio — ma soprattutto, le idee lucide, vere, precise, che si formava intorno alla legge della popolazione (77).

Ma Bolero, egli stesso, fu preceduto da Bodino; ed un critico disinteressato e sincero non può far a meno di riconoscere che il pubblicista francese, nel 5° libro della sua Repubblica offre una larga messe di antichità economiche, ben più copiosamente profuse che nella Ragion di Stato del ministro sabaudo (78). Queste due famosissime opere del secolo xvi basterebbero a togliere ogni residuo di anteriorità al nome del Serra; e pur nondimeno non costituiscono, né anco esse, le prime scaturigini della Scienza economica; perchè io non posso vedervi che una successiva elaborazione, continuata per più di tre secoli, dell’idea di suprema tutela attribuita ai Governi sui popoli e canonizzata sotto le tante parole di reggiane, reggimento, politica, repubblica ecc., nelle quali la quistione della coltivazione, o delle arti, o delle colonie, si mischiava a quelle della vendita de' beni del clero, o a quella del loro celibato, o alla fusione delle campane ecc. ecc. Le prime volte in cui dalia discussione delle regole governative si sia comincialo a passare alla contemplazione de' fenomeni prettamente economici, fu a proposito delle monete; e il vero momento in cui la quistione monetaria prese proporzione ed importanza economica, fu quando l’Europa avea risentite le profonde modificazioni di prezzo venale generate dalla scoperta di America. Perchè prima di allora, scrittori intorno alle moneti' ve né furono, è vero, moltissimi, ma il gran soggetto delle lunghe loro discussioni, e delle eruditissime loro opere, era lutto legale, o archeologico, o tecnico tutt'al più; si aggirava o sulle conseguenze civili delle alterazioni di valore nominale che i principi facevano e disfacevano secondo l’urgenza de' loro bisogni, o sul ragguaglio tra Ir antiche e le moderne monete, o sulle particolarità della coniazione; ed in tutto ciò la quistione di priorità, se anche avesse importanza, rimonterebbe non solo a Scaruffi, Davanzali, Turbolo, non solo ai piemontesi Sola e Tesauro che il prof. Mancini ha citati, ma ad Alberto Bruno da Asti, a Mariana spagnuolo, a Pirckeimer da Eichslel, e se sì vuole anche a Bartolo (79). Però nella seconda metà del secolo XVI, la quistione de' prezzi divenne vivissima e grave; e non è in Italia che si sia saputo meglio agitarla. Gli Inglesi hanno su tal proposito un opuscolo che fu lungamente attribuito a Shakespeare, ma che ora è noto appartenere ad un W. Stafford; e M’Culloch si e curato di rammentarlo (80). Ma i Francesi né hanno un altro, anteriore ancora di 20 anni, che ninno si dà più la pena di nominare, che certamente ai nostri giorni non può avere alcuna gravità nell'interesse della scienza, ma che dev’essere preziosissimo a chi ami cercarne le prime origini, o parlare di priorità: ed appartiene a Bodino, l’autore medesimo della Repubblica (81).

lo non insisterò su queste ingrate ricerche e citazioni. Andremmo cosi tino a Platone. La quistione è sempre ne’ medesimi termini. Di pensieri isolali, non è possibile indovinare il vero momento in cui sieno surti nel mondo. Di verità concatenate, in fatto di Economia, i primi saggi non mi pare che sieno apparsi in Italia. E ancora non si tratta già di scienza vera, cioè di principii generatori sotto cui si sia rannodata la massa delle verità già conosciute. Io non poteva citare il Serra o il Bandini, quando incontrava ne’ Fisiocrati la prima formola della scienza; Serra, noi doveva che a proposito della scuola italiana, ma sventuratamente la mia coscienza ripugna ad attribuirgli i meriti che i miei concittadini gli han consentiti. 11 prof Mancini probabilmente non dividerà la mia opinione: sarà questo — e né sono dolente — un altro caso in cui non mi tocchi il piacere di trovarmi pienamente d’accordo col giudizio d’un uomo, la cui adesione dev’essere lusinghiera a chiunque sappia apprezzarla quanto convenga. — Torniamo a Verri.

IX

Qui, spero che trattandosi di lui e de' suoi contemporanei italiani, non si penserà d’invocare qualche diritto di priorità simile a quello del Serra o del Bandini. Sarebbe ben altrimenti difficile il sostenerla. 41 declinare del secolo 18", il mondo era già invecchiato di molto. L’era delle grandi catastrofi era trascorsa; dopo un Carlo V, un Lutero, ed un Cromwell; dopo trovata un’ America: dopo che. le droghe di un’india occidentale eran comparse a soppiantare, quelle dell’orientale; il mondo europeo aveva veduto incalzarsi l’uno sull’altro fenomeni inattesi, inosservati in tutta l’antichità. S’eran vedute le grandi e subitanee deviazioni di capitali, volgersi dalla navigazione alle arti, dalle arti alle intraprese coloniali; s’era veduto la carta dei banchi detronizzare l’oro e l’argento, e la terra, come indispettita all’oltraggio che la mobilità dei nuovi valori ambiva di farle, rialzarsi a riprendere nella estimazione degli uomini, attoniti alla caduta delle illusioni bancarie, l’antico privilegio esclusivo alla stabilità del valore. In mezzo a tanto molo di scudi, di cedole, di merci, a tanti progetti scontratisi sul nuovo terreno della speculazione, a tante potenze surte e rovesciate, a tante colossali fortune inghiottite o edificate dal nulla, ogni giorno non tramontò senza lasciare un ricordo del suo passaggio, ed offrire nuove materie di dispute agli interessi che erano in lotta, nuovi imbarazzi ai governi, nuovi fatti alla meditazione de' filosofi solitarii. Le teorie della moneta, prime a nascere, furon le prime a trovare la chiave di un sistema determinato, in cui riposarsi, per lasciare a’ nuovi fatti il campo su cui svilupparsi. Le guerre contro l’usura s’erano convertite in discussioni sull’interesse. L’atto di navigazione, le ordinanze di Colbert, e la prosperità dell'Olanda, avevan creato la gran quistione delle dogane, l’eco della quale ondula ancora alle nostre orecchie. Banchi, pauperismo, ospizii di beneficenza, finanze, compagnie di commercio, debiti pubblici, tutto ciò fu nuovo, era surto in un punto, s’era imitato in un altro, andava e veniva, dall’Italia all’Inghilterra, dall'Olanda alla Francia, spariva, risorgeva, ed in ognuna delle sue fasi, libri, consulte, discussioni, atti di governi, tutto accorreva a proporre, a confutare, a svolgere, a decretare. L’Italia, pesta dallo straniero e lacerata in brani, assai di buon’ora fu tratta fuori da quella scena. La corte de' Medici e il pontificato di Leone X furono forse gli ultimi momenti di vita che respirarono i nostri padri in mezzo alla fermentazione de' nuovi interessi europei: Io straniero ci rubò industria, arti e sapere, non ci diede in cambio che gabelle e torture. Non solo è falso che noi nel secolo scorso avessimo dato alla luce una scienza economica, ma pensarlo e sospettarlo è ridicolo; contentiamoci pure di poter dire che in mezzo alla persecuzione e al dolore abbiamo avidamente raccolto e conservato per un migliore avvenire le ultime espressioni de' grandi fenomeni, che si compierono al di là delle Alpi e del mare, e che il vento, deludendo la vigilanza delle sentinelle francesi, spagnuole e tedesche, ci recò di soppiatto!

Pure, io sarò scrupoloso a raccogliere ogni più piccolo briciolo di originalità che Beccaria e Verri possano offrire, perchè quanto Filangieri mi e stato impossibile di trovarne, e quanto a Genovesi, egli non ha né anche di suo le velleità comunistiche, che il lettore sarà sorpreso di rinvenire in un’opera così sobria, e nella bocca di un professore così sorvegliato da una curia bigotta (82).

Di Beccaria, io non ho da cennare che una sola quistione intorno alla Divisione del lavoro. Chi volesse trovare ben altri diritti di priorità nel suo libro, legga e creda quanto né dice il Bianchini. Il passo sulla Divisione è alla pag. 595 (§. IX) di questo volume. Lo stesso Say gliene ha dati gli onori dell’invenzione; ma Bianchini contentandosi di averli acquistati per un italiano, li trasferisce più volentieri al suo Genovesi, e in tutti i casi si limita a soggiungere che «questa è scoperta di remotissimo tempo: poiché sin dal medio evo gli Stati italiani fecero stabilimenti per la divisione e suddivisione del lavoro e di arti e mestieri, stabilimenti imitati e perfezionati e in Francia e in altre regioni di Europa e nella stessa Inghilterra».

Blanqui, nella sua storia dell’Economia Politica, è stato più coraggioso, indicando un passo della Repubblica dì Platone (lib. 2), di cui ha detto «non essersi mai più chiaramente definito i vantaggi di questa teoria». Ciò torrebbe la priorità Don solo agli economisti del secolo 18°, ma ben anco agli stabilimenti del medioevo. In un'altra occasione io ho riportalo per disteso quel passo (83), perchè lo storico francese, nel desiderio di ben provare il suo assunto, lo aveva compendialo, ed abbellito più che tradotto. Mi dispenserò dal ripeterlo, ma mi permetterò di applicare con più ragione a Beccaria ciò che dissi già di Platone. Questa divisione ebbe sempre due sensi; nell’uno è un semplice fatto, nell’altro è una bella dottrina. Che gli uomini, in qualunque contrada e tempo del mondo, sieno naturalmente condotti a distribuire fra sé le diverse faccende della vita e del lavoro, è questo un fatto de' più comuni, né ci voleva la sapienza di Socrate per osservare un fenomeno, da cui ne’ primi anni dell’infanzia ciascuno di noi ha dovuto esser colpito. Platone Io descrive con una rara semplicità, ma milioni di uomini lo hanno osservato senza averlo descritto, e senza aver conosciuto le sue parole. Non è la semplice osservazione del fatto ciò a cui si sia limitala la scienza moderna, né ha cercato bensì le cagioni, né ha misurato e festeggialo le conseguenze. Qui consiste la teoria; né Adamo Smith né avrebbe mai riportato la gloria, se si fosse, come Platone, fermalo al semplice annunzio di cose che ad ogni vivente eran noie. Que’ tre primi capitoli delle Ricerche sulla ricchezza delle nazioni son tutto ciò che di meglio potevasi concepire ed esporre; e il grande loro sta appunto nella sorpresa che reca il vedere con tanta evidenza e tanta disinvoltura provato, che tutti i miracoli dell’incivilimento si devono alla Divisione del lavoro. Beccaria non cita che un solo effetto, e il più ovvio: «ciascuno prova coll’esperienza che, applicando la mano e l’ingegno sempre allo stesso genere di opere e di prodotti, egli più facili, più abbondanti e migliori né trova i risultali...» Se Smith, che mise in capo al suo libro ed all’economia delle nazioni il fenomeno del lavoro diviso, non avesse attinto l’idea che a questo cenno di Beccaria, bisognerebbe esser giusti abbastanza per confessare che il comentario è degno pur troppo di farci dimenticare ogni rimembranza del testo.

In Verri, io non cercherò né anco i cento titoli di priorità trovatisi dal Bianchini, ma dirò francamente ciò che in verità mi sorprende.

Mi sorprende, al suo tempo, il trovare così bene distinte le ricchezze naturali dalle artificiali (p. 557); il trovare così preciso ed esatto il suo linguaggio intorno a danaro (p. 585); cosi ben dimostrato l’errore del chiamarlo misura de' valori (p. 591); così bene e in poche parole espresse le più giuste idee intorno alla popolazione (p. 605); posto — sebbene per un momento — il buon mercato a scopo finale dell’Economia (p. 605); familiari ed esattamente adoprati i vocaboli produzione, produttori, ed industria. Alle pagine 640-1 si può vedere com’egli abbia bene respinto l’errore che il dazio giovi a stimolare l’industria, errore ripristinato con tanta buona fiducia in tempi a noi vicinissimi e per bocca dell’illustre M’Culloch. Mi sorprende ancora di più il trovarvi un barlume della legge de' profitti: che, crescendo, come oggi direbbesi, la produttività del lavoro, danno con una rata minore di un prodotto maggiore, un resultato complessivamente migliore al possessore del capitale. Verri non ha al certo sviluppato o dimostrato questo principio come ai nostri tempi si è fatto da Carey e da Bastiat; niuno, suppongo, vorrà supporre che l’economista americano abbia attinto l’idea alle Meditazioni sull’economia politica che io posso accertare essergli ignote fino a questo momento in cui scrivo; ma è una prova della sagacità del nostro autore il vedere con tanta chiarezza annunziato da lui il fatto che «dovunque è in fiore il commercio, ivi son minimi i vantaggi del commerciante, presa ogni merce separatamente; e dovunque torpisce l’industria, grandiosi sono i guadagni de' commercianti» (84). Mi sorprende, e depone del pari in favore della sagacità di Verri, il bel paragone ch’egli fa (85) per dimostrare i vantaggi delle popolazioni addensale; paragone che l’economista americano avrebbe, mi figuro, adottato in qualcuno de' tanti luoghi de' suoi principii ne’ quali professa la medesima opinione. Non citerò come qualche cosa di prezioso un lampo che trovo circa alla rendita della terra, ma lo riguardo sempre come un progresso sopra i suoi contemporanei che non sospettarono di dover comprendere fra le materie della scienza i fenomeni relativi alla rendila. E in generale poi, la sobrietà, l’ordine, la nitidezza delle idee, anche non sue, la semplicità con cui le espone, spogliandole di tutto ciò che possa esser soverchio al suo intento, gli assicurano, secondo me, una decisa superiorità a paragone d’ogni altro fra gli economisti italiani del tempo suo, se pure non dobbiamo, per nostra umiliazione, soggiungere ancora su quanti né sieno apparsi dopo di lui.


vai su

X

Mi resta a parlare di Ortes, che appositamente ho riserbato alla fine.

Certamente l’Economia nazionale è un sistema; e se non fosse dedotto da un principio evidentemente falso, potrebbe conferire all’A. tutto il merito di aver fondalo e creato di pianta la scienza economica.

La base di tutto il suo edilizio fu questa: tutti i beni che occorrono ad una nazione son sempre in una somma determinala, né più né meno, proporzionata soltanto al numero degli uomini che la compongono.

Ortes, egli medesimo, confessa che una tale proposizione non fu mai detta da alcuno, e sarebbe contraddetta da tutti; ma si affretta a soggiungere che ciò nonostante alcun apparato non fa bisogno di grandi ragioni, tratte dalla più ardua e dalla più complicata metafisica, per dimostrarla (86).

Due sole egli né adduce, che gli sembrano sufficienti.

La prima è tratta dall’esperienza perpetua. L’esperienza insegna, secondo lui, che in qualsivoglia nazione vi sono i ricchi e l i poveri, e il possesso dei beni abbonda negli uni e scarseggia negli altri. Insegna che i legislatori sì son sempre occupali a far si che la massa de' beni si accresca; ma non vi son riusciti. E che non vi sieno riusciti, è, secondo lui, dimostrato da ciò — che la necessità di procurare un aumento di beni non venne mai meno — che ogni provvidenza adottata, fe’ sentire il bisogno d’adottarne qualche altra: effetto che non dovrebbe seguire se l’efficacia di un primo sforzo tentato riuscisse a conseguire il suo fine (87). —L’argomento, come ognun vede, è fin qui debolissimo. Lo sforzo continuo degli uomini ad accrescere la massa delle ricchezze, non prova che i loro primi tentativi sieno falliti, può anzi provare che, adescali dalla riuscita de' primi, intendano a procurarsi un nuovo aumento di beni.

La seconda delle sue ragioni è tutta speculativa. L’uomo, egli dice, nulla fa senza una ragione sufficiente. Se dunque travaglia, noi fa che in quanto ha il bisogno di travagliare. Se dunque più uomini in società producono una massa di beni, questa massa sarà tanta e tale che il loro bisogno richieda. Ma un dato numero d’uomini non può consumare che una determinata misura di alimenti, di vestili, di mobili ecc.; non meno, non più; non meno, perchè se fossero inferiori al bisogno, quegli uomini non sussisterebbero, ciò che è contro l’ipotesi; non più, perchè se fossero superiori, si sarebbero creati senza ragione sufficiente, ciò che è contro la natura dell’uomo (88).

Qui il ragionamento starebbe, purché si concedesse il solo principio di doversi ritenere i bisogni dell’uomo come un dato costante, insuscettibile di espansione. Ammessa una tal verità, rullo il sistema di Ortes discende logicamente. Si può calcolare, com’egli ha fatto (89), quante libbre di farina, di legumi, di tabacco, di metalli ecc., abbisognino ad una popolazione ipotetica di 5 milioni, indi, è ben facile aggiungere che, per ottenere quella data misura di beni, una data quantità di travaglio in massa è indispensabile; ciò che nel suo misterioso linguaggio si esprime così: «che que’ beni comuni non possono porsi in essere o in qualsivoglia modo trovarsi alla condizione d’essere consumati, che medianti le occupazioni comuni, perchè le occupazioni equivalgono ai beni (90). È ben facile, dico, aggiungere quest’altra premessa, perchè chi non abbia difficoltà a riguardare i bisogni dell’uomo come un elemento inalterabile, non né avrà né anco ad ammettere che ad una data quantità di produzione sia indispensabile una data quantità di travaglio: principio che l’autore assume come innegabile, tanto riguardo a’ prodotti agrarii (che rappresentano, nel suo linguaggio, la quantità de' beni), quanto riguardo alle manifatture (che rappresentano la qualificazione de' beni) (91).

Allora, bisogna necessariamente accordare: che tra un popolo e l’altro, tra un’epoca e l’altra di un medesimo popolo, non vi può essere differenza alcuna di ricchezza, ma di mera distribuzione. Niuno può trovarsi più agiato, senza supporre che un altro né sia più disagiato. Nessuna classe di produttori (di occupati) può viver meglio, se non perchè altre classi soffrono la penuria. Nessuna città capitale s’ingigantisce, se non perchè la campagna s’immiserisce. L’industria accresciuta, l’attività, l’energia produttiva di un uomo, allora non è che un’usurpazione che si faccia sul lavoro, su]V occupazione di un altro. Per un uomo che più travagli, un altr’uomo, altri uomini, bisogna che trovino meno da lavorare. Quindi, al di là della misura media delle occupazioni e perciò del consumo, tutto ciò che l’avidità degli uni li spinge ad ottenere, genera la povertà negli altri; e come l’avidità è inevitabile, inevitabile sarà l’esistenza de' poveri nel seno della società. Quindi ancora, sogni e follie tutte le riforme che s’intraprendono a nome della produzione. Fedecommessi, manimorte, conventi, celibato, sono elementi innocui per sè: con essi o senza essi, la massa de' beni comuni non può crescere né scemare d’un pelo.

Per un motivo che non giustifica la bontà del sistema, né depone a favore della sagacità del suo ingegno, Ortes è un po’ partigiano della massima libertà di commercio. Il Pecchio ha ben riassunto la sua idea su questo proposito. «L’inganno che il commercio esterno potesse alle volte essere più favorevole a una nazione che ad un’altra, ed impoverirne una per arricchirne un’altra, è nato dall’errore di aver paragonato le nazioni ai particolari. Si è credulo che, siccome un particolare più industrioso, può spogliarne un altro meno industrioso, così possa una nazione comunemente più industriosa impoverirne un'altra meno industriosa. Secondo la teoria dell’Autore, un particolare dipende per la sua sussistenza da un altro particolare, quindi egli può arricchirsi a spese di un altro. Ma avendo ogni nazione il suo bisognevole, ogni nazione è indipendente dalle altre per la sua sussistenza, sussistendo ciascuna delle sue occupazioni, del suo capitale, e della sua industria.... Ciascuna nazione non dà all’altra né più né meno di quel che essa riceva con pari indipendenza, a norma delle rispettive esigenze, e dei bisogni reciprochi di ciascuna, sian reali, sian capricciosi: il che fa che una non profitti dell’altra, più di quello che questa profitti di quella».

Si poteva in verità riuscire più agevolmente ad un'opposta conclusione. Siccome la barriera tra popolo e popolo non è che fittizia; e siccome in natura esiste l’umana razza con le stesse leggi di affinità per le quali esistono le nazioni, bisognava da’ principii di Ortes dedurre, come da altri principii dedussero Montesquieu e Voltaire, che la ricchezza d’un popolo è necessaria miseria di un altro; e che quindi nulla vi può essere di più salutare a ciascuno che il premunirsi con diligenza contro l’invasione del commercio straniero. Ma è pur consolante il vedere che la teoria della libertà predomina sempre su tutte le aberrazioni de' sistemi, e che mentre si deduceva a Parigi dalla premessa del prodotto-netto, ad Edimburgo dall’idea del travaglio, v’era un altro ragionatore a Venezia che la contemplava come una conseguenza inevitabile della perpetua immobilità delle nazioni.

Se si dovesse seriamente discutere il sistema di Ortes, si potrebbe, al pari di ciò che egli fece, appellarne all’esperienza ed alla ragione.

«Il dire — riporto una giusta riflessione del Pecchio — che tutte le nazioni son ricche in proporzione solo della loro popolazione, è un paradosso tale che non merita confutazione. Basti il riflettere che la Polonia e la Spagna contengono una popolazione eguale a un dipresso a quella della sola Inghilterra. Hanno esse una quantità di beni eguale a quella che possiede l’Inghilterra?»

In via razionale, tutto il sofisma di Ortes viene dal supporre l’uomo compiuto quando esce dal seno della natura, invece di riconoscerlo, com'è, perfettibile, e forse all’infinito. Ortes lo suppone immobile, e ne’ suoi bisogni, e nella sua industria. Or è precisamente all’opposto. Un carattere distintivo dell’uomo sta nella progressività de' suoi bisogni. Ortes è agli antipodi di Condorcet, non ha la menoma fede ne’ destini provvidenziali dell’umanità. Ma se per misantropia o per limitazione d’idee egli non poteva allargare fin là le sue viste e le sue speranze, poteva e doveva osservare nell’uomo individuo, in se stesso, che la progressività de' bisogni è condizione inerente alla vita. In un’ altra occasione io ho dovuto notarlo: noi siam falli così; il sentimento d’un dolore prevale, e momentaneamente né sopprime ogni altro men vivo, finché quello non sia soddisfatto. Acchetatolo appena, se né sveglia un secondo, e domanda dal canto suo che gli sia fatta ragione. Così procediamo dall’uno all’altro con avidità inestinguibile. Non vi è mai un momento nel quale il cuore umano si arresti ne’ suoi desiderii. Moribondi di fame, diamo per un piatto di lenti un’eredità; nutriti, vestiti, comodamente alloggiati, andiamo in pazzia per ottenere una croce; e se viene il momento in cui nulla sapessimo agognare e sperare, una forza imperiosa ci spinge a rinunziare l’umana natura e bruciarci il cervello. Questo è l’individuo: è egli possibile che tale non sia una massa, una nazione, tutta quanta l’umanità? A che dunque supporre che l’accrescimento de' beni sarebbe senza ragione sufficiente quando la ragion di produrre, dal medesimo autore fondata sul bisogno di consumare, dev’essere in continuo progresso come il bisogno lo è?

Uguale è Terrore dell’altra ipotesi relativa alla quantità del travaglio. Ortes suppone che una data quantità di produzione esiga, né più né meno, in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, una medesima occupazione. E che ha fatto dunque l’umanità nel corso di tanti secoli, altro che incessantemente attenuare questo rapporto tra Valile da raccogliere e lo sforzo con cui conseguirlo? E che cos’è l'occupazione, l’industria, se non vogliamo che sia una conquista dell’uomo sulle forze inerti della natura? Nella casa di Penelope, una donna ‘occupata a triturare il frumento non riusciva a produrre in un giorno che la farina bastevole a 12 o 10 individui; in un molino, come quello di St-Maur presso Parigi, un operaio moderno né produce per tremila individui; milioni di fatti simili si posson citare: ed è egli in presenza di tali fatti che sarà lecito di fondare, o che convenga sciupare il tempo a combattere un sistema fondato sull’ipotesi d’una perpetua immobilità di rapporto fra la produzione e il travaglio?

Se qualche esitazione può aversi a pronunziare una precisa sentenza intorno al merito di Ortes, ella sarà sul trattato della popolazione, a proposito del quale io mi riserbo di esaminare se, e fin dove, sia stato soverchiamente vantalo. Ma l’Economia nazionale è un libro, intorno a cui ciò che unicamente abbisogna per apprezzarlo con perfetta equità, è una pazienza sufficiente per continuarne la lettura al di là de' primi capitoli. A me non mancò; cd ho potuto, riducendo a termini intelligibili le astrusità del suo strano linguaggio, determinare con sicura coscienza quanto poco egli abbia detto dì profondo, di originale, e di n- vale. cigli scritti de' più illustri stranieri.

Non si deve per altro confondere il valore d’una teoria col carattere d’uno scrittore; ed io non sono anzi disposto a confondere le tristi o false conseguenze di un principio col principio in se stesso» Ortes difensore sistematico delle mani-morte e de(:) fedecommessi, Ortes mortale nemico di ogni Economia che non fosse la sua, Ortes che ora difende, ora disprezza la libertà de' commerci, o l’aumento de' beni, che ora è Malthusiano o, come dicono, precursore di Malthus, ed ora è l’apologista de' legati pii e delle istituzioni di carità ufficiale, non sarebbe ancora per me un pessimo economista, se non vedessi in lui la pretensione di giungere a codeste deduzioni con tutto il rigore geometrico, piantando un’assurdità per principio, il principio che la massa delle ricchezze in ogni luogo ed in ogni tempo conservi un dato rapporto immutabile colla quantità degli uomini. Ed egli mi parrà un pessimo economista, senza che ancora lo creda un perverso carattere, quando mi tocchi a vedergli confondere la produzione coi culti, e trovarlo ancora accanito contro gli Ugonotti, e mortale nemico dell’Inghilterra perchè protestante, e fallito profeta della sua rovina imminente. Allora dirò come ben disse il Pecchio: confesserò che ciò malgrado egli era ben lontano dall’esser tristo abbastanza per odiare la libertà; e mi contenterò di dirlo fieramente repubblicano, fanaticamente religioso, educato in convento per modo che tutte le meditazioni del pubblicista non valsero più a distruggere in lui il marchio del frate.

XI

Cogli scritti de' cinque autori, de' quali ho dato questi brevi cenni, la Biblioteca dell’Economista intende raccogliere insieme ciò che v’era di più importante e di complessivo ad un tempo, nell’Economia politica italiana del secolo XVIII. Prima, o allato a loro, si potrebbero ben collocare altri nomi di autori, i quali svolsero più o meno ampiamente qualcuno di que’ speciali argomenti che ora son parte integrale della scienza; e noi non mancheremo di tenerne il debito conto nelle serie speciali di cui sarà composta la nostra Raccolta. Ma per ottenere una piena cognizione del modo nel quale i pensatori italiani, contemporanei a Smith e Turgot, si formavano il concetto intero della scienza, né collegavano insieme le sparse membra, le assegnavano un fine. ed intendevano aprirle un campo di pratiche applicazioni, i libri di Genovesi, Verri, Beccaria, Filangieri, ed Ortes, bisognava che si offrissero riuniti: era tanto più indispensabile, che, dopo loro, l’Italia ha dato al mondo ben poco che servisse di titolo nuovo a sostituire gli antichi, ed è mestieri di spingersi fino a Gioja per rinvenire qualche cosa d’insieme, fra le molte monografie che non mancarono di ripercuotere qui l’eco de' rapidi passi che in questo mezzo secolo la scienza faceva sul continente.

Sono io pure di accordo co’ miei compatriotti che, pervenuti. come siamo, alla metà del secolo xix, a noi Italiani dev’essere lecito contemplare i nostri Economisti dello scorso secolo, e rallegrarci a vedere che non furono meno di quattro o cinque, in un periodo nel quale alla scuola francese, dopo essersi conosciuto e riverito Turgot, non rimangono forse che ripetitori d’una medesima idea, e nell’inglese se Smith è nome supremamente elevato, fu unico e per parecchi anni rimase nella solitudine dell’occulta sua gloria. Ci deve esser concesso di inorgoglire, se non di ciò che già fummo, di ciò che saremmo; e pensare che l’Italia avrebbe ella pure una scienza economica se, invece di essere collezione di territorii ed uomini senza vincoli e senza scopi, avesse, con l’unità della lingua e del nome, la forza, il movimento e lo slancio, per cui le nazioni si distinguono dalle frasi geografiche.

Ma un dovere c’incombe nell’accordare questo libero sfogo al sentimento dell’amor proprio nazionale: raffrenarlo ne’ suoi giusti confini, e guardarci dal convertirlo in una goffa superbia, che spinga a rider di noi le nazioni più disposte a rispettare le nostre glorie di ieri, e compiangere le nostre sventure di oggi.

Ed è tristo l’avere a ripetere -che questo dovere non fu sempre adempiuto. Si è troppo spesso credulo far atto di storico scopritore, o di profondo pubblicista, o fino di virtù cittadina, esagerando sino alla nausea il primato di tempo e di materia de' nostri scrittori; e non si è saputo conoscere che mentire ed inorpellare ad un popolo i suoi difetti è intorpidirlo, e che queste glorie mendicate e bugiarde passano e muoiono col libro che le propaghi e colla passione che lo abbia dettato.

Io dirò francamente di nuovo che non so e non intendo dividere con una gran parte de' miei compatriotti Italiani il freddo entusiasmo da cui figurano sempre ispirale quelle formole di convenuta ammirazione con le quali è uso oramai di accompagnare il nome d’ogni economista italiano; e dirò che, se alla Biblioteca dell’Economista si fosse assegnato uno scopo men vasto di quel che ebbe, nessuno forse degli autori che ora comprendiamo in questo volume vi sarebbe entrato, perchè nessuno de' loro libri rappresenta la somma né la qualità de' concetti che compongono la Scienza de' nostri tempi. Come dico, all’incontro, che son tutti degni di occupare un posto onorevole in una larga Collezione destinata ad offerire tutta la serie delle idee che, svolgendosi da un secolo in qua, son giunte a costituire questo nuovo ed importantissimo ramo dell’umano sapere.

De’ Smith, non ve n’era che un solo. V’era una turba di fisiocrati; e noi né abbiamo già dato la parte migliore, tentando di rilevare i punti che, in mezzo ai loro difetti, possono ancora costituire un titolo di gloria per essi. V’erano espositori o capiscuola moderni; e tutti son destinati ugualmente a prendere il loro luogo nella nostra Raccolta. V’erano in fine le opere di cinque pensatori italiani del secolo XVIII; e noi presentandole oggi ai nostri lettori non intendiamo mostrarci tanto digiuni della Scienza da darle per meno o più di quello che possali valere al giudizio d’una critica spassionata abbastanza, perchè né ci renda ingrati alla generazione che ci ha preceduti, né immoli il vero e la storia alla vanità nazionale.

Questo, io né dubito molto, non e probabilmente il linguaggio che più riesca gradito ad una parte de' miei concittadini: ma questa, se io non m’inganno, è la verità che si possa utilmente ricordare agli Italiani, da chiunque sia convinto, com’io lo sono, che in Italia le inveterate abitudini e le tirannie universitarie, lo sminuzzamento degli interessi politici, le coalizioni delle caste pretine, le persecuzioni del dispotismo, tutto ha cospirato e cospira ad impedire che questo ramo di studii si svolga abbastanza, per farsi alimento a quel pacifico e reale progresso, in difetto del quale non dobbiamo aspettarci che la ripetizione perpetua di quelle grandi catastrofi, di cui tanto più si assicura il ritorno, quanto meglio ci sembrino dominate da sagacità diplomatiche, o da cieche azioni di baionette. Qualunque si voglia che sia la nostra gloria passata, se n’è parlato abbastanza oramai, e qui potremmo arrestarci. Ciò che ora incombe a noi, cultori della Scienza: ciò che tocca ripetere ad alla voce e far penetrare ne’ segreti dell’amor proprio italiano, si è questo: l’Italia non ha capiscuola in Economia, ed affrettarsi a crearne è un bisogno, che, fino a quando non sarà soddisfatto, formerà una macchia sul nostro nome. Una parte degli ostacoli che vi pi oppongono, è ancora al di sopra di noi; ma nostro è il torpore e l’indifferenza, nostre le meschinerie e le rivalità di partito, nostra la vanità che si contenta di ricoprire colle memorie passate la nullità del presente.

Luglio, 1852.

GAETANO FILANGIERI

DELLE LEGGI POLITICHE ED ECONOMICHE

CAPO I

Delle leggi degli antichi, e particolarmente de' Greci e de' Romani, riguardo alla popolazione

Due sono gli oggetti delle leggi politiche ed economiche: la popolazione e le ricchezze. Senza uomini non vi è società, e senza mezzi di sussistenza non vi son uomini. Ognuno vede lo stretto rapporto di questi due oggetti tra loro. Io parlerò prima di ogni altro della popolazione. Fedele a ciò che ho promesso, io comincio questo libro dall’esporre colla maggior brevità ciò che si è pensato dagli antichi legislatori, e particolarmente dai Greci e dai Romani per incoraggire la popolazione. Ogni ragione di metodo richiede che prima di dire quel che si deve fare, si parli di quel che si è l’atto. Penetriamo dunque nell’antichità. Dimentichiamoci dei secoli che la dividono da noi, ed erigiamoci in censori di ciò che si è pensato, di ciò che si è operato presso le nazioni più colte per la moltiplicazione della specie.

Presso tutte le nazioni, in tutte l’età, in ogni specie di governo, i legislatori han veduto nella moltiplicità degli uomini un bisogno di prima necessità. Ecco perché la popolazione ha richiamata la prima loro cura, lo non parlo degli Ebrei. È troppo noto in quale abbominio era presso questo popolo il celibato e la sterilità. Era il rispetto per l’opinione pubblica che obbligava un Ebreo a riprodursi, era il timore dell'infamia che lo costringeva a secondare il volo della natura. In niuna nazione, dice il dotto Seldeno (92), il crescite et multiplicamini si è osservato con maggior religione quanto presso gli Ebrei. Noi leggiamo nelle sacre carte i rapidi progressi della loro popolazione (93). Le loro leggi emanate dalla Sapienza infinita potevano non essere le più ammirabili riguardo a quest’oggetto.

Ma lasciamo da parte il popolo d'Israele. Le sue leggi son troppo note per obbligarmi a rinnovarne in questo luogo la memoria. Vediamo quel che si è fatto presso le altre nazioni; cominciamo da' Persiani.

In ogni anno, dice Strabone, i re di questa fertile regione propongono premi a quei cittadini che daranno più figli allo Stato (94). Questo era, come si può vedere in Erodoto (95), il grande oggetto delle leggi di questa nazione. La loro religione istessa, le loro massime di morale, le loro opinioni, tutto contribuiva a questo fine comune. Uno de' dommi della religione de' Magi, che era la religione della Persia in quel tempo, insegnava che l’azione più grata alla divinità era di fare un figlio, di coltivare un campo, di piantar un arbore. Se l'abate di San Pietro avesse voluto creare una sella, non avrebbe sicuramente potuto predicare un domma più utile di questo.

Mi piace di rapportare qui il decimonono articolo del loro Sadder, che è il ristretto del celebre ed antico libro del Zenda-Vesta. Prendi una moglie nella tua gioventù; questo mondo non è che un passaggio, bisogna che il tuo figlio ti segua e che la catena degli esseri non sia interrotta. Qual miglior mezzo potevano adoperare i legislatori della Persia per incoraggire la popolazione, che di chiamare in soccorso la morale, i dommi e la religione? Ma se la religione dei Persiani era ammirabile per promuovere la popolazione, quella della maggior parte delle repubbliche della Grecia non lo erano meno.

In tutta la Grecia, dice Musonio, non si poteva essere celibe impunemente. Le leggi stabilivano mille premi pei padri di famiglia, e la sterilirà era punita nell’uno e nell’altro sesso (96). Siccome era un delitto il disporre della sua vita, cosi era un delitto il disporre della sua posterità. La legge vedeva egualmente nel suicida che nel celibe un uomo che abusava de' suoi diritti, un cattivo cittadino, un distruttore della società. Bisognava dunque allontanar l’uomo da questo delitto, bisognava animarlo alla virtù opposta. Ecco lo spirito di tutte quelle leggi greche relative al coniugio ed al celibato. La storia non ci ha tramandate che quelle degli Ateniesi e degli Spartani, che giova qui di riportare (97).

In Atene, dice Dinarco (98), né gli oratori né i comandanti dell’esercito potevano essere ammessi al governo della repubblica prima d’aver figli; ed in Sparta, per quel che ne dice Eliano (99), bastava aver tre figli per esser esente dall’obbligo di far la guardia, e bastava averne cinque per esser libero da tutti i pesi della repubblica. Più; siccome nell’una e nell’altra repubblica il celibato era punito, si introdussero alcune formole di accuse proprie per questo delitto. In Atene, dice Polluce, si chiamava l’accusa dell'agamia ossia del celibato, ed in Sparta all’accusa del celibato vi aggiunsero anche quella dell’opsigamia e della cacogamia,cioè di coloro che tardi prendevan moglie o che la prendevan male (100).

L’unione legittima dei due sessi era dunque un dovere presso gli Spartani, un dovere, che non bastava solo di soddisfare, ma che bisognava soddisfarlo bene ed in tempo opportuno. Tutti gli organi del corpo, quelli particolarmente della generazione, s’indeboliscono a misura che l’uomo invecchia. Il coniugio di due vecchi è inutile; ma quello di un vecchio con una giovane, o di un giovane con una vecchia è doppiamente pernicioso; perché nel primo caso si lascia incolto un campo che potrebb’essere coltivato, e nel secondo si perdono a fecondare un terreno sterile quelle acque che potrebbero essere con maggior profitto impiegate in un terreno più fertile. Queste riflessioni fecero che gli Spartani alle pene contro l’agamia aggiungessero anche quelle dell'opsigamia e della cacogamia, le quali altro oggetto non avevano che di provenir questi cd altri simili disordini, che la natura condanna, che il buon ordine civile non soffre e che le leggi debbono punire (101). Ma con quali pene erano puniti questi delitti? Le leggi ebbero ricorso all'infamia, rimedio il più opportuno per prevenire i delitti in una repubblica, nella quale i cittadini non hanno ancora imparato a disprezzare l’opinione pubblica. La pena de' celibi, dice Plutarco (102), era di essere esclusi dai giuochi gimnici, e di dover andar nudi nell’inverno per la piazza pubblica cantando un inno pieno di derisione per i celibi. Quella poi degli opsigami, cioè di coloro che tardi si ammogliavano, era per quel che ne dice Ateneo (103) di essere condotto in un giorno di solennità vicino all’ara, e di esser quivi battuti dalle donne. L'istoria non ci parla delle pene minacciate contro la cacogamia, ma è da presumersi che non erano meno oltraggiose.

Queste erano le leggi delle due repubbliche dominanti della Grecia per incoraggire la popolazione. Quelle delle altre repubbliche si sono perdute co’ secoli. È per altro da credersi che fossero foggiate sull’istesso piano. Molli fatti della storia ce lo fanno congetturare; uno fra gli altri rapportato da Diodoro Siculo ce lo fa vedere chiaramente. Nel mentre che Epaminonda generale de' Tebani, dice questo istorico, ferito da un colpo mortale era per morire, gli si fa innanzi Pelopida e gli dice: amico, tu muori cosi senza figli? No, rispose Epaminonda, io ne lascio due; la vittoria di Leuctri e quella di Mantinea sono i due figli che io lascio alla patria (104). Felice età, fortunata repubblica, dove la riproduzione è il primo dovere del cittadino, e dove un uomo che muore senza egli ha bisogno di due vittorie per lavare questa macchia! (105)

Dalla Grecia io passo finalmente a Boma. Io veggo presso questo popolo le leggi per promovere la popolazione incominciare con Roma istessa. lo veggo Romolo accordare le maggiori prerogative a' padri di famiglia, dare i maggiori diritti a' mariti sulle mogli (106) ed a' padri sui figli (107), ed incoraggire con questo mezzo la popolazione col soccorso dell’amore del potere, ch’è il gran principio di attività in tutti gli uomini ed in tutte le specie di governo. Io sento Augusto che dice nella sua aringa rapportala da Dione, che ne’ primi tempi della repubblica i re, il senato ed il popolo fecero di continuo regolamenti per determinare i cittadini al matrimonio (108). Io veggo Numa prendere le migliori misure, affinché la prostituzione inimica della popolazione non alignasse in Roma (109); io lo veggo andare in cerca dei mezzi per eccitar i figli ad ottener dai padri il permesso di ammogliarsi (110), e per allontanarli da' sediziosi piaceri della vaga Venere, che rendono insopportabile il matrimonio a coloro che han perduto il gusto a' piaceri dell’innocenza. Io veggo quindi nei tempi posteriori stabilita la censura, io veggo i censori scagliarsi di continuo contro il celibato e favorire la popolazione, io li veggo obbligare i celibi ad una pena pecuniaria chiamata la multa uxoria (111). Io leggo in Gellio un frammento di un’orazione di P. Scipione africano censore, dal quale si rileva con certezza, che la censura non si contentava solo di punire il celibato, ma accordava mille premi a quei cittadini che avevano somministrati figli alla repubblica (112). Io veggo i celibi esclusi dalla confidenza pubblica, e per conseguenza privi per legge del diritto di poter esser chiamati in testimonio (113).

Io veggo finalmente colla maggior maraviglia ne tempi posteriori l’abborrimento de' Romani pel matrimonio in mezzo a tante leggi che lo proteggevano e sotto gli occhi dei censori, che pareva che non avessero altro oggetto che di moltiplicare il numero dei coniugi. Ma a che servono gli urti quando gli ostacoli sono maggiori? A che servono le leggi quando i cittadini non sono in istato di profittarne? A che serve la censura quando la corruzione è universale? Noi sappiamo a qual eccesso era giunco il lusso delle donne romane, quale era la loro corruzione, qual era il fasto dei loro ornamenti e quanti erano i ministri della loro voluttà. L’istoria ci ha conservati i lussuosi nomi delle ornatrici, delle vestiplici, dei cinifloni, delle psecadi, delle tessitrici delle untrici e di tanti altri esseri fastosi che il lusso dei Romani rendeva un oggetto di prima necessità per le donne. Noi sappiamo i progressi, che aveva fatti l'incontinenza pubblica in Roma (114); la moltiplicità dei servi ci è nota; ci sono noli gli sforzi dell’Asia, dell'Africa e di tutte le provincie per rimpiazzare questa infelice classe di uomini, destinata ad essere l’istrumento, il pascolo e la vittima del lusso e dell’ozio dei Romani (115). Noi sappiamo che l'agricoltura languiva nell’Italia (116), che le campagne abbandonate intieramente da' cittadini liberi non erano abitate che da schiavi (117), e che la terra irrigata dal sudore di questi infelici aveva perduta sotto le loro mani servili la sua antica ubertà. Noi sappiamo che le civili discordie, che gli spaventi della tirannia, che i sospetti, i timori e le vendette dell’ambizione, che i contrasti sanguinosi del nascente dispotismo colla moribonda libertà involavano di continuo una porzione numerosa di cittadini alla patria e privavano l’altra di sicurezza e di tranquillità (118).

Che potevano produrre li deboli sforzi delle leggi contro l’azione distruttrice di tutte queste forze combinate? Ed infatti Cesare (119) ed Augusto, i quali vedevano che la popolazione s’indeboliva di continuo e che i matrimoni divenivano in ogni giorno più rari, vollero, senza per altro distruggere le cause, scemarne gli effetti, ed entrambi s’impegnarono a trovare nuovi urli per indurre i cittadini a quello appunto che essi più di ogni altro abborrivano, cioè a divenir padri e mariti.

Essi ristabilirono la censura, e vollero essere essi medesimi censori (120); ma se un censore può conservare i costumi di uno Stato, egli non può giammai ristabilirli. Essi fecero diversi regolamenti, ma tutti inutili. Cesare destinò varie ricompense a coloro che avevano molti figli (121). Egli proibì alle donne, che avevano meno di quarantacinque anni e che non avevano né marito né figli, di portar gioielli e di far uso delle lettighe (122), metodo eccellente, dice Montesquieu (123), di urlare il celibato col soccorso della vanità. Augusto fece anche di più. Egli impose nuove pene a coloro che non erano ammogliati, e accrebbe i premi per coloro che lo erano e che avevano figli. Ma queste leggi andavano troppo direttamente al loro scopo; esse incontrarono infatti mille ostacoli. Noi sappiamo che i cavalieri romani ne cercarono la rivocazione alcuni anni dopo (124). Questa oltraggiosa richiesta diede occasione a quella celebre aringa di Augusto rapportala da Dione (125), la quale spira dappertutto la gravità di un censore e lo stato deplorabile di una repubblica, che una lenta febbre insensibilmente consuma e distrugge. quest’aringa è lunghissima. Io non ne rapporto qui che le ultime parole. Dopo aver egli dimostrata la necessità della popolazione, dopo aver fatto vedere il bisogno che vi era de' matrimoni per supplire alla perdila di quei cittadini che la guerra, le malattie e le civili discordie toglievano alla patria, dopo aver attribuito alla loro corruzione l’abborrimento ch’essi avevano pel più dolce legame, dopo aver loro rinfacciali i premi ch’egli aveva destinato al matrimonio, dopo aver assicurato il suo amore a' padri di famiglia e la parzialità che avrebbe sempre per essi avuta nella distribuzione delle magistrature, si volge quindi a' celibi; egli fa vedere il suo imbarazzo nel sapere come debba chiamarli:

«Voi non siete uomini (dice loro), perché nessun segno di virilità apparisce in voi. Molto meno posso chiamarvi Romani, perché dal canto vostro voi fate i maggiori sforzi per distruggere la repubblica. Vi chiamerò io dunque omicidi, giacché voi private lo Stato di que’ cittadini che potreste generare? Vi chiamerò io empi, giacché disubbidite al voler dei numi? Vi chiamerò io sagrileghi, giacché soffrite di buon animo che le immagini e i nomi de' maggiori periscano? Vi chiamerò io perfidi, giacché cercate di desolare la patria e di privarla di abitatori? Ma tutti questi nomi non basterebbero per dichiararvi per quelli che infatti voi siete... Uscite dunque da questo stato se mi amate; e se non per adularmi ma per onorarmi mi avete dato il nome di padre, prendetevi una moglie, procreate de' figli; io avrò allora parte in questo benefizio che voi arrecherete alla patria, e mi renderò con questo mezzo degno di questo nome sublime (126)».

Cosi termina quest’aringa d’Augusto, dopo della quale egli emanò la celebre legge chiamata col suo nome Giulia e Papia Poppea dal nome de' consoli d’una parte di quell’anno. La grandezza del male compariva nella loro elezione istessa. Dione ci dice, ch'essi non erano ammogliali e che non avevano figli (127).

Io non intraprendo a commentare questa legge, né a rapportare i diversi capi de' quali ella è composta. Questa intrapresa mi strascinerehbe fuori del mio soggetto. Io rimando volentieri il lettore alla profondissima opera del celebre Eineccio, che ha illustrata questa legge col soccorso della più vasta erudizione che si possa desiderare (128). Mi contento solo di dire, che gli sforzi di Augusto furono inutili, e che i Romani seguitarono ad abborrire il matrimonio ed i figli come prima. Questo è quello che voleva dire Tacito, allorché parlando de' costumi dei Germani scrisse; Numerum liberorum inire, aut quemquam ex agnatis neutre flagitium habetur; plusquam ibi boni mores valent, quant alibi bonae leges (129). Non si può dubitare che Tacito in questo luogo voleva alludere al costume de' Romani, i quali per non incorrere nelle pene minacciate dalla legge Papia Poppea contro coloro che non avevano figli, si ammogliavano, e dopo aver procreato un solo figlio ripudiavano la loro moglie, o la facevano abortire subito che si avvedevano ch’ella aveva concepito. Essi avevano trovato questo infame rimedio per eludere quel capo della legge Papia Poppea, che proibiva a coloro che non erano ammogliati di ricevere cosa o per credita o per legato dagli estranei, e che non ne accordava che la metà a coloro ch’erano ammogliali ma che non avevano figli (130). Ecco perché Plutarco disse che i Romani si ammogliavano per essereredi, non già per aver eredi (131). I premi dunque e le pene stabilità da Augusto per incoraggire la popolazione non giovarono a Roma. Il male era superiore ai rimedi e gli ostacoli erano maggiori degli urti. I Germani, come l’abbiamo veduto nel luogo rapportato di Tacito, senza pene e senza premi vedevano nel matrimonio il primo dovere del cittadino, e nella procreazione de' figli il maggior beneficio del coniugio. I Romani al contrario, quantunque costretti dalle leggi, abborrivano l’uno e temevano gli altri (132).

Qual giudizio faremo dunque noi di queste leggi di Augusto? Furono esse le migliori? Non può mai dirsi buona una legge, quando non è atta a produrre l’effetto che il legislatore vuol conseguirne; e l'inutilità non è stata mai una circostanza indifferente per una legge. Che se il giudicare dagli effetti è un cattivo sistema, questa regola può aver luogo in tutt’altro,fuorché nella legislazione. Ecco perche dopo aver io esposto ciò che si è pensato dagli antichi legislatori per animare la popolazione, per giudicare quindi dello stato presente della legislazione riguardo a quest’oggetto, per vedere se le leggi presenti del l’Europa che riguardano la popolazione sieno le più proprie per accrescere il numero degli uomini, io ricorro agli effetti. Per formare dunque questo giudizio, io mi propongo d’esaminare se oggi l’Europa sia cosi popolata come potrebb’essere.

Questa ricerca, molto interessante per la scienza della legislazione, sarà l’oggetto del seguente capo.

CAPO II

Stato presente della popolazione dell'Europa

Io non entro qui ad esaminare la questione celebre agitata da tanti scrittori, se l’Europa sia stata in altri tempi molto più popolata di quel che oggi lo è. Malgrado il soccorso che presterebbe alle mie mire l’opinione di coloro che si son dichiarati in favore della maggior popolazione dell'antichità, nulladimeno la buona fede della quale io fo professione non mi permette di tradire il mio sentimento riguardo a quest’oggetto. Per poco che si faccia uso delta buona critica leggendo i loro scritti, si vedrà facilmente quanto sieno fallaci i dati sui quali essi appoggiano i loro calcoli chimerici. Quelli del Vossio e del Wallace ristuccano ogni lettore di buon senso. Se questi due scrittori quanto eruditi altrettanto poco filosofi e poco sinceri avessero ottenuta una procura ad defendendum dall'antichità,non avrebbero potuto dimenticarsi cosi vergognosamente di tutte le regole della critica, né tanto abusare dell’istoria come han fatto, mossi solo dallo spirito di sistema, e da quella mania cosi comune ai filologi ed agli oratori di far pompa dei loro talenti nell’intrapresa di una cattiva causa.

Dopo i lumi che il celebre Hume ha sparsi sopra questo soggetto (133), non è più da mettersi in dubbio che malgrado la diminuzione che ha ricevuta nel particolare la popolazione in alcune regioni dell’Europa, nulladimeno nel tutto essa è piuttosto cresciuta che diminuita.

Ma è essa nello stato, nel quale potrebbe e nel quale dovrebb’essere? Ecco un’altra questione molto più interessante della prima, molto più facile a risolversi, ma che ci conduce ad alcuni risultati pericolosi per chi l’enuncia ed umilianti per coloro che ne sono le cause.

L’indizio più sicuro dello stato della popolazione di un paese è senza dubbio Io stato della sua agricoltura (134). Se questa per esempio è molto lontana da quel grado di perfezione al quale avrebbe potuto pervenire, se una porzione del territorio di questo paese non è coltivata e l’altra pel difetto di coltura non produce quello che potrebbe produrre; se maremme micidiali che si sarebbero potute diseccare nascondono una parte del suo suolo, se molti boschi inutili non si sono recisi, se terreni ubertosi che potrebbero esser coperti di spiche sono per mancanza di coltura condannati ad offrire ad una languida pastura le loro erbe selvagge; se, in una parola, si osserva che gli abitanti di questo paese esigono dalla natura molto meno di quello ch’essa potrebbe offrire alla loro industria, senz’andare in cerca delle enumerazioni, de' calcoli e di altre vane congetture, si può asserire con certezza che la sua popolazione è molto indietro. Questa verità è cosi chiara e cosi evidente, che sarebbe una stranezza l’impegnarsi a dimostrarla. Stabiliamola dunque come un dato sicuro, e gittiamo quindi un'occhiata filosofica sullo stato dell’Europa.

Qual’è, io domando, quella nazione europea che possa gloriarsi d’aver portata, non dico al massimo grado di perfezione, ma alla semplice mediocrità la sua agricoltura? Qual’è quella, che non vegga una metà o una terza parte almeno de' suoi terreni o incolti o coperti da boschi inutili, o da acque ristagnate, o da pascoli superflui!? qual è quel popolo in Europa, che possa dire cogl’industriosi Cinesi:

«La terra che noi abitiamo è tutta impiegata a provvedere alla nostra sussistenza. Noi non dividiamo colle Cere i suoi prodotti preziosi; il riso ch’è il primo nostro alimento copre tutta la superficie del nostro vasto impero; le acque dei fiumi sono i piani sui quali noi innalziamo, quando ci è permesso, le nostre mobili abitazioni. Noi abbiam costruiti su di esse i nostri villaggi nuotanti, per non defraudare la coltura di quella porzione di terra che occuperebbero le case (135). Gli alberi, che altrove si ammucchiano gli uni su degli altri e che cuoprono i terreni più fertili, sono da noi con una savia economia distribuiti in quei luoghi che sarebbero disadatti ad ogni altra produzione. La terra, che in altre parti si lascia in ozio, è costretta dai nostri sforzi vigorosi a darci i suoi doni tre volte in ogni anno. La generosità della natura, in una parola, è proporzionata alla moltiplicità delle braccia che noi impieghiamo a soccorrerla».

Ahi, che molto lontano dal poter usare un simile linguaggio i popoli dell’Europa (se noi ne eccettuiamo qualche piccolo Stato dell’Italia e alcune poche repubbliche, il territorio delle quali è cosi piccolo che non si può mettere neppure a calcolo), noi non dobbiamo far altro che allontanarci dalle capitali dei nostri grandi Stati dove una gran consumazione anima la coltura delle vicine terre, per vedere a misura che da esse ci discostiamo lo spettacolo funesto della sterilità.

Lo stato dunque dell’agricoltura dell'Europa ci assicura dello stato infelice della sua popolazione.

Qual è la conseguenza che noi dobbiamo dedurre da questa riflessione? Noi dobbiamo dedurne che la legislazione è difettosa nell’Europa, giacché, come si è detto, in politica bisogna sempre dagli effetti giudicare del merito delle cause. Nel corso ordinario delle cose, la natura umana tende a moltiplicarsi prodigiosamente. Sempre che un uomo ha di che alimentare senza stento una moglie ed una famiglia, egli seconda il volo della natura. Il piacere di perpetuarsi nella sua posterità e la condizione delle nozze è cosi seducente, che a meno che non vi sia l’impossibilità di supplirne ai bisogni ogni cittadino vi viene guidato dalla medesima natura. Questa è una verità che alcune mani maestre han dimostrala fino all’evidenza (136), e che l’esperienza di tutti i secoli ha resa incontrastabile. In ogni Stato dunque, ove senza uno straordinario flagello del cielo la popolazione non si aumenta o si aumenta lentamente, cioè non colla proporzione della naturale fecondità, convien dire che vi sia tanto difetto di politica quanta è la distanza da quel che è a quel che potrebb’essere (137). Che si paragoni nell’Europa il numero degli ammogliati col numero de' celibi, e si giudichi quindi da questo solo calcolo quali siano i difetti della nostra politica e i vizi distruttori della presente legislazione. I nostri legislatori han conosciuto il male; ma ne hanno essi conosciute le cause, ne hanno essi trovali i rimedi? Che si è fatto finora, che si fa tuttavia per curarlo? Quello che fa un medico, allorché non conoscendo la causa del male vuole impedirne gli effetti. Si stabiliscono alcuni premi al matrimonio ed alla paternità, si danno alcune tenui esenzioni a quei cittadini che han dato un certo numero di figli allo Stato, si privano di alcune prerogative i celibi, e si lasciano intanto sussistere gli ostacoli che impediscono alla maggior parte degli uomini di prendere una moglie e di divenir padri. Questo è l'istesso che innaffiare il terreno senza seminarlo.

Togliete gli ostacoli, e non vi curale degli urti e de' premi. La natura ha dato un sufficiente premio al matrimonio per aver bisogno di altri soccorsi. Che il principe, dice Plinio, non dia niente, ma che non tolga niente; ch’egli non nudrisca, ma che non uccida, ed i figli nasceranno dappertutto (138). Invece dunque di pensare a' premi, alle ricompense, agli urti, la scienza della legislazione deve rivolgersi agli ostacoli. Essa deve esaminare quali sono gl'impedimenti che si oppongono ai progressi della popolazione, e quali sono i mezzi che si debbono impiegare per toglierli o per superarli. A questi due oggetti si deve ridurre tutta quella parte di questa scienza che riguarda la moltiplicazione della specie. Per andar con ordine in questa ricerca premettiamo qui un principio generale, che è stato adottato come un assioma da tutti gli scrittori economici e politici del secolo: Tutto quello che tende a render difficile la sussistenza, tende a diminuire la popolazione.


vai su

CAPO III

Piccolo numero di proprietarii, immenso numero di non proprietarii: primo ostacolo alla popolazione (139)

La proprietà è quella che genera il cittadino, ed il suolo è quello che lo unisce alla patria. Un cittadino, che vive alla giornata, abborrisce il matrimonio perché terne i figli. Un proprietario desidera l’uno e gli altri; ogni nuovo braccio è per lui un beneficio della Provvidenza, e la dolce speranza di acquistare un soccorso per la sua vecchiezza ed un erede della sua proprietà eccita in lui vivo desiderio di procreare una robusta prole. Ci vorrebbe poco per dimostrare coll’istoria di tutte le nazioni e coll'esperienza di tutti i secoli questa verità; ma io non voglio allontanarmi da' principii che si sono premessi. Si è detto che tutto quello che tende a render più difficile la sussistenza, tende anche a diminuire la popolazione. Or il piccolo numero de' possessori e l'immenso numero de' non possessori deve necessariamente produrre questo effetto: io lo dimostro.

Osservate lo stato di tutte le nazioni, leggete il gran libro delle società, voi le troverete divise in due partiti irreconciliabili; i proprietarii e i non proprietarii, o sia i mercenarii; sono queste due classi di cittadini infelicemente inimiche tra loro. Invano i moralisti han cercato di stabilire un trattato di pace fra queste due condizioni diverse; il proprietario cercherà sempre di comprare dal mercenario la sua opera al minor prezzo possibile, e questi cercherà sempre di vendergliela al maggior prezzo che può. In questo negoziato quale delle due classi soccomberà? Questo è evidente: la più numerosa. E qual’è la più numerosa? Per la disgrazia comune dell’Europa, per un difetto enorme di legislazione, la classe de' proprietarii non è che infinitamente piccola relativamente a quella de' mercenarii. Or da questa funesta sproporzione deriva il difetto della sussistenza nella maggior parte de' cittadini, che son quelli che compongono la classe de' mercenarii. La concorrenza, che nasce dalla loro moltitudine, deve necessariamente avvilire il prezzo delle loro opere. Essa l’avvilisce infatti. Quindici o al più venti grana sono il prezzo ordinario col quale si paga presso di noi il lavoro di un giorno intiero di un agricoltore, il quale non trova a lavorare che in alcuni mesi dell’anno. Questo prezzo si può sicuramente scemare di un terzo, perché per lo meno in una terza parte dell’anno egli non trova da impiegare le sue braccia. Andate ora a supplire a' bisogni di una famiglia con dieci o dodici soldi per giorno.

Ecco la causa della miseria della maggior parle, ecco il difetto della sussistenza nella classe de' non proprietarii, ecco quello che toglie alla maggior parte de' cittadini il desiderio, la speranza e i mezzi di riprodursi col soccorso di un legame incompatibile colla miseria, e funesto allorché la produce e l’accresce.

Che non mi si opponga, io prego, il fatto e l’esperienza. È la facilita di parlare e l’impotenza d’esaminare, dice Montesquieu, che han fatto dire ad alcuni che più i cittadini sono poveri in uno Stato più le famiglie sono numerose. Coloro che non hanno assolutamente niente, come i mendicanti, hanno molti figli: io lo concedo. Ma questo deriva, perché essi sono nel caso de' popoli nascenti; non costa niente. al padre d’insegnare la sua arte a' suoi figli, i quali nascendo sono gl’istrumenti di quest’arte istessa. Ma coloro che non sono poveri se non perché privi di proprietà, e che dall’opera delle loro mani avvilila dalla concorrenza non ritraggono quello che si richiede pel mantenimento di una famiglia, daranno pochi figli allo Stato. Essi non hanno neppure il loro nudrimento, come potrebbero pensare a dividerlo? Essi non posson curarsi nelle loro malattie, come potrebbero mai allevare i loro fanciulli che sono in una malattia perpetua, qual è l’infanzia?

Abbandonate le capitali, dirà taluni, penetrate nell’interno delle provincie, osservate i paesi soggetti al dominio feudale, dove per lo più il barone è il solo proprietario de' terreni; voi vedrete in questi la maggior parte degli uomini costretti a ripetere la loro sussistenza da una tenue e giornaliera mercede, che li condanna alla più spaventevole miseria. Voi vedrete l’indigenza dipinta nel loro volto, voi la vedrete nel loro letto istesso; ma voi troverete rare volle questo letto riscaldato da un solo. Ciascheduno di questi infelici vuol avere una compagna alle sue pene, e cerca di compensare cogl’innocenti piaceri della natura l’irritante molestia della sua miseria. Ma io domando a quest’ostinato partigiano della povertà: se i matrimonii fossero in questi paesi cosi frequenti, non dovrebbe forse la loro popolazione crescere in ogni giorno? Da che deriva, che a misura che noi ci allontaniamo dalle capitali troviamo la desolazione nelle campagne? Da che deriva, che la loro popolazione invece di crescere si vede sensibilmente diminuire? Bisogna dunque dire o che il fatto non è vero, o che i figli che nascono da questi infelici coniugi periscono nell'aurora istessa de' loro giorni, o che il germe fecondatore è sterile allorché è inaridito dalla miseria.

Ritorniamo adunque al nostro assunto. Io credo di aver bastantemente dimostrato come il piccolo numero de' proprietarii e l’immenso numero de' non proprietarii, e come la grande sproporzione che nell'Europa si osserva fra queste due classi di cittadini, deve necessariamente produrre nella più numerosa il difetto della sussistenza, e per conseguenza della popolazione. Vediamo ora quel che si è pensato da' legislatori più celebri per prevenire questo male, vediamo quello che converrebbe oggi di fare.

Tutte le società han cominciato dalla distribuzione delle terre. Le leggi agrarie sono state sempre le prime leggi de' popoli nascenti. Il primo oggetto di queste leggi è stato d’assegnare a ciaschedun cittadino un’egual porzione di terreno; il secondo è stato di procurare che questa distribuzione ricevesse la minore possibile alterazione. Per ottener questo fine Moisè ordinò la restituzione de' fondi in ciaschedun anno del giubileo (140); un ebreo non poteva spogliarsi della sua proprietà in perpetuum; la vendita de' fondi non poteva farsi che ad tempus. L’anno del giubileo era il termine di questo tempo, che la legge non permetteva di oltrepassare. Il compratore era allora obbligalo di restituire il fondo al venditore o alla sua famiglia. Questa legge si estendeva anche a tutte le specie di donazioni che riguardavano i fondi. Di questo mezzo si servi Moisè per impedire che il numero de' non proprietarii crescesse molto nella sua nazione, e che le sostanze di molti si riunissero nelle mani di pochi.

Non si può dubitare che quest’istesso fosse l’oggetto di quelle leggi degli Ateniesi che proibivano a' cittadini di testare (141), che prescrivevano che l’eredità paterna si dividesse per uguali porzioni tra i figli (142), che non permettevano all’istessa persona di succedere a due credita (143), che permettevano di sposare la sorella consanguinea e non l’ulcrina (144); e che obbligavano il più prossimo parente per parte di padre a sposare l’ereditiera (145).

Licurgo fece anche di più. Egli proibì le doli, egli volle che tutti i figli partecipassero egualmente alla porzione del loro padre, e che i beni di colui che moriva senza figli si distribuissero a coloro che ne avevano più (146).

I Germani, per quel che ce ne dice Tacito, distrussero sino la proprietà per moltiplicare il numero de' possessori de' fondi. La nazione, che era l’unico proprietario perpetuo di questi fondi, li distribuiva in ogni anno a' padri di famiglia. La ripartizione si ripeteva in ogni anno per proporzionarla al numero de' cittadini che poteva crescere o diminuire, ed all’estensione del territorio che per i popoli guerrieri è soggetto alle giornaliere vicende (147).

Io veggo finalmente l’istesso oggetto nelle leggi che riguardavano le successioni nei primi tempi di Roma. I primi legislatori di questo popolo conobbero il bisogno che vi era di moltiplicare in una nazione il numero de' proprietarii e di conservarlo. Per ottenere il primo fine essi assegnarono a ciaschedun cittadino una porzion di terra, per ottenere il secondo essi ne regolarono le successioni. Essi vollero che non vi fossero che due specie di eredi stabiliti dalla legge: i figli e tutti i discendenti che vivevano sotto la patria potestà che si chiamavano eredi suoi ed in mancanza di questi i più stretti parenti per parte di maschio che si chiamavano agnati (148). I cognati o sia parenti per parte di femmina non potevano succedere, perché questi avrebbero trasportati i beni in un’altra famiglia.

Per l’istessa ragione la legge non permetteva a' figli di succedere alle madri, né alle madri di succedere a' figli. I beni della madre andavano agli agnati della madre, e i beni de' figli andavano agli agnati de' figli (149). Per l’istessa ragione finalmente i nipoti per parte di figlio succedevano all’avo, e i nipoti per parte di figlia non gli succedevano (150). Questo sembrerà forse strano. Ma l’utilità pubblica era l’unico oggetto della legge, e l’utilità pubblica richiedeva che la proprietà restasse nelle famiglie e che il numero de' proprietarii non si diminuisse (151).

Per moltiplicarlo poi furono fatte le leggi agrarie. Si sa che queste regolavano la distribuzione delle terre de' vinti. Una metà era venduta in beneficio della repubblica, e l’altra metà la legge voleva che si distribuisse a' più poveri cittadini.

Questo è quello che si è pensato da' primi legislatori degli uomini, per impedire che il numero de' non proprietarii si moltiplicasse troppo in una nazione. Ma questi rimedi sono utili per prevenire il male, ma non giovano allorché il male è di già fatto. La restituzione per esempio de' Fondi prescritta da Moisè, nello stato presente delle cose, invece di diminuire il numero de' non proprietarii l’accrescerebbe. Oggi che tutt'i fondi sono in mano di pochi, se si togliesse a questi la libertà di alienarli si metterebbe il suggello al male. Le circostanze sono diverse, diversi debbono dunque essere i rimedi. Ricordiamoci di quel che si è detto altrove; la bontà delle leggi è una bontà di rapporto; l’oggetto di questo rapporto è lo stato della nazione. Lo stato presente delle nazioni dell'Europa è che il tutto si ritrova fra le mani di pochi; bisogna fare che il tutto sia fra le mani di molti. Ecco a che deve dirigersi il rimedio che si desidera. La ricerca di questo rimedio sarà l’oggetto del seguente capo, dove considerandosi i gran proprietarii come un ostacolo alla popolazione, io andrò in cerca di tutte quelle cause che concorrono a far crescere nell'Europa il numero di questi, e che perpetuando i beni nelle loro mani conserveranno per sempre questa funesta sproporzione fra la classe de' proprietarii e quella de' non proprietarii, che come si è dimostrato è la rovina della popolazione.

CAPO IV

Molti gran proprietarii, pochi proprietarii piccoli secondo ostacolo alla popolazione

Quest'ostacolo è una conseguenza dell’antecedente.

Quando in una nazione vi sono molti gran proprietarii e pochi proprietarii piccoli, bisogna che vi sieno molti non proprietarii. Gli spazi non sono infiniti. La gran proprietà di un solo suppone il difetto di proprietà di molti; non altrimenti che ne’ paesi ove la poligamia ha luogo, e dove il numero delle femmine non è maggiore di quello degli uomini, un uomo che ha dieci mogli suppone nove celibi. I gran proprietarii moltiplicando dunque la somma de' non proprietarii, debbono in vigore delle promesse essere un ostacolo alla popolazione (152).

Ma non è colla sola diminuzione de' proprietarii, che questi gran proprietarii impediscono i progressi della popolazione. Essi la ritardano maggiormente coll’abuso che fanno de' terreni. Se in vigore de' principii che si sono premessi la popolazione cresce a misura che si moltiplica la sussistenza, se due moggia di terra tolte alla coltura tolgono forse una famiglia allo Stato, qual vuoto non debbono lasciare nella generazione tutti quei boschi immensi che questi gran proprietarii sacrificano alla caccia e tutte quelle vitle superbe e fastose, la veduta delle quali destinata a sollevare lo spellatore ozioso sembra interdetta al popolo e nascosta a' suoi occhi, come se si temesse di mostrargli un furto fatto alla sua sussistenza? No, non è Ira le mani di costoro che l’agricoltura si perfeziona, non sono questi pochi felici circondati da uno stuolo immenso di miseri che compongono la felicità nazionale, non sono i gran proprietarii quelli che costituiscono la ricchezza di una nazione. L’ agio comune della maggior parte de' cittadini, il ben essere della maggior parte delle famiglie, è il vero barometro della prosperità d’uno Stato e l'unico veicolo della fecondità. In questo sublime equilibrio, in questa mediocrità di fortune i Greci e i Romani de' primi secoli trovarono il germe della generazione. E un cattivo cittadino, diceva Curio, colui che riguarda come piccola una porzione di terra che basta per alimentare un uomo.

Come dunque moltiplicare il numero de' piccoli proprietarii, come smembrare oggi queste gran masse, alle quali il tempo ha fatto acquistare una consistenza che le rende più pesanti a' popoli che ne sono oppressi? qual rimedio a questo male? Si dovrà forse far uso di quello che ci additò Tarquinio, tagliando colla sua canna i papaveri più alli del suo giardino? A Dio non piaccia che io voglia qui proporre un rimedio peggiore del male. Io avrei perduto invano il mio tempo se ardissi di predicare la tirannia, e se avessi la stupida presunzione di render gli uomini più felici colle massime di un despota. Si può rimediare a questo male senza ledere i dritti di alcuno; vi si può anzi rimediare moltiplicandoli e rendendoli più giusti e più sacri. Togliete prima d’ogni altro le primogeniture, togliete i fidecommessi. Sono queste la causa delle ricchezze esorbitanti di pochi e della miseria della maggior parte. Sono le primogeniture che sacrificano molti cadetti al primogenito d’una famiglia, sono le sostituzioni che sacrificano molte famiglie ad una sola. L’una e l’altra diminuiscono all'infinito il numero de' proprietarii nelle nazioni dell’Europa, e l’una e l’altra sono oggi la rovina della popolazione.

Quanti disordini nascono da un istesso principio! Quanti mali derivano da una sola legge ingiusta e parziale! Un padre, che non può avere che un solo figlio che sia ricco, vorrebbe non averne che un solo. Egli vede negli altri tanti pesi per la sua famiglia. L’infelicità d’una casa si calcola dalla moltiplicità de' figli. Il voto della natura si crede soddisfatto subito che si ottiene un crede. I sacri vincoli del sangue sono rolli dall’interesse. I fratelli, privali da un altro fratello del comodo che godevano nella casa paterna, non veggono in lui che un usurpatore che li opprime e li spoglia di un bene al quale essi avevano un dritto comune. Costretti a mutilarsi, essi maledicono il momento che gli ha veduti nascere e la legge che li degrada.

Tanti cadetti privi di proprietà, e per conseguenza del dritto di ammogliarsi, obbligano altrettante fanciulle a rimaner celibi. Prive di uno sposo, costrette da' padri, queste infelici sono spesse volte loro malgrado obbligate a chiudersi in un chiostro, dove col loro corpo esse seppelliscono per sempre la loro posterità.

I nostri posteri saranno sorpresi nell'osservare una contraddizione cosi grande tra la maniera di pensare de' nostri politici e le loro leggi, tra le massime colle quali si dirigono i nostri governi e le determinazioni de' loro codici. Uno spirito d’antimonachismo è penetralo in tutti i gabinetti dell’Europa. La diminuzione di questi asili del celibato e della sterilità è divenuto uno degli oggetti più serii dell'amministrazione. Il ministre vede dappertutto con dispiacere il vuoto che lascia nella generazione il monachismo de' duc sessi. Egli fa i maggiori sforzi per ristringerlo, ma lascia nel tempo istesso aperta la sorgente che lo alimenta. I chiostri racchiuderebbero forse tanti frati e tante vergini, se in una gran porzione delle famiglie dello Stato non fosse il solo primo a nascere destinato al coniugio? Senza i maggiorali la religione vedrebbe forse fra' suoi ministri e tra le sue vestali tante vittime della disperazione? Ed i chiostri senza questa barbara istituzione, racchiudendo meno uomini e meno schiavi, non racchiuderebbero forse più virtuosi?

Queste sono le funeste conseguenze delle primogeniture, oggi rese altrettanto più micidiali quanto che sono più frequenti. Non vi è cittadino che abbia tre o quattrocento scudi di rendila che non istituisca un maggiorato. Egli crede di nobilitare la sua famiglia con un'ingiustizia autorizzata dalla legge e dal costume de' grandi. Il numero de non proprietarii si aumenta intanto sempre di più; le sostanze si riuniscono sempre più nelle mani di pochi, e quelle istesse leggi che sostengono le primogeniture e le sostituzioni, credono di poter incoraggire la popolazione con una tenue esenzione accordata alla onustà de padri. Esse formano un vulcano, e pretendono quindi d’impedirne le eruzioni con un argine di vetro. Esse mutilano la maggior parte de' cittadini, e pretendono quindi di moltiplicarne il numero col dispensare da' pesi della società un padre che ha dodici figli. Misera imbecillità degli uomini e de' legislatori, tu sei più funesta della peste istessa, perché le sue stragi non fanno che accelerare la morte degli uomini, ma le tue gli impediscono di nascere e ne rendono meno sensibile la perdita!

Il primo passo dunque che dovrebbe darsi per moltiplicare il numero de proprietarii, e per smembrare queste gran masse che innalzano la grandezza di pochi su la rovina di molti, sarebbe d’abolire le primogeniture ed i fidecommessi, che paiono due istituzioni fatte espressamente per diminuire nell'Europa il numero de' proprietarii e degli uomini.

Un’altra legge converrebbe abolire presso di noi. Questa è quella che preferisce nella successione de feudi la figlia del primogenito a' suoi fratelli. Questa legge dettata dalla passione e dall’amore d’una voluttuosa regina, questa legge che trasporta i beni da una casa in un’altra e che impoverisce un fratello per arricchire un estraneo, questa legge è quella che ha cagionata la rovina della famiglia dell'autore e che ne porta il nome.

Questa è la prammatica Filangeria (153). La legge Voconia proibiva d’istituire per erede una donna (154), e noi che abbiamo adottati gli errori istessi della romana giurisprudenza ci siamo poi tanto allontanati da questi suoi più antichi principii, che abbiamo in alcuni casi preferite le femmine agli uomini. Io mi taccio sopra quest’oggetto, perche temerei d’abusare del sacro ministero che mi dà la filosofia, rendendola l’istrumento d’una vendetta inutile o di vanità puerile. Mi contento solo di dire, che fra le cause che concorrono ad impedire tra noi la moltiplicazione de' proprietarii, questo barbaro stabilimento non deve aver l’ultimo luogo. Non minore è l’ostacolo che vi oppone la proibizione d’alienare i fondi feudali.

Se il sistema de' feudi potesse mai combinarsi colla prosperità de' popoli, colla ricchezza degli Stati, colla libertà degli uomini, questa sola istituzione basterebbe per renderlo pernicioso e funesto. Un supposto interesse del principe fa che resti immutabilmente segregala dalla circolazione de' contratti una gran porzione del territorio dello Stato. Tutto quello che è terreno feudale non si può né vendere, né dare a censo perpetuo, né alienare. Questi sono per lo più terreni oziosi che potrebbero dare un gran prodotto allo Stato, se la legge che proibisce l’alienazione de' fondi feudali non li privasse di quella coltura che è sempre languida, che non può mai essere attiva quando non è unita ai preziosi dritti della proprietà. Molti terreni incolli sarebbero coltivati, molte braccia mercenarie diverrebbero proprietarie, se il fisco abolendo questa legge perniciosa facesse all’utilità pubblica un tenue sacrifizio, del quale egli sarebbe il primo a risentirne i vantaggi. Se nella devoluzione de' feudi egli perderebbe come uno, egli guadagnerebbe come cento ne’ progressi della popolazione e dell’agricoltura, sempre relativi ai progressi della proprietà.

Finalmente i fondi demaniali, questi fondi che essendo comuni non sono di alcuno, non lasciano di diminuire il numero de' proprietarii in quelle nazioni, nelle quali quest’avanzo dell'antico spirito di pastura che spira a traverso delle nostre barbare leggi sussiste ancora, malgrado l’evidenza de' disordini che questa fatale istituzione cagiona. Noi ne parleremo da qui a poco, esaminando gli ostacoli che si oppongono ai progressi dell’agricoltura. Ma oltre le sostituzioni e i maggiorati, oltre i demanii, oltre la vietata alienazione de' fondi feudali, oltre la legge che preferisce nella successione de' feudi la figlia del primogenito a' suoi fratelli, che non so se sia stata molto adottata dalle altre nazioni, vi è un’altra causa quasi universale nell’Europa che diminuisce il numero de' proprietarii e che più di tutte le altre diminuisce quello degli uomini. Di questa si parlerà nel seguente capo.


vai su

CAPO V

Ricchezze esorbitanti ed inalienabili degli ecclesiastici: terzo ostacolo alla popolazione

I primi sacrifizii degli uomini, dice Porfirio, non furono che d’erba. Il padre riuniva i suoi figli in mezzo d’una campagna per rendere alla Divinità quest’omaggio. Non vi erano allora né templi né altari. L’aperta campagna era il tempio, poche zolle di terra ammucchiate erano l’ara, ed un fascio di spighe o poche frutta erano l'olocausto che l’uomo offeriva all’autore della natura. Per un culto cosi semplice ciascheduno poteva esser pontefice nella sua famiglia.

Il desiderio naturale di piacere alla Divinità moltiplicò quindi le cerimonie. L’agricoltore non potè più allora esser sacerdote. Si consecrarono alla Divinità alcuni luoghi particolari, bisogno che vi fossero alcuni ministri destinati a prenderne cura, e l’attenzione continua che richiedeva il loro ministero obbligo la maggior parte de' popoli a fare del sacerdozio un corpo separato. Questo corpo alienato da tutte le occupazioni domestiche bisognava che fosse nudrito a spese della società. Gli Egizii, i Persiani, gli Ebrei, i Greci e i Romani assegnarono alcune rendite al sacerdozio (155). Ma presso niuna religione questa giusta obbligazione di alimentare i ministri dell’altare fu trasportata più in là quanto nella nostra, che è la più aliena dall’avidità e dall'interesse. La divozione diede il primo passo, il fanatismo lo distese quindi a dismisura. Si disse da principio che coloro che servivano l'altare dovevano vivere a spese dell’altare, e questo era giusto. Ma i sacerdoti non contenti di questo cominciarono quindi a predicare, che la religione che viveva di sagrifizii esigeva prima d’ogni altro quello de' beni e delle ricchezze (156). Questa massima proferita in mezzo all'ignoranza, ed in un tempo nel quale tutti i semi della ragione erano estinti e una gran parte de' principii della morale erano corrotti, fece la più grande impressione. I nobili, che avevano concentrate nelle loro mani tutte le proprietà, cominciarono a disporne in favore de' preti e de' monaci. I re stessi diedero al clericato quello che avevano usurpato ai popoli (157). Esenti da tutte le cariche della società, dispensati da tutti i tributi, arricchiti a vicenda dalle donazioni e dalle offerte, essi divennero per cosi dire i soli proprietarii dell’Europa.

Squarciato finalmente il velo della superstizione, dissipate le tenebre dell'ignoranza, combattuti gli errori del fanatismo, gli uomini si sono avveduti che fra i dommi della nostra santa religione non vi è stato mai quello d’arricchire i ministri. Ma il male era di già fatto; e se le offerte sono mancate, la maggior parte delle proprietà è tuttavia rimasta Ira le mani di una società che non può perire né disporne. Basta scorrere per le campagne, per vedere che due terze parti de' fondi sono tra le mani degli ecclesiastici.

In questo stato di cose come potrà mai fiorire la popolazione nello Stato, giacché i progressi di questa derivano dalla moltiplicazione de' proprietarii? Se i fidecommessi e i maggiorati sono contrarii alla popolazione perché ristringono il numero de' proprietarii, qual ostacolo non vi deve opporre questo fatal disordine che fa di quasi tutta l’Europa il patrimonio d’una sola famiglia? Se i progressi della popolazione (come l’abbiam detto) sono relativi a' progressi dell’agricoltura, come potrà mai questa fiorire Ira le mani di un beneficiato che non pub avere alcun interesse nel migliorare un fondo che non può trasmettere ad alcuno, né a seminare o piantare per una posterità che non gli appartiene? Come migliorerà mai l’agricoltura tra le mani di uno, che invece d’impiegare una porzione delle sue rendite per migliorare il suo fondo, arrischierà piuttosto di deteriorare il suo benefizio per aumentare quelle rendite che non sono per lui che passaggiere? Queste funeste conseguenze degli esorbitanti ed inalienabili dominii degli ecclesiastici si sono finalmente mostrale a' governi con tutta la loro deformità. La filosofia ha parlato in favore degli uomini, e la sua voce è penetrala lino ai troni. Essa ha aperti i santi libri della religione istessa, e vi ha trovale le armi per difendere la felicità de' popoli contro l’avidità de' suoi ministri. Dappertutto si è cercalo di urtare contro questo abuso. Molle leggi si sono emanate riguardo a quest’oggetto. Lo scopo di queste leggi è stato di oppilare quella sorgente perenne che portava tutte le acque in questo fonte immenso, dove per mancanza di scolo si putrefanno e marciscono. I nuovi acquisti sono stati proibiti agli ecclesiastici. I testamenti han lasciato di essere le miniere del sacerdozio. Un padre che muore non ha più il barbaro dritto di placare la Divinità con un legalo, che trasmette ad un convento di frati una porzione di quelle sostanze, delle quali egli non può più godere e sulle quali i suoi figli hanno già acquistato un dritto. Ma funestamente i governi non si sono impegnali finora che ad impedire i progressi del male. Il disordine, se non può più ingrandirsi, è restato per altro in tutta la sua antica estensione. Se le loro cure si fossero dirette alla radice dell’albero, essi avrebbero estirpata la pianta con maggior facilita e con minore strepito. Disordini infiniti, conseguenze necessarie di tutti i rimedii palliativi, si sarebbero risparmiali; le calunnie della superstiziose, gli scandali dell'ignoranza e i clamori del sacerdozio si sarebbero con ugual gloria prevenuti; i fondi immensi, che esso possedeva e che sono tuttavia tra le sue mani immortali, sarebbero già rientrati nella circolazione de' contratti; e questa classe di uomini, cosi necessaria allo Stato e cosi degna di esigere il rispetto del governo, sarebbe stata la prima ad applaudire alla vigilanza delle leggi, quando la riforma fosse caduta sulla natura delle sue rendite e non sulla sola proibizione di aumentarle.

Il rigore del metodo mi obbliga a lasciare qui sospesa la curiosità del lettore sulla scella de' mezzi, coi quali si dovrebbe perfezionare quest'intrapresa. Dal piano che ho premesso si può vedere, che il luogo opportuno per sviluppare queste mie idee sarà il quinto libro di quest’opera, dove si parlerà delle leggi che riguardano la religione, e dove distinguendo sempre questa dall’abuso che se n’è fatto non mi dimenticherò mai del rispetto che si deve all'altare ed a' suoi ministri. Mi basta di aver qui considerato lo stato presente delle ricchezze degli ecclesiastici come uno de' più forti ostacoli alla popolazione. Ma che deve dirsi del loro celibato?

Si è troppo parlato in questi ultimi tempi di cotesta pratica della nostra religione, per poterla qui passare sotto silenzio. Tutti i moderni politici si sono scagliati contro il celibato de' preti, e molti hanno attribuito a questa sola causa la spopolazione presenta dell’Europa.

Per me io ardisco di dire che sono di contraria opinione. lo credo che se il numero de' preti fosse cosi ristretto, come dovrebbe essere, il piccolissimo vuoto che il loro celibato lascerebbe negli spazi della generazione non sarebbe da paragonarsi col disordine che produrrebbe ogni novità in questo genere di cose. Non sarebbe poi questa la prima volta, che la popolazione ha fiorito in uno Stato in mezzo al celibato del sacerdozio.

La Frigia è stata senza dubbio molto più popolata, di quel che oggi è, nel tempo che i sacerdoti di Cibele erano eunuchi; e la Siria non lascio di essere un paese popolatissimo, nel mentre che i suoi sacerdoti si mutilavano ed ardivano spogliarsi della loro virilità, in un paese dove si adorava la figura di quello che noi chiamiamo Priapo.Non vi sono forse un milione di Bonzi consecrati al celibato nella Cina? Eppure la Cina sola è più popolata di tutta l’Europa.

Non distogliamo dunque i ministri dell’altare dai sacrifizio che essi offrono all’Altissimo di quel che ci è di più caro; permettiamo loro di rinunziare a' più vivi piaceri della natura, per accostarsi alla mensa del Signore colle mani meno imbrattate e collo spirito più puro. Facciamo che la riforma venga piuttosto a cadere sui loro numero e più di ogni altro sulle loro ricchezze. Questo è il vero ostacolo che il sacerdozio oppone oggi a' progressi della popolazione in quasi tutta l’Europa, e questo è quello che si deve estirpare.

I nostri augusti legislatori han conosciuta questa verità. Essi perfezioneranno, io spero, la riforma che han cominciata; ma dopo di aver riformato il sacerdozio, o per meglio dire la natura delle sue rendite, resta ad essi ancor molto da fare. Essi debbono riformare loro stessi, se vogliono che la popolazione fiorisca ne' loro dominii. Lo stato presente delle ricchezze e de' dominii del sacerdozio la fan languire, l’impediscono di prosperare; ma i tributi eccessivi, i dazii insopportabili, la violenza colla quale si esigono, la distruggono, l’annientiscono.

CAPO VI

Tributi eccessivi, dazii insopportabili, maniera violenta d'esigerli: quarto ostacolo alla popolazione (158)

Siccome la società ha i suoi vantaggi, ai quali ciascheduno de' suoi membri deve partecipare, cosi ella ha i suoi pesi a' quali è giusto che ciascheduno abbia parte. Questo compenso però, al quale tutti gl’individui della società sono obbligati a contribuire, deve esser proporzionato ai benefizio che ciascheduno di essi ne riceve ed alle sue forze. Senza questa proporzione l’ordine sociale, invece di migliorare la loro condizione, la renderebbe infinitamente peggiore; il danno sarebbe maggiore del benefizio, e lo stato di società sarebbe effettivamente il peggiore di tutti.

Secondo questi principii, che la filosofia meno forte dell’interesse ha inutilmente considerati come i primi dommi della morale de' governi; secondo questi principii, io dico, che diremo noi dello stato presente de' dazi e de' tributi della maggior parte delle nazioni d'Europa? Dov'è oggi questa proporzione cosi necessaria tra quello che si dà e quello che si riceve, fra il tributo che si esige e le fortune di colui che lo paga? Vi è stato mai tempo, nel quale gli uomini abbiano pagato più, e forse meno ottenuto dalla società? Che ce lo attestino i clamori de' popoli, la miseria delle provincie, le violenze dell’esazione; che ce lo attesti, più di ogni altro, la moltiplicità delle contribuzioni. Tasse, capitazioni, catasti, dazi sui fondi, dazi sui prodotti, dazi sui generi, dazi sulle manifatture, dazi sulle braccia, dazi allorché s’immette, dazi allorché si estrae, dazi allorché si trasporta da un luogo in un altro, foraggi, sussidii, diritto de' passi: io non la finirai mai se volessi individuare tutte le bocche di quest’idra spaventevole, che si chiama col nome generale di contribuzione.

Premessa dunque questa confusa dipintura dello stato presente delle contribuzioni della maggior parte delle nazioni d’Europa, io vengo alle conseguenze. Se la misura della sussistenza è la misura della popolazione, come potrà mai questa far progressi nelle nazioni europee, quando si vede che il cittadino deve torre dalla propria sussistenza quello che lo Stato esige da lui, quando si vede un infelice strappare il pane dalla bocca de' figli per soddisfare un appaltatore, un percettore del fisco che col braccio del governo va spargendo la desolazione nello Stato? Quante volte non si semina e si lascia in ozio la natura, perché quella porzione di frumento a stento serbata per la riproduzione viene occupata dall’esattore del fisco? Quante volte la capanna dell’innocente agricoltore diviene il teatro, ove l’esazione va a far pompa della sua avidità, della sua ingiustizia, della sua ferocia? Se l’infelice che abita non ha come pagarla, invano egli oppone l’eccezione della necessità alla determinazione della legge; invano egli si sforza di giustificare la sua impotenza colla moltiplicazione de' figli, coll'accrescimento dei bisogni, colla diminuzione delle forze: tutto è inutile. Il fisco vuol essere pagato. Il maggior favore che gli si fa è di dargli una breve dilazione. Durante questo tempo l’uomo della capanna raddoppia la sua fatica e diminuisce il suo alimento; egli condanna i figli all’istessa ingiustizia, e lascia alla moglie la cura di vendere tutto ciò che vi è nel desolato tugurio, quei vili mobili che la miseria aveva lasciali al bisogno, il letto sul quale essa aveva pochi giorni dietro dato un cittadino allo Stato, quella ruvida veste colla quale essa cercava di nascondere la sua miseria nel giorno destinalo ad assistere alla mensa del Signore; e quando tutto questo non basta, si vendono gli istrumenti stessi del lavoro. Ecco come una gran porzione de' cittadini dello Stato, soddisfa a' pesi fiscali: a questo prezzo si pagano nelle campagne dell’Europa i benefizii della società.

No, non sono queste le tenere descrizioni del Tasso o dell'Ariosto, questi sono fatti che forse i soli principi ignorano, che i ministri fingono di non sapere, che la distruttiva politica di alcuni cortigiani procura di tener lontano da' troni per non turbarne il brio; ma che il resto degli uomini vede di continuo sotto i suoi occhi, e che turbano in ogni istante la pace del sensibile filosofo, il quale è troppo lontano dalle reggie de' principi per potervi porre un rimedio.

Non ci lusinghiamo dunque; finché i dazi resteranno nello stato nel quale ora sono, finché quello che i cittadini sono obbligati a dare al sovrano assorbirà il prodotto delle terre e quello del lavoro, o finché quella porzione che ne resta dopo la contribuzione non basterà per assicurare la sussistenza dell'agricoltore e dell’artiere, fino a questo tempo, io dico, la popolazione dell’Europa non anderà mai innanzi; essa anderà anzi indietro, giacché la popolazione è costantemente subordinata a' mezzi della sussistenza. Bisogna persuadersi: dovunque un uomo ed una donna hanno di che sussistere senza stento, ivi la specie si propaga. Dovunque manca quest'appoggio, ivi la specie diminuisce. La natura e il ben essere sono due forze che spingono gli uomini a riprodursi con quell'istessa energia, colla quale la miseria e l’oppressione l’inducono a distruggersi. Quelle rendono popolate le lagune dell’Olanda e le fertili campagne della Pensilvania, e queste indussero, a relazione del celebre Drake, alcuni popoli dell'America a fare l'esecrabile voto di non aver alcun commercio colle loro mogli per non moltiplicare le vittime dell'avidità del conquistatore. Questa funesta congiura contro la natura e contro il più dolce de' suoi piaceri, l'unico avvenimento di questa specie che l’istoria ha tramandalo alla memoria degli uomini, si leggerà forse un giorno anche negli annali dell’Europa se la moderazione de' principi che oggi la reggono trascurerà di sollevarci da un peso superiore alle nostre forze, e che non si è portato fino a questo tempo che a spese della popolazione.

La riforma dunque de dazi e de' tributi è necessaria nell’Europa, è necessaria anche una riforma nella natura delle contribuzioni e nella maniera d’esigerle. Un oggetto cosi interessante non sarà trascurato in quest'opera. Io ne parlerò di qui a poco in quest’istesso libro, dove la teoria de' dazi sarà trattata ex pro[esso. Mi basta qui di prevenire un'obbiezione che mi si potrà fare. Mi pare già di sentirmi dire:

«Questo è un male necessario. I bisogni delle nazioni sono cosi grandi, che tutte queste contribuzioni non bastano neppure per provvedervi; i debiti della maggior parte delle nazioni ne sono una prova. Come dunque diminuirle?»

Funesto raziocinio derivato da una falsa supposizione. Quali sono, io domando, questi bisogni dello Stato, per provvedere a' quali queste insopportabili contribuzioni divengono un male necessario? Si può forse chiamar bisogno dello Stato una guerra che s’intraprende per la conquista di una provincia, sulla quale si vantano alcuni dritti antichi poggiati sopra alcune antiche usurpazioni? Si può forse chiamar bisogno dello Stato tutto quello che si spende per rendere più risplendenti i troni, e per alimentare i vizi e la mollezza di una turba di cortigiani avidi e fastosi? Non sarebbe meglio per le nazioni che vi fossero meno schiavi e più cittadini, meno adulatori e più filosofi? Spargere i tesori della società e il frutto de' sudori de' popoli sopra alcuni uomini, che molto lontano dai servirla non sono ordinariamente che l’istrumento della sua rovina, non è forse un furto, un’ingiustizia, un peculato commesso da quella mano istessa che dovrebbe punirlo? Un sovrano colmando di doni e di ricchezze un indegno ministro, un adulatore che gli nasconde i suoi difetti, un favorito che lo tradisce, non costringe egli il suo popolo ad onorare e pagare quelle adulazioni, quelle frodi, quei tradimenti, quei cattivi consigli, quei vizi, quelle follie, che riducono questo medesimo popolo alla mendicità? Questo non è forse l’istesso che vendere la lana della pecora per pagare colui che deve condurla al macello? Si può finalmente chiamar bisogno dello Stato il mantenimento di centomila combattenti, che fan vedere gli orrori della guerra anche in mezzo alla pace, e che invece di difendere la nazione la spopolano col loro celibato e co’ loro vizi, con quello che consumano senza riprodurre e colla miseria alla quale sono condannati i popoli per provvedere al loro mantenimento? Lo Stato si opprime, la nazione si spopola per alimentare tanti spopolatori. Sono questi i bisogni dello Stato? Sarebbero forse meno sicuri i popoli e meno tranquille le nazioni, se si ristabilisse l’economia militare degli antichi? Questo e quello che si esaminerà nel seguente capo, dove si considererà lo stato presente delle truppe dell'Europa come uno de' più forti ostacoli alla popolazione.


vai su

CAPO VII

Stato presente delle truppe d’Europa: quinto ostacolo alla popolazione

Un milione e duecento mila uomini compongono lo stato ordinario delle truppe dell’Europa, quando il mondo è in pace (159). Questi non son altro che un milione e dugento mila uomini destinati a spopolare l’Europa colle armi nel tempo di guerra, e col celibato durante la pace. Essi son poveri ed impoveriscono gli Stati. Essi mal difendono le nazioni al di fuori, ma le opprimono nell’interno. Noi manteniamo più truppe nel tempo di pace, che non ne mantenevano i più gran conquistatori allorché facevano la guerra a tutte le nazioni del mondo. I popoli sono per questo più sicuri, e i confini delle nazioni sono forse meglio difesi? Questo è un errore di calcolo. Ogni principe ha accresciute le sue truppe a proporzione che i suoi vicini le hanno aumentale. Le forze si sono equilibrate come lo erano prima. Una nazione, alla quaie bastavano dieci mila uomini per difendersi, bisogna che ora ne abbia il doppio, perché del doppio è cresciuta la forza della nazione contro della quale vuol garantirsi. I vantaggi dunque della maggior sicurezza sono ridotti al zero, l'eccesso non si ritrova che nelle spese e nella spopolazione.

Non era questo il sistema militare degli antichi. Né la Grecia che urlò e vinse tutte le forze dell’Asia; né Roma finché fu libera (160); né Filippo, né Alessandro che portarono dappertutto la vittoria dietro i passi delle loro falangi; né Attila, né i Barbari che disfecero l'impero di Roma; né i Germani che vinsero e trionfarono di Varo e delle sue lezioni; né Timor-Bec, né Gengis-Kan che partendo dal fondo della Corea soggiogò la metà della Cina, la meta dell’Indostan, quasi tutta la Persia lino all'Eufrate, le frontiere della Russia, Casan, Astracan e tutta la gran Tartaria; né Carlo Magno finalmente, che combatte con tutta l'Europa congiurala per distendere i limiti della sua monarchia e per fonda re quella de' papi: niuno, io dico, di questi popoli guerrieri. niuno di questi conquistatori celebri ebbe mai l’idea di conservare in tempo di pare quell’esercito che egli aveva condotto innanzi all'inimico durante la guerra. Il cittadino diveniva soldato allorché il bisogno lo richiedeva, e la dava di esserlo allorché il bisogno finiva (161). Quest'economia militare, adottata in tutte l'età e presse tutte le nazioni, lu dopo il fatale esempio de' tiranni di Roma per la prima volta alterata nella Francia sotto il governo di Carlo VII. Questo principe profittando del credito che gli avevano fatto acquistare le sue vittorie supra gl’lnglesi, e profittando egualmente delle impressioni di terrore che questi spaventevoli inimici avevano scolpite nell'animo de' suoi sudditi, riuscì in un’intrapresa che i suoi predecessori non avevano neppure ardilo di tentare. Sotto il pretesto di avere alcune forze sempre in piedi per difendersi da qualche incursione non preveduta che gl'Inglesi avrebbero potuta lare ne’ suoi Stati, congedando le altre sue truppe, si conservò un corpo di novemila uomini di cavalleria e di sedicimila d’infanteria (162).

Questa novità, che diede il primo urlo alla libertà civile de' Francesi, cagionò una rivoluzione universale ne! sistema militare del resto dell'Europa. Ciaschedun principe si credè allora costretto a difendersi da una nazione sempre armata. Invece di collegarsi tutti contro colui che si era messo in uno statu di guerra perpetuo, invece di obbligare Carlo VII a disfarsi di queste truppe che si avea riserbate, ciascheduno si affrettò d imitante l'esempio.

Il sistema di mantenere un esercito sempre in piedi fu in un istante adottato in tutte le nazioni d’Europa. Ciaschedun popolo si armò, non per essere in guerra, ma per vivere in pace.

Questo disordine nato nella Francia si accrebbe quindi nella Francia istessa, e per contatto si accrebbe nel resto dell’Europa. Noi dobbiamo a Luigi XIV quest’eccessiva moltiplicazione di truppe, che ci offrono lo spettacolo della guerra nel seno istesso della pace, e che han fatto di quasi tutta l’Europa un quartiere d'inverno, ove il soldato foraggia, sta in ozio e consuma.

Per mantenere questo corpo inutile l’Europa è oppressa e la popolazione languisce. Si consumano le sostanze de' popoli per alimentare un milione e dugentomila celibi sempre esistenti, che non si riproducono, e che bisogna rinnovare di continuo con altri celibi che si tolgono alla propagazione. Non è questa un antropofagia mostruosa, che divora in ogni generazione una porzione della specie umana? Si declama tanto contro il celibato de' preti, oppure tra' preti vi sono gl’impotenti e i vecchi, e si soffre poi con indifferenza il celibato di tanti esseri che sono il fiore della gioventù e della robustezza. Ma finché il sistema militare dell’Europa si conserverà nello stato nel quale ora è, il celibato delle truppe è un male necessario.

Non è più il tempo nel quale i soli feudatarii, i soli proprietarii delle terre facevano a loro spese il servizio militare; oggi le truppe non sono composte che di mercenari che non hanno altro bene che il loro soldo, il quale appena basta pel loro mantenimento. Chi nudrirebbe le loro mogli e i loro figli? Che se non è tanto il celibato delle truppe, quanto la miseria che cagiona nello Stato il loro mantenimento quella che impedisce i progressi della popolazione, quest'ostacolo invece di diminuire crescerebbe molto di più se per mettere il soldato in istato di ammogliarsi gli si aumentasse il soldo.

Le truppe dunque saranno celibi finché saranno mercenarie, e saranno mercenarie finché saranno perpetue. Un legislatore potrebbe Torse porre un rimedio a questo male, potrebbe egli torre questo doppio ostacolo alla popolazione, potrebbe Torse anche nello stato presente delle cose imitare l’economia militare degli antichi senza esporre a niun rischio la sua nazione? Vediamolo.

Progetto di riforma nel sistema militare presente

Non è questa una digressione inutile o estranea all’argomento che ho per le mani. Io perderei invano il mio tempo, io non sarei altro che un declamatore importuno, se rilevando i mali che opprimono gli uomini lasciassi ad altri la cura di cercare i rimedi proprii per guarirli. Questo sarebbe un funestare la società senza soccorrerla, un delitto nella persona di un filosofo ed un’impertinenza nella persona di un cittadino. Vediamo dunque quale sarebbe il sistema da prendersi per rimediare al doppio ostacolo che oppone alla popolazione il sistema militare presente; vediamo prima di ogni altro se questo sistema è oggi necessario.

Io non so se vi sia mai stato un tempo, nel quale il mantenimento di un esercito sempre in piedi abbia potuto esser necessario per la sicurezza de' popoli. La troppo recente introduzione di questa perpetuità delle truppe me. ne fa dubitare. Quello che è indubitabile si è che se vi è mai stato questo tempo, il nostro non lo è sicuramente. Oggi che la comunicazione de' popoli è universale, oggi che i principi hanno mille occhi stranieri che li guardano, oggi che una nazione non può armare un bastimento da guerra senza che tutta l’Europa dopo pochi giorni ne sia in formata; oggi, io dico, le incursioni istantanee, le guerre non prevedute sono mali che non ci sovrastano, e da' quali è inutile il garantirsi. Questo panico spavento non può dunque oggi autorizzare l'uso delle truppe perpetue.

Molto meno potrà scusarlo il vantaggio che se ne ricava per la tranquillità interna dello Stato. Il miglior garante di questa non è la truppa, ma è il soldato, che spesse volte sarà il primo a sostenere il ribelle allorché l’oppressione armerà il cittadino contro il sovrano. La giustizia e l'umanità de' principi che oggi ci governano è il vero scudo contro i furori del popolo, il vero sostegno de' troni e l'unica arme che debbono maneggiare i governi. Le soldatesche e le guardie, diceva Marco Antonino, sono inutili ad un principe, che la conoscere a' suoi popoli che obbedendo a lui essi obbediscono alla giustizia ed alle leggi (163).

Rendete felice una nazione. Uno spirito sedizioso non troverà compagni, e se gli riuscirà di trovarli, tutto il popolo si armerà contro di lui ed egli diverrà giustamente la vittima della pubblica indignazione. A che serve dunque innalzare un argine contro un torrente che non può nuocerci? Non è torse utile l’indurre i principi ad esser giusti ed umani per proprio interesse, come oggi lo sono per loro sola virtù? Senza la guardia pretoriana Tiberio avrebbe forse proscritta la meta de' Romani? e Caligola avrebbe forse l’alla piangere la morte di Tiberio, avrebbe egli l’alto impallidire il senato? Non è forse un abuso della politica e dell'autorità il cercare il mezzo per garantire le oppressioni? lo lascio alla penna di Machiavelli quest'oltraggiosa ricurca, che se non fosse equivoca discrediterebbe per sempre la memoria di questo grand’uomo. Il mio fine è di garantire la felicità de' popoli e non le oppressioni di un despota. Un principe sempre armato può divenire, quando vuole, il padrone assoluto d’un popolo disarmato. Ma è questo il vero interesse di un principe? Un’esperienza antica quanto la società non ci ha forse fatto vedere, che questo dominio assoluto, quest'autorità senza freno e senza limiti alla quale una gran parte de' re son pervenuti o han cercato di pervenire, quest’onnipotenza dispotica che l'ambizione di un ministro offre al principe come lo scopo della sovranità, che l'adulazione gli mostra come un dritto incontrastabile, che la superstizione santifica e colloca sul trono in nome degli Dei, che la stupidezza de' popoli degradati ha qualche volta applaudila e difesa, non è altro che una spada a due tagli sempre pronta a ferire l'imbecille che la maneggia?

Augusto circondato dalle sue coorti pretoriane, persuaso della fedeltà delle sue legioni, vedeva nulladimeno nell'estensione del suo potere il motivo de' suoi spaventi. Egli sapeva che se queste potevano renderlo sicuro contro gli sforzi impotenti di un’aperta ribellione, non potevano sicuramente garantirlo dal pugnale di un repubblicano risoluto. Egli sapeva che i Romani, che veneravano la memoria di Bruto, avrebbero lodata l’imitazione della sua virtù. Egli non trovò che nell’apparente diminuzione della sua autorità l’unico scudo della sua sicurezza. Il suo solo interesse lo rese dapprincipio l’inimico della repubblica, e lo determinò quindi a dichiararsene il padre.

Persuadiamoci: non vi è sicurezza per i principi fuori della virtù, dell’amore de' popoli, della moderazione del governo, della saviezza delle leggi e della loro religiosa osservanza (164). Il solo tiranno privo di questi mezzi ha bisogno di una truppa di mercenari che lo difenda da un popolo sempre irritato e sempre oppresso; ma chi lo difenderà da' suoi difensori? Egli deve esserne o lo schiavo o vittima. Per essere adorato da' suoi sudditi, egli deve adorare le sue guardie. Dal loro capriccio dipende di farlo venerare come un nume o di farlo strascinare come un malfattore. Che l’esempio de' dominatori di Roma sia la prova di questa verità. Le loro statue erano adorate, l'adulazione e il timore offeriva loro gli onori divini; ma queste statue si rompevano, la divinità spariva, l’adorazione si cambiava in disprezzo ed in ischerno subito che cessava il timore, subito che il tiranno era ucciso. L’istessa guardia pretoriana, che le faceva adorare, le faceva calpestare sempre che voleva. Divenuta il solo sostegno della sovranità e del trono essa più spesso lo insanguinò che lo difese. Col suo soccorso il tiranno calpestava il senato, il popolo, le leggi, ma finalmente per le sue mani istesse egli periva. Sotto i suoi auspicii egli faceva tutti tremare, ma egli tremava all'aspetto de' suoi difensori. Egli era nel tempo istesso l’oggetto più vite agli occhi della nazione, ed il più venerato finché le coorti pretoriane lo volevano. Le statue, le medaglie, l’apoteosi erano dunque delle coorti, e non del fantasma che le otteneva.

Finalmente se per sostenere il sistema delle truppe perpetue, si ricorre a' vantaggi che un corpo disciplinato ed addestrato nell’arte di combattere ha nella guerra sopra una truppa di cittadini, che non han lasciato la zappa e l’aratro che pochi giorni prima di combattere, io rispondo che questi vantaggi sono molto compensati! dalla mollezza che l’ozio delle guarnigioni inspira al soldato, e che due o tre mesi di maneggiamento d’armi basteranno per addestrare un agricoltore robusto ed indurito al lavoro, nel mentre che tre settimane di fatica distruggeranno in una guerra le legioni intiere de' soldati agili e disciplinati, quando questi non sono avvezzi al travaglio ed al rigore delle stagioni (165).

Ma che diremo noi del valore? lo son d’opinione che questo sentimento che nasce dalla cognizione della propria forza può allignare in tutti gli animi, ma che il soldato mercenario indebolito dall’ozio ne sarà sempre meno suscettibile dell’agricoltore robusto. Tutta l'istoria è una prova di questa verità, e noi ne abbiamo un attestato domestico nell’ultima guerra contro la casa d’Austria sostenuta con tanta gloria dall’augusto padre del nostro sovrano per la difesa di questi regni. Quelli che resistettero col maggior coraggio all’inimico, i primi ad esser esposti e sacrificati, furono i reggimenti provinciali formati di agricoltori tolti dalla zappa poche settimane prima dell'azione. Io non so se quest'istessi avvezzi oggi alle mosse sceniche della tattica moderna (giacché il gusto frivolo del secolo si è mescolato anche nell’arte di combattere); non so, io dico, se questi reggimenti mostrerebbero oggi l'istesso coraggio.

La miseria dunque che l’ozio ed il celibato de' soldati cagionano nello Stato, gli ostacoli che oppongono alla popolazione, l'incontinenza pubblica che fomentano, tutti effetti della perpetuità delle truppe, non sono compensai da alcun vantaggio per quel che riguarda l’interna e l'esterna sicurezza delle nazioni. Vediamo ora se questi mali si eviterebbero, e se si otterrebbero questi vantaggi con un sistema militare tutto diverso.

Una nazione, per povera ch’essa fosse, potrebbe avere trecentomila combattenti sempre pronti a difenderla, quando questi non lasciassero in tempo di pace di essere agricoltori, artieri, cittadini liberi e padri. Alcune esenzioni, alcune prerogative di onore, un dritto per esempio esclusivo di andare armati, una preferenza nella provvista di quelle cariche che non ricercano altro che l’onoratezza e la fedeltà in coloro che debbono esercitarle, potrebbero mettere il governo in istato di scegliere fra i suoi cittadini gli uomini più atti a difendere la nazione in tempo di guerra ed a farla rispettare in tempo di pace. Tutti i cittadini farebbero a gara per essere assentati nel libro militare, quando l'obbligo del soldato non fosse altro che di difendere la patria in tempo di guerra. Ogni vantaggio, per piccolo che sia, è un bastante compenso per un pericolo rimoto ed incerto. Le truppe non sarebbero allora composte di mercenari e di delinquenti fuggiti dal rigore della giustizia. Non sarebbe più allora un’infamia l'esser soldato. In tempo di guerra le diserzioni sarebbero più rare, perche un cittadino che ha proprietà, che ha moglie, che ha figli, non lascia cosi volontieri il suo posto come lo fa un mercenario, al quale torna sempre conto di rivendere la sua persona ad un altro principe, e che non perde niente perdendo la sua patria.

Con questo sistema si eviterebbe anche un altro disordine. Siccome per la maniera, colla quale oggi si fa la guerra, niuna nazione può tenere un esercito cosi numeroso che possa senz’aver bisogno di far leva di nuove truppe resistere ad un inimico, allorché il pericolo d’una guerra sovrasta si ricorre alla violenza. qual tristo spettacolo! qual presagio funesto! Quei cittadini, che non han potuto nascondersi, che non han potuto fuggire o sottrarsi da queste leve forzose col soccorso de' privilegi o del danaro, son legati, sono strascinati innanzi a un delegato, le funzioni del quale son sempre odiose e la probità sospetta a' popoli. I parenti accompagnano quest’infelici; essi danno tremando in mano del delegato i nomi de' figli, ed aspettano la decisione della sorte. Un biglietto nero esce allora da un urna fatale, e destina le vittime che il principe sacrifica alla guerra. Questa cerimonia accompagnata dalle lagrime de' padri? dalla disperazione delle madri, da' pianti delle mogli, qual coraggio può inspirare a questi nuovi combattenti a quali tutto annuncia una morte sicura?

No, non si comprano a questi prezzi i veri soldati. Non era a questo modo che i popoli del settentrione, che devastarono l’Europa, venivano chiamati alla guerra. Gli Alani, gli Unni, i Gepidi, i Turchi, i Goti, i Franchi furono tutti i compagni e non gli schiavi de' loro barbari capi. Un apparato cosi luttuoso e cosi tetro non precedeva allora gli orrori della guerra, come non li precederebbe neppur oggi, quando in una nazione vi fossero trecentomila combattenti che volontariamente si sono obbligati a difender la patria, e che non sono stati strascinali dalla forza, né destinati dalla sorte.

Finalmente questi agricoltori, questi artieri, questi proprietarii, questi liberi soldati potrebbero anche essere istruiti ne’ militari esercizi. Prima di essere ascritti, i nuovi iniziati potrebbero ricevere una competente istruzione. Durante questo breve tempo potrebbero essere alimentati a spese dello Stato. lu ogni due o tre anni si potrebbe quindi fare una rassegna generale. Gl’incombenzati dal governo dovrebbero girare allora per le provincie, ed in ciaschedun paese esaminare i soldati che vi sono, e rinnovare alla loro memoria quegli esercizi che furono loro insegnali allorché si ascrissero. La presenza continua degli afficiali, i quali dovrebbero essere scelti da' proprietarii più nobili e più ricchi di ciaschedun paese, non lascerebbe di mantenerli esercitati ne’ giorni di festa anche a costo di qualche premio che questi non sdegnerebbero di offerir loro per farsi un merito col principe, che premierebbe colla gran moneta degli onori la loro vigilanza. Allora gli ufficiali, senza dissipare Ira' vizi e tra l'ozio delle guarnigioni le loro rendite, servirebbero il sovrano senza abbandonare i loro fondi, i quali sarebbero migliorati dalla loro assistenza.

Ne’ paesi finalmente di frontiera, nelle piazze d’armi, la guarnigione potrebbe essere supplita da una guardia urbana che si mutasse in ogni giorno, basterebbero due soli reggimenti per custodire la sacra persona del principe.

Ecco come, senza aggravare i popoli e senza ritardare la generazione, si potrebbe provvedere alla loro sicurezza al di fuori ed alla loro tranquillità nell’interno.

lo conosco che questo progetto è informe, ma nell'esecuzione si perfezionerebbe, e i governi molto meglio di me istruiti ne’ bisogni degli Stati supplirebbero a quello che io ho mancato di proporre.

Obi sa dunque se un giorno la moderazione de' principi soddisferà i voli di un oscuro politico, intraprendendo una riforma che potrebbe far mutar di aspetto l'Europa? Oh desiderio giusto ed umano, che non lascia alcun rimorso all’anima che l’ha formalo! Dovranno forse, potrò io dire con un gran genio, dovranno forse i sospiri dell'uomo virtuoso per la prosperità delle nazioni costantemente perire, nel mentre che quelli dell'ambizioso e dell’insensato sono cosi spesso soddisfatti e secondati dalla sorte? No, i progressi delle cognizioni utili hanno oggi ingentiliti i troni. Pare che la politica illuminata dalla ragione abbia cominciato a far conoscere a' principi, che la sola felicità de' popoli che si governano deve determinare l'uso dell'autorità. Essi sanno che la forza è l’istromento di colui che vuol regnare sopra una nazione di schiavi, ma che le buoni leggi, la moderazione, la dolcezza sono le sole catene che uniscono i veri cittadini al sovrano.

Pare che l’esperienza cominci a persuaderli che è inutile l'armare tante braccia sempre innalzate sulla testa de' popoli, poiché se i loro sudditi tremano innanzi alle loro truppe, le loro truppe fuggono innanzi all’inimico. Malgrado i prestigi dell’opinione e dell’errore essi son costretti a confessare, che allorché una nazione non fosse oppressa, ma felice, tutti i cittadini diverrebbero soldati allorché il bisogno lo richiederebbe; che questi soldati sarebbero tanti Spartani, tanti Ateniesi, tanti Romani, interessati come essi nella difesa della patria, che l’inimico non guadagnerebbe niente allora guadagnando una battaglia, perché troverebbe sempre nuove resistenze, finché troverebbe nuovi cittadini da combattere (166); che le guerre sarebbero allora rare e giuste, e le vittorie onorevoli; che i trionfi non sarebbero allora, come oggi lo sono, mescolati e turbati da' sospiri degl’infelici, che han pagato colla perdita de' loro parenti o col sacrificio delle loro sostanze la gloria e le usurpazioni dell’ambizione che gli ha traditi; che le benedizioni de' popoli sarebbero allora le trombe vittoriose, che annunzierebbero il passaggio dell’eroe che ha salvata la patria; che allora senz’offendere la Divinità, si potrebbe chiamare un Dio benefico il Dio degli eserciti; e che allora finalmente i ministri dell’altare potrebbero, senza fremere, supplicarlo di benedire le loro bandiere.

Queste massime molto divulgate ne’ troni; i progressi gloriosi che comincia a fare la libertà presso quella nazione istessa che è stata la prima ad introdurre il fatale sistema della perpetuità delle truppe, e che è stata la prima a sperimentarne le conseguenze funeste; lo zelo degli scrittori che si sforzano a gara d’illuminare i principi e di prevenirli contro le seduzioni perniciose de' loro ambiziosi ministri, e più di ogni altro l’evidenza della verità mi fanno sperare che la riforma da me additata sarà un giorno intrapresa. Quella nazione, che sarà la prima a metterla in esecuzione, sarà la prima a sentirne i vantaggi. Riformando le sue truppe di terra essa si mettono anche in istato di meglio difendere il territorio comune, quel territorio sui quale tutte le nazioni hanno uguali dritti, ma di cui la forza non ne ha dato oggi il dominio che a poche; quel territorio che rende tutti i popoli confinanti, e che gli espone a tutt’i pericoli come a tutt’i vantaggi de' paesi limitrofi; quel territorio finalmente, sopra il quale ciaschedun popolo dovrebbe tenere alcune forze capaci a conservare la libertà generale, sola ed unica legge che una nazione può dare al di fuori; e questo territorio è il mare. La marineria militare converrebbe dunque innalzare sulle ruine delle truppe di terra. Queste cagionano, come l’abbiamo dimostrato, la miseria de' popoli senza difenderli, e quella li difende non solo senza impoverirli, ma arricchendoli. Non è questo il tempo da descrivere tutt'i vantaggi che recherebbero ad una nazione i progressi della marineria militare. Io potrei anche dimostrare come la popolazione istessa vi guadagnerebbe, ma mi distenderei troppo se volessi mettere tutti questi vantaggi in veduta. Mi contento di aver qui gittata questa verità come di passaggio.

La riforma dunque delle truppe perpetue, senza esporre ad alcun rischio la sicurezza della nazione, toglierebbe alla popolazione due grandi ostacoli, il celibato de' soldati e il celibato che cagiona il loro mantenimento nelle altre classi de' cittadini. Da questo doppio beneficio ne nascerebbe un terzo. S’indebolirebbe la resistenza di un altro ostacolo, che oggi non contribuisce meno ad impedire i progressi della popolazione, e l’attività del quale è sempre relativa al numero de' celibi ed alla miseria nazionale. Quest’ostacolo è l’incontinenza pubblica.


vai su

CAPO VIII

Ultimo ostacolo alla popolazione; l’incontinenza pubblica

Funesta riflessione: i vizi e i disordini hanno per cosi dire una filiazione reciproca fra loro, L’uno produce l’altro, e il prodotto dà nuova forza al produttore. Cosi la miseria e il celibato violento di alcune classe di cittadini impedendo i matrimoni cagionano l'incontinenza pubblica, e l'incontinenza pubblica diminuisce il numero de' matrimoni. Dove è corruzione l’uomo sdegna una moglie, e dove è povertà, dove sono molti celibi per forza, ivi dee esser corruzione. La natura vuol esser soddisfatta; pochi sono coloro che sanno vincerla. Bisogna dunque ricorrere o ad una moglie o ad una prostituta. La morale ci offre la prima, la povertà e il celibato violento ci condannano alla seconda.

Un cittadino, che non può avere una moglie, trova nella vaga Venere un compenso piacevole a questa privazione. il senso è allora soddisfatto, ma la generazione resta in ozio.

Questa malattia, che dapprincipio non infetta che coloro soli che o dalla povertà o dal governo o dalle leggi sono condannati al celibato, allorché il numero di questi è cresciuto nella nazione, diviene quindi contagiosa e si comunica in tutte le classi dello Stato.

La corruzione diviene allora generale, e generale diviene l’odio pel più dolce de' legami. Il ricco abborrisce allora il coniugio per voluttà, come l’abborrisce il povero per miseria. L’artiere trova allora più conto a dividere il guadagno delle sue mani con una prostituta che può abbandonare o che può cambiare sempre che vuole, che con una moglie, la quale diviene subito noiosa allorché si è perduto il gusto a(1) piaceri dell’innocenza. Tutte le altre classi finalmente di cittadini riguardano allora il coniugio come la tomba della libertà e della felicità. Gli innocenti piaceri, che compensano i sacrificii che due sposi onesti fanno a' preziosi vincoli della loro tenerezza, scompariscono agli occhi dell'uomo corrotto. Egli è incapace di apprezzare quella placida e secreta soddisfazione che deriva dalla loro intima unione, dal loro reciproco amore, da' loro mutui servizi, e da' piacevoli e sacri doveri ch’essi adempiono formando lo spirito ed il cuore de' loro teneri fanciulli.

Queste delizie sono troppo semplici, troppo uniformi, troppo delicate per lui. Le sole voluttà grossolane possono penetrare a commovere i cuori senz’onestà. Or queste sole somministrano oggi quelli che si chiamano gran piaceri della cita in tutte le nazioni d’Europa, dove per nostra disgrazia e per la rovina della popolazione la classe di questi celibi, che non fa altro voto che quello di astenersi da una moglie, si è moltiplicala all’infinito; e dove per vergogna della nostra specie e del nostro secolo vi è un altro vizio che vi ha fatti i più grandi progressi, un vizio che allorché io voleva proferirlo il pudore me lo ha impedito, un vizio che degrada l'umanità dando ad un sesso tutte le debolezze dell’altro, un vizio vuoto di generazione che spopola il mondo con quell’istromento istesso col quale dovrebbe popolarlo, e che cagiona una rivoluzione tale fra gli uomini ch’essi possono astenersi dalle femmine. qual vuoto non deve lasciare nella popolazione quest’eccesso della pubblica incontinenza? qual maraviglia, che nella maggior parte delle nazioni fra cento uomini si fa appena un matrimonio in ogni anno? (167) Ma questo disordine che in ogni tempo ha fatta la rovina della popolazione oggi più che mai è divenuto micidiale, dacché l’America in compenso di tutti quei mali che noi le abbiamo arrecali. si è vendicata comunicandocene uno che ha la sua sede nella sorgente istessa del piacere; da quest’epoca, io dico, la prostituzione spopola doppiamente le nazioni, perche nel tempo istesso che aliena gli uomini dai coniugio, comunica a coloro che si danno in preda a questo vizio un veleno distruttore della fecondità, della virilità, della vita; un veleno che dopo essere stato la pena del delitto diviene anche la rovina dell’innocenza; un veleno finalmente, che non risparmiando la posterità istessa di colui che lo ha intromesso nel suo sangue fa nascere una razza degenerata, imbastardita, snervata, priva spesso della virilità, monumento della depravazione o della disgrazia di uno de' suoi autori. Se tanta è dunque la strage che cagiona nella popolazione l’incontinenza pubblica, qual rimedio le leggi debbono opporre a questo male? No sicuramente quello di Teodosio, il quale per han dire la prostituzione da Roma ordinò che si demolissero i lupanari (168).

Questo è l'istesso che fare un lupanare di un paese intiero, questo è mettere in pericolo l'onestà coniugale, questo è curare un disordine con un disordine maggiore.

Per diminuire l’incontinenza pubblica bisogna togliere, o almeno indebolire quelle cause che la cagionano e la fomentano. Diminuite il numero de' celibi, fate che nello Stato le leggi, il governo, il ben essere permettano a ciaschedun cittadino di prendere una moglie, e voi vedrete allora l’incontinenza, la prostituzione, la scostumatezza sensibilmente diminuire nella nazione; giacché i loro progressi sono, come l’abbiamo dimostrato, sempre relativi al numero de' celibi ed alla miseria della maggior parte.

Noi ne abbiamo una prova di fatto nell’America Settentrionale presso le colonie anglo americane. Clic si legga ciò che ne dice il celebre Franklin e l'immortalale Raynal, e si osserverà come una certa ricchezza universale ripartita saviamente colla prima distribuzione delle terre o dai corso dell’industria moltiplica in esse il numero de' matrimoni, e come l'una e gli altri si uniscono per conservare i costumi e la pubblica onestà. La prostituzione non ha potuto ancora allignare in quella felice regione, dove ogni uomo è nello stato di prender una moglie e di mantenerla senza stento. Quel libertinaggio, che è sempre una conseguenza della miseria, non ha potuto ancora inspirare a' suoi felici abitatori il gusto per quelle delizie ricercate, per que’ piaceri burlali, il di cui apparato e il dispendio consuma e stanca presso di noi tutte le molte dell’anima, ed eccita i vapori de!la malinconia dopo i sospiri della voluttà. Gli uomini non vi consumano in un celibato vizioso i migliori anni della vita. Allorché essi vanno al matrimonio, il lungo uso della Venere non ha illanguiditi i loro organi; la sensibilità del loro cuore non si trova snervata dagli antecedenti piaceri; essi non portano all’ara sacra dell'amore un cuore indegno di quest'adorabile deità. Le donne sono ancora quali debbono essere, dolci, modeste, compassionevoli, benefiche, dotate di tutte quelle virtù che perpetuano l’impero delle loro attrattive. Ne’ boschi della Florida e della Virginia, dice Raynal, nelle istesse foreste del Canada si può amare per tutto il corso della vita ciò che si amò per la prima volta, vale a dire l’innocenza e la virtù che non lasciano mai intieramente perire la bellezza.

Questo è lo stato de' costumi dell’America inglese: qual tristo parallelo con quelli dell’Europa!

Questi sono i principali ostacoli che si oppongono a' progressi della popolazione dell’Europa, e questi sono i mezzi proprii per toglierli. Io credo di essermi bastantemente dilungato in questa ricerca. È ormai tempo di passare all'altro oggetto delle leggi politiche ed economiche: bisogna parlare delle ricchezze.

CAPO IX

Secondo oggetto delle leggi politiche ed economiche: le ricchezze

Una volta le leggi non pensavano che a far nascere gli eroi, e la povertà era il primo grado dell’eroismo. Si temevano le ricchezze e si temevano con ragione: noi l’abbiamo altrove osservato. Quando queste non sono che il frutto della conquisa, quando non è il sudore dell'agricoltore, dell'artiere, del mercadante che le richiama, le ricchezze debbono necessariamente corrompere i popoli, fomentare l’ozio ed accelerare la rovina delle nazioni. Cosi Sparla domino nella Grecia, finché le leggi di Licurgo tennero lontano dalla Laconia l’oro e l’argento; e Roma fu grande e virtuosa, finché sacrifica agli Dei di legno o di creta.

Ma lo stato presente delle cose è tutto diverso. Non sono i bottini, non sono i tributi de' popoli soggiogati, né le alleanze vendute, né i titoli fastosi di re, che Cesare, Pompeo e i patrizi di Roma vendevano al più offerente (169), non sono, io dico, questi i mezzi co’ quali si richiamano oggi le ricchezze negli Stati. Un lavoro assiduo, una vita intieramente occupala, unita alle buone leggi ed alla moderazione de' governi è la sola sorgente che le trasporta; e dove prima un popolo ricco era sempre un popolo di oziosi e per conseguenza vicino ad esser ingoiato dalle avide fauci del dispotismo, oggi le nazioni più ricche sono quelle ove i cittadini sono più laboriosi e più liberi. Non sono più dunque oggi da temersi le ricchezze, sono anzi da desiderarsi; e il principale oggetto delle leggi dev’essere di richiamarle, giacché queste sono il solo sostegno della felicità de' popoli, della libertà politica al di fuori e della libertà civile nell'interno degli Stati.

Persuasi di questa gran verità, che io non ho fatto qui che accennare, veniamo ora alla ricerca delle cause, o per meglio dire delle strade, per le quali le ricchezze s’introducono e si conservano in una nazione. Noi parleremo quindi di quelle, col soccorso delle quali le ricchezze si distribuiscono colla minor possibile disuguaglianza.


vai su

CAPO X

Delle sorgenti delle ricchezze

L’agricoltura, le arti, il commercio, queste sono le tre sorgenti universali delle ricchezze. Coll’agricoltura si ottengono i prodotti della terra; colle arti si aumenta il loro valore, si estende il loro uso, si accresce la loro consumazione; col commercio si permutano; si trasportano e si dà loro con questo mezzo un nuovo valore. La prima dunque ci dà la materia, la seconda ci dà la forma, e la terza ci dà il moto. Senza la forma e senza il moto vi può esser la materia, ma senza la materia non vi può essere né la forma né il moto. La sola sorgente dunque assoluta ed indipendente delle ricchezze è l’agricoltura; le sole nazioni agricole possono dunque vivere da loro, ma le manifatturiere e le commercianti debbono dipendere dalle agricole. Senza l’agricoltura un popolo può dunque partecipare a' frutti del commercio e dell’industria, ma l’albero non appartiene che ai popoli agricoli; ogni prosperità che non è fondata sull'agricoltura è dunque precaria, ogni ricchezza che non viene dal suolo è dunque incerta (170), ogni popolo che rinunzia a' beneficii dell’agricoltura, che abbagliato da' lusinghieri beneficii delle arti e del commercio trascura quelli delle produzioni del suo terreno, che preferisce in una parola la forma alla materia, può dunque esser paragonato a quell’avaro imbecille che mosso dall’avidità di un tenue guadagno sdegna d’impiegare sui fondi di un ricco proprietario il suo danaro, per darlo tra le mani di un figlio di famiglia disordinato che lo priverà ben presto del capitale e de' suoi frutti. Io credo che queste conseguenze sieno cosi semplici, come lo sono i principii da' quali derivano.

Lasciamo al lettore il giudicarne e stabiliamo per principio sicuro, che in ogni nazione dove l’agricoltura si può con vantaggio esercitare, le leggi non debbono trascurare i progressi delle arti e del commercio, ma debbono sempre subordinar questi a' progressi dell’agricoltura; che questa debb’essere il punto dove debbono andare a finire tutte le linee economiche, il grande interesse col quale debbono tutti gli altri combinarsi, la divinità a fronte della quale debbono tutte le altre sparire, il fondamento eterno sui quale il legislatore deve innalzare il grande edificio dell'opulenza nazionale.

Premesso questo principio veniamo all'esame degli ostacoli, che nella più gran parte dell’Europa si oppongono a' progressi dell’agricoltura, nella soppressione de' quali deve tutta interporsi la necessaria protezione delle leggi. Per serbare un certo ordine in questa ricerca io distribuisco tutti questi ostacoli in tre classi. Nella prima saran compresi tutti quelli che vi oppone il governo ossia l'amministrazione, nella seconda quelli che vi oppongono le leggi, nella terza quelli che derivano dalla grandezza immensa delle capitali. Si cominci dai governo.

CAPO XI

Prima classe degli ostacoli che si oppongono a' progressi dell’agricoltura: quelli che derivano dai governo

Se qualche volta è lecito di mirare con occhio di artefice le statue de' numi, se il mostrare i difetti ed i vizi de' governi non ò un delitto che ne’ paesi ove regna il dispotismo, o dove un’oscura e misteriosa politica dirige i sospetti e le mire di un corpo aristocratico, timido perché debole, ma è una virtù, un beneficio in un paese come quello dove ho avuta la sorte di nascere, nel quale il governo istruito dall'esperienza comincia a sentire la necessità di sradicare gli antichi disordini che pur troppo si oppongono alla pubblica felicità; se finalmente il dovere del filosofo è di accelerare il tempo delle correzioni, e di risparmiare ad una nazione molti esperimenti e molte prove che essa dovrebbe fare a sue spese e che spesso dovrebbe pagare a caro prezzo; se è vero tutto questo, io oltraggerei me e la moderazione presente de' principi, se parlando degli ostacoli che impediscono i progressi dell'agricoltura nella maggior parte delle nazioni d’Europa, trattenuto da un sentimento vite di debolezza o di adulazione non opportuna né desiderata, io trascurassi di parlare de' più forti, di quelli che derivano dal governo.

L’amministrazione, che dovrebbe essere il sostegno della prosperità de' popoli e dell’opulenza delle nazioni; l’amministrazione, che non dovrebbe in altro mostrare la sua influenza che nello spianare la strada per la quale gli uomini dovrebbero correre verso la loro felicità; l’amministrazione, che dovrebbe adottare per regola generale della sua condotta quel gran principio: ingerirsi quanto men si può, lasciar fare quanto più si può: l’amministrazione, io dico, per essersi allontanata da questi salutari principii è divenuta nella più gran parte delle nazioni la causa della loro miseria, la distruttrice dell’industria degli uomini e la sorgente più feconda degli ostacoli più forti che impediscono alle arti, al commercio, e più di ogni altro, all'agricoltura di prosperare. Il primo tra quelli che riguardano l'agricoltura, è senza dubbio il difetto di libertà nel commercio de' suoi prodotti.

Un errore derivato da una falsa supposizione ha fatto credere a' governi, che potesse uscire da uno Stato col moto naturale del commercio anche parte del necessario alla sua interna consumazione. Per liberarsi da questo panico spavento si son chiusi i porti delle nazioni, si sono circondate di guardie le loro frontiere, si sono intimate le pene più spaventevoli alle clandestine estrazioni di alcuni prodotti necessarii alla vita: espediente fatale che ha distrutta la proprietà, rovinata l'agricoltura, illanguidito il commercio, impoverito le campagne, spopolati gli Stati e moltiplicate le carestie in una gran parte delle nazioni europee. Invano si è cercalo in questo secolo di mostrare quest'errore in tutta la sua deformità. Invano la penna degli scrittori economici ha dipinti co’ colori i più vivi il flagello che reca agli Stati questo pregiudizio funesto. L’antico sistema combattuto da tanti scrittori, datanti filosofi, dal voto pubblico istesso, si è conservato in tutta la sua estensione. I vincoli che prima vi erano vi sono ancora; le catene che tenevano inceppato il commercio delle biade e di alcuni altri prodotti del suolo, invece di sciogliersi, si sono in molte parti ristrette di più; e l'agricoltura intanto languisce sotto il loro peso, il governo rispetta con superstiziosa venerazione gli antichi errori, ed i filosofi dopo aver inutilmente declamato e scritto aspettano con impazienza l'estremità de' mali, che può solo risvegliare i governi dal loro lungo e profondo letargo.

Ma potrei io in un’opera di questa natura incontrarmi in un oggetto cosi interessante, senza aggiungere qualche cosa del mio a tutto ciò che si è da tanti scrittori pensato? Se questa intrapresa è difficile, se sarà forse inutile, non debbo per questo trascurarla. Per riuscirvi bisogna fissar lo stato della questione.

Si è detto che il motivo, che induce i governi a vincolare il commercio di alcuni prodotti del terreno necessarii alla vita, è il timore della carestia di questi generi. Ma cosa è carestia? Bisogna convenire nel significato di questa voce. La carestia di un genere è di due maniere: o quando la quantità che ve ne ha nello Stato è inferiore a quella che l’interna consumazione richiede, o quando il prezzo di questo genere è tale che una porzione de' cittadini non ha come provvedersene. Se la quantità dunque necessaria all'interna consumazione esiste, se il prezzo è caro, ma è nel tempo stesso tale che tutti i cittadini sono nel caso di provvedersene, non si può mai dire che vi sia carestia di questo genere. In Inghilterra, per esempio, il grano costa ordinariamente il doppio o il triplo di quello che costa in molti paesi dell’Italia. Si può dire per questo che in Inghilterra vi è sempre carestia di grano?

Premessa questa definizione, vediamo ora se l'una o l'altra di queste due specie di carestie può derivare dalla libertà illimitata del commercio de' prodotti del terreno, o se piuttosto entrambi possono essere le conseguenze della privazione o restrizione di questa libertà. Supponiamo che il commercio di un genere sia intieramente libero, che non sia da alcun vincolo ristretto: in questo caso quale ne sarà l’uso che ne farà il proprietario? Egli lo venderà al maggior offerente. Se questi è un negoziante straniero, egli lo manderà fuori dello Stato; se un cittadino, lo venderà ai cittadino; con tal differenza però, che nell’ipotesi della uguaglianza delle due offerte il cittadino sarà sempre da lui preferito per la sicurezza del negoziato. Io non valuto qui le spese ed i rischi del trasporto, né il pagamento del dazio sull’estrazione, se mai vi è, perché tutte queste spese le suppongo a carico del compratore.

Supponiamo inoltre che in una nazione la quantità della raccolta di un prodotto del suo terreno superi la quantità necessaria all’interna consumazione, non si può negare che l’interesse universale dello Stato esigerebbe in questo caso che il superfluo uscisse fuori, e che nel paese non vi restasse altro che la quantità proporzionata all'interno bisogno. Con una libertà illimitata si potrebbe questo ottenere? Esaminiamolo. È un assioma nella facoltà economica, che il prezzo di qualunque merce è in ragion diretta delle richieste e inversa della quantità della merce e del numero de' venditori. Nella nostra ipotesi dunque i proprietarii del genere, del quale si parla, per venderlo con condizione dovranno mandarlo fuori dello Stato presso quella nazione, nella quale la quantità del genere è inferiore a quella che la sua rispettiva consumazione richiede. A misura che questo genere uscire dallo Stato, crescere il prezzo nell’interno; ed a misura che s'immetterà nell’estera nazione, diminuire l’estero prezzo. Il beneficio dunque dell’estrazione si anderà sempre doppiamente scemando, e per l’accrescimento del prezzo nell’interno e per la diminuzione del prezzo nell'estera nazione. Quando finalmente dopo varie oscillazioni i prezzi delle due nazioni andranno a livellarsi, allora cessando il beneficio cesserà il moto, e colla massima libertà non uscirà più dallo Stato neppure la minima quantità di questo genere.

Mi si potrà qui fare un’obbiezione. Mi si dirà che questo livello ne’ prezzi di queste due nazioni potrebbe avvenire quando dalla nazione venditrice si è non solo estratto il superfluo di questo genere, ma anche parte del necessario alla sua interna consumazione. La carestia allora non sarebbe una conseguenza di quest’illimitata libertà che tanto si desidera? Quest'obbiezione non può reggere che in un solo caso, quando si voglia intieramente negare quell’ordine universale della natura che si osserva in tutte le sue parti.

Se non si vuol negare quest’ordine inalterabile, si troverà che la terra riproduce in ogni anno una quantità corrispondente all'universale consumazione. «Egli è malinconico errore, dice uno scrittore molto sensato (171), il creder gli uomini condannati a gittare il dado per vedere chi debba morir di fame. Riguardiamoci con occhio più tranquillo e riceveremo idee più vere e più consolanti. Fratelli di una vasta famiglia sparsa sulla superficie del globo, spinti a darci vicendevolmente soccorso, noi vedremo il gran motore della vegetazione averci largamente provveduti di quanto fa d'uopo per sostenere i bisogni della vita. Il commercio, quando fosse libero, secondando i disegni della natura supplirebbe col superfluo di una terra al bisogno di un'altra, e colla legge di continuità basterebbe a periodicamente equilibrare bisogno ed abbondanza».

Premessa questa verità che non si può negare senza oltraggiar la Provvidenza, vediamo ora se regge l’obbiezione. Si è detto che il pericolo che sovrasta alla nazione venditrice è che il beneficio dell'estrazione finisca, quando si è estratto non solo il superfluo di quel tal genere ma anche parte del necessario. Or supponiamo che questo avvenga (cosa peraltro molto difficile, per molte ragioni che lascio a colui che legge d’indagare), vi sarebbe per questo carestia di un tal genere in questa nazione quando il commercio ne fosse libero? Quale è la causa che ha indotti i proprietarii di questo genere a mandarlo presso la nazione che ne aveva bisogno? Un guadagno considerabile, un prezzo sempre maggiore dell’interno. Quest'istessa causa dunque indurrebbe un’altra nazione a portare presso di lei quell’istesso genere, del quale si è privata per provvederne un’altra. L’istessa libertà, che pareva che dovesse recarle la penuria, le ricondurrebbe l’abbondanza. I suoi porti, che non sarebbero chiusi né all'uscita di questo genere né al suo ingresso, darebbero da una parte e prenderebbero dall'altra. I prezzi sarebbero allora sempre ad un giusto livello, e non si vedrebbero quelle alterazioni istantanee che o fanno impallidire il ministro o conducono al fallimento il negoziante, il proprietario e l’agricoltore.

La massima libertà dunque nel commercio di un genere non può mai produrre in uno Stato la prima specie di carestia, che si è detto essere il difetto della quantità necessaria all'interna consumazione. Vediamo ora se può produrre la seconda, cioè l'alzamento del prezzo, a tal segno che una porzione de' cittadini non potrebbe provvedersene. Questo non può mai avvenire, ed io lo provo con due ragioni. La prima di queste è semplicissima. Quando avviene, io domando, che il prezzo di una merce, della quale esiste in uno Stato la quantità necessaria al suo bisogno, sia oneroso, alterato, superiore al giusto livello? Quando tutta la quantità esistente della merce si è unita in poche mani. Allora manca la concorrenza tra' venditori, allora il numero di quelli che vendono essendo piccolissimo, esorbitantemente crescerà in vigore delle premesse il prezzo della merce, allora finalmente il monopolio è inevitabile. Or questo disordine appunto è quello che si evita colla libertà del commercio. Quando ciaschedun proprietario può fare quell'uso che vuole de' prodotti del suo terreno, ciaschedun proprietario sarà il negoziante di questi prodotti. Egli non vorrà sicuramente spogliarsi di questo vantaggio. I soli vincoli artificiali, le sole proibizioni possono obbligarlo a metterli Ira le mani di un monopolista avveduto, per non sapere qual uso fame. Ecco la prima ragione. La seconda poi è fondata sulla conseguenza necessaria che deriva dall’aumento istesso del prezzo, allorché quest’aumento non va in beneficio di tre o quattro monopolisti, ma de' proprietari de' terreni. Quando questi son ricchi, è ricco lo Stato; quando essi son poveri, lo Stato è povero. Tutti gli ordini della società debbono confessare, che la loro sorte è unita a quella de' proprietarii de' terreni. L’artefice che veste i loro corpi, che fabbrica le loro case, che costruisce i loro mobili, che lavora gli utensili necessarii alla coltura de' loro fondi, che provvede, in una parola, al loro comodo ed al loro lusso; il mercenario che li serve, l'avvocato che li difende, il mercadante che commercia per loro, il marinaro cd il vetturale che trasporta i loro prodotti ecc., tutti questi individui travaglieranno più e saran meglio pagati da' proprietarii de' terreni, quando essi vendono a più caro prezzo i loro prodotti. Se i non proprietarii debbono pagarli a più caro prezzo, le loro opere debbono anche a più caro prezzo esser pagate da' proprietarii. Il prezzo dunque de' generi sarà caro, ma non sarà superiore alle forze di coloro che debbono pagarli.

Da queste riflessioni, che ho appena accennate per non mancare a quella brevità della quale fo professione, si può con sicurezza dedurre che né l’una né l'altra specie di carestia può esser la conseguenza di una libertà illimitata nel commercio de' prodotti del terreno. Vediamo ora se l’una e l’altra sono le frequenti appendici della privazione di questa libertà.

Se l'esperienza non ci facesse vedere la frequenza delle carestie ne’ paesi ove ha luogo questo sistema funesto, malgrado l’ubertà de' loro terreni e la regolarità delle stagioni, la sola ragione basterebbe per mostrarci quanto essi debbano essere esposti a questo disastro. Per persuadercene ritorniamo all’ipotesi che si è premessa, affinché il parallelo tra' due sistemi sia più esatto.

Si supponga che la quantità della raccolta di un genere, il commercio del quale è vincolalo, superi quella che la sua consumazione interna richiede: in quest’ipotesi qualc sarà l’uso che si farà di questo superfluo? O si lascerà marche nel paese, o con una limitata estrazione accordala dal governo e preceduta da informazioni, da richieste e da calcoli, si permetterà che esca dallo Stato. Or nell’uno e nell’altro caso io dico che la coltura di questo si risentirà de' vincoli che il governo impone al suo commercio, e nell’uno e nell’altro caso la nazione è esposta al pericolo di un’imminente carestia. Questo è evidente. Nel primo caso lasciandosi marcire questo superfluo, vietandosene con rigore l’estrazione, il prezzo del genere si deve necessariamente avvilire; e se questo superfluo è grande, si avvilirà a tal segno che scoraggerà l'agricoltore dal proseguirne la coltura. L’abbondanza di un anno produrrà dunque la carestia di un altr’anno.

Nel secondo caso avverrà l’istesso effetto riguardo alla coltura, ma si recherà un danno anche peggiore allo Stato. Questo sembra un paradosso, ma io lo dimostro.

In un paese ove il commercio di un genere non è libero, prima che il governo sappia se la quantità che ne esiste nello Stato superi quella che l'interna consumazione richiede, deve lungo tempo passare. Le frodi che si possono commettere in questo appuramento e la difficoltà di fare un calcolo, i dati del quale sono tutti incerti, esigono la massima oculatezza del governo. L’estrazione dunque di questo superfluo non si accorderà che scorsi varii mesi dopo la raccolta, cioè dopo che i possessori delle terre costretti dall'inesorabile bisogno l'han già venduto, dopo che la derrata si è già tutta ammassata presso i monopolisti. Che ne avviene da questo? Succeduta l’estrazione, il prezzo del genere si vede istantaneamente crescere senza che i proprietarii de' terreni possano profittarne, perché si trovano già venduta a vivissimo prezzo la derrata in un tempo, nel quale e la concorrenza de' venditori e la quantità della derrata e il piccolo numero delle richieste si combinavano per renderne tenuissimo il valore. L’istesso motivo dunque che gli avrebbe distolti dalla coltura di questo genere nel primo caso li distoglie anche nel secondo, colla differenza però che le spese della sementa essendo maggiori allorché l’estrazione ha fatto crescere il prezzo del genere, l'impedimento sarà anche maggiore. Inoltre, siccome il profitto di quest'estrazione va tutto in beneficio degl’incettatori e non de' proprietarii, i non possidenti (la sorte de' quali come si è osservato, è sempre dipendente da quella de' possessori delle terre) non trovando da impiegare le loro braccia e i loro talenti, o almeno non trovando ad impiegarle con maggior vantaggio di prima perché la miseria de' proprietarii non permette loro di fare quelle spese che farebbero essendo ricchi; i non possidenti, io dico, vedranno crescere dopo l’estrazione il prezzo di quel genere, senza che cresca proporzionatamente in essi la possibilità di pagarlo.

Nel primo caso dunque l’abbondanza di un anno produce una carestia di quantità nel seguente anno, e nel secondo caso essa produce una carestia di prezzo nell’istesso anno e una carestia di quantità nell’anno seguente. Quando dunque il commercio di una derrata è vincolalo, un’estrazione data accidentalmente dai governo ben lontano dall'esser giovevole è perniciosissima, è più perniciosa dell'istessa proibizione (172). Sotto qualunque aspetto dunque che si consideri quest'ingerenza del governo, questo difetto di libertà nel commercio del prodotto del terreno si troverà sempre essere fatale alla popolazione per la sussistenza che diminuisce, e funesta all'agricoltura, alle arti e all’industria per lo scoraggimento e la miseria che cagiona ne’ proprietarii de' terreni.

Ma non finiscono qui gli ostacoli che il governo oppone ai progressi dell'agricoltura. Ve ne sono degli altri che mi contento solo di enunciare, per evitare le ripetizioni inutili che con ragione contribuiscono tanto al discredito di un’opera. Questi sono; I. l’alienazione continua delle tasse sui terreni; II. l'alterazione delle rendite dcl fisco; III. la natura di alcuni dazi; IV. la maniera di esigerli; V. la moltiplicità degli uomini che tolgono all'agricoltura non per giovare, non per difendere, ma per defraudare la nazione ed il principe nell’esazione delle sue rendite; VI. il sistema militare presente. Di quest'ultimo si è già a lungo parlalo e degli altri si parlerà nel decorso di questo libro, dove l'ordine delle mie idee e la distribuzione della materia che ho per le mani mi permette di osservare questi disordini in tutta la loro estensione, sotto tutti i loro aspetti, e mi permette più di ogni altro di distendermi sulla scella de' mezzi proprii per estirparli.


vai su

CAPO XII

Seconda classe degli ostacoli che si oppongono a' progressi dell'agricoltura quelli che derivano dalle leggi

Gli Ateniesi sacrificavano agli Dei non conosciuti, e noi dovremmo sacrificare al Dio conosciuto affinché ci preservasse dagli errori che non si conoscono. questa preghiera pubblica, che la Provvidenza non sdegnerebbe di ascoltare e di esaudire, ci farebbe forse vedere nelle nostre leggi alcuni difetti ed alcuni errori, i quali se non distruggono intieramente l’agricoltura la mantengono almeno in quello stato di avvilimento nel quale noi la vediamo: avvilimento, che il declamatore attribuisce a' vizii degli uomini, il volgo a' flagelli del cielo, l’agricoltore all’intemperie delle stagioni, il progettista inetto all'ignoranza delle macchine e degl'istromenti proprii per facilitare la coltura; ma che il solo filosofo, che medita ed osserva, ritrova ne’ vizii de' governi e negli errori delle leggi (173).

Vi sono in molte nazioni dell'Europa alcune leggi che paiono espressamente emanate per distruggere l’agricoltura. Alla testa di queste io ritrovo quella, che proibisce ai proprietarii delle terre di murare i loro poderi e di chiuderli con ogni specie di siepe o di argine. Se non si fosse dimostrato e colle ragioni e colla esperienza quanto la chiusura de' terreni contribuisca all'ubertà delle raccolte, quanto acceleri la riproduzione, quanto moderi i rigori del freddo e l'urto de' venti cosi distruttori nella primavera; se l’esperienza dell'Inghilterra non avesse fatto vedere che il prodotto delle terre rinchiuse supera di un quarto per lo meno quello delle terre che non lo sono, e che la pastura invece di risentirsene vi trova i più grandi vantaggi; se non si fosse, io dico, dimostrato tutto questo per assicurarsi dell'ingiustizia e de' mali che arreca questa legge all’agricoltura, basterebbe scorrere per le campagne per vedere quanto questa proibizione scoraggisca l’agricoltore, il quale vede una metà della sua raccolta perire in ogni anno per dover tenere esposto il suo campo agli animali che vanno a pascolarvi da' quali è quasi impossibile di garantirsi, alle vetture che vi passano per risparmiare i cattivi passi delle strade pubbliche, ed a' furti che vi si fanno colla protezione istessa della legge.

Avendo io domandato un giorno ad un agricoltore di buon senso, perché non piantasse egli nel suo podere niuna specie di piante, di gelsi particolarmente cosi profittevoli oggi che la seta è divenuta uno dei principali oggetti dell'industria; a questa domanda, dopo aver mandato fuori un profondo sospiro, egli mi rispose: Signore, io sono troppo avveduto ne’ miei interessi, io non avrei trascurato un oggetto cosi profittevole se la legge non me lo proibisse. È vero, seguitò egli, che non vi è alcuna legge espressa che mi proibisca di piantare quante piante io voglia nel mio podere, ma vi è una legge espressa che mi proibisce di chiuderlo. Or sappiate che dieci sole capre, che s’introducono nel mio campo, basterebbero per distruggere in poche ore cinquecento piante tenere di gelsi, se io ardissi di piantarle. Ancorché io avessi il dritto di proibire a qualunque specie di animali di venire a pascolare nel mio podere, dritto che la legge non mi dà che in alcuni mesi dell’anno (174), ancorché, io dico, avessi questo dritto, potrei forse soggiacere alla spesa che si richiede per custodire come si conviene un campo aperto da tutte le parti? Non sarebbe una stranezza lo spender tanto a migliorare un fondo che le leggi condannano a languire? Che queste mi permettano di chiuderlo, che mi permettano di far valere nel mio campo quel dritto che io ho nella mia casa, che mi restituiscano finalmente la libertà di disporre di quello che è mio, e voi vedrete dopo pochi giorni tutto il mio podere circondato da gelsi, da olivi e da ogni altra specie di piante che questo terreno è atto a nudrire.

Questa semplice risposta di quest’agricoltore mi sorprese. Io ne dedussi dapprincipio l’ostacolo che questa legge oppone ai progressi dell’agricoltura, e riflettei quindi al colpo fatale che reca ai sacri dritti della proprietà. Io non so intendere come i legislatori l’abbiano rispettata cosi poco. Ancorché la chiusura de' terreni fosse una cosa indifferente per i progressi dell’agricoltura, ancorché giovasse a qualche cittadino, io non veggo nella legge che la proibisce che un’ingiustizia manifesta, un attentato contro gl’imprescrittibili dritti della proprietà.

Non bisogna confondere le leggi proprie per dirigere un ordine di frati colle leggi proprie per dirigere una società civile. In un chiostro tutto è di tutti, niente è individualmente di alcuno, i beni formano una proprietà comune. Questo è un solo essere, dice uno scrittore celebre (175), fornito di venti, trenta', quaranta, mille, diecimila teste. Non è cosi di una società. In questa ciascheduno ha la sua testa e la sua proprietà, una porzione della ricchezza generale, della quale egli è il padrone ed il padrone assoluto, e della quale egli può usare ed anche abusare a capriccio. Ancorché il bene pubblico esigesse che egli ne facesse uso in una certa maniera, il legislatore non deve prescriverglielo espressamente. Egli deve ricorrere alle vie curve; egli deve in tal maniera combinare i suoi interessi, che questo proprietario faccia della sua proprietà quell’uso che la legge desidera, ma che lo faccia spontaneamente senza l’espresso comando delle leggi.

La differenza tra una nazione ben regolata e una nazione mal regolata è questa. Nella prima gli uomini vanno direttamente, ed obliquamente vanno le leggi; e nella seconda obliquamente vanno gli uomini e direttamente le leggi. Nella prima il legislatore maneggiando l'interesse privato del cittadino, l’induce a fare quello ch’egli vuole senza obbligarlo, senza neppure palesarglielo; e nella seconda egli lo inasprisce, lo irrita, lo dispone a divenir refrattario, mostrandogli il suo disegno, la sua volontà, la sua forza e nascondendogli i suoi interessi.

Lo stabilimento, per esempio, dell’imperatore Pertinace, il quale volle che un campo lasciato incolto appartenesse a colui che l’avrebbe coltivato, andava troppo direttamente al suo scopo. Per proteggere l'agricoltura egli offendeva la proprietà, che dee essere il primo nume del legislatore (176).

Se un campo è mio, io posso consecrarlo alla sterilità, e il decoro della proprietà richiede che la legge poi permetta riguardo a questo oggetto di essere un cattivo cittadino. Poiché se essa mi toglie questa libertà, se essa mi comanda di coltivarlo e di coltivarlo a suo talento, io non sono più il padrone del mio fondo, io non ne sono che un amministratore dipendente dalla volontà di un altro.

Premesse queste riflessioni, che diremo noi della legge che proibisce al proprietario di chiudere e di murare il suo fondo? Ancorché questo giovasse in qualche maniera a' progressi dell’agricoltura, non altrimenti della legge di Pertinace, basterebbe questo per giustificarla dall’oltraggio che fa alla proprietà? Si può forse cercare un bene col soccorso di un'ingiustizia, e gittare a terra una città per innalzare sulle sue rovine un sontuoso edificio? Ma se questa legge non solo non è favorevole, ma distrugge l’agricoltura; se nel tempo istesso che ferisce ed altera tutti i principii della sacrosanta proprietà, scoraggisce l’agricoltore dal piantare, dal seminare, dal coltivare (come si è veduto); se nel tempo istesso ch’è ingiusta è anche perniciosa, non si dovrà forse considerare come l’ignominia de' nostri codici, e come il ramo più irregolare e più informe di quella quercia mostruosa ed antica, misera e vergognoso emblema della legislazione presente delle nazioni d’Europa?

Uno spirito di pastura male intesa ha dettata questa legge, e l’istesso spirito fa ancora sussistere i fondi demaniali in una gran porzione dell’Europa. Questi fondi, che essendo di tutti, si può dire che non sono di alcuno, questi fondi che sacrificano alla sterilità una parte considerabilissima de' terreni delle nazioni, questi fondi che vendendosi a' particolari cittadini farebbero crescere quasi di un terzo la massa dell’annua produzione, questi fondi finalmente che potrebbero somministrare ad un legislatore avveduto i mezzi per cominciare la gran riforma che si dovrebbe intraprendere nel sistema universale delle contribuzioni; questi fondi, io dico, sono condannati a languirà per essere il pascolo di poche pecore, che l'indigenza vi conduce per non avere né proprietà, né richieste per impiegare le sue braccia. Il timore di nuocere a questa classe infelice di cittadini, i quali per altro sarebbero i primi a profittare della vendita de' demanii, questo timore distoglie i nostri legislatori da un’intrapresa che potrebbe forse far mutar di aspetto l’agricoltura nell’Europa, e questo stesso timore fa ancora sussistere in molte parti la legge che proibisce la chiusura de' terreni. Misera condizione dell'umanità: la barbarie, l’ignoranza, i pregiudizii, fino la pietà istessa de' legislatori, tutto cospira alla sua miseria! Ma non sono questi i soli ostacoli che le leggi oppongono a' progressi dall'agricoltura (177). Ve ne sono degli altri, una porzione de' quali è mescolata tra le rovine ancora esistenti del sistema feudale.

Quando questo sistema fatale era il sistema di tutta l'Europa, quando l’anarchia de' fondi era nel massimo suo vigore, i metalli non entravano nelle contribuzioni pubbliche o private. I nobili servivano lo Stato non colle loro borse, ma colla loro persona, e i loro vassalli somministravano loro le rendite o in derrate o in opere. Da questo ebbero origine le decime sopra tutti i prodotti, e quella prestazione di opere che il barone esigeva da' vassalli e che i barbari chiamavano Corvata.Questi disordini, che distruggono direttamente l'agricoltura, avrebbero dovuto intieramente svanire colla rovina del sistema feudale. Ma il fatto non corrispose alle speranze de' popoli. Ciaschedun principe divenuto solo padrone ne’ suoi Stati abolì come magistrato alcuni abusi nati dal dritto della guerra, dritto che distrugge tutti i dritti; ma molte usurpazioni consecrate dal tempo furono rispettate, malgrado le grida della libertà e dell’interesse pubblico. La maggior parte delle prestazioni personali non sono state abolite in molte nazioni di Europa; e le decime sopra tutti i prodotti della natura, che avrebbero dovuto essere abolite o permutate, sono per la rovina dell’agricoltura ancora in uso nella maggior parte di questi scheletri non ancora inceneriti delle moderne baronie.

Sussiste ancora quasi universalmente il barbaro dritto della caccia. Questa è un’altra reliquia della feudalità. I popoli del Settentrione, questi Irochesi dell’Europa, de' quali noi abbiamo vergognosamente conservate le leggi, erano cacciatori per professione e per bisogno. Quando essi discesero nel Mezzogiorno, quando strapparono all’Impero moribondo le sue più belle provincie, quando essi s’impadronirono de' paesi più favoriti dalla natura, non si poterono dimenticare del loro antico mestiero. Essi non vollero lasciare di esser cacciatori. Ma siccome non era più il bisogno che ve li chiamava, ma il piacere, questo esercizio dopo essere stato l'oggetto dell’occupazione dell’indigenza, divenne una delle delizie e delle ricercate distrazioni dell’opulenza, della noia e della voluttà. Il padrone del feudo, il barone solo potè disporre della caccia nel suo feudo. Per soddisfare senza molto stento a questo piacere, per moltiplicare le vittime del suo ozio distruttore, ciaschedun feudatario volle avere a spese de' suoi vassalli alcuni vasti spazi riserbati a sé per questo piacere; in maniera che dovunque si trovavano i segni della proibizione, ivi si trovava una quantità immensa di animali privilegiati, autorizzati a devastare le campagne e destinati a perire esclusivamente per le sue mani. Questo dritto che risente di tutta la barbarie de' tempi ne’ quali ha avuto origine, questo dritto contrario alla proprietà, all’interesse pubblico e che non lascia di nuocere infinitamente a' progressi dell’agricoltura, non solo non è stato abolito, ma si esercità col massimo rigore in una gran porzione dell’Europa; e questo avviene ne’ paesi ne’ quali non vi è che l’ombra sola della feudalità. Or che dovrà avvenire in quelli, ne’ quali questo mostro conserva ancora il suo antico vigore?

Che dovrà dirsi della Danimarca, della Polonia, di una gran parte dell'Alemagna e della Russia, ove la filosofia, che ha illuminato il resto dell’Europa e fissati i dritti dell’umanità non ha potuto ancora annientare la servitù della gleba.Chi lo crederebbe! Questa specie di schiavitù sussiste ancora in alcuni paesi, che da più di dieci secoli vantano la loro libertà e combattono per essa. Questa libertà risiede in poche migliaia di nobili e di preti; il resto della nazione è composto di schiavi attaccati al suolo ove nascono, che non conoscono né la proprietà reale, né la personale, che coltivano un terreno che non è loro, e i frutti del quale vanno intieramente a colare tra le mani del tiranno che gli opprime. La loro fortuna indipendente dall’esito della raccolta li priva del dolce sentimento della speranza, unico sprone della fatica. Essi coltivano per timore del bastone sempre innalzato sul loro dorso. Se questo scomparisce, se si ritira per un momento, il corso del lavoro è interrotto, e la natura irritata vendica colla sua sterilità i torti che la legge reca a' suoi coltivatori. qual meraviglia che l’agricoltura sia nel pessimo stato in questi paesi? Potrebbe essa prosperare fra le rabbie della disperazione, fra le minacce della forza, fra l’avvilimento, la bassezza e l’ignoranza della schiavitù, sotto la verga della tirannia? Ma io non la finirai mai se volessi esaminare distintamente tutti gli ostacoli, che le leggi feudali oppongono a' progressi dell’agricoltura nelle diverse nazioni dell’Europa. Siccome queste leggi non sono dappertutto le istesse (178), siccome in una stessa nazione esse variano relativamente a' privilegi accordati nelle concessioni de' feudi, siccome finalmente il difetto dell'uniformità, questa caratteristica di una legislazione difettosa è propriamente il vizio inerente de' codici feudali, per rilevare tutti gli ostacoli che questi oppongono a' progressi dell’agricoltura io dovrei entrare in un dettaglio che ricercherebbe un’opera a parte. Mi basta di avere accennali i più grandi e i più comuni; quelli che non han luogo che in un sol paese non entrano nel mio piano (179).

Io passo finalmente a rilevare un altro disordine che non è né piccolo né particolare, che non nasce dai difetto delle leggi ma dalla loro esecuzione, e che ci dimostra quanto anche le buone leggi sono inutili quando tutto il sistema della legislazione è difettoso.

Di questo disordine io parlerò nel seguente Capo, che non sarà che un’appendice di questo ch’io termino.

CAPO XIII

Proseguimento dello stesso soggetto

Che dovrebbe dirsi di un paese, nel quale le cattive leggi si osservano e le buone si trascurano e sono messe in disuso? Tutti i presagi circa la sua sorte non gl’intimerebbero forse una rovina imminente? Or questo è infelicemente lo stato di molte nazioni dell’Europa.

Noi abbiamo cosi nel dritto comune come nel municipale alcune leggi utilissime per proteggere le cose necessarie al lavoro della terra, e per vegliare alla sicurezza, alla tranquillità ed al comodo degli agricoltori. I vecchi codici delle Romane leggi ci han tramandati molti stabilimenti degl’imperatori relativamente a quest’oggetto. Noi sappiamo che Costantino il Grande ordinò sotto pena di morte agli esattori del fisco di lasciare in pace l’agricoltore indigente (180). Egli fece anche di più. Siccome Ira gli altri pesi delle provincie vi era quello di somministrare i bovi per le vetture pubbliche, Costantino escluse da questa contribuzione quei bovi che erano addetti alla coltura della terra (181). Non contenti di questo gl’imperatori Onorio e Teodosio vollero anche con altre leggi garantire gli agricoltori da quella specie di nemici nascosti, che vanno in nome della legge a toglier loro da mezzo ai solchi il bue compagno de' loro sudori, e fino a privarli degl’istromenti stessi del lavoro. Per ottener questo fine essi proibirono al creditore di privare il debitore di tutto quello che poteva servirà alla coltura della terra per costringerlo al pagamento. Gli schiavi, i bovi e tutti gl’istromenti agrari erano compresi in questa proibizione, e la pena di morte fu destinata a coloro che avrebbero violata la legge (182).

Gl’imperatori Valente e Valentiniano non trascurarono un oggetto cosi interessante, e la maggior parte de' codici municipali dell’Europa ha confermati questi stabilimenti della Romana politica, se non in tutto, almeno in parte (183). Ma chi non sa quanto queste leggi sono poco osservate nella maggior parte delle nazioni, quanti mezzi si sono trovati per eluderle, quanti attentati si commettono contro la più giusta di tutte le immunità, contro quella che considera come sacre le cose destinate alla riproduzione?

Il bue, il cavallo, quella porzione istessa della raccolta destinata alla sementa, tutto s’immola all’avidità del creditore e alle cento bocche sempre aperte del fisco.

Il sistema funesto d’indagare lo spirito della legge, sistema distruttore della libertà civile, ha somministrato a' nostri magistrati il mezzo più strano che si possa immaginare per eludere il senso espresso di queste leggi. Allorché un creditore ricorre contro un agricoltore insolvibile, se questi ha un bue il magistrato gli ordina di darlo al suo creditore in soddisfazione del suo debito, e crede di secondare lo spirito della legge proibendo al creditore di vendere questo bue al macello. Che importa, dicono essi, che il bue sia di questi o di quello, basta che non si tolga alla coltura questo istromento di riproduzione per secondare l'idea del legislatore.

Bisogna dunque supporre che gli imperatori di Roma e tutti gli altri legislatori che han confermate queste determinazioni, credessero che non vi fosse in natura che un numero fisso di buoi atti a strascinare l'aratro, e che per conseguenza non potesse alcuno provvedersene senza privarne un altro. Si può forse ideare un giudizio più mal fondato di questo? Si può forse indagare lo spirito di una legge con maggior bassezza? Se Montesquieu fosse riuscito con altrettanta felicità in questo mestiero, il suo nome che oggi fa la gloria della sua patria non farebbe che occupare una riga di più nell’elenco alfabetico de' miseri glossatori. Se i governi dunque, le leggi, i magistrati, se tutto contribuisse a rendere dura e penosa l’arte più antica e più necessaria, che speranza avremo noi che le campagne divengano feconde, che queste fioriscano fra i sudori e le lagrime dell'indigenza e sotto i passi distruttori dell’oppressione? Quando tutti i privilegi e tutte l’esenzioni sono per le città e tutti i pesi per le campagne, quando il nome di villano è divenuto oltraggioso, quando la condizione istessa di colui che vende nella città la sua persona al più offerente è divenuta migliore di quella del cittadino che nudrisce il sovrano e la patria, quando torna più conto di andar mendicando nelle grandi città che soccorrer la natura nelle campagne, quando finalmente i clamori e le lagrime di quest'infelici non si curano e si disprezzano, nel mentre che tutto si sacrifica nelle capitali alle grida insensate di una turba di esecri senza beni, senza proprietà, senza onore, ed il solo merito de' quali è di esser sempre irritabili e sempre turbolenti; quando, io dico, questo è il sistema politico del secolo, qual maraviglia ci dovrà recare il vedere in quasi tutte le nazioni dell’Europa ingrandirsi sempre più a spese delle campagne questi colossi fastosi delle capitali, i quali pare che contribuiscano al decoro degli Stati, ma infatti gli opprimono col loro peso, e ad altro non servono che a perpetuare l'inganno nel quale sono i governi circa la prosperità de' loro popoli? Di questo funesto disordine, di questo disordine distruttore dell’agricoltura, delle cause che più particolarmente cooperano a fomentarlo e de' remedii più opportuni per indebolirlo io parlerò nel seguente Capo.


vai su

CAPO XIV

Terza classe degli ostacoli che si oppongono a' progressi dell’agricoltura: quelli che derivano dalla grandezza, immensa delle capitali

Il volgo, al quale tutto quello che è grande impone, ammira le grandi città e le capitali immense. Il filosofo non vi vede altro che tanti sepolcri sontuosi, che una moribonda nazione innalza cd ingrandisce per riporvi con decenza e con fasto le sue ceneri istesse. Io non dico che non vi dovrebb’essere una capitale in una nazione ben regolata. L'etimologia istessa della voce ci fa vedere, che questa è cosi necessaria ad uno Stato come la testa è necessaria al corpo; dico solo che se la testa ingrandisce troppo, se tutto il sangue vi corre e vi si arresta, il corpo diviene apopletico e tutta la macchina si discioglie e perisce. Ora in questo stato di apoplessia sono infelicemente la maggior parte delle nazioni dell’Europa. La loro testa si è ingrandita a dismisura. La capitale che dovrebb’essere una porzione dello Stato è divenuta il tutto, e lo Stato non è più niente. Il numerario, questo sangue delle nazioni, vi si è funestamente arrestato, e le vene che dovrebbero trasportarlo nell’interno dello Stato si son rotte o oppilate. Gli uomini, che seguono il corso del metallo come i pesci seguono la corrente delle acque, hanno abbandonate le campagne per fissare la loro sede nel solo paese ricco della nazione. Uomini e ricchezze, tutto si è concentrato nell’istesso punto; essi si sono ammucchiati gli uni su degli altri lasciando dietro di loro spazi infiniti, e ciascheduna di queste gran capitali è divenuta una seconda Roma che conteneva tutti i suoi cittadini fra le sue mura. Questo è lo stato presente della maggior parte delle nazioni dell’Europa, stato incompatibile co’ progressi dell’agricoltura e colla prosperità de' popoli. Bisognerebbe contrastare un assioma nella facoltà rurale, che indipendentemente dalla sua fecondità la terra produce sempre a misura di quel che se le dà. Or se le darà sempre poco finché tutto quel che vi è di ricco nello Stato abiterà nella capitale, finché il proprietario abbandonerà il suo fondo Ira le mani di un fattore poco impegnato a migliorarlo, finché il danaro che corre nella capitale vi resterà sepolto, finché le spese che vi si fanno non permetteranno al proprietario che l’abita diserbare una porzione delle sue rendite per migliorare i suoi fondi, sempre mal coltivati lontano da' suoi occhi; finché tanti esseri, che potrebbero coltivar la terra e moltiplicare la somma delle sue produzioni, perseguitati dalla miseria fuggiranno nelle capitali per andar mendicando un pane ch’essi potrebbero somministrare agli altri, o per vendere il loro ozio ad un ricco più ozioso di essi; finalmente si darà sempre poco alla terra, finché la sua coltura s’abbandonerà Ira le mani dell’indigenza sempre deboli e sempre sterili.

Queste sono le conseguenze necessarie della grandezza immensa delle capitali, e questi sono gli ostacoli che cotesto disordine reca a' progressi dell’agricoltura. Per cercare un rimedio a questo male un principe de' nostri tempi ha proibito a tutti gli agricoltori del suo regno di fissare la loro dimora nelle città. Nessuna legge ha mai ottenuto meno il suo fine di questa. Invece di proteggere l’agricoltura l’ha degradala, e la popolazione delle sue città invece di diminuirsi è cresciuta. I mali sussistono, i rimedi sono inutili quando non si volgono gli occhi alle cause. Or molte son quelle che concorrono ad ingrandire le capitali sulle rovine delle campagne. Io le distribuisco in due classi. Altre sono necessarie, altre sono abusive. Contro le prime bisogna cercare un compenso, contro le seconde una riforma.

Vediamo adunque prima di ogni altro quali sono le necessarie, e quale sarebbe il compenso da opporre alla loro azione sempre viva.

La capitale, considerata come sede del governo, deve necessariamente richiamare a sé molte ricchezze e molti uomini. Siccome ciaschedun proprietario deve pagare allo Stato una porzione delle sue rendite o una tassa sopra i suoi fondi, siccome l’industria di ciaschedun uomo gli deve anche più o meno secondo le leggi o gli usi fiscali di ciaschedun paese, secondo i diritti stabiliti sulle consumazioni, sull’esportazioni, sulle materie prime, sulle manifatture, ecc., tutte queste somme immense vanno necessariamente a colare nella capitale. I gran ministri del sovrano e dello Stato, i magistrati de' tribunali superiori, tutti i cortigiani dove vi è un trono, e tutti gli altri impiegati nel numero infinito delle cariche che richiede l’organizzazione superiore del governo, tutti questi, io dico, consumano nella capitale non solo i loro soldi, ma anche le rendite de' loro fondi. L’ambizione, la speranza di fare una fortuna sotto gli occhi del governo, l'attrattiva de' piaceri più raffinali e più numerosi nelle capitali, il fasto della code e de' cortigiani, l’abborrimento naturale dell'uomo per la vita oscura, l’amore istesso della sociabilità, sono tante altre sorgenti perenni, che non si possono oppilare, le quali tutte richiamano nella capitale molte ricchezze e molti uomini e che la ingrandiranno sempre più se le leggi non danno un compenso alle campagne, se esse non danno a queste acque uno scolo che le riconduca nell’interno dello Stato donde sono partite; se finalmente la loro tacita sanzione non istabilisce un equilibrio Ira le ricchezze delle campagne con quelle della capitale, equilibrio che non sarebbe difficile ad ottenersi quando la legislazione fosse l’opera della ragione e della filosofia.

Vediamo dunque quale sarebbe questo compenso, come si potrebbe dare questo scolo, come si potrebbe ottenere quest'equilibrio.

Bisogna persuaderai che tutto è catena in questo mondo. I beni come i mali hanno la loro filiazione, e questa filiazione è in certa maniera reciproca. Da un solo male nascono molti mali, da un solo bene nascono molti beni. Cosi un commercio interno più libero, un'esportazione più facile proscrivendo la miseria dalle campagne, primo e grande ostacolo all'agricoltura, diminuirebbe nel tempo medesimo queste grandi masse, le quali da per loro stesse la distruggono anche di più. Il proprietario potendo allora unire i beneficii dell’agricoltura a quelli del commercio, quelli della produzione a quelli del traffico, non abbandonerebbe le sue terre, le quali avrebbero bisogno della sua presenza continua per recargli tanti vantaggi. L'agricoltore che troverebbe sempre a vendere la sua opera ad un prezzo ragionevole quando i proprietari cercassero di far valere i loro fondi, molto meno abbandonerebbe la campagna per far il mestiere di mendicante in una capitale, mestiere naturalmente disgustevole, ed al quale l’uomo non si determina che o per un estremo bisogno o per un abito preso dall’infanzia. Finalmente queste cause, che alienerebbero i proprietari e gli agricoltori dalla dimora Della capitale, diminuirebbero anche la somma di quegli esseri oggi cosi eccessiva nelle gran città che fanno un commercio infame della libertà loro, e la condizione dei quali non differisce in altro dalla vera schiavitù che nel diritto di poter mutare un padrone, diritto che unito alla facilita di poter essere licenziati a capriccio gli espone ad un pericolo al quale lo schiavo istesso non è soggetto, cioè di perire dallo stento o di passare i giorni della loro vecchiezza nell’indigenza. Ecco il primo compenso che si potrebbe dare.

La moltiplicazione de' proprietari sarebbe il secondo. A misura che in una nazione cresce il numero de' proprietari si diminuisce il numero de' gran possessori, i quali fanno non solo, come si è osservato, la rovina della popolazione, ma anche dell’agricoltura, si per l’abuso che fanno de' terreni come per le ricchezze e per gli uomini che richiamano nelle capitali. Se ciò che si possiede da uno di questi gran proprietari si possedesse da venti o da trenta piccoli proprietari, questi non potendo reggere al lusso della capitale e della corte abiterebbero nelle provincie e nelle campagne, e farebbero valere i loro fondi colla loro presenza continua. Il gran proprietario al contrario sdegna il soggiorno campestre. Egli non sa vivere senza esser riscaldato da' raggi del trono. Quest’astro che l’oscura, che lo tormenta, che lo degrada, è l’unico oggetto della sua vite ambizione. Per essergli vicino egli consuma le sue rendite, egli trascura i suoi interessi, egli vive nella capitale, lvi per palesare il suo lusso e le sue ricchezze egli occupa, abusa e profana il pennello dcl pittore, lo scalpello dello statuario e dello scultore, il genio dell'architetto, la fantasia del poeta e tutti gli ordigni delle manifatture e delle arti. lvi egli mantiene uno stuolo prodigioso di oziosi, che servono più al suo fasto che al suo comodo. lvi finalmente egli consuma le sue rendite e quelle della sua posterità. Ecco come la riunione di molte proprietà nelle istesse mani coopera all'ingrandimento delle capitali, ed ecco come lo smembramento di questi e la moltiplicazione de' piccoli proprietari cagionata da una savia legislazione darebbe un gran compenso alle campagne.

Lo stabilimento di molte manifatture nell'interno dello Stato, dando uno scolo alle ricchezze che molte sorgenti trasportano nella capitale, non contribuirebbe meno a diminuire la loro prodigiosa grandezza. Questo stabilimento, che gioverebbe all'agricoltura aprendo una strada per la quale una porzione delle ricchezze della capitale potesse ritornare nell’interno dello Stato, gioverebbe anche alle manifatture istesse; poiché la sussistenza essendo sempre a miglior mercato nelle provincie che nella capitale, il manifatturiere spendendo meno diminuirebbe anche il prezzo delle sue manifatture, diminuzione che ne aumenterebbe la consumazione generale. Noi sappiamo che Colbert riusci in questa intrapresa. Che non mi si opponga dunque la solita obbiezione dall'impossibilità e della difficoltà. Il germe salutare dell’industria si può sviluppare cosi nelle provincie come nelle capitali. Dappertutto gli uomini nascono col desiderio di migliorare la loro condizione, e di profittare di tutto quello che li circonda. I soli errori delle leggi, la sola avidità de' governi può alienarli, può scoraggirli, può finalmente inspirare una certa inerzia nell’uomo che per natura è l’essere più elastico e più attivo. Senza premi, senza incoraggimenti, senza molta fatica si potrebbe tutto ottenere; basterebbe che si togliessero gli ostacoli. Basterebbe forse abolire la miglioria presso di noi, basterebbe liberar le seterie da tanti replicali dazi e dalla schiavitù nella quale gemono, per far rinascere le manifatture nelle nostre provincie. Il primo di questi oggetti ha già richiamate le cure del presente ministero. Il primo passo che si è fatto, se non può da se solo produrre il bene che si desidera, ci assicura almeno della vigilanza del governo. Questo solo basta per dargli un diritto alla nostra riconoscenza. Se l’esperienza c’insegna a dichiararci contenti di un amministrazione che non moltiplica i nostri mali, quanto bisognerà dunque adorare quella che cerca di diminuirli!

Finalmente tutto quello che giova ad accrescere la circolazione interna, le strade pubbliche, i canali di comunicazione, ecc., tutto questo giova ad equilibrare lo stato delle provincie a quello della capitale. Ma siccome questi oggetti debbono piuttosto esser l'opera dell’amministrazione che delle leggi, io lascio ad altri la cura di parlarne.

Dopo aver dunque parlato delle cause necessarie che cooperano all’ingrandimento delle capitali e del compenso che si potrebbe dare alla loro azione sempre viva, vediamo ora quali sono le abusive, contro delle quali non vi è bisogno di un compenso ma di una riforma.

La prima fra queste e la più perniciosa è l’appellazione delle decisioni dei tribunali delle provincie a quelli della capitale. Non vi vuol molto a vedere quante ricchezze e quanti uomini questo funesto sistema richiami nelle capitali, oggi particolarmente che lo spirito litigioso è divenuto l’anima delle nazioni, oggi che la moltiplicità delle leggi rende ogni intrapresa sostenibile, oggi finalmente che i litigi sono dispendiosi ed eterni.

A Dio non piaccia che si abbia a credere che io voglia dichiararmi contro un diritto che è il migliore garante della libertà civile, contro quel diritto che la legge dà a ciaschedun cittadino di appellarsi ad un tribunale superiore dalla prima sentenza di un tribunale inferiore. La confidenza pubblica richiede alcuni rimedi, e l’appellazione è il più ragionevole. Ma questi tribunali superiori non potrebbero forse erigersi nell’istesse provincie? Ciascheduna provincia non potrebbe forse avere il suo? I tesori del principe si risentirebbero forse di un tenue sacrificio che si farebbe al ben pubblico? Ma senza incomodare l’erario del sovrano basterebbe sopprimere tre o quattro cariche fastose ed inutili per recare allo Stato un beneficio, che spopolerebbe la capitale di tanti avvocati che vi consumano la quinta parte delle ricchezze della nazione, di tanti infelici litiganti che vi dissipano le loro sostanze, e di tanti altri cittadini che avvezzi alla dimora della città, durante quel tempo che han dovuto fermarvisi per condurre i loro affari, vi si fissano quindi per sempre allettati da' piaceri che questa loro offre.

In Inghilterra non si conosce questo disordine. I giurati sono sempre presi ne’ luoghi ove è insorta la contesa. Essi debbono avere un presidente o esser convocati da uno de' dodici Gran Giudici d'Inghilterra, i quali si dividono tutto il regno, e ciascheduno di essi va nel corso dell’anno a fare il suo giro nel suo dipartimento per far ultimare tutte le liti. Or siccome è (issato il tempo della sua dimora in ciaschedun paese ed il momento del suo passaggio da un luogo in un altro è determinato, se i giurati non si sono ancora uniti di parere, quando questo tempo è giunto il giudice parte dal luogo e conduce i giurati seco. Sono dunque i magistrati, sono dunque i giudici quelli che viaggiano in Inghilterra e non i miseri litiganti.

Il ristabilimento de' Presidiali pareva che dovesse divenire in Francia il primo passo di questa desiderata novità. Questi tribunali provinciali, destinati a decidere in ultimo grado di appellazione i litigi che non passavano una somma determinala dalle leggi, avevano da più di due secoli perduto il loro antico vigore. L'editto del 1774 gli avea risvegliali da questo languore, al quale la podestà legislativa gli avea condannali. Gli applausi della nazione e dell’Europa avevano premiato lo zelo del principe che l’avea dettato; ma per disgrazia de' popoli gli interessi privati prevalgono spesso sulle grida dell’interesse pubblico. I risentimenti delle corti parlamentarie han fatto modificar l’editto, e la modificazione ne ha distrutti tutti i vantaggi. Questo avvenimento ci trasporta ad una riflessione molto rattristante per l’umanità: ci vuol molto per liberarla dai mali che l’opprimono, ma ci vuol poco per privarla de' beneficii che le si arrecano.

L’appellazione dunque a' tribunali della capitale è la prima causa non necessaria ma abusiva, che più di ogni altro coopera al suo ingrandimento e che si potrebbe facilmente abolire. La seconda sono i privilegi accordati a coloro che l’abitano.

Io non so se converrebbe una volta cancellare dal diritto pubblico delle nazioni l'articolo de' privilegi. Io lascio ad altri l'esame di questa quistione; ardisco però di dire, che se mai l’economia civile richiede che una certa classe dello Stato sia più favorita delle altre, questa parzialità dovrebbe cadere in favore di quella che più la merita, della più utile, cioè della produttrice. Ma la giustizia distributiva ha rare volte guidate le operazioni de' governi. L’interesse, il timore, sono due passioni che hanno troppa forza sul nostro cuore. Il principe quantunque abbia tra le mani tutte le forze della nazione, non lascia di temere coloro che lo temono; e siccome si terne sempre più un cane vicino che un leone lontano, gli abitanti delle capitali come i più vicini al trono sono stati sempre i più temuti, e per conseguenza i più favoriti dal governo e i meno oppressi. Una volta forse questa funesta politica era perdonabile a' principi. Quando il loro potere era diviso o per meglio dire oppresso dalla feudalità, quando una porzione de' loro sudditi era schiava dell’altra ch’era più forte di loro, quando essi non erano re che nelle capitali de' loro regni, essi avevano almeno un motivo che poteva indurli a sacrificare gl’interessi della nazione a quelli della capitale, a rovinare l'agricoltura per tener contenti e moltiplicare il numero di coloro ch’erano più vicini ai loro vacillanti troni. Ma oggi che la pienezza del loro potere si fa egualmente sentire in tutte le parti de' loro vasti imperi, oggi che l’interesse particolare de' principi si unisce con quello dello Stato per conseguire l'effetto opposto, oggi che la ricchezza delle campagne deve decidere della forza del sovrano, dell’opulenza pubblica e della sicurezza del governo; oggi, io dico, questo motivo istesso più non esiste. La sola ignoranza, la sol a forza che il tempo dà agl’inveterati disordini può conservare questa parzialità funesta, ch’è contraria alla giustizia e alla politica, che nuoce allo Stato intiero per giovare apparentemente ad una porzione di esso, e che assai contribuisce al pernicioso ingrandimento delle capitali.

Finalmente il trasporto de' pubblici ricettacoli, come per esempio degli alberghi de' poveri, di quelli degli esposti, de' pazzi, degli invalidi ecc. nell’interno dello Stato, potrebbe ravvivar le provincie e scemar nel tempo istesso la gran popolazione della capitale.

Noi sappiamo per esperienza, che un solo reggimento che forma la guarnigione di una città di provincia basta ad arricchirla. Quanti paesi potrebbe dunque arricchire il trasporto di questi pubblici ricettacoli in diverse parti dello Stato? La magnificenza e il decoro della capitale se ne risentirebbe, io lo confesso; questi pubblici beneficii sepolti nell'interno delle provincie rimarrebbero, è vero, nascosti agli occhi del viaggiatore, che non cerca altro che di vedere la capitale di uno Stato, questa corteccia lusinghiera di un porno inverminito; ma il bene pubblico non è da mettersi in paragone cogli applausi di un viaggiatore poco filosofo. Quello è il vero decoro delle nazioni, quello è il vero fasto che rende risplendenti i troni e più augusta la sovranità; In multitudine populi dignitas regis. Or la popolazione languirà sempre quando languisce l'agricoltura, e l’agricoltura sarà sempre in decadenza finché la capitale sarà ricca e popolata a spese della desolazione e della miseria delle campagne, finché sarà piena di proprietari tolti dai loro fondi, di servi strappali dall’aratro, di fanciulle rapite all’innocenza ed al coniugio, di uomini consacrati al fasto ed all’ostentazione, istromenti, vittime, oggetti, ministri e trastulli della mollezza e della voluttà. Io mi avveggo d’essermi immerso in alcuni dettagli troppo minuti in questo capo; ma io prego coloro che mi accuseranno di questo difetto di ricordarsi che nella scienza del governo e delle leggi, non altrimenti che nella natura, le fibre più oscure delle piante nascoste nelle viscere della terra sono propriamente quelle che alimentano i boschi più maestosi. molte piccole cause riunite possono produrre i più gran mali. Le corde più forti sono composte da fili sottilissimi: bisogna separarli per poterle spezzare.

CAPO XV

Dell'incoraggimento che tolti gli ostacoli si potrebbe dare all'agricoltura rendendola onorevole per coloro che l'esercitano

Prima che nel mondo vi fossero gli eroi distruttori degli uomini, l'umanità già da gran tempo venerava i nomi di Osiride, di Cerere e di Trittolemo. Gli uomini riconoscevano allora tutto dalla terra, ed un’abbondante raccolta era in quei tempi il maggior beneficio della natura. Essi non avevano l’arrogante stranezza di mettere sotto la protezione di un nume una flotta o un’armata, che mossa dall’ambizione fosse andata a distruggere una porzione de' loro simili; ma prostrati innanzi ad alcune zolle di terra ammucchiate, su questi altari della natura essi immolavano vittime agli Dei per ottenere l’ubertà de' loro campi. Alle spinte dell’interesse e del bisogno i primi legislatori de' popoli accoppiarono anche quelle degli onori e della gloria, per animare gli uomini alla coltura della terra. Essi videro quanto questa occupazione avea bisogno più di tutte le altre della protezione delle leggi; essi videro quanto interessava il rendere onorevole l'agricoltura e l’agricoltore. Nella Persia si stabili una festa solenne destinata a risvegliare questa gloriosa opinione, ed a rappresentare la reciproca dipendenza dcl genere umano. In ogni anno, nell’ottavo giorno del mese chiamato da essi Correntruzi fastosi monarchi del persiano impero deponevano le vane loro pompe, e circondati da una più vera grandezza si vedevan confusi colla più utile classe dei loro sudditi. L’umanità riprendeva allora i suoi diritti, e la vanità deponeva le sue assurde distinzioni. Con ugual dignità e con ugual decenza si vedevan seduti all’istessa mensa i contadini, i satrapi ed il gran re. Tutto lo splendore del trono pareva destinato ad illustrare gli agricoltori dello Stato. Il guerriero e l’artista erano esclusi da questa pompa, alla quale la legge voleva che non si ammettessero se non coloro che coltivavano la terra. Miei figli, diceva loro il principe, ai vostri sudori noi dobbiamo la nostra sussistenza; le nostre paterne cure assicurano la vostra tranquillità; giacché noi ci siamo dunque a vicenda necessarii, stimiamoci come uguali, amiamoci come fratelli, e la concordia regni sempre tra noi (184).

Una festa simile, destinata all’istesso oggetto, si celebra fin dalla più rimota antichità nella Cina. Il capo della nazione diviene in ogni anno per otto giorni continui il primo agricoltore dello Stato. Egli conduce un aratro, fa un solco, agita con una zappa la terra, e dispensa alcune cariche a coloro che han meglio coltivato il terreno (185).

Finalmente noi sappiamo quanto le leggi, i costumi, la polizia del governo ed il culto istesso contribuivano in Roma a render onorevole l’agricoltura nei primi tempi della repubblica. Noi sappiamo che la prima istituzione religiosa di Romolo fu quella degli Arvali, sacerdoti addetti ad implorare dagli Dei la fertilità de' campi; che la prima moneta ebbe per impronto un irco o un bue, emblemi dell’abbondanza, e che le tribù rustiche furono preferite alle urbane per render migliore la condizione di coloro che abitavano la campagna per coltivarla. I consoli, i dittatori, i magistrali supremi della repubblica coltivavano colle loro mani la terra; essi si gloriavano spesso di dare alla loro famiglia un cognome, che ricordava alla loro posterità l’occupazione favori la de' suoi padri (186).

Questa fu l’idea onorevole che si ebbe in Roma dell’agricoltura ne’ primi secoli della repubblica. Che se ne’ tempi posteriori le cose cambiarono d’aspetto, se quasi tutte le nazioni giunte alla grandezza hanno sempre abborrite quelle cause che hanno maggiormente contribuito a farvele pervenire, se Roma nell’ubbriachezza delle sue conquiste abbandono quindi la coltura della terra, se Sparta ne fece il mestiere degli Iloti; se i barbari che seguirono e cagionarono la decadenza dell’impero lasciarono agli schiavi la zappa e l’aratro per non portare in mano che la spada e lo scudo; se dopo la scoperta del nuovo mondo le nazioni europee abbagliate dallo splendore dell’oro preferirono le miniere dell’America ai più fertili campi dell’Europa, se la Spagna non coltivò più dacché si vide tra le mani i metalli del nuovo emisfero; se la Francia trascurò sotto il ministero di Colbert i beneficii reali dell'agricoltura per accelerare i progressi delle sue manifatture; se finalmente l'arte la più necessaria, la più onorata in altri tempi è stata per tanti secoli trascurata, degradata ed avvilila, questo non ci deve parer strano allorché si riflette al solito corso dello spirito degli uomini, il quale prima di ritornare a quel punto d’onde è partito scorre per tutti quegli spazi che compongono la circonferenza del cerchio. Ma siamo noi ancora molto lontani dai ritornare a questo punto? Possiamo noi lusingarci di rivedere l’agricoltura nel suo antico splendore? Malgrado gli avanzi degli antichi pregiudizi, malgrado le reliquie ancora esistenti dell’ignoranza di molti secoli, malgrado l’alterazione funesta che ha cagionata nella nostra maniera di pensare il lungo vigore della legislazione de' barbari, de' loro usi, delle loro massime e delle stravagantissime leggi della cavalleria e dell'onore; malgrado, io dico, gli sforzi combinati di tutte queste appendici fatali de' mali che hanno per tanto tempo oppressa l’Europa, potremo noi sperare di veder l’agricoltore onorato, distinto, decorato dalle leggi, da' governi e dall’opinion pubblica istessa? I progressi rapidi delle utili cognizioni, le accademie di agricoltura stabilità in molti paesi dell’Europa, i premi accordati ad alcune scoperte utili, la moltiplicità degli agricoltori filosofi che son comparsi in questi ultimi tempi, sono forse bastanti a giustificare le nostre speranze? Si, ma in un solo caso; quando i governi cominciassero dal provvedere al benessere dell’agricoltore.

Persuadiamoci. L’onore è una molta che può agire in tutti i cuori, quando si sappia comprimerla. Dappertutto gli uomini sono riguardo a quest’oggetto presso a poco gli stessi. Dappertutto essi saranno sempre spinti dalle distinzioni e dalle ricompense. Ma prima che il villano sappia ciò ch’è onore bisogna ch’egli sappia ciò ch'è l’agio ed il comodo. Un cuore oppresso dalla povertà non ha altro sentimento se non quello della sua miseria. Or questa miseria si perpetuerà nella classe la più necessaria e la più benemerita della società, finché dureranno le cause che la producono: si perpetuerà, finché le leggi ristringerauno nelle mani. di pochi tutte le proprietà, tutti i fondi dello Stato; finché le sostituzioni faranno passare per una sequela non interrotta di secoli i continenti intieri ne’ medesimi rami delle famiglie; finché il clericato secolare e regolare ingoierà una gran porzione dei fondi delle nazioni; finché le leggi e gli abusi feudali non saranno riformati; finché nelle campagne dell’Europa il colono servo della gleba o mercenario libero rimuoverà di continuo un terreno, il suolo ed i frutti del quale non gli appartengono, finché le tasse esorbitanti, ingiuste o almeno mal collocate obbligheranno l’agricoltore ad un lavoro assiduo che gli farà sentire tutto il peso della fatica, peso insopportabile allorché non è unito alla speranza di migliorare la sua condizione; questa miseria finalmente si perpetuerà finché queste cause, unità a quelle delle quali si è parlalo negli antecedenti capi, non saranno abolite. Che s’intraprenda dunque questa riforma salutare, che si procuri un certo agio agli agricoltori, che si secondino dappertutto i voli del benefico Enrico IV, che la mensa frugale del colono sia almeno munita di un pollo in ogni giorno di festa: ed allora per perfezionar l’opera, a tanti ordini fastosi che adornano gli oziosi nobili e le corti de' re si aggiunga un ordine pacifico e laborioso; che questo sia il premio dell’agricoltore che avrà meglio coltivalo il suo campo, e del proprietario che avrà saputo colla sua industria e colla sua vigilanza dare un nuovo prezzo al fondo che possiede; che il sovrano decori quest’ordine col vestirsene; che una mano avara lo distribuisca colla maggior economia, e che una bilancia esatta pesi il merito di coloro che lo cercano, che in ogni provincia dello Stato vi sia una società di agricoltori filosofi destinata a spargere nelle campagne i semi salutari di questa scienza, ed a bilanciare il merito di coloro che si saranno resi degni del premio che la legge ha destinato; finalmente che coloro che l’avranno meritato ed ottenuto partecipino agli stessi diritti e godano degli stessi privilegi che le leggi hanno assegnali ad una nobiltà acquistata finora con un titolo qualche volta men giusto, cioè con la spada o con la toga, colla distruzione degli uomini o col deposito spesse volte mal custodito della giustizia. L’agricoltura decorata allora con questo mezzo lascierebbe di essere l’occupazione degli uomini più viti dello Stato; essa diverrebbe il sollievo delle noie del ricco, e riempirebbe i momenti di ozio del magistrale; essa farebbe le delizie del filosofo e dell’uomo di lettere, come in altri tempi lo era del Romano illustre (187). L’uomo dissipato o immerso nella mollezza, familiarizzato allora colle occupazioni e la vita dell'agricoltore deporrebbe i suoi pregiudizi, conoscerebbe l’importanza della fatica e della coltura, e aprirebbe il suo cuore ai sentimenti di benevolenza e di stima per coloro che la esercitano. L’agricoltore dal canto suo animato da questa famigliarità, e dalla speranza di partecipare di un onore che le sue braccia gli offrono e che per ottenerlo non dovrebbe far altro che meritarlo, sentirebbe rinascere il suo coraggio; l’attività de' suoi muscoli sarebbe allora agitata da una nuova forza; tutto si perfezionerebbe Ira queste braccia attive ed onorevoli; la classe più necessaria si moltiplicherebbe, le campagne diverrebbero più popolate, ed allora la terra che noi abitiamo e che oggi languisce con noi quando la natura la chiama alla fecondità, le pianure che non offrono a' nostri occhi che deserti e che sono la vergogna delle nostre leggi e de nostri costumi, comincierebbero a cambiarsi in tanti fertili campi, e i nostri Stati fiorirebbero allora col soccorso dell’agricoltura e dell'industria che oggi fuggono lontano da noi.

Che ne sarebbe in questo caso delle manifatture e delle arti?


vai su

CAPO XVI

Delle arti e dette manifatture

Se l’agricoltura debb’esser considerata come la prima sorgente e come il sostegno delle ricchezze de' popoli, le arti e le manifatture non debbono per questo essere trascurate. Se queste non debbono occupare il primo rango nel gran sistema economico, debbono almeno occupare il secondo. Quando l'agricoltura ha fatti i maggiori progressi in una nazione, quando sotto i suoi auspici la popolazione è cresciuta, quando questa è superiore a quella che la terra richiede per la sua coltura e la società per il suo buon ordine; quando l’abbondanza istessa delle cose necessarie alla vita mette l’uomo nel diritto di ricercare quelle che gliela rendono più piacevole; quando finalmente molte braccia resterebbero oziose, se non si addestrassero a dare una certa forma ai prodotti del suolo, allora una porzione degli abitanti di questo paese diviene manifatturiera; allora, se questo popolo non è immerso nella conquista o non è oppresso dalla schiavitù, unisce i beneficii dall'agricoltura a quelli dell'industria, produce con una mano e perfeziona coll’altra. Ecco quale fu la sorte dell'lndie e della Cina, della Persia e dell’Egitto, di questi paesi che accoppiarono a tutti i tesori della natura le più brillanti invenzioni dell’arte; ecco quale sarebbe stata ancora la sorte della nostra Italia, se avesse potuto lasciare per un momento di essere schiava o di combattere.

La natura stessa delle cose induce dunque un popolo a divenire in questo caso manifatturiere ed artista, e il legislatore deve dirigerlo in questa nuova carriera: di questa necessaria direzione io parlerò in questo capo. Questa è una delle operazioni più difficili della legislazione economica. L’indole dell’uomo trasportato quasi sempre per gli estremi è la prima causa di questa difficoltà. I due più gran ministri della Francia (188) urtarono entrambi in questo scoglio, l’uno trascurandole, l’altro proteggendole troppo. La via di mezzo è quella che si dee ritrovare. Bisogna proteggere le arti senza nuocere all’agricoltura, bisogna incensare la vittima senza oltraggiare il nume.

Il primo oggetto dunque della legislazione economica è di combinare i progressi delle arti e delle manifatture con quelli dell’agricoltura. Per ottener questo fine il legislatore deve promuovere più di ogni al Ira quelle arti e quelle manifatture, che impiegano una maggior quantità di quelle materie prime che sono i prodotti del suo suolo. questa verità molto infelicemente ignorata merita qualche illustrazione.

Si supponga che vi sieno due artefici, ciascheduno de' quali in un anno guadagni colla sua industria mille, ma con tal differenza che l’uno di essi debba impiegare nella sua manifattura una quantità di prodotti del suolo eguale a dieci e l’altro una quantità eguale a mille; io domando qual è più profittevole allo Stato, l'industria del primo o quella del secondo? Io dico l’industria del secondo, e questo per due ragioni. La prima, perche nel caso che queste due manifatture escano al di fuori, il primo richiamerà nello Stato una quantità di numerario eguale a mille e dieci, e il secondo una quantità eguale a duemila. L’altra ragione poi è il vantaggio dell’agricoltura. Se i progressi di questa dipendono dalla maggior consumazione, l'industria di colui che deve impiegar mille ne’ prodotti del suolo consumerà novantanove volte più dell’industria di colui che non ne deve impiegare che dieci.

Ecco i vantaggi delle manifatture, che impiegano una maggior quantità di prodotti del suolo, su quelle che ne impiegano una quantità minore; ed ecco la ragione, per la quale il legislatore deve proteggere le prime molto più che le seconde. Ma questa regola generale ha le sue eccezioni. Tutto è relativo nella scienza delle leggi. Non tutti i paesi sono alti alla coltura. Ve ne sono molti che la natura ha condannati alla sterilità, altri che non hanno che un territorio molto piccolo, e i prodotti del quale sono molto minori di quello che la consumazione interna richiede. Or in questi paesi siccome le arti e il commercio possono essere le sorgenti delle sue ricchezze, e non l’agricoltura; siccome in questi paesi il legislatore deve cercare piuttosto di diminuire la consumazione che di accrescerla (189), perché 0 tutta 0 almeno la maggior porzione di essa dee ripetersi dagli stranieri; cosi in questi paesi le manifatture, che impiegano una minor quantità di materie prime, debbono esser preferite a quelle che ne impiegano una quantità maggiore.

Le leggi dunque, che dirigono le arti e le manifatture ne’ paesi agricoli, debbono esser tutte diverse da quelle che le dirigono ne’ paesi sterili.

Or la diversità del clima e della situazione non influiscono meno in questa parte della legislazione economica che riguarda le manifatture e le arti. Io credo di aver bastantemente dimostrata questa verità dove si è ragionalo del rapporta delle leggi col clima e colla situazione del paese. Io credo dunque inutile di ripetere quello che già si è detto. Mi contento solo di aggiungere qui alcune riflessioni che non potrebbero essere senza difetto trascurate in un’opera, che riguarda tutti i popoli e tutte le circostanze possibili ne’ quali essi possono trovarsi.

Supponiamo per esempio che una nazione sia perfettamente mediterranea, che il suo terreno sia fertile, ma che quello de' suoi vicini lo sia egualmente o almeno tanto che non abbia bisogno de' suoi prodotti; supponiamo che lontana dal fiumi navigabili, circondata da montagne, essa non sia nel caso di poter trasportare ne i suoi prodotti in natura presso le nazioni più lontane, ne di offrir loro quelle manifatture, che impiegandone una quantità considerabile si renderebbero e pel loro volume e pel loro peso egualmente difficili ad essere trasportate; in questa nazione, siccome il legislature non può sperare i progressi dell’agricoltura che dalla sola consumazione interna, ne una bilancia vantaggiosa di commercio esterno che dalle sole arti e dalle manifatture facili ad esser trasportate, in questa nazione il numero degli artieri e de' manifatturieri in tutti i generi non sarà mai troppo numeroso; in questa nazione potrebbe adottarsi senza pericolo il sistema di Colbert; in questa nazione finalmente la facilita della sussistenza derivata dall’abbondanza de' prodotti del suolo potrebbe facilitare lo smaltimento delle manifatture al di fuori, pel vantaggio che potrebbero avere nella concorrenza con quelle delle altre nazioni, e la moltiplicazione de manifatturieri potrebbe sostenere e animare i progressi dell’agricoltura.

Io non nego però che la prosperità di questa nazione non potrebb’essere che precaria; dipendente dai soli prodotti dell’industria, essa durerebbe finché l’altre nazioni troverebbero il loro interesse nel comprarli. Or subito che la bilancia vantaggiosa del suo commercio comincierebbe a moltiplicare le sue ricchezze, subito che la somma del suo numerario crescendo farebbe crescere il prezzo della 'mano d'opera, subito che le sue manifatture incarendosi comincierebbero a perdere quel vantaggio nella concorrenza che ne facilitava lo smaltimento, essa dovrebbe ritornare nella sua povertà alla quale la sua posizione la condanna. Un solo rimedio vi sarebbe per questo male. Questo sarebbe cosi singolare, come singolari sono le sue circostanze. Questa nazione dovrebbe temere egualmente una bilancia Vantaggiosa di commercio che una bilancia svantaggiosa. Essa dovrebbe procurare di dar molto agli stranieri per moltiplicare collo smaltimento delle sue manifatture l’interna consumazione, ma dovrebbe anche cercare di comprar molto da essi, e di comprar tanto che il vantaggio e lo svantaggio in questa permuta fossero ridotti al zero. Allora, il prezzo delle sue manifatture conservandosi sempre nello Stesso stato, potrebbero queste avere un vantaggio costante nella concorrenza; allora l'agricoltura dipendente in questa nazione da' progressi delle manifatture e delle arti potrebbe prosperare, cd allora finalmente questa nazione potrebbe trovar nella mediocrità delle sue ricchezze quella prosperità che non conoscerebbe nella miseria e che perderebbe ben presto nella soverchia opulenza. Vi è più di una filiazione nell’Europa, alla quale potrebbero adattarsi questi principii. Io lascio a colui che legge d’indovinarle.

Dopo aver fatta questa breve digressione sopra i particolati principii che dovrebbero dirigere là legislazione economica di questa nazione, ritorniamo ora ai generali principii di questa teoria.

La Provvidenza volendo unir le nazioni come gli domini chi stretti vincoli dei reciproci bisogni. ha dalo a ciascheduna di esse qualche cosa di proprio e di particolare che la rende per cosi dire necessaria alle altre. Si appartiene al legislature di conoscere questo dono esclusivo e di ricavarne il maggior possibile vantaggio. Se questo dono è in qualche prodotto del suo suolo, egli deve animarne la coltura; se è in qualche specie di manifattura che pel concorso di molte circostanze favorevoli, come del clima, della posizione, della natura delle acque ecc. non si potrebbe intraprendere o perfezionare altrove, egli deve questa promovere più di tutte le altre. Egli non deve al contrario cercare di togliersi dalla dipendenza di un’altra nazione, violentando il suo suolo o l'industria de' suoi cittadini coll’introduzione di quelle piante esotiche che resterebbero sempre straniere, sempre imperfette nel suo paese.

Le arti dunque e le manifatture han bisogno della tacita direzione delle leggi; esse però hanno maggior bisogno della loro protezione. Ma in che deve questa consistere? Io replicherò sempre l’istesso: allorché si tratta di protezione bisogna cominciar sempre dal togliere gli ostacoli. Or i maggiori ostacoli che si oppongono ai progressi delle art: e delle manifatture sono tutti quegli stabilimenti, tutte quelle leggi, che tendono a diminuire la concorrenza degli artefici. Persuadiamoci: i migliori regolamenti del mondo, le migliori leggi, i migliori stabilimenti non saranno mai efficaci a migliorare i lavori delle mani degli uomini senza l’emulazione, senza la concorrenza. A misura che questa è maggiore, l’artefice cerca di migliorare la sua manifattura per superare quella del suo competitore. Egli sa che, migliorandola, il compratore preferirà la sua a quella degli altri. Egli sa che essendo molti i suoi competitori deve far uno sforzo maggiore per superarli. Or questo sillogismo che ciaschedun artefice fa da sc stesso, e che si può considerare come l'unico istromento della perfezione delle arti, questo sillogismo non può essere che il risultato di una gran concorrenza. Le leggi dunque che distruggono questa necessaria concorrenza, o che la ristringono, sono il flagello delle arti e delle manifatture. Tali sono prima d’ogni altro i diritti di maestranza,o sieno le matricole.

L'idea di radunare ogni arte, ogni mestiero in un corpo e di dare a questo corpo i suoi statuti, prescrivere l'istruzione, l'esame e le qualità che si richieggono per esservi annoverato; il timore di veder discreditate le patrie manifatture presso gli stranieri per l’ignoranza, le frodi e la negligenza degli artefici; Ja vanità e l’ambizione dci legislatori nel voler tutto regolare e dirigere; la loro ignoranza che gli ha sempre indotti a ricorrere a' rimedi diretti, i quali, come poc’anzi siè osservato, distruggono la libertà del cittadino senza conseguire il loro intento, tutti questi motivi e tutte queste concause han data origine, han perpetuato, han fatto generalmente adottare nell’Europa il sistema perniciosissimo dei corpi delle arti e del diritto di maestranza.

Un uomo non può esercitare un’arte meccanica senza il consenso dell'intiero corpo degli artefici dell’istess’arte. Questo consenso non si ottiene che mediante il pagamento di una data somma di danaro, il valore della quale è diverso nelle diverse arti. Se un cittadino non ha come pagarla, invano figli cerca dimostrar il suo talento, la sua destrezza, i progressi che figli ha fatti in quell’arte. Il corpo, del quale egli vuol divenir membre, non cerca altra condizione che quella del danaro che gli manca. Tutti gli altri suoi requisiti sono piuttosto un ostacolo alla sua ammissione. I suoi talenti, invece di procurargli l'indulgenza del corpo, spaventano i suoi competitori. Animali da uno spirito di lega e di monopolio, essi temono la concorrenza che deriva dal numero dei loro individui e dal loro merito.

Non è dunque libera la scella delle arti e dei mestieri nel cittadino. Prima di consultare la sua abilità, le sue naturali disposizioni, i suoi talenti, egli deve misurare le sue facoltà. Se il prezzo della matricola di un’arte, nella quale egli conosce di poter riuscire più che in tutte le altre, è superiore alle sue forze, egli deve abbandonarla per sceglierne un’altra per la quale il pagamento è minore, ma è anche minore la sua disposizione. Che ne deriva da quest'ordine? Ne deriva che le arti si riempiono per lo più di cattivi artefici. Quelle che richieggono maggior talento sono esercitate dalle mani che han maggior danaro, le più viti e le più grossolane restano spesse volte per coloro che sarebbero nati per risplendere in un’arte più distinta. Gli uni e gli altri destinati ad una professione alla quale non sono chiamali, trascurano il lavoro e rovinano l'arte; i primi perché sono al dissotto di essa, e gli ultimi perché conoscono di essere superiori al loro mestiero.

A questo disordine principale se ne aggiungono molti altri. Liti continue, brighe capricciose, attentati fraudolenti tra un corpo e l’altro e tra gl'individui di uno stesso corpo; perdite considerabili di tempo per inutili formalità, misteriosi offici, passaggi forzosi di un’istessa manifattura per molti artefici di diversi corpi, monopolii inevitabili, vessazioni e persecuzioni continue degli interessati magistrati di queste ridicole repubbliche contro gli artefici che cercano di distinguersi nel loro mestiero. queste sono le conseguenze funeste di uno stabilimento pernicioso cd ingiusto, che impedisce i progressi delle arti ed offende la proprietà personale del cittadino. Per disgrazia dell'umanità, la più giusta, la più sacra di tutte le proprietà, quella che l’uomo acquista col nascere, è stata in tutti tempi la mono rispettala dai legislatori. Presso gli Ateniesi la legge proibiva al cittadino di esercitare due arti nell’istesso tempo (190). Un uomo dunque che valeva in due arti diverse bisognava che rinunciasse ai beneficii che l’una di esse poteva recargli. L’ingiustizia e la barbarie di questa legge non è stata conosciuta dai nostri legislatori. Essi hanno ordinariamente adottato ciò che vi era di più strano presso gli antichi.

Che un uomo coltivi una o più arti, che le coltivi bene o male, il legislatore non deve prender parte alcuna nell’esercizio di questa sua facoltà. Il giudizio del compratore che è sempre il più imparziale punirà l’ignoranza o la negligenza dell'artefice, e ne premierà i talenti e la vigilanza; l’artista più abile e più onesto, circondalo da compratori, obbligherà gli altri suoi competitori o a seguire il suo esempio o a perire dallo stento senza che la legge vi interponga la sua autorità.

Quello che si è dello dei corpi delle arti e dei diritti di maestranza si deve dire anche dei privilegi esclusivi, coi quali il governo dà a un uomo solo il diritto di esercitare un’arte che è interdetta al resto dei cittadini, con tal differenza che se i primi diminuiscono la concorrenza e l'emulazione, questi la distruggono intieramente. Il primo oggetto dunque della protezione delle leggi riguardo alle arti sarebbe di animare la concorrenza e l’emulazione degli artefici, colla soppressione di queste cause che la ristringono o la distruggono. L’altro sarebbe di liberarle da qualunque sorta di dazio o di contribuzione. Ogni specie d’industria dovrebbe esserne esente. Noi dimostreremo questa verità allorché si parlerà dei dazi.

Finalmente tolti tutti gli ostacoli, bisognerebbe venire agl’incoraggiamenti.

Alcune distinzioni onorevoli (191), alcuni premi pecuniarii potrebbero offerire al legislatore l’istrumento da incoraggire le arti e le manifatture, e di promuovere più le une che le altre secondo che gli interessi dello Stato lo richieggono. Una tenue ricompensa accordata con qualche splendida dimostrazione lusingherebbe la vanità dell’artista, e non molesterebbe il pubblico tesoro. L’autorità può tutto, quando vuole. Se essa fa nascere i genii e crea i filosofi, se essa forma le legioni intiere dei Cesari, degli Scipioni e dei Regoli col comprimer la sola molta dell’onore, con quanta maggior facilita potrà essa far fiorire le manifatture e le arti che non ricercano né il talento dei primi ne il valore degli ultimi? L'accrescimento dei comodi della vita, dei piaceri della società, delle ricchezze dello Stato sarebbe la prima conseguenza di questo beneficio, e i progressi delle scienze e delle cognizioni sarebbero la seconda.

La fiaccola dell'industria illumina nel tempo istesso un vasto orizzonte. Niun’arte è isolata. La maggior parte hanno alcune forme, alcuni istromenti, alcuni elementi che loro sono comuni. La meccanica sola, dice un celebre scrittore (192), ha dovuto prodigiosamente dilatare lo studio delle matematiche. Tutti i rami dell’albero genealogico delle scienze si sono distesi coi progressi delle arti e dei mestieri. Le miniere, i molini, i drappi, le tinte hanno ingrandita la sfera della fisica. L’architettura ha migliorala la geometria. Essa ha spesse volte trovata la proporzione prima della regola, e dall’esperienza ha dedotta la teoria. Prima che i matematici avessero dimostrato che l’edifizio più debole è quello, nel quale la perpendicolare che si tira dal vertice esce fuori della base, gli Egizi avevano già innalzate le loro piramidi ed avevano conosciuto che questa era la forma la più stabile che si poteva dare ad un edifizio (193). I progressi dunque delle arti e delle manifatture sono inseparabili da quelli delle lettere. Si potrebbero addurre mille prove per dimostrare questa verità, ma queste sarebbero mal collocate in questo luogo. Mi contento solo di averla accennata per invogliare maggiormente i legislatori ad accelerare questi progressi.

Dopo la coltura della terra, la coltura dunque delle arti è quella che convien più all’uomo. L’una e l’altra fanno oggi la forza degli Stati; ma l’una e l'altra han bisogno di uno spirito che le animi, e questo spirito è il commercio.

CAPO XVII

Del Commercio

Dopo aver parlato dell’agricoltura e delle arti, dopo aver minutamente analizzale queste due sorgenti delle ricchezze dei popoli, le mie ricerche sarebbero imperfette e mancanti se trascurassi di parlar del commercio.

Il commercio sempre profittevole ma non sempre coltivato dalle nazioni, nume tutelare dei paesi pacifici e bersaglio dei conquistatori; il commercio che ha sofferte tante vicende sulla superficie della terra, che fin dalla più rimota antichità aveva fatti i più gran progressi nell’Asia (194), che acquistò una nuova attività fra le mani de' Fenicj, che fondé tante colonie (195), che trasportò in Tiro, in Sidone (196) ed in Cartagine tutte le ricchezze dell’antico emisfero; che dopo avere per molto tempo alloggiato tra le mura di Atone, di Corinto, di Rodi e di alcune altre repubbliche della Grecia cominciò a sparire innanzi alle legioni vittoriose dei Romani; che si sarebbe quindi intieramente estinto nell’Europa sotto la barbarie delle nazioni del Nord che la soggiogarono, se Venezia, Genova, Pisa, Firenze ed alcune piccole repubbliche dell’Italia sotto l’ombra della loro istessa debolezza non l’avessero conservato; il commercio finalmente, che durante l'anarchia dei feudi si ristringeva in quasi tutta l’Europa ad un semplice traffico di un villaggio con un altro villaggio, di un borgo con un altro borgo, e che rare volte passava i confini di una provincia; il commercio, io dico, dopo aver sofferte tante vicende sulla terra, è oggi divenuto il sostegno, la forza e l’anima comune delle nazioni. Qualunque siano state le cause che abbiano contribuito a produrre quest'effetto, non si appartiene a me di esaminarle. Quel ch’è sicuro è che il consenso universale delle nazioni, questo consenso che in altri tempi obbligava ciaschedun popolo a divenir guerriero, questo istesso consenso è quello che oggi ci obbliga a divenir commercianti. Il commercio dunque, divenuto un oggetto essenziale all’organizzazione ed all'esistenza dei corpi politici, non debb’essere trascurato nel piano di una buona legislazione. Al legislature si appartiene di proteggerlo e di dirigerlo. Egli è quello che deve vedere quale specie di commercio convenga alla sua nazione, quale sia più proprio alla natura del suo governo. Egli deve garantirlo dagli ostacoli che le contribuzioni e i dazi mal collocati possono recargli, dai privilegi esclusivi e dalle proibizioni che lo molestano, da quei regolamenti minuti e particolari che lo ritardano. Egli è quello che deve combinarlo cogl’interessi delle altre nazioni: combinazione difficile ma necessaria; combinazione, della quale non se ne sono ancora conosciuti nell’Europa né i mezzi per conseguirla, né i vantaggi che ne nascerebbero; combinazione finalmente, senza della quale la proprietà di un popolo sarà sempre incerta e precaria.

Il legislatore è quello che deve cercare tutti i mezzi per dare alla circolazione interna la maggior celerità, ed al commercio esterno la maggior estensione che sia possibile. Egli deve con pochi regolamenti abbracciare grandi cose, giacché la moltiplicità di questi è uno de' maggiori ostacoli che si oppongono al commercio. Le sue leggi finalmente debbono col rigore delle pene e con altri mezzi, che noi esporremo, stabilire il credito pubblico e privalo, che debb’essere la base della morale e della politica delle nazioni commercianti.

Di tutti questi oggetti io parlerò distintamente ne’ seguenti Capi. Io comincerò dall'esaminare quale sia il commercio che convenga a' diversi paesi e ne’ diversi governi.


vai su

CAPO XVIII

Del commercio che conviene ai diversi paesi e ne' diversi governi

Non ci vuol molto a vedere, come una specie di commercio che conviene ad un paese non giova ad un altro. Un paese sterile non può sicuramente Tare il commercio di un paese fertile; e un paese fertile, quantunque lo possa, non deve fare il commercio di un paese sterile.

Il commercio, per esempio, di economia è il solo che conviene a paesi sterili. (197) Sprovveduti di tutto nel loro interno, essi debbono sussistere a spese degli altri. Essi debbono cercare quello del quale abbonda ciascheduna nazione, e quello che le manca. Essi debbono permutare il superfluo dall'uno col superfluo delle altre, e da questa permuta sempre vantaggiosa ripetere la loro sussistenza e la loro straniera ricchezza. Ecco perché in tutte l’età la vessazione e la violenza han fatto nascere il commercio di economia, allorché gli uomini sono stati costretti a rifugiarsi nelle lagune, nell’isole, sulle arene del mare, e sugli scogli medesimi. Cosi Tiro, Venezia e le città dell'Olanda furono fondate. I fuggitivi vi trovarono la loro sicurezza. Gli elementi combattevano per essi, e trattenevano le armi vittoriose. dei nemici. Ma quella istessa causa, che li garantiva dalle, persecuzioni, gli obbligava o a perire dallo stento o a ricorrere al commercio di economia.

Or ne’ paesi fertili gli uomini non han d’uopo di ricorrere. a questa specie di traffico per prov vedere a' loro bisogni. Siccome la fecondità del terreno unita a' beneficii della coltura dà loro il superfluo in alcuni generi, essi non debbono far altro che permutare questo superfluo con quello che loro manca. Il grande oggetto della legislazione economica di questi paesi dev'essere di moltiplicare questo eccesso e di diminuire questo difetto, di dare all'astrazione di questi generi la maggior facilita, e di procurare che nella permuta la quantità di quel che si dà superi sempre la quantità di quel che si riceve, affinché quel che resta sia pagato colle ricchezze di convenzione, l’introduzione continua delle quali allorché è moderato farà sempre pendere. dalla parte loro la bilancia della ricchezza relativa delle nazioni.

Ma oltre la fertilità e la sterilità dei suolo, la situazione dei paesi e la sua estensione debbono anche determinare il commercio che più gli conviene. Un paese, per esempio, di piccola estensione, che ha molti porti, che non ha fiumi e canali navigabili, è più proprio al commercio di economia. Un paese al contrario molto esteso, che ha pochi parti, che non è bagnato dai mare che da un sol lato, deve sempre preferire il commercio di proprietà a qualunque altro commercio (198). Se finalmente all'infelicità della situazione si unisce anche l’infelicità dei suolo, se il suo territorio è piccolo ed è mediterraneo, allora il legislatore deve promuovere le manifatture e le arti, e sopra questi fondamenti innalzare il suo commercio (199). Cosi Ginevra senza mare, e per cosi dire senza territorio, è divenuta una delle città più ricche dell’Europa; cosi essa si acquistò la gloria di soccorrere Arrigo IV durante la lega, e di resistere alle truppe agguerrite di Carlo Emanuele duca di Savoja; cosi l’Olanda trionfò de' tesori e dell’ambizione feroce di Filippo II, e cosi finalmente molti paesi della Germania potrebbero fiorire malgrado la debolezza de' loro principi e l’indigenza presente de' loro abitatori. Dopo aver dunque osservato come la qualità dei terreno, la situazione ed estensione dei paese debbano indurre sulla scelta dei commercio più proprio e più profittevole, vediamo ora la parte che vi deve avere la natura dei governo.

Se dal fatto noi vogliamo dedurre la regola, se vogliamo riposare sull’esperienza di tutti i secoli, noi troveremo che il commercio di economia è più analogo al governo di molti, e che il commercio di proprietà e di lusso è più adatto al governo di un solo. Cominciando dalla più rimota antichità, e seguendo gli annali dell’industria fino a' nostri tempi, noi vedremo presso i Fenicii, in Tiro, in Cartagine, in Atone, in Marsiglia, in Firenze, in Venezia e nell’Olanda fiorire il commercio di economia, e noi vedremo al contrario un commercio di proprietà e di lusso stabilito tra gl’imperi dell’Asia presso i Persi, i Medi, gli Assirii e nelle moderne monarchie dell’Europa.

La ragione ne è semplicissima. Nel governo di molti la frugalità è una virtù civile, e il fasto ed il lusso sono proscritti. Ora questa specie di commercio, che si raggira ad un semplice traffico, ricerca da coloro che l’esercitano una frugalità infinita; poiché siccome per guadagnare di continuo essi debbono contentarsi di guadagnar poco e di guadagnar mono d’ogni altro per avere il vantaggio nella concorrenza, supposto questo non è possibile che questa specie di commercio si faccia da un popolo, presso il quale il lusso è per cosi dire una cosa inerente alla costituzione del governo. La stessa causa dunque, che fa che il commercio d’economia sia analogo alla natura del governo di molti, l’istessa causa fa che questo non lo sia ai governo di un solo. Ma ogni regola deve avere le sue eccezioni. Si può dare una repubblica, alla quale convenga un commercio di proprietà e di lusso, cd una monarchia alla quale convenga il commercio di economia. Alcune circostanze particolari, che io trascuro per non perdermi in un dettaglio troppo minuto, possono obbligare il legislature a dimenticarsi di questa regola. La scienza della legislazione ha, è vero, i suoi principii generali; il legislature non deve ignorarli; ma figli deve farne quell’uso che fa l'oratore de' precetti della rettorica, egli fa servire i precetti all'orazione e non l'orazione a' precetti.

Dalla scelta del commercio io passo alla protezione che gli si deve. Quest’oggetto, che ha mossa la penna di quasi tutti gli scrittori del secolo, è il più trascurato da' governi. Gli ostacoli che ne impediscono i progressi presso tutte le nazioni, la schiavitù sotto la quale geme in quasi tutta l'Europa, gli attentati che si commettono di continuo contro la sua libertà, le vessazioni che si fan soffrire in nome della legge a coloro che l'esercitano, lo spettacolo che ci offrono tutte le frontiere, tutti i porti coperti di satelliti, il ministero dei quali altro non è che di garantire lo Stato dall’industria de' suoi cittadini ccc., sono tante prove che ci dimostrano, che tutto quello che si è fatto da' governi in favore del commercio non era quello che si doveva fare. Essi han cominciato donde bisognava fluire, essi han prestali alcuni piccoli soccorsi, ma han lascialo sussistere gli ostacoli. Istruito dunque dall'esperienza e dagli errori de' governi, io terrò un metodo tutto diverse. Io parlerò prima degli ostacoli che si dovrebbero togliere, e poi degli urli che si dovrebbero dare.

CAPO XIX

Degli ostacoli che si oppongono a' progressi del commercio in quasi tutta l'Europa

Alla testa di questi io pongo il sistema presente delle dogane. Noi dobbiamo alla politica d’Augusto ed alle sciagure dall'Impero l’origine di quest’abuso, del quale oggi tutte le nazioni dell’Europa sperimentano le conseguenze funeste. Le spese che richiedevano la conservazione di un’autorità usurpata, la prodigalità necessaria ad un nascente dispotismo, il bisogno delle legioni, l’avidità delle coorti pretoriane, l'organizzazione superiore ed inferiore del governo di un impero che racchiudeva ne’ suoi limiti quasi tutta l'Europa ed una parte considerabile dell’Asia e dell'Africa, l’esorbitanza di queste spese unita all’idea comune a tutti i tiranni di nascondere a' popoli le somme immense colle quali essi pagano le loro vessazioni e la perdita della loro libertà, indussero Auguste a stabilire un’imposizione generale sopra tutte le cose venali (200), una nuova tassa sopra i legati e l’eredità (201), e ad introdurre il sistema fatale delle dogane. Tulle le mercanzie, le quali per mille diversi canali abbordavano al centro comune dell’opulenza e del lusso, dovevano pagare un dritto, il valor del quale variando nei diversi oggetti su cui cadeva si estendeva dalla quarantesima parte fino all’ottava del valor degli effetti (202).

In un paese, dove l’opulenza dipendeva da tutt’altro fuorché dal commercio, e dove il commercio non solo non era una sorgente di ricchezze ma era anzi uno scolo di quelle che da tutte le parti della terra gli pervenivano, l'introduzione di queste dogane poteva essere indifferente, poteva anche considerata sotto alcuni aspetti esser utile; ma qual motivo potrebbe giustificarle, oggi che gl’interessi delle nazioni sono cosi diversi?

lo piango sulla miseria dell’umanità, allorché veggo in mezzo a tanti lumi, in mezzo allo splendore della verità di continuo illustrala trionfar eternamente l’errore. Imporre una pena pecuniaria ad ogni cittadino industrioso, obbligare il mercante a pagare una multa, il valor della quale cresce in ragione del benefizio che egli reca allo Stato, trattare il commercio da inimico, ricevere le sue pacifiche balle colle armi alla mano, circondare tutti i porti, tutte le spiagge, tutti i passaggi del commercio cosi interno come esterno di satelliti e di spie, esseri venali e corrotti pagati dallo Stato che tradiscono, dal negoziante che tormentano e dal contrabbandiere che proteggono; dare adito a tutte le vessazioni, a tutte le frodi che gli esecutori mercenarii di una legge ingiusta possono ideare; condannare, in una parola, il negoziante ad esser persuaso che al solo avvicinarsi di una dogana gli si prepara sicuramente un affronte o una rapina, è mai questa la politica delle nazioni commercianti? Sono mai questi i principii co’ quali deve dirigerai il sistema economico, in un secolo nel quale il commercio è considerato come il principio che decide della vita delle nazioni e del ben essere de' popoli? E mai questo il fonte, dal quale i corpi politici debbono oggi attingere la parte più considerabile delle loro rendite? Senza diminuir queste rendite non si potrebbe forse liberare il commercio da un ostacolo, contro del quale ogni urto è inutile? Gli interessi dell’erario del fisco non si potrebbero forse combinare con quelli del commercio, in maniera che i re fossero ugualmente ricchi senza che le loro ricchezze fossero ugualmente perniciose a' popoli? Non basterebbe finalmente dare un’altra foggia al sistema delle imposizioni, per renderne meno pesante il giogo senza diminuirne il profitto?

La possibilità di quest'intrapresa è stata dimostrata fino all'evidenza dagli scrittori economici del secolo. Ma i loro sforzi sono rimasti inutili. La verità da essi illustrata si è fermata innanti alle pareti che la rendono inaccessibile al trono. I loro scritti luminosi rischiarando l'intrigata teoria delle finanze non han fatto altro che renderei più penoso il peso de' mali che ci opprimono, mostrandoci la facilita che vi sarebbe di curarli e l’indolenza di coloro che dovrebbero liberarcene. Per disgrazia degli uomini, pare che quelli che sono alla testa degli affari qualche volta chiudano gli occhi contro la luce di quanto si manifesta loro con maggior evidenza. Una informa, nella quale la giustizia, l'interesse pubblico e l'interesse de' principi si combinavano cosi evidentemente, non si è neppure tentata, neppure proposta ne’ gabinetti de' re, ne’ quali non si parla di altro che di commercio e non si lascia mai di perseguitarlo.

Le cose sono rimaste nello stato nel quale erano. Il commercio è restalo inceppato tra le catene delle imposizioni fiscali; dappertutto il traffico interno ed esterno è interrotto; un cittadino industrioso ha mille occhi che lo guardano; pare che il governo lo tema; egli non può fare mille passi, egli non può passare da un villaggio in un altro senza esser fermato, senza esser tassato. Se vuol negoziare al di fuori, prima ch’egli sappia se la sua speculazione sarà ricompensata da un buon esito, la dogana, questa botte delle Danaidi e forse anche più vorace di quella, gli ha già rapita una parte del benefìzio futuro. Se egli cerca il soccorso di una spedizione clandestina, il timore di esser sorpreso l'obbliga a chiudere cento bocche, l'avidità e la mala fede delle quali diminuiscono il benefizio del contrabbando senza scemarne lo spavento. Dove inique egli volge le sue mire, egli trova o frodi da prevenire, o spie da corrompere, o dazii enormi da pagare.

In mezzo a tante insidie potrà forse prosperare il commercio? Una pianta, che non può germogliare che nel seno della libertà, potrà forse fiorire tra le arene della servitù e dell’oppressione?

Il primo passo, dunque, che si dovrebbe dare in favore del commercio, sarebbe una riforma nel sistema presente delle dogane. Bisognerebbe togliere cosi al commercio interno come all’esterno, gli ostacoli che queste gli oppongono. lo lo ripeto: per ottenere questo fine senza diminuire le rendite del fisco, per compensare questa perdila bisognerebbe dare un altro torno al sistema generale delle imposizioni e de' dazii.

Questo grande oggetto richiamerà le mie cure allorché si parlerà da qui a poco della teoria de' dazii che sarà pure compresa in questo libro (203).

Io mi affretto qui di rivolgere lo sguardo ad un altro ostacolo, il quale se non è più pernicioso del primo è almeno più difficile a superarsi; ad un ostacolo che è la vergogna del nostro secolo e della nostra politica; ad un ostacolo finalmente del quale tutti i popoli risentono i funesti effetti senza elle alcuno ardisca di essere il primo a superarlo: io voglio parlare delle gelosie di commercio e della rivalità delle nazioni.


vai su

CAPO XX

Delle gelosie di commercio e della rivalità delle nazioni

In principio non mono ingiusto che falso, egualmente contrario alla morale che alla politica, ha funestamente sedotti coloro che dirigono gl’interessi dei popoli. Si crede comunemente che una nazione non possa guadagnare senza che le altro perdano, elle essa non possa arricchirsi senza che le al Ire s’impoveriscano, e. che il grande oggetto della politica sia l'innalzare la propria grandezza sulle altrui rovine. Questo principio erroneo che fu la base della politica de' Romani e de' Cartaginesi (204), o che fu nel tempo istesso la causa della rovina di queste due repubbliche, questo principio istesso lui funestamente introdotta una gelosia universale di commercio nell'Europa, la quale tra gli Stati non è altro che una cospirazione segreta di rovinarsi tutti senza che alcuno si arricchisca.

Chi può descrivere i mali, che questa funesta rivalità reca al commercio generale e particolare de' popoli? Per farsene una superficiale idea, basta osservare il sistema col quale oggi si dirige il commercio delle nazioni d’Europa. Osservandolo da vicino noi vedremo una nazione custodire colla maggior gelosia un ramo di commercio poco profittevole, che l’impedisce d’intraprenderne un altro molto più vantaggioso, per timore che la sua rivale non se ne impadronisca. Noi vedremo ciascheduna nazione opporre ostacoli alle intraprese pacifiche di un’altra nazione, e godere delle sue perdite. Noi le vedremo tutte congiurate contro di ciascheduna. Noi vedremo i fulmini della guerra accesa dai commercio rimbombare fra un polo e l’altro, sulle coste dell’Asia, dell’Africa e dell’America, sopra l'Oceano che ci separa dai Nuovo Mondo e sulla vasta estensione dcl mar Pacifico. Noi vedremo l’Inghilterra e la Francia sempre inimiche Ira loro, e sempre vigilanti a profittare delle occasioni di scambievolmente rovinare il loro commercio; la Spagna costretta a garantire i suoi galeoni con squadre formidabili sopra un mare immenso, tinto di sangue e coperto di cadaveri nelle sue guerre contro gl’Inglesi; il Portogallo divenir la vittima di una nazione che gli ha fatto più male colla sua confederazione, co’ suoi trattati e col suo commercio, che non gliene avrebbe fatto colla guerra istessa; l’Olanda, questa repubblica che dovrebbe più delle altre rispettare la giustizia e fomentare la libertà generale dell’industria e dei commercio, trascurare invece i suoi veri interessi, profondere i suoi tesori, preparare la sua rovina in quelle guerre, nelle quali né la sua gloria, né la sua sicurezza, né la sua libertà, ma la sua sola ambizione smisurata, il solo spirito di gelosia e di rivalità poteva impegnarla (205). Noi vedremo finalmente il commercio che per sua natura dovrebbe essere il vincolo della pace, essersi permutato in una causa perenne d’ingiustizia, di guerra e discordia per un effetto di questa funesta gelosia delle nazioni, della quale si risentono anche quei popoli che vorrebbero trovare nella neutralità la loro pace e i loro vantaggi.

Non bisogna lusingarsi: finché durerà questo spirito d’invidia e rivalità il commercio farà sempre più male che bene, sarà sempre in uno stato di languore.

Spogliandoci di ogni prevenzione, investendoci di quel sacro carattere d’imparzialità che le ricerche politiche esigono, noi troveremo l’interesse privato di ciascheduna nazione cosi strettamente unito all’interesse universale, e viceversa l'interesse universale cosi strettamente unito al particolare, che una nazione non può perdere senza che le altre perdano e non può guadagnare senza che le altre guadagnino. Che mi si permetta una brave digressione, e di gettare un’occhiata momentanea sugl'interessi delle nazioni d’Europa per dimostrare quest'interessantissima verità.

Cominciando dalla Spagna, noi troveremo che l’interesse di questa nazione sarebbe di promovere la sua agricoltura, di accrescere la sua popolazione, di accelerare e migliorare il suo commercio coll’Indie Occidentali, e di dare uno scolo alla esorbitanza de' suoi metalli col comprare i prodotti dell’industria straniera. Or tutta l’Europa troverebbe il suo interesse in questi vantaggi. A misura che la sua agricoltura si perfezionerebbe crescerebbe la sua popolazione, e a misura che crescerebbe la sua popolazione crescerebbero i suoi bisogni per l'industria straniera; più essa profitterebbe il suo commercio coll'America, più le sue navi ritornerebbero cariche li tesori, più si metterebbe in istato di pagarla. Allora la Francia, l'Inghilterra e l’Italia vedrebbero le loro manifatture più ricercate da una nazione, che è più di tutte le altre in istato di comprarle: esse venderebbero a più caro prezzo la loro industria, e comprerebbero a miglior mercato le derrate dell’America divenute così necessarie nell’Europa.

Passando dalla Spagna al Portogallo noi troveremo che il grande interesse di questo paese (quell'interesse che trascurato dal governo ha cagionata la sua miseria malgrado i tesori che in ogni anno riceve dal Nuovo Mondo), sarebbe di ammettere la più gran concorrenza, così nella vita delle proprie, come nell'immissione di tutte le manifatture e di tutte le mercanzie straniere; e chi non vede che questo sarebbe anche l'interesse di tutte le altre nazioni che sono in istato di recargliele?

L'istesso deve dirsi della Russia. Se questa nazione si liberasse dal monopolio degli Inglesi come dovrebbe liberarsene il Portogallo se essa fomentasse la concorrenza delle nazioni del Mezzogiorno nel suo porto di Cronstadt, essa venderebbe a più caro prezzo i suoi prodotti, comprerebbe a miglior mercato le mercanzie straniere, e recherebbero nel tempo istesso un gran vantaggio a tutta l'Europa aprendo una nuova strada all'industria e al commercio di molte nazioni. (206)

Rivolgendoci quindi alla Francia, noi ci persuaderemo anche meglio di questa verità. La Francia, felice per la fertilità del suo suolo e per quella de' suoi ingegni, dispositrice assoluta del gusto e delle mode, abitata di artieri e da manifatturieri celebri, manda più derrate e più manifatture al di fuori di quel che ne riceve dagli stranieri. Or se la Francia fosse cosi popolata, come potrebbe essere, se le sue leggi non avessero rovinata l'agricoltura, se le massime e il sistema col quale sono regolate le sue finanze fossero più favorevoli al suo commercio, la sua prosperità farebbe l'ammirazione dell'universo, e farebbe nel tempo istesso la felicità del resto dell'Europa. Gli stranieri otterrebbero al minor prezzo i prodotti del suo suolo e della sua industria, ed essa consumerebbe una maggior quantità di derrate e di mercanzie straniere che le mancao. La prosperità delle sue colonie crescendo in proporzione di quella della loro madre, la loro popolazione aumentandosi e questa perfezionando la loro coltura, recherebbero anche due altri vantaggi considerabili alle altre nazioni. I prodotti di queste colonie divenuti necessarii nell’Europa sarebbero comprati a minor prezzo subito che si aumenterebbe la quantità della loro raccolta, e nel tempo istesso la Francia trovando nell'America un maggiore smaltimento delle sue manifatture, quelle dell’altre nazioni avrebbero minor concorrenza a sostenere o a combattere ne’ mercati e ne porli dell'Europa. Finalmente se essa non avesse quasi intieramente rinunziato a' benefizii della sua pesca e delle sue saline; se essa imparasse a meglio profittare de’ doni della natura e de' vantaggi della sua situazione; se l'oceano che la bagna da un lato, e il Mediterraneo che la bagna dall’altro le facessero conoscere l’inutilità della sua truppa di terra e la necessità di quella di mare; se gli occhi dei suo governo chiusi per lo spazio di tanti anni da un profondo letargo si aprissero un giorno, la sua marina, innalzata a quel grado di potenza dove dovrebbe essere e dove pare che oggi sia per giungere, arricchirebbe il commercio dei Nord; l’impero dei mare, contrastalo fra due potenze egualmente forti per impedire che alcuna di esse se l’appropriasse, resterebbe indeciso, e la libertà dei commercio dell’Europa tutta sarebbe forse al coperto. Ecco come tutte le altre nazioni troverebbero nella prosperità della Francia i loro vantaggi (207).

Ma che diremo noi dell'Inghilterra? Io veggo tutta l'Europa dichiarata contro di questa repubblica, io sento l'umanità intiera far voti per l'indipendenza delle sue colonie, io veggo finalmente due gran potenze impegnate per la sua rovina. lo compatisco questo spirito di vendetta, quest’odio quasi universale contro di una nazione che l’ha comprato colle sue ingiustizie, contro di una repubblica che è stata sempre più inclinala ad affliggersi della prosperità degli altri che a godere della sua, contro un popolo finalmente che non si è contentato di divenir ricco, ma che ha cercalo di essere il solo ricco. Il suo patriottismo esclusivo, simile a quello de' Romani, ha dovuto richiamargli l'odio di tutte le nazioni commercianti; come le vessazioni che ha fatto soffrire a' suoi coloni gli han fatto meritare quelli di tutte le anime moderate, di tutti gli spiriti liberi e di tutti i filosofi difensori arditi, ma deboli, de' sacri dritti dell'umanità.

Ma vediamo, se malgrado i motivi che l’Inghilterra ha dati alle altre nazioni di godere delle sue perdite vediamo, io dico, se l’Europa, molto lontana dal desiderare, debba anzi temere la rovina di questa nazione vediamo se l’interesse universale si unisce anche iti quest’occasione coll'interesse particolare, e se tutt’i membri della gran società europea dovrebbero essere, non meno dell'Inghilterra, spaventati da disastri che ci sovrastano dall’indipendenza de' suoi coloni. Supponiamo che l'evento giustifichi la ribellione degli Americani, supponiamo che questi restino liberi ed indipendenti. Supponiamo che le conseguenze di questo cambiamento politico divengano le più funeste per l'Inghilterra; che il genio che decide della sorte degl’imperi, voglia in questo caso proferire tutto ad un tratto il decreto della destruzione di quello della Gran Brettagna: supponiamo che questa nazione priva de' vantaggi del commercio che essa faceva co' suoi coloni, è che i suoi coloni facevano per lei, indebolita da una lunga e spesosa guerra, fallita pe suoi debiti nazionali, proscritta nel nuovo mondo e oppressa nell'antico supponiamo che essa perisse, che la sua vacillante libertà sostenuta dalle sue ricchezze si mutasse nella più dura servitù, e che la gran Brettagna divenisse o la preda d’un conquistatore, o la vittima d'un despota.

In questo caso, che ne sarebbe delle altre nazioni? La Francia, è vero, si libererebbe da un vicino spaventevole. le sue mani fatture, prive della concorrenza di quelle degl'Inglesi, sarebbero vendute a maggior prezzo. La Spagna riacquisterebbe quello che questa nazione le ba tolto, e vedrebbe un’altra volta tra la sue mani le pretese chiavi del Mediterraneo. L'Olanda, emula dell’Inghilterra, malgrado la perdita delle somme immense che le ha date in prestito, crederebbe forse d'aver tutto ottenuto colla rovina d'una repubblica industriosa e commerciante come lei ma più favorita dalla natura nell’interno, e più rispettata al di fuori. La Russia finalmente, la Danimarca e la Svezia vedrebbero forse con piacere crollare, una potenza che. ha voluto dominare ne loro mari. Ma queste speranze sarebbero forse ben fondate? Questi vantaggi apparenti avrebbero forse qualche cosa di reale? Non sarebbero piuttosto essi i prestigi d’una fortuna. precaria che si cambierebbe ben presto colla rovina universale dell’Europa? Se le colonie Inglesi restano indipendenti, chi tratterrà quelle degli Spagnuoli, de' Portoghesi e de' Francesi? La folgore dell'indipendenza scoppiata una volta nell'America anglicana, non comunicherebbe forse il suo strepito nel resto di questo vasto continente? Tutta l'America non diverrebbe allora indipendente dall'Europa? Che ne sarebbe allora del nostro commercio? Che potremmo noi permutare co’ suoi prodotti? con che potremmo noi pagarli a’ proprietarii del Perù, ai dominatori del Brasile? Forse colle nostre derrate? Ma la maggior parte di queste nascerebbero egualmente nell'America, subito che l’agricoltura le ricercasse dal suo suolo. Colle nostre manifatture, colle nostre arti? Ma queste fioriscono già nella Pensilvania, malgrado Io strepito delle armi e malgrado gli orrori della guerra. Li pagheremo noi forse co’ prodotti dell’Indie orientali? Ma la perdita dell'America ci priverebbe anche di questo commercio, che noi non sostenghiamo che a sue spese. Senza le miniere del Pelosi noi non condiremmo le nostre vivande cogli aromi dell’Asia, né vestiremmo le vaghe tele di Coromandel. Il commercio dunque di tutta l’Europa potrebbe perire con quello degl'Inglesi, se questi perdono le loro colonie. E pure lo spirito di rivalità ha accecati a segno i governi, che alcune nazioni d’Europa ardiscono di preparare i materiali che serviranno un giorno per foggiare la loro rovina, ed ardiscono d’offerire una mano intrepida. agli artefici delle loro catene.

Osservando la questione dalla parte delle colonie noi troveremo che quando la loro dipendenza dalla Gran Bretagna fosse, quale dovrebb’essere, una dipendenza di governo e non di servitù; quando la libertà del loro commercio e i loro dritti fossero cosi rispettali dalla loro madre come quelli de' loro fratelli; quando la metropoli non facesse più una distinzione assurda Ira gli interessi de' suoi cittadini di America e quelli de' suoi cittadini di Europa; quando, dimenticandosi del mare che li separa, non vedesse nelle sue provincie americane che un prolungamento non interrotto del suo territorio europeo; allora la dipendenza delle colonie ben lontano dall’impedire i progressi della loro prosperità renderebbe questa più sicura, garantendola da' pericoli a' quali potrebbe esporla la loro totale indipendenza; allora esse non sarebbero nel caso di temere l'ambizione di qualche spirito ardito ed attivo, ne le interne discordie che potrebbero insorgere nel riposo della pace, ne le dissensioni reciproche Ira esse: dissensioni, che la greca politica non pote prevenire Ira le sue repubbliche, e che la sola doverrà locale ha forse tenuto per tanto tempo lontano dalle maremme delle Provincie unite; allora finalmente l’Europa, senza essere spaventata dalla loro prosperità, potrebbe esservi a parte.

In questa rapidissima scorsa su gl’interessi delle nazioni europee io lascio volontieri a coloro, che leggeranno questo libro, l’esame di quelli dell’Italia, della Germania, della Danimarca e della Svezia. Gli interessi delle due prime fondati sui prodotti del suolo e su quelli dell'industria, e quelli delle due ultime dipendenti dal loro commercio colle Indie Orientali, dalle loro miniere di ferro e di rame (208), da' loro legni di costruzione ecc., sono troppo potentemente uniti agli interessi di tutta l’Europa per obbligarmi a dimostrarne il rapporto. Mi cuntento di conchiudere questa breve digressione coll’Olanda.

Le tre gran sorgenti delle ricchezze di questa repubblica sono il suo commercio colle Indie Orientali, le sue colonie in America e il suo commercio di traffico e di cabotaggio nel l’Europa. Cogli uni e colle a lire essa giova a se stessa ed all’Europa. Col primo essa ci provvede delle droghe e delle mercanzie dell’Oriente, delle quali l’umanità non potrebbe più privarsi, e offre alle derrate ed alle manifatture europee un copioso scolo che le rende più preziose e più profittevoli. Colle sue colonie in America essa supplisce al diletto del suo suolo in Europa, essa può unire i vantaggi dell’agricoltura a quelli del commercio, essa può riparare a' colpi che questo soffre da' progressi dell'industria universale, essa può essere considerata come una potenza territoriale, es. a in poche parole non dovrebbe far altro che liberare le dette colonie dal giogo de' privilegi esclusivi che le opprimono, per renderle il sostegno eterno della sua prosperità e per inondare l’Europa de' loro preziosi prodotti. Finalmente col suo commercio di traffico e di cabotaggio essa mantiene l’abbondanza e sostiene la concorrenza in tutti i porti e in tutti i mercati di Europa, essa diviene il sostegno dell'industria di tutte le nazioni, l'apportatrice di tutto quello che loro manca, la consumatrice di tutto quello che hanno di superfluo, in una parola la benefattrice del genere umano.

Sarebbe forse l’interesse dell’Europa che una repubblica di questa natura perisse? Questo commercio cosi profittevole per l’Olanda non lo è forse egualmente per tutta l'Europa? Se per un flagello dcl Cielo l’Olanda fosse in un istante ingoiata dalle acque dell'Oceano, dalle quali la sua industrie vittoriosa degli elementi istessi ha saputo garantire, l’Europa non avrebbe forse bisogno di più secoli per riparare questa perdita? Una gran parte dei suo commercio non perirebbe forse con essa? È vero che a misura che cresce il commercio delle altre nazioni il traffico dell'Olanda sulle coste europee diviene mono attivo, ma la concorrenza degli Olandesi gioverà sempre all'Europa.

Persuasi dunque dello stretto legame che vi è fra gl’interessi di ciascheduna nazione e quelli dell'Europa intiera; persuasi delle funeste conseguenze della gelosia di commercio, della rivalità delle nazioni; persuasi finalmente de' mali che questo sistema erroneo reca al commercio generale e particolare de' popoli, che ci resta a far altro che incoraggire ciaschedun legislatore a cercar di essere il primo a dare agli altri governi l’esempio della più salutare intrapresa, superando gli antichi pregiudizii, aprendo i suoi porti a tutte le nazioni e gittando i fondamenti di quella necessaria libertà, senza della quale il commercio sarà sempre timido perché schiavo, sempre lento perché oppresso dai peso delle catene che lo stringono? Si, legislatori venerandi dei genere umano, uomini bastantemente felici per poter indurire sulla felicità de' popoli, re e ministri ammessi in que’ templi inaccessibili al resto de' mortali, in que’ templi da' quali si spediscono gli ordini che aprono o chiudono quello di Giano, persuadetevi di questa gran verità che cosi nel mondo fisico come nel politico tutto è dipendenza, tutto è rapporte, niente è isolato. Osservale come quest'ordine inalterabile della natura ha dato origine alla società, ha fatto nascere il commercio fra gli uomini. Ricordatevi che per quel che riguarda la sua destinazione il commercio vuole che tutte le nazioni si riguardino come una società unica, tutti i membri della quale abbiano eguali dritti di partecipare a' beni di tutte le altre; per quello poi che riguarda il suo oggetto e i suoi mezzi, il commercio suppone il desiderio e la libertà concentrata fra tutti i popoli di fare tutte le permute e tutti i cambii che possono convenire a' loro mutui bisogni. Persuadetevi che se le nazioni colle quali voi commerciale han bisogno di voi e se voi avete bisogno di loro, a misura che si aumenterà la loro prosperità dovendo anche crescere la loro popolazione, voi troverete un maggior numero di compratori de' vostri prodotti o della vostra industria e una maggior quantità di esibitori di quel che vi manca.

Rinunziate dunque a questo spirito di rivalità e di gelosia. Combinate i vostri interessi e i vostri vantaggi con quelli delle altre nazioni. Questo è il solo mezzo da fare acquistare alla prosperità de' vostri Stati un carattere di perpetuità. Rompete questi argini crudeli, abborrite queste distinzioni assurde di nazione con nazione, funesti avanzi degli antichi pregiudizii della barbarie, sempre distruttivi, ma oggi disonoranti per un secolo che si credo illuminato e che in fatti dovrebbe esserlo. Abolite quei patti di confederazione e di lega, che hanno la difesa per pretesto e l’invasione per fine e per vocazione; che obbligano un popolo, che potrebbe godere e profittare de' vantaggi della pace, e mescolarsi nelle brighe di un’altra nazione, a spargere il suo sangue, a sacrificare i suoi tesori, a interrompere il suo commercio per garantire ordinariamente l'ambizione di un re straniero, per sostenere le sue pretensioni ingiuste, i suoi supposti diritti, i suoi titoli fraudolenti o dubbii, i suoi odii personali, la sua vanità puerile, le sue gelosie mal fondate, i suoi stessi delirii. Considerate come sorgenti di abusi politici quei trattati di commercio che divengono altrettanti semi di guerra e di discordia, e quei privilegi esclusivi che una nazione ottiene da un’altra per un traffico di lusso o per un commercio di sussistenza. La libertà generale dell'industria e dei commercio, questo è il solo trattato che una nazione commerciante ed industriosa dovrebbe stabilire nel suo interno e cercare al di fuori. Tutto quello che favorisce questa libertà giova al commercio, tutto quello che la ristringe gli nuoce. La gelosia di commercio, le rivalità delle nazioni la ristringono al di fuori; i regolamenti troppo minuti e troppo complicali, la soverchia ingerenza dei governo la distrugge nell’interno. Ecco perché io considero quella come un altro ostacolo al commercio.

CAPO XXI

Altri ostacoli che impediscono i progressi del commercio nella maggior parte delle nazioni, derivati dalla soverchia ingerenza dei governo

Iddio liberi la mia patria, dovrebbe dire ogni cittadino di buon senso, la liberi da due estremi egualmente perniciosi; dalla soverchia negligenza dei governo, e dalla sua soverchia vigilanza. Il voler tutto sapere, il voler tutto vedere, il voler tutto dirigere è una sorgente di disordini non mono funesta della trascuraggine e della negligenza. Nella cognizione, nella scienza di quel giusto e difficile mescuglio di attenzione e di abbandono, d’ingerenza e di libertà consiste tutta l'arte dei governo. Si paragoni per un momento la direzione de' popoli a quella de' fanciulli. Se voi spingete troppo innanzi l'attenzione di dettaglio, se voi volete regolare tutte le loro mosse, tutte le loro azioni, l'arte non tarderà molto a soffocare la natura, questa non si conoscerà più nell’allievo e non saprà più produrre cosa alcuna. Al contrario, se voi lo trascurerete troppo, i vizi dell’umanità s’impadroniranno di lui e voi lo perderete per un motivo opposto; l’istesso avviene nel governo. La soverchia negligenza dà adito, fa nascere e perpetua tutti i disordini, e la soverchia ingerenza distrugge tutta l'attività dei cittadino distruggendone la libertà. La prima ci conduce a' flagelli dell’anarchia, e la seconda a quelli della servitù.

Or chi lo crederebbe? Il commercio di una gran parte delle nazioni europee si risente nel tempo istesso delle conseguenze funeste di questi due vizi opposti. Egli soffre e dalla parte della negligenza dei governo, il quale trascura di liberarlo dagli ostacoli che gli si oppongono, e soffre egualmente dalla sua molesta ingerenza, volendo dirigere e regolare tutti i suoi passi, tutte le sue intraprese, tutti i suoi interessi. Aprendo i codici economici dell’Europa non troviamo altro che leggi proibitive, che statuti e regolamenti minuti e particolari su tutto quello che riguarda il commercio. I legislatori han voluto far le veci dei negoziante, ma bisogna confessare con libertà, che per lo più sono molto mal riuscili in questo mestiere. Essi, è vero, han cercalo di favorire il commercio; ma si può mai favorire il commercio diminuendone la libertà?

La Francia credette di garantire uno de' principali rami della sua industria proibendo l’estrazione di ogni specie di seta non manifatturata. La seta cruda o soltanto tinta, che era uno de' grandi oggetti del commercio di questa nazione, non potè più uscire da' suoi confini. Il governo emanando questa legge proibitiva credette sicuramente di mettere un ostacolo a' progressi delle manifatture straniere di questo genere, si per averle privale dell’apparecchio che i Francesi han l'arte di dare cosi bene alle loro sete e dell arte che hanno nel tingerle, come anche per obbligarle a sostenere una maggior concorrenza ne’ mercati di Europa; poiché i manifatturieri francesi avrebbero a più buon mercato vendute le loro stoffe, subito che la proibizione di estrarre la scia cruda gli avrebbe messi in istato di comprare a più buon prezzo la materia prima. Ma infelicemente per la Francia queste speranze sono state deluse. Gli stranieri han cercato altrove le sete che una volta compravano dalla Francia, e il bisogno ha fatto imparar loro farte di apparecchiarle e di tingerle della maniera istessa che si apparecchiano e si tingono in Lione. L’avvilimento del prezzo delle sete ha fatto in molte parti della Francia deteriorare la coltura de' gelsi; la proibizione di non estrarle, se non manifatturate, l'ha privala anche dcl commercio ch’essa faceva delle sete straniere che rivendeva dopo averle tinte e preparate; e finalmente l'industria nazionale è rimasta doppiamente afflitta, e da quel che ha perduto, e da quel che ha fatto acquistare a' suoi vicini. Or questi sogliono esser sempre gli effetti delle speculazioni dcl governo nelle materie di commercio.

Dall'istessa causa l'Inghilterra ha sofferti gli stessi effetti. Allorché il governo britannico proibì con tanto rigore l'esportazione delle sue lane; allorché dimenticandosi della moderazione, della giustizia e della proporzione che vi debb’essere Ira le pene e i delitti condannò collo Statuto VIII cap. III di Elisabetta coloro che erano convinti di questo delitto, per la prima volta alla confiscazione de' beni, al carcere di un anno e a perdere la mano sinistra, e nella seconda ad esser dichiarati e puniti come felloni; allorché la ferocia di questa legge fu corretta dai parlamento sotto il regno di Carlo II e di Guglielmo III, ma se ne lasciò sussistere l'oggetto; allorché le pene pecuniarie più forti furono sostituite alle antiche, non tanto per togliere lo scandalo della barbarie quanto per impedire l'impunità che nasceva dai soverchio rigore della legge; allorché il governo britannico, io dico, prese tutte queste misure per impedire l’estrazione delle sue lane, egli si augurò gli istessi vantaggi che si augura la Francia dalla proibizione dell'estrazione delle sue sete non manifatturate. Egli credette che i suoi drappi avrebbero avuto maggior smaltimento, subito che i fabbricanti avrebbero pagata la materia prima a minor prezzo, e credette di nuocere agli stranieri e particolarmente a' Francesi privandoli delle sue lane, dalla perfezione delle quali dipendeva quasi intieramente quella de' loro drappi. L’evento ha mostrato l'errore di questa speculazione. Non avendo più le lane lo smaltimento che avevano prima e il loro prezzo essendo stato fissato dalla legge, esse sono deteriorate in quantità ed in qualità, e la Francia ha perfezionate le sue. Il danaro, che entrava in Inghilterra per l’estrazione delle sue lane, più non vi entra; i suoi drappi hanno forse perduta quella perfezione che avevano prima, o almeno non si sono liberati dalla concorrenza di quelli de' Francesi; l'Inghilterra finalmente, e riguardo a quest'oggetto e riguardo ad infiniti altri, ha come le altre nazioni sperimentati i funesti effetti della soverchia ingerenza del governo negli affari del commercio.

La Francia ne ha un’altra riprova nel commercio dell'Indie Orientali. I disastri che ha sofferto la compagnia dell'Indie in questo secolo sono troppo noti, e l'autor celebre della Storia filosofica e politica degli stabilimenti degli Europei nelle due Indie ce ne ha dato un minuto ragguaglio (209). Questo scrittore, che ha sempre osservati i disordini e le loro cause, non terne d’attribuirne l’origine all'ingerenza dei governo. Dacché il governo volle nominare i direttori della Compagnia, dacché un commissario dei re fu introdotto nell'amministrazione (210), da quest'epoca la compagnia cominciò ad andare in rovina. Tutto si regolò per l'influenza, e quasi sempre a seconda degl’interessi e delle mire private dell’uomo della corte.

Il mistero, questo velo inseparabile da un'amministrazione arbitraria, copriva tutte le operazioni dei commercio; gl'interessati ignorarono lo stato de' loro affari, e la perdita della libertà fu seguita da' presagi più funesti della rovina intiera della compagnia. Il governo istruito di questi disordini credette di potervi porre un rimedio, moltiplicando il numero de' suoi commissari. Egli ne stabili due dapprincipio, e quindi vi aggiunse un terzo. Ma il male, invece di diminuirsi, crebbe a misura che le inani che stringevano le catene di questo commercio si moltiplicarono. Il dispotismo aveva regnato allorché non ve n’era che un solo, la divisione allorché ve ne furono due, ma dal momento che ve ne furono tre tutto cadde nell’anarchia.

In questo stato di cose si vide comparire un progetto di riforma, l'oggetto dei quale era di togliere il governo di mezzo agli affari della compagnia. Il progetto fu eseguito, il governo rinunzio ad un’ingerenza ch'era la causa di tutti i disordini, e durante i cinque anni che durò la nuov'amministrazione la compagnia prosperò a segno che le rendite giunsero fino a diciotto milioni per ogni anno: somma, alla quale non erano fino a quel tempo ascese neppure ne’ tempi che s’erano riguardali come i più brillanti.

Io non la finirai mai se volessi rapportare tutti i documenti della rovina dei commercio cagionata dalla soverchia ingerenza dcl governo. Tutta l'Europa mi somministrerebbe delle prove e de' fatti per dimostrare questa verità. La sola Francia me ne darebbe di che riempirne un libro, e l’Inghilterra istessa me ne offrirebbe in abbondanza. Ma io le tralascio per non distendermi tanto su d’un oggetto, che non ho voluto osservare che di passaggio.

Regola generale: quando voi vedete in una nazione il governo mescolarsi troppo negli affari di commercio, quando vedete che tutte le sue operazioni sono regolate da qualche legge particolare, quando la moltiplicità di queste obbliga il negoziante a fare le sue speculazioni col codice economico alla mano, senza cercare d’informarvi d’altro, voi non v'ingannerete mai supponendo in pessimo stato il commercio di questa nazione.


vai su

CAPO XXII

Ostacoli che recano al commercio le leggi, che dirigono quello delle nazioni Europee colle loro rispettive colonie

Oggi che tutti gl’interessi dell’Europa hanno un rapporte con quelli dell’America; oggi che queste nuovo emisfero è divenuto la fattoria degli Europei, fattoria sempre distrutta e spesse volte insanguinata da' suoi nuovi proprietari; oggi finalmente, che il principale oggetto dei nostro commercio è quello che si fa col soccorso delle colonie Americane, le cause che distruggono o almeno che impediscono i progressi di questo commercio non debbono esser trascurate nella scienza della legislazione. Io le deduco tutte da un principio comune.

Un falso supposto ha fatto credere ai governi delle nazioni Europee che si sono stabilità nel nuovo mondo, che per raccorre il maggior possibile vantaggio dalle loro rispettive colonie bisognava obbligarle ad un commercio esclusivo colla metropoli. Le leggi proibitive, colle quali si è cercato di stabilire questo sistema erroneo, sono state le più severe, le più distruttive di quella libertà, senza della quale niun commercio di queste genere può prosperare (211). Alcune poche riflessioni basteranno per farci vedere, come questa proibizione sia nel tempo stesso contraria agi’ interessi delle metropoli ed a quelli delle colonie, e come rovini egualmente il commercio dell’une e dell’altre.

Due sono i motivi, per li quali i governi han potuto determinarsi a prescrivere questa perniciosissima esclusiva, l’aumento delle imposizioni sui coloni col soccorso de' dritti sull’immissioni e sull’estrazioni di tutto quello che si riceve da essi e che si manda loro, od il disegno di far ridondare col soccorso dei monopolio tutte il commercio delle colonie in vantaggio della metropoli.

Se il primo di questi motivi è quello che ha determinati i governi, ci vuol poco a vedere quanto essi si sono ingannati.

Essi han creduto che questi dazi indiretti verrebbero ad essere pagati dalle colonie, quando la metropoli è effettivamente quella che li paga. Questa verità si comprenderà allorché si parlerà dei dazi indiretti, dove si dimostrerà che questi vengono sempre a cadere sui primo venditore.

Per far che i coloni fossero a parte de' pesi della società della quale essi son membri, per ottenere ciò che la giustizia richiede da una parte e l’interesse pubblico esige dall'altra, per combinare l’interesse della metropoli con quello delle colonie, bisognava tassare i loro fondi, e non le mercanzie ch’essi ci mandano né quelle ch’esse ricevono da noi. In questo caso la libertà dei loro commercio rendendone molto più profittevole la coltura, il governo avrebbe potuto ottenere dalle colonie senza inasprirle, senza oltraggiarle, senza impoverirle, quello ch’oggi non ottiene da esse con un’esclusiva che le inasprisce, che le impoverisce, e che fa loro sentire tutto il peso dall'oppressione, col desiderio e la speranza di troncare al primo momento favorevole quella mano che le incatena.

Se poi il grande oggetto di questa fatale esclusiva è stato il seconde, cioè di procurare il maggior guadagno della metropoli nel monopolio colle sue colonie, i governi non si sono meno ingannati. Questo è evidente. Se la metropoli vende le sue produzioni e compra quelle delle colonie al prezzo corrente del mercato generale, l’esclusiva è superflua. Se al contrario vende loro a caro prezzo le sue mercanzie e compra le loro ad un prezzo tenuissimo, essa rovina le colonie, e rovina per conseguenza il suo istesso commercio. A misura che un commercio cosi svantaggioso le farà impoverire, esse consumeranno una minor quantità dei prodotti della metropoli e le esibiranno una minor quantità de' loro. Esse chiameranno in soccorso il commercio clandestino, esse ricorreranno a' contrabandi, dai quali l’avidità della metropoli non potrà garantirsi né colle pene le più severe né colla moltiplicazione delle spie e delle guardie, quando sono animali dalla speranza d’un gran profitto. In questo caso l'esclusiva diverrà inutile a' negozianti della metropoli, ma non lascierà di rovinar le colonie, giacché questo commercio clandestino non potrebbe mai giovare che a pochi armatori avidi ed ardili, che spoglierebbero col soccorso de' monopolii e la patria e le colonie nel tempo istesso. L’Inghilterra e la Spagna ne sono la prova.

L’interesse dunque della metropoli è d’accordare una libertà cosi intiera al commercio de' suoi coloni, che a quello degli altri sudditi dello Stato. La giustizia lo richiede egualmente. Questa Dea, che infelicemente per l'umanità rare volte influisce nelle speculazioni delle finanze; la giustizia, che sempre s’ unisce ai veri interessi delle nazioni e de' popoli, e che suggerisce sempre a colui che ne consulta gli oracoli le regole ed i mezzi per innalzare la felicità degli uomini e degli Stati, non sopra i vacillanti rottami de' privati interessi, ma sopra i fondamenti eterni del comun bene; la giustizia, io dico, non può vedere senz’orrore un attentato cosi manifesto contro i sacri diritti della proprietà e della libertà del l’uomo e del cittadino, prescritto, autorizzato, legittimato dalla pubblica autorità. Questa ha, è vero, il diritto di decidere e di determinare sovranamente su tutto quello che può nuocere o giovare al bene generale della società. Questa è una prerogativa inseparabile dalla sovranità. Ma la natura istessa di questa prerogativa ce n’addita l’uso, ci fa vedere che questa debb’essere esercitata in vantaggio di tutti i membri della confederazione sociale. Fuori di questo caso l'esercizio di questa prerogativa non è più legittimo; esso degenera in un atto di tirannia, in un tratto d’oppressione e di dispotismo. Ancorché dunque il vantaggio delle metropoli esigesse quest’esclusiva, contro della quale si ragiona, il male che questa reca alle colonie basterebbe per renderla ingiusta. I coloni non sono forse membri della società come gli abitanti della metropoli? Non sono fors’essi figli dell’istessa madre, fratelli dell’istessa famiglia, cittadini dell’istessa patria, sudditi dell’istesso impero? Non debbono fors’essi aver diritti e prerogative comuni, e tra questi diritti il più prezioso non è forse quello della proprietà e della libertà di disporre di quello ch’è loro? Questi diritti che l’uomo acquista con nascere, che la società e le leggi debbono garantire, che sono essenzialmente in noi e che formano la nostra esistenza politica, come l'anima ed il corpo formano l'esistenza fisica; questi diritti preziosi, che non ci potrebbero esser toi ti senza scioglierci dai nodo che ci unisce allo Stato; questi diritti, de' quali il possesso non ci può mai esser interdetto e l'esercizio ci può soltanto esser sospeso per un bisogno urgente, inevitabile ed universale dell'intiero corpo sociale (poiché al contrario quando quella causa non esiste, come nel caso nostro, quando questa divinità che si chiama interesse pubblico non può essere internamente placala da questo violento e spaventevole sacrificio, quand'essa non ardisce di pretenderlo, allora la soppressione sola anche momentanea di quest'esercizio diviene un’ingiustizia spaventevole, un attentato pericoloso, un’oppressione manifesta; questi diritti finalmente, che debbono essere cosi rispettati nella persona d’un privato cittadino, di un semplice individuo della società, potrebbero essi esser negali ad una parte considerabile del corpo civile? potrebbero essi esser proscritti dalle colonie di una nazione?

Ma si dirà: lo stabilimento di queste colonie è costato molte spese e molti rischi alla nazione fondatrice, e la protezione ch’essa loro accorda l'obbliga ad altre spese continue; questi benefizii non esigono forse un compenso dalla parte delle colonie? Si, ma questo compenso si deve cercare in tutt'altro fuori che in quest'esclusiva, la quale non solo è ingiusta, non solo è perniciosa alle colonie, ma (come si è osservato non giova alla metropoli istessa. Dove dunque cercarlo? Bisogna persuadersi: qualunque sia lo stato degl'interessi della metropoli, essa non deve vedere nelle sue colonie che un istrumento di sollievo per le contribuzioni dello Stato. Il gran vantaggio che il governo deve cercare in queste provincie segregate non dev'essere il profitto chimerico d’un commercio esclusivo, ma la diminuzione de' pesi della metropoli col soccorso delle larghe contribuzioni che si possono ottenere da una colonia ben regolala. Il prodotto netto delle colonie Europee stabilità nell’America potrebb’essere considerabilissimo, e la porzione che ne potrebbe esser serbata per le contribuzioni potrebb’essere importantissima e di gran sollievo per le rispettive metropoli, se le leggi non avessero cercalo di distruggere il loro commercio e di condannare i loro abitanti all'ignoranza, alla miseria ed al dispotismo il più insopportabile. Più queste ricchezze si sarebbero aumentate, maggiore sarebbe stato il sollievo ch'esse avrebbero recato alla metropoli, perché maggiori sarebbero state le loro contribuzioni.

I veri interessi della nazione fondatrice, tutte le sue speranze relativamente alle sue colonie sono dunque fondate nella loro prosperità, nella moltiplicazione delle loro ricchezze. A questo solo oggetto dunque dovrebbero dirigersi tutte le cure dei legislatori Europei nel nuovo emisfero. Or supposto questo, chi non vede che se i coloni avessero la libertà di ricercare dal loro suolo tutte le derrate che questo sarebbe in istato di produrre, di provvedersi di quelle che loro mancano da chimique le offrirebbe loro a minor prezzo, di vendere e di comprare a qualunque e da qualunque nazione essi vorrebbero, di soddisfare coll'istessa libertà. Non solo ai bisogni di prima necessita ma anche a quelli di puro lusso; chi non vede, io dico, quanto sotto questi auspici le colonie prospererebbero, quanto si accrescerebbe la loro popolazione, la loro forza, il loro commercio; come questa libertà darebbe un nuovo prezzo al suolo che coltivano, come si migliorerebbe la loro coltura, come s’accrescerebbe la quantità, il numero ed il valore de' loro prodotti, e come finalmente queste provincie segregate ch'oggi sono il teatro della miseria e dell'oppressione di coloro che ubbidiscono, dell’avidità e del dispotismo di coloro che governano, e della stranezza ed ingiustizia delle leggi colle quali sono governati, ci offerirebbero allora lo spettacolo raro, ma piacevole, della ricchezza e della felicità d’un paese sostenuta dall'agricoltura, dalle arti, e dal commercio? La sola soppressione dunque di questa fatale esclusiva basterebbe forse per fare la prosperità delle colonie, e per conseguenza della metropoli,

Che non mi s’opponga, che queste colonie divenute ricche e potenti sdegnerebbero di dipendere dalla loro madre. Il peso della dipendenza non si rende insopportabile agli uomini, se non quando è unito al peso della miseria e dell'oppressione. Le Romane colonie trattate con quello spirito di moderazione che l’interesse e la politica del senato avevano inspiralo, ben lontano dall'abborrire, si gloriavano d’un’indipendenza che faceva la loro gloria e la loro sicurezza. La loro condizione era invidiata anche da quelle città, che incorporale con Roma avevano accoppiate sotto il nome importante di municipi tutte le prerogative della Romana cittadinanza alla conservazione de' loro usi particolari, del loro culto e delle loro leggi. Molle di queste città cercarono il titolo di colonie, e sebbene più distinte fossero le loro prerogative, nulladimeno sotto l'imperatore Adriano non si sapeva quali fossero quelle di cui dovesse esser preferita la sorte (212). La prosperità non le rese mai ribelli, non inspirò mai loro l'ambizione dell’indipendenza. L’istesso avverrebbe alle moderne colonie. Felici sotto il governo delle loro metropoli esse non ardirebbero di rompere un giogo leggiero e piacevole, per cercare un’indipendenza che le priverebbe della protezione della loro madre senza la sicurezza di poterle garantire o dall’ambizione d’un conquistatore, o dagl’intrighi d’un cittadino prepotente, o da' pericoli dell’anarchia. Non è stato l’eccesso della ricchezza e della prosperità che ha fatto ribellare le colonie Anglicane, ma è stato l’eccesso dell’oppressione che le ha indotte a rivolgere contro la loro madre quelle armi ch'esse avevano tante volte impugnale per difenderla.

Quest’esempio non basterà forse per disingannare gli altri governi d’Europa? Perché invece di guardare la rivoluzione dell’America come un semplice castigo dell'orgoglio Inglese, non vi veggono piuttosto essi una lezione terribile data a tutte le potenze che si dividono le spoglie di questo vasto continente? Aspetteranno essi ch'una causa comune renda universale questa fatale catastrofe, che separerà per sempre un mondo dall'altro? La mina ê preparata. Una scintilla è bastata per accenderla nell’America Anglicana (213). Non ci vorrà più di questo per farla scoppiare nel resto di questo vasto continente. L’epoca di quest'avvenimento è incerta, ma è inevitabile se non si riforma questo sistema erroneo, se non si aboliscono queste leggi colle quali si dirige o per meglio dire si distrugge il commercio delle nazioni Europee colle loro rispettive colonie. La prosperità cosi dell’antico come del nuovo emisfero ricerca, come s’ è dimostrato, questa giusta e salutare riforma, e la ribellione delle colonie Anglicane mostra a tutti i principi il pericolo che loro sovrasta se non l'accelerano. Or se dallo scandalo dei combattimenti noi potessimo lusingarci di veder uscire un sistema di riforma cosi salutare; se quell'istessa causa, che ha inspirata la discordia ed ha accesa oggi la guerra tra gl'Inglesi e le loro colonie, rompesse le catene che opprimono il commercio dei resto dell'America, la filosofia sensibile piangendo sull'asprezza dei rimedio si consolerebbe almeno coll'enumerazione dei mali che ha estirpali.

CAPO XXIII

Ultimo ostacolo al commercio: la mala fede de' negozianti, frequenza de' fallimenti

Se la confidenza è l’anima dei commercio; se senza d’essa tutte le parti che compongono il suo edifizio crollano da loro medesime; se il credito è una seconda specie di moneta, senza della quale ogni circolazione sarebbe interrotta, ogni commercio racchiuso tra gli stretti confini della somma dei numerario; se questo credito fa circolare nella banca d’Amsterdam 15 milioni di fiorini per giorno, e se l’istessa causa fa che in questa piazza si trovino de' negozianti che fanno un traffico di 60 milioni in ogni anno; se il credito, in una parola, è cosi necessario al commercio come gli elementi lo sono alla sussistenza degli animali, non si può dubitare che tutto quello che contribuisce ad indebolirlo debb’essere considerato come un ostacolo al commercio.

Or chi non vede come la frequenza de' fallimenti in una nazione debba produrre quest'effetto? qual credito si può avere per coloro che commerciano in una nazione, nella quale il fallimento entra nell'assortimento dei mezzi da migliorare la fortuna dei negoziante, nella quale un mercante non è ricco che dopo il terzo fallimento, e nella quale la strada più breve che lo conduce all’opulenza è il dichiararsi fallito? Or chi lo crederebbe! Se se n’eccettuano alcune poche nazioni, in tutto il resto dell'Europa questa bizzarra e funesta speculazione pare non essere interdetta al negoziante. Ma i fallimenti non sono mai stati cosi frequenti e cosi felici quanto,in un secolo, nel quale tutti gli occhi de' governi sono rivolti al commercio.

Qual prova più autentica dell’infanzia della presente legislazione? Le nostre leggi stabiliscono una pena per i fallimenti; ma l’impunità, conseguenza necessaria della poca opportunità della legge, rende inutile il loro rigore. Vediamo dunque e quel che inutilmente s’è fatto e quel che si dovrebbe fare per torre al commercio un ostacolo, dei quale la morale e la politica, il decoro de' costumi e l’interesse pubblico ugualmente si risentono, ma che malgrado tutto questo ha funestamente distese le sue radici in quasi tutta l’Europa.


vai su

CAPO XXIV

Incoerenza ed inefficacia della presente legislazione riguardo a quest'oggetto

I dritti sacri dell’umanità uniti ai veri interessi dei commercio ci autorizzano ad attaccar qui la legislazione dell'Europa. Le leggi che riguardano i fallimenti non fanno sicuramente la gloria de' nostri codici, né de' legislatori che le hanno emanale. Esse partecipano de' caratteri più opposti tra loro, esse sono nel tempo istesso troppo severe e troppo indulgenti, esse condannano l'innocenza nel mentre che offrono un adito per l'impunità a coloro che sono effettivamente rei: vediamolo.

Vi sono due diverse specie di fallimenti. Altri sono volontari e fraudolenti, altri sono involontari e forzosi. Ne’ primi l'insolvibilità dei debitore non è che apparente, e gli effetti ch'egli cede a' suoi creditori non sono che una parte de' suoi beni; il resto vien traviato o nascosto. Al contrario ne’ secondi l'insolvibilità è necessaria. Una disgrazia sopravvenuta al negoziante, la perdita d’una nave, il fallimento d’un suo corrispondente ecc. l’obbligano a dichiarare a' suoi creditori la sua insolvibilità, il suo fallimento e l'avanzo de' suoi fondi ch'egli loro offre in compenso d’una porzione dei suo debito. Il primo dunque è un fallimento volontario, è un furto fatto al pubblico, furto altrettanto più funesto quanto è in potere di colui che lo fa di determinare il valore; ma il secondo è un flagello dei cielo, una disgrazia non preveduta, che non lascia altro sollievo all'infelice che la soffre che la coscienza e la sicurezza della sua innocenza, la quale peraltro non lo garantisce dai disprezzo dei pubblico, dalla perdita dell’onore, e quel che è più strano, dall'ingiusto rigore della legge. È vero che l’istessa legge, che condanna alla morte il fallito fraudolento (214) e volontario, non dà altra pena al fallito di buona fede che il carcere perpetuo; ma io domando:può essa punire un uomo che non ha lascialo d’esser giusto? Quando la sorte lo ha privalo di tutto quel che possedeva, può la legge senz'altro motivo privarlo anche di quello che questa gli ha lascialo, della libertà personale? Quegli edifizi che la podestà legislativa ha fatto innalzare per assicurare il riposo pubblico contro la violenza, contro i delitti, contro tutti gli altri eccessi che malgrado le penose cure de' legislatori non lasciano di turbar l'ordine delta società; quegli edifizi, l'esistenza dei quali umilia l'umanità quantunque falli per la sua conservazione, potranno forse qualche volta essere anche impiegali per distruggerla? Il carcere può mai divenire albergo dell’innocenza? La legge può forse a questo segno moltiplicare i disastri d’un infelice? qual causa potrà mai legittimare un attentato, ch'essa commette contro la libertà civile sollo l’ombra dell’interesse pubblico? qual interesse più grande e più comune, che la libertà dcl cittadino sia al coperto? Senza di questa non v è né commercio né società. Ma lasciamo di declamare, e contentiamoci di piangere sull'imbecillità degli uomini nel vedere un errore cosi manifesto adottalo in tutta l'Europa, e nel vedere il silenzio della morale sulla più irritante stranezza della moderna giurisprudenza. Vediamo ora come nell'esecuzione la legge istessa offre al vero reo l'impunità; vediamo com’essa deposita la vendetta pubblica d’un delitto pubblico nelle mani private; vediamo com’essa dà agl’interessati un dritto che la facoltà istessa suprema non ha, d’assolvere un reo e di punire un innocente, vediamo finalmente come subito che gl’interessati firmano un contralto col negoziante fallito, ancorché il fallimento di questo sia volontario e fraudolento, la legge si dimentica allora della sua severità, dcl delitto dcl reo e dell’abuso che questi ha fatto della confidenza pubblica.

Appena il fallimento e dichiaralo, la legge permette a' due terzi o tre quarti de' creditori di unirsi e di decidere della sorte del fallito. Se costoro stipulano un accomodamento col negoziante, s'essi si contentano di rinunziare ad una porzione del loro credito, ancorché il fallimento involontario e fraudolento, tutto è terminale. La porzione de' suoi fondi che quelli ha nascosto, o per meglio dire elle ha rubata a suoi corrispondenti, resta salva per lui: egli ricomincia un nuovo negoziato con un capitale che ha loro rapito, e se la fortuna seconda la sua frode egli s’arricchisce col soccorso del sue fallimento.

Se al contrario il fallimento, ancorché di buona fede, ancorché per disgrazia, non lascia al negoziante onesto di che conchiudere un accomodamento co’ suoi creditori; se qualche privato interesse ed il capriccio inspirano a costoro di rovinare questo infelice ed onorato cittadino. La legge che ha ceduto un dritto che non aveva, legittima la loro crudeltà, e permette loro di ritenere in un carcere perpetuo un uomo che non ha commesso alcun delitto.

L’interesse solo de' creditori od il loro capriccio può dunque togliere ad un fallito onest'uomo quella libertà che non si può perdere dal cittadino senza un delitto, e può mettere la mala fede, la frode ed il furto al coperto d'ogni inquisizione e d'ogni castigo.

A che giova dunque che la legge metta nel range de' delitti il fallimento fraudolento, a che giova la pena di morte minacciata contro un delitto ch’offende la pubblica fede, quando il giudizio dei creditori fa ordinariamente tacere la giustizia, quando la legge, invece d'innalzare un asilo contro il suo rigore in favore dell'insolvibilità onesta che geme e s’umilia innanzi al cospetto de' suoi barbari creditori, non fa altro che aprire una strada sicura all'impunità per la frode avveduta, orgogliosa ed ardila che la elude? quando finalmente la sua apparente moderazione non è utile che pel fallito fraudolento, che ha nascosto il suo danaro per ricavare miglior partito dalle spavento de' suoi creditori?

Non v’è giorno che non si senta fallimento nell'Europa. Questi sono per le più fraudolenti. Ma non s’è forse ancora intese un negoziante impiccato per questo delitto. qual maraviglia che i fallimenti siano cosi frequenti? Non si sarebbe forse bisogno di tutta questa pena per estirpare questo vizio, se la legge istessa non assicurasse l'impunità al delinquente e se cercasse di prevenirlo.

Vediamo dunque quelle che i dovrebbe fare.

CAPO XXV

Efficaci rimedj contro questo disordine

Se la speranza dell'impunità è il gran veicolo de' delitti, questa sarebbe la prima che si dovrebbe estirpare dal cuore dei negozianti per diminuire la somma de' fallimenti fraudolenti. Per ottener questo fine bisognerebbe torre agli interessali il dritto di decidere della sorte del fallito. Questi non dovrebbero ingerirsi in altro che nell'invigilare sui mezzi d’essere indennizzati della maggior possibile porzione dei loro crediti. Il reste dovrebbe farsi da' giudici.

Subito dunque che il negoziante si dichiara fallito, il governo dovrebbe assicurarsi della sua persona. Quindi con un rigoroso esame sui bilanci del negoziante, sulla condotta da lui tenuta ec., i giudici dovrebbero determinare la natura del fallimento. Trovandosi di buona fede, il negoziante dovrebbe esser messo in libertà, e basterebbe obbligarlo a dare a' suoi creditori l’avanzo de' suoi fondi in compenso de' suoi debiti. Bisognerebbe lasciare a quest’infelice la strada aperta ad ogni fortuna, e palesare al pubblico la sua buona fede e la sua innocenza.

Ma trovandosi fraudolento il fallimento, il delinquente in qualunque caso non dovrebbe scampare il giusto rigore della legge. Una pena d’infamia sarebbe la più opportuna per questo delitto. Un ferro rovente dovrebbe imprimere nella sua fronte i caratteri che l’esprimono. Privo della confidenza pubblica egli dovrebbe esser escluso da tutte quelle cariche, da tutti que’ mestieri che ricercano l'onoratezza in colore che gli esercitano. Come infame, ogni atto, ogni obbligazione da lui firmata si dovrebbe avere come nulla e com’illegittima. Ancorché una fortuna non meritata lo mettesse in istato di soddisfare i suoi creditori in tutta la somma de' loro crediti, la sua infamia non dovrebbe per questo finire, non altrimenti che la restituzione non libera il ladro dalla pena del furto. Questa pena finalmente si dovrebbe eseguire con tutti quegli apparati, che rendono più terribile la giustizia e più vergognoso il delitto.

Ecco com'andrebbe punito il fallimento fraudolento. Esaminiamo ora come la legge potrebbe prevenirlo.

Il lusso forse desiderabile in alcune classi de' cittadini d’uno Stato, ma perniciosissimo in quella de' negozianti, è la causa la più frequente de' fallimenti. La mania di comparir nobile coi diplomi del fasto e della profusione fa disprezzare ai negozianti una frugalità onorevole e necessaria. Un guadagno considerabile fatto col soccorso d’un negozialo felice non è destinato a produrne un altro, né è serbalo per compensare una perdila che potrebbe sopravvenire da un secondo negozialo. Tutto s’impiega alla creazione d’un treno fastoso, col soccorso del quale l'imbecille negoziante va accattando un’eccellenza derisa da coloro istessi che gliela vendono. Che ne avviene da questo? Il primo negozialo infelice cagiona il fallimento del negoziante. Privo degli avanzi necessari per compensarlo egli ricorre agl’intrighi. Egli non ardisce di riformare il suo trattamento per non palesare il suo disordine. Egli anzi spende qualche volta di più per evitare un sospetto che accelerebbe il suo fallimento, fallimento cui non potendo più evitare cerca soltanto di ritardare col soccorso di nuove frode e di nuovi furti.

Queste non sono speculazioni metafisiche né vani sogni di politica; sono latti che avvengono di continuo sotto i nostri occhi, e che infelicemente cagionano la rovina di tante famiglie che in ogni giorno sono sacrificate sull’altare del lusso alla mala fede ed alle frode de' negozianti. Un corpo dunque di leggi suntuarie sarebbe necessario per la classe de' mercanti (215).

La pena che si dovrebbe minacciare per farle eseguire non dovrebbe riguardare l’infrazione, ma gli effetti dell’infrazione. Io mi spiego. Se il trattamento di un negoziante oltrepassasse i limiti prescritti dalla legge, limiti che dovrebbero proporzionarsi al fondo che il negoziante mette in commercio, non dovrebbe per questo esser punito; ma nel caso ch’egli venisse a fallire, qualunque sia stata la causa prossima del suo fallimento, il giudice raccogliendo da' bilanci ch'egli verrebbe ad esibire o dall'esame della condotta da lui tenuta, che il negoziante ha speso più di quello che ha la legge prescritto, questo potrebbe bastare per dichiarare volontario e fraudolento il suo fallimento e per condannarlo alla pena che si è assegnata a questo delitto. Questo stabilimento, oltreché frenerebbe in qualche maniera il lusse de' negozianti, recherebbe anche un altro vantaggio non indifferente. Siccome non gioverebbe più allora al fallito l'alterare l'articolo delle spese, il bilancio lascierebbe d’essere uno dei segreti dell'arte di fallire con profitto. Egli non troverebbe più nel dettaglio alterate delle sue spese il serbatoio dove nascondere una porzione di quella somma che unie rubare a' suoi creditori.

Laltro segreto dell'arte di fallire con profitto è l'ingrandimento fittizio delle doti. Io mi fo un dovere di svelare a' legislatori tutti questi arcani della frode e dell’inganno.

Un negoziante, che prende moglie, finge col soccorso d’una carta fittizia di aver ricevuta una dote molto maggiore di quella che infatti ha ricevuta. Questo fa che nel momento, nel quale il fallimento si dichiara, la moglie s'impadronisce de' migliori effetti per indennizzarsi della somma enunziata nel contratto, ed intanto i creditori che la legge pospone alla moglie veggono restare nella famiglia del debitore le loro sostanze, senza poter reclamare contro un furto che si la sotto la protezione della legge.

Per prevenire questo disordine, per terre quest'incentivo a fallimenti, il legislature dovrebbe prescrivere che la dote non potesse esser messa in commercio senza il consenso della moglie, la quale potrebbe cercarne l’assegnazione sui fondi stabili come si fa nulle altre classi de' cittadini; e che non cercando quest'assegnazione e contentandosi che la sua dote sia posta in commercio, essa debba soggiacere alle disgrazie che sono unità alla negoziazione, e per conseguenza in caso di fallimento rimanga priva del dritto di ripeterla.

L’ultimo segreto finalmente di quest'arte che ha fatti tanti progressi nell'Europa, sono le polizze simulate. Un negoziante che vuol fallire ha quasi sempre l'avvedutezza d'avere una persona che di concerto con lui divenga creditore di una somma considerabile, la qual somma è stata registrata ne’ suoi libri e per conseguenza ricevuta senza contraddizione nel suo bilancio. Questo credito ipotetico fa che nel momento, nel quale si dichiara il fallimento, il fallito sollo il nome di questa persona che si finge suo creditore vede rientrare nella sua borsa una porzione di quella somma che dovrebb’essere intieramente data in isconto a' suoi veri creditori.

Se per esempio questo credito finto è di centomila scudi, e se il fallito accorda il terzo a tutti i suoi creditori, il fallito è sicuro di riavere trentatremila scudi di sua porzione. Quale sprone a fallire? Per chiudere quest’ultima strada ai negozianti di mala fede, la legge dovrebbe prescrivere che qualunque persona sarebbe convinta di aver prestato il suo nome ad un negoziante prima di fallire per contestare un debito che non esiste, sarebbe considerato come complice del fallimento e per conseguenza condannalo all’istessa pena; dovrebbe nel tempo istesso ordinare ai giudici di informarsi minutamente della condizione dei creditori, per assicurarsi dei veri e di quelli che potrebbero non esser che ideali e finti.

Questi sono gli argini che una buona legislazione potrebbe opporre al torrente dei fallimenti, torrente che di continuo inonda l’Europa e che lascia spesso per dove passa alcune lagune perlifere che distruggono il commercio e l’industria, questo fuoco sacro che i sacerdoti della patria e del bene pubblico dovrebbero tener sempre acceso, come quello che forma la felicità e la vita delle nazionj.


vai su

CAPO XXVI

Degli urti che si potrebbero dare al commercio dopo essersene tolti gli ostacoli

Questi sono gli ostacoli che si oppongono al commercio; ma che diremo noi degli urti che si dovrebbero dare? Siccome la maggior parte di questi debbono esser piuttosto l’opera dall'amministrazione che delle leggi, io non fard altro che accennarli per non distogliermi molto dal mio unico oggetto.

Se il commercio interno è la porta del commercio esterno, le prime cure del governo debbono esser rivolte nell’interno dello Stato. La costruzione delle strade e dei canali di comunicazione facilitando il trasporto dei prodotti delle varie provincie di uno Stato, accelerando il traffico interno e facilitando la comunicazione, sono il più grande urto che si possa dare al commercio ed all’industria. Avvicinate gli uomini, e voi li renderete industriosi ed attivi: separateli, e voi li renderete tanti selvaggi incapaci di aver l’idea istessa della loro perfettibilità.

La mia patria sta aspettando con impazienza i frutti di questo benefizio, che essa deve al suo re ed al ministre che lo consiglia con tanto zelo. La costruzione delle strade delle due Calabrie e della Sicilia, di queste Indie dell’Italia che è l’India dell’Europa, versando le ricchezze delle più ridenti provincie ne' due mari che Je bagnano e i tesori dei due mari nelle più belle provincie, farà la ricchezza di tutto il regno e la gloria del governo. Faccia Iddio che un’intrapresa cosi utile non venga frastornata dagl'interessi e dalle mire private, e che il bene pubblico trionfi una volta sopra l’intrigo e la frode.

L’altro urto che l’amministrazione dovrebbe dare al commercio, è il buon regolamento della moneta. Quanto questo interessantissimo oggetto è stato trascurato dai governi, altrettanto ha richiamato le meditazioni degli scrittori economici del secolo.

Il cicco pedantismo di venerare gli errori stessi dell’antichità ha fatto alle volte credere ai governi, che il valore delle monete poteva essere arbitrario e dipendere soltanto dalla pubblica autorità. Questa massima erronea, adottata da Aristotile (216) e dai Romani giureconsulti istruiti nella scuola degli Stoici (217), ha cagionata tante volte la rovina del commercio di molte nazioni di Europa. S’essa fu indifferente per gli antichi popoli, essa è stata pur troppo funesta ai moderni. I nostri legislatori non han badato alla diversità dei tempi, ed alla differenza infinita delle circostanze derivata dalla diversità degl'interessi. Essi non si sono avveduti che un valore puramente legale dato da Licurgo alle sue monete di ferro era opportuno agl’interessi di Sparta, l’istituzione della quale era di abborrire il commercio. Essi non si sono avveduti che la romana zecca, dando ad alcune monete di rame e di ferro fasciate di sottil foglia d’oro o d’argento il valore de' due preziosi metalli, dei quali non avevano che la sola superficie (218); che Livio Druso nel suo tribunato, mescolando nella moneta d’argento un'ottava parte di rame, e che Antonio nel suo triumvirato mescolandovene altrettanta di ferro (219), non ebbero altro oggetto che di facilitare il commercio interno, che era il solo che i Romani conoscevano in quel tempo. La rovina che questo sistema avrebbe potuto cagionare al commercio esterno non era valutata in Roma, perché Roma non voleva in quei tempi commerciare cogli stranieri. Essa non conosceva che i suoi cittadini, i suoi confederali, i suoi sudditi. Il suo unico oggetto, il suo unico interesse era di estendere i limiti del suo impero, e di arricchire la patria e i figli della patria coi soli mezzi violenti della guerra. Ma non sono questi i nostri interessi. La moderna politica non può sicuramente considerare con l’istessa indifferenza il commercio esterno. Se questo è oggi il principale sostegno della prosperità delle nazioni, e se la moneta n’è il mezzo; se essa non solo è l’istrumento delle permute che si fanno tra i membri della stessa societā, che era il solo uso al quale era destinata in quei tempi in Roma ed in Sparta, ma è l’istrumento delle permute che si fanno tra le diverse nazioni che non tutte dipendono dalla medesima autorità; supposto questo, chi non vede che il valore delle monete non può più oggi essere arbitrario, e che questo deve dipendere non solo dall’autorità che le conia, ma dai valore intrinseco dei metalli, dei quali sono composte? Bisogna dunque fare ciò che infelicemente non si è fatto sempre, bisogna abbandonare intieramente le idee degl’antichi riguardo alla monetazione e seguir quelle dei moderni. Gli scritti luminosi che d’alcuni anni a questa parte sono comparsi su questa teoria, l’impossibilità di svilupparla con quella brevità colla quale ho promesso di trattare tutti questi oggetti che risguardano più l’amministrazione che la legislazione, mi obbligano a tacermi ed a dirigere il lettore alle mani maestre che l’hanno maneggiata. lo non debbo uscire dall’Italia per trovarle. Il conte Carli, il celebre marchese Beccaria e l’abate Galiani, questo genio sublime, al quale come buon cittadino debbo tutta la gratitudine per l’onore che coi suoi talenti e co’ suoi scritti ha recato alla mia patria; questi tre grandi uomini, oltre alcuni altri Italiani illustri, hanno con tanta esattezza, con tanta profondità e con tanto metodo maneggiata questa materia, che sarebbe da desiderarsi che pel vantaggio universale del commercio tutti i governi attignessero da questi fondi le istruzioni necessarie pel buon regolamento delle monete (220). Fidato dunque sul merito delle loro opere, io rivolgo lo sguardo alle trappe di mare. Questo è il gran soccorso che il governo deve prestare al commercio esterno.

Il mare, quella strada per la quale il negoziante fa passare le sue mercanzie, l’artiere le opere delle sue mani, l'agricoltore i prodotti dei suo terreno; il mare, quel territorio comune sui quale tutte le nazioni hanno eguali diritti, ma cui la preponderanza delle forze di alcuni popoli cerca di rendere il loro privato patrimonio; il mare finalmente, quel campo di battaglia ove le nazioni a mano armata si disputano i beneficii dei commercio e della navigazione, vuol esser difeso, e ciaschedun paese che ha la fortuna di esser bagnato dalle sue acque deve o rinunziare al suo commercio, o tenere su questo elemento alcune forze capaci a mantenere la polizia e la libertà generale, sola ed unica legge che una nazione deve dare al di fuori. Che si perdoni ad uno scrittore amico della pace d’indurre oggi le nazioni ad armarsi di vascelli. Non alla guerra, non alla discordia, ma al riposo della terra sono diretti i suoi voti. Egli vorrebbe vedere stabilito sull’impero dei mare quell’equilibrio che conserva oggi la sicurezza dei continente.

Se la Francia non avesse trascurato quest’oggetto; se l’avarizia di un ministero, le profusioni di un altro, l’indolenza di molti; se le false mire, i piccoli interessi, gli intrighi della corte, una catena di vizi e di errori, una quantità prodigiosa di cause oscure e dispregevoli non avessero impedito alla sua marina di prendere per il passato alcuna consistenza; se invece di profondere tante ricchezze e tanti uomini per dividere con due altre grandi potenze la vergogna di non poter opprimere un elettore di Brandeburg, il governo francese avesse diretti tutti i suoi sforzi dalla parte dei mare; se lo splendore momentaneo, che acquistò la sua marina sotto il governo di Luigi XIV, si fosse alimentato e sostenuto col sacrificio di tutto o di una porzione almeno dei suo mercenario esercito; se tutto quello che si doveva fare dalla Francia si fosse fatto, il suo commercio, come si è detto altrove, avrebbe fatti i più gran progressi sotto gli auspicii dei suo padiglione reso più rispettabile, e non sarebbe stato esposto ai col pi fatali che la Gran Bretagna gli ha tante volte portati mediante i favori delle sue forze di mare. Della maniera istessa, se le altre nazioni bagnate dai Mediterraneo avessero conosciuta l'importanza di una forza di mare, il padiglione insultante dei pirati barbareschi non molesterebbe il loro commercio, né esporrebbe a tanti pericoli l'industria dei loro cittadini (221).

Ma si può forse sperare questo accrescimento di forze di mare senza la diminuzione di quelle di terra? La miseria dei popoli, lo stato presente delle finanze non dà ai governi altro partito che di scegliere o le une o le altre. Se il giogo che gli opprime è molto superiore alle loro forze, come aggravarne il peso? Finché dunque il sistema militare presente non sarà riformato, è inutile il progettare un accrescimento di forze marittime. La spesa, che richiede il mantenimento di una truppa di mercenari sempre permanente, non è compatibile col mantenimento di una flotta atta a garantire le spiagge di una nazione, ed a far rispettare il suo nome dappertutto dove vi è mare. Io ho troppo dimostrata l'inutilità e gl’inconvenienti della perpetuità delle truppe di terra: ma chi può descrivere i vantaggi di quelle di mare?

Non volendo considerare la cosa che dal solo aspetto della forza, questo solo basterebbe per far cadere la scella sulle seconde. Popoli, sopra questo elemento solo le vostre forze possono esser trasportate lontano da voi senza rischiare di distruggersi. Se le vostre truppe di terra vogliono fare un’invasione ne’ paesi stranieri, tutto le trattiene. Le montagne, i fiumi, la difficoltà delle strade, il difetto dei viveri e delle munizioni, l'intemperie del clima, tutto sconcerta i vostri progetti e moltiplica gl’inconvenienti. Sul mare al contrario l’abitazione, l'artiglieria, i viveri, tutto cammina colle vostre truppe sopra un suolo unito. Più: i marinari sono naturalmente i migliori soldati del mondo. Avvezzi a disprezzare di continuo i pericoli della morte, induriti per loro mestiere alla fatica e all’ingiuria delle stagioni, essi temono meno l'aspetto dell’inimico e non soccombono cosi facilmente alle fatiche ed agli incomodi della guerra La pace, non dispensandoli dal navigare, non ammollisce questi eroi nell’ozio delle guarnigioni. La loro sussistenza non è di peso al pubblico, perché è compensata dai beneficii del commercio che garantiscono e promuovono. Finalmente essendo potenti sul mare voi sarete rispettati dappertutto, ma essendolo sulla terra voi non imporrete ordinariamente che ai vostri vicini.

Le strade dunque, i canali di comunicazione, il buon regolamento delle monde, una forza sufficiente sul maro sono gli urti che ciaschedun governo dovrebbe dare al commercio. Egli non ha bisogno di altri soccorsi. Si appartiene all’interesse privato il compir l'opera. Questa è una forza sempre viva che lo spinge di continuo, sempreché le cause esterne non le impediscono di agire. Fra queste, come si è dimostrato, il sistema presente dei dazi è la più forte Osserviamo dunque più davvicino questo colosso mostruoso che opprime nel tempo istesso col suo peso l'agricoltura, le arti e il commercio, e vediamo se senza impiccolirlo si potrebbe rendere più proporzionato e meno pesante ai popoli, sulla testa dei quali è appoggiato. Questo è uno dei più interessanti oggetti di questo libro.

CAPO XXVII

De' Dazi in generale

Dovunque vi è società, vi debb’essere un corpo che la governi nell’interno e che la difenda al di fuori. Questa doppia cura esige delle spese, che debbono esser pagate dalla società che ne profitta. I membri dunque, che la compongono, debbono sacrificare una porzione della loro proprietà per la conservazione dell’altra. È vero che vi sono state alcune nazioni e alcuni tempi, nei quali il governo ripeteva altronde la sua sussistenza. Una porzione del territorio della nazione era assegnata alle spese comuni del corpo politico. Ma questo sistema non poteva reggere.

Il governo non potendo invigilare sopra i suoi fondi doveva affidarli tra le mani degli amministratori, i quali o li trascuravano o se ne appropriavano le rendite. L’agricoltura e la popolazione dovevano essere ugualmente molestate da questa riunione di molti fondi nelle istesse mani. I sacri diritti della proprietà istessa dovevano risentirsene. Siccome le confìscazioni sarebbero allora state l’unico strumento per ingrandir l'erario del fisco, cosi questa pena che punisce l’innocente insieme col reo, che punisce in tutta la sua posterità i delitti di un sul uomo, questa pena contraria alla natura ed alla giustizia sarebbe divenuta più frequente che non lo era sotto il governo di Tiberio e dei tiranni di Roma. Finalmente il male irreparabile era nell’estensione di questo territorio. O il dominio del re era troppo grande in tempo di pace o era insufficiente durante la guerra, nell’uno e nell’altro caso la libertà della repubblica era oppressa. Nel primo lo era dal capo della nazione, nel secondo dagli stranieri. Questi disordini obbligarono i governi a ricorrere alle contribuzioni dei cittadini (222). Ed ecco l’origine semplicissima e il diritto dei dazi. Vediamo ora la regola della ripartizione.

L'agricoltore che conduce un aratro, e il feudatario che vegeta tra le mura del suo palazzo hanno un interesse comune nel buon ordine e nella sicurezza dello Stato; ma questo interesse non è uguale. Siccome il beneficio che raccoglie il primo dalla società è molto minore di quello che ne raccoglie il secondo, il prezzo col quale egli compra questo beneficio debb'essere anche minore. Le facoltà dunque di ciaschedun cittadino debbono decidere della parte che egli dee avere nella contribuzione pubblica, e questa debb’esser la regola unica della ripartizione. Ma quale ne sarà la misura?

Non ci vuol molto a trovarla. La misura dello contribuzioni sono i bisogni dello Stato. Or quali sono questi bisogni? Popoli, non vi spaventate. Vol siete stati una volta avvezzi a confonderli colla favorita di un re, coll’ambizione di un conquistatore, colle speculazioni voraci di un ministro, colla prodigalità di un principe, coll'avidità dei cortigiani, col fasto e con tutti i vizi che qualche volta sogliono circondare i troni. Ma questi non erano i bisogni dello Stato, nel mentre che Tito, Trajano e Marco Aurelio regnavano in Roma. Se la perpetuità delle truppe, sc questo sistema erroneo di tener tante braccia innalzale sulla testa dei popoli sotto il pretesto di difenderli si abolisse oggi nell’Europa, questa salutare riforma, unita alla moderazione presente dei principi che la governano, renderebbe molto ristretta la somma dei bisogni dello Stato. Questi non possono giammai sorpassare le forze dei popolo che deve soddisfarli; essi non possono giammai condurlo alla miseria. Se per acquistare o per conservare la sua felicità un popolo è obbligato a contribuire, quando il mezzo che deve impiegarvi lo rende infelice, allora manca il motivo della contribuzione, allora il bisogno dello Stato è chimerico, allora non vi è più diritto di esigere, non vi è più ragion di pagare. I veri bisogni di uno Stato sono dunque quelli che si possono soddisfare senza aggravare il popolo, senza impoverirlo.

Ma non basta che le contribuzioni siano proporzionate ai bisogni dello Stato, per ottenere ch’esse non siano di peso ai popoli che debbono pagarle. La nazione può essere oppressa nel tempo istesso che le contribuzioni sono moderate. L’indigenza dei corpo politico e la miseria dello Stato possono andar unité, ed esser entrambe l’efïelto delle contribuzioni mal collocate. Tutto dipende dalla posizione dei dazi. I dazi sono come i pesi. Un uomo regge al peso di cento libbre sul dorso, e soccombe a quello di una sola libbra sul naso. Dallo sviluppo di questo solo principio dipende tutta la cognizione dell’intrigata teoria delle finanze. Esaminiamo dunque la natura dei dazi. Per non perdermi in questo caos io li distribuisco in due classi: in dazi diretti ed in dazi indiretti.Quasi tutta l’Europa è oppressa dagli ultimi; i primi non si ritrovano che nei libri degli scrittori economici. Faccia Iddio che i sudori di questi cittadini benefici siano un giorno premiali colla sola moneta della quale essi sono avidi, col bene pubblico, che sarebbe il risultato dell’applicazione delle loro massime. Il progresso delle cognizioni utili è inseparabile da quello della prosperità delle nazioni. Ogni nuovo urto che si comunica al moto di questo corpo è dunque un benefizio che si reca all’umanità. Sacerdote di questa deità, io mi fo un dovere di unire i miei sforzi a quelli di tanti grandi uomini che hanno prima di me maneggiata questa materia. Io parlerò prima dei dazi indiretti: mostrandone l’irregolarità é l’incoerenza, mi troverò più in istato di rassodare il gran sistema dei dazio diretto.


vai su

CAPO XXVIII

De' Dazi indiretti

Questi dazi sono o reali o personali. Essi possono cadere sulle persone o sulle cose. Gli uni e gli al tri sono ugualmente contrari ai principii, coi quali il legislatore dec dirigere la scelta delle imposizioni.

Cominciando dai dazi personali, io non vedo altro nella capitazione che un suggello di servitù impresso sulla fronte degli uomini per tassare la loro testa, tassa necessariamente arbitraria, che non può essere determinata né da quello che il cittadino può dare allo Stato né da quello che può dargli in tutti i tempi. La ragione n’è evidente. O questa tassa è uguale in tutti i cittadini, o è relativa alla loro condizione ed alle loro facoltà. Nel primo caso la ripartizione è ingiusta, perché il povero paga allo Stato quanto gli paga il ricco. Una porzione dei cittadini è oppressa dalla contribuzione, nel mentre che l’altra defrauda lo Stato di quel che gli deve.

Nel secondo caso, la ripartizione debb’essere necessariamente arbitraria. Se dee regolarsi da quello che ciaschedun cittadino può dare allo Stato, come indagarlo? Si fiderà forse sulle rivele che ne fa? Ma per poter prestar fede alle sue assertive bisognerebbe che vi fosse tra il monarca e il suddito una coscienza morale, che stringesse l’uno all’altro col soccorso di un reciproco amore del ben generale. Or Platone istesso non ebbe il coraggio di supporre questa confidenza e questa buona fede tra i cittadini e il governo della sua metafisica repubblica. Ricordiamoci di ciò che avvenne in Roma sotto il regno di Galerio. Molli sudditi dell’impero furono messi alla tortura per istrappare dalla loro bocca lo stato delle loro facoltà (223). Che se il governo non potendosi fidare sulle assertive del cittadino dasse ai suoi incumbenzati la cura d’indagare lo Stato delle sue fortune, se si dasse a questi il diritto di penetrare sino nel santuario delle famiglie, nella casa del cittadino, per sorprendere e palesare ciò ch’egli non vuole o non può rivelare, non sarebbe questo un attentato contro la tranquillità pubblica, una violenza irritante, un seminario di frodi e di oppressioni sempre aperto per gli inquisitori del fisco? 11 ricco aprendo la sua borsa sarebbe sicuro di nascondere le due terze parti delle sue rendite, ed il povero artiere, l'infelice agricoltore sarebbero gli oppressi. La libertà civile del cittadino verrebbe ad esser violata in tutta la sua estensione. Tutte le idee morali del popolo sarebbero in pericolo, perché continui esempi della forza pubblica esercitata con violenza sopra gl’innocenti le distruggerebbero. La diffidenza regnerebbe nella nazione, e il cittadino si vedrebbe condannato a nascondere con altrettanto mistero lo stato delle sue facoltà che le infedeltà della sua compagna.

Ma supponiamo ciò ch’io credo impossibile, che il governo potesse esser esattamente istruito delle facoltà di ciaschedun cittadino, e della parte che la situazione presente dei suoi affari gli permette di prendere nella contribuzione, a che gli gioverebbe questa cognizione? Le facoltà della maggior parte dei cittadini non debbono forse variare in ogni anno coi prodotti incerti e precarii dell’industria? Non si diminuiscono esse colla moltiplicazione dei figli, colla perdita delle forze derivata dalle malattie, dall'età, dal travaglio, e con tutte le vicende che il tempo arreca a tutto ciò che dipende dalla natura e dalla sorte? (224) Il censo dunque dovrebbe per lo meno essere in ogni anno riveduto e riformato; e quest’operazione non ne assorbirebbe forse la più gran parte del prodotto? Queste poche riflessioni io credo che basteranno a persuaderci, che la tassa personale è di tutte le imposizioni la più arbitraria, la più irritante e la meno profittevole per lo Stato, e che una giusta e proporzionata ripartizione è una chimera allorché si tratta di capitazione. Noi non troveremo minori inconvenienti nei dazi reali.

Questi sono imposti sulla consumazione e circolazione interna, sull’estrazione e sull’immissione; essi abbracciano i generi di prima necessità e quelli di lusso, le mercanzie nazionali e le straniere, i prodotti del suolo e quelli dell’industria. qual macchina complicala, nella quale le ruote che la compongono sono infinite, la loro forza incerta, il loro moto irregolare, e per conseguenza facile a consumarsi ed a strascinare colla sua la rovina dell’agricoltura, dell’industria e della popolazione! Osservandoli nel generale noi troveremo che tutti questi dazi sono indeterminabili; dico indeterminabili, perché non possono mai essere proporzionati al valore della mercanzia sulla quale cadono. Non si può negare che il prezzo di qualunque merce varia di continuo. L’ubertà o la sterilità di una stagione fa scemare o crescere il prezzo dei prodotti del terreno, e facilitando o incarendo la sussistenza dell’artefice fa anche scemare o crescere il prezzo delle manifatture. O bisognerebbe dunque fare in ogni anno nuove tariffe di dazi, ciò che sarebbe impossibile ad eseguirsi, o bisogna rischiar di urtare in una sproporzione infinita tra il dazio che si esige e il valor delta mercanzia sulla quale è imposto. In un anno il dazio assorbirà la ventesima parte del prezzo della merce, in un altro anno una decima, in un altro una sesta, ecc. Qual irregolarità, qual incostanza, quale rischio!

Osservandoli quindi nel particolare, per persuadersi dei disordini dipendenti da ciascheduno di questi dazi, basta gettar gli occhi sui diversi oggetti su de' quali essi possono esser imposti. Se si impongono sulla consumazione interna dei generi di prima necessità, essi debbono necessariamente esser perniciosi, mal ripartiti ed insopportabili ad una porzione di cittadini. Debbono esser perniciosi, perché rendendo più cara la sussistenza, senza giovare all’agricoltura, la quale non guadagna niente in quest’aumento del prezzo dei suoi prodotti, diminuiscono la popolazione, la quale (come si è dimostrato) si equilibra sempre colla maggiore o minor facilita che hanno i cittadini di provvedere alla loro sussistenza. Debbono esser mal ripartiti, perché la consumazione di questi generi di prima necessità essendo comune cosi al povero come al ricco, avverrà spessissimo che il misero artiere che ha dieci figli pagherà più allo Stato di quello che gli paga un ricco cittadino che non ne ha che un solo. Debbono finalmente essere insopportabili ad una porzione di cittadini, perché non essendo l’indigenza istessa esclusa da questa contribuzione, il cittadino che non sarebbe in istato di aver parte alcuna nelle contribuzioni, dovendola pagare come gli altri, deve toglierla dalla propria sussistenza. Se questa ricerca tre pani per giorno deve contentarsi di non mangiarne che due soli, per immolare il terzo al dazio che no lo priva. Or non questa un’ingiustizia manifesta?

Prima che vi fosse un codice di leggi nel mondo, l’uomo aveva il diritto di sussistere. L’ha figli forse perduto collo stabilimento delle leggi? Obbligare il popolo a pagare più di quel che deve, più di quel che può i frutti della terra, è l’istesso che rapirglieli. Questo è lo stesso che condannarlo all’indigenza, all’ozio, alla disperazione, ai delitti. Questo è lo stesso che privare le arti di tanti artieri, la popolazione di tante famiglie, l’agricoltura di tanti consumatori, la società finalmente di tanti cittadini utili per riempirla di ladri, di mendicanti e di oziosi.

Questo avviene allorché la tassa si impone sulla consumazione dei generi necessari alla vita. Che se si fa cadere sulla loro estrazione, il male diventa anche più grande. Io credo di aver bastantemente dimostrata questa verità allorché si è parlato della libertà del commercio dei prodotti del suolo. Tutto quello che indebolisce questa libertà, tutto quello che ne diminuisce lo smaltimento, nuoce, come si è provato, all'agricoltura. Niuno dubita che i dazi messi sulla loro estrazione producono questo effetto. Essi dunque nuocono all'agricoltura, e per conseguenza alla popolazione, al commercio, all’industria; in una parola, essi fanno la rovina dello Stato. Dai dazi imposti tanto sulla consumazione quanto sull’estrazione dei generi necessari alla vita passando a quelli che s’impongono sulle merci meno necessarie, noi troveremo nuovi disordini e nuove ragioni per distruggere il sistema dei dazi indiretti.

Questi dazi possono essere imposti o sull’estrazione e circolazione interna delle mercanzie nazionali di questo genere, o sull’immissione delle straniere. Il colpo fatale che si reca all’industria coi primi è troppo evidente. Per quel che riguarda l’estrazione, nessuno ignora che il venditore e non il compratore è quello che paga il dazio. Obbligato a misurare le sue richieste col prezzo corrente delle altre nazioni, egli non può alterarle a segno che lo straniero sia quello che paghi il dazio. Ancorché il dazio sia imposto sopra una mercanzia della quale la nazione sia l’unica posseditrice, in maniera che priva della concorrenza delle altre essa possa darle quel prezzo che vuole, non per questo il dazio lascia di esser pernicioso; poiché il venditore, volendo obbligare lo straniero a pagarlo aumentandone il prezzo, vedrebbe diminuirsi le richieste e restringersene la consumazione, e lo Stato vedrebbe allora esaurita in parte una sorgente di ricchezze della quale era l’unico proprietario. La Spagna ce ne offre una prova. La barille è una produzione unica di questa nazione. In nessun altro paese ha potuto allignare. Il governo fidato su questa esclusiva ne ha caricata l’estrazione di un dazio che quasi eguaglia la meta del prezzo; lo straniero la compra a caro prezzo, e paga senza dubbio questo dazio: ma che ne è avvenuto? Da una parte la consumazione se n’è ristretta all’infinito, e dall'altra l’agricoltore, il quale non profitta niente da quest’aumento di prezzo derivato dal diritto del quale se n’è caricata l’estrazione, scoraggito al contrario dalla difficoltà dello smaltimento ne ha quasi abbandonata la coltura. Ecco la maniera di privare una nazione di un dono che la natura le ha fatto.

Non minore è il danno che si reca, allorché questi dazi s’impongono sulla circolazione interna di queste mercanzie. qual cosa più ingiusta, più molesta per l’industria e pel commercio, che ogni membro dello Stato sia estraneo alle altre parti dell’istesso corpo; che la stoffa, la tela fabbricata in una città debba pagar la gabella per passare in un altro luogo dell’istesso dominio; che il viaggiatore e il negoziante debbano esser fermati, esser visitati e tassali in ogni passo che fanno; che l’avarizia pallida ed inquieta, posta per cosi dire in sentinella sulle strade e sui fiumi, metta in contribuzione il commercio e il viaggiatore per quei paesi che non sono preziosi se non quando sono liberi? Tante braccia strappate all’agricoltura ed alle arti, tanti tribunali innalzati contro l’industria, tante dichiarazioni, tante visite, tante misure, tanti prezzi arbitrari, tante vessazioni, tanti oltraggi non sono forse tanti sostegni di servitù, tanti decreti di miseria? Il commercio interno, senza del quale non vi è né agricoltura, né arti, né commercio esterno, deve necessariamente languire sotto il peso di queste imposizioni. L’evidenza di questa verità mi dispensa d’illustrarla. Io mi affretto di urtare contro il pregiudizio quasi universale circa futilità dei dazi imposti sull’immissione delle mercanzie straniere.

Miseri ed inetti politici, questa è l’ancora sacra, alla quale voi ricorrete tutte le volte che si tratta di protezione di arti e di manifatture. Voi credete che questo sia l’unico mezzo per innalzare l'industria nazionale sulle rovine dell’industria straniera, per impedire che il danaro esca dallo Stato, e per restringere la consumazione di tutto quello che non nasce né si manifattura nel paese incarendone il prezzo. Ma non vedete voi tutta l’illusione dei vostri principii? Non sapete forse che allorché si vende meno a voi si comprerà meno da voi? che il commercio non dà che in proporzione di quello che si riceve? che questo non è altro che una permuta di valore per valore? e finalmente che una nazione, la quale si mettesse in istato di non comprar cosa alcuna dalle altre e nel tempo istesso di vender loro tutto, vedrebbe dopo qualche tempo perire il suo commercio, le sue arti, le sue manifatture per la soverchia moltiplicazione del numerario, la quale incarendo all’infinito il prezzo cosi dei generi come delle opere non potrebbe sostenere la concorrenza delle altre nazioni, né potrebbe impedire a' suoi cittadini stessi di preferire la consumazione dei generi e delle mercanzie straniere, le quali sarebbero loro vendute a minor prezzo che le nazionali, e ritornare finalmente alla povertà per aver voluto troppo arricchirsi?

Questi effetti della soverchia moltiplicazione del numerario si sono sperimentati nel Portogallo e nella Spagna, e si sarebbero sperimentati anche in Inghilterra,se le sue guerre non fossero state tanti salassi opportuni alla pletoria della quale era minacciata (225). Noi svilupperemo di qui a poco con maggior chiarezza questa verità.

Finalmente per non trascurare cosa alcuna in quest’analisi dei dazi indiretti io voglio parlare di un dazio, il quale, quantunque nell’apparenza sembri il più giusto ed il più proporzionato, è il più vizioso ed il più pernicioso alla sorgente comune delle ricchezze e all’agricoltura. Questo è la decima sui prodotti del terreno. Si è detto che i dazi, i quali non sono sempre suscettibili di una giusta ripartizione, sono sempre perniciosi ed ingiusti. Or questo è il difetto della decima, della quale si parla. Siccome questa non si fa cadere sul prodotto netto, ma sul prodotto totale del suolo, ne avverrà necessariamente che il proprietario di un fondo sterile, il quale per raccorre cento ha dovuto spender cinquanta per la coltura, pagherà egualmente che il proprietario di un fondo fertile il quale per raccorre l’istesso frutto non ha dovuto spendervi che venti (226). Or qual ripartizione più ingiusta di questa? qual mezzo più efficace per distruggere l’agricoltura? Regola generale: il tributo, che segue immediatamente l’accrescimento dell’industria o della coltura, è sempre distruttivo dell’agricoltura e dell’industria.

CAPO XXIX

Proseguimento dello stesso soggetto

Scorrendo sopra tutti gli oggetti, sui quali possono cadere i dazi indiretti, noi abbiamo dappertutto trovati uguali inconvenienti ed uguali disordini. Ma non contento di questo io voglio sviluppare un’altra ragione, la quale considerandoli tutti sotto un aspetto comune non ce ne farà meno conoscere l’irregolarità e la loro opposizione coi principii, coi quali debbono regolarsi le imposizioni.

Vi è un termine, che non si può oltrepassare nelle contribuzioni senza cagionare la rovina delle proprietà e dello Stato. La cognizione di questo termine dipende dalla distinzione del prodotto netto dal prodotto totale delle rendite nazionali. Il prodotto netto è l’avanzo della rendita, detrattene tutte le spese della coltura. Le contribuzioni dei cittadini non debbono cadere che sopra una porzione di questo prodotto netto. Subito che si oltrepassa questa porzione, le contribuzioni divengono perniciose, e non si sostengono che a spese della riproduzione. Il proprietario di un fondo, che esige il terzo della rendita per la coltura, v’impiegherà allora il quarto; questa diminuzione di spese per la coltura produrrà una diminuzione di rendita, e questa aumentandosi per gradi e rendendosi comune a tutti i proprietari produrrà finalmente la miseria di tutta la nazione.

Persuasi dunque che le contribuzioni debbono cadere sui prodotto netto e non sui prodotto totale delle rendite nazionali,quale sarà ne’ dazi indiretti il mezzo di conoscere se questi oltrepassano questo termine o se ne sono molto lontani? Che venga il più bravo finanziere del mondo, non potrà mai gloriarsi d’averlo ritrovato. Subito che il dazio non si fa cadere sui terreni, ma sui prodotti, sulla consumazione, sulle arti, sui commercio, il governo sarà nell’incertezza se la somma di queste contribuzioni sia superiore alla facoltà dei popoli che le pagano. Egli se ne avvedrà, quando la rovina dello Stato gli paleserà l’esorbitanza delle contribuzioni e forse l’impossibilità di ripararla. Qualche volta egli temerà che lo Stato sia oppresso, e forse lo Stato pagherà molto meno di quel che potrebbe. Or questa sola incertezza questo vizio inerente ai dazi indiretti, non basterebbe forse per indurre i governi ad abborrirli ed a sostituire a questi il gran sistema del dazio diretto?

La moltiplicità dei dazii inseparabile dal sistema de' dazi indiretti è anche un flagello pel popolo e pel sovrano. Il primo paga in cento volte quello che pagando in una volta sola gli risparmierebbe tutte quelle vessazioni, che distruggono la sua libertà e cagionano la sua miseria; e il secondo vede per lo meno un quarto, e qualche volta anche una terza parte delle contribuzioni dei suoi sudditi immolata a coloro che son destinati ad esigerle.

I dazi sono come i salassi. Se noi pungessimo in cento parti il nostro corpo, noi ci metteremmo al martirio, e non si estrarrebbe quella quantità di sangue che si fa uscire da una sola insensibile incisione di una vena. Frustra fit per plura, quod aeque commode fieri potest per pauciora. Qual è dunque questa vena, quale sarebbe questa incisione unica, la quale senza martirizzar il corpo della nazione farebbe la ricchezza del governo e la felicità dei cittadini? Cerchiamola.


vai su

CAPO XXX

Del Dazio diretto

Il dazio diretto non è altro che una tassa che s’impone sulle terre. Vere sorgenti perenni delle ricchezze e delle rendite nazionali, dovrebbero le terre sole soffrire tutto il peso delle contribuzioni. I proprietari sarebbero i soli a pagarle in apparenza, ma tutte le classi dello Stato sarebbero in realtà a parte di questa contribuzione, ciascheduno proporzionalmente alle sue facoltà. Quelli che non posseggono vi avrebbero parte consumandone i prodotti, e quelli che posseggono pagando la lassa. Quelli che posseggono più pagherebbero più, e quelli che posseggono meno pagherebbero meno. Tra quelli che non posseggono vi sarebbe anche l’istessa proporzione. Siccome tutti i fondi sarebbero tassati proporzionatamente al loro prodotto netto, e siccome i prodotti del terreno non sono soltanto i generi necessari alla vita ma anche quelli che ne riguardano i comodi ed il lusso, il più ricco consumando una maggior quantità di questi prodotti in generale pagherebbe più allo Stato, ed il povero consumandone meno pagherebbe mono.

Ogni dazio, di qualunque natura egli sia, ha, è vero, una forza espansiva: ogni tributo naturalmente tende a livellarsi uniformemente su tutti gl’individui di uno Stato a proporzione delle consumazioni di ciascheduno (227). Ma questa forza espansiva non in tutti i dazi è uguale; il moto ch’essa comunica non in tutti è ugualmente celere. Quando il dazio cade sopra la classe del minuto popolo, questo si sforzerà di risarcirsene incarendo il prezzo delle sue opere; ma egli non vi giungerà mai, o vi giungerà molto tardi. L'inesorabile bisogno non gli permetterà di alterare il prezzo delle sue opere proporzionatamente al tributo che deve pagare, o almeno egli deve andare salendo per piccolissimi gradi; altrimenti i ricchi non impiegherebbero le sue braccia come prima, cd egli perderebbe allora nella quantità delle opere molto più di quello che guadagnerebbe nell’incarimento del prezzo. Cadendo dunque il dazio sui minuto popolo, egli deve o per sempre o per molto tempo pagarne una porzione incarendo il prezzo delle sue opere, ed un’altra porzione ristringendo la sua sussistenza. Non avviene però l’istesso allorché il dazio cade direttamente sulla classe dei proprietari dei terreni. Questi per risarcirsene regoleranno colla tassa il prezzo dei prodotti del loro suolo. Il bisogno di provvedersi di questi prodotti, essendo sempre più forte del bisogno di venderli, obbligherà i non proprietari ad addossarsi la loro tangente della contribuzione, e questa suddivisione del tributo si farà sollecitamente e senza ostacolo, perché in questo caso il più potente è quello che richiede ragione dai più debole.

Queste verità sono cosi evidenti, ch’io crederei di offendere coloro che leggeranno questo libro se cercassi di svilupparle. La mia gran premura è di dimostrare tutti i vantaggi che produrrebbe in una nazione io stabilimento di questo unico dazio; io mi riserbo di dimostrare all'ultimo, come tutte le obbiezioni che si dovrebbero lare contro questo sistema sono insufficienti e chimeriche. Riguardo ai vantaggi, il primo tra questi è l’unità della contribuzione.

Qual benefizio più grande per la nazione, che liberarla dalle vessazioni di tutti quei nemici interni che la moltiplicità de' dazi rende necessarii alla loro esazione? qual vantaggio più grande pel sovrano, che il vedersi dispensato dall’obbligo di dover dividere le sue rendite con questi esattori? qual consolazione maggiore pel popolo, che la sicurezza che tutto quello ch’egli paga va in beneficio del sovrano e dello Stato, senza perdersi Ira le mani degli uomini che ha più in odio, e la probità de' quali gli è più sospetta? Pochi percettori basterebbero per esigere tutte le contribuzioni dello Stato (228), laute braccia non sarebbero tolte all'agricoltura ed alle arti, ed il fisco potrebbe essere egualmente ricco con un terzo meno di rendite.

Chi crederebbe, che sotto il regno di Luigi XIV in Francia le contribuzioni erano giunte lino a 750 milioni di lire, nel mentre che non n’entravano nell'erario che 250 milioni? (229)

A misura che si diminuisce in uno Stato il numero de' contribuenti diretti, si diminuisce il numero di coloro che possono esser vessati; si rendono più difficili le frodi cosi dalla parte de' contribuenti come dalla parte degli esattori; si facilita l'esazione e si diminuisce il numero degli oziosi che vi sono impiegati. Or nella nostra ipotesi il numero de' contribuenti diretti si ristringerebbero a' soli proprietarii de' terreni.

Il secondo vantaggio forse più considerabile del primo sarebbe la soppressione di tutti questi ostacoli che il sistema presente de' dazi oppone, come si è dimostralo, all'agricoltura, al commercio, alle arti e ad ogni specie d’industrie. Quanti beneficii si contengono in questo solo! La libertà del cittadino e del negoziante, quello del commercio e dell’industria, dell'agricoltore e dell’artiere; tanti infelici di meno nelle carceri, in questi alberghi della frode e de' delitti, divenuti oggi ricettacolo dell’industrie pel rigore e le stranezze delle leggi fiscali; or questi non sarebbero altro che una porzione sola de' felici risultati del dazio diretto.

Il terzo vantaggio sarebbe la facilità di ben ripartirlo. Ci vuol poco a conoscere il valore de' fondi di uno Stato, ci vuol poco a sapere ciò ch'essi rendono al proprietario e ciò che gli potrebbero rendere. Siccome questa tassa sui fondi dovrebbe esser permanente e fisse, il governo non dovendo che una sola volta tare la perquisizione delle rendite e del valore di tutti i fondi dello Stato, la probità, la precisione e l'esattezza potrebbero accompagnare questa interessantissima operazione. Conosciuto il valore e le rendite di tutti questi fondi, una regola comune ed universale dirigendone le tasse, l'imposizione non sarebbe suscettibile di arbitrio o di frode. Ciaschedun proprietario sarebbe tassato proporzionatamente alle sue rendite, e se qualche torto gli fosse stato fatto, avrebbe sempre il dritto di reclamare contro i direttori delle tasse e non dovrebbe stentar molto per giustificare le sue querele.

La facilità di fissare la tassa sui prodotto netto sarebbe l’altro vantaggio che si otterrebbe dallo stabilimento dei dazio diretto. Noi abbiam veduto quanto interessi nelle imposizioni de' dazi la cognizione dei prodotto netto delle rendite nazionali; noi abbiam veduto come in quelle nazioni; ove i dazi indiretti sono in vigore, non si può profittare di questa cognizione; che l’incertezza accompagna sempre il governo, il quale non può che dall'effetto conoscere se la nazione è oppressa dalle contribuzioni, e per conseguenza non può esserne istruito se non quando la nazione è già vicina alla sua rovina. Ma adottandosi il sistema dei dazio diretto, il governo non sarebbe esposto a questo pericolo. Niente di più facile che di tassare un fondo, senza che la tassa si renda insopportabile al proprietario che deve pagarla. Subito che un fondo è dato in affitto ad un colono, il prezzo dell’affitto è tutto prodotto netto. Tutte le spese della coltura e della sua sussistenza il colono le ha già sottratte dai prodotto totale. Quello che va tra le mani dei proprietario è tutto prodotto netto.

Se un fondo non è dato in affitto, da' prezzi degli affitti de' fondi vicini o dai raccolto di un’annata comune si può subito calcolarne il prodotto netto. Conosciuto questo prodotto, se il governo ha fissato di gravarlo di una settima, di una sesta, di un’ottava o di una quinta, egli è sicuro che quest'imposizione non opprimerà il proprietario, né sarà distruttiva dell'agricoltura, perche non assorbirà che una porzione sola dei prodotto netto dei fondo. Una sola cosa deve nella ricerca dei valore de' fondi richiamare la massima diligenza dei governo. Se per difetto di coltura un fondo rende molto meno di quel che potrebbe al proprietario, la sua trascuraggine non deve ridondare in suo beneficio. La tassa di questo fondo deve essere proporzionata a quella de' suoi fondi vicini, e questo rigore farebbe la prosperità dell'agricoltura. L’unico sollievo che si dovrebbe accordare al proprietario di questo fondo sarebbe di dispensarlo dalla tassa nel primo anno. Per questa ragione appunto lo stabilimento dei dazio diretto dovrebbe essere preparato dalla soppressione di tutti gli ostacoli che impediscono i progressi dell'agricoltura nello Stato. Bisognerebbe prima di ogni altro procurare che le terre acquistassero quel valore, che le nostre leggi e gli errori comuni dell'amministrazione europea han loro fatto perdere. La soppressione di questi ostacoli precedendo la tassa, e lo stabilimento di questa producendo la soppressione degli altri ostacoli che nascono dai sistema presente delle contribuzioni, farebbe che dapprincipio la tassa non comparisse onerosa, e quindi la renderebbe in ogni anno più leggiera a misura che i progressi dell'agricoltura e dell’opulenza pubblica farebbero crescere il valore de' fondi. Se la tassa si regolasse sui quinto dei prodotto netto, il proprietario che dapprincipio pagherebbe un quinto delle sue rendite dopo un qualche tempo non verrebbe a pagare che il sesto, e quindi il settimo, giacché la rendita dei suo fondo crescerebbe ma la tassa resterebbe sempre l'istessa.

Finalmente l’ultimo vantaggio che nascerebbe nell'introduzione di quest’unico dazio, sarebbe lo stretto legame col quale si verrebbero ad unire gl'interessi del sovrano con quelli dei popolo. Nel disordine delle imposizioni indirette quest'interessi sono in contraddizione tra loro. Il sovrano, che ignora ciò che la nazione può dargli, cerca di moltiplicare di continuo le sue rendile senza imbarazzarsi della degradazione delle ricchezze; ed il popolo, che crede sempre di essere oppresso dalle contribuzioni, cerca dai canto suo di reagire contro questa forza col dare il meno che può al sovrano col soccorso della frode.

Da quest’opposizione d’interessi nasce quello stato di guerra tra il popolo ed il principe, contro dei quale si è tante volte declamato. Ma al contrario quando il sovrano dividesse moderatamente tra sé e i proprietarii il prodotto netto de' fondi, non potrebbe non interessarsi nella prosperità dell’agricoltura, sorgente comune cosi delle sue come delle ricchezze dello Stato; ed il popolo dai canto suo, vedendo che la porzione dei prodotto netto ch'egli dà al sovrano forma la sua felicità e la sua sicurezza, pagherebbe volontieri un tributo dai quale niuna frode, niun artificio potrebbe dispensarlo. Questo nuovo sistema dunque d’imposizione sarebbe il legame più forte per unire il sovrano al popolo, e per ristringere tutti i rapporti che passano tra il capo della nazione e la nazione istessa.

Questi sono i vantaggi che sono uniti al sistema dei dazio diretto. Vediamo ora le obbiezioni che vi si potrebbero fare. La prima e la più forte è quella che riguarda l’aumento dei prezzo de' prodotti dei terreno.

Adottandosi il metodo di ridurre tutte le contribuzioni ad una tassa unica sui fondi, e questa tassa dovendo essere bastantemente forte per poter compensare la soppressione di tutti gli altri dazi, i proprietarii delle terre per risarcirsene dovrebbero considerabilmente aumentare i prezzi de' loro prodotti. In questo caso la nazione trovando maggior vantaggio a consumare le derrate straniere, i patrii prodotti o non si troverebbero a vendere o dovrebbero esser venduti all’istesso prezzo degli esteri. Nel primo e nel secondo caso l’agricoltura dovrebbe risentirsi o de' non valori de' suoi prodotti, o della perdita che vi sarebbe nel coltivarli. La rovina dell’agricoltura produrrebbe la rovina della nazione, e l’una e l’altra sarebbero la conseguenza dei nuovo metodo che si è proposto.

Tutta la forza di quest’obbiezione è fondala sopra un’ipotesi che al primo aspetto sembra incontrastabile, ma che osservandosi davvicino si trova assolutamente falsa. Il credere che sopprimendosi tutti gli altri dazi e caricandosi tutto il valore di questi sulle terre, il prezzo delle produzioni dei terreno dovrebbe crescere in proporzione dei valor della tassa, è appunto l’ipotesi falsa che fa tutta la forza dcl raziocinio.

Sc senza sopprimere gli altri dazi si volesse imporre una tassa sulle terre, non si può dubitare che in questo caso i proprietarii per risarcirsene dovrebbero far crescere il prezzo delle produzioni di queste terre. Ma non è questo il caso nostro. Qui si tratta di gravar le terre dopo essersi tutti gli altri dazi aboliti. Or in questo caso quale potrebb’essere il motivo, che potrebbe indurre i proprietarii ad aumentare il valore de' prodotti dcl terreno? Questo trasferimento di dazi non verrebbe forse a giovare prima di ogni altro ad essi? Tutti i dazi, che si pagano in una nazione agricola, non sono forse pagati dalla classe de' proprietarii? I dazi imposti sulla consumazione de' generi necessarii alla vita non vanno forse a carico de' padroni de' fondi che li producono? Quegli imposti sulla circolazione interna o sull'estrazione di questi generi non seguono forse l'istessa sorte? Quegl'imposti o sulla lesta dei minuto popolo o sulle arti che servono a vestire, adornare, alloggiare il contadino che non possiede altro che le sue braccia, e il mercenario che vende la sua persona, non vanno forse a carico del proprietario che impiega le braccia del primo e che computa i servizi del secondo? Quegli imposti sui generi di lusso non sono forse pagali dal proprietario, che o li compra per sé o li fa comprare a coloro che lo servono? Se tutt'i dazi dunque in una nazione agricola vanno a cadere indirettamente sulla classe de' proprietarii delle terre, riducendosi questi ad una tassa unica sui fondi la sorte del proprietario verrebbe a migliorarsi, e si migliorerebbe in ragione de' vantaggi che il dazio diretto ha sopra gl’indiretti. Il prezzo dunque delle produzioni del terreno dovrebbe anzi diminuire che crescere, adottandosi il nuovo metodo.

L’altra obbiezione che si può fare è che questo metodo verrebbe a distruggere tutte l’esenzioni di alcuni corpi, tutti i privilegi. Felice effetto, desiderabile risultato! È forse giusto che una porzione de' cittadini di uno Stato profitti come l’altra de' beneficii della società senza pagarli? Non sarebbe forse desiderabile che un’infrazione cosi scandalosa delle leggi fondamentali di ogni società fosse corretta? Tutti questi privilegi, tutte queste esenzioni non sono forse nulle ed abusive pel dritto inalienabile ed indistruttibile che hanno tutti i membri del corpo politico di esigere da ciascheduno, e ciascheduno da tutti la contribuzione reciproca delle forze ch’essi si sono obbligati a somministrare per le spese e la sicurezza comune? Non è forse un abuso dell’autorità il dispensare da questa imprescrittibile obbligazione una porzione degl’individui della società, per fame cadere tutto il peso sull'altra? In Sparta né i due re né i magistrati, in Venezia né i nobili né il doge, in Roma né i magistrati né i capi della repubblica durante la libertà, né quando questa decadde gl'imperatori stessi erano esclusi dalle pubbliche contribuzioni; e noi, che ci vantiamo di esser giusti ed imparziali, saremo poi cosi prodighi de' dritti e de’ doveri sociali? Non consideriamo dunque come un disordine, ma consideriamo come uno de' risultati più felici del dazio diretto la soppressione di tutte queste esenzioni, di tutti questi privilegi, i quali considerandoli davvicino si troveranno non essere che apparenti per una gran parte di coloro che ne sono in possesso.

L’ultima obbiezione che si potrebbe fare è, che forse non vi è oggi popolo nell’Europa, al quale la sua situazione permetta di tentare questo gran cambiamento. Dappertutto, si dirà, le imposizioni sono cosi eccessive, le spese cosi moltiplicate, i bisogni cosi urgenti; dappertutto il fisco è cosi disordinato, che una. rivoluzione subitanea nell’esazione delle rendite pubbliche altererebbe sicuramente la confidenza e la felicità de' cittadini.

Per rispondere a quest'obbiezione io dimando prima di ogni altro; tutte queste imposizioni cosi eccessive, che la moltiplicazione delle spese, l’urgenza de' bisogni, il disordine del fisco, i debiti nazionali esigono nella maggior parte delle nazioni europee, sono o no superiori alle facoltà de' popoli che le pagano? eccedono o no il prodotto netto delle rendite nazionali? Se sono superiori alle facoltà de' popoli, se eccedono la porzione disponibile delle rendite della nazione, in questo caso o bisogna diminuirle o bisogna aspettare a momenti la rovina intiera della nazione. Per diminuirle combinando gl’interessi del fisco con quelli del popolo, per ottenere che il taglio che si dà alle rendite del governo sia il minore possibile e che il sollievo del popolo sia il massimo possibile, bisogna (come si è provato) ricorrere al sistema del dazio diretto. Se poi la quantità delle contribuzioni non eccede le forze dcl popolo né la parte disponibile delle sue rendite; e se, in vigore delle premesse, in una nazione qualunque dazio che si paga va sempre o direttamente o indirettamente a carico de' proprietarii delle terre, in questo caso riducendosi tutte queste contribuzioni ad una tassa unica sui fondi, il fisco non perderebbe e la nazione otterrebbe tutti quei vantaggi che dipenderebbero dal nuovo metodo.

Riguardo poi a' disordini che potrebbero nascere da un cambiamento istantaneo in questa specie di cose, io rispondo che questo cambiamento non solo non dovrebbe essere istantaneo, ma dovrebbe essere con molta diligenza preparato e sempre per gradi eseguito. Con un tratto solo di autorità non si possono riparare simili mali. Gli antichi sistemi delle finanze sono vecchie fabbriche ingrandite a piccoli pezzi in diversi tempi, e da diversi architetti più avidi che istruiti; sono crollanti edificii, che per ripararli vi è bisogno di tutta la diligenza dell’artefice e di tutte le precauzioni dell’arte. Se ogni operazione non vien preparala, se non viene per gradi eseguita, si corre rischio di vederli crollare tutto ad un tratto e di rimaner sepolti sotto le loro rovine.

CAPO XXXI

Metodo da tenersi per riuscire in questa riforma del sistema de’ dazi

Si è detto che questa riforma dovrebbe esser preparata e per gradi eseguita. Per prepararla il legislatore dovrebbe cominciare dal sopprimere tutti quegli ostacoli che si oppongono a' progressi dell'agricoltura, che non dipendono dal sistema presente de' dazi (230). Quindi istruirsi esattamene dcl valore relativo de' terreni di tutte le provincie dello Stato. Le tenebre del mistero non dovrebbero circondare quest’operazione, le violenze non dovrebbero esserne i mezzi. In ogni provincia dovrebbe spedirsi un visitatore illuminato e probo, degno della pubblica confidenza e animalo da quei sentimenti che sogliono esser cosi poco comuni, ma che producono effetti cosi grandi in quei pochi uomini che ne sono penetrati. Dovrebbe contemporaneamente il legislatore procurare che la nazione s’istruisse ne’ suoi veri interessi. Per riuscire in quest'intrapresa egli dovrebbe diriger la penna de' filosofi. Magistrali nati della loro patria, sono essi che debbono illuminarla sempre che possono; il loro dritto è il loro talento. Co’ loro scritti essi dovrebbero dimostrare le conseguenze funeste che derivano dall'antico sistema de' dazi, la necessità di una riforma, i vantaggi di un’imposizione unica sulle terre, l'interesse che i proprietarii dovrebbero prendere in questa novità, della quale essi sarebbero i primi a sperimentarne i vantaggi.

Prese queste precauzioni, diffusi questi lumi per tutta la nazione, il legislatore dovrebbe venire all’esecuzione dell’opera. Questa, come si è detto, dovrebbe farsi per gradi. Si dovrebbe cominciare dal sopprimere un dazio che fosse il più oneroso, il più molesto pel contadino, il più difficile ad esigersi, calcolare la rendita netta e di questa stabilirne l’equivalente con una tassa sulle terre, avendo sempre innanzi agli occhi il loro relativo valore. Dato questo primo passo si dovrebbe coll’istesso metodo dare il secondo, e quindi gli altri sempre gradatamente. Le operazioni non dovrebbero mai essere contemporanee, ma l’una dovrebbe cominciare quando l’altra fosse già intieramente perfezionata.

Per assicurarsi della confidenza del popolo, il governo non dovrebbe mai guadagnare in queste permute. Quello che si acquista non dovrebbe mai eccedere quello che si perde, ed il pubblico dovrebbe essere istruito dell’esattezza di questo calcolo.

Finalmente terminata l’operazione, seguita tutta la riduzione de' dazi in un solo tributo, riparali tutti quei privati inconvenienti che in una riforma universale si possono correggere ma non prevenire, un editto pubblicato con tutta quella solennità ch’è necessaria per imporre alla moltitudine dovrebbe assicurare la nazione della stabilità della lassa. La nazione ed il principe dovrebbero dare a questo stabilimento una cauzione sacra. L’erede del trono dovrebbe ratificarlo. I rappresentanti del popolo dovrebbero giurare di non reclamare giammai contro la tassa stabilila, ed il principe di non alterarla. Questa dovrebbe divenire una legge fondamentale dello Stato, un contratto Ira il principe e il popolo, un’obbligazione che ogni nuovo principe dovrebbe accettare, nel momento in cui verrebbe a salire per la prima volta sul trono de' suoi padri.


vai su

CAPO XXXII

Dell'esazione delle tasse

Dopo aver esposto un sistema diverso di finanze, io ardisco di proporre un sistema diverso d'esazione. Finora l’esazione delle rendite del fisco non si è fatta che o dagli incombenzati del governo o dagli affittatori di queste rendite. Oltre degl’inconvenienti comuni all’uno ed all’altro metodo, ciascheduno di essi ha i suoi che gli son proprii. Le somme immense, che il governo deve sacrificare all’esazione de' dazi, sono gl'inconvenienti comuni all’uno cd all’altro modo. Sia che le rendite del fisco si esigano da' suoi incumbenzati, sia che si esigano dagli affittatori del fisco, una terza parte almeno di queste rendite è nell’uno e nell’altro caso immolata all’esazione. Questo sacrifizio, oltre che costa caro allo Stato, non può nel tempo istesso non inasprire la nazione e non alterare quella confidenza che vi dovrebbe essere tra il popolo ed il governo; confidenza forse disprezzabile in un paese dove presiede un tiranno, ma necessaria dappertutto dove v'è principe e dove il governo è moderato.

Questi sono gl'inconvenienti comuni. Esaminiamo ora i particolari. Le frodi continue, i peculati, che le più rigorose pene non potrebbero evitare quando la sicurezza di nasconderli produce la sicurezza dell’impunità; l’incertezza delle rendite; lo sbilancio dell'erario, effetto necessario di questa incertezza, sono i disordini che nascono dall’esazione che si fa dagli incumbenzati del governo.

Quando le rendite del fisco sono date in affitto e l’esazione si fa in nome ed a conto degli affittatori, i disordini invece di diminuire si moltiplicano e divengono anche più perniciosi. Non son io il primo ad attaccare questo metodo assurdo di esazione, che dà in mano a' privati cittadini il dritto di perseguitare in nome della legge i loro concittadini. Tutti gli scrittori patriotici, tutti gl’ingegni che si sono consacrati al ben pubblico hanno declamato contro quest'abuso distruttivo della tranquillità pubblica e del buon ordine dello Stato. Ed infatti, subito che il sovrano dà ad uno o a più cittadini l'affitto delle sue rendite, viene nel tempo istesso a conferir loro la facoltà di vessare, offendere, perseguitare, oltraggiare chiunque essi vogliono coll’armi stesse della legge.

Basta leggere gli annali dell’oppressione per persuaderai di tutta l'iniquità di questo sistema, l’origine del quale è antica quanto la tirannia istessa. Noi sappiamo dall'istoria che Roma, la quale non amò mai la libertà fuori delle sue mura e cui non pote quindi neppur tra queste conservare, aveva condannate a questo metodo funesto d’esazione le provincie conquistate; ma noi sappiamo anche dove giunse l’avidità de' pubblicani (231) e la miseria di quelle provincie; noi sappiamo da Svetonio che un finanziere delle Gallie sotto l'impero d’Augusto vedendo che i tributi si pagavano in ogni mese ebbe l’ardire di dividere l'anno in 14 mesi; noi sappiamo da Dione che le querele de' popoli dell'Asia furono cosi efficaci, che obbligarono Cesare ad abolire in questa provincia i pubblicani e ad introdurre un nuovo metodo di esazione; noi sappiamo da Tacito che la Macedonia e l'Acaja, provincie che Augusto aveva lasciate al popolo romano, credettero di aver tutto ottenuto quando furono liberate da questa specie di esazione; e noi sappiamo finalmente dall’istesso istorico, che i clamori delle provincie furono cosi forti sotto l'impero di Nerone contro la perfidia e le estorsioni di questi finanzieri, che obbligarono l'imperatore ad emanare varie leggi dirette a mettere un freno all’avidità e all’autorità de' pubblicani (232). Questi furono i disordini, che produsse nelle provincie di Roma il metodo di dare in affitto Je rendite del fisco. Io mi astengo di descrivere quelli che produce oggi in Europa. Un male che si soffre da tutti è da tutti conosciuto, e poi è sempre meno pericoloso il piangere sulla miseria de' nostri padri che sulla nostra. Mi basta di dire, che è più il dritto di vessare e di perseguitare che quello di esigere che si valuta nell’affitto di queste rendite. Quasi tutta l'Europa è testimonio di questa verità.

Qualunque de' due metodi di esazione che si voglia dunque scegliere, si urterà sempre in gravi disordini contrari egualmente agli interessi del sovrano ed a quelli della nazione. Ma durante il sistema de' dazi indiretti non si può uscire da queste due strade. L’una e l’altra di esse è un male necessario. Un sistema nuovo di esazione non può andare unito che ad un sistema nuovo d’imposizioni. Il solo stabilimento del dazio diretto potrebbe dar adito a questa interessantissima riforma. Quando non vi fosse altro che un solo dazio nello Stato, e questo fosse la tassa sui fondi, il popolo istesso potrebbe esser l’esattore del fisco. Tutti i capi delle università dovrebbero esigere le tasse de' fondi compresi nel loro distretto, e far pervenire le loro rispettive esazioni al capo della provincia. Siccome tutto è fisso, permanente cd inalterabile in questa specie di tassa, non si potrebbe dubitare della minima frode o parzialità nell’esazione. Il fisco vedrebbe pervenire le sue rendite nel suo erario senza la minima spesa, ed il popolo vedendo che quegl’istessi ch’egli ha scelti per rappresentarlo e dirigerlo sarebbero incaricati dell'esazione delle tasse, sarebbe pieno di confidenza e sicuro di non esser tradito. L’industria garantita dalla sacra autorità della legge, non avrebbe che temere dalla parte degli uomini. L’arbitrio, la parzialità, la frode non potrebber aver parte in questa specie d’esazione. Le tariffe esatte e permanenti delle tasse di ciaschedun fondo annunzierebbero al proprietario ciò ch'egli dovrebbe pagare allo Stato. Il contribuente non dovrebbe dipendere che dalla legge e da se medesimo; il favore o l’odio degli esattori gli sarebbero ugualmente indifferenti. Egli potrebbe disporre di ciò ch’è suo come gli pare, coltivare a suo talento i suoi fondi, vendere a chiunque le sue derrate, trasportarle, estrarle, custodirle come vuole, senza sentir mai più proferire il nome solo del fisco. L’artefice, il mercante, il minuto popolo, l’ozioso consumatore pagherebbero la loro porzione senza avvedersene. Lo Stato non sarebbe ingombrato da esattori, da spie, da guardie. La libertà regnerebbe nelle città, nelle provincie, nelle strade, suite spiagge e ne’ porti; essa diffonderebbe nel tempo istesso i suoi benefici influssi sull’agricoltura, sulle arti e sui commercio; essa darebbe la massima attività all'industria, la massima tranquillità al popolo e la massima sicurezza al trono.

CAPO XXXIII

Degli straordinarii bisogni dello Stato e della maniera di provvedervi

Si è detto che la misura delle contribuzioni sono i bisogni dello Stato. Or questi bisogni non sono sempre gl’istessi. La guerra ha in tutti i luoghi ed in tutti i tempi richieste maggiori spese che la pace. I popoli antichi vi provvedevano coll’economia che essi facevano nel tempo di quiete. Essi serbavano somme considerabilissime per gli straordinarii bisogni della repubblica. L’istoria ci assicura che gli antichi re d’Egitto e i Tolomei successori d’Alessandro (233), i re di Macedonia (234), i re di Siria e quelli de' Medi (235) avevano de' tesori accumulati.

Sparta istessa, Sparta cosi frugale e cosi inimica dell’oro e dell'argento, aveva (per quel che ne dice Platone (236) il suo pubblico tesoro. Gli Ateniesi (237) e le antiche repubbliche de' Galli l’avevano ugualmente (238); e noi sappiamo finalmente che i Romani ebbero il loro pubblico tesoro, cosi durante la libertà, della repubblica come sotto il giogo de' Cesari (239). Questo metodo si è perpetuato presso le nazioni d’Europa quasi fino a due secoli indietro (240). Ma dacché si sono conosciuti i vantaggi della circolazione, dacché i governi si son persuasi che i loro tesori sepolti facevano la rovina del commercio e dell’industria, si è abbandonato con ragione questo metodo; ma bisogna confessarlo, essi hanno urtalo in un nuovo disordine non mono pernicioso dell'antico. Subito che gl'interessi del principe o quelli della nazione l’hanno obbligato a prender l’armi, non trovandosi il danaro per far la guerra e non volendo nel tempo stesso inasprire la nazione con tasse straordinarie, si è avuto ricorso alle prestanze. Il governo è andato in cerca di danaro, e per ottenerlo ha oppignorata una porzione delle sue rendite a' suoi creditori. Questo sistema erroneo ha nel tempo istesso rovinato il principe e la nazione. Io non enlro ad esaminare se il sovrano abbia o no il dritto di farlo, se la corona essendo ereditaria e l’amministrazione assoluta, se il principe non avendo il dritto di disporre della successione al trono, se una perpetua sostituzione togliendo all'usufruttuario della corona la proprietà de' fondi e proibendogli di disporne o nella totalità o nelle parti; non entro, io dico, ad esaminare se questo titolato passeggiero, che non può alterar l’ordine della sua successione, né dare a' membri avvenire dello Stato che governa un altro sovrano se non quello che è dalla legge chiamato dopo di lui al trono, possa egli eludere questa disposizione obbligando la nazione intiera pe’ suoi debiti e consumando anticipatamente le rendite de' suoi successori col caricare di debiti l’erario, la proprietà del quale è della corona e il solo uso di chi la porta. Io lascio a' politici l’esame di quest’interessantissima questione, che un secolo di discussione come questo non lascerà di risolvere; e mi piace di nascondere il mio giudizio su quest'oggetto, giacché io temo sempre allorché ardisco d’innalzarmi lino a' re che un Dio mi tiri per l'orecchie e mi dica: Titiro non ti occupare che degli armenti (241). Contentiamoci dunque di osservare la cosa dal solo aspetto de' mali che produce.

Subito che il principe prende una somma in prestito si priva di una porzione delle sue rendite per l’interesse che ne paga al creditore. Il suo erario dunque è il primo a risentirsene, ma sono i popoli quelli che dopo poco tempo sono condannati a rimpiazzare questo vuoto. Se il danaro si è preso per andare contro i nemici dello Stato o per soddisfare l’ambizione del sovrano, finita la guerra e per conseguenza finito il timore d’inasprire il popolo si pensa subito ad una nuova imposizione. Il ministro si cura poco che questa sia contraria a' vantaggi dell’agricoltura o del commercio: basta che il prodotto compensi l'interesse che si paga pel debito contralto. Fatto ch’è il calcolo, è fatto il tutto. La nuova imposizione si pubblica, il debito resta eterno ed eterna rimane l’imposizione; ed intanto il principe, che vede la facilita di aver delle somme a spese del popolo, si impegna in quelle intraprese che sono superiori alle facoltà ed alle forze della nazione che governa. Senza questa facilita Luigi XIV non avrebbe rovinata la Francia col suo spirito inquieto di conquista; l'Olanda non avrebbe intraprese quelle guerre, nelle quali non già la difesa della sua libertà o i vantaggi del suo commercio, ma la sua ambizione smisurata e i suoi sospetti mal fondati l’hanno impegnala; e l’Inghilterra finalmente non avrebbe compresse tutte le molte dello Stato, non avrebbe messi in alterazione tutti i muscoli del suo corpo politico, non avrebbe oppresso il suo commercio, i suoi terreni, le sue case, non avrebbe spaventato il lusse istesso con infiniti dazii, e non avrebbe distesa la sua avidità sulle bevande istesse più ordinarie del popolo per pagare l'interesse di un debito di 5,300,000,000 di lire, che aveva contratto fino all’ultima guerra colla Francia e colla Spagna: debito, che l’è costata la ribellione delle sue colonie, e che obbligherà un giorno la nazione a dichiararsi fallita in mezzo ad una rendita di 240 milioni di lire (242).

Ecco dove ha trasportati i governi la facilita di contrarre de’ debiti, e il metodo di ricorrere a questo strano rimedio per provvedere agli straordinarii bisogni dello Stato. Ma non finiscono qui i mali che producono i debiti della corona. I loro flagelli si distendono sull’agricoltura, sul commercio e sull’industria. Non ci vuol molto per assicurarsene. Siccome per lo più il debito si contrae dal governo co’ suoi stessi cittadini, siccome la maniera più sicura e più comoda d’impiegare il suo danaro è quella che si fa impiegandolo ne’ fondi pubblici, siccome questa specie di rendita non è soggetta né all’alterazione del tempo, né all’ingiuria delle stagioni, né all’avidità de' finanzieri, tutti questi vantaggi fanno che ciaschedun cittadino cerchi d’impiegare in queste rendite il suo danaro. Il proprietario si disfa volentieri del suo terreno o trascura di migliorarlo, il negoziante abbandona il suo commercio, l’uomo industrioso la sua industria, allorché si tratta d’impiegare il suo danaro nelle rendite del fisco. Or tutte queste somme, che impiegate nell’agricoltura, nel commercio e nell'industria sarebbero la ricchezza della nazione, sono intieramente perdute per lo Stato; esse gli sono anzi perniciose, come quelle che fomentano l’ozio, che abbandonano la coltura tra le mani le più povere e le più avvilite, che impediscono la diffusione delle ricchezze nazionali; come quelle finalmente, che popolano le capitali a spese delle campagne, e fanno che le ricchezze invece di circolare in tutta l'estensione dello Stato, invece di fecondare le campagne, invece di eccitare il povero contadino al travaglio, restano sepolte in questi asili della mollezza, della profusione e della voluttà.

Se il sistema dunque di ricorrere a' debiti è il più pernicioso per la nazione; se l’avere un tesoro ozioso, come l'avevano gli antichi, nuoce al commercio ed all’industria, togliendo una gran porzione del numerario dalla circolazione; se la politica non permette sempre d’inasprire il popolo con tasse straordinarie che finissero col bisogno (che sarebbe peraltro il rimedio più giusto e il meno pernicioso di tutti gli altri), se tutto quello che si è finora pensato da' governi è o pericoloso o pernicioso, bisogna dunque pensare ad un metodo tutto nuovo per provvedere agli straordinarii bisogni dello Stato. Io credo di averlo trovato.

Quale è la causa che rende oggi pernicioso il sistema degli antichi? Si è detto il dover tener tanto numerario segregato dalla circolazione. Se dunque si potesse avere un tesoro che non fosse ozioso, se si potessero avere delle somme considerabilissime sempre pronte senza toglierle dalla circolazione, noi potremmo conseguire tutti i vantaggi della politica degli antichi senza incorrere negl’istessi inconvenienti. Come dunque fare per combinare due oggetti cosi opposti tra loro? Niente di più facile. Quella somma che l’economia dell'amministrazione potrà in ogni anno risparmiare, invece di seppellirla in un tesoro, la si dia in mano di quei cittadini che la ricercano e che possono ipotecarla sopra un fondo stabile, che rimarrà inalienabile finché la somma non sarà stata restituita al creditore; che questo prestito si faccia col patto di restituire la somma al fisco in qualunque tempo ed in qualunque circostanza sarà per ripeterla; e finalmente che niuno interesse si esiga per la somma data in prestito.

Questo sacrifizio sarebbe necessario, perché moltiplicherebbe le richieste, e per conseguenza permetterebbe, al principe di scegliere sempre quelle nelle quali il suo credito sarebbe meglio cautelato. Egli potrebbe servirsi anche di questo mezzo per premiare i cittadini benemeriti dello Stato, giacché non è un piccolo benefizio che si reca dando una somma in prestito senza il minimo interesse. Ecco come si potrebbe avere un tesoro senza togliere neppure la minima parte del numerario dalla circolazione. Questo sarebbe, è vero, un tesoro metafisico, ma che diverrebbe reale subito che i bisogni dello Stato lo richiederebbero. Che sc il bisogno è cosi grande che le somme serbate dal governo non bastano per provvedervi, il solo espediente al quale in questo caso si deve ricorrere sono le tasse straordinarie. Quando il popolo vede che il governo ha tentate tutte le strade per non aggravarlo, quando vede che il positivo bisogno dello Stato ricerca il suo soccorso, egli non ardirà di reclamare contro una lassa la quale per onerosa che sia è sempre soffribile quando non è che per un dato tempo, quando non durerà più del bisogno (243).

Prendete una molta. Una pressione momentanea, per forte che sia, non fa che risvegliare la sua elasticità; ma se voi la tenete costantemente compressa, essa reagisce tanto sopra se medesima, che pervenuta finalmente nel punto nel quale termina la sua elasticità si spezza tutto ad un tratto e lacera la mano che la comprime. Questo è il popolo. Allorché egli è giunto a questo estremo egl'insegna una gran verità a coloro che hanno l’ambizione di ridurvelo: fa loro vedere, che dopo che i sudditi hanno per lungo tempo sofferto per i delirii de' re, i re soffrono per i loro stessi delirii; che viene un tempo nel quale la pretesa onnipotenza del despota svanisce, e costringe il mostro che crede d esserne in possesso a chinare il capo sotto la mano potente della necessità; che, in una parola, la tirannia si estingue colla reazione de' colpi ch’essa istessa ha lanciati dal suo vacillante trono.


vai su

CAPO XXXIV

Della distribuzione delle ricchezze nazionali

Dopo aver parlato delle ricchezze e delle strade che le conducono nello Stato, dopo aver distintamente esaminati gli ostacoli che ne impediscono l’ingresso e i mezzi per superarli, bisogna ora cercare la maniera che deve tenere il legislatore per ben ripartirle. Senza una buona ripartizione le ricchezze, invece di fare la felicità della nazione, ne accelerano la rovina. Non è questo un paradosso: questa è una verità, che l’interesse privalo vorrebbe che si tenesse nascosta agli uomini ed a coloro che li governano, ma che la filosofia ardita non terne di palesare e di dimostrarne l’evidenza.

La felicità pubblica non è altro che l’aggregato delle felicità private di tutti gl’individui che compongono la società. Allorché le ricchezze si ristringono tra poche mani, allorché pochi sono i ricchi e molti sono gl’indigenti, questa felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo; anzi, come ho detto, ne farà la rovina. Siccome in una macchina nella quale tutti i pezzi sono consunti, se voi ardite di ripararne alcuni rinnovandoli nel mentre che lasciate gli altri nello stato nel qual sono, il vigore e la robustezza di questi invece di dare una maggior durata alla macchina ne accelerano la distruzione, non potendo l’azione e la resistenza degli antichi pezzi esser proporzionata all'azione ed alla resistenza de' nuovi; della maniera istessa nella macchina sociale se tutti gl’individui che la compongono sono nello stato di languore per la miseria, a riserva di pochi che sono nello stato opposto, cioè nel massimo vigore per l’esorbitanza delle loro ricchezze, la facilità che avranno questi di urtare contro la moltitudine, colla sicurezza di non poter trovare una resistenza proporzionata alla loro azione, non potrà non renderli oppressori; ed il popolo calpestato da cento despoti soffrirà allora tutti i flagelli del dispotismo in mezzo a' disordini dell’anarchia. Le ricchezze in questo caso non accelereranno forse la distruzione di questa macchina che chiamasi società? Non sarebbe meglio che tutti fossero ugualmente poveri? Quali furono in Roma le conseguenze di questa funesta sproporzione? La repubblica di Atene sarebbe stata forse oppressa da trenta tiranni, se non vi fosse stato in quel tempo l’eccesso della povertà nel popolo e l’eccesso delle ricchezze in alcune famiglie della classe degli ottimati? L’impossibilità d’ideare una buona costituzione uni ta al sistema feudale non è forse l’effetto della difficoltà di combinare il sistema de' feudi colla meno ineguale possibile distribuzione delle ricchezze nazionali?

Se dunque le ricchezze sono non solo inutili ma perniciose a' popoli quando son mal ripartite, il legislatore non avrà fatto tutto richiamandole nello Stato, se non ha pensato alla maniera di ben ripartirle. Ma di quali mezzi deve servirsi per ottener questo fine? Quali sono le vie curve che glielo condurranno, senza che il volgo se ne avvegga? Quali sono gl’impedimenti che la presente legislazione vi oppone? Con queste interessantissime osservazioni noi conchiuderemo questo libro delle leggi politiche ed economiche; ma prima d’ogni altro vediamo cosa debba intendersi per distribuzione e ripartizione di ricchezze nazionali.

CAPO XXXV

Cosa debba intendersi per distribuzione di ricchezze nazionali

Un’esatta distribuzione di ricchezze nazionali, un’uguaglianza precisa nella facoltà de' cittadini non può aver luogo che nella fanciullezza di una repubblica nascente. Subito che un certo numero di famiglie si determina di fissarsi in una data regione e di formarvi una societā, il capo di questa o il corpo che lo rappresenta comincia dall’assegnare a ciascheduna di esse un’uguale porzione di terreno; ed allora tutte queste famiglie possono dirsi ugualmente ricche. Ma siccome diversi sono i gradi dell'industria degli uomini, diversa è la loro economia, diversi sono i loro bisogni; siccome la suddivisione de' fondi è relativa alla moltiplicità de' figli; siccome il dritto di testare (questo dritto creduto finora inseparabile dalla proprietà) deve coll’andar dei tempo per l’estinzione delle famiglie riunire nella stessa persona le ricchezze di più famiglie estinte; siccome finalmente una forza d’attrazione, che costantemente si osserva, fa che il danaro si acquisti col danaro e le ricchezze colle ricchezze; tutte queste cause rendono impossibile l’inalterabilità di questa distribuzione, e non sarà ancora scorsa la seconda generazione che l’uguaglianza stabilita nell’origine della nuova repubblica sarà intieramente svanita. Questa verità è stata fino all’evidenza dimostrata da Aristotile nel Libro II della sua Politica, dove esamina il sistema delle due repubbliche ideali di Platone e di Falaride Milesio, nelle quali si voleva stabilire l’uguaglianza precisa delle fortune e de' fondi. Le conseguenze della legge agraria de' Romani ce ne offrono anche una prova di fatto. Non è dunque possibile l’ottenere un’esatta e precisa uguaglianza di ricchezze nelle famiglie di uno Stato; ma non per questo è impossibile che le ricchezze vi siano ben ripartite. Io intendo per buona ripartizione e distribuzione di ricchezze un’equabile diffusione di danaro, la quale evitando la riunione di questo tra poche mani, cagioni un certo agio comune, istromento necessario per la felicità degli uomini. Quando ogni cittadino in uno Stato può con un lavoro discreto di sette o ott’ore per giorno comodamente supplire a' bisogni suoi e della sua famiglia, questo Stato sarà il più felice della terra: egli sarà il modello d’una società ben ordinata. In questo Stato le ricchezze saranno ben distribuite; in questo Stato finalmente non vi sarà l’uguaglianza delle facoltà ch’è una chimera, ma l’uguaglianza della felicità in tutte le classi, in tutti gli ordini, in tutte le famiglie che lo compongono, uguaglianza che debb’essere lo scopo della politica e delle leggi. Ho detto con un lavoro discreto di sette o ott’ore per giorno, poiché un’eccessiva fatica non è compatibile colla felicità. Lasciamo a' poeti ed a' filosofi entusiasti gli elogi di una vita intieramente laboriosa, e contentiamoci di piangere sulla disgrazia di coloro che sono condannati a menarla. La natura, che ha data a tutti gli esseri una forza proporzionata al mestiere che dovevano esercitare, non ha fatto f uomo per una vita cosi penosa; egli non può adattarvisi che a spese della propria esistenza. Non ci lasciamo trasportare dall’errore. Non è vero che gli uomini occupati dalle penose arti della societā, e che non hanno che poche ore della notte per sollievo delle loro fatiche, non è vero, io dico, che quest’infelici vivano tanto quanto l’uomo che gode del frutto de' loro sudori e che fa un uso moderato delle sue forze. Una fatica moderata fortifica, una fatica eccessiva opprime e consuma. Un agricoltore che prende la zappa prima che il sole esca fuori dall'orizzonte, e che non l’abbandona che all’avvicinarsi della notte, è un vecchio all’età di quaranta o di cinquant’anni. I suoi giorni si abbreviano, il suo corpo s’incurva: tutto palesa in lui la violenza fatta alla natura. Non è dunque possibile il trovar la felicità in un genere di vita. cosi laborioso; ma è anche impossibile il trovarla nell’ozio. La noia, compagna indivisibile di un ricco ozioso, lo seguita in tutti i luoghi, e non lo abbandona neppure ne’ piaceri istessi. Questa è come l’ombra del suo corpo che lo accompagna dappertutto. I piaceri quasi tutti esauriti per lui non gli offrono più che una tetra uniformità, che addormenta e stanca. Destinati a sollevare lo spirito dopo le fatiche del corpo e dopo i lavori dell’intelletto, essi lasciano d’esser piaceri subito che non sono preparati dall’occupazione. Privo di questo condimento necessario l’uomo può passare come vuole senza interruzione da un piacere ad un altro, egli non fare che passare da una noia ad un’altra noia. Invano egli si fa un dovere di goderli tutti, invano egli affetta un volto ridente e un linguaggio di contentezza; quest’è una felicità imprestata, quest’è una felicità di ostentazione, il cuore non vi prende quasi alcuna parte. Il lungo uso de' piaceri glieli ha resi inutili. Questi sono tante molte usate, che s’indeboliscono a misura che si comprimono con maggior frequenza. Che diverranno, allorché restano sempre compresse?

No: non è ne’ piaceri che il ricco ozioso può trovare qualche felicità. Egli non la gusterà che in que’ soli momenti ne’ quali soddisfa a' bisogni della vita. In questi momenti tutti gli uomini sono ugualmente felici; ma la natura non moltiplica in favore del ricco i bisogni della fame, dell’amore, del sonno ecc. Se egli mangia cibi più delicati dell’uomo che vive del frutto delle sue braccia, egli non per questo gode più di lui nel soddisfare questo bisogno. Se il suo letto è più morbido, il suo sonno non è per questo più profondo e meno esposto agl’incomodi della vigilia. Nel tempo dunque che gli uomini soddisfano a' loro bisogni, tutti sono ugualmente felici. La diversità dipende dalla maniera di occupare l’intervallo che passa tra un bisogno soddisfatto ed un bisogno rinascente. Ora il ricco ozioso, che occupa tutto questo tempo in divertirsi e nell'andare in cerca di piaceri, è ugualmente infelice dcl povero che deve impiegarlo in un lavoro eccessivo. L’uno soffre durante quest’intervallo tutto il peso della noia, e l’altro tutto il peso della sua miseria. L’uno va in cerca di nuovi bisogni e nuovi desiderii, e l’altro maledice la natura per avergli dati quelli che gli Costa tanto a soddisfare. Un’occupazione, una fatica dunque moderata, quando questa basti per soddisfare i propri bisogni e per riempiere l’intervallo che passa tra un bisogno soddisfatto ed un bisogno che si deve soddisfare, è la sola che può rendere l'uomo felice e che può farlo pervenire a quel grado di felicità che non è permesso a' mortali di oltrepassare.

Or come fare per ottenere che tutti i cittadini di uno Stato fossero nel caso di partecipare a questa felicità desiderabile, che in una società ben ordinata non dovrebbe essere interdetta che a' soli pazzi ed a' soli delinquenti? Io l'ho detto: per ottenere questo fine non è necessario che tutti i cittadini siano ugualmente ricchi, ma che le ricchezze siano equabilmente diffuse, cioè che queste non si ristringano tutte Ira poche mani lasciando il resto della società nell’indigenza. Cerchiamo dunque quali sarebbero i mezzi, quali le leggi che potrebbero facilitare questa necessaria diffusione e quali sono quelli che vi si oppongono.


vai su

CAPO XXXVI

De’ mezzi propri per ottenere l'equabile diffusione del danaro e delle ricchezze in uno Stato, e degli ostacoli che la presente legislazione vi oppone

Se si osserva lo stato presente delle società europee si troveranno quasi tutte divise in due classi di cittadini, l’una alla quale manca il necessario, l’altra che abbonda di un gran superfluo. La prima, che è la più numerosa, non può provvedere a' suoi bisogni che col soccorso di un travaglio eccessivo. Questo, come si è dimostrato, non può conoscere la felicità. L’altra classe vive nell’abbondanza, ma esposta, per l’ozio al quale si consacra, a tutte le angosce della noia, è qualche volta più infelice della prima. La maggior parte degl’imperi saranno dunque condannati a non esser popolati che d’infelici? Sarà forse questo un decreto irrevocabile della natura, o piuttosto una conseguenza della stranezza delle nostre leggi e degli errori della nostra politica? Sarà forse impossibile il diminuire le ricchezze degli uni ed accrescere quelle degli altri, senza urtare i sacri dritti della proprietà e senza offendere il decoro della giustizia? Questo non sembra difficile, quando si anderà in cerca delle cause produttive di questo disordine. Chi crederebbe che nel mentre che tutti si lagnano della sproporzione infinita che vi è tra le ricchezze de' cittadini, le nostre leggi cerchino di conservarla e di aumentarla? Non si può dubitare che tutto quello che tende a ristringere il numero de' proprietarii in uno Stato, tende nel tempo stesso a garantire ed a fomentare questa funesta sproporzione. Or questo è l'effetto delle sostituzioni e de' maggiorati.

Noi vediamo i più vasti dominii passare senza alcuno smembramento durante il corso di più secoli dalle mani de' padri a quelle de' figli, da primogenito in primogenito, come se le terre fossero indivisibili e come se la stabilità della loro posizione dovesse produrre quella del dominio. In una nazione, ove questi maggiorati e queste sostituzioni fossero proscritte, le ricchezze sarebbero senza dubbio molto più equabilmente diffuse. L’eredità del padre divisa presso a poco egualmente a tutti i figli farebbe di questi tanti piccoli proprietarii e tanti padri i famiglia, i quali tutti non avendo un eccessivo superfluo dovrebbero necessariamente occuparsi a far valere le loro terre, e non bastando queste al loro sostentamento essi sceglierebbero qualche occupazione che li garantirebbe da ozio e da' tormenti della noia. L’agricoltura, la popolazione e l'industria troverebbero il loro vantaggio in questa continua suddivisione de' fondi. Coloro, che resterebbero senz’altra proprietà che quella delle loro braccia, troverebbero anche il loro interesse in quest’aumentazione di proprietarii. Siccome il prezzo delle opere, non altrimenti che quello di tutti gli altri generi commerciabili, dipende dal numero degli esibitori e dal numero delle richieste, essendo molti coloro che richiederebbero le loro braccia perché molti i proprietarii, e pochi coloro che potrebbero loro offerirle perché pochi i non proprietarii, il prezzo delle loro opere dovrebbe necessariamente crescere; ciò che permetterebbe loro di godere di que agio, senza del quale, come si è osservato, non si può trovar felicità in questa terra.

Che non mi si opponga l'impossibilità d’abolire i maggiorati ne paesi, ove vi sono feudi. O una famiglia ha un solo feudo, ed allora è giusto che la baronia sia del primogenito, ma i fondi del feudo potrebbero esser divisi egualmente agli altri fratelli. O una famiglia ha più feudi, ed in questo caso perché non ripartir fra tutti i figli? Non hanno questi un dritto comune all’eredità del padre? Qual principio eterogeneo all’investitura di un feudo si può trovare nella persona di un cadetto? Un gran feudatario può più facilmente divenire un oppressore, che un feudatario di un solo feudo. Aumentandosi dunque il numero de feudatario, il principe avrebbe tanti difensori di più in tempo di guerra, ed il popolo avrebbe tanti oppressori di meno in tempo di pace. Ma mi si dirà che il sistema de e sostituzioni e de' maggiorati è adattato alla natura della costituzione monarchica. Essendovi de' gran proprietarii in uno Stato, il governo trova in essi gran soccorsi ne’ suoi bisogni. La corona acquista con questi nuovi gradi di sicurezza, poiché i gran proprietarii delle terre avendo molto da perdere hanno anche un grande interesse nel conservare il sistema dello Stato.

Qual pregiudizio più irritante di questo? Se è vero che la moltiplicità de proprietarii cagiona la felicità dello Stato, cosi nel governo monarchico come in tutte le altre costituzioni; se tutte le classi, tutti gli ordini della monarchia sarebbero ravvivati dalla diffusione delle ricchezze, che lo smembramento di queste gran masse produrrebbe; non sarebbe allora una porzione sola de' sudditi, non sarebbero allora questi pochi rami primogeniti quelli che veglierebbero alla conservazione dello Stato, ma tutto il corpo della nazione sarebbe allora impegnato a difendere la sua felicità, e per conseguenza a sostenere la corona sui capo di colui che gliela procura. qual sicurezza più grande di questa?

Se le sostituzioni e i maggiorati sono dunque contrari alla diffusione delle ricchezze, perché ristringono tra poche mani tutte le proprietà dello Stato, i fondi immensi posseduti dagli ecclesiastici vi si opporranno egualmente per 1 istessa ragione. Ne’ paesi della nostra santa comunione, dove il celibato è unito al sacerdozio, tutto il clericato si può considerare come una sola famiglia. Una terza parte, per cosi dire, de' fondi dello Stato posseduti da una sola famiglia, non ristringere forse all’infinito il numero de' proprietarii in una nazione? Noi 1 abbiamo altrove osservato.

L’altro impedimento finalmente alla diffusione delle ricchezze è la quantità immensa del numerario, che corre da tutte le parti dello Stato nella capitale per restarvi sepolto. Tutto lo splendore delle nazioni europee non si trova oggi che nelle capitali. Coloro che le abitano sono i soli cittadini dello Stato; il resto degli uomini non è che una truppa d’infelici condannati a passar tutta la loro vita ne’ lavori più penosi, colla sicurezza di non poter trasmettere a' loro figli altra eredità che l’abito al travaglio, alle oppressioni, alla miseria ed alle imprecazioni vane di una rabbia impotente.

Parlando dell’ostacolo che la grandezza immensa delle capitali oppone a' progressi dell’agricoltura, noi abbiamo fatto vedere colla maggior precisione quali siano le cause che trasportano in esse tutto il numerario de' popoli. Si osservò che alcune di queste cause erano necessarie, molte abusive. Si propose dunque un compenso per le prime ed una riforma per le seconde. Io non ho qui che aggiungere a quel che si è detto su quest'oggetto nel Cap. XIV di questo libro. Mi piace peraltro di essere spesso nell'obbligo, per non ripetermi, di dirigere colui che legge a quello che si è detto o a quello che si deve dire. Questo mi assicura dell'unità delle mie idee e dello stretto rapporte de' miei principii.

Esaminate le cause che impediscono nella maggior parte delle nazioni d’Europa l’equabile diffusione del danaro, vediamo ora come tolte queste di mezzo si potrebbe facilitare questa diffusione. Ogni piccolo urto basterebbe. Una legge per esempio, che nella compra de' fondi desse, cœteris paribus, la preferenza a' non proprietarii, e che nella concorrenza di due compratori entrambi proprietarii desse sempre la preferenza a colui che possiede una minor quantità di terreno, sarebbe utilissima per facilitare la diffusione delle ricchezze sempre relativa a quella delle proprietà. Ma che diremo noi del lusso? Può egli contribuire alla diffusione delle ricchezze? Esaminiamolo.

CAPO XXXVII

Del lusso

Il lusso, del quale si è detto tanto male e tante bene da' moralisti e da' politici; il lusso che si ammira e si vitupera, che viene dagli uni considerato come ornamento e come cosa utile, e vien dagli altri proscritto come un vizio; il lusso, al quale la declamazione ha attribuilo la decadenza di tanti imperi, e l’industria la conservazione e i progressi delle arti; il lusso, che secondo i volgari raziocinii de' bassi politici fa passare le ricchezze di un popolo agricola tra le mani di un popolo manifatturiere, ma che infatti sostiene l’uno e l’altro e conserva il commercio tra gli uomini; il lusso è senza dubbio uno de' grandi istrumenti della diffusione del danaro e delle ricchezze in uno Stato. Se coloro che hanno molto, non spendessero più di quello che hanno per alimentare il loro lusso, come si potrebbe mai sperare la sperperazione di queste grandi masse, come si potrebbe mai sperare un’equabile diffusione di danaro e di ricchezze in mezzo a queste lagune, ove di continuo anderebbe a ristagnarsi tutto il numerario de' popoli? Questa verità è stata da infiniti scrittori sviluppata, L’esperienza l’ha dimostrata e la dimostra tuttavia col fatto. Io quelle nazioni dove vi è lusso, malgrado l’esistenza degli ostacoli de' quali si è parlato, le ricchezze sono meglio diffuse che in quelle dove minori sono questi ostacoli, ma dove il lusso è proscritto.

Mi si dirà forse che se il lusso cagiona questo solo bene produce tanti altri mali, i quali debbono distorre il legislatore dal ricorrere a questo rimedio per ottenere l’equabile diffusione delle ricchezze che si desidera. Ma esaminiamo un poco quali sono questi mali. Vediamo se tutto quello che i moralisti attribuiscono al lusso si dovrebbe piuttosto attribuire a' costumi; vediamo se il lusso corrompa i costumi, oppure se i cattivi costumi corrompano il lusso; vediamo finalmente ciò che diverrebbe il lusso in una nazione, ove i costumi fossero nello stato nel quale dovrebbero essere. Prima di ogni altro determiniamo l'idea del lusso, e distinguiamo quale sia il lusso utile e quale il pernicioso.

Il lusso non è altro che l’uso che si fa delle ricchezze e dell’industria, per procurarsi un’esistenza piacevole col soccorso de' mezzi più ricercati che possono contribuire ad accrescere i comodi della vita ed i piaceri della società. Una nazione dunque, nella quale si osserva un gran lusso, deve senza dubbio contenere grandi ricchezze; se in questa il lusso è comune a tutte le classi de' cittadini, è segno che le ricchezze vi sono ben distribuite e che la maggior parte de' cittadini ha un certo superfluo da impiegare per la sua felicità; se non si ritrova che in una sola classe, è segno che le ricchezze vi sono mal ripartite, ma che se altre cause non cooperano a perpetuare questa funesta sproporzione essa non durerà lungo tempo, perche il lusso istesso non tarderà molto a distruggerla. Tanto dunque nell’uno quanto nell’altro caso il lusso è un bene. Nel primo caso, perché anima l’industria, inspira l’amore della fatica, conserva le ricchezze nello Stato, raddolcisce i costumi, crea nuovi piaceri, eccita un’attività salutare che allontana l’uomo dal l’inerzia, sparge dappertutto un calore vivificante, incoraggisce il commercio, e rende comuni a tutti gli uomini le produzioni e le ricchezze che la natura avara racchiude sotto le acque del mare, nelle voragini della terra o che tiene sparse in mille climi diversi. Nel secondo caso il lusso è anche un bene,. perche promuove la diffusione del danaro e delle ricchezze, le quali quanto sono desiderabili allorché sono ben ripartite, altrettanto, come si è dimostrato, sono funeste allorché sono ristrette tra poche mani. Il laborioso operaio e l'esperto( )artista, che non posseggono alcun terreno, possono allora sperare di divenire anch’essi proprietarii e ricchi. Il lusso apre la cassa del ricco possidente, e l’obbliga a pagare una tassa volontaria a colui che languirebbe nell'ozio e nella miseria senza questo sprone. Esso raffina, inventa, moltiplica le arti e i mestieri? ravviva gl’ingegni e incoraggisce nel tempo istesso l’agricoltura; giacché i proprietarii privati dal lusso del superfluo delle loro rendite, vengono dal loro interesse determinati a coltivare con maggior diligenza quelle produzioni che cambiano con altri piaceri. Questa reazione, della quale ogni società sperimenta effetti particolari, può nello stato presente delle cose contribuire anche alla libertà politica di una nazione.

Presso un popolo grossolano e rustico, che per lo spirito del secolo non può esser guerriero e che per difetto di lusso trascura le arti, altra occupazione non si conosce che la coltura della terra. Tutta la società sarà dunque divisa presso questo popolo in due classi, in quella de' proprietarii de terreni ed in quella de' loro vassalli o coloni. La dipendenza di questi ultimi, determinata dalla dura legge del bisogno, deve degenerare in una dipendenza di servitù riguardo a' proprietarii de' terreni. Se le violenze di questi si rendono loro insopportabili, altro rimedio non esiste pel popolo non possidente che di rivolgersi dalla parte del monarca, e di cercare nell'aumento della potestà reale un rimedio contro le violenze dell’aristocrazia. Ecco ciò che è avvenuto in quasi tutte le nazioni d'Europa. Il lusso avrebbe prevenuto questo sconcerto. Diffondendo insieme colle ricchezze le proprietà avrebbe fortificato il popolo, avrebbe indebolita l'aristocrazia, e non avrebbe alterata la forma del governo.

Il lusso considerato dunque sotto l'aspetto nel quale noi l’abbiamo definito è sempre un bene; ma può essere un mule, allorché generalizzandosene troppo l'idea, si crede doversi comprendere sotto questo nome ogni spesa destinata al puro fasto ed alla magnificenza. Il togliere per esempio una gran quantità d’uomini dalle campagne, un immensa quantità di cavalli dagli usi dell'agricoltura e dal commercio per ornare le sale e le statte de' ricchi; il perdere una quantità immensa di terreni per giardini e per cacce, è un lusso di fasto e di consumazione pernicioso allo Stato. Ala questo non e il lusso, del quale 10 ho data la definizione. Questo è il lusso delle nazioni barbare; questo era il lusso degli antichi baroni ne’ tempi feroci e poveri della feudalità, e de' principali prelati nel tempo della superstizione. Si sa che tanto gli uni quanto gli altri non ardivano di tare un passo fuori de' loro feudi o fuori delle loro chiese, senza esser seguiti da un numero prodigioso di servi e di cavalli. Un concilio tenuto i Laterano nel 1173 rimprovera a' vescovi questo fasto oneroso, che obbligava le chiese e i monasteri per dove passavano di vendere i vasi d’oro e d’argento per riceverli e trattarli nelle loro visite (244). Questo fasto era cresciuto a segno che i canoni furono, come si sa, nell'obbligo di limitare il seguito di ciaschedun prelato. Quello degli arcivescovi fu ridotto a cinquanta cavalli, quello de' vescovi a trenta, quello de' cardinali a venticinque. Io lo ripeto: questo è il lusso delle nazioni barbare, contro del quale la filosofia e la ragione non potranno mai bastantemente declamare, e dal quale il legislature dovrebbe distogliere gli uomini non co’ diretti rimedii delle suntuarie leggi, ma con altri mezzi che il rispetto dovuto a' sacri dritti della libertà e della proprietà gli permetterebbe d’impiegare.

Data la vera idea del lusso e distinto il lusso utile dal lusso pernicioso, vediamo ora se è vero che il lusso possa corrompere i costumi, come i moralisti lo pretendono, oppure se i cattivi costumi possano corrompere il lusso.

I costumi di un popolo consistono nell'abito di regolare le azioni secondo l’opinione. Vera o falsa, giusta o erronea che sia quest'opinione, è sempre la norma unica delle azioni del popolo. Regolando tutte le sue azioni secondo questa opinione, egli regola anche con essa la maniera di far uso de' suoi beni. I costumi dunque sono quelli che determinano e dirigono il lusso in una nazione. Se i costumi sono buoni, il lusso sarà quale debb’essere; se i costumi saranno corrotti, il lusso lo sarà ugualmente. Se per esempio la perfezione de' costumi, o (che è l’istesso) se l’opinione che regola le azioni de' cittadini e il governo che la dirige danno della distinzione a coloro che si consacrano al bene della patria, il lusso di questa nazione sarà un lusso di beneficenza, sarà un lusso tutto patriotico. In questa nazione un cittadino ricco non si farà un oggetto di lusso di collocare ne’ suoi giardini un gruppo osceno di Bacco e di Venere, ma memore dell'impressione che fece nell’anima di Temistocle il monumento innalzato in Atene ad Aristide vittorioso, egli farà piuttosto scolpire da una mano maestra la statua di un suo concittadino benemerito della patria per eternarne il nome, e per mostrare a tutta la nazione ciò che si deve essere per meritarne la riconoscenza. Una strada pubblica da riparare pel comodo dei commercio, una maremma da asciugare, una nuov'arte da introdurre, un talento da produrre, saranno tanti oggetti di lusso per un cittadino ricco in questa nazione. Questo infatti è stato il lusso che ha allignalo in tutti i paesi della libertà, della virtù e delle ricchezze; questo sarà il lusso che si vedrà risplendere nelle colonie anglicane, subito che la pace, se sarà unita ad una felice costituzione, permetterà loro di godere de' frutti della loro libertà, delle loro virtù e dei loro commercio. Ma se al contrario i costumi sono corrotti in una nazione; se ogni idea di virtù, ogni sentimento di patriotismo si è perduto in un popolo; se l’opinione, che ne regola le azioni, accorda della distinzione a coloro che si sono dati in preda all’ozio ed alla mollezza, il lusso di questa nazione prenderà al]ora l’impronta de' suoi costumi. Là il cittadino, che ha tanto quanto appena gli basta per poter vivere senza bisogno di ricorrere alle sue braccia, si farà un oggetto di lusso di portar lunghe le sue unghie per palesare il suo ozio; là il lusso si perderà tutto nel serraglio; là finalmente il numero delle concubine e degli eunuchi deciderà delle facoltà di ciaschedun cittadino, e de' gradi di rispetto e di considerazione che gli si debbono. Questo è il lusso di una gran porzione dell’Oriente.

Non bisogna dunque confondere la causa cogli effetti. La corruttela de' costumi cagiona la corruttela dei lusso, ma non può mai il lusso corrompere i costumi. Egli non può della maniera istessa snervare il coraggio di una nazione. Questo male, che i moralisti hanno anche attribuito al lusso, non è altro che un effetto della corruttela de costumi, la quale nel tempo istesso che corrompe il lusso ammollisce gli animi, e rende gli uomini incapaci di reggere alle penose fatiche della guerra. Le arti non snervano né lo spirito né il corpo; l'industria al contrario, che è una conseguenza necessaria dei raffinamento delle arti, dà nuove forze all'uno e all’altro. Gli Ateniesi lussuosi non trionfarono forse tante volte della frugalità degli Spartani? La Francia più lussuosa di quel che è oggi non fece forse tremar l’Europa sotto Luigi XIV? qual differenza si può fare tra un Saint’Hilaire, che ferito gravemente mostra al figlio il gran Turenne perduto per la patria, e il padre di uno spartano che corre nel tempio a ringraziare i numi che il figlio sia morto difendendo la patria? La nazione più lussuosa dell'Europa non ha forse sveglialo in noi la memoria dei valore de' suoi barbari padri? L’Inghilterra non ha forse veduto nascere sotto il suo cielo una quantità prodigiosa di uomini, che avrebbero oscurato il nome di tutti gli eroi dell antichità se questi avessero come essi combattuto sui mare? L’Oceano è stato tante volte il teatro di azioni molto più coraggiose di quelle che si videro in Platea,in Maratona ed alle Termopili. No; il lusso non toglie niente al coraggio, alla forza, al vigore quando i costumi non si sono ancora corrotti in una nazione. Egli è un bene, che non può produrre alcun male senza il concorso di altre cause. Dipendente da' costumi della nazione, il legislatore non ha che a dirigere questi per dirigere il lusso. Se egli vuole che la sua nazione non sia composta né di feroci Spartani né di molti Sibariti; se vuole evitare questi due estremi; se vuole che l'amore della fatica si conservi in essi insieme co’ comodi della vita e co’ piaceri della società; se vuole finalmente che il lusso sia, quale debb’essere, l’anima dell’industria e il distributore delle ricchezze nazionali, che crei e perfezioni i costumi delle società che dirige, che si ricreda una volta dell’inefficacia di tutte quelle leggi suntuarie che offendono la libertà del cittadino e che per lo più non sono state dettate dall'amore del ben pubblico, ma piuttosto da quella passione illimitata che hanno coloro che sono alla testa degli affari di regolare tutte le azioni de' cittadini, e che fa loro riguardare gli uomini come tanti fanciulli che bisogna condurre per mano e non come tanti esseri intelligenti che debbono esser regolati co’ lumi della ragione; che si persuada, che se vuol regolare il lusso colle leggi, egli deve esporre i suoi codici alle vicende della moda. Se egli proibisce oggi un genere di lusso che crede pernicioso, domani questo lusso uscirà di moda e dovrà proibirne un altro che gli sarà sostituito. L’immaginazione inquieta ed irritata dalle proibizioni correrà sempre innanzi alle leggi. Esse diverranno tante ordinanze arbitrarie e particolari rinascenti in ogni istante e distruttive del decoro del legislatore, il quale ad esempio della Divinità deve regolar gli uomini con leggi generali e conformi all’ordine. Esse diverranno un oggetto di disprezzo e di derisione; esse finalmente rovineranno spesso la propria industria dello Stato e il proprio commercio, distruggendo la loro connessione coll’industria e col commercio delle altre nazioni per lo spavento mal fondato di un lusso passivo, come una costante esperienza ce lo ha dimostrato. Che non tema dunque mai i progressi del lusso, qualunque essi siano, finché la disciplina si conserverà in tutti gli ordini della società; questo non deve esser considerato, che come una molta necessaria all’opulenza dello Stato e come il risultato del ben essere della nazione.

Vi sono stati molti politici che si sono scagliati in generale contro il lusso passivo, e che han creduto il solo lusso attivo essere un bene per una nazione. Alcune riflessioni mi si presentano in questo punto su quest’oggetto. Esse contengono alcune verità, che i legislatori non dovrebbero ignorare. Io mi faccio un dovere di svilupparle.


vai su

CAPO XXXVIII

Del lusso attivo e del lusso passivo, e dei casi ne' quali il lusso passivo è un bene e il lusso attivo un male per una nazione

Un errore universale adottato da quasi tutti gli scrittori economici del secolo mi obbliga ad una digressione, la quale non è tutta aliena dagli oggetti che ho presi di mira in questo libro. Anche dagli scrittori che si dichiarano in favore del lusso si declama contro il lusso passivo, come quello che manda fuori dello Stato le ricchezze reali per introdurvi le ricchezze che sono di puro lusso, come quello che alimenta l’industria straniera, come quello finalmente che nuoce alle arti e alle manifatture nazionali per la concorrenza di quelle delle altre nazioni sempre preferite dai lusso.

Quest’invettiva troppo generale contro il lusso passivo è un errore, il quale non può essere che l’effetto dell'ignoranza de' complicati rapporti degl'interessi delle nazioni tra loro e delle circostanze particolari de' diversi popoli che abitano la superficie del globo. Contro quest'errore io cerco di prevenire i legislatori in questo capo, pregando coloro che leggeranno questo libro di non accusarmi di essermi innalzato un altare di nubi sistematiche, innanzi al quale io immoli tutti gl'ingegni che si sono finora consacrati allo studio delle cose utili al genere umano, credendomi solo incaricato di una missione espressa per rivelare a' popoli quali siano i principii della loro felicità e quali le strade occulte che possono condurveli. Una presunzione cosi irritante non può allignare nell'anima di un filosofo, il quale si dichiara tenuto a tutti coloro che hanno scritto e pensato prima di lui. Ma la politica, l’economia, la legislazione sono teorie complicatissime, nelle quali è facile inciampare negli errori allorché se ne vogliono troppo generalizzare le idee, la bontà delle quali, come si è detto, è tutta relativa e tutta di rapporta. Questo è stato il difetto di coloro che si sono dichiarali contro il lusso passivo in generale, senza osservare che questo lusso che si alimenta coll’industria straniera non solo non è sempre un male, ma che per alcune nazioni potrebb’essere il sostegno unico delle loro ricchezze e della loro prosperità.

Per persuadersene bisogna sapere, che vi è un termine che la quantità del numerario non può oltrepassare in una nazione senza cagionare la rovina della popolazione, dell’agricoltura, delle arti e del commercio. Supponiamo per esempio che una nazione, ch’è in possesso o di miniere abbondanti o di una bilancia molto vantaggiosa di commercio, voglia sottrarsi dalla dipendenza delle altre coll’introdurre tutte le arti, tutte le manifatture, tutte le derrate che possono servire alla sua interna consumazione, proscrivendo l’immissione di tutto quello che potrebbe venire dagli stranieri e che potrebbe mandar fuori dallo Stato una porzione del suo numerario: quale sarà, io domando, la sorte di questa nazione? Purché uno sconvolgimento della natura non oppili le sue miniere, o purché un turbine politico non distrugga il suo commercio; purché l’ambizione del suo re o la sua propria sicurezza non l’obblighi a spesso mandar fuori dello Stato un esercito che consumi una porzione de' suoi metalli, la quantità del numerario crescendo di continuo in questa nazione ne diminuire a tal segno il valore, che il prezzo cosi delle opere come delle derrate diverrà cosi superiore a quello di tutte le altre nazioni, che i suoi cittadini trovando molto più i loro vantaggi nel comprare le derrate e le manifatture straniere che le proprie consumeranno quelle; ed allora gli agricoltori, gli artieri e i manifatturieri del paese, non potendo reggere alla concorrenza degli stranieri, abbandoneranno i loro fondi, le loro arti, le loro manifatture; allora essi saranno costretti a disertare dalla patria, che non offre loro che la povertà e l’indigenza, allora finalmente tutto il numerario uscirà fuori dello Stato, per essersi troppo moltiplicato e per non avere avuto uno scolo opportuno al suo superfluo. Questa è la catastrofe infelice delle disgrazie che sovrastano ad una nazione, nella quale il numerario si è troppo moltiplicato.

Che non si speri di poterle prevenire col soccorso delle leggi proibitive, sempre più deboli delle leggi della necessità. Malgrado le pene le più severe minacciate contro gl'introduttori delle mercanzie straniere, malgrado tutte le spie e tutte le guardie che si potrebbero impiegare per impedirne l’immissione, il beneficio d’introdurle allorché sarà considerabile basterà per corrompere tutte queste spie e tutte queste guardie, basterà per rendere inutili le minacce della legge, e basterà per tare de' ministri stessi delle finanze i principali complici delle clandestine immissioni. L'Inghilterra, la Spagna e tutti i paesi del monde ce ne offrono delle prove (245).

Il male è dunque irreparabile, allorché la quantità del numerario è esorbitantemente cresciuta in una nazione. Appartiene alla politica il prevenire quest’eccesso, col dare uno scolo al superfluo che potrebbe produrlo. Or per una nazione, la quale al vantaggio di essere in possesso di miniere abbondanti d’oro e d’argento o d’una bilancia molto vantaggiosa di commercio unisse quello di avere un terreno bastantemente fertile, allo a provvedere abbondantemente la sua interna consumazione delle derrate di prima necessità, per una nazione, io dico, di questa natura io non saprei trovare uno scolo opportuno pel superfluo del suo numerario fuori del lusso passivo. Dove altrimenti cercarlo?

Cercarlo nella guerra sarebbe un errore contrario a tutti i principii della morale e della politica. La guerra, allorché non è unita o agli stretti dritti della difesa o ai sacri doveri dell’alleanza, è un’ingiustizia che niuna causa può legittimare; la guerra non consuma solo il numerario, ma consuma anche la popolazione; la guerra finalmente in un secolo. nel quale tutte le nazioni cercano la pace, non farebbe altro che riunirle tutte contro quella che ardirebbe di turbarla.

Cercarlo nella consumazione delle derrate straniere di prima necessità, sarebbe l’istesso che mettere la nazione nella dipendenza delle altre; sarebbe l’istesso che rendere precaria la sua sorte ed incerta la sua felicità; sarebbe l’istesso che distruggere l’agricoltura, la quale deve sempre esser considerata come il primo sostegno della prosperità de' popoli.

Cercarlo nel mantenimento di una marineria considerabile, sarebbe cercarlo in un mezzo troppo utile, ma che tutt'altro beneficio può produrre fuori di quello che si cerca. O questa marineria è destinata a garantire ed a promovere il commercio, ed allora vive a spese del commercio; o è destinata a difendere le spiagge della nazione, ed allora si alimenta colle derrate della nazione. Né nell'uno né nell’altro caso può dunque esser considerata come uno scolo al superfluo del numerario. Dovunque noi volgeremo lo sguardo, noi non potremo dunque trovarlo che nel lusso passivo. Questo salasso opportuno alla pletoria dalla quale è minacciata la nazione, questo scolo che si può oppilare e riaprire a misura che le circostanze lo richiedono, questo canale di comunicazione che anima il commercio o somministra una dipendenza libera e volontaria Ira questa nazione e le altre, dev’esser considerato come il garante unico che la politica offre alla prosperità di un paese, il quale è nel caso di temere la sua rovina per l’esorbitanza delle sue ricchezze.

Osservando con criterio i veri interessi delle due nazioni Europee le quali sono precisamente nell’ipotesi da noi premessa, ci persuaderemo anche meglio di questa verità. La Spagna ed il Portogallo sono quelle duc nazioni nell’Europa, le quali al vantaggio di essere in possesso di miniere abbondanti d’oro e d’argento riuniscono quello di avere un territorio bastantemente fertile, alto a provvedere la loro interna consumazione delle derrate necessarie alla vita. Per quello che riguarda la Spagna, niuno ardirà di negarmi che questo sia di tutti gli Stati dell’Europa e forse anche dell'universo quello che la sua situazione naturale, i suoi propri fondi e i suoi dominii in America potrebbero rendere il più ricco; quello che potrebbe colla maggior celerità accumulare una maggior quantità d’oro e d’argento; quello finalmente che potrebbe pervenire più presto di tutti a quel periodo di opulenza, a quell'eccesso di ricchezza che distruggendo, come si è dimostrato, l'industria, l'agricoltura e la popolazione riconduce l’indigenza, e fa che lo Stato soccomba sotto il peso de' suoi tesori.

Supponiamo che la fertilità del suo terreno fosse soccorsa da una buona coltura, e che la Spagna s’adattasse a manifatturare tutte le sue materie prime; l’Europa in questo caso si vedrebbe inondata in poco tempo, secondo l’espressione di un autore accreditato (246) da' suoi grani, da' suoi lini, da' suoi liquori, dal suo sapone, da' suoi olii, da' suoi frutti, dalle sue stoffe di lana e di seta, dalle sue tele, dalle sue manifatture d’oro e d’argento, di ferro e di acciajo, nel mentre che la sua pesca basterebbe alla sua consumazione, e che per mantenere la più gran marina non avrebbe a cercare fuori di sé che l'alborame che il Nord potrebbe offerirle.

Se la Spagna dunque non avesse alcun dominio nell’America, se essa volesse comprimere tutte le molte dell’industria della quale è suscettibile, se volesse aprire tutte le sorgenti delle sue ricchezze, potrebbe con questo solo essere una delle nazioni più ricche dell’Europa, e potrebbe conservare una bilancia sempre vantaggiosa di commercio. Ma potrebbe essa nella sua situazione presente conservare questo spirito d’industria, potrebbe essa seguire questo piano che abbraccia tutti i rami dell’industria umana, potrebbe conservare questa bilancia sempre vantaggiosa di commercio nell’Europa in mezzo agli ottanta milioni (247) che riceve in ogni anno dal Messico e dal Perù? Non volendo essa considerare l’oro e l’argento che le viene dall’America come un genere di merce; non volendo considerare questi metalli come un oggetto di permuta, come un prodotto del suo suolo, volendoli tutti ritener dentro di sé; promovendo non solo tutte le derrate che il suo suolo può produrre, ma anche tutte le arti e tutte le manifatture che potrebbero servire alla sua consumazione ed al suo lusso; in questo caso la Spagna non si troverebbe forse Ira lo spazio di quarant’anni al più un numerario nella sua circolazione che eccederebbe di più di due terzi quello di tutte le altre nazioni, e che sarebbe altrettanto eccessivo, in quanto che tutte le altre nazioni industriose si troverebbero in riguardo suo in una povertà relativa? Or la sua condizione non diverrebbe allora quella di un popolo, che la sua esorbitante opulenza riconduce alla più estrema povertà? Le sue derrate, le sue manifatture cresciute all’infinito di prezzo per l'avvilimento del suo numerario come potrebbero allora resistere alla concorrenza di quelle delle altre nazioni, le quali verrebbero ad offerirgliele ad un prezzo tenuissimo? Chi potrebbe impedire allo Spagnuolo di mangiare, di bere, di vestire, di non consumare in una parola altro che le derrate e le mercanzie straniere, che potrebbe pagare due terzi mono delle proprie? Tutti i suoi tesori non uscirebbero allora dallo Stato preceduti dalla rovina intiera dell’agricoltura e dell’industria? Giacché dunque è impossibile alla Spagna di ritenere il prodotto intiero delle miniere del nuovo mondo, giacché essa deve necessariamente dividerlo col resto dell’Europa, giacché tutta la sua politica deve tendere a conservarne una porzione bastante a far pendere la bilancia dal canto suo, e a non rendere i suoi vantaggi eccessivi per renderli permanenti; giacché la pratica delle arti di prima necessità e l’abbondanza e l’eccellente qualità delle sue produzioni naturali le bastano per ottenere questa superiorità; giacché finalmente la Spagna non può dare uno scolo all’eccessiva quantità dell’oro e dell’argento che le iene dal Perù e dal Messico, senza rinunziare a tutte le arti e le manifatture che non servono immediatamente alla sua coltura; chi potrà non vedere nel lusso passivo l’unico istrumento necessario alla sua prosperità ed alla sua conservazione, l’unico preservativo contro l’avvilimento del suo numerario, l’unico scolo all’esorbitanza de' suoi tesori?

L’istesso si deve dire del Portogallo. Se il suo terreno fosse ben coltivato, se il difetto della sua popolazione non ne lasciasse in ozio una porzione, il Portogallo non avrebbe bisogno di alcun’altra nazione per provvedere a' suoi bisogni di prima necessità. Vi sarebbero anche de' generi de' quali egli abbonda e che potrebbe permutare con quelle derrate che gli mancano. Il suo commercio coll’lndie Orientali e sulle coste dell’Africa, quando fosse ben regolato, potrebbe essere anche una sorgente di ricchezze abbondantissima. Finalmente indipendentemente dagli altri prodotti del Brasile, col soccorso de' quali egli potrebbe soslenere un gran commercio di proprietà nell’Europa, il Portogallo riceve in ogni anno sessanta milioni (248) dalle sue miniere. Queste sorgenti abbondautissime di ricchezze, quando non fossero state parte oppilate e parte traviate dalla stranezza delle leggi, dagli errori dell’amministrazione e dal monopolio degli Inglesi; quando un governo illuminalo le riaprisse tutte in benefizio dello Stato, ci mostrano bastantemente la necessità che avrebbe il Portogallo di sostenere un lusso passivo, per le istesse ragioni per le quali si è dimostrato esser questo lusso necessario alla Spagna.

Io spero dunque di aver con bastante evidenza dimostrato l’errore di quei politici, i quali si scagliano con molto furore e con poca riflessione contro il lusso passivo in generale, senza esaminare le circostanze particolari de' diversi popoli le quali sogliono per lo più distruggere le regole troppo generali della politica. Ma essendo questa una verità poco conosciuta, io mi veggo nell'obbligo di prevenire due obbiezioni che mi si potrebbero fare. La prima di queste tende a distruggere quello che si è detto riguardo alla Spagna.

La Spagna, mi si dirà, sotto il governo di Carlo I e di Filippo II suo figlio possedeva in America miniere cosi abbondanti come le possiede oggi; la Spagna provvedeva co’ suoi prodotti le sue colonie; la Spagna faceva il più gran commercio nelle Indie Orientali e nell’Europa; la Spagna non solo non alimentava il suo lusso coll'industria straniera, ma alimentava il lusso straniero colla sua industria; la Spagna, secondo quel che ce ne dice il celebre D. Geronimo de Ustariz, numerava sessantamila ordigni da scia nella sola città di Siviglia; i drappi di Segovia e quelli di Catalogna erano i più belli dell’Europa ed erano i più ricercali; le sue fiere erano frequentate da tutti i negozianti dell’Europa; nella sola fiera di Medina, per quel che si legge in una memoria drizzata a Filippo II da Luigi Valle della Cerda, si negoziava in lettere di cambio per un valore di più di centocinquanta milioni di scudi; eppure la Spagna non è forse mai stata cosi popolata come fu allora, i suoi terreni non erano stati mai meglio coltivati, la sua industria non è stata mai spinta tant'oltre, la sua opulenza finalmente non ebbe allora bisogno del lusso passivo da noi creduto cosi necessario per questa nazione.

Questi fatti son veri ed io non ardirei di contrastarli; ma essi non formano tutta intiera l’istoria della Spagna sotto questi due regni. Essa non ebbe bisogno del lusso passivo, io lo concedo, ma perché? Perché ebbe lo scolo della guerra e del!’ ambizione de' due principi che la governavano. Ricordiamoci per poco le le spese infinità che questi due principi fecero fuori dello Stato. Carlo V, sempre in viaggio e sempre in guerra, sparse delle somme immense nell'Alemagna, in Italia ed in Africa. Egli fece durante il suo regno cinquanta viaggi. Le rendite della corona uscivano quasi intieramente dalla Spagna per provvedere a' bisogni ed all’ambizione di un principe, che e per lo spirito di conquista e per la corona imperiale che portava sui capo era sempre fuori dello Stato. Allorché egli mandò il suo figlio in Londra per sposare la regina Maria e prendere il titolo di re d'Inghilterra, egli rimise alla corte di Londra ventisette gran casse d’argento in barra e il carico di cento cavalli d’oro e d’argento coniato. Ricordiamoci finalmente che le celebri miniere del Potosi non furono scoperte che pochi anni prima della fine del turbolento suo regno. Per quel che riguarda poi il regno di Filippo 11, si sa che questo principe sostenne nel tempo istesso la guerra ne' Paesi Bassi contro il principe Maurizio d’Orange, in quasi tutte le provincie della Francia contro Arrigo IV, in Ginevra e negli Svizzeri, e per mare contro gl’Inglesi e Olandesi. La sua flotta di centocinquanta navi, che fu spedita contro gl’Inglesi e che ebbe un esito cosi infelice, non fu una perdita indifferente per questa nazione. Il suo dispotismo ne’ Paesi Bassi e la sua ambizione in Francia gli costarono più di tremila milioni di lire di computo. qual maraviglia dunque che la Spagna non avesse avuto in questo tempo bisogno del lusso passivo, per prevenire quella soverchia opulenza che suoi produrre la rovina dell’agricoltura, dell'industria e della popolazione? Se si riducessero a calcolo queste somme immense sparse da questi due principi fuori dello Stato, si troverebbe la somma molto superiore a quella che potrebbe estrarne il più gran lusso passivo che si possa ideare (249).

L’altra obbiezione che mi si potrebbe fare riguarda l’Olanda. Se l’Olanda, si dirà, non ha miniere d’oro e d’argento come la Spagna e il Portogallo, essa è in possesso di un commercio di economia, il quale è per questa repubblica una sorgente di ricchezze niente inferiore a qualunque ricca miniera. La bilancia sempre vantaggiosa del suo commercio accresce in ogni anno la somma del suo numerario.

Niuno ignora che questo è il paese dell’Europa nel quale si vede una maggior quantità di danaro; eppure l’Olanda non ha perduto il suo spirito d’economia in mezzo a' suoi tesori; la sua opulenza non ha avuto finora bisogno di lusso passivo. Non è questa dunque una prova, che ci fa presumere che la Spagna e il Portogallo potrebbero anche conservarsi senza questo rimedio? No: l’Olanda non ha niente di comune con queste due nazioni. La sua costituzione, il suo suolo, la natura del suo terreno, il principio delle sue ricchezze, tutto è diverso. La Spagna ed il Portogallo hanno non solo di che provvedere la loro interna consumazione co’ prodotti del loro suolo, ma hanno anche un superfluo da barattare. L’Olanda al contrario non può nudrire neppur la terza parte de' suoi cittadini co’ suoi prodotti. La Spagna ed il Portogallo fanno un commercio di proprietà, e l’Olanda non fa che un commercio di economia. Or chi non sa che il sostegno unico di questo commercio è la frugalità di coloro che lo fanno? Noi l’abbiamo altrove osservato. La Spagna ed il Portogallo non hanno ancora dato danaro in prestito alle altre nazioni, e l’Olanda ha impiegale delle somme immense ne’ fondi pubblici di Francia, d’Inghilterra e di alcune altre nazioni. Si fa il conto che le guerre che le Provincie Unità han sostenute dopo la pace di Ryswick, e le sole somme, ch’esse hanno impiegale ne’ fondi pubblici di Francia e d'Inghilterra prima della presente guerra co’ suoi coloni, hanno fatto uscir fuori dell'Olanda più di cinquecento milioni di lire. Ma malgrado tutti questi scoli che il numerario dell’Olanda ha sofferti; malgrado lo scolo continuo e necessario che la piccolezza dcl suo suolo e la sterilità del suo terreno le aprono; malgrado l’economia che la natura dcl suo commercio richiede; malgrado tutto questo, io dico, l’Olanda non ha dovuto forse rinunziare al benefizio delle sue manifatture? Il prezzo troppo caro della mano d’opera, che l’avvilimento del suo numerario ha prodotto, non ha forse obbligato i suoi cittadini a vestire le tele e le stoffe dell’Indie? Non ha forse essa adottata questa specie di lusso straniero che la sua opulenza ha reso necessario? Niente dunque ci deve distogliere dai credere il lusso passivo necessario per alcune nazioni.

CAPO XXXIX

Conclusione

Questi sono tutti i principii, queste sono tutte le verità che ho creduto doversi sviluppare in questa parte della scienza della legislazione che riguarda le leggi politiche ed economiche. Il loro oggetto, come si è osservato, altro non debb’essere se non quello di moltiplicare gli uomini e di provvedere alla loro sussistenza, richiamando le ricchezze nello Stato, conservandole e distribuendole colla minor possibile disuguaglianza. Ma ho io corrisposto a quest'oggetto in tutta la sua estensione? Ho io in questa parte della mia opera rivelati sempre nuovi arcani, scoperte sempre nuove verità, contrastati sempre errori sconosciuti? Posso io gloriarmi di essere stato il primo ad esaminare tutte le cause che producono la miseria de' popoli, ed a proporre i mezzi proprii per estirparle. No: io non ho fatto altro che portare una fiaccola di più in questa caverna tenebrosa, ove giacciono i mostri divoratori delle nazioni. Se questo nuovo lume può contribuire a maggiormente conoscere il loro numero, la loro forza, la loro relativa indipendenza; se qualche mostro rannicchiato in qualche antro più interno di questa caverna viene con questo nuovo lume a scoprirsi; se l'illusione, che aveva fatto prendere tante ombre per corpi e tanti corpi per ombre, viene da questa nuova fiaccola dissipata, io posso esser troppo contento delle fatiche, de' rischi a' quali mi sono esposto.

Il filosofo dev’essere l’apostolo della verità e non l’inventore de' sistemi. Il dire che tutto si è detto, è il linguaggio di coloro che non sanno cosa alcuna produrre o che non hanno il coraggio di farlo. Finché i mali che opprimono l’umanità non saranno guariti; finché gli errori ed i pregiudizii che li perpetuano troveranno de' partigiani; finché lu verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla più gran parte del genere umano; finché apparirà lontana da' troni, il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, d’illustrarla. Se i lumi ch’egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte le età, l'universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli.

Fine del Filangieri.


vai su


NOTE

(1) Si può vedere alla pag. 510 di questo volume la gratitudine che Genovesi serbava verso l’Intieri, «dell'avere da lui ricevute le prime e le più belle cognizioni di questa scienza ecc.».

(2) È un errore del Custodi, copiato dal Bianchini, l’averla riportalo a dieci anni dopo, 1764.

(3) Lett. Fam. di Genovesi, tom. II, pag. 199.

(4) Sul movimento che si determinava a quell’epoca verso gli studii economici, si veda pure alla pag. 310 di questo volume.

(5) Londra 1745. Un vol. in-8°.

(6) In francese gli fu dato il titolo di Saggio sullo stato del Commercio d’Inghilterra. Due voi. in picc. 8°. — Ilo già detto nel linguaggio sui fisiocrati che questa traduzione fu fatta da Butel-Dumont, ma coll’assistenza di Gournay, il ceppo della scuola fisiocratica (*). Genovesi modificò ancora il frontispizio dell’opera, chiamandola Storia del commercio della Gran Bretagna, titolo alquanto pretenzioso, quantunque il libro sia veramente ricco di peculiari notizie, specialmente sulla parte legislativa, che formerebbero buona porzione de' materiali servibili a una Storia del commercio inglese. Probabilmente vi ha su questo libro un piccolo equivoco bibliografico di M’Culloch (Litterature of pol. Ec.). La prima pubblicazione del Cary (1696; portava il titolo: An Essav on the state of England in relation to its trade. Una seconda edizione fu fatta nel 1715 dall’autore, che era un reputato mercante di Bristol; ma quella del 1745 sotto il titolo di Discorso, fu fatta da Tommaso Obone che cercò «di adattarla al tempo in cui la produceva, senza molto dilungarsi dal testo;» cd è su questa che fu eseguita la traduzione di Butel-Dumont.

(7) Noi, oltre alle Lezioni, diamo in questo volume il «Ragionamento sul commercio — il «Ragionamento sull'uso delle grandi ricchezze» — il «Ragionamento sulle manifatture» — il «Ragionamento sullo spirito della pubblica economia» — e i dodici squarci che furono dal Custodi pubblicati come «Digressioni economiche».

Tutti questi lavori fecero parte, in origine, del Comenlario a Cary; ma un solo fu dall'autore incorporato nella seconda edizione delle sue «Lezioni,» come avvertiamo alla pag. 277.

Non abbiamo creduto di comprendervi il «Ragionamento Sull’Agricoltura», né quello «Sul vero fine delle Lettere». Il primo, che è dei 1764, ha uno scopo molto pratico e relativo al tempo ed al luogo in cui fu scritto, nè, quanto ai principii, contiene una menoma idea che non si trovi abbondantemente esposta e nelle Lezioni, e nelle Digressioni. Il secondo è del 1753, prima ancora che Genovesi fosse un economista, e rappresenta, per cosi dire, la sua conversione dagli studii sacri ai profani.

(*) Tomo I della Bìbl. dell'Econom., pag. XV. n.

(8)«Ciò che le hanno scritto per riguardo a S. A. R. il Principe di Brunswich, egli è vero. Ei volle onorare colla sua presenza la sola mia cattedra». — Lettera a Cesare Belcore, 1766.

(9) Quest’opera fu pubblicata nel 1754 a Parigi, ma come traduzione dall’inglese di un cav. J. Nickolls; ed è sotto questo pseudonimo che si trova spesso citata: lo stesso Carli, che pure era tanto bene informato degli scrittori contemporanei, non pare avere avuto il sospetto che appartenesse al Dangeul (Carli, Sui Bilanci ecc. — Vol. XXI della Racc. Custodi, p. 527).

(10) Quest'opera è di Claudio Herbert. Noi l’abbiamo accennata come una delle più importanti pubblicazioni che sieno apparse prima degli Economisti. (V. il voi. I. della nostra Bibl. pag. XIX). —Sinith la chiama opera «elegante». — Turgot, nell’elogio di Gournay, la cita come un completo lavoro nel suo genere. — M’Culloch la giudica eccellente sotto tutti i riguardi (Litter. e Disc. prelim. a Smith). — Blauqui l’ha dimenticata nella sua Bibliografia.

(11) Lezioni. Vedi appresso, pag. 118.

(12) Galanti, Elogio, pag. 164 — Custodi, Notizie, pag. 15

(13) Il Custodi si è servito di un esemplare fatto trascrivere dall’autore medesimo per portarlo seco in un viaggio che fece più tardi a Parigi. Ho usato, dice l’Editore, la possibile attenzione a correggere i molti errori del copista e lo più sensibili tra le abituali negligenze di stile dell’Autore; non oso presumere di aver sempre colto nel vero».

La prolusione al corso del 1769 fu l’unica parte che Beccaria mandò sin d’allora alle stampe. Sebbene, in grazia del nome dell’A., fosse stata subito volta in francese (Discours sur le Commerce et l’administration publique; trad. par Ant. Comparet, Lausanne et Paris), è però, come ben dice M’Culloch, indegno dell’Autore e dell’argomento acuì serviva d’introduzione, è un poverissimo lavoro, (Litt. of pol. Ec.). — Il Custodi l'ha fatto seguire agli Elementi; noi, nel bisogno di spazio, non né abbiamo imitato l’esempio.

(14) Riflessioni in punto di ragione sopra il libro intitolato de' Disordini e de' rimedii della Moneta.

(15) «È uomo pregevolissimo per le qualità sì del cuore che della mente, cd il più caro amico che io mi abbia. Farmi di provare per lui quello stesso entusiasmo d’amicizia, che Montaigne per Stefano di La Boelic. Egli mi ha fatto animo a scrivere: a lui vo’ debitore di non aver gettato al fuoco il manoscritto de' Delitti, ch’egli ebbe la compiacenza di trascrivere di propria mano». — Beccaria all’abate Morellet.

(16) Il Bilancio e le parli più importanti della Relazioni, preliminare sono stati pubblicati nella raccolta del Custodi, e nelle opere dell’A. (ediz. Silvestri, Milano 1818).

(17) Il secondo volume fu appena cominciato a stamparsi dall’A., e venne continuato dopo la sua morte dal can. Frisi, fratello del matematico.

(18) Erano state scritte nel 1764, e rifatte nel 1777. «Ma per mala sorte, suo padre era presidente di quel collegio di supremi giudici, che 147 anni prima avea dato un si atroce esempio d’ignoranza e di crudeltà nel legale assassinio di tanti innocenti. Si credette che l’estimazione del Senato-potesse restar macchiata per la propalazione dell’antica infamia. Questo riflesso prevalse, e Verri, per rispetto del padre, rinunziò all'idea di dare alle stampe le sue Osservazioni». — Custodi.

(19) Di Verri abbiamo molte biografie, ma son tutte fondate su quella che il Custodi premise all’edizione delle sue opere economiche, e che si distingue da tutte le altre. Egli medesimo attinse all’Elogio primitivamente stampatone da Isidoro Bianchi. Un’altra Orazione in lode di Verri fu fatta nel 1818 dal prof. Adeodato Ressi (Pavia). Si può consultare quella del Pecchio; e le due di Ugoni, una nella sua Letteratura italiana ecc., l’altra nella Biografia universale. L’Elogio di P. Nessi (1844), e l’articolo della Rivista Europea (settembre 1844) a proposito dell’edizione Ubicini, non hanno che pochissima importanza.

(20) Il monumento a Verri fu fatte eseguire al Fraccaroli, e la spesa fu fatta per coscrizioni volontarie. Vi si legge l’iscrizione seguente:

FILOSOFO ISTORIOGRAFO

CERCÒ E SCRISSE IL VERO GIOVEVOLE A TUTTI

MAGISTRATO DI RETTITUDINE E DI ZELO

CON SAPIENZA OPEROSA E CONSIGLIO MAGNANIMO

PROSPERÒ LA PATRIA E LO STATO.

ITALIANI E STRANIERI

ALL’UOMO BENEMERITO DEGLI UOMINI

ERESSERO IN MILANO PUBBLICA STATUA

L’ANNO MDCCCXLIV

PRESENTE PLAUDENTE

Il VI CONGRESSO SCIENTIFICO

DELL’ITALIA.

(21)Sui segni che distinguono le annotazioni e le repliche, si veda l'Avvertimento a pag. 546.

(22) Eccoli in ordine cronologico:

Vita del padre D. Guido Grandi, abate Camaldolese. — Venezia 1744.

Riflessioni sopra i drammi per musica, con una nuova azione drammatica. — 1750. Saggio sulla filosofia degli antichi, esposto in versi per musica. — 1757.

Calcolo sopra il valore delle opinioni e sopra i piaceri e i dolori della vita umana.

Riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue. —1775.

Errori popolari intorno all’Economia nazionale, considerati sulle presenti controversie fra i laici e» chierici in ordine al possedimento de' beni. —1771.

Dell'Economia nazionale. —1774.

Sulla religione e sul governo de' popoli. —1780.

Dei fidecommessi a famiglie e a chiese e a luoghi pii, in proposito del termine di Manimorte introdotto a questi ultimi tempi nell’Economia nazionale. — 1784.

Ragionamento sulle scienze utili e sulle dilettevoli per rapporto alla felicità umana. —1785.

Della popolazione. —1790.

E ciò oltre ad una grande quantità di lettere inedite che il Custodi raccolse con diligenza religiosa, e delle quali noi ristampiamo quelle che forman comento all’economia. nazionale.

(23) Un esempio fra tanti. «Si sa chi, pubblica Novelle letterarie dee adottare la letteratura che è più in corso, dee mostrarsi unito ai letterati di gran riputazione, e dee adulare i sovrani fino a chiamarli filosofi. La mia letteratura è da questa diversa, mentre coi letterati di maggior riputazione non mi trovo molto d’accordo; e finché i sovrani governeranno i popoli coll’armi, per me non saran mai filosofi, non eccettuati il gran Federico ed il gran Giuseppe, sovrani invero rispettabilissimi, ma non filosofi: i filosofi non mantengono truppe».

(24) Vedi qui appresso, pag. 118.

(25) Ivi, pag. 323-4

(26) Ivi, pag. 378 e 382.

(27) Vedi qui appresso, pag. 120, 121 e 548.

(28) Ivi, pag. 108.

(29) Vedi qui appresso, pag. 255.

(30) Ivi, pag. 108.

(31) Ivi, pag. 142, 351.

(32) Ivi, pag. 230.

(33) Ivi, pag. 155.

(34) Ivi, pag. 177.

(35) Ivi, pag. 260.

(36) Ivi, pag. 345.

(37) Vedi qui appresso, pag. 509.

(38) Vedi qui appresso, pag. 477-8.

(39) Ivi, pag. 440,466, 482.

(40) Vedi qui appresso, pag. 569, 570, 634, 636.

(41) Ivi, pag. 636.

(42) Vedi qui appresso. Pag. 688-9.

(43) Ivi, pag. 718-19, 745-6-8.

(44) Vedi qui appresso, pag. 715, 721.

(45) Vedi qui appresso, pag. 475, 566, 711.

(46) Ivi, pag. 576.

(47) La scienza del ben rirere Sociale.

(48) Questa opinione di far passare il privilegio dalla persona all’industria, di favorire cioè un’intiera produzione, qualunque sieno le persone che vi si addicono, fu pure di Beccaria (vedi pag. 451); e non occorre di dimostrare cc ime in tal caso l’effetto tristo del privilegio si moltiplichi, e si riduca al vecchio sistema di proteggere l’agricoltura a danno delle arti, o queste a danno di quella.

(49) Questo sbaglio bibliografico o storico è imperdonabile in Romagnosi! £ da' suoi articoli che cominciò l’uso di chiamare scuola italiana il sistema delle liberti economiche; e io credo invece che sarebbe impossibile il citare alcun’altra scuola che conti un numero, proporzionatamente maggiore, di scrittori protezionisti.

(50) Vedi qui appresso, pag. 180-7 e 550 e seg.

(51) Pag. 98. 598, 401, 405, 603, 51,28, 396. 572, 570, 565, 569, 298, 287, 598 ecc. 5)

(52) Si vedano le parole con cui principia il secondo Capitolo del lib. II pag. 130.

(53) Vedi qui appresso, pag. 533 e seg., 630-7.

(54) Ragguaglio storico sui Fisiocrati, p«g. 1. XXIV.

(55) Ragguaglio storico sui Fisiocrati, pag. 1. XXIII. a moltiplicare uffiziali che invigilino e castighino... la popolazione si perde ecc. —

(56) Quest’opera è di un Lewis Roberts. lo qui non la cito che sulla fede di Lauderdale (Nola alla pag. 109, seconda ediz.). M’Culloch non fa alcun cenno d’imposta unica; loda l’autore come gran partigiano della libera esportazione del danaro, e indica il libro come interessante perché vi si trovano le più antiche notizie intorno alle manifatture di cotone.

Di Locke, si allude all'opera Sul ribasso dell'interesse e l’innalzamento del valore della moneta.

Quella del Vanderlint (Giacobbe) porta il seguente titolo: La moneta risponde a tutto, o Saggio sul modo di rendere il danaro abbondante in tutte le classi del popolo, ed accrescere il nostro traffico interno ed esterno. Londra 1734. — «L’autore conchiude col sostenere l’abolizione delle gabelle esistenti, e domandare la sostituzione d’una sola imposta sulla terra, idea tolta ad imprestito da Locke, e poi adottata dagli economisti». — (M’Culloch).

(57)1696. Giov. Asgill, autore di Alcune proposizioni tendenti a creare una moneta diversa dall’oro. Ecco le parole che si sono citate per rivendicare la priorità del sistema fisiocratico.

«Ciò che noi chiamiamo merci, non è che qualche cosa strappata alle viscere della terra (letteralmente: la terra staccata dal suolo, land severed from tlie soil) — tutto il traffico umano non s'aggira che sulla terra, (mercanti sono i fattori del mondo, occufati a cambiare una porzione di terra con un’altra. Lo stesso re, non si nutre che del lavoro del bove; l’esercito e l’armata navale non si veste e non si ciba che di cose il cui prezzo dev’essere in ultimo luogo pagato al proprietario del suolo. Ogni cosa nel mondo prende origine dalla terra, ogni cosa bisogna che si faccia crescere sulla terra».

Ragioni in favore della limitata esportazione della lana (Anon.). Vi si dice così alla pag. 5.

«Che sia un grande interesse del pubblico quello di giovare alla nobiltà, alla borghesia, a coloro che possiedono il suolo— interesse molto maggiore che quello di giovare a pochi artefici impiegati a lavorare le nostre lane soverchie, o ai mercanti che guadagnano esportando le nostre manifatture; ciò è manifesto: — 1° Perché essi sono padroni e proprietarii di ciò che forma il fondamento di tutta la ricchezza nazionale, essendoché ogni guadagno viene dalla terra, che è loro proprietà. — 2° Perché son essi coloro che sopportano lutto il peso delle pubbliche imposte; le quali non è da credere che cadano sui venditori di merce, giacché essi alzano o abbassano i loro prezzi, secondo le tasse che pagano.

Su quest’opera che è del 1677, si può vedere: Stewart, nella Vita di Smith; Lauderdale, Ricchezza pubblica, loc. cit.; M’Culloch, Introduzione a Smith, pag. 62; e Litt. of pol. E con. pag. 9, 159, 238.

— Quanto ad Artaserse, egli diceva che:

«L’autorità del principe dev’esser difesa da una forza militare; la quale non può mantenersi che con le imposte; e le imposte non posson venire che dal prodotto dell'agricoltura. (Gibbon, topi. 1. pag. 256, 4 ed.).

(58) Della Moneta, nota 29.

(59) Scienza del ben essere sociale, pag. 155.

(60) Si può vedere intorno a ciò il Giorn. di Stat. di Palermo, num. 18 Palermo 1846.

(61) Pag. 11, ed. Custodi.

(62) Ivi, pag. 16.

(63) Pag. 19, ed. Custodi.

(64) Ivi, pag. 21 e 22.

(65) Ivi, pag. 23.

(66) Ivi, pag. 26.

(67) Ivi, pag. 27.

(68) Ivi, pag. 29.

(69) Ivi, pag. 30.

(70) Ivi, pag. 31.

(71) Pag. 41, ed. Custodi.

(72) Ivi, pag. 46.

(73) Ivi, pag. 127.

(74) Ivi, pag. 161.

(75) Pag. 66 dell’edizione Custodi.

(76) Aveva scritto, sin dal 1585, De sapientia regia; e l’opuscolo Sulle cause della grandezza delle città, è del 1588. — Il suo intento era di mostrare che nelle arti di governo ciò che è onesto non è mai disgiunto da ciò che è veramente utile; e quello che è ingiusto non può essere giammai realmente vantaggioso. — Bolero non cita apertamente il Machiavelli; ma si raccoglie da un 'altra opera sua ch’ebbe l’intento di confutarlo (Ufficii del Cardin., lib. I. pag. 64).

(77)È il settimo libro della Ragion di Stato quello che tratta di queste materie. Agli economisti amanti di erudizione, io consiglierei di leggere per intero il capitolo del Matrimonio e dell’educazione de' figliuoli, ed il terzo libro dell’opuscolo Sulla grandezza delle città, per trovarvi benissimo esposto il moderno Principio di popolazione.

Botero non è mai ricordato da’ nostri critici come un economista, probabilmente perchè il Custodi gli commise l’ingiustizia di non includerlo nella raccolta de' classici.

La rinomanza di Bolero è ben lontana dall’esser postuma. La Ragion di Stato fu tradotta in tutte le lingue; la Politia regia di Rainferberg (1620) non fu che un estratto delle Relazioni universali di Botero; Naudé, Bayle, Moreri, senza parlare degli Italiani, che si potrebbero reputare sospetti, io misero alla testa de' politici del suo tempo. Il libro Sulla grandezza delle città ebbe, nel 1635, una traduzione in inglese, a proposito della quale M’Culloch scrive le seguenti parole, che, per altro, sarebbero meglio o altrettanto bene applicabili alla parte economica della Ragion di Stato:

«È questo un trattato notevolissimo. Le cause a cui Bolero ascrive l’incremento delle città, sono affatto identiche a quelle che si vedono menzionate da Seneca, e l'influenza di ciascuna di esse vi è descritta e valutata. Ma l’opera è principalmente degna di ricordo perchè mostra che l’Autore conosceva perfettamente tutto ciò che avvi di vero nella teoria di Malthus. Il che particolarmente si rileva dai ragionamenti con cui mostra che le colonie non tendono a spopolare la madre-patria, e dall’investigazione delle circostanze che possono limitare e determinare l'aumento delle città. Fu un grande sbaglio l'aver dimenticato l'opera di Botero nella Raccolta degli Economisti italiani. (Litt. of pol. Econ., pag. 233).

(78)>E si noti che la Repubblica di Bodino, benché l’edizione latina porti la data del 1583, era stata già pubblicata in francese sin dal 1377, e l’Autore non s’indusse a farne egli stesso l’edizione latina che per averla già trovata mal tradotta in Inghilterra dove era insegnata nell'università di Cambridge.

(79) Di ciò si può ognuno convincere facilmente. Vi ha un’opera, divenuta oggi rarissima, d’un tal Renato Budelio, pubblicata in Colonia nel 1591 col seguente titolo: De monetis et de re nummaria, libri duo. È divisa in due parti. Nella prima l’Autore dà un trattato originale sulla moneta, il quale, lo dirò di passaggio, compromette anche su questa parte la priorità degl’italiani; ma nella seconda non fa che raccogliere, per inserzione o per estratto, tutto ciò che avanti di lui s’era scritto sulla materia. In quella moltitudine di opuscoli, la maggior parte de' quali son consulte giuridiche, se né trovano taluni d’una qualche importanza nella storia dell’Economia. È singolare che il titolo di quest’opera sia sfuggilo alle minuziose ricerche del Bianchini; eppure l'Autore è anche nominato nel Dizionario di biografia universale, a cui sembra evidente che lo storico napoletano abbia attimo la gran copia di nomi, de' quali è pieno il suo libro. — Budelio è citato una o due volte da Montanari ed un’altra da Carli; del rimanente questa sua opera fu affatto dimenticata, ed io non la conoscerei che di nome se un mero caso non mi avesse fatto trovarla dove meno il credeva.

(80) È del 1587: Breve esame di certe doglianze ordinarie a' diversi de' nostri concittadini ecc.».

(81) Il suo primo titolo fu: Réponse aux paradoxes de M. de Malestroict touchant l’enchérissement de toutes les choses et des monnoyes. — ln-4°, Parigi 1568. — Fu ripubblicato dieci anni appresso col seguente titolo: Discours sur le rehaussement et diminution des monnoyes, pour réponse aux paradoxes du sieur de Malestroict. In-8°. — Entrambe queste edizioni son divenute rarissime: io non conosco che una traduzione in latino, inserita nella raccolta di Budelio che ho sopra citato, e dalla quale, in un momento di curiosità bibliografiche, ho tratto una traduzione italiana. —I lettori di economisti italiani non si sono probabilmente avveduti che Montanari (Della moneta ecc.) ha fatto un largo uso dell’opuscolo di Bodino, citandolo in modo che niuno si accorgesse dell'utilità che né aveva cavata, e confutandolo anzi in qualche parte (Cap. IV.). — Carli nella terza delle sue Dissertazioni accenna l’uno e l’altro opuscolo: «fu il primo Poulin in Francia nel 1578, il quale pretese di mostrare che ivi cresciuto fosse il solo valor numerario e non il reale, sostenendo che con la medesima quantità d’oro e d’argento si poteva avere allora ciò che si acquistava 300 anni avanti. Bodino io ha confutato, senza però dimostrare cosa alcuna». — Bianchini nulla dice intorno al movimento che quella quistione portava nella società di quel secolo, e che meritava d’esser trattata come un vero punto di partenza degli studii economici; e quanto all’opuscolo di Bodino, ecco le sole parole che gli consacra: «Quello stesso Bodino, di cui sopra ragionai, divulgò un discorso Sul caro prezzo delle cose e sui mezzi di provvedervi».—Chi né volesse più minute notizie, potrebbe consultare a preferenza Bayle e Niceron.

Ognun vede che il paradosso di Malestroit era forse una verità, e che in quella quistione il torto era più dalla parte di Bodino; ma un rapido estratto di ciò che contiene l’opuscolo di quest’ultimo servirà, mi lusingo, a mostrare che gli argomenti economici, nel secolo xvi, erano molto meglio noti fuori d’Italia di quello che lo sarebbero stati nel secolo seguente in Italia se si dovesse giudicarne dal valore del libro di Antonio Serra.

Bodino comincia dal negare il fatto. Non è vero che i prezzi, da tre secoli in qua, si sieno mutati in proporzione del mutamento avvenuto nella quantità de' metalli: tutto mostra che in Francia si paga oggi molte cose dieci volte più di quello che si facesse ai tempi di Filippo il Bello. A questo rincarimento ha dovuto sicuramente contribuire l’abbondanza de' metalli; perchè molti fatti dimostrano quant’erano scarsi allora (le doti costituite alle figlie dì sovrani ecc.). Il danaro era allora in Italia, perchè la Francia non aveva arti né traffico. Ma poscia l’ebbe, quando dagli Spagnuoli le si recò l’oro del nuovo mondo, e il commercio vi si avvivò, specialmente quello del sale. Successero lunghi periodi di pace, affluenza di genti, traffico Coll’Oriente, un banco a Lione, che offrendo allo interesse, attirò a sè gran copia d’oro e d’argento. Vi ha contribuito anche più la scarsezza delle derrate; la quale principalmente deriva da eccesso di estrazione. La Francia manda via il grano, e riceve danaro. Vi ha finalmente contribuito il lusso de' principi, il quale fa rincarire le cose da essi predilette. Il caro dunque è reale e viene da tutte codeste cause. Qual sarebbe il rimedio? Ecco ciò che Bodino propone: —Non proibire le estrazioni, perchè noi riceviamo dall’estero molte cose in cambio di quelle che mandiamo; perchè a noi giova stare in vivo commercio cogli altri popoli; cosa in cui errarono Platone e Licurgo. Le nazioni han tutte bisogno l’una dell’altra; l’unica cosa da respingere sono i malfattori; non è vero che l’estrazione fa rincarire ogni cosa; il solo frumento è ciò la cui uscita dovrebbe regolarsi con prudenza. Istituire monti frumentarii, sta bene; ma sarebbe stoltezza far sostituire frumento ove cresce la vigna. Converrebbe insomma limitarsi a porre de' dazii di estrazione. (È la teoria di Genovesi, Verri e Beccaria). — Richiamare in voga il consumo de' pesci (qui, una delle stravaganze del tempo); la moda in quel momento avea dato alle carni una preferenza sul pesce, e Bodino ci vide una causa di decadimento per la Francia. — Sopratutto, non alterare mai il valore della moneta: è azione infame, per nulla degna di un principe.—Proibire la lega ne’ metalli, anche agli orefici; che tutto l’oro sia sempre a 23 carati, e tutto l’argento a den. 11 ½. — Dare a tutte le monete d’ oro lo stesso peso che a quelle d’argento, regolandole sui summultipli del num. 64 (perchè al tempo di S. Luigi 64 soldi formavano un marco;; dare ad entrambe la stessa impronta, e allora il valore dell’une starebbe a quello delle altre precisamente nel rapporto in cui stanno i due metalli, cioè come 12 ad 1. —Qui l’autore cerca di dimostrare i grandi vantaggi di questo sistema, che riguarda come un. mezzo sicuro di ovviare a tutti gl’inconvenienti.

Io non do questo estratto certamente per indicare ai miei lettori un trattato d’Economia politica, ma perchè quando leggono Scaruffi o Turbolo non sieno così proclivi a supporli scopritori della teoria della monetazione, e quando leggono l’opuscolo di Davanzali, si ricordino che per copia di cognizioni e per larghezza di vedute. Bodino, nel 1568, non Scapiterebbe al paragono di Davanzali che scrisse nel 1583.

(82) Il lettore noterà in molti passi di Genovesi una speciale predilezione per la comunità de' beni. Venga tra gli altri la pittura che fa degli Apalaschiti, in fine della nota atta pag. 185.

(83) Giornale di Statistica, N. 18, pag. 519. — Palermo.

(84) Vedi qui appresso pag. 585, e meglio a pag. 595.

(85) Ivi, pag. 606.

(86) Vedi qui appresso pag. 781.

(87) Ivi.

(88) Ivi, pag. 785.

(89) Ivi, pag. 825-49, e special mente pag. 852.

(90) Vedi qui appresso, pag. 894.

(91) Ivi, pag. 899, 907 ecc.

(92) Giovanni Seldeno nel Dritto della natura e delle genti seconda la disciplina degli Ebrei, lib. V, cap. VI.

(93) Basta leggere nella Bibbia l’istoria delle guerre di questo popolo per persuaderci dell’eccessiva sua popolazione. Noi abbiamo nel lib. I de' Paralip., cap. XXI, vers. 5 e 6 che i combattenti, toltone le tribù di Levi e di Beniamino, erano 4,570,000

Supponendosi dunque in queste due tribù un numero eguale di Ebrei idonei alla guerra, bisogna dire che questo popolo avea 1,691,000 persone in istato di portar Parmi, il che suppone una popolazione di 6,761,000 uomini. Questa popolazione ci sembrerà altrettanto straordinaria quando osserveremo che la Palestina, per quel che ne dice il dotto Templan, non è d’estensione che la sesta parte d'Inghilterra. Basta leggere la descrizione che ci fa Giuseppe Ebreo (lib. III, de Belle Jud., cap. III) della Gallica, per convincerci della maravigliosa popolazione della Palestina. Leggasi anche ciò che ne dice Dione Cassio, Hist., lib. LXIX.

(94) Strab., Geograph., lib. XV, pag. 735.

(95) Hist. lib. 1, cap. CXXV.

(96) Muson. presso Stobeo, Serm. LXXIII.

(97) Io non so come queste riflessioni sieno sfuggite alla penna del celebre Montesquieu. Che si rifletta però che io ragiono qui sulle massime dei Greci, i quali non guardano mai il celibato cogli occhi della religione.

(98) Dinarchus, Invectiv. in Demosth.

(99) Aelian., Var. hist., lib. VI, cap. VI. Lo stesso riferisce Aristotele, colla differenza che egli credeva che bastassero anche quattro figli per esentare un cittadino da tutti i pesi della repubblica: Arist., Politic., lib. II, cap. IX.

(100) Pollux in Onomastico, lib. VII, cap. VI.

(101) Le leggi Romane non lasciarono di mettere ostacoli a questi stessi disordini. Uno de' capi della legge Papia Poppea, della quale si parlerà in appresso, aveva questo oggetto. Sexagenario masculo, quinquagenariae feminae nuptias contrahere jus ne esto. Leggasi Eineccio, Comment, ad leg. Jul. et Papiam Popp, lib. I. cap. V, pag. 81-82.

Nel senatusconsulto Prisciano si stabili anche, ut sexagenarii et quinquagenariae, licet inierint matrimonium, poenis tamen coelibatus subsint perpetuo. Eineccio, ibid.

(102) Plutarco in Vita Lycurgi. Lo stesso autore ci apporta un fatto, dal quale si può dedurre, che all’altre pene minacciate in Sparta contro il celibato vi si aggiungeva quella di privare il vecchio celibe di quegli ossequii che la gioventù gli doveva. Pervenendo in una piccola assemblea un vecchio e rinomato capitano, un giovane che vi si trovava non volle cedergli il banco, sul quale era seduto, dicendogli: tu non me ne bai sostituito uno che debba un giorno a me cederlo. Questa risposta arrogante non solo non fu punita, ma fu applaudila: tanto era il disprezzo che si aveva in Sparta per li celibi. Plut., ibid.

(103) Athen. Deipnosophist., lib. XIII, pag, 555.

(104)Diodor. Sic. Ber. Anliq., lib. XV, cap. LXXVII.

(105) La moltiplicità delle colonie greche stabilità sulle coste dell'Italia, dell’Asia e dell’Africa, nel difetto di qualunque altra prova, ci dovrebbero bastare per farci conoscere la saviezza delle leggi dei Greci dirette alla moltiplicazione della specie. Dione, lib. XII, e Tucidide, lib. III, ci dicono, che i Trachiniesi avendo perduto molti cittadini, non ebbero a far altro che ricorrere a Sparla loro metropoli per ottenerne 10,000, e riempir cosi il vuoto della loro popolazione; e Plutarco (nella vita di Timoleone) ci dice che Timoleone avendo cacciato Dionisio da Siracusa, ed avendo trovata questa città e quella di Selinunzio estremamente spopolate, invita i Greci a stabilirvisi, e subito trovò 60,000 persone che ne accettarono l’offerta. Una madre, che ba pochi figli, non ne dà sicuramente ad altri.

(106) Gell., Noct. Attic., lib. XVII, cap. VI.

(107) Dionisio d’Alic., Antiq. Hom., lib. II, pag. 96.

(108) Dion. Hist., lib. LVI.

(109) Era costume presso i Romani che le novelle spose, nel mentre che si faceva il sacrifizio a Giunone dea protettrice delle nozze, ne toccassero l’ara; onde ne venne che tangere aram Jununis e nubere erano la cosa istessa. Numa adunque, per allontanare le donne dalla prostituzione, volle che colei che si fosse anche per una sola volta prostituita con un marito altrui non potesse partecipare a questo onore, se prima non avesse offerto un sacrifizio di espiazione a questa Dea, vestita in abito di tutto e colla maniera la più umiliante del inondo. Veggasi Einec. nel suo Comm. ad leg. Juliam et Popiam Puppeam, lib. I, cap. Il. Le parole di questa legge di Numa ci sono state tutte conservate da Festo: Pellex aram Junonis ne tangito; sei tangit, Junonei crenebis demiseis agnum foeminam cœdito. Leggasi Festo nella voce Pellex.

(110) Egli volle che un padre, che avea dato ad un figlio il permesso di ammogliarsi, non avesse più II dritto di venderlo. Plutarco in Numa, pag. 71. Non ci vuol molto a vedere quanto questo stabilimento dovesse muovere i ligli ad ottenere dai padri il permesso di ammogliarsi.

(111) Leggasi Festo nella voce Uxorium. Censores, dice Valerio Massimo, illos omnes, qui ad senectutem cœlibes pervenerunt, fera pœnae nomine in cerarium deferre jusserunt, lib. Il, cap, IX.

(112) Animadvertimus, dice Gellio, in oratione P. Scipionis, quant censor habuit ad populum, inter ea quae reprehendebat quod contra majorum instituta fièrent, id etiam eum culpasse, quod filius adoptivus patri adoptatori inter praemio patrum prodesset. Gellio, Noct. Attic., lib. V, cap. XIV.

(113) La prima questione, che si faceva a coloro che si presentavano per far giuramento, era questa: ex animi lui sententia tu equum habes, tu uxorem habes? Su la tua fede ci assicuri tu di avere un cavallo, di avere una moglie? Senza questo doppio requisito, la legge credeva che non si potesse prestar fede a colui che giurava.

(114) Si parla de' tempi della decadenza della repubblica. Leggasi l’aringa di Augusto rapportata da Dione (lib. XLVI), nella quale egli rimprovera il libertinaggio de' Romani.

(115) Tutti gli scrittori antichi ci dicono che vi era un’immissione continua di schiavi in Roma, che venivano dalla Siria, dalla Cilicia, dalla Cappadocia, dall’Asia Minore, dalla Tracia e dall’Egitto. Strabone (lib. XIV) ci dice. che a Delo in Cilicia furono venduti diecimila schiavi in un sol giorno. Un tristo avvenimento fece conoscere che un solo palazzo in Roma conteneva 400 schiavi. questi furono messi a morte per non aver impedito l’assassinio del loro padrone. Tacito, Annal., lib. XIV, cap. XLIII. A misura che Roma si popolava di schiavi, si spopolava di cittadini.

(116) Gli autori dei tempi di Augusto e dei seguenti secoli compiangono la decadenza dell agricoltura nell’Italia. Leggasi Columella nel Procm., lib. I, cap. I; Orazio, lib. II, od. 15; Varrone, lib. III, cap. 1; Tacito, Annal., lib. III, cap. XXIV; e Sveton. in Vita Augusti, cap. XLII.

(117) Partem Italiae (dice Livio) ergastula a solitudine vindicant. E Seneca (Controver. 5, lib. A) dice: Arata quondam populis rura, singulorum ergastulorum sunt. At nunc cadem (dice Plinio, lib. XVIII, cap. III) vincti pèdes, damnates manus, inscripti vultus exercent. — Mi si demanderà, dice Livio in un altro luogo (lib. VI) dove i Volsci abbiano potuto ritrovar tanti soldati per far la guerra dopo essere stati tante volte vinti? Bisognava che vi fosse una popolazione immensa in queste contrade, che oggi non sarebbero altro che deserti se pochi soldati e pochi schiavi Romani non le abitassero.

(118) Leggasi Appiano, De bell. civ., lib. II.

(119) Cesare dopo la guerra civile avendo voluto Tare il censo, non si trovarono che 150 mila cittadini Romani. Leggasi l’Epitome di Floro sulla XII Deca di Livio. Svetonio nella Vita di Cesare, cap. XLI. Appiano, Ibid. Plutarco nella Vita di Cesare.

Chi ha letta in Livio la descrizione degli anteriori censi si persuaderà dei colpi fatali, che aveva sofferta la popolazione di Roma nel tempo del quale si parla. Se il racconto di Fabio Pittore che egli rapporta (dec. I, lib. I, cap. XVII) non è esagerato, come pare che lo sia, il numero dei cittadini Romani sotto il sesto re superava almeno del doppio quello dei tempi di Cesare, giacché egli ci dice che nel censo di Servio Tullio si trovarono 80 mila uomini nello stato di portar Parmi. Ma lasciando da parte questo censo che non pare verosimile, se si esaminano i censi posteriori cominciando dal quarto secolo di Roma fino al settimo secolo, si troverà che tra diciotto censi dei quali si fa menzione nei Libri di Livio e nell’Epitome dei perduti, che precedettero quello fatto da Cesare, tutti passarono i 200 mila, selle i 250 mila, cinque i 500 mila, tre i 350 mila e due i 400 mila.

(120)

Dione, Hist.,lib. XLIII.

(121) Svetonio, Vita di Cesare, cap. XX.

(122) Euschio nella sua Cronica.

(123) Spirito delle leggi, lib. XXIII, cap. XI.

(124) Dione, lib. LVI.

(125) Dione, ibid.

(126) Io non ho tradotto letteralmente questo (ratio, ma basta leggere il testo greco per osservare che non ho lasciato per questo di esser fedele all’originale.

(127) Dione, ibid.

(128) Leggasi l’opera di Eineccio, che ha per titolo: Ad legem Juliam et Papiam Poppœam Commentarius.

(129) De morib. Germ.

(130) Questa determinazione è compresa ne’ capi XXVI e XXVII della legge Papia Poppea: Cœlibes, visa intra centum dies huir legi paruerint, neque hereditatem, neque legatum ex testamenti, nisi proximarunt capiunto.

Si qui conjugum masculus (ultra XXV annum) foemina (ultra vicesimum) orbe erunt, semissem relictorum tantum capiunto. Leggasi Eineccio, Comm. ad leg. Jul. et Papiam Popp. lib. I, cap. V.

(131) Plutarco nelle opere morali, dove parla dell’amore de' padri pe’ figli.

(132) Leggasi Plinio, lib. IV, lett. XV, l’istesso Tacito negli annali, lib. XV ed Ammiano Marcellino, lib. XIV, cap. XIX, il quale ci fa vedere che il male si era conservato fino a' suoi tempi, e ci dice; Vile tune Romae existimatum quidquid extra urbis pomoeria natum fuisset praeter orbos et cœlibes, nec eredi posse qua obsequiorum diversitate culti suit homines sine liberis, ut lii qui patres fuerint, tamquam in capita mendicarunt cœlibes dominarentur.

(133) Hume, Discorsi Politici, Discorso X sul numero degli abitanti presso alcune nazioni antiche.

(134) Qui non si parla che de' paesi agricoli.

(135) Si sa, che vi sono nella Cina popolazioni numerosissime, le quali abitano sulle acque de' fiumi in alcuni edifizi fatti a guisa di piccoli bastimenti.

(136) Leggasi il Saggio sulla natura del commercio del citato Hume, part. I, cap. XV; l’Ami des Hommes e molti altri scrittori economici.

(137) Vedi l’opera del conte Verri che ha per titolo: Meditazioni sull’Economia pubblica, §. XX.

(138) Atque adeo nihil largiatur princeps, dum nihil auferat; non alat, dum non occidat, nec deerunt qui filios concupiscant. Plinio nel Panegirico di Traiano.

(139) Il principio incontrastabile che ho premesso mi indurrebbe a mettere nel primo rango degli ostacoli, che si oppongono alla popolazione, tutte le cause che impediscono i progressi delle ricchezze nazionali, cioè quelle che impediscono all’agricoltura, alle arti, al commercio di prosperare, giacché tutte queste cause tendono a rendere più difficile la sussistenza. Ma siccome io debbo di queste diffusamente parlare in appresso, per non confondere l’ordine delle cose mi astengo qui di considerarle distintamente sotto questo aspetto. Mi basta di aver accennato in questa nota, che esse debbono anche essere annoverate tra il numero delle più forti cause spopolatrici.

(140) Leggasi Zeppero nell’opera che ha per titolo: Legum Mosaicarum Forensium Explanatio, lib. IV, cap. XXIII, p. 609 e 610.

(141) Solone dispensò da questa proibizione coloro che morivano senza figli. Leggasi Plutarco nella sua Vita e Pottero, Archœlogiœ Greca; lib. IV, cap. XV. Egli permise anche al padre di sostituire degli eredi a' figli nel caso che questi fossero morti prima del ventesimo anno della loro vita. Hitredes a pâtre testamenti substituli liberis, si liberi ante annum aetatis suce vicesimum decesserint, heredes sunto. Demosthenes in Stephanum Testem Orat.

(142) Omnes legitimi filii hereditatem paternam ex aequo inter se herciscunto. Issus, de Heredit. Philoctemonis.

(143) Filolao di Corinto fu quello che stabili in Atene, che il numero delle porzioni di terra e quello delle credita fosse sempre l'istesso. Leggasi Aristotile, Polit., lib. H, c. XII; Montesquieu, spirito delle leggi, lib. V, cap. V.

(144) Sororem ex parte patrie in matrimonio habere jus esto. Petit., Leg. Attic, lib. VI, tit. I, de connubiis. Sposando la sorella consanguinea non si poteva succedere che alla sola porzione del padre; ma sposando l’uterina si poteva succedere a due porzioni nel tempo istesso, a quella del padre dello sposo ed a quella del padre della sposa.

(145) Virgo dotalis extra cognationem ne enubito; sed agnato proximo nubito, et omnia sua bona in dolent adferto. Petit., ibid.

(146) Plutarco, Vita di Licurgo.

(147) Tacito, De morib. Germaniae. Agri (dic’egli) pro numero cultorum ab universis per vices occupantur, quos mox inter se secundum dignationem partiuntur: facilitatem partiendi camporum spatia proestant. Arva per annos mutant, et superest ager; nec enim cum ubertate et amplitudine soli labore contendunt, ut pomaria conserant et prata sepiant et hortos rigent, sola terrae seges imperatur. Tra gl’lrlandesi fino al secolo passato, subito che moriva un padre di famiglia, il capo della tribù divideva di nuovo tutti i beni a tutte le famiglie della medesima. Hume, Istoria inglese.

(148) Framm. delle leggi delle XII tavole in III piano, tit. ult. de fragment.

(149) Ibid., lit. 26, §. 8.

(150) Institution., lib. III, tit. I, §. 15. La figlia succedeva al padre finché essa viveva, ma dopo la sua morte i beni paterni non andavano a' suoi figli, ma a' suoi agnati. In una parola le donne, dice Montesquieu (Spirito delle leggi, lib. XXVII, cap. unico), succedevano presso i primi Romani, allorché questo non si opponeva alla legge della divisione delle terre; ed esse non succedevano, allorché la loro successione si opponeva a questa distribuzione.

(151) Ma come combinare questo spirito delle prime leggi de' Romani, che riguardavano le successioni ab intestate, colla libertà infinita data contemporaneamente da esse al padre di famiglia di testare e di scegliere qualunque cittadino per suo erede? Non erano l’istesse leggi delle XII tavole che prescrivevano: Pater familias uti legassit super pecuniae, tutelaeve suae rei, ita jus esto? Montesquieu (ibid.) riflettendo sopra questa apparente contraddizione condanna da inconseguenti i decemviri, come quelli che distruggevano con una mano quello che cercavano di sostenere coll’altra. Ma mi si permetta di far qui per un momento da giureconsulto, e di difendere questi savii legislatori da un’imputazione niente ragionevole. In un’opera di questa natura è condonabile all’autore una digressione, nella quale il corso delle sue idee quasi involontariamente lo conduce.

Vi è stata controversia tra' giureconsulti, se prima delle decemvirali tavole vi fosse stato l’uso de' testamenti in Roma. Eineccio (Dissert, de orig. testant., §. XIII), Tomasio (Dissert, de init. success. testam., §. 1 fino al §. VIII) e Trechellio (Ibid., cap. II, §. IV) credono di si; ma e il dissenso di molti altri giureconsulti e molte ragioni convincentissime, delle quali non mi è lecito qui di parlare, c’inducono a dubitarne. Non possiamo pero dubitare, che prima della promulgazione di queste tavole, o per legge o per consuetudine i Romani credevano di poter fare un’alienazione della loro proprietà che cominciasse ad aver luogo dopo della loro morte. Da ciò che si rileva da molti luoghi di Livio, di Dionigi d’Alicarnasso e di Plutarco si vede chiaramente, che frequentissime dovevano essere queste specie di alienazioni, le quali abusivamente furono da questi istorici chiamate col nome di testamenti. Queste alienazioni quantunque da' testamenti diversissime, nel dritto producevano per altro gl’istessi effetti, cioè di alterare la distribuzione delle terre. I decemviri non essendo i sovrani legislatori del popolo, ma gli autori semplicemente di quelle leggi che dovevano dai popolo essere approvate, non avrebbero sicuramente potuto indurre i Romani a spogliarsi d’un dritto ch’è cosi caro all’uomo, cioè di disporre della sua proprietà anche in quel momento nel quale conosce di non poterla più ritenere per sé, e d'indurre in certa maniera sulla società anche dopo la sua morte. Tutta la loro arte poteva dunque consistete nel rendergliene difficile l’uso, per render meno alterabile quella distribuzione delle terre, che essi regolando le successioni avevano tanto cercato di conservare. Per ottener questo fine i decemviri introdussero i testamenti. La libertà infinita, che le loro leggi davano al padre di famiglia di disporre col testamento delle sue. proprietà soddisfaceva quella naturale inclinazione dell’uomo della quale si è parlato; al contrario le solennità difficili, che dovevano accompagnare quest'atto per esser creduto valido, ne rendevano cosi difficile l’uso che rare volle il cittadino poteva valersi del dritto che la legge gli dava.

Se non si fosse dalla legge richiesta altra solennità che quella di fare il testamento innanzi all’assemblea del popolo ed alla presenza de' pontefici che dovevano approvarlo, questa sola solennità bastava per far morire ab ïnfestato più di tre quarte parti de' Romani. Io non posso qui rapportare tutte le autorità che appoggiano questi fatti; dico solo, per far conoscere quali furono le mire de' decemviri nell’introdurlo, che delle due maniere che vi erano di far testamento presso i Greci, l’una innanzi all’assemblea del popolo e l’altra innanzi ad un magistrato, essi scelsero la prima come la più difficile ad eseguirsi.

Dopo queste riflessioni io lascio al lettore il giudicare dell’armonia che vi era tra quelle leggi delle XII tavole che regolavano le successioni legittime con quelle che regolavano le testamentarie, e lascio a lui il giudicare della pretesa inconseguenza della quale l'autore dello Spirito delle leggi le accusa.

(152) Laudato ingentia rura, diceva Virgilio, exiguum colito.

(153) Leggasi Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, lib. XXV, cap. VIII, e la collezione delle nostre prammatiche sotto il titolo de Feudis, pramm. I. Si avverta, che questa prammatica non ha luogo per i feudi che sono de jure Longobardorum.

(154) Il frammento di questa legge, nel quale si stabilisce ne quis heredem virginem, neve mulierem faciat, ci vien rapportato da Cicerone (Oratio II in Verrem). Da ciò che egli ne dice e da un luogo di S. Agostino (De Civit. Dei, lib. III) apparisce, che non solo la figlia, ma anche la figlia unica era compresa in questa proibizione. Nel lib. II, tit. XXII delle Istituzioni di Giustiniano si parla di un capo di questa legge, che ristringeva la facoltà di legare. Pare che questo fosse stato un rimedio trovato dalla legge per evitare che il testatore non potesse dare ad una donna, come legataria, quello che non avrebbe potuto darle come ereditaria.

La speranza di eludere questi stabilimenti della legge Voconia introdusse i fidecommessi in Roma. Si istituiva per erede una persona che poteva esserlo per legge, e questi veniva dal testatore pregato di rimettere l’eredità ad un’altra persona che la legge aveva esclusa. Quest’era una preghiera, e non un comando che avesse vigore di legge. L’esempio di P. Sestilio Rufo ne è una prova. Leggasi Cicerone, de Finib. honor. et malor., lib. II.

(155) La Scrittura ci parla in molti luoghi, e particolarmente nel Levitico, delle prestazioni che si facevano a' Leviti.

Hyde (de Relig. Pers., cap. XIX) ci dà conto delle ricchezze de' Magi e del loro capo chiamato Baiach, che erano i sacerdoti della Persia.

Riguardo a' Greci, da ciò che ci e rimasto delle loro leggi si può facilmente vedere in qual maniera si provvedeva presso di loro alle spese del culto e a' bisogni del sacerdozio. In Atene la legge, dopo aver regolate le oblazioni de' cittadini, stabiliva che una porzione di queste fossero destinate al sostentamento de' ministri della religione. Reliquo ex sacris victimis sacerdotibus cedunto. Petit. Leg. Ait. lit. I, de Deorum cultu, sacris aedibus, festis et ludis.

Noi sappiamo che in Atene una porzione del frumento, che si raccoglieva da' pubblici campi, era destinata all’istesso fine. Questo si chiamava frumentum sacrum (Vedi Polluce, lib. VI, cap. VII). Portero (Archaelog. Graec., lib. Il, cap. IV) ci dice che il costume delle decime sacre era in alcuni casi generalmente ricevuto presso i Greci.

Riguardo finalmente a' Romani, Dionigi d’Alicarnasso (lib. II, pag. 82) ci assicura, che Romolo prima di distribuire le terre a' suoi cittadini ne avea messa da parte una porzione che doveva aver luogo di dominio dello Stato, ed un’altra pel mantenimento de' templi e de' loro ministri; e Tito Livio (lib. 1, cap. 20) ci parla de' fondi stabiliti per lo stesso oggetto da Numa.

(156) Il linguaggio della superstizione è stato sempre l’istesso in tutte le religioni, in tutti i paesi, in tutti i tempi. Basta leggere l’ottavo articolo del Sadder, che è il ristretto dell'antico libro di Zenda-Vesta, per trovare nella bocca di Zoroastro gli istessi inseguimenti de' nostri preti de' tempi dell’ignoranza. Non basta, dice l'ingordo profeta de Persiani, che le vostre buone opere superino le foglie degli alberi, le stille della pioggia. le arene del mare, le stelle del firmamento. Affinché vi sian giovevoli, e necessario che il Destur (il sacerdote) si degni di approvarle. Voi non potete ottenere un tal favore, se non pagando fedelmente a questa guida della salute la decima de' vostri beni, delle vostre terre, del vostro danaro, di quanto, in una parola, possedete. Se il Destur è soddisfatto, l’anima vostra eviterà i tormenti dell’inferno; sarete in questo mondo ricolmati d'elogi, e goderete nell'altro una eterna felicità. 1 Destur sono gli oracoli del cielo: non vi è cosa alcuna che rimanga' ad essi nascosta, ed eglino sono quelli che liberano tutti gli uomini.

(157) Chi crederebbe che l’osceno dritto del cunnatico sia stato dato insieme co’ feudi a molti vescovi, a molti abati, a molti monaci? Chi avrebbe credulo che i successori degli apostoli avrebbero avute dell’investiture e si fossero arrogato il dritto di darne? Chi avrebbe credulo che la superstizione e l’ignoranza avessero potuto fino a questo segno deturpare la più santa e la più semplice religione del mondo?

(158) Io non ardirei forse di scrivere sopra quest’oggetto se non avessi la sorte di vivere in un paese, ove il più umano de' re e con esso i più zelanti ministri cercano co’ loro sforzi vigorosi di liberare lo Stato dagli antichi flagelli, che una straniera dominazione e un'antica anarchia avevano introdotti. Questa riforma non si può fare che lentamente. Alcuni crepuscoli consolanti ci annunciano, che l’aurora de' nostri bei giorni non è molto lontana. Il moto si è già comunicato all’acque che una lunga quiete aveva putrefatte. Noi siamo in uno stato di crisi. I sintomi di questa, molto lontani dallo spaventarci, ci debbono fare sperare che i nostri mali saranno un giorno riparati. Si appartiene a noi d'implorare dalla Provvidenza, che accresca i giorni a colui che deve guarirci.

(159) Oltre le truppe di mare: leggansi gli Stati militari dell'Europa.

(160) La guardia pretoriana fu il primo corpo di truppa ozioso che si conobbe da' Romani, e questo abuso non s’introdusse che nella decadenza della repubblica e della libertà, e noi sappiamo quanto ne accelera la rovina. Il loro numero fu da principio di 9 in 10 mila. Vitellio lo porto fino a 16 mila, e sotto l’imperator Severo giunse fino a 50 mila. (Vedi Giusto Lipsio, de magnitudine Romana lib. 1, cap. IV, ed Erodiano Hist. lib. III). Augusto non lascio che Ire coorti di queste guardie nella capitale, ma Tiberio chiamò il corpo intiero presso la sua persona; passo fatale che fini di decidere della sorte dell'universo, e che sparir fece fino l’ombra della libertà (Leggasi Tacito, Annal, lib. IV, cap. Il, e Svetonio, Vita d'Augusto cap. XXVII).

Non si potevano chiamar col nome di truppa oziosa le legioni che erano nelle provincie. Si sa che queste non abitavano nelle città, che esse rimanevano sempre accampate e che erano perpetuamente in moto o per le nuove conquiste, o per conservarsi un dominio sempre contrastato e che teneva h vinto in uno stato di guerra tacito ma perpetuo.

(161) Le nazioni antiche erano più libere delle moderne, perche esse erano armate. Ogni cittadino era soldato, il rampo era la sua città, egli cingeva al suo lato il ferro che assicurava la sua libertà. Egli difendeva ordinariamente a sue spese la patria. Nei bei giorni di Roma l'uso delle armi era riserbato a quella classe di cittadini che dovevano necessariamente interessarsi per la patria, e che avevano un patrimonio da difendere. Dionigi d’Alicarnasso (lib. IV, cap. XVII) ci assicura che il più povero soldato che militava in questi tempi in Roma possedeva più di novecento lire, somma molto considerabile in un tempo nel quale il numerario era così scarso.

Nelle repubbliche della Grecia niun cittadino poteva esentarsi dalla guerra, se non colui che o dalla legge era privato di quest'onore, o ne era dispensato per qualche privilegio accordato alla sua età, o per qualche altro requisito; egli era altrimenti privato di tutti i dritti della cittadinanza (Vedi Echine in Clesiphontem e Demostene in Timocratem). Non altrimenti che i primi Romani, essi andavano a loro spese alla guerra.

I Carj furono i primi tra' Greci che militarono per mercede. Questo li rese cosi disprezzevoli in que’ tempi di libertà e di eroismo, che nell'antica lingua de' Greci Karos e Mancipia erano sinonimi. Pericle fu il primo presso gli Ateniesi che introdusse il costume di pagare il soldato durante la guerra. Leggasi Pottero, Archeologia Graeca lib. XIV, cap. XIV.

(162) Robertson, Istoria di Carlo I, tom. I. Introduzione.

(163) Erodiano nella Vita di Marco Antonino. Salustio dice: Non exercitus, neque thesauri regni praesidia sunt, verum amici, quos neque armis cogere, neque auro parari queat: officio et fide parantur.

(164) Qui sceptra duro saevus imperio régit, lime! limantes: metus in auctorem redit. Seneca.

(165) In Svezia, ove ciaschedun soldato è agricoltore, ove egli vive a spese di quel campo che il governo gli dà per alimentarsi, che si chiama Bostell; in Svezia, io dico, il soldato non è meno agguerrito, ma è più robusto e più alto a soffrire i disagi della guerra. Toltone dieci reggimenti stranieri che vi sono, il resto della truppa di Svezia che ascende a ottantaquattro mila uomini è a questo modo mantenuta. Lo Stato ne ha doppiamente profittato, perché questo corpo nel tempo istesso che rende rispettabile questa potenza, ha coltivato un'estensione immensa di terreni che fino all’epoca di questa savia istituzione erano rimasti incolti.

Probo è rimasto celebre nella storia di Roma per aver conservata la disciplina delle truppe a lui affidate colle agrarie occupazioni. Egli esercitò le sue legioni nel coprire di vigne le ubertose colline della Gallia e della Pannonia. Egli ridusse a coltura molti terreni sterili, asciugò molte lagune e le ridusse a ricchi pascoli. Vedi Aurel. Vittore in Probo.

Probo non fu il solo tra' Romani a conoscere i vantaggi di questo sistema. Le mani vittoriose dei soldati di Roma spesso si occuparono ne’ lavori pubblici in quei paesi che il loro valore aveva occupati.

É un avanzo dell’antico spirito de' nostri barbari padri il credere, che l’uom di guerra debba o combattere o stare in ozio.

(166) La conquista delle Gallie costò dieci anni di fatiche, di vittorie, di negoziazioni a Cesare, e non costò per cosi dire che un giorno a Clodoveo alla testa di pochi Francesi. Clodoveo all’età di 15 o 16 anni era forse più bravo generale di Cesare? I Franchi erano forse più valorosi de' Romani? No; la differenza fu che Cesare dovette combattere contro popoli che erano stati sempre liberi e felici, e Clodoveo trovò le Gallie oppresse e soggiogate da più di cinque secoli.

(167) Leggansi i calcoli del sig. Sussmitch. Egli dice che in Olanda si fa il conto che sopra le persone vi è un matrimonio, nel mentre che in Svezia se ne fa uno supra 126. Nella Marca di Brandeburgo e in Finlandia uno sopra 108. A Berlino uno sopra 110. In Inghilterra uno sopra 98, 115, 118.

(168) Leggasi Zeppero nell’opera che ha per titolo Legum Mosaicarum Forensium explanatio lib. IV, cap. XVIII.

(169) Svetonio in Caes., cap. XXIV, XLV, LIV. Cic. ad Attic., lib. XIV, Epis. XII.

(170) La situazione dell'Olanda potrebbe essere una prova di questa verità. Questa nazione che può senza dubbio dirsi la più ricca dell’Europa, che ha un piccolissimo ed infelice territorio ed un gran popolo, che da tutt’altro riconosce la sua grandezza fuorché dall'agricoltura, è essa sicura di conserva per lungo tempo la sua prosperità? a quali pericoli non è essa esposta? quante insidie si possono tramare alla sua fortuna? Il suo commercio, frutto di una grande economia e di una grande industria, è sempre esposto ad alcuni colpi che non può né prevenire né curare. L'Inghilterra gliene diede già uno mortale col suo alto di navigazione e co’ suoi trattati colla Russia e col Portogallo; essa avrebbe potuto farle perdere anche quello di Cadice. Per la facilità che gl’Inglesi avevano acquistata di dare quelle estensione che volevano al loro commercio clandestino fra la Giammaica e le colonie Spagnuole. Le città Anseatiche s’hanno già appropriata una porzione del suo commercio di cabotaggio e del suo commercio di viro e di commissions. Per privarla de' vantaggi che le dà il commercio sulle sponde del Reno, il re di Prussia non dovrebbe forse far altro che stabilire una fattoria a Wesel. Il commercio, che si fa oggi da' Danesi, non si fa che a spese di quello degli Olandesi. I beneficii della loro agricoltura, cioè a dire della loro pesca delle aringhe e delle balene, sono (come si sa) diminuiti all’infinito. Essi non fanno più il commercio di assicurazione, che una volta facevano per una gran porzione dell’Europa e dal quale raccoglievano vantaggi considerabilissimi. Finalmente basta osservare il corso presenta delle cose nell’Europa, per prevedere che ciaschedun popolo avrà presto o tardi una navigazione relativa alla natura del suo paese ed all'accrescimento della sua industria, e le Provincie Unite vedranno in ogni giorno indebolirsi sempre più il loro commercio a misura che le altre nazioni distenderanuo il loro.

Ecco quale è la sorte di un popolo, che riconosce la sua prosperità da tutt’altro fuorché dall’agricoltura. Nell’osservare gli sforzi vigorosi, che oggi fanno tutte le nazioni per liberarsi dall’industria straniera, io ardisco di presagire che non passera un mezzo secolo che le sole nazioni ricche nell’Europa saranno le più agricole e le più abbondanti de' prodotti del suolo.

(171) Verri, Meditazioni sull’economia politica, § VIII.

(172) Io non m’impegno qui a dimostrar l’incoerenza del sistema proposto da Melon, di regolare l’estrazione col prezzo del genere. Questo erroneo sistema è stato confutato fino ad evidenza da un mio concittadino, in un’opera che fa onore alla patria dove è nato. Questa è scritta in francese, ed ha per titolo: Dialogues sur le commerce des grains. Io avrei potuto in questo capo profittare de' lumi di questo grand’uomo, se prima di cominciarlo non avessi giurato di chiuder tutti i libri che son comparsi sopra questo soggetto e di pensare assolutamente da me. Non voglio però negare a questo scrittore il tributo dell’ammirazione. lo debbo confessare che i suoi Dialoghi mi han sorpreso. Non è possibile di scrivere in una materia cosi sterile con tanta eleganza, con tanto brio, con tanta amenità. Era riserbato al celebre Galiani il portare ne’ magazzini de' grani quelle grazie, che Fontenelle aveva con maggior facilita condotte nelle tombe de' morti.

(173) Questi sono i veri flagelli del cielo, i meno sensibili, ma i più forti e per nostra disgrazia i più frequenti.

(174) Dal tempo della sementa fino al tempo della raccolta.

(175) L’autore della Storia filosofica e politica degli stabilimenti degli Europei nelle due Indie.

(176) Non bisogna confondere la legge di Pertinace con quella di Valentiniano, di Teodosio e di Arcadio, la quale mette il primo occupante in possesso delle terre abbandonate, purché per lo spazio di due anni non apparisca il vero padrone. Questa non distrugge la proprietà, perche chi abbandona quello che è suo e vede con indifferenza impadronirsene un altro, mostra un tacito consenso che la legge interpreta in favore del novello possessore.

(177) In alcuni paesi dell’Europa il proprietario di un fondo non può venderlo senza il permesso del Governo, né può godere de' suoi frutti se non dimora nel distretto del paese ove le sue terre sono situate. Ecco una di quelle leggi che vanno direttamente al loro scopo, e che per giovare all’agricoltura divengono un ostacolo fortissimo a' suoi progressi. Questa legge ha prodotto un tale abborrimento per il possesso delle terre in questi paesi, che non vi è chi voglia comprarle e per conseguenza farle valere. L’agricoltura languisce sotto i vincoli, che una legge inetta e perniciosa ha stabilili coll’idea di proteggerla. Bisogna persuadersi che ogni diminuzione, ogni scossa che si reca a' preziosi dritti della proprietà, è il maggior ostacolo che si possa opporre all’industria degli uomini; ogni estensione che si dà a questi dritti è il più gran beneficio che le leggi possano recarle.

(178) Presso di noi per esempio e presso alcune altre nazioni la devoluzione de' feudi al fisco nel difetto di eredi laterali in quarto grado, la proibizione di alienare i fondi feudali, e l’estinzione di tutti i censi allorché il feudo si devolve, sono tante altre sorgenti feconde di ostacoli a' progressi dell’agricoltura tutte derivate dai sistema feudale; lo non ne parlo qui perché mi trovo di averne già detto qualche cosa nel capo IV, dove si sono esaminati gli ostacoli che le leggi che impediscono la circolazione de' fondi feudali oppongono alla moltiplicazione dei proprietari.

(179) Le decime degli ecclesiastici sono anche un altro forte ostacolo, che le leggi oppongono a' progressi dell’agricoltura in quasi tutta l’Europa. Niente di più facile che la commutazione di questa sorgente di sussistenza del sacerdozio... Se n’è già dato un saggio negli antecedenti capi.

In Inghilterra si pagano ancora le decime alla chiesa, ma i preti si sono convenuti per una certa prestazione fissa che non è dipendente dall’esito della raccolta. Ne’ paesi ne’ quali non si e fatta questa convenzione, ne’ paesi ne’ quali la decima varia siccome variano le raccolte, l’agricoltura a relazione del dottor Young è restata molto indietro. Leggasi Young, Aritmetica politica, parte 1°.

(180) Cod. Theod., lib. II, tit. XX, leg. 1.

(181) Cod. Theod., lib. VIII, tit. V, leg. 1.

(182) Leg. 8. Cod. quae res pignori obligari possit, e le sopra citate leggi del Codice Teodosiano.

(183) Arrigo III, Carlo IX, Arrigo IV, Luigi XIII e Luigi XIV in Francia, e presso di noi le prammatiche e le costituzioni del regno hanno confermale queste savie determinazioni, ma ardisco di dire, inutilmente, La prepotenza ha ritrovata la maniera di eluderle, e i clamori universali della filosofia ce lo attestano.

(184) Ilyde, de religione Persarum, cap. XIX.

(185) Veggasi la Relazione de' viaggi fatti per gli stabilimenti nelle Indie Orientali.

(186) Sono celebri nella storia di Roma i Pisoni, i Lentuli, i Ciceroni e molti altri simili cognomi.

(187) Omnium rerum, dire Cicerone, ex quibus aliquid exquiritur, nihil est agricultura melius, nihil uberius, nihil dulcius, nihil homine libero dignius.

(188) Sully e Colbert.

(189) Parlando io qui di diminuzione di consumazione non si deve. riferire alla diminuzione della popolazione, i progressi della quale sono troppo desiderabili, cosi ne' paesi sterili come ne’ fertili.

(190) Duas artes ne exrceto. Demost. in Timocratem.

(191) In Atene la legge destinava una distinzione onorevole all’artefice, che aveva fatti più progressi degli altri nel suo mestiero. Peritior in sua arte publice in Prytaneo epulator, primamque sedem occupato. Vedi Petito, Leggi Attiche, lib. V, tit. VI, de Artibus.

(192) L'autore della Storia filosofica e politica degli stabilimenti degli Europei nelle due Indie, tom. VIII, lib. XIX, cap. II.

(193) Nelle piramidi la perpendicolare che si tira dal vertice va perfettamente nel punto di mezzo della base, ciò che ne fa la forma più stabile che si posa dare ad un edilizio.

(194) Eratostene e Aristobulo, per quel che ne dice Strabone lib. IX, rapportavano un’autorità di Patrocle, il quale asseriva che le mercanzie dell’Indie passavano dall’Oxo nel mare del Ponto; e Marco Varrone, come si può vedere in Plinio, lib. VI, cap. XVII, dice che nel tempo di Pompeo nella guerra contro Mitridate si seppe che si andava in sette giorni dall’lndie nel paese de' Battriani e nel fiume Icaro che va a gittarsi nell’Oxo; che di là le mercanzie dell’Indie attraversavano il mar Caspio ed entravano nell’imboccatura del Ciro; e che finalmente non bisognava fare che un cammino di cinque giorni per andare nel Fasi, il quale conduceva al Ponto Eusino. Non vi è dubbio che tutte le nazioni, che abitavano questo spazio, dovevano esser commercianti. Leggasi anche Strabone, lib. XI, su quel ch’egli ci dice del tragitto delle mercanzie dai Fasi al Ciro.

(195) Sono troppo note le colonie fondate da' Fenicj pel commercio. Essi ne ebbero nel mar Rosso e nel golfo Persico. Essi ne ebbero in molte isole della Grecia; suite coste dell’Africa e della Spagna. Essi penetrarono nell'Oceano e giunsero fino alle isole Cassiteridi, cioè alla Gran Bretagna, e a Tusa che si crede esser l’Irlanda. Non mancava loro che la bussola per divenire gli Olandesi dell'antichità.

(196) Omero, secondo la osservazione di Strabone lib. XVI, pag. 1097, non parla se non di Sidone, e fa vedere chiaramente che il maggior commercio,era dapprincipio nelle mani de' suoi abitanti.

(197) Qui si parla de' paesi sterili, che sono bagnali dal mare. Si parlerà quindi de' mediterranei.

(198) Se la Russia, per esempio, volesse preferire al commercio delle sue derrate un commercio puramente di traffico simile a quello degli Olandesi, fra' popoli che abitano questa immensa regione, non vi sarebbero se non quelli che sono i più vicini al celebre porto di Cronstat che conoscerebbero l’oro e l’argento. Tutti gli altri sarebbero condannali a vivere di permute, come non è gran tempo che i loro padri vivevano. Questo commercio di traffico giova all'Olanda, perché le vene che trasportano il danaro nell’interno delle Provincie Unità sono cosi brevi, che la circolazione vi si fa con una celerità infinita. Ma fate che il territorio dell'Olanda divenga cosi esteso come quello della Francia e della Spagna, e voi vedrete subito questa circolazione ritardata, voi la vedrete dopo poco tempo interrotta; ed un arresto fatale cagionerà ben presto una convulsione, alla quale questo corpo politico dovrà necessariamente soccombere.

(199) Io non m’impegno a dimostrare questa verità, perche coloro che hanno consecutivamente letta quest’opera, la considereranno come tanti risultati de' principii antecedentemente sviluppati.

(200) L'imposizione sulle cose venali venne stabilita da Augusto dopo le guerre civili. Questo dritto rare volte passo l’uno per cento, ma comprendeva tutto ciò che compravasi ne’ mercati e nelle pubbliche vendile, ed estendevasi agli acquisti più considerabili in terre o in case lino ai più piccoli oggetti che costituivano la giornaliera consumazione. Tacito ci dice che Tiberio per placare il popolo, che riclamava contro questo dritto, fu costretto a pubblicare in un editto che il sostentamento degli eserciti in gran parte dipendeva da questa contribuzione. Tacit. Ann., lib. I, cap. LXXVIII.

(201) Questa ascendeva al cinque per cento sul valore del legato o dell'eredità, purché questa ascendesse a 50 o 100 pezzi d’oro. Dione, lib. LV, cap. LVI.

(202) A questa contribuzione erano soggette non solo le mercanzie straniere, ma anche quelle delle provincie dell'impero; non solo quelle che riguardavano il lusso, ma anche quelle che riguardavano i bisogni della vita. La differenza era nella quantità della tassa, la quale era maggiore in quelle di lusso ed in quelle che venivano dagli stranieri. Vedi Plinio, Hist. natur,, lib. VI, cap. XXIII, e lib, XXII, cap. XVIII.

(203) Si crede comunemente, che i dazii imposti sull'estrazione delle mercanzie nazionali sieno un male, ma che quegli imposti sulla immissione delle straniere sieno un bene per lo Stato. Io confuterò quest'opinione, allorché parlerò della teoria dei dazii; mi contento solo di rapportare qui anticipatamente alcuni fatti e alcune riflessioni, che gli effetti di questo erroneo sistema ha prodotti nel commercio della Gran Bretagna mi somministrano.

Il governo Britannico, che ha sempre cercato di favorire l’estrazione delle mercanzie nazionali, ha esorbitantemente caricalo di dazii l'immissione delle straniere. qual è stato l'effetto di questo erroneo sistema? 1. La moltiplicità de' contrabbandi, che le pene le più severe non possono impedire allorché sono uniti ad un gran benefizio. II. La diminuzione del suo commercio di economia. Quantunque vi sia una legge in Inghilterra che ordini la restituzione de' dritti nella nuova esportazione, questo rimedio non compensa il danno che cagionano al suo commercio di economia i dazii che si pagano nell’immissione. Questo è evidente. Il negoziante, che compra le mercanzie di America o quelle dell’Indie Orientali per estrarle di nuovo, è obbligato a sborsare due capitali, l’uno pel prezzo della mercanzia, l’altro pei dritti di dogana.

Sul secondo capitale, che in molti articoli è il doppio del primo per la esorbitanza de' dritti nell’immisione, egli perde dapprincipio una parte del dritto che paga, il quale va in benefizio degli ufficiali della dogana. e quota parte non gli è restituita nella nuova esportazione, egli perde nell’istesso tempo l’interesse di questo capitale, durante tutto il tempo ch'egli impiega a fabbricare o a prepararsi il suo caricamento. Questa doppia perdita lo obbliga ad incarire il prezzo delle mio mercanzie, incarimento che ne fa in ogni giorno diminuire lo smaltimento ne’ mercati esteri. III. Un altro effetto funesto pel commercio della Gran Bretagna ha avuto origine dallo stesso principio. Per una nazione commerciante ogni accrescimento nelle spese del trasporto è una perdita reale per lo Stato. Or le spese del trasporto non potrebbero essere indipendenti dalle spese della costruzione. Questa costruzione è quella, che i dritti di dogana hanno incarita all'infinito in Inghilterra. Questi stessi dritti impedivano agli Inglesi di manufatturare, o sia di ridurre in polvere il loro tabacco di Virginia. Questo tabacco, che si vendeva agli stranieri per denari 2 ½ sterlini la libbra, per l’eccesso de' dritti di dogana nell’immissione si pagava nell’interno dello Stato denari 8 1/8 la libbra. Il vantaggio, che aveva lo straniero sul nazionale nel manifatturario, è di 35 per 100. queste non sono congetture, sono fatti incontrastabili, che dovrebbero disingannare coloro che governano da' volgari pregiudizii pur troppo funesti alle nazioni.

(204) Si sa con quanta gelosia facevano i Cartaginesi il loro commercio. Noi sappiamo che Annone, nella negoziazione che fece co’ Romani, dichiarò che i Cartaginesi non avrebbero sofferto ch'essi si fossero soltanto lavate le mani ne’ mari di Sicilia, e fu loro proibito di navigare al di là del promontorio Bello. Fu loro anche proibito di trafficare in Sicilia e in Sardegna ed in Africa, almeno nella porzione soggetta a' Cartaginesi. Leggasi Polibio, lib. III, e Giustino, lib. XLIII, cap. V. Per quel che riguarda i Romani, la loro politica distruttiva e il loro patriottismo esclusivo è troppo noto. Mi contento solo di ricordare qui una legge di Graziano, Valentiniano e Teodosio, nella quale non solo era proibito di portar dell’oro a quei popoli ch’essi chiamavano barbari, ma si ordinava anche di usar tutt'i mezzi per toglier loro con destrezza quella porzione che ne avevano. Leg. II, Cod. de commerc. et mercator.

(205) Io non parlo qui della presente guerra, nella quale le operazioni dell'Olanda non sono state dirette né dalla gelosia, né dall'ambizione, ma dalla forza e dal timore.

(206) E giusto che o prevenga qui un'obbiezione che mi s potrebbe fare. Vi si dir: liberandosi il Portogallo e la Russia dal monopolio degli Inglesi, come pare che non arderanno molto queste due nazioni a riusirvi, esse recherebbero, vero, un gran vantaggio a loro stesso ed al commercio universale delEuropa; ma l'Inghilterra non perderebbe forse molto in questo caso. Gli interess dunque di questa nazione non sono in questo caso uniti agli interessi delle altre nazioni europeo. Non sembra questa un'eccezione lla regola: io confesso che l'Inghilterra, subito che dovesse fare in concorrenza delle altre nazioni il commercio della Russia e del Portogallo, non ne profitterebbe pi come prima: ma questa perdita non sarebbe forse dopo qual che tempo compensata dal maggior maltimento delle sue mercanzie pi ricercate, subito che l'opulenza universale derivata dlla libert universale del commercio, moltiplicando i bisogni in ragion de' mezzi per soddisfarli, ne moltiplicherebbe le richieste? Pi: se l'Inghilterra non si fosse volontariamente impegnata nelle guerre che le han costato tanto sangue e tanto danaro, la bilancia troppo vantaggiosa del suo commercio l'avrebbe trasportata a quell'eccesso di opulenza che diventa quindi miseria, come lo dimostreremo a suo luogo. Senza questi violentissimi scoli, la perdita di qualche vantaggio non solo non sarebbe stata funesta ma vantaggiosa a questa nazione. Non sarebbero dunque i veri e permanenti interessi della Gran Bretagna, ma la sua soverchia ambizione sarebbe quella che potrebbe renderle sensibili queste perdite.

(207) Io preveggo che leggendosi questo articolo su gl’interessi della Francia, mi si farà un’altra obbiezione. Si dirà, che l’interesse di questa nazione è di fomentare e proteggere la pirateria delle repubbliche piratiche dei Mediterraneo. Sotto questi auspicii funesti essa fa un gran commercio di traffico in questo mare. Ma non è sicuramente questo, mi si dira, l’interesse delle altre nazioni.

Non vi è dubbio, io rispondo, che l’interesse delle altre nazioni sarebbe che il loro commercio non fosse esposto a' pericoli che sovrastano alla navigazione di un mare coperto di pirati. L’ostacolo che questo timore reca al loro commercio è troppo sensibile, e la mia patria ne ha delle prove troppo convincenti. Ma qual è il vantaggio che raccoglie la Francia da questo spavento universale? L’avere una preferenza di trasporto e di traffico in questo mare. Ma questo commercio di traffico, di trasporto, di economia, è forse quello che conviene a questa nazione? Secondo i principii da me sviluppali negli antecedenti capi questa nazione non dovrebbe forse rinunciare a questo commercio, che è contrario alla natura dcl suo governo, alla fertilità dei suo terreno, alla sua estensione?

Il commercio di proprietà, che è quello che conviene alla Francia, ha forse bisogno di questo stromento distruttivo per prosperare? Questo diverrebbe al contrario più profittevole a misura che quello dell’altre nazioni diverrebbe più libero. L’evidenza di questa verità mi dispensa dal dimostrarla. Non è dunque d’interesse della Francia il fomentare la pirateria dei Mediterraneo, e questo tratto di una politica distruttiva discrediterebbe in eterno il nome di questa nazione senza recarle alcun vantaggio reale.

(208) Queste formano un oggetto interessantissime del commercio degli Svezzesi.

(209) Tom. II, lib. IV.

(210) Nel 1756.

(211) lo mi astengo dai rapportarle perché sono troppo note.

(212) Gellio (Noct. Attic., lib. VI, cap. XIII) ci dice, che sotto l'imperatore Adriano le città di Utica in Africa, e d’Italica e di Cadice in Spagna, che godevano de' privilegi di città municipali, cercarono all'imperatore ed ottennero il titolo di colonie. Il loro esempio venne ben presto seguito da altre città municipali. Questo ci sembrerà altrettanto più strano quando si rifletterà che le prerogative della cittadinanza Romana, accordate agli abitanti delle città municipali, erano più estese di quelle accordate a' cittadini delle colonie. Questi non avevano il dritto del suffragio accordato ai primi, né avevano quello di poter ambire od esercitare le dignità della repubblica, come ha dimostrato Sigonio (de antiq. jure Ital., lib. II, cap. III). Bisogna dunque supporre che la prosperità e lo splendore di queste colonie fosse così considerabile, che meritasse un sacrifizio tanto significante.

(213) Si sa, che un’imposizione sul the è stata questa scintilla.

(214) Questa è la pena che dalla maggior parte delle nazioni europee si è assegnato al fallimento fraudolento.

(215) Quantunque io mi dichiarerò in appresso contro le leggi suntuarie in generale, debbo confessarne i vantaggi per questa classe di cittadini. Ecco un’eccezione che non distrugge la regola.

(216) Lege consistere ac suam vim retinere, non natura, si quidam ipse princeps, ipsa respublica, ipsa lex nummum constituit, quasi a nomo, a qua pretium et valorem certum accipit. Arist. Ethic., lib. V, cap. V.

(217) Electa materia est, dice Paolo, cujus publica ac perpétua aestimatio difficultatibus permutationum aequalitate quantitatis subveniret, eaque materia forma publica percussa usum dominiumque non tam ex substantia praebet quam ex quantitate. Leg. 1, ff. de contrahend. empl. Si osservi che per quantità s'intendeva il valor legale, e non l'intrinseco del metallo. Per assicurarsene leggansi Perizonio de aere gravi, ed Eineccio nella Dissertazione de reductione monetae ad justum pretium. Si osservi anche, che la media giurisprudenza corresse questo errore dell'antica. L. 1, Cod. de vet. numismat. potestate.

(218) Leggasi Xiphlin. in Vita Caracal.

(219) Salmas. de usuris, cap. XI e XVI.

(220)istesso motivo, che mi fa scorrere rapidamente sopra questi oggetti, minduce ad accennare appena in questa nota i vantaggi che recherebbero al commercio interno di uno Stato l’uniformità de' pesi e delle misure. Gli antichi meno commercianti di noi non avevano trascurato quest’oggetto. La Greca e la Romana polizia non soffrì che fra i cittadini di un istesso paese vi fossero diversi pesi e diverse misure. Carlo Magno non per altro oggetto introdusse nel suo vasto impero l’uso de' pesi e delle misure romane. E noi che non parliamo, non pensiamo ad altro che a' vantaggi dei commercio, abbiamo trascurata questa uniformità.

Niente di più facile che di stabilirla, d’introdurla. Per rendere questa misura invariabile, facile a verificarsi e a ritrovarsi in tutti i tempi, non si dovrebbe far altro che regolarla sopra la lunghezza di un pendolo semplice, che battesse i secondi sopra un parallelo determinato dei globo. Con questo mezzo la misura si potrebbe rendere universale per tutti i paesi dell’universo. La riforma de' pesi seguirebbe subito quella delle misure, dalle quali dipende. Le tariffe di riduzione esatte e chiare toglierebbero subito l’intrigo per la riduzione de' prezzi e delle imposizioni.

In Inghilterra, appena che il celebre Huygens applicò il pendolo agli orologi, la Società reale di Londra propose di impiegare questa misura universale. Quest’oggetto non isfuggi dagli occhi di M. Monton astronomo di Lione, di M. Bouguer e di M. de la Condamine. Leggansi le loro opere, e leggasi la Memoria di M. Beniamino Carard, ch’è unita a quella di M. Bertrand sulle leggi agrarie ecc.

(221) Pare che oggi queste verità si cominciano a conoscere da' governi. Pare che essi si siano finalmente determinati a spendere sul mare quei tesori che hanno finora cosi inutilmente profusi sulla terra. La mia patria non sarà l'ultima a sperimentarne i vantaggi.

(222) Diodoro (lib. 1, num. 75 e seg.) ci dire che il territorio dell'Egitto era diviso in tre parti, una pel re, una pel sacerdozio e l’altra pel resto del popolo. Da quel che comparisce dal racconto di Strabone (lib. XVII), si crede che a' tempi di Giuseppe questa distribuzione fosse stata alterata, che il re non fosse più proprietario di una porzione del territorio, ma che riscuotesse un tributo su’ prodotti dell’agricoltura e delle arti. Quel che avvenne nell’Egitto è avvenuto presse la maggior parte delle nazioni. I re han cominciato dall’esser proprietari come i loro sudditi, e quindi hanno abbandonati i fondi ed hanno esatti i tributi. L'istoria di Roma e quella delle moderne monarchie nell'origine, nel progresso e nella decadenza del sistema feudale ce ne offrono la prova.

(223) Lattanzio de mort, persecut., cap. XXIII e XXI.

(224) Vedi Raynal, Istoria filosofica e politica ecc., lib. XIX, cap. XLIII.

(225) Non si deve peraltro numerare tra queste l’ultima guerra delle colonie.

(226) Il governo di Roma conobbe l’ingiustizia di questa ripartizione. Ed infatti allorché mediante una prestazione egli restituiva agli antichi proprietari delle nazioni soggiogate i loro fondi confiscati, egli regolava questa prestazione colla maggiore o minore fertilità de' terreni. Livio (lib. XLIII, cap. II) ci assicura, che una porzione della Spagna pagava la decima ed un’altra la ventesima de' prodotti dcl suolo; e Igino ci dice, che alle volte questa prestazione giungeva alla settima e qualche volta fino alla quinta. Leggasi Igino de const. limit., pag. 195, edizione di Goesio.

(227) Vedi Verri nella sua ragionatissima opera di già citata, §. XX.

(228) Noi faremo vedere da qui a poco come si potrebbe ogni spesa di esazione risparmiare, affidandosi questa al popolo istesso, o per meglio dire a' suoi rappresentanti.

(229) Leggansi le Memorie per servire all’istoria generale delle finanze di M. Deon de Beaumont.

(230) È inutile rammentare quali sono questi ostacoli. Noi ne abbiamo diffusamente parlato. Voglio soltanto qui ricordare, che prima di stabilirsi questa tassa sulle terre, ogni altra contribuzione territoriale, come le decime agli ecclesiastici e le decime ai baroni, dovrebbe essere abolita. Per le prime si è già accentata in vari luoghi di quest’opera quale sarebbe la strada elle si dovrebbe tenere per abolirle, senza privare il sacerdozio de' mezzi onde raccorre la sua sussistenza. Riguardo alle seconde, cioè alle decime baronali, ne’ feudi sottoposti a questo peso la vendita de' demanii potrebbe somministrare al governo il mezzo per compensare il barone della perdita delle decime.

(231) Questo era il nome degli affittatori de' tributi.

(232) Egli fece quattro stabilimenti. Il primo di questi prescriveva che le leggi fatte contro i pubblicani, tenute nascoste lino a quel tempo, si pubblicassero; il seconde, che essi non potessero esigere quello che avevano trascurato di ripetere nel corso dell’anno; il terzo, che vi fosse un pretore destinato a giudicare le loro pretensioni senza formalità; il quarto, che i mercanti non dovessero pagare alcun dazio per le navi. Leggasi Tacito negli Annali, lib. XIII, e Burman, de vectig., cap. V.

(233) Appiano, che aveva visitati gli archivi e che era nato in Alessandria, li fa ascendere fino a 740,000 talenti.

(234) Livio (lib. XLV, cap. XL), ci parla de' tesori, che si erano ammucchiati in Macedonia sotto il regno di Filippo e sotto quello di Perseo. Vellejo Putercolo (lib. I, cap. IX; ci dice che Paolo Emilie, il quale non trovò che una porzione di questi tesori, portò in Roma una somma equivalente a nove milioni di ducati; e Plinio (lib. XXIII, cap. III) fa ascendere quasi al doppio questa somma.

(235) Plutarco nella Vita di Alessandro dice, che allorché questo principe conquistò le duc città di Suez e d’Echatana vi trovò ottantamila talenti serbali per i pubblici bisogni, ed una porzione di questi vi era depositata fin da' tempi di Ciro. Quinto Curzio (lib. V, cap. Il) fa ascendere la porzione sola trovata in Suez a più di cinquantamila talenti.

(236) Plat, in Alcibiade.

(237) Tucidide (lib. Il) e Diodoro Siculo (lib. XII) ci dicono, che gli Ateniesi avevano riuniti, fra lo spazio di 50 anni tra la guerra di Media e quella del Peloponneso, più di diecimila talenti, che si custodivano nel pubblico tesoro.

(238) Strab. lib. VI.

(239) Il tempio di Saturno era il serbatoio di questi tesori, de' quali ce ne fa una brillante descrizione Lucano lib. III, vers. 155. Noi sappiamo quali furono le somme immense, delle quali s'impadronì Cesare nella guerra civile, e quelle in appresso serbate da Augusto, da Tiberio, da Vespasiano e da Severo per gli straordinarii bisogni dello Stato.

(240) Si sa che il sistema di contrarre un debito nazionale non cominciò in Spagna che nell’anno 1608, e questa è stata una delle potentissime cause della rovina di questa nazione.

(241)Cum canerem reges et prœlia, Cvnthius aurem

Pellit et admonuit: Pastorem, Tityre, pingues

Pascere oportet oves

(242)BIBLIOTECA DELL'ECONOMISTA

Ho detto che l’è costata la ribellione delle sue colonie, perché non per altro motivo, come tutti sanno, il governo cercò di moltiplicare le loro contribuzioni, se non per l'impossibilità nella quale era la metropoli di provvedere a' bisogni dello Stato, dovendo pagare 111,577,490 lire d’interesse per i debiti della nazione. llo detto anche che questo debito obbligherà il governo a dichiararsi fallito, giacché la nazione non può reggere al peso delle contribuzioni, alle quali l’esorbitanza degl’interessi che si pagano per questo debito la condanna. L’Inghilterra dunque o deve liberarsi da' suoi debiti, o deve soccombere sotto il loro peso. Infiniti progetti si sono proposti per riuscire in questa salutare intrapresa; ma finora questi non han fatto altro, che palesare lo zelo di coloro che gli hanno proferiti.

La cassa di mortizzazione, oltreché è un rimedio lento per un male cosi violento, è stata sospesa e lo sarà sempre, perche i bisogni dello Stato non gli permettono questo sacrificio. Il progetto di fare una ripartizione del capitale del debito fra tutti i sudditi, in maniera che ciascheduno contribuisce una somma proporzionata alle sue facoltà per estinguere cosi tutto ad un tratto i debiti pubblici, mostra da se stesso l'impossibilità d’eseguirlo. Come indagare le facoltà di ciaschedun cittadino? Come indagare lo stato delle fortune di tutti i negozianti, di tutti gli artieri, di tutti quei cittadini che vivono col commercio o coll’industria? Come finalmente obbligare l’artiere a sborsare tutti insieme una somma, della quale a stento può pagarne l’annualità? Il progetto di penetrare nell’interno dell’Africa per la strada del Senegal e di fare la conquista delle miniere di Bambuck, di questo paese che si chiama il regno dell’oro e che sarebbe forse chiamato il regno del sangue se gli Europei vi penetrassero, questo progetto, io dico, oltre che costerebbe all’Inghilterra molto per le spese che richiederebbe l’erezione d'infiniti forti che sarebbe obbligata a costruire sulla strada di passo in passo per garantirai dalle incursioni de' Mandingos e de' Sarakoles, i quali turberebbero sempre i novelli intraprenditori di un commercio del quale essi hanno sempre avuta l'esclusiva; oltre che costerebbe alla Gran Bretagna molti uomini, ricchezza, della quale infelicemente questa nazione è molto scarsa; oltre che potrebbe essere attraversato dalla nazione rivale, che sarebbe alla portata d’impedirgliene l’intrapresa, o almeno di dividerne i vantaggi senza contribuirne alle spese; oltre tutti questi ostacoli, che sarebbe molto difficile di superare, chi assicurerebbe l'Inghilterra di trovare dopo tante spese quei tesori che ne sarebbero l’oggetto? Le relazioni di pochi viaggiatori, tra i quali non vi è che un solo che sia conosciuto, chiamato Compagnon, fattore della compagnia Francese dell’Indie Orientali; le relazioni, dico, di pochi viaggiatori spesso false, quasi sempre esagerate, potrebbero forse bastare per indurre il governo Britannico ad una simile intrapresa? Le spese dovrebbero precedere la sicurezza dell’esito, giacché non è permesso ad alcun Europeo di penetrare in queste regioni, gli abitanti delle quali conoscono bastantemente i loro interessi e la nostra avidità per chiudercene l’ingresso. La Gran Bretagna dunque si esporrebbe al pericolo d’accelerare la sua rovina con quel mezzo istesso col quale cercherebbe di prevenirla. I mali di questa nazione saranno dunque incapaci di rimedio? No: l’Inghilterra avrebbe una strada da tentare senza pericolo, una strada che l’esperienza e l’indole de' suoi cittadini le addita. Questa sarebbe una sottoscrizione libera e volontaria, che dovrebbe rimaner aperta fino all’estinzione totale de' suoi debiti. L’entusiasmo, la generosità e le ricchezze private de' suoi cittadini non tradirebbero le sue speranze. La legislazione non dovrebbe far altro che impiegare quest’istromenti per conoscerne la forza.

(243) Il popolo non s’inasprisce, allorché vede il bisogno che vi è del suo soccorso. Durante la celebre lega di Cambrai la repubblica di Venezia non lu obbligata a ricorrere a' prestiti, quantunque avesse dovuto resistere a tante potenze riunite. Tutti i suoi cittadini si sottoposero di buon animo ad una tassa proporzionata alle loro facoltà. L'Olanda non ebbe neppure bisogno di ricorrere a' debiti nazionali per mettere in piedi un’armata nel 1672; tutti i suoi cittadini contribuirono senza inasprirsi a quelle spese, finché ne conobbero il bisogno. Finalmente quando in Siracusa le donne diedero i loro capelli per fare le corde destinate a lanciare i dardi della morte sull’inimico; quando in Roma il bel sesso si spogliò de' suoi ornamenti e sacrifica i suoi gioielli per contribuire alla difesa della patria minacciata da un vincitore insuperbito, questi doni erano dettati dal cuore e non estorti dal governo; essi non ave. vano altro sprone che il bisogno della patria, altr’oggetto che la difesa, altro premio che la pubblica riconoscenza. Niuna di queste repubbliche trovo l’istessa generosità ne’ suoi cittadini, allorché si trattava di dover soccorrere la patria per una guerra straniera dettata dall’ambizione e non dalla difesa, dall'avidità e non dal bisogno.

(244) Cap, XXIII, de censibus.

(245) L'Inghilterra ha creduto di poter impedire l’immissione di alcune mercanzie straniere, col caricarle d’un dazio che dà a queste mercanzie un valore fittizio di 100 o 200 per cento: ha aggiunto a questo dazio le pene più severe contro il contrabbando; ma ha essa ottenuto il suo intente? Le immissioni clandestine di queste tali mercanzie non han fatto forse la ricchezza di tante famiglie, non sono esse cosi frequenti come ogni altra immissione che si fa sotto gli occhi del magistrale e col permesso delle leggi?

(246) L’autore degl’Interessi delle nazioni ecc., tom. 1, cap. V.

(247) Ottanta milioni di lire: questa è presse a poco la quantità d’oro e d’argento che la Spagna riceve in ogni anno dal Perù e dal Messico, secondo i manifesti degli scaricamenti de' bastimenti di ritorno dall'Indie Occidentali.

(248) S'intende sempre di lire.

(249) Basta osservare ciò che produsse in questa nazione il sistema erroneo di chiudere tutte le strade che potevano trasportare una porzione del numerario fuori dello Stato, allorché mancò al superfluo di questo lo scolo che l’ambizione di questi due principi gli aveva aperto, La Spagna si risente ancora e se ne risentirà anche per molto tempo di questa ignoranza de' suoi legislatori.


vai su


Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF












Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










vai su





Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità  del materiale e del Webm@ster.