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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

DELLA LETTERATURA ITALIANA

NELLA SECONDA METÀ DEL SECOLO XVIII

OPERA POSTUMA DI CAMILLO UGONI

MILANO

TIPOGRAFIA DI GIUSEPPE BERNARDONI DI GIO

1857

GAETANO FILANGIERISua vitaSue OpereSua IndoleNOTE

Sua vita

Nacque in Napoli il 18 agosto 1752 da Cesare Filangieri principe d’Arianello e da Marianna Montalto de' duchi di Fragnito. I filii Angerii,nel regno venuti cogli altri Normanni, alla nobiltà della prosapia antica aggiugnevano poche ricchezze, dipendenti più dagli ufficii in corte e dai gradi nell'esercito, che da patrimonio avito. E tra' feudatari solo il primogenito essendo ricco, i parenti vollero avviare questo terzogenito alla milizia, nella quale entrò a' 14 anni durandovi fino a' 17, già iniziato. alle matematiche, per le quali palesò vocazione, correggendo il fratello maggiore mentre questi ripeteva un teorema di Euclide, come a un dipresso si narra della Dacier prima, e poi della Tambroni nella lingua greca, e d’altri ancora in altre discipline.

Quello dei tre fratelli, ch’era nato alle lettere, vi fu da prima giudicato inetto. I genitori, rigidamente, educati, costrinsero i figli a vita sì laboriosa fin da' più teneri anni, che appena era comportabile a' più maturi. Dieci ore al dì, cominciando un’ora prima del giorno, allo studio. Le noje de' rudimenti latini sì fattamente svogliarono Gaetano dallo studio, che la madre informando un nuovo precettore delle disposizioni de' propri figli, ebbe a dirgli, che non si desse troppa briga del terzo, non inclinato alle lettere, e del quale poteva solo farsi un soldato. Il precettore rimase in questo errore finché il caso dianzi riferito non venne a rivelargli il vero.

Nel breve periodo che rimase sotto le armi, s’innamorò del sapere, e lasciate le militari insegne, rifece da capo e da sé gli studi mal fatti, tradusse brani di Demostene e di Tacito, cavò aforismi politicida Platone e da Aristotele, e bevve l’entusiasmo verso gli antichi, che versò poi largamente nella Scienza della legislazione. La difettosa educazione, ravvisata in sé e in altri, lo indusse nella credenza che dal correggerla pendessero i miglioramenti più importanti della società. Frutto del meditare questa materia fu il libretto Della pubblica e privata educazione(Napoli, 1771), e quel disegno di pubblica educazione e tutta nuova che vedesi nel libro della Scienza della legislazione,ove propone radicali riforme.

Per adempiere all'alta missione, Filangieri ebbe a lottare quasi ad ogni passo collo spirito di famiglia. Potè nondimeno secondarlo senza torcere dalla meta, allorché nel 4 774 a 22 anni si fé avvocato. In tale arringo ebbe a conoscere praticamente i danni della legislazione in vigore, e col difendere le private ragioni addestrarsi a difender le pubbliche. I nomi di Gravina, Gian none, Pecchio, di Gennaro, Aulisio, Pasquale Cirillo, Capasso avevano illustrato la magistratura e il foro di Napoli appo i lontani, né da presso scorgevansi i difetti della legislazione,i giudizi, che, negletto il testo della legge, fondavano spesso in quella capziosa equità che apre l’adito all'arbitrio ed alle declamazioni degli avvocati, o pagliettecome diconsi in Napoli. Un ministro illustre, Tanucci, pratico egli stesso di tal professione, ne scorse i vizi, eaffidò a Pasquale Cirillo la composizione del Codice Carolino,così denominato da re Carlo III. Non sancitosi il codice, fu in quella vece pubblicato un decreto, che prescriveva a' giudici di far precedere alla sentenza i motivi ne’ quali fondavano; dal che appare come il bisogno di coordinare tante leggi piene di antinomie in Un sol codice, e di far precedere da' motivi loro le sentenze de' tribunali, fosse in Napoli, prima che altrove, sentito. Vuoisi però confessare, una clausola di tal decreto molto scemarne il merito, ed era: che ove fosse nelle leggi difetto o dubbio pe’ casi speciali, i giudici dovessero rivolgersi direttamente al re, il quale, in quella forma di governo concentrando in sé anche il potere legislativo, provvederebbe. I tribunali e il foro ne furono a rumore, e rimostrarono. Filangieri ne tolse le difese. colle sue Riflessioni politiche sull’ultima legge sovrana che riguarda l’amministrazione della giustizia. Più anni dopo confessava, scrivendo allo Spannocchi di Siena (1)), essere questa una produzione affatto giovanile, di cui mal s’appagava. Il sig. G. Navarro ci fa sapere, che accortosi Filangieri che colla sua apologia favoriva l’influenza del regio potere sopra il poter giudiziario, ritirò quanti esemplari potè del suo opuscolo, che i librai continuano a pubblicare anche tradotto in francese, speculando sopra la celebrità del nome. (Études legislative par I. N. Paris,1836, p. 174)

Le cose forensi seguitavano ad andar zoppe. Filangieri si apparecchiava a proporne i rimedi onde raddrizzarle nell'opera, di cui aveva già concepito il disegno; per consacrarsi più interamente alla quale abbandonò il foro e mandò sazie coteste muse litigatrici.

Ma ecco lo spirito di famiglia frapporgli nuovo ostacolo. L’arcivescovo di Napoli, monsignor Serafino Filangieri, zio di Gaetano, di mal animo pativa che il nipote di svegliati spiriti trapassasse la vita in filosofica oscurità, non confacente, secondo lui, né al nome né al decoro degli avi. Volle dunque introdurlo alla corte, a rischio pure di rapirlo alla filosofia.

Filangieri si piegò anche questa volta a' desiderii de' parenti, e per annuire ad essi, e sperando di allargare la sperienza propria, di gratificare al re, e di ricattarsi poi ampiamente della docilità del cortigiano colla libertà dello scrittore. Ad istanza del prelato, eletto nel 1777 gentiluomo di camera del re, maggiordomo di settimana e uffiziale del reggimento reale de' volontari della marina aggregato di Liparoti, fu veduto, esempio meglio unico che raro, giovine di 25 anni, bellissimo della persona e di avvenente e nobile fisonomia, in mezzo alle seduzioni di corte, astratto da' circostanti divenire, ritrarsi in disparte, notare pensieri, e fra l’aulico frastuono o nel corpo di guardia, com’uomo cui d’altro cagb'a, proseguire placido le meditazioni cominciate nel gabinetto; costanza senza la quale i due primi libri e volumi della Scienza della legislazionenon avrebbero veduto la luce nel 1780.

Questi due volumi riscossero vivi applausi. Alle riforme legislative, voto allora universale, già e in Toscana e in Lombardia e altrove ponevasi mano alacremente. Quel veder dunque un’opera che con tanto calore di convinzione stabiliva i generali principii della scienza legislativa e proponeva radicale riforma di tutte le leggi esistenti, così conformavasi alla opinione e ai bisogni de' tempi da non poter lasciar freddi i lettori. Filangieri dunque, a cui già non abbisognavano sproni, raddoppiò d’ardenza, e l’anno vegnente fu assai laborioso. Odasi com'egli stesso ne scrivesse all’amico Spannocchi in data 5 aprile 1784.

«Se voi vedeste la vita che io fo, voi mi piangereste. Mi manca il tempo da respirare. La mia salute comincia a risentirsi di questi straordinari sforzi, e quel che più mi rincresce, il mio capo soffre in alcuni giorni de' sintomi, che mi spaventano. E sono così stordito, che non mi ricordo spesso della mia stessa esistenza. Io vi farei ridere se vi raccontassi gli effetti della mia distrazione.»

Altra specie di distrazione, o meglio consolazione dolcissima, eragli offerta in quel tempo stesso dalla corte. Quivi conobbe Carolina Frendel, mandata da Maria Teresa alla educazione dell'Infanta, seconda figliuola del re. E così Filangieri fu preso della bella persona e del modo onde l’unghera gentildonna soddisfaceva all'ufficio affidatole, che divisò di sposarla, sperando in essa non solo una tenera moglie, ma una madre sollecita della educazione de' suoi figliuoli. E qui quanto la famiglia potè opporre fu indarno. Così infatti ne scriveva al confidente de' pensieri più intimi il 44 maggio del 1784:

«Io ho risoluto di sposare una dama ungherese e di ritirarmi in una campagna molto amena per menare ivi i miei liberi giorni lontano ugualmente dalla noja e daltormento. Tutti i miei parenti strepitano, ma la mia costanza supera tutte le loro opposizioni. La sposa che scelgo è il modello delle mogli, e potrebbe compararsi alla Giulia di Rousseau. Non ho avuto mai tempo della mia vita più inquieto. Voi piangereste se vedeste il mio stato. L’ignoranza, i pregiudizi, la vanità, l’orgoglio sono congiurati contro di me; ma io li combatto col silenzio del mio gabinetto e col disprezzo. Io son compianto nel mentre che compiango gli altri, io son deriso nel mentre che derido. II maggior piacere ch’io sento in questa pugna è la coscienza di pensare diversamente del resto' degli uomini, e di esercitare quel piccolo avanzo di libertà, che la società mi ha lasciato, e che il dispotismo dell'errore vorrebbe togliermi.»

Tali opposizioni, già cominciate da alcun tempo allorché Filangieri scriveva, durarono altri due anni. Ma il voto era troppo legittimo, e grande in lui là conformità tra la vita e’ principii co’ quali biasimò sempre il celibato, onde punto si potesse smuovere. Stette ferino e nel 1783 sposò la donna da lui tanto amata.

In tale intervallo varie furono le sollecitudini d’autore, che tutte versava nel cuor dell'amico. Avendogli questi fatto sapere come la società di Berna avesse pur dianzi premiata una Memoria intorno alla procedura criminale, Filangieri, intento allora alla stessa materia e alle leggi penali, parte dell'opera che meritò poi la maggior lode, stava in grande ansietà, che alcuno non gli occupasse la novità de' pensieri, e pregava l’amico di mandargli speditamente la Memoria appena fosse tradotta (2)). Altra angustia venivagli dalle commissioni di Acton, ministro della guerra. Dopo steso per esso l’editto circa lo stabilimento delle milizie provinciali, che venne in grido, stava ora aspettando di dover comporre per lui un codice militare, e il sacrificio delle proprie fatiche alla gloria del ministro gli rincresceva, non sapendo tuttavia risolversi di ricusarlo. In lettera 15 ottobre 1782 allo Spannocchi tutto sfoga un tal contrasto.

Frattanto né i conforti né le dolcezze mancarono al Filangieri, e l’anno 1783 gliene recò in gran copia, se già non avess’egli nella coscienza propria trovato premio infallibile alla virtù. Pubblicato il terzo libro dell’opera, vertente intorno a processi e alle leggi criminali, l'ammirazione sentita dai lettori gli fu attestata con parole così sincere, che dubbio non gli lasciavano di non aver fatto servigio grande alla umanità. Per tacer d’altri, lo stesso Franklin gli richiedeva nuovi esemplari dell'opera onde diffonderla tra' suoi liberi concittadini, e mandò a Filangieri le Costituzioni de' nuovi Stati confederati. Il re poi manifestò la sua approvazione conferendogli il priorato dell'Ordine costantiniano, fruttante 325 ducati, che dovevano ammontare poi a 925, come Filangieri scriveva da Caserta a' 21 del 1783; e gli diè beneplacito di dimettersi da' carichi e militari e quanti n’ebbe in corte, e ritirarsi a godere della felicità domestica alla piccola città della Cava, 25 miglia distante da Napoli. Col cuore finalmente contento per la dolce pace della vita conjugale e studiosa; sollevato dall’attrito molesto delle passioni degli uomini, e confortato invece dall'aspetto tranquillo e sereno della natura campestre; Filangieri godeva di soave riposo, e con rinnovata Iena sorgeva pieno di forze a continuare le sue meditazioni.

Néa turbargli cotal placidezza poche censure a molte lodi frammiste bastarono. Un Giuseppe Grippa si fece apologista delle giurisdizioni e de' privilegi feudali (3)); Roma scagliò le sue folgori, e la Scienza della legislazionefu posta all'Indice. Filangieri, che volontieri entrava in dilucidazioni, ov’altri gli movesse onesti dubbi o critiche giudiziose ed urbane, non logorò tempo a rispondere a quanti dalle pubbliche calamità traevano vantaggio privato, e potè con tanto maggiore sicurtà trascurarli, in quanto che il proprio governo, ravvisando in lui un cittadino e uno scrittore lontano ugualmente dalle adulazioni che dagl'insulti e solo cercante l’utile, lo proteggeva e premiava. Così potè in vece abbandonarsi a quel vasto disegno di. educazione, che senza la solitudine e i lumi della greca sapienza non avrebbe compiuto. Che se ad alcuni ne par difficile o impossibile la pratica, massime nella natura de' governi d’oggidì, troppe cose rimangono quivi certamente da impararsi, che il chiamarle utopia a noi più ingiurioso che al Filangieri sarebbe.

Anche ritirato, o a' meglio dire perché ritirato dal mondo vorticoso, Filangieri coltivò con più ardore 1 amicizia; e colle più belle anime del regno fu strettamente legato.

Fin da Pitagora i Napoletani predilessero grandemente associazioni, che alle dolcezze dell'amistà accoppiasser quelle d’un misterioso segreto. Pare che i Muratori di Napoli più a' bavarici che non ad altri si affigliassero; né di que’ dì eran pur anche, come fu veduto poco stante, divenuti strumento e balocco del dispotismo e dello straniero. I cittadini, e sopratutti i dotti più ragguardevoli del regno, eranvi aggregati, quindi Filangieri. Appianavano lentamente le vie a que’ miglioramenti, che il tempo non anco aveva maturati: né pare che si trastullassero o ad assettarsi la maschera d'Ercole o a palleggiarne la clava con forze troppo impari. Che se affratellati e molti, pur si frenavano dall'usare la forza da tai vincoli derivante sopra chi, benché profano, è tuttavia per ragione più antica ed universale fratello, per fermo si premunivano contro il più ovvio pericolo di tali associazioni, quello di creare una società nella società, ponendole tra sé in lotta e discordia.

Dedicando allo studio fino a dodici ore per giorno, pochissime concedevane al sonno. Il verno vigilava nel suo gabinetto più ore innanzi il sorger del sole, assiduità che a gracile temperamento congiunta e a sensitività somma lo fece ben presto infermare. Le coliche cominciarono ad affliggerlo nel 1784, poi lo assalivano più frequenti, e all’ultimo con tal violenza, che ne di, venne molto sollecito. Cercando rifugio allora nella mutazione dell’aria, colla famiglia si recò a Vico-Equense, che prima de' feudi aboliti spettava a una sorella di lui. Interrompere ogni studio sarebbe stato il rimedio eroico, che però vinceva le forze del Filangieri. Cominciato il quinto libro, ingolfavasi ornai nella investigazione delle religioni antiche, né ad altro vivea, se non a compiere la Scienza della legislazione.

Ardue difficoltà ebbe ad incontrare, ma riuscì a superarle, e divisò bellamente un ordine tutto nuovo di legislazione, e così col libro come colla parola, così a' lontani come a' vicini, lo persuadeva per modo, che felicemente gli si applica quello che nella stessa sua dolce Partenope dettava Virgilio: Victorque volentes per populos dal jura.

Nel 1782 re Ferdinando sostituì in Napoli il Consiglio di finanza (4). Uno degli uomini, i cui lumi furono più utili a tal parte dell’amministrazione, Ferdinando Galiani, ornai per cattiva salute poco poteva più fungere a tale ufficio, e appunto l’anno 1787, in che il Galiani partì per Venezia cercando di prolungare coll'aria e distrazione de' viaggi una vita già ridotta al fine, furono chiamati a quel Consiglio il marchese Giuseppe Palmieri e il nostro Filangieri, il quale dalla Cava e da Vico-Equense soleva recarsi a cavallo alle sedute in Napoli. Scrivendo di quest'ultimo, pur si vorrebbe ritrarne il carattere che spiegava nel Consiglio, e nulla sarebbe a ciò più conducente del sapere e ridire in che relazione o contrasto i pareri suoi fossero con quelli d’altri consiglieri.

Uditi questi, il re, che in gran concetto il teneva, rivoltosi a lui, soleva dire: «Udiamo ora il nostro don Gaetanino.»

Da Acton, ministro della guerra emarina, pare dovesse spesso dissentire. E mala fama di quel ministro, che favoriva interessi d’altre nazioni a scapito di quelli di Napoli. Nell’ultima seduta, a cui già infermo assisté Filangieri, fè udire parole franche sul marittimo arbitrio dell’Inghilterra, sì fatale a' commerci del continente, massime di Napoli. La proposta di fittare per anni sei i pascoli del Tavoliere della Puglia,e l’opinione intorno al sistema d’ammortizzazione emessa dall’A. negli estratti di due scritti inglesi intorno al debito pubblico, fan chiaro quanto fino agli ultimi dì i grandi interessi dello Stato occupassero la mente di quest’uomo. Néqui si taccia, che con alcuni consiglieri contrastava talora per quelle riforme medesime che primo proclamò nell’opera sua, ma che giunto poi alla pratica, tanti temperamenti esigeva che ne diveniva meticoloso. Quanto Filangieri era audace nel proporre alla pubblica opinione riforme da farsi, tanto diveniva guardingo in sul punto di mandarle ad effetto. Pareva che fosse persuaso della necessità di agitarne la discussione lungamente fra il pubblico, e per mezzo della discussione di convincerlo, prima di farne l’applicazione pratica. E, trattandosi d’impegnare la responsabilità propria col consigliarla, il timore di ledere interessi già stabiliti o altri, tutto Io ingombrava; onde il ministro Zurlo, al lorché, abolita la feudalità, ne vennero divisi i demanii nel regno, soleva dire ad intimo amico, che in sì ardite operazioni, se Filangieri avesse vissuto, lo avrebbe colle sue perplessità impacciato.

Da quell’ultima seduta del Consiglio di finanza tornato a Vico-Equense, le coliche lo assalsero più fieramente. Con lettera 14 giugno 1788 pregava Donato Tommasidi venirlo a visitare, dolendosi della salute. Tommasi si recò presso l’amico, e trovatolo per assiduo studio esausto di vigor salutare, il male venne ogni dì più imperversando, talché in capo ad un mese videsi ridotto agli estremi. Allora ne fu scritto ad altri amici, che, udito il pericolo imminente, accorser notturni. Erano don Mario Pagano, don Giuseppe Albanese e il d.(r)Domenico Cirillo, che di tutto scrisse patetica descrizione. Filangieri ebbe a soccombere la notte del 21 luglio 1788, non per anco compiuti 36 anni. I funerali alla Cava e a Vico-Equense, ov’è sepolto nella cattedrale sotto semplice lapida, furono decorosi e, per frequenza, compianto e pie parole d’amici, commoventissimi. Domenico Cirillo, Vincenzo Stajano, Nicola Cariucci, con prose; Mario Pagano, Serocades e tant’altri, con poemi e cantici funebri, l’insolita virtù onorarono con onori insoliti: e fu dolce scorgere che a' meriti sommi del Filangieri non mancasse riconoscenza; la quale, dopo il 1799, rifulse di nuovo in patria nella statua postagli entro la sala delle sedute e trasportata quindi, come in propria sede, nel corpo legislativo: riconoscenza vedutasi poi estendere oltre la patria e oltre la persona del grand'uomo, allorché la vedova e i figliuoli di lui, subito l'ostracismo del nome, esulando dalla patria, giunsero in Parigi, ove accolti, come vi fu la Scienza della legislazione,la Repubblica francese con decreto onorificentissimo ammise Roberto e Carlo, figliuoli di Gaetano Filangieri, nel Pritaneo nazionale (((5)); né fu senza provvidenza, che i figliuoli trovassero lungi dalla patria una educazione conforme in parte a' divisamenti del padre, e dalla quale la loro carriera pubblica e privata mostrò poi quanto profitto cavassero.

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Sue Opere

È fatto degno della compiacenza, non che dell’attenzione di chi lo contempla, il carattere storico che il secolo XVIII, negli studi delle province diverse d’Italia, volgendo al suo mezzo, assumeva, Gli studi della procedura, delle leggi criminali e penali e dell’intiera scienza legislativa erano per ogni canto di questa bella contrada con amore intenso coltivati, né solo venivano ampliati con opere, ma furono veduti allora per bella gara gli scrittori proporre miglioramenti, che poi con breve intervallo gl’imperanti mandavano ad effetto, il che può e deve far presumere della saviezza così degli uni come degli altri. Ma non prima una terribile rivoluzione, che poi co’ vinti sommerse i vincitori, rotte le sbarre, e sgominato da' cardini diè l’ultimo crollo all'edifizio sociale; i poteri minacciati, sbandeggiata ogni cura di pacifiche riforme, si videro unicamente pensosi della loro conservazione. Così tra governati e governanti una reciproca strabocchevole diffidenza fu veduta succedere a quel tranquillo ed armonico andamento, nel quale i cieli assentivano allora di pur fondare le più belle speranze.

Fra tali scrittori, per vastità di disegno e per ardore onde si studiò d’incarnarlo, primeggia Gaetano Filangieri. Dobbiamo considerare la Scienza della legislazione nelle relazioni che può avere non tanto co’ lumi attuali, quanto con quelli de' tempi in che fu scritta, che mancavano di quel cumulo di sperienzeche, agglomerate, si fecero dopo la sua morte.

Se dunque la Scienza della legislazionefosse oggidì antiquata, non rimproveri ma grazie ne andrebbero all’autore; ma non è pur troppo: quante fra le migliori e le più utili leggi proposte dal pubblicista napoletano rimangono tuttavia non applicate! Dalle prigioni affollate di gente accusata non si sa di che né da chi, e condannata, ahi! pur troppo si sa come, senza difesa, senza pubblicità, senza competenza di giudici: da quelle prigioni, dico, esce un grido: che la Scienza della legislazioneè libro da studiarsi ancora. Esaminando le leggi che dovrebbero tutelare le manifatture e il commercio nel paese, in cui e per cui più che per altri scriveva questo filantropo, veggiamo a' trattati de' Pirenei e di Madrid succedere convenzioni vie più onerose, e tali che le grandi nazioni marittime, alle quali già troppo a lungo fu sacrificato in olocausto il regno di Napoli, sono state vie più favorite da queste recentissime convenzioni, per le quali fino il cabotaggio del regno essendo divenuto un lor monopolio, la marina mercantile, senza cui non v’ha marina di guerra, per ozio rovina (6)). E così potremmo discorrerla dell'educazione, benché in tal parte si cominci a scuotere le abitudini del vecchio letargo, e le menti pajano convinte come l’unica via per rinnovare il vecchio mondo e introdurvi un po’ di virtù sia quella di avviare i fanciulli a meta che, ben conosciuta, è pur tanto desiderabile. Ma nel libro che Filangieri scrisse dell’educazione restano altri ottimi insegnamenti onde raggiungere un tal fine.

Fedele discepolo di Montesquieu, e più del maestro astretto a tal metodo, Filangieri ne insegnò praticamente come chiunque, in chiunque scienza miri a veri e solidi progressi, debba innanzi tratto conoscere quanto ha preceduto in quella scienza. E perché troppi vengono meno a massima pur sì ovvia ed evidente, di qui tanti progressi apparenti o retrogradi!

Nello specchio o disegno, che prefisso all’opera e tutta divisatala, l’A. chiamò piano ragionato,veggonsi quante parti doveva abbracciare, se morte non precideva lo sviluppo d’alcune che rimasero incompiute. Filangieri divide l’opera in sette libri. Nel primo pone a fondamento, che la conservazionee tranquillitàsono lo scopo della legislazione. Nel secondo tratta della popolazionee delle ricchezze. Nel terzo, della procedura criminalee delle leggi criminali. Nel quarto, delle leggi relative all’educazione, a' costumi e all’istruzione pubblica. Nel quinto, delle leggi concernenti la religione, considerata come ausiliare della legislazione (7).

Quel primo principio e scopo universale della legislazione, diciamo conservazionee tranquillità,fu der sunto dall’origine stessa della società civile. Quanto, esce da quel fine, esce veramente dalla competenza delle leggi. Ponendo sì ferma base all’opera sua, l’A. ne condannò virtualmente assai parti. In fatti, l’intervento della legge in oggetti da cui dee tenersi estranea, è forse il maggior difetto generale dell’opera, ed è tale, benché appaja chiara la fonte ed intenzione lodevole onde procede. La libertà umana è così morale e preziosa, perché ha in sé forze vitali per alzarsi al bene, che bisogna custodirla gelosamente da chiunque; presumendo tarparla, s’arrischia di toglierle quell’impulso ingenito da cui s’impenna alle opere generose. Quindi, intervento nell’educazionee nell’istruzionecon regolamenti, intervento di premii nell’agricoltura, intervento di leggi proibitive del viaggiare e spendere ove che piaccia le proprie entrate, e cent altre di tal natura sono solenni usurpazioni della legge. In Inghilterra, ove opere e istituzioni buone, lavori utili allo Stato si fanno da' privati associati, non già dalle leggi o dal governo, quanto tali cose tutte non sono meglio, più moralmente, più intellettualmente, più economicamente fatte che altrove! Trattasi dunque di allargare le forze e la liberà azione de' cittadini, col restringere ogni dì più quella del governo, e di ottenere a poco a poco che i costumi facciano le veci delle leggi. Col porre a fini unici della legislazione la conservazionee la tranquillità,collo scartare il principio dell’utilità, sì invocato dopo di lui, e da lui dimostrato senza termini e aprente il varco ad abusi immensi, ben poneva l’A. i confini alla Scienza, ben ne diffiniva l’unico fine; ma poi, venuto all’applicazione, diede a quel fine estensione troppo larga, stimando raggiungerlo con mezzi incompatibili colla libertà de' cittadini; in somma, non vi si attenne con rigore.

Per elevare la dignità della scienza tolta a trattare, Filangieri, qua e là accenna a leggi che partorirono la prosperità o la rovina delle nazioni. A due di esse nazioni fu cagione di decadenza l’espulsione de' Saraceni e de' protestanti, e a queste due leggi altre somiglianti si potevano aggiungere. Talora nel complesso delle leggi d’un paese ravvisa il germe del suo ingrandimento; né tutte le romane conquiste furono armate, assai rivendicandone la sapienza delle leggi. Ove l’A. contempla con che vicenda il primato tra le nazioni europee si tramutasse dalla Spagna alla Francia, poi dalla Francia all’Inghilterra, parendogli scorgerne lo scettro imminente a cadere tra le mani della Russia, più che ad altro tal futura vicissitudine ascriveva al corpo delle leggi.

«Il codice, dic’egli, di Caterina mi dà più da pensare che la sua flotta nell'Arcipelago.»

Tanta forza espansiva nelle leggi lo induceva a proporne alcune o gravide di beneficio universale alla nazione che le promulgasse, o valide a far cessare la massa intera de' mali di un’altra; e stimò deprecarli dalla misera Irlanda, consigliando di ripristinare gli obsoleti statuti contra gli assenti (absentees)per forzare i pochi Irlandesi ricchi ad impiegare i capitali e a consumare le entrate in patria; ma ecco nuova invasione della libertà individuale e nuova infrazione de' principii unici prescritti alle leggi. Gran ventura per l’Inghilterra, che il rispetto della libertà de' cittadini abbia in quel suolo radici così solide e profonde da rimuovere ogni rischio che il fatale consiglio, sovversivo della libertà locomotiva, sia per essere seguitato giammai. Regolamenti indiretti possono soli essere buoni ad impedire le emigrazioni; ottima è poi la prosperità dello Stato. Se dunque Filangieri, invocando anche altrove a tutta l’Inghilterra savi regolamenti, le invocava la diminuzione delle tasse sì gravose che cacciano i ricchi, e la riduzione delle leggi proibitive che cacciano i poveri, si applauda. Ma se avesse mai, comepare, invocato regolamenti diretti, non si potrebbe stare senza dire che ostano a libertà, e neppure ottengono il fine. Alcune cattive leggi inglesi appunto son quelle che oggi innondano la Francia, non che di ricchi proprietari e di capitalisti, ma di agricoltori, di manufattori e d’artigiani d’ogni fatta. E perché ogni pianta dee pur produrre i suoi frutti, certe cattive leggi inglesi restituiscono oggi alla Francia uomini ed arti, che una cattiva legge francese diede all'Inghilterra (((8)).

Venuto quindi alle regole che l’A. prescrive al far leggi, pone per prime queste due: bontà assolutae bontà relativa. Chiama bontà assolutadelle leggi la conformità loro co’ principii della morale comuni a tutte le genti, e orribili esempi adduce di leggi prive di tal bontà, che meglio definita sarebbe dicendola condizione essenziale delle leggi, che tali non sono le non conformi alla morale; e, tuttoché di Solone, non merita nome di legge una di cui s’è promesso ragionare. L’A. nondimeno, invocata, e con poca esattezza come vedremo, l’autorità di Montesquieu, approva una tal legge; ma la conformità delle leggi. co’ sentimenti sacri ed eterni della natura e della morale essendone condizione essenziale, non possiamo indurci ad avere per legge vera una pretesa legge, a cui mancano queste condizioni; e per provare 1 assunto nostro entriamo a discuterla compiutamente.

Legge antica dAtene presso Filangieri, che cita Montesquieu, obbligava i figliuoli a nodrire i padri caduti nell’indigenza, tranne però i nati da cortigiana, coloro della cui pudicizia il padre fece traffico infame, e coloro a cui non insegnò o non fece insegnare alcun mestiere. Montesquieu giudica buona la legge di Solone nel primo caso, ché il diritto naturale sommettendo al civile, vista l’incertezza del padre, ne considera obblighi e diritti come precarii; e l’approva pure nel secondo, ove il padre, macchiando la data vita, fece alla prole il massimo de' mali; ma non sa approvarla nel terzo caso, secondo il quale il padre non diede a' figliuoli il modo di sostentare la vita. Filangieri invece tutti e tre i casi giudica utili modificazioni del precetto naturale che comanda a' figliuoli di nodrire i padri.

Ora esaminiamo se la. legge intera non sia piuttosto inutile o immorale. Nell’ipotesi che la vita sregolata della madre renda incerto il padre, che bisogno avranno i figliuoli di legge assolvitrice dall’obbligo di nodrire un padre che non conoscono? Se poi lo conoscono, per quanto illegittimo sia, l’esenzione non è manco oltraggiosa alla natura, e, come nel primo è inutile, così nel secondo è inumana. Nell'ipotesi di padre che esponga la pudicizia de' figliuoli, volevasi far legge che punisse questo delitto, anziché sancirne un altro con una legge. Mal si correggono i delitti de' padri provocando la. durezza de' figliuoli. Il delitto di genitori, massime di madri, che fan traffico dell'onore delle figlie, non è raro, per quanto abbominevole, né perciò diminuisce l’orrore verso figliuoli che lascino morir di fame genitori colpevoli, né possiam frenare il disprezzo così per l’uno come per l’altro delitto. Sì fatta condotta ne’ figliuoli sarà più che sospetta di bassa avarizia e di snaturata crudeltà, e pessima legge è quella che l’intima coscienza abborrisce. — Si dirà egli, che la legge solo permette questo abbandono ove il delitto paterno sia ben dimostrato? — Ma toccherà dunque al figliuolo provare il delitto, e la legge lo invita a farsi denunziatore del padre. — Più rispettarono la natura le leggi romane, non ammettendo come testimoni, non che come accusatori, né il padre contro il figliuolo, né il figliuolo contro il padre, e più la rispettò quel greco legislatore che tacque del parricidio. Più si esamina questa legge, e più balzano fuori le antinomie.

La terza esenzione coll’altre approvata dal Filangieri, benché Montesquieu, tutore nato di tutte le leggi, la disapprovasse, è vie più viziosa. Se un figliuolo, perché non ammaestrato in mestiero di sorta, rimanga meschino, avrà il padre dagli effetti della negligenza la pena che merita, la giustissima, la sola giusta, dacché la legge potente onde natura ci regge e governa è la forza e concatenazione delle cose. A che dunque, ove quella sovrana insegnatrice di prudenza ha provveduto, faremo noi inutili e odiose leggi? Se poi, in onta all’improvvido padre, il figliuolo acquistò modi onde sostentarlo, qualsiasi legge ne lo assolva sarà snaturata e insegnatrice di vendetta. Manco male lasciare impunita la incuria de' padri, che ammetterne l’abbandono legale per parte de' figliuoli. Néquell’incuria, se natura umana non mutò, poteva essere in Atene così frequente da indurre il legislatore a darsene briga. Il naturale affetto, l’amor proprio, l’interesse appunto di prepararsi ne’ figli appoggi per la vecchiezza, tutto, ov’anche la voce del dovere tacesse, spinge i padri ad aver cura di creature loro dipendenti: né si fanno leggi per eccezioni rare ed insolite ove meglio provveggono i costumi.

Considerato il padre in quante contingenze ha possibili, o è sì misero da non poter far imparare un mestiere qualunque al figliuolo, e, se l’obbedienza è impossibile, la legge torna vana e spregiata; o per converso è sì ricco da non temere l’abbandono sancito, e, nulla il timore potendo in lui, il legislatore avrà indarno fatta legale la figliale empietà; o finalmente, agiato mentre era tempo di educare il. figliuolo, e noi fece, divenne poi bisognoso, e spettacolo ripugnante alla natura farà odiare la legge che lo sancisce, quello di un figliuolo negli agi che abbandona il proprio padre a quanti orrori ha povertà.

Questo esame, espressamente fatto cadere sovra legge civile e sì rimota da rimuovere anche il sospetto di parzialità nel giudicarne, mostra apertamente come la natura avesse provveduto a tutti i fini possibili della legge di Solone, e, come suole, aveva provveduto colla forza intima delle cose, forza celata che doma tutte le resistenze, o, a dir meglio, è fatata a non incontrarne. Natura dunque aveva provveduto a tutto senza minacce, senza rigori, senza modi coercitivi, evitando il doppio scandalo di legislazione odiosa e di legislazione delusa. A un tratto la legge irrompe in aiuto alla natura, ed ecco insorgere da ogni banda difficoltà, moltiplicarsi inconvenienti, e per far meglio, la legge in fine ogni cosa guastare: e ciò accade perché gli uomini odiano il sufficiente, amano strafare, legano con più giri di corda e più stretto che non bisogni, e misconoscono, benché a lutto si tramesti, quella forza delle cose, della quale si è mostrata la onnipotenza.

Per tale esempio apparirà dunque come assai cose sieno da lasciarsi al corso lor naturale; come la legge in più casi, se nulla,può, può solo malamente alterarle e guastarle, dovendosene perciò ristringere la competenza: e si è pur voluto notare l’assenso dell’A. a legge sì opposta alle romane intorno alla patria potestà, della quale promise di rialzare l’edifizio troppo dagli antichi aggrandito e da' moderni per mal fondata diffidenza quasi interamente distrutto: in guisa che se la morte non lo avesse impedito dal trattare l’ultima parte nell’ultimo libro dell’opera, avrebbe fatto probabilmente quello che fece Beccaria in altra materia, si sarebbe ritrattato, e avrebbe gridato egli pure:

«Ho offeso i diritti dell’umanità, nessuno me ne ha fatto rimprovero!»

E la nostra conghiettura si fonda nel vedere che, sebbene, d’accordo con Machiavelli, ravvisi due grandi vantaggi nell'ostracismo d’Atene, sebbene vada citando quasi ad esempio altre leggi soverchiamente severe di Solone e Licurgo, compiacenza che gli vien tanto rimproverata dal suo commentatore; riconosce nondimeno in molte leggi moderne una umanità inspirata dal Cristianesimo, che si desidera affatto nelle antiche. Nél’egizia, né la greca, né la romana giurisprudenza ponno reggere al confronto della nostra rispetto ad umanità. Il guerriero più non teme la schiavitù, e meno il cittadino. Un figliuolo non 'può, come in Roma, essere venduto dal padre che non abbia onde alimentarlo. Il debitore insolvibile, che le XII Tavole condannavano a divenir schiavo del creditore, o ad essere sbranato se i creditori eran più, basta ora che dichiari la cessione de' suoi beni, cedo bonis.

Queste considerazioni ne guidano naturalmente a notare un’altra condizione che l’A. esige nella legge affinché abbia bontà assoluta,ed è la sua conformità colla religione dello Stato. Considerando che incremento e che sanzione a' principii universali della morale recasse il Cristianesimo, e paragonando al codice delle leggi di tutte quante le religioni la santità del decalogo, l’A. lumeggia l’immenso progresso che per la sua promulgazione fece l’umanità. E qui l’ammirazione verso l’antichità più remota cedendo in lui a quella che tal religione gl’inspira, ne schiera dinanzi tutta la barbara legislazione degli schiavi, considerati quasi fuori dell'umanità; lo che dà risalto sì grande alla religione che l’abolì. Viene poi deplorando, che una reliquia rimanga di tale schiavitù in quel paese, eh'egli chiama America europea. L’anfibologia cessò. L’America non è più America Europea, ma l’America non avrà interamente ricuperato l’onore del nome, se prima non abbia altresì abolito quell’altra ben più degradante anfibologia di uomini schiavi.

Dalla bontà assolutaalla bontà relativadelle leggi passando, entra l’A. in materia più vasta, perché tante e sì diversamente fra sé combinate e complicate son le diversità, che non si concilia co’ limiti prescritti al presente articolo il seguire l’A. ne’ dieci capitoli ove tutta egli svolge la materia. Notiamo di volo, esser questo l’aspetto dal quale Montesquieu trattò delle leggi, in guisa che in que’ dieci capitoli, ne’ quali Filangieri ragiona della bontà relativadelle leggi, ci dà, quasi dissi, lo spirito dello Spirito delle leggi. Se non che da alcune sue parole lo direste concedere troppo alle voglie de' legislatori.

«Un legislatore, dic’egli, detesta la ricchezza, sbandisce dalla repubblica oro ed argento, proibisce il commercio, ecc. Un altro, di repubblica poco dalla prima disgiunta, rivolge pensieri. affatto contrari. Le sue leggi proteggono il commercio, avvivano le arti, incoraggiano l’agricoltura, ec.»

Ma se tale opposizione da quella de' due paesi e degli abitanti ripetasi, in due legislazioni oppostissime troverai pari bontà relativa; né più si parlerà de' capricci diversi di due legislatori, che volessero a que’ capricci piegare il popolo. Certo pertanto Filangieri non espresse qui la sua mente con esattezza, come si esprimerebbero male que’ posteri, che dicessero un giorno degli attuali legislatori di Francia, che si sforzavano d’introdurre nella nazione l’uguaglianza delle condizioni; mentre, ad essere veridici, dovranno dire, tale essere stata la tendenza universale della nazione francese, anzi della civiltà a' tempi nostri, e i legislatori averla secondata solo a rilento, come dovevano fare: ma tanto attribuire al beneplacito del legislatore, è errore sì incoerente colla Scienza della legislazione,che sol può essere sfuggito all'autore per inavvertenza.

Non preteriscasi però l’opinione del Filangieri circa i governi misti, sì opposta a quella del predecessore e alla comune di Montesquieu, che il più lungo capitolo dell’opera dedicando a descrivere il magistero della costituzione inglese, e l’equilibrio de' tre poteri, mostrò probabilmente di preferirla ad ogni altra, e come ne giudicasse tutelata la libertà politica meglio altresì che dalle repubbliche antiche, ove il popolo era giudice insieme ed accusatore. Filangieri invece, pur tanta novità di leggi proponendo e tanto attingendo alla procedura penale. de' tre regni, non propone mai costituzioni;,e. tre vizi principali ravvisava nell’inglese: l’indipendenza del potere esecutivo dal legislativo; la secreta e pericolosa influenza del re nelle camere; l’instabilità della costituzione. «Il potere legislativo, dic’egli, può votare leggi a sua posta; ma come prevenire la negligenza del potere esecutivo nel promulgarle, nel farle eseguire, se un tal potere dispone delle forze dello Stato?» Si risponde, che la imputabilità dal Filangieri bramata in quel potere, trovasi ne’ ministri suoi, senza i quali ministri che assumano la responsabilità di cui si esonera il re, non avvi potere esecutivo; e tal responsabilità de' ministri impedisce, che i voleri del potere legislativo sieno infranti. Quanto alla influenza che il re esercita nelle camere conferendo cariche ed onori, cotesta forse è l’obbiezione più grave. Nondimeno l’opinione pubblica ha tal forza in quel paese libero, ch’ove una legge ne sia con costanza invocata, di rado quegli stessi uomini che sono più favoriti dal re la rifiutano. Filangieri suggerisce un rimedio, ed è di trasportare dal re al parlamento il diritto di premiare i grandi cittadini benemeriti della patria: quanto poi al guadagnar voti colla corruzione, spetta a' cittadini non lasciarsi corrompere: in generale la corruzione domina meno ne’ governi de' molti che in quelli de' pochi, perché pochi son corrotti da' pochi; ma l’inconveniente è più della natura umana che della forma del governo, essendo più o meno comune a tutte. Finalmente, quanto a quella fluttuazione del potere tra i tre diversi corpi in che si divide, che l’A. chiama instabilità della costituzione, la giudichiamo, anziché vizio, virtù o suscettibilità di miglioramento, di cui altri governi son privi. Tale fluttuazione mantiene la vita nel corpo politico, piegasi alle circostanze, a' tempi, a' progressi; resiste a più cagioni di dissoluzione che scioglierebbero altre forme di governo men flessibili. Filangieri invoca l’autorità del Machiavelli, affermante soli i governi monarchico e repubblicano essere stabili, e tutti gli altri intermedi essere labili, perché il monarchico ha solo un modo da sciogliersi convertendosi in repubblicano, e viceversa, mentre i governi di mezzo ne hanno due, come ad esempio, oggidì in Francia, ove i cartisti tendono a convertire la costituzione in monarchia pura, e i repubblicani in repubblica pura. Confessiamo di non iscorgere perché i due governi estremi non possano essi pure alterarsi in due modi, e la storia ne dà esempi. Quanto alla labilità del governo costituzionale, Inghilterra risponda. Nell’esame della costituzione inglese l’A. non diè tutto il peso a quella gran parte che ci ha la libertà personale, la libertà della stampa, la indipendenza de' giudici, la potenza dell’opinione, forze morali, in cui, più che in altro, vive e vigoreggia l’anima di quel corpo tricipite. Gran fatto che Filangieri segnalasse gli abusi del potere esecutivo in quell’epoca appunto, in cui più eloquente e più formidabile che mai l’opposizione tuonava dalle sale di Westminster, e contra il re e il ministero nella guerra ostinati, capitanata da Lord Chatam che alzava il grido: «Pace all’America e guerra all’Europa», vinceva il partito di riconoscere l'indipendenza americana.

Nel capo XII del libro primo l’A. venne un’altra volta in conflitto con Montesquieu circa i principii che reggono i governi diversi. Altri rivocò in dubbio, non pur la convenienza di tali principii, ma la stessa classificazione de' governi. Elvezio li distingue in buoni e cattivi, e quelli che Montesquieu chiama principii motori vorrebbe dirli piuttosto conseguenze della natura de' governi(9). Tracyalla classificazione de' governi monarchico-repubblicanoe dispoticosostituisce la classificazione di governi nazionalie speciali. Chiama nazionali tutti quelli che servono agl’interessi della nazione, e specialiquelli che servono ad una classe o ad una famiglia, e pone qual principio dei primi la ragione (((10)). Ma torniamo al nostro Filangieri, il quale, riprovati i principii del Montesquieu, vi sostituisce l’amor del potere,sentimento politico, che solo può derivare, secondo lui, dall'amor del piaceree dall'avversione al dolore, che sono i soli motori delle azioni degli uomini. Secondo lui, l’amor del potereè principio di tutti i governi; e qui si potrebbe osservare l’anima del repubblicano essere piuttosto l’avversione di soggiacere al potere, che non l’amore di esso. Pare a noi che tutti gli scrittori posteriori a Montesquieu, che altro non fece se non seguire in ciò Machiavelli, altro non facessero dal canto loro se non risalire a cercare un motore più comprensivo, mentre il Segretario Fiorentino e l'autore dello Spirito delle leggivennero al più particolare ed immediato, che, lungi dall’escludere il principio universale, ne discende.

Non disputeremo con un chiarissimo concittadino, dell’A., il quale pretende con Elvezio, che quelli chesi dicono principii de' governi, ne sieno piuttosto effetti della loro azione ne’ cittadini. Ma con tutta la nostra ammirazione per la sagacia, colla quale questo scrittore ha saputo scorgere le relazioni che deono passare tra le condizioni reali d’una società e le forme diverse de' governi, con tutta la simpatia che la sua maniera elevata di trattare di questa materia c’inspira (e con tutta la nostra amicizia per la persona dell’A.), ci permetteremo nondimeno di dire: ch’egli prese errore affermando che Filangieri attribuisca come principio esclusivo alla monarchia l’amor del potere,mentre Filangieri nel capitolo XII del primo libro mantiene esplicitamente questo principio essere comune a tutte le diverse specie di governi; e ci sembra altresì, che il giudizio generale intorno alla Scienza della legislazioneemesso in questo luogo dal cav. Bozzelli sia troppo severo (11)).

Il secondo libro, dedicato all’esame e alla riforma delle leggi politicheed economiche,tratta della popolazionee delle ricchezze;e ognun sa i vincoli che legano strettamente la prima alle seconde e reciprocamente le fanno dipendenti. Già fin da quando Filangieri meditava tali materie, l’ardore di ben conoscerle svegliavasi tra i pubblicisti; ma poi tanto crebbe, che, se qualche studio fece un progresso grande dal 1780 a questa parte, certo gli è questo; vuoisi nondimeno confessare che l’orgoglio degli economisti è cresciuto anche più. Citar loro uno scrittore che più di mezzo secolo divida da noi, è eccitare la loro compassione. Filangieri poi, presso di loro, è il più screditato in tal materia. Ma altri doveri ha lo storico, dovendo considerare uno scrittore nel tempo in che venne, e giudicarlo secondo quel tempo. Ora noi troviamo in questo secondo libro i lumi tutti dell’età, che già, come si è detto, ferveva in tali studi. Una sola delle grandi opere di quel tempo fu ignorata dal Filangieri; è vero che tal opera fu privilegiata ad innovare tutta la scienza; e con un sistema intero di fatti e di principii dedottine ricacciò a un tratto le speculazioni anteriori nell’obsoleto e nell’obblio. Ognun vede che parlasi qui della Ricchezza delle nazionipubblicata nel 1776, mentre il libro che esaminiamo venne fuori nel 1780. Non si concilia col candore del Filangieri ch’egli avesse letto il capolavoro di Smith e non lo avesse poi citato in occasione solenne che incontreremo più innanzi; e si concilia anche meno con lettore sì assiduo e sì diligente delle cose più recenti che uscivano in Inghilterra (12), che nell’intervallo di quattro o cinque anni, che tanti ne corsero tra le pubblicazioni delle due opere, non gli venisse sentore delle dottrine di Smith, vuoi da altre opere nelle quali eran passate, vuoi da' giornali che le discutevano.

Negli otto primi capitoli di questo libro l’A. tratta della popolazione. Si scorge ad ogni parola, che il suo gran fine è di persuadere della necessità di accrescerla, e di proporne quelle leggi, e più spesso quelle abolizioni di leggi, che possano sgombrare gli ostacoli al conseguimento di quel fine. Si studia prima di pungere l’emulazione de' legislatori moderni coll’esempio di ebrei, persiani, greci e romani. Magnifica le loro leggi civili e religiose dirette ad accelerare i progressi della popolazione; mostra in che onore fossero tenuti gli ammogliati e in che disprezzo i celibi. Ma la popolazione subì terribili vicissitudini anche presso gli antichi; e nella decadenza dell’impero romano, quasi la natura volesse vendicare le sue onte col mezzo degli schiavi, di questi si valse a corrompere i costumi de' loro oppressori, e Roma n’ebbe il tracollo. Così Filangieri dopo avere, fedele al suo metodo, proposti gli antichi ad esempio, e come Tacito, dipingendo i costumi de' Germani, studiatosi di svegliare all’imitazione i contemporanei,. allorché poi si accosta, a precisare le popolazioni antiche, è costretto di accusare Vossio e Wollace, che le esagerarono ne’ loro calcoli, di erudizione scevra di critica, e si accosta alla conclusione di Hume, che con più probabilità afferma la popolazione europea essersi piuttosto accresciuta, benché in alcune parti scemasse. In Italia, ad esempio, molti sono colpiti dall’aspetto deserto, che alcune città nostre presentano, ma pochi badano, che queste città erano nel medio evo centro di piccole repubbliche o corti, e che le campagne eran deserte, come le maremme frequenti, i fiumi non bene inalveati, e mill’altre prove, che si desumono dall’agricoltura, dimostrano. E pur necessario che i fatti concordino co’ principii; ed è principio irrepugnabile, che la schiavitù, le guerre, le conquiste, e la barbarie spopolano; e la libertà, la pace, l’agricoltura, l’industria, le arti, il commercio, e le ricchezze che ne conseguono aumentano la popolazione. Ad aumento maggiore rimanevano tuttavia troppi ostacoli, e Filangieri li ravvisa ed enumera ne’ seguenti: picciol numero di proprietari, numero immenso di proletari, troppo grandi proprietari, pochi piccoli proprietari, ricchezze enormi ed inalienabili del clero, dazi eccessivi, imposte insopportabili, modo violento di riscuoterle, stato militare d’Europa, incontinenza pubblica, conseguenza di assai di questi mali e cagione insieme di spopolazione. L’A. propone come rimedi di questi mali: abolire le leggi feudali e le primogeniture, che con altri Stati desolavano singolarmente la sua patria; favorire collo spartimento delle proprietà la formazione di nuovi proprietari; diminuire la ricchezza del clero; sopprimere i conventi; sostituire ad eserciti permanenti milizie cittadine, che incombano all'agricoltura e a tutte le arti della pace. Quest'ultima riforma, ben lungi dall’essere antiquata, è tuttavia un voto di molti popoli oppressi doppiamente dagli eserciti permanenti. Altre furono compiute, e provarono nelle proposte dell’A. una condizione, che spesso manca a' riformatori teorici, la possibilità pratica di mandare ad effetto i loro consigli, e ci danno fiducia, che il tempo, medico d’assai cose, potrà compiere il resto.

La quistione, se la popolazione moderna fosse maggiore o minore dell’antica, si complica di elementi opposti, però che avvi nazioni anticamente barbare, ed ora facienti rapidissimi progressi in popolazione, e viceversa: d'altra parte gli antichi non ci lasciarono statistiche troppo esatte, onde manchiamo di dati diretti per essi', benché da dati indiretti molto si possa conghietturare con probabilità. Saviamente quindi l’A., sorvolata siffatta questione, fermasi di proposito all’altra più col suo tema connessa ed importante: Se la popolazione europea fosse giunta al suo giusto limite. Guardando alle terre non dissodate e non ben coltivate e all’incremento che arti e commercio ammettevano, Filangieri ne conchiuse, che l’Europa poteva alimentarne cento milioni di più. E probabile che a' suoi dì si sarà giudicato, ch’egli con troppo fervido filantropismo, quasi dissi con vulcanica eruzione, diffondesse questi cento milioni sopra tutta l’Europa. Eppure non si andrà gran fatto lungi dal vero affermando che il suo voto si è compiuto. Russia, che progredisce colla stessa rapidità di quella vergine terra dell’America settentrionale, raddoppia popolazione ogni quarto di secolo. Inghilterra dal 1780 raddoppiò essa pure la sua. In Francia pure la popolazione crebbe assai; e più altre nazioni vanno a grandi progressi. La somma, se pur non eccede, per lo meno s’accosta ai cento milioni: fatto che volevasi premettere a spiegare come gli economisti d’oggidì, più del ben essere de' nati pensosi, che non del numero de' nascituri, temano non la deficienza ma il soperchio degli abitanti, segnatamente in Inghilterra. Ma questo pericolo non si è per anco avverato per la patria dell'autore, ove gli scrittori di tai materie seguono ad invocare il rimpopolamento, massime ne’ vasti pascoli della Puglia che chiamiamo Tavoliere,ove bramano erezione di nuove città e stabilimento di colonie (13). Se nello Stato mancano i capitali, vorrebbero che si ammettessero forestieri, accordando loro tutti i diritti di cittadini; e allora allettati dalla certezza d’investire i loro capitali nel modo più sicuro in tempo in cui il commercio offerisce così poca mallevarla, e i fallimenti sono sì frequenti, allettati anche dalla bellezza del clima e dalla fertilità del suolo, non mancherebbero coloni che dalle parti più civili e più ricche d’Europa accorrebbero a farsi Italiani.

Fra gli altri mezzi che l’A. propone per rimpopolare il regno, insiste molto nella importanza che la popolazione sia distribuita ugualmente, e vorrebbe col diminuire la guarnigione nella capitale, col traslocare le corti d’appello dalla capitale alle provincie, e con altri mezzi, far rifluire dal centro al resto della superficie gli uomini agglomerati in questi sepolcri sontuosi. Quanto alle metropoli popolose, è gran quistione; né l’A. considerò, che se attraggono tanti abitanti, consumano altresì gran parte de' prodotti delle provincie, delle quali incoraggiano così l'agricoltura, e gran parte della materia prima, rifondendole nelle provincie modificate e cresciute di prezzo, con che aumentano la ricchezza nazionale. I soli trasporti di tali materie, raddoppiati come sono, recano alle provincie utile tanto maggiore, quanto meglio tra esse si distribuisce. Le capitali attraggono forestieri, che col loro consumo incoraggiano essi pure la coltivazione e l’industria nazionale, accumulano que’ capitali, che poi servono al mantenimento di tante classi di cittadini, ai quali danno lavoro le macchine, manifatture, fabbriche, strade ferrate, e tante imprese che senza i grandi capitali non si potrebbero fondare. Bisognerebbe che il calcolo potesse cadere ad appurare, se gli uomini ammucchiati in un luogo facciano. consumo maggiore o minore che non farebbero distribuiti in più luoghi, e lo stesso dicasi dell’aumento della popolazione e de' capitali.

Pecchio stimò poter confutare l’opinione del Filangieri coll'esempio della più popolosa fra le metropoli europei, ove le manifatture sono migliori e a miglior prezzo di tutte quelle del continente, e la mortalità è minore che in nessun’altra città. All'esempio di Londra aggiugne quello di Lione, di Parigi, di Glascow, di Manchester e di Liverpool (14). Ma fatti recenti, cioè le coalizioni degli operai, dimostrano il pericolo dell’agglomerazione degli operai, e come vadano contro a que’ due gran fini posti dal Filangieri a base della legislazione, conservazionee tranquillità. —Una proposta del Filangieri è stata mandata ad effetto nel regno, ed è il traslocamento delle corti d’appello da Napoli alle provincie; ma Volevasi allegarne, anziché. un economico, un motivo politico morale. In più luoghi insinua pure, che le leggi incoraggino i matrimoni; ma poi venuto alla conclusione, sembra ravvedersene con parole più degne della sapienza politica.

«Rimovete gli ostacoli, grida egli a' legislatori, senza darvi pensiero degli allettamenti ed incoraggiamenti. Il principe nulla dia, ma nulla tolga, e, come diceva Plinio a Trajano: Non alimenti, purché non uccida, né mancheranno quelli che brameranno figliuoli.»

La seconda parte di questo secondo libro abbraccia trenta capitoli intorno alla produzione e distribuzione delle ricchezze, a tutte le loro fonti, alle imposte e al modo di percepirle, al lusso, che piacque all’A. di distinguere in attivoe passivo. I difetti della legislazione allora vigente sono osservati con sagacia dall’A., e qui sarebbe difficile di coglierlo in fallo una sola volta in tutta l’opera; giacché poteva, come Montesquieu, vantarsi di non avere lo spirito disapprovatore. Venuto poi a' rimedi e attingendoli a scienza economica non bene digerita né innoltrata come certo è oggidì, non è più così felice, e quegli stessi rimedi che propone riescono talora peggiori de' mali; ma ove coglie nel vero è tanto più da lodarsi, che vi saliva per propria forza, se pur non vide Smith o non gliene giunsero emanazioni, lo che per noi è tuttavia un problema. E s’è pur vero ch’entrasse in paese non bene esplorato pur anco senza quell'unica guida che tanta luce vi aveva recentissimamente diffusa, nel giudicarlo l’indulgenza sarà mera giustizia. In pieno, le sue dottrine sono quelle degli economisti francesi, che segue anche nel difendere la libertà illimitata della esportazione de' grani, nella quale opinione si scostò dal concittadino Galiani, di cui però fa ufficiosa menzione. Ma in alcuni luoghi, e singolarmente ove cerea di conciliare l’interesse universale del commercio collo speciale d’ogni nazione, la sua opinione non potrebbe essere più progressiva ov'anche si pubblicasse oggidì. Siamo a tale distanza di tempo da poter giudicare della bontà di più avvisi dati dal Filangieri alle nazioni quanto al commercio, e uno ch’egli dà al Portogallo si seguita a dare anche oggidì: rechiamolo dunque. La Russia allora e il Portogallo commerciavano esclusivamente coll’Inghilterra: ora l’A. voleva, Che quelle due nazioni ammettessero tutte l’altre al concorso; ma propostosi di perorare per gl’interessi di tutti insieme senza nuocere a quelli de' singoli, si fa l’obbiezione:

«Se la Russia e il Portogallo estendessero il commercio loro a tutte le nazioni, l’Inghilterra non perderebbe ella assai? Io confesso (risponde) che l’Inghilterra, subito che dovesse fare in concorrenza dell’altre nazioni il commercio della Russia e del Portogallo, non ne profitterebbe più come prima. Ma questa perdita non sarebbe forse dopo qualche tempo compensata dal maggiore smaltimento delle sue mercanzie più ricercate subito che l’opulenza universale derivata dalla libertà universale del commercio, moltiplicando i bisogni in ragione de' mezzi per soddisfarli, ne moltiplicherebbe le richieste?»

Fa sol dispiacere e maraviglia, che dopo sì limpida veduta dell’ultimo orizzonte dell’economia commerciale, credesse poi che l’emancipazione dell'America inglese riuscirebbe dannosa alla metropoli. Bastava infatti applicare al commercio tra le diverse parti del mondo quanto dice del commercio tra le nazioni, e avrebbe detto tutto al rovescio. Avrebbe profetato, che quell’immenso sviluppo, che la popolazione e le ricchezze americane dovevano ricevere dalla libertà e indipendenza, era per aumentare incomparabilmente il commercio inglese cogli Stati Uniti, e ciò avrebbe fruttato all’Inghilterra assai più che non le fruttavano le colonie oppresse e tiranneggiate. Ecco quanto gl’inglesi confessano oggidì, almeno quanto alle relazioni commerciali.

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Quanto alla distinzione tra lusso attivoe passivo, accennata sul finire del paragrafo antecedente, è sorella carnale del commercio attivoe passivo,tecnicismo allora in gran voga, ma accusatore dell’infanzia della scienza, e ornai da essa proscritto. Lusso passivo, nella mente del Filangieri, è quello che si alimenta dall’estero di cose di gran prezzo non necessarie. E curiosa l'apologia che ne fa. Pretende dimostrare come in certa data situazione Spagna non da altro potesse venir salvata se non dal lusso passivo. Stringiamo in breve la serie intera de' fatti e raziocinj, che faranno palese l’ingegno e l’ardita indipendenza, onde il giovinetto speculava, a costo però, non diremo di ritrarre la scienza a' vagiti, ma di precipitarla ne’ paradossi. — Dice dunque:

«La decadenza di Spagna originò non tanto dalla espulsione de' Mori e dalla emigrazione degl'indigeni alle colonie, quanto dall’eccessivo accumulamento di danaro. Spagna riceveva ottanta milioni di lire l’anno dalle mine del Messico e del Perù. L’aumento annuo dell'oro e dell'argento ne diminuiva il valore, e tal diminuzione appariva nell’aumento progressivo de' prezzi di tutte le cose. Dall’aumento de' prezzi allettati, i generi e le manifatture estere accorrevano nel regno, e coll’aiuto de' grandi guadagni vincevano le difficoltà e i pericoli del contrabbando. I prodotti dell’agricoltura e dell’industria interna, mal reggendo alla concorrenza esterna, venivano poco a poco abbandonati. I mercati di Spagna si vedevano innondati dalle produzioni estere, e la nazione, dagli Stati della quale fu già detto che il sole mai non tramontava, superba regina sdrajata in trono d’oro, vedeva allora tributarie ed ancelle a' suoi piedi quante nazioni nel sudore delle lor fronti valevano a procacciarle alcuno de' suoi comodi, e le miniere paga vano;, ma come, a forza d’uscirne, il danaro venne a riequilibrarsi nel. regno colle cose venali, l’ozio aveva già messo radici così profonde negli Spagnuoli, da non potersi sbarbicare; e seguitarono a non far nulla, cominciando a vivere poco men che di nulla. In tale frangente, lo scolo che fin da principio si fosse dato al soperchio del danaro comperando dall’estero cose di lusso, solo poteva salvare le Spagne.»

Speciosa speculazione, che, postergate tant’altre cagioni di decadenza, si compiace nell'esagerare questa, che potè benissimo essere una concausa, ma non fu né la più costante né la più universale. L’universale, la permanente causa di quel fatto deplorabile è tutta morale. Libertà abolite, e tirannide ed inquisizioni fondate, poterono sole far degeneri da sé animi sì virili. Se conservaronsi formidabili fin sotto Filippo II, gli è perché assai franchigie duravano loro ancora sotto il predecessore Carlo V, né il dispotismo può fare effetti immediati. La generazione cresciuta libera e virtuosa vive del capitale adunato, e, finché il principio riproduttore dura, preserva la nuova dal cadere nel letargo e imbastardire. Che la decadenza della Spagna fosse imputabile esclusivamente allo stabilimento del dispotismo e alle sue instituzioni, ne abbiamo avuto a' dì nostri sott’occhio solennissima prova. Non appena in fatti Carlo IV e Ferdinando VII escono di Spagna, ecco subito l’energia nazionale, quanto più compressa, più elastica risorgere. Videsi allora quanto noccia la presenza di un re e di. una corte per difendere una nazione, e quanto possa la espansiva forza della libertà; e gli Spagnuoli senza re, senza generali, senza tesori, senza esercito, far quello che tante nazioni guerriere e popolose non seppero fare, perché i re stipulavano più per sé che per la nazione e le corti erano accessibili alla corruzione e all’intrigo. Infatti, ritornato Ferdinando VII, la nazione ricadde nel suo languore.

Altro errore, attinto alla scuola di Quesnay, che sol nella terra vedeva la fonte delle ricchezze, è il perorare che fossero abolite tutte le imposte indirette, le quali se già non si fermano in chi le paga ma in altri sdrucciolano e ricadono, hanno quest’utile almeno di far prestare parte dell'imposta. da un maggior numero, onde per l’anticipazione che se ne fa dai più, o da tutti, riesce possibile e non grave.

La Scienza della legislazione,quanto ad imposte, contiene di buono il modo proposto onde riscuoterle. E indubitabile che a' tempi del Filangieri il modo di percezione era pieno di abusi e in sé stesso cattivo. Quello che l’A. propone di far riscuotere l’imposta, eh'egli vuole unica, dai capi delle comuni eletti dal popolo, è ottimo. Si tentò di porlo ad effetto nel regno di Gioachino Murat, ma il ministro delle finanze d’allora, Agar conte di Mosbourg, vi si oppose fortemente in consiglio, e prevalse la sua opinione di seguire il metodo antico, secondo il quale le finanze hanno la contingenza di accrescere le loro riscossioni quante volte i contribuenti si lasciano fare le esecuzioni. Se non che le finanze a un tal guadagno troverebbero largo compenso nella cresciuta ricchezza di cittadini e nelle braccia dei doganieri e dei percettori d’ogni fatta tornate al lavoro, e per le spese di riscossione soppresse; con questo vantaggio, che il guadagno odioso che si faceva colle esecuzioni fiscali, sarebbe compensato dalla prosperità de' cittadini, nella quale risiede, come in sua radice, la pubblica. Tra le riforme, cotesta certo è una delle più desiderabili, e gli animi sarebbero ben disposti a riceverla; ma, affinché potessero misurarne tutto il beneficio, il governo dovrebbe astenersi dal trarne altro guadagno che quello emergente dalla riforma stessa. L’A. propone al governo di pubblicare calcoli, da' quali manifestamente appaja, che gl’introiti suoi non eccederebbero gli antecedenti, e che i tanti risparmi cadrebbero tutti a benefizio del pubblico. Se si dovesse implicita fede al libro intitolato Mémoires pour servir à l’histoire générale des finances par M. D. de B.,in Francia sotto Luigi XIV l'imposta pagata da' cittadini ammontava a settecento cinquanta milioni, mentre ne entravano nell’erario duecento cinquanta. Facciamo che gli abusi fossero quivi in quel tempo maggiori che altrove o che il calcolo fosse esagerato, non crediamo esagerato quello di Filangieri, che dal particolare di un paese al generale di tutti recando la supputazione delle spese necessarie a riscuotere le imposte, dai due terzi la riduce ad un terzo delle imposte medesime. Al danno cessante del pagare un terzo meno dell’imposta, e delle vessazioni, risse, prigioni, logoro di tempo che vengono dagli esattori si dee aggiugnere il lucro emergente, che recherebbe il loro passaggio dall’aspreggiare i concittadini a lavori riproduttivi. Con togliere ogni diritto di dogana, l’A. volle anche favorire il commercio nel miglior modo, cioè col rimuoverne gli ostacoli.

Passiamo al terzo libro, certo il più lodato di tutti e spesso anche dal commentatore del Filangieri. Vi si tratta delle leggi criminali: nella parte prima, della procedura criminale,e nella seconda, delle leggi penali. Quanto alla procedura criminale, le lodi che n’ebbe Filangieri devono essere spartite co’ migliori tempi di Roma e coll’Inghilterra, rimanendogli però indivisa la lode d’aver fatto conoscere quanto la procedura romana fosse provvida e giusta, e quanto si accostasse al giury, che alcuni credono d’origine scandinava o germanica; e di avere anche più ampiamente e con più esattezza fatto. conoscere sul continente il giuryinglese. Quanto agli orrori ed assurdi della procedura feudale, Filangieri, dovutosi avvolgere in mezzo ad essi, potè pienamente farli conoscere e detestare, e contribuì e riuscì a farli abolire.

La prima riforma che l’A. propone alla procedura e che cade sopra l’incoazione medesima del processo, non è ammissibile. Senza togliere quel magistrato, a cui la legge affida là ricerca e l’accusa dei delitti, Filangieri propone che, esclusane la classe dei servitori, sia concesso a' cittadini di farsi accusatori pubblici, rifiutando con ciò le denunzie segrete. Ben si scorge che l’abuso appunto e la stessa ignobilità di queste seconde fecero germogliare nella mente elevata dello scrittore il disegno di sostituire alla privata la pubblica accusa. Filangieri si compiaceva singolarmente nel contemplare i costumi degli antichi popoli liberi, e più quelli che più zelo e devozione attestavano alla patria; ma senza tali costumi l’accusa pubblica o non si potrebbe far rivivere presso i moderni, o sarebbe accompagnata da troppi inconvenienti. Non è probabile che tal riforma abbia bisogno d’essere confutata; ma, se alcuno volesse fermarsi a considerare per quali argomenti la civiltà e società attuale la risospinga, li troverà vittoriosi nel commentario di B. Constant, che ben provò essere questa una utopia pe’ tempi nostri.

Montesquieu aveva toccato sì fatta quistione. Escludendo egli pure i cittadini dall'accusa pubblica, aveva difeso l’instituzione del procuratore regio, o, com’ei lo chiama, vindice pubblico.

Filangieri viene a stretto conflitto con Montesquieu, e bisogna confessare che i suoi argomenti neppure son deboli, e a' dì nostri si sono veduti fatti che li avvalorano.

«Chi è (domanda egli) cotesto vendicatore pubblico? Un magistrato creato dal principe, pagato dal principe, dovente al principe ciò che ha, e che può esserne privato dal principe. Dignità, onori, fortuna, tutto riconosce dai favori del principe, e tutto può essergli tolto da quella mano che glie lo ha dato. Or se l’interesse è il gran motore degli uomini, io vorrei sapere dall’autore dello Spirito delle leggi,se un cittadino che non ha tutti questi rapporti col capo della nazione, potrebbe, abusando della libertà d’accusare, avere una disposizione maggiore a favorire le di lui mire di quelle che può avervi questo vendicatore pubblico, che per proprio interesse dovrebbe piuttosto considerarsi come il vendicatore del principe? I fatti che potrebbero confermare questa riflessione sono infiniti. Io lascio a ciaschedun lettore applicare quelli che son pervenuti a sua notizia.»

Tali sono le obbiezioni che Filangieri muove alla instituzione dal Montesquieu detta del vindice pubblico, che è, come abbiamo detto, il procurator regio. Quelle che il Constant muove all'accusa pubblica rispetto a' tempi nostri si possono vedere nel suo commentario al Filangieri, e si riducono ad osservare come gli uomini de' tempi nostri sieno intesi assai più agl’interessi privati che al pubblico, come gli onesti cittadini cento rispetti frenerebbero dal farsi accusatori, e, lasciandone il carico a' tristi, questi snaturerebbero l’instituzione, facendola servire a passioni private.

Posto t’ho innanzi, ornai per te ti ciba.

Proseguendo passo passo tutti i gradi della procedura criminale, l’A. vorrebbe che gli accusati fin che non sono convinti, da innocenti come possono essere, fossero sostenuti non in carcere, bensì in libera custodia, come i Romani chiamavanla, o che, in alcuni delitti almeno, se trovano un fìdejussore, fossero lasciati liberi come in Inghilterra. Nota gli abusi delle condanne per contumaci, massime dove la barbarie delle leggi, la crudeltà delle procedure e l’arbitrio de' giudici incompetenti possono far tremare anche gl’innocenti. Giunto alle prove e agli indizi, la diligenza raddoppia, massime nell’esame delle romane leggi. Dalle prove esclude la confessione: se volontaria, perché effetto di demenza, tanto è contraria alla prima legge della natura; se forzata, perché non si può far violenza a legge insita e conservatrice dell’uomo colla tortura né fisica, né morale. La tortura, poch'anni prima coperta d’ignominia dal Beccaria, I’A., a renderne più lampante l’assurda crudeltà, la mette a parallelo co’ giudizi di Dio. I combattimenti giudiziarie le volgari purgazioni,che pel massimo abuso delle parole si chiamaron giudizi di Dio,vista principalmente la barbarie de' tempi, ne’ quali furono esercitati, Filangieri, citando anche sagaci argomenti di Montesquieu, con cui perfettamente consuona in ciò, li giudica meno irragionevoli, meno ingiusti e meno perniciosi della tortura. Ognun vede che non intende far l’elogio di que’ giudizi.

I principi fondamentali sopra i quali posa l'A. ed eleva la teorica delle prove giudiziarie, della certezza morale, de' canoni diversi a' quali il criterio legale si appoggia, della ripartizione delle funzioni giudiziarie e della scelta de' giudici del fatto, sanissimi sono e giudiziosissimi. B. Constant dedica dieci capitoli ad esporre e a discutere la procedura proposta, e in questa parte del Commentario è liberale di lodi al Filangieri. Questi smaschera i vizi e gli abusi tutti del riparto delle giudiziarie autorità presso molte nazioni, la crassa ignoranza e la servile venalità de' giudici, che i baroni eleggevano nei loro feudi, e per averli più ligi, prima di eleggerli ne esigevano, scritta, la rinunzia al loro posto, e con tal atto in mano li tenevano vie più schiavi a' lor pravi comandi. Se la procedura di questo primo giudice veniva trovata irregolare, il rimedio era ben peggiore del male. Una nuova procedura era allora commessa al più vile, al più bindolo della provincia, che non solo non è pagato dal governo, ma che paga per avere il diritto di servirlo, che esercita con infamia un ministero che disonora: incapace d’ogni sentimento d’umanità, d’onore e di giustizia, altro non iscorge nell’esercizio del suo ufficio se non un mezzo fortunato e sfrontato di depredare altrui sotto gli auspicj della legge. Se Filangieri non avesse fatto altro che smascherare con tanta franchezza sì spaventevole procedura, e divisandone una eccellente contribuire all’abolizione della prima, avrebbe certo bene meritato della patria e de' posteri. All’esame di questa e di somiglianti leggi cessa la maraviglia di quelle tante nuove e distinte relazionisempre precedute dal cavallino sfrenato, stemma di quella città, e concepite nei termini seguenti:

«La trentesimaquinta rivoluzione della fedelissima città di Napoli.»

Resterebbe però la meraviglia, che mali sì atroci siansi potuti patire per sì lunghi secoli nella patria dell’A. se egli stesso non c’insegnasse che l’uomo si avvezzai tutto, e che un governo ingiusto famigliarizza i popoli coll’ingiustizia, ed il lungo abito dell’oppressione fa cessare anche il fremito all’aspetto di pericoli d’ogni specie che minacciano l’innocenza. Le riforme proposte dall’A. sono giuste insieme ed umane. Emanano dal sistema inglese combinato col sistema giudiziario de' Romani liberi, e modificato in guisa, da concatenarsi con tutto il sistema legislativo dell’A., e adattarsi a qualunque nazione e governo.

La instituzione de' giurati e l’altre forme tutrici dell’innocenza da' Romani passarono agl’inglesi, e, dopo che Filangieri, descrivendole, modificandole, esaltandole, le ebbe meglio fatte conoscere sul continente, passarono ne’ processi criminali di altre nazioni.

Dopo la procedura criminale,l’A. viene a trattare de' delitti e delle pene,parte seconda del libro terzo. Quivi espone ardua materia e di gran momento per l’umanità con metodo sì severo e distinzioni sì minute, che ne riesce di molto appianata. I principj dall’A. preposti alla legislazione penale consistono in relazioni tra diritti e doveri. Secondo l’A., le leggi son formole, esprimenti i fatti sociali, ch’altro noli sono essi stessi se non doveri da ogni cittadino contratti colla società in compenso de' diritti che acquista; però ogni violazione di un patto sarà seguita dalla perdita d’un diritto, e la violazione di un patto o di un dovere più prezioso produrrà la perdita di un diritto più prezioso. Benché nel fissare le pene Filangieri adatti acconciamente a' più dei delitti la perdita del diritto che corrisponde al dovere infranto, ne corre debito tuttavia di notare come tal principio non fosse esagerato dall’A., né recato mai fino alla grossolana barbarie del taglione, scoglio a cui era esposto ad urtare. Quindi se i più de' delitti poterono, senza crudeità, né pedantesco riscontro, esser passivi della perdita del diritto corrispondente al dovere violato, nelle pene dall’A. imposte ad alcuni altri non si avvera e non è da cercarsi quella proporzione tutta materiale, che troppo somiglia a puntigliosa vendetta, che non volesse né eccedere i limiti dell’offesa, né punto restarne al di qua. Non cessino però né diminuiscano le lodi al Filangieri di essersi disteso nel particolareggiare delitti e pene, massime per quella categoria a cui si diè nome di delitti pubblici. Tal minutezza, non punto nuova ne’ legislatori, mira ad utilissimo, anzi a necessario fine. Più le leggi criminali saranno precise, e più l’usbergo della legge sarà impenetrabile da arbitrari ed iniqui giudici. Lasciate all’equità del giudice più latitudine di quanta già ne deriva loro da certi gradi e da certe circostanze del delitto, che sono commessi a punire in proporzione, ne escono poi quelle sentenze de bono et equofamose per solenni ingiustizie. Un giudice, per considerazioni estranee, non che al delitto, alla legge stessa, rimanda impunito il delitto. Un altro condanna nel capo il reo, affinché più luminosa emergane la clemenza del principe nel commutare la pena. — No, no, stiamone fuori da lacci cotanto insidiosi!

Di quante riforme legislative l’A. propose, questa delle leggi criminali era la più urgente. Erano esse così disordinate e assurde e crudeli da per tutto, che Franklin aspettava con impazienza la pubblicazione di questa parte dell’opera; e scrivendone all’autore, così giudicava pessime le anteriori, che inclinava a credere minor male al paragone, che la punizione delle ingiurie fosse stata abbandonata al risentimento privato (((15)). Sonosi già esposti alcuni principj che guidarono FA. nella presente riforma, né sarà male soggiungerne alcuni altri. Dopo avere proposto che la pena si adatti alla natura e si proporzioni alla gravezza del delitto, viene a provare come la sanzione legale debba distinguere la persona del delinquente, le circostanze del delitto, la facilità di commetterlo, il danno che reca, la maggiore o minore speranza d’impunità che inspira, la maggiore o minore spinta che il cittadino può avere a commetterlo; come, quando, con che moderazione debbansi usare le pene capitali, che però non vuole abolite interamente; a quali delitti convenga la pena. d’infamia, che dee accordarsi coll'opinione pubblica, e non distruggerla; con che riserva ed economia e solennità vogliasi usarne; come l’infamia scemi se a molti si allarghi; come, volendosi usare le pene pecuniarie, si voglia proporzionarle alle ricchezze dell’offensore, alla condizione dell’offeso e alla natura del delitto. Neppure la pena dell’esilio potrà essere efficace, se non modificata alla condizione de' colpevoli, dei paesi, ec. Ma dove la rifonda cade più radicale siè nei delitti di maestà. Legislazioni di molli paesi avevano estesa l’imputazione di tal delitto a tanti casi e a tante circostanze, che l’A. trovò necessario, dopo avere esposto l’atrocità di tanti codici, tanti assassinj giuridici, e la stessa virtù punita capitalmente, come nel caso di De Thou, di ridurre a pochi questi delitti di fellonia.

Tre principj stabili che devono guidare il legislatore in fatto di alto tradimento: 1.° La legge non sia mai in opposizione all’opinione pubblica. 2.° Se la legge può trovare fuori di sé un ostacolo al male, non dee distruggere questo ausiliario naturale. 3.° La legge non preferisca mai un rimedio che in un sol caso previene il male a quello che potrà prevenirlo in molti. Daremo un esempio dell’applicazione del primo di tali principj. Ecco le sue parole:

«Se un amico viene ad avvisarmi d’una congiura che ha tramata; se dopo che tutti i mezzi possibili per distorlo dalla sua intrapresa sono stati da me adoperati, se dopo aver io costantemente rifiutato di aderire a' suoi pravi disegni, la congiura o per altro mezzo si scuopre o scoppia, se sono convinto d’esserne stato informato e di non averla rivelata, e sono condannato a morte, l’opinione pubblica non vedrà forse in me una vittima del, l’onore, e gli spettatori applaudendo alla mia virtù, non malediranno forse la legge che la punisce? Qual vantaggio ricoglierà la società da questa pena? Essa la priverà di un cittadino che ha preferito l’onore alla vita, e renderà odiosa la forza che glie lo toglie.»

Per esempio di tanta: nequizia cita appunto il caso funesto di Francesco Augusto De Thou, 

Scillicet egregii mortalem attigue silenti.

Questa tinta draconiana, onde in tanti paesi tanto sinistra luce mandano le leggi criminali, massime contro il perduellione, veduta da principio in Roma a' tempi di Silla, riapparve più sanguinosa che mai sotto Enrico VIIIin Inghilterra. Pessime sono adunque le leggi criminali di un paese, la cui procedura èsi umana, sì antiveggente, sì tutrice dell'innocenza ne’ processi criminali indistintamente e più in quelli d’alto tradimento, poiché quella sensata nazione sentì ivi essere maggior uopo di difesa, ove la qualità dell’accusa e degli accusatori mette più ambasce e terrore nell’accusato. Le leggi criminali son certo cattive, e le pene inflitte al delitto, di che si tratta, accusano i barbari tempi ne’ quali furon sancite; ma da gran tempp queste leggi non vengono applicate, mentre invece si seguita con più religiosa fedeltà la procedura che abbiamo lodata. Filangieri ne fu colpito d’ammirazione, sopra tutto ponendola a riscontro con quella che in altri paesi è in vigore. II parallelo ch’egli ne fa guida naturalmente alle più tristi considerazioni, e benché si legga nella prima parte di questo terzo libro ove trattasi della procedura, trovando qui altra connessione, per il contrasto tra le leggi e la procedura: criminale, vogliam ora citarlo come luogo fra' più notevoli della Scienza della legislazione.

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Dopo avere l’A. esposto tutte le esclusioni motivate di giudici del fatto che la legge accorda al reo, e lodato la provvidenza, per cui se i motivi addotti dal reo non venissero giudicati sussistenti, o se in tal caso il reo potesse temere di avere nel giudjce da lui volutosi escludere a capriccio, un nemico; a liberarlo da tale spavento la legge gli accorda la ripulsa perentoria di venti giurati; dopo insomma una fedele esposizione del meccanismo del giury, soggiugne:

«Quello ch'è più ammirabile in questa parte della legislazione inglese è appunto quello eh'èpiù contrario al metodo che si tiene nel resto dell’Europa. La ferocia del dispotismo e la violenza della tirannia si palesano presso gli altri popoli in tutta la loro estensione in que’ terribili tribunali dove si giudicano i rei di Stato. Un misterioso ed arbitrario velo nasconde tutti i passi delle loro violente procedure: un terribile silenzio lascia a' parenti ed amici dell’infelice, che vi è condotto, l’ignoranza spaventevole della sua sorte e l’impotenza di soccorrerlo; si priva l’accusato di tutti que’ dritti, de' quali la violenza sola può spogliarci, e si fa con intrepida mano il sacrifizio della giustizia e della civile libertà ad una falsa idea di tranquillità pubblica, che sotto la tirannia non si fissa in altro che nella sicurezza del despota. Que’ tenuissimi rimedi che si offrono a' rei degli altri delitti, sono, presso di loro, rifiutati a quelli, a' quali la legge in Inghilterra ha creduto di dover dare nuovi soccorsi.

«Un infelice, accusato di cospirazione contro il re o contro lo Stato, non solo non è privato, in Inghilterra, di questi aiuti che la legge gli accorderebbe negli ordinari delitti, ma vede moltiplicati i sostegni della sua sicurezza ed accresciuti i soccorsi della sua innocenza. Se negli altri delitti può escludere perentoriamenteventi giurati, in questi ne può escludere trentacinque. Se negli altri delitti l’accusato non può costringere i testimoni, ch’egli produce in sua difesa, a comparire in giudizio, in questi i tribunali gli accordano tutti i mezzi di coazione per obbligarli a comparire. Se negli altri delitti non ha che un solo difensore, in questi la legge glie ne accorda due. Se negli altri delitti egli ignora il nome de' giurati fino al giorno nel quale si dee terminare il giudizio, in questi la legge vuole che gli si palesi il loro nome, il loro cognome, la loro professione, affinché abbia il tempo di riflettere sulle ripulse che gli conviene di fare. Egli dee contemporaneamente avere, alla presenza di due testimoni, una copia di tutti i fatti che l’accusatore ha asseriti per prova della sua accusa, e dee sapere tutti i testimoni che si produrranno contro di lui. Sono questi i particolari soccorsi che la legge offre in Inghilterra agli accusati di que’ delitti che suppongono un partito più forte di accusatori.

Da ciò scorgesi come l’A., lungi dal limitarsi ad esporre nella lor nudità le pessime legislazioni in tal materia vigenti, avrebbe temuto d’insultare alla misera umanità, se non avesse a' tristi esempi contrapposto i buoni; alle leggi feudali del suo regno nativo, le leggi razionali e popolari di Roma libera e d’Inghilterra. Se Filangieri non avesse avuto in pronto rimedi efficaci a' mali che additava, la voce onde garrì tanti abusi, che vanno fino all’assassinio giuridico, non sarebbe sembrata, come sembrò, la voce d'Ercole che purga la terra da' mostri. Molto adunque della romana e della inglese legislazioni adattando in un Piano di nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie funzioni per gli affari criminali,non poco v'introdusse del proprio; e basterà notar qui alcune di tali modificazioni. Lasciò alla legge inglese il gran giury, a cui compete deridere se debba o no ammettersi un’accusa e sostener l’accusato. Già vedemmo ch’egli conferì ad ogni cittadino, con pochissime eccezioni, che abbiam riferite, il diritto di farsi accusator pubblico. — Propone in oltre un magistrato, ch’ei chiama accusatore,e le sue attribuzioni sono: d’inquisire gli autori di quei delitti, de' quali non avvi privato accusatore; di scoprirli, accusarli e trarli in giudizio; destituire contro di loro l’accusa con quelle stesse formole e solennità, colle quali dovrebbe instituirsi se l’accusatore fosse un privato cittadino; di sostenerla allo stesso modo finché ne fosse terminato il giudizio; di esibirsi alle stesse promesse, e di esporsi agli stessi pericoli. In questi magistrati, a differenza di Roma, non solo la calunnia manifesta, ma anche la semplice calunnia dovrebbe essere punita, come in ogni altro accusatore. — Da ciò si vede quanto la magistratura proposta dall’A. differisca da quella del procurator regio, contro la quale abbiam già riferite le sue obbiezioni; ma la differenza massima consiste nella breve durata del magistrato accusatore, che Filangieri propone di rinnovarsi ogni anno. È degna d’osservazione la ragione in che l’A. fonda questa breve durata. E proprio degli scrittori italiani fondere il maneggio pratico degli uomini eil modo di governarli nello studio profondo della loro natura.

«Se noi osserviamo, dic’egli, il morale carattere degli uomini, noi troveremo in tutti un pendio più o meno sensibile, ma comune ed universale, al cangiamento. Noi troveremo che l’incostanza è il più costante carattere degli individui della nostra specie. Questo vizio degli uomini si comunica al governo, e il rimedio al male è la breve durata delle magistrature. Il fatto giustifica questa riflessione. Nelle nostre monarchie si osserva quell’incostanza che non si osserva nelle repubbliche. Nelle prime le leggi passano dall’infanzia alla decrepitezza, dal maggior vigore all’obblio con rapidità grande; nelle repubbliche avviene l’opposto. Noi vediamo in queste le leggi conservare per più secoli il loro nativo vigore. Noi vediamo in esse molte volte corrette le antiche leggi, molte volte abolite, ma le vediamo rare volte obbliate. Quali sono i motivi di questa differenza? Ve ne sono vari, ma uno de' più forti è, che nelle monarchie le magistrature sono perpetue, e nelle repubbliche hanno una breve durata. Nelle prime regna l'incostanza, perché si lascia al magistrato il tempo di abbandonarsi al naturalpendio degli uomini, e nelle seconde si previene questo male col cangiamento continuo delle magistrature. In queste il cittadino non è magistrato che durante, presso a poco, quel tempo che può durare il suo zelo e la sua costanza, ed in questa maniera, con una successione ben combinata di magistrati incostanti, esse formano un governo il cui spirito è la costanza.»

L’A. vorrebbe che anche le monarchie adottassero, per quanto la natura del governo permette, il metodo delle repubbliche; e propone parimenti annuo, col nome di preside, un altro magistrato moderatore e direttore di quel primo magistrato accusatore. Di tali e somiglianti riforme, che incontransi in questo terzo libro, ove l’Italia acquistasse un di autonomia, è probabile che potrebbe non poco profittare. In opera intitolata Scienza della legislazionel’A. non poteva preterire in silenzio la legittimità del diritto di punire e anche di morte. Se nel derivare questo diritto e nel confutare chi lo nega si fermò troppo, sono da imputarsene i sofismi speciosi e i nomi degli oppugnatori.

Veggiamo ora quali fossero le dottrine dell’A. intorno a due delle più gravi pene, la confisca e la morte; e limitiamoci ad esporle colle ragioni onde le sostiene, il tempo e lo spazio mancandoci per entrare in discussione ad ogni passo coll’A., già troppe essendoci permesse di tali digressioni in quest'articolò. Contro l’opinione di molti scrittori, seguita anche da alcune monarchie pure che esclusero tal pena da' loro codici, Filangieri mantiene la confisca pe’delitti d’alto tradimento, e scioglie l’obbiezione che i figliuoli innocenti divengono passivi di questa pena de' padri loro nel modo seguente. «Qual è, dic’egli, il diritto che perdono i figli colla confisca de' beni del padre delinquente? Se la legge priva il padre del diritto di disporre, dove è più il diritto di succedere ne’ figli? Se il padre avesse dissipato i suoi beni, potrebbero mai i figli, che non ebbero parte ne’ suoi disordini, pretendere alla successione degli alienati beni? Non sarebbero essi anche in questo caso privati, senza lor delitto, della paterna eredità?» A questo primo l’A. aggiugne un secondo argomento osservando, che il timore di lasciare i figliuoli nell’indigenza sarà in certe occasioni freno maggiore che non sia il rischio di perdere la propria vita.

Mantiene pure la pena di morte e all’argomento del Beccaria, che nega alla società il diritto d’infliggerla, risponde così. «L’uomo fuori della società civile, nello stato della naturale indipendenza, ha il diritto alla vita, egli non può rinunziare a questo diritto, ma può egli perderlo? Senza ch’egli rinunzi a questo diritto, può egli esserne privato? Vi è mai un caso, nel quale un altro può ucciderlo senza che egli data gli abbia l’autorità di farlo?

«In questo stato di naturale indipendenza ho io il di ritto d’uccidere l’ingiusto aggressore? Niuno ne dubita. Se dunque io ho questo diritto sulla sua morte, egli ha perduto il diritto alla sua vita, giacché sarebbe contraddittorio,che due diritti opposti esistessero nel tempo istesso. Nello stato dunque della naturale indipendenza vi sono de' casi, ne’ quali l’uomo può perdere il diritto alla vita, ed altri può acquistare quello di toglierla senza che alcun contratto sia passato tra questi due. Ma si domanda: questo caso è soltanto quello dell’aggressione e della difesa? Se l’evento corrisponde a' disegni dell’empio aggressore, se l’infelice ch’egli ha assalito cada morto sotto i colpi della sua mano omicida, allora il diritto che questi aveva acquistato sulla vita dell’aggressore resta forse estinto colla sua morte, o si diffonde egli sul resto degli uomini, ciascheduno de' quali è vindice e custode delle naturali leggi? Dovremo noi supporre, che l’aggressore che aveva perduto il diritto alla vita prima di perfezionare il delitto, lo riacquisti dopo che il delitto è consumato?Dovremo noi credere, che l’istessa causa (il delitto) possa produrre un momento prima ed un momento dopo due effetti diametralmente opposti?»

Da tal serie d’argomenti ab absurdoesce coartata la conseguenza: che il diritto di punire di morte nello stato sociale deriva dal diritto di difesa dello stato di natura. Rousseau aveva parimenti difeso questo diritto. Gli è per non divenir vittima d’un assassino, ch’altri consente a morire se diviene assassino egli stesso. In tal convenzione, ben lungi dal disporre della propria vita, si pensa unicamente a guarentirla; e non è da presumersi che veruno de' contraenti premeditasse allora di farsi impiccare. E, ad abbattere quell’altro argomento, che si trae dal non aver l’uomo diritto nella propria vita, e quindi non poterlo trasmettere al sovrano, lo stesso Rousseau soggiugne, che ogni uomo ha diritto di rischiare la propria vita per conservarla. Si è egli detto mai, che colui che si getta da una finestra per isfuggire ad un incendio sia colpevole di suicidio? Si è egli mai imputato questo delitto a chi perisca in una tempesta, di cui imbarcandosi non ignorava il pericolo? Romagnosi, con più rigore scientifico e per anelli analitici più strettamente connessi, venne alla stessa conclusione,. che il diritto penale è il diritto di difesa dello stato di natura, modificato dalle circostanze sociali, onde lo disse diritto di difesa riflesso. Agli argomenti più saldi in favore del diritto di punire Filangieri volle aggiugneme altresì alcuno men forte, e fra gli altri volle trarre un argomento di analogia dal diritto delle genti, che l’autore della Genesi del diritto penaleconfutò così:

«Allorché nazione aggressa invoca l’aiuto di una terza, se ciò fa per trattati, l’esempio non vale a provare simil diritto in uno Stato, in cui si presuppone non avervi patto di sorta; se no, equivale all’aiuto che i terzi recano all’aggresso nello stato naturale, né può eccedere i confini di giusta difesa. Bentham finalmente, fedele sempre a ciò ch'è più espediente, emise conciliatoria opinione, separando il diritto dalla utilità di applicare la pena di morte, conchiudendo, che la società ha bensì il diritto di punire di morte, ma che le manca l’utilità di questa pena, e perciò dee astenersene. Filangieri stesso confessa i grandi abusi che se ne sono fatti, massime in Francia e allorch’egli scriveva (1784).

«Tutti si lagnano della moltiplicità degli assassini in Francia e tutti attribuiscono questo male alla legge che punisce colla morte il semplice furto. Manca in questo paese al ladro un freno di più per non divenire assassino, poiché il secondo delitto, senza esporlo ad una pena maggiore, lo libera da un testimonio importante, la denunzia del quale può condurlo al supplizio. Per punire il furto colla morte si son dunque moltiplicati gli assassinii in Francia.

«La seconda conseguenza che deriva dallo stesso principio è l’impunità de' delitti meno atroci. Regola generale. Una legge tirannica non può conservarsi in un popolo libero; una legge feroce dee, presto o tardi, perdere il suo vigore in un popolo umano. Se l’autorità legislativa non l’abolisce, la congiura de' costumi la fa tacere, e la negligenza o la durezza del legislatore sarà allora la causa unica de' progressi di quel male, che una legge più umana potrebbe facilmente impedire. Gli esempi che possono illustrare questa verità sono molti.»

Se l’impunità è necessario effetto del rigore soverchio delle leggi penali, se la certezza di pena mediocre è freno più efficace a rimuovere altrui da' delitti, che non il timore di maggior pena temperato dalla sperata impunità, era naturale, era dritto che questo riformatore della legislazione, il quale tanto si adoprò a mitigarla, fosse poi avversissimo ad ogni impunità sotto qual si fosse colore ella si mostrasse. Però, impugnando Montesquieu, nega al principe il diritto di grazia. 0 la legge è buona, dic’egli, e debb’essere eseguita; o è cattiva, e dee abrogarsi o modificarsi. Senza dire che è abusivo in sé, il diritto di grazia oltraggia la legge. E poi da chi e come suolsi ottenere la grazia? In generale da chi colla denunzia de' complici compra l’impunità, da chi compera il cortigiano amico o la cortigiana amica del principe, da chi osa accumulare più bassezze e delitti, dal più tristo in somma. Solo in due casi l’A. concede al principe il diritto di grazia: 1.° allorché il condannato sia ragguardevole per virtù o talenti che furono o possano divenir utili alla patria, giusta l’adagio: Peritus in arte non debet mori;allorché il suo delitto annunzia più impeto di passione che perversità di cuore; allorché i magistrati che lo giudicarono e il popolo che fu scopo o testimonio delle sue virtù ne sollecitarono la grazia e la momentanea sospensione della legge; 2.° allorché gran numero di cittadini è trascinato da spirito torbido ed inquieto, e una città o un villaggio intero si fa complice d’un delitto; ogni volta insomma, che la pena inflitta dalla legge lascerebbe pernicioso vuoto o nella popolazione o nell'agricoltura o nell'art.

L’A. applicò il principio della bontà relativaa tutte le circostanze che possono diversamente modificare la colpabilità. Tali sono i diversi gradi d’infanzia o di. maturità de' popoli, di diverse nature de' governi, della religione, dell’indole, de' costumi, del clima, della situazione, delle ricchezze, delle produzioni, del territorio, di quanto insomma costituisce lo stato fisico, politico e morale delle nazioni. — Addita a quali delitti saranno più acconce le pene pecuniarie, a quali le pene d’infamia, che riescono peggio assai che inutili, se non sieno sancite dall'opinione. — Aboliva le classificazioni de' furti diversi, stabilite dal romano jus, ma stabiliva divisioni e suddivisioni di tutti i delitti. Una prima divisione de' delitti è in dieci classi. Per esempio, la terza classe di questa prima divisione, ch’è dei delitti contro l’ordine pubblico, è suddivisa in otto classi; e la sesta classe, che è dei delitti contro l’ordine delle famiglie, contiene sei diverse specie di ratto, a ciascheduna delle quali debb’essere variata la pena.

Furono da alcuni stimate soverchie tante divisioni; maprima di condannarle vorrei che si pesasse di nuovo il vantaggio che tanti minuti insegnamenti pratici possono recare alla codificazione.

Opere posteriori sono più cospicue per magnifici principii universali, ma ove si discenda poi ad applicarli e dedurli in precetti pratici, non sempre reggono alla sperienza. La Scienza della legislazione,co’ molti principii generali che contiene, adempie alla pompa del titolo; ma l’A. volle che a' principii succedessero le applicazioni e queste ci paiono giudiziose e ben dedotte da que’ principii. Fondano quelli nella morale universale econsuonano al grido della coscienza dell’uman genere, e lo scrutinio dei delitti e le divisioni loro sono minute sì, ma non chimeriche.

Questo libro, che talora alzando una voce tribunizia proclama i diritti imprescrittibili dell’uomo, talora colla severità del giusto appone il suggello dell'infamia a tante sentenze giudiziarie; talora esprime i voti che tante volte furono espressi dopo Filangieri, esaurisce compiutamente la materia. Se non trattò del modo di prevenire i delitti, avvi doppia cagione. Prevenire direttamente i delitti è contro la libertà umana, né la legge può presupporre gratuitamente la volontà di commettere un delitto. Quanto poi alla loro prevenzione in diretta, se l’A. non ne parla ex professoin questo libro, gli è perché non solo tutte le proposte leggi penali mirano a tal fine, ma quant’altre parti compongono l’opera tutta sono a quel fine coordinate, e principalmente la parte che versa intorno alle leggi relative all’educazione, a' costumi e alla pubblica istruzione, che ora appunto entriamo ad esaminare.

Senza i costumi a poco giovan le leggi, e l’istruzione nelle moderne società è l’unico correttivo della corruzione, l’unico argine all’abuso della forza. A instillare i buoni costumi, a dare e a diffondere l’istruzione è necessaria l’educazione degli anni primi, che tanto può nella vita. Alle leggi pertanto che spettano all’educazione, ai costumi e all’istruzione pubblica dedicò Filangieri il quarto libro della Scienza della legislazione. Quivi non fermasi, come negli altri, ad esporre in prima lo stato attuale di quel soggetto che imprende a riformare, ma di primo tratto si fa a svolgere quel vasto disegno di educazione ch’egli ha divisato. La molta morale impiegata nel libro antecedente si riduceva al timor delle pene, lo che, in difetto di piò intimo, di più nobile freno, bastava allo scopo. Propostosi ora di svolgere negli uomini non più una negativa incolpabilità, bensì una operante virtù, è forza ricorrere altresì non più a' calcoli di una fredda ragione, ma sibbene a' caldi sentimenti del cuore. Quercia robusta, che alle radici nutricandosi di succhi sostanziosi, vien lenta crescendo e compatta, spande largamente i rami in pura atmosfera, e il capo erge al cielo, è la virtù che succhiasi coll’educazione; la quale suolsi distinguere in pubblica e privata. Preferita quest’ultima a formare un uomo, un Emilio,Filangieri elegge la prima a formare un cittadino, un popolo, suo grande scopo in questo libro. La tesi è giusta in sé, e si fa poi giustissima nell’applicazione al regno che l’A. faceva di questa riforma radicale. L’educazione privata in paesi molli tende a perpetuare la mollezza, in paesi di opinioni pregiudicate tende a perpetuarle, poiché nell’educazione privata non avvi scelta d’institutori, ma tali sono tutti i padri, tutte le madri, tutti gli esempi sociali; e se tali persone fossero quali debbono essere, non vi sarebbe alcun bisogno di riformare l’educazione. Non essendo, Filangieri s’appiglia all’educazione pubblica, assai più pubblica di quante sotto un tal nome ne conosciamo in Italia.

Il disegno del nostro riformatore èvastissimo e pieno di precisione fin ne menomi particolari. Divide da prima in due grandi classi gli educandi, e in tal divisione mira principalmente a conseguire che tutti gli studi liberali sieno liberalmente professati, e a togliere quel disquilibrio sociale, per cui le vie che mettono a certe professioni sono ingombre e affollate di concorrenti, mentre altre io non so bene se già cominciassero ad abbandonarsi, o se solamente egli temesse che si abbandonassero.

Le due classi sono formate da' poveri e da' ricchi, o, come l’A. li chiama, da' produttivi e dagli sterili. La classe produttiva debb’essere istruita di quanto può migliorare moralmente i produttori e fisicamente i prodotti, ma più compiuta ed elevata istruzione è necessaria alla classe sterile, affine di preservarla dall’ozio che la corrompe e di renderla essa pure utile alla società. Questa classe pertanto, ch'è di gran lunga la men numerosa, sarà istituita in tutte le scienze e nelle lettere; e per sollievo, in tutte quelle arti che possono fortificarla ed ornarla. Le ricchezze traendo a sé il potere, chi le possiede deve ad esse congiungere i lumi necessari nelle magistrature, nel comando degli eserciti, ec. E siccome a tutti gli altri bisogni de' ricchi è già provveduto, è vie più probabile che sentano il bisogno della gloria più altamente di chi è premuto da altri bisogni indispensabili. Non essendo adunque tentati di fare delle scienze e delle lettere strumento di guadagno, ad essi ne sarà affidata la coltura, come a quelli che hanno tutto l’agio a ciò e tutti i modi di coltivarle anche con loro dispendio più utilmente e più altamente. Con ciò si verrà anche ad evitare quell’affollamento eccessivo che si osserva agli accessi di certe carriere, mentre altre (temeva o vedeva egli) rimangon deserte delle braccia necessarie. Questo inconveniente, grave alla società, si è fatto sentire con molta molestia, dopo la pubblicazione dell'opera che esaminiamo, in molte nazioni, e onora la sagacia del Filangieri l’averlo presentito è già più d’un mezzo secolo. Ma il rimedio, ch'egli vi appresta in un riparto giudizioso di lavoro preparato fino dalla prima istruzione, vuol però essere inteso e usato sanamente, e non confuso con nulla che somigliasse alla divisione delle caste indiane. Un provvedimento, che non isfuggì alla sapienza liberale dell’A. della Scienza della legislazione,mostrerà quant’ei fosse lontano da ogni esclusione assoluta. Ai magistrati che dirigono costantemente e a quelli che invigilano sopra la classe produttiva FA. assegna, fra gli altri, anche ildovere di esaminare se alcuni tra gli allievi manifestino chiare disposizioni per riuscir utili alla società più coll’ingegno che colle braccia, e per questi privilegiati dalla natura, che sempre furono scarsi, vi sarà una classe speciale, e tutti i provvedimenti economici ad essa necessari sono esattamente indicati dall’A. Così, meglio che non accada nella privata educazione, ove i giudici competenti mancano, nel sistema dell’A. è provveduto affinché gl’ingegni ragguardevoli non vadano perduti, e nello stesso tempo non sieno tolte da studi improvvidamente intrapresi tante braccia che sarebbero riuscite utili all’agricoltura ed alle arti. Così l’A. fa eminentemente servire il suo disegno d’educazione e d’istruzione a quel principio da lui tanto inculcato e sì vero: che più assai dell’ignoranza sono fatali gli errori. Ora a diminuirli giova scemare il numero de' ciechi che si fanno duci, de' precettori dell'uman genere senza missione, e degli scioli che diffondono i mezzi lumi; e per tal modo soltanto le lettere potranno riassumere quella dignità e quella estimazione, che vien loro mancando ogni dì pel numero prodigioso de' guastamestieri.

Questo libro quarto è diviso in tre parti. Nella prima sono le leggi relative all’educazione della prima età. Nella seconda trattasi delle leggi relative a' costumi, e se ne promove lo sviluppo per via non ignota in vero, ma da nessuno scrittore e da nessuno istitutore tra' moderni calcata con leggi così coordinate allo stesso scopo, come son quelle proposte dall’A. Veduto egli, che la passione unica originaria dell'uomo è l’amore di sé, ch'essa è sola universale, costante, insita nella sua natura, e tutte 1 altre, modificazioni di quella prima, svariare all’infinito, si adopra a tutto potere di divisar tali leggi, che congiurino a modificare l’amore di sé in passioni generose e utili alla patria, svegliando negli animi giovanili l'amore di questa patria, l’amor della gloria, l’amore della libertà. Nella terza parte sono le leggi relative alla pubblica istruzione, e qui provvede allo sviluppo intellettuale di que’ giovani che, imparati gli elementi ed emancipati dalla pubblica educazione,vogliono proseguire la carriera del sapere e dedicarsi a qualche parte di esso secondo la vocazione. L’A. vuole, che il professore non detti dalla cattedra con orazione continua ciò che potrebbe con pari utilità pubblicare colle stampe, e il giovane imparare anche da altre opere intorno a quella data scienza. II professore presterà soccorso d’altra specie allo studioso: ora sciogliendogli una difficoltà, ora comunicandogli quelle vedute o sagaci, o complessive e larghe, che gli uomini consumati nello studio di tutta una scienza additano, senz’awedersene, a chi gl'interroga. Insisteranno sopra la successione de' passi che guidarono alle scoperte e alle invenzioni, additando la parte debita a' severi metodi nello studio e al genio, e quella che spesso v’ebbe il caso. Riveleranno per quali gradazioni e per quali felici dimostrazioni certo nazioni passassero dallo stato di opinione a quello di verità provata.

Tra tanti esempi dell’arte usata dall’A. per destare ne’ petti de suoi allievi una passione dominante, che sia conducente alla felicità della patria, scerremo il primo che s’incontra. E incredibile quanto sien decisive per muovere e formare in noi quella passione, che poi decide della nostra vita intera, le letture prime. Or ecco come

l’A. volesse a queste provvedere e a qual ora le desti nasse. Premettiamo, che parlando del sonno, e concedendolo lungo di ben dieci ore alla infanzia che ne abbisogna, lo vien poi scemando per gradi coll'età, e, tenendo ferma per tutta la vita l’ora della svegliata, sottrae all'ora del porsi a letto. Per rimuovere poi dalla prolungata vigilia insieme col sonno anche la noja, che vuol sempre fuggirsi in una buona educazione, Filangieri propone per quell'ora guadagnata sul sonno la lettura piacevole di romanzi... ma quali romanzi? Filangieri vuole che sieno storici, e che il romanziere ne assecuri il lettore, perché è incredibile quanto una tal circostanza ne renda più efficace la lettura; che gli eroi ne sieno tolti dalle professioni de' fanciulli stessi... e siamo fortunati di poter stringere in due parole la definizione che ne dà Filangieri, dicendo ch’egli avrebbe voluto de' Promessi Sposi. Con tali letture l’A. sperava svolgere que’ sentimenti e quelle passioni, che formano il carattere dell'uomo.

Studiandoci principalmente in questo Sunto di cavare dalla Scienza della legislazionequanto avvi di non ovvio, e v’ha molto, citeremo qui testualmente l’opinione del Filangieri intorno alle opinioni. Fra l’altre cose ch’egli ingiugne a codesti, non direm professori, ma direttori degli studi scientifici, raccomanda loro di «discreditare, sempre che l’occasione se ne presenti, quell’estremo opposto all'antico, ma non meno pernicioso, col quale dalla mania di dare alle opinioni il peso dovuto solo alla verità, si è passati a quella di disprezzare senza distinzioni tutto ciò che è opinione, o colle opinioni concatenato; a mostrare a' giovani studiosi la differenza che intercede tra le opinioni unicamente agguantisi intorno a nuove combinazioni di parole, o che, invece di spargere un maggior lume sopra fatti della natura o sopra idee degli uomini, falsificano, alterano, ravviluppano od oscurano gli uni e le altre; e le opinioni che, sebben nuove ed ardite, son fondate sull’osservazione, collegano e recano all’universale molti gran fatti considerati in prima come solitari, assegnan loro una causa comune, e li spiegano in una maniera più probabile che alcun’altra ipotesi anteriormente imaginata; a far loro, io dico, distinguere la prima specie d’opinioni, che merita il maggior disprezzo, dalla seconda, ch'è uno de' mezzi più attivi e più efficaci della scoperta delle nuove verità e del reai progresso dello spirito umano; ad incoraggiare in questo modo lo spirito di congettura e nel tempo stesso dirigerlo, e a distruggere un pregiudizio che scoraggisce tanto gl’ingegni inventori, quanto favorisce la naturalpigrizia dell’uomo, piucché mai durevole allor ch’è combinata con una specie d’applicazione leggiera e, per dir cosi, meccanica che alimenta la sua curiosità senza tormentare il suo ingegno.»

Ciò basti a saggio dello spirito che dovrebbe informare le università degli studi secondo il Pianodel Filangieri, in ciò assai somigliante a quella instituzione che prese origine i primi anni della rivoluzione in Parigi e che chiamavasi Conferenze della Scuola Normale,nelle quali allievi e professori tra sé promiscuamente interrogavansi, dialoghi che ci furono conservati e che spirano()interesse per la scienza.

Quanto alle accademie scientifiche, scelti gli statuti di quelle che salirono in maggior fama, vorrebbe che tre fini si prefiggessero principalmente. Considerate le dispute e gli errori insorti dalle idee diverse annesse dagli uomini alle stesse parole, propone 1.° un lavoro, nel quale ogni parola sarebbe definita secondo il senso proprio, il senso figurato e il senso lato, e la lingua nostra ha gran bisogno di un tal vocabolario filosofico; 2.° la composizione di libri elementari per le diverse scienze, né si vuol giudicare che la riunione di parecchi uomini ragguardevoli nelle scienze sia soverchia a tal uopo. I libri elementari, che tanto possono nell’insegnamento, a farli bene sono difficili; 3.° una società economica che tenda a perfezionare l’agricoltura e l’arti meccaniche. I membri sparsi nello Stato corrisponderanno coll’accademia informandola degl'ineonvenienti da ripararsi, dei mali da farsi cessare, e de' beni da promuoversi. Questa proposta del Filangieri compresa sotto il numero 3.° fu in qualche modo mandata ad effetto nella sua patria.

Il corso di educazione dura tredici anni per la prima classe, e quindici per la seconda. I giovani ne escono a dieciotto anni compiuti o a venti. Le spese tutte per la prima classe sendo a carico del governo, pochi padri rinunzieranno a tal vantaggio; ma tutti son liberi di profittarne o no. Solamente il magistrato non avrà bisogno del consenso paterno per raccogliere nelle case di pubblica educazione i figliuoli de' mendicanti e de' pazzi, come v’entrano per diritto gli orfani e gli esposti. È pure spiegato qual parte nella scelta dell’arte o mestiere abbia il padre e quale il magistrato, che, osservati i bisogni del comune, ne riempie le lacune. E provvede altresì a far imparare all'allievo due mestieri, so uno non può esercitarsi in tutte le stagioni.

Dalla parte organica dell’insegnamento passando alla morale, è degno del Filangieri il prescrivere al sorvegliante (corrisponde al prefetto degli antichi collegi, come il magistrato corrisponde al ministro, e il magistrato supremo ab rettore) di non rispondere alle interrogazioni che eccedano il suo sapere, ma di consigliare gli allievi a rivolgersi per tali soluzioni al magistrato, con che s’insinua a' giovani d’avere meno vergogna dell’ignoranza che dell’errore, e d’aver il debito rispetto al vero. — L’A. studiasi d’inspirare al fanciullo un sentimento profondo della dignità propria, insegnandogli a sforzarsi di conseguire prima d’ogni altra la stima propria; a non ravvisare né grandezza né gloria verace in altro, se non che nell’esercizio di virtù e di talenti propri. L’appello a questo foro interno del fanciullo gioverà altresì a diminuire il bisogno de' castighi e de' premi, che sono le molle meno nobili della educazione; dalla quale giudicò tuttavia che nonsi potessero togliere affatto. Giudicò il castigo utile anche ad incutere ne’ fanciulli il rispetto alle leggi e il timore della sanzione penale, preparandoli così alla vita civile. Quanto a' premi, mi pare che ne abusi qui come altrove, incorrendo in qualche contraddizione col principio di appellarsi alla coscienza, stimolo più nobile e più sicuro che non il giudizio altrui, che appunto si manifesta ne’ premi seco recanti il pericolo di sviluppare là vanità e l’interesse mal inteso. — Fra tanti premi proposti in quest'opera, quelli che si possono senza esitazione approvare sono i premi scientifici, de' quali Filangieri diffinì assai bene il vantaggio, osservando che, sebbene la meditazione sia premio a sé stessa, per isperimentame il piacere vivo, profondo e durevole, è necessario averne prima sopportato con lunganime pazienza e durata di tempo le pene: però i premi scientifici sono ordinati non tanto a stimolo de' vecchi atleti mossi da ben altro, quanto ad allettamento di nuovi concorrenti all’arringo, a quali può dar nuova lena questo motivo estrinseco.

Confessiamo inoltre, che a meglio accertare gli effetti di buona educazione non èforse soverchio il ricorrere alla moltiplicità de' mezzi, poiché in alcuni avranno più efficacia gli uni, ed altri in altri. Così l’uomo non essendo mera intelligenza, ma composto di facoltà svariatissime, l’A. non rinunzia al colpirne vivamente i sensi e l’imaginazione. Allorché i giovani hanno compiuta la loro educazione, il supremo magistrato li licenzia colla emancipazione, e per far maggiore impressione nelle menti giovanili, fa di quest'ultimo atto dell’educazióne una solennità pomposissima. Tutti gli allievi sono presenti. Inni, musica, trono su cui siede il magistrato supremo fregiato di tutte le insegne, e trono più elevato sii cui riposa il codice delle leggi, discorso eloquente del magistrato, tutto cospira a lasciare nella mente del giovane emancipato una memoria indelebile degli ultimi ammaestramenti che riceve.

Sarebbe stato utile far concorrere questo ausiliare de' sensi ove si studia di avvivare il sentimento della compassione in quelle classi, nelle quali sarebbe più proficuo ed è più morto, perché sogliono avere poca sperienza della sventura. Ove raecomanda di promuovere ne’ giovani questo sentimento, nei quale consiste tanta parte dell’umanità, suggerisce a lai fine discorsi morali; ma non sarebbero esse più eloquenti e più efficaci le visite frequenti a' poveri e agli infermi?

Veduti così i sommi capi della parte organica di queste vaste fondazioni di educazione, e de' principii morali che debbono servir loro di norma, resta solo a toccare della religione e delle riforme proposte dall’A. nell’insegnamento delle varie scienze; riforme che mostrano, oltre a molta salacità e non poca originalità, quanto l’A., benché sì giovane, avesse meditato intorno alla metafisica di tali scienze.

Quanto alla religione, l’A., da per tutto nell'opera che esaminiamo religiosissimo, è nondimeno sobrio nel prescrivere l’insegnamento religioso da darsi agli educandi. Egli doveva consacrare un libro intero, che poi non potè finire, alla religione considerata nelle sue relazioni colle leggi ecollo Stato, e doveva farne una grandè ausiliare delle leggi, come quella che penetra dove le leggi non possono, cioè ne’ cuori e nella coscienza.

Alle morali istruzioni da comunicarsi alla solita età dai sette agli otto anni si alternerà ogni domenica la religiosa. A cansare ogni concetto materiale che i fanciulli si potessero formare di Dio, l’A. insegna a procedere per esclusione. Raccomanda, che venga ad essi inculcato di non isforzarsi per comprendere la natura dell’ente supremo, e di contentarsi di sapere, che nulla di quanto cade loro sotto i sensi ne costituisce l’essenza. Quindi se ne svolgano loro in breve gli attributi di creatore, di eterno, d’infinito, di pura intelligenza, che altra relazione non ha colla materia, tranne quella di averla creata e di conservarla; e finalmente si sveglierà ne’ cuori giovanili il rispetto, l’amore, la gratitudine dell'uomo dovuti a' beneficii di Dio.

In un momento, in cui si dibatte con tanta alacrità la quistione circa la competenza della legge nel regolare la pubblica istruzione, e il conflitto fra la Università ed il Clero è così vivo in Francia, non voglio tacere qual fosse in questo proposito la dottrina del Filangieri.

Premettasi, che i confini dello Stato Pontificio col Regno, la antica investitura di Napoli conferita da alcuni Pontefici ad alcuni re di quel regno, le regalie e alcuni paesi sul confine, sopra i quali i due Stati vantano diritti, hanno più volte fra di essi rinnovato la lotta, e molto vivamente,' intorno a' tempi ne’ quali Filangieri scriveva quest’opera, come si scorge da quella biblioteca di scritti canonici e teologici profusamente usciti in quell'epoca. Quivi adunque, più che in verun altro paese, alle spirituali direzioni si mischiarono interessi temporali e di Stato, e qui più che altrove Roma incontrò resistenze, e per tutto il lungo spazio che Napoli fu un governo viceregnale, e nulla più di una malmenata provincia del Re cattolico, Roma non potè mai introdurvi la inquisizione. Per tutte queste ragioni Filangieri osserva quanto sarebbe pericoloso, fino a che non sieno, perfettamente concordi società, governo e sacerdozio, l’affidare a preti la educazione, e però egli toglie ad essi, e confida a' magistrati secolari, anche la stessa educazione religiosa.

Veniamo all'insegnamento scientifico, parte originale di quest’opera. A buon conto in quella divisione in due classi evvi tanta giustezza di vedere e meditazione così profonda delle cause e degli effetti della prosperità sociale e del suo meccanismo, che, sebbene ne abbiamo già parlato, siamo costretti a riparlarne. Tra le innovazioni dell’A. nessuna ci ha più profondamente convinti di questa, e per le salde ragioni, nelle quali l’A. la fonda, e per quella sperienza di disagi sociali che si sono riprodotti in vari paesi dopo la pubblicazione di quest’opera, appunto per essersi scostati dalla massima tanto inculcata dal Filangieri. Questa massima: che i lumi vadano congiunti colle ricchezze , si combina nelle teoriche dell’A. coll’altra: che gli errori sono assai più funesti alla società che non l’ignoranza. Odasi lo stesso autore.

«Qual è il paese che più abbonda di errori? E quello ove costa meno l’avviarsi nella carriera delle lettere. L’uomo che ha minori errori è il vero dotto; ma la gran sede degli errori non è in colui che non sa, ma in colui che sa male. Questi li comunica a quello, e col suo mezzo, più che con ogni altro, l’ignoranza si unisce agli errori. Ora, il paese che più abbonda in falsi dotti e che ha un minor numero di veri dotti èquello nel quale il numero di coloro che si avviano per le lettere è maggiore; giacché il numero degli uomini che son fatti per sapere bene e profondamente è sempre piccolo, e diviene anche più piccolo quando l’opinione pubblica, soggiogata dalla moltiplicità de' semidotti, non concede che ad essi i suoi suffragi, e guarda con indifferenza il grand'uomo, che ha il delitto d’essere troppo agli altri superiore.»

L’A. insiste pertanto nella necessità di rendere più dispendiosa la carriera delle lettere per renderla meno facile e diminuire co’ semidotti anco gli errori. E cita l’esempio dell'Inghilterra, che è il paese di tutta Europa ove avvi più veri dotti, meno semidotti, più verità e meno errori sparsi nella moltitudine; né parimenti v’ha paese ove l’acquisto delle cognizioni costi più: per divenir avvocato ci vuole un tesoro. . . ma altresì qual altro foro somiglia al foro inglese e al foro scozzese? — E pure interesse della società, che le verità utili si espandano nel suo seno più rapidamente, ed è un effetto dei legami e delle clientele sociali, che il ricco dia più facilmente la legge al povero, che non il povero al ricco. Citiamo ancora testualmente Filangieri. uFinalmente il ricco o che si dia o che non si dia alle scienze o alle belle arti, appartiene sempre alla classe sterile della società. Non è così del povero. Il figlio del colono, che abbandona la zappa per correre nelle università e nelle accademie, priva la classe produttiva d’un individuo per aggiugnerlo alla classe sterile, la quale è utile che sia la meno numerosa che sia possibile. Lo Stato perde un colono per acquistare per lo più un infelice architetto, un pessimo pittore, o un pernicioso semidotto; e non farebbe né quella perdita né quest’acquisto quando bisognasse essere in un certo stato di ricchezza per darsi alle belle arti o alle scienze.»

L’obbiezione dei grandi ingegni pericolanti d’andar smarriti in tal sistema d’educazione l’abbiamo già veduta rimossa dall’A. Siccome anche i poveri ricevono certi gradi d’istruzione, durante questa sarebbe invigilato con cura grande da' magistrati affine di scoprirli; e trovatili, questi grandi ingegni, che sempre son rari, sarebbero fatti passare alla seconda classe, in guisa che ad essi sarebbe provveduto meglio che in Verun altro sistema. Filangieri confida il sacro deposito del sapere a' ricchi, solamente cceteris paribus,ma mente sì giusta e liberale come la sua non poteva mai escluderne quelli che vi sono chiamati dalla natura, e sfruttarla d’opera onde si mostrò sempre sì avara, come della più nobile e maravigliosa fra le sue più feconde creazioni.

Facciasi al Filangieri altra obbiezione che non si fece egli stesso. Si potrebbe dubitare, che uno degli stimoli più costanti a riuscir eccellenti in un’arte, e a porvi tutto lo studio a ciò necessario, fosse la privazione d’ogni mezzo per divertirsi, e il bisogno. Un giovane povero, il quale senta, che senza la illustrazione scientifica rimane oscuro fra il volgo, avrà certo una specie di stimolo, che manca al ricco. Lagrange questo appunto diceva di sé:

«Se non fossi stato povero, non avrei forse recato tanta pertinacia nel superare le più grandi fatiche. Questa obbiezione non manca certamente di peso; e per contropesarla facciamo una sola considerazione, ed è: che ove le lettere divenissero un sacerdozio sociale meno accessibile a tutti, riassumerebbero certo e importanza e dignità e gloria, scemate ad esse dappoiché si fecero da troppi strumento di guadagno, e invilirono per gran moltitudine di cultori. A riassumere dignità e distinzione sociale converrebbe che fossero coltivate da molti e da pochissimi professate. Ma ahi! che il divino sacerdozio dell'arte è miseramente scaduto a mestiere.

Ciò che non si aveva diritto di aspettare per verun modo dalla Scienza della legislazione,che già tante parti abbraccia dello scibile umano, vi s’incontra conmaraviglia: imamente, cioè, nata fatta per gli studi astratti, che, nulla pur rimettendo dell'usata chiarezza, sommette i noti metodi a severo sindacato e qua là porge ottimi consigli, diretti principalmente ad evitare che le menti giovanili non concepiscano errori. Noi li toccheremo sommariamente. — La grammatica, ch'egli aveva risparmiata ai fanciulli per non affaticarne le menti senza istruirle, la serbò filosofica e congiunta allo studio della genesi delle idee ad età più matura. — Parlando de' principii delle scienze, ammonisce provvidamente di non volerli scrutare.

«Vi sono in ogni scienza alcuni principii che non si possono né spiegare né contrastare, ma che si concepiscono per una specie d’istinto, al quale bisogna abbandonarsi senza resistenza. Il filosofo non vede né può vedere più chiaro del volgo in questi primi principii, che sono i postulati, gli assunti primi, gl’indimostrabili, da' quali tutte le scienze debbono partire, perché sono fattisemplici e riconosciuti: al disopra de' quali i mezzi per ascendere mancano ugualmente all’ignorante che al dotto, e come tali non possono essere né spiegati né contrastati. La superiorità che ha il filosofo sul resto degli uomini è allorché combina questi principii, e allorché ne deduce conseguenze che divengono esse medesime principii di altre numerose serie di conseguenze; nel mentre che l’ignorante, che possiede come lui le chiavi di questi tesori, ignora fin anche di possederle. Ma questa superiorità che ha il filosofo nell'uso che fa di questi principii, non l’ha, come si è detto, né può averla nell'intelligenza di essi. Egli dee contentarsi di concepirli come li concepisce il resto degli uomini, e considerarele sottili e minute discussioni che li riguardano come perniciose, perché altro non fanno che oscurare il principio, renderlo dubbio di evidente che era, e render per conseguenza tutto incerto per mancanza d un punto fisso dal quale partire.» Ma pur condannando quel volere scrutare la verità intuitiva de' principii per sé evidenti, da' quali ciascuna scienza prende le mosse, giudicò essere per riuscir utile se una mente speculatrice, abbracciando i principii delle scienze tutte, e fra sé collegandoli, si studiasse di ascendere a trovare qualche principio unico da cui tutti gli altri emanassero. Tanto poi gli ricorser per l’animo queste considerazioni, che divisò di scriverne la Scienza delle scienze,lasciandone anche un piccol frammento.

Tutte le bizzarre pretensioni di Wronski, che voleva che i matematici ascendessero a provare i principii dai quali partivano, derivano da questo eccesso di metafisica, o per meglio dire delle sottigliezze scolastiche, che l’A. condanna nelle parole da noi citate. Premuniva a ragione gl’institutori, che badassero di non cadere nelle chimere de' realisti e delle qualità occulte, scambiando le speciose distinzioni verbali colla scienza de' fatti. Per questa medesima ragione ristringe l’uso delle definizioni. Le idee astratte ma semplici non si ponno né si devono definire. Per le idee astratte e semplici ma dirette, come a dire d'un colore, di freddo, di caldo, si vuol seguitare il consiglio di Locke, praticato poi da Pestalozzi: enunziare la parola esprimente l’idea, ed eccitare a un tempo la sensazione che le corrisponde. Nelle idee astratte e semplici ma indirette conviene, in vece della definizione, usare l’analisi della genesi dicodesta specie d’idee, vuol dire delle successive operazioni dell’intendimento, per le quali siamo pervenuti à formarle. Nelle idee astratte e semplici ma indirette e figurate è da combinarsi il secondo mezzo col primo: analizzare la generazione dell'idea o la successione progressiva delle operazioni intellettuali che vennero a formare tale idea, e presentare a' sensi la figura che gli uomini invaginarono per renderla in alcun modo sensibile. Ad esempio di questa classe d’idee, l’A. cita la linea retta. Concede che si possa far uso della definizione: la linea retta è la più corta che si possa tirare da un punto all'altro;ma pretende, che se noi la comprendiamo, deriva solo da precedente nozione che si ha della linea retta: e afferma, che se tal nozione ci mancasse, la definizione mera non basterebbe a darci l’idea della linea retta e potrebbe anche indurci a credere che da un punto all'altro fossero possibili parecchie linee tutte uguali e più corte. Senza negare all’A., che la prenozione della linea retta non contribuisca a farne comprendere la definizione più prontamente e più chiaramente che se la prenozione ci mancasse, non possiamo unirci con lui ad affermare, che la definizione non basterebbe per sé sola a farci comprendere la linea retta. In queste nozioni semplici crediamo impossibile alla mente il trasportarsi dallo stato, in che si trova, ad un altro, e pregiudicare in uno di quésti stati del conte ella comprenderebbe in un altro. (1)

Le riforme proposte dall’A. sono molte e diverse, giacché l’istruzione pubblica della seconda classe é da lui divisa in otto collegi: 1.° de' magistrati e de' guerrieri; 2.° della marina; 3.°de' negozianti; 4.° de' medici; 5.° de chirurghi; 6.° de' farmaceuti; 7.° delle belle arti; 8.° de' sacerdoti. L’A. spiega qui le cose accennate nel paragrafo antecedente ove parlasi del collegio de' magistrati e de’ guerrieri, perché è il primo collegio di cui ragionasi, e vi espone cose che servono anche per gli altri. Venuto poi a parlare del collegio della marina, propone singolarmente per ogni anno un viaggio marittimo, nel quale gli allievi sarebbero ripartiti per modo, che quelli di una classe fossero nello stesso vascello riuniti, potendosi così facilmente evitare l'interruzione delle altre istruzioni, giacché gl'istruttori potrebbero essere collo stesso ordine su diversi legni ripartiti. In più luoghi dell'opera l’A., proponendo la riduzione degli eserciti di terra poco confacenti alle tendenze pacifiche de' popoli moderni, la seconda invece col promuovere lo sviluppo della marina sì utile al commercio.

Dove scende a parlare de' medici, de' chirurgi e de' farmaceuti, propone riforme che non paiono razionali, volendo egli dividere cose che deono congiungersi, e congiugnerne altre che vogliono separarsi. Così vorrebbe che la semejotica della salute fosse combinata colla fisiologia., e la semejotica delta malattia colla patologia. È quistione da lasciarsi ai cultori dell’arte salutare. Un medico da me consultato persiste a credere, che la conoscenza de' segni di tutte le malattie debba precedere l’insegnamento della patologia. Così pure alla terapeutica dovrebbe o associarsi o precedere la materia medica,di cui l’A. non fa motto in veruno de' tre capitoli intorno a' medici, chirurghi e farmaceuti. Non basta che sappia le virtù mediche de' rimedi, ma' è necessario che il medico ne conosca le qualità, la bontà, la preparazione chimico-farmaceutica, ec. Divide l’insegnamento de' giovani che si dedicano alla medicina da quello de' chirurghi; e qui pure, giacché era in vena di riforme, poteva in molte parti proporne la riunione. Per conferire destrezza alla mano de' giovani chirurghi, consiglia dal cominciare dalle amputazioni, ma qui l’A. avrebbe dovuto soggiugnere: «dopo che si fossero bene addestrati alle, dissezioni anatomiche.» Mal si appiglia l’A. a voler proscrivere i segni simbolici delle ricette, che s’imparano così dai medici che da' farmaceuti con assai minore difficoltà ch’ei non suppone. Questi segni, d’altra parte, offeriscono risparmio grande di tempo nello scrivere le prescrizioni, risparmio necessario, massime a' medici di vasti spedali, che cotidianamente e in dato spazio di tempo debbono visitare più centinaja di ma lati. Quanto alle sustanze, se prescrivendole si ricorre al greco e al latino, gli è per celare al malato qualche medicamento screditato presso il volgo o dall'abuso fattone in circostanze e casi indebiti, o da delitti commessi propinandolo in più larghe dosi, o da pregiudizii.

L’A. si allarga nel capitolo intorno alle belle arti. Persuaso con Platone e con Francesco Pagano, che né aveva difeso le intuizioni contro alcuni moderni; persuaso, dico, che gli uomini posseggano un senso intimo del bello, che sia più difficile a una cattiva educazione guastarlo, che non ad una buona il fortificarlo e perfezionarlo, perché gli è più arduo l’andar contro allanatura, che non secondarla, l’A. giudicò ottima anche per lo sviluppo di questo senso del bello l’applicazione di quel suo principio universale di educazione, la cultura successiva, e coll’ordine col quale le scriviamo, delle quattro facoltà: appercezione, memoria, imaginazione, ragione. Nel primo corso (appercezione) si esercita l’arte di vedere e di udire accuratamente nelle belle arti. Nei secondo (memoria) si viene arricchendo di fatti storici, degli usi, costumi, religioni de' popoli diversi, e di tutte quelle nozioni che si fanno poi elemento d’imaginazione e la fecondano coll'ammanirle i materiali. Nel terzo (imaginazione) questa facoltà, la più necessaria e preziosa per Farti, sarà di continuo e potentemente esercitata colla lettura de' migliori poeti, epici singolarmente, affinché i lavori de' giovani ne contraggano grandezza, e colla composizione assidua. L’A. vuole questo terzo stadio così esclusivamente dedicato alla lettura de' poeti e al comporre, che il maestro indicherà bensì gli errori di giudizio, le deviazioni, dal gusto sano o dal decente nelle composizioni, ma s’asterrà dal farle rifare, temendo non l’imaginazione de' giovani sene raffreddi, e al correggerla, allorché nasce, preferendo l’invigorirla coll'esempio e il farla rigermogliare in nuove composizioni. Bensì nel quarto stadio (dedicato alla ragione), non solo indicherà i falli, ma farà che gli allievi rifacciano le composizioni, finché raggiungano la correzione e, per quanto possono, la perfezione. Sommettendo poi ad analisi filosofica il gusto, l’A. a' menomi elementi riduce quanto conferisce diletto nelle arti. Quanto all’uso da farsi delle arti, l’A. vorrebbe che le opere dell’artista coronassero le virtù dell’eroe, e le virtù dell’eroe alimentassero ed onorassero i talenti dell’artista, eccitando le arti colle virtù e le virtù colle arti. Così a queste sarebbe restituita quella dignità e quella gloria ch'ebbero in Grecia.

Per ciò che spetta al collegio de' sacerdoti, l’A. vuole che sieno allevati ed istruiti essi pure sotto la direzione del governo e delle leggi. Cittadino come gli altri, giacché partecipa agli obblighi e a' diritti stessi; magistrato come gli altri, poiché veste un carattere pubblico éd esercita pubbliche funzioni; Utile o dannoso allo Stato, come tutti quelli che servono lo Stato, secondo che adempie, trascura o viola i debiti del suo ministero e quelli della sua condizione civile originaria, il sacerdote dee, come tutti gli altri, prepararsi dall’infanzia a concorrere al grande scopo della legge coll'educazione di essa prescrive. Quanto al genere di tale educazione, l’A. si riferisce al quinto libro, ove intendeva trattare dell religione.

Benché, per non diffonderci eccessivamente, abbiamo taciuto in questo estratto e della educazione e dell'istruzione da darsi alle donne, la cui somma importanza certo non isfuggì all’A. ; benché non ci siamo fermati all’educazione e all’istruzione da darsi al popolo, vuol dire al numero incomparabilmente maggiore de' cittadini, a tutti quelli che riempirebbero questi grandiosi stabilimenti che Filangieri voleva fondare, a tutti quelli che oggidì non ricevono quasi veruna istruzione, il lettore nondimeno, considerando come nel nuovo sistema tutti sarebbero educati ed istrutti, potrà agevolmente inferirne le conseguenze; conseguenze che non si possono di leggieri misurare né pesare, ponendo mente a questa gran novità, che tutta la nazione sarebbe educata ed istrutta, ciascuna classe secondo le funzioni che deve adempiere nella società, ma tutte cogli stessi principii e con uno scopo uniforme. Filangieri non teme,che in una nazione così istituita potesse mai ad un’epoca fiorente succedere la barbarie. Le condizioni, sotto le quali tali vicende furono vedute altre volte, sono ben diverse dalle condizioni che il sistema del Filangieri avrebbe creato.

Dopo avere con tanta tura elevato e coordinato tutto cotesto magnifico edilizio dell istruzione pubblica, affinché non sia chi si avvisi di venirglielo a crollare d’un soffio, l’A. stimò debito di dire una parolina agli apologisti dell'ignoranza. Cotesti si fanno forti d’esempi storici, e citano gli Spartani maestri di reggimento civile proporzionato a' tempi ed a luoghi e pure ignoranti; ma se ignorarono le forme scientifiche e letterarie, non ignorarono né la natura dell’uomo, né le leggi di quella società che al paese e a' tempi addicevansi, e gli apoftegmi de' loro savi mostrano una profondissima sagacia dell’uman cuore. Avevano dunque in morale, in politica, in medicina e in molte cose il succo delle sapienze stretto in poche parole. Fatto sta che e apologisti dell’ignoranza e apologisti dell’istruzione abusarono stranamente della storia. La sperienza, che i più frantendono, vuol anzi intendersi assai sanamente. Vuoisi applicare metodo razionale allo studio della storia chi voglia averne la chiave ecavarne azioni utili. E Filangieri proponevasi trattarne l’importantissimo tema in opera speciale, della quale reca il seguente gherone. «La storia ne mostra l’ignoranza combinata ora colla virtù, colla prosperità, colla libertà; ora covizi, con le sciagure e colla servitù. I partigiani dell’ignoranza, come gli avversari loro, trascelsero que’ soli fatti che parevano comprovare l’assunto loro e dissimularono gliopposti. Ma chi guarda tutti insieme que’ fatti, scorgerà di leggieri, che altro non provano se non che l’ignoranza, compatibile con la virtù e la felicità in certi periodi dello stato civile, non lo è più in altri; che i suoi effetti nell’infanzia di un popolo non sono gli stessi che nella sua maturità; che in questo periodo la virtù e la prosperità pubblica non ponno essere né conservate né ricuperate senza l’istruzione pubblica; che finalmente, l’azione di questa, limitata alla sua sola influenza, non debb’essere considerata come atta a creare di per sé sola quanto dipende dal concorso di molte altre cause, e che per conseguenza ogni volta che trovasi isolata e separata da queste cause, non può produrre l'effetto che necessariamente produrrebbe combinata colle altre.»

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Altri pretendono che ad uno o due secoli di lumi debbano invariabilmente succedere venti secoli d’ignoranza e barbarie, e questi pure si fondano nella storia male intesa. Ma se l’uguaglianza degli effetti vogliasi dedurre dalla uguaglianza delle cagioni, che ci dirà ella la ragione applicata all'esame delle diverse epoche che già di lumi splendettero? Certo ne troveremo parecchie prodotte e tutte accompagnate da cagioni discivilizzatrici. In fatti, se guardiamo agli Egizi e a' Caldei, ecco la scienza occulta e i misteri che impedivano la comunicazione e diffusione de' lumi. Che relazione può mai essere tra un’epoca di tal natura e quella della libertà della stampa? Se ci volgiamo alla Grecia, qui veramente la pubblica istruzione discendeva dalle stesse cagioni della prosperità pubblica. Ma l’istruzione non essendo regolata né diretta immediatamente dalla legge, tal differenza per sé sola, indipendentemente da quante risultano dall’insieme del sistema legislativo proposto dall’A., può mostrarci gli effetti diversi che dovevano risultare dall'istruzione in Grecia e dall'istruzione diffusa col vasto sistema del nostro A. Dal silenzio della legge l’istruzione abbandonata a sé doveva appunto, coll’andar del tempo, moltiplicare le scuole, che poi si trasformarono in sette di filosofìa. Dalle sette nacque lo spirito di partito, che n’è l’anima, e lo spirito di sofisma tanto contrario alla scienza, quanto lo spirito di partito è contrario alla pace. Il tempio della filosofia converso in campo di battaglia, la dottrina in opinioni che appassionano più del vero, e i maestri del vero

In certi sofi ch’han turbati i mari

Con venti avversi ed intelletti vaghi,

Non per saper ma per contender chiari.

Ch’urtan come leoni, e come draghi

Con le code s’avvinghiano; che è questo

Ch’ognun del suo saper par che s’appaghi?

Se finalmente noi ci rivolgiamo alle due Rome, scorgeremo che nell’antica la timida e vana tirannide in culla fu quella che per affogare la fresca memoria della perduta libertà, abbagliare gli occhi intorno all'ozio della servitù, imporre la larva della gloria alla passione della gloria, prima di spegnerla affatto per conciliarsi benevolenza o infrenare l’odio di chi tanto può nell’opinione, proteggendo snaturava le lettere. Nella moderna, a' tempi del risorgimento, l’opulenza de' papi e l’interesse che avevano, per conservarla, di reggere sopra l’opinione, l’autocrazia temporale che nell’opinione fondavasi, furono quelli che gl’indussero a promuovere le belle arti e la letteratura cortigiana. E benché de' Medici si possa dire che le lettere promovessero con più elevazione che non in Roma, e che in Toscana fiorirono insieme col commercio e colla prosperità; nondimeno anche in Firenze veggiamo che ogni studio, ogni scoperta, fosse pur utile e luminosa, se da' fini e confini della protezione usciva, erano non solo non protetti, ma perseguitati ó lasciati perseguitare, e basti citar Galileo.

Da tutti questi fatti storici l’A. Conchiude, che l’instabilità de' lumi in tutte le passate epoche sia da ascriversi alle' cagioni ristrette, parziali, esclusive che li produssero; là dove i lumi, che si diffonderebbero sopra tutta la società coll’educazione, di cui l’A. espose un disegno così vasto e compiuto, fondati nell’intera legislazione, accompagnati da tutte quante le cause della civiltà e della prosperità, dovrebbero necessariamente durare in perpetuo, e Filangieri ebbe ragione di sfidare l’ignoranza e la barbarie a poter mai prevalere contro di essi; giacché colle sue pubbliche istituzioni egli li semina sopra tutta la nazione colla debita proporzione de' bisogni di ciascuna classe, e pone anche ogni altra parte della legislazione in armonia con questa. Si può anche affermare, che interruzione di lumi non fu mai intera; che vi fu sempre qualche continuità nelle idee e qualche vincolo nelle opinioni; che il principio conservatore della sapienza antica si è mantenuto, non direm già solo presso alcuni pochi individui, ma anche nelle tradizioni popolari. Chi lo Cercò con diligenza lo trovò. E nelle più fitte tenebre del medio evo avvi anelli,che la fine del XV secolo congiungono col secolo d’Aristotele, di Eratostene e di Strabone. Negli studi, nelle lettere del Vespucci, del Colombo, e nell'opera di Humboldt Examen critique de l’histoire de la géographie(Paris, 1836) si hanno prove evidenti di quanto qui si afferma.

Il libro quinto tratta della religione. Ne scrisse sola la prima parte, della seconda non altro lasciando che i titoli de' capitoli. Per l’universalità del tema trattò di tutte le religioni, giacché, avendo tutte per base la morale, da tutte si può cavare vantaggio, o scemarne almeno i danni allorché sono infette di errori. Considera la religione qual vicaria della legislazione, che penetra dove umane leggi non possono, e non pure regge le opere, ma sommette la volontà ecorregge i desidero. Abbiamo già veduto come l'A. sottoponga anche i sacerdoti alla educazione pubblica diretta dalla legge civile, poiché formano poi una magistratura e delle più importanti. Il numero, le ricchezze, le dottrine de' sacerdoti sono tutte cose, che lo Stato non può abbandonare né all’arbitrio d’alcuno, né al caso. Alla parte prima, che tratta del politeismo, dopo alcune considerazioni generali sopra i beni che il legislatore dee cercare e i mali che debbe evitare nella religione, succedono quelle che l’A. intitola Note giustificative de' fatti,nelle quali svolge il progresso e la trasformazione del politeismo. Il Commentatore del Filangieri, B. Constant, tacciò l’erudizione di queste note d’indigesta e senza critica, e notò come inversione dell’ordine naturale delle idee religiose presso i popoli ciò che Filangieri affermò colla scorta d’Esiodo. che l’adorazione di una forza ignota preceda ogni altra. Constant in vece opina, che dall’osservare le forze diverse della natura lottanti fra sé emergesse l’idea prima di più dei, e che il genere umano passasse dal culto delle parti a quello dell'unità.

Prima di soggiugnere alcun’altra osservazione intorno a questo Commentario,sarà ben dire, che Filangieri doveva far seguire ai cinque primi due altri libri. Nel VI doveva trattare della proprietà,e pare che proponesse di rendere assai, più semplici le leggi e la giurisprudenza, che, per troppo tutelarla, la compromettono assai volte. Le mire dunque dell’A. in questa parte importante della legislazione e dell’ordine sociale erano tutte di riduzione. Si tratta solo di semplicità e chiarezza ove si vogliano distinguere i sacri diritti della proprietà dalle secrete rapine dell’usurpazione, le quali è incredibile quanto sieno state favorite dalla meditata oscurità e confusione del gergo cabalistico de' causidici. L’A. intendeva ridurre le leggi tutrici della proprietà a tanta semplicità, che non eccedessero le forze mentali di chi è destinato di applicarle, che non avesse più bisogno d’interpreti venali o interessati a falsarle. Insomma, la riforma in questa parte consisteva più nel distruggere la complicazione e la contraddizione, nel sostituirvi la semplicità, che non nell'edificare.

Nel libro VII è invocata una riforma, il bisogno della quale si è fatto vie più grande e sentito nel mezzo secolo trascorso dalla pubblicazione di quest’opera. A più ordini sociali sarà cercato invano il rimedio prima che si provegga a stabilire l’autorità paterna. Questa è pure, come della religione s’è detto, e si potrebbe dire anche della proprietà, una grande ausiliaria della legislazione. Ecco come l’A. ne parli nello specchio dell’opera.

«Siccome il benessere di qualunque corpo dipende dal benessere delle parti che lo compongono, così il buon ordine dello Stato dipende dal buon ordine delle famiglie. Ora, siccome una società non potrebbe reggere senza un capo che la governi, della maniera stessa una famiglia, che non èaltro che una società più piccola, ha bisogno d’un capo che la diriga. Questo capo è il capo della famiglia. Considerato sotto questo aspetto, bisogna dunque ch’egli abbia de' diritti sugl’individui che la compongono. Oggi, che la religione, la politica e l’umanità si sono unite per proscrivere la schiavitù domestica, i membri della famiglia sono la moglie ed i figli. Noi esamineremo dunque quali sono i dritti che la legge dovrebbe dare al padre della famiglia sulla prima, e quali sono quelli che dovrebbe dargli su i secondi. Il solito trasporto degli uomini per gli estremi ha cagionato una opposizione infinita tra le antiche legislazioni e la moderna su quest'articolo. Gli antichi legislatori diedero sicuramente troppo al padre di famiglia: ma chi può dubitare, che i moderni gli han tolto anche troppo? Il vizio si trova ugualmente nella profusione de' primi, che nell’avarizia degli ultimi. La dimostrazione di questa interessantissima verità sarà, per così dire, l’esordio di questo settimo libro, nel quale dando una scorsa rapida sul sistema delle antiche e moderne legislazioni, noi troveremo colla maggiore imparzialità gli errori dell'une e delle altre su quest'oggetto.

«Noi faremo vedere, che se la giustizia, l’interesse pubblico e la morale si risentivano de' diritti dati da' primi legislatori delle nazioni a' padri di famiglia; che se il trono, che essi cercarono d’innalzare al padre nel seno della sua famiglia, era troppo indipendente; che se il diritto di disporre della vita e della morte de figli era un attentato pericoloso che si faceva alla pubblica autorità; che se il diritto d’esporli e di venderli era un oltraggio recato alla natura sotto la protezione istessa della legge; che se il potere dato da essi al marito su la moglie era troppo esteso; che se questo era piuttosto una proprietà, che una preeminenza (16); che se era una ingiustizia manifesta il fare che il contratto istesso destinato alla moltiplicazione della specie desse ad uno decontraenti il diritto di disporre della vita dell’altro; che se era scandalosa la legge di Roma, che dava al marito ne’ primi tempi della repubblica il diritto di uccidere la moglie per aver bevuto anche con moderazione d’un liquore, l’abuso istesso del quale non era interdetto al marito; che se il diritto del divorzio dato presso la maggior parte degli antichi esclusivamente al marito faceva, che questo potesse tutto sulla moglie, senza che la moglie potesse almeno avere un rimedio contro l’abuso della sua autorità (17); che se in una parola gli antichi legislatori oltrepassarono i limiti del giusto e dell’onesto nel determinare l’estensione della patria potestà, noi faremo vedere, che non per questo i moderni sono meno condannabili per averla così dispoticamente ristretta, o per meglio dire distrutta. Si potrebbe anzi dire con verità, che la tranquillità pubblica e privata si è risentita più del difetto, che non si risentì dell’eccesso de' paterni dritti. L’amore naturale de' padri verso i figli era un gran preservativo contro le funeste conseguenze d’un’autorità così estesa; ed il timore istesso che essa ispirava doveva rendere molto rare le occasioni d’esercitarla. I delitti doveano essere molto meno frequenti nelle famiglie allorché si rifletteva alla forza, alla vicinanza ed alla indipendenza della mano sempre armata per punirli. L’estensione dunque del potere e la condizione della persona che ne era investita potevano restringerne l’uso ed evitarne l’abuso; ma quale strumento, essendo la patria potestà distrutta, potrebbe riparare al disordine delle famiglie, che, come si è detto, porta anche seco quello dello Stato? Dove trovare un’autorità, che, come quella dei padri, potesse agire in tutti i tempi, e col medesimo vigore; che potesse, come quella, tutto vedere, tutto sapere; che non avesse bisogno né di assistenza per far rispettare i suoi ordini, né di formalità per trasmetterli; che potesse confidare l’esecuzione de' suoi decreti ad un braccio, che fosse così vicino alla bocca che li emana; che non ammettesse né prevenzione nel giudice né lentezza nell’esecutore; che potesse ottenere che i suoi ordini appena dati fossero conosciuti, appena conosciuti, eseguiti; che fissata finalmente che fosse una volta dalla legge ne’ giusti confini, ne’ quali dovrebbe raggirarsi, non ci fosse un’usurpazione da temere dalla parte di colui che ne sarebbe investito?

«Da queste ragioni noi dedurremo la necessità che ci sarebbe di rialzare l’edificio della patria potestà, che gli antichi legislatori avevano troppo ingrandito, e che una mal fondata diffidenza ha quindi quasi interamente distrutto. Ma su quali fondamenti, con quali materiali, con qual ordine dovrebbe esser costrutto? Quali dovrebbero essere i dritti della nuova magistratura de' padri? Quali quelli de' mariti? Fin dove dovrebbero estendersi le loro cure? Quali dovrebbero essere i confini della loro giurisdizione? Quale l’uso della loro autorità? Quali i rimedi per prevenirne l’abuso? Quale l’influenza che questa novità potrebbe avere sull’ordine sociale? Quale quella che potrebbe avere su i costumi? Quali gli ostacoli che si opporrebbero a quest'impresa dal sistema presente delle successioni? Quali quelli che le si opporrebbero da alcune leggi feudali in quelle nazioni ove esiste ancora lo spettro squallidodi questo colosso antico?»

Un uomo agguerrito dalle lotte parlamentari, incanutito a fulminare gli abusi, che tribuno faceva perplessi gl’istinti dispotici del console Buonaparte, che deputato faceva impallidire sulla lor panca i ministri di Carlo X che l’ascoltavano, tolse a commentare la Scienza della legislazione,e in quelle pagine fremono tuttavia le folgori roventi dell’eloquenza tribunizia. Voi conoscete da gran tempo, e avete udito fin qui la voce di Filangieri; or dite se in nulla somigli alla voce di uno schiavo. A Constant suonava debole, e, paragonandola a quella di Montesquieu, non vi sentiva per entro l’amarezza inerente al genio, né la veemenza inseparabile dalle facoltà poderose.

Diverso sarebbe per noi il raffronto da istituirsi fra Montesquieu é Filangieri. Montesquieu raccolse in vero numero sterminato di leggi e di fatti, che gli servono di materia, ma non tutti con ugual critica, e non erano degni di entrare in quel vasto monumento di sapere fatti e leggi di contrade remote, appena scoperte e da pochissimi visitate, che mentivano a doppio titolo. Ma non avvi alcun riscontro nell’assunto de' due scrittori. Montesquieu, che pubblicò il suo libro allorché la Francia, desta da lungo sonno, cominciava a gustare questi studi, il che contribuì a fame la fortuna, si propose di essere anzi lo storico che il riformatore delle leggi, delle quali indaga con sagacia, spesso maravigliosa, i motivi e l'opportunità ne’ tempi, ne’ luoghi e nelle circostanze della loro promulgazione. Filangieri si palesa apertamente per riformatore, ed eleva di pianta un nuovo edificio di leggi magnifico, principalmente per la perfetta corrispondenza delle parti. Come sono opposti nei pregi, lo sono pure ne’ difetti. Uno è spartano e l’altro asiatico: il Francese reca la concisione fino alla sfinge, e l’Italiano la diffusione fino alla noja. Montesquieu erra perché ha una vaga cosa da dire e a niun patto la tacerebbe. Filangieri pensa quella cosa che ha da dire, né gli par mai spiegata abbastanza. Se i fatti che stanno davanti agli occhi di Montesquieu non quadrano all'intento, cerca tutta la storia, e se nulla trova di autentico che possa adagiarsi nel letto di Procuste, dà mano a' viaggiatori e a' missionari e ne cava qualche grossa, bene condizionata e impeverata favola circa Siarn, Bantam, Giappone, e te la pone lì tutta calda in qualità di autorità storica. La oscurità e la affettazione sono due gravi difetti dello stile. La oscurità delle parole germoglia dalla confusione delle idee; e quella smania di abbacinare il lettore, che produce l’affettazione ne’ modi, produrrà probabilmente il sofisma ne’ raziocini. Ogni gioco di parole, dal misterioso laconismo dell’oracolo fino alla volubilità scherzosa del ganimede, è posta in opera a mascherare la fallacia di certe tesi o la trivialità di cert'altre: le assurdità lampeggiano in epigrammi, e il tritume si ottenebra in enimmi: l’occhio più fermo mal regge al bagliore de' primi, e mal penetra le tenebre de' secondi.

Constant sdegnavasi dell'atto supplice in che Filangieri implora le riforme, e dell'appello per togliere gli abusi a coloro stessi che ne profittano. Ciò che Filangieri chiede, Constant lo comanda; dove Filangieri vede una grazia, Constant ravvisa un diritto; e da per tutto ove il primo implora la protezione, il secondo invoca la libertà. In più luoghi nondimeno del Commentario il suo autore confessa la diversità de' luoghi, de' tempi, delle posizioni, e in tutti la bontà, le ottime intenzioni e la filantropia dell'egregio cittadino.

Il libro di B. Constant non è tanto un Commentario, come s’intitola, della Scienza della legislazione,quanto un libro d’opposizione francese, in cui si mira a provare: che le funzioni del governo deono essere principalmente negative; che, contento al reprimere il male, dee lasciare che il bene si operi da sé. Filangieri, in altro paese e in altri tempi, invocava le leggi e l’opera del governo anche per fare il bene. Constant lo garrisce di riporre tanta fiducia nel governo, ch’egli per lo contrario presuppone sempre ostile agl’interessi de' più, ed inclinato ad accrescere il proprio potere menomando le libertà pubbliche. Constant, gran parte di libertà nel non essere inceppati da troppe leggi ripone, e Filangieri tutto vuol far colle leggi. Queste disposizioni sì divergenti potevano pur essere ugualmente ragionevoli alle due epoche. Galiani, Filangieri, Palmieri e alcuni altri che facevano parte del consiglio del re, che aveva il potere legislativo, potevano certamente dettare leggi migliori di quelle che la nazione avrebbe dettate. Questo caso di tanti lumi nel governo non è punto costante; e gli stessi governi a' quali sono portati gli uomini dall’opinion pubblica, questa medesima opinione è lungi dal considerarli come rappresentanti né dei lumi né della virtù della nazione. Se non che lo stesso Constant, sempre in suspicione contro il governo, dopo essersi assai volte sollevato contro la dolente rassegnazione e le melate supplicazioni usate in iscambio dell’imperioso accento del tribuno, soggiugne:

«Prima della terribile rivoluzione, che scosse dalle fondamenta e tuttavia minaccia il mondo, a sì fatta rassegnazione non mancava per avventura il merito della prudenza. Se gli uomini riuscivano ad impetrare riparazione de' torti mercé ragionamenti misti a preghiere, in vece di conquistarla con soqquadri spaventevoli, la bisogna poteva forse procedere assai meglio. Ma ornai, fatte già le prime prove e consumati i sacrifici, allorché la parola de popoli liberi si alza, dee suonare tutt’altra da quella di sudditi che implorino pietà da' loro padroni».

Constant disapprova in Filangieri quel tanto rimuginare esempi greci e romani. Tale ammirazione è doppiamente ridevole, secondo lui. Non solo l’imitazione di quegli esempi sarebbe importuna pe’ moderni; ma la nostra ammirazione per essi è mogia, gratuita e mal fondata. Badiamo frattanto, che per vaghezza di tutto disapprovare non ci lasciamo andare a disapprovare cose fra sé oppostissime, e a biasimi uno dell’altro esclusivi. Di che infatti ci dogliamo noi oggidì? Di che dolevansi coloro stessi, che con tanta insistenza rinnovavano questa censura? Che gl’interessi materiali, che la moderna civiltà tutta rivolta ad accrescere e a raffinare gli agi e i godimenti della vita, opprimono la parte spirituale dell'uomo e ogni sentimento generoso. Siavi dunque un tipo di bello ideale morale. Affinché assuma più evidenza, incorporiamolo pure in qualche popolo, e tanto meglio per noi se ascriviamo a' Greci e a' Romani più gloria che non meritassero. Vuol dire che ne abbiamo desiderio ardente, bisogno di vederne l’imagine e di sentirne l’ammirazione. Se una tal gloria, attribuita a' Greci e a' Romani, è falsa o esagerata, se, in una parola, non è loro, sarà dunque nostra di nodrirne caldamente il culto, ma è forza che il fuoco sacro arda in qualche luogo. — Che poi Filangieri usasse e vantasse le romane leggi, di ciò va certo franco d’ogni accusa, giacché non ne abusò mai. Il meglio della giurisprudenza europea, e lo stesso giudizio del fatto per giurati, come il nostro A. provò a meraviglia, altro non sono che romane emanazioni. Se una reliquia di quelle leggi anche a' dì nostri si scopre, ecco tutta commuoversene la scienza e tutti i suoi cultori, e moltiplicarsene all’infinito le edizioni.

Fra le altre censure che Constant mosse all'A., gli rimprovera d’attribuire. al timore l’origine prima delle idee religiose, e soggiugne, che «dopoavere così avvilita fin dal principio la religione, si associò poi al partito de' devoti, o meglio degli uomini di Stato, che la divozione volevano imporre alle miscredenti nazioni, affine di riprodurre sistemi erronei circa all’applicazione delle credenze alla legislazione positiva.» Ma qui si vuol rispondere al commentatore, che presso i popoli rozzi gli è il sentimento della propria debolezza e quindi il timore di una forza occulta e formidabile che sveglia le prime idee religiose. Ma queste idee e il sentimento religioso si perfezionano collo sviluppo progressivo dello spirito umano, e come prima il concetto della forza cessa dal dominare esclusivo e formidabile nelle menti, il concetto della divinità viene esso pure appurandosi e si riveste d’idee più nobili e generose. Così successivamente il concetto della divinità grandeggia nelle menti di mano in mano che meglio si vien conoscendo l’universo, e parimenti si purifica di secolo in secolo il concetto della virtù col venirsi meglio esplorando l’uman cuore. Lo sviluppo progressivo delle idee religiose, che procede parallelo allo sviluppo dello spirito umano, accennato in diverse parti della Scienza della legislazione,più esplicitamente esposto nella prima parte del libro sopra la religione, si sarebbe dimostrato nella seconda parte di questo libro, che l’A. non potè scrivere, ed è pure il tema medesimo che B. Constant tolse a svolgere nell’opera Della Religione. B. Constant confuta altresì e certe nozioni del Filangieri intorno al potere sacerdotale comparativamente all'altre autorità dello Stato nell'epoche primitive, e, per tradurre le sue parole, «il romanzo che Filangieri si compiacque tessere della cooperazione tra la legislazione e il sacerdozio nell'usare i misteri a struggere l’antica e a sostituirvi una nuova religione.»

Nondimeno Constant si maraviglia, che il nostro A. considerasse i misteri con più giustezza, che non era da aspettarsi da un ammiratore della sapienza degli antichi. Del resto Filangieri presentì, che questo libro sarebbe riuscito increscevole a più classi di persone, e le enumera, e si conforta pensando, che debito e bisogno primo dell'uomo onesto è compiere i propri doveri, segua che può.

I difetti veri della Scienza della legislazione,notati essi pure e da chi la commentò e da altri, derivano dalla declamazione sentimentale a que’ dì in grand’auge e da poca arte di scrivere, che staremmo per dire fosse in auge essa pure a' tempi del Filangieri... almen certo era comune anche a' scrittori per altri capi eccellenti. L’A., non datosi agio di sfrondare é d’essere breve, usò stile in più luoghi asiatico. Quanto alle declamazioni e professioni di virtù, la lunga apostrofe a' legislatori e a' principi d’Europa sopra gli abusi delle carceri, il pomposo ritratto del filosofo i cui benefici influssi si allargano a tutte le genti, si perpetuano a tutti i tempi, e tanti altri luoghi di simil natura, venivano con amore citati vivente Filangieri, o poco dopo la sua morte, come scorgesi dal breve elogio funebre scrittone dal Cirillo e da altri lodatori.

La sobrietà, la sposizione schietta de' fatti, i raziocini, la virtù insomma e la filosofia infuse e serpenti con pudore, e sopra tutto non professate, sono doti che più ne rapiscono, e più a lungo nella memoria degli uomini conserveranno gli scritti immortali. Quanto alla diffusione, se schiera argomenti, a' fortissimi fa succedere immancabilmente i men forti; se svolge conseguenze, alle più gravi e immediate aggiugne le più minute e remote; se mira a svegliare affetti, profonde le descrizioni patetiche e teatrali, ove poche righe sentite, scuotendo gli animi, avrebbero meglio raggiunto l’intento. Allunga le lungaggini col farne scusa. Ammette il lettore ne’ secreti intimi della composizione del libro, giustificandone la disposizione, e perché questo qui ponga e quello colà rimandi. Anche in tai difetti però trapela il candore e la buona fede dello scrittore, a cui vogliamo cedere la parola, affinché lui stesso odano i lettori.

«Sforziamoci, dic’egli, di vincere tutti gli ostacoli che si affacciano, né dissimuliamo quelli che non avremo superati. Facciamo in guisa che il lettore conosca tutta la nostra forza e tutta la nostra debolezza. Svegliamogli i difetti più riposti del nostro piano, se non ci riuscì di rimuoverli. Ma non si ricorra mai a destreggiare o alla mala fede, colla quale alcuni scrittori superficiali procacciano di far illusione a' lettori, anziché d’istruirli; Non isforziamoci di convincere altrui, se prima non siamo ben convinti noi stessi.»

Gran numero d’edizioni ebbe la Scienza della legislazionein Napoli, Firenze, Milano, Genova, Catania e Livorno colla data di Filadelfia. Furono pur numerose le traduzioni. In francese ci è nota quella di Gallois (Parigi, 1789-1791, 7 vol. In 8.°). L’ultima edizione (Parigi, Dufart, 5 vol. in 8°, oltre uno che contiene il Commentariodi B. Constant) è probabilmente una ristampa della traduzione di Gallois, ove sono ripristinati i passi soppressi nella prima, rimanendone tuttavia alcuni introdotti, ed è notevole come in Parigi nel 1822 non si ardiva tradurre quanto erasi stampato in Napoli nel 1785. Per esempio, ove l’A. considera come in Roma i costumi per assai tempo correggessero i vizi delle leggi, della costituzione e del culto, conchiude così:

«In poche parole la santa voce de' costumi, più forte di quella degli dèi, conservava la virtù sulla terra, nel mentre che pareva che relegasse ne’ cieli il delitto coi delinquenti.»

Queste parole non furono tradotte affatto, e le seguenti furono tradotte male. Dove Filangieri osserva che la Spagna avrebbe bisogno d’inquisizione piuttosto contro l'eccesso di credulitàe contro gl'impostori che ne profittano, che non contro la miscredenza, a cui lo Spagnuolo non è inchinevole, il Francese traduce: contre le svstème de cruautà qui le tourmente. In fine Filangieri, ove parla de' delitti contro la famiglia, avverte che dovrebbe entrare in tal classe il delitto detto di parto supposto,con che intende, com’è chiaro, parto suppositizio, cioè introdotto clandestinamente nella famiglia. La traduzione francese ha: «la supposition de partest un autre délit», il che non ha senso (ediz. di Dufart, 1822, T. III, p. 287). Troppi altri errori somiglianti s’incontrano in questa traduzione.

Di due traduzioni tedesche, una di C. R. Zink di Zurigo fu pubblicata ad Altdorf (1784) con prefazione del professore I. C. Siebenkees. Zink, da bravo Tedesco, emendò parecchi errori sfuggiti al Filangieri nelle citazioni, e alcuni passi del testo dilucidò con note. L’altra, di Gustermann, fu stampata in Vienna nel 1784.

La traduzione spagnuola dell’avvocato don Giacomo Rubio (Madrid, 1787) è preceduta da prefazioni, dal piano premesso dall'A. al primo volume, e dal traduttore scompartito innanzi a ciaschedun libro a modo di sommario. Le note poi, onde la traduzione è accompagnata, tendono a provare che la legislazione della Spagna non è ingombra di que’ tanti mali che formano il soggetto delle forti declamazioni del Filangieri. Riccardo Clayton fece una buona traduzione in inglese de' primi due libri, e non più (Londra, 1806, 2 vol. in 8.°).

Gli elogi pure furono in gran numero. Domenico Cirillo, Giustiniani, Donato Tommasi, Lomonaco, Fabroni, Bianchetti, Salii, offerirono questo omaggio a Filangieri. I critici di lui furono Giuseppe Grippa, Pietro Schedoni, Melchiorre Gioja, Romagnosi. Di questi ultimi due, il primo censurò la parte economica, ed il secondo la derivazione del diritto di punire.

Fu già notato, compendiando quanto l’A. scrisse intorno all’istruzione pubblica, come gli si affacciassero allora i disegni di due nuove opere: Storia civile universale e perenne,e la Nuova scienza delle scienze. Si è recato un gherone della prima nell’estratto del libro quarto, dal quale estratto si può anche far conghiettura delle vedute dell'A. in tal materia.

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Sua Indole

Ciò che meglio qualifica l’indole e la natura del Filangieri mi sembra eminentemente razionale, una coerenza perfetta tra i principii e la condotta; tra la morale posta negli scritti e la morale posta in pratica, e diè un gran peso agl’insegnamenti avvalorandoli coll’esempio. Così insegnando a levarsi alle cinque il vernoe alle quattro la state, seguì invariabilmente questo precetto: giudicando il celibato immorale, vinse gli ostacoli frappostigli e si ammogliò giovane: disapprovando l’accumularsi degli abitanti nelle metropoli, si ritrasse a vivere e a morire in villa: incitando gli uomini a sdebitarsi con amore de' doveri del proprio stato, a praticare la virtù, a mantenere la dignità e a difendere i diritti dell’uomo, segua che può, fu diligentissimo e nella milizia, e in corte, e nel consiglio di Stato, ove abbiam veduto che si recava a cavallo dalla sua villa sotto il sollione di Napoli: e avendo scelta, a servire la patria, l’arte sublime dello scrittore, svelò con libertà inaudita le assurdità crudeli delle leggi che reggevano i concittadini, e propose all'esame e alla meditazione un’ottima legislazione, libro che fu utile ai due mondi appena comparve, né, per tempo, di utili insegnamenti sfruttato oggidì a quanti lo studiano; libro in cui non compresse, ma piuttosto svegliate e al bene ravviate, sono le passioni più nobili ed elevate. Dal narrato fin qui stimo potere senza esagerazione né figura affermare, che Gaetano Filangieri fu martire dell'alto sentimento de' suoi doveri e delle sue assidue fatiche.

Alla sodezza delle virtù pubbliche accoppiò l’amabilità delle private. Bello della persona, la sua fisionomia esprimeva sensibilità tenera, soffusa di una colai tinta di malinconia, e il calore con che esprimeva i suoi pensieri e sentimenti conferiva alla loro forza interna tutti i doni estrinseci della persuasione. I forestieri che lo visitavano ne partivano come sedotti da un incanto. Già s’è veduto come l’anima dei Cesarotti fosse presa da que’ modi e da quella dolce modestia (18). Potrebbesi aggiugnere l’effetto concorde che fece in Bjoemstahl, in Munter, in Meyer (19), e in tant’altri che ne lasciarono care memorie ne’ viaggi loro, se non fosse assai preferibile e più autorevole la testimonianza de' concittadini, di chi abitualmente seco viveva, di quella eletta schiera d’amici onde Filangieri era l’anima, e che, sopravvissutigli, pejoraque passi,dimostrarono al mondo nel 1799 colle eroiche morti quanto fossero degni dell’amico loro. Ma qui tiriamo un tetro velo sopra la sorte che aspettava il Filangieri s’ei campava dieci anni di più. Certo nel frattempo avrebbe prestato, e come uomo di Stato e come scrittore, nuovi e più segnalati servigi all'umanità, avrebbe compiuto, non che la Scienza della legislazione,ma tutte quell’altre opere che già meditava.

La penna ornai tanto esercitata e l’età più matura gli avrebbero concesso di darcele più perfette... ma, veduto il tragico fine degli amici suoi, di que’ magnanimi insegnatori del fortemente morire, si cessò allora dal rimpiangere la sua morte. Se i tempi dovevano volgere sì calamitosi, che amor di patria, che ardore di libertà e di gloria potessero farsi delitti, chi più reo del Filangieri? Reclamiamo altamente per lui il primo posto fra que’ colpevoli; Un debito storico ce lo impone. Se dunque la morte di Gaetano Filangieri era meno immatura, rischiava divenir più crudele e crescere il numero de' martìri partenopei. Altri altramente argomentano, e, calcolata la stima concettane dal re e i doni della persuasione ond’era sì ricco, stimano che gli avrebbero agevolato il deprecare e lo stornare la catastrofe da capi sì illustri. Finalmente, perché, allo spettacolo degli amici e discepoli condotti al supplizio, non fu chi non corresse col pensiero al maestro, ebbevi persino chi rammaricò, che una morte immatura avesse sottratto il Filangieri a questa morte solenne (20)).

Dieci anni dopo la sua morte, gli amici suoi cadevano in gran numero sotto la mannaja, e la famiglia di lui andava proscritta in espiazione del suo nome. Filangieri aveva preveduto questo pericolo, e ne parla in più luoghi dell’opera sua.

«Alcune verità, dic’egli, che sono in obbligo d’illustrare, chiameranno sul mio capo persecuzioni e sciagure. Sono sicuro di questo pericolo, ma mi vergognerei di prevenirlo col silenzio. Allorché ho intrapreso quest’opera, ho giurato di superare tutti que’ vili spaventi che potrebbero trattenerne il corso, e la sicurezza della coscienza basterebbe a darmi quella pace ch'altri volesse turbare; e nella solitudine e nella città, nell'obblio e nelle cariche, nell’esilio e nella corte sono ugualmente felice. Le persecuzioni e le sciagure si fanno dolci, se sieno accompagnate da' sospiri e dalle lagrime dei deboli, a' quali s’è cercato giovare.»

Altra prova dell’onesta sua libertà nello scrivere, e della giustezza onde scompartiva il biasimo e la lode, trarremo dalla sua stessa corrispondenza. Ecco con qual candore scriveva di Leopoldo allo Spannocchi, ch'era pur suddito toscano:

«Gli elogi ch’ella fa al buon duca di Toscana son dovuti a' suoi talenti, alle sue cure, ai benefìzi ch’egli ha direttamente arrecati alla Toscana, e che indirettamente recherà col suo esempio agli altri popoli, i quali adotteranno le sue instituzioni. La libertà filosofica avrebbe potuto aggiugnervi, che se questo principe avesse rispettati i diritti della parola, come ha rispettati quelli della proprietà, non vi sarebbe in tutta l’antichità un eroe, un legislatore, un principe che potesse essergli messo a confronto. Uno spirito inquisitorio, ch’è l’unico difetto di questo sovrano, fa che il suo nome sarà proferito con maggior entusiasmo dalla posterità che da' suoi contemporanei.

«In altro luogo dell’opera sua si legge cosa che, come era desunta dalla, storia con fedele sagacia, si fece profetica di quanto avvenne nella patria sua pochi anni dopo che questa cosa fu scritta.

«Una triste esperienza, dic’egli, ci ha fatto più volte vedere l’ingresso de' lumi accompagnato in una nazione da interni torbidi e da sanguinosi contrasti. Gl'inimici del sapere, superficiali eparziali osservatori dell'istoria, si sono serviti di questi fatti, come di tanti altri, per calunniarlo. Ma un imparziale e profondo osservatore ne deve attribuire a tutt'altro la causa. Quando una parte della nazione s’illumina nel mentre che si lascia l’altra languire negli errori, il contrasto delle verità cogli errori ne dee produrre uno tra coloro che sono a parte delle une, e coloro che sono a parte degli altri. In questo contrasto la tranquillità interna vien turbata, il sangue si sparge, l’errore acquista il vigore che gli dà lo spirito di partito, e la verità gli ostacoli, che le produce la taccia di sediziosa ed inquieta. Qual preservativo contro questi mali? Bisogna cercare di distruggere gli errori nel volgo, nel mentre che si cerca d’introdurre e di promuovere i lumi nell’altra porzione della società. Ma come riuscirvi senza una pubblica educazione? (21)»

Richiamando qui col pensiero tutte le parti dell’opera del Filangieri, possiamo conchiudere che, gemendo egli bensì la povera natura umana guasta da quanto la circonda, temeva di calunniarla essa e il suo autore se la giudicava per sè, e intimamente e irreparabilmente corrotta. Se la educazione domestica, migliorata dall’allargata autorità paterna; se la pubblica ricreata o cogli ordini eh egli divisò o con altri o migliori o più praticabili; se insomma ogni e ciascuna parte della Legislazione trovasse un riscontro nell’altra, e tutte insieme e tutti gli ordini sociali collimassero a uno scopo; se tutto ciò si vedesse, e i mali che ne affliggono pur tuttavia durassero, allora sì veramente sarebbero da por giù le speranze. Ma infino a che le cagioni de' mali sono conosciute e rimangono, i mali sono dunque conseguenze forzose di cattive e imperfette instituzioni. Ergo sanabilibus aegrotamur malis, ipsaque nos in rectum genitos natura, si emendari velimus, juvat.

Questa fiducia, ancorata nel più profondo di questa bellissima anima, faceva parte della sua fede, di quella fede ch’ebbe e mantenne saldissima nella religione che prosciolse gli uomini dalla schiavitù, che tutti gli abbraccia nel suo seno, che tutti gli agguaglia innanzi alle leggi, che dal cielo recò in terra, e che con tali leggi, che sono le più universali, ha aperto alla stessa la via a riformare tutte le speciali leggi della società. In mente abituata all’esame diligente delle cose competenti all’umana ragione, l’atterrarla innanzi ai misteri della religione è più bello e meritorio; in altri il merito è del cuore; è il sacrificio d’Abramo; avvi il rogo, il fuoco, l’amore e la semplicità; ma negli uomini che abnegano una ragione esercitata avvi anco la vittima che è essa la ragione. Noi siamo tanto più certi di questi sentimenti del Filangieri, quanto che ci vengono attestati, e da chi lo conobbe e da chi non li partecipava, e tutti concordi ne dicono ch’egli seguiva e amava la religione cristiana, i precetti e la dottrina e la carità della quale erano affatto conformi ai sentimenti della sua anima. Aveva una tenerezza per le sue pratiche, pe’ suoi riti, pe’ suoi misteri; e coloro stessi che non la professavano, o che vacillavano in essa, eran presi ed edificati dai ricchi frutti che in lui produceva. In fine, fu da questo sentimento sovrumano, che scaturì, si avvivò e mantenne in lui quell'ardore, quel coraggio, quella costanza che erano richiesti perché si dedicasse così giovane, e ne’ brevi anni che gli vennero concessi, al bene dell’umanità, in guisa da poter avverare in sé quel bel detto dell’illustre suo concittadino Pontano nella più bella delle sue opere:«Audendo agendoque res-publica crescit, non iis consiliis quae timidi cauta appellant (22)

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NOTE

(1)Profitteremo di una corrispondenza inedita, né finora veduta da altri, tra il Filangieri e Bonaventura Spannocchi, che darà qualche nuovo lume alla vita che scriviamo. —Sono ventiquattro lettere di Filangieri a Bonaventura Spannocchi. Cominciano dal 5 aprile 1781 e giungono all'8 maggio 1788, e pare che ne manchino alcune. Di averne potuto far uso in questo articolo andiamo debitori alla somma cortesia dell'amico cav. Pompeo Spannocchi, nipote del senatore a cui furono dirette, e di cui vogliamo stringere in questa nota la vita. — Bonaventura Spannocchi nacque di nobilissima famiglia in Siena nel 1742; studiò in Firenze, ed ebbe ventura di trovare nel celebre Pompeo Neri, suo zio materno, chi lo diresse negli studi. Nel 1772 eletto vicario a San Miniato, conobbe quivi il parroco Landeschi, e ne pubblicò i Saggi d‘agricoltura del parroco San Miniatese( Firenze, 1773) più volte ristampati. La prefazione economico-politica, che ad essi fece precedere, seguita la dottrina dello zio e maestro. Successivamente fu residente del magistrato de' conservatori a Firenze (1775); vicario a Pescia (1777); magistrato e poi senatore a Milano (1778); decorato della croce di s. Stefano di Toscana (1783); presidente del tribunale di prima istanza (1786); presidente del Tribunale d’appello (1787) e consigliere intimo di S. M. Cesarea. Venuto il nuovo secolo e la nuova signoria, fu grangiudice, e membro dell’istituto nazionale nel 1802. Con tutto che per la costituzione i giudici fossero inamovibili, Napoleone gli tolse nel 1805 il carico di grangiudice. Spannocchi era amico di Melzi e quindi della indipendenza italiana. In occasione di un decreto che diminuiva gli stipendi de' giudici, Spannocchi disse all'imperatore che avrebbe ubbidito, ma che era suo dovere di avvertire Sua Maestà, che gli stipendi erano ridotti a tale, che questa nuova diminuzione faceva temere il mercato della giustizia. Nel 1807 ebbe la decorazione della corona di ferro. Nel 1822 tornò in patria, e nel 1832 cessò di vivere con rammarico de' buoni questo caldissimo ammiratore di Filangieri.

(2)Se la nostra conghiettura non va errata, questa Memoria, stampata in Zurigo un anno appresso la data della lettera del Filangieri, ha il titolo: Abhandlung von der CriminalGesetzgebung. Etne von der Skonomischen Gesellschaft in Bern gekrbnte Preisschrift dee Herrn Haris Ernst von Globig, und Herrn Johann Georg Huster(Zurich, 1783). — Gli Svizzeri, o molti di essi, erano, più eh altri, mestierosi di riforma criminale. Si narra che in qualche Cantone, delitti legalmente passivi di minori pene venissero puniti colla capitale; e la ragione è strana. Qualora i rei eran poveri, e il mantenimento in prigione ricadeva a carico dello Stato, si condannavano a morte per risparmio di spese. In tal caso manco male sarebbe stato assolverli, per meno smentire che la economia negli Stati repubblicani e poveri sia virtù e necessità.

(3)La Scienza della legislazione sindacata, ovvero Riflessioni critiche sulla Scienza della legislazione,ecc. Napoli, 1784. in 8.°

(4)Quali fossero le attribuzioni di tal consesso e a quali parti dell’amministrazione precedente fosse succeduto, si narra nella Storia delle finanze del regno di Napolidel cav. Lodovico Bianchini. vol. III, lib. VI, cap. 4, sez. 1, fac. 214-223.

(5)Rapport présentéaux consuls de la République par le citoyen Chaptal, ministre de l’intérieur. Monit. Univ. N.° 50,20 brum. an. 9 de la République Française.

«Les enfants de l’illustre auteur de la Science de la législation, Gaetano Filangieri, coupables aux jeux du gouvernement napolitain de la célébrité et des principes de leur père, ont été compris dans la proscription qui, jusqu’à ce jour, a frappé de si nombreuses victimes.

«Ils sont jeunes l’un et l’autre; il s’annoncent des dispositions heureuses; mais ils ont besoin que leur éducation interrompue s’achève. Ils ne peuvent, citoyens consuls, compter sur un telbienfait s’il ne leur est accordé par vous.

«Je vous propose d’ordonner qu’ils seront admis au Prytanée.

«Cette école doit être préférée à toute autre. Il n’en est aucune, où l’on donne des meilleures leçons et des meilleurs exemples. Les jeunes Filangieri, placés au milieu des enfants de l’état, s’yrendront bientôt dignes du nom qu’ils portent et de la protection qu’ils reçoivent.»

Signé Chaptal.»

(6)«I trattati antichi ed onerosi pel reame sono in gran parte da ascriversi allo stato di provincia, nel quale Napoli si trovava verso la Spagna, e al patto di famiglia; ma non ècosi facile di spiegare le convenzioni più recenti che presero il luogo di que’ trattati. La convenzione 26 settembre del 1816 coll’Inghilterra, quella del 21 febbrajo 1817 colla Francia e quella del 15 agosto dello stesso anno colla Spagna, che, promulgate in Napoli a' 30 marzo 1818, cominciarono ad aver forza di legge, concedono sopra i dazi vigenti nel regno una diminuzione del 10 per 100 alle merci di quelle tre nazioni, introdotte ne’ porti di quel regno con navi di que’ popoli.

«Da siffatti trattati niun utile, dice un recente storico delle finanze di Napoli, venne al nostro reame, ed invece ne risultarono due conseguenze dannosissime: l’una, che la finanza perdette ogni anno, come si calcolò in quel tempo, non meno di ducati 200,000; la quale somma è andata sempre più aumentando per la cresciuta intromissione: l’altra, che ha ingenerato rovina forse irreparabile alla nostra marina mercantile (si sa che della marina mercantile alimentasi principalmente quella di guerra), perocché quel benefizio del 10 per cento fece sì che le marine di quelle nazioni fossero privilegiate sopra tutte le altre, ed anche sulla nostra che quel benefìzio non godeva; né valsero ad opporsi a siffatto male gl’incoraggiamenti che prometteva alla nazional marina il nostro Governo, perocché neghittose restando le navi sul lido senza poter fare alcun commercio ad uguali condizioni coi Francesi e cogli Inglesi, niuno ne fabbricava di nuove.» Storia delle Finanze del regno di Napolidel cav. Lodovico Bianchini, tom. III, fac. 629-631.

(7)Di questo quinto libro l’A. potè compiere solo la prima parte, altro non lasciandoci della seconda che i titoli de' capitoli. Illibro sesto doveva trattare della proprietà,e il settimo della patria potestàe di quella del marito. — IlGiornale de' Letterati(Pisa, N. 79, luglio e agosto 1807) pubblicò la proposta di un premio di cento zecchini fiorentini, che tre socj dell’Accademia italiana aggiudicherebbero a chi meglio avesse recato a fine l’opera imperfetta di Filangieri. 11 professore Giacomo Sacchetti, segretario generale e perpetuo di quell’Accademia, era il solo sottoscritto al programma (Pisa, 30 aprile 1807), che dichiara ampiamente le condizioni richieste nell’opera e le forme dell’aggiudicazione. 11 nome del mecenate, che sopperiva alla spesa, tacevasi. Seppesi poi essere il dottore Antonio Fritti di Poggibonsi in Toscana; ma ignoriamo che veruna continuazione della Scienza della legislazionefosse mai pubblicata.

(8)La rivocazione dell’editto di Nantes.

(9)Lettre àMontesquieu— De l’Homme. Sect. IV, chap. 2.

(10)Commentaire sur l’Esprit des lois de Montesquieu par M. le comte Destutt de Tracy. Paris, 1822, pag. 141.

(11)Esquisse politique sur l’action des forces sociales dans les différentes espèces de gowemements. Bruxelles, Lacrosse, 1827, in 8.°, pag. 217

(12)Un mese circa prima di morire, da Vico-Equense mandava a Napoli all'amico marchese D. T. due estratti di libri inglesi, il primo de' quali diceva di avere di già restituito ad Hamilton. La lettera accompagnatoria e i due estratti sono stampati. 1.° Estratto d’uno scritto di Plavfair: Intorno al debito nazionale della Gran Bretagna. 2.° Articolo intorno allo stesso argomento estratto dall’opera di Ricardo Price intitolata: Osservazioni sopra l’importanza della rivoluzione d'America e sopra il modo di renderla utile al mondo. Vedi gli Opuscoli ineditiin fine alla Scienza della legislazione.

(13)Ildissodamento del Tavoliere della Pugliasi affaccia primo a chiunque mediti di accrescere ia prosperità e la popolazione del regno: di qui i tanti scritti in proposito. Filangieri fu un de' primi a trattare questa materia. 11 di dopo che fu agitata nel supremo Consiglio delle finanze, al quale assisteva, mandò al re la sua Opinione sottoposta al re delle due Sicilie sulla proposizione di affittare per sei anni i pascoli del demanio reale detto Tavoliere della Puglia,e qui perora per tale affitto prolungato da convertirsi poi in arrendamento. (La finanza napoletana adoperò ab anticola voce spagnuola arrendareper appaltare. 1 dazi si appaltavano; l’appaltatoresi chiamava arrendatore,e l’appalto o fitto riscosso, arrendamento)Ma più recenti scrittori perorano per quanto si è qui esposto nel testo. Lo stabilimento delle colonie nel Tavoliere della Puglia,aperto al concorso anche di capitalisti forestieri, da allettarsi con favori capaci d’indurli a importare e investire i lor capitali nel regno, non poteva conseguire avvocato né più dotto, né più giudizioso, né più caldo di veggente amor di patria del sig. Giuseppe Romanazzi di Putignano di Bari. Ilsuo scritto, che di quanti ne conosciamo è il più recente e il più meditato in tal materia, s’intitola: Note e considerazioni sull’affrancazione de' canoni e sul libero coltivamento del Tavoliere di Puglia. Napoli, 1834. Vedine principalmente il cap. IV, fac. 85: Dello stabilimento di colonie regolari nel Tavoliere propriamente detto.

(14)Storia della economia pubblica. Lugano, 1829; art. Gaetano Filangieri,fac. 221.

(15)Lettera di Franklin da Parigi, 11 gennajo 1783, recata in parte da Donato Tommasi nel suo Elogio storico del cav, G. Filangieri. Tommasi aggiugne che Franklin continuò a scrivere di tempo in tempo al Filangieri, «efin da Filadelfia non ha tralasciato fino a questi ultimi tempi ( die’ egli) di chiedergli con lettere amorevole conto dello stato di sua salute e de' suoi letterari lavori, e sempre più nuovo numero di copie della sua opera immortale, che faceva lo stupore e l’istruzione di que’ liberi cittadini.» Elogio storico,fac. XCVI, ediz. di Filadelfia (Livorno), 1819. — Allorché Franklin inviò a Ferdinando IV re di Napoli le Costituzioni de' nuovi Stati confederati, ne mandò pur copia pel Filangieri.

(16)«Transibunt in mancipium viri.» Cicer. proMurena.

(17)È vero che presso molte nazioni nel progresso del tempo si estese anche alla moglie il dritto di cercare il divorzio ; ma le cause per le quali esse potevano cercarlo, e gli ostacoli che vi si opposero, furono tanti e tali che quasi eludevano il beneficio della legge: basta leggere la novella 22, cap. 15, e la novella 117, cap. 8, cap. 13 e cap. 14, per vedere quanto fosse difficile presso i Romani, e quanto doveva costare alle mogli il cercare il divorzio, e quanto facile dalla parte del marito.

(18)Vedi l’art. Cesarottinel T. III, fac. 178, nota 1 Della Letteratura Italiana,oc. Brescia, 1822.

(19)Giacomo Giona Bjoemstahl Briefe... Lettere di viaggi stranieri, traduz. ital. stamp. in Coira. — Federico Munter, Memorie Sicule. — Federico GianLorenzo Mever, Viaggio in Italia.

(20)Franco Salfi accenna colle iniziali uno de' primi baroni del regno, che si lasciò sfuggire con circostanze atroci si barbaro voto, perché attribuiva a Filangieri la decadenza dell’autorità della sua casta. Éloge de Filangieri,pag. XC, vol. I, ediz. citata.

(21)Scienza della legislazione. Lib. IV, par. I, cap. 2.

(22)De Fortitudine.



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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1876 - GAETANO FILANGIERI - 04 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF












Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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