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Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di Elea [Aprile 2022]

Vita ed opere di Gaetano Filangieri: Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

DI

GAETANO FILANGIERI

PRECEDUTA DA UN DISCORSO

DI PASQUALE VILLARI

VOLUME SECONDO

FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIER
1872


PARTE PRIMA
Della procedura
I Introduzione
II
Prima parte
Della criminale procedura
 Dell'accusa giudiziaria presso gli antichi
III
Dell'accusa giudiziaria presso i moderni
IV
Nuovo sistema da tenersi riguardo all'accusa giudiziaria
V
Riforma da farsi nel sistema della procedura inquisitoria
VI
Seconda parte
Della criminale procedura
L'intimazione all'accusato...
VII
Riforma da farsi in questa parte della criminale procedura 
VIII
Delle condanne per contumacia
IX
Terza parte Della criminale procedura —Delle prove e degli indizi de' delitti

X
Proseguimento dell'istesso soggetto colla confessione libera ed estorta
XI
Parallelo tra' Giudizii di Dio de' tempi barbari e la tortura
XII
Principii fondamentali da' quali dee dipendere la teoria delle
prove giudiziarie
XIII
Della certezza morale ivi
XIV
Risultati de' principii che si sono premessi
XV
Canoni di giudicatura che determinar dovrebbero il Criterio legale
XVI
Quarta parte
Della criminale procedura
 Della ripartizione...
XVII
Della viziosa ripartizione della giudiziaria autorità in una gran parte delle nazioni d' Europa
XVIII
Appendice air antecedente capo sulla Feudalità
XIX
Piano della nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie funzioni per gli affari criminali
XX
Quinta parte
Della criminale procedura
La Difesa
XXI
Sesta parte
Della criminale procedura
La Sentenza  
XXII
 Appendice della sentenza che assolve, o sia della riparazione del danno, e del giudizio di calunnia
XXIII
Altra Appendice della sentenza che assolve, e della sentenza che sospende il giudizio
XXIV
Appendice della sentenza che condanna, e conchiusìone del piano generale di riforma...
PARTE SECONDA
De' delitti e delle pene
XXV
Principii generali...
XXVI
Della necessità delle pene, e del dritto di punire
XXVII
Oggetto delle pene
XXVIII
Specie diverse di pene

 
XXIX
Della pena di morte
XXX
Della moderazione colla quale si dee far uso della pena di morte
XXXI
Delle pene d'infamia
XXXII
Delie pene pecuniarie
XXXIII
Delle pene privative o sospensive, della libertà personale 
XXXIV
Delle pene privative e sospensive delle civiche prerogative 
XXXV
Del rapporto delle pene co' diversi oggetti...
XXXVI
Proseguimento dell'istessa Teoria
XXXVII
Del delitto in generale

XXXVIII
Della misura,de' delitti
XXXIX
Della proporzione tra i delitti e le pene
XL
Appendice all'antecedente Capo
XLI
Eccezione
 XLII
De' delitti pubblici e de' delitti privati
XLIII
Divisione generale de' delitti
XLIV
Prima classe —De' delitti contro la Divinità
XLV
Seconda classe
Delitti contro il Sovrano, e prima di ogni altro...
XLVI
Proseguimento dell'istesso oggetto. Quello che si dovrebbe fare
XLVII
Terza classe
De' delitti che si commettono contro l'ordine pubblico
XLVIII
Quarta classe
De' delitti contro la fede pubblica
XLIX
Quinta classe
De'delitti contro il dritto delle genti 
L
 Sesta classe
De' delitti contro ordine delle famiglie
LI
Settima classe —De'delitti contro la vita e la persona de' privati 
LII
Ottava classe —De’ delitti contro la dignità del cittadino o sia degli insulti e degli oltraggi
LIII
Nona classe —De' delitti contro l’ onore del cittadino
LIV
Decima classe — De' delitti contro la proprietà del cittadino

LV
De' delitti che non si debbono punire
LVI
Appendice all'antecedente Capo
LVII
Dell'Impunità
LYIII
Conclusione di questo terzo Libro

PARTE PRIMA - DELLA PROCEDURA


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CAPO I

Introduzione

Le leggi politiche ed economiche, delle quali si è diffusamente parlato nell'antecedente libro, provveggono alla conservazione de'    cittadini: le leggi criminali garantiscono la loro tranquillità. È inutile il prescrivere al cittadino ciò che dee fare, ciò che non dee fare; bisogna che l’interesse personale vi si mescoli e divenga la sanzione della legge. L’interesse personale di ogni uomo è di conseguire qualche beneficio, o di evitare qualche male. La speranza o il timore sono dunque i due sostegni delle leggi. La legislazione criminale non dee maneggiare che l'ultima di queste due passioni. Le pene ch'essa minaccia, spaventano l’uomo che vorrebbe disubbidire alle leggi, e difendono con questo mezzo la tranquillità degli altri cittadini. Conscii del pericolo, al quale si esporrebbe colui che cercherebbe di turbarla, essi vivono tranquilli sotto la protezione delle leggi. Or questa coscienza, questa tranquillità è quella che chiamasi libertà civile; vera ed unica libertà che possa conciliarsi collo stato sociale.

Ma non sono le sole pene minacciate a' delitti quelle che rendono la legislazione criminale atta ad ispirare questa preziosa tranquillità, questa civica libertà. Se essa non garantisce l’innocente dalle calunnie; se nel tempo istesso che toglie ogni speranza all'impunità a colui ch'è veramente reo, non assicura l’innocenza dalle accuse mendaci di un impostore avveduto, essa diverrà una spada

egualmente spaventevole al cittadino che desidera di violare la legge, ed all’onesto uomo che religiosamente l’osserva. Le pene che si faranno allora soffrire al delinquente, lasceranno sempre un dubbio sulla loro giustizia. In mezzo al vano spettacolo de'    supplizi la diffidenza e la pietà domanderanno sempre, se colui che s’immola è innocente o colpevole. Lungi dal gustare quel placido godimento che ispira la protezione delle leggi nel momento che manifestano il loro vigore, ed esercitano il loro impero, il timido ed innocente spettatore proverà allora il terrore che produce il sospetto di esserne abbandonato.

Lo spavento dunque del malvagio deve esser combinato colla sicurezza dell'innocente nella criminale legislazione.

Funestamente per l’Europa le leggi criminali non ottengono nella più gran parte delle nazioni né l'uno né l'altro di questi due oggetti. I vizi quasi universali della criminale procedura; il mescuglio mostruoso de'    principii della romana giurisprudenza con quelli in parte aboliti ed in parte esistenti della legislazione de'    barbari, del sistema feudale e delle leggi canoniche; alcune massime contrarie alla libertà dell’uomo e distruttive de'    diritti più preziosi del cittadino, nate in alcune circostanze, nelle quali forse l’urgenza de'    bisogni o l’ignoranza de'    tempi poteva se non legittimarle, almeno scusarle, ed adottate quindi come tanti canoni di giudicatura ne' nostri tribunali, dove con stupida venerazione gli antichi errori e i vecchi pregiudizi si tramandano e si conservano come un’eredità fedecommissaria per molte generazioni nell’istessa famiglia; la dialettica finalmente delle scuole che la filosofia aristotelica comentata, o, per meglio dire, alterata dagli Arabi e trasportata da' Saraceni nella Palestina e nella Spagna, introdusse così nella religione come nella politica, e che inondando l’Europa, ravviluppando tutti gl’ingegni, sacrificando la realtà delle cose ad una puerile nomenclatura, fece che la Divinità non meno che la legislazione passasse pe’ fili sottilissimi delle logiche distinzioni e delle metafisiche sottigliezze con una destrezza prodigiosa, ma che non serviva ad altro che a mostrare la sagacità dello spirito umano, anche nel momento nel quale abusa delle sue forze: tutte queste cause, io dico, hanno contribuito ad ingombrare di tante tenebre quella parte della legislazione che dovrebbe esser la più semplice e la più chiara, cioè quella ch'è destinata a regolar la procedura criminale, che noi possiamo asserire con certezza che non vi è delitto, per manifesto che sia, che non possa sotto gli auspicii di questo complicato ed erroneo metodo d’inquisizione rimanere impunito; e non vi è innocenza, per conosciuta che sia, che possa esser sicura della sua tranquillità e della sua pace.

I due oggetti dunque generali di questa parte della scienza legislativa che riguarda le leggi criminali, sono di trovare prima d’ogni altro un metodo di procedura il più semplice che sia possibile, e quindi venire all'esame delle pene che sarebbero da prescriversi a' diversi delitti, proporzionandole alla loro qualità ed al loro grado, vale a dire a tutte quelle circostanze che li rendono più o meno gravi, più o meno perniciosi, più o meno spaventevoli (1). Alcune mani benefiche hanno portato qualche lume nella parte penale di questo ramo interessantissimo della legislazione. Gli applausi del pubblico, alcune salutari riforme cagionate in alcuni Stati dalle loro istruzioni, le benedizioni sincere di que’ pochi uomini che s’interessano pel bene de'    loro simili, hanno coronati i loro scritti, e premiati i loro utili lavori (1). Ma l’altra parte di queste leggi, la più difficile a ripararsi e la più interessante a trattarsi, è rimasta nella sua antica oscurità. Lo strepito universale contra l’irregolarità della presente procedura, non ha ancora fatto nascere un nuovo metodo che si dovrebbe all'antico sostituire. La filosofia si è fermata sopra alcuni de'    suoi componenti che sono i più manifestamente viziosi; ma non ha ancora distesi i suoi sguardi sopra l’intera macchina. Questo ha renduti inutili i suoi sforzi. Un sistema vizioso nel tutto rende necessari i vizi stessi delle parti, il disordine cresce allorché si vogliono alcune di queste riparare, senza rimediare al tutto.

Discostiamoci dunque da queste parziali invettive; esaminiamo il sistema della criminale procedura in tutta la sua estensione; scorriamo sopra tutt’i suoi componenti, sopra tutti i suoi vizi; ma non mostriamo all’ospite tranquillo la spada che pende sul suo capo, senza indicargli l’impenetrabilità dello scudo che dee garantirnelo; alla dipintura de'    mali uniamo la scelta de'    rimedj. In questa seconda, ma più difficile operazione, siamo di buona fede con noi medesimi; sforziamoci di superare tutti gli ostacoli che ci si presentano, e non occultiamo quelli che non abbiam potuto superare; facciamo che colui che legge, conosca la nostra forza e la nostra debolezza; palesiamogli i più occulti difetti del nostro piano, se non ci è riuscito di scansarli; ma non ricorriamo alla frode, colla quale alcuni superficiali scrittori cercano d’illudere piuttosto che d’istruire i loro lettori; cerchiamo di esser convinti prima di pensare a convincer gli altri; portiamo i nostri sguardi profondi sulle legislazioni di tutt'i popoli e di tutti i tempi; se la fiaccola della ragione ci guida in questo esame, noi possiam trovare nelle leggi stesse viziose e guaste i semi delle buone; consultiamo dunque l’antichità, e vediamo se tra' frammenti che la memoria de'    tempi ci ha lasciato della criminale procedura de'    Greci, de'    Romani e delle nazioni più culte e più libere, noi potessimo qualche salutare espediente adottare, e qualchedun altro accomodare allo stato presente delle cose; vediamo se l’opposizione che ci è fra 'l metodo degli antichi ed il nostro sia necessaria o abusiva; se questi due opposti metodi si potrebbero combinar insieme, in manieraché l’uno fosse di soccorso all’altro; profittiamo de'    lumi che ci offre il codice criminale di una nazione dell'Europa, (2) il quale, se nella parte penale è vizioso quanto gli altri, è nel tempo istesso ammirabile in quella che ha per oggetto la procedura; esaminiamo in una parola tutto quello che si è fatto e quel che si fa, per vedere nel tempo istesso quello che si dovrebbe fare, per togliere quanto più si possa all’innocente ogni spavento, al reo ogni speranza, ed a' giudici ogni arbitrio.

Per riuscire più facilmente in questa intrapresa; per dare un cert'ordine alle mie idee; per portare in una materia cosi confusa e complicata quella chiarezza, della quale debbono essere ornate tutte le politiche discussioni, io divido in sei parti la procedura criminale. La prima riguarda l'accusa; la seconda l’intimazione all'accusato e la sicurezza della sua persona; la terza le prove e gl’indizi del delitto; la quarta la ripartizione delle giudiziarie funzioni e la scelta de'    giudici del fatto; la quinta la difesa del reo; la sesta finalmente la sentenza.

Cominciamo dall'accusa. (1)


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CAPO II

Prima parte - Della Criminale Procedura
Dell’accusa giudiziaria presso gli antichi

La libertà, o per meglio dire, il dritto di accusare, è stata una delle prerogative della cittadinanza in una gran parte delle nazioni e per un lungo tratto di secoli. L’interesse comune ed uguale che hanno tutti gl'individui di una società alla conservazione dell'ordine pubblico, all'osservanza delle leggi, alla diminuzione de'    delitti, ed allo spavento de'    malvagi, ha fatto credere a' legislatori più savi che non si poteva negare al cittadino il dritto d’accusarne un altro. Questa opinione analoga a tutt’i principii sociali, fu adottata dagli Ebrei, (1)dagli Egizii, (2) da' Greci (3) e da Romani. (4)

Presso questi popoli la tranquillità pubblica e la sicurezza privata erano a vicenda garantite dalla reciproca ispezione de'    cittadini e dalle rigorose pene minacciate contro a' calunniatori. La libertà di accusare rendeva da una parte difficile l’occultazione del reato, rara l’impunità, meno frequenti i delitti; e la severità, colla quale era punita la calunnia, assicurava dall'altra la tranquillità dell'innocente, e spaventava colui che avrebbe ardito di turbarla. Una mano mercenaria non era allora quella che strascinava sopra un leggerissimo indizio un cittadino nelle carceri; non si turbava allora a cosi poco prezzo la pace di un uomo. L'accusatore doveva esser ben sicuro del delitto, quando egli si esponeva a veder piombare sopra di lui tutto il rigor della legge, trovandosi calunniosa la sua accusa. Questa era pubblica, era palese all’accusato, era accompagnata dalle più terribili promesse. Durante la libertà della Repubblica e ne' bei giorni dell'Impero, il Romano che accusava, doveva prometter di non ritirare la sua accusa prima che 'l giudice non avesse interposta la sua sentenza; (5) e doveva esibirsi alla pena del taglione nel caso che fosse convinto di calunnia. (1) Egli era quello che doveva provare il delitto, e l’insussistenza delle sue prove faceva la giustificazione dell'accusato. (2) L’assoluzione di questo portava ordinariamente la rovina dell'accusatore. Bastava che 'l pretore profferisse quella spaventevole formola, colla quale dichiarava calunniosa la sua accusa, per far piombare sull'accusatore la pena che la legge aveva destinata al delitto, del quale egli aveva incolpato un innocente, e per unire alla pena del taglione quella dell'infamia.( ()((3)() )La legge Remmia fu quella che aggiunse questa nuova pena all’antica, per maggiormente rassicurare la civile libertà. (1)Ancorché l’offeso istesso fosse stato l’accusatore, ancorché lo fosse stato il magistrato nelle straordinarie procedure, la calunnia manifesta non rimaneva impunita. La legge si dimenticava in questo caso dell’eccezioni fatte in favore dell’uno e dell’altro, e condannava al taglione ed all’infamia l’accusatore di mala fede. (2)Non contenta delle terribili minacce, colle quali essa aveva cercato di allontanare i cittadini da questo delitto distruttore della civile sicurezza, ebbe ricorso ad un mezzo atto a renderne più difficile la riuscita.

L’accusato era autorizzato dalla legge a dare all'accusatore un custode, il quale dovea spiare tutt'i suoi passi e la maniera colla quale egli cercava di sostenere la verità della sua accusa.(3)O che conferisse co' giudici, o che parlasse a' testimoni, il custode aveva sempre il dritto di assistere a' suoi discorsi. Era cosi assidua la presenza di questo ispettore, dice Plutarco, (4)che l’accusatore non poteva, per cosi dire, neppur pensare ad una cosa senza ch'egli ne fosse istruito.

A questo rimedio diretto che spaventava da una parte l’accusatore di mala fede e rassicurava dall'altra l’accusato, le romane leggi aggiunsero altri rimedi indiretti, atti a prevenir le calunnie piuttosto che a punirle. Esse esclusero dal dritto di accusare alcune persone sospette, o pel loro sesso, o per la loro età, o per la bassezza del loro carattere, o per l’angustia delle loro fortune, o per la prevenzione della loro mala fede, o per l'opinione della loro prepotenza. Le femmine, (1)i pupilli, (2)i servi, (3)gl’infami per diletto o per mestiere; (4)quei ch'erano sub judice per qualche delitto, del quale erano stati accusati; (5)que’ ch'erano condannati con pena che li privava, o della patria, o della libertà, o della pubblica estimazione; (6)quei che avevano contemporaneamente accusati due altri rei, o che avevano ricevuto danaro per accusare (7) o per non accusare; quelli che avean meno di una somma determinata dalla legge, (8) o ch'erano stati condannati in un giudizio pubblico come calunniatori, prevaricatori o falsi testimoni; (9) finalmente i magistrati, e tutti coloro ch’esercitavano qualche carica, (10) non potevano esser accusatori che ne' soli delitti che interessavano tutto il corpo della repubblica, o che offendevano la propria persona o quella de'    suoi. (11)

Più: se per evitare le calunnie alcuni non potevano accusare, per lo stesso motivo alcuni altri non potevano essere accusati. I magistrati, i legati e tutti coloro che reipublicce caussa erano lontani dalla patria, non potevano essere accusati per delitti commessi prima della loro assenza. (1) La legge non voleva che un inimico avesse profittato della loro lontananza per calunniarli; essa non voleva che la condizione dell’accusatore fosse migliore di quella dell’accusato; né che i giudici giudicato avessero di un uomo, che non poteva personalmente giustificarsi.

Per un motivo egualmente ragionevole il padre non poteva essere criminalmente accusato dal figlio, (2)il patrono dal liberto, (3)il fratello dal fratello, (4)il marito dalla moglie, (5)la madre dal figlio, (6)né il padre di famiglia da colui che abitava nella sua casa, (7)o ch'era stato educato nel seno della sua famiglia. (8)La legge vedeva un accusatore sospetto in colui che rispettar non sapeva i naturali vincoli del sangue, o i sacri doveri della gratitudine.

Finalmente un tempo determinato, scorso il quale veniva prescritta l’accusa, era l’ultimo suggello che la legge metteva alla tranquillità del cittadino. Se per garantire la proprietà si era dovuto stabilire una prescrizione per le azioni civili, era troppo ragionevole che per assicurare la vita, l’onore e la libertà del cittadino, se ne stabilisse un’altra per le accuse criminali. Niente di più difficile che difendersi da un’accusa quando questa è di più anni posteriore al delitto. Il tempo che ha scancellata la memoria delle circostanze che lo accompagnarono, toglie all'accusato i mezzi da giustificarsi, ed offre al calunniatore avveduto un velo, col quale covrire le sue meditate menzogne. Riflessioni cosi ragionevoli non furono trascurate da' savi legislatori di Roma. Essi diedero alle accuse criminali una prescrizione. Questa era di venti anni per alcuni delitti, e di cinque, di due e di un anno per altri. (1)

Ma non finiscono qui le disposizioni de'    romani legislatori relative alle pubbliche accuse. Se la privata tranquillità richiedeva che tutti questi mezzi si adoprassero per prevenire le calunnie, la tranquillità pubblica ne richiedeva degli altri per impedire la prevaricazione negli accusatori. Essi videro che la collisione tra l'accusatore e l’accusato render poteva vano il rigore delle leggi e favorire l’impunità del delitto. Essi videro che la libertà di accusare poteva divenire un oggetto d’industria e di guadagno tra le mani di un accusatore venale. Essi videro che un cittadino poteva vendere il suo silenzio ad un delinquente, o poteva, dopo averlo condotto in giudizio, occultare le vere prove del delitto e procurarne colf uno o coll’altro mezzo l’impunità. Essi videro che le ricchezze, il potere, i rapporti di amicizia o d’interesse potevano rendere un delinquente immune dalla sanzione delle leggi. Per prevenire dunque disordini così funesti, essi non si contentarono di minacciare le pene le più severe contra l'accusatore che prevaricava; ma resero la prevaricazione funesta per l’accusato istesso. Se 'l prevaricatore si era col reo transatto prima di accusare, se ne aveva ricevuto danaro o promesse, egli era punito come concussionario o estortore. (2) Ma se la prevaricazione era succeduta all’accusa, allora alla pena dell’accusatore si univa il rischio dell’accusato. Il suo giudizio si proseguiva; il magistrato veniva a far le veci dell’accusatore, e la legge considerava da quel momento l’accusato come confesso del suo delitto. (3) L’accusatore veniva condannato all’istessa pena, che la legge fissata aveva pel delinquente ch'egli aveva chiamato in giudizio, e si univa al taglione l’infamia. (4)

A questo rimedio diretto i romani legislatori unirono l’indiretto della divinazione. Se vi erano più cittadini che si presentavano come accusatori dell’istesso delitto e dell’istesso reo, allora il magistrato dar doveva la preferenza a colui, che agli occhi della legge pareva che avesse un interesse maggiore di accusarlo, o che meritar dovesse una confidenza maggiore. (5) Gli altri accusatori si sottoscrivevano all’accusa; essi non erano obbligati a comparire in giudizio, ma ciascheduno di essi aveva il dritto di somministrare al preferito accusatore le prove del delitto, e d’invigilare sulla sua condotta. Ordinariamente l’accusatore istesso era quello che implorava il loro soccorso; ma se si nascondeva da loro, se 'l magistrato entrava in sospetto della sua mala fede, egli l’obbligava a comunicare tutt'i passi che dava agli altri accusatori, e di accettare non solo la loro assistenza, ma di soggiacere anche alla loro ispezione. (1)

Ecco come si combinava in Roma la libertà di accusare colla difficoltà di calunniare o di prevaricare, la pubblica inquisizione colla tranquillità privata, la massima sicurezza dell’innocente col massimo spavento de'    rei. Mezzi presso a poco simili producevano gl’istessi effetti in Atene. I pochi frammenti che ci son pervenuti della legislazione di questa celebre repubblica, che fu l’istruttrice di Roma, ci mostrano abbastanza qual era il sistema col quale si dirigeva presso gli Ateniesi l’accusa giudiziaria. Uno scrittore celebre, che ci ha tramandata una parte delle leggi e de'    costumi di questo popolo, descrivendoci la vita de'    suoi legislatori, ci ha conservata una legge di Solone, nella quale si permetteva a ciascun cittadino di accusare colui che ne aveva oltraggiato o gravemente offeso un altro. (2)

Un’altra legge rapportata da Demostene accordava in alcuni casi un premio all’accusatore. (3)

Un’altra, rapportata da Andocide, metteva acanto di questa libertà e di questi premj la pena più spaventevole contro la calunnia. (1)

Un’altra, che ci ha conservata l’istesso Demostene, esigeva dall’accusatore la promessa ratificata con giuramento, di non ritirarsi dall’accusa finché non ne fosse terminato il giudizio. (2)Questo era anche, come poc’anzi si è osservato, un rimedio contro alla calunnia e contro la prevaricazione. Finalmente l’ultima legge diretta a quest’oggetto, è quella che ci ha conservata Filostrato. Essa stabiliva che l’accusatore, il quale non aveva a suo favore la quinta parte de'    suffragi, pagasse una multa di mille dramme. (3)

Da queste poche leggi che conosciamo, noi possiam giudicare di quelle che 'l tempo ci ha involate. È anche da presumersi che una gran parte delle leggi de'    Romani, delle quali si è parlato, siano state attinte da questo fonte. In una repubblica, dove il massimo oggetto della legge era di difendere la libertà del cittadino, la direzione dell’accusa giudiziaria doveva richiamare le prime cure del legislatore. Non ci dee dunque recar maraviglia se troviamo su questo articolo leggi così savie in Atene ed in Roma.

Ma chi lo crederebbe? Scorrendo sopra tutt’i codici delle nazioni barbare, portando la fiaccola della filosofia e della ragione in questo aggregato prodigioso di regolamenti, che paiono i più capricciosi e i più strani, osservati fuori delle circostanze e de'    tempi ne' quali furono dettati, ma che combinati collo stato di quelle società, colla natura di quei governi, coll’indole di quei popoli, cogl’interessi, col carattere, coi pregiudizi, coll’ignoranza, colla superstizione di quei secoli, si trovano almeno vestiti di quella necessaria opportunità, che i moderni codici dell’Europa non conoscono: osservando, io dico, le legislazioni di que’ tempi, che noi chiamiamo barbari, noi troveremo l’accusa giudiziaria molto meglio regolata e diretta presso quelle nazioni, che non lo è oggi presso i popoli più culti dell’Europa. Il codice de'    Visigoti, l’editto di Teodorico, il codice de'    Longobardi, quello degli Alemanni, la legge Salica, i capitolari di Carlo Magno e Lodovico, le nostre Costituzioni Fridericiane sono piene di savi regolamenti riguardo a quest’oggetto.

Dopo di avere scorse minutamente tutte queste legislazioni, io non ne ho trovata alcuna, dove il dritto di accusare fosse negato al cittadino.(1) E dove non si fosse pensato a combinare la libertà di accusare colla difficoltà di calunniare. Da per tutto ho trovata la calunnia punita e prevenuta; in alcune il calunniatore trasferito nel potere dell’accusato, e condannato al taglione, come in Roma;(2) in altre l’accusatore obbligato a presentarsi nelle carceri, e ad esibirsi all’istessa pena nel caso che non avesse potuto provare la verità della sua accusa;(3)in alcune esposto al furore dell’accusato, al quale la legge dava un barbaro dritto, ma che non lasciava

d’intimorire un accusatore di mala fede;(4)in altre punito con una multa forse superiore a tutte le pene pecuniarie, colle quali erano in alcuni di questi codici tutt’i delitti puniti.(1)Ho trovato inoltre dove interdetta ogni accusa segreta;(2) dove proibito al giudice di giudicare nell’assenza di una delle due parti, o prima che l’accusato non avesse dall’accusatore istesso ascoltata l’accusa, che s’intentava contra di lui, e non avesse coll’istesso altercato;(3) dove adottato l’uso di Roma e di Atene di obbligare l’accusatore a non ritirarsi dall’accusa prima della sentenza, affinché questa decider potesse della sua sorte, nel caso che 'l reo rimanesse assoluto;(4)dove esclusi dal diritto di accusare coloro che avevan data prova della loro mala fede;(5) dove quelli che per la bassezza della loro condizione, o pe’loro delitti, meritar non potevano la confidenza della legge; (6) e dove finalmente proibito al giudice di prestar fede al servo che accusava il padrone, al familiare che accusava il padre di famiglia, ed al liberto che accusava colui che dato gli aveva la libertà. (7)

Queste poche leggi estratte da' codici delle nazioni barbare, e tante altre che ho tralasciato di rapportare, mi suggeriscono una quantità non piccola d’osservazioni, che io immolo volentieri alla brevità, alla quale ho proposto di sacrificare tutto ciò che può essere in certa maniera estraneo al mio unico oggetto. Io prego il lettore di compatire questa economia di pensieri in un’Opera, nella quale se l’autore volesse spaziarsi sopra tutti gli oggetti, ne' quali non può fare a meno d’incontrarsi, avrebbe di che riempiere una biblioteca co' soli suoi scritti. Contentiamoci dunque di aver osservato quale sia stata la polizia dell’accusa giudiziaria presso una gran parte delle nazioni, e per un lungo tratto di secoli. Rivolgiamo ora lo sguardo sul sistema, che oggi si tiene. L’imparzialità del parallelo renderà il lettore giudice della preferenza, e faciliterà allo scrittore lo sviluppo di molte interessanti idee.


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CAPO III

Dell'accusa giudiziaria presso i moderni

Un concorso di varie cause oscure e dispregevoli, la maggior parte delle quali deve alla superstizione ed al dispotismo la sua origine, ha data una nuova forma a questo primo anello della criminale procedura in quasi tutte le nazioni dell’Europa. Lunga e pericolosa sarebbe l’istoria di questa vicenda. Ione tralascio l’origine, e mi contento di esaminarne lo stato. (1)

Una volta, come si è osservato, l’accusa entrava nella somma de'    dritti della cittadinanza. Oggi questa prerogativa si è tolta al cittadino; egli non può accusare che le proprie offese, o quelle de'    suoi stretti parenti; egli non può in molti paesi altro cercare che la riparazione del danno. (2)Una persona pubblica vien destinata dalla legge a perseguitare i delitti, e a far le parti del fisco per ottenere la punizione de'    rei; e il giudice, che dee giudicare e quello che deve spiare e scovrire il vero autore del delitto, indagare le circostanze che l’hanno accompagnato, ed ordire la tela giudiziaria del processo.

Questa operazione inquisitoria, dalla quale dipende l’esito del giudizio, si fa col massimo segreto, e si affida in gran parte alle mani venali de'    subalterni ministri del giudice, il quale non potrebbe senza il loro ministero riuscire nella sua commissione.

Una volta tutto era pubblico. Nella Grecia, in Roma, presso i barbari stessi l’accusatore, alla presenza dell’accusato intentava la sua accusa; (3)i testimoni alla sua presenza deponevano; il giudice alla sua presenza l’interrogava; e l’accusato rispondeva all'accusatore, a' testimoni ed al giudice; interrompeva i loro racconti; faceva loro delle domande; altercava con essi, ed esponeva al giudice i motivi delle rifìute de'    testimoni, ch'erano sospetti, l’eccezioni ch’egli poteva addurre contra l'accusatore, e gl’indizi della sua innocenza. (1)

Presso i Romani egli poteva anche avere accanto un avvocato che lo consigliasse e che parlasse per lui.(2)L’opposto avviene ne' nostri giorni. Se se n’eccettui l’Inghilterra, dove la procedura criminale si rassomiglia molto a quella de'    Romani, in tutte le altre nazioni un misterioso ed arbitrario segreto accompagna i primi e i più interessanti passi della nostra procedura. 0 che il delitto pervenga alla cognizione del giudice per un rapporto degl'incumbenzati del governo; o che gli pervenga per l'avviso di un dinunziatore, o per l’accusa della parte offesa, l’inquisizione è sempre segreta. Il cittadino, sul quale cade o l'accusa della parte, o la dinunzia del dinunziatore, o il sospetto del giudice, ignora ciò che si trama contra di lui; e s’è innocente, non può neppure sospettare della tempesta che si prepara sul suo capo.

Se la sua condizione non è tale che non vi sia da temere della sua fuga, o se il delitto del quale viene incolpato non è di poco momento, un semplice indizio basta per privarlo della sua libertà, della sua famiglia, del suo onore. Una mano armata va a sorprenderlo, ad oltraggiarlo, ed a condurlo in un carcere, dove ogni comunicazione gli è interdetta. Questo è il primo momento, nel quale egli si avvede di essere stato accusato, o calunniato; ma egli ignora ancora, e dee per molto tempo ancora ignorare ciò che si è tramato contra di lui. Debbono passare più settimane e qualche volta anche de'    mesi prima che la sua curiosità sia in parte soddisfatta. La moltiplicità degli affari non permette a' giudici di farlo così presto comparire in giudizio; e qualche volta alle distrazioni della loro carica essi vi aggiungono anche quella de'    loro piaceri.

Lo stato dell’accusato, durante questo tempo, è uno stato di violenza e di tormento. Se la sua coscienza non lo rimprovera di alcun delitto, la sua immaginazione non lascia per questo di funestarlo e di riempierlo di spaventi. L'oscurità del suo carcere, le catene che lo circondano, la privazione de'    suoi amici e de'    suoi parenti, la solitudine così funesta ne' pericoli, tutto gli annunzia la morte. Egli si ricorda di aver degl'inimici; egli sa quanto sogliono esser ben tramate le insidie dell’impostura; la sua memoria gli presenta la serie e il numero infinito degl’infelici che ne sono stati le vittime. I suoi soliloqui, interrotti dal pianto, non fanno che ricordargli la disgrazia degli uomini, regolati da leggi così funeste. Egli dirige le sue parole alla giustizia che la sua immaginazione riscaldata personifica; reclama innanzi a questo fantasma impotente i dritti che la sua innocenza gli dà alla libertà, alla sicurezza ed all'onore. Gli mostra un pane bagnato dalle sue lagrime e circondato da insetti schifosi che sono i soli esseri che la legge gli permette di vedere. Gli scuopre le piaghe che la durezza e l’angustia del suolo, dove è condannato a dormire, han fatto nascere nel suo corpo esinanito. Gli racconta la sua vita, e nel racconto non fa che l'apologia della sua condotta. All'istoria de'    suoi disastri unisce quella dell’avvilimento, della disperazione e della miseria della sua famiglia. Coi colori i più vivi gli dipinge i suoi cadenti genitori, trattenuti’ innanzi alla porta di un giudice, che non è accessibile che all'opulenza ed alla grandezza; i suoi amici che vanno in cerca di un protettore e che non trovano altro che orecchie sorde e volti gelati; i suoi parenti oltraggiati da' suoi nemici che trionfano; i suoi figli già vicini a perire dalla fame, e la sua sposa virtuosa agitata tra la scelta dell’esistenza o dell’onore: in questo mentre egli si ricorda di esser solo; si avvede che tutto è muto e sordo intorno di lui; si avvede che i suoi discorsi non fanno che maggiormente riscaldare la sua immaginazione che gli ha prodotti: si tace, e comincia di nuovo a ricercare chi ha potuto essere il suo accusatore e quale la sua accusa. Questa incertezza lo tormenta; egli desidera di uscirne; ma teme la presenza de'    giudici. Egli non sa quali saranno le interrogazioni che gli saran fatte e come debba rispondervi. Egli teme che, usando il linguaggio della verità, non confermi gl’indizi che vi sono contra di lui, e non metta il suggello a' suoi disastri. La condizione del vero reo è in questo migliore della sua, perché colui ch'è conscio del delitto che ha commesso, e sa le circostanze che lo hanno accompagnato, può facilmente prevedere ciò che si è provato contra di lui, ed eluderlo colle sue risposte. L’innocente dunque deve essere spaventato dalla sua innocenza istessa.

Ecco quali sono le prime funeste conseguenze di un metodo assurdo e feroce, che il solo dispotismo poteva ideare, che la sola superstizione poteva diffondere, e che la sola ignoranza di alcuni secoli, la sola oscitanza de'    governi poteva adottare e sostenere in una gran parte de'    tribunali dell'Europa. Riserbandomi di esaminare gli altri vizi della moderna procedura ne' seguenti capi, io mi ristringo in questo alla semplice accusa. Io osservo due posizioni principali tra l’antico e il nuovo metodo riguardo a quest’oggetto: 1° Io veggo tra gli antichi l’accusa permessa a tutt’i cittadini; 2° Io la veggo palese all'accusato, fin dal primo momento che s’intentava. Trovo abolito l'uno e l'altro tra' moderni. Cerco di esaminare se questo sia una conseguenza necessaria di quel principio che fissa la bontà delle leggi nel loro rapporto col diverso stato delle nazioni alle quali vengono prescritte; e veggo che l’autore dello Spirito delle Leggi, il quale si scaglia con ragione contro la seconda di queste due opposizioni, trova poi nella diversità de'    governi un motivo da difendere la prima. Esamino La forza della sua proposizione, e la trovo derivata da un falso principio e poggiata sopra alcuni fatti che nulla provano: «In Roma, egli dice, era permesso a ciaschedun cittadino d'accusarne un altro; questo era analogo allo spirito della Repubblica, dove ogni cittadino deve avere pel bene pubblico uno zelo senza limiti; ove si suppone che ogni cittadino tenga tutt’i dritti della patria nelle sue mani. Si con«servò sotto gl'Imperatori la massima della Repubblica, e si vide subito comparire una specie di uomini funesta, una truppa di delatori. Chiunque avea molti vizi e molti talenti, un’anima molto bassa ed uno spirito ambizioso, cercava un delinquente, la perdita del quale potesse esser grata al principe: questa era la strada che conduceva agli onori ed alla fortuna, cosa che non avviene tra noi. Noi abbiamo oggi una legge ammirabile; questa è quella che vuole che il principe, stabilito per far eseguire la legge, crei in ogni tribunale un magistrato per perseguitare in suo nome tutt’i delitti, in manieraché il mestiere di delatore è sconosciuto tra noi; e se si venisse mai a sospettare che questo vendicatore pubblico abusasse del suo ministero, egli verrebbe obbligato a no minare il suo denunziatore.» (1)

Che mi si permetta di osservare cogli occhi della sana critica questa maniera di ragionare di quest'autore celebre, e che si giudichi quindi se questa sua opinione meritava di far tanti proseliti, quanti ne ha fatti. Io venero gli errori stessi di questo grand'uomo; ma quando questi mi paiono perniciosi al genere umano, mi fo un dovere di rilevarli; ed a misura che veggo ch’essi han fatta maggiore impressione nella mente degli uomini, io lì combatto con maggiore zelo.

Credere che la libertà di accusare sia utile in una repubblica e perniciosa in una monarchia, perché in una repubblica ogni cittadino deve avere pel bene pubblico uno zelo senza limiti e nella monarchia potrebbe abusare di questo dritto per favorire le mire del principe, attribuire a questa libertà l’origine de'    delatori in Roma; fondare sopra queste ragioni l'apologia del sistema adottato da quasi tutte le nazioni di Europa di distruggere questa libertà, per incaricarne una persona pubblica che faccia le veci degli accusatori; asserire finalmente che il mestiere di delatore è sconosciuto tra di noi, è l’istesso che distruggere i più sani principii della politica, è l’istesso che confondere le idee più separate tra loro; è l’istesso che mostrare un' ignoranza dell'antica e moderna giurisprudenza; è l’istesso che dedurre da un principio una conseguenza opposta a quella che naturalmente dovrebbe derivarne. Per dimostrarlo, io ragiono in questo modo.

Se la libertà di accusare portasse seco la facilità di calunniare, né in una repubblica, né in una monarchia la legge potrebbe dare al cittadino questo barbaro diritto. La conseguenza di questa concessione sarebbe ugualmente funesta in tutt’i governi, e la tranquillità del cittadino ugualmente esposta. Roma libera e Roma schiava si sarebbero egualmente risentite di un abuso distruttore della civile libertà. Quando si parla dunque di libertà di accusare, si suppone sempre che questa sia combinata colla massima difficoltà di calunniare; e la severità delle pene e la moltiplicità de'    rimedi che i legislatori di Roma e di Atene adoprarono per punire e prevenire la calunnia, ci fanno bastantemente vedere la poca confidenza ch'essi avevano in quello zelo pel pubblico bene, sul quale Montesquieu stabilisce la libertà dell’accusa in una repubblica. Supponendosi dunque la libertà di accusare combinata colla massima difficoltà di calunniare, io non so come questa possa esser utile in una repubblica e perniciosa in una monarchia; io non so come possa nel governo di un solo divenire un’arma, un istromento dell’oppressione. Non si confonda monarchia e dispotismo. Nella prima il principe che ha fatta la legge, non può non farla eseguire; e nell’ultimo, o la volontà arbitraria del principe è la sola legge, o se vi son leggi, la facoltà di farle eseguire è tra le mani del despota istesso che le ha dettate. Egli può farle valere quando vuole e farle tacere quando gli piace. Non è così in una monarchia. Se la legge punisce il calunniatore; se essa vuole che, assoluto l'accusato, il giudice esamini la condotta dell'accusatore; se la sua terribile sanzione condanna al taglione ed all’infamia l’accusatore di mala fede, la libertà di accusare non potrà in qualunque caso divenir perniciosa. Essa diverrà un’arma inutile tra le mani di colui che vorrebbe abusarne. Il vii ambizioso potrebbe con minor rischio e con maggior sicurezza impiegare la sua spada per trucidare la persona divenuta sospetta al principe, che servirsi della libertà di accusare per turbare la sua tranquillità, per offender la sua innocenza con un’accusa calunniosa. Il primo de'    due attentati potrebbe rimanere impunito, perché occulto, ma il secondo potrebbe forse avere l’istessa sorte? Il suo delitto commesso sotto gli occhi della legge, ed alla presenza de'    giudici; il suo delitto attestato da tutte quelle solennità che dovrebbero accompagnare un’accusa giuridica; il suo delitto facile a provarsi, quando la pubblicità de'    giudizi distruggesse il mistero della inquisizione; potrebbe forse sfuggire il rigor della legge? I giudici potrebbero forse senza scandalo lasciarlo impunito? Ed il principe potrebbe forse a fronte delle leggi che ne inculcano la punizione e dell'accusato innocente che ne cerca vendetta, potrebbe, io dico, assolverlo senza distruggere l’autorità di quelle leggi, delle quali egli è l’autore ed il custode, senza alterare la costituzione dello Stato, senza acquistarsi la pubblica diffidenza, senza esporre a maggiori rischi il suo trono medesimo?

Che l’istoria di Roma sia la prova di questa verità. Quando Silla, Augusto, Tiberio, Caligola e gli altri tiranni dell'impero cercarono de'    delatori tra' Romani, bisognò sospendere il rigore di quelle leggi che punivano l’accusatore di mala fede; bisognò separare la libertà di accusare dalla difficoltà di calunniare, bisognò lasciar libera l’accusa ed impunita la calunnia. (1)L’autorità onnipotente del capo dell’impero che arbitrariamente disponeva del senato, de'    magistrati, del popolo e delle leggi, premiar poteva il delitto, poteva punire la virtù, poteva render legittimo ciò ch'era più opposto alle leggi, poteva in una parola render la sua momentanea volontà la sola norma de'    giudizi e l'unico codice della nazione. (2)Ma potrebbe questo avvenire in una monarchia regolare? Vi è stato mai forse dispotismo più esteso nella terra di quello che vi fu sotto i primi Cesari in Roma? Se la libertà di accusare dovesse produrre sotto il governo di un solo quelle conseguenze funeste che Montesquieu le attribuisce, perché non le produsse ne' tempi posteriori sotto questa forma di governo, ed in Roma istessa? Quando Tito per la prima volta e Nerva per la seconda risvegliarono l’osservanza delle antiche leggi contro a' calunniatori; quando per più di novantanni la pubblica amministrazione regolata venne da' talenti e dalle virtù di Traiano, di Adriano e de'    due Antonini; quando la ferocia del dispotismo si cambiò tra le mani di questi principi virtuosi nella moderazione di una monarchia temperata; quando sotto il loro felice impero nuovi rimedi si cercarono per garantire la privata sicurezza dalle invidie, dalla calunnia, la libertà di accusare, combinata un’altra volta colle difficoltà di calunniare, non lasciò forse di esser perniciosa? Non divenne forse così utile, come lo era stata durante la libertà della Repubblica? (1)

Non è dunque il governo di un solo in generale, ma il solo dispotismo è quello che può render perniciosa la libertà dell’accusa, come può render pernicioso ogni altro dritto, ogni altra prerogativa che dalla cittadinanza dipenda. Tra le mani della schiavitù tutto degenera, tutto si altera e si corrompe. II migliore schiavo del mondo è quello, al quale si lasciano minori prerogative; disposto ad abusare di tutto, egli è meno pernicioso a misura che ha meno materiali per esserlo. Tra due dispotismi, il peggiore è quello nel quale la schiavitù è coverta dalla toga della cittadinanza; e questo era il dispotismo di Roma, allorché fiorivano i delatori.

Ma seguiamo per poco le tracce di Montesquieu; confondiamo le idee più opposte tra loro; senza distinguere monarchia da dispotismo, supponiamo che la libertà di accusare sia in qualunque governo di un solo un istrumento pernicioso, atto a favorire le oppressive mire del principe; ed in questa supposizione vediamo se regga la sua apologia del metodo quasi generalmente adottato nell'Europa, di sopprimere questa libertà e di sostituirvi un vendicatore pubblico che faccia le veci degli accusatori.

Chi è, io domando, questo vendicatore pubblico'? Questi è un magistrato creato dal principe, pagato dal principe; che deve al principe ciò che ha, e che può esserne dal principe privato. Dignità, onori, fortune, tutto riconosce da' favori del sovrano, e tutto gli può esser tolto da quella mano che glielo ha dato. Or se l'interesse è il gran motore degli uomini, io vorrei sapere dall’autore dello Spirito delle Leggi, se un cittadino che non ha tutti questi rapporti col capo della nazione, potrebbe abusando della libertà di accusare, avere una disposizione maggiore a favorire le di lui mire, di quella che può avervi questo vendicatore pubblico che per proprio interesse dovrebbe piuttosto considerarsi come il vendicatore del principe?I fatti che potrebbero confermare questa riflessione sono infiniti. Io lascio a ciaschedun lettore applicarvi quelli che son pervenuti a sua notizia.

Mi si presenta un’altra riflessione. I Romani distinguevano due specie di calunnia: la calunnia propriamente detta, e la calunnia manifesta. Nell'una e nell'altra vi era bisogno del dolo, cioè della mala fede; ma nell’ultima questa doveva esser più dichiarata, più manifesta. La differenza dipendeva da' gradi dell'evidenza. Se, per esempio, non vi erano che tenuissimi sospetti contro l’accusato, ma vi erano fortissimi argomenti che provavano la sua innocenza; e se, malgrado la cognizione che l’accusatore aveva di questi argomenti, egli intentava la sua accusa, questa si chiamava semplicemente calunniosa; se poi anche que’ tenuissimi sospetti non esistevano, allora la calunnia si chiamava manifesta. Vi erano, secondo i principii della romana giurisprudenza, alcune persone privilegiate le quali non potevano esser punite che per una calunnia manifesta. Tra queste era compreso l'avvocato del fisco e 'l magistrato che accusava ex officio. (1)Le nostre leggi,le quali, come si è veduto, si sono tanto allontanate da' principii della romana giurisprudenza riguardo all'accusa giudiziaria, hanno poi religiosamente adottato quello ch'è meno favorevole alla civile libertà. Non basta la semplice calunnia, ma vi è bisogno di una calunnia manifesta, per ottenere che la mala fede del vendicatore pubblico di Montesquieu sia condannata e punita. Or chi sa quanto poco ci voglia a trovare anche nell'innocenza più evidente qualche leggierissimo indizio di un delitto, conoscerà quanto facile riuscir possa a questo magistrato di calunniare colla massima sicurezza un infelice.

Se si rifletta in oltre alla dignità della sua carica, al potere ed all'influenza che ha, si troverà che questo magistrato ha molti mezzi di più e molti ostacoli di meno per abusare del suo ministero che non avrebbe un privato cittadino, se la libertà dell'accusa fosse in vigore.

Finalmente per persuaderci della stranezza della moderna legislazione riguardo a questo oggetto, basta osservare che nel tempo istesso che si è abolita la libertà di accusare, si è permessa la libertà di denunziare. Io non posso accusare un uomo che ha offesa una persona che non mi appartiene; ma posso però denunziarlo. La differenza tra l’accusa e la denunzia, è che la prima è palese, e la seconda è occulta. L’accusa è un duello che si fa a petto scoverto e con armi uguali, e la denunzia è un colpo tirato a man salva da una mano nascosta, dietro una parete che lascia all’infelice che l’ha ricevuto, la curiosità di sapere chi glie lo ha scagliato. (1)In quella l’accusatore dee sostenere la sua accusa, dee comparire ingiudizio, dee somministrare le prove contro l’accusalo; ed in questa il denunziatore, fatta la denunzia, si ritira e non ha più parte alcuna in giudizio. Il suo nome non si manifesta negli atti, la sua accusa istessa non è sottoscritta dalla sua mano; egli può anche fare da testimonio del delitto. Questa è la maniera più comoda di turbar la pace di un uomo; ma questa è anche la maniera di distruggere la confidenza che ci deve essere tra cittadino e cittadino. Chiunque può sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Infelici gli uomini, allorché son condannati a simile diffidenza!

Io non parlo delle pene de'    calunniatori. Le nostre leggi, che si risentono di tutta la ferocia de'    tempi ne' quali sono state dettate, allorché si tratta di punire gli altri delitti, mostrano un’indulgenza perniciosa e non opportuna riguardo a' calunniatori. All’indulgenza della legge si unisce l’impressione che ha fatto una massima dispotica, ch'è stata adottata come un assioma di politica e come un canone di giurisprudenza ne' nostri tribunali, dove gli usi e la maniera di pensare de'    giudici hanno maggior forza delle leggi. Se si puniscono i calunniatori, dicono alcuni automati animati dallo spirito di Silla e di Tiberio, non si troveranno i denunciatori. Qual differenza tra la maniera di pensare de'    nostri giureconsulti e quella de'    legislatori di Roma! Questi vollero che la condizione del delatore fosse peggiore di quella dell'accusatore. La legge puniva in molti casi il delatore, ancorché non fosse incolpato di calunnia. Bastava che colui ch’egli aveva chiamato in giudizio, fosse assoluto, per rendere punibile la denunzia. (1)Qual denunziatore ancorché calunnioso è stato mai punito tra noi?

Queste riflessioni piuttosto accennate che sviluppate, basteranno, io spero, per mostrarci la necessità che vi sarebbe di riparare questo primo passo della criminale procedura. Io esporrò nel seguente capo ciò che ho pensato su quest'oggetto.


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CAPO IV

Nuovo sistema da tenersi riguardo all’accusa giudiziaria

Se la libertà dell’accusa, come mi pare di aver dimostrato, non solo non è perniciosa in qualunque specie di governo, quando è ben combinata colla difficoltà di abusarne, ma è utile e necessaria, come quella che stabilisce una reciproca ispezione tra' cittadini, rende più difficile l’occultazione de'    reati, più rara l’impunità e meno frequenti i delitti; se questa libertà, per servirmi dell’espressione di un celebre politico, (2)dà via, onde sfogare a quelli umori che crescono nelle città, in qualunque modo e contra qualunque cittadino; se non vi è cosa che faccia tanto stabile uno Stato, quanto ordinarlo in modo che l’alterazione di questi umori che l’agitano, abbiano una via da sfogarsi ordinata dalle leggi; se in una parola, la libertà di accusare è una prerogativa che non si può separare dalla cittadinanza, senza incorrere ne' più gravi disordini; il primo oggetto della riforma della criminale procedura dovrebbe dunque essere di restituire questo dritto al cittadino, ed il secondo di combinarlo colla difficoltà di abusarne. Per conseguire il primo, non vi sarebbe bisogno di altro che di una concessione; ma per ottenere il secondo, vi vogliono vari mezzi. Tra quelli che le antiche legislazioni ci offrono, bisognerebbe adottarne alcuni, altri correggerli, ed altri accomodarli allo stato presente delle cose.

Le disposizioni delle romane leggi contro il prevaricatore dovrebbero essere adottate senza cangiamento alcuno, e quelle contro il calunniatore lo dovrebbero essere ugualmente, fuorché nell'inuslione che si faceva sulla loro fronte. Il taglione e l'infamia dovrebbero esser la pena dell'uno e dell’altro; ma la fronte del calunniatore rimaner dovrebbe nella sua integrità. Essa non dovrebbe soggiacere all'indelebile ignominia dell'inustione che in quei soli casi, ne' quali questa pena prescritta venisse al delitto del quale egli avrebbe accusato un innocente.

Il lettore conoscerà il motivo di questa correzione, allorché perverrà alla seconda parte di questo libro che contiene il sistema penale. Io mi riserbo anche di esporre le mie idee sul tempo, il modo e l’ordine col quale proceder si dovrebbe al giudizio tanto di prevaricazione, quanto di calunnia, nell'ultima parte della criminale procedura; quando parlerò delle appendici della sentenza che assolve. La novità del mio piano non mi permetterebbe di adottare senza alcuna modificazione l'antico metodo riguardo a quest'oggetto. Non debbo però dir l’istesso riguardo alle persone che possono accusare o che possono essere accusate.

In Roma, come si è osservato, non tutti potevano accusare, non tutti potevano essere accusati. Vi erano alcuni che non potevano accusare che le proprie offese, o le insidie contro lo Stato intero; (1)vi erano altri che non potevano essere da persona alcuna accusati, (2)ed altri che non potevano esserlo da certe determinate persone. (3)Cosi riguardo agli uni, come riguardo agli altri, non credo che si dovrebbe cosa alcuna aggiugnere o togliere da ciò che da' suoi savi legislatori fu con tanta saviezza determinato.

Io non rapporto qui queste eccezioni, per non replicare inutilmente ciò che si è detto. (4)Queste sono un aggregato di rimedi contro le calunnie che, ristabilendosi la libertà dell'accusa, si dovrebbero in qualunque paese adottare. Tra le persone eccettuate dalla libertà di accusare, vi era, è vero, una

classe di uomini che fortunatamente oggi più non esiste; questi erano i servi. Noi abbiamo però una classe simile di esseri che porta l’istesso nome, quantunque non abbia le stesse sciagure; che ha ordinariamente tutt'i vizi della servitù, sebbene conservi le prerogative della cittadinanza; che vende per un arbitrario tempo la sua libertà personale quantunque conservi la civile, e che per conseguenza meritar non dee la confidenza della legge, quantunque abbia come tutte le altre un dritto a pretenderne la protezione. Questa è la classe dei nostri mercenarii servitori, i quali, non altrimenti che i servi de'    Romani, de'    Greci e de'    Barbari, dovrebbero esser esclusi dal diritto di accusare, fuorché le proprie offese (1)o i delitti che si commettono contro il corpo intero della società.

Alle eccezioni che riguardavano le persone, le romane leggi aggiunsero, come si sa, quelle che riguardavano i delitti. Vi erano alcuni delitti che non potevano essere accusali che da coloro, contro i quali si erano commessi. Tali erano tutti i delitti che si chiamavano privati. (2)Non si dovrebbe trascurare questa distinzione; e nella seconda parte di questo libro, quando si tratterà della distinzione de'    delitti, noi faremo vedere quali dovrebbero essere i pubblici, cioè quelli ne' quali ogni cittadino potrebbe divenire accusatore, e quali i privati, ne' quali la sola parte offesa dovrebbe avere questo dritto.

L'altro rimedio che dovrebbe adottarsi è la promessa che far dovrebbe l’accusatore di non ritirarsi dall'accusa prima che il giudizio non sia terminato. Noi abbiamo osservati i motivi e i vantaggi di questa promessa che le leggi di Atene, di Roma e di alcune barbare nazioni esigono dall’accusa tore. (3)

A ciò dovrebbe aggiungersi la precisione, la chiarezza e l’uso di alcune formole, colle quali si dovrebbero intentare le accuse. Non vi è esattezza che basti, allorché si tratta di turbar la pace di un uomo. A misura che l’accusa è più pre

cisa, l’innocenza è più al coverto, la calunnia è più difficile, l’arbitrio del giudice è più ristretto, il calunniatore è più facilmente convinto e punito. Da una formola d’iscrizione che il celebre giureconsulto Paulo ci ha conservata, noi possiamo vedere fin dove giugneva la diligenza de'    legislatori di Roma su quest’oggetto. (4)Da quel che appare da questa formola, si vede che l’accusatore doveva notare l’anno e il giorno, nel quale intentava la sua accusa, il suo nome ed il nome dell'accusato, il luogo, il mese e il nome de'    consoli di quell’anno, nel quale si era commesso il delitto, la natura del delitto e la legge che lo riguardava. Tutte queste solennità si richiedevano per fare che il libello dell'accusa fosse valido. In Inghilterra si esige anche qualche cosa di più.

L'accusa dee contenere il nome, il soprannome, lo stato e la condizione dell'accusato, la città, il villaggio e la contea dove abita, il giorno ed il luogo dove si è commesso il delitto; se questo è di omicidio, bisogna anche dire la larghezza e la profondità della ferita, l'istrumento che si è adoperato, e 'l tempo ch'è scorso dal colpo ricevuto alla morte: in alcuni delitti bisogna anche servirsi di alcuni termini che sono in tal maniera determinati dalla legge a renderne l’idea precisa che niun’altra parola, per quanto sinonima possa apparire, potrebbe essere a quella supplita. (1)Ad alcuni spiriti superficiali queste precisioni potranno comparire troppo minute e superflue; ma gli uomini intelligenti, per i quali io scrivo, ne valuteranno l’importanza. (2)

La prescrizione delle accuse è anche un rimedio che si dovrebbe adottare. Quella de'    Romani era troppo lunga. Noi abbiam osservato che in molti delitti era di venti anni. (3) In Inghilterra è di tre. (1)È molto più difficile il difendersi da una calunnia dopo venti anni che dopo tre. Ecco perché si dovrebbe piuttosto imitare il metodo degl'Inglesi.

Ma che diremo noi della parte offesa che accusa? In Roma, allorché questa accusava, non poteva in molti casi esser punita che per una calunnia manifesta: la semplice calunnia non bastava per farle meritare il rigore della legge. (2)

L’istessa indulgenza si aveva, come si è detto, per l’avvocato del fisco, l’istessa per tutti coloro che accusavano ex officio. (3)Parzialità perniciosa, parzialità funesta, parzialità contraria alla civile sicurezza. finché vi è persona in uno Stato che possa impunemente calunniarmi, la mia libertà non è al coverto; la protezione delle leggi non è bastantemente forte per garantirla; la spada della giustizia, alla quale ho affidata la mia custodia, non è bastantemente spaventevole per intimorire qualunque persona che cerchi ed ardisca di turbarla. Indizi cavillosi, efimeri sospetti, metafisiche congetture non debbono bastare per somministrare ad un impostore di mala fede i materiali, onde calunniare impunemente la mia innocenza. (4)Ma bisogna scusare, dicono i giureconsulti, il trasporto del dolore. E perché non si assolvono, io domando, i trasporti della vendetta? Perché si punisce un padre che uccide l’uccisore di suo figlio; e si assolve poi un padre che accusa come uccisore di suo figlio un infelice, eh egli ha ragioni fortissime da crederlo innocente? Perché si punisce il marito dell’adultera che uccide il drudo di sua moglie, quando non ha sorpreso nel mentre che consumava il delitto; e si assolve poi quando calunnia la sua moglie, ch'egli non ha ragione alcuna da crederla infedele? Perché si punisce il magistrato che, abusando del suo ministero, non rispetta le leggi; e si assolve poi il magistrato che calunnia? Non sono queste tante contraddizioni mostruose che ci mostrano la necessità che vi sarebbe di abolire eccezioni cosi contrarie alla inalterabile uniformità della giustizia, ed alla necessaria imparzialità delle leggi?

La calunnia è sempre un delitto, e se è un delitto, deve esser sempre punita. L’unico sfogo che potrebbe concedersi alla parte offesa, sarebbe permetterle di ricorrere al giudice, di querelarsi dell'offesa che l’è stata fatta e di obbligarlo a cercarne l’autore, quando questi l'è ignoto. Questa non sarebbe più allora un’accusa, ma sarebbe una semplice lagnanza che non oltraggerebbe, né esporrebbe a verun rischio persona alcuna. Quando il delitto è dunque sicuro, e l'autore del delitto ignoto; quando esiste un delitto, ma manca l’accusatore; quando la parte offesa si querela, ma non accusa; allora dovrebbe esser cura del governo di scoprirne e di chiamarne in giudizio il delinquente. Questa procedura inquisitoria sarebbe allora necessaria, e noi ne abbiamo degli esempi in Roma istessa. Così nelle provincie, come nella capitale, ci fu bisogno di ricorrere a questa straordinaria maniera di perseguitare quei delitti, de'    quali non vi era un accusatore.(1)Che che ne dica Tomasio, (2)noi sappiamo qual'era nelle provincie il dovere de'    presidi, (3)e quale l'uffizio di que’ subalterni magistrati che chiamavansi Irenarchi, Curiosi, Stazionari. (4) Noi sappiamo quale era in Roma istessa l'ispezione del prefetto della città,(5)e non ignoriamo le varie leggi che ci offrono vestigi non equivoci di queste inquisitorie procedure. (6)Ciò che avvenne nella occasione della sedizione di Catilina ci è noto; ci sono note le misure prese da Cicerone per convincere e punire i complici di un delitto, del quale non vi era alcun privato accusatore; (1)noi sappiamo che questa procedura inquisitoria fu bastevole a far condannare alla morte molti cittadini che si trovarono mescolati in questo delitto; (2)noi sappiamo finalmente che Cesare, che si trovava in quel tempo pretore e ch'era nel tempo stesso l'amico di Catilina, volendo salvare la vita a' suoi convinti complici, perorò nel senato

contro il decreto che li condannava alla morte; ricordò a' senatori che per legittimare un atto simile contro la vita di un cittadino romano, vi era bisogno dell'autorità del popolo; che il senato non aveva questo spaventevole diritto; ch'era cosa pericolosa di metterlo nel possesso di una prerogativa, della quale avrebbe potuto facilmente abusare; e che la spada, impugnata una volta con un decreto del senato contro un cittadino romano, prima di esser rimessa nel suo fodero, avrebbe cagionata più di una strage nella patria: (3) egli espose, io dico, tutte queste ragioni contro al decreto di morte, ma non ardi mai di condannare come illegittima la procedura inquisitoria, che per mancanza di accusatore, si tenne in quell'occasione dal console.

Quando un delitto era dunque commesso e mancava un accusatore privato che ne chiamasse in giudizio l'autore, si ricorreva all'inquisizione in Roma.(4)Questo è appunto il sistema che converrebbe oggi di adottare. La procedura ordinaria dovrebbe essere l'accusatoria e la straordinaria l’inquisitoria. Ma questa inquisizione dovrebbe ella essere quel che oggi è? Gli atti che la dovrebbero comporre, dovrebbero forse esser quelli che oggi sono? Le mani, alle quali dovrebbe essere affidata, dovrebbero forse esser l’istesse? La ragione e la giustizia e l’umanità dovrebbero avere tanta poca parte in questa procedura, quanta oggi ne hanno? Non si potrebbe trovar la maniera di approssimare 1 inquisizione alla semplicità dell'accusa? Tanto nell'una, quanto nell'altra procedura la pubblicità non potrebbe forse esser sostituita al mistero; il rispetto che si deve al cittadino, agli oltraggi che oggi si recano alla sua dignità; la sicurezza dell’innocenza, agli spaventi, a' quali oggi è esposta? All'immenso numero de'    subalterni ministri della giustizia che riempiono i Tribunali dell’Europa, infestano la società e turbano la pubblica pace, non si potrebbe forse sostituire una magistratura rispettabile che fosse nel tempo istesso l’istrumento della giustizia pubblica e della sicurezza privata? Ecco ciò che io mi determino ad esaminare prima di dar termine alla teoria dell'accusa.


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CAPO V

Riforma da farsi nel sistema della procedura inquisitoria

Stabilita la libertà dell’accusa, restituita al cittadino questa prerogativa preziosa, adottato il sistema de'    popoli più liberi dell’antichità riguardo a quest'oggetto, non vi vuol molto a vedere che pochi e straordinari sarebbero i casi, ne' quali a un delitto commesso mancasse un accusatore. Ma basta che simili accidenti sieno tra' l numero de'    possibili, per richiamare la vigilanza delle leggi. Se vi possono essere de'    casi, ne' quali per mancanza di un accusatore si debba ricorrere all’inquisizione, la sicurezza del cittadino esige che questa sia spogliata di tutti que’ vizi, de'    quali la ferocia della superstizione l’aveva vestita, e de'    quali per la negligenza de'    governi non è stata ancora intieramente sgombrata: Per ragionare con quell’ordine che conviene, vediamo prima quali sono i principali inconvenienti di questa procedura nello stato nel quale oggi è, e vediamo quindi come potrebbero esser riparati.

Dopo una lunga meditazione su di un oggetto cosi interessante come questo, ho veduto che alcuni di questi vizi dipendono dalla natura istessa della presente inquisizione ed altri dalle mani alle quali è affidata. Ho veduto che un sistema di procedura, nel quale il giudice dee far le parli di accusatore è da per se stesso vizioso. Ho veduto, che il fondamento dell’inquisizione essendo o la denuncia secreta, o la pubblica voce e fama, per servirmi dell'espressione del Foro, è un fondamento equivoco, pericoloso, iniquo. Ho veduto che la libertà, la quiete, l’onore del cittadino vengono con questo ad essere esposte o alla perfidia di un sicofanta indegno, o agli effetti del discredito, che la maldicenza d’un inimico, o l’inconsiderata loquacità di un novellista può spargere sulla sua riputazione. (1)Ho veduto, che pel corso ordinario dello spirito dell'uomo, l’errore particolare fa l’errore generale siccome l’errore generale produce l’errore particolare. Ho veduto che questo passaggio si fa colla maggiore rapidità: che questo è come un urlo gittato nell’antro di una profonda caverna da un uomo che passa, e immediatamente da essa renduto al di fuori con un eco orribile. Ho veduto che questa caverna è il pubblico; quest’eco ne è la voce e fama, e l’uomo, che passando per l’antro ha gettato lo spaventevole urlo, è l’errore o la calunnia. Ho veduto che questa pubblica voce e fama, rare volte costante ne' suoi giudizi, lo è solamente nella debolezza de'    fondamenti, su' quali li appoggia. Ho veduto che questa avvelenò Socrate, fè morire Anassagora, ha condotto al patibolo o all'obbrobrio tanti savii, e tanti eroi. Ho veduto inoltre che le mani alle quali è affidata la più gran parte della presente procedura, sono le più venali, le più vili, le più discreditate; che persone prive interamente della pubblica confidenza e della pubblica opinione sono quelle nelle cui mani la legge ripone ciecamente la sorte de'    cittadini; che 'l ministero il più delicato, il più geloso e il più importante è affidalo a' ministri i più vili della giustizia; e che dall’arbitrio di uomini cosi indegni d’influire sulla pubblica e privata tranquillità dipende in gran parte l’esito dell’«ngimmong. Scosso da riflessioni così umilianti per coloro che governano, e cosi spaventevoli per coloro che sono governati, sono andato in cerca di un rimedio, che avesse potuto nel tempo stesso annientare questa doppia catena di disordini, che intieramente distruggono la civile sicurezza. Se il sacro fuoco del pubblico bene, che riscalda e tormenta la mia immaginazione, non mi fa travedere, mi sembra di averlo trovato nel sistema istesso de'    Romani, con alcune necessarie modificazioni.

Presso questo popolo, come si è veduto, si ricorreva all’inquisizione allorché l’ordinaria procedura non poteva aver luogo; ma l’inquisizione de'    Romani era tutta diversa dalla nostra. In quella il giudice non faceva le veci dell'accusatore; in quella se non vi era accusatore privato, vi era un accusatore pubblico; se non ci era il libello dell’accusa, vi era l'elogio del magistrato, al quale era affidata la funzione d’inquirere ma non di giudicare, di accusare ma non di punire. Questo magistrato era una persona che non aveva né la diffidenza del popolo, né la cieca confidenza della legge. La sua condizione era rispettabile, la sua carica era bastantemente illustre, il suo ministero era venerato, e malgrado tutto questo, la legge non considerava i suoi elogi, o siano le sue accuse, più di quello che considerava il libello del privato accusatore. I Curiosi, gli Stazionari, gl'Irenarchi, erano questi magistrati. La loro cura era di scovrire gli autori di que’ delitti, de'    quali non vi era un privato accusatore; di rimettere a' Tribunali competenti le informazioni che avevan prese, i rei che avevan trovati, e i motivi su' quali essi avevano fondate le loro congetture. Essi dovevano quindi presentarsi come ogni altro privato accusatore per sostenere ciò che avevano scritto ed asserito. (1)

Istruito dal metodo de'    Romani, io propongo dunque il piano di riforma che ho pensato. Questo si riduce a dare alla procedura inquisitoria tutta la semplicità dell’accusatoria. Una nuova magistratura anderebbe per questo oggetto istituita; essa dovrebbe esser composta de'    magistrati accusatori. La scelta delle persone più distinte e più probe della società dovrebbe renderla onorevole; uno stipendio non piccolo dovrebbe renderla desiderabile; la condizione, le facoltà e i requisiti che si dovrebbero ricercare in coloro che volessero aspirarvi, dovrebbero garantirla da ogni sospetto di venalità e di prevaricazione. Questi magistrati accusatori dovrebbero essere sparsi per tutto lo Stato; ciascheduno di loro ne dovrebbe avere una porzione assegnata alla sua vigilanza.

Stabilita su questo piede questa nuova magistratura, il ministero di coloro, che ne sarebbero investiti, dovrebbe essere d’inquirere sugli autori di quei delitti, de'    quali non vi è alcun privato accusatore, di scovrirli, accusarli e condurli in giudizio; d’istituire contro di loro l’accusa con quelle stesse formole e solennità, colle quali dovrebbe istituirsi se l’accusatore fosse un privato cittadino; di sostenerla della maniera istessa finché ne fosse terminato il giudizio, di esibirsi all'istesse promesse e di esporsi agli stessi pericoli. In questi magistrati, a differenza di Roma, non solo la calunnia manifesta, ma anche la semplice calunnia dovrebbe esser punita come in ogni altro accusatore. Questo sarebbe un suggello di più, che si aggiugnerebbe alla confidenza che ’I popolo dovrebbe avere nel loro spaventevole ministero, ed un ostacolo necessario all’abuso della loro autorità.

Ma come combinare, mi si domanderà, questa nuova magistratura colla feudale giurisdizione? Io lo confesso: questo sarebbe impossibile; ma bisogna anche confessare che ogni riforma sul criminale sistema sarà sempre ineseguibile finché lo scheletro di questo antico mostro, che ha devastata per tanto tempo l’Europa, non sarà interamente incenerito. La fiaccola della ragione vi ha già appiccato il fuoco; i sospiri de'    popoli, e gli scritti vigorosi de'    filosofi ne hanno alimentate le fiamme. Si appartiene a' governi di dare a questo fuoco sacro quell’ultima attività che si richiede per conseguire la totale combustione. Faccia Iddio che la mia penna possa un giorno gloriarsi di aver accelerato all’umanità questo beneficio. La perdita di molti amici, l’acquisto di molti potenti inimici, i clamori del fanatismo e le calunnie dell’ignoranza, sarebbero compensate dal trionfo della giustizia, della ragione e della preziosa libertà dell’uomo, al quale la mia mano potrebbe allora gloriarsi di avere coraggiosamente contribuito.

Per non alterar l’ordine delle mie idee, io mi riserbo di esporre i miei sentimenti riguardo a quest'oggetto, allorché parlerò della quarta parte della criminale procedura. Ritorniamo ora donde siamo partiti.

Da quel che si è detto mi pare che si può facilmente vedere, che adottandosi il metodo da noi proposto, gl’inconvenienti dell'inquisizione verrebbero a sparire. Il giudice non farebbe più le veci dell’accusatore; il giudice o i suoi venali subalterni non sarebbero più gl’inquisitori; la dinunzia secreta non avrebbe più luogo; la pubblica voce e fama, cosi equivoca, cosi soggetta all’errore, o alla cabala dell’impostura avveduta, non sarebbe più un pretesto, o un motivo legittimo per privare un uomo della sua libertà; tanto nella procedura accusatoria, quanto nell’inquisitoria noi avressimo allora un accusatore legittimo, ed un’accusa solenne; l'una non differirebbe dall'altra che nella diversa condizione politica di coloro che dovrebbero istituirla. Tanto nell'una quanto nell’altra procedura l’accusatore dovrebbe produrre le pruove che vi sono contro l’accusato; l’accusatore dovrebbe essere il vero inquisitore; il giudice non dovrebbe far altro ch’esaminare il valore e giudicare; tutti gli atti posteriori all’accusa sarebbero perfettamente simili; il còrso della giustizia potrebbe essere regolare ed uniforme; i suoi passi si succederebbero coll’istesso ordine. Il primo tra questi dovrebbe essere l’intimazione al reo unita alla sicurezza della sua persona.

PARTE SECONDA - DELLA PROCEDURA CRIMINALE


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CAPO VI

L’intimazione all'accusato    e la sicurezza della sua persona

Istituita legittimamente l’accusa o dal magistrato accusatore o dal privato cittadino, l’intimazione all’accusato dovrebbe essere la conseguenza immediata di questo primo atto della criminale procedura. In Roma questi due atti andavano ordinariamente uniti. L’accusatore conduceva innanzi al Pretore l’accusato, ed alla sua presenza istituiva l’accusa. (1) Ma se l’accusato rifiutava di venire, se si poteva sospettare della sua fuga, s’egli era assente, la legge che non esigeva dall’accusatore uno sforzo superiore alle sue forze

veniva allora in suo soccorso, e prescriveva il metodo da tenersi in questi diversi casi.

Se il reo era assente, si citava. per ben tre volte, e l’una citazione era separata dall’altra dallo spazio di nove giorni. (1)Se scorsi i trenta giorni dopo la prima citazione egli non si presentava al magistrato, i suoi beni venivan sequestrati, e la sua contumacia non poteva purgarsi ché nel decorso di quell’anno, scorso il quale il pubblico tesoro s’impadroniva de'    suoi beni, che, in pena della sua disubbidienza, il contumace non poteva più riacquistare, ancorché nel decorso del tempo si fosse provata la sua innocenza. (2)In questi confini si restringeva la necessaria severità della legge contro i contumaci. Essa non ardiva però di condannarli prima di sentirli. (3)

Quest’uso barbaro, di cui parleremo da qui a poco, è molto posteriore alla greca ed alla romana polizia. Egli deve la sua origine alle particolari circostanze d’alcuni tempi, (4)e 'l suo presente vigore nell'Europa alla negligenza abominevole di coloro che la governano.

Ma non sempre la citazione era il mezzo del quale la legge si serviva per far presentare in giudizio l’accusato, e

per intimargli l’accusa. Se l’accusato veniva legittimamente chiamato in giudizio, e rifiutava comparire, o se il delitto del quale veniva accusato, era tale che la perdita de'    suoi beni e la privazione della sua patria non potevano distoglierlo dalla fuga, allora la legge permetteva al magistrato d'ordinare la presa del suo corpo, affinché il delitto non rimanesse impunito. (5)Essa non veniva a questo passo violento, ma necessario, che in pochi casi. Quando il delitto era molto grave, o quando il disprezzo della legittima autorità era manifesto. Questa era una guerra che l’interesse pubblico faceva alla libertà privata; ma in questa guerra i principj della giustizia eran rispettati, e il cittadino che si trovava in questo conflitto, si avvedeva sempre che la mano che lo perseguitava, era quella d’un padre e non di un tiranno.

Egli si confermava in questa giusta e piacevole opinione, allorché veniva presentato al magistrato competente. Egli trovava il suo accusatore, sentiva la sua accusa e rispondeva al magistrato sull’interrogazione che gli faceva circa la verità di quanto veniva asserito contro di lui. La semplicità, la chiarezza, il rispetto che si deve al cittadino, accompagnavano questa intimazione giuridica. (1)Se negava, se dichiarava falsa l’accusa che si era fatta contro di lui, un ugual numero di giorni veniva assegnato ed all’accusatore per sostenere la verità della sua accusa ed all’accusato per difendersi. (2)Se in alcuni casi la sua persona era custodita, se egli era condotto in un carcere, questa custodia non era indegna d'un innocente, e non supponeva una cieca diffidenza contro di lui. Egli vedeva che l’accusatore soggiaceva all’istessa sorte, e che la legge era imparziale. (3) Ordinariamente egli veniva lasciato sulla parola d’un fìdejussore, o abbandonato alla custodia di qualche personaggio distinto. (4)

Una legge, la più favorevole alla libertà personale dell’uomo che i Romani adottarono forse dagli Ateniesi (5)e che gl’inglesi han quindi adottata da' Romani, proibiva al magistrato di ritenere in carcere l’accusato, allorché trovava un cittadino che rispondeva della sua persóna. Essa non eccettuava da questo beneficio che i rei dei più gravi delitti. (1)

Ma quest’istessi eran trattati da cittadini, finché non erano convinti. «La nostra giustizia (dice un Imperadore in una legge) che non potrebbe mai essere bastantemente rigorosa verso i rei, e la nostra clemenza che non sarebbe mai bastantemente indulgente verso gl’innocenti, non permette che un infelice accusato sia strettamente legato e circondato da penose catene. Essa non vuole che la profondità delle carceri lo privi della luce. Essa ordina è richiede che queste non sieno né sotterranee, né oscure; che gl’infelici che vi son ritenuti, nell’approssimarsi della notte sian condotti ne' vestibuli di queste carceri, dove la respirazione è più libera e più sana; essa vuole finalmente, che all’approssimarsi del giorno, essi veggano il cielo e respirino l’aere aperto e riscaldato da' primi raggi del sole.» (2)

Legislatori dell’Europa, son queste le leggi d’un popolo che malgrado la perdita della sua libertà, esigeva ancora il rispetto de‘suoi padroni. Per’ qual funesto destino i vostri popoli son dunque condannati ad esser privi dell’una e dell’altro? Se la nostra bassezza, se la nostra viltà ci priva de'    vostri rispettosi riguardi, che le nostre sciagure richiamino almeno la vostra pietà. In mezzo all’opulenza ed alla grandezza; fra il lustro del trono e i piaceri della reggia; tra la simulata allegria de'    cortigiani e le armoniche cantilene de'    musici, i sospiri degl'infelici che gemono sotto il flagello delle vostre barbare leggi non saranno mai intesi da voi. L’uomo sensibile ha anche bisogno d’aver provati i mali o di averli conosciuti per sentirli. Il cuore de'    re ha ordinariamente la disgrazia d’esser privo dell’uno e dell’altro soccorso. Riparate dunque a questa disgrazia della vostra istessa grandezza. Togliete un momento a' vostri piaceri per condurvi nelle carceri, ove più migliaja de'    vostri sudditi languiscono pe’ vizj delle vostre leggi, e per l’oscitanza de'    vostri ministri. Gittate gli occhi sopra questi tristi monumenti delle miserie degli uomini e della crudeltà di coloro che li governano. Approssimatevi a queste mura spaventevoli, dove la libertà umana è circondata da' ferri, e dove l’innocenza si trova confusa col delitto. Spogliatevi degli ornamenti della sovranità, vestitevi le spoglie d’un privato cittadino, e quindi fatevi condurre per quel laberinto oscuro che mena in que’ sotterranei, ove il lume del giorno non penetra giammai e dov’è sepolto, non l’inimico della patria, non il proditore, o il sicario, non il violatore delle leggi, ma il cittadino innocente che un nemico occulto ha calunniato, e che ha avuto il coraggio di sostenere la sua innocenza all’aspetto d’un giudice prevenuto o corrotto. Se lo strepito delle catene, se i gemiti cupi e continui che ne partono, se gli aliti pestiferi che n’esalano, non ve lo impediscono, fate che la porta di questa tomba si apra. Avvicinatevi allo spettro che l’abita. Fate che una fiaccola permetta a' vostri occhi di vedere il pallore di morte che si manifesta sul suo volto; le piaghe che cuoprono il suo corpo; gl’insetti schifosi che lo rodono; que’ cenci che lo cuoprono per metà; quella paglia marcita che è stata forse sostituita ad un morbido letto, nel quale egli aveva abbracciata una sposa, aveva dato più figli allo Stato, aveva passate tranquille le notti sotto la protezione di quelle stesse leggi che ne lo hanno quindi privato. (1)Dopo quest’ispezione fate che il custode che vi ha condotto si allontani, e domandate quindi a quest’infelice la causa delle sue sciagure.

«Io son sicuro (vi risponderà egli) di non avere offeso alcuno, ma non sono ugualmente sicuro di non avere un inimico. Io godeva di tutta quella tranquillità che m’ispirava la coscienza della mia innocenza, e la supposta protezione delle leggi, quando mi vidi strappato dal seno della mia famiglia, e condurre nelle carceri. Il mio turbamento cominciò da questo istante, ma si accrebbe a dismisura quando fui presentato ad un giudice che non conosceva, ma che il solo suo aspetto mi fe’ provare tutte le angosce della morte. Tolto tutto ad un tratto dalle tenebre e dalla solitudine, abbagliato dalla luce del giorno, spaventato dalle idee funeste che si erano presentate alla mia immaginazione, tutto tremante, io ardii appena d’innalzare uno sguardo timido ed incerto sull’arbitro della mia sorte. Nel vederlo io l’avrei creduto il mio accusatore, se non fossi stato avvertito che quegli era il mio giudice. La fierezza del suo volto, la rabbia ed il livore che si manifestava ne' suoi occhi, l’asprezza colla quale proferiva le sue interrogazioni, le sue minacce e le sue seduzioni, mi fecero vedere nella sua persona un inimico e mi fecero anticipatamente leggere sulle sue inarcate ciglia il decreto della mia condanna. Senza dirmi il motivo pel quale mi aveva chiamato alla sua presenza, egli mi fece alcune domande vaghe sopra molti fatti, alcuni de'    quali erano da me conosciuti ed altri ignorati. Senza poter penetrare il fine dove tendevano le sue interrogazioni, né il legame che aver potessero tra loro, io risposi da principio a ciascheduna di esse colla maggior verità, non nascondendo quel che sapeva, né quel che ignorava. Lo vidi più d’una volta infierire, spesso rallegrarsi, come se mi avesse sorpreso, e qualche volta rimproverarmi di menzogna e di contradizione. Quando io rispondeva tremando, il mio timore era attribuito alla coscienza del reato: se rispondeva con coraggio, questo si confondeva collo studiato ardire e colla sfrontatezza d’uno scellerato. Queste imputazioni, queste false interpretazioni che si davano a' miei detti ed al tuono istesso della mia voce, servirono a maggiormente turbare la mia memoria e la mia ragione già confusa dalla moltiplicità e dalla disparità delle domande che mi erano state fatte. In quel momento io non mi ricordai più, né di quel che aveva detto, né di quel che aveva prima saputo. Mi avvidi soltanto che ciascheduna interrogazione che da principio mi pareva indifferente, diveniva quindi una domanda capitale. Nelle ulteriori domande io presi dunque il partito della debolezza e del timore; io cominciai a tacere ed a negare. Non ricordandomi più di quel che aveva detto, non vi voleva molto a sorprendermi in contradizione. Più imbarazzato dalla mia innocenza che non lo sarebbe stato un delinquente dalla convinzione del delitto, io vedeva che più si prolungava il mio esame, più si forticava la prevenzione del giudice contro di me, più materiali io dava alla mia rovina. In poche parole, dopo questa lunga e terribile altercazione, io fui condotto nel luogo ove voi mi ritrovate, senza sapere ciò che si era tramato contro di me, e quale sarebbe la mia sorte.

«Una sola volta ho veduto aprire questa porta, quando alla presenza dell'istesso giudice sono stato ricondotto per riconoscere i testimoni, de'    quali per altro mi si nascosero le deposizioni. Mi si domandò se li conosceva, e se aveva qualche motivo legittimo da escluderli. Quella era la prima volta che io aveva inteso profferire i loro nomi e veduti i loro volti. Qualunque relazione potessero essi avere col mio calunniatore o colla mia accusa, è per me ignota, perché il calunniatore non mi è stato palesato, e non so ancora quale sia la sua accusa. Io dovetti dunque ammetterli, perché non aveva cosa da opporre, non conoscendoli: ma chi sa che essi non sieno congiurati contro di me? Io debbo crederlo, perché se non avessero contro di me deposto, non sarebbero stati condotti innanzi al giudice, o non ci sarebbe stato bisogno di chiamarli alla solennità del confronto. La mia immaginazione mi fa dunque vedere con ragione già perfezionata la tela che si è contro di me ordita, e i tormenti che ora soffro, altro non essere che gli esordj della morte. Se la mia confessione è necessaria per portare l’ultima mano all’edificio della mia rovina, io non tarderò molto a dare questo soccorso a' miei nemici, perché non posso più reggere nello stato in cui mi ritrovo. Io l’avrei già fatto, se avessi cognizione delle circostanze del delitto sul quale cader dovrebbe, e se la religione non me ne avesse finora distolto. Il custode che mi ha qui condotto, non fa che incoraggirmi a quest'ultimo passo, e si offre a darmi tutte le istruzioni necessarie per eseguirlo. Egli mi priva di una porzione di quel pane che la legge mi assegna; mi fa passare de'    giorni interi tra gli ardori della sete e viene qualche volta ad insultarmi colle minacce della tortura, e colle speranze di un pronto ristoro alla mia fame ed alla mia sete, che mi sarà conceduto subito che avrò proferita la mendace confessione, la quale, per quel che egli mi dice, non servirà ad altro che ad abbreviare il corso del giudizio, giacché senza di quella io non lascerei di esser convinto.

«Alle minacce della tortura egli ne unisce un’altra che mi spaventa più di quella. Egli mi dice che vi è preparato un carcere cento volte più orribile di quello nel quale ora mi trovo e nel quale sarò condotto se stancherò la pazienza del giudice. Dalla dipintura ch’egli me ne ha fatto, l’altezza di questo carcere non è maggiore della metà del mio corpo e la sua lunghezza non contiene che lo spazio che si richiede per potervi rimaner seduto, senza per altro poter distendere i piedi. Per togliere alle mie braccia ed alle mie mani anche quella picciola porzione di libertà che ora mi. lasciano le catene che le circondano, egli dice che queste saranno unite ai miei piedi, e che una mano straniera verrà ad introdurre nella mia bocca quelle poche once di pane e di acqua che serviranno a conservare la mia vita per gli ulteriori tormenti.

«Io non ho motivo da credere false le sue minacce o esagerata la sua dipintura. Lo stato in cui mi ritrovo mi dispone a credere suscettibili di qualunque eccesso e le leggi che dirigono i giudici e i giudici che le fanno eseguire. Io son disposto dunque a profferire la mendace confessione che mi accelererà una morte che io invoco in ogni istante e che il solo spergiuro che dee precederla, mi ha fin ora impedito di conseguire.»

Legislatori, re, monarchi, padri de'    popoli, come voi vi chiamate ne' vostri editti, ecco ciò che sentireste, se andaste per un momento a visitare quella porzione de'    vostri figli che esaurisce la tazza del dolore sospirando presso la perduta libertà. La descrizione che ve ne ho fatta, non è né ornata dall’eloquenza, né riscaldata dall’entusiasmo. Io ho nascosto anzi qualche cosa di più che vi è in qualche paese dell’Europa, per timore che non venga introdotta in quelli ove non è conosciuta. Se questi scritti perverranno sotto i vostri occhi, se supereranno gli ostacoli che allontanano tutto ciò ch'è vero dalle vostre reggie e da' vostri troni; se non vi sarà il cortigiano che li derida o l’ignorante che li calunnii, potrete voi non arrossire nel vedere che tutti i fenomeni della tirannia si manifestino ancora nelle vostre monarchie, le quali, se sono moderate per le vostre virtù, sono più che dispotiche per le leggi che vi regnano? In un secolo nel quale si sono moltiplicati i lumi, e i pregiudizj combattuti con tanto vigore, dovremo noi dunque essere ancora le vittime delle stranezze funeste ed orribili che l’invenzione più micidiale della superstizione ha introdotte nella parte della legislazione che più interessa la libertà dell’uomo e la sicurezza del cittadino? Dovremo noi ancora risentirci de'    colpi che ha recati all’umanità la terribile inquisizione in un tempo in cui questa fiera superstiziosa ha perdute quelle unghie, colle quali ha per cinque secoli lacerata

l’innocenza, l’ignoranza, la filosofia e la religione istessa? Noi che abbiamo adottate tante leggi de'    Romani, molte delle quali non sono più applicabili allo stato presente delle cose, molte inutili e molte assurde, dovremo poi trascurare quelle che tanto favoriscono la civile libertà? Dovremo noi soffrire che il sistema creato da un ambizioso pontefice prevalga ancora a quello che la greca e la romana sapienza stabilito avevano nel seno della libertà? Che l'inquisizione proscritta dalle case de'    vescovi conservi la sua sede nel tempio di Temi? Dovremo noi avere di che arrossirci leggendo i codici stessi de'    tempi barbari sopra molti articoli della criminale procedura? (1) Dovremo noi soffrire.... Ma ahi! caliamo per un momento un velo su questa dipintura orribile de'    pericoli a' quali è esposta la nostra libertà. Invece di maggiormente rattristarci sulla riflessione de'    mali, occupiamoci nella scelta de'    rimedj e consoliamoci sulla facilità che vi sarebbe di adoprarli. Vediamo come dovrebbe correggersi questa seconda parte della criminale procedura, nella quale noi abbiamo osservati tutti questi vizi, tutti questi orrori.


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CAPO VII

Riforma da farsi in questa parte della criminale procedura

Se vi è parte della criminale procedura, nella quale il sistema della romana giurisprudenza anderebbe interamente adottato, è sicuramente quella che riguarda l’intimazione dell’accusato e la sicurezza della sua persona. Noi abbiam veduto quanto era semplice questo metodo e quanto favorevole era alla libertà del cittadino. Citare un uomo ch'è accusato di un delitto; condurlo innanzi al magistrato competente; mostrargli il suo accusatore; palesargli l’accusa; interrogarlo senza mistero sulla verità di ciò che si è asserito contro di lui; non mostrare alcuna prevenzione in favor d’alcuna delle parti; concedere un ugual numero di giorni al reo per giustificarsi, ed all’accusatore per sostenere la verità della sua accusa; abolire tutti quegli atti estra-giudiziali; tutte quelle altercazioni indegne tra il giudice e l’accusato, tutti quegli spaventi, tutte quelle violenze, tutte quelle insidie che rendono cosi abominevole, cosi indegno, cosi ingiusto il presente sistema; sgombrare la giustizia da quella oscurità volontaria, nella quale si ravviluppa col mistero inquisitorio; abolire que’ giuramenti inutili che si esigono dall’accusato e che ad altro non servono che a moltiplicare gli spergiuri e ad indebolire un vincolo prezioso che non è forte tra gli uomini, se non quando è con economia adoprato; non ricorrere alla citazione, alla cattura che in que’ soli casi ne' quali osi può sospettare della fuga dell’accusato, o si ha ragion di punire il suo disprezzo per la legittima autorità; (1)lasciar libera la sua persona sulla parola di un fidejussore, sempreché la natura del delitto e la gravezza della pena minacciata dalla legge non ricerchi una sicurezza maggiore; procurare che anche in questi casi la custodia dell’accusato non sia indegna di un innocente; impiegare una porzione delle pubbliche rendite alla costruzione delle carceri, dove i depositi della giustizia pubblica dovrebbero risvegliare l’idea piacevole della moderazione e del rispetto, col quale la società custodisce anche que’ suoi individui che han meritata la sua diffidenza; trattare, in una parola, l’accusato da cittadino, finché il suo delitto non venga interamente provato: ecco ciò che si otteneva nel metodo libero e semplice di Roma, ed ecco ciò che si otterrebbe adottandolo. (1)

Un’altra cosa anderebbe aggiunta a questa riforma, la distinzione delle carceri degli accusati, da quelle de'    con vinti. Un uomo ch'è accusato di un delitto, finché non è convinto di averlo commesso, non dee perdere il dritto all’opinione pubblica. Or questa, più attaccata al modo che alla cosa, ha messa una certa infamia alla detenzione nelle carceri. Per distruggerla, non vi sarebbe altro mezzo che ricorrere a questa distinzione. Un altro male, forse maggiore, si eviterebbe coll’istesso mezzo: il contatto del delitto coll’innocenza: un accusato non è sempre un reo, ma può divenirlo con questo contagio pestifero. Racchiuso nell’istessa spelonca con delinquenti già condannati, egli non vi respira, per cosi dire, che l’odore del delitto. Un’atmosfera viziosa vi concentra queste terribili esalazioni e chi sa fino a qual punto esse possano agire sopra il suo spirito, o alterare il suo cuore? Chi sa se l’infelice che è costretto a riceverle per tutti i suoi pori, potrà resistere alla loro malignità? Un accusato non convinto, ancorché reo, ha un interesse a nascondere la sua malvagità. Ma colui, al quale è stata già decretata la pena, colui che non ha più quest’interesse, apre il suo cuore corrotto a' suoi compagni, comunica loro i piaceri che gli han procurati i suoi delitti, riscalda la loro immaginazione col racconto de'    suoi feroci ed arditi attentati e diviene ordinariamente l’apostolo del vizio. Or l’uomo si avvezza a tutto, e l’orrore a' delitti si perde sicuramente colla frequenza di sentirne parlare. La scelleratezza istessa ha il suo entusiasmo, che presto o tardi si comunica. Essa fa de'    proseliti, come la virtù; e lo spavento non è più un freno bastevole a trattenere il cuore ch'essa riscalda, poiché essa ha ancora il suo eroismo. È molto facile dunque che l’accusato ch’era un innocente prima di entrare nelle carceri, divenga un mostro nell’uscirne. L’utilità pubblica, il decoro de'    costumi, il rispetto che si deve all’accusato prima di esser convinto, la cura che si deve avere del suo onore e della sua probità, esigono dunque la separazione che si è proposta. In tutto il resto, la correzione di questa parte della criminale procedura sarebbe pienamente eseguita, se al moderno metodo si sostituisse l’antico; quantunque molti monumenti c’indicano che neppur quest’oggetto sfuggito sia alla vigilanza de'    legislatori di Roma.(2)Io lascio a colui che legge, l’analisi più minuta de'    motivi e de'    vantaggi di una riforma così necessaria; mi basta di aver osservati gli oggetti su' quali dovrebbe cadere e il modello sul quale dovrebbe esser foggiata. Io metterei termine a questa teoria, se l’ordine delle mie idee non mi richiamasse ad un abuso che ho appena additato nell’antecedente Capo, e che merita di essere osservato in tutta la sua deformità; questo è la condanna per contumacia adottata da tutti i codici criminali dell’Europa e intrusa anche in quello di una nazione libera, (1)che con meraviglia universale conserva ancora questa reliquia mostruosa della sua antica barbarie.


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CAPO VIII

Delle condanne per contumacia

Una volta si punivano i contumaci come contumaci: oggi si puniscono come contumaci e si condannano come rei. Noi abbiam veduto nel dritto romano la contumacia punita colla perdita de'    beni, ma non colla perdila de'    dritti preziosi alla vita ed alla difesa.(2)Era riserbato alla moderna legislazione il dare quest’ultima scossa alla libertà civile ea' principj imprescrittibili della giustizia e della regione.

Le romane leggi proibivano, come si è osservato, la condanna degli assenti, e noi li condanniamo pel motivo istesso, perché sono assenti. (3)Se un infelice, spaventato da' pericoli a' quali è esposta l’innocenza più manifesta per i vizi della presente procedura, fugge, o essendo nascosto, o lontano, non ubbidisce alle replicate citazioni; se, malgrado la coscienza della sua innocenza, egli non ardisce di esporsi ad un combattimento, tutti i pericoli del quale sono contro di lui; s’egli cerca nella fuga un asilo che crede di non poter trovare nel seno della giustizia, egli è sicuro di esser condannato, senza essere inteso. La legge, armata della parola terribile di contumacia, lo considera come reo. La sua disubbidienza dà a' giudici il diritto di dichiararlo colpevole, col diritto anche più assurdo di pronunciare contro di lui quelle pene che la legge ha destinate al delitto e di farle eseguire sull’effigie del preteso delinquente. Se l’ignoranza di ciò che si è tramato contro di lui, o il timore di esporsi a tutti gli orrori della revisione di una procedura ordita interamente a sua rovina, se l’uno o l’altro di questi motivi fanno che il contumace non si presenti nel corso di un determinato tempo che siegue la decisione, egli non può più ripararla, il giudizio diviene definitivo; non vi è più difesa per lui; le sue fortune sono dissipate, la sua persona e la sua famiglia sono coperte d’obbrobrio e d’ignominia.(1)A questa iniquità si aggiugne in alcuni paesi un’iniquità anche maggiore. Si condanna in alcuni casi il contumace, e si dà a tutti il diritto di ucciderlo. Si mette un prezzo sul suo capo e si premia un delitto che anderebbe punito. La legge rompe tutto ad un tratto que’ vincoli che univano il contumace agli altri cittadini, e promuove un attentato che avvezza gli uomini a disprezzare la vita de'    loro simili, ed a vedere senza orrore le loro mani macchiate col sangue di un uomo. Questa invenzione feroce è dovuta a' secoli della barbarie, e noi che siamo andati in cerca di ciò che vi era di più iniquo e di più assurdo ne' codici delle nazioni che ci han preceduto, l’abbiamo religiosamente adottata a fronte degli urti che reca ai principj della morale e della ragione. (2)

Ma come correggere questi abusi senza correggere tutto il sistema della criminale procedura? Ricordiamoci di ciò che si è detto nell'introduzione di questo libro: i vizj del tutto rendono necessarj i vizj stessi delle parti; il portare la correzione in alcune di queste, senza riparare il tutto, è l’istesso che far crescere il disordine e moltiplicarne gl’inconvenienti. finché il sistema dunque della criminale procedura non sarà riformato; finché tutti i rischi saranno per l’accusato; finché si oltraggerà il suo onore e si tormenterà la sua esistenza; finché non gli si faciliteranno i mezzi per difendersi; in una parola, finché non si renderà migliore la sua condizione co' mezzi che si sono da noi additati, fino a questo tempo, io dico, la legge che spaventa la sua fuga, o la sua disubbidienza con una condanna cosi feroce, è un male necessario; essa non può essere abolita senza dare origine a nuovi disordini. (1)

L’istesso dee dirsi della fidejussione, della quale si è parlato nell'antecedente capo. Questo è uno de'    mezzi più efficaci per conservare quanto più si può la libertà personale del cittadino. Ma come combinarla col sistema presente della procedura criminale? A che gioverebbe essa in una nazione, nella quale quasi tutti i delitti sono puniti o colla morte, o colla perdita perpetua della libertà? Il mistero inquisitorio non richiede forse la detenzione del reo nelle carceri? Senza la pubblicità de'    giudizj criminali come lasciar libero l’accusato sulla parola di un fidejussore? Se la fidejussione non potrebbe aver luogo, che in que’ delitti ne' quali la pena minacciata dalla legge non potrebbe indurre l’accusato ad abbandonare la sua patria, o tradire il suo fidejussore a sacrificare i suoi beni; in questa giusta ipotesi, quando il codice penale di una nazione è cosi feroce, che non vi è per cosi dire delitto che non sia punito con una pena molto più grave di quella che porterebbe seco la fuga; per questa nazione, io dico, non sarebbe forse quasi inutile questo rimedio, che sarebbe cosi salutare per un paese, dove le pene fossero più moderate?

Per abolire dunque le condanne per contumacia, per adottare il sistema della fidejussione, per imitare nell’uno e nell’altro oggetto il metodo de'    Romani e de'    Greci, bisognerebbe correggere tutto il sistema della criminale procedura, bisognerebbe raddolcire il codice penale della nazione. (2)In questo piano di riforma generale io ho mostrato quale sarebbe la correzione da farsi nelle prime due parti della criminale procedura. È ormai tempo di passare alla terza, ch'è forse la più intrigata di tutte. Questa riguarda, come si è premesso, gl'indizj e le prove de'    delitti. Sforziamoci dunque di portare un nuovo lume nelle tenebre che oscurano questa parte del dritto, e cerchiamo nell’umanità e nella filosofia il filo che dee condurci in questo spaventevole laberinto.


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CAPO IX

Terza parte - Della criminale procedura
Delle prove e degl’indizi de'    delitti

In niuna parte della legislazione si manifesta tanto la contraddizione, l’imbecillità e la poca logica de'    nostri legislatori e degl’interpreti delle nostre leggi, quanto in quella che regola le prove e gl'indizj de'    delitti. Per poco che si aprano quegl'interminabili volumi che contengono la nostra criminale giurisprudenza, composta, come altrove si è detto, da un’assurda e mal digerita combinazione di una parte delle romane leggi, con alcuni principj legali del dritto canonico, mescolati colla legislazione de'    tempi barbari, ed alterati mostruosamente dalle opinioni de'    dottori, a' delirj de'    quali un’antica pratica ha dato pur troppo ne' nostri tribunali vigore di legge; basta, io dico, aprire questi libri dell’errore e della confusione, per vedere come una metafisica sottigliezza ed un’assurda e puerile logica favoriscono da una parte l’impunità de'    delitti, espongono dall’altra l’innocenza a' maggiori rischi, e danno nell’una e nell’altra un arbitrio funesto e dispotico nelle mani de'    giudici.

Che mi si permetta dunque di dar principio a questa interessantissima teoria con una scorsa rapida sugli errori da' quali è da ogni parte ingombrata, per istabilire quindi su' fondamenti inalterabili della ragione e della filosofia, le regole e i principj co' quali deve esser diretta.

La romana giurisprudenza che ci è servita di guida e di norma nelle prime due parti della criminale procedura, ci offre in questa errori altrettanto più degni di esser contrastati, in quanto che o sono stati religiosamente ricevuti ne' nostri tribunali, o han dato origine ad altri più di loro funesti. Allorché si tratta di prove e di argomenti de'    delitti, si trova nel corpo del romano dritto una ondulazione continua tra la misericordia e la ferocia, tra una eccessiva delicatezza nel valutare il valor delle prove ed un tirannico ed ingiusto metodo nel ricercarle. Allorché la contraddizione è tra due leggi, quest’antinomia si manifesta subito, e il legislatore non ha da stentar molto per ripararla; ma quando l'opposizione è nel sistema, quando non è nelle parti, ma nel tutto, quando non è nelle parole delle leggi, ma nello spirito della giurisprudenza, allora sfugge dagli occhi del giureconsulto, allora il filosofo solo è quello che può vederla, allora la correzione è più difficile, perché dee cadere sul tutto e non sulle parti.

Ecco ciò che si osserva in quella parte della romana giurisprudenza che determina il criterio della verità ne' giudizj criminali. Aprendo il Codice, noi troviamo nel titolo de probationibus il compendio delle regole che determinar dovrebbero questo criterio. Sappian gli accusatori, dice la legge, che il giudice deferir non può alla loro accusa, se il fatto ch'essa contiene, non è poggiato o sulla fede di testimonj idonei, o sopra pubblici documenti, o sopra argomenti incontrastabili e più chiari della luce. (1)

Questa regola è giusta, è chiara, è semplice, è analoga a' sacri principj della civile libertà; ma funestamente i legislatori di Roma non sempre ne seguirono lo spirito, allorché si trattava di determinarne con precisione le idee. Bisognava, per esempio, stabilire quali erano i testimonj che la legge chiamava idonei, o quali erano gli argomenti su' quali il giudice determinar poteva il suo giudizio, e sull’uno e l’altro articolo il dritto romano ci offre delle contraddizioni che i nostri giureconsulti non hanno osservate, ma che si manifestano con bastante evidenza a colui, che legge colla superiorità della filosofia e coll’indipendenza della ragione i troppo venerati libri delle romane leggi. L’imbecille Giustiniano, non riflettendo alla diversità de'    tempi e delle circostanze; mescolando senza ordine e senza distinzione le leggi che si risentivano ancora dell’antica libertà della repubblica, con quelle che il più feroce dispotismo aveva dettate, mettendo accanto degli stabilimenti degl'imperatori più umani que’ de'    tiranni più fieri che insanguinarono l’impero, fece della giurisprudenza un caos informe, dove il filosofo ed il tiranno trovano ugualmente idee analoghe a' loro opposti principj.

Basterebbe leggere nel Digesto, nel Codice e nelle. Novelle i varj titoli dove si contengono leggi che riguardano i testimonj, le quistioni e le prove giudiziarie, per persuadersi di questa rattristante verità. Dando un’occhiata filosofica su questa parte del Romano dritto, noi troveremo l’eccesso ne' due estremi opposti; noi troveremo un eccesso di delicatezza da una parte, ed un eccesso di ferocia dall’altra.

Cominciando da' testimonj, noi vedremo la delicatezza de'    legislatori escludere dalla confidenza della legge tutti que’ testimonj che aver potevano coll’accusatore, o coll’accusato rapporti di famiglia, (1)di amicizia, (2)di dipendenza, (3)di odio, (4) di servitù, (5)di nascita, (6)di patrocinio, (7)di libertà (8) noi ne vedremo escludere quelli ch'erano stati condannati, o che erano sub judice in un giudizio pubblico; (9)noi ne vedremo escludere gl’infami per delitto, (10)o per mestiere; (11)gli adulteri, (12) e le prostitute; (13)quelli che avevan data prova della loro mala fede, (14)della loro venalità, (15)o del loro perverso carattere; (16)quelli che avevano avuto parte al delitto; (17)quelli che per la loro età potevano facilmente essere ingannati; (18)e quelli finalmente che dubitar facevano della loro imparzialità per aver deposto in un altro giudizio pubblico contro l’istessa persona.(1)Tutte queste eccezioni ci mostrano l’eccessiva diligenza de'    legislatori di Roma nel difendere la sicurezza dell’accusato contro la mala fede de'    testimonj. Rivolgiamo ora la medaglia, e osserviamone il rovescio; vediamo come con altre eccezioni essi la distruggevano e come l’edificio di questa sicurezza, innalzato con una mano, violentemente si gettava a terra coll’altra.

È scandalosa cosa il vedere che i legislatori di Roma credettero che i tormenti potessero essere gli organi della verità. (2)Noi dobbiamo a questa fatale opinione la prima origine della tortura, ch'è ancora in uso in una gran parte dell'Europa a fronte della guerra vigorosa che la filosofia e i lumi del secolo le hanno dichiarato. Le romane leggi, dopo aver esclusi dalla loro confidenza i servi e gl’infami, ordinarono che il giudice deferir dovesse alle loro testimonianze, quando queste erano profferite tra' tormenti.(3)Esse accordavano all’accusatore il dritto barbaro di condurre in giudizio un immenso numero d’innocenti per essere tormentati, senza aver parte alcuna al delitto. (4)Un servo dunque, un gladiatore ecc., che aveva la disgrazia di trovarsi presente ad un delitto, era sicuro di dover vedere le sue ossa slogate, o le sue carni esposte agli ardori del fuoco, o le sue fibre e i suoi muscoli violentemente stirati sopra un penosissimo eculeo, perché la legge lo credeva incapace di profferire il vero senza essere tormentato da' più vivi dolori.

Un’ingiustizia simile si commetteva verso que’ testimonj che non erano né servi, né infami, ma la condizione de'    quali non esigeva il rispetto della legge nella parziale giurisprudenza di Roma: Se un uomo che non era né decurione, né nobile, né soldato, se non aveva nella sua famiglia lo splendore della toga o delle armi, se senza essere né delinquente, né infame, né servo, era chiamato in giudizio come testimonio di un delitto, l’integrità de'    suoi costumi e le prerogative della sua libertà non lo garantivano da' tormenti, quando egli era vacillante nelle sue deposizioni. (1)L’ignoranza dunque che rende cosi spesso contraddicenti gli uomini nella manifestazione delle loro idee e che nasconde loro l’arte di esprimersi con precisione e chiarezza, o il timore di alterare la verità che nelle anime delicate mette un incredibile imbarazzo e rende nell’apparenza equivoci e vacillanti i loro detti; queste due cause, io dico, che si possono combinare coll’onestà la più conosciuta, esponevano in Roma un infelice onesto uomo ad esser tormentato, senza essere né delinquente, né accusato, né accusatore, ma semplice testimonio di un delitto.

Questa ingiustizia, che si commetteva frequentemente contro le persone d’una più vile condizione, si stendeva anche alla classe più distinta dell'impero, allorché si trattava de'    delitti di maestà. Il cittadino più illustre dello Stato, il più benemerito della patria, poteva anche soggiacere alla terribile prova de'    tormenti, quando era chiamato in giudizio come testimonio di questi delitti. (2)L'assurda severità della legge metteva in mano del tiranno questo strumento pernicioso, per soddisfare i suoi mal fondati sospetti.

A queste contraddizioni se ne aggiugneva un’altra. Noi abbiamo notato che i servi non potevano essere interrogati contro i padroni. (1) I nostri maggiori, dice Cicerone, (2) non vollero che la condanna di un cittadino potesse dipendere dalla testimonianza del suo servo, e che si rendesse con questo mezzo più dolorosa e più irritante. Quest’antica determinazione conservò il suo vigore sotto gl'Imperatori, e una legge di Severo ed Antonino la distese anche alle madri, a' figli e a' tutori de'    padroni. (3) Ma chi lo crederebbe? Ne’ delitti più gravi, in quelli ne' quali maggiore sforzo si esige per commetterli, in quelli in cui la credibilità di un testimonio dovrebbe diminuire di tanto, di quanto, crescendo l’atrocità del reato, si diminuisce la probabilità del fatto; in questi delitti, io dico, le romane leggi, invece di escludere con maggior rigore, ammettevano la testimonianza de'    servi contro i proprj padroni. (4) Da questa stranezza della romana giurisprudenza ha avuto, senza dubbio, origine quella massima erronea che ha sacrificati all'imbecillità de'    nostri giureconsulti un immenso numero d’innocenti, e ch’è stata quasi generalmente adottata ne' tribunali d’Europa come un assioma, malgrado l’evidenza dell’errore che vi si contiene. Negli atrocissimi delitti, dicono i criminalisti, le più leggiere congetture bastano, ed è lecito al giudice di oltrepassare il diritto. (5)Un uomo dunque accusato di un delitto più atroce dovrà per questo solo motivo perdere alla sicurezza que’ dritti che la legge dà a colui che viene accusato di un delitto più leggiero? Che mi si permetta di contrastare co' principj più semplici della ragione questo pratico assurdo della criminale legislazione.

L’uomo ha tre ostacoli che l’allontanano da' delitti: l’orrore che naturalmente c’ispira un’azione contraria alla giustizia, la pubblica disapprovazione e il timor della pena. Non vi vuol molto a vedere che la resistenza di questi ostacoli dee crescere in ragione dell’atrocità di un reato. Un delitto più atroce ispira maggior orrore; rende l’uomo più abbominevole a' suoi simili; l’espone ad una pena maggiore. Noi abbiamo dunque una resistenza maggiore da superare per commettere un delitto più grave che per commettere un delitto meno grave. Tra due accuse dunque l’una di un delitto più atroce, l’altra di un delitto meno atroce, la legge dovrebbe piuttosto ricercare maggiori pruove nella prima che nella seconda. La legge de'    Bavaresi richiedeva tre testimonj, quando si trattava d’un attentato contro la vita di un duca, e non ne ricercava, che due negli attentati contro la vita di un privato. (1)Io profitto della verità dove la trovo e i codici barbari me ne somministrano più d’una, perché il maggior nimico della verità non è l’ignoranza, ma l’errore.

È vero che i delitti più atroci si sogliono commettere con maggiori precauzioni, e per conseguenza essi sono più difficili a provarsi; ma è vero altresì che quando il popolo ignora l’autore di un delitto, l’impunità non è così funesta; è vero altresì che nei delitti più atroci concorrono collo spavento delle pene molti altri spaventi per allontanarne gli uomini; ed è finalmente anche incontrastabile che quando tutto il sistema giudiziario fosse corretto da' vizj che contiene, la prova de'    delitti sarebbe anche molto meno difficile.

Dopo queste semplicissime riflessioni è facil cosa il vedere quanto assurda sia la regola de'    criminalisti, e quanto sieno ingiuste quelle leggi stabilite in una gran parte dell’Europa, le quali, sotto il nome di delitti privilegiati, dispensano da una parte del rigor delle pruove, allorché si tratta di alcuni più atroci reati.

Ritorniamo ora alla romana giurisprudenza, dalla quale, funestamente i nostri legislatori han sempre attinto ciò che vi era di più difettoso e di più assurdo; e dopo aver osservate le contraddizioni che vi si trovano sull’articolo delle prove de'    testimonj, (2)vediamo quelle che s’incontrano nelle leggi che riguardano la confessione libera ed estorta. In questa parte la moderna legislazione non differisce dall'antica, e mostrando l’irregolarità dell’una, noi combattiamo nel tempo istesso quella dell'altra.


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CAPO X

Proseguimento dell’istesso soggetto. Sulla confessione libera ed estorta

La natura, i decreti della quale sono molto più antichi che non sono le leggi ambigue e violente de'    legislatori; la natura che non si contraddice mai nelle sue determinazioni e che formando il corpo e lo spirito de'    mortali, ha fissate le leggi invariabili che debbono dirigerli; la natura che non palesa agli uomini queste sue leggi né co' caratteri, né co' suoni, ma cogl'impulsi, e che con questi gli spinge alla felicità ed all'esistenza in tutti i momenti della loro vita: la natura, io dico, è quella che chiude la bocca del reo, allorché il giudice l’interroga sulla verità dell’accusa che si è contro di lui intentata. La confessione del delitto, portandogli sicuramente la perdita o della esistenza, o di una parte della sua felicità, richiede o uno sforzo superiore al contrario impulso della natura, o un’illusione che gli faccia vedere nella perdita di una di queste cose, l’acquisto di un bene più grande. Nel primo caso si ricerca dunque dall'uomo un impossibile morale, e nel secondo si valuta sull’assertiva di un illuso, di un mentecatto, di un fanatico, o d’un uomo che si ritrova nell’istesse disposizioni del suicida, il quale si dà colle proprie mani la morte, perché crede di trovare nella perdita dell’esistenza o l’acquisto della sua felicità, o il termine delle sue sciagure. (1)

L’esperienza molto lontano dal distruggere questa riflessione, non fa che rendercela più sensibile. Io chiamo qui in testimonio i più valenti criminalisti: essi non potranno negarmi di non aver mai ottenuta la confessione da un reo che non sia stata preceduta o dalla convinzione, caso nel quale la negativa sarebbe inutile, o dallo spavento de'    tormenti, o da un disordine nelle facoltà intellettuali, o dalla noja di una prigionia di molti anni che rende insopportabile la vita, o dagli artifici a' quali pur troppo si ricorre per sedurre gl’infelici che si ritrovano ne' legami della giustizia e per istrappare dalla loro bocca una confessione, alla quale la destrezza di un perfido scrivano fa che il reo attacchi la speranza o della diminuzione della pena, o della totale impunità.

Per qualunque aspetto dunque che si voglia considerare la confessione de'    rei, si troverà sempre che le leggi o non dovrebbero cercarla, o non dovrebbero dare verun grado di valore a questa specie di prova. Frustra enim est, dice Hobbes, testimonium, quod a natura corrumpi praesumitur. (1)

Osservando le leggi di Roma sulla confessione libera, noi troviamo che l’evidenza di questa verità non lasciò di fare qualche impressione nell’animo de'    suoi legislatori. L’assioma legale che dice, nemo testis contra seipsum, é senza dubbio una conseguenza di questo principio. (2)

Sono una conseguenza anche di questo principio le leggi che proibiscono al giudice di prestar fede alla libera confessione di un uomo su di un delitto, l’esistenza del quale è incerta. (3)

Noi temiamo, dice il giureconsulto, che non si condanni come reo un uomo che forse non è altro che un frenetico.

Sono in oltre conseguenze dell’istesso principio le leggi che stabiliscono che la confessione estragiudiziale non debba nuocere all’accusato, come quella che può esser dettata dalla vanità, o dalla stoltezza, la quale attacca ordinariamente un’idea di gloria a' delitti stessi, e fa che l’uomo se ne faccia una pompa, allorché è lontano dagli occhi di coloro che potrebbero punirlo. (4)

Sono finalmente conseguenza dell’istesso principio le leggi che prescrivono che il reo dopo aver confessato il delitto possa rivocare la sua confessione come erronea, (1)che la confessione fatta in un giudizio non debba nuocere al reo in un altro giudizio, e che la confessione fatta di un delitto minore per difendersi dall’accusa di un delitto più grave, non debba aver valore, se l’istessa persona, assoluta dal più grave delitto che ha negato, sia chiamata in giudizio una seconda volta pel più leggiero che ha confessato. (2)Si aggiunga a queste leggi il rescritto di Severo, col quale si proibisce al giudice di confondere la confessione del reo fra il numero dell'evidenti prove de'    delitti e di condannarlo senzaché altre prove non confermino la verità della sua confessione. (3)

Fin qui non osserviamo la poca confidenza che le romane leggi prestavano in molti casi alla libera confessione de'    rei. Ma l’uniformità ch'è stata rare volte la prerogativa delle umane istituzioni, è stata poi in questa parte del romano dritto sostituita da una contraddizione continua che le moderne legislazioni dell’Europa non han saputo correggere, e che,per l’imbarazzo che reca ne' giudizj, espone da una parte l’innocenza e favorisce dall'altra l’impunità de'    delitti.

L’uso barbaro e feroce di ricorrere a' tormenti per istrappare dalla bocca de'    rei la confessione de'    delitti, non è dovuto alla legislazione delle nazioni barbare, come alcuni han preteso, ma noi lo troviamo stabilito nella culta Roma, subito dopo la perdita della sua libertà. Prima de'    Cesari i soli servi erano esposti a questo spaventevole sperimento, e se la giustizia era scossa da questo attentato che si commetteva contro tutti i suoi principj, la libertà civile vedeva almeno rispettati i preziosi dritti della cittadinanza da quelle leggi stesse che violati avevano con tanta indifferenza quelli dell’umanità. Il Romano chiamato in giudizio da un accusatore non temeva di dover sostenere la sua innocenza in mezzo a' tormenti dell'eculeo, e se vedeva il suo servo condannato a questa ingiustizia, egli si ricordava che quelle istesse leggi che proteggevano la sua libertà, confondevano tra il numero delle cose gli uomini infelici che non erano a parte di questa prerogativa preziosa.

Distrutto quindi l’antico sistema della repubblica, sostituita alla libertà del popolo l’onnipotenza de'    Cesari, la memoria della perduta libertà eccitando di continuo il risentimento de'    sudditi, e la coscienza dell’usurpazione promovendo gli spaventi del principe, bisognò che la legislazione si accomodasse al nuovo sistema delle cose e favorisse con una mano la sicurezza del cittadino, nel mentre che sosteneva coll’altra gl'interessi, le mire, i sospetti e le violenze del nuovo capo della nazione. Questi due opposti oggetti non potevano conseguirsi che con opposte leggi, e la contraddizione che cominciò ad introdursi dopo quest’epoca nella romana giurisprudenza, è interamente dovuta a questa fatale origine. Noi dobbiamo al primo di questi oggetti le leggi sulla confessione libera, cosi favorevoli alla sicurezza del cittadino, e noi dobbiamo al secondo quelle ch’estesero sulle persone libere ed in alcuni casi sulle persone anche più distinte della società, l’antico metodo di strappare col soccorso de'    tormenti la confessione da' soli servi. Il dispotismo de'    primi Cesari avea bisogno di questo rimedio tanto destruttivo della civile sicurezza, quanto favorevole alla loro usurpata autorità. La celebre legge Giulia, detta della Maestà, ci fa vedere quali furono le mire di Augusto nel dare per là prima volta questa scossa funesta alle antiche prerogative della libertà e della cittadinanza. La cospirazione contro il Principe e gli altri delitti compresi in questa legge furono i primi per la prova de'    quali si condannarono a' tormenti anche i cittadini del rango più distinto. (1)Quell’istessa causa che indusse Silla a sopprimere le pene de'    calunniatori, fece introdurre in Roma l’uso de'    tormenti come un mezzo opportuno per sacrificare alla diffidenza del Principe que’ cittadini che avevano avuta la disgrazia di divenirgli sospetti.

Da' delitti di Maestà, il numero de'    quali crebbe a dismisura, (1)si passò quindi agli altri, con quella facilità colla quale un abuso introdotto si propaga e si estende. Una gran parte de'    delitti fu compresa nella classe di quelli ne' quali si poteva, senza eccezione di persone, far uso de'    tormenti per ottenere la confessione da' rei che ne venivano accusati; e la superstiziosa imbecillità di alcuni imperatori giunse fino ad annoverare in questa classe que’ delitti che meritar dovrebbero il silenzio delle leggi piuttosto che il loro assurdo rigore. Con una stupida severità si torturavan gl'indovini, gl'interpreti de'    sogni, i maghi e tutti coloro che venivano accusati di simili stranezze; e la religione cominciò fin da quel tempo a vedere con orrore le umane vittime sacrificate al falso zelo de'    suoi pretesi difensori. (2)Quest'uso feroce cosi contrario allo spirito di tante altre leggi, che parte prima di questo tempo, parte contemporaneamente, e parte dopo furono dettate da' legislatori di Roma; quest'uso interrotto per qualche tempo, e sostituito da' Giudizj di Dio ne' tempi barbari, fu rimesso nel suo antico vigore dall'influenza de'    Papi. Quando dal Vaticano si riformava la giurisprudenza dell’Europa; quando in mezzo a' fulmini delle censure il capo della repubblica europea annunziava a' fedeli insieme co' dogmi della religione le nuove leggi, che si dovevano alle antiche sostituire; quando l’Inquisizione canonizzò l’uso della tortura, adottandolo insieme colle altre sue tiranniche istituzioni, allora tutte le nazioni si credettero nell'obbligo di riconoscerne i vantaggi.

Da per tutto le pruove pe’ duelli, per l’acqua bollente, o fredda, pel ferro infocato ecc., si videro di mano in mano abolite, e da per tutto si vide la tortura divenire il criterio della verità ne' giudizj criminali. (3)Alcune poche riflessioni ci faran vedere quanto erano più analoghi alle circostanze di que’ tempi i giudizj di Dio, che non lo è la tortura alle presenti; quanto sia più facile trovare un principio di ragione, e di giustizia in quelli che in questa; e quanto la dignità civile abbia perduto piuttosto che guadagnato in questo cambiamento. Questa digressione non è molto aliena dal mio soggetto, e mi si potrà perdonare in grazia della novità.

Mi si dovrà perdonare anche per un altro motivo. Se non vi fosse che un solo popolo, che conservasse ancora l’uso della tortura, questo potrebbe anche bastare ad obbligarmi di unire i miei sforzi a quelli degli altri scrittori, che mi han preceduto, per liberamelo. Ma se non un solo popolo, ma la più gran parte dell’Europa soggiacesse ancora a questa oltraggiosa ingiustizia; se penne servili impiegate da uomini perfidi, ignoranti e prevenuti avessero ardito di difenderla: in questo caso potrei io, senza delitto, in un piano universale di correzione, e di riforma incontrarmi con quest'oggetto, e tacermi?

Le opere infami che han fatta l'apologia della tortura, son rimaste sepolte nell'obblio co' loro oscuri autori; ma la legge che la prescrive, sussiste ancora nelle nazioni le più culte; sussiste infelicemente anche nelle più libere.

Chi lo crederebbe? Un governo che ha meritati gli elogi di tutti i filosofi, l'amore di tutti gli uomini, e l'ammirazione di tutta l’Europa, un governo, che per la sua saviezza par che gareggi colla natura, facendo il suo corso colla regolarità e col silenzio degli astri; un governo che, circondalo da varie Potenze, alcune formidabili, altre ambiziose ed altre deboli, senza dare spavento ad alcuna, esige il rispetto di tutte; una Repubblica che per la singolarità della sua costituzione, pel carattere e pe’ costumi de'    suoi individui, per la natura e situazione del suo territorio, per l’opportunità e saviezza delle sue leggi ha combinati gli opposti vantaggi della forza e della debolezza, dell’opulenza e della povertà, della barbarie e della coltura; che non teme, e non si fa temere; che ha grandi forze, e non ne può abusare; ch'è sobria in mezzo all’opulenza; generosa in mezzo al commercio ed all'industria; virtuosa, e guerriera in mezzo al raffinamento de'    costumi, ed alla pace; semplice in mezzo alle cognizioni ed alla più estesa coltura; tranquilla, quantunque divisa tra due religioni, ed in due templi questa Repubblica, alla quale tutta l’antichità non ci offre l’uguale, questo governo, che dovrebbe essere la scuola della legislazione e de'    legislatori, questa nazione che profittar dovrebbe dell’altezza de'    monti che abita, per mostrare agli altri popoli gl’istrumenti, i sostegni e i vantaggi della sicurezza e della libertà, l'Elvezia, io dico, tollera ancora la tortura ne' suoi tribunali e nelle sue leggi. E’ vero che in un paese ove vi è gran virtù, i vizj delle leggi sono meno sensibili e meno funesti; è vero che la perfezione de'    costumi di un popolo può riparare a' difetti del suo codice criminale; ma la sola mano che sottoscrisse questa legge infame, non avrebbe forse dovuto indurre questo popolo a gittarla nelle fiamme? (1) Potrebbe egli rispettare le leggi della tirannia, dopo aver proscritti i tiranni? Ma le contraddizioni dello spirito umano si osservano nelle nazioni, come ne' loro individui. Le più savie son quelle che ne han meno. Virtuosi e bravi Elvezj, perdonate se io ho ardito di manifestarne una, che oscura la vostra gloria. Io vi compenserò questo piccolo male, se le riflessioni che sono per esporre, v'indurranno a liberare le vostre leggi da questa ignominia, e i vostri concittadini da' suoi rischi.


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CAPO XI

Parallelo ne’ Giudizj di Dio de'    tempi barbari, e la tortura

Supplire al difetto delle prove con un esperimento che tutt'altro indicar poteva fuorché la verità, o la falsità dell’accusa; interessare, è per meglio dire, mescolare la Divinità ne' giudizj degli uomini; pretendere che le leggi universali dell'ordine si sospendessero in tutti que’ casi particolari, ne' quali il giudice protestando la sua incertezza, cercava dalla Provvidenza, conoscitrice di tutto, un segno visibile, col quale regolar potesse il suo giudizio; attribuire alla forza ed alla destrezza, al valore ed all’arte di combattere tutto il favore della legge; privare il timido, il vile, il debole delle prerogative dell’innocenza; metodo senza dubbio è questo, che da sé solo basterebbe a mostrarci la barbarie de'    tempi ne' quali fu introdotto, e l’ignoranza e la ferocia de'    popoli che l'adottarono; ma che osservato nel rapporto che aveva cogl’interessi, co' costumi e colle circostanze politiche di quelle nazioni, si trova almeno scusabile dalla parte dell’opportunità, e dell’uniformità, col sistema intiero del loro governo.

Un governo barbaro dee necessariamente avere qualche vestigio della teocrazia. A misura che la società è meno perfezionata, l’amor dell’indipendenza si fa maggiormente sentire nell'uomo. Beneficio unico dello stato naturale. L’indipendenza non si perde da noi, che nella società. Ma questa perdita non si fa che per gradi. A misura che si moltiplicano e si estendono i beneficj della società, vale a dire, a misura che la società si perfeziona, si scema il beneficio dello stato naturale; e la quantità che se ne sacrifica, si proporziona da se stessa all'utile che se ne raccoglie.In una società barbara dee dunque esservi maggiore amore per l’indipendenza, che in una società più civilizzata, perché minori sono i vantaggi sociali che si ottengono da quella, che da questa; e perché lo stato di barbarie è più vicino al primitivo stato dell’uomo, nel quale l’amore per l’indipendenza era la passione unica che l’animava.

Or questo amore per l’indipendenza è quello che stabilisce la teocrazia ne' governi barbari, giacché l’uomo spinto ancora vivamente da questa passione, si soggetta più volentieri all'impero di un nume, che a quello degli uomini. Ecco il motivo pel quale i sacerdoti, come interpreti della divinità, han sempre avuta la maggiore influenza nel governo delle barbare nazioni;(1)ecco perché i primi re de'    popoli vollero esser sacerdoti;(2)ed ecco finalmente perché in tutti luoghi i primi germi della legislazione furono, dove più, e dove meno, effetto della teocrazia.(3)

Premesse queste riflessioni, noi non stenteremo a persuaderci dell'opportunità de'    Giudizi di Dio collo stato della società, di que’ tempi ne' quali furono introdotti. L’accusato si esponeva più volentieri ad un esperimento, l’esito del quale dipendeva, nella sua opinione, dal volere della divinità, che non si sarebbe rimesso al giudizio di altri uomini, da' quali sdegnava di dipendere. Egli implorava più volentieri il Dio tutelare dell'innocenza, affinché preservasse le sue carni, o quelle del suo campione dall’impressione del ferro rovente, o dell'acqua bollente, che implorata non avrebbe la giustizia e la protezione di un giudice, se questo avesse dovuto giudicarlo. La sua superstizione unita alla sua ferocia gli faceva credere meno pericoloso, e meno umiliante un combattimento a mano armata col suo accusatore, che un’altercazione verbale, sulla quale un giudice avesse quindi profferita la sua arbitraria sentenza.

Intimamente persuaso del concorso di una mano onnipotente, sempre pronta a soccorrere l’innocenza, egli non temeva la preponderanza della forza, o della destrezza del suo avversario, e se le sue speranze rimanevano deluse, egli non si lagnava dell’ingiustizia della prova, e dell’incertezza dell’esperimento, ma attribuiva agli imperscrutabili decreti della divinità, l'occulta causa del suo disastro. (1)Prove cosi inconcludenti agli occhi di un filosofo, erano allora credute come infallibili, e la vigorosa resistenza fatta da' diversi popoli alle continue premure de'    Papi, de'    Vescovi e de'    Concilj per abolirle, ci mostrano chiaramente quale era la confidenza che vi si aveva in que’ tempi.(2)La legge dunque che le prescriveva, se non garantiva la sicurezza del cittadino, favoriva ed inspirava almeno l’opinione di questa sicurezza, che, come altrove si è detto, (1) costituisce una gran parte della civile libertà.

Una riflessione che ci somministra il sistema penale de'    codici di queste nazioni, può dare un nuovo peso alle mie idee. Si faceva subire un supplicio infamante, si condannava anche a morte un uomo, un nobile che soccombeva alla prova del duello, nel mentre che se questo nobile fosse stato convinto dell'istesso delitto, non sarebbe stato condannato che ad una pena pecuniaria. Presso i Germani vi era l’istesso sistema. Quale poteva dunque essere il motivo di una determinazione così strana nell'apparenza? Io lo ritrovo facilmente ne' miei principii. Lo spirito d’indipendenza non permetteva che la morte di un cittadino potesse dipendere dal giudizio degli uomini; vi era bisogno di un decreto del cielo per privarlo di un’esistenza, sulla quale non si sarebbe sofferto che il governo avesse potuto vantare un diritto assurdo a' suoi occhi. In fatti presso i Germani, dice Tacito,(1)il supplizio del delinquente è meno considerato come una pena, che l'autorità del Capo sia nel diritto di ordinare, che come una ispirazione ed un comando espresso della Divinità, che presiede a' combattimenti. Si esponeva dunque più volentieri la vita ad un giudizio di Dio, che la proprietà e la borsa a quello degli uomini. Questo ci fa vedere gli effetti costanti dello spirito d’indipendenza, e la fiducia che si doveva avere in que’ tempi in queste prove.

L’istoria della più rimota antichità, e le relazioni di molti viaggiatori, ci mostrano l’uniformità di pensare di tutti i popoli barbari riguardo a quest'oggetto. Gli uomini situati nelle stesse circostanze, pensano ed operano dell'istessa maniera. Noi troviamo questi esperimenti giudiziarj conosciuti presso i più antichi popoli, e presso molte nazioni dell’Asia e dell’Affrica.

Sofocle, nell'Antifona, (2) ci fa vedere un uomo accusato di corruzione offrirsi a maneggiare un ferro rovente, o a camminare sopra il fuoco per provare la sua innocenza, purgazione usata allora, dice lo Scoliaste. Eustazio ci parla di alcune fonti d’acqua che vi erano in Articomide ed in Dafnopoli, dove si provava la pudicizia delle Vergini.(3)Il Tempio degli Dei Palici in Sicilia, e di Trezene nel Peloponneso sono anche famosi per simili esperimenti. È noto anche il celebre fonte stigio in Efeso, e la spelonca del Dio Pane, dove si facevano discendere le donne accusate d’impudicizia per indagare la loro innocenza.(4)Grozio cita molti esempj delle prove dell’acqua in Bitinia, in Sardegna ed in altri paesi; e il celebre Einio ci assicura che l’istessa prova fu conosciuta da' Celti.(1)Per quel che riguarda il duello, noi troviamo fin dalla più remota antichità stabilita questa specie di prova tra' Germani(2)e tra gli Svedesi;(3)noi vediamo la controversia tra' Romani e gli Albani, rimessa all'esito del combattimento fra' tre Orazj ed i tre Curiazj; noi vediamo in Omero la guerra di Troja cominciare con un duello tra Menelao e Paride, tra il marito e il rapitore di Elena: noi vediamo l’uno e l’altro popolo cercare nell’esito di questo esperimento il decreto de'    Numi; noi vediamo che rimasto indeciso l’esito di questo primo duello, si ebbe ricorso al secondo tra Ettore, ed Ajace Telamonio; e vediamo finalmente che la guerra non si sarebbe proseguita, se i due campioni, dopo aver combattuto per più ore, non si fossero divisi, senza aver potuto ottenere alcun vantaggio l’uno sull’altro, e senza aver potuto indagare con questo mezzo il volere de'    Numi. Finalmente i viaggiatori più degni di fede ci danno conto delle prove giudiziarie delle quali si fa uso presso varj popoli dell'Affrica e dell'Asia. Nel Monomotapa il testimonio dell’accusatore spolverizza una certa scorza d’albero, che ha una virtù emetica, la mescola in una data quantità di acqua, e la dà a bere a colui che difende il reo; se la ritiene, l’accusato è assoluto. Questo si rassomiglia molto all'ostia d’esecrazione, purgazione canonica, conosciutissima ne' secoli della superstizione. (4) È nota la bevanda che si adopra nel Regno di Loango in Affrica per iscovrire gli stregoni e le streghe; (5) ed è nota quella che si adopra presso i Quojas, popoli che abitano l’interno della Guinea. (6) La prova dell’olio bollente è ancora in uso presso i Cingolesi nell’isola di Ceilan, e si pratica coll’istessa fiducia, e presso a poco con cerimonie uguali a quelle che accompagnavano questa prova nelle nazioni di Europa ne' tempi de'    quali si parla. (1)

Nella costa di Malabar l’accusato di un grave delitto viene gittato in un fiume che abbonda di pesci voraci, e se dopo un dato tempo non vien divorato, egli è assoluto. La prova del ferro rovente e quella dell'olio bollente viene adoprata da altri popoli, che abitano l’istessa contrada.

In Siam l'accusatore e l'accusato erano, in altri tempi, esposti ad una tigre, e colui che la fiera risparmiava, era l’innocente. Presso questa nazione le prove per l’acqua e pel fuoco erano anche conosciute prima che il dispotismo fosse sostituito alla sua antica forma di governo, molto simile a quello de'    nostri barbari padri.

Questi fatti ci mostrano bastantemente la naturale inclinazione degli uomini, nel cercare dalla divinità i segni visibili onde regolare i loro giudizii, e sono tanti argomenti di più che ci dimostrano la cieca confidenza che dovevano avere i nostri padri in questa specie di prove, e l’opportunità delle leggi che seguendo l'opinione e i costumi di quei tempi, vi misero il suggello della pubblica autorità. Era per essi un articolo di fede il credere che la divinità dovesse per qualunque minima e particolare causa sospendere le leggi universali dell'ordine; e la moltiplicità de'    miracoli che si spacciavano in ogni giorno da' preti e da' frati, e de'    quali le leggende de'    santi erano da ogni parte ripiene, contribuivano prodigiosamente a sostenere ed a fomentare questa superstiziosa si, ma consolante opinione.(2)

A questa semplicissima ragione noi possiamo aggiugnerne un’altra. Essa è fondata sull’esperienza e sulla cognizione degl’interessi politici di quei tempi; essa deriva da quel gran principio della bontà relativa delle leggi, della quale abbiamo cosi diffusamente ragionato nel primo libro di quest'opera, lo mi fo un dovere di svilupparla.

Le leggi politiche ed economiche, delle quali si è diffusamente parlato nell'antecedente libro, provveggono alla conservazione de'    cittadini: le leggi criminali garantiscono la loro tranquillità. È inutile il prescrivere al cittadino ciò che dee fare, ciò che non dee fare; bisogna che l’interesse personale vi si mescoli e divenga la sanzione della legge. L’interesse personale di ogni uomo è di conseguire qualche beneficio, o di evitare qualche male. La speranza o il timore sono dunque i due sostegni delle leggi. La legislazione criminale non dee maneggiare che l'ultima di queste due passioni. Le pene ch'essa minaccia, spaventano l’uomo che vorrebbe disubbidire alle leggi, e difendono con questo mezzo la tranquillità degli altri cittadini. Conscii del pericolo, al quale si esporrebbe colui che cercherebbe di turbarla, essi vivono tranquilli sotto la protezione delle leggi. Or questa coscienza, questa tranquillità è quella che chiamasi libertà civile; vera ed unica libertà che possa conciliarsi collo stato sociale.

La virtù politica si modifica secondo le diverse circostanze de'    tempi, de'    luoghi, de'    popoli. Determinata dall’utile della maggior parte, essa varia secondo variano gl'interessi delle nazioni. Questa verità non è oggi più contrastata. I metafisici, i politici e i moralisti si sono uniti per darle tutto il peso dell’autorità; l’istoria è venuta in soccorso della ragione per illustrarla colla luminosa fiaccola dell'esperienza. La cognizione istessa delle lingue, e l’originaria idea attaccata alla parola virtù, ce ne somministra un’incontrastabile prova. (1) Sarei dunque condannabile, se cercassi di dimostrarla. Contentiamoci di stabilirla come il fondamento delle seguenti riflessioni.

Se la virtù politica si modifica secondo le diverse circostanze de'    tempi, de'    luoghi, de'    popoli; in quelle nazioni, delle quali noi parliamo, in quelle nazioni, io dico, unicamente guerriere, il valore doveva essere la maggiore di tutte le virtù; e tutte le cose che dal valore dipendono, o che col valore si combinano per render l'uomo più atto a combattere, dovevano essere considerate col? istessa parzialità.

Il coraggio, la destrezza, il vigore, la tolleranza di una lunga azione, il disprezzo de'    pericoli erano in fatti in quei tempi e presso quei popoli le virtù del cittadino, erano le sole virtù preziose allo Stato e care al governo. Unicamente interessato a formare de'    guerrieri, l’oggetto principale delle leggi e dell’educazione, era d’ispirare il coraggio, di promuoverlo, d’onorario; era d'interessare i cittadini ad acquistare una gran destrezza che si doveva unire alla forza, ed una gran forza che doveva combinarsi col coraggio; era finalmente di dare una certa superiorità a coloro che avevan saputo ornarsi di questi meriti. Obbligare dunque il cittadino a giustificarsi colla spada alla mano, era un urto di più che si dava al conseguimento di questo fine. Quando l’innocenza disgiunta dal valore e dalla forza non era al coverto delle violenze e de'    rischi a' quali l’avrebbe esposta un giudizio; quando la mano del cittadino, che non era incallita col maneggiamento delle armi, era esposta a soccombere alla prova del ferro rovente e dell’acqua bollente; quando poco avvezzo agli esercizii che fortificano il corpo, e danno un certo vigore a tutt'i nervi, a tutt'i muscoli, egli non avrebbe potuto reggere al faticoso esperimento della croce; quando una vita sedentanea, nel tempo istesso che lo rendeva incapace di correre dietro all'inimico, o di reggere ad una lunga marcia, dava contemporaneamente a' suoi piedi una certa morbidezza molto perniciosa, allorché si trattava di subire la prova delle barre infocate; (1) quando finalmente privo di questi vantaggi, egli non poteva neppure sperare di cattivarsi l’amor delle donne, le quali trovavano il loro interesse nel rendersi amico un uomo che in qualunque caso avrebbe potuto esporsi a simili esperimenti per esse: (2) allora la vanità, il bisogno, la sicurezza, l’amore si combinavano, per obbligare il cittadino ad addestrarsi all'arte unica che interessava lo Stato; allora chi non era guerriero, non era né stimato, né sicuro, né amato; allora la sua vita era esposta, il suo onore non era al coverto dagl'insulti e dalle trame della calunnia; e il suo cuore fatto per amare, trovava dappertutto de'    rifiuti meritati dalla sua viltà. Ecco perché la prova pel duello, come quella che più direttamente andava allo scopo della legge, fu la più usata e fu quella che durò più di tutte le altre. (3)

È vero che la superstiziosa confidenza che il cittadino aveva in questi esperimenti, avrebbe dovuto distoglierlo dal provvedersi degli umani mezzi che effettivamente ne regolavano l’esito: ma l’esperienza giustificando la speculazione del legislatore fece vedere che malgrado questa cieca confidenza, egli non lasciava di cercare nelle proprie forze quella superiorità che contemporaneamente egli attribuiva al soccorso della propizia Divinità, non altrimenti che il credulo Musulmano, malgrado i rigorosi principii del suo fatalismo, non trascura i più vili intrighi del serraglio, per giugnere al suo desiderato scopo che la sua religione gli fa vedere già scritto nell'inalterabile ed eterno libro del destino. Per un effetto dunque dell'inesplicabile, ma comune contradizione dello spirito umano, molto più sensibile ne' barbari che nei popoli civili, i giudizii di Dio favorivano nel tempo istesso la tranquillità del cittadino e l’interesse del governo.

Queste riflessioni che non mostrerebbero che l'utilità e l'opportunità de'    giudizii di Dio presso le barbare nazioni, potrebbero, considerate in un certo punto di veduta, mostrarne anche la giustizia.

In una nazione ove tante cause si univano per indurre il cittadino a rendersi coraggioso, abile e forte; l'uomo più forte, più atto a combattere, più valoroso di un altro, mostrava con questo solo il suo maggior rispetto per le leggi, i vantaggi che aveva più dell'altro raccolti dalla sua educazione, il maggior peso ch’egli dava all’onore: e tutte queste cose unite dovevano procurargli una giusta presunzione in favore della sua innocenza. L’esperienza doveva far vedere che gli uomini più vili erano i più facili a commetter de'    delitti, e che i più coraggiosi e i più forti, erano non solo i più utili, ma anche i più virtuosi cittadini. Io veggo benissimo che questa regola poteva spesso fallire; ma ordinariamente l’uomo che restava superiore nel combattimento, era l’innocente, e quando non era tale, la legge comprava almeno con una impunità, o con un’ingiustizia un cittadino molto utile allo Stato. A questo vantaggio se ne aggiungeva un altro. Il merito delle leggi bisogna sempre misurarlo colle circostanze de'    tempi ne' quali sono state dettate. Si sa che ne' tempi ne' quali il combattimento giudiziario era nel suo massimo vigore, l’anarchia che derivava dall'illimitata divisione dell’autorità sovrana, legittimava il disordine funestissimo delle guerre privale. Una famiglia si armava contro un’altra famiglia, un villaggio contro un altro villaggio, una provincia intera dichiarava qualche volta la guerra ad un’altra provincia. Le diverse parti dell'istesso Impero si armavano contro loro stesse, e il debole capo di questo disordinato corpo doveva vedere con indifferenza questa sanguinosa lacerazione, che una parte de'    suoi membri recava all’altra. In queste deplorabili circostanze, in queste spaventevoli convulsioni, la legge che stabiliva il duello, e che permetteva alle parli di sottoporre la decisione delle loro controversie all’esito di questo esperimento, recava all’ordine pubblico tre vantaggi nel tempo stesso: essa permutava una guerra generale in una guerra particolare, restituiva la forza a' tribunali, e rimetteva nello stato civile coloro che non erano più governati che dal diritto delle genti. Se il sistema dunque de'    giudizi i di Dio non può scusarsi per quel ch'è in se stesso, può almeno difendersi co' vantaggi che produceva, e coll'opportunità che aveva collo stato delle nazioni e de'    tempi ne' quali era in vigore. Ma quale di questi vantaggi può mai sperarsi dall'uso della tortura? Quale difesa può addursi in favore di quest’abbominevole pratica de'    nostri fori?

Se ne consideriamo il motivo, se ne esaminiamo gli effetti, se l’osserviamo per quel che è in se stessa, o per quello che può essere rapporto agl'interessi della società, noi la troveremo sempre ingiusta, sempre perniciosa, sempre contraria agl'interessi di qualunque società, in qualunque luogo ed in qualunque tempo. Poche riflessioni bene sviluppate renderanno evidente questa verità, bastantemente conosciuta da coloro che ubbidiscono, ma funestamente ancora ignorata da una gran parte di coloro che comandano.

Qual è il motivo pel quale si dà la tortura? Si ricorre a questo feroce esperimento per ottenere dal reo la confessione del proprio delitto, o per venire in cognizione de'    complici cheson concorsi nella violazione della legge? Il primo de'    due motivi è il più frequente. Vediamo su qual diritto può egli esser fondato. Si supponga che l'accusato che si condanna alla tortura, sia effettivamente colpevole di quel delitto., del quale viene accusalo e che per condannarlo vi sia bisogno della sua confessione pel difetto dell'estrinseche prove. In questa ipotesi, io domando, il magistrato ha egli il diritto di pretendere dal reo la confessione del suo delitto? Ogni diritto suppone un’obbligazione; se il magistrato avesse questo diritto, il reo avrebbe dunque il dovere di palesargli il suo reato. Ma un dovere ch'è contrario alla prima legge della natura, può mai essere un dovere? La prima legge della natura è quella che ci obbliga alla conservazione della propria esistenza. Se richiesto dal magistrato sulla verità dell'accusa, che si è contro di me intentata, io fossi nell'obbligo di confessargli il mio delitto, e se questa confessione mi portasse alla morte, io mi troverei in questo caso tra due doveri opposti e non potrei soddisfare all'uno senza violare l'altro. Se il patto sociale mi obbligasse a questa confessione, il patto sociale mi obbligherebbe a violare una legge anteriore della natura; il patto sociale sarebbe nullo. Se il patto sociale mi obbligasse a confessare il mio delitto, questo stesso patto obbligherebbe anche qualunque reo di qualunque delitto, di gittarsi spontaneamente in mano della giustizia per soffrirne il meritato rigore. Ma questo patto sociale degenererebbe in questo caso in un patto il più evidentemente contrario alla natura de'    contraenti. Non è questo lo spirito di quella primitiva convinzione che tutti gl’individui della società implicitamente ratificano. La seconda parte dì una legge, dice Obbes,cioè quella che contiene la sanzione penale, non è che un ordine diretto a' pubblici magistrati; ed in fatti non vi è legge che ordini al ladro, all'omicida, di venire spontaneamente a farsi impiccare. (1)

Se il reo non ha il dovere di confessare il proprio delitto, come si è provato, il magistrato non può dunque avere il dritto di esiger da lui questa confessione. Se il reo violerebbe una legge eterna della natura, palesando il suo capitale delitto, il magistrato condannandolo a' tormenti della tortura per indurlo a confessare, punisce dunque un silenzio in lui che il reo non potrebbe violare, senza violare la legge della natura che l’obbliga a tacere; egli vuole che commetta due delitti, quando potrebbe non esser reo che di un solo.

Ecco l’aspetto nel quale ci si presenta la tortura, anche nell'ipotesi che l'infelice che vi si condanna, sia effettivamente reo del delitto del quale viene incolpato. Io ho voluto considerarlo in questo punto di vista, per mostrare che l'urgenza degl'indizi, per quanto forte possa essere, non può mai legittimare l’uso di questo esperimento, giacché il motivo pel quale vi si ricorre è da per se stesso ingiusto.

Ma si dirà: se il motivo più frequente, pel quale si dà la tortura, è per strappare dalla bocca del reo la confessione del proprio delitto, questo non è il solo, giacché la tortura si dà anche al reo convinto, quando si tratta di venire in cognizione de'    complici del delitto. In questo caso il motivo non è ingiusto. Se l'uomo non ha potuto obbligarsi col patto sociale a rivelare i proprii delitti, ha potuto però obbligarsi colla società di concorrere con tutti gli altri suoi individui alla conservazione dell'ordine pubblico, ed a somministrare al governo tutti que’ mezzi che possono contribuirvi.

La scoverta de'    complici essendo una parte di questa generica obbligazione e non essendovi alcuna legge anteriore della natura che possa renderla nulla, può dunque divenire un dovere dalla parte del reo convinto, dal quale si cerca, ed un diritto dalla parte del magistrato che la richiede.

Questa conseguenza è giusta; ma essa non può essere una ragione in favore della tortura. Io credo che il magistrato, il quale non ha il diritto di cercare dal reo non convinto la confessione del proprio delitto, abbia però quello di pretendere dal reo convinto la scoverta de'    complici; ma ciò non proverà altro che l’oggetto pel quale'si dà in questo caso la tortura, sia fondato sopra un diritto; ma non per questo se ne potrà dedurre che sia giusto ed opportuno il mezzo col quale si cerca di conseguirlo.

Una delle due: o il reo ò disposto a svelare i complici del delitto, o è determinato di nasconderli. Nel primo caso la tortura è inutile, perché alla semplice interrogazione del giudice, egli li paleserà. Nel secondo caso poi essa è perniciosa; poiché se ha risoluto di occultarli, o reggerà a’ tormenti della tortura; ed allora la legge che ve lo condanna, fa un male privato senza ricavarne alcun bene pubblico; o, per liberarsi da' tormenti, invece di nominare i veri complici, egli nominerà altri che non hanno avuta parte alcuna al delitto; ed allora la legge espone la tranquillità dell'innocente ad esser turbata dall'assertiva di un uomo che ha perduto il diritto alla sua confidenza. Colui che non ha più che sperare sulla sua vita, dice il giureconsulto Paulo, non dee mettere in pericolo quella degli altri. (1)

Io potrei aggiungere a queste riflessioni sulla tortura data per la scoperta de'    complici molte altre osservazioni che non ne dimostrerebbero meno l’inutilità e l’ingiustizia; ma non voglio tanto dilungarmi su quest’oggetto. Ritorniamo alla tortura che si dà per ottenere la confessione del reo che, come si è detto, è il motivo più frequente, pel quale si ricorre a questo attentato, e paragoniamola co' giudizii di Dio de'    tempi barbari. Che si perdoni una maniera di scrivere alquanto scolastica in questo esame. Io soffro forse più del lettore nello sviluppare in questa maniera le mie idee; ma il dovere di uno scrittore è di sacrificare, sempre che si deve, il bello all'utile.

Se si considera la tortura come criterio di verità, si troverà cosi fallace, così assurda, come lo erano i giudizii di Dio. La disposizione fisica del corpo determina così in quella, come in questi l'esito della prova. Nell'una e negli altri l’innocente può esser condannato, e il vero reo assoluto, nell'una e negli altri ciò che determina la verità, non ha alcun rapporto con essa; ma la prima differenza notabile è fondata nella pubblica confidenza, nella pubblica prevenzione. La superstizione e l’ignoranza dei tempi, ne' quali erano in vigore i Giudizii di Dio, facevano credere, come si è veduto, infallibili questi esperimenti; e i progressi delle cognizioni, i lumi del secolo, le libere istruzioni de'    filosofi hanno oggi persuaso anche il volgo che la tortura è la prova della robustezza del corpo e non della verità; che l’innocente, ma debole, vien condotto alla morte da questo assurdo criterio; che il delinquente, ma robusto, resta sicuramente impunito sotto gli auspicii di una pratica cosi fallace. La legge istessa concorre a sostenere questa opinione.(1)In due metodi dunque ugualmente assurdi per indagare la verità, si trova nulladimeno questa gran differenza; i nostri padri confidavano nel loro, e noi diffidiamo nel nostro. Nella perdita comune della reale sicurezza, essi avevano almeno l’opinione di questa sicurezza che noi abbiam perduta. La civile libertà fondata non solo nella sicurezza, ma anche nell’opinione di questa sicurezza, era dunque allora in parte distrutta, ed in parte favorita da' giudizi dì Dio; ma oggi essa è in tutte e due le sue parti rovesciala dalla tortura.

Da questo stesso principio ne deriva un’altra gran differenza.

Presso i nostri barbari padri l'uomo che restava superiore nel combattimento, o in qualunque altro giudiziario esperimento, non solo veniva assoluto dal Magistrato, ma veniva anche assoluto dalla pubblica opinione. L’infallibilità che questa attribuiva a' Giudizii di Dio, distruggeva interamente quell'infamia che cado sopra un uomo chiamato in giudizio per un inmante delitto. Egli riacquistava il suo onore nel momento istesso che ricuperava la sua libertà. Il dubitare della sua innocenza era un peccato agli occhi del credulo. guerriero che vedeva nel esito dell’esperimento l’infallibile giudizio della divinità. Non avviene però l’istesso tra noi.

I nostri giureconsulti poco filosofi han creduto che si appartenesse alla legge il distruggere o il determinare l’infamia: ma, se essi avessero consultata la ragione e l’esperienza, avrebbero veduto che l’infamia non può esser regolata che dalla pubblica opinione; che se colui che non è infame per diritto, lo è nell’opinione del popolo, il favore della legge non lo garantisce dal pubblico disprezzo; che l’infamia legale, se non è ratificala dalla opinione pubblica, è assolutamente nulla; e che della maniera istessa quando la legge assolve uno dall’infamia, quest’assoluzione non ha alcun vigore, se non è combinata colla maniera di pensare della più gran parte degli uomini.(1)Questo falso principio dei nostri giureconsulti ha fatto loro credere che la tortura serviva per togliere l’infamia dell'accusa, come la toglievano i giudizii di Dio in altri tempi.

Ma essi dovrebbero vedere che l’opinione pubblica allora era persuasa che colui che restava vittorioso nell'esperimento, era senza dubbio innocente, e che l’istessa opinione pubblica è oggi persuasa, che colui che ha saputo reggere nella negativa tra' tormenti della tortura, è forse uno scellerato che ha il corpo indurito come il cuore, e che non dee riacquistare la sua confidenza dopo un giudizio così poco esatto.

Se l'infelice dunque che si espone a questo atroce esperimento, è innocente e sostiene anche tra' tormenti la sua innocenza, non riacquista oggi, come riacquistava allora, il suo onore e la pubblica confidenza, anzi all’infamia del delitto si unisce in lui l’infamia che nasce dalla prova istessa.

A questi due mali di più che s’incontrano nell'uso della tortura paragonata a' giudizii di Dio de'    tempi barbari, se ne aggiunge un altro. I giudizii di Dio non uscivano dalla classe degli esperimenti. La libertà che aveva l’accusato di farvi esporre un altro in suo nome, mostra chiaramente che questo era uno esperimento che si faceva, e non una pena che s’intimava. .

La tortura al contrario è un esperimento che si fa per vedere se l’accusalo sia effettivamente reo, ed è nel tempo stesso una pena tormentosa ed infamante che si dà ad un uomo nel mentre che ancora si dubita se sia reo, o innocente. Ne’ giudizii di Dio dunque si cercava la verità in un esperimento incerto; e nella tortura non solo si cerca la verità in un esperimento ugualmente incerto, ma si punisce nel tempo stesso il reo, prima di scoprirsi il delinquente.

Più: la natura de'    giudizii di Dio era tale, che l’uomo che restava assoluto nell’esperimento, conservar poteva con tutte le prerogative del suo onore le fisiche facoltà del suo corpo. Egli poteva difendere la patria in tempo di guerra e alimentarla in tempo di pace. Egli poteva coltivar la terra; o esercitare qualunque arte, giacché niuno de'    muscoli del suo corpo aveva ricevuta un’alterazione che lo privasse di una parte della sua forza e della sua attività. Non avviene però l’istesso nella tortura. Lo slogamento delle ossa, lo sfibramento de'    muscoli, l'atroce stiratura de'    nervi sono mali che non si riparano mai interamente. Essi lasciano una debolezza ed una torpedine dolorosa nelle braccia di colui che l’ha sofferti che lo rendono per tutto il tempo della sua vita inabile a qualunque arte o mestiere che richiegga una certa forza ed una certa destrezza. La sua patria perde un cittadino utile, e la sua famiglia è privata dell'istrumento unico della sua sussistenza. La legge distende sullo Stato e su' figli gli effetti funesti della sua ingiustizia e della sua ferocia.

Questo male che produce un’altra differenza notabile tra' giudizii di Dio e la tortura, questo male che sovrasta ugualmente all'innocente ed al reo, quando vengono condannati alla tortura, non produce l’istesso effetto nell'uno e nell'altro. Il primo avrà sempre un motivo di più di confessare il delitto che non ha commesso, ed il secondo un mezzo di più per evitar la pena che viene prescritta pel delitto che ha commesso.

La coscienza dell’innocenza, o del reato che presso i nostri barbari padri faceva andare con tanta fiducia l’innocente, e con tanto timore il delinquente all'esperimento; questa coscienza che parlando all'immaginazione, dava allora effettivamente tanto vantaggio all'innocente sul reo; questa coscienza istessa è quella che oggi produce un effetto opposto; è quella che oggi dà un vantaggio al reo sull'innocente; è quella che può più di ogni altro contribuire a condurre l’innocente alla morte, e il delinquente all’impunità. L’innocente conscio della sua innocenza avrà sempre la lusinga, la speranza che questa si scoprirà malgrado la sua confessione. Per quanto debole sia questa speranza, essa diventerà potentissima accanto de'    tormenti e degli strazii della tortura. L'uomo è costantemente inclinato a preferire un più gran male, ma incerto, ad un minor male, ma certo Questa regola ha luogo più di ogni altro ne' dolori fisici. L’innocente dunque preferirà spesso la confessione alla tortura, perché questa lo sottopone ad un male sicuro, e quella l'espone ad un male incerto. Il delinquente al contrario che non può avere questa speranza; il delinquente ch'è sicuro della morte che gli sovrasta confessando il delitto, ha un urto di meno per confessare, ed un motivo di più per negare. Egli sa che uno sforzo di pochi momenti lo garantisce dalla morte; egli sa che dopo aver sostenuta la sua innocenza fra' tormenti, qualunque prova che si possa posteriormente addurre contro di lui, sarà inefficace a condurlo alla morte; egli troverà dunque nella tortura istessa l’istrumento della sua impunità; nel mentre che l’innocente vi troverà il carnefice che lo conduce alla morte.

Finalmente se l’innocente che soccombeva all’esperimento ne' giudizii di Dio, veniva condannato alla morte, egli non aveva alcuna parte a questa ingiustizia. La legge era quella che l’aveva costretto ad esporsi al cimento, la legge era quella che dalla sua perdita deduceva la sua condanna. Egli non doveva tradir la verità, confessando un delitto che non aveva commesso. Ma nella tortura la perfidia della legge giunge anche a mescolare nella sua ingiustizia l’infelice innocente che vi soccombe. Se la meccanica espressione del dolore costringe questo infelice a confessare il delitto che non ha commesso, egli dee ratificare quindi con giuramento questa mendace confessione, allorché è fuori del tormento, e se lo spavento di soggiacere di nuovo agii stessi spasimi, l’induce a prestarsi a questo sacrilego giuramento come tante volte è avvenuto, allora l’uomo che prima della tortura non era reo di alcun delitto, lo diviene realmente dopo i tormenti, ed al rancore di una non meritata condanna egli deve unire i rimorsi della menzogna, dello spergiuro e del suicidio che ha commesso.

Queste sono le conseguenze di un sistema che da tutti vien condannato, ma che conserva nulla di meno il suo vigore in molti tribunali dell'Europa. Se paragonandolo coll'invenzione più strana, più assurda che si sia mai potuta ideare, qual’era quella de'    giudizii di Dio de'    tempi barbari, noi l’abbiamo trovato anche più feroce, più ingiusto, più erroneo di quella; se a fronte della tortura i combattimenti giudiziarii e tutte le altre volgari purgazioni, ci son comparse più ragionevoli, meno ingiuste e meno perniciose; se in questo parallelo la giurisprudenza de'    nostri barbari padri ci è sembrata molto meno difettosa ed assurda di quella che oggi regna in una parte della colta Europa, che ci resta a far altro che a piangere sulla disgrazia di quelle nazioni, nelle quali i lumi del secolo dissipando le tenebre che nascondevano al popolo le sue sciagure, non han fatto altro che rendergli più sensibile e più spaventevole lo spettacolo de'    mali che lo circondano, delle violenze che gli sovrastano, de'    ricchi a' quali è esposta la sua libertà, il suo onore, la sua esistenza? Infelice quel paese ove il volgo ha le cognizioni del legislatore, ed il legislatore quelle del volgo.

Dopo questa funesta dipintura degli errori e delle contradizioni, dalle quali è ingombrata quella parte dell'antica e della moderna giurisprudenza che riguarda il criterio della verità ne' criminali giudizii, conviene oramai proporre il nuovo piano che si dovrebbe sostituire all'antico. La difficoltà di questa intrapresa deriva da' due estremi che debbonsi con egual diligenza scansare, e la posizione de'    quali è tale, ch'è molto difficile di allontanarsi dall’uno, senza avvicinarsi all’altro. L'impunità del delinquente, e la condanna dell'innocente sono questi due estremi che la scienza della legislazione ci offre a superare nella difficile teoria delle prove giudiziarie. Niun oggetto di quest'opera mi è costato tante meditazioni e tanti esami. In niun oggetto l’incertezza e il timore hanno tanto accompagnate ile mie ricerche, quanto in questo; in niuna parte della legislazione la correzione mi è sembrata più difficile. Per rendere il Lettore giudice delle mie idee, bisogna che gli mostri i fondamenti su' quali saranno appoggiate.


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CAPO XII

Principii fondamentali, da' quali dee dipendere la teoria delle prove giudiziarie

È un principio universalmente ricevuto quello che stabilisce, che per condannare un cittadino ad una pena, vi sia bisogno di una certezza morale ch'egli abbia violata la legge, ch’egli abbia commesso quel delitto, contro il quale la legge ha stabilita quella pena. Senza questa moral certezza la condanna sarà sempre un’ingiustizia, l’esecuzione una violenza. Tutt’i juspubblicisti convengono in questo principio, e così l'antica, come la moderna giurisprudenza l’ha adottato. Ma, io domando, si è mai determinata la vera idea della certezza morale; si sono mai sviluppati i generali principii che ne derivano: si è mai applicata con tutta la precisione che conveniva, questa teoria a quella delle prove giudiziarie; si sono mai fissati i veri canoni che regolar dovrebbero l’operazione più semplice dell’intelletto, quale è quella di esaminare la verità di un fatto, resa oggi la più difficile per la stranezza delle leggi e per i vizi mostruosi di una pratica anche più funesta delle leggi? Quelle poche riflessioni che si son premesse sugli errori dell’antica e della moderna legislazione, riguardo a quest’oggetto, bastano per mostrarci la necessita che vi è di prendere una nuova direzione, per riuscire in questa difficile intrapresa. Cominciamo dunque dal determinare con precisione cosa debba intendersi per certezza morale, e quali sieno i principii generali che ne derivano, Questa sarà la base, sulla quale deve innalzarsi tutto l'edificio. Procuriamo dunque di renderla, quanto più si può, stabile e piana.


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CAPO XIII

Della certezza morale

I volgari metafisici ci han data un idea erronea della certezza, e da questa idea ne han dedotti risultati anche più erronei, per aver voluto confondere i rapporti delle cose. Essi han cercata la certezza nella proposizione, quando questa non doveva cercarsi che nell'animo dell'uomo. Per questo essi han confusa la certezza morale e la certezza fisica colla probabilità; per questo essi non hanno attribuito il nome di certezza assoluta che alla sola certezza metafisica. La definizione che io ne darò, svilupperà meglio quest'idea.

La certezza, in generale, non è altro che lo stato dell’animo sicuro della verità di una proposizione. Io veggo dunque nella certezza una passione dell’animo indipendente dalla verità o falsità assoluta della proposizione, sulla quale essa cade. Io posso in fatti creder vera una proposizione che di sua natura è falsa, e questa credenza può essere in me una certezza. Io posso anche esser certo di una proposizione, della quale un altro dubita, e posso dubitare di quella, della quale un altro è certo. Quanto volte la certezza è caduta sull'errore e il dubbio sulla verità! L’istoria della filosofia non è altro che l’istoria di simili fenomeni. Non confondiamo dunque le idee le più distinte tra loro. La verità o la falsità è nella proposizione; la certezza, l'incertezza il dubbio, è unicamente nell'animo. Un esempio rischiarerà meglio queste idee.

Supponiamo che un geometra meditando sulle sezioni del cono di Apollonio faccia la scoperta di una nuova proposizione, e supponiamo che questa nuova proposizione sia erronea. Un equivoco che non si manifesta a' suoi occhi fa che cada a terra tutta la sua dimostrazione. In questa ipotesi, se prima di avvertire il geometra del suo errore, gli si domandasse, s’egli sia certo della verità della sua proposizione, e di qual natura sia questa sua certezza, quale sarebbe la sua risposta? Egli risponderebbe senza dubbio, ch'è tanto certo della verità della sua proposizione, quanto è certo che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due retti; e che se questa è una certezza metafisica, quella che ha per oggetto la proposizione da lui scoperta, lo sarà ugualmente. Or supponiamo che questo stesso geometra, dopo essere stato in questa metafisica certezza per qualche tempo, avvertito da un altro geometra, si ricreda del suo errore: supponiamo che l’equivoco, nel quale era caduto, si manifesti a' suoi occhi, e che vegga tutta la falsità della sua dimostrazione, da lui creduta fino a quel punto incontrastabile: in questo caso che mai avverrà? Ne avverrà che da una metafisica certezza della verità della sua proposizione passerà ad una metafisica certezza della sua falsità, senza che i gradi di questa seconda certezza sieno maggiori di quelli della prima. Noi avremo dunque nell’istesso oggetto una metafisica certezza, distrutta da un’altra metafisica certezza.

Dopo queste riflessioni, dove troveremo noi più la certezza assoluta? Chi non vede che l’idea archetipo, della certezza che i metafisici ci han data, è un’idea che si ritrova falsa subito che si vuole applicare il fatto, e che i risultati ch'essi ne deducono, si ritrovano sempre anche più falsi? Se non si trattasse di contrastare opinioni troppo universalmente ricevute, quel che io ho detto basterebbe per far comprendere le mie idee; ma dovendo superare la prevenzione contraria che incontrerò in una gran parte di coloro che leggeranno questo libro, io non debbo trascurare i mezzi che possono renderle più chiare e meno oppugnabili. Noi abbiam veduto, come una certezza metafisica può esser distrutta da un’altra certezza metafisica. Vediamo ora, come una certezza metafisica in un uomo, può essere probabilità o dubbiezza in un altro, e come in due diverse persone, e sopra due proporzioni diverse, in una la certezza metafisica sarà maggiore della certezza morale, e nell'altra la certezza morale sarà maggiore della certezza metafisica. Due esempi mostreranno evidentemente queste due verità.

Quando le proprietà della spirale non si erano ancora altrimenti dimostrate che per la strada tortuosa ed intrigata tenuta da Archimede, uno de'    migliori geometri del secolo passato non potè mai accertarsi della loro verità;(1) ed un altro ne accusò l'autore di paralogismo.(2)Le proprietà dunque della spirale che Archimede aveva ritrovate, e che per lui erano metafisicamente certe, come qualunque altra proprietà di qualunque altra curva, erano semplicemente probabili per un altro Geometra, ed erano più che dubbie, più che incerte e forse anche credute false da un altro. Sull’istesso oggetto dunque la certezza metafisica di un uomo, può essere probabilità, o dubbio in un altro. Vediamo ora come in due proposizioni diverse la certezza metafisica in uno può essere maggiore della certezza morale; ed in un altro la certezza morale può esser maggiore della certezza metafisica.

È una certezza metafisica, secondo l’idea comune che si ha della certezza che ne' triangoli rettangoli il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma de'    quadrati che si fanno ne' cateti; ed è una certezza inopie che Cesare conquistò le Gallie. Si domanda: quale di queste due proposizioni sarà più certa per un uomo? Io rispondo che per un geometra sarà più certa la prima, e per un filologo la seconda. Manca al geometra la cognizione intera di tutti que’ monumenti che attestano la conquista di Cesare; e manca al filologo la cognizione intera di tutti que’ principi!, di tutte quelle proposizioni, di tutti que’ raziocinii che dimostrano l'uguaglianza del quadrato dell'ipotenusa co' quadrati de'    cateti, o se ha la cognizione di tutte queste cose, egli non ha l’uso di combinarle con tanta franchezza, quanta se ne richiede per vederne tutti i rapporti, tutti i resultati. Nella certezza dunque non vi è niente di assoluto; tutto in essa è relativo: e i gradi di maggiore o minore certezza cosi di due uomini sull'istessa proposizione, come di un istesso uomo sopra due proposizioni diverse, non si possono ritrovare che nella disposizione dell’animo di colui che l'ha.

Stabilita la vera idea della certezza in generale, vi vuol molto poco a determinare quella della certezza morale. I metafisici, come si è osservato, distinguono tre diverse specie di certezze, l'una metafisica, l'altra fisica, e l'altra morale. Essi, come si è detto, non trovano la certezza assoluta che nella prima; nella seconda trovano una grandissima probabilità, ma non una certezza assoluta; nella terza finalmente trovano anche una gran probabilità, ma minore di quella che ritrovano nella seconda.(1)

Secondo questa ripartizione dunque la certezza morale è l'infima, la fisica è la media, la metafisica è l’ottima. Ma se essi avessero determinata la vera idea della certezza, se essi l'avessero guardata da quel punto di vista, dal quale è stata da noi definita; se avessero veduto che la certezza è nell'animo; e non nella proposizione, avrebbero conosciuta la insussistenza di questa distinzione di gerarchie; avrebbero veduto che per un uomo di bnon senso, la certezza dell’esistenza di Roma (che per colui che non vi è mai stato, è una certezza morale), è ugualmente forte, di qualunque certezza metafisica, e si sarebbero finalmente contentati di distinguere con questi tre diversi nomi di certezze, non per il loro relativo valore, il quale è unicamente dipendente dalle disposizioni dell'animo di colui che l’ha; ma per la diversa natura delle proposizioni, sulle quali può cadere la certezza istessa. Per non urtare dunque nell’istesso errore, noi non distingueremo queste tre specie di certezze che dalla natura della proposizione, sulla quale si determina la certezza. Se la proposizione, sulla quale cade la mia certezza, contiene il rapporto d’idee puramente astratte, la certezza si chiamerà metafisica; se contiene il rapporto d'idee puramente sensibili, la certezza si chiamerà fisica; se contiene finalmente il rapporto d’idee morali, e di fatto; come sarebbe, per esempio, il valore delle testimonianze, degl'indizj, dei monumenti ecc., allora la certezza si chiamerà morale o pure istorica. Lasciando dunque le altre due che non interessano il mio argomento, per dare una definizione particolare della certezza morale, senza allontanarci dall'idea generale della certezza; noi potremmo dire che la certezza morale non è altro che lo stato dell'animo sicuro della verità di una proposizione che riguarda l'esistenza di un fatto che non è passato sotto i nostri occhi.

L’idea dunque della certezza morale non è altra che quella che si è data della certezza in generale, applicata alle proposizioni di fatto. Tutto quello dunque che si è detto della certezza in generale, si può applicare alla certezza morale. Questa, come ogni altra certezza, non è dunque nella proposizione, ma nell’animo. Un uomo dunque può esser certo della verità di un fatto ch'è falso: egli può dubitare di un fatto ch'è vero; egli può esser certo di un fatto del quale un altro dubita; egli può dubitare di quello, del quale un altro è certo. Combiniamo queste riflessioni col principio che si è premesso che per condannare un uomo ad una pena, vi è bisogno di una certezza morale ch'egli abbia violala la legge e vediamo quali siano i resultati che la scienza della legislazione dee dedurne.


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CAPO XIV

Risultati de'    principii che si sono premessi

Se per condannare. un uomo ad una pena vi è bisogno di una certezza morale ch’egli abbia violata la legge; privo di questa moral certezza il giudice, checche ne dicano i moralisti, o per meglio dire i casuisti, non può dunque, senza violare i doveri del suo ministero, senza offendere la giustizia, senza tradire la sua coscienza, condannare come reo l’accusato.

Ma questa moral certezza del giudice deve essa bastare? Se questa, come si è dimostrato, non è nella proposizione, ma nell'animo di colui ch'è certo; se questa dipende dalle disposizioni di colui che giudica; se quello che basta per render certo uno della verità di un fatto, non basta per un altro; se una buona, o una cattiva digestione può render un uomo più o meno credulo; se una prevenzione favorevole può rendere infallibile per un giudice l'assertiva di un uomo, della quale un altro non farebbe alcun conto; se la civile libertà non dee permettere che un giudice possa impunemente condannare un innocente, e se questo sarebbe il mezzo più efficace per lasciargli un illimitato ed impunibile arbitrio sulla vita, l’onore e la libertà del cittadino; se il legislatore dee cercare che il voto pubblico accompagni quanto più si può, il giudizio de'    giudici; se tutto questo, in una parola, renderebbe perniciosissima l'autorità del giudice; quando la sola sua moral certezza potesse bastare per determinare la verità di un fatto: è dunque necessario che la scienza della legislazione trovi un temperamento a quest’autorità, atto a prevenire si pericolosi disordini. Il temperamento che io propongo, mi pare il più semplice; questo sarebbe il combinare la certezza morale del giudice colla norma prescritta dal legislatore, cioè a dire, col criterio legale.

Io mi spiego. Alcuni canoni di giudicatura dovrebbero entrare nel Codice criminale della nazione. Questi canoni dovrebbero contenere le prove legali, senza delle quali la legge non dovrebbe giammai supporre ben provato il delitto. Determinate queste prove, il legislatore dovrebbe stabilire che i giudici destinati ad esaminare la verità dell’accusa, avessero tre risposte da dare: l'accusa è vera; l’accusa è falsa, l’accusa è incerta; (1) e ciaschedun giudice dovrebbe sottoscriverla col proprio nome.

La prima produr dovrebbe la condanna del reo alla pena stabilita dalla legge; la seconda dovrebbe produrre l’intera assoluzione; la terza, la sola sospensione del giudizio, la quale, lasciando sempre sub judice l’accusato, non dovrebbe privarlo della sua personale libertà. Fatto tutto questo, si dovrebbe venire alla distinzione de'    casi, ne' quali dovrebbe aver luogo ciascuna di queste risposte o decisioni.

Si dovrebbe dunque stabilire che per dichiarar vera l’accusa, bisognerebbe che la certezza morale del giudice fosse unita al criterio legale; che per dichiararla falsa, dovrebbe mancare e l'una, e l'altro; e per dichiararla incerta, bisognerebbe che vi fosse una soltanto delle due cose in favore dell’accusa, vale a dire, ell'essendovi la certezza morale del giudice, mancassero le prove legali stabilite dalla legge, o essendovi le prove legali, mancasse la moral certezza del giudice. Che ne deriverebbe da questo?

Il giudice non avrebbe l'arbitrio illimitato né di condannare, né di assolvere, giacché non basterebbe la sua moral certezza né per condannare, né per assolvere; egli non sarebbe neppure nella barbara coazione di tradire la sua coscienza col dichiarar vera l’accusa, perché accompagnata dalle giuridiche prove, quando, malgrado tutto questo, egli avesse ragioni da dubitare della sua verità; la legge sarebbe un freno all'arbitrio de'    giudici, e la coscienza de'    giudici un rimedio alla necessaria imperfezione della legge. L una e l’altra da se sola avrebbe bastante forza per garantire l’innocenza; ma né l'una, né l’altra avrebbero bastante forza per opprimerla. Per fare che un innocente fosse condannato, bisognerebbe che si combinasse contro di lui l’esistenza delle prove legali, coll’errore, o colla malvagità de'    giudici. Il legislatore sarebbe dispensato da quegl'infiniti dettagli nel determinare il criterio legale, dettagli che destinati a frenare l’arbitrio del giudice, lo hanno oggi renduto molto più esteso. Finalmente il giudice il più corrotto, volendosi discostare dal criterio legale nel giudizio di un fatto criminoso, altro abuso non potrebbe impunemente fare della sua autorità, se non quello di lasciar sospesa l'accusa, dichiarandola incerta, arbitrio che non potrebbe produrre che il minimo de'    mali, qual è quello di lasciar sub judice un innocente, o di rimettere nella società un delinquente, il quale per altro, conscio del suo reato, abbandonerebbe ben presto la sua patria che più non gli offrirebbe un tranquillo soggiorno. (1)Se si paragona questo tenuissimo inconveniente, non dico con tutti quelli che dipendono dal sistema giudiziario che regna oggi nella più gran parte dell’Europa, ma con quello soltanto che dà a'. giudici il diritto d’infliggere una pena arbitraria nel difetto della pienezza della prova, si troverà quanto sia preferibile il nuovo piano all'antico.

Ma questo piano sarebbe imperfetto e mancante; io non avrei sostituito all’antico edificio che ho gittato a terra che un informe tugurio; io non avrei innalzato sopra una gran base che una piccolissima, e quasi invisibile colonna, se lasciassi di determinare le seguenti cose: 1° I canoni di giudicatura che determinar dovrebbero il criterio legale; 2° La ripartizione delle giudiziarie funzioni, e la condizione, il numero e le qualità che si dovrebbero cercare ne' giudici del fatto; 3° La solennità che dovrebbero accompagnare il lo£o giudizio; 4 L’ordine che si dovrebbe serbare nel proporre ad essi lo stato della questione, e la persona che dovrebbe essere incaricata di questa funzione; 5° Come dovrebbe regolarsi la difesa dell'accusato; 6 Con qual ordine si dovrebbe da essi procedere alla decisione; 7° L’effetto che dovrebbe produrre il loro giudizio. Ecco ciò che anderemo ordinatamente sviluppando ne' seguenti Capi.

In prego intanto il lettore di sospendere il giudizio delle mie idee, finché non ne vedrà l’intero sviluppo. Io sono costretto ad abbandonarmi di continuo ad alcune digressioni, senza delle quali io non potrei difendere il mio piano dalle opposizioni che gli verrebbero fatte; ma il lettore vedrà finalmente come tutti questi fili anderanno ad unirsi in un punto, e come ogni suo dubbio anderà a svanire a misura che s’innoltrerà in questa lettura.


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CAPO XV

Canoni di giudicatura che determinar dovrebbero il Criterio Legale

Prima di esporre questi canoni è giusto che io mostri a colui che legge, il principio dal quale debbono dipendere. Questo principio è semplicissimo: L'interesse che ha la società nel garantire l'innocenza, combinato coll'interesse che ha di non lasciare impuniti i delitti. Per isviluppare questo principio, dal quale dee dipendere il gran sistema delle prove legali, supponiamo di vedere nella persona del legislatore un diligente e virtuoso padre di famiglia. Costui tutto intento alla conservazione, ed alla prosperità de'    suoi figli, non trascura mezzo alcuno per lasciar loro quel patrimonio ch'egli ha ereditato da' suoi maggiori, aumentato dalla sua instancabile diligenza. Una speculazione, accompagnata da' calcoli più minuti, l’induce a convertire in danaro contante tutt'i suoi averi, per impiegare questa somma in un negoziato che dee necessariamente in poco tempo raddoppiarne il valore. Egli vende dunque tutti i suoi fondi e comincia a disporre i preparativi del suo negoziato. Prende tutte le misure possibili, per ottenere che questo sia accompagnato dalla massima sicurezza; e finché non vegga di esser al coverto di qualunque rischio, egli si contenta piuttosto di lasciare in ozio il suo numerario, giacche dalla perdita di questo dipenderebbe la totale rovina della sua famiglia. Nel mentre ch'egli sta prendendo tutte queste misure, si dichiara la guerra tra la nazione confinante e la sua. Per sua disgrazia, il suo paese è limitrofo, ed è poco fortificato. Questo deve essere il primo teatro della guerra e i suoi abitatori le prime vittime di questo flagello. Egli prevede che l’ingresso dell'inimico sarà seguito dal saccheggiamento, e che ritenendo ancora presso di se il suo danaro, questo diverrebbe il bottino del primo guerriero che penetrerebbe nella sua casa.

In queste circostanze, egli depone i suoi dubbi sul negoziato; si contenta di quella parte di sicurezza, di cui prima non era contento; e spaventato da' nuovi rischi, a' quali si esporrebbe ritenendolo, impiega il suo danaro e crede di non dover andare più in cerca di tutte «quelle cauzioni, senza delle quali non si sarebbe in tempo di pace determinato a questa intrapresa. Egli giustifica la sua condotta innanzi agli individui della sua famiglia.

Miei figli, egli dice loro, voi sarete sorpresi da' rischi a' quali io ho esposta la vostra sussistenza. Per aumentare il patrimonio de'    miei e de'    vostri maggiori, io ho venduti quei fondi che non offrivano che un campo troppo ristretto alle mie ed alle vostre speranze. Le mie paterne cure si erano determinate ad impiegare queste somme in un negoziato che avesse combinato un gran profitto colla massima sicurezza.

Io era risoluto a ritenerle oziose piuttosto ch'esporle al minimo rischio. Mi restavano ancora molti passi da fare, e molte misure da prendere per ottenere questa perfetta sicurezza, quando la fatale dichiarazione della guerra pervenne a mia notizia. In quel momento io calcolai subito i rischi che vi erano nel ritenere queste somme presso di me, e vidi che dove prima la sola speranza di un gran profitto non doveva bastare a rendermi soddisfatto di quella parte di sicurezza che io aveva, da quel momento il motivo istesso della conservazione delle vostre sostanze, doveva indurmi a sacrificare una parte di sicurezza da un lato, per ottenerne una molto maggiore dall'altro.

Ecco ciò che dovrebbe anche dire al suo popolo il legislatore. Cittadini, se nel determinare le giuridiche prove non si trattasse che di garantire l’innocenza da' rischi del giudizio, ogni prova, per forte ch’ella fosse, sembrerebbe debole agli occhi miei; ed io dubiterei dell’evidenza istessa. L’orrendo spettacolo di un’innocente vittima della frode e della calunnia, condotta al patibolo dalla mano istessa della giustizia, funesterebbe tanto la mia immaginazione che trovar non saprei una prova bastevole per condannare come reo un accusato. Far dipendere la vostra vita, la vostra libertà, il vostro onore dall'assertiva di due testimoni idonei che dicono di aver veduto commettere il delitto, sembrerebbe agli occhi miei un attentato contro quella sicurezza, e quella tranquillità che dev’essere il primo scopo delle leggi, e il primo beneficio della società. Io non crederei di poter fare abuso maggiore dell’autorità che voi mi avete [affidata che impiegandola a dettare leggi cosi funeste. Ma rivolgete ora la medaglia, ed osservatene il rovescio. Che ne sarebbe della società, se i delitti rimanessero impuniti? A che gioverebbe il garantire l’innocenza dagli errori de'    giudizii, quando si lasciasse esposta a tutt'i pericoli che porterebbe seco l’impunità, conseguenza necessaria del troppo ricercato valore delle prove? L’impossibilità quasi assoluta d’incontrare tutte quelle prove che renderebbero agli occhi miei infallibile il giudizio, non moltiplicherebbe forse fino all’infinito il numero degli omicidi, degli assassini, de'    ladri, in una parola, di tutti quegli uomini che il solo timore della pena può distogliere da' delitti? La mia soverchia delicatezza non convertirebbe forse le città in tanti boschi orribili, e le pubbliche piazze in tanti campi di battaglia, dove l’inimico può uccidere e turbare a man salva l’inimico, ed abusare di tutt'i vantaggi della destrezza, della forza e della ferocia? Quali funeste conseguenze non deriverebbero da questo malinteso principio di giustizia e di umanità? Le leggi, private della loro sanzione, sarebbero piuttosto i consigli di un moralista che gl'imperiosi decreti della pubblica autorità. Sicuri al cospetto del giudice, voi tremereste al cospetto d'un vostro concittadino. Cinque gradi di più di sicurezza ne' giudizii vi costerebbero cento gradi di meno di sicurezza nella società.

Giacché dunque una perfezione assoluta non è compatibile colle umane istituzioni; giacché il vantaggio di vivere in società si dee da voi comprare non solo col sacrificio di una parte della vostra libertà naturale, ma anche col sacrificio più spaventevole d'una piccola porzione della vostra personale sicurezza; giacché questa piccola porzione di sicurezza che voi sacrificate ne giudizii, è assolutamente necessaria per farvi ottenere la somma sicurezza nella società; giacché vi è un termine, dove la prudenza umana fa d'uopo che si fermi, come vi è un momento, nel quale il sacrificio di quella piccola parte di sicurezza di un particolare cittadino deve eseguirsi e nel quale la legge deve abbandonarlo al giudizio di alcune persone, e ad una decisione fino ad un certo punto arbitraria: posto questo, tutto quello dunque che voi potete esigere da me, e tutto quello che io sono nell’obbligo di concedervi nel fissare quei canoni di giudicatura che determinar debbono il criterio legale, non dovrà dunque in altro raggirarsi che nel ritrovar quel termine, dove convien che la legge si fermi; e di ottenere che questo sia precisamente in quel punto che lasci all'innocente la maggiore possibile fiducia di non essere condannato, ed al delinquente la minoro possibile speranza di rimanere impunito.

Sviluppato in questa maniera il principio dal quale debbono dipendere i seguenti canoni, io prego colui che legge, di esaminarli sotto questo punto di veduta. (Si avverta che siccome io ho detto che questi canoni dovrebbero entrare nel Codice criminale, nell'esporgli, io prenderò il linguaggio del Legislatore. Si avverta anche che quando io in questi canoni dirò, questa è una prova legale, intendo con quest'espressione dinotare quella prova che i nostri forensi chiaman piena, vale a dire quella, della quale, secondo il mio piano, la legge è contenta per la condanna del reo; purché si combini colla moral certezza de'    giudici).

Canoni di giudicatura per le prove testimoniali.

Can. 1. Ogni uomo che non sia né stupido, né matto;’ ogni uomo che abbia una certa connessione nelle proprie idee, e le cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini, può esser testimonio idoneo, purché non abbia interesse di alterare o di tradire il vero.(1)

Can. 2. Noi non determiniamo né l’età, né il sesso, né la condizione: noi lasciamo a' giudici il decidere della credibilità di ciaschedun testimonio, co' principii dell’antecedente canone.

Questo giudizio, come quello dell'esistenza di ogni altra prova legale, precederà sempre quello del fatto.(1)

Can. 3. Un solo testimonio non sarà mai bastante a formare da se solo una prova legale.(2)

Can. 4. La diretta testimonianza del reo contro se medesimo, non avrà mai alcun valore legale. Egli non dee parlare che per difendersi. Tutto quello che può dire contro di sè, non deve avere alcun vigore.(3)

Can. 5. Due testimoni di veduta, che attestano uniformemente un fatto, bastano per formare una prova legale.

Can. 6. Siccome vi è una gran differenza tra i fatti e i detti, così vi sarà anche una gran differenza tra le testimonianze contro i fatti, e le testimonianze contro i detti. Nei primi il testimonio deve aver veduto, ne' secondi deve avere inteso e veduto. Egli non dovrà solo riferire le parole, ma il tuono, il gesto che le ha accompagnate, e l’occasione per la quale si sono proferite.(1)L’uniformità ne' due testimoni, non dee solo raggirarsi nelle parole ch'essi hanno intese, ma anche in quelle circostanze che possono alterarne o modificarne il significato. Allora quest'uniformità sarà una prova legale..

Can. 7. Le testimonianze su i detti non faran mai una prova legale contro i delitti di fatto. (2)

Can. 8. Il testimonio, prima di essere interrogato, dovrà giurare di non tradire il vero. Colui che presiede al giudizio, gli ricorderà che la legge condanna all'istessa pena il falso testimonio, che il calunniatore. Egli farà la sua deposizione alla presenza del corpo intero de'    giudici e del reo, il quale potrà, sempre che vuole, interromperlo, altercare, e fargli quelle interrogazioni che vuole. Tutto ciò, che dall'una parte e dall'altra si dirà, sarà scritto coll'istesse parole.(3)

Can. 9. I testimoni che depongono in favore del reo, saranno ugualmente ascoltati che quei che depongono contro di lui. La loro credibilità sarà ugualmente giudicata dal corpo intero de'    giudici. L’accusatore ed il reo saran presenti alle loro deposizioni. L’istesso dritto che ha il reo di altercare co' testimoni prodotti dall’accusatore, avrà l’accusatore coi testimoni prodotti dal reo. Nell'uguaglianza delle cose, la prova testimoniale in favore del reo, distruggerà la prova testimoniale contro di lui. Questo principio avrà anche luogo nella prova indiziaria.

Can. 10. I testimoni che produce il reo, dovranno asserire un fatto, dal quale dedur si possa un argomento dell’insussistenza dell'accusa. Se essi faran testimonianza sul non fatto, la loro testimonianza sarà inutile.(1)

Can. 11. Tanto l’accusatore, quanto il reo, avranno il dritto di far comparire in giudizio i testimoni ch'essi producono. Se essi rifiuteranno di comparire, o di rispondere, saran puniti colla pena che la legge fisserà per questo delitto. (2)

Can. 12. Il giuramento si esigerà dall’accusatore, da' testimoni e da' giudici. L’accusato non sarà giammai sottoposto a questo vincolo. (3)

Canoni di giudicatura per la prova scritturaria

Can. 1. Una scrittura autentica (1)che prova immediatamente il delitto, e l'autore del delitto, colla sua propria fede ed autorità, sarà una prova legale.

Can. 2. Se la scrittura non è autentica, la confrontazione de'    caratteri non potrà da se sola costituire una prova legale.(2)

Can. 3. Se la scrittura non somministra che degli argomenti per dimostrare il fatto, vale a dire, se la scrittura non è essa istessa o il soggetto del delitto, o la diretta ed immediata manifestazione del reato,(3)malgrado la sua autenticità, essa non potrà somministrare che un indizio.

Canoni di giudicatura

per le prove indiziarie

Can. 1. Un solo indizio non farà mai una prova legale, purché non sia indizio necessario. (4)

Can. 2. Quando più indizi non fanno che provare un solo indizio; quando gli argomenti di un fatto dipendono tutti da un solo argomento; la somma di questi, per quanto numerosa essa sia, non farà mai una prova legale, giacché tutt’insieme non formano che un solo indizio, un solo argomento.

Can. 3. I fatti accessorii, che somministrano gl'indizi o gli argomenti pel fatto principale, non debbono esser provati con altri indizi, ma colla prova testimoniale.

Can. 4. Per formare una prova indiziaria noi richiediamo dunque che vi sieno più indizi; che questi sieno disgiunti tra loro, in maniera che l’uno non dipenda dall'altro; che tutti concorrano a dimostrare evidentemente il fatto principale; e che ciascheduno di essi sia poggiato sulla testimonianza di due testimoni idonei. In questo caso la prova indiziaria sarà una prova legale.(1)

Can. 5. Siccome tanto un sol testimonio di veduta che attesta il fatto principale, quanto la confronfazione de'    caratteri, coll’autorità degli esperti, non possono, in vigore degli antecedenti canoni, fare una prova legale, cosi noi stabiliamo che tanto l’uno, quanto l’altro, possono formare un indizio, il quale, unito ad altri indizi, può concorrere a somministrare una perfetta prova indiziaria.

Can. 6. La prevaricazione dell’accusatore, procurata dal reo dopo istituita l’accusa, formerà un indizio contro di lui.(1)

Can. ultimo, che avrà luogo in tutte le tre specie di prove.

In tutti i delitti che lasciano una traccia presso di loro, (2) senza l’esistenza del corpo del delitto, niuna prova potrà avere un valore legale.

Questi sono i canoni che determinar dovrebbero il criterio legale. Essi non son altro che un freno contro la stranezza, la corruttela, o l’imbecillità de'    giudici. La loro necessaria imperfezione svanisce, subito che si riflette alla loro destinazione. Si appartiene a' giudici il riparare a questa necessaria imperfezione; si appartiene ad essi il decidere se, malgrado l’esistenza della prova legale, debba il reo essere condannato, o se, malgrado il difetto della prova, debba essere interamente assoluto. Il non liquet, o sia accusa è incerta, è quel temperamento prezioso che il giudice può prendere in tutti que’ casi, ne' quali la sua moral certezza si oppone al criterio legale. Se questo utilissimo arbitrio è dunque necessario che si lasci a' giudici, vediamo quali sarebbero le precauzioni che il legislatore dovrebbe prendere, per evitarne gli abusi. La prima di queste dipende dalla buona ripartizione delle giudiziarie funzioni, e dalla scelta de'    giudici del fatto; ed eccoci giunti alla quarta parte della criminale procedura.


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CAPO XVI

Quarta parte - Della criminale procedura
Della ripartizione delle giudiziarie funzioni e della scelta de'    giudici del fatto

Dare ad un Senato permanente la facoltà di giudicare; rendere più spaventevole agli occhi del popolo il magistrato che la magistratura; affidare a poche mani un ministero, le funzioni del quale esigono più integrità che lumi, più confidenza dalla parte di colui che deve essere giudicato, che cognizioni dalla parte di colui che dee giudicare; obbligare il cittadino ad esser giudicato da certi uomini, de'    quali questo è l’unico mestiere, e che la consuetudine indura sovente piuttosto per le conseguenze de'    loro errori, che non insegni loro a preservarsene; diminuirò, o per meglio dire, rendere quasi nullo quel dritto prezioso che aver dovrebbe ogni uomo nelle gravi accuse, di escludere que’ giudici non solo che possono manifestamente essere sospetti di parzialità, ma quegli ancora che per leggerissime cause meritar non potrebbero la sua piena confidenza; fare, in una parola, di un’arte, che tutta si raggira nell’esame de'    fatti, il patrimonio esclusivo di un ristrettissimo corpo: funesto e spaventevole metodo è questo, che le nazioni, dove la libertà civile del cittadino è stata più rispettata, han giustamente abborrito, ma che il concorso di molte cause ha introdotto da gran tempo

nell’Europa, e che abolir non si potrebbe, senza correggere e riformare la legislazione istessa, la mostruosa imperfezione della quale lo rende oggi un male necessario. Le vicende della criminale giudicatura presso i Romani, ci somministrano de'    lumi molto opportuni, per illustrare quest’interessantissimo oggetto. (1)

In Roma, discacciati i re, i consoli, che sotto diversi nomi ereditata avevano una gran parte delle loro spaventevoli prerogative, conservar non potettero per lungo tempo quella che dava loro il dritto di sovranamente decidere della sorte de'    cittadini ne' criminali giudizii. Bruto, che colla sua sola autorità aveva condannati alla morte i suoi figli, e gli altri complici dell’istesso attentato, (1) aveva data una gran lezione alla sua patria, nel tempo istesso che aveva difesa la sua libertà. I Romani si avvidero quanto pericolosa fosse un’autorità, della quale per altro egli avea fatto un uso cosi prezioso. Essi videro che la mano onnipotente del console poteva opprimere l’innocenza coll'istessa facilità, colla quale oppressi aveva i vili partigiani de'    Tarquinii; che dall’istesso fonte poteva scaturire la giustizia e la violenza; e che coll’istessa autorità, colla quale si era punita la bassezza, si poteva spaventare il patriottismo e la libertà. Si pensò dunque di correggere questo vizio della nascente costituzione, e si trasferì all'assemblea del popolo l’esercizio di una prerogativa, ch'è sempre pericolosa, quando non è divisa tra molti, quando è affidata ad una magistratura molto potente, o per la durata della sua carica, o per l’estensione del suo potere. La legge Valeria diede il primo passo; le leggi delle XII Tavole diedero il secondo. Quella stabili l'appellazione al popolo dai decreti de'    consoli, che riguardavano la vita de'    cittadini; (2) e queste tolsero interamente a' consoli la cognizione delle criminali accuse. Esse stabilirono che un cittadino romano non potesse esser condannato alla morte, che ne’ grandi Stati del popolo, o sia ne' centuriati comizi; (3) e che non potesse esser condannato ad una pena pecuniaria, che ne' comizi per tribù.(4)

Nella legge si trovava la pena del delitto, e ne' comizi si discuteva della verità del fatto, (1) o si nominava dal popolo il Quesitore, che ne doveva in suo nome giudicare col criterio de'    giudici che la legge gli dava.(2)

L’ingrandimento della Repubblica, la maggior frequenza de'    delitti, gl'inconvenienti che vi erano nel convocare troppo frequentemente i comizi, i disordini che nascevano da questa viziosa riunione della facoltà legislativa coll’esecutiva, richiedevano un temperamento a questo nuovo piano, che con servar non poteva tutta la sua estensione senza produrre almeno l’impunità de'    delitti. Si vide che vi era di bisogno di alcuni tribunali fissi per gli affari criminali, come vi erano per gli affari civili. Si stabilirono dunque le Quistioni perpetue. (3) Il loro numero da principio non fu che di quattro; Silla l’estese fino ad otto, e le leggi Giulie ne accrebbero per la seconda volta il numero.(4)Ogni tribunale esercitava una questione, ed ogni questione aveva per oggetto una sola classe di delitti.(1)In ciaschedun tribunale presiedeva un pretore, ed un magistrato inferiore che chiamavasi giudice della questione, e l'uno e l'altro si mutava in ogni anno.(2)Questi due magistratinon facevano che presiedere, dirigere e preparare il giudizio. L’esame del fatto era riserbato ad alcuni giudici, la scelta de'    quali dipendeva dalla sorte e dal consenso delle parti.

La delicatezza de'    legislatori di Roma fu ammirabile riguardo a quest'oggetto. Quattrocento cinquanta cittadini di conosciuta probità venivano in ogni anno nominati dal Pretore della città, o dal Peregrino,(1)per esercitare in tutt'i tribunali le funzioni di giudice. I loro nomi erano scritti in un registro pubblico, e l'album judicum era a tutti noto. Il Pretore, ricevuta legittimamente l’accusa, gittava in un’urna i loro nomi. Alla presenza delle parti, il Giudice della questione ne tirava a sorte quel numero e la legge prescriveva per quel giudizio.(2)

L'accusatore e l’accusato rifiutavano allora quelli che essi credevano sospetti; e questi erano sostituiti dagli altri che il Giudice della questione tirava dell'istessa maniera dall'urna.(1) finché esistevano altri nomi nell'urna, finché il numero de'    quattrocencinquanta giudici non era esaurito, la ripulsa era sempre libera, ed ognuna delle parti aveva il dritto di cercare dalla sorte un altro giudice, nel quale egli aver potesse una confidenza maggiore. In alcuni casi la legge permetteva all'accusatore ed all'accusato di nominare essi stessi i giudici, e di poterli scegliere da tutto il popolo, senza esser costretti a prender quelli ch'erano scritti nel ruolo dal Pretore.(2)Vittime infelici della stranezza delle leggi e della viziosa ripartizione della giudiziaria autorità, sarebbero sembrati agli occhi de'    liberi romani, tutti que’ disgraziati cittadini che noi conduciamo al patibolo, sul giudizio di due o tre giudici, che gl'intrighi di un cortigiano hanno il più delle volte intrusi nel tempio di Temi; e de'    quali la più giusta diffidenza delle parti non potrebbe escluderne neppure un solo, senza intraprendere un arduo e pericolosissimo giudizio, nel quale quasi sempre il giudice resta superiore, perché i suoi colleghi son quelli che debbono giudicarlo, e l’infelice cittadino che l'ha intentato, invece di un giudice dubbio, ne acquista uno sicuramente inimico. Que’ fieri repubblicani, estremamente gelosi della civile libertà, non ebbero confidenza in altra mano, per depositarvi il sacro ministero della giustizia, se non in quella che l’arbitrio de'    litiganti avesse giudicato immune da qualunque parzialità: Neminem voluerunt majores nostri, diceva Cicerone, non modo de exislimatione cujusquam, sed ne de pecuniaria quidem re minima, judicem esse, nisi qui inter adversarios convenisset. (1) Altra condizione non cercavano essi nella persona del giudice che una probità conosciuta, una sufficiente logica, e, più di ogni altro, la mutua confidenza delle parti. La cognizione del dritto era per essi inutile. Il Pretore era quello che l’istruiva di ciò che aveva rapporto al dritto,(2)e adattava il fatto da essi conosciuto alla legge, della quale egli era l’immediato depositario; il Pretore era quegli che veder doveva se il giudizio era stato legittimamente introdotto, ed egli era quegli che doveva invigilare, affinché l'ordine giudiziario prescritto dalle leggi non venisse alterato. Tutt'i materiali opportuni all’appuramento del fatto, erano dal giudice della questione disposti e somministrati. Egli ordinava che i testimoni si trovassero in quel tale luogo e in quel tale giorno, nel quale dovevano da' giudici sentirsi le loro deposizioni. Egli raccoglieva le scritture e i monumenti che dalle due parti si esibivano per le loro mire opposte.(3) I giudici non facevano altro ch'esaminare la verità del fatto, e gittare in un’urna la lettera iniziale ch’esprimeva il loro giudizio.(4) Questa secretezza di suffragi, agli apparenti vantaggi che racchiudeva, univa però un vizio reale che la poteva render molto perniciosa. Come punire l’iniquità di un giudice, quando il suo giudizio è occulto? Ma la moltiplicità de'    giudici, la breve durata della

loro giudicatura, e la libertà delle ripulse rendeva poco spaventevole questo piccolo vizio di un metodo così degno della libertà de'    tempi, ne' quali ebbe origine.(1)Ed in fatti finché Roma fu libera, o finché la moribonda libertà reclamava ancora i suoi dritti contro il nascente dispotismo, il sistema della criminale giudicatura non fu alterato. I primi tiranni dell’impero dovettero rispettare questo antico baluardo della civile libertà. I loro passi piccoli, ma frequenti, non permisero alla tirannia di giungere così presto al termine della sua perfetta onnipotenza. Per dare l'ultima scossa all'edificio della civile libertà, sostenuto in gran parte da questo ben ordinato sistema de'    criminali giudizi, essi dovettero aspettare quel momento nel quale i romani, stanchi ormai dagli urti continui, e da' perpetui contrasti dell'ambizione e della libertà, cercassero finalmente il riposo e la quiete nella vile sofferenza, e nello stupido letargo della depressione e della servitù. Allora fu che, trasferiti i Comizi nel Senato, (2) colle altre prerogative della sovranità del popolo, questo corpo permanente di cortigiani ambiziosi, o di schiavi avviliti, acquistò anche quella di conoscere di que’ delitti che il popolo, o da se stesso giudicava anche dopo l’istituzione delle perpetue questioni, (3)o che alle volte venivano coll'appellazione portati ne' comizi, dopo il giudizio del tribunale competente.(4)Questa fatale alterazione dell'antico sistema fu l'epoca infelice dei compimento della servitù de'    romani. La tirannia potè allora gloriarsi di potere a suo talento disporre de'    giudici e delle leggi. I delitti di maestà in primo capo, de'    quali il popolo si aveva sempre serbata la cognizione, furono d'allora innanzi portati al Senato, ed una gran parte de'    delitti furono compresi in questa classe. Il cittadino, accusato in quest'assemblea, non poteva più disfarsi di un giudice iniquo o sospetto; ed il giudice non poteva più ritornare nella condizione privata. Le leggi rimasero senza vigore, e divennero inefficacia garantire la civile libertà, subito che la facoltà esecutiva affidata venne a mani cosi indegne di esercitarla, ed il cittadino costretto ad esser giudicato da uomini, che non poteva più escludere, quantunque fossero interamente privi della sua confidenza, non trovò più quell'asilo, che aveva fino a quel tempo difesa la sua privata sicurezza.(1)

Che l’esempio di Roma sia dunque il fondamento delle nostre idee in un argomento, che tanto interessa la civile libertà. Deduciamo dalle misure prese da' tiranni dell'Impero per distruggere l’antico metodo de'    romani liberi, la necessità che vi sarebbe d’imitarlo e di adattarlo allo stato presente delle cose; e per maggiormente persuaderci della necessità di questa intrapresa, vediamo come la sola nazione, che ha profittato su quest'oggetto de'    lumi della romana politica, è la sola nazione nell'Europa, nella quale l’innocente non trema, allorché è chiamato in giudizio. Il sistema della criminale giudicatura degl'Inglesi richiami dunque per poco la nostra attenzione.(2)

In Inghilterra i depositari della legge non sono, come nel resto dell'Europa, i giudici del fatto; non è un corpo permanente di ministri della corona, non sono i magistrati quelli ch'esaminano la verità o la falsità dell'accusa. La britannica costituzione non ha permesso che questa terribile funzione fosse sempre esercitata dall'istesse mani, e divenisse la prerogativa di pochi dipendenti mercenarii del capo della nazione. Uomini dell'istessa condizione del reo, favoriti dalla pubblica opinione, riconosciuti dall’accusato come imparziali ed investiti di un momentaneo ministero che non dura più del giudizio stesso, pel quale sono stati scelti, sono i soli giudici a' quali la legge affida l’esame del fatto e la sorte del reo nelle criminali accuse. Istruiti dall'esempio di Roma libera e di Roma schiava, gl’inglesi han conosciuto il vantaggio che vi era nel suddividere e combinare le diverse parti delle giudiziarie funzioni, in maniera che l’una fosse di freno all'altra.

Colui che riceve l’accusa è un magistrato inferiore, che non ha altra autorità se non quella di assicurarsi della persona dell'accusato, dopo averlo inteso, e dopo aver costatata l’esistenza del delitto, e di dar corso all'accusa nella prossima sessione.(1)

Queste sessioni non sono altro che le corti di giustizia, che si tengono in ogni tre mesi in ciascheduna contea, ed in ogni sei settimane nella capitale. In ognuna di queste sessioni un magistrato, che coi nome di Sheriff' (2) presiede alla pubblica amministrazione della giustizia nella contea del suo dipartimento, nomina prima di ogni altro la grande assemblea de'    giurati detti Gran Jury. (3) Quest'assemblea dev'esser di più dodici uomini, e di meno di ventiquattro, e deve esser composta delle persone più rispettabili della contea. La sua funzione è di esaminare le prove, che si sono addotte in ciaschedun libello, delle accuse che si producono in quella sessione.

Se non si trovano dodici persone nell’assemblea che credono ben fondata un’accusa, l’accusato viene all'istante liberato. Ma se dodici de'    gran giurati si accordano nel credere sufficiente la prova, allora l’accusato dicesi indicted, ed è ritenuto per subire l’ordinario corso della procedura.

Questi passi preliminari, non sono altro che le disposizioni preparatorie del giudizio. Essi sono tanti espedienti ritrovati dalla legge, per evitare che un innocente non venga neppure esposto a' rischi ed agli spaventi di una procedura. Per dichiarare soltanto l'accusa strettamente regolare, (1) vi è dunque bisogno dell'uniforme giudizio di dodici uomini almeno di conosciuta probità, e di una condizione superiore ad ogni sospetto.

Dichiarata ammissibile l'accusa, si avvisa il reo di prepararsi alla difesa, e si destina il giorno nel quale si dee definitivamente decidere della sua sorte. Giunto questo giorno, l’accusato dee presentarsi nella Corte, dove presiedono alcuni giudici ordinari (2) che sono, per cosi dire, i depositarli e gl'interpreti del dritto, ma che non hanno parte alcuna nel giudizio del fatto. Questo è interamente riserbato ad un’altra assemblea di privati cittadini, detti Petti Jury, o sia piccoli giurati, che l’istesso Sheriff ha, con una commissione generale, nominati per quella sessione. (3)Quest'assemblea dev’essere di dodici uomini, pari del reo,(4)scelti dall’istessa contea dov'è stato commesso il delitto,(1)possessori di un fondo di terra di dieci lire sterline di rendita; e l’unanime giudizio di questi dodici giurati decide della verità o della falsità dell'accusa, e determina la verità del fatto, al quale i giudici non debbono far altro che adattarvi l'espressa disposizione della legge.

Questi dodici cittadini, a' quali si affida la parte più spaventevole del giudizio, non sono però i soli ad esser nominati dallo Sheriff. Per ottenere che l’accusato avesse anche parte nella scelta di coloro che debbono giudicarlo, la legge vuole che se ne nominino 48, (2) ed accorda al reo varie specie di ripulse. Egli può alle volte escluderli tutti, e può sempre escluderne una gran parte, e per legittime cause e per capriccio. Può escluderli tutti, quando ha motivi legittimi di dichiarar sospetto lo SherifT che ha formato l'albo. (3) Può escluderne per legittime cause tutti quelli che, o non hanno i requisiti che la legge ha prescritti, o che hanno rapporti di parentela, di amicizia, di corporazione coll’accusatore, o rapporti d’inimicizia e di litigio coll'accusato. (4)

Può finalmente in qualunque caso escluderne un considerabile numero per solo capriccio, giacche la legge gli concede la ripulsa perentoria di venti giurati, senza obbligarlo a palesare i motivi che l’inducono a rifiutarli.(5)Una prevenzione poco favorevole, derivata o da un pregiudizio, o da un’occulta antipatia, ma che non lascia per questo d’ispirare qualche spavento ad un infelice che dev'esser giudicato, non è stato il solo motivo che ha avuto innanzi agli occhi il legislatore, nell’accordare quest’ultima specie di ripulsa al reo. Egli ha preveduto il caso di una sospezione prodotta dal reo contro qualche giurato, e giudicata non sussistente. Egli ha veduto che in questo caso il reo avrebbe potuto avere un inimico per giudice, e che per liberarlo da questo spavento non vi era altro mezzo che accordargli una nuova ripulsa, colla quale egli avrebbe potuto rifiutare perentoriamente quel giurato, che non aveva potuto escludere per legittime cause.

Quello ch'è più ammirabile in questa parte della legislazione inglese, è appunto quello ch'è più contrario al metodo che si tiene nel resto dell'Europa. La ferocia del dispotismo, e la violenza della tirannia, si palesano presso gli altri popoli in tutta la loro estensione in que’ terribili tribunali, dove si giudicano i rei di Stato. Un misterioso ed arbitrario velo nasconde tutti i passi delle loro violente procedure; un terribile silenzio lascia a' parenti ed agli amici dell'infelice che vi è condotto, l’ignoranza spaventevole della sua sorte, l’impotenza di soccorrerlo; si priva l’accusato di tutti quei dritti de'    quali la violenza sola può spogliarci, e si fa con intrepida mano il sacrifizio della giustizia e della civile libertà ad una falsa idea di tranquillità pubblica, che sotto la tirannia non si fissa in altro che nella sicurezza del despota. Que’ tenuissimi rimedi che si offrono a' rei degli altri delitti, sono presso di loro rifiutati a quelli, a' quali la legge in Inghilterra ha creduto di dover dare nuovi soccorsi.

Un infelice, accusato di cospirazione contro il re o contro lo Stato, non solo non è privato in Inghilterra di quegli aiuti che la legge gli accorderebbe negli ordinariì delitti, ma vede moltiplicati i sostegni della sua sicurezza ed accresciuti i soccorsi della sua innocenza. Se negli altri delitti può escludere perentoriamente venti giurati, in questi ne può escludere trentacinque. Se negli altri delitti l’accusato non può costringere i testimoni, ch’egli produce in sua difesa, a comparire in giudizio, in questi i tribunali gli accordano tutti i mezzi di coazione per obbligarli a comparire.

Se negli altri delitti non ha che un solo difensore, in questi la legge glie ne accorda due. Se negli altri delitti egli ignora il nome de'    giurati fino al giorno nel quale si dee terminare il giudizio, in questi la legge vuole che gli si palesi loro nome, il loro cognome, la loro professione e la loro abitazione dieci giorni prima, affinché abbia il tempo da riflettere sulle ripulse che gli conviene di fare. Egli dee contemporaneamente avere alla presenza di due testimoni una copia di tutt'i fatti che l'accusatore ha asseriti per prove della sua accusa, e dee sapere tutti i testimoni che si produrranno contro di lui.(1)Sono questi i particolari soccorsi che la legge offre in Inghilterra agli accusati di que’ delitti, che suppongono un partito più forte di accusatori. Dopo questa breve digressione, ritorniamo all'ordinario corso della britannica giudicatura.

Quando, terminate le ripulse, l’assemblea de'    piccoli giurati è già formata, si dà principio al giudizio.(1) Le due parti espongono le loro opposte prove alla presenza de'    giurati e de'    giudici; si sentono i testimoni prodotti dall’una parte e dall'altra;(2) il reo alterca coll'accusatore e co' suoi testimoni; si sentono le sue difese sul fatto, come quelle del suo avvocato sul dritto, e quando la difesa è terminata, uno de'    giudici riepiloga tutto ciò che si è detto dall'una parte e dall’altra; espone a' giurati il suo parere, non riguardo al fatto, ma riguardo al dritto; ed ordina finalmente che si ritirino nella vicina stanza, dove senza poterne riscaldarsi, né prendere bevanda o cibo alcuno,(3) debbono rimaner chiusi, finché non abbiano unanimemente dichiarato il loro giudizio sulla verità o falsità dell'accusa. I giudici allora, non altrimenti che il Pretore tra' Romani, non fanno altro che proferire il decreto o dell'assoluzione, o della condanna del reo alla pena prescritta dalle leggi. Ma non termina qui l'umanità di questa parte della britannica legislazione. Essa ha preveduto il caso di un giudizio manifestamente erroneo de'    dodici giurati, ed ha voluto lasciare un adito alla salvezza dell'innocente. Quando i giurati hanno assoluto il reo dall’accusa, ancorché il loro giudizio fosse evidentemente erroneo, non vi è più che temere per lui; ma se essi l'hanno dichiarato colpevole, e se l'errore del loro giudizio è evidente, vi è ancora un asilo in favore della sua innocenza. Egli, è vero, non può appellare dal loro giudizio, ma il giudice può commettere l’affare alla corte del Banco del Re, la quale, supponendo come non intrapreso il giudizio, fa nominare nuovi giurati per esaminare la cosa, come se i primi non l'avessero mai giudicata.

Ecco qual’è il corso ordinario della giustizia in Inghilterra, ed ecco quali ne sono i ministri. Per poco che si rifletta su questa preziosa ripartizione delle giudiziarie funzioni, si vede quanto l’innocente possa esser sicuro presso questa singolare nazione, dove, se non vi è tutta quella libertà politica che si crede, vi è però la maggiore civile libertà. Vi è bisogno del concorso di 24 cittadini almeno per condannare un accusato; bastano 12 per assolverlo.(1)Se vi è un solo uomo onesto tra' 12 piccoli giurati, l’innocente non ha che temere dalla perfidia degli altri undici.(2)Per quanto iniqui possano essere i giudici, la legge li frena riguardo al dritto, e i giurati riguardo al fatto. Che si paragoni questo sistema con quello che regna nel resto dell’Europa: qual tristo parallelo!


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CAPO XVII

Della viziosa ripartizione della giudiziaria autorità in una gran parte delle nazioni d'Europa

Una stupida indolenza de'    popoli, ed una volontaria oscitanza de'    governi han solo potuto perpetuare nell’Europa l’assurdo metodo, col quale si amministra oggi la giustizia in una gran parte delle nazioni, che l’abitano. L’uomo si avvezza a tutto; un governo ingiusto familiarizza l’animo de'    sudditi coll'ingiustizia, e fa che poco a poco essi s’avvezzino a vederla senza orrore. Senza un lungo abito d’essere oppressi, noi fremeremmo all'aspetto de'    mali che ci circondano, delle violenze che da ogni parte ci sovrastano, e de'    pericoli a' quali è esposta la nostra innocenza. Noi cercheremmo di porre un termine a' nostri mali, o abbandoneremmo le città, per cercare un asilo ne' boschi; noi preferiremmo il rischio di esser mangiati da' selvaggi, o sbranati dalle fiere, a quello molto più orribile di dipendere dalle istituzioni di alcuni uomini, che han fatte le leggi come han foggiate le armi, delle quali il pretesto è la difesa, ed il motivo è l’attacco; noi conseguiremmo finalmente lo scopo delle sociali unioni, o ne spezzeremmo il nodo. Ma, istupiditi sotto il peso delle nostre catene, la maggior parte di noi non ardirebbe neppure di pensare che i nostri mali potrebbero esser curati, e che la nostra condizione potrebbe esser migliore. Se uno spirito benefico cerca di squarciare quel velo, che nasconde al popolo le sue piaghe, e i rimedi che potrebbero sanarle, l’infermo morde la mano del suo benefattore, e chiede vendetta contro colui, che ha ardito di risvegliarlo dal suo letargo. Ecco l'ordinaria sorte di coloro che s’interessano pel bene de'    loro simili, e che innalzano la voce per insegnar loro questa gran verità: che la natura non ci ha fatti per essere il trastullo di pochi uomini potenti, ma ci ha somministrati tutti i mezzi necessari per esser liberi, e felici. Alcune verità, che son nell’obbligo d’illustrare in questo capo, mi richiameranno delle persecuzioni e delle sciagure. Io son sicuro di questo pericolo che mi sovrasta, ma mi vergognerei di prevenirlo col silenzio. Allorché ho intrapresa quest’opera, ho giurato di superare tutti quei vili spaventi, che potrebbero trattenerne il corso; e se, vivendo sotto il governo del più umano de'    re, io non sperassi di trovare nel trono istesso un difensore, l'innocenza delle mie miree la sicurezza della mia coscienza, basterebbero a somministrarmi quella pace che i miei inimici cercherebbero invano di turbare. Nel seno istesso della disgrazia io godrò della stima degli altri uomini, e della stima di me medesimo. Io sarò ugualmente felice nella solitudine, e nella città; nell’oblìo, e nelle cariche; nell’esilio, e nella corte. Io mi ricorderò sempre che le persecuzioni e le sciagure sono onorevoli, quando vengono accompagnate dai sospiri e dalle lagrime de'    deboli, a' quali si è cercato di prestare un’ardita, quantunque impotente mano.

Dopo aver osservato il sistema de'    Romani liberi, e degli Inglesi, gittiamo ora uno sguardo sopra quello che oggi regna tra noi, e presso una gran parte degli altri popoli, e vediamo se poteva mai idearsene uno peggiore. Che mi si perdoni, se, quasi dimentico dell'università del mio argomento, la mia patria occuperà una gran parte di questa terribile dipintura.

Il mio cuore regola la mia mano, ed io non posso resìstergli.(1)

L'amministrazione della giustizia è fra noi divisa tra i feudatari e i magistrati. Un avanzo dell'antico governo feudale lascia ancora a' baroni la criminale giurisdizione. Questa prerogativa, della quale essi sono estremamente gelosi, forma il primo anello di quella lunga catena di disordini, che interamente distruggono la nostra civile libertà. Il feudatario sceglie in ciaschedun anno un giudice, innanzi al quale debbono portarsi tutte le accuse de'    delitti che, durante il tempo del suo giudicato, si commettono nel distretto del feudo. La scelta di questo magistrato è interamente arbitraria del barone. Egli può scegliere l’uomo più iniquo, e conferirgli un’autorità, della quale può colla maggior facilità abusare a suo talento. Questo magistrato che da se solo riceve l'accusa, prende le informazioni, sente le parti, regola e dirige le costruzioni del processo, mette tra' legami della giustizia l’accusato e decreta in prima istanza, così sulla verità dell'accusa, come sulla pena da darsi; questo magistrato che ha un’autorità maggiore di quella che aveva il Pretore di Roma, e che abbia qualunque supremo magistrato in Inghilterra; questo magistrato, ch'è nel tempo istesso inquisitore, (1) fiscale e giudice; questo magistrato, io dico, non è altro che un miserabile e vile mercenario del barone. Il suo salario, prescritto dalle leggi, non supera quello del più misero familiare. Ordinariamente il barone lo defrauda anche di questa tenuissima paga, e lo condanna a ripetere la sua sussistenza dalle rapine e dalle vessazioni, senza delle quali egli perirebbe dalla fame.(2)L’unico interesse di questo giudice è di profittare, quanto più si può, dalla sua carica, ed aderire ciecamente a' capricci del barone. Se ardisse di opporglisi, se fosse bastantemente onesto per resistergli, egli non avrebbe cosa alcuna da sperare dalla sua virtù, ma tutto da temere dal suo coraggio. Basterebbe che il feudatario che ha disgustato, si determinasse a farlo perire dalla fame,’ per perdere ogni speranza ad essere ammesso a qualunque altro governo. Dovunque si rivolgerebbe, troverebbe già preceduta la nuova della sua virtuosa disubbidienza e del suo giusto, ma detestato coraggio. Egli non troverebbe più un feudo, dove potesse essere ammesso ad esercitare il suo mestiere, giacche, per una strana rivoluzione d'idee, convien chiamare con questo nome l’esercizio della funzione più augusta che possa affidarsi ad un uomo; ma che, nel presente sistema delle cose, vien considerata tra noi come un’arte per vivere che non differisce dalle altre, se non in questo, che l'artefice peggiore in giudicatura è colui che profitta più della sua arte.

Più: sveliamo un altro arcano della feudale tirannide. Prima di consegnare a questo depositario vile delle leggi la carta che gli dà una cosi precaria e servile giurisdizione, gli si fa distendere un atto della sua rinunzia, che il feudatario conserva presso di se, per poterlo espellere in qualunque caso che non voglia aderire a' suoi capricci. Questo giudice, che non potrebbe senza delitto essere spogliato del suo ministero prima di compierne l’anno, dev’egli stesso foggiare l’arma, colla quale il feudatario può, sempre che vuole, disfarsi di lui e punire i suoi rifiuti.

Qual probità, qual virtù è sperabile di trovare in siffatti uomini, che il bisogno e l’interesse obbligano ad essere ingiusti, e che nessun motivo, niuna speranza, può indurli ad essere onesti? Quali sono infatti gli uomini che si avviano fra noi per questa miserabile carriera? Quei che per la loro pigrizia e per la vanità de'    loro padri sono strappati dalla coltura della terra; che per la loro ignoranza non possono sperare di fare alcun progresso nel fòro; che pe’ loro vizii, o per la loro estrema miseria sono costretti ad abbandonare la capitale, dove non han potuto occuparsi in alcun mestiere, che richiegga o fortune, o talenti, o costume; quegli, in una parola, che sono il rifiuto di tutte le altre professioni, divengono tra noi i primi organi, pe’ quali si tramandano gli oracoli di Temi. Senza onore, senza ricchezze, senza lumi, privi della confidenza del popolo, ed incapaci di procurarsela, essi non hanno altro talento, se non quello che si richiede per vessare, opprimere, rubare e per favorire chiunque è potente, e calpestare chiunque è debole.

A questo primo male ne segue immediatamente un altro. Quando questo giudice ha già, a suo credere, trovate le prove sufficienti, in una gran parte de" delitti, il barone può transigersi col reo. La pubblica vendetta si converte in una delle rendite feudali. Il padrone del feudo ed il suo giudice contrattano col delinquente; e, mediante un’arbitraria somma che questi loro paga, lo liberano dalla meritata pena, e richiamano nella società un uomo, che, o per sempre, o per lungo tempo almeno, meritato avrebbe di esserne proscritto.

A questo perniciosissimo dritto, che rende inutile lo spavento delle leggi, per colui ch'è bastantemente ricco per pagarne la trasgressione, se ne aggiunge un altro anche più funesto, col quale si somministra al feudatario un istrumento opportuno per vendicarsi de'    suoi nemici, e per favorire ingiustamente i suoi vili partigiani. Siccome nelle investiture de'    feudi, in questi vergognosi monumenti dell’antica debolezza de'    re, della prepotenza de'    grandi e della depressione del popolo, che in un secolo, nel quale lo stato delle cose è tutto diverso, avrebbero dovuto da gran tempo esser consacrati alle fiamme, ed immolati alla pubblica felicità; ma che per un male inteso principio di giustizia si rispettano ancora, come una proprietà pervenuta per un ingiusto titolo, ma sostenuta da un antico possesso; siccome nelle investiture de'    feudi, io diceva, i principi han trasferita a' baroni tutta la pienezza del loro potere; tra le altre regalie annesse alla feudalità vi è ancora quella di accordare la grazia a' condannati. Quando il giudice ha decretata la pena in molti delitti, il barone può, con un tratto libero della sua autorità, o accordargli la totale impunità, o far piombare sopra di lui tutto il rigore della legge. Questo dritto, che appena è compatibile colla sovranità; questo dritto, del quale i re medesimi rare volte fan uso per non moltiplicare i delitti colla speranza dell'impunità; questo dritto istesso si esercita colla massima indifferenza da' baroni. Il favorito del feudatario, il complice de'    suoi delitti, l’istrumento de'    suoi attentati, è sicuro di rimanere impunito, perché sa che la sua condanna è sicuramente seguita dalla grazia; nel mentre che l’onest’uomo, che ha resistito a' capricci del suo signore, sa d’essere sicuramente perduto, se si troverà ravvolto ne' legami della giustizia e nelle trame di una violenta ed arbitraria procedura. Questa sola prerogativa, annessa alla feudalità, non basterebbe forse a mostrarci la perniciosa influenza di questo corpo, che non può sostenersi che sulle rovine della libertà civile del popolo e de'    sacri dritti della corona?

Ma non finiscono qui i mali, che derivano da questo funesto principio. Se la transazione non ha luogo. pel dissenso di una delle parti; se il delitto non è transigibile, o se l’accusato è così povero da non poter cercare questa commutazione di pena; se vien finalmente condannato, e il feudatario vuole eseguita la condanna; qual'è l’immediato rimedio che la legge offre alla sua innocenza? Un’appellazione inutile ad un altro giudice, scelto della maniera istessa dal barone, forse non meno ignorante del primo e sicuramente interessato più di quello ad aderire a' capricci del feudatario che lo ha scelto, giacche egli non è nell'obbligo di mutarlo in ogni anno, ma può perpetuarlo in questa carica finché gli aggrada.

In alcuni feudi a quest'appellazione ne succede un’altra, nella quale non si fa che rimettere la decisione ad un terzo giudice, ch’è precisamente nelle stesse circostanze del secondo. Tutti e due questi giudici di appellazione non abitano nell’istessa terra, dove esercitano questa perniciosa e precaria giurisdizione. Essi ne sono ordinariamente molto lontani. Il reo non può dunque parlare col giudice che dee giudicarlo; egli non ha difensori istruiti nel dritto; egli non può difendersi da se, né ha come farsi difendere da altri; e sugli atti che ha regolati o, per meglio dire, foggiati il giudice, che ha proferito il primo decreto, deve unicamente formare il suo criterio il giudice, innanzi al quale si appella.

Dopo questi due o tre giudizi che l’istesso spirito ha dettati, che l’istessa prepotenza del barone può avere estorti, che sull’istesse informazioni si sono poggiati, che da giudici ugualmente indegni, ugualmente vili, ugualmente interessati ad abusare del loro ministero sono stati proferiti; dopo questi due o tre giudizi che han lasciato per tanto tempo marcire il preteso reo nelle carceri, e che per conseguenza hanno per altrettanto tempo lasciata la sua famiglia in preda alla desolazione ed all’indigenza; dopo questi' uniformi giudizi, io dico, qual’è il rifugio che si offre all’innocente oppresso? In qual maniera la mano protettrice del governo viene essa ad offerire un soccorso a questa vittima infelice delle violenze feudali? Quali nuovi attentati si preparano dalla legge alla sua civile libertà? Non vi è bisogno del calore di una seducente eloquenza per farli conoscere. I grandi mali, a misura che sono più semplicemente descritti, risvegliano maggiore orrore.

Quando il corso de'    baronali giudizi è già terminato, il reo è nel dritto di cercare nella pubblica autorità un asilo contro l’ingiustizia de'    ministri del barone. Dal loro giudizio può appellare al tribunale della provincia, dov’è compreso il feudo. Questo tribunale, che risiede nella capitale della provincia, è composto di tre giudici, scelti dal re, ma molto mal pagati dal governo. Il loro soldo è tale, che essi non potrebbero supplire a' più indispensabili bisogni, senza abusare della loro autorità. Il governo li condanna a scegliere tra l’ingiustizia e la povertà.

Ma supponiamo che l’integrità di questi giudici sia tale che faccia loro preferire l’ultimo di questi due mali; supponiamo che, penetrati da' veri sentimenti dell’onore e della giustizia, essi abbiano tutta quella fermezza che si richiede per resistere alle combinate spinte dell’avidità e del bisogno; supponiamo, ciò che rare volte avviene, che all’onestà essi uniscano talenti e lumi; in questa ipotesi, io domando, quale sarà il loro giudizio? su quali documenti debbono essi fondarlo? Se il processo fatto dal primo giudice del barone non è accusabile d’irregolarità, sopra i fatti che quell'infame ha costatati, essi debbono decidere; e se la procedura può attaccarsi come non legittima, il rimedio diviene peggiore del male. Una nuova informazione si ordina; ma a chi vien essa commessa? All’uomo più vile e più ladro della provincia, ad un subalterno, che non solo non è pagato dal governo, ma che paga per poterlo servire; ch’esercita ignominiosamente un ministero, che ricercherebbe molta onoratezza, ma che tra noi è divenuto infamante, pel carattere delle persone, alle quali viene affidato; che, in poche parole, insensibile a tutt'i sentimenti di pietà, di onore e di giustizia, non vede nell’esercizio della sua carica che la speranza ed il mezzo di poter rubare a man salva sotto gli auspicii stessi della legge.

Ecco l’inquisitore, al quale la legge affida tra noi la più terribile incombenza; ecco la persona pubblica, incaricata di prendere quelle informazioni, dalle quali pur troppo dipende la sorte dell'infelice accusato. Io prego il lettore di non prendere per esagerata questa rattristante descrizione. Io chiamo in testimonio la nazione intera; io chiamo in testimonio tutti quegl’infelici, che sono stati le vittime di questo obbrobrioso sistema. 0 voi, che, lontani dagli occhi del vostro principe, soffrite nel silenzio i mali che affliggono la vostra patria, alzate la voce, e dite qual è il metodo che si tiene da cotesti infami, che vengono di continuo a desolare i vostri segregati paesi? Sotto un principe benefico, non è un delitto il palesare gli orrori, de'    quali egli è l'innocente cagione. La sua sacra autorità, invece di diminuirsi, acquisterebbe maggior vigore, quando non si corrompesse nelle sue emanazioni. Le sue leggi, inefficaci a produrre il bene, non hanno sicuramente il male per oggetto. I suoi voti sono diretti a migliorare la vostra condizione; è un dovere dunque di mostrargli le cause che la rendono così deplorabile. Chi di voi non trema, quando un subalterno di questi viene spedito nel vostro paese per l’appuramento di un delitto? Il suo primo passo è una carcerazione numerosa di testimoni, di rei, di complici, d’indiziati.

Questa prima speculazione è l’esordio del negoziato, al quale immediatamente comincia ad introdursi colle offerte della redenzione. Si apre il mercato e si fissa, in ragione delle facoltà di ciascheduno, il prezzo della sua tranquillità. Le prime e le più spaventevoli vessazioni si fan cadere sopra colui, ch'è o il più ricco, o il più innocente. Sul primo, perché può comprare a più caro prezzo la sua tranquillità; sul secondo, perché, persuaso della sua innocenza, conviene tormentarlo, per mostrargli che, malgrado tutto questo, bisogna ch'egli paghi quella pace, che la sua manifesta innocenza non è bastevole a somministrargli.

Ogni rapporto di amicizia, o di parentela coll'accusato; ogni rapporto di odio, o di litigio coll’offeso; ogni piccola variazione nelle deposizioni di ciaschedun testimonio; ogni circostanza o ommessa, o involontariamente alterata per ignoranza; ogni sospetto di soccorso prestato alla fuga, o alla occultazione del principale indiziato; ogni stranissima congettura dedotta dal luogo, dal tempo e dalle circostanze che hanno accompagnato il delitto; sono tanti fertili campi, che offrono alla mano rapace dell'inquisitore una copiosa messe. La sua grand’arte è di ravviluppare sempre le cose; di trovare da per tutto degl'indizii; di aumentare, quanto più si può, l'oscurità del fatto e di aver sempre qualche miserabile in veduta, sul quale far cadere il reato, allorché il vero reo è bastantemente ricco per comprare la sua impunità. Ecco il solito corso che suole avere la missione di questo subalterno ministro della giustizia, allorché il paese, nel quale si è commesso il delitto, è sotto l’immediata giurisdizione del principe, o, essendo sotto quella di un feudatario, la sua Corte ha rinunziata la causa alla provinciale udienza.

Ma, se si tratta di prendere informazione di un delitto già giudicato dalla Corte baronale; se l’innocente condannato da' giudici del feudatario ha, come nella nostra ipotesi, appellato a' ministri del re; se si tratta di esaminare l’irregolarità della procedura tenuta dal primo giudice baronale; allora la mèsse è più copiosa pel nuovo inquisitore, e la giustizia e la verità sono più sicuramente tradite. L’interesse del barone essendo di sostenere e di nascondere la sua perfidia, o quella de'    suoi mercenari ministri, fa che entri anche egli nel negoziato, ed allora la pena dell'inquisitore è sicuramente quella del barone. La commissione data al subalterno non giova sicuramente al condannato innocente che l’ha cercala, ma diviene il flagello de'    suoi concittadini ed il suggello della sua rovina.

Terminate queste informazioni, il Commesso ritorna nella capitale della provincia e seco conduce il reo, e i documenti, co' quali l’ha ravviluppato nelle sue reti. Un avvocato de'    poveri ordinariamente intraprende la difesa di questo infelice con quella languidezza, colla quale si suole sostenere una verità che non c'interessa. Invano egli cita de'    testimoni della sua innocenza. Il perfido inquisitore li ha già bastantemente spaventati, per non temere le loro ingenue deposizioni. I testimoni fiscali, ch'egli ha prodotti, sono i soli che si presentano al cospetto de'    giudici. Questi han già ricevuto il prezzo delle loro menzogne; e, riparando al loro delitto, essi non farebbero altro, ch'esporsi volontariamente alla pena terribile dello spergiuro.

Con questi materiali disposti per la rovina dell'infelice accusato, quale speranza potrebbe egli avere nella giustizia de'    giudici? Quando gli atti provano manifestamente il suo reato, come potrebbero essi conoscere e garantire la sua innocenza? Quando l’innocente è legalmente convinto, il giudice potrebbe egli assolverlo?

Ma se alla perfidia dell'inquisitore si unisce anche la perfidia de'    giudici; se una pur troppo confermata esperienza ci obbliga a diffidare di tutti coloro, che, avendo una grande autorità tra le mani, hanno un motivo fortissimo di abusarne, senza avere nel tempo istesso uno spavento proporzionato che possa trattenerli; se i nostri giudici sono precisamente in questo caso, vale a dire, di avere una grande autorità unita ad una gran miseria, un massimo bisogno di abusare del loro ministero unito ad una massima sicurezza di rimanere impuniti; se i clamori universali contro questi depositarii della pubblica autorità sono un bastevole documento, per confermare la nostra giusta diffidenza; se, sotto gli occhi istessi del principe, sotto l’immediata vigilanza del governo, nella capitale istessa, noi sentiamo in ogni momento i colpi arbitrarii dell’autorità cadere sul capo di tanti infelici, e mostrarci l’onnipotenza de'    giudici e l’incertezza della nostra sorte; se la moltiplicità istessa delle appellazioni, che rendono interminabili i nostri giudizi, ci mostrano che la legge istessa ha conosciuti i vizii di questo erroneo sistema di giudicatura, ma che ha cercato invano di ripararli; se queste appellazioni, che io mi astengo di dettagliare, per non distendermi troppo sopra un oggetto universalmente conosciuto; se queste appellazioni, io dico, sono più un soccorso utile al reo potente che all’innocente povero; se, in tutto il corso di questi giudizi, il misero condannato trova sempre un numero di giudici così ristretto, che l'uniformità di due opinioni basta ordinariamente per formare la pluralità de'    suffragii; se, passando il giudizio per tre tribunali diversi, basta trovare tra i nove giudici, che compongono tutti e tre i tribunali, sei uomini facili o ad esser corrotti, o ad essere ingannati, per condurre un innocente al patibolo; se la libertà delle ripulse de'    giudici, così favorita dalla romana e dalla britannica legislazione, è interamente distrutta tra noi e nel resto dell'Europa; se ogni condanna, ancorché giusta, è sempre accompagnata da un treno orribile di violenze e di attentati contro i dritti più ’. sacri della civile libertà; se, finalmente, distendendo i nostri sguardi sulla maggior parte delle nazioni che abitano il suolo europeo, noi troviamo o gl’istessi vizii nella ripartizione della giudiziaria autorità, o mali anche maggiori; se ne' paesi, dove la feudalità si conserva ancora, le prerogative della feudale giurisdizione sono anche più funeste delle nostre; e se in quelli, dove l’ambizione de'    re, e la coltura de'    popoli hanno sradicata questa vecchia pianta, la libertà civile non ha nulla di meno guadagnato molto in questa correzione, perché quasi da per tutto la giudiziaria autorità è dispoticamente ripartila; se, in una parola, la legislazione dell’Europa esige una riforma su questo interessantissimo oggetto; è dunque necessario, che la scienza della legislazione proponga il nuovo piano che si dovrebbe all'antico sostituire. Ma come inoltrarmi in questa ricerca, senza prima disporre gli animi in favore della giustizia di questa politica operazione? Siccome ne' paesi, dove i feudatarii conservano ancora la criminale giurisdizione, non si potrebbe cosa alcuna intraprendere, senza prima distruggere questo avanzo dell'antica barbarie, è giusto che io prevenga qui alcune obbiezioni, che mi si potrebbero fare.

Come spogliare, si dirà, i feudatarii della criminale giurisdizione, senza ledere la giustizia? Un antico possesso unito ad un giusto titolo non rendono forse inviolabile qualunque dritto, come renderebbero sacra qualunque proprietà? Questa giurisdizione, cui si vorrebbe attentare, non è stata forse ad essi conceduta nelle investiture ottenute o pe’ loro meriti, o col loro danaro? Non sono stati forse i re istessi, che han depositata questa parte della pubblica autorità tra le mani de'    baroni? Se il principe non può alterare la costituzione dello Stato; se non può distruggere le leggi fondamentali del governo; se non può violare i patti, co' quali è salito sul trono; come potrebbe egli tutto ad un tratto lanciare questo colpo sulle prerogative feudali, che formano una parte della costituzione del governo? La distruzione della feudale giurisdizione non faciliterebbe forse i progressi del dispotismo, togliendo questo corpo intermedio tra il principe ed il popolo? Ecco a che si riduce tutta l’apologia della feudalità; ed ecco quali sono le prime obbiezioni che si farebbero al nuovo piano che son per proporre. Il seguente capo è destinato a prevenirle. lo son costretto a questa digressione, senza della quale le mie idee sarebbero discreditate da coloro che ciecamente confondono i pregiudizii colle verità, e che, imbevuti fin dalla loro infanzia di alcuni erronei principii, deducono da questi conseguenze anche più erronee e più perniciose, con una sicurezza che si risente di tutti i difetti dell'ignoranza e dell’imbecillità.


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CAPO XVIII

Appendice all'antecedente capo sulla Feudalità

I sacri dritti dell’umanità, uniti a' particolari interessi della mia patria, mi obbligano a questa digressione, dalla quale i miei privati vantaggi, e i rapporti della mia condizione avrebbero dovuto distogliermi. La classe, contro della quale io scrivo, se è la più potente dello Stato, spero che voglia essere anche la più docile e la più ragionevole. Attentando i pretesi dritti di coloro che la compongono, io non pretendo di calunniare la loro condotta; e, reclamando la distruzione delle prerogative feudali, io non pretendo d’inveire contro quel rispetto che si deve alla loro dignità, la quale, derivata da una originaria nobiltà, sarebbe ornata d’un nuovo lustro, quando non fosse oscurata da alcune esotiche prerogative, che la rendono odiosa al popolo, ed abbominevole agli occhi del savio.

Se se n’eccettui il dispotismo, in tutti i governi l’opinione pubblica ha sempre accordate, dove più e dove meno, alcune distinzioni alla posterità di un illustre maggiore, che ha renduto rispettabile il suo nome colle sue azioni. Nelle democrazie istesse, dove l’uguaglianza politica è della natura della costituzione, vi è sempre una nobiltà di opinione. Pare che i più tardi nipoti debbano essere gli eredi de'    meriti de'    loro avi, dome delle loro proprietà; pare ch'essi debbano avere un dritto di più alla pubblica venerazione. Nelle monarchie questa distinzione dev’essere più sensibile, perché la costituzione del governo non richiede l'uguaglianza politica. È giusto, e secondo lo spirito del governo, che la nobiltà vi sia ornata di alcune onorevoli prerogative: ed è utile che lo splendore del trono non ferisca immediatamente gli occhi del popolo, ma che si diffonda, prima d’ogni altro, sulla parte della nazione che gli è più vicina; che da questa passi alla classe intermedia tra la nobiltà e la plebe, e che finalmente non si manifesti all'ultima classe della società, se non dopo che i suoi raggi han sofferte varie refrazioni.

Ecco il vero aspetto, nel quale si deve osservare la nobiltà nelle monarchie. Essa dev'essere un corpo luminoso, ma non potente; essa deve avere alcune prerogative di onore, ma niuna d’impero; essa dee piuttosto esser considerata come un effetto delle leggi dell'opinioni favorite dalla costituzione del governo, che come una parte necessaria del corpo politico. In poche parole: senza una nobiltà ereditaria, la monarchia sarebbe oscurata; alterata, ma non distrutta; ma con una nobiltà ereditaria, unita ad un potere ereditario, non vi è più monarchia: due poteri innati, come si dimostrerà, non sono compatibili con questa specie di costituzione. Quello che dee bilanciare l’autorità del principe nelle monarchie, quello che dee considerarsi come una parte integrale della costituzione, è il corpo de'    magistrati. Depositarii della facoltà esecutiva, essi sono l’unico freno contro gli abusi dell'autorità del monarca. Qual’è in fatti la differenza che vi è tra la monarchia

e il dispotismo, se non quella che nasce dall'esistenza è dal vigore della magistratura? Ma la magistratura non è ereditaria, e il potere del magistrato non è innato. Gl'individui di questo corpo sono scelti dal re. Salendo sul trono, egli può disfarsi di quelli che il suo antecessore ha creati,e può, sempre che vuole, liberarsi da quelli ch'egli stesso ha scelti, quando vede ch'è stato tradito nella sua scelta.

Premesse queste idee che io «ho appena accennate, per non ripetere ciò che ho dettò nel primo libro di quest'opera, vediamo ora l’obiezione più forte che si adduce contro la distruzione della feudale giurisdizione dagli apologisti di questo barbaro sistema.

Noi non neghiamo, dicono essi, che il corpo de'    magistrati sia quello che bilanci l’autorità del principe nelle nostre monarchie, che questo sia il vero corpo intermedio tra il sovrano ed il popolo; ma il potere de'    nobili, o sia de'    feudatari, non produce forse l’istesso effetto, non tende forse all'istesso fine, non dee forse esser considerato sotto l’istesso aspetto? Se ad un corpo situato sopra un piano inclinato, per non farlo discendere secondo la direzione della sua gravità, invece di opporre un argine, se ne oppongano due, l’affetto non è forse più sicuro, il pericolo non è forse minore? Or il pendio della monarchia è di correre verso il dispotismo: se noi abbiamo dunque due argini che lo trattengono, perché vorremo noi toglierne uno? finché la feudalità sarà annessa alla nobiltà, il principe non avrà forse bisogno di una duplicata forza per’ dissipare gli ostacoli che si oppongono alle sue dispotiche mire? Non e questo un baluardo di più contro i pericoli di un potere troppo assoluto?

Ecco il manto di patriottismo e di libertà, col quale si cuopre un sistema il più assurdo, che unisce tutti i vizii dell’anarchia agli orrori della tirannide. La sola ignoranza de'    veri principii della politica può dare un peso a questa obiezione. Che si presti un poco di attenzione a quel che son per dire, perché io non ho l’arte di esser chiaro; per chi non vuol essere attento.

In ogni specie di governo l'autorità dev'essere bilanciata, ma non divisa; le diverse parti del potere debbono esser distribuite, ma non distratte. Uno deve essere il fonte del potere; uno il centro dell’autorità. Ogni parte del potere, ogni esercizio di autorità deve immediatamente da questo punto partire, dee continuamente a questo punto ritornare. Senza questa unità di potere non vi può essere ordine nel governo, o per meglio dire, non vi è più governo giacche l’anarchia non è altro che la distruzione di questa unità. Nella democrazia, per esempio, il popolo che da se stesso amministra la sua sovranità, può dire: io voglio che vi sia un senato che mi proponga le leggi che io debbo quindi esaminare, ed approvare, per dar loro il peso della mia autorità; io voglio che vi sieno varie magistrature, a ciascheduna delle quali io affido il deposito di una parte delle mie leggi, per applicarle a' casi particolari, pe’ quali sono state ideate; io voglio che vi sia chi invigili sulla tranquillità interna della repubblica, e chi abbia la cura degli affari esteri; che vi sia un Edile per regolare gli spettacoli, un Ducq. per guidare l’esercito, un Censore per invigilare su i costumi, un Pretore per presiedere a' giudizii, un Pontefice per regolare il culto; io nominerò quelli che debbono occupare queste. cariche; fisserò la durata delle loro magistrature; darò a ciascheduno una forza proporzionata alle funzioni del suo ministero; fisserò i limiti di ciascheduna giurisdizione, ed intimerò delle pene terribili per coloro che ardiranno di violarli. Quest'atto, col quale la costituzione di questa repubblica verrebbe a fissarsi, non farebbe altro che distribuire, l’esercizio. delle diverse parti del potere, ma non dividerebbe la sovranità che resterebbe sempre unicamente nel popolo; bilancerebbe l’autorità nel governo, distribuendone le funzioni in modo che ciascheduno di coloro che ne fossero precariamente investiti, ne avrebbe una porzione sufficiente per adoprarla in vantaggio di tutti gli associati, e per impedirne l’abusò, negli altri; ma non alienerebbe parte alcuna di un potere che dev'essere indivisibile, che deve esclusivamente rimaner sempre nel corpo che rappresenta o che amministra la sovranità.

L’istesso avviene in una monarchia regolare. L’autorità de magistrati non è un’alienazione dell’autorità sovrana; il potere ch'esercitano, non è una smembrazione della sovranità. Applicando a' casi particolari la legge generale che il monarca ha dettata, essi impediscono l’abuso che questi potrebbe fare della sua autorità, quando l’esercizio della facoltà esecutiva fosse unito all'esercizio della facoltà legislativa, essi bilanciano quest'autorità, ma non ne diminuiscono il valore. L’unità del potere si conserva in tutta la sua estensione in questa distribuzione, giacche chi fa eseguire senza poter comandare, non può dirsi che abbia una parte del potere; ma è un istrumento del potere, un organo dell'autorità.

Ma avviene forse l’istesso in una monarchia feudale? Cosa è feudalità? È una specie di governo che divide lo Stato m tanti piccoli Stati, la sovranità in tante piccole sovranità; che smembra dalla corona quelle prerogative che non sono. comunicabili; che non ripartisce l’esercizio dell’autorità, ma divide, distrae, ed aliena il potere istesso; che spezza il nodo sociale invece di ristringerlo; che dà al popolo molti tiranni invece di un solo real re molti ostacoli al fare il bene, invece di un argine per impedire il male, alla nazione un corpo prepotente che, situato tra il principe ed il popolo, usurpa i dritti dell’uno con una mano, per opprimere l’altro coll’altra; che in poche parole, mescolando in un istesso governo un’aristocrazia tumultuosa ad un dispotismo diviso, ci lascia tutta la dipendenza della monarchia, senza 1 attività della sua costituzione, e tutte le turbolenze della repubblica, senza la sua libertà. Non è difficile ritrovare colla maggior precisione tutti questi caratteri nel sistema feudale. Basta leggere le investiture de'    nostri feudi, per vedere la vera suddivisione dello Stato e della sovranità, io non parlo dell'antico governo feudale:chi non sa fin dove giugneva allora l’indipendenza dei feudatarii, e la loro vera onnipotenza? Io non parlo di quei tempi, né quali i feudatarii non erano regolati che'dal dritto delle genti, e ne' quali il dritto civile non aveva alcun vigore per essi; io parlo di quel. governo feudale che oggi regna tra noi, e presso alcuni altri popoli dell'Europa; e dico che, malgrado i sensibili progressi che ha fatti la monarchia in questi tempi, malgrado le continue scosse che si son date di questo antico edifizio; quel che n’è rimasto non lascia di contenere in se tutti que’ vizii che noi gli abbiamo attribuiti. Osservando le investiture., noi troviamo che l’investitura di un feudo non è altro che una stipulazione solenne, colla quale il Sovrano dona, o vende ad un privato cittadino ed a' suoi discendenti, una gran parte della sua autorità sopra un’altra porzione di cittadini, i quali, senza il loro consenso, vengono degradati dalla loro politica condizione; condannati a nuove servitù; obbbligati a nuovi doveri; privati di una parte delle loro più care prerogative; strappati dalla immediata giurisdizione del monarca; trasferiti sotta quella di un uomo, ch'essi erano nel dritto di considerare come loro eguale,’e che da quel momento debbono considerare come l’immediato padrone, il visibile; loro sovrano; come un. piccolo monarca del loro distretto. Non confondiamo le idee più diverse tra loro. Alcuni dicono che il barone non è altro che un magistrato del principe, ma io domando: si può mai chiamar magistrato un uomo, la giurisdizione del quale non si raggira ad applicare a' casi particolari le leggi generali che il Sovrano ha dettate, ma ad esercitare i dritti sovrani in quasi tutta la loro estensione? Si può chiamar magistrato del principe colui che in certa maniera è superiore alle leggi, che crea de'    giudici per l'amministrazione della giustizia così civile come criminale, che può far la grazia; può liberare dalla meritata pena un delinquente; può convertire in una pena pecuniaria, una pena afflittiva al corpo; si può mai chiamar magistrato colui che esige delle contribuzioni reali e personali da' suoi sudditi; che ha de'    dritti sulle loro braccia e sulle loro opere, che sarebbero appena compatibili colla sovranità; che non esercita questo potere in nome del principe, ma colla sua propria autorità; che lo trasmette a' suoi discendenti; che lo dà fino in dote alle sue figlie nel difetto di eredi mascolini; che in alcuni paesi, come in Sicilia, può venderlo e donarlo a chiunque gli aggrada?

Chi non vede,dopo queste riflessioni, che la feudalità è una vera alienazione, e divisione del poter sovrano che di sua natura è indivisibile? Chi non vede ne' feudi tante piccole monarchie, nelle quali la dipendenza dai sovrano comune non si conosce che per riflesso, e nello quali non si vede che l'ombra solo di quel potere che dovrebbe essere ugualmente diffuso, ugualmente presente in tutte le parti dello Stata? Chi non vede nella debolezza istessa di questi piccoli monarchi, il bisogno ch'essi hanno di opprimere i loro sudditi; giacché l’oppressione e la tirannia sono state, sono, e saranno sempre le indivisibili compagne di un debole impero? Chi non vede che quando anche il corpo de'    baroni fosse bastantemente vigoroso per impedire i progressi del dispotismo, che quando il fatto non ci avesse dimostrato che per un lungo tratto di tempo i re si son serviti del braccio de'    feudatarii per opprimere il popolo, e che questi sono stati sempre i ministri delle loro violenze, allorché ne han divisi i vantaggi; quando, io dico, questi falli non esistessero, e quando noi potessimo anche vedere in questa classe un ostacolo a' progressi del dispotismo, qual vantaggio ci sarebbe nel cercare un rimedio ad un male in un male molto maggiore? Nella soppressione di quest'ostacolo, la libertà civile non guadagnerebbe forse molto più di quel che potrebbe perdere la libertà politica?

Queste riflessioni ce ne suggeriscono un’altra. In ogni società vi sono due forze, l’una fisica, e l’altra morale. La prima è nell'uomo, la seconda è nel governo. Ogni forma di governo ha i suoi particolari vantaggi, ed ha alcuni svantaggi che le son proprii. Il particolare vantaggio di una monarchia ben costituita è che la forza morale si trova combinata colla minore possibile quantità di forza fisica. Nella democrazia la forza morale è unita alla massima forza fisica, e questo fa che in alcuni casi in questa forma di governo, la libertà civile è immolata alla libertà politica. Il furore di un popolo libero riscaldato dall’eloquenza dì un oratore, non ha alcuno spavento che lo trattiene. Il decreto della concione è il decreto di un sovrano che unisce a tutta la forza morale, la massima porzione di forza fisica. Una legge ingiusta dettata ne' comizii, trova per garanti le forze individue di tutti coloro che son Con’ corsi ad approvarla. Non avviene l’istesso in una monarchia ben costituita.

In questa la forza morale risiede in un essere che non ha maggior forza fisica di quella che ha ogni individuo della società. Nell'ipotesi della non esistenza delle truppe perpetue, (male, a mio credere, incompatibile colla moderazione di questa specie di governo) (1) il monarca si ritrova l’essere più debole, ’e più esposto, allorché si tratta di ordinare il male. Non vi è che una legge utile alla più gran parte, che possa ritrovare in questa forma di governo l'appoggio della preponderanza della forza, fisica, che possa ritrovare la più gran parte degl’individui della società per garanti: e la legge la più utile pel maggior numero, è la legge la più giusta.

Premessa questa riflessione, che noi avremo occasione di maggiormente illustrare in un altro luogo di quest’opera, non vi vuol molto a vedere che questo vantaggio della costituzione monarchica, che può compensare in parte l’inestimabile bene della libertà politica della repubblica, è indebolito e scemato dal feudale sistema. I feudatarii, queste piccole ma numerose frazioni della sovranità, invece di diminuire, accrescono la forza fisica dell’essere, nelle di cui mani è la forza morale. Essi non sono di alcun soccorso al monarca, quando si tratta di procurare l’utile della più gran parte, perché in questo caso l'autorità del monarca è bastantemente appoggiata dalla preponderanza della forza fisica degl’individui, a' quali lo procura, ma possono essergli di gran soccorso, quando si tratta di fare il male. Una legge, che a spese del popolo o direttamente o indirettamente favorisse i loro particolari interessi, e quelli del monarca, troverebbe in questi pretesi soci. della Corona tanti vigorosi campioni; come troverebbe in essi tanti fieri oppositori quella legge, che a migliorar tendesse la condizione del popolo a spese di qualche assurda l'oro prerogativa.. I fatti che confermano questa verità sono molti, e non sono ignoti, e la conseguenza che ne deriva è, che i feudatarii sono un argine piuttosto opposto a' progressi della libertà civile del popolo, che a quelli del dispotismo.

Ma, si dirà, se l’utilità pubblica richiede la distruzione della feudale giurisdizione, potrebbe forse permetterlo la giustizia? I feudatarii non riconoscono forse da un giusto titolo questa loro giurisdizione? Non l’hanno forse essi ereditata da' loro maggiori, o comprata dal principe? Nel difetto de'    monumenti, una lunga prescrizione non deve forse garantire un possesso non interrotto? Un re potrebbe forse attentare alcune prerogative o concedute, o rispettate da' suoi maggiori? Salendo sul trono non ha egli tacitamente promesso di conservare illesa la costituzione dello Stato? Questi sono i motivi di giustizia che si adducono nel difetto di quel supposto principio d’interesse politico, del quale si è dimostrata l'assurdità. Per distruggerli, basta ricorrere a' principii che si sono premessi.

In una monarchia non vi può essere che un solo potere ereditario, e questo è quello del monarca. Si è stabilito che il figlio del re succedesse al suo trono, per evitare i torbidi di un’elezione, e i disastri d’un interregno. Si è preferita l’incertezza di avete utì principe imbecille, alla sicurezza di cagionare nella morte del re, una convulsione molto pericolosa nello Stato. Non si è mai creduto che un uomo potesse acquistare col nascere, un dritto a comandar gli altri uomini; ma si è creduto che conveniva fissare la successione al trono in una certa maniera, che non lasciasse alcun adito alle dispute. In poche parole, si è stabilito che il primogenito del re fosse l’erede della sua corona, come si stabilì una volta in Persia, che colui, il cavallo del quale era il primo a nitrire, fosse il capo della nazione. Questa è stata la vera e la primitiva origine delle monarchie ereditarie.

Non bisogna dunque confondere i motivi, da' quali dipende la sovranità ereditaria, con quelli da' quali dipende ogni altra specie di potere ereditario in uno Stato. Quelli son fondati sul minimo de'    mali, dopo che l’esperienza ha fatto vedere che tra gl'inconvenienti d’una sovranità ereditaria, o d'una sovranità elettiva, ci era sempre meno da temere da' primi che da' secondi; e i motivi da' quali dipende ogni altra specie di potere ereditario in uno Stato, non possono esser fondati che sull’errore, su' pregiudizii, e sull’ignoranza più grossolana de'    principii più chiari della ragione e della politica.

Le ricompense son dovute alle azioni, le cariche al talento ed al merito d’esercitarle. Ecco ciò che dice la ragione e la politica. Un figlio può avere un dritto ad ereditare le ricompense ottenute dal suo padre; ma potrebbe egli avere un dritto ad ereditare le sue cariche? Quella parte di potere affidata al padre suo, per la cognizione che si aveva del suo talento e della sua probità, potrebbe esser pretesa dal figlio, come una parte della sua eredità? È forse necessario che il figlio d’un uomo virtuoso, ed onesto, degno d'essere il depositario d’una parte della pubblica autorità, abbia le virtù e i talenti del padre? Non avviene forse spessissimo che il figlio d'un eroe è il più stupido ed il più malvagio cittadino d’uno Stato? Io lo ripeto: ih una monarchia, nella quale il principe è costretto a vedere una parte considerabile d’autorità trasmettersi da padre in figlio in molte famiglie, potrebbe egli essere responsabile al popolo dell’esercizio della sua sovranità? Questa responsabilità potrebbe essa aver luogo su persone che egli istesso non ha scelte, e che trova già intruse nelle funzioni della pubblica autorità?

Ma la feudalità, diranno i feudatarii, e la successione al potere feudale ci è stata conceduta da' re stessi. I nostri maggiori o l'hanno ottenuta pe’ loro meriti, o col loro danaro. Ogni nuovo principe ha tacitamente ratificate queste concessioni salendo sul trono, e ne ha accordate delle altre; come dunque abolirle? Ma io dimando: il re è egli proprietario assoluto, o semplice amministratore della sovranità? Se fosse proprietario assoluto, egli potrebbe dunque alienare questa sovranità, potrebbe darla a chi vorrebbe, potrebbe cederla ad un suo favorito, potrebbe renderla il premio de'    piaceri ottenuti da una prostituta, potrebbe disporne, o nel tutto, o nelle parti a suo talento. Ma vi è stato mai chi abbia ardito di supporre simili dritti nel capo d’una nazione? Ancorché la forza rabbia fatto salire sul. trono, ancorché i suoi titoli sieno quei della conquista, senza il posteriore consenso del popolo, egli non sarà mai il sovrano dello Stato, egli ne sarà l’inimico; lo stato di guerra sarà lo stato della nazione verso questo usurpatore, e ogni atto della sua sovranità sarà un atto illegittimo, un colpo di violenza.(1)Il popolo, tra le mani del quale è inalienabilmente la sovranità, è il solo che possa legittimarne l’esercizio nella persona dell’amministratore che noi chiamiamo re e monarca. 0 tacito, o espresso che sia questo consenso, è senza dubbio il fondamento unico di tutti i suoi dritti. Se il monarca dunque è il semplice usufruttuario della corona, se è un amministratore fiduciario della sovranità, come potrebbe egli alienare le parti, o in pregiudizio del popolo istesso, o de'    suoi successori? Qual dritto può avere un Monarca di creare i coadiutori de'    monarchi suoi successori? Qual dritto potrebbe egli avere, nel prescrivere che una parte della pubblica autorità si eserciti in perpetuum da alcune famiglie, che i discendenti di queste, senza avere né il, talento, né la probità che si richiede per un simile esercizio, vi sieno esclusivamente da ogni altro ammessi: e che il premio de'    servizio prestati da alcuno alla corona, o il frutta di. un venale contratto, sia la prerogativa di lasciare colle sue facoltà, a' suoi discendenti, il dritto assurdo di dominare sopra una parte de'    suoi concittadini e di esser potenti prima di nascere? Ogni concessione dunque di questa natura, qualunque ne sia il titolo, qualunque il motivo, è di sua natura illegittima; e per conseguenza nulla. Essa è contraria all'ordine politico, perché aliena e distrae una parte della sovranità, perché diminuisce la forza morale, ed accresce la forza fisica del monarca, perché indebolisce il suo potere a fare il bene, ed accresce la sua forza a fare il male; essa è contraria allo, spirito della monarchia, perché introduce nello Stato due poteri innati; essa pregiudica i successori al trono, perché dà loro de'    coadiutori ch'essi non possono escludere, e che non riconoscono da essi la loro autorità; essa nuoce a quella parte del popolo che sottopone al potere feudale, perche lo condanna a soffrire tutti i mali che produce un’autorità ereditaria, ed una superiorità pervenuta senza merito e senza scelta. Ma gioverà essa al feudatario che l’ha ottenuta? L’estinzione della feudale giurisdizione,'sarebbe forse una perdita reale pe’ baroni? La nobiltà, perdendo queste prerogative, perderebbe forse il suo lustro e la sua dignità? Vani dritti, assurde distinzioni, servili omaggi, dignità venale, prerogative che basta il solo danaro per acquistarle, potere comunicabile all’uomo più vile della terra, purché abbia come pagarlo, giurisdizione,prostituita a segno fra noi, fino a divenire il frutto della perdita della virilità, e delle ricchezze acquistate sulla scena da un Eunuco… sono questi i preziosi dritti baronali, de'    quali la nostra nobiltà si crede tanto onorata; e questa è quella giurisdizione che i nostri nobili chiamano la pupilla de'    loro occhi, e che cercano di conservare, ad onta de'    mali che reca alla società, e de'    continui rancori e dispendii che cagiona al loro cuore ed alla, loro borsa.

Uomini imbecilli e vani, e fino a quando i pregiudizii della vostra educazione resisteranno agli urti continui de'    lumi del secolo? Fino a quando seguiterete voi a guardare con tanta prevenzione un potere che vi rende odiosi al popolo, che vi eguaglia a' novelli nobili che hanno ancora le mani incallite dalla zappa, e che vi espone a tutte le vessazioni di un governo che, vedendo con dispiacere questa perniciosa giurisdizione nelle vostre mani, ne molesta, e ne turba di continuo l’esercizio, non credendo di avere bastante forza per distruggerne il possesso? La perdita di questa abusiva autorità, della quale voi siete tanto gelosi, non sarebbe forse un acquisto reale per voi, quando il principe, privandovi di ogni giurisdizione ne' vostri feudi, rinunciasse al diritto della devoluzione, e quando’ obbligasse i vostri sudditi con un riscatto forzoso, ad indennizzarvi della perdita di que’ tenuissimi emolumenti che vi pervengono dai vostri assurdi diritti? 11 pieno possesso de'    fondi feudali, dei quali, come veri proprietari, potreste allora a Vostro talento disporre, non sarebbe forse da preferirsi ad una satrapìa abbominevole che condanna a tante spese ed a tanti rischi? I terreni feudali oggi inalienabili, rimessi allora nella circolazione dei contratti, non acquisterebbero forse un nuovo valore? Questa salutare operazione, dando la libertà alle persone ed alle. cose, favorirebbe nel tempo istesso l’industria, l’agricoltura e la popolazione. L’alienabilità de'    fondi feudali, moltiplicherebbe gli uomini, moltiplicando il numero de'    proprietarii; e la libertà di dividere queste grandi masse tra tutti gl'individui della famiglia possidente, toglierebbe quella distinzione assurda tra' figli di un istesso padre; restituirebbe ad una gran parte de'    cittadini i loro naturali ed imprescrittibili dritti; darebbe molti padri di famiglia di più allo stato, e diminuirebbe il numero di tanti celibi nobili che condannati ad una violenta agamia, si danno in preda a tutti. que’ vizi, contro i quali sono ordinariamente inutili le minacce delle leggi e della religione, quando non sono accoppiate alla libertà di ricorrere ad ud legittimo sfogo; A’ vantaggi della popolazione si unirebbero quelli dell'agricoltura; giacche da quel che si è osservato nell'antecedente libro,(1)una gran parte degli ostacoli, che [ne impediscono i progressi, son dovuti all'esistenza de'    diritti e delle leggi feudali. Finalmente l’industria, animata e dalia libertà personale e dalla libertà reale, e favorita dall’equilibrio che questa mutazione produrrebbe nelle fortune de'    cittadini, darebbe l’ultima spinta ai rapidi progressi della pubblica prosperità. L’Erario del Fisco si risentirebbe; è vero, di questo sacrifizio. Rinunciando alla devoluzione dei feudi, il Re perderebbe una delle sorgenti delle sue rendite; ma questa perdita, ch’egli farebbe da una parte, sarebbe compensata al centuplo dall’altra. Le ricchezze del Principe essendo quelle del popolo, dovrebbero aumentarsi a misura, che quelle de'    suoi sudditi si aumenterebbero. Il potere feudale estinguendosi, si distruggerebbe uno dei più forti ostacoli che oggi si oppongono alla intrapresa di una riforma nel sistema delle pubbliche contribuzioni, la quale, come si è dimostrato,(2)potrebbe nel tempo stesso sollevare il popolo, ed aumentare le ricchezze del trono. I sacri diritti della sovranità restituiti e riuniti interamente nella persona del Monarca che ne è l’unico amministratore, richiamerebbero nella società quell’ordine, che si perde subito che tutte le diverse parti dell'autorità non partono da un centro comune. La corona ricupererebbe quello splendore che resta oggi oscurato da questo esotico potere, e il re che se la vedrebbe tranquilla sul capo, non essendo più distratto dalla cura di riacquistare i suoi perduti dritti, potrebbe unicamente occuparsi nel bene de'    suoi sudditi e della sua gloria. L’autorità sovrana, onnipotente per fare il bene, non conoscerebbe allora altro freno, se non quello che le impedirebbe di fare il male: i soli limiti del potere monarchico sarebbero allora quelli della giustizia; e l’ingiustizia sola sarebbe l’unico ostacolo insuperabile al potere legislativo. Il Monarca, lasciando in tutta la sua estensione la facoltà esecutiva delle leggi a' suoi Magistrati, vero ed unico freno all’abuso della sua autorità, potrebbe allora correggere, riformare e perfezionare queste leggi a suo talento, senza' veder trattenute le sue paterne cure da un corpo, gl’interessi del quale essendo. direttamente. contrarii a quelli del popolo, non trascura mezzo alcuno per. impedire, o discreditare ogni utile correzione. Finalmente il piano universale di riforma che io propongo nel sistema, della criminale procedura, e quello in particolare che esporrò nel seguente capo sulla nuova ripartizione delle giudiziarie funzioni, potrebbe allora essere prescritto ed eseguito senza che la facoltà legislativa incontrasse il minimo ostacolo.


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CAPO XIX

Piano della nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie funzioni per gli affari criminali

Dopo aver esposto il sistema de'    Romani liberi e degl’inglesi sulla ripartizione delle giudiziarie funzioni ne' criminali giudizi; dopo avere osservati i vizi di quello che regna tra noi e, presso una gran parte delle nazioni di Europa; dopo aver mostrata la possibilità di distruggere il principale ostacolo, che si opporrebbe ad ogni utile correzione in questo genere di cose, è oramai tempo di proporre il nuovo piano che si dovrebbe all’antico sostituire. Non facciamo come quei molesti politici, che esauriscono tutta la loro eloquenza nel declamare contro i mali che opprimono i popoli, senza poi curarsi de'    beni che potrebbero essere a quelli sostituiti, e consolare l’afflitta umanità col mostrarle la strada che, allontanandola 'dalle sue sciagure, condur la potrebbe alla sua desiderata felicità. Costoro meritano piuttosto il nome di perturbatori della pubblica tranquillità, che di benefattori della specie umana. Io tradirei anche l’oggetto della mia opera, se cadessi nell’istesso vizio. Tutte le mie linee debbono a questo punto andare a terminare, e se qualcheduno mi volesse condannare di averle dedotte un po’ troppo da lontano, per avere in questo libro esposto con soverchia precisione ciò che si fa presso alcuni popoli, o. ciò che presso altri popoli in altri tempi si è fatto, sappia che. questo non deve attribuirsi alla vanità pur troppo comune agli scrittori, di fare una pomposa mostra di erudizione; ma deve ad un motivo più onesto essere attribuita, e questo, è: disporre colui che legge, in favore delle mie idee, le quali, se non fossero poggiate sui fatti,e sopra una luminosa esperienza, potrebbero forse dagli uomini pur troppo prevenuti contra ogni novità, esser condannate come strane, come forse belle in astratto, ma impossibili ad eseguirsi. Il piano di correzione che io son per proporre su questa parte della criminale legislazione che riguarda la ripartizione delle giudiziarie funzioni, non è altro che il risultato della combinazione del sistema giudiziario degl’inglesi con quello dei Romani liberi, unito ad alcune modificazioni che una profonda meditazione mi ha fatto credere necessarie e che renderanno questo piano concatenato coi principii, le idee e le regole che ho antecedentemente sviluppate in questo libro, ed adattabile allo stato di qualunque nazione, ed alla natura di qualunque governo. Premesse queste proteste, io vengo all'esposizione del piano.

Articolo I
Divisione dello Stato

Lo stato dovrebbe essere diviso in molte piccole provincie, ed ogni provincia dovrebbe avere la sede della giudiziaria autorità nel suo centro. Questa locale ripartizione servirebbe ad accrescere la vigilanza della giustizia, e ad accelerare i suoi passi. Essa recherebbe anche un altro considerabile vantaggio.

La cognizione del carattere e de'    costumi dell’accusato, questa cognizione, che la legge non può somministrare al giudice, non può esigere dall’accusatore, non può ricercare dai testimoni, è nulladimeno di una grande importanza per la rettitudine del giudizio. Se questa non deve entrare nel sistema delle pruove legali, può nulladimeno avere una grande influenza nel determinare la moral certezza del giudice. Un uomo conosciuto per la dolcezza de'    suoi costumi, viene accusato di un’azione atroce; una fanciulla timida e debole, viene incolpata di un delitto audace e difficile; un cittadino stimalo per la sua probità e pel suo onore, vien chiamato in giudizio per un attentato infame. Qual è quel. giudice che, conoscendo il carattere di questi diversi uomini, non ricercherebbe pruove mollo più evidenti per dichiararsi in favore dell'accusa, di quello che farebbe, se fosse sprovvisto di questa cognizione? Quell’istesse pruove, che basterebbero per determinare la sua moral certezza contro un accusato, il cui carattere corrispondesse all’accusa, basterebbero forse per determinarla ne' proposti casi? Chi di noi, malgrado la pienezza della pruova legale, non condannerebbe piuttosto Anito, come calunniatore, che Socrate come delinquente? È un errore il credere, che tutti sian capaci di tutto; è un errore il credere, che la pianta del vizio giunga tutto ad un tratto alla sua perfezione, senza aver prima dati per gradi i segni visibili del suo sviluppo; è un errore il credere che non vi bisogni che un momento, per passare dall’innocenza al più orrendo de'    delitti. La natura non ha formato a questo modo il cuore dell'uomo. Non altrimenti che la virtù, il vizio ha i suoi gradi; e così nel bene come nel male, vi è una progressione nello sviluppo morale dell'uomo, come nel fisico. Questa verità è stata conosciuta, è stata dimostrata, ma non ha potuto penetrare ne' tribunali, pei quali l’uso di essa pareva destinato.

Il sistema giudiziario che oggi regna, la rende inutile. In un paese, ove la legge mette tanta distanza tra il reo ed il giudice; come si potrebbe mai sperare che il carattere del primo fosse noto al secondo? Il carattere è rappresentato dall’abito di alcune azioni. Per conoscere il carattere di un uomo si richiede l’abito di vederlo. Che si restringano dunque quanto si può,gli spazi che separano il reo dal giudice; che i giudici che decider debbono del fatto, non sieno né pochi né perpetui; che si scelgano dalla Provincia istessa, nella quale esercitar debbono il loro ministero; che questa Provincia sia, quanto più si può, ristretta; ed allora non sarà difficile che il carattere dell’accusato sia noto a tutti, o ad una parte almeno de'    giudici che debbono giudicarlo.

Articolo II
Scelta de Presidi

Dalle persone più rispettabili di ciascheduna Provincia, dovrebbe il Principe scegliere il Magistrato che col nome di Preside, dovrebbe per un dato tempo esercitare le seguenti funzioni.

Articolo III
Funzioni di questa Magistratura

Egli dovrebbe ricever tutte le accuse, che o dalle parti offese, o da privati cittadini, o dal Magistrato accusatore (1) si produrrebbero, colle solennità stabilite dalla legge,(2) contro qualunque o cittadino o straniero che venisse imputato di un delitto commesso nella sua provincia. Egli dovrebbe istruire l’accusatore della formola di accusa propria pel fatto, ch’egli asserisce, sempreché l’accusatore richiedesse riguardo a questo oggetto i suoi lumi.(3)Egli dovrebbe. rimettere al Magistrato accusatore quelle accuse che intentate verrebbero da persone alle quali mancassero quelle prerogative che la legge richiede per potere accusare. (4)Nel caso del concorso di più accusatori per l’istesso delitto o per l’istesso reo, egli rimettere dovrebbe il giudizio di divinazione (5)a' giudici del diritto, dei quali di qui a poco si parlerà. Egli dovrebbe inoltre intimare l’accusato, istruirlo dell’accusa che si è prodotta contro di lui, ed assicurarsi della sua persona. o sulla parola di un fideiussore, quando la natura del delitto lo permetta, o ritenendolo nelle carceri nel modo da noi proposto.(6)Egli dovrebbe ricevere il giuramento di calunnia dall’accusatore, presedere al giudizio, come il Pretore. in Roma. Egli dovrebbe invigilare sull’ordine della procedura, e prendere quelle precauzioni, che si debbono, per ottenere che così le due parti, come i testimoni da esse prodotti, si trovassero presenti nel giorno, nel quale si dee terminare il giudizio. Egli dovrebbe formare l’albo de'    giudici che decider dovrebbero del fatto, e sceglierli da que’ cittadini della sua provincia, ne' quali si troverebbero i requisiti legali che qui appresso saranno proposti. Egli dovrebbe finalmente far eseguire la sentenza che dal combinato giudizio de'    giudici del fatto e de'    giudici del diritto risulterebbe.

Articolo IV
Durata di questa Magistratura, e suo salario

Se noi osserviamo il moral carattere degli uomini, noi ritroveremo in tutti un pendio più o meno sensibile, ma nulladimeno comune ed universale al cangiamento. Noi troveremo che l’incostanza è il più costante carattere degli individui della nostra specie. Questo vizio degli uomini si comunica al governo non altrimenti che i difetti de'    componenti si comunicano al corpo che n’’è composto. Il solo rimedio che oppor si possa a questo male, è la breve durata delle magistrature. Il fatto giustifica questa riflessione. Nelle nostre Monarchie si osserva quell'incostanza che non si osserva nelle Repubbliche. Nelle prime, le leggi passano dall’infanzia alla decrepitezza, dal maggior vigore all'oblio, con una rapidità che si può più facilmente vedere che esprimere. Un impetuoso torrente che si forma tutto in un tratto nella stagione delle piogge, cagiona molti sconvolgimenti ne' paesi pe’ quali passa e lascia, appena nell’està, le aride vestigie del letto che ha percorso. Ecco la sorte e l'immagine delle leggi nelle nostre Monarchie. Un grande strepito le accompagna nel momento, nel quale vengono emanate, e l’obblio immediatamente le siegue.

Nelle Repubbliche avviene l’opposto. Noi vediamo in queste le leggi conservare per più secoli il loro nativo vigore. Noi Vediamo in esse molte volte corrette le antiche leggi, molte volte abolite, ma le vediamo rare volte obbliate. Quali sono i motivi di questa differenza? Ve ne sono varii, ma uno de più forti è che nelle Monarchie le Magistrature sono perpetue, nelle Repubbliche hanno una breve durata. Nelle prime regna l’incostanza, perché si lascia al Magistrato il tempo di abbandonarsi al natural pendio dell'uomo; nelle seconde si previene questo male col cangiamento continuo delle Magistrature. In queste il cittadino non è magistrato che durante, presso a poco, quel tempo che può durare il suo zelo e la sua costanza, ed in questa maniera, con una successione ben combinata di magistrati incostanti, esse formano un governo il cui spirito è la costanza.

Nelle Monarchie, dunque, non si dovrebbe far altro che adottare, per quanto la natura del suo governo lo permette, il metodo delle Repubbliche, per ottenerne gli stessi vantaggi. Dalle proposte funzioni del Preside si può facilmente vedere quanto importante sarebbe. nel nostro piano questa carica, e quanto pernicioso ne sarebbe il rilasciamento. Noi fisseremo dunque ad un anno solo la durata di questa magistratura, e rimetteremo nel tempo istesso all'arbitrio del principe il richiamare all’istessa carica l’istessa persona, sempre però coll’interstizio di un anno almeno.

Questa disposizione conterebbe un triplice vantaggio. Essa preverrebbe gli effetti dell’incostanza del Magistrato colla breve durata della magistratura; metterebbe un freno all’abuso ch'egli far potrebbe della sua autorità, dando un adito alle accuse che ciascheduno potrebbe senza spavento produrre contro di lui, terminato l’anno della sua carica; e l’interesserebbe nel tempo stesso ad esercitarla col maggior zelo per la speranza di esservi di nuovo richiamato in premio della sua virtù, dopo un breve interstizio.

Il salario assegnato a questa carica dovrebbe esser proporzionato al suo lustro ed alla sua dignità. Il principe non potrebbe mai essere soverchiamente liberale nel pagare gli amministratori della giustizia. Il grande interesse dello Stato è che colui che esercita una parte qualunque di potere, non abbia bisogno di abusarne, per avere come sussistere con la decenza che il decoro istesso della sua carica richiede. Se tutti i Principi avessero conosciuta questa verità, essi avrebbero dato meno ai loro favoriti, a' i loro cortigiani ed ai loro piaceri, ed avrebbero pagato meglio i loro magistrati. Ciò che io ho detto qui riguardo a' Presidi, intendo di dirlo per tutti gli altri amministratori della giudiziaria autorità.

Articolo V
Be' Giudici del fatto

Noi abbiam detto che il Preside dovrebbe formare l’albo de'    giudici del fatto. Questa, come si sa, era una delle più onorevoli prerogative del Pretore urbano tra' Romani, come lo è dello Sheriff presso gl'Inglesi. Da questa importantissima operazione dovrebbe in ciaschedun anno ciaschedun preside cominciare l’esercizio della sua magistratura. Vediamo dunque quali dovrebbero essere i requisiti che la legge dovrebbe ricercare in questi giudici, quali dovrebbero essere le loro funzioni e quale il loro numero in ciascheduna provincia, ed in ciaschedun giudizio.

Articolo VI
Requisiti legali, che ricercar si dovrebbero in questi Giudici

Per esaminare la verità di un fatto, basta una buona logica che più frequentemente ci vien data dalla natura di quello che non si acquisti coll'arte. Ogni uomo che non sia né stupido né matto, e che abbia una certa connessione nelle idee, ed una sufficiente esperienza del mondo, può conoscere la verità o la falsità di un’accusa sulle ragioni che dall’una parte è dall’altra si adducono. La maggior parte degli uomini potrebbe dunque essere, in una certa età, impiegata dalla giustizia al criterio' de'    fatti; ma la probità non è così comune tra gli uomini, come lo è il discernimento del quale si è parlato. La legge non potrebbe fissare che 1q qualità negative; le positive dovrebbero esser. lasciate all'arbitrio del Preside nella scelta di questi giudici. Le qualità negative dovrebbero esser le seguenti:

Un’età non minore di 25 anni; un patrimonio che non sorpassi un dato valore;(1)la stolidezza e la frenesia derivala o dall’età,o da malattie, o da vizio organico,oda qualunque altra causa; l’esercizio di un mestiere infamante; l’essere sub judice per l'accusa di qualunque delitto, o l’aver subita una pena afflittiva di corpo. Queste sono le qualità negative che la legge dovrebbe fissare per determinar piuttosto chi non potrebbe essere scelto per giudice del fatto, che chi dovrebbe esserlo. Si apparterrebbe quindi al Preside di far cadere la sua scelta sulle persone che mostrerebbero di avere le maggiori disposizioni a riuscirvi.

Articolo VII.
Funzioni di questi Giudici

Chi ha Ietto con attenzione il capo di questo libro, dove si sono esposti i canoni di giudicatura che regolar dovrebbero il criterio legale, e l’altro capo, che precede immediatamente a questo, potrà ricordarsi di ciò che si è detto su questo proposito. Noi abbiam detto che i giudici del fatto dovrebbero determinare la verità; la falsità o l’incertezza dell’accusa, combinando il proprio criterio col criterio legale; che prima di ogni altro, essi dovrebbero decidere dell'esistenza o della non esistenza della pruova legale, e quindi della verità, falsità, o incertezza dell'accusa. Per non ripetere ciò che si è detto, io rimando il lettore a questi due capi, dove mi pare di aver bastantemente sviluppate le mie idee. Aggiungo qui soltanto che dovrebbe esser proibito a questi giudici di' uscire dalla stanza, dove si tiene il giudizio, prima di aver unanimemente deliberato. Questo è vn temperamento, della legge d’Inghilterra, che proibisce loro anche di mangiare, di bere e di far uso del fuoco. Un giudice robusto potrebbe forse strascinare tutti gli altri al suo partito, potendo più degli altri reggere all’inedia, alla sete ed al freddo. La semplice proibizione di abbandonare il luogo del giudizio, sarebbe un mezzo meno pericoloso per facilitare l'unanimità de'    suffragi. Finalmente questi giudici, dopo aver deciso della verità del fatto, dovrebbero decidere del grado del delitto. Io. voglio qui lasciar sospesa la curiosità del lettore, che sarà soddisfatta nella seconda parte di questo libro; giacche dallo sviluppo di questa importante idea dipende la soluzione del gran problema: ottenere che ciaschedun delitto abbia la sua pena dalla legge prescritta. Quando si vedrà ciò che io ho pensato su questo oggetto, si potrà meglio giudicare dell’opportunità così del piano universale di procedura, che in questa prima parte propongo, come di quello in particolare, che riguarda il sistema delle pruove e la ripartizione delle giudiziarie funzioni. Un architetto concepisce un vasto edifizio e ne innalza una parte. L’ignorante con ugual facilità e con uguale ingiustizia ne loda, o ne vitupera l’autore. L'artefice ne aspetta il termine per giudicarne. Io prego il mio lettore a giudicarmi da artefice

Articolo VIII
Numero di questi Giudici in ciascheduna Provincia ed in ciaschedun giudizio

Su questo articolo più ché in ogni altro converrebbe adottare il sistema britannico. In ogni provincia l’albo del Preside dovrebbe contenere 48 giudici, presi dagli abitanti dell’istessa Provincia, da' quali in ogni giudizio si dovrebbero scegliere, col consenso dell'accusato, i dodici giudici che unanimemente decider dovrebbero del fatto.(1)Il numero di 48 pare bastevole a favorire la libertà delle ripulse, così necessaria per garantire la sicurezza dell'uomo, che si ritrova avvinto ne' legami della giustizia, e per ispirargli quella confidenza, senza della quale i decreti della giustizia potrebbero comparire ugualmente orribili che gli attentati della violenza e della forza. Vediamo dunque come dovrebbero regolarsi queste ripulse.

Articolo IX
Delle ripulse di questi giudici

Noi profitteremo anche in quest’oggetto de'    lumi che ci offre la Britannica Nazione che è la sola in Europa, dove la libertà civile del cittadino. sia. favorita ne' criminali giudizi. Ad esempio dunque della legislazione di questo popolo, si dovrebbero stabilire tre diverse specie di ripulse. La prima, che dovrebbe chiamarsi universale, dovrebbe aver luogo, allorché il reo potesse, sopra motivi legali, dichiarar sospetto il Preside. In questo caso, tutto l’albo de'    giudici da lui proposto, dovrebbe cadere, ed un nuovo albo si dovrebbe per quel solo litigio formare da uno de giudici del delitto di quella provincia, de'    quali da qui a poco parleremo. La seconda specie di ripulsa, che chiamar si dovrebbe ripulsa per causa, dovrebbe aver luogo non sopra tutto l’albo de'    giudici, ma sopra quelli soltanto, che il reo potrebbe escludere come privi de'    requisiti che la legge, richiede in essi, o dichiarar sospetti, pei rapporti d’odio, o di litigio contro di lui, o di amicizia e di parentela coll’accusatore. I motivi di queste ripulse regolar si dovrebbero co' principii molto conosciuti del dritto comune.(1) I giudici di queste due specie di ripulse, cioè universale e per cause, dovrebbero essere gli stessi giudici del dritto. Finalmente l'ultima specie di ripulse, che si chiamerebbe perentoria, dovrebbe aver luogo sopra 20 giudici inseriti nell’albo del Preside, che sarebbe sempre in libertà dell’accusato di escludere, senza aver bisogno di addurne motivo alcuno.

Nel capo XVI di questo libro, dove si è esposto il sistema della legislazione britannica su quest'oggetto, si sono esposte le ragioni, sulle quali è fondato il vantaggio di questa specie di ripulsa. Finalmente conviene avvertire che quando tutte queste ripulse avessero esaurito l’albo, allora il Preside dovrebbe nominare tanti altri giudici, quanti se ne richiederebbero per compiere il numero de'    dodici che giudicar dovrebbero del fatto. Ma quali dovrebbero essere i giudici del dritto?

Articolo X
De’ Giudici del diritto

Se ogni uomo che abbia senso comune e probità conosciuta, può esser giudice della verità e della falsità di un’accusa, non bastano queste due qualità per giudicare del dritto. Per giudicare del dritto, bisogna avere cognizione del dritto, e questa cognizione suppone una particolare applicazione ed una profonda conoscenza delle patrie leggi. Pel giudizio del dritto bisogna dunque. dipendere da coloro che la pubblica autorità ha riconosciuti bastantemente istruiti nella legislazione, per affidarne loro il prezioso deposito. Se ogni cittadino dovrebbe sapere le leggi del suo paese, non è però condannabile perché le ignori; ma questa ignoranza è un delitto nella persona di un magistrato, che ne fa professione. Più: le leggi criminali per loro natura debbono essere molto precise e molto estese; precise per separare gli oggetti; estese, per isviluppare ciascheduno di essi. I dettagli superflui, e perniciosi nelle altre leggi, sono indispensabili nelle leggi criminali; perché le azioni, essendo molto più difficili a determinarsi, che i dritti, è necessario descrivere le une, nel mentre che basta definir gli altri. Se ogni delitto deve avere una pena proporzionata, bisogna ben distinguere i delitti, per non esser ingiusto nelle pene; e questa distinzione, come l'osserveremo nel seguito di questo libro, deve obbligare il legislatore a discendere in immensi dettagli, se non vuol rendere arbitraria l’autorità de'    giudici e dar loro un potere superiore alla loro destinazione. Come sperare dunque di trovare in un privato cittadino, che il Preside ha scelto pel giudizio del fatto, tutte queste positive e legali cognizioni? Vi è dunque bisogno nello Stato di un corpo permanente di giudici del dritto.

Articolo XI
Numero di questi Giudici in ciascheduna provincia

In ciascheduna provincia vi dovrebbero essere tre di questi giudici; giacché nel giudizio del dritto, a differenza di quello del fatto, dovrebbe bastare la pluralità de'    suffragi per decidere. Questi giudici però non dovrebbero esser sedentanei, non dovrebbero rimaner sempre nell’istessa provincia. Essi dovrebbero in ogni anno cambiar di dimora, e passare in un’altra provincia, senza poter ritornare nella prima, se non dopo aver fatto il giro di tutte le altre. Questo sarebbe un rimedio contro la necessaria perpetuità della loro carica,giacche, terminato l'anno, ognuno potrebbe accusarli senza spavento. Il Sovrano dovrebbe essere l’unico elettore di questi giudici, e dovrebbe tenere presso di sé una magistratura destinata ad esaminare le accuse che contro di essi si produrrebbero. Questo freno, unito all'evidenza, che dovrebbe essere distintivo delle' leggi criminali, renderebbe quasi impossibile a questi giudici l’abusare del loro ministero, senza esporsi alla sicurezza di esser puniti. Ma quali dovrebbero essere le loro funzioni?

Articolo XII
Funzione di questi Giudici

Noi abbiamo detto che non si dovrebbe operare di trovare ne' giudici del fatto una piena cognizione del dritto. Or in molti fatti Tesarne dell’accusa richiederebbe la cognizione delle disposizioni della legge, o almeno di alcuni principii legali. In questi casi dunque, i giudici del dritto dovrebbero istruire que’ del fatto di ciò che essi debbono avere innanzi agli occhi in quel tale giudizio.

Si è detto inoltre che il giudice del fatto dovrebbe prima di ogni altro decidere se nell’accusa che si è prodotta, vi sia la prova legale, e quindi decidere della verità, falsità o incertezza dell’accusa, combinando la loro moral certezza col criterio legale.(1)Or come decidere dell’esistenza di questa prova legale, senza prima sapere quale sia la prova che la legge richiede? Se l’accusatore ha, per esempio prodotti due testimoni di veduta, fa d’uopo che essi sappiano quale sia la prova testimoniale che la legge considera come piena, e quali sieno i requisiti ch'essa richiede per dichiarare idoneo un testimonio. Se l’accusatore adduce una pruova indiziaria, bisogna della maniera istessa, ch'essi sappiano quali e quanti indizi si richieggano, per formare una prova legale, e come questi possono essere da altri indizi distrutti dall’accusato: in poche parole, bisognerebbe ch'essi avessero innanzi agli occhi que’ canoni di giudicatura_ che determinano il criterio legale. Or siccome questa cognizione non si dovrebbe presupporre in essi, così sarebbe necessario di unire alle altre funzioni de'    giudici del dritto, quella d’istruirli sullo stabilimento della legge, che riguarda la prova prodotta dall’accusatore.

Finalmente, siccome nelle altercazioni che vi sarebbero tra l’accusatore e l’accusato, si potrebbe facilmente perdere da' giudici del fatto quel filo d’idee che sarebbe necessario per vedere tutti i rapporti de'    fatti e delle ragioni che dall’una parte e dall’altra si addurrebbero, bisognerebbe che i giudici del dritto più esercitati di essi a simili altercazioni, riepilogassero alla presenza delle parti tutto ciò che si è detto, riducessero lo stato della quistione a que’ termini a' quali anderebbe ridotto, e facilitassero in questa maniera a' giudici del fatto la scoverta della verità. Il Preside dunque dovrebbe destinare lino de'    tre giudici a questa incombenza, senza però poter proibire a' due suoi colleghi di opporglisi, o di supplire a ciò ch'egli avrebbe potuto omettere e trascurare.

Queste sarebbero le funzioni de'    giudici del dritto che dovrebbero precedere il giudizio del fatto; la più importante sarebbe poi quella che dovrebbe seguirlo. Quando i dodici esploratori del fatto avrebbero unanimemente deciso dell'accusa prodotta, si apparterrebbe a quelli il profferire la sentenza a tenore delle leggi, vale a dire o l’assoluzione dell’accusato, quando i giudici del fatto avessero dichiarata falsa l’accusa, ola sospensione del giudizio, quando l’avessero dichiarata incerta, o la condanna alla pena stabilita dalla legge alla qualità ed al grado del delitto, del quale i giudici del fatto dichiarato avessero reo l’accusato.

In questi confini dovrebbero ristringersi le unzioni dei giudici del diritto. Fedeli custodi della legge, essi non dovrebbero esserne che l’organo. Se questa si tacesse su di un delitto, essi dovrebbero ugualmente tacersi. Un fatto qualunque, che non si trovasse compreso in alcuno di quelli, contro ai quali la legge ha pronunziata la sua sanzione, dovrebbe per questo solo motivo rimanere impunito.

Il male che produrrebbe l’impunità di questo delitto, male del quale una nuova legge potrebbe subito riparare le conseguenze, non è da mettersi in paragone con quello che nascerebbe da un’assurda e perniciosa estensione del giudiziario potere. L’autorità d’infliggere una pena non dovendo, né potendo essere che nella legge, il giudice dovrebbe piuttosto esserne il primo testimonio che l’autore. Egli non dovrebbe ‘ far altro che manifestare la condanna, ch'essa ha anticipatamente profferita,e riconoscere il suo impero. Felice quel paese ove il codice penale corrispondesse a. quest’ordine sublime!

La seconda parte di questo libro mostrerà la possibilità d ottenerlo.

Articolo XIII
Delle Sessioni ordinarie di giustizia

Da tutto quel che si è detto si può facilmente vedere che queste corti ai giustizia non potrebbero essere continuamente in azione, senza cagionare una spesa immensa al governo. Se i 48 giudici del fatto, scelti dal Preside nel principio istesso della sua carica, dovessero restar per tutto l’anno nella capitale della provincia, per essere sempre pronti ad esercitare il loro ministero, bisognerebbe che ciascheduno di essi fosse per tutto l’anno’ mantenuto a spese del Governo.

Noi avremmo, dunque, uno stuolo immenso di. mercenari di più che farebbero pagare a caro prezzo al popolo il beneficio che questo nuovo piano gli recherebbe.

A questa prima riflessione sene può aggiugnere un’altra. Nell’ipotesi della residenza continua di tutti questi giudici nella capitale della provincia, il preside non troverebbe chi volesse accettare l'onorevole incarico di questa giudicatura, la quale dovrebbe per un anno intero distrarre dalla sua famiglia e da' suoi affari il nuovo sacerdote di Temi. Il suo successore molto meno, potrebbe confermare quelli tra questi giudici che avessero date prove maggiori della loro virtù, del loro talento, della loro imparzialità. 0 bisognerebbe ricorrere alla violenza, mezzo che disporrebbe questi giudici all'ingiustizia, coll’esempio che loro se ne darebbe,osi dovrebbero spesso lasciare in pace i più probi e i più onesti, e contentarsi de'    più sfaccendati che ordinariamente sono i meno virtuosi.

Il popolo, dunque, sarebbe oppresso dalle spese ch'esigerebbe il loro mantenimento, senza potersi compiacere d’aver i giudici più degni della sua confidenza. Per evitare questo doppio male, io propongo,ad esempio degl’inglesi, le sessioni ordinarie di giustizia in ogni tre mesi nelle provincie, ed in ogni sei settimane nella capitale. Ciascheduna di queste dovrebbe durare per tanti giorni, per quanti se ne richiederebbero per ultimare tutti i giudizi che nel corso di quel tempo che passa tra l'una sessione e l’altra, si sarebbero intentati. Pel primo giorno della sessione si dovrebbero trovare già riuniti nella capitale della provincia i 48 giudici del fatto, che il Preside ha nominati, e se alcuno di questi fosse legittimamente impedito, il Preside dovrebbe subito rimpiazzarlo, affinché il numero de'    48 fosse sempre compiuto. Durante questo tempo essi dovrebbero essere a spese del governo trattenuti. Terminata la sessione, essi sarebbero subito congedati e restituiti alle loro famiglie.

Articolo XIV
Sessioni straordinarie

Quantunque l’intervallo di tre mesi tra l'accusa prodotta e il finale giudizio non sia molto esteso, sé paragonar si voglia alla lentezza presente de'    giudizi, derivata dalla misteriosa organizzazione del processo inquisitorio; nulla di meno sono d’opinione che ne' delitti più atroci, in que’ pochi delitti che in una savia legislazione dovrebbero essere puniti colla morte, non si dovrebbe aspettare il. tempo ordinario per giudicarli; ma una straordinaria sessione convocar si dovrebbe dal Preside della provincia, nella quale l'orrendo attentato sarebbe stato commesso. Questo acceleramento della giustizia non dovrebbe togliere al reo alcuno de'    soccorsi che la legge offre alla sua sicurezza. Io credo anzi che, a misura che i delitti sono più gravi, maggiori dovrebbero essere le precauzioni della legge nel favorire la difesa dell'accusato. ’Noi abbiamo altrove sviluppato questo principio.(1)Ma nella straordinaria sessione che io propongo, non si verrebbe a far altro che anticipare il tempo del giudizio, e quest’anticipazione sarebbe necessaria in questa specie di delitti. Quando si tratta di punire un uomo colla perdita della vita, bisogna profittare di que’ momenti ne' quali il popolo è ancora penetrato dall'atrocità del reato. La legge dee procurare in questi casi, più che in ogni altro, che il voto pubblico ratifichi il decreto della giustizia, e che le grida del popolo applaudiscano alla proclamazione del giudizio, come a quella della pace e della libertà; che il patibolo innalzato nella piazza pubblica risvegli l’idea della giustizia e non quella della pietà; che i cittadini accorrano al terribile spettacolo, dell’esecuzione, come al trionfo, delle leggi; che i sospiri e le lagrime di un’imbecille compassione siano sostituiti da quell'allegrezza e da quella maschia insensibilità che ispirano l’amore della pace e l'orrore del delitto; che, in poche parole, la condanna si eseguisca in un tempo, nel quale l’onest'uomo, vedendo ancora nel reo il suo inimico, si compiaccia della giustizia delle leggi, invece di condannarne il rigore, e lo scellerato disposto a delinquere, sia ugualmente spaventato e scosso, e dalla moltiplicità degl'inimici che il delitto richiamerebbe contro di lui, e dallo spettacolo della pena, e dall'applauso che l’accompagna.

Ecco ciò che si ottiene, quando il tempo non ha ancora scancellata l’impressione e l’orrore del delitto. Ma se questa impressione s’indebolisce; se l'. intervallo tra il delitto e la pena ha già raffreddate le immaginazioni, ed illanguidito quel primo furore, l’esecuzione della pena diviene allora o inutile o perniciosa. In vano si cercherà di richiamare l’idea di un attentato che un araldo non può con un freddo proclama risvegliare, quando è stata dissipata dal tempo. Il popolo insensibile al delitto, del quale ha perduto la rimembranza, non si commoverà che in favore del delinquente. L’apparato lugubre della giustizia non gli mostrerà più il reo, ma il disgraziato; la pietà parlerà per lui; la compassione prenderà ne' cuori quel luogo che prima era stato occupato dall’odio e dallo sdegno; e la giustizia, discreditata dalla lentezza de'    suoi passi, resterà sola in mezzo agli spettatori muti, che malediranno in secreto la sua severità e desidereranno di strapparle la vittima che s’immola al suo rigore.

A queste ragioni poggiate sull'interesse pubblico, se ne aggiunge un’altra fondata sull’interesse istesso di colui che dev'esser giudicato. 0 colpevole o innocente eh egli sia, l’acceleramento del giudizio non fa che diminuire in lui gli spasimi dell'incertezza. S’è innocente, ogni giorno di dilazione è per lui e per la sua famiglia un giorno di più di tormento, di angoscia, di avvilimento e di rossore; è pér i suoi calunniatori e per i suoi nemici un giorno di più di trionfo; è pel suo onore un giorno di meno di godimento. Se è colpevole, il momento nel quale' gli si manifesta il terribile decreto è sovente il momento nel quale comincia in lui la tranquillità. Convinto della giustizia della sua condanna, egli comincia allora a gustare nella sua solitudine e nell'avvicinamento. istesso del supplizio, quella specie di riposo che il delitto può lasciargli. La vera filosofia, vale a dire la dolce, la consolante religione, viene allora in suo soccorso, e riempie il suo cuore delle consolanti idee di una vita futura. A fronte della giustizia degli uomini rigorosa ed implacabile, essa gli presenta la misericordia di un Essere onnipotente, facile a perdonare, sempre pronto ad aprire le sue braccia a' rimorsi, e disposto ad unire il perdono di una lunga sequela di delitti, e il premio di una interminabile felicità, ad un solo momento di rassegnazione. La sua immaginazione animata da queste speranze giunge fino a fargli vedere nel termine della stia vita il principio della sua felicità, ed a mostrargli nel supplicio, al quale la legge condanna, la più moderata espiazione delle sue colpe. Tutte queste idee non si presentano alla sua immaginazione, se non dopo che la giustizia ha già profferito il decreto della sua morte.(1)Il tempo anteriore è molte volte assai più tormentoso.

Il prolungarlo inutilmente è dunque sempre un danno che si reca alla società, e molle volte una pena che si fa inutilmente soffrire all'infelice che deve istruirla col suo esempio. Questi sono i motivi pe’ quali io propongo le straordinarie sessioni, nelle quali non sarebbe neppure necessario che tutti i 48 giudici del fatto si portassero nella capitale della provincia; giacche il Preside potrebbe anticipatamente consegnare al reo l’albo de'    giudici e col suo consenso nominare i 12 che dovrebbero intervenire per quel particolare giudizio.(2)Con questo metodo l’esecuzione della pena sarebbe sempre prossima al delitto.

Articolò XV
Magistratura per ogni Comunità

In ogni comunità vi dovrebbe esser un magistrato incaricato di conservarvi la pace ed il buon ordine. Vi sono alcuni leggieri delitti che non meritano l'ordinario corso di un giudizio, ma che non conviene per questo lasciare impuniti. Una sommaria procedura basta in questi, per giudicarli e la speditezza di questi giudizi è necessaria alla conservazione dell’ordine pubblico, e ad evitare maggiori inconvenienti. Le romane leggi e quelle di altri popoli liberi garantiscono questa verità.(1)Le ingiurie di parole, per esempio, tra persone della medesima condizione, alcune leggerissime offese o danni recati, che la legge non punisce che o con una tenuissima pena pecuniaria, o con una detenzione di pochi giorni nelle carceri; il poco rispetto e la poca ubbidienza prestata agli ordini di qualche magistrato, ed altri delitti di questa natura, che chiamar si possono trasgressioni piuttosto che delitti, e de'    quali poi parleremo nel seguito di questo libro, dovrebbero essere sommariamente giudicati e puniti a tenore delle leggi da questo magistrato, che gli abitanti istessi della comunità dovrebbero scegliere in ogni anno, coll'approvazione del Preside della provincia, nella quale è compresa, ed al quale le parti potrebbero appellarsi dalla decisione. I requisiti che dovrebbe avere colui che aspirasse a questa magistratura, dovrebbero essere una probità conosciuta, una rendita stabilita dalle leggi, ed una onorevole condizione.

La sua giurisdizione non dovrebbe permettergli di fare arrestare e condurre nelle carceri persona alcuna, fuorché quando si trattasse d’impedire un grave delitto; di punire la disubbidienza a' suoi replicati ordini; o di punire uno di quei leggieri delitti, a' quali la legge assegna la pena di pochi giorni di carcere, e la cognizione de'    quali sarebbe alla sua magistratura affidata; o quando finalmente si trattasse di fare arrestare provvisionalmente il reo di qualche grave delitto, quando fosse notorio, e temer si potrebbe della sua fuga: in questo ultimo caso egli dovrebbe subito partecipare al Preside le sue disposizioni, ed aspettare i suoi oracoli. Questo magistrato, come si è detto, dovrebbe essere il conservatore della pace. La sua principal cura dovrebbe dunque essere di accordare le parti tra loro, di rappacificarle sempre che si potesse, e di non venire al giudizio, se non quando tutti i mezzi di. riconciliazione si fossero adoperati. Egli dovrebbe anche essere, come si è detto, il conservatore del buon ordine nella sua comunità. Dovrebbe dunque essere anche sua cura di dare tutte quelle disposizioni economiche che potrebbero evitare e prevenire qualunque disordine. Finalmente, come ispettore della sua comunità, egli dovrebbe anche partecipare al preside tutti i delitti che si commetterebbero nella sua comunità, senza però esser nell’obbligo d’indicarne gli autori, affinché il Preside dar potesse gli ordini opportuni al magistrato accusatore, quando alcun privato cittadino non si presentasse in giudizio come accusatore; egli dovrebbe anche costare, per servirmi dell’espressione de'    criminalisti, il corpo del delitto in tutti que’ casi che richiedono questo esame.(1)

Queste combinate cure richiederebbero che questa magistratura fosse sempre esercitata da persone degne della pubblica confidenza. Or la elezione fatta dal popolo favorirebbe questa opinione. La sua durata ristretta ad un anno,impegnerebbe colui che ne sarebbe ornato, ad esercitarla con zelo e con onore, per la speranza di esservi richiamato. L’approvazione del presidente sarebbe necessaria, per escludere colui che nel registro de'    pubblici giudizi si trovasse condannato, o sub judice per qualche delitto; o che nell'esame (che dovrebbe sempre precedere all’approvazione) su quella parte della criminale giurisprudenza che riguarderebbe il suo ministero, non si fosse ritrovato idoneo. L’appellazione da' suoi decreti all’istesso Preside, sarebbe un rimedio contro i rapporti di parentela o d’amicizia che in alcuni casi potrebbero rendere sospetti i suoi giudizi. Finalmente i requisti di una rendita annuale, non inferiore a quella stabilita dalla legge, e di un’onorevole condizione, sarebbero necessarii per rendere più difficile la prevaricazione in questo giudice, più luminosa la sua carica e più confidente il popolo ne' suoi decreti.

Io mi astengo d’immergermi in un dettaglio più minuto riguardo a quest'oggetto, per non annoiare colui che legge, al quale convien sempre lasciare qualche cosa da pensare. Vi aggiungo soltanto che nelle capitali. e nelle grandi città, dove questa magistratura non si potrebbe esercitare da un solo, converrebbe che queste fossero divise in vari quartieri, il numero de'    quali dovrebbe esser proporzionato alla loro respettiva popolazione, e lasciare a ciaschedun quartiere la scelta del suo magistrato, che come quello di ogni altra comunità dovrebbe esercitare l'istesse funzioni, colla stessa dipendenza dal Preside della provincia, dove sarebbe compresa la città, e coll'istesse leggi.

Che il lettore richiami ora la sua riflessione su questo piano di ripartizione delle giudiziarie funzioni e ne giudichi; che lo paragoni co' principii poc'anzi sviluppati, e vegga come, senza l’alienazione di parte alcuna del potere, ne sarebbe ammirabilmente ripartito l’esercizio.

La facoltà legislativa verrebbe non solo a lasciare a' Magistrati la facoltà giudiziaria, ma questa stessa facoltà non sarebbe interamente tra le mani de'    magistrati. Colui che ha il deposito della forza pubblica e l’amministrazione della sovranità, non solo non potrebbe farne usò contro un individuo della società, senza il consenso di coloro che hanno il deposito delle leggi e l’esercizio della facoltà esecutiva; ma costoro istessi, ritenuti da un freno ugualmente forte, non potrebbero far parlare la legge, senza il consenso di altri uomini che non apparterebbero al loro corpo, e non sarebbero ornati dell’istessa dignità. Colui che ha fatto la legge,non potrebbe applicarla al fatto; e coloro che dovrebbero applicarla al fatto, non potrebbero decidere dell'esistenza del fatto. Quest'ultima cura, senza della quale il potere legislativo ed il potere esecutivo rimarrebbero nell'inazione, non verrebbe affidata ad uomini che formerebbero un'assemblea permanente, nella quale aver potessero il tempo da conoscere in qual maniera essi potrebbero far servire il loro potere al loro interesse. Scelti di continuo dal popolo, essi vi ritornerebbero di continuo. Investiti di un precario ministero, essi non potrebbero neppur prevedere le. occasioni, nelle quali verrebbero invitati ad esercitarlo: il loro considerabile numero, la breve loro durata e la moltiplicità delle ripulse accordate dalla legge al r. eo; produrrebbero questo prezioso effetto. Le cose sarebbero combinate in maniera che il potere giudiziario, questo potere di sua natura così formidabile, che dispone, senza poter incontrare resistenza alcuna, della vita, dell'onore e delle sostanze de'    cittadini; questo potere che malgrado tutte le precauzioni che si possano prevedere per restringerlo, dee nulladimeno rimanere, in un certo modo, arbitrario; questo potere, io dico, esisterebbe nella società, riceverebbe la maggiore possibile restrizione, corrisponderebbe interamente all’oggetto della sua destinazione, e non sarebbe nelle mani di alcuno. Non vi sarebbe un uomo nella società di cui un cittadino, vedendolo, potesse dire: questi può decidere della mia vita o della. mia morte.

Ecco la felice combinazione che si otterrebbe dal nuovo piano di ripartizione delle giudiziarie funzioni che io propongo. L'armonia che ha questo co' principii antecedentemente sviluppati, mi dispensa dal farne l'apologia. I seguenti capi nei quali si svilupperanno le ultime due parti della procedura e si esporranno finalmente l’ordine, e le solennità di questi giudizi; e più d’ogni altro la II parte di questo libro, dove si manifesteranno le nostre idee, sul codice penale, distruggeranno quelle difficoltà che non era questo il luogo di prevenire.

Contentiamoci della chiarezza, colla quale si è cercato di esporne le diverse parti, e di dar termine a questa interessante teoria col far voti affinché un piano così semplice e così, favorevole alla civile libertà, sia sostituito al più mostruoso, al più complicato, a quello nel quale l’innocenza è più esposta e l’impunità più favorita. Se vi è mai un tempo, nel quale questa speranza possa esser ben fondata e questi voti esauditi, è sicuramente quello, nel quale noi viviamo. Una. gloriosa emulazione di distinguersi colle fertili novità, si è manifestata su' troni. L’opinione che regna su' re, e la filosofia che oggi regola l’opinione, han già promessa l’immortalità al monarca che distinguerà il suo regno con una riforma in questa parte della legislazione, che più da vicino interessa la. civile tranquillità. Felice quel popolo, ove questa correzione avrà effetto; ma più felice quel re che sarà il primo a darne l’esempio. Il circo è aperto, la ghirlanda è preparata; ma gli atleti che si presenteranno su questa arena, non debbono ignorare che i fiori della corona della gloria appassiscono allorché passano sopra un secondo capo.

CAPO XX

Quinta parte - Della Criminale Procedura
La Difesa

Io dovrei immergermi in un immenso dettaglio, se indicar volessi tutt'i mezzi di difesa, che secondo il nostro piano offrir si potrebbero all’accusato, per sostenere la sua' innocenza. Siccome questi nascono dallo spirito istesso della legislazione criminale, è chiaro che inutile, ed estranea al mio argomentò sarebbe una simile ricerca. Io non scrivo per gli avvocati, ma pe’ legislatori, ed il legislatore non dee far leggi per indicare con quali argomenti l'accusato possa giustificarsi. Determinando il valore delle prove legali e l'ordine e le solennità de'    giudizi, egli somministra nel tempo istesso all’accusato i motivi da' quali dedurre la sua difesa. Quello che si appartiene al legislatore è di stabilire non gli argomenti, ma il modo della difesa. Or su quest'articolo vi sono alcuni interessanti oggetti da osservare. Bisogna primo di ogni altro, esaminare se Farle oratoria debba aver luogo nel foro. Consultiamo la ragione e vediamo ciò ch'essa ci dice.

Il giudice non porta nel tribunale della giustizia un’anima libera, egli non è che l'organo della legge. Se questa è inflessibile, il giudice dev’esserlo ugualmente; se questa non conosce né l’amore, né l’odio, né il timore, né la pietà, il giudice dee come essa ignorare queste passioni. Applicare il fatto alla legge, è l’unico oggetto del suo ministero: egli non può dunque commuoversi in favore di una delle parti senza tradirlo. Se egli ha un cuore sensibile, un’anima facile ad appassionarsi, questa è un inimico della giustizia, ch'egli dee fare i maggiori sforzi per lasciare fuori le porte del santuario delle leggi. L’imparzialità del suo giudizio richiede una fermezza di animo, ed una insensibilità di cuore, che sarebbe viziosa in qualunque altra occasione. Or l'oggetto dell'arte oratoria del foro (secondo l'idea comune che si attacca a questa espressione) è per l’appunto di distruggere queste due qualità, che deve avere un giudice nel mentre ch'esercita le sue terribili funzioni. Esagerare l’atrocità del delitto, se si accusa; esagerare i motivi del delitto, se si difende; indagare le varie passioni de'    giudici, per richiamarle sul soggetto che si prende di mira; eccitare, secondo il bisogno lo richiede, l’ira, la compassione, il furore o la pietà; sostituire alla freddezza della ragione l’entusiasmo dell’immaginazione; parlare al cuore, quando non può sedursi l'intelletto; commuovere il giudice quando non è possibile persuaderlo: ecco ciò che comunemente si chiama arte oratoria del foro, arte perniciosa, arte destruttrice della giustizia, arte ch’espone l’innocenza e favorisce l'impunità..

Richiamando alla nostra memoria le leggi di que’ popoli, presso i quali la severità della giustizia non lasciava quel funesto arbitrio a' giudici, che tra noi si chiama coll’illusorio nome di equità, noi troveremo l’arte oratoria proscritta dal foro. Presso gli Egizi l’accusatore non poteva accusare, e il reo non poteva difendersi che per iscritto.(1)Egli doveva affidare a questo muto interprete de'    suoi sentimenti, la difesa della sua causa. I legislatori di questo popolo temettero che i gesti, il tuono, le lagrime e quell’enfasi patetica che accompagna la viva voce di un uomo che, animato da una forte passione, vede in coloro che lo ascoltano, gli arbitri della sua sorte; temettero io dico che queste seduzioni diminuir potessero la fermezza del giudice; potessero risvegliare la sua sensibilità, richiamare la sua compassione ed indebolire il sovrano impero della legge. Nella China, dove malgrado gli apparenti vizi della sua costituzione, le leggi e non gli uomini son que’ che comandano, si trova l’istesso uso introdotto fin da un immemorabile tempo.(2)

In Sparta non era proibita la viva voce; ma il linguaggio doveva esser conciso e breve il discorso.(3)In Atene l’Areopago non permetteva, nel principio, alle parti di servirsi del ministero degli oratori.(4)La legge temeva le seduzioni dell’eloquenza. Nel progresso del tempo permise all'accusato di farsi difendere; ma era severamente proibito all'oratore ogni esordio, ogni digressione e la commozione degli alletti.(5)Socrate citato innanzi a questa augusta assemblea, s’interdisse tutti gli artifizi di un’eloquenza patetica. Un oratore che avesse parlato al cuore e' che avesse cercato di muover le passioni, ne sarebbe stato cacciato come un vile prevaricatore. Un araldo gli ricordava la legge, primaché cominciasse a parlare, e gl'imponeva silenzio subito che usciva dallo stato della questione.(6)Io non so perché si debba punire il difensore di un reo che cerca di corrompere un giudice col danaro, e gli si debba poi permettere di sedurlo co' tratti d’un’eloquenza patetica. I mezzi sono diversi, ma l’effetto è l’istesso. La legge dovrebbe vedere nell'uno e nell'altro caso un ribelle che cerca di distruggere il suo impero. Questa verità conosciuta nell'Egitto, nella China, in Sparta ed in Atene; questa verità fortemente inculcata dal divino Platone, (1) fu trascurata da' legislatori 'di Roma. L’introduzione de'    popolari giudizi dette origine a quel funesto abuso dell’eloquenza che si faceva dagli oratori, tanto allorché difendevano, quanto allorché accusavano. Ne’ gran comizi il popolo era nel tempo istesso legislatore e giudice. Ogni sentenza era una legge, ogni decreto era un atto di sovranità. L’oratore dunque che parlava, non aveva il giudice avanti gli occhi; ma aveva il sovrano che poteva rivocare la legge, che poteva sospenderne l’osservanza. Egli ne implorava il favore, quando la giustizia non sosteneva la causa del suo cliente. Sarebbe stata un’ingiustizia il proibirgli qualunque mezzo che potesse richiamare o la pietà o l’affezione di un giudice che, senza commettere alcun delitto e senza abusare de'    suoi dritti, poteva assolvere un reo, ancorché manifestamente convinto.

Le ferite riportate nelle guerre, i servizi recati alla patria, le lagrime de'    figli e de'    parenti, le umili preghiere dell’accusato, qualche improvviso accidente richiamarono, in fatti, più di una volta, o la gratitudine o la pietà o la superstizione del popolo, e produssero l’assoluzione di molti rei convinti. Noi sappiamo che Manlio Aquilio dovette alla prima la sua salvezza,(2)Servio Galba alla seconda,(3)e P. Claudio alla terza.(4) Valerio Massimo (5)ci ha lasciata una copiosa enumerazione di casi a questi simili, i quali, nel tempo stesso che ci mostrano l'esercizio che il popolo faceva de suoi sovrani dritti ne' giudizi, giustificano i mezzi che dagli oratori si adopravano per placarlo e commuoverlo. Ma questa ragione non poteva più reggere, allorché, non al popolo, ma a' Pretori ed a' loro tribunali si rimetteva l’affare. Istituite le perpetue ed ordinarie quistioni, la legge doveva frenare quest’oratoria libertà. Bisognava riflettere che il tribunale del Pretore non era come il Popolo, legislatore e giudice nel tempo istesso; che questo tribunale non poteva discostarsi dalla legge senza abusare della sua autorità; che non poteva assolvere, quando bisognava condannare; né diminuire la pena, quando la legge l’aveva fissata. I lodatori, i deprecatori, le lagrime e i sospiri delle mogli, de'    figli e de'    parenti, e tutte le insidie che si tramavano contro la giustizia de'    giudici, dovevano allora esser proscritte come ogni altra specie di oratoria sedizione.(1)Ma quest’oggetto sfuggì dagli occhi de legislatori di Roma. L’uso prevalse alla ragione, e si tenne l’istesso metodo innanzi al Pretore, ch’era il depositario della legge, che si era tenuto innanzi al popolo che n’era l’autore.

L’esempio di Roma non dee dunque addursi in favore della tolleranza di un disordine che regna oggi in quasi tutta l’Europa. Io non ho rapportati questi fatti, se non per mostrare che ne' paesi dove la libertà civile del cittadino è stata più rispettata, le seduzioni dell’eloquenza sono state proscritte da' tribunali, e che se sono state tollerate in Roma, quest’è derivato da tutt’altro principio, fuorché da una maggior diligenza nel favorire la difesa dell'accusato.

Per determinare dunque con maggior precisione le idee, io dico, che il legislatore dovrebbe concedere al reo tutt'i mezzi possibili di difesa, mani uno di seduzione; che dovrebbe permettergli di farsi assistere da uno o più avvocati in tutti i passi della procedura; di servirsi del loro ministero, così nelle rifiute de'    giudici del fatto, come in quelle de'    testimoni prodotti dall’accusatore; di farli parlare per lui tanto nell’esposizione del fatto, quanto in quella del dritto; di lasciargli in qualunque caso uno spazio almeno di dieci giorni per prepararsi alla difesa,(2)e concedergli una maggior dilazione, quando le circostanze del fatto fossero tali che non potrebbe il reo giustificarsi senza un maggiore spazio di tempo. Il Preside dovrebbe in questo caso trasportare il giudizio ad un’altra sessione.(1)Niuno di questi soccorsi dovrebbe esser negato al reo; ma quell'abuso di eloquenza, quelle seducenti e patetiche descrizioni, quelle apostrofi alla moglie ed a' figli del reo che si fan piangere, per invitare i giudici a tradire piangendo la giustizia; quell'esagerate narrazioni de'    benefìcii che il reo ha fatti, o è nello stato di fare alla società; in una parola, tutto ciò che tende a muovere la pietà e non la giustizia de'    giudici, dovrebbe essere severamente interdetto ed al difensore ed al reo. Colui che presiede al giudizio, dovrebbe invigilare sulla rigorosa osservanza di questa legge, e dovrebbe all’esempio degli Areopagiti, imporre silenzio, e punire colui che ardirebbe di violarla.

Più: i Romani avevano due diverse specie di orazioni, la continua e l’interrotta. Quella era seguita e questa era mescolata dalle interrogazioni de'    testimoni, dalla manifestazione de'    documenti, ed era interrotta dalle altercazioni delle parti.(2)Or lasciando a' Romani la prima, noi dovremmo adottare la seconda. Non ci è miglior mezzo per discovrire la verità, quanto questo. Se ad un argomento di una delle parti, l'altra rispondesse, senza aspettare che quella, infilzando molti debolissimi e qualche volta falsi argomenti, facesse, coll’unione di questi, un’illusione che ottenuta non avrebbe, quando a ciascheduno di essi si fosse risposto; allora tutto l’incantesimo dell'eloquenza si perderebbe e la verità comparirebbe in tutta la sua semplicità, in tutto il suo splendore.

Ma quali dovrebbero essere i difensori? La scelta di questi dovrebbe esser libera, e la legge non potrebbe frenare questa libertà senza un’ingiustizia. Essa non dovrebbe far altro che offrire un difensore al reo, quando o per la sua povertà o per altri motivi trovar non potrebbe un avvocato della sua causa. L’istituzione di un magistrato difensore sarebbe dunque necessaria. Ogni provincia dovrebbe averne uno o più, proporzionatamente alla sua popolazione. La cura di questo magistrato non dovrebbe esser quella soltanto di difendere que’ rei che, per la loro povertà, non potrebbero essere da altri difesi; ma anche assistere a tutt’i capitali giudizi, ancorché il reo richiesto non avesse il suo ministero.

La legge, sempre disposta a dare maggiori soccorsi all’accusato de'    più gravi delitti, dovrebbe in questi giudizi dare un rimedio di più contro l’ignoranza, o la mala fede del privato difensore che il reo avrebbe potuto scegliere. La persona incaricata di una così nobile funzione, dovrebbe essere rispettabile quanto la sua carica. Questa dovrebbe esser perpetua e dovrebbe condurre a' primi impieghi della giudicatura. Nell’esercizio del suo ministero, questo magistrato dovrebbe esser soggetto alle stesse leggi di ogni privato difensore. Una profonda cognizione delle leggi, ed una conosciuta probità dovrebbero, essere i suoi requisiti; una facilità di ordinare le proprie idee e di comunicarle agli altri, dovrebbe essere il suo talento; ed una sensibilità di cuore, unita alla tolleranza della fatica, dovrebbero indicare il suo carattere morale.


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CAPO XXI

Sesta parte - Della Criminale Procedura
La Sentenza

Io debbo qui richiamare la riflessione di colui che legge sull'idee antecedentemente sviluppate.

Da quel che si è osservato finora, si vede che secondo il nostro piano, quattro diversi giudizi dovrebbero precedere la sentenza. I primi tre dovrebbero essere affidati a' giudici del fatto, e l’ultimo a' giudici del dritto. Fra i tre affidati a' giudici del fatto, si è detto che il primo dovrebbe cadere sull’esistenza o non esistenza della prova legale;(1)il secondo sulla verità, falsità o incertezza dell’accusa; il terzo sul grado del delitto. Quello de'    giudici del dritto non dovrebbe riguardare che l’applicazione del fatto alla legge.

Terminata dunque la difesa, quando il fatai momento del giudizio fosse già giunto, quando uno de'    giudici del dritto avesse già riepilogato ciò che da una parte e dall'altra si è detto; allora il Preside dovrebbe, prima di ogni altro, domandare a' dodici giudici scelti per decidere del fatto, quale sia il loro giudizio sull'esistenza o non esistenza della prova legale. In questo giudizio preliminare, i giudici del dritto non dovrebbero avere altra influenza se non quella che loro dà la cognizione delle leggi. Essi dovrebbero minutamente istruire i giudici del fatto, delle disposizioni della legge, sulla prova della quale si tratta, e quindi indicarne loro l’applicazione al caso che si agita. La prova, per esempio, addotta dall'accusatore, essendo testimoniale, essi dovrebbero esporre loro quali siano per legge i testimoni idonei, di qual natura debbano essere le loro testimonianze, e quanti se ne richieggano per formare una prova legale. Essi dovrebbero quindi applicare questa regola alla prova addotta dall'accusatore; far loro vedere se i testimoni da lui prodotti sieno idonei, se sieno nel numero fissato dalla legge, e se le loro deposizioni sieno quali essa richiede, per costituire la prova testimoniale.

Disposte così le cose, i dodici giudici del fatto dovrebbero deliberare sull'esistenza o non esistenza di questa prova. Siccome questa sarebbe una parte del giudizio del fatto, e siccome la legge non affiderebbe che ad essi questo giudizio, è chiaro ch'essi potrebbero discostarsi dal parere de'    giudici del dritto, senza abusare del ministero che loro viene affidato. È necessario, secondo il nostro piano, ch'essi siano istruiti delle disposizioni delle leggi, è utile che vengano anche illuminati sull’applicazione; ma dev’essere nel loro arbitrio di aderire o no, al. parere di chi gl'istruisce. La differenza che verrebbe a passare tra questo primo giudizio sull'esistenza della prova legale, ed il secondo sul merito dell'accusa, è che nel primo, un' ingiusta decisione sarebbe punibile, e nel secondo non potrebbe esserlo. Io mi spiego.

Il giudizio dell'esistenza o della non esistenza della prova legale, non dipende dalla moral certezza del giudice, ma dai caratteri della prova istessa. Il giudice può, malgrado resistenza di questa prova, non esser persuaso della verità dell’accusa; ma non può dubitare se esista la prova legale o non esista. Questa è una questione che la legge ha già decisa, quando ha detto: se la pruova prodotta dall'accusatore ha questi requisiti, io voglio che si consideri come pruova legale. Nella decisione dunque dell’esistenza o della non esistenza della prova legale, il giudice non può ingannarsi che volontariamente. Egli è dunque punibile. Ma non può dirsi l’istesso riguardo al secondo giudizio. In questo il giudice deve indicare la sua moral certezza. Or io posso senza delitto creder vero ciò ch'è falso e falso ciò ch'è vero.(1)La legge non può punire un errore involontario. E se posso ingannarmi involontariamente, non posso esser punito se m’inganno volontariamente. Chi potrebbe sapere, se indicando io ciò che credo, indichi ciò che non credo? Nel secondo giudizio dunque il giudice, ancorché tradisca la sua coscienza, non può esser punito, giacché non può sapersi che da Dio quando egli la tradisce e quando non fa che manifestarla.

Le legge gli opporrebbe appunto per questo il freno della prova legale. Quando egli avesse deciso dell'esistenza o della non esistenza di questa prova, l’arbitrio che gli resterebbe, sarebbe molto frenato da questo primo giudizio, e se potrebbe essere impunemente iniquo nel secondo giudizio, non potrebbe esserlo ugualmente nel primo. Sarebbe anche frenato dal rispetto per l’opinione pubblica, quando tutte queste disposizioni preparatorie al giudizio fossero pubbliche ed eseguite al cospetto di chiunque volesse concorrervi; quando il reo non potesse esser costretto a comparire ed a rispondere che in un luogo, il cui accesso fosse libero a tutti; quando l’accusatore allorché accusa, i testimoni allorché depongono, il reo allorché si difende, il giudice del dritto allorché istruisce i giudici del fatto sulle disposizioni delle leggi, relative a quella specie di accusa e di prove, avessero innanzi agli occhi il pubblico che li giudica. Sarebbe finalmente frenato dal prezioso metodo dell'unanimità de'    suffragi, che renderebbe vana l’iniquità o l’ignoranza o l’illusione di undici di questi giudici, a fronte delle virtù e de'    lumi di un solo. Io prego il lettore di rileggere quel che si è detto su questo proposito ne' capi XIII e XIV, per poter più facilmente comprendere ciò che io non posso qui maggiormente sviluppare senza ripetermi.

Riprendiamo l’ordine delle nostre idee. Quando il primo giudizio sull'esistenza della prova legale fosse coll'unanime suffragio de'    XII giudici già terminato, bisognerebbe venire al secondo. II Preside dovrebbe fare loro una seconda domanda: Cosa pensate voi dell’accusa? Allora i XII giudici dovrebbero, per la seconda volta, ritirarsi in un luogo segregato, e restar in quello finché unanimemente non avessero profferito il loro giudizio. In questo giudizio essi dovrebbero, come si è detto,(1)combinare la loro moral certezza col giudizio che han dato sull’esistenza o non esistenza della prova legale. Se essi avessero detto nel primo giudizio, che non esiste la prova legale; allora nel secondo non potrebbero dichiarar vera l’accusa, ma dovrebbero dichiararla o falsa o incerta. Dovrebbero dichiararla falsa, allorché la loro moral certezza gl’inducesse a credere, che l’accusato fosse innocente del delitto che gli viene imputato. Dovrebbero dichiararla incerta, quando malgrado il difetto della prova legale, essi lo credessero effettivamente reo.

Della maniera istessa, quando nel primo giudizio si fosse deciso in favore dell'esistenza della prova legale, allora nel secondo non potrebbero dichiarar falsa l’accusa, ma dichiarar la dovrebbero o vera o incerta. Vera quando per loro moral certezza fossero persuasi della verità dell'accusa; incerta, quando, malgrado l’esistenza della prova legale, essi la credessero o falsa o equivoca.(1)Il terzo giudizio finalmente dovrebbe determinare il grado del delitto, quando si fosse dichiarata vera l’accusa.

Da questo triplice giudizio dovrebbe dipendere la sorte dell'accusato. Subito che i XII giudici manifestato avrebbero al Preside il loro giudizio sulla verità, falsità o incertezza dell'accusa, e sul grado del delitto, l’esito del litigio non sarebbe più dubbio. Il giudizio de'    giudici del dritto che indicar dovrebbe la sentenza, non potendosi raggirare che nell'applicazione del fatto, che si è costato, alla disposizione espressa dalla legge, sarebbe circoscritto dal giudizio’ del fatto da una parte e dalla legge dall'altra. Essi non potrebbero arbitrare, senza rendersi manifestamente colpevoli d’ingiustizia, quando il codice penale fosse quale dovrebbe essere, e quale noi additeremo nella seconda parte di questo libro.

La sentenza che sarebbe la conseguenza di questi giudizi, non potrebbe contenere che o l’assoluzione dell'accusato o la sospensione del giudizio o la condanna alla pena stabilita dalla legge. Si assolverebbe l’accusato, quando da' giudici del fatto si fosse dichiarala falsa l’accusa; si sospenderebbe il giudizio, quando si fosse dichiarata incerta; si condannerebbe il reo alla pena stabilita dalla legge a quel tale delitto, ed a quel tale grado, quando si fosse dichiarata vera. Nel primo caso l’accusato riacquistar dovrebbe colla sua libertà, il suo onore, e tutte le prerogative della cittadinanza. Egli non potrebbe più esser richiamato in giudizio per l'istesso delitto. Egli potrebbe, senza un nuovo giudizio, obbligare l’accusatore alla riparazione del danno, o intentare contro di lui,il giudizio di calunnie. Noi parleremo da qui a poco più distintamente di questo ultimo oggetto. Nel secondo caso, il reo riacquistar dovrebbe la sua libertà personale; ma restando sub judice, egli non potrebbe partecipare a tutte le prerogative della cittadinanza.(2)Egli potrebbe esser richiamato in giudizio per l’istesso delitto, quando l’accusatore produr potesse nuove prove contro di lui;(3)egli potrebbe anche richiamare il giudizio, quando potesse produrre nuovi argomenti della sua innocenza. Finalmente nell’ultimo caso, quando la sentenza contenesse la condanna alla pena stabilita dalla legge, non vi sarebbe più alcun adito alla sua difesa. In un sistema giudiziario così favorevole all'accusato, non dovrebbe esservi pel reo condannato, diritto ad appellazione alcuna. Quale maggiore appellazione che l'unanime giudizio di XII giudici, nella scelta de'    quali, secondo il piano da noi proposto,(1)il reo avrebbe tanta parte? Qual maggior appellazione che l’uniforme parere di dodici probi cittadini, i quali, ancorché fossero tutti o disposti a tradire la loro coscienza, o tutti ciecamente prevenuti contro del reo; ancorché non vi fosse tra loro neppure un solo che volesse sostenere la causa della verità, o che fosse bastantemente illuminato per iscovrirla; ancorché, io dico, tutti questi impossibili morali si avverassero, non potrebbero nulla dimeno dichiarar reol’accusato, se contro di lui non esistesse almeno la prova legale.

Ma si domanderà: non sono forse essi istessi che decidono dell'esistenza di questa prova? È vero che in questa decisione la loro mala fede non potrebbe rimanere occulta, come si è provato; è vero che in questo caso il loro giudizio sarebbe evidentemente ingiusto; ma intanto un innocente, non avendo altro rimedio, non sarebbe forse vittima del loro delitto? A questo pericolo, malgrado che rimotissimo, la legge non potrebbe forse. opporre qualche rimedio? L’umanità che dirige sempre le mie idee; allorché mi si presentano oggetti che tanto interessano la civile libertà, mi obbliga qui ad adottare l’espediente ritrovato dalla britannica legislazione, coll'aggiungervi anche qualche cosa di più. Presso gl'Inglesi né l’accusatore né il reo può 'mai appellarsi dal giudizio dei giurati; ma se questo è evidentemente ingiusto ed erroneo, e se non è in favore del reo ma contro di lui; in questo solo caso può, non il reo, ma il magistrato che presiede, cercare al Re un secondo giudizio, ed ottenutone il permesso, si rimette l’affare alla corte del banco del Re; si convoca una nuova assemblea di piccioli giurati, e si ricomincia da capo il giudizio, come se non si fosse mai parlato del primo.(2)Per applicare dunque questo rimedio della Britannica legislazione al nostro piano, e per renderlo anche più efficace; noi proponiamo che, quando il primo giudizio de'    giudici del fatto sull’esistenza della prova legale, fosse manifestamente erroneo, e che da questo primo errore si fosse passato al secondo, cioè di considerare come vera l’accusa; allora prima che i giudici del dritto profferissero la sentenza, il Preside potrebbe cercare al Re un nuovo giudizio, con altri giudici scelti dall’istesso suo albo, ed in questo, scoprendosi la malizia dei primi, dovrebbero questi esser puniti, e l’accusato liberato dalla pena che ingiustamente gli sarebbe pervenuta dal primo giudizio. Noi, ad esempio degl’inglesi, non concediamo al reo la libertà di far questa richiesta, perché per un pericolo rimotissimo s’introdurrebbe un male continuo. Ogni reo condannato giustamente dal giudizio de'    giudici del fatto appellerebbe, e la giustizia perderebbe quella celerità ell'è tanto necessaria all’ordine pubblico. Bisognerebbe lasciare questo dritto al solo Magistrato che presiede, e nel solo caso di un giudizio manifestamente erroneo.

Fuori di questo caso, la decisione de'    giudici del fatto dovrebbe essere immediatamente seguita da quella de'    giudici del dritto, che, applicando il fatto alla legge, indicar dovrebbero la sentenza.

Ecco ciò che dovrebbe precedere, ed accompagnare quest'atto della criminale procedura. Vediamo ora ciò che dovrebbe seguirlo. Se la sentenza può assolvere il reo, sospenderne il giudizio e condannarlo, vediamo quali dovrebbero esser le appendici di ciascheduna di queste sentenze.


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CAPO XXII

Appendice della sentenza che assolve, o sia della riparazione del danno, e del giudizio di calunnia

Assoluto l’accusato, la legge non può negargli il dritto ad una di queste due cose: o che l’accusa sia stata prodotta dal Magistrato accusatore, o da un privato cittadino, l’accusato che ha dovuto sacrificare la sua pace e la sua tranquillità alla vigilanza del Governo, ed all’ordine pubblico, dev’esser compensato di questo sacrifizio, dev’esser anche vendicato, se non per errore, ma per la mala fede del suo accusatore è stato esposto a' disastri, alle spese ed a' rischi di una giudiziaria procedura. Per ottener la prima di queste due cose, per ottenere la sola riparazione de'    danni, non si dovrebbe ricorrere ad un nuovo giudizio. Se involontariamente io reco un danno ed alcuno, la legge non mi punisce per questo, ma mi condanna a ripararlo. La buona fede può esentarmi dai rimorsi, ma potrebbe essa liberarmi dalla riparazione? Ancorché l’accusatore abbia, dunque, avuto ragioni da credere che colui ch’egli ha chiamato in giudizio, fosse effettivamente reo del delitto che gli ha imputato, subito che questi viene assoluto dall’accusa, il suo errore deve esser considerato non come un delitto che meriti pena, ma come un danno recato che meriti riparazione. La conseguenza dunque necessaria della sentenza assolutoria sarebbe di condannare l’accusatore alla riparazione del danno. Ma il Magistrato accusatore dovrebbe egli avere l’istessa sorte? Quando il reo ch’egli ha chiamato in giudizio è stato assoluto, e quando non si può provare il dolo nella sua accusa, dovrebbe egli a proprie spese riparare il danno? Non sarebbe questo un motivo da distoglierlo dall’esercizio del suo ministero? L’errore non è forse più scusabile nella persona di colui che deve ex officio accusare? Le romane leggi estesero la loro indulgenza sul Magistrato che accusava ex officio, fino a lasciare impunita in lui la semplice calunnia. Noi abbiamo altrove combattuto questo difetto della romana legislazione;(1)ma non per questo crediamo che sarebbe giusto condannarlo alla riparazione del danno, quando né semplice, né manifesta calunnia vi fosse nella sua accusa, ma soltanto un involontario errore. Per liberarlo da questo rischio, noi proponiamo qui una cassa di nparawne. Questa dovrebbe essere destinata alla riparazione del danno cagionato dalle accuse involontariamente erronee, prodotte dal Magistrato accusatore. È cosa strana, che finora non si sia pensato alla erezione di una cassa così necessaria. Da per tutto la giustizia ha de'    fondi per pagare i suoi ministri, perché non dovrebbe essa averne, per riparare a' loro errori?

Ma se non l’errore, ma la mala fede comparisce nell’accusa o del magistrato accusatore o del privato cittadino; se al danno recato si unisce anche il delitto, allora la legge non dee contentarsi della sola riparazione del danno; ma un nuovo giudizio dee permettere che s’intenti contro l’accusatore e questo è il giudizio di calunnia. Presso i Romani gl’istessi giudici che decidevano della sorte dell’accusato, decider dovevano della buona o della mala fede dell’accusatore,(1)e questo secondo giudizio seguiva immediatamente a quello nel quale il reo era stato assoluto.(2)Ma se questo metodo poteva aver luogo nel sistema de'    criminali giudizi de'    Romani) non potrebbe adattarsi al nostro piano senza render molto pericolosa la condizione dell’accusatore. Presso i Romani, come si è veduto, l’accusatore e l’accusato influivano ugualmente nella scelta de'    giudici.(3)Ma nel nostro piano noi non abbiamo lasciata questa influenza che al solo accusato. Non è giusto dunque che l’accusatore sia giudicato dagli stessi giudici che ha scelti il suo inimico. La pena della calunnia dovendo essere quell'istessa che avrebbe subita il reo, se fosse stato convinto, coll'infamia di più,(4)è giusto che in un affare di tanta importanza non si neghino all’accusatore divenuto reo, que’ soccorsi che la legge gli concederebbe per qualunque altro delitto. Bisognerebbe dunque stabilire che volendosi o dal reo assoluto, o da qualunque altro cittadino intentare il giudizio di calunnia contro l’accusatore, si dovrebbe procedere in questo giudizio, come in qualunque altro. (5)

La sola differenza che dovrebbe passare tra il giudizio di calunnia e il giudizio di qualunque altro delitto, sarebbe che se in questo l’accusato di calunnia venisse assoluto, il suo accusatore non potrebbe soggiacere ad un nuovo giudizio di calunnia. Il motivo di questa determinazione si manifesta da se. Per condannare un accusatore come calunniatore, bisogna dimostrare resistenza del dolo nella sua accusa. Bisogna provare ch'egli non aveva ragione alcuna da crederlo reo, o che se aveva qualche debolissimo indizio contro di lui, aveva nel tempo istesso prove evidenti della sua innocenza. Or nel nostro caso sarebbe impossibile di dimostrare questo dolo. L’assoluzione del reo dopo un giudizio così rigoroso è un bastante argomento per difendere la buona fede di colui che ne chiama in giudizio l’accusatore, come calunniatore.

Alla giustizia di questo stabilimento si unirebbero anche due considerabili vantaggi. Il primo sarebbe quello di mettere un termine alle conseguenze di un giudizio che potrebbero divenire interminabili senza questo freno. Il secondo, di spaventare maggiormente l’accusatore di mala fede, col liberare da ogni rischio colui che volesse, dopo il felice esito del giudizio, accusarlo come calunniatore.


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CAPO XXIII

Altra Appendice della sentenza che assolve, e della sentenza che sospende il giudizio

Volendosi ristabilire l’antica libertà dell’accusa, bisognerebbe prevenire un disordine che favorir potrebbe l'impunità de'    delitti. Questo è la collusione dell’accusatore col reo.

Commesso che alcuno ha un delitto, ogni cittadino(1)può, secondo il nostro piano, accusarlo; e ammesso ch’egli è alla accusa, quest’accusatore diviene l'unico inquisitore.(2)Il Magistrato accusatore non potendo comparire in giudizio, che in mancanza di un accusatore privato, non potrebbe impedire al cittadino che ha chiamato in giudizio il reo, di proseguire la sua accusa sino al termine del giudizio. Or, supposto questo, potrebbe qualche volta avvenire che il reo istesso, per liberarsi dallo zelo del magistrato accusatore, facesse comparire in giudizio un accusatore privato, col quale andasse d’accordo, o che, non avendo egli scelto il suo accusatore, corrompesse quegli ch'è volontariamente comparso, per indurlo a sopprimere dalla sua accusa le vere prove del delitto, e a non palesare, se non quelle che potrebbero più facilmente essere o contrastate o distrutte. L’impunità sarebbe la conseguenza di questa secreta intelligenza tra l’accusatore e l’accusato, e la frode potrebbe allora eludere tutto il rigore delle leggi. Per impedire un disordine così funesto, le romane leggi istituirono, come si è osservato, il giudizio di prevaricazione (3), e stabilirono pene fortissime contro questo delitto. Esse vollero che la pena del prevaricatore fosse simile a quella del calunniatore, vale a dire, che all'infamia si fosse unita quella pena, ch’egli colle sue frodi aveva fatta scampare al reo che aveva accusato. (4) Per adattare dunque al nostro piano questo savio stabilimento delle romane leggi, noi proponiamo il giudizio di prevaricazione, come un’appendice della sentenza che assolve o sospende il giudizio. In questi due casi dovrebbe esser permesso a ciascheduno, e più d’ogni altro al magistrato accusatore, di chiamare in giudizio l’accusatore che ha dati sospetti di collusione col reo. Se questi è stato già assoluto, il giudizio intentato contro il suo accusatore non dovrebbe esporlo a rischio alcuno; ma se dopo la sentenza egli rimasto fosse sub judice, se questo non riguardasse che la semplice. sospensione del giudizio; allora, se l’accusa di collusione prodotta contra del suo accusatore, producesse la condanna di questi come prevaricatore, il reo dovrebbe esser di nuovo chiamato in giudizio, non più dal primo accusatore, già condannato al taglione ed all’infamia, ma o dal magistrato accusatore, o da colui che accusato avesse il suo accusatore.

Ecco il freno che la legge oppor dovrebbe alla prevaricazione degli accusatori, ed ecco le appendici della sentenza che assolve, o che sospende il giudizio.(1) Vediamo ora quelle della sentenza che condanna. Quelle riguardano l’accusatore e queste il reo.


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CAPO XXIV

Appendice della sentenza che condanna, e conchiusione del piano generale di riforma che si è proposta

Io scorro rapidamente sopra questi oggetti che non potrei trascurare senza rendere imperfetto il mio piano, e non potrei distesamente sviluppare, senza annoiare colui che legge. La conseguenza immediata della sentenza che condanna, è l'esecuzione della pena. Vediamo, dunque, ciò che la scienza della legislazione dee proporre su questo ultimo articolo della criminale procedura.

Osservando l’oggetto delle pene, noi troveremo che questo è un esempio per l’avvenire, piuttosto che una vendetta del passato. La vendetta è una passione, e le leggi ne sono esenti. Esse puniscono senza odio e senza livore. Se potessero ispirare l'istesso orrore pel delitto, e dare l’istessa sicurezza alla società, risparmiando il delinquente, esse lo lascerchbero volentieri in preda a' suoi rimorsi, invece di condannarlo o all'infelicità o alla morte.

Nel punire le leggi non han dunque tanto innanzi agli occhi li delinquente, quanto coloro che potrebbero esser disposti a delinquere; esse non cercano tanto di moltiplicare nel reo i motivi del suo pentimento, quanto di distruggere negli altri le seducenti attrattive del vizio.(1)

Dopo questo principale oggetto delle pene, noi possiamo dedurre i principii, co' quali dee dirigersi l’esecuzione della sentenza. Noi possiamo prima d’ogni altro dedurne la prontezza dell’esecuzione. Questa giova alla società ed al reo. Giova alla società, perché fortifica e rende più durevole nell’animo degli uomini l’associazione di quelle due idee, delitto e pena; giova alla società, perché, come si è altrove provato, (2)quanto maggiore è l'intervallo che passa tra il delitto e la pena, tanto minore è l’orrore ch'essa inspira pel delitto e maggiore la compassione ch’eccita pel delinquente. Giova finalmente al reo, perché o gli accelera il termine della pena, quando questa ha una durata determinata, o gli risparmia il supplizio dell’immaginazione, allorché si tratta di una pena capitale.

La speranza, questa consolatrice spesso menzognera, ma sempre potente, non abbandonando il reo che nel momento nel quale è per essere separato dalla società, e le attenzioni della religione e l’esortazioni del ministero ecclesiastico subentrando subito ad essa, producono nell’animo di quell’infelice una distrazione quasi del pari efficace: esse non gli lasciano, per così dire, neppure il tempo di sentire l’orrore del suo destino. Ma condannare un uomo alla morte, annunziargli la sentenza e lasciarlo per un lungo tratto di tempo in questa espettazione orribile, è un tormento che potrebbe solo esprimerne l’eccesso chi avesse avuta la disgrazia di sperimentarlo.(1)

Tra noi un malinteso principio di Religione, forse tramandatoci dalla greca superstizione,(2) produce spesso quest'abbominevole perfidia. I nove giorni che precedono una solennità, e gli otto che la seguono, sono interdetti alle capitali esecuzioni. Se un reo ha la disgrazia di esser condannato un giorno prima di questo tempo, egli dee soffrire le angosce della morte, per lo spazio almeno di venti giorni. Il concorso di due solennità può in alcuni casi anche prolungare quest'intervallo. Una religione che prescrive con tanto impegno la giustizia, potrebbe essa abborrire in qualunque tempo l’esecuzione de'    suoi decreti? Potrebbe essa volere, che per non turbare la rimembranza de'    suoi fasti, si aggravasse la pena di un infelice, e si diminuisse il beneficio che questa deeprodurre?(3)L’altra conseguenza che dipende dagl'istessi principii è la seguente. Se 'l’oggetto della pena non è la vendetta, ma l’istruzione, l’esecuzione della sentenza dee dunque esser dalle leggi regolata in modo che sia la più efficace per gli altri, e la meno dura che sia possibile pel delinquente. Io mi riserbo di manifestare a suo luogo le mie idee su questo soggetto.

L’ultima conseguenza finalmente, che si deduce da questi principii, è la massima pubblicità dell’esecuzione. Se il gastigo che si fa soffrire ad un delinquente, è un atto pubblico, il primo oggetto del quale è la conservazione de'    costumi, ogni sentenza penale che si esegua o nel silenzio della notte, o nei luoghi che non sono accessibili che a' segreti ministri della giustizia, è dunque un tratto di ferocia e di tirannia, che defrauda la legge del principale oggetto che si propone nel punire, e che può solo giustificare in alcuni casi la sua severità.(1)

Legislatori dell'Europa, in un secolo come questo, nel regno dell’umanità guidato dal genio della filosofia, seguiterete voi ad autorizzare colle vostre leggi dettate dall'iniquo spirito della vecchia politica, quell'esecuzioni secrete di quegl'infelici che per lo più senza avere un cuore malvagio, senza essere ordinariamente colpevoli, che o di imprudenza o d’imbecillità, hanno avuta la disgrazia di trovarsi, senza neppure saperlo, rei di Stato? Permetterete voi che la giustizia vestita delle spoglie di un assassino, cerchi le tenebre’ della notte, o il silenzio di una solitudine, per occultare i suoi terribili decreti? Qual motivo può giustificare quest’esecuzione, quando il pubblico ignora e il delitto e il delinquente e la pena? Se quest'uomo vi è divenuto sospetto, non avete voi un mezzo più giusto per difendervi da' suoi attentati? S’egli non ha peccata, perché punire un innocente? E se ha peccato, perché nascondere al pubblico la pena che ha giustamente meritata?

Lasciate a' deboli tiranni questi deboli sostegni de'    loro vacillanti troni. Voi non avete più bisogno di ricorrere a questi mezzi, per conservare il vostro tranquillo impero. I grandi ed i piccioli conoscono ugualmente l’onnipotenza del vostro braccio, e la loro debolezza. Tutta la destrezza dell’ambizione non si raggira più oggi a contrastarvi un’autorità che si adora; ma ad esser più vicino alla reggia, dalla quale si emana. Voi non avete più rivali da combattere, né malcontenti da spiare; voi non avete altro che sudditi da governare, tra' quali, se vi regnano de'    vizi, questi infelicemente non sono, se non quelli della servitù.

Profittate dunque delle circostanze felici nelle quali vi trovate, per abolire questa maniera arcana di punire, che è nel tempo istesso inopportuna ed assurda; che non distoglie dal delitto il malvagio che l’ignora, ma spaventa, atterrisce, irrita il cittadino onesto che si vede rapire il vicino, l’amico, il parente, senza sapere quale sia il suo delitto, e quale ne sarà la sorte; che invece di conservare la tranquillità nello Stato, non fa che ispirare una mesta diffidenza tra il Sovrano ed il popolo; che, in poche parole, discredita le operazioni del Governo, e confonde i decreti della giustizia cogli attentati della forza. Fate che l’esecuzione della condanna sia, in qualunque delitto, così pubblica, come dovrebbe esserlo il giudizio che la precede. Fate che ogni mistero inquisitorio sparisca dalla criminale procedura.Sostituite alle delazionisecrete le accuse pubbliche. Date a tutti i cittadini la libertà di accusare? e moltiplicate gl'inspettori delle loro azioni. Create in tutte le provincie dello Stato un Magistrato accusatore, destinato soltanto ad accusare in quel caso che non vi è chi accusi. Spaventate il calunniatore e il prevaricatore colla pena del taglione e dell'infamia, ed assicurate l’innocenza col somministrarle tutti i mezzi possibili di difesa. Non nascondete all’accusato la sua accusa ed il suo accusatore, anzi palesategliela nel momento istesso che vi vien prodotta. Non permettete che egli sia trattato da delinquente, prima di esser convinto del delitto. Lasciatelo sulla parola di un fideiussore, sempre che la natura del reato che gli si imputa, lo permette; ritenetelo in una custodia, che non sia indegna d’un innocente, quando la prima di queste due sicurezze non basterebbe ad impedirne la fuga. Permettete ch’egli si consigli in qualunque passo della procedura, con chiunque egli voglia. Non lo segregate dal consorzio degli uomini, prima di crederlo degno di questa pena. Non l’obbligate ad una confessione, inutile quando è strappata per forza, assurda quando è volontaria. Non gli nascondete i testimonii che depongono contro di lui, né le loro testimonianze. Fate che i giudici alla sua presenza li sentano, e ch’egli possa interromperli, interrogarli, mostrare la fallacia de'    loro detti. Non escludete i testimonii prodotti dal reo, come se quelli che depongono contro di lui, potessero essere i soli organi della verità. Ripartite le giudiziarie funzioni in maniera che ciascheduno di coloro, tra' quali si dividono, abbia bastante forza per salvare l’innocenza, e niuno ne abbia per opprimerla. Spogliate i feudatari di un potere che niun titolo può render legittimo, e che non si può loro lasciare senza perpetuare i disordini che ci privano di sicurezza e di libertà. Non accarezzate più questa tigre che ha perdute le sue unghie. Lanciate con intrepida mano il colpo della distruzione su questo mostro impotente. Bruciate que’ diplomi di servitù e di anarchia, che la prepotenza de'    grandi ha in tempi più infelici estorti dalla debolezza de'    vostri maggiori. Immolateli al Dio della libertà, nel rogo già da gran tempo acceso da' sospiri dei popoli, e gittatene al vento le ceneri. Non temete il risentimento di questa porzione de'    vostri sudditi, che ha perduta la sua forza, dacché l’altra ha conosciuta la sua dignità. Profittate anche delle virtù e de'    lumi di molti virtuosi individui di questo corpo, che detestano il loro potere, o ne vedrebbero con indifferenza la perdita. Ma abolendo il potere dei feudatari, correggete nel tempo istesso l’ordine della Magistratura. Sostituite all'antica ripartizione della giudiziaria autorità, quella che si è nel nuovo piano proposta.

Fate che i giudici del dritto non sieno i giudici del fatto. Rendete quelli permanenti, e questi mutabili in ogni anno. Date al reo una gran libertà nelle ripulse, e procurate coi mezzi da noi proposti, ch’egli sia sicuro di non poter avere un inimico per giudice. Non permettete che si consideri come convinto, se XII di questi giudici del fatto, combinando la loro moral certezza col criterio legale, non abbiano uniformemente dichiarala vera l’accusa, determinando la qualità, ed il grado del delitto. Lasciate quindi a' giudici del dritto l’applicare questo fatto alla legge, e il dedurne la sentenza. Quando questa è profferita, fate che si esegua colla massima sollecitudine, affinché l’idea del delitto sia sempre vicina all’idea della penale fate che si esegua al cospetto del pubblico, affinché a niuno sieno ignote le conseguenze del reato. Procurate, che il delinquente sia punito, quando ancora è odiato, e quando l’approvazione pubblica, aumentando il rigore della pena, dà uno spavento di più a colui ch'era disposto ad imitarne l’esempio. Ordinate che anticipatamente un araldo convochi il popolo, e gli annunzi il delinquente, il reato, e la condanna. Ornate questa esecuzione con tutti quegli apparati che possono aumentare l’orrore del delitto, senza inasprire gli spettatori contro al rigore della legge. Coronate, in una parola, il secolo nel quale voi vivete, coll'adottare un piano di procedura, nel quale mi pare che si combinino questi tre gran vantaggi: la maggior sicurezza per gl'innocenti, il maggiore spavento pe’ malvagi, e il minore arbitrio pe’ giudici; e dopo di aver corretta questa parte del codice criminale, rivolgete le vostre paterne cure all’altra che non è meno ingombrata di errori, ma è forse meno difficile a correggersi.


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PARTE SECONDA - DE’ DELITTI E DELLE PENE

CAPO XXV

Principii generali di questa parte della Criminale Legislazione

Io restringo tutto il sistema legislativo di questa parte della criminale legislazione in una catena di pochi principii. Questi saranno il fondamento di tutte le idee che anderemo mano mano sviluppando in questa complicata teoria de'    delitti e delle pene. Per poco che si conosca la materia che si tratta, si converrà la importanza di queste premesse. Lasciamo gli esordi e veniamo all'esposizione de'    principii.

1. Se le leggi sono le formole ch’esprimono i patti sociali; ogni trasgressione della legge è dunque la violazione di un patto.

2. Se i patti sociali non sono altro che i doveri che ogni cittadino contrae colla società, in compenso de'    dritti che acquista; ogni violazione di un patto dee dunque esser seguita dalla perdita di un diritto.

3. Se i diritti che acquista il cittadino sulla società, si riducono tutti alla conservazione ed alla tranquillità non interrotta del godimento della sua vita, del suo onore, della sua proprietà così reale, come personale, e di tutte le altre prerogative della sua politica

condizione; (1) ogni delitto dee dunque produrre o la perdita ó l’interruzione di uno di questi beneficii.

4. Se un cittadino può con un solo delitto violare tutti i patti sociali; egli può dunque per un solo delitto esser privato di tutti i sociali diritti.

5. Se tutti questi diritti non sono ugualmente preziosi e se non tutti i delitti sono ugualmente funesti alla società; è giusto che colui che si astiene dal delitto più grave, e che commette il meno grave, conservi il diritto più prezioso e perda il meno prezioso.

6. Se il valore relativo de'    sociali diritti può variare colla diversità delle politiche circostanze de'    popoli; il legislatore non dee trascurarle nel determinare le pene. L’esilio dalla patria, per esempio, può essere una pena capitale in un Governo, (1) e può essere l’ultima delle pene in un altro; (2)e nell’istesso Governo può essere una gran pena per una classe di cittadini, (3)e una pena molto picciola per un’altra classe. (4)

7. Se le idee morali di un popolo possono anche alterare il valore relativo de'    sociali diritti, il legislatore non dee neppur queste trascurare nel determinar le pene. In una nazione, per esempio, dove la dottrina della trasmigrazione delle anime fosse universalmente ricevuta, la pena di morte farebbe minore impressione che non la farebbe in un paese, ove questa stranezza non è ammessa.

8. Se il genio e l’indole particolare di un popolo, se il clima istesso e le altre fisiche circostanze di un popolo possono anche influire sù questo relativo valore de'    sociali dritti; il legislatore non dee trascurare alcuno di questi oggetti nella riduzione del Codice penale. Presso un popolo, per esempio, feroce e guerriero, dove gli uomini sono avvezzi a disprezzare la vita, la pena di morte non farà molta impressione. Presso un popolo avido, le pene pecuniarie potranno esser molto efficaci. In un clima o estremamente caldo, o estremamente freddo, l’esilio dalla patria sarà una pena molto leggiera e poco temuta ecc. (5)

9. Se a misura che il Governo e la società si perfeziona, il valore assoluto di tutti i sociali diritti cresce in proporzione de'    progressi che fa la pubblica prosperità; se a misura che questa si aumenta si diminuisce l’incentivo a delitti, e si accresce il dolore che porta seco la perdita de'    sociali vantaggi; è chiaro dunque che si potranno, senza rischio, raddolcire le pene, a misura che si perfeziona la società.

10. Se tutte queste politiche, fisiche e morali circostanze de'    popoli possono non solo influire sul valore de'    sociali diritti; ma anche sulla maggiore o minore opportunità di alcune pene, sull’inopportunità di alcune altre e sul maggiore ò minor rigore del sistema penale; è necessario che il legislatore esamini profondamente ciò che si chiama stato di una nazione prima di formare il suo codice penale. (6)

11. Se un’azione non può essere imputabile, se non quando è volontaria; dove non vi può esser volontà, non vi può dunque esser delitto.

12. Se la società non è vindice de'    pensieri, ma delle azioni; finché la volontà di delinquere non si manifesta, non potrà mai esser punibile, e se si manifesta, non dev'esser punibile, se non quando si manifesta coll’azione dalla legge istessa vietata.

13. Se la legge non dee punire né l’atto senza la volontà, né la volontà senza l’atto; per incorrere dunque nella pena vi bisogna il concorso della violazione di un patto e della volontà di violarlo.

14. Se tra tutti i patti sociali ve ne sono alcuni che più direttamente tendono alla conservazione dell'ordine sociale, ed altri che meno direttamente v'influiscono, e se la conservazione di quest’ordine è lo scopo di tutti i sociali rapporti; è chiaro che la gravezza del delitto si dee, prima di ogni altro, valutare dalla maggiore influenza che ha il patto che si viola sulla conservazione di quest'ordine.

15. Se la violazione di un patto può essere accompagnata da alcune circostanze, che mostrano la maggiore o minore disposizione che ha il delinquente di violare qualunque altro patto, o di ricadere di bel nuovo nell’istesso reato; le circostanze che accompagnano il delitto, possono dunque renderlo più o meno grave, più o meno punibile.

16. Se l’istesso delitto può, per la diversità delle circostanze, esser diversamente punito; è chiaro che le leggi debbano in ciaschedun delitto distinguere la qualità, ed il grado. La qualità è il patto che si viola, il grado è la maggiore o minore malvagità che si mostra nel violarlo.

17. Se il delitto maggiore deve esser maggiormente punito del delitto minore, e se il valore del delitto dipende dalla qualità e dal grado; la misura della pena sarà dunque la qualità combinata col grado.

18. Se l’oggetto delle pene è di allontanare gli uomini dai delitti collo spavento del male, al quale si esporrebbero commettendolo; la maggiore speranza di rimanere impunito, che dipende dalla natura istessa di alcuni delitti più occultabili, non dee dunque esser trascurata nel determinare le pene. La legge deve in questi delitti compensare coll'accrescimento della pena, quella diminuzione di spavento che deriva dalla facilità di occultarli.

19. Se ogni delitto deve avere la sua pena proporzionata all'influenza che ha sull'ordine sociale, il patto che si viola, ed al grado di malvagità che si mostra nel violarlo; le leggi debbono dunque ben distinguere i delitti, per ben distinguere le pene.

20. Se le azioni sono molto più difficili a determinarsi, che non lo sono i diritti; se bisogna descriver quelle nel mentre che basta diffìnir questi; le leggi criminali debbono dunque entrare in quei dettagli che le leggi civili debbono evitare; se non si vuol lasciare un perniciosissimo arbitrio tra le mani de'    giudici.

Questi sono i principii generali, da' quali dipende l’intero sviluppo della gran teoria de'    delitti e delle pene. Io ho voluto premetterli, per dare una guitta alle mie idee, e per mostrare a chi legge il piano sul quale quest'edifizio deve innalzarsi. A misura che c'inoltreremo in questa importantissima materia, ci avvedremo che questa parte della scienza legislativa è interamente compresa in questi pochi principii.


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CAPO XXVI

Della necessità delle pene, e del dritto di punire

La Società privando l’uomo di una parte della sua naturale libertà, non può distruggere. in lui il fonte di questa nativa passione. Il cuore dell'uomo cerca l’indipendenza, quantunque la sua ragione gli mostri i vantaggi della dipendenza. Egli vede nelle buone leggi l'appoggio della sua sicurezza; ma vi vede nel tempo istesso un freno dispiacevole alle sue passioni. Egli vede ch'esse son quelle che gli procurano la felicità nello stato sociale; ma vede nel tempo istesso, che lo privano di quella che potrebbe godere nello stato naturale. Egli conosce che esse non prescrivono, se non quello che conviene al ben essere universale e particolare degli esseri socievoli; ma sente nel tempo istesso ch’esse gli proibiscono ciò che conviene a' suoi piaceri, e vede ch'esse danno al riposo ciò che tolgono alle passioni.

Queste riflessioni che non distolgono l’onest'uomo dall’osservanza delle leggi, fan concepire al malvagio il segreto disegno di lasciare le leggi agli altri, per la sua sicurezza, e di liberare se solo da questo freno pel suo vantaggio. Egli vorrebbe che i sociali vincoli si restringessero sempre più per gli altri, ma vorrebbe intanto che non si sciogliessero che per lui solo. Egli vorrebbe essere indipendente e sicuro, vorrebbe godere di tutta la naturale libertà, senza perdere la civile sicurezza.

Questi sono i disegni del malvagio, ed ecco la necessità delle pene. La sanzione penale è quella parte della legge, colla quale si offre al cittadino la scelta o dell'adempimento di un sociale dovere, o dellrf perdita di un sociale diritto.

Se tu vuoi esser sicuro, dicono le leggi allorché fissano le pene, bisogna che ubbidisca a' nostri precetti; e se vuoi essere indipendente, sappi che non vi è più sicurezza per te.

Quella società istessa che difendeva la tua tranquillità, si armerà contro di te, ed essa non deporrà le sue armi, finché tu non abbia sofferta la pena destinata al tuo delitto. Il dritto, che avevi acquistato col sociale patto, sarà per te estinto subito, che avrai violato il patto che te l’aveva procurato. Se il patto che violerai, sarà uno de'    più preziosi alla società, il dritto che perderai sarà anche uno de'    più preziosi per te. Se con un solo delitto violerai più patti, per un solo delitto sarai privato di più dritti. Se per esempio la tua mano parricida si armerà contro il tuo re; se immolerai alle tue passioni il padre della patria; se imbratterai di sangue quel trono dal quale si emanano gli ordini che difendono la pubblica sicurezza, tu sarai nel tempo istesso punito come omicida, come parricida, come ribelle, come sacrilego, come perturbatore della pubblica tranquillità. Con questo solo attentato, violando tutti que’ patti co' quali ti sei obbligato a rispettare la vita dei tuoi simili, a difendere quella del tuo re, a conservare illesa la costituzione del Governo, a rispettare la santità de'    giuramenti, a non turbare la pubblica pace, per questo solo attentato tu rimarrai privo di tutti que’ dritti, che con queste obbligazioni avevi acquistati. Tu perderai la tua vita, il tuo onore, i tuoi beni, e tutte le prerogative della cittadinanza, perché violerai que’ patti che ti assicurano il godimento di tutti questi dritti. Da cittadino che eri, tu diventerai l’inimico della patria, e noi che indichiamo la volontà generale, ordiniamo al corpo che ha tra le mani l’esecutiva facoltà, di liberarla da quest’inimico, e di far piombare sopra di te le pene da noi stabilite, sì per metterti nell’impotenza di poter di nuovo ricadere nell’istesso delitto, come per distogliere gli altri dall'imitare il tuo esempio: (1)

Ecco il linguaggio delle leggi espresso dalla loro sanzione. Non si può dubitare che questo dipenda da un dritto, poiché se la società ha il dritto di conservarsi, deve anche avere il dritto di prenderne i mezzi, e questi mezzi sono le leggi che presentano alla volontà degli uomini i motivi i più proprii, per allontanarli dalle azioni nocive al comune interesse. Questi motivi sono i vantaggi che le leggi offrono all’osservatore delle sociali obbligazioni, e le pene che minacciano a colui che le viola. La società, rappresentando i dritti che ciaschedun individuo aveva nello stato della naturale indipendenza, ha, per mezzo del sociale contratto, ereditato anche quello che ogni individuo aveva su l’altro individuo, allorché questo violava le naturali leggi. Or questo dritto era quello di punirlo; giacché, come si proverà da qui a poco, senza questo dritto, tutti gli altri sarebbero stati mutili. Or siccome questo dritto ch'egli aveva sopra ciascheduno, ciascheduno l’aveva sopra di lui; così nel sociale contratto, cedendo egli alla società questo dritto ch’egli aveva sopra degli altri, gli altri le hanno contemporaneamente trasferito quello che ciascheduno di essi aveva su di lui. Ecco donde deriva il vero dritto di punire, che ha la società, o sia il Sovrano che la rappresenta; cioè non dalla cessione de'    dritti che ciascheduno aveva sopra se medesimo, come alcuni han creduto, ma dalla cessione del dritto che ciascheduno aveva sopra degli altri.(1)Dalla necessità e dal dritto di punire, passiamo all’oggetto delle pene.


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CAPO XXVII

Oggetto delle pene

Nè la vendetta dell’offesa recata alla società, né l’espiazione del reato sono gli oggetti delle pene. La vendetta è una passione, e le leggi ne sono esenti, (2) e la giustizia non è una di quelle terribili divinità, alle quali i loro crudeli adoratori immolano le umane vittime, per placare il loro preteso furore. Le leggi, allorché puniscono, hanno innanzi agli occhi la società e non il delinquente; esse son mosse dallo interesse pubblico, e non dall’odio privato; esse cercano un esempio per l’avvenire, e non una vendetta pel passato. (3)

La vendetta qualunque ella fosse, sarebbe assurda ed inutile; assurda, perché le leggi moderatrici delle particolari passioni giustificherebbero in questo caso col loro esempio, quello che condannano co' loro precetti; inutile, perché non potrebbe impedire che il torto recato alla società dal delitto del reo, non esistesse realmente. Le grida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna, le azioni già consumate?

L’oggetto dunque delle leggi nel punire i delitti, altro non può essere, se non quello d’impedire che il delinquente rechi altri danni alla società, e di distogliere gli altri dallo imitare il suo esempio, coll’impressione che la pena da lui sofferta dee fare su i loro spiriti. (4)Se questo fine si può dunque conseguire colle pene più dolci, le leggi non debbono impiegare le più severe. Quelle pene sono dunque preferibili che, serbata sempre la proporzione che conviene col minor tormento del reo, producono il maggiore orrore pe’ delitti, e il maggiore spavento per coloro che sarebbero tentati a commetterli. Il primo legislatore, nel determinare dunque le pene alle diverse specie de'    delitti, non dee permettersi che quel grado di severità necessaria per reprimere l’affezion viziosa che li produce.

Se egli oltrepassa questo confine, egli cade nella tirannia, poiché se la società dev’essere protetta, i diritti degli uomini debbono essere rispettati, e non è permesso sacrificarne se non quella porzione ch'è necessaria per conservare e difendere la pubblica sicurezza. I principii che debbono dirigere il Legislatore, dice Platone, son quelli di un Padre e di una Madre, e non quelli del Padrone e del Tiranno. (1)

È vero che quell'istessa pena che basterà per distogliere la maggior parte degl’individui di una società da un delitto, non basterà, per distoglierne un picciolo numero; ma il legislatore non dee divenire un tiranno per questo; egli non deve avere innanzi agli occhi che la maggior parte, e dee persuadersi che le pene non potranno mai interamente bandire dalla società i delitti, ma che il felice risultato che dee da essi augurarsi, è di diminuirne quanto più sia possibile il numero.


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CAPO XXVIII

Specie diverse di pene

Il delitto, come si è detto, è la violazione di un patto, e la pena è la perdita di un dritto. Le diverse specie di dritti c’indicheranno dunque le diverse specie di pene.

Come uomo io ho alcuni dritti, come cittadino ne ho degli altri. La società mi assicura il godimento de'    primi, e mi dona gli ultimi. Gli uni e gli altri divengono dritti sociali subito che la società o li dà o li difende. Da' diversi oggetti a' quali si rapportano tutti questi dritti, noi possiamo dunque formarne le loro diverse classi, e dedurne le diverse specie di pene. La vita, l’onore, la proprietà reale, la proprietà personale e le prerogative dalla cittadinanza dipendenti, sono gli oggetti generali di tutt’i sociali diritti. Noi avremo dunque cinque classi di dritti, per conseguenza cinque classi di pene.

Noi avremo pene capitali, pene infamanti, pene pecuniarie, pene privative o sospensive della libertà personale, pene privative o sospensive delle civiche prerogative.

Esaminando preliminarmente ciascheduna di queste specie diverse di pene, noi esporremo i principii generali che debbono dirigerne l’uso. Osservandole quindi nel loro rapporto co' diversi oggetti, che compongono lo stato di una nazione, noi vedremo l’influenza che ciascheduno di questi oggetti può avere sul loro relativo valore. Questo renderà i nostri principii applicabili alle diverse circostanze politiche, fisiche e morali de'    popoli, e ci faciliterà lo sviluppo della gran teoria della proporzione tra le pene e i delitti.


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CAPO XXIX

Della pena di Morte

Da' semplicissimi principii, da' quali noi dedotto abbiamo il dritto di punire, si deduce anche quello di far uso della pena di morte, e combinando questi principii con quelli, coi quali si è determinato l’oggetto generale delle pene, noi distingueremo facilmente l’uso di questa pena dall'abuso. Se alcuni moderni scrittori, richiamando alla memoria degli uomini un antico sofisma, persuasi non avessero la maggior parte dei loro lettori a credere che la pena di morte, della quale tutte le nazioni han fatto uso, non possa derivare da alcun dritto, e che questa sia piuttosto una violenza, giustificata qualche volta dalla dura legge della necessità; se questi Autori, io dico, non avessero adottato un paralogismo che, in ultimo risultato, ci dovrebbe condurre a dubitare della giustizia di qualunque altra specie di pena, io mi tacerei sopra quest'oggetto, e risparmierei al lettore la noia di una metafisica discussione. Ma e il gran numero di coloro che hanno insegnata questa assurda opinione, ed il gran numero di coloro che l’hanno adottata, mi obbliga a sviluppare maggiormente le mie idee su questo proposito.

Quale può essere il dritto, dicono essi, che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello dal quale risultano la sovranità e le leggi. Esse non sono che la somma delle minime porzioni della privata libertà di ciascheduno; esse rappresentano la volontà generale ch'è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrifizio della libertà di ciascheduno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu. fatto, come si accorda un tal principio coll’altro che l’uomo non è padrone di uccidersi? E doveva esserlo, se ha potuto dare altrui questo dritto, o alla società intera. Non è dunque seguono essi a dire, la pena di morte un dritto, mentre si è dimostralo che tale esser non può; ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. (1)

Per non lasciare alcun dubbio nell’animo di chi legge, riduciamo alla precisione sillogistica questo raziocinio, ed osserviamo dove si nasconde l’errore.

Niuno può dare quel che non ha; ma l’uomo non ha il diritto di uccidersi; dunque il sovrano che non è altro che il depositario de'    diritti trasferiti dagl'individui al corpo intero della società, non può neppure avere il diritto di punire alcuno colla morte.

Ecco il sofisma che ha sedotti tanti iuspubblicisti, e che se reggesse, potrebbe estendersi a tutte le altre specie di pene, delle quali la facoltà coattiva fa uso per reprimere i delitti. Noi potremmo coll’istessa verità dire, che la galera, le miniere, l’infamia, la carcere perpetua sieno pene delle quali la suprema autorità non può far uso, senza commettere un’ingiustizia. Poiché siccome niuno ha il diritto di uccidersi, così niuno ha il diritto di accelerarsi la morte, ciò che avviene a coloro che sono condannati a' lavori pubblici, alle miniere, alle galere, ecc.

Dalla maniera istessa siccome niuno ha il diritto di disporre della sua vita, così niuno ha il diritto di disporre deh suo onore e della sua libertà. Le pene infamanti, le pene privative della libertà personale sono dunque ingiuste, perché niuno avendo il diritto di privarsi di questi beni, niuno poteva neppure cedere un diritto che non aveva, al Sovrano.

Puffendorfio nel suo trattato del diritto della natura e delle genti, (2) conobbe le funeste conseguenze che dedur si potevano da questo principio, e cercò di combatterlo; ma la debolezza della sua confutazione non fece che accrescere la forza del sofisma. Egli si contentò di un argomento di similitudine, che si sa di quanto poco valore sia in buona logica. Bisogna sapere, dice egli, che siccome nelle cose naturali un corpo composto può avere alcune qualità che non si ritrovano in alcuno de'    corpi semplici componenti, della maniera istessa un corpo morale può avere, in virtù dell'unione medesima delle persone onde egli è composto, alcuni diritti che non si appartengono ad alcuna delle persone componenti. L’armonia deriva dalla percussione di più corde sonore unisone; percuotete una sola corda, questa vi produrrà un suono, ma non un’armonia. Dunque, sebbene l’armonia non si competa ad alcuna delle corde sonore particolarmente considerate; pure essa deriva dalla percussione di più corde fatta nell'istesso tempo.

Ma a questa similitudine si potrebbe rispondere con un’altra non meno opportuna. Si potrebbe dire, che siccome cento milioni di cerchi non possono formare un quadrato, perché un cerchio non può mai ridursi a quadratura; così la volontà di cento milioni d’uomini non può render giusto ciò che di sua natura è ingiusto, o sia, ch'è l’istesso, non può dare a tutto il corpo quel diritto che a niuno di essi si appartiene. Ma le similitudini non debbono mai essere le armi di un filosofo che ragiona.

L’autore celebre del Contralto sociale (1) tentò un’altra strada per giustificare l’uso di queste pene; ma senza negare al ragionamento di questo filosofo quella profondità che ha sempre mostrata nelle sue produzioni, ardisco dire che vi sarà sempre come difendere il proposto sofisma, finché non si ricorre a' veri principii, dà’ quali dedur si deve il dritto di punire.

Una riflessione mi si presenta in questo punto. Le verità che più difficilmente si scuoprono, sono quelle che sono più vicine a' nostri occhi. L’analisi deve allontanarle, per poterle vedere. L’occhio intellettuale degli uomini, si rassomiglia all’occhio fisico de'    vecchi. Essi non veggono gli oggetti vicini,

e veggono i lontani; per vedere i primi, essi debbono discostarli, allontanarli da loro. Ecco ciò che avviene nel caso nostro.

Ognuno conosce che la società deve avere il dritto di dar la morte a colui che ha ferocemente attentato alla vita degli altri; ma quando va in cerca di questo dritto, non lo trova. La verità ch’egli vuol vedere è troppo vicina. Discostiamola e noi la troveremo.

L’uomo fuori della società civile, nello stato della naturale indipendenza, ha il dritto alla vita; egli non può rinunziare a questo dritto, ma può egli perderlo? Senza ch'egli rinunzi a questo dritto, può egli esserne privato? Vi è mai un caso nel quale un altro può ucciderlo, senzaché egli data gli abbia l’autorità di farlo?

In questo stato di naturale indipendenza, ho io il dritto di uccidere l’ingiusto aggressore? Niuno ne dubita. Se io dunque ho questo dritto sulla sua morte, egli ha perduto il dritto alla sua vita; giacche sarebbe contraddittorio che due dritti opposti esistessero nel tempo istesso. Nello stato dunque della naturale indipendenza, vi sono de'    casi ne' quali un uomo può perdere il dritto alla vita, ed altri può acquistare quello di torgliela, senzaché alcun contratto sia passato tra questi due. Ma si domanda: questo caso è soltanto quello dell’aggressione e della difesa? Se l’evento corrisponde a' disegni dell’empio aggressore; se l’infelice ch’egli ha assalito, cade morto sotto i colpi della sua mano omicida; in questo caso, il dritto che aveva questi acquistato sulla vita dell’aggressore resta forse estinto colla sua morte, o si diffonde egli sul resto degli uomini, ciascheduno de'    quali è vindice e custode delle naturali leggi? Dovremo noi supporre che l’aggressore che aveva perduto il dritto alla vita prima di perfezionare il delitto, lo riacquisti dopo che il delitto è consumato? Dovremo noi credere che l’istessa causa (il delitto) possa produrre un momento prima, ed un momento dopo due effetti diametralmente opposti?

A questa dimanda il più gran pensatore dell’Europa, l’immortale Locke, risponde per me. Le naturali leggi, dice questo gran filosofo, (1)non altrimenti che tutte le altre leggi,che s’impongono agli uomini in questa, terra, sarebbero interamente inutili, se, nello stato di natura, niuno avesse il potere di farle eseguire e di punire coloro che le violano, o contro ad un particolare, o contro a tutto il genere umano, la conservazione del quale è lo scopo di queste leggi comuni a tutti gli uomini. Se dee dunque esistere nello stato di natura il dritto di punire i delitti, è chiaro che ciascheduno deve avere questo dritto sopra tutti gli altri, poiché tutti gli uomini sono naturalmente uguali, o (per dir l’istesso con altri termini) a. perché il dritto che in questo stato ha uno come uomo, lo debbono necessariamente avere tutti gli altri uomini. (2)

A questo ragionamento di Locke noi possiamo aggiungere un’altra riflessione. La natura non fa cosa alcuna senza un oggetto. Tutto è legato da quella legge di ordine che regola l'universo. Quelli che noi chiamiamo fenomeni morali, quei sentimenti, quelle passioni che si destano in noi senzaché noi vi mescoliamo la nostra opera, non sono altro che tanti anelli di quell'invisibile catena che ci conduce a' gran disegni della natura. Essa, per servirmi dell’espressione di Aristotile, ha tanti mezzi, quanti sono i suoi fini, (3) e noi possiam qualche volta indagare qualche suo fine dalla cognizione di qualche suo mezzo. Quale oggetto, io domando, potrebbe avere l’odio, che in noi si desta contro il reo di un delitto che non interessa né noi, né i nostri parenti, né i nostri amici? Chi di noi non soffre nel vedere impunito un delitto? Chi di noi non gode quando la giustizia ne condanna il reo alla meritata pena? Chi di noi, al racconto di qualche atroce reato, non vorrebbe aver tra le mani l’empio che l’ha commesso, per vendicare il torto che ha recato all'infelice che noi neppur conosciamo? Se vogliamo esser sinceri, noi dobbiam confessare che niun motivo di privato interesse si presenta a noi in quel momento. Se la natura non avesse, dunque, dato che al solo offeso il dritto di uccidere l’aggressore, a che giovava inspirare nell'animo degli altri un odio così determinato contro di lui? L’amore della propria esistenza non sarebbe stato forse, in questo caso, sufficiente per corrispondere al suo disegno? Se la natura c'ispira dunque questo sentimento, è da supporsi che nello stato naturale, essa non solo dato aveva a tutti gli uomini il dritto di punire i delitti; ma aveva aggiunto a questa concessione uno sprone, per indurli ad esercitarlo. Caino intriso del sangue del suo estinto fratello, allorché diceva: il primo che m’incontrerà sarà il mio carnefice, (1) ci manifestava bastantemente la coscienza ch’egli aveva dell’esistenza di questo dritto, e dell’impegno che ciascheduno aver doveva di esercitarlo.

A che giovava in fatti dare all’uomo tante obbligazioni, senza dargli contemporaneamente un freno per impedirne la violazione? A che giovava dargli tanti dritti e negargli poi quello ch’era assolutamente necessario per indurre gli altri a rispettarli?

La legge di natura sarebbe stata una legge assurda, se avesse negato all'uomo questo dritto. (2) L’imperfezione dello stato naturale non derivava dunque dalla deficienza del dritto di punire, ma dalla deficienza de'    mezzi, o sia della forza necessaria per far valere, per esercitare in tutti i casi questodritto. Nel caso nostro, per esempio, se la moglie dell’infelice ch'è morto sotto i colpi del suo aggressore, non trovasse chi fosse bastantemente forte per uccidere l’omicida del suo sposo; se niuno esercitar volesse contro di lui il dritto che ciascheduno ha su di lui acquistato, dopo il suo delitto, se una turba di parenti valorosi e forti difendessero la sua impunità; invano la desolata moglie ricorderebbe agli altri uomini il loro dritto; invano le sue lagrime risveglierebbero ne' loro cuori intimoriti quel sentimento, col quale la natura da se solali avrebbe, in altre circostanze, indotti a vendicarla: l’assassino, protetto dalla preponderanza della forza, resterebbe sempre impunito, ed ogni intrapresa contro di lui non farebbe altro che moltiplicare le vittime della sua perfidia, e gli esempi perniciosi della sua impunità.

Or questa imperfezione dello stato naturale è stata corretta nello stato civile. In questo stato non si è creato un nuovo dritto, ma si è reso sicuro l’esercizio dell’antico. In questo stato non è più un privato che si arma contro un altro privato, per punirlo di un delitto che ha commesso; ma è la società intera: il depositario della forza pubblica è quello che esercita questo dritto, del quale gl'individui si spogliarono per investirne tutto il corpo, 0 sia il Sovrano che Io rappresenta.

Nè questa cessione si fece in un istante. Dovette passare lungo tempo prima che gli uomini si spogliassero dell’esercizio di un dritto così caro all'uomo. Questo non si andò perdendo che per gradi quasi insensibili; e nel decorso di questo libro, noi mostreremo, come avvenne questa lenta progressione e come seguì lo sviluppo della società istessa. (1)

Riassumiamo dunque quanto si è detto.

L’uomo nello stato naturale ha il dritto alla vita; egli non può rinunziare a questo dritto, ma può perderlo co' suoi delitti.

Tutti gli uomini hanno in quello stato il dritto di punire la violazione delle naturali leggi; e se la violazione di queste ha reso il trasgressore degno della morte, ciaschedun uomo ha il dritto di togliergli la vita. Or questo dritto che nello staio della naturale indipendenza ciascheduno aveva sopra di tutti, e lutti avevano sopra ciascheduno, è quello che nel sociale contratto si è trasferito alla società; si è depositato tra le mani del Sovrano. Il dritto dunque che ha il Sovrano d’infligger cosi la pena di morte, come qualunque altra pena, non dipende dalla cessione de'    diritti che ciascheduno aveva sopra se medesimo, ma dalla cessione de'    dritti che ciascheduno aveva sopra degli altri.(2)Nel mentre che io ho depositato nelle sue mani il dritto che io aveva sulla vita degli altri, gli altri gli hanno contemporaneamente trasferito quello che essi avevano sulla mia; ed ecco come io e gli altri, senza cedere il proprio dritto alla vita, siamo esposti ugualmente a perderla, quando caderemo in quegli eccessi, contro i quali l’autorità legislativa ha minacciata la pena di morte.

Ma quali sono questi eccessi, quali sono questi delitti,contro i quali l’autorità legislativa dee minacciare questa specie di pena? Se egli ha il dritto d’infligger le pene capitali, come si è provato, in quali casi può esercitare questo dritto? Quale è il limite che ne distingue l’uso dall’abuso? Consultiamo la ragione e l’esperienza, e vediamo ciò ch’esse ci dicono.


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CAPO XXX

Della moderazione, colla quale si dee far uso della pena di morte

Toglier la vita ad un uomo; immolare alla pubblica tranquillità l'esistenza di un individuo; impiegare quella forza istessa che difende la nostra vita, per privarne colui che co' suoi attentati ha perduto il dritto a conservarla: rimedio violento è questo che non può esser utile, se non quando è colla maggiore economia adoprato, ma che per poco che se ne abusi, degenera in un veleno micidiale che può insensibilmente condurre il corpo politico alla dissoluzione, ed alla morte. Ciò che avviene in alcune nazioni di Europa è una trista pruova di questa verità.

Quali sono presso queste nazioni le conseguenze che derivano dall'abuso che si è fatto della pena di morte?

Si è moltiplicato il numero di alcuni delitti più atroci; alcuni meno atroci rimangono impuniti; si è indebolito il vigore della pena.

Tutti si lagnano della moltiplicità degli assassinii in Francia, e tutti attribuiscono questo male alla legge che punisce colla morte il semplice furto. Manca in questo paese al ladro un freno di più, per non divenire assassino. Se egli ruba è condannato alla morte, se egli ruba ed assassina è condannato all'istessa pena. Il ladro dunque diviene quasi sempre assassino, poiché il secondo delitto, senza esporlo ad una pena maggiore, lo libera da un testimonio importante, la dinunzia del quale può condurlo al supplizio. Per punire i furti colla morte, si son dunque moltiplicati gli assassinii in Francia.

La seconda conseguenza che deriva dall'istesso principiò, è l’impunità de'    delitti meno atroci. Regola generale: una legge tirannica non può conservarsi in un popolo libero; una legge feroce dee presto o tardi perdere il suo vigore in un popolo umano. Se l’autorità legislativa non l’abolisce, la congiura de'    costumi la fa tacere; e la negligenza o la durezza del legislatore sarà allora la causa unica de'    progressi di quel male, che una legge più umana potrebbe facilmente impedire. Gli esempii che possono illustrare questa verità sono molti; io ne scelgo due.

Il fallimento fraudolento è un delitto che sarebbe più raro, se fosse più leggermente punito. In quasi tutt’i codici dell'Europa si trova punito colla morte. Ma qual è il fallito fraudolento che sia stato appiccato? L'eccesso della pena ha prodotta l’impunità, e l'impunità ha prodotta la frequenza del delitto. L’Europa è piena di negozianti, i quali, dopo avere abusato della pubblica confidenza, menano tranquilli i loro giorni, consumando gli avanzi delle sostanze di tanti infelici che la loro mala fede ha ridotti alla mendicità. Ognuno si fa un dovere di soccorrerli nella occultazione del delitto. Le parti stesse interessate non reclamano il rigore della legge contro di loro; ed il magistrato, che non ardirebbe condannarli alla pena dalla legge fissata, è il primo a procurare la loro impunità, o ad impedire la manifestazione del reato.

L’istesso avviene nel furto domestico. Questo delitto sarebbe forse così frequente, se la legge non lo punisse colla morte? Per non vedere un patibolo innalzato innanzi alla porta della sua casa; per non esporsi alle pubbliche maledizioni, il padrone nasconde alla giustizia il ladro; si fa un delitto di accusarlo, ed il furto rimane impunito sotto la protezione di quella legge istessa che lo punisce colla morte.

L’ultima conseguenza, finalmente, che deriva dall’abuso della pena di morte, è la diminuzione del valor della pena. Io sono qui costretto a dire delle cose ovvie, perché la natura della mia opera e l’ordine delle mie idee mi proibiscono di tacerle. Il lettore ne sarà ben presto compensato colla novità che ritroverà nelle posteriori idee.

Le pene hanno un valore assoluto, ed un valore di opinione. Il primo è nella intensità della pena, il secondo è nell’immaginazione degli uomini. Il primo si misura dal bene che si perde, e il secondo dall'impressione che fa nell’animo degli uomini questa perdita.

Or non si può dubitare che le impressioni più forti perdano il massimo loro vigore, allorché sono frequenti. La callosità che si vede nella superficie de'    corpi animati, prodotta dalle replicate percussioni de'    corpi esterni, non è diversa, (se non che riguardo al soggetto) da quella che si genera nello spirito, colla replicata immagine degli oggetti che gli si presentano. L’intensità di qualunque emozione dell’animo si scema, a misura che cresce il numero e la frequenza delle cause che l’eccitano. La morte non si riguarda mai con tanta indifferenza, quanto ne' tempi di peste e di guerra.

L’orrendo spettacolo, dunque, di un delinquente condotto al patibolo dalla mano della giustizia, non farà più quell’impressione che far dovrebbe, quando si offre frequentemente agli occhi del popolo. La legge, delusa nelle sue speranze, vedrà le sue stragi guardate con indifferenza dagli spettatori; e leggerà ne' loro volti intrepidi l’inefficacia di un rimedio, il cui prezzo è la vita di un uomo.(1)

Ecco ciò che si osserva in que’ paesi, dove si abusa della pena di morte. Ma non ci tratteniamo più sopra verità né ignorate, né contrastate; e senza annoiare il lettore con altre riflessioni, dirette tutte a provare ciò ch’egli non nega, determiniamo in poche parole in quali casi ed in quali modi dovrebbe restringersi l’uso di questa pena. Che si tolga la vita a quell'uomo che, a sangue freddo, ha, o direttamente o indirettamente, (2) attentato ferocemente alla vita di un altro uomo; che si tolga la vita a colui che ha tradito la patria, che ha cercato di sovvertire la sua costituzione, che, in poche parole, si è reso reo di Maestà in primo capo; che, ristretto a questi soli casi, l’uso di questa pena, l’esecuzione se ne faccia con tutti quegli apparati che possono renderla più imponente agli occhi del popolo; ma che si cerchi nel tempo stesso di renderla, quanto meno sia possibile, tormentosa pel delinquente; che la differenza della pena de'    vari delitti, a' quali verrebbe destinata, dipenda dall'unione di altre pene e non dal maggiore o minor tormento che l’accompagna; che si proscrivano tutti quei feroci supplizi che sono ancora in uso presso alcune nazioni, che si gloriano di essere umane ne' loro costumi, ma che sono ancora barbare ne' loro codici; che la giustizia si vergogni di coprirsi del manto della tirannia, allorché conduce la sua vittima al patibolo; che il legislatore si persuada che i tormenti i più ricercati non fanno altro che inasprire gli uomini contro le leggi, senza correggerli; che indeboliscono l’effetto della pena, invece di renderlo più efficace; ch’eccitano la compassione pel delinquente e non l’orrore pel delitto; che danno gli esempi della ferocia invece delle istruzioni benefiche della giustizia; che si persuada, finalmente, che un’esecuzione di questa natura non sarà mai accompagnata dall’approvazione pubblica; che un’esecuzione non ratificala dal voto pubblico è inutile; e che un’esecuzione inutile è sempre ingiusta, perché l’oggetto della legge nel punire non è di vendicare la società dell’offesa ricevuta dal reo, ma di liberarla da' nuovi mali, a' quali la sua impunità potrebbe esporla.(1)Ecco l’uso che la ragione, la giustizia e l’umanità ci permettono di fare della pena di morte.


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CAPO XXXI

Delle pene d’infamia

Non sono le sole sensazioni dolorose gl'istrumenti della sanzione penale ne' moderati Governi. Il solo dispotismo è quello che non ha altro che il bastone, il laccio, ed i tormenti per distogliere da' delitti i vili suoi schiavi. Dove regna un tiranno, i beni e i mali reali sono i soli che si apprezzano; quelli di opinione non si conoscono, perché non vi è, ne può esservi opinione stabilita in un paese, dove l’incostante maniera di pensare di un solo determina la maniera di pensare di tutti; dove chi comanda dispone degli spiriti, come de'    corpi, e chi ubbidisce non è che un sasso inerte, che prende quella direzione che gli dà il braccio che lo spinge. Non avviene l'istesso ne' Governi moderati. In questi una doppia sorgente di ostacoli si offre all’autorità sovrana, per reprimere l’affezione viziosa del cittadino.

I due generi di esistenza fisica e morale che gli appartengono, formano questa doppia sorgente di ostacoli, de'    quali quelli che dipendono dall'esistenza morale, quando vengano bene adoprati, hanno tanta forza e possono anche avere una forza maggiore di quelli che dipendono dall'esistenza fisica. Tra gli ostacoli dipendenti dall'esistenza morale, o sia da' morali rapporti del cittadino colla società, non si può dubitare che uno de'    più forti sia il timore dell'infamia, o sia la perdita del dritto alla pubblica opinione. Questa opinione così cara all’uomo, questa opinione, per conservar la quale la giovane Indiana si gitta volontariamente nel rogo, ove brucia il cadavere dell’estinto marito; (1) questa opinione, per conservar la quale il guerriero corre innanzi all'inimico non della sua patria, non della sua famiglia, ma del suo re che forse non conosce che pe’ torti che gli ha recati; questa opinione, per conservar la quale l'uomo si rende in alcuni casi superiore a tutte le altre passioni, rompe tutt'i freni, viola le umane e le divine leggi, ed offre intrepido il suo petto alla spada dell’inimico che l’ha chiamato ad un duello, l’esito del quale è o la morte sotto i colpi dell'inimico, o la perdita della vita sotto la mannaia del carnefice, o la perdita della patria, de'    parenti, degli amici, delle fortune, di tutti gli oggetti della sua amicizia e del suo amore, quando la fuga lo libera dal rigore della legge che lo condanna alla morte; quest'opinione, che l’uomo preferisce alla vita, perché non muore con lui, perché non rimane sepolta insieme colle sue ceneri nella tomba che le racchiude, perché resta unita al suo nome, anche quando termina la sua esistenza; quest’opinione, io dico, offre alla diligente mano del legislatore gl'istrumenti più efficaci per allontanar gli uomini da' delitti.

L’Egitto fu il primo a conoscere l’efficacia di questa forza, e ad insegnare alle altre nazioni l'uso vantaggioso che potevano farne le leggi. Col più ingegnoso artifizio, i savi legislatori di questo antico popolo cercarono d’intimorire il malvagio con una pena posteriore alla sua morte. L’uomo potente che violava le leggi, poteva sperare, finché viveva, di rimanere impunito sotto l’ombra del suo potere; ma terminando questo colla sua morte, egli scampar non poteva i terribili decreti di un rigoroso giudizio, che condannava ad un eterno obbrobrio il suo nome e lasciava insepolte le abborrite sue ceneri.

Il cittadino, il magistrato, il sacerdote, il re, allorché morivano, dovevano esser giudicati prima di esser sepolti. Un tetro lago separava l’abitazione de'    viventi da quella de'    morti. Sulle sponde di questo lago si fermava il cadavere, ed un araldo ad alta voce ne intimava il terribile giudizio: «Chiunque tu sei, gli diceva, ora che il tuo potere è terminato colla tua vita; ora che i titoli e le dignità ti abbandonano; ora che l’invidia non nasconde i tuoi benefizii, il timore non occulta i tuoi delitti, l’interesse non esagera né i tuoi vizi, né le tue virtù; ora è il tempo di render conto alla patria delle tue azioni. Che hai tu fatto nel tempo della tua vita? La legge t'interroga, la patria ti ascolta, la verità ti dee giudicare.»

Allora quaranta giudici sentivano le accuse che si producevano contro del defunto, si palesavano que’ delitti ch'erano rimasti occulti durante la sua vita. Si esaminava col maggior rigore, come aveva ubbidito alle leggi, se era cittadino; come aveva amministrata la giustizia, se era magistrato; come aveva esercitale le funzioni del suo sacro ministero, se era sacerdote; con qual moderazione aveva fatto uso del supremo potere, se era il re. Il cittadino che aveva violate le leggi, il magistrato che ne aveva abusato, il sacerdote che le aveva disprezzate sotto gli auspicii della superstizione, il re che aveva versato il sangue del popolo in una guerra ingiusta, che aveva profuse le rendite pubbliche pe’ suoi piaceri, che aveva commesse delle violenze contro de'    privati, dell'estorsioni contro del pubblico, che aveva dettata o protetta una legge ingiusta, che, in poche parole, abusato aveva de'    suoi dritti, ed oscurato lo splendore del trono, era come gli altri condannato all'infamia e privato di sepoltura. Questa non si concedeva se non a colui che i giudici trovato avevano innocente, e quest'ultimo uffizio era preceduto da un elogio destinato ad incoraggire la posterità dell'illustre defunto a praticare le sue virtù e ad imitarne l’esempio. (1)

Ecco a che si riducevano quei famosi giudizi de'    morti degli Egizi, de'    quali tutta l’antichità ha parlato con meraviglia e stupore, come quelli che forse, più di ogni altro, influirono a' rapidi progressi che la virtù fece presso questa nazione, che poteva con ragione gloriarsi di essere l’istitutrice dell'umanità. Essa, come si è detto, fu la prima a conoscere la possibilità di sostituire i sentimenti alle sensazioni, le pene ideali alle pene reali; l’ignominia a' tormenti.

Dopo degli Egizi, Minos, (1) Licurgo, (2) Zaleuco, (3) Caronta (4) e Solone (5) mostrano in Creta, in Sparla, in Locri, in Turio, ed in Atene, i prodigiosi effetti dell’opinione pubblica ben maneggiata e del timor dell'infamia, quando venga opportunamente adoperato dalle leggi.

Roma istessa, finché fu libera e virtuosa, conobbe quanto contribuir potesse alla conservazione de'    costumi la correzione del Censore, il giudizio del quale, sebben seguito non fosse dalla perdita di alcuna civica prerogativa, spaventava nulladimeno il cittadino coll'ignominia che spargeva sulla sua persona. (6) Io non parlo dell’infamia detta di dritto, che unita era alla perdita di una gran parte delle civiche prerogative. (7) Questa conservò il suo vigore anche quando l’altra lo perde colla decadenza de'    costumi, della censura e della libertà. Il Romano degradato sotto gl'insulti della tirannide, non temeva forse l’infamia della legge, come quella che lo privava dell’opinione pubblica; ma la temeva come una pena che l’escludeva da qualunque dignità civile (8) o militare; da qualunque ministero giudiziario, (9) che lo privava di ogni potere e della speranza di ottenerlo, (10) e che gli proibiva fino di far da accusatore, (11) o da testimonio (12) ne' giudizii. L’amor del potere venendo allora in soccorso dell’indebolito timor dell’infamia, dava all'infamante pena quel valore che, senza questa combinazione, perduto avrebbe tutta la sua antica efficacia. Ma il dispotismo non fu la sola causa che indebolito aveva l’assoluto valor dell'infamia presso questo popolo. La moltiplicità degl’infami e l’abuso che si era fatto delle infamanti pene, (13)prodotto avrebbe l’istesso effetto, anche in una forma più moderata di governo.

Regola generale: per dare alle pene d’infamia il massimo valore, e per ottenere che lo conservino, bisogna che la destinazione di queste pene segua l’opinione pubblica e non la contrasti, che il numero degl’infami non si moltiplichi troppo, che non si adoprino queste pene contro quella classe della società che o poco o niente conosce l’onore. Lo sviluppo de'    tre principii compresi in questa regola indicherà al legislatore l’uso che far si dee delle pene d’infamia. Io comincio dal primo.

L’infamia della legge è zero, se non è unita all’infamia di opinione. Questa verità, comeché ignorata da alcuni legislatori, non lascia d’essere evidente. L’infamia è una pena, e la pena non è che la perdita di un dritto. Or qual è il dritto che si perde colla pena d’infamia? Se la legge non combina con l’infamia altre pene, il dritto, che si perde coll’infamia; è il dritto all'opinione pubblica. Se l’opinione pubblica non considera, dunque, come infame colui che la legge condanna all’infamia, la pena svanisce da se stessa, perché perde il suo effetto.

Ma si domanda: può mai questo avvenire? La legge non può essa determinare, come vuole, l’opinione pubblica? Non può essa ottenere che questa consideri come infame chiunque essa ha punito con questa pena?

Due riflessioni, fondate sul fatto, basteranno per rispondere a queste due dimande.

Supponiamo che un legislatore, per far pompa dell'onnipotenza delle sue leggi, dichiarar volesse onorevole la condizione del carnefice. Supponiamo che l’uomo, ell'esercita questo terribile ministero, venisse tutto ad un tratto decorato de'    più luminosi titoli e dell’ordine più insigne dello Stato; che la sua discendenza partecipar dovesse alla nobiltà che la legge ha conceduta al padre, e che esclusa non fosse da qualunque carica; o dignità civile; che ne avverrebbe? Il carnefice e i suoi figli onorati dalla legge, rimarrebbero come prima infami nell'opinione pubblica. I titoli e l’ordine a lui conceduti, invece di decorare la sua condizione, diverrebbero gli oggetti del rifiuto di coloro che prima ne erano ornati, e con un’istantanea rivoluzione d’idee, si convertirebbero in segni d’infamia quelli che prima erano i segni della nobiltà e del merito.

Si dirà forse che in questo caso la natura è quella che determina l’opinione pubblica ad abborrire colui ch'esercita questo sanguinoso ministero, e che l’inflessibilità non deve in questo caso attribuirsi all’opinione, ma alla natura che la determina. La legge trionferebbe dunque dell’opinione, se l’opinione non fosse sostenuta ed ispirata dalla natura.

Per rispondere a questa obiezione, io domando: sopra quali fondamenti può asserirsi che l’infamia del carnefice sia ispirata dalla natura? La natura non è ella forse costante nelle sue operazioni? Se essa determinasse l’opinione pubblica ad abborrire il carnefice, perché non ispirerebbe essa l’istesso abborrimento pel guerriero ch'esegue la sentenza di morte contro del suo compagno? Perché il granatiere che scarica un colpo di fucile sul petto del suo camerata che non ha forse trasgredite che le sole leggi della disciplina, dovrebbe essere onorato, e dovrebbe poi essere infame il carnefice che fa spirare sopra il patibolo un mostro che ha commessi i più orrendi attentati? Se la natura determinasse l’opinione pubblica a dichiarare infame il carnefice, questo ministero non avrebbe dovuto forse avere l’istessa sorte presso tutt’i popoli, ed in tutti i tempi? Da che dunque deriva che in Marocco il re è il carnefice de'    suoi sudditi? Perché nelle antiche monarchie dell'Asia quest'impiego si esercitava da uno de'    primi uffiziali della corte, da colui che decorato era del nome di Gran sacrificatore? Perché presso gl'Israeliti la sentenza di morte si eseguiva o da tutto il Popolo, o dagli accusatori, o da' parenti dell'omicida, e qualche volta da' giudici stessi, senza che le loro mani bagnate del sangue del reo divenissero infami? Perché presso i Romani i Littori non erano infami? Perché presso gli antichi Galli i loro venerandi Druidi non perdevano niente dell’opinione del popolo, trucidando, insieme colle vittime, gli uomini che per loro delitti resi si erano degni di morte? Perché in altri tempi la sentenza di morte era eseguita, in alcuni paesi della Germania, dal più giovane della comunità; in Stedien, dall’ultimo abitante che fissato avea il suo domicilio nel paese; in Franconia dall’ultimo ammogliato, ed in Reutingue, dall'ultimo magistrato ammesso nel Consiglio, senzaché alcuno di questi onorati esecutori restasse infamato nella pubblica opinione? Aristotile finalmente avrebbe egli ardito di mettere nel numero de'    magistrati il carnefice, se i Greci ne' suoi tempi avessero avuto, per le funzioni di questo ministero, quell'abominio e quel disprezzo che oggi noi ne abbiamo? (1)

Questi fatti ci mostrano bastantemente che la natura non può avere alcuna parte nell'infamia, della quale oggi è coverto il carnefice; poiché, se così fosse, o la natura avrebbe dovuto esser incostante nelle sue operazioni, o 1 infamia del carnefice avrebbe dovuto esser comune a tutt’i popoli, e in tutti i tempi. L’obiezione dunque proposta è fondata sopra una falsa supposizione. Passiamo alla seconda questione.

Si è dimandato, se basti che la legge dichiari uno infame per ottenere che sia questi infame nell'opinione pubblica. Un fatto solo basta per risolvere questa seconda quistione. In una nazione dell'Europa, per reprimere la mania de'    duelli, si ebbe ricorso ad un rimedio che pareva atto a distruggere il male nella sorgente istessa che lo produceva. Si proibirono i duelli, e la sanzione della legge fu l’infamia. Si dichiarò infame tanto colui che dava la disfida, quanto colui che l’accettava. Quali furono gli effetti di questa legge? I duelli seguitarono ad esser frequenti come prima. L’opinione pubblica non ratificò l’infamia della legge. Colui che sopportava l’oltraggio, colui che non accettava il duello, era infame nell’opinione pubblica, e colui che si batteva era infame per dritto.

L’infame per legge seguitò ad esigere il rispetto de'    suoi concittadini: egli non era dunque infame che di nome. All’incontro colui che aveva ubbidito alla legge, era l’oggetto del disprezzo pubblico: egli non era dunque infame di dritto, ma lo era di fatto. Si disprezzo dunque l’infamia della legge, e si temé quella dell’opinione; si disprezzo l’infamia di nome, e si temé quella di fatto.

Non è dunque la legge quella che può stabilire l’infamia; essa non può far altro che manifestarla. L’opinione pubblica, questa proprietà la più libera e la più cara de'    popoli; l’opinione pubblica, che deve essere rettificata da' lumi, corretta dall’istruzione, ma non mai violentata, non mai disprezzata dalle leggi; l’opinione pubblica, io dico, è quella che può solo determinare l’infame. Il legislatore non dee far altro che soccorrere le leggi di quest'istessa opinione ne' casi, ne' quali si combinano coll'interesse pubblico, palesando colle formalità del giudizio e colla pubblicità dell’infamante pena, l’infamia del reo che, senza questa pubblica esecuzione, sarebbe forse rimasta occulta, incerta o almeno a pochi nota.,

Le pene d’infamia non debbono dunque essere adoperate che pe’ delitti che sono di loro natura infamanti.(1)Ecco il primo canone, col quale diriger si dee l’uso di queste pene. Io passo al secondo principio, che si è esposto nella regola generale che riguarda il numero degl'infami.

Non ci vuol molto a vedere che il valore dell'infamia è una pena di opinione: ora le impressioni troppo frequenti sull'opinione indeboliscono l’opinione istessa. Questa verità comparirà più luminosa, se sarà illustrata da un esempio. Un grave pericolo sovrasta ad un popolo. Un cittadino ardito corre in mezzo a' maggiori rischi a salvare la patria; l’esito corrisponde alle sue speranze; egli ritorna dalla sua gloriosa intrapresa, coverto de'    segni del suo patriottismo e del suo coraggio. La nazione benedice il suo Eroe, e l’opinione l’uguaglia agli Dei. Questo pericolo si rinnova per ben mille volte; mille cittadini l’un dopo l’altro corrono cogl’istessi rischi alla difesa della patria intimorita; e ciascheduno di essi glorioso ritorna dalla sua felice intrapresa. La salute della patria si dee tanto all’ultimo, quanto al primo. I rischi, a' quali si è esposto il primo, non sono maggiori di quelli, a' quali si è esposto l’ultimo. Il popolo è persuaso dell’uguaglianza del merito. Ma l’eroismo dell’ultimo cittadino farà forse nell’opinione pubblica quell'impressione che vi fece l’eroismo del primo? L’opinione pubblica, scossa per tante replicate volte da impressioni dell'istesso genere, sarà essa così energica nel corrispondere, come lo era nel principio? Quale sarà l’effetto di tutte queste ripetute impressioni? L’ultimo eroe non otterrà quella quantità di opinione, che ottenne il primo; ma il primo perderà tutto quello che aveva di più sull'ultimo.

Applichiamo questo principio all'infamia, e noi troveremo che, siccome il numero degli eroi troppo moltiplicato, indebolisce nell’opinione degli uomini il merito dell’eroismo; così il numero degl’infami troppo moltiplicato, indebolirà nell’opinione degli uomini il valore dell'infamia; noi troveremo che tanto nelle pene, quanto ne' premi di opinione, il loro valore si diminuisce a misura che si moltiplica il numero de'    puniti, o premiati; (2) noi troveremo finalmente che sì nelle une comenegli altri i due principii già sviluppati non bastano per dirigerne l'uso; ma che se ne richiede un terzo, e questo determinar dee la condizione’ delle persone, per le quali debbono adoprarsi.

Sevi è una classe nella società, che poco o niente conosce l’onore, poco o niente apprezza l’opinione pubblica, per promuovere questa al bene, per distorglierla dal male, il legislatore non deve adoprare né i premi, né le pene di opinione. Gli onori e l’infamia saranno inutili per questa classe; i premi e le pene reali saranno i soli incoraggiamenti, e i soli freni opportuni per essa. Se vi è una classe nella società, che preferisce l’onore alla vita, la morte all’infamia, per questa classe i premi e le pene ideali saranno più efficaci, che i premi e le pene reali. Queste verità sono così evidenti che sarebbe inutile dimostrarle. Ma si domanda: esistono, o no, queste due classi così diverse nella più gran parte delle presenti società dell'Europa? Per una porzione del popolo, l’infamia non sarebbe forse un freno impotente? Se mai se n’eccettuano i governi perfettamente democratici, in tutti gli altri, l’ultima classe della plebe non dovrebbe forse essere esclusa da queste specie di pene? In quali circostanze esse potrebbero essere indistintamente minacciate a tutte le classi dello Stato.

Non è questo il luogo di risolvere tutte queste importantissime questioni. Esse richiameranno da qui a poco la nostra riflessione, allorché parleremo del rapporto delle pene co' diversi oggetti, che compongono lo stato delle nazioni. Lasciamo dunque sospesa la curiosità del lettore, e conchiudiamo questo capo con una riflessione quanto vera, altrettanto ignorata da molti legislatori. Il campo delle pene, racchiuso ne' limiti dell’umanità, è molto ristretto, se si paragona con quello de'    delitti. Che ne avverrà se l’economia, la vigilanza e l’arte del legislatore non supplisca a questo difetto? Che ne avverrà se il legislatore ne impiega inutilmente i prodotti? Egli dovrà uscire da' suoi confini, e cercare negli spazi interminabili della tirannide e della ferocia quei rimedi violenti che riparano forse per un momento il male, ma che lasciano per sempre spossato il corpo politico e illanguiditi tutt’i suoi muscoli. Ecco ciò ch’è avvenuto in una gran parte delle nazioni d'Europa; ed ecco ciò che indurre dovrebbe un savio legislatore ad eseguire non solo le proposte regole, ma a dare anche alle infamanti pene tutti que’ differenti gradi di severità, de'    quali sarebbero suscettibili.

Il minore tra questi esser dovrebbe la semplice dichiarazione d’infamia. A questa dichiarazione aggiunger si potrebbero alcune circostanze più o meno ignominiose, proporzionate al maggiore. o minor valore del delitto. In alcuni casi si potrebbe, per esempio, affiggere in una piazza pubblica il nome del delinquente, il suo delitto, e l’infamia alla quale è stato condannato, come si facea alcune volte in Atene. In altri casi strascinar si potrebbe la sua effigie per le pubbliche strade: in altri si potrebbe esporre per alcuni giorni il delinquente in una piazza pubblica a tutti gl’insulti del popolo, ecc. Il legislatore dovrebbe, in ciascheduna infamante sanzione, indicare la circostanza che dovrebbe accompagnarla.


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CAPO XXXII

Delle pene pecuniarie (1)

Si è creduto da alcuni che le pene pecuniarie non dovrebbero aver luogo nel piano di una savia legislazione. Le ragioni che ne adducono, sembrano, a primo aspetto, molto vigorose. Quando si tratta di pene pecuniarie, essi dicono, il malvagio non dee far altro che proporzionare le sue fortune co' suoi pravi disegni. Il freno politico in questo caso non è forte che pel povero è per l’avaro.

Il ricco che cura poco il danaro, curerà poco le leggi. Colla borsa alla mano egli correrà al delitto senza il minimo spavento. Egli violerà la legge con una mano, e placherà coll’altra la giustizia, vile mercenaria de'    suoi attentati.

A questa ragione se ne aggiunge un’altra. Come combinare l’imparzialità della legge colla pecuniaria sanzione? Nell’infanzia di un popolo, finché la primiera ripartizione de'    fondi sostiene coll’uguaglianza delle proprietà l’uguaglianza delle private ricchezze, le pene pecuniarie possono esser giuste, perché ugualmente dolorose per tutti gl’individui della società; ma questa primitiva uguaglianza distrutta, potrebbero esse senza ingiustizia esser adoprate? L’istessa multa sarà una pena troppo forte per uno, troppo mite per un altro. Il rigore della legge varierà colle diversità delle fortune de'    suoi violatori. Un istesso delitto condurrà all’indigenza una famiglia, e lascerà l’altra nell’antico suo agio. L’istessa pena esaurirà tutta la proprietà di uno, e non segregherà dalla proprietà dell’altro che una infinitamente piccola frazione. Essa sarà tirannica e debole, feroce ed impotente nel tempo istesso.

Finalmente all’alterazione necessaria che la multa riceve dalla disuguaglianza delle fortune private, si unisce quella che le deriva dall’incostanza dell’opulenza pubblica. Lo stato delle ricchezze di un popolo varia col variare de'    tempi. Le nazioni, come i loro individui, acquistano, perdono, rare volte conservano per lungo tempo le loro ricchezze. Con un periodo quasi ordinario e regolare esse passano dalla miseria alla mediocrità e dalla mediocrità all’opulenza, dall’opulenza alla mediocrità e dalla mediocrità alla miseria. Il rigore delle pene pecuniarie varierà dunque di continuo, e sarà così inconstante, come lo è lo stato della ricchezza pubblica. Esse saranno ora troppo forti, ora troppo deboli,rare volte proporzionate allo stato della ricchezza nazionale. (1)

Ecco tutto ciò che si può dire contro le pene pecuniarie; ma queste ragioni svaniscono subito che si determina il vero uso che si dee fare di queste pene.

I due principii generali, che debbono determinarlo, sono i seguenti:

1. Le pene pecuniarie non debbono adoperarsi che pe’ soli delitti che dipendono dall’avidità del denaro.

2. Esse non debbono determinare la quantità della multa, ma la porzione che si dee sottrarre dalle fortune del reo. Colui, per esempio, che sarà convinto di aver commesso il tale delitto, sarà punito colla perdita della terza, quarta o quinta parte de'    suoi beni.

Ecco come dovrebbe esprimersi' il valore della pena, ed ecco come svaniscono le ragioni che si adducono contro l’uso delle pene pecuniarie.

Il primo principio lo difende dalla prima obiezione, ed il secondo dalle altre due che si sono prodotte. Si è detto che la pena pecuniaria non ispaventerà il ricco che non apprezza il denaro. Ma quando la pena pecuniaria non cade che su' delitti che dipendono dall’avidità del danaro; allora il ricco,clic non lo apprezza, non ha bisogno del freno della pena per non commetterli. L’istessa ragione che gli fa disprezzare la pena, lo terrà lontano dal delitto. Se al contrario egli è ricco, ed avido nel tempo istesso, quell’istessa passione che lo spinge a violare la legge, gli farà temere la pena. (1)

Si è detto inoltre che le pene pecuniarie non sono combinabili coll'imparzialità della legge; che, supposta la necessaria disuguaglianza delle private ricchezze, per l’istesso delitto esse recano mali diversi che sono nel tempo istesso troppo forti per gli uni e troppo deboli per gli altri; che finalmente esse saranno rare volte proporzionate allo stato della ricchezza nazionale.

Ma io domando: queste riflessioni avranno esse più luogo, quando la pena pecuniaria non è determinata dalla quantità della multa, ma dalla porzione che si dee sottrarre dalle fortune del reo? Quando la legge dice: la pena dello stellionato, per esempio, sia la perdita della metà delle fortune del reo, questa pena non sarebbe essa uguale tanto pel reo più ricco, quanto pel meno ricco? Non sarebbe essa forse ugualmente opportuna nello stato della maggior ricchezza di una nazione, ed in quello della sua maggior povertà?

Nel sistema giudiziario da noi proposto, questa maniera d’infligger le pene pecuniarie potrebbe esser molto facilmente eseguita. Gl’istessi giudici del fatto che decider dovrebbero della verità dell’accusa, dovrebbero indicare lo stato delle fortune del reo. L’accusatore dovrebbe loro offrire i materiali, onde venirne in cognizione; ed allora i giudici del dritto determinar dovrebbero la quantità della somma che il reo sborsar dovrebbe, a tenore della porzione che si dovrebbe sottrarre dalle sue fortune, dalla legge indicata.

In Inghilterra, i Giurati sono quegli ch’esaminano fin dove debba estendersi il valore della multa. La legge stabilisce la natura della pena, e i Giurati ne determinano la quantità. La Gran carta (2) fu quella che stabilì questo metodo, per ovviare a' disordini che nascevano dall’impossibilità di determinare il valore della multa. Essa prescrisse anche una regola generale che limitar doveva in parte l’arbitrio de'    Giurati su quest’oggetto, ma che per altro, non l’escludeva interamente. Si stabilì «che la pena pecuniaria non potesse esser superiore alle forze, ed alle circostanze, nelle quali si trovava il reo; che l’emenda non dovesse impedire l’affittatore di un terreno di coltivarlo, né il mercatante di continuare il suo commercio; e ch'essa non dovrebbe mai estendersi fino a costringere l’agricoltore a vendere gl’istrumenti addetti alla coltura.»

Questa regola, che impedisce l’eccesso della pena, lascia però a' Giurati l’arbitrio funesto di favorire più l’uno che l’altro, e di fissare la proporzione della pena così col delitto,, come colle facoltà del delinquente. Col metodo da noi proposto si eviterebbe questo male. La legge determinando il valore della pena, col fissare la porzione che si dee sottrarre dalle fortune del reo, non lascierebbe a' giudici del fatto arbitrio alcuno, così nel proporzionare la quantità dell’emenda alla natura del delitto, come nel proporzionarla alle fortune del delinquente. Non dovendo essi far altro ch’esporre lo stato delle facoltà del reo a' giudici del dritto, non potrebbero impunemente tradire la verità, giacché, trattandosi di un fatto, la loro malizia non potrebbe rimanere occulta. I giudici del dritto molto meno potrebbero arbitrare, poiché la legge indicherebbe loro la porzione che dovrebbero sottrarre dalle facoltà del reo già costate.

Due sole regole bisognerebbe che il legislatore stabilisse per rendere questo nuovo metodo applicabile a tutt’i casi. La prima sarebbe che la pena pecuniaria fosse sostituita da una pena afflittiva di corpo, in tutti que’ casi, ne' quali le facoltà del reo non ascendessero ad una data quantità che la legge dovrebbe determinare. Senza questa regola, potrebbe spesso avvenire che col metodo proposto, la pena di un delitto si ridurrebbe ad una perdita di pochi grani.

In tutt’i delitti dunque, pe’ quali la legge minaccia la pena pecuniaria, si dovrebbe anche fissare la pena afflittiva a quella corrispondente, nel caso che le facoltà del delinquente non giungessero al valore già determinato.(1)La seconda regola sarebbe che quando la pronta esazione della pena produr potrebbe la totale rovina del delinquente, i giudici dovrebbero in questo caso concedergli una dilazione proporzionata alle sue circostanze, ed il compenso della dilazione dovrebbe essere la sospensione dalle civiche prerogative che il reo riacquistar non dovrebbe, se non nel momento in cui la somma, alla quale verrebbe condannato, fosse stata da lui interamente pagata.

Io trovo nell'attica legislazione un esempio di questa savia determinazione. Colui ch'era condannato ad una multa, finché non la pagava, era escluso dall’esercizio di qualunque carica; (1) non poteva parlare al popolo; (2) era considerato dalla legge, come se fosse infame. (3) Se egli moriva prima di soddisfare il suo debito, i suoi figli erano considerati della maniera istessa, finché non pagavano la multa, alla quale era stato condannato il padre. (4)

Questi sono i principii generali, co' quali diriger si dee l’uso delle pene pecuniarie. Noi applicheremo a suo luogo questi principii. Passiamo ad esporre gli altri che determinar debbono l’uso della quarta classe delle pene.


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CAPO XXXIII

Delle pene privative, o sospensive,    della libertà personale

Se la giustizia, l’umanità, l’interesse pubblico, richiedono ugualmente che l’uso della pena di morte sia a pochissimi delitti ristretto; se le pene d’infamia non potrebbero essere molto frequenti, molto comuni, senza perdere il loro valore, la loro efficacia; se non debbono minacciarsi che a' delitti che sono di loro natura infamanti, ed a quelle classi del popolo che conoscono e danno un peso all’onore; se le pene pecuniarie non debbono essere adoperate che per una porzione di que’ delitti soltanto, che dipendono dall’avidità del danaro, e contro quegl’individui della società, le fortune de'    quali ascendano al valore dalla legge determinato; se, in poche parole, da ciò che si e detto finora e dimostrato, si vede che resta ancora una quantità considerabile di delitti da impedire con ostacoli non ancora indicati; bisogna dunque trovare nelle ultime due classi di pene, delle quali ci resta ancora a parlare, i materiali onde riempire questo voto immenso, ed uguagliare la somma delle pene a quella de'    delitti.

Le pene privative o sospensive della libertà personale, quando vengano ben maneggiate, possono da loro sole riempire una gran parte di questo considerabile voto. Se si considerano relativamente al prezzo che tutti gli uomini danno al bene, del quale esse ci privano; se si considerano relativamente alla facilità, che vi è di proporzionarle a' delitti, sì per la diversità della loro durata, come per la varietà del modo e dell’intensità che si ritrova nelle diverse pene in questa classe comprese; se si considerano come istrumenti di sicurezza, o come mezzi d’istruzione e di esempio, come pene de'    delitti, o come compenso de'    mali recati alla società; da qualunque aspetto che si osservino, si troveranno opportune per tutte le classi, per tutti gli ordini dello Stato; applicabili a' delitti di diversa natura, di diversa specie, di grado diverso; atte a correggere il delinquente coll’esperienza de'    mali che porta seco il delitto; a garantire la società dagli ulteriori suoi attentati, col privarlo di quella libertà, della quale ha abusato, o per un dato tempo, quando il delitto non mostra un cuore interamente corrotto; o per sempre, quando la natura de'    suoi attentati l’ha reso degno della diffidenza perpetua del corpo civile: si troveranno finalmente combinabili cogl’interessi economici stessi dello Stato, giacché privando l’uomo della sua libertà personale, render lo possono istrumento di alcuni beni, di alcuni comodi, di alcune intraprese necessarie, o utili alla conservazione ed all'acquisto delle ricchezze nazionali. Il carcere; la condanna a' lavori pubblici; la deportazione nell’isole, o nelle colonie, per un dato tempo, o per sempre; l’esilio da un dato luogo, non dalla patria, formano le diverse. specie di pene in questa classe comprese. Io non parlo qui dell’esilio dalla patria, poiché questa pena dee piuttosto annoverarsi nella classe delle pene privative, o sospensive delle civiche prerogative.

Per vedere dunque l’uso che far si dee delle diverse pene che privano l’uomo, per un dato tempo o per sempre, della sua libertà personale, io comincio dal carcere.

Gli uomini ordinariamente non vanno a' grandi delitti che per gradi. È difficile che dall’innocenza si passi tutto ad un tratto alla malvagità. Il primo delitto di un uomo è rare volte unito alla depravazione del cuore. La frequenza de'    leggieri delitti è quella che lo dispone a' più orrendi attentati.

L’arte del Legislatore dee dunque esser di far retrocedere l’uomo fin da' primi passi che dà nella strada de'    delitti. Una piccola pena che segue immediatamente ad un piccolo reato, mostra a colui che la soffre, il rigore e la vigilanza delle leggi; gli annunzia i mali, a' quali anderebbe incontro seguitando a violarle; e restituisce alla società un cittadino che senza questa opportuna correzione, l’avrebbe un giorno afflitta colle sue scelleraggini e colla sua perdita.

Premesse queste evidenti verità, veniamo all’uso che far si dovrebbe del carcere considerato come pena.

Non tutt’i delitti, come si è veduto nella prima parte di questo libro, meritano le solennità di un giudizio per esser puniti; non tutte le pene debbono col comune metodo giudiziario infliggersi. I leggieri reati, quelli che possono piuttosto chiamarsi trasgressioni che delitti; le tenuissime pene che si possono piuttosto chiamare correzioni che supplizi, non esigono tutte quelle precauzioni che la legge richiede per giudicare e punire i delitti di una certa importanza. Quando si tratta di questi casi che avvengono al momento, la legge dee riposare sul giudizio di un magistrato che abbia continuamente gli occhi aperti su quella porzione di cittadini che sono alla sua vigilanza affidati. Un suo decreto, ancorché ingiusto, raggirandosi su d’una pena di picciolissima importanza, è meno pernicioso dell’impunità che accompagnerebbe i piccioli delitti, quando questi dovessero essere solennemente giudicati. Il Magistrato municipale di ciascheduna comunità, che, sul modello giudici di pace, degl’inglesi, si è da noi proposto nel nuovo piano di repartizione delle giudiziarie funzioni, (1) dovrebbe avere la cognizione di questi delitti che anderebbero sommariamente giudicati e puniti.

Or per questa specie di delitti dovrebbero le leggi riserbare le pene di carcere. Venti, trenta, quaranta giorni di detenzione in un carcere, destinati dalla legge per pena di una leggiera rissa, per esempio, senza effusione di sangue, di un’ingiuria tra eguali, di una disubbidienza agli ordini di un magistrato ecc., contribuirebbero moltissimo a serbar l’ordine dello Stato; ad ispirare e ricordare il rispetto per le leggi; ed a prevenire i progressi che un cittadino potrebbe fare nella strada de'    delitti, quando l’impunità accompagnasse i primi suoi passi. La pena dunque del carcere non dovrebbe dalle leggi adoperarsi che come una pena, per dir così, di correzione. Essa non dovrebbe dunque esser molto lunga, perché altrimenti mancherebbe all’oggetto, al quale dee destinarsi.

La sua maggior durata non dovrebbe mai oltrepassare la quarta parte di un anno. Il luogo dovrebbe essere distinto da quello delle carceri destinate per custodia de'    rei, e non per pena. (1)

Alcune morali istruzioni atte a risvegliare l’orrore pe’ delitti, ed a mostrarne le funeste appendici, occupar dovrebbero una parte del giorno in queste carceri, e l’altra dovrebbe esser impiegata nella lettura del Codice penale. Uomini conosciuti per la probità del loro carattere, e per la dolcezza delle loro maniere dovrebbero essere destinati a questo utile ministero. La presenza continua di uno di questi istruttori evitar dovrebbe i disordini che produr suole la necessità di convivere, ed il contatto delle diverse passioni. Finalmente l’esperimento della pena, l’esempio della probità, le combinate istruzioni della morale e delle leggi, concorrendo tutte all’istesso oggetto, corrisponderebbero mirabilmente alla destinazione di questa specie di pena, ed all’effetto che il legislatore cercherebbe di conseguirne.

Io scorro rapidamente su questi oggetti per non annoiare colui che legge con più minuti dettagli.

Dall'uso delle pene di carcere, passiamo a quello della condanna a' lavori pubblici. Questa è una specie di pena che reca un doppio beneficio alla società. All'esempio che dà de'    mali che porta seco il delitto, essa unisce i servigi che il delinquente presta alla società che ha offesa.

Nel mentre che il pallore del suo volto, che le catene che circondano il suo corpo, che tutti gli abbominevoli emblemi della schiavitù manifestano le sciagure del delinquente e le appendici del delitto; nel mentre che questo spettacolo terribile distoglie dal delitto una gran parte di coloro ch’erano disposti a commetterlo; nel tempo istesso le braccia vigorose del reo si occupano a costruire i porti, ad aprire de'    canali, ad innalzare delle fortezze, a riparare i pubblici edifizi, a scavare nelle viscere della terra i tesori che la sua superficie ci nasconde, a gittare nel mare i navigli che debbon proteggere il commercio, a somministrare a' terreni aridi le acque, alle lagune gli scoli, all’agricoltura, alle arti, al commercio i maggiori soccorsi, ed alla società intera i mezzi di sussistenza, di comodo, di lustro e di difesa che compensano in parte i mali che recato le hanno i suoi delitti. Questi sono i vantaggi che vanno uniti a questa specie di pena. Ma quale ne dovrà esser l’uso?

Una pena che può avere una maggiore o minor durata, che può esser perpetua o per un dato tempo, porta con sé la facilità di proporzionarla a' delitti di diverso grado; ma se alla diversità della durata, si unisce anche la varia intensità della quale è suscettibile; allora questa facilità cresce molto di più, ed il legislatore può trovare in essa una quantità considerabile di pene diverse per diversi delitti. Io mi spiego. La condanna a' lavori pubblici può avere la durata, per esempio, di 3, 4, 5, 6 anni, ecc.; può avere per oggetto un lavoro più o meno micidiale, più o meno penoso; la scavo di una miniera, per esempio, o l’irrigazione di un prato. Chi non vede la gran differenza che passa tra la condanna di 10 anni allo scavo delle miniere, e di un anno all’irrigazione di un prato? Coll’istessa specie di pena si potrà dunque punire un delitto mollo grande, un delitto molto piccolo. Il legislatore potrebbe egli rinunziare a questo vantaggio?

Il gran principio dunque che dee regolare l’uso di questa specie di pena, è che la legge determinar dee la durata e l’oggetto della pena. Nello stato presente delle cose ordinariamente il giudice è quegli che fissa la prima, ed un agozzino il secondo. Due anni di più, due anni di meno di schiavitù; un lavoro più micidiale, più penoso; un lavoro meno micidiale, meno penoso, non sono oggetti così indifferenti per la sanzione penale, da potersi lasciare all’arbitrio di un giudice, o alla venalità di un custode. La libertà richiede che tutto sia determinato dalla legge; e che dalla sua espressa sanzione ne dipenda la durata e l’oggetto. Ecco come moltiplicar si possono i materiali delle pene, e come facilitar si può la loro proporzione co' delitti.

L’esilio da un dato luogo, la deportazione nell’isole, o nelle colonie, sono, come si è detto, le altre pene in questa quarta classe comprese.

Vi sono alcuni delitti che possono, per dir così, chiamarsi locali; questi sono quelli che non dipendono dalla depravazione del cuore, ma dalla frequenza di alcune persone, dall’abitazione di alcuni luoghi. Per questi casi, l’esilio dal luogo è nel tempo istesso una pena proporzionata al delitto; ed un mezzo di prevenire i nuovi delitti che la prossimità delle occasioni potrebbe far commettere al delinquente. Due passioni assolutamente opposte possono dare ugualmente luogo all’uso di questa pena; l’odio e l’amore: l’odio che suppone l’abitudine di andare in cerca del suo inimico per insultarlo; l’amore che suppone l’abitudine di andare in cerca della persona amata per sedurla. Queste due passioni opposte si accendono e si fomentano ugualmente dalla veduta del loro oggetto. Quando dunque è provato, che la tranquillità e la sicurezza di un cittadino è esposta alle trame del suo inimico; quando questi ha manifestato co' fatti i suoi pravi disegni, e la disposizione, in cui è d’insultarlo ulteriormente e di recargli de'    mali; allora l’offeso deve avere il dritto di reclamare l’esilio dell’offensore dal luogo che egli abita, e la legge è quella che dee dargli questo dritto. L’istesso dritto dee darsi al marito contro il seduttore della moglie, ed al padre contro il seduttore della figlia. Questa specie di esilio, il cui uso e la cui durata dee dalla legge fissarsi, servirà in questi casi a punire gli attentati del delinquente, ed a prevenire i progressi del male che potrebbero condurlo a maggiori reati, ed a pene maggiori. Il savio legislatore punisce con rigore i piccioli delitti, per evitare i più grandi; il tiranno li trascura, perché vuole condurre l’uomo agli atroci reati, per punirlo con pene atroci. Il primo giova alla società ed al delinquente; il secondo nuoce all’una ed all’altro; il primo è severo, perché è umano; ed il secondo è umano, perché è crudele; il primo distrugge il germe della pianta parasita; ed il secondo la fa germogliare, per reciderla, dopoché ha già rovinate quelle che la circondano; quegli è il padre del popolo, e questi il tiranno.

Per la pena della deportazione nell’isole, io non accennerò che due riflessioni, che ci mostreranno quanto ristretto dovrebbe esserne l’uso in una savia legislazione. Questa specie di pena, facendo fino dimenticare resistenza del delinquente, non può esser molto efficace a conservar viva negli uomini l’idea de'    mali che porta seco il delitto. L’uomo che la soffre, invece di compensare co' suoi lavori una parte de'    mali che ha recati alla società, le si rende a carico, dovendo essere a sue spese nudrito. L’uso dunque di questa pena pare che debba restringersi a que’ soli delitti che sono così atroci da meritare la pena di morte;, ma che son tali, che l’ordine sociale richiede di segregare interamente dal consorzio degli altri cittadini colui che li ha commessi. Non dee dirsi l’istesso della deportazione nelle colonie.

Le nazioni che hanno ne' loro dominii paesi desolati da popolare, per animare il loro commercio, e per estendere e sostenere la loro industria; che hanno delle colonie, dove o l’estensione del terreno, o il genere delle sue produzioni han bisogno di molte braccia per coltivarlo, oper ottenerne i prodotti; queste nazioni, io dico, hanno un mezzo di più delle altre per punire alcuni delitti, e per convertire i perturbatori della società in istrumenti delle sue ricchezze. Quando l’esperienza di tutta l’antichità, e gli esempi di molte colonie delle greche repubbliche mostrato non ci avessero che coloro, che sono il rifiuto di un popolo, possono formare una società molto ordinata; quando l’istorie de'    tempi a noi più vicini non ci avessero confermati in questa verità; la sola ragione bastar dovrebbe a persuaderci della possibilità che v’è di convertire un mostro in un eroe, allontanandolo dal luogo ch'è stato il teatro de'    suoi delitti, della sua ignominia e della sua condanna. Esaminando l’indole generale degli uomini, noi troveremo che, siccome la coscienza di esser riputato uomo dabbene solleva l’animo dell’uomo, e lo dispone sempre più alla virtù; così la coscienza di esser riputato malvagio lo degrada, e lo priva di uno de'    più forti sproni che potrebbero respingerlo nella strada dell’onestà. Circondato da testimoni de'    suoi delitti; temuto, o abborrito da coloro, co' quali dee convivere; persuaso della difficoltà di riacquistare la loro stima e la loro confidenza, egli si vedeprivo, o almeno molto lontano, da' più preziosi compensi dell’innocenza e della virtù. Un nuovo cielo, una nuova terra possono distruggere in lui questa funesta prevenzione Da un paese, dov'egli era abborrito, spinto in un paese dov’è forse desiderato, o dove almeno può lusingarsi di esserlo, il suo cuore si riapre alla speranza di poter partecipare a' benefizi di un’opinione favorevole, trovando ivi gli ostacoli dipendenti da' suoi anteriori delitti indeboliti o distrutti dalla distanza del luogo, o dall'ignoranza de'    suoi nuovi compagni.

II picciolo numero de'    doveri sempre meno moltiplicati in una società nascente; un minor numero di bisogni, ed una maggior facilità di soddisfarli; la necessità di occuparsi e i maggiori benefizi del lavoro, sono tante cause che concorrono a richiamare all'osservanza delle leggi colui che vien condannato a questa specie di pena.

Ecco il primo beneficio che offre la condanna alle colonie, quando viene opportunamente adoprata dalle leggi. Il secondo è l’utile che la società raccoglie da colui che vi vien condannato. Essa riacquista un cittadino laborioso, e partecipa a' beneficii della sua industria. Il terzo finalmente è l’opportunità di questa pena a varii delitti, e particolarmente ad una gran parte di quelli che non suppongono un cuore interamente depravato, ed incallito a' delitti. Io non posso indicarne con maggior precisione l’uso; poiché il valore di questa pena dipendente dal suolo, dal clima, dalla colonia e da tante altre circostanze locali, che la rendono più o meno penosa, non è neppure suscettibile di generali principii. Contentiamoci di averne accennati i vantaggi, e rivolgiamo i nostri sguardi all’ultima classe delle pene che si raggirano nella sospensione, o nella perdita delle civiche prerogative.


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CAPO XXXIV

Delle pene privative e sospensive delle civiche prerogative

Nuovi argomenti di pene e nuovi ostacoli a' delitti ci offrono le civiche prerogative. La perdita o la sospensione di una parte o di tutte le prerogative che dalla cittadinanza dipendono, somministrano, dove più e dove meno, alla diligente mano del legislatore una quantità di pene, atte a reprimere una proporzionata quantità di delitti. I dritti alla vita, all’onore, alla proprietà reale, alla proprietà personale sono comuni al cittadino ed allo straniero, e divenir possono gli oggetti della sanzione penale così contro dell'uno, come contro dell'altro; ma le pene, delle quali noi parliamo in questo capo, non sono adoprabili che contro l’individuo della società, contro il delinquente cittadino.

In ogni Stato, qualunque sia la sua costituzione, qualunque la natura del suo governo, purché questo non sia il dispotismo, dove i dritti di tutti divengono i dritti di un solo, o una mostruosa oligarchia, dove i dritti di tutti divengono i dritti di pochi, in tutti gli altri il cittadino acquista, nascendo, alcune prerogative, delle quali non può essere spogliato se non pe’ suoi delitti. Dove più e dove meno, egli ha o può avere una certa influenza nel governo; egli partecipa o può partecipare ad una parte del potere; egli ha o può sperare di aver una certa autorità; egli può ascendere ad alcune cariche, ad alcune magistrature; egli può esercitare alcune funzioni che esigono la confidenza delle leggi: dappertutto finalmente egli gode del prezioso dritto di passare i suoi giorni nella sua patria; di vivere sotto quel cielo che l’ha veduto nascere; di ubbidire a quelle leggi, sotto la protezione delle quali è nato; di rimanere in quella società, della quale, nascendo, è divenuto una parte. Ecco l'aggregato delle civiche prerogative, ed ecco i materiali delle pene in questa classe comprese. Vediamone l’uso.

Per determinare con un principio generale l’uso di queste pene, il valore così assoluto, come relativo delle quali varia all’infinito colla diversità delle politiche circostanze de'    popoli, altro non si può dire che, siccome una delle principali mire che il legislatore aver dee nel fissare la sanzione penale, è quella di fare che la natura della pena sia uniforme, quanto più è possibile, alla natura del delitto; e che la passione istessa che indur potrebbe l’uomo a violar la legge, sia, sempreché si può, quella che deve indurlo ad osservarla; così è chiaro che le pene privative o sospensive delle civiche prerogative possono essere molto opportunamente adoprate contro que’ delitti, che dipendono dall'abuso di queste prerogative istesse. Che il cittadino, per esempio, convinto d’esser reo di ambito, sia punito colla esclusione perpetua da quella carica, per ottener la quale ha commesso questo delitto. Quanto maggiore sarebbe il potere della carica, tanto più sarebbe desiderabile, tanto più sarebbe pernicioso X ambito, tanto più spaventevole ne sarebbe la pena.

Che il magistrato che ha cercato di estendere i limiti della sua giurisdizione, sia interdetto per sempre da quella magistratura; che colui che ne ha abusato, abbia l’istessa pena unita a quella stabilita per la specie dell’abuso che ne ha fatto. L’amor del potere servirà di freno contro l’abuso del potere; l’ambizione sarà repressa dall'ambizione.(1)Che il cittadino convinto di aver venduto il suo voto nelle pubbliche deliberazioni, sia doppiamente punito e colla pena pecuniaria stabilita dalla legge per un delitto che dipende dall'avidità del danaro, e colla esclusione perpetua da' pubblici congressi per aver abusato di questa prerogativa.

Che colui finalmente ch'è stato punito con una pena d’infamia, sia considerato come civilmente morto;sia privato di tutte quelle prerogative che dar gli potrebbero un’influenza nel governo, o un impero, un’autorità su de'    suoi cittadini; che sia escluso da tutte quelle civiche funzioni, che richieggono la condizione di cittadino e la confidenza delle leggi. Ma che diremo noi dell’esilio dalla patria?

Questa pena o è molto forte, per dover essere adoprata con molta economia, o è molto debole e forse perniciosa, per non dovere aver luogo nel Codice penale di una nazione. In que’ governi, ove il cittadino esercita una parte della sovranità, essa è una pena capitale che non deve adoprarsi che per gravi delitti. Così fu considerata, così fu adoprata in Roma, durante la libertà della repubblica. La legge non ardiva neppure di profferirla. Essa ricorreva ad una circonlocuzione che ne annunziava l'effetto, senza direttamente manifestarla. Si proibiva al delinquente l’uso dell’acqua e del fuoco. Si lasciava in questa maniera a lui la scelta della morte civile, della perdita della vita, o della patria; e si faceva ch’egli stesso scegliesse l’esilio, senza espressamente ordinarlo. (1)Ma le conseguenze che portava seco l'esilio per un Romano ne' bei giorni della repubblica, non sono l’istesse di quelle che produce la perdita della patria ad un cittadino in un altro governo.

Il cittadino rappresentava in Roma una parte della sovranità; ed una parte della sovranità di Roma era una parte della sovranità della terra. Proscriverlo dalla sede del suo impero; cacciarlo dalle mura della sua reggia; spogliarlo dei titoli della sua sovranità, era l’istesso che detronizzare un Re.

L’esistenza politica era così preziosa al Romano, quanto lo era l'esistenza fisica; e se egli preferiva la perdita della patria alla morte, allorché privato dell'uso dell'acqua e del fuoco, si esiliava da se medesimo, questo non derivava dalla preferenza che egli dava alla vita, ma dalla dura necessità, in cui era, di preferire la perdita di un solo bene alla perdita di tutti e due.(1)Roma dunque finché, fu libera, potè intimare al cittadino una pena orribile, senza adoprare i patiboli e senza tingere i suoi fasci col sangue civile.(2)

Ma potrebbe avvenir l’istesso in un’altra forma di governo, in quella di un solo? Avvenne l’istesso in Roma sotto l’impero de'    Cesari, dopo la perdita della sua libertà?(3) Quando l’esercizio della sovranità è tra le mani di un solo; quando la cittadinanza è un titolo di dipendenza e non d’impero; quando il cittadino proscritto dalla sua patria non vien proscritto né da' comizii, né dalle concioni, né dal senato; potrebbe questa pena incutere quello spavento che dava al Romano libero l’interdizione dell’acqua e del fuoco? Potrebbe ella essere proporzionata a' gravi delitti, pe’quali era minacciata in Roma? Non dovrebbe anzi esser riserbata pe’più leggieri attentati; ed in questo caso non sarebbe meglio proscriverla interamente dal Codice penale? Una pena che priva lo stato di un uomo che può essergli utile, per un delitto di poca importanza, non è forse essa perniciosa? Non dovrebbe forse esser sostituita da un’altra che producesse l’istesso effetto, senza recare l’istesso male, senza soggiacere all’istessa perdita?

Queste riflessioni appena accennate, basteranno, io spero, a mostrare che l’esilio dalla patria (1) non dovrebbe aver luogo nel Codice penale di una monarchia. Questa pena non dovrebbe essere adoprata contro il popolo nelle aristocrazie. Essa dovrebbe essere in questo Governo riserbata al corpo degli Ottimati e non dovrebbe aver luogo per tutti che nelle sole democrazie. Ma non è questo il luogo di maggiormente inoltrarci in queste questioni. Noi ne dovremo più opportunamente parlare da qui a poco. Quel che se n’è detto, per ora, basta per disporci all'esame del rapporto che aver debbono le pene co' diversi oggetti, che compongono ciò che si dice lo Stato di una Nazione, e per vedere come i principii della bontà relativa delle leggi da noi esposti nel primo libro di quest'opera, debbano essere applicati al Codice penale. Questo sarà l’oggetto de'    due seguenti Capi.


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CAPO XXXV

Del rapporto delle pene co' diversi oggetti che compongono lo Stato di una Nazione

Preparati e disposti nel loro ordine i materiali delle pene, fissati e sviluppati alcuni generali principii che determinar ne possono l’uso; per rendere più universali le nostre idee, per facilitarne l’applicazione, per renderle adattabili alle nazioni ed a' popoli che meno tra loro si rassomigliano, è necessario di esaminare quale sia l’influenza che debbano avere sul sistema penale le diverse circostanze politiche, fisiche e morali de'    popoli e stabilire in questa maniera i principii della gran teoria del rapporto delle pene co' diversi oggetti che compongono lo Stato di una Nazione.

Per procedere con quell'ordine che conviene in una materia così intricata, con quell'ordine, io dico, senza del quale lo scrittore e chi legge smarriscono la verità e perdono inutilmente il loro tempo; è necessario che io cominci questa teoria dall’esame de'    principii che determinar debbono il sistema penale che conviene nell’infanzia de'    popoli, nella fanciullezza delle società; che regolando il corso delle mie idee con quello delle società istesse, si vegga come a misura che il corpo sociale si sviluppa ed acquista una certa forza, un certo vigore, sviluppar si deve il sistema penale; come l’imperfezione della prima età de'    popoli dee necessariamente esser unita all'imperfezione de'    loro Godici penali; (1) come nella sola maturità del corpo politico, questo può acquistare quella perfezione che conviene; e che la sola ignoranza di questi rapporti ha potuto indurre alcuni politici a declamare contro il sistema de'    Godici penali delle barbare nazioni, i quali, malgrado le loro superficiali invettive, hanno ed avranno sempre agli occhi dell'osservatore filosofo quell'opportunità, che infelicemente non si ritrova ne' nostri Codici e quella relativa bontà, dalla quale noi siamo ancora molto lontani. Dopo queste premesse, noi passeremo subito ad esaminare i principii dipendenti dal rapporto delle pene cogli altri oggetti che compongono lo stato delle nazioni già pervenute alla loro maturità; e verremo così a sviluppare l’intera teoria fondata sull'influenza che le diverse circostanze politiche, fisiche e morali de'    popoli, aver debbono sul sistema penale.

La materia è vasta. Io cercherò di esser quanto più breve mi sarà possibile. Le idee mi si affollano da tutte le parti; io rispingo le meno necessarie al mio argomento. I fatti e le pruove per confermarle mi si offrono dall'istorie di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutti i popoli. Io ne rapporterò alcuni; la maggior parte li sacrificherò alla difficile brevità, ed altri li gitterò nelle note, per soddisfare un lettore più curioso e per non annoiare colui che lo è meno. Le vedute generali su i rapporti del sistema penale coll'infanzia e sviluppo delle società, saranno da alcuni condannate come molto ardite, da altri come estranee all'oggetto generale di quest'opera; ma il lettore che vede tutto il sistema delle mie idee e che si ricorda dell'universalità del mio argomento, (2) le troverà molto opportune, o le tollererà almeno come il risultato di una profonda meditazione e di una penosa lettura, che avrebbe potuto somministrare l’oggetto e i materiali ad un’opera molto vasta, e che io mi sforzo di restringere in poche carte.

Tutt’i popoli politi sono stati selvaggi, e tutt’i popoli selvaggi abbandonati al loro naturale istinto sono destinati a divenir politi.(1)La famiglia è la prima società, e il primo governo è il governo patriarcale fondato sull’amore, l’obbedienza ed il rispetto. La famiglia si estende, si moltiplica e si divide. Molte famiglie vicine formano una tribù, un’orda, una società puramente naturale. I capi di esse vivono tra loro come le nazioni. (2)

Il Jus majorum gentium, o sia il dritto della violenza privata, (3) è l’unico dritto che regna tra' capi di queste famiglie in questa primitiva società. La forza occupa i terreni; ne fissa i limiti, ne innalza i termini, ne difende il possesso. La tutela de'    beni, della persona e denaturali dritti è a questa affidata. La giurisprudenza formolaria, introdotta nelle società civili, non è che il simbolo, che l’immagine di ciò che in questo stato di cose si praticava e si pratica da' popoli che si trovano ancora nelle medesime circostanze. Ciò che oggi sono nomi, sono formole, sono segni, erano allora atti reali. (4)

I capi di queste famiglie colle armi alla mano diffinivano le loro controversie. La decisione era l’esito del combattimento. Giudicare e combattere erano allora sinonimi. (1) Colle proprie mani difendevano i loro dritti (2) colle proprie mani vendicavano i loro torti.

Da quest'ordine di cose prende origine la clientela. Non tutti hanno la forza, o sia ch'è l’istesso, la virtù (3) che si richiede per questa propria tutela. I più deboli cercano il patrocinio de'    più forti, cedono a questi una parte della loro naturale indipendenza, e questi offrono loro in compenso la tutela de'    loro dritti e i mezzi della loro sussistenza. Ecco i famuli degli eroi di Omero; (1) ecco i clienti de'    tempi eroici de'    Romani; (2) ecco gli ambacti de'    tempi eroici de'    Galli, (3) ed ecco gli homines, o vassalli rustici de'    tempi eroici a noi più vicini. (4)

In questo stato di cose si conserva ancora in tutta la sua estensione la naturale indipendenza tra' capi delle famiglie; essi si considerano e sono ancora perfettamente uguali tra loro.

Il bisogno di difendersi da un’altra tribù vicina si manifesta, o l’ambizione di soggiogarla si eccita in uno de'    capi di queste famiglie. Egli invita gli altri a seguirlo nella sua spedizione. Tutti, o una parte di essi, accettano il suo invito; ciaschedun di loro, seguito da' suoi clienti, segue il suo Duce. Se l’esito della guerra è uguale per tutte e due le parti, le cose rimangono nell'antico stato. Ma se l'una delle tribù soggioga l’altra, come deve avvenire dopo qualche tempo, allora il vinto diviene lo schiavo del vincitore. I suoi beni, le sue terre, gl’individui della tribù si dividono tra' vincitori. La contrada è governata da un capo, da' suoi commilitoni, da' soldati che rappresentano la parte libera della nazione, nel mentre che tutto il resto vien sottoposto all'atrocità, ed all’umiliazione della servitù. Il Capo è il Duce che ha condotta l’espedizione; i commilitoni sono i Patrizi, o siano i capi delle famiglie che l’han seguito; i soldati sono i loro clienti.

Una parte del territorio e de'    beni del vinto si assegna al Duce; l’altra si divide ugualmente tra' commilitoni, e questi suddividono la loro tra' loro clienti.

Qui comincia lo stato di barbarie, ch'è l’esordio della società civile, ma ch'è molto lontano dalla sua perfezione. La disuguaglianza de'    beni tra le tre classi che compongono la parte libera della nazione e l’abito della militare subordinazione distruggono una picciola parte della naturale indipendenza, ma ne lasciano sussistere ancora l’altra in tutta la sua estensione.

Il Duce, il Re, comunque chiamar lo vogliamo, è più forte di ciascheduno de'    Patrizii; ma questi uniti insieme sono molto più forti di lui. Della maniera istessa ciaschedun Patrizio è più forte di ciascheduno de'    suoi clienti; ma questi uniti sono molto più forti di lui. Questa reciproca disuguaglianza di forza e di debolezza conserva in questo stato quella gran parte di naturale indipendenza, della quale si è parlato. Senza osservarla che dall’aspetto che interessa il nostro oggetto, essa si manifesta e dee manifestarsi in tutta la sua estensione, nel sistema penale.

Un debole e tumultuoso Senato, composto da' patrizi e dal re, esercita una picciola e quasi invisibile parte del potere legislativo; ma l’esecutivo e l'esercizio particolarmente del dritto di punire, o sia della vendetta personale, deve ancora restare per lungo tempo tra le mani degl'individui. Questo stato è troppo vicino a quello della naturale indipendenza per poter ottenere la cessione di un dritto così prezioso. Questa parte del Jus majorum gentium deve ancora esistere e non può essere che insensibilmente distrutta. Bisogna cominciare dunque dal darle alcune modificazioni. Nel principio altro non si può fare che stabilire alcune formalità, colle quali dev’esser esercitata. (1) Ma la vendetta dell'offesa seguita ad essere il solo motivo e il solo oggetto della pena. Il corpo sociale non prende parte alcuna negli attentati tra individui ed individui.

In questo stato di cose, dice Aristotile (1)non vi possono esser leggi penali per punire i torti, e difendere i privati dritti; e la deficienza di queste leggi ha fatto che i Poeti e gl’istorici chiamarono questi tempi, tempi d’innocenza, secoli d’oro. Essi credettero che non vi fossero leggi penali, perché non vi erano delitti. Ma le leggi penali sono allora le braccia, l’asta, la spada dell'offeso. Questi sono i vindici de'    suoi torti e i custodi de'    suoi dritti. Il corpo sociale, come si è detto, non vi prende parte alcuna. Se l’offeso perdona l’offensore, non vi è per questi di che temere. I soli delitti, pe’ quali si esercita il jus minorum gentium, o sia il dritto della violenza pubblica, (2) sono i delitti di Stato; e i delitti di Stato in questa società sono i delitti Religiosi. (3) La superstizione che vien dai capi di queste società chiamata in soccorso della debolezza de'    sociali vincoli, conserva in qualche maniera l’ordine pubblico co' soccorsi imprestati dalla Teocrazia. Tutto ciò ch'è pubblico dritto, è l’oggetto dell'ispezione, o del patrocinio di una deità. Gli attentati contro il pubblico sono dunque delitti contro la divinità. Questa dev'esser placata. La pena è la preghiera pubblica (supplicium), (1) la vittima è il delinquente (sacer esto), (2) gli esecutori e i giudici sono i Sacerdoti, a' quali l’opinione dà quella forza che manca al governo. (3) La loro autorità non umilia la fierezza del barbaro, il quale quanto abbonisce la dipendenza degli uomini, altrettanto è disposto a piegarsi sotto quella de'    Numi. Queste esecuzioni, insieme coi motivi che le hanno cagionale, si conservano nel corpo del Sacerdozio per mezzo di una tradizione che si nasconde al popolo. Ecco perché le leggi penali furono chiamate exempla, e il dritto che le conteneva, si chiamava jus arcanum. (1)

Ritorniamo a' delitti contro i privati. Noi abbiam lasciato l’esercizio del dritto di punire tra le mani dell’offeso, noi l’abbiamo semplicemente obbligato ad alcune formalità. Questo primo e picciolissimo passo viene e dee venire dopo qualche tempo seguito da un altro. La vendetta ne' barbari, negli uomini non ancora inciviliti, agisce col massimo impeto. Nel primo istante essa non ha limiti. Obbligare ad una dilazione l’offeso nell'esercizio del dritto di punire, è dunque l’istesso che indebolire la forza della sua passione e prevenirne in gran parte gli eccessi. Ecco ciò che la facoltà legislativa dee prescrivere in questo stato di cose; ecco ciò che in realtà ha essa prescritto. (2)

Questo stabilimento reca un altro vantaggio. Siccome in questo stato di cose il solo oggetto della pena è la vendetta dell'offeso; siccome nelle sue mani è riposto e il dritto di vendicarsi e il dritto di perdonare, e quello di transigere, così, quando vien egli obbligato a questa dilazione, è molto facile che il suo sdegno, raffreddato dal tempo, si plachi con una prestazione che gli reca un vantaggio più reale. Per dare a questo stabilimento l’appoggio della forza, si dà all’offensore un garante, per difenderlo dallo sdegno dell’offeso, finché dura il tempo della dilazione che passar dee tra il delitto e la pena, tra l’offesa e la vendetta. Il Patrizio, il Signore, è il garante del suo cliente, del suo Homo, se questi è l’offensore; ed il Re, il Capo della nazione, è il garante del Patrizio, del Signore, se il Patrizio, se il Signore è il delinquente. Quando la composizione ha luogo, l’offensore dopo di averne sborsato il prezzo all'offeso, dee pagare al suo garante le spese della custodia. (1) Ecco l’origine del Fredum de'    tempi barbari a noi più vicini. (2)

Questo secondo passo apre coll'andar del tempo l'adito ad un terzo mollo più efficace. Finora l’estensione della pena e la quantità della redenzione si è dovuta lasciare nell'arbitrio dell'offeso. Come si sarebbe potuto in fatti prescrivere all’uomo ubriaco dallo sdegno un limite alla sua vendetta, quando questa seguir poteva immediatamente l’offesa? e come limitar la redenzione, senza prima limitar la vendetta?

Bisognava dunque disporre il barbaro a questa doppia operazione, coll’obbligarlo a far passare un certo tempo, prima di poter esercitare sull'offensore il suo dritto. Or questa dilazione, della quale si è parlato, evitando gli eccessi della vendetta, e favorendo il rimedio della composizione, dà alla facoltà legislativa l’adito di dare un terzo urto, molto più forte dei due primi, a questa parte della naturale indipendenza, col fissare l’estensione della pena e la quantità della redenzione. Si stabilisce dunque il taglione, e sopra quello si regola il valore della multa.

Questa pena del taglione, contro la quale tanto si scagliano i nostri criminalisti che non sanno fissare i loro sguardi che sopra quegli oggetti che li circondano; questa pena che dev'esser proscritta da qualunque Codice di una nazione già pervenuta alla sua maturità, (1) è nulladimeno, nello stato della società, di cui noi parliamo, l’istituzione più savia e più opportuna alle sue politiche circostanze.

Noi la troviamo infatti stabilita presso tutt'i popoli che furono o che sono in questo stato; (2) e se Locke istesso propor dovesse un sistema penale per un popolo che si trovasse in quel grado di barbarie, nel quale noi lo supponiamo, stabilirebbe il taglione, come lo stabilì Pitagora, (1) e come lo stabilirono i nostri barbari padri. Vediamone i vantaggi.

Fissato il taglione, come misura di ogni pena, e stabilito contemporaneamente il valore della redenzione, a quello ne' diversi casi, ne' più frequenti almeno, corrispondente, si dà al popolo la prima, sebbene imperfetta, idea della proporzione della pena col delitto, e della composizione colla pena.

A questo primo vantaggio se ne aggiugne un altro, molto maggiore. Colui, che non può lasciare più alla sua vendetta il libero sfogo; colui che non può recare al suo offensore maggior male di quello ch’egli ne ha ricevuto, volentieri lascia ad altri la cura di punirlo e di vendicare il torto che ha ricevuto, quando non sa determinarsi ad accettarne la pecuniara commutazione. L’autorità legislativa può e dee profittare allora di questa disposizione che insensibilmente si è nel popolo formata, per convertire la violenza privata in violenza pubblica; per istrappare dalle mani de'    privati l’esercizio del dritto di punire e conferirlo ad una magistratura analoga alle circostanze politiche, nelle quali si ritrova allora la nazione.

Il Patrizio giudicherà e punirà allora, come magistrato, il suo cliente offensore; ed il Re giudicherà e punirà, come magistrato, il Patrizio delinquente. Ecco lo stato, nel quale Ulisse trovò i Feacesi.(1)Ecco ciò che avvenne in Roma sotto gli ultimi re,(2)ed ecco ciò che avvenne nelle barbare nazionia noi più vicine, quando si trovarono in quel grado di barbarie ch'è il più vicino allo stato civile. (3)

Qui comincia il jus scriptum; e la legge scritta in questo stato di cose non è che la tariffa de'    prezzi, co' quali compor si debbono le diverse specie di offese. (4) Nel determinare queste somme la legge non può allora trascurare la disuguaglianza delle condizioni tra i patrizj e i clienti, tra i clienti ed i servi. La quantità della composizione vien dunque determinata dalla condizione dell’offeso, da quella dell’offensore, dalla natura dell'offesa. (1) Più:

Le concause morali e politiche che hanno avvicinato il popolo alla civiltà; la non contrastata privazione dell’esercizio del diritto di punire e della naturale vendetta; la lenta, ma sensibile progressione de'    costumi e la diminuzione della ferocia, che l’abito di convivere e la comunione de'    sociali officj han dovuto necessariamente produrre, mettono la facoltà legislativa nello stato di potere stabilire sotto un aspetto molto diverso dall’antico questo sistema penale. Non si appartiene più all'offeso la scelta del taglione, o della composizione. La pena pecuniaria è la pena ordinaria; la straordinaria è il taglione. Quando il delinquente, quando l’offensore non vuole, o non ha come pagare il tassato prezzo della composizione, si condanna al taglione, ed è, per così dire, nella persona dell'offensore la scelta della pena e non dell’offeso. (2) I vantaggi di questo metodo sono molti; due ne sono i principali. Si termina di distruggere l’antico dritto della vendetta personale; e si ripara ad una gran parte de'    vizj inerenti al taglione, che in questo stato di cose non si può ancora abolire, ma che conviene modificare.

Se noi paragoniamo quest'ultimo periodo di barbarie col primo; quale immenso spazio si troverà essersi percorso 1 La vendetta personale più non esiste; la pena non è più indeterminata; la composizione non è più arbitraria; non è più nella scelta dell’offeso il taglione, o la multa; esiste un giudice, ed una legge; vi è un codice scritto, ed un magistrato, che lo applica a' diversi casi.

Questo sistema di cose, molto imperfetto in se stesso, ma il migliore possibile nelle circostanze, nelle quali supponiamo la nazione, dee coll'andar del tempo produrre necessariamente un gran male, e questo male dee quindi produrre un gran bene. L’autorità di giudicare e di punire data al re su' Patrizj, ed a' Patrizj su' Clienti, unita alle altre prerogative della loro politica condizione, è collocata in mani troppo forti, per non dovere col progresso del tempo cagionare gravi disordini. 0 il Re si servirà di questo istrumento per opprimere i Patrizj, o i Patrizj per opprimere i Clienti. Nel primo caso l’oppressione armerà i Patrizj contro del re; nel secondo armerà il corpo de'    Clienti, o sia la Plebe, contro i Patrizj. Nel primo caso i Patrizj si uniranno alla Plebe per espellere il re; nel secondo la Plebe si unirà al re, per opprimere i Patrizj. Nel primo caso si fonderà l’Aristocrazia,come avvenne in Roma; (1) e nel secondo la Monarchia, come è avvenuto nelle Nazioni dell'Europa.

Il governo democratico non può nascere che dalla corruzione d'una di queste costituzioni. Se l’Aristocrazia diviene violenta e tirannica, se la Monarchia degenera in un dispotismo feroce: allora il popolo, stanco di soffrire, si desta dal suo letargo, innalza il suo capo, vede i suoi dritti, misura le sue forze, combatte, espelle o fugge i suoi tiranni, innalza i trofei della libertà nella sua patria, o li va a stabilire altrove, nell'Isole, su gli scogli, su i monti o fra le maremme, dove l'acqua o la terra combattono per lui, e difendono i suoi preziosi dritti.

Ecco come si formano i tre diversi stati civili, ed ecco l’epoca della maturità politica di un popolo; epoca, nella quale la legislazione e il codice penale particolarmente può acquistare quella perfezione che gli conviene; e può fondarsi su i principj che abbiamo antecedentemente sviluppati e che anderemo mano mano sviluppando in questo libro. (1)

Lasciando a colui che legge, l’applicazione de'    fatti a queste verità, vediamo l’influenza che queste tre diverse specie di costituzioni debbono avere nel sistema penale; e dopo che avremo esaminati i principj dipendenti da questo primo rapporto del sistema penale colla natura del governo, passiamo a quelli che dipendono da' rapporti cogli altri oggetti che compongono lo stato della nazione che non consideriamo più nella sua infanzia, nella sua fanciullezza, ma nella sua politica maturità. Questo sarà l’oggetto del seguente capo, prima del quale è necessario che io illustri con una breve appendice, un’idea che non ho potuto qui sviluppare, per non interrompere il corso del mio ragionamento.

APPENDICE

L’idea che ho data del jus majorum gentium, e del jus minorum gentium, ne suppone delle altre che io non potrei trascurare d’accennare, senza essere accusabile di oscurità; questa dipende dalla vera nozione del dritto e del dritto delle genti.

Io definisco il Jus: l'uguaglianza della utilità. Lascio al lettore l’esame del valore di questa definizione che pare che non fu ignota agli antichi i quali unirono alla voce Jus l'aggiunto aequum.

Definisco il Jus gentium in generale: il dritto della violenza; vale a dire: l'Uguaglianza della utilità procurata e sostenuta dalla forza. Questa violenza è o privata, o pubblica, e da qui nasce la differenza tra il Jus gentium mojorum e il Jus gentium minorum.

Definisco il Jus gentium majorum: il dritto della violenza privata; vale a dire: l’uguaglianza della utilità sostenuta dalla violenza privata delle forze individue; e questo aveva luogo tra gli uomini che viveano nello stato exlege, cioè nello stato della naturale indipendenza, simile a quello, nel quale sono le nazioni tra loro, in cui ciascheduno deve appoggiare il suo dritto colla propria forza.

Definisco finalmente ii Jus gentium minorum: il dritto della violenza pubblica, vale a dire: l'uguaglianza della utilità appoggiata dalla forza pubblica; e questo ha luogo nelle società civili, nelle quali tutto il corpo sociale ha la tutela de'    dritti degl'individui che lo compongono. Quello dunque che comunemente si chiama dritto delle Genti, altro non è che il Jus majorum gentium; e quello che comunemente si chiama dritto pubblico, è il Jus minorum gentium; ed ecco forse perché gli antichi giureconsulti confusero il dritto pubblico col dritto delle genti.

Il lettore, riflettendo sopra queste idee che non mi è qui permesso di maggiormente sviluppare, vedrà anche il motivo di quelle distinzioni così frequenti presso gli antichi scrittori tra Majorum gentium Dii, Majorum gentium Patrioti, e Minorum gentium Dii, minorum gentium Patricii. I majorum gentium Dii erano gli Dei più antichi, anteriori alle origini delle città, come Saturno, Giove, Marte, Mercurio, ed altri che la mitologia chiama con questo nome. (1) I minorum gentium dii, erano quelli che furono venerati dopo la formazione delle città, come Quirinus. Della maniera istessa i Romani chiamarono Patricii majorum gentivm quelli che discendevano da' primi padri, scelti da Romolo, nella fondazione della Città, vale a dire ch'erano stati nella naturale indipendenza, e Minorum gentium patricii quelli che discendevano da' patrizj posteriormente creati. Per l’istesso motivo si chiamavano Gentes majores, le famiglie nobili antiche, quali erano quelle che discendevano da que’ primi Padri, de'    quali Romolo compose il Senato, e Gentes minores le famiglie nobili nuove che discendevano da' Padri, posteriormente creati, quali erano quelli, de'    quali Giunio Bruto, cacciati i re, riempì il Senato, quasi esausto per l’eccidio de'    senatori fatti morire da Tarquinio il Superbo.


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CAPO XXXVI

Proseguimento dell'istessa Teoria

Eccoci pervenuti a quella parte di questa teoria che più interessa lo stato presente delle Nazioni dell'Europa. L’influenza che debbono avere nel sistema penale le diverse circostanze politiche, fisiche e morali de'    Popoli già pervenuti alla loro maturità, sono l’oggetto di questo capo. Io comincio dalla natura del Governo.

Nell'Aristocrazia vi è una classe che comanda ed un’altra che ubbidisce; la sovranità, il potere è nell’ordine de'    nobili, l’ubbidienza è nel resto del Popolo.

Nella Monarchia vi è un Sovrano che dà la legge; un corpo di Magistrati che la fa eseguire; un ordine di Nobili che illustra il trono e che ne viene illustrato; una graduazione di gerarchie distinte per prerogative di onore e non d’impero; un’ultima classe finalmente che non conosce molto l’onore e teme poco l’infamia.

Nella Democrazia comanda il Popolo, ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità; nella conciono egli vede una parte della corona poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto. L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annunzia la sua debolezza, egli non ha che a dare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità. Se per la strada egli incontra un cittadino molto più ricco di lui, seguito da molti servi, circondato da molti aderenti, ornato dalle insegne della più illustre magistratura, egli non ha che a ricordarsi dell’uguaglianza politica che passa tra lui e il suo concittadino, per appropriarsi una parte della sua grandezza, invece di umiliarsi a fronte della sua superiorità.

Ecco l’aspetto diverso, col quale ci si presentano le tre semplici forme di moderati governi. Vediamone l’influenza sull'uso delle pene.

Nell'Aristocrazia il nobile proscritto dalla sua patria è proscritto dalla sede del suo impero; l’uomo del popolo perde i suoi amici, i suoi parenti, ma la sua politica condizione non vien deteriorata dall’esilio. Nella sua patria, o fuori di essa, questa è sempre l’istessa. Ubbidire alle leggi senza mai aver parte alla loro formazione, costituisce il suo stato politico in qualunque nazione egli vada, presso qualunque popolo, così nella sua patria, come lungi da essa. Nell'Aristocrazia dunque l’esilio dalla patria sarà una gran pena per un nobile, ed una pena molto picciola per un uomo del popolo e come tale non dev'essere adoperata contro di lui, giacche, come si è altrove provato, (1) una pena molto picciola che non potrebbe esser destinata che per un delitto molto leggiero e che priva lo Stato di un uomo, è una pena perniciosa che dee dal Legislatore essere sostituita da un’altra che ottenga l’istesso effetto, senza recare l’istessa perdita.

L’uso dunque della pena dell’esilio non sarà opportuno nell’Aristocrazia, che per l’ordine de'    Nobili. Questa pena minacciata per es. contro il perturbatore dell'ordine pubblico, distoglierà da simili attentati il nobile ambizioso, e difenderà nel tempo istesso la costituzione dalle nuove trame che il perturbatore potrebbe ordire, quando la pena del suo delitto non lo allontanasse dalla sua patria.

Nella Monarchia questa pena dovrebbe essere interamente proscritta dal codice penale. Niuna classe, niun ordine dello Stato deve avere in questo governo un potere inerente alla persona de'    suoi individui. Niuno tra' privati partecipa in questo governo alla sovranità, niuno dee rappresentare una parte del potere legislativo, niuno dee nascere col dritto di esercitare una parte del potere esecutivo.(2)Non vi è monarchia, o la monarchia è viziosa, sempre che uno di questi inconvenienti si osserva nella sua costituzione. Supponendosi dunque una Monarchia regolare, noi troveremo che l'esilio dalla patria è una pena che non si deve adoperare contro alcun ordine dello Stato. Il Nobile che ha prerogative di onore e non d’impero (purché il suo delitto non fosse infamante, ciò che richiederebbe una pena molto più forte dell'esilio), il Nobile, io dico, esiliato dalla patria conserverebbe tutto il lustro della sua condizione, senza perdere alcun potere reale. Egli consumerebbe fuori dello Stato le sue rendite; egli lascerebbe nell’ozio molti cittadini occupati dal suo lusso; egli nuocerebbe alla società e col delitto e colla pena. Il Magistrato esiliato dalla sua patria non piangerebbe che la perdita della sua carica, della quale potrebbe esser privato, senza essere proscritto. L’umiliazione del suo stato sarebbe molto più sensibile per lui, e molto più istruttiva per gli altri, quando la sua persona degradata ricordasse di continuo colla sua presenza le conseguenze del delitto. Così per questi finalmente, come per tutti gli altri ordini dello Stato, la pena dell'esilio dovrebbe, in questo governo, esser considerata sotto l’istesso aspetto che si è considerata relativamente al popolo nelle Aristocrazie; e dovrebbe per conseguenza esser proscritta dal codice penale di una Monarchia, pel motivo istesso, pel quale si è mostrato non doversi adoperare contro il Popolo ne' governi aristocratici. (1)

Non si può dir l’istesso riguardo alla Democrazia. In questo governo, come si è detto, ogni cittadino rappresenta una parte della Sovranità. Il Popolo intero è nella Democrazia, quello ch'è l'ordine de'    nobili nell'Aristocrazia. L’istessa causa dunque che rende efficace ed opportuna la pena dell'esilio per l’ordine de'    Nobili nell’Aristocrazia, la renderà efficace ed opportuna per tutto il Popolo nella Democrazia. In questo governo il cittadino proscritto dalla sua patria vien privato della sua politica condizione, decade dalla sua sovranità, perde il suo impero, e dovunque egli vada, trova una dipendenza ch'è infinitamente più dura, quando non vien preparata dall’educazione, ingentilita dall’abito e nascosta dall’ignoranza de'    piaceri che vanno uniti alla preziosa libertà. L’istessa pena dunque (l’esilio) dev'essere diversamente considerata ne' diversi governi. Essa sarà adoprabile contro una sola classe in un governo (nell'Aristocrazia); essa non sarà opportuna per alcun ordine, per alcuna classe in un altro (nella Monarchia); essa sarà opportuna ed adoprabile contro tutti gl'individui della società in un altro (nella Democrazia). Ecco l'influenza della natura del governo sull'uso della pena di esilio.

Dall'esilio passando all’infamia, noi vedremo anche l’influenza che deve avere la natura del governo sull’uso di questa pena. Richiamando alla nostra memoria ciò che si è detto su questa specie di pena ne' principi generali poco anzi sviluppati, noi ci ricorderemo di aver dimostrato che le pene d’infamia non debbono cadere che su' delitti di loro natura infamanti; e non debbono essere adoperate, che per quelle classi dello Stato che conoscono e danno un peso all'onore. Applicando ora questi generali principi a' particolari che determinar debbono l’uso di questa pena ne' diversi governi, noi troveremo che nella Democrazia l'infamia può essere indistintamente adoperata contro tutti gl’individui della società; ma che nell’Aristocrazia e nella Monarchia Fuso di essa esser non dee così universale.

Nella Democrazia 3 come si è detto, ogni cittadino è penetrato nell'idea della sua dignità. La sua mano che gitta nell'urna il decreto della guerra o della pace; che soscrive il trattato di una confederazione, di una tregua, di un’alleanza, dalla quale dipende forse la tranquillità, la sicurezza, la sorte della sua patria e di molti popoli; la sua lingua che propone, rifiuta, o approva una nuova legge; che ne deroga un’antica; che palesa le virtù o i vizj del candidato che ambisce la più illustre Magistratura; la sua casa che per angusta e povera ch’ella sia, non lascia di essere frequentata dalle persone più distinte della repubblica, che vanno col rispetto che suggerisce l’ambizione, ad implorare da lui un suffragio ed a disporlo in loro favore; la piazza pubblica, finalmente, dove, nel tempo delle concioni, e il Magistrato che le convoca e il Senato che prepara gli affari su' quali si dee deliberare, e l’oratore che accusa, difende, oppone o sostiene, e i candidati che ambiscono le cariche; dove, in poche parole, tutti coloro che seggono più alto di lui, sono quelli che dipendono dalle sue deliberazioni; tutti questi oggetti, io dico, debbono in ogni istante ricordare al cittadino in questo governo il suo potere e la sua dignità. Or questa coscienza fomentata e sostenuta da tante concause; questa coscienza comune a tutti gl'individui di questa società; questa coscienza che ha tanta affinità col vero onore che può dirsi esser la cosa istessa; questa coscienza, io dico,dee nella Democrazia render generalmente prezioso l’onore, generalmente terribile l’infamia.

In questo governo dunque le pene d’infamia possono essere indistintamente adoperate contro tutti gl'individui del corpo sociale. Ma questa regola potrebbe essa aver luogo in un’Aristocrazia, in una Monarchia? Qual prezzo può l’uomo della plebe dare all'onore in queste due specie di governo, qual peso può egli dare all'infamia? Privo di potere, di onori, di fortune, di lumi; sepolto nell’oscurità della sua condizione; ignoto a' suoi concittadini e, per cosi dire, a se stesso, egli non può mai dare all'opinione pubblica quel valore che si richiede per renderne tanto spaventevole la perdita, quanto bisogna che sia, per poter adoperare con vantaggio contro di lui le pene d’infamia.

La pena d’infamia che altro non è che un segno del pubblico disprezzo, non può mai essere molto sensibile per un uomo che non è né avvezzo, né ha mezzi da esser rispettato. Voi vedrete l’uomo della piede subire con intrepido volto quell'infamante pena che il nobile permuterebbe volentieri con una morte la più dolorosa, purché questa lo garantisse dall'infamia.

Così nell’Aristocrazia, come nella Monarchia il legislatore non può dunque adoperare indistintamente contro tutti gl’individui della società le pene d’infamia, come potrebbe fare in una Democrazia. Coloro che ne' due governi de'    quali si parla, formano quell’infima classe della Società che volgarmente chiamasi plebe, (1) debbono con ogni altra pena esser distolti da' delitti, fuorché con questa. Ma la giustizia, si dirà, è una divinità che uguaglia agli occhi suoi tutti coloro che hanno ardito di violarla. Il nobile ed il plebeo sono ugualmente rei, ugualmente punibili, quando l’hanno ugualmente offesa: io lo concedo. Ma il nobile punito coll'infamia sarà forse meno punito del plebeo condannato alla schiavitù perpetua? Il valore della pena non si dee forse misurare dalla sua intensità? e l’intensità non si dee forse misurare dall’opinione che si ha del dolore che reca a colui che la soffre? Permutando nella persona del plebeo delinquente l’infamia in una schiavitù perpetua, o ad tempus, la legge non si rende più severa contro di lui che contro il nobile, il quale per l’istesso delitto vien punito coll’infamia; essa non fa altro che uguagliare la pena del plebeo a quella del nobile. Punendo coll'infamia e l’uno e l’altro, essa sarebbe parziale pel plebeo, essa sarebbe troppo debole contro di lui; la sua sanzione sarebbe nel tempo istesso ingiusta, ed inefficace. Se si trattasse di una pena che reca un dolore fisico, della mutilazione di un membro, per es., in questo caso io direi che per l’istesso delitto il nobile ed il plebeo vi dovrebbero essere egualmente esposti, ma non si può dir l’istesso, quando si tratta di pene d’opinione.

Il nobile preferirebbe qualunque altra pena all'infamia; ed il plebeo preferirebbe forse l’infamia a qualunque altra pena. Pel primo dunque il timor dell’infamia sarebbe un gran freno; e pel secondo sarebbe un freno molto picciolo, molto debole. In tutti que’ governi dunque, ove vi è una classe di cittadini che per una conseguenza della costituzione non può dare un gran prezzo all'onore, e dee temer poco l'infamia, le infamanti pene non si debbono contro di essa adoprare, ma riserbar si debbono per le altre classi, per gli altri ordini dello Stato. Ecco ciò che deve avvenire nell'Aristocrazia e nella Monarchia; ecco ciò che non deve avvenire nella Democrazia; ed ecco l’influenza che la natura del governo deve avere sull'uso di questa pena.

Determinata l’influenza che la natura del governo deve avere sul sistema penale, vediamo ora quella che vi debbono avere le circostanze morali, vale a dire il genio e l’indole particolare de'    popoli e la loro religione.

Un popolo ò egli avido o orgoglioso? Inclinato all’interesse o alla ferocia? Laborioso o amante dell’ozio e del riposo? I suoi costumi si sono essi molto ingentiliti? La sua religione promette essa delle pene e de'    premii in una vita futura? Permette forse ciò che le leggi debbono proibire o condanna ciò che esse debbono permettere; o pure, venendo in soccorso delle leggi, proibisce ciò che esse condannano, tollera ciò che esse permettono e comanda ciò che esse prescrivono? Ammette essa la necessità delle azioni umane, e la dottrina del destino; o è essa fondata sul sistema della libertà? Accorda essa la remissione delle colpe ad alcuni mezzi che non interessano lo spirito; o fa come la nostra, dipendere la giustificazione dalla migliorazione del cuore, dalla correzione del costume, e dall’intimo rammarico del delinquente? La dottrina assurda ed antica della metempsicosi è ella ricevuta da un popolo come un dogma religioso? Il legislatore non dee trascurare alcuno di questi oggetti nella costruzione del codice penale.

Le pene pecuniarie, per esempio, potranno essere con maggior frequenza e con maggiore efficacia adoprate contro un popolo avido; e le pene d’infamia produrranno più felici effetti presso un popolo orgoglioso. Solone fece maggior uso delle pene pecuniarie,(1)e Licurgo delle pene d’infamia.(2)Gli Ateniesi industriosi e commercianti amar dovevano il danaro che era l’oggetto de'    loro sudori. Gli Spartani fieri ed orgogliosi non apprezzavano le ricchezze che non conoscevano. e non cercavano, ma temevano molto l’ignominia.

In un paese dove l’interesse è la passione dominante di coloro che l’abitano, la maggior parte de'    delitti dipendono dall'amor del danaro. In una nazione inclinata alla ferocia, la maggior parte de'    delitti son cagionati dal risentimento della vendetta, dalla bravura, dalla vanità di dar prove di ardire e di coraggio. Il legislatore dee frenare l’avidità coll’avidità istessa nella prima; deve ad ogni delitto che o direttamente, o indirettamente dipende da questo principio, combinare la pena pecuniaria con quella che va unita al delitto istesso. Nell'altra al contrario non dee ricorrere che rare volte alle pene pecuniarie; perché i delitti dipendenti dall'avidità del danaro debbono esser molto rari. Egli non dee neppure sperare di ritrovar nella pena di morte un freno sempre opportuno contro que’ delitti, che dipendono appunto dal disprezzo della morte. La pena non farebbe altro che accrescere in molti casi il merito dell’azione, e dare un nuovo pascolo alla vanità ed al fanatismo del delinquente.

Un popolo è egli laborioso o amante dell’ozio e del riposo? Nel primo caso il sistema penale può esser molto raddolcito. Un popolo laborioso è ordinariamente un popolo virtuoso. L’occupazione è il maggiore ostacolo a' delitti, e la sanzion penale può presso questo popolo con pene più miti ottenere effetti più grandi. I Chinesi sono una prova di questa verità. In un popolo al contrario inclinato all’ozio ed al riposo, la corruzione è più facile ad introdursi; le pene debbono essere più rigorose, e le condanne ai lavori pubblici saranno le pene le più reprimenti, e le più adattate all'indole ed al carattere nazionale. Questa regola potrebbe aver luogo presso molti popoli dell'India. Essi sono, come si sa, così inclinati all’ozio, che riguardano l’intera inazione come lo stato più perfetto, e l’oggetto unico de'    loro desiderii. Essi danno al Supremo Essere il soprannome d’immobile; (1) e i Siamesi credono che la felicità suprema consista nel non essere obbligato ad animare una macchina, ed a fare agire un corpo. (2)

Un popolo finalmente ha egli fatti gran progressi nella coltura? I suoi costumi sono essi raddolciti? Umano e sensibile, abborrisce egli le atrocità? Il codice penale deve anche raddolcirsi, deve anche ingentilirsi. Quando le leggi sono in contraddizione coi costumi, o si corrompono i costumi, o si elude il rigore delle leggi.

Popoli dell’Europa, sopra la maggior parte di voi cade questa spiacevole riflessione. Nell’osservare i vostri codici penali noi dobbiamo dire: o che i vostri costumi sono ancora quelli de'    vostri barbari padri, o che le vostre leggi sono in contraddizione co' vostri costumi. Voi che non parlate che di delicatezza e di sensibilità; voi che accarezzate tutto ciò che è amabile, e gustate con tanto trasporto tutto ciò che è dolce; voi che non avete altro che fiori nelle mani e canti nella bocca; voi che alla musica, al ballo, al teatro v’intenerite e piangete; voi l’anima dei quali è comprensibile di tutti i teneri sentimenti, voi avete ancora delle leggi, voi avete ancora delle pene atte a far fremere cuori di ferro. 0 correggete dunque le vostre leggi, o soffrite che ne sia deluso il rigore coll’impunità e col giudiziario arbitrio, o ritornate nella t antica ferocia, alla quale le vostre leggi, quando avessero tutto il vigore che la legge deve avere, non tarderebbero molto a ricondurvi.

Ma che diremo noi della religione? Un popolo, la religione del quale ammette delle pene e de'    premii in una vita futura, e minaccia queste pene a' delitti che le leggi puniscono, ed offre questi premii alle azioni che le leggi prescrivono; un popolo, io dico, dove una religione così cospirante al bene sociale ò stabilita, è suscettibile di un codice penale molto più dolce e moderato che non lo è un altro popolo, che essendo in tutte le altre circostanze a quello uguale, differisce nel sistema della sua religione, la quale o non ammette pene e premii in una vita futura, o minaccia queste pene e promette questi premii ad alcune azioni che non interessano la società e le leggi, o proibisce ciò che le leggi debbono tollerare, o tollera ciò che le leggi debbono proibire. La religione dominante de'    Giapponesi, per esempio, non ammette né paradiso né inferno; quella degli abitanti di Formosa ammette un luogo di tormenti posteriore alla vita; ma destinato per coloro che non sono andati nudi in alcune stagioni dell'anno, che si sono vestiti di tela e non di seta, che han pescate delle Ostriche, che hanno intrapreso un affare senza consultare il canto degli uccelli. (1) Quella de'    Tartari di Gengis-Kan (2) considerava come un peccato contro ai numi il porre un coltello nel fuoco, il battere un cavallo colla sua briglia, il rompere un osso con un altro osso, ma considerava come azione indifferente il violar la fede delle promesse, il rapire la roba d’altri, il fare un’ingiuria, l’uccidere anche un uomo.

La religione de'    Peguesi, al contrario, condanna severamente l’omicidio, il furto, l’impudicizia; proibisce di recare il menomo torto al suo prossimo, e ordina di fargli tutto il bene possibile. La possibilità di salvarsi in qualunque religione, purché si adempiano questi doveri, è un articolo di fede per essi. (3)

Non vi vuol molto a vedere che supponendosi tutte le altre circostanze uguali, il codice penale de'    Peguesi dovrebbe essere molto più dolce di quello de'    Giapponesi, degli abitanti di Formosa e de'    Tartari di Gengis Kan. Quello che mancherebbe al rigor delle pene nel primo di questi popoli sarebbe supplito dalla religione, e quello che manca alla religione negli altri sarebbe supplito dal maggior rigore delle pene.

Se la religione di un popolo stabilisce il dogma della necessità delle azioni umane; se la dottrina del fanatismo e del destino, questa dottrina che è nata insieme col dispotismo, colla schiavitù, e colla perdita della politica libertà, forma uno degli articoli della sua credenza, è chiaro che presso questo popolo le leggi debbano essere più severe, l’amministrazione più vigilante, e la sanzion penale più rigorosa, che presso un popolo, dove la religione stabilisce l’opposto dogma della libertà. I motivi sensibili per tener lontani gli uomini da' delitti debbono essere più forti, a misura che i morali sono più deboli. Il supporre la necessità delle azioni umane, è l’istesso che distruggere ogni idea di merito e di demerito, di virtù e di vizio, di virtuoso e di malvagio. L’uomo dunque persuaso di questo assurdo principio non trova in se freno alcuno alle sue passioni. Che ne sarà se le leggi non suppliscono a questo difetto? Che ne sarà se l’eccesso delle pene non compensa il difetto de'    rimorsi?

L'istesso presso a poco deve avvenire in un popolo, la religione del quale fa dipendere la giustificazione da alcune cose, che non hanno rapporto alcuno collo spirito. Alcuni popoli dell'India, per esempio, credono che le acque del Gange abbiano una forza così santificante che, per empio che sia stato un uomo, le sue colpe sono espiate subito che si sono in esse immerse le ceneri del suo cadavere. (1)

A che giova l’essere stato malvagio o onesto? Le acque del fiume uguagliano il primo al secondo. Esse conducono l’uno e l'altro all’istesso luogo di delizie e di piaceri.

Un popolo ove una cosi perniciosa credenza è stabilita, ha bisogno di un codice penale anche più rigoroso di quello di un popolo, presso al quale (celeris paribus) la religione non ammette, né pene né premii in una vita futura. In questo l'uomo non ha né che sperare né che temere dopo la vita. Perderla o menarla infelicemente è il peggiore de'    mali. Ma in quello egli non ha che temere; ha molto da sperare e da ottenere con sicurezza. Or quando l’idea di un luogo di ricompensa non è unita all'idea di un luogo di tormenti, quando si spera senza temere, questa sicurezza di una felicità futura rende l’uomo meno sensibile all’infelicità presente. Bisogna dunque scuoterlo con pene maggiori. Bisogna che l’illusione della opinione sia riparata dalla maggiore impressione su i sensi. Bisogna che la severità delle leggi sia maggiore, e l’apparato delle pene più terribile.

Io mi vergognerei di dimostrare più diffusamente queste verità che sono da per loro stesse evidenti; ma prima di terminarne l’esame, vediamo ciò che il dogma della metempsicosi e quello dell’altra vita de'    Cristiani, hanno di diverso tra loro, per quel che riguarda l’influenza che aver debbono sul codice penale. Servendomi della distinzione di Platone, io chiamo metempsicosi il passaggio dell'anima in un corpo dell’istessa specie, a differenza della metensomatosi, che è il passaggio dell'anima in un corpo di specie diversa. (2)

Sotto questo aspetto considerata la metempsicosi, non vi vuol molto a vedere che la morte deve essere poco spaventevole a' popoli, ove questa antica e diffusa credenza è in vigore. La sicurezza di animare un nuovo corpo, dopo l’estinzione del primo; la speranza di ricomparire sulla terra in una più fortunata condizione; i lusinghieri presagi di una vita felice più della prima; la rimembranza de'    piaceri della fanciullezza e della gioventù unita alla sicurezza di doverli di bel nuovo gustare; illusioni sono queste così consolanti per colui che si vede vicino a perire, che il momento della morte può da lui considerarsi come il termine delle sue sciagure e l’esordio della sua felicità. Cesare attribuisce con ragione a questa causa il valore prodigioso de'    Galli, ed il coraggio col quale si esponevano alla morte; (3) e l’esperienza ci fa vedere che i suicidii sono molto frequenti ne' paesi ove questa opinione si è introdotta. (4) Il lettore mi ha già prevenuto nella conseguenza di queste premesse. Egli vede che la pena di morte non dovrebbe aver luogo nel codice penale di un popolo ove il dogma della metempsicosi è ammesso.

Come giustificare in fatti l’uso di questa pena, quando con essa l’uomo perde la sua esistenza, lo Stato perde un uomo, il pubblico un esempio, e la legge la sua efficacia?

Ma si dirà: questa regola non dovrebbe forse aver anche luogo in un popolo di Cristiani? La nostra religione non promette forse una felicità eterna al delinquente che muore riconciliato colla Divinità? Quale spavento può recare ad un fedele il patibolo che può essere il punto che separa una vita infelice da un’eterna felicità? Ma a queste dimande se ne possono opporre delle altre. Chi assicura il delinquente della sua giustificazione? Chi assicura e lui e gli spettatori, che il suo pentimento non sia un prestigio piuttosto della grazia, derivato dallo spavento della morte e dalla sicurezza di morire? A lato della misericordia di un Dio sempre pronto a perdonare, la nostra religione non ci mostra forse la sua terribile giustizia? Alla speranza di un’eterna felicità non si unisce forse il terrore di un tormento eterno? Se un momento solo di rassegnazione può comprendere una vita intera di delitti, un momento solo di disperazione non può forse distruggere un lungo corso di penitenze e di patimenti? Questa incertezza non dee forse rendere tanto più spaventevole la morte, quanto ne sono, secondo la nostra credenza, più interessanti e più irreparabili le appendici? Il ministero istesso della religione non accresce forse tra noi gli orrori della tragedia che il delinquente va a terminare sul patibolo?

Queste riflessioni spero che basteranno per mostrarci, che la religione cristiana non toglie alla pena di morte parte alcuna di quella efficacia che si richiede per renderla adoprabile nel codice penale, purché le altre circostanze del popolo non l’impediscano. E se a queste riflessioni noi uniamo quella che ci mostra la conformità de'    suoi precetti con quelli delle leggi, noi vedremo che, in vigore di ciò che si è detto, il sistema penale di un popolo di Cristiani può, supponendosi tutte le altre circostanze uguali, esser più moderato di quello di un altro popolo, ove questa divina religione non è stabilita.

Dall’influenza che le morali circostanze di un popolo aver debbono sul codice penale, passando a quella che vi debbono avere le circostanze fisiche, io comincio dal clima.

Senza mai allontanarci da' principii generali premessi nel primo libro di quest'opera, noi non dobbiamo far altro che richiamare alla nostra memoria ciò che si è detto relativamente al rapporto delle leggi col clima, per applicare queste generali vedute al sistema penale.

L’influenza del clima, si è detto, (1) sul fisico e sul morale degli uomini, è quasi insensibile ne' climi temperati; essa non è decisiva, non è grande che ne' climi estremamente caldi, estremamente freddi. Ne’ primi agisce appena come una delle più deboli cause concorrenti; negli ultimi agisce come causa principale. Nelle regioni, per esempio, dove l'astro del giorno comparisce appena sull'orizzonte; dove il corso dell'onde è sospeso per lo spazio di otto mesi dell'anno; dove le nevi ammucchiate cuoprono per altrettanto tempo un suolo ordinariamente sterile; dove i fenomeni più orribili lasciano di essere spaventevoli per la loro frequenza; dove il sonno, questa tregua che la natura offre alle sciagure de'    mortali ed alle angosce degli infelici, si converte spesso in causa, in esordio o in annunzio di morte; dove le braccia che il fanciullo tende alla madre, si gelano, e le lagrime che grondano dai suoi occhi, si vetrificano sulle sue gote ammortite; dove per due terze parti dell'anno almeno ogni comunicazione è interrotta, ogni società sospesa, e l’uomo isolato per tutto questo tempo colla sua famiglia rimane sepolto nella sua casa, come nella sua tomba; (2) dove finalmente, come si è da noi altrove provato, (3)l'eccessivo freddo istupidisce i corpi e gli spiriti; distrugge quasi interamente la sensibilità; priva l’anima della sua energia, e ritarda lo sviluppo delle facoltà morali dell’uomo; in un paese, io dico, di questa natura, il sistema del codice penale potrebbe egli esser l'istesso di quello di un paese situato in un clima dolce e temperato?

Si potrebbe forse sperare di recar l'istesso spavento, di ottenere l'istesse impressioni coll’istesse pene? Si potrebbe forse senza ingiustizia richiedere l'istesso numero di anni, la istessa età, per supporre un uomo capace di delinquere, che si richiede in un paese, ove un clima più temperato non ritarda, non impedisce lo sviluppo delle facoltà morali dell'uomo? Se la legge richiede tra noi l'età di 18 anni, per condannare un delinquente all'ordinaria pena, non dovrebbe forse richiedere quella di trenta almeno nella Lapponia o nella Groenlandia? E se le Romane leggi dichiaravano incapace di dolo e per conseguenza di delitto, l’impubere, (1) cioè l’uomo prima dell’età di 15 anni, e la femmina prima dei 13; le leggi di questi popoli non dovrebbero forse estendere questo benefìzio dell'impubertà fino a 20 anni almeno? Si potrebbe forse in un paese di questa natura, dove gli uomini son costretti a rimaner per tanto tempo isolati colle loro famiglie nelle mura delle loro case, si potrebbe, io dico, ottenere la conservazione de'    costumi, e l'onestà domestica, senza aumentare il rigore di quelle pene ed il numero di que’ rimedii, che son destinati a tener lontani gli uomini da quei delitti, che la natura abborre, ma che l’abito e la necessità di convivere fomentano e facilitano? L’ubriachezza al contrario così perniciosa altrove, e degna di tutto il rigore delle leggi, non dovrebbe forse meritar la loro indulgenza in un paese, dove la freddezza eccessiva del clima esige Fuso delle bevande calorose, e dove l’abuso di esse non fa che istupidire l’uomo, ma non lo promuove mai agli eccessi, a' delitti? L’istessa causa, per la quale Aristotile ci dice che Pittaco, vivendo in un clima molto temperato, stabilì che fosse maggiormente punito l'offensore ubriaco che l'offensore non ubriaco, (2) non è forse quella che dovrebbe persuaderci in favore dell'indulgenza delle leggi su questo vizio ne' climi gelati? Anche nell’ipotesi, nella quale noi abbiam creduto opportuno l’uso dell’esilio, si potrebbe forse adoperare con vantaggio questa pena in un paese ove il delinquente appena uscito dalla sua patria temerebbe di esservi richiamato, ed annunzierebbe a' suoi concittadini la felicità del suo stato e l’infelicità del loro? La pena di morte non dovrebbe forse essere interamente proscritta dal codice penale di questo paese, ove alcuni lavori pubblici e necessari alla conservazione della società, ma micidiali per coloro che vi sono impiegati, non potrebbero né eseguirsi né esigersi, se non da coloro che han perduto il dritto alla vita? Si potrebbero finalmente adoprare con tanto vantaggio le pene d’infamia presso un popolo istupidito dal clima, privo quasi d’immaginazione, ed incapace di dare all'opinione pubblica quel peso che la comunicazione sola può ispirare e sostenere!

Ecco l’influenza di un clima gelato sul codice penale; quella di un clima estremamente caldo non è né meno forte, né diversa ne' suoi effetti.

Nel citato capo del I libro di quest’opera noi mostrammo che se lo sviluppo delle facoltà morali dell'uomo non è né impedito, né ritardato ne' climi moderati, (1) lo è però ugualmente ne' climi estremamente freddi e ne' climi estremamente caldi. Tutte le conseguenze dunque che abbiam veduto dover produrre nel codice penale il ritardamento dello sviluppo di queste facoltà morali ne' climi estremamente freddi, debbono aver luogo nel codice penale di un paese situato in un clima estremamente caldo.

Noi dimostrammo inoltre che la poca sensibilità, l’eccessiva stupidezza, il difetto di energia dell’animo, erano ugualmente gli effetti di un clima estremamente caldo e di un clima estremamente freddo. (2)

Le altre modificazioni dunque del sistema penale, dipendenti da questi effetti comuni così dell'uno come dell'altro clima, debbono aver luogo in un paese situato in un clima estremamente caldo, non altrimenti che si è detto dover aver luogo in quello situato in un clima estremamente freddo.

Finalmente il lettore che riflette, senza che io sia nell’obbligo di dir tutto, vedrà che gl’istessi motivi pe’ quali si è mostrata l'inopportunità delle pene di esilio, di morte o d’infamia pe’ popoli che abbiano un clima estremamente freddo, e che gl’istessi motivi pe’quali si è detto, doversi presso questi popoli aumentare il rigore di quelle pene, ed il numero di que’ rimedi che sono destinati a tener lontani gli uomini da que’ delitti che la necessità di segregarsi, per una gran parte dell'anno, dal sociale consorzio, e di famigliarmente convivere, fomentano e facilitano; vedrà, io dico, che que’ motivi istessi debbono cagionare le stesse modificazioni nel sistema penale de'    popoli che abitano in un clima estremamente caldo; giacche in questi come in quelli, la perdita della patria è un acquisto di felicità per un uomo; giacché in questi come in quelli, per un effetto del clima istesso, non mancano mai dei lavori pubblici da fare, necessari alla conservazione della società; ma micidiali per coloro che vi si sono impiegati, e che per conseguenza non si possono né eseguire né esigere, se non da coloro che hanno co' loro capitali delitti perduto il diritto alla vita; giacché finalmente così negli uni come negli altri la sociale comunicazione è ugualmente interrotta per una gran parte dell'anno, tanto dall’estremo calore che obbliga gli uni a rimanere isolati e sepolti colle loro famiglie nelle viscere della terra, per difendersi dall'azione de'    raggi del sole nelle stagioni più calde; quanto dall’estremo freddo che obbliga ad una simile custodia gli altri. (1)

Ecco tutto ciò che mi pare che si possa dire e determinare circa l’influenza del clima sul sistema penale. Da quel che si è detto si vede dunque chiaramente che la differenza che dee direttamente il clima produrre tra i codici penali di due diversi popoli, non può aver luogo se non tra due popoli, uno de'    quali abiti un clima moderato e l’altro un clima o estremamente caldo o estremamente freddo. Tra due popoli situati in due climi tutti e due moderati, ma l’uno alquanto più freddo o più caldo dell'altro, questa differenza non può aver luogo; giacché, come si è tante volte detto, l’influenza diretta di un clima moderato sul fìsico e sul morale degli uomini, è così impercettibile, è così debole, è così oppressa dalle altre concause morali e politiche che possiamo senza esitare dire, che non debba produrre alcuna modificazione, alcuna diversità riducibile a' principii generali nel codice penale.

Si dovrà forse dir l’istesso dell'altre fisiche circostanze di un popolo?

Io chiamo fisiche circostanze di un popolo, oltre del clima del quale si è parlato, la natura del suo terreno e delle sue produzioni, la situazione e l'estensione del paese. Questi oggetti, come si è veduto ne' primi due libri di quest'opera, debbono avere una grande influenza diretta ed immediata sopra alcune parti della legislazione; ma ne dovranno esse avere una uguale sul codice penale?

lo parlo d’influenza diretta ed immediata; giacché se si considerano come concause che possono contribuire molto al genio, all'indole, al carattere, alla religione ed alla natura del governo di un popolo, sotto quest’aspetto considerate, esse possono anche avere una grande influenza indiretta sul sistema penale. Ma il nostro scopo non è qui di considerare questa influenza indiretta; giacché se queste fisiche concause contribuiscono, per esempio, a fare che una nazione abbia piuttosto un governo che un altro, questo non dee qui interessarci; poiché noi abbiamo già esaminati i principii che dipendono dal rapporto che debbono aver le pene colla natura del governo. Se influiscono sul genio, l’indole, il carattere di un popolo; se influiscono sulla sua religione istessa, questo neppur c’interessa; poiché abbiamo già determinati i principii dipendenti dal rapporto, che deve avere il sistema penale con questi oggetti. Noi non dobbiamo dunque andare in cerca che della loro influenza diretta ed immediata; e se questa, come si è veduto, ò grande nella parte politica ed economica della legislazione, non vi vuol molto a vedere, che dev'essere molto piccola, molto tenue in quella che contiene il codice penale. Vediamo a che può tutto ridursi.

Il terreno di una nazione, io domando, è forse molto sterile? Le braccia libere del popolo sono forse molto deboli o molto dispendiose per fecondarlo, senza il soccorso di coloro che pe’loro delitti possono esser condannati ad una maggior fatica e ad un minore stipendio? In questo paese, dunque, il legislatore dovrebbe far maggior uso di quelle pene che privando il reo della sua personale libertà, l’obbligano a compensare co' lavori delle sue braccia i mali che ha recati alla società co' suoi delitti. In un paese al contrario, ove l’ubertà del suolo rifiuta questi servili soccorsi, e dove gli oggetti dei pubblici lavori sono molto ristretti; il legislatore dovrebbe con molta economia far uso di questa specie di pena che, profusa più del bisogno, altro non farebbe che obbligare il popolo ad alimentare coloro che l’hanno offeso, ed aumentare colla pena istessa i mali che il delinquente ha col delitto già recati allo Stato.

Un altro paese, un altro popolo ha egli sorgenti tali di ricchezze che conservar non si possano, senza il dispendio della vita d’una porzione di coloro che vi sono occupati? Che in vece dunque di comprare l’innocente abitatore dell'Affrica per condurlo ad una morte sicura; che in vece di sostenere questo commercio infame che degrada egualmente e l’uomo che vende, e l’uomo che compra, e l’uomo che è venduto; che in vece di soffrire che si commettano con intrepida mano, e sotto la protezione istessa delle leggi, tanti omicidii esecrabili; o in vece di permettere al cittadino che non ha violate le leggi, di esporre venali i suoi giorni, di mettere in commercio la sua esistenza, e di commettere un suicidio che le leggi puniscono con una mano e comprano quindi coll’altra; che in vece, io dico, di ricorrere a tutte questa ingiustizie che niun principio di morale, niun sistema di religione, niun motivo d’interesse pubblico può giustificare; ma che la sola superstizione favorisce in molti paesi dell'Europa colle sue assurde ed abominevoli massime; che il legislatore sostituisca in un paese di tal natura alle pene di morte le condanne a questa specie di lavori pubblici; che l’effigie del delinquente vada al patibolo per indicare la pena che ha meritata; ma che la sua persona sia trasportata nel luogo, ove la sua morte ritardata sarà compensata dalle ricchezze che procura allo Stato, dalla vita che risparmia a tanti innocenti, dalle contraddizioni e da' rimorsi, da' quali libera le leggi e i loro autori.

Passiamo alla situazione ed estensione del paese. Per quel che riguarda la prima, dopo replicate riflessioni, io non trovo quale possa essere la sua influenza diretta sul codice penale; e per quel che riguarda l’altra, veggo che questa non dev’essere messa a calcolo che in un solo caso, e che in questo caso dee produrre il più grande effetto.

Un immenso paese, sotto un istesso impero, viene abitato da molti popoli diversi tra loro per genio, per indole, per carattere, per religione, per clima. Popoli avidi, orgogliosi, amanti della fatica, inclinati all'ozio, vivono sul suo suolo immenso. Climi estremamente freddi o estremamente caldi e temperati sono compresi ne' suoi vasti confini. Deità diverse con diversi riti, con dogmi di religioni diverse, formano i varii culti delle diverse parti dell’impero. Nell’ipotesi che il governo di questa nazione possa essere un governo moderato, si cerca di sapere quale debba essere. il sistema del suo codice penale. La soluzione del problema è evidente. Questo paese non può avere un solo codice penale, come aver non può una sola legislazione. In esso l’universalità non potendo essere unita all'opportunità delle leggi, bisogna che questa prevalga a quella.

Il lettore, combinando questa soluzione cogli antecedenti principii, ne vedrà le conseguenze. Egli vedrà anche che nell’Europa esiste una nazione, quale io l’ho qui supposta. Io riposo sulla sua penetrazione e, gittando una occhiata sullo stato della prosperità di un popolo, passo ad esaminare quale sia l’influenza diretta che questa può avere sul codice penale, e quali i principii che ne dipendono.

Se la pena, come si è veduto, (1) altro non è che la perdita di un diritto, e se i sociali diritti sono tanto più preziosi, quanto è maggiore la pubblica prosperità, un’istessa pena dunque sarà più dolorosa a misura che si aumenta la prosperità del popolo.

Se la giustizia determina i limiti del rigor della pena, se non si può recare al delinquente maggior male di quello che si richiede per distogliere gli altri dall'imitare il suo esempio; (2) quando i progressi della pubblica prosperità han fatto crescere insieme col valore de'    sociali diritti il rigore delle pene già stabilite; è chiaro che in questo caso il codice penale dev'esser raddolcito.

Se bastava prima una pena come dieci, per tener lontani gli uomini da un delitto, ne basterà quindi una come otto, per ottenere l’istesso effetto. Coll’istessa pena, colla quale si puniva prima un delitto più leggiero, si potrà quindi punire un delitto più grande, diminuendosi proporzionatamente quella del più leggiero. A questa ragione se ne aggiunge un’altra. A misura che si aumenta in uno Stato la pubblica prosperità, le cause promoventi i delitti si scemano e s’indeboliscono. La reazione dunque che si deve opporre alla loro azione indebolita, può essere anche senza rischio indebolita, ingentilita.

Queste conseguenze sono così semplici, così evidenti, come lo sono i principii da' quali vengono dedotte. Illustrarle maggiormente sarebbe l’istesso che diffidare del talento di colui che legge. Io temo sempre di dir troppo, e rare volte mi pento di dir poco. Contentiamoci dunque di avere, in questa maniera, esposta e sviluppata la difficile teoria del rapporto delle pene co' diversi oggetti che compongono lo stato di una nazione, e di avere applicati al codice penale i generali principii della relativa bontà delle leggi, già stabiliti nel I libro di quest’opera. Passiamo a' delitti, e dopo d’avere sviluppati i principii che determinar debbono l’opportunità delle pene nelle diverse circostanze de'    popoli, cerchiamo ora di esaminare quelli che la determinano relativamente a' delitti. Per ottenere questo fine, bisogna vedere che cosa sia delitto, e quale ne sia la misura.


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CAPO XXXVII

Del delitto in generale

Non tutte le azioni contrarie alle leggi sono delitti, non tutti coloro che le commettono sono delinquenti. L'azione disgiunta dalla volontà non è imputabile; la volontà disgiunta dall’azione non è punibile. Il delitto consiste dunque nella violazione della legge, accompagnata dalla volontà di violarla.

La volontà è quella facoltà dell'animo che ci determina, dopo le spinte dell'appetito e dopo i calcoli della ragione. L’appetito ci sprona, l'intelletto esamina, la volontà ci determina. Per volere bisogna dunque appetire e conoscere.

Conoscere un’azione, altro non è che conoscere il fine dove tende, e le circostanze che l’accompagnano. Questa è l’opera dell'intelletto, e questo è il risultato de'    calcoli della ragione. L’azione volontaria sarà dunque quella che dipende dalla determinazione della volontà preceduta dalle spinte dell’appetito, e dalla cognizione del fine o delle circostanze dell’azione; e l’azione involontaria sarà quella che procede dalla violenza o dall'ignoranza. (1)

La violenza è l'urto di una forza esterna, che ci trascina malgrado il dissenso della volontà, verso la sua direzione. La ignoranza, relativamente all’azione, è lo stato dell’uomo che non ne conosce il fine e le circostanze. Colui dunque che una forza esterna obbliga ad agire; o colui che mosso dalle spinte dell'appetito, non conosce né può conoscere il fine e le circostanze dell’azione, costui, io dico, non sarà delinquente quantunque abbia violate le leggi.

Premessi questi principii, applichiamoli ora e vediamo le disposizioni legislative che ne derivano.

Si è detto che il delitto consiste nella violazione della legge, accompagnata dalla volontà di violarla. Coloro dunque che le leggi debbono supporre incapaci di volere, debbono considerarsi anche incapaci di delinquere.

Si è detto che la volontà è quella facoltà dell'animo che ci determina, dopo le spinte dell’appetito e dopo i calcoli della ragione. Coloro dunque che, o per difetto di età o per un disordine del loro meccanismo, non hanno ancora, o han perduto l’uso della ragione, costoro, io dico, sono quelli che debbono considerarsi dalle leggi come incapaci di volere, e per conseguenza di delinquere. I fanciulli, gli stupidi, i lunatici, i frenetici sono compresi in questo numero. La legge dee dunque fissare il periodo dell’infanzia e della pubertà, relativamente al clima che, come si è altrove dimostrato, accelera o ritarda lo sviluppo delle facoltà intellettuali dell’uomo. Dee dichiarare incapace di volere l’infante.(1)Dee nel secondo periodo, o sia nell'età posteriore all’infanzia, lasciare a' giudici del fatto il decidere, se l’impubere accusato abbia o no l’uso della ragione. (2)Dee finalmente sottoporre all’istesso giudizio, l'esistenza della frenesia o della stupidezza in coloro che colla privazione o colla perdita della ragione possono giustificarsi della violazione delle leggi.(3)Ecco le disposizioni legali che dipendono da questo principio.

Si è detto, inoltre, che per volere bisogna appetire e conoscere; che conoscere un’azione altro non è che conoscere il fine dove tende, e le circostanze che l'accompagnano; e che per fare che un’azione si possa dir volontaria, bisogna supporre in colui che agisce, questa necessaria cognizione.

Quali sono le conseguenze che dipendono da questo principio? La distinzione tra il caso e la colpa.

Il caso suppone in colui che agisce, l’ignoranza assoluta della possibilità dell'effetto che l’azione ha prodotto.(4)La colpa suppone un effetto diverso da quello che colui che agisce, si era proposto di conseguire; ma che non ignorava che potesse avvenire, attesa la cognizione che aveva di tutte le circostanze dell’azione.(1)Il caso non è dunque imputabile; ma è imputabile la colpa. Nel caso manca la volontà, perché vi è ignoranza; nella colpa non manca interamente la volontà, perché non manca interamente la cognizione. Nel caso non esiste né la volontà di violare la legge, né la volontà di esporsi al rischio di violarla; nella colpa non vi è la volontà di violare la legge, ma vi è quella di esporsi al rischio di violarla.

A misura che la cognizione di questa possibilità, di questo rischio è maggiore, cresce dunque il valore della colpa, si avvicina più al dolo; a misura che è minore, si allontana più dal dolo, si avvicina più al caso. (2)

Da queste premesse dipendono i seguenti canoni legislativi.

Se il caso non è imputabile, le leggi non debbono dunque punirlo.

Se la colpa è imputabile, le leggi debbono dunque punirla.

Se la colpa è meno imputabile del dolo, perché nel dolo vi è la volontà di violare la legge e nella colpa non vi è che la volontà di esporsi al rischio di violarla, la pena della colpa non dovrà mai dunque nell'istessa azione uguagliare quella del dolo.

Se a misura che la cognizione della possibilità dell’effetto che l’azione ha prodotto è maggiore, cresce il valore della colpa, si avvicina più al dolo; e se a misura che la cognizione di questa possibilità è minore, minore è anche il valore della colpa, si avvicina più al caso; vi saranno dunque vari gradi di colpa, e le leggi vi dovranno dunque destinare diversi gradi di pena.

Se non è possibile determinare tutti i vari gradi di colpa, e se al contrario è perniciosa ed ingiusta cosa di lasciare nell’arbitrio de'    giudici la scelta e destinazione della pena; le leggi dovranno dunque fissare tre diversi gradi di colpa, a' quali tutti gli altri possano riferirsi: la massima, la media, e l’infima; dovranno stabilire una regola, un canone generale, per indicare a' giudici a quale di questi tre gradi debba riferirsi la colpa.

Dovranno stabilire: che quando le circostanze che accompagnano l’azione mostrano che nell'animo di colui che agisce, la possibilità dell’effetto alle leggi contrario, che l’azione ha prodotto, è eguale o maggiore alla possibilità dell’effetto che si era proposto di conseguire, la colpa sarà massima; quando è minore, ma non è molto rimota, la colpa sarà media; quando è rimotissima, la colpa sarà infima; dovranno finalmente, nel determinare la sanzione penale, distinguere in ciaschedun delitto, (1) oltre la pena del dolo, quella della massima, quella della media, e quella dell'infima colpa. (2)

Questi sono gli altri canoni legislativi che dipendono dai

premessi principii. Ritorniamo ad essi, e proseguiamo questa interessante analisi.

Si è detto che le azioni involontarie son quelle che procedono dalla violenza o dall'ignoranza; che la violenza è l'urto di una forza esterna che ci strascina, malgrado il dissenso della nostra volontà, verso la sua direzione; che l’ignoranza, relativamente all'azione, è Io stato di un uomo che non ne conosce il fine e le circostanze, e che per conseguenza le azioni contrarie alle leggi che procedono o da questa violenza o da questa ignoranza, essendo involontarie, non sono imputabili, e non essendo imputabili, non sono punibili. L’applicazione di questo principio è dunque nel principio istesso. Il Canone generale che ne deriva, è interamente espresso nella conseguenza, che se n’è dedotta. La sua evidenza è tale che ogni illustrazione sembrerebbe inutile. Ma si potrebbe forse dir l’istesso delle due quistioni, alle quali l’esposizione di questo incontrastabile principio ci conduce? Che dovremo noi dire delle azioni che nel tempo istesso procedono in una certa maniera dalla violenza, e dalla volontà; dall’ignoranza, e dalla cognizione? Cominciando dalle prime che Aristotile chiama miste, (3) noi non dobbiamo far altro che gittare un’occhiata su i vari accidenti della vita, per vedere che l’uomo può qualche volta trovarsi nella dura necessità di non aver che a scegliere tra due o più mali. Il male che in queste circostanze egli preferisce, dipende, è vero, dalla sua volontà; giacché non vi è né ladro né tiranno della volontà, dice un antico;(1) ma la sua volontà l’avrebbe distolto da questo male, se la necessità di evitarne un altro non l’obbligasse a questa scelta. Il Piloto che vede il naufragio inevitabile, se non diminuisce il peso del suo naviglio, gitta nel mare le merci. Quest’azione è volontaria;(2) ma l’avrebbe egli fatta, se la necessità di evitare il naufragio non glielo avesse prescritto? Se il tiranno arma la mia mano di un pugnale, e da' suoi satelliti mi fa intimare la scelta o della perdita della vita, o di un assassinio, qualunque de'    due mali io scelga, l’avrei io voluto fuori di questa dura alternativa?

Lasciamo a' moralisti l’esame de'    principii direttori del foro interiore, e noi, memori della diversità infinita del nostro ministero, contentiamoci di esporre quale esser dovrebbe la determinazione delle leggi su questa specie di azioni.

Tre canoni generali basteranno al legislatore, per dirigere la soluzione di tutti i casi possibili nella questione compresi. Io prego colui che legge, di ricordarsi che, se le leggi civili debbono ispirare, non possono esigere la perfezione nell’uomo. Esse possono dare all'eroismo de'    martiri, come la religione gli ha dati alla fede; ma non possono, come quella, punire coloro che non hanno il coraggio che richiede un simile sforzo. Con questa prevenzione io lo prego di osservare i tre seguenti canoni, de'    quali lascio a lui l’esame ed il giudizio.

1° Tra due o più mali uguali non è mai punibile la scelta.

2° Tra due o più mali disuguali, la scelta del minore non è punibile; ma la scelta del maggiore lo è, quando non vi è interesse personale per mezzo.

3° Tra due o più mali disuguali, il minore de'    quali ferisce l’interesse dell’uomo che a scegliere vien costretto, la preferenza data al maggior male non può esser punibile che in un solo caso; quando il male personale che si evita, è molto piccolo, è molto soffribile, e quello che si elegge è molto grave, mollo pregiudizievole, o a tutto il corpo sociale, o ad un altro uomo.(3)

Che il lettore esamini questi canoni e ne troverà la ragione e l’opportunità. Io passo all’altra questione che riguarda le azioni che procedono,, nel tempo istesso, dalla cognizione e dall'ignoranza. I delitti commessi nell'ubbriachezza sono l'oggetto di quest'esame.

L’uomo nell'ubbriachezza non conosce né il fine né le circostanze dell’azione; ma prima di inebbriarsi, egli conosce il fine e le circostanze dell’eccesso nel bere; egli sa quali sogliono essere gli effetti dell'ebrietà.(1)Colui che vuole la causa, non può negare di volere anche gli effetti. L’ignoranza dunque dell'ebbrio non esclude la volontà delle sue azioni, perché la sua ignoranza è volontaria. Prima d’inebbriarsi, egli conosceva il fine e le circostanze dell'intemperanza che era per commettere; egli conosceva dunque anche il fine e le circostanze dell’azioni che dall’ebrietà dipendono. Per servirmi de'    termini delle scuole, io dirò che se la violazione della legge commessa nell’ubbriachezza non dipende da una volontà immediata, è nulladimeno imputabile e punibile, perché dipende da una volontà mediata. Ma, si domanda, lo sarà essa quanto al dolo o quanto alla colpa? Qual'è mai la differenza che passa tra la violazione della legge commessa per colpa, e quella commessa nel disordine della ragione, prodotto dall’ebrietà? Nell’uno e nell’altro caso, l’effetto che l’azione ha prodotto, non è forse diverso da quello che colui che agisce, si era proposto di conseguire? Chi è mai quell’uomo che s’inebbria per uccidere un altro uomo? La volontà di esporsi al rischio di violare la legge non è forse la sola causa che dovrebbe rendere imputabile e l’una e l’altra azione? Come pretendere che una istessa causa produca effetti diversi? La maggior pena, dunque, che le leggi possono assegnare alle azioni commesse nell'ubbriachezza, non dovrebbe eccedere quella delle istesse azioni commesse per una colpa del massimo grado, (2) essa non dovrebbe dunque mai uguagliare quella del dolo.

Questa conseguenza è erronea, perché erroneo il principio dal quale vien dedotta. Vi è una gran differenza tra la violazione della legge commessa per colpa, e quella commessa nell'ebrietà. Nella prima, l’azione che ha prodotto l’effetto contrario alle leggi, è da per se stessa indifferente; nell’altra vi è un male nella causa, vi è un male nell'effetto. Il tirare ad una lepre che fugge, non è da per se stesso un male; ma diviene tale, quando per uccidere la lepre io mi metto nel rischio di uccidere un uomo. L’intemperanza, al contrario, nel bere, la volontaria perdita della ragione, è da per se stessa un male. Diviene quindi un doppio male, quando nell'ubriachezza io commetto un altro delitto. Nella violazione della legge, commessa per colpa, il legislatore non dee dunque punire che un solo male; e in quella commessa nell'ubriachezza dee punirne due.

Più: nella violazione della legge commessa per colpa vi è il male della società, ma non ve n’è lo scandalo; in quella commessa nell'ebrietà, esiste l’uno e l’altro. Finalmente, se noi osserveremo l’inclinazione troppo frequente a questo vizio; il vantaggio che vi è nel tenerne lontani gli uomini quanto più sia possibile; la difficoltà che vi è nel provare la non esistenza dell'ebrietà: la facilità che vi sarebbe di eludere con questo mezzo il rigore delle leggi, quando l’ubriachezza liberasse il delinquente da una parte della pena; se noi uniremo, io dico, queste alle antecedenti riflessioni, noi troveremo che, molto lungi dall’esser condannabili di soverchia severità, sono anzi da seguirsi que’ legislatori che han punito coll’istessa pena la violazione della legge commessa nell’ubbriachezza, che quella dove esiste evidentemente il dolo. Altro non potrebbe fare la legge, che stabilire che la pena sia dell'infimo grado di dolo. Il lettore comprenderà questa idea, dopoché avrà letto il seguente capo.

Esposti tutti questi principii, determinati tutti questi canoni, sviluppate tutte queste regole relative all'esistenza ed al concorso della volontà; noi non dobbiamo far altro che riflettere sull’idea che data abbiamo del delitto, per vedere che quel che finora si è detto, non è ancora tutto quello che doveva dirsi. Se per formare il delitto vi è bisogno del concorso della volontà coll’atto, della maniera istessa dunque che si è determinato tutto quello che riguarda la volontà, determinar si dee quello che ne riguarda la manifestazione.

È fuor d’ogni dubbio, che la sola volontà di delinquere non può formare il delitto civile. Il giudizio de'    cuori è riserbato alla Divinità ispettrice de'    nostri pensieri, la quale, della maniera istessa che premia l'assenso della nostra volontà al bene, quantunque disgiunto dall’opera, punisce l’assenso di essa al male che si è da noi voluto, ancorché non si sia giammai commesso. Lasciamo dunque alla religione lo spaventare colle terribili sue minaccie le ree ed occulte volontà degli uomini, e non cerchiamo dalle leggi che sono l’opera degli uomini, quel che ottener dobbiamo dalla religione che è l’opera di Dio. La legge non può punire l’atto senza la volontà, né la volontà senza l’atto.

Cogitationis po&nam nemo patitur.

Questa era una regola del romano dritto, (1) regola ignota alla giurisprudenza de'    tiranni, regola che Dionisio violò a tal segno che si fece lecito di punire il sogno, come indice dei pensieri. (2)

Ma si domanda: Tatto che la legge dee punire, è soltanto quello che contiene in sé la violazione della legge, o anche quello che manifesta la volontà di violarla? Il conato, il semplice e nudo tentativo al delitto, dev’egli esser punibile, quanto il delitto stesso consumato e riuscito? Ecco le questioni che han diviso i giureconsulti, gl’interpreti e i legislatori, e che noi risolveremo, chiamando in soccorso i principii eterni della giustizia e della ragione. (3) Non ci allontaniamo da' premessi principii. Il delitto, si è detto, consisto nella violazione della legge, accompagnata dalla volontà di violarla. Quando dunque si manifesta la volontà di violare la legge, ma non si manifesta coll’azione dalla legge vietata, non esiste il delitto. Se io dico, per esempio, ad un altro uomo: io ho determinato di uccidere il tale, voglio immergere nel suo seno questa spada che non deporrò, finché con essa non gli abbia trapassato il cuore; andrò in traccia di lui e non riposerò finché non vegga disteso sotto i miei piedi il suo estinto cadavere: se questo discorso vien provato con tutte quelle solennità che stabilisce la legge, potrei io esser condannato per omicida? Dopo questo discorso non potrei io forse cambiar di volontà; non potrei io divenir l’amico di colui che aveva determinato d’uccidere? La legge potrebbe forse punirmi di un delitto che non ho ancora commesso? (4)

Se al contrario, io dico, o scrivo ad un sicario: va ed uccidimi il mio inimico; il prezzo della tua opera sarà la tale somma; questa ti sarà pagata subito che mi porterai una pruova del felice esito della tua commissione: in questo caso, ancorché il sicario non riesca nella sua intrapresa; se vien provata la commissione, o se la lettera vien sorpresa, primaché l’attentato si esegua; non sono io forse condannabile all’istessa pena, alla quale sarei condannabile, se l’omicidio fosse avvenuto? Io lo sarei sicuramente, perché l’atto col quale ho manifestata la mia volontà, è da per sé contrario alla legge. Subiloché ho indotto il sicario a violarla, l’ho già io violata. La causa al delitto è già data; il reato, per la. mia parte, è già commesso, o che l’uomo muoia o che non muoia.

L’istesso dir si può riguardo alla congiura. Se io manifesto ad una o a più persone la volontà che ho di tramare una congiura contro il governo; se questa manifestazione è dimostrata, il magistrato altro non potrebbe fare che assicurarsi della mia persona, finché non si assicuri di aver io rinunziato a questo perfido disegno; ma potrei io esser condannabile, a rigor delle leggi, contro la congiura? Se, al contrario, nel silenzio della notte, e nel ritiro delle domestiche mura, convoco i congiurati; do le disposizioni necessarie all’orrendo attentato; consegno loro le armi; ricevo da essi il giuramento terribile del silenzio e della fedeltà; fo girare intorno la coppa insanguinata, e fo loro bere, secondo l'antico rito, il sangue della vittima, simbolo di vendetta e di strage; se terminato questo congresso, la congiura si scuopre, son sorpresi i congiurati, primaché il momento nel quale scoppiar doveva la congiura fosse giunto; in questo caso, i miei complici ed io non sarem forse condannabili all’istessa pena che meritata avremmo, se si fosse eseguito l'orrendo attentato? Nel primo caso io non ho manifestata la mia volontà con alcun atto dalla legge vietato; nel secondo i miei complici ed io manifestata l’abbiamo colle azioni dalla legge istessa vietate. Nel primo caso esiste la volontà di violare la legge, ma non vi è la violazione della legge; nel secondo vi è la violazione della legge, e la volontà di violarla; nel primo caso non vi è dunque il delitto, e nel secondo vi è.

Da queste premesse dedur possiamo il seguente canone generale, col quale il legislatore regolar potrebbe la soluzione di tutti i casi possibili nella questione compresi.

La volontà di violare la legge non costituisce il delitto, se non quando si manifesta coll'atto dalla legge istessa vietato, ed in questa sola ipotesi il conato al delitto è punibile, quanto il delitto istesso consumato e riuscito. (1)

Stabilito questo canone, io veggo già la schiera dei moderni Juspubblicisti scagliarsi contro di me. Secondo i vostri principii istessi, mi si dirà, il danno che si reca alla società, se non è la sola, è almeno la principal misura della gravezza del delitto. (2) Come pretendere dunque che vi sieno de'    casi, ne' quali il delitto tentato e non riuscito punir si debba ugualmente che il delitto tentato e riuscito? Il danno che riceve la società dal secondo, non è molto maggiore di quello che riceve dal primo?

Questa obbiezione non può sembrar vigorosa che al primo aspetto. Basta profondarsi in essa, per vederne la debolezza.

Qual è l’oggetto, io domando, che la legge si propone nel punire? È forse questo la vendetta del male recato alla società dal delinquente, o pure la sicurezza e l’istruzione? Noi l’abbiam detto e dimostrato. La vendetta è una passione e le leggi ne sono esenti; e i miei oppositori sono i primi a confessare che, terminata la barbarie, quando Io stato civile di un popolo è già perfezionato, l’oggetto della pena altro non può essere che la sicurezza e l’istruzione. Se la pena dunque che siegue il delitto, non è destinata ad altro che a garantire la società dalla perfidia del delinquente, e distogliere gli altri dall’imitare il suo esempio; nella volontà di violare la legge, manifestata coll'azione dalla legge istessa vietata, si trova l’uno e l’altro motivo della pena. Il delinquente ha mostrata la sua perfidia, la società ne ha ricevuto il funesto esempio. 0 che l’evento abbia o no corrisposto all'attentato, questi due motivi di punire esistono ugualmente. L’istessa causa dee dunque produrre l’istesso effetto, e quest’effetto e l'uguaglianza della pena.

Più: il delitto, come si è altrove detto, (1) non è altro che la violazione d'un patto. A misura che il patto che si viola, è più prezioso alla società, la pena deve esser maggiore, sì perché la società ha un maggior motivo da temere il delinquente, come anche perché ha un maggior interesse di tenerne lontani gli altri. Ma nella nostra ipotesi, il patto è violato, ancorché l’effetto dell’azione non abbia corrisposto a' disegni del refrattario; la pena, dunque, dev’esser quell’istessa che meritata avrebbe, se avesse conseguito il fine.

L’evidenza mi pare unita a questi principii. Svilupparli, dimostrarli maggiormente sarebbe un difetto, dal quale io procuro di tenermi sempre lontano. Per racchiudere una materia così vasta in un solo capo, ed in pochi principii, io ho dovuto ricorrere alla precisione, della quale molti de'    miei lettori rimarranno disgustati. Ma il mio oggetto è d’istruire e non di piacere. Determinata la natura del delitto in generale, e fissati tutti i principii, tutti i canoni legislativi che da questa dipendono, passiamo ora ad esaminare la misura de'    delitti, per vederne quindi la proporzione colle pene.


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CAPO XXXVIII

Della misura de'    delitti

Le azioni contrarie alle leggi sono, come si è detto, (2) le violazioni de'    sociali patti, de'    quali le leggi sono le formule che l’esprimono. Interesse della società è che ciaschedun patto sia religiosamente osservato; ma questo interesse non è, né può essere uguale relativamente a tutti i sociali patti. Egli è maggiore in quelli che hanno una maggiore influenza sull’ordine sociale, è minore in quelli che vi hanno un’influenza minore. La prima misura dunque del delitto, o sia dell'azione alla legge contraria, sarà l’influenza che ha il patto che la legge esprime, e che dal delinquente si viola, sulla conservazione di quest’ordine. Questa ci mostrerà i gradi di maggiore o minore reità tra la violazione di una legge e la violazione di un’altra. Questa ci mostrerà la differenza tra l’assassinio, per esempio, ed il furto; tra il regicidio e l’omicidio; tra il peculato e l’espilazione di un’eredità. Ma ci mostrerà essa la differenza tra la violazione di un’istessa legge accompagnata da circostanze diverse? Un uomo può uccidere un altr’uomo nell'impeto dell'ira, può ucciderlo a sangue freddo; può ucciderlo con maggiore o minor sevizia, può mostrare maggiore o minor perfidia, maggiore o minor crudeltà. Il patto che ha egli violato è sempre l'istesso; nell'uno, o nell’altro caso è sempre quello, col quale si è obbligato a rispettare la vita de'    suoi simili; ma nell'uno o nell'altro caso può dirsi forse ugualmente reo, ugualmente punibile? Se la misura del delitto è destinata a regolare la quantità della pena, e se lo scopo della legge nel punire è di distogliere colui che non ha ancora violata la legge, dall’imitare l’esempio di colui che l’ha violata; e di garantire la società dagli ulteriori mali che il delinquente recar le potrebbe, se non fosse o corretto dalla pena, o da essa messo nell'impotenza di più offenderla; essendo, io dico, questi due soli oggetti delle pene, il secondo di essi non esige forse che colui che, violando una legge, ha mostrata una maggior malvagità di cuore, una maggiore disposizione a violarne altre, sia maggiormente punito di colui che, violando l’istessa legge, l’istesso patto, non ha mostrata l’istessa perversità di cuore, non si è reso ugualmente spaventevole alla società? Le circostanze dunque che accompagnano un istesso delitto, possono renderlo più o meno grave, più o meno punibile. Ma come ridurle ad una generale misura? Ecco lo scoglio che convien superare. Se per circostanze di un delitto noi intender vorremmo tutto ciò che, nel sistema erroneo della presente legislazione, sotto questo nome si comprende, noi perderemmo in vano il nostro tempo, nel cercare di ridurle ad una generai misura. I nostri legislatori, non avendo saputo distinguere i delitti pe’loro oggetti, han dovuto distinguerli per le loro circostanze. Essi han chiamato circostanza di un delitto, non solo quel fatto che ne accresce o diminuisce il valore; ma anche quello che, secondo il nostro piano di ripartizione, che da qui a poco sarà esposto, altera la qualità del delitto, lo rende di una specie diversa. Essi han, per esempio, considerato come circostanze dell'omicidio la condizione politica dell'ucciso. Ma, secondo il nostro piano di ripartizione, l’uccidere un Magistrato e l'uccidere un privato Cittadino, sono due delitti tra loro diversi, sono due delitti di qualità, di specie diversa. Questi contengono la violazione di due diversi patti, e non di un istesso patto con circostanze diverse. Il patto che si viola col primo, ha una maggiore influenza sull’ordine sociale che non vi ha il patto che si viola col secondo. La prima misura dunque da noi stabilita regolerà la destinazione della pena dell'uno e dell'altro delitto.

Il luogo, secondo la nostra giurisprudenza, è anche una circostanza del delitto. Ma l’uccidere un uomo in un tempio e ucciderlo in un postribulo, sono, secondo il nostro piano, due delitti di diversa specie. Col primo si violano due patti, col secondo non se ne viola che uno. Col primo si viola il patto, col quale ci siamo obbligati a risparmiare la vita dei nostri simili, e quello col quale ci siamo obbligati a rispettare il patrio culto; col secondo delitto non si viola che il primo di questi patti. L’autore del primo delitto sarà omicida e sacrilego nel tempo istesso; e l’autore del secondo non sarà che omicida.

Non confondiamo dunque le idee delle cose; non chiamiamo circostanze di un delitto quelle che ne cambiano la qualità e la specie; diamo semplicemente questo nome a quelle che, senza alterare la qualità del delitto, lo rendono più o meno grave, più o meno punibile. Sotto questo aspetto considerate, non è impossibile il ridurle ad una generai misura.

Della maniera istessa che noi distinti abbiamo tre diversi gradi di colpa, e che a questi abbiam tutti gli altri riferiti, distinguer potremo tre diversi gradi di dolo in ciaschedun delitto; e della maniera istessa che il legislatore dovrebbe, come si è detto, in ciascun delitto suscettibile di colpa, fissare per ciaschedun de'    tre diversi gradi una diversa pena, così una diversa pena fissar dovrebbe per ciaschedun grado di dolo. Ecco il canone generale, col quale la legge indicar dovrebbe l'esistenza dell’infimo, del medio e del massimo grado di dolo, e ridurre ad una generai misura tutte le varie circostanze aggravanti di un delitto. Quando la causa impellente è forte, o l'azione si è commessa nell'impeto della passione, il grado del dolo sarà l'infimo; quando la causa impellente è debole, o l'azione si è commessa a sangue freddo, e con matura riflessione, il grado del dolo sarà il medio; quando si è commessa, o senza causa, (1) o con causa, ma con perfidia, o con atroce sevizia, il grado del dolo sarà il massimo.

Secondo il nostro piano di criminale procedura, i giudici del fatto, combinando le circostanze del fatto colle caratteristiche in questo canone stabilite, decider dovrebbero con qual grado di dolo si è commesso il delitto dall'accusato, siccome si è detto appartenersi ad essi il determinare a qual grado di colpa debba riferirsi quando mancasse il dolo. I giudici del dritto cercherebbero quindi nella legge la pena stabilita da essa per quel delitto e per quel grado di dolo, come abbiam detto che far dovrebbero quando si trattasse di colpa. (2)

Con questo metodo finalmente che distingue la qualità dal grado ne' delitti, il legislatore troverà il modo da risolvere tutte le infinite questioni che riguardano i soci e complici di qualunque delitto. Tutti coloro che hanno avuta parte diretta o indiretta nella violazione della legge, saran rei di quel delitto, col quale quella legge si viola; ma non tutti lo saranno nell’istesso grado. La qualità sarà comune, ma il grado sarà diverso. Tutti han contribuito alla violazione della legge, ma forse tutti non han mostrata l’istessa malvagità nella parte che vi han presa. I giudici del fatto giudicheranno, dunque, colle regole stabilite ne' proposti canoni del grado, del quale ciascheduno di essi si è mostrato reo; e i giudici del dritto su questo loro giudizio decreteranno la pena che a ciaschedun complice si appartiene. Ecco come la scoverta di una nuova strada ci garantisce da tutti gl'insuperabili ostacoli dell'antica; ecco come la metafisica di una scienza qualunque rende facile ciò che sembrerà sempre un impossibile al casista, che non ha l’occhio per iscovrire que’ primi anelli, da' quali procede l’immensa e complicata catena; ed ecco finalmente ridotte ad una generai misura le circostanze che aumentar possono o diminuire il valore di un istesso delitto. Con questo metodo noi avremo dunque due misure: l’una per distinguere il valore relativo de'    delitti diversi, l’altra per distinguere quello di un istesso delitto accompagnato da circostanze diverse. La maggiore o minore influenza che ha il patto che si viola, sull’ordine sociale, sarà la prima; il grado del dolo, sarà la seconda.

Che il lettore esamini profondamente queste idee, che le combini con quelle nell'antecedente capo esposte e sviluppate, e i suoi dubbi svaniranno; le folte tenebre che gli nascondevano la strada, per la quale si dee giugnere alla perfezione del sistema penale, cominceranno a dissiparsi; egli comincerà finalmente a vedere che un Codice penale, dove l’arbitrario nome di pena straordinaria sia interamente proscritto, e nel quale la legge non permetta a' giudici di far da legislatori, non è, come si è finora creduto, un impossibile politico. Egli si confermerà in questa consolante opinione, quando vedrà come ottenere si possa la proporzione tra i delitti e le pene.


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CAPO XXXIX

Della proporzione tra i delitti e le pene

La disuguaglianza de'    delitti c'indica la disuguaglianza delle pene; e ciò che si è detto, ci mostra bastantemente la necessità di serbare questa giusta proporzione. Ma come ottenerla?

Ognuno vede che la violazione di un patto dev'esser seguita dalla perdita di un dritto; che la violazione di un patto più prezioso dev'esser seguita dalla perdita di un dritto più prezioso; che la violazione di un patto meno prezioso dee portare la perdita di un dritto meno prezioso; che la violazione di un patto, accompagnata dalle circostanze che mostrano la disposizione che ha il delinquente di violare altri patti, dev’esser maggiormente punita della violazione dell'istesso patto accompagnata da circostanze diverse; ognuno vede finalmente che colui che con un solo delitto viola più patti, dee perdere più dritti; e che colui che con un solo delitto viola tutti i patti, dee perdere tutti i dritti. Se egli esamina i principii eterni della giustizia, se egli consulta le imprescrittibili regole della ragione, se fissa la sua riflessione su gl’interessi sociali, egli troverà che la giustizia, la ragione e l’interesse pubblico ricercano ugualmente questa desiderata proporzione tra i delitti e le pene. Da che dunque deriva che noi non troviamo neppure un solo Codice penale, ove questa proporzione si trovi serbata? Dovremo noi attribuire questo male all'impossibilità dell’intrapresa, o all’ignoranza della strada per la quale vi si dee pervenire? Indichiamo la strada e lasciamo a colui che legge, il giudizio della possibilità di giugnereal desiderato scopo.

Una similitudine può molto preparare l’intelligenza delle mie idee. Un edifizio si deve innalzare. Si conducono nella piazza vicina, e si gittano senza ordine i materiali che debbono comporlo. Lo spazio che questi occupano, è per lo meno venti volte maggiore di quello che occupar dee l'edifizio. Se da' materiali, se dallo spazio da essi occupato giudicar si dovesse della grandezza dell'edifizio, quelli del tugurio di un miserabile annunzierebbero l’abitazione di un grande, e quelli della casa di un ricco annunzierebbero la reggia di un principe. Quando questi sono ancora in disordine, l’architetto sente i giudizi dell'idiota e sorride.

Mutiamo i nomi, e noi troveremo l’istesso fenomeno nell’edifizio politico della criminale legislazione.

Quando si presenta alla nostra immaginazione come in un caos, senza ordine e senza ripartizione, la confusa serie dei delitti; quando si richiama la nostra riflessione su questo mucchio informe, la massa ci pare così grande, il numero ci pare così immenso, che o sembra impossibile il riuscire nell’intrapresa di formare un Codice penale, ove ciaschedun. delitto aver potesse la sua pena proporzionata e dalla legge fissata, o ci pare che questo Codice dovrebbe essere di un’estensione così grande, da non potersene adattare l’uso alla pratica, e da moltiplicare ed accrescere la confusione e i disordini, invece di diminuirli.

Ma ordiniamo questo caos informe, riduciamo questa confusa serie ad alcune classi, distinguiamo queste classi secondo i principali oggetti, a' quali si rapportano i sociali doveri; ed in ciascheduna classe distinguiamo i delitti, secondo la loro qualità, secondo i loro gradi; ed allora il prestigio dell’ineseguibilità del lavoro, o l’illusione sull’immensità dell'edifizio, si vedranno contemporaneamente svanire, e si conoscerà questa grande e nuova verità: che così in fisica, come in morale, l’ordine è quello che fa sparire l’apparente immensità delle masse e le restringe in spazi più angusti.

La qualità del delitto è il patto che si viola; il grado è il grado di colpa o di dolo, col quale si commette l’azione. Bisogna dunque proporzionare la pena alla qualità, ed al grado.

Tutte le differenze prodotte dal grado sono state già determinate con due canoni generali ne' due antecedenti Capi.(1)Queste non ci debbono dunque imbarazzare nella ripartizione de'    delitti. Basta che il legislatore fissi, come si è detto, questi due canoni, l’uno de'    quali è destinato ad indicare il grado della colpa, e l’altro ad indicare il grado del dolo; e basta che a ciascheduna specie di delitto suscettibile di colpa fìssi sei gradi di pena proporzionati a' tre gradi di colpa e a' tre gradi di dolo; ed in quelli, ove non può esservi colpa, fissi tre gradi di pena proporzionati a' tre gradi di dolo: basta, io dico, far questa semplicissima e facile operazione, per aver superato il più grande scoglio che si oppone alla perfezione del Codice penale, quale è quello che dipende dal proporzionare la pena a' di versi gradi di malvagità, co' quali un istesso delitto può esser commesso. È vero che questa proporzione non potrà in molti casi aver un’esattezza geometrica; ma ne avrà sempre una tale da poter ottenere il morale ed il politico effetto che si desidera, vale a dire di non punire ugualmente due rei che violando l’istesso patto hanno mostrata una notabile disuguaglianza di malvagità nel violarlo, e di non lasciare nell'arbitrio del giudice il destinare la quantità e la natura della pena.

Con quest'operazione noi avremo dunque la proporzione tra la pena ed il grado. Ma la pena dev'essere proporzionata alla qualità ed al grado; bisogna dunque vedere, come combinar si debba la proporzione coll’una e coll'altro.

La qualità del delitto, si è detto, è il patto che si viola; la misura del valore di due delitti diversi è, come si è osservato nell'antecedente capo, l’influenza che ha sull'ordine sociale il patto che si viola coll'uno, e quella che vi ha il pattoche si viola coll'altro. La proporzione dunque tra la pena e la qualità del delitto dipender dee da questa influenza che ha il patto che si viola sull’ordine sociale. Il delitto, col quale si viola un patto che ha maggiore influenza sull'ordine sociale, dee dunque avere una pena maggiore di quello, col quale si viola un patto che vi ha un’influenza minore. Questa differenza di pena proporzionata alla qualità di questi due delitti, si combini con quella che nascer dee dal grado, e si avrà la totale proporzione. Io mi spiego. Supponiamo che tutti e due questi delitti sieno suscettibili di colpa, vale a dire che per ciascheduno di essi il legislatore fissar debba sei gradi di pena relativa a tre gradi di colpa, e a tre gradi di dolo. Per serbare la perfetta proporzione tra la pena del primo delitto e quella del secondo, bisogna che la pena del primo delitto superi sempre quella del secondo nell'istesso grado. Se, per esempio, la pena del primo delitto nel massimo grado di dolo è come dieci, quella del secondo delitto nel massimo grado di dolo dev'esser al più come nove; e se quella del primo delitto nel medio grado di dolo è come nove, quella del secondo nel medio grado di dolo dev'essere al più come otto. E se quella del primo delitto nell’infimo grado di colpa è come cinque, quella del secondo delitto nell'infimo grado di colpa dev'essere al più come quattro. E così per gli altri gradi intermedii. Che si rifletta a questa progressione, e si troverà che senza alterarsi la proporzione che si è stabilita, la pena del minor delitto in un grado può esser maggiore della pena del maggior delitto in un altro grado. L’omicidio, per esempio, è senza dubbio un delitto maggiore del furto. Col primo si viola un patto molto più prezioso che col secondo. La pena dell'omicidio dell'istesso grado dee dunque esser maggiore della pena del furto nell'istesso grado. Ecco ciò che richiede la stabilita proporzione; ma questa proporzione non vien alterata, se la pena del furto commesso col massimo grado di dolo è maggiore della pena dell’omicidio commesso o con uno de'    tre gradi di colpa, o coll'infimo grado di dolo; perché la pena, come si è detto, dee proporzionarsi alla qualità combinata col grado. Premesse queste idee, non è difficile il vedere, come ottener si possa la proporzione tra le pene e i delitti nell'intero Codice penale. Che il legislatore valuti la quantità relativa dell’influenza che hanno sull’ordine sociale i vari patti che si violano co' diversi delitti; che adoperi prima di ogni altro la massima pena, qual'è la perdita di tutti i dritti, contro quel delitto col quale si violano tutti i patti e si violano col massimo grado di dolo; e passi quindi a quello col quale non si violano tutti i patti, ma si violano quelli che hanno la maggiore influenza sull'ordine sociale. Stabilita la più esatta proporzione che si può, tra la pena di ciaschedun grado del primo delitto colla pena di ciaschedun grado del secondo, passi quindi a quel delitto col quale si violano uno o più patti che hanno anche una considerabile influenza sull'ordine sociale, ma minore di quella che vi hanno i patti che si violano col secondo delitto; e serbi l’istessa proporzione tra la pena del secondo delitto con quella del terzo, che ha serbata tra la pena del primo delitto con quella del secondo; in maniera che la pena di ciaschedun grado del terzo delitto sia minore della pena del corrispondente grado del secondo, e così vada gradatamente discendendo, fino all’ultimo delitto che è quello col quale si viola un patto che ha la minore influenza di tutti sull'ordine sociale.

Ecco la strada che io ho promesso d’indicare. Questa comparirà molto più facile, allorché si vedrà la ripartizione de'    delitti. Ma prima di venire a questo grande oggetto è necessario di prevenire alcuni dubbi, e di premettere un’eccezione alla regola. Questa sarà la materia de'    due seguenti capi, dopo de'    quali si verrà alla ripartizione de'    delitti.


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CAPO XL

Appendice all’antecedente Capo

I materiali delle pene, de'    quali si è parlato, basteranno essi per corrispondere a questa lunga e numerosa progressione di delitti? Potrà sempre ridursi a calcolo il loro relativo valore? Basteranno essi a conseguire la desiderata proporzione?

A tre oggetti può ridursi l’intera quistione. Al numero, alla qualità, alla quantità. Al numero, per vedere se i materiali delle pene possano essere così ripartitili, come lo sono i delitti. Alla qualità, per vedere come serbar si possa la progressione delle pene in quelle che sono tra loro eterogenee. Alla quantità, per vedere se ne' massimi delitti conseguir si possa la desiderata proporzione senza uscir dagli spaziida noi prefissi e ne' confini della moderazione compresi. Si cominci dal numero. Siamo di buona fede con noi medesimi; non nascondiamo a chi legge gli ostacoli che si presentano a' nostri sistemi; cerchiamo di superarli e non facciamo, come pur troppo si fa da una gran parte de'    moderni scrittori, che con un dispotismo più irritante di quello ch'essi condannano, comandano piuttosto che ragionano; e tradendo il loro ministero, sostituiscono all'evidenza delle ragioni ed alla profondità dell'esame l’artificioso suono di un’equivoca e brillante espressione che fa tacere l’ignorante che vi crede nascosto l’arcano, e fa ridere il savio che ne conosce il motivo, e ne vede il vuoto.

Per cominciare dunque dal numero, io credo che se si pone mente all'ordine, col quale, secondo il piano nell'antecedente capo proposto, proceder si dee, per ottenere la proporzione tra le pene e i delitti nell’intero Codice penale; se si richiamerà alla nostra memoria ciò che si è detto e dimostrato in que’ capi di questa seconda parte, dove una distinta analisi si è fatta delle cinque classi di pene che dipendono dalle cinque classi di dritti, de'    quali un individuo della società può essere dalle leggi privato pe’ suoi delitti; se si riflette finalmente al prodigioso aumento che può ricevere il numero delle pene dalla loro combinazione, o sia dall'unione di più pene per un solo delitto, quando con un solo delitto più patti si violano; si vedrà che i materiali delle pene sono bastantemente copiosi per corrispondere al vasto piano che ci siamo proposti. In questo piano, noi non abbiam preteso che ogni azione alle leggi contraria debba esser diversamente punita di qualunque altra azione da quella dissimile, ed anche alle leggi contraria. In questo caso converrei ancor io nel credere troppo ristretti i materiali delle pene, per corrispondere a tutta questa immensità di oggetti. Ma io ho bastantemente sviluppate le mie idee, per non temere che un così strano disegno mi si possa attribuire. Il mio sistema è tanto da questo lontano, che, secondo il piano di progressione da noi esposto, la pena del massimo delitto commesso coll'infimo grado di colpa può esser uguale alla pena di un delitto molto inferiore commesso col massimo grado di dolo. L’uguaglianza della pena allora distrugge, secondo il nostro piano, la proporzione, quando cade sull'istesso grado in delitti di qualità diversa. Se, per esempio, si punisse coll’istessa pena l’omicidio commesso col massimo grado di dolo, ed il furto commesso anche col massimo grado di dolo, allora l’uguaglianza della pena distruggerebbe la desiderata proporzione. Ma se la pena dell'omicidio commesso coll'infimo grado di dolo è uguale alla pena del furto commesso col massimo grado di dolo, la proporzione non è per questo alterata, secondo il nostro sistema; perché il valore del delitto e la proporzione della pena dipendono dalla qualità combinata col grado. Un’istessa pena può dunque essere adoprata per più delitti in gradi diversi. Può, per esempio, essere adoprata in un delitto per l’infimo grado di colpa; può in un altro delitto di qualità inferiore al primo essere adoperata pel medio grado di colpa; può in un altro inferiore al secondo essere adoperata pel massimo grado di colpa; può in un altro inferiore al terzo essere adoperata per l’infimo grado di dolo; può in un altro inferiore al quarto essere adoperata nel medio grado di dolo; può finalmente in un altro delitto inferiore al quinto essere adoprata nel massimo grado di dolo, senza che la desiderata proporzione possa dirsi distrutta da questo ripetuto uso dell'istessa pena. La sola pena che, secondo il nostro sistema, non può adoperarsi che in un solo delitto e per un solo grado, è dunque quella, colla quale punir si dee il massimo delitto commesso col massimo grado di dolo. La progressione delle pene dee da questo primo anello cominciare, come da quel primo anello cominciare deve la progressione de'    delitti. Questa dev'essere come la base del cono, il diametro della quale deve essere maggiore di qualunque altro diametro di qualunque altro cerchio nella superfìcie del cono descritto.

Premessa questa illustrazione del nostro sistema, se alle riflessioni che ci han fatto vedere meno difficile di quel che si credeva il conseguimento dell’effetto che si desidera, noi uniamo quelle che ci mostreranno più copioso il numero dei mezzi che abbiamo per conseguirlo; il primo de'    proposti dubbi svanirà da se medesimo, e chi legge rimarrà, io spero, interamente convinto.

Mio dovere non è di ripetere quel che ho detto, e di richiamare alla memoria del lettore le idee che ho diffusamente sviluppate in que’ capi di questa seconda parte, dove esposte si sono tutte le diverse specie di pene, delle quali l’autorità legislativa può far uso, senza uscire dagli spazii ne' confini della moderazione compresi. S’egli non ha presenti queste idee, non ha che a rileggere quella parte di questo libro che si estende dal Capo XX fino al Capo XXV, per persuadersi che il numero delle pene separatamente considerate è da per se stesso molto più copioso di quello che a primo aspetto appare.

Ma questo numero istesso può anche venire molto accresciuto dalle combinazioni delle pene. Ecco ciò che debbo qui aggiungere a quel che ivi si è detto.

I nostri legislatori hanno unite le pene quando bisognava separarle, e le hanno separate, quando bisognava unirle. Con questa operazione erronea essi hanno doppiamente impoveriti i materiali delle pene. Si è, per esempio, unita l’infamia ad una gran parte delle pene. Si è, presso alcuni popoli, unita all'esilio così dalla patria, come da un dato luogo, alla deportazione, alle galere, ad ogni specie di condanna a' lavori pubblici, alla morte civile o naturale, alle pecuniarie pene. 0 che il delitto sia o non sia infamante, o che sia molto grave o molto leggiero, basta incorrere in una di queste pene, per incorrere anche nell'infamia di dritto.

Non vi vuol molto a vedere che questo metodo non solo ha resa inutile la combinazione delle due pene, ma ha indebolito anche il valore dell'infamia. Ha resa inutile l’unione delle due pene, perché l’infamia così adoperata non è più una conseguenza del delitto; ma è un effetto della pena. Ha indebolito il vigore dell'infamia; perché, come si è da noi dimostrato. (1) quando questa pena non si riserba pe’ soli delitti che sono di loro natura infamanti; quando si moltiplica troppo il numero degl'infami; quando si adopera contro quelle classi della società che conoscono poco l’onore, il suo valore s’indebolisce tanto che diviene quasi interamente inutile.

Ho detto che i legislatori non solo hanno unite le pene quando bisognava separarle, ma che le hanno separate quando bisognava unirle. La seconda parte di questa proposizione non è meno vera della prima.

Quale è il motivo, io domando, pel quale si trovano in alcuni codici penali dell'Europa alcune pene degne della sevizia de'    tiranni più fieri? Qual è il motivo, pel quale nelle pene di morte, secondo la diversità de delitti, si tormenta più o meno l’infelice vittima, prima d’immolarla alla pubblica tranquillità? Questo deriva, si dirà, dalla necessità di porre una differenza tra le pene di due delitti ch'entrambi meritano la morte; ma de'    quali l’uno è meno, l’altro è più pernicioso e più funesto per la società. Ma io dimando di nuovo: senza ricorrere alla ferocia, senza inasprire contro la legge l’animo dello spettatore che voi volete istruire e non corrompere, ispirargli l’amore per le leggi, e non l’odio contro di esse, ma che corrompete ed inasprite, quando punite con sevizia e crudeltà; senza uscire dagli inviolabili limiti della moderazione, non potreste voi ottenere l'istesso effetto coll'unione di più pene, ma tutte in que’ limiti comprese? Non si potrebbe forse dare al reo del minor delitto la morte sola, cd all’altro la morte, unita ad altre pene con quella combinabili? Perché separare in questi casi le pene, quando conveniva unirle?

Più: si è separata l'inustione dalla perdita perpetua della personale libertà. Si è permesso, che l’infame che porta sul suo corpo il segno della sua ignominia e del suo delitto, rientrasse nel civile consorzio. Si restituisce alla società un uomo che dev'esserne abborrito, e che non troverà mai da impiegare le sue braccia che per offenderla di nuovo. Non vi vuol molto a vedere che o bisognava proscrivere dal Codice penale questa pena, o bisognava adoperarla per que’ delitti soltanto, ne' quali l'inustione combinar si potesse o colla morte o colla perdita perpetua della personale libertà. Il servo della pena, riacquistando la libertà dopo aver espiato il suo delitto, può divenire uomo dabbene. Egli può lusingarsi che il tempo scancelli la memoria della sua espiata malvagità, e che un nuovo tenor di vita gli apra l'adito alla fortuna ed alla gloria. Ma queste speranze potrebbero esse allignare nel cuore dell'infelice che l'inustione ha degradato per sempre? Portando sul suo corpo l'impressione indelebile del suo delitto e della sua infamia; temendo in ogni istante la scoverta della sua ignominia; fremendo alla sola idea dell’orrore che questa scoverta deve ispirare; come potrebbe egli innalzarsi da questo abisso di obbrobrio fino al coraggio della virtù? Chiuse per lui, e dalla diffidenza degli altri, e dalla coscienza della sua ignominia, tutte le porte della sussistenza, dell'industria, della fortuna e dell’onore, qual altro partito gli resta a prendere, fuorché quello di dichiarar la guerra alla società, dalla quale non ha più che sperare, e di cercare nel delitto istesso una sussistenza, ed una celebrità che la virtù gli negherebbe? Restituire la libertà ad un uomo di questa natura, non è forse l’istesso che scatenare una tigre fiera ed indomabile? 0 bisognava dunque abolire questa pena, o combinarla colla schiavitù perpetua, o colla morte. (1)

Ma lasciamo l'esame di ciò che si è fatto, e vediamo quel che si dovrebbe fare.

L’unione delle pene deve avere due oggetti: moltiplicare i materiali delle pene, e facilitare la proporzione tra esse e i delitti. Per ottenere questo doppio fine, il legislatore non dee dunque mai unire inutilmente due o più pene. Se la pena di morte è, per esempio, bastante a punire l'omicidio commesso col massimo grado di dolo, perché unire in questo caso la morte all'infamia? L’omicidio commesso col massimo grado di dolo è sempre inferiore all'omicidio commesso col

l’istesso grado di dolo, ma unito al furto; e se all’omicidio ed al furto si aggiunge anche la concussione coll'istesso grado di dolo, noi avremo un terzo delitto maggiore degli altri due. Che si adoperi dunque la morte non infamante pel primo, che si unisca alla morte l’infamante inustione pel secondo, ed alla morte ed all'infamia si unisca una pecuniaria pena pel terzo. Ecco come vanno unite le pene. Senza questa economia, o bisognerà ricorrere ad una specie di morte feroce e tirannica, o bisognerà trascurare la proporzione tra le pene e i delitti. Quel che si è detto della pena di morte, si può anche dire delle altre pene che sono tra loro combinabili. Perché unire inutilmente la perdita della libertà coll'infamia? Perché non distinguere i casi, cioè i delitti, pe’ quali si deve aggiugnere la seconda pena alla prima, da quelli pe’ quali può soltanto la prima bastare? Non basterà forse al legislatore il mutare i nomi delle pene, e l'alterarne in piccola parte le forme, per correggere le prevenzioni dell'opinione, e separare l’infamia da quelle pene alle quali oggi è unita, e unirvela in que’ casi soltanto ne' quali egli crede di doverla unire? Non potrà egli forse combinare colla perdita della libertà la pecuniaria pena, in que’ casi ne' quali l’unione coll'infamia non sarebbe opportuna, e la semplice perdita della libertà sarebbe troppo debole? (1)

Queste pecuniarie pene non potrebbero forse essere unite alla perdita o alla sospensione delle civiche prerogative, alla esclusione dalle cariche, ed a qualunque altra specie di pena, in tutti que’ casi, ne' quali l'avidità ha dato causa al delitto, e la sola pecuniaria pena non può bastare per punirlo?

Non vi vuol molto a vedere che i materiali delle pene, in questa maniera combinati, quadruplicherebbero almeno il loro numero. 0 che si rifletta dunque all'ordine, col quale proceder si deve alla progressione delle pene, per serbare la proporzione tra esse e i delitti, o che si osservino i materiali delle pene, o che se ne veggano le combinazioni; si vedrà sempre svanire il primo de'    tre dubbi nella questione compresi. Con maggior facilità si dileguerà il secondo. Questo riguarda la qualità.

Come serbare, si è detto, la progressione fra quelle pene che sono tra loro eterogenee? Come ridurre a calcolo il relativo valore delle pene pecuniarie e delle pene affittivo di corpo, dell'infamia e della morte? Nell'istessa classe di pene la progressione è facile ad ottenersi, perché il paragone si raggira tra quantità omogenee.

La semplice privazione, per esempio, della personale libertà è sicuramente inferiore alla condanna a' lavori pubblici; e la condanna a' lavori pubblici per un anno è evidentemente inferiore a quella per due anni. Ma come serbare questa progressione, quando si passa da una classe di pena ad un’altra? Ecco a che si raggira il secondo de'    proposti dubbi.

La pena, si è detto, è la perdita di un dritto. Non tutti i dritti sono ugualmente preziosi, né un istesso dritto ha un ugual prezzo presso tutt'i popoli. Noi abbiamo evidentemente dimostrata questa verità. Se la pena dunque è la perdita di un dritto, se i dritti non sono ugualmente preziosi, e se un istesso dritto può avere un prezzo diverso, per due diversi popoli, il legislatore non dee dunque far altro che indagare il prezzo relativo che il suo popolo dà a' varii dritti, per determinare il relativo valore delle pene; e la scienza della legislazione non può determinare questo relativo valore che varia, come si è veduto, col variare delle politiche, fisiche e morali circostanze de'    popoli; ma altro non può fare che stabilire i principii generali che guidar debbono il legislatore in questa operazione. Ecco ciò che mi pare di avere eseguito con bastante chiarezza ne' precedenti capi, per non esser nell'obbligo di rischiarar maggiormente le mie idee su questo soggetto.(1)In un’opera di questa natura, dove l’autore e chi legge sono, per così dire, oppressi dall’immensità degli oggetti, che ne sarebbe se ci permettessimo le inutili ripetizioni?

Passiamo al terzo dubbio questo riguarda la quantità delle pene, e si raggira nel vedere, come ne' massimi delitti conseguir si possa la desiderata proporzione, senza uscire dagli spazii da noi prefissi, e ne' confini della moderazione compresi.

Per ricredersi da questo dubbio basta ricordarsi di una verità, che si è altrove accennata; ma che conviene qui illustrare. In ogni pena, si è detto, vi è un valore assoluto ed un valore di posizione. II primo dipende dal prezzo che gl'individui di una società danno al dritto che con quella pena si perde, ed il secondo dall'uso che se ne fa, ossia dal delitto, contro il quale si minaccia. Da questi due fonti combinati procede la forza ed il vigore delle pene. Si rischiari questa idea, e si scelga l’esilio per esempio.

In un governo libero, l'esilio dalla patria, come sì è osservato, è una gran pena. II prezzo che il cittadino dà nella Democrazia al dritto che con questa pena si perde, è grande. Questo uguaglia il valore della Sovranità.

L'esilio potrà, dunque, in questo governo essere una pena proporzionata a gravi delitti; ma in quale caso? Quando non si adoperi, che per i gravi delitti. Ma se la legge punirà con questa pena istessa i più leggieri misfatti, essa non la troverà più efficace, non potrà più adoperarla contro i più grandi; essa dovrà cercare una nuova pena; essa vedrà il valore assoluto dell'esilio indebolito dal valore di posizione che gli si è dato. Il cittadino avvezzo a vederlo adoperato contro i più leggieri delitti, si abituerà anche a crederlo meno doloroso; giacché tale è la natura dell’uomo, ch’egli a vicenda ora giudica del valore della causa da quello degli effetti, ed ora del valore degli effetti da quello della causa. Basta conoscere l’indole degli animali della nostra specie, per persuadersi di questa verità.

Premessa questa riflessione, non ci dee recar meraviglia il vedere che la più gran parte de'    legislatori hanno trovato troppo angusti gli spazi delle pene, ne' limiti della moderazione compresi, in maniera che essi hanno dovuto percorrere quelli della tirannide e della ferocia, per punire i più gravi delitti, vale a dire quelli, contro i quali hanno voluto ispirare maggior terrore. Se essi conosciuto avessero l’arte di combinare il valore assoluto col valore di posizione in ciascheduna pena, essi ottenuta anche avrebbero la desiderata proporzione tra' delitti e le pene, senza dare un passo fuori degl'inviolabili confini della moderazione. Qual meraviglia ci dee, per esempio, recare il sentire, che nel paese più culto dell'Europa, in quello ove lo spirito di umanità ha fatti i maggiori progressi, e dove tutto è sensibilità, delicatezza, forza di sentimento ecc., qual meraviglia, io dico, ci dee recare il vedere che ne' fasti de'    Tiberi, de'    Neroni e degli altri mostri che atterrirono l’Impero, non si trovi un supplizio più atroce di quello che si fa soffrire in questa nazione all’assassino dell’ultimo Re? Se il semplice furto di pochi soldi, commesso o in una strada pubblica con violenza, o senza violenza nelle mura domestiche, è in questo paese punito colla morte; se in questo istesso paese una giovane donzella, custode infelice del deposito che la disonora, deve espiare sopra un infame patibolo il delitto dell’onore e dell’amore; (1)se l’introduttore armato di qualche derrata proibita dee pagare sopra una ruota il picciolo lucro, che ha sottratto agli uomini più opulenti dello Stato; se questo è l’abuso che si è fatto, e si fa tuttavia in questo paese della più grave delle pene; qual meraviglia poi che le più terribili e le più studiate invenzioni della ferocia sieno state tutte esaurite nel punire il più orrendo, il più pernicioso degli attentati? Il primo male, il primo errore dee necessariamente produrre il secondo.

Quando il sangue si è esaurito per i minori delitti, non ne rimane, per così dire, più per punire i più grandi. Quando si adopera la morte contro i delitti che paiono scusati dalla natura o dall'onore, quali supplicii bisognerà serbare per quelli che offendono e l’una e l’altro? Come si punirà un assassinio atroce, un parricidio esecrabile, un regicidio, col quale tutti i patti si violano? La ferocia, la crudeltà dovranno venire in soccorso dell’abuso che si è fatto delle pene e della viziosa loro destinazione. Che si corregga dunque questo vizio, che si diminuiscano le pene de'    delitti minori, che si distrugga, in una parola, la causa del male; ed allora sparirà anche l’effetto. Allora, io dico, senza uscire dagli spazii da noi prefissi, si troveranno le pene proporzionate a' più gravi delitti; allora la progressione delle pene seguir potrà la progressione de'    delitti, senza macchiare la sanzione penale colle sevizie della tirannide; allora finalmente la perdita di tutti i dritti basterà a punire la violazione di tutti i patti e sarà la più gran pena proporzionata al più gran delitto.

Dissipati e prevenuti i dubbii che insorger potevano contro il nostro sistema, io passo ad esporre colla maggior brevità l’eccezione che ho promesso d’indicare, prima di venire alla ripartizione de'    delitti.


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CAPO XLI

Eccezione

Un’eccezione non distrugge mai una regola. Questo principio, ricevuto in tutte le scienze, deve avere anche luogo in quella della legislazione ch'è di tutte le altre la più complicata.

Si è detto che il valore del delitto dipende dalla qualità combinata col grado. Si è detto che la qualità del delitto è il patto che si viola; si è detto che la misura di questa qualità è l’influenza che ha il patto che si viola, sulla conservazione dell’ordine sociale; si è detto finalmente che la pena dovendo esser proporzionata al valore del delitto, e questo dipendendo dalla qualità combinata col grado, ne deriva che tra due delitti di ugual grado, ma di qualità disuguale, la pena di quello col quale un patto si viola che ha maggiore influenza nell'ordine sociale, dev'esser maggiore della pena dell'altro delitto col quale si viola un patto che vi ha un’influenza minore. Ecco la regola generale, vediamone l’eccezione.

Se si riflette sulla numerosa serie de'    delitti, se ne troveranno alcuni che sono di loro natura più degli altri occultabili, più difficili a scovrirsi e molto più difficili anche a provarsi. La speranza dell’impunità dovendo dunque esser maggiore in questi delitti che negli altri, l’efficacia della pena sarà relativamente minore. Che dee dunque fare il legislatore per metterla al suo livello? Richiedere minori prove per questi delitti che per gli altri, sarebbe, è vero, correggere la causa del male; ma sarebbe l’istesso che correggerla con un male molto maggiore, L’innocenza esposta, la civile libertà lesa, la calunnia fomentata, sarebbero le conseguenze di questo pernicioso ed assurdo rimedio. Quello che io propongo non produrrebbe alcuno di questi mali. Alterare alquanto la proporzione tra la pena ed il delitto; interrompere il corso della progressione; dare al delitto più occultabile, di qualità minore, la pena che sarebbe proporzionata al delitto meno occultabile, di qualità maggiore; accrescere il rigore della pena tanto, quanto basti a compensare la maggiore speranza dell’impunità che vi è unita; ecco il rimedio più semplice che il savio legislatore adoperar dovrebbe, per dare alla sanzione penale di questi delitti quell’equilibrio che senza aumentare il rigor della pena sarebbe distrutto dalla facilità di occultarli. Questa è un’eccezione alla regola che non la distrugge; ma non fa altroché sospenderla per que’ delitti che di loro natura sono più degli altri occultabili. Nella ripartizione che faremo de'    delitti, noi indicheremo quelli che sono di questa natura, senza farne una classe distinta; faremo anche vedere fin dove debba estendersi Fuso di questa eccezione. Colui che legge, non dee far altro che ricordarsi di ciò che si è detto sull'oggetto generale delle pene, per vedere su quali principii è fondata la giustizia della qui proposta eccezione. È ormai tempo di passare alla ripartizione de'    delitti. Questa sarà l'oggetto de'    seguenti capi. La prima distinzione tra i delitti pubblici e privati non servirà ad altro che a regolare l’ordine della procedura.


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CAPO XLII

De’ delitti pubblici, e de'    delitti privati

Il piano di procedura criminale che ho proposto, mi obbliga ad esporre preliminarmente la distinzione di queste due classi di delitti. Richiamata l’antica libertà dell'accusa, richiamar si dovrebbe l'antica distinzione tra i delitti pubblici e i delitti privati. Noi sappiamo che presso i Greci e presso i Romani si distinguevano con questi due nomi i delitti, de'    quali a ciaschedun cittadino era permesso di divenir accusatore, da quelli, l'accusa de'    quali era esclusivamente riserbata alla parte offesa, o a' suoi stretti parenti. (1)

Quantunque ogni delitto sia pubblico, perché ogni delitto suppone la violazione di un patto, del quale l'intera società è garante; nulla di meno non si può negare che nella serie delle obbligazioni che ogni cittadino contrae colla società e co' suoi individui, ve ne sono alcune, nell'adempimento delle quali l'interesse che ha la società è massimo, ed altre, nelle quali è minimo. In queste, se la parte offesa vuol perdonare il delinquente, la società può tollerarne l’impunità; ma nelle altre questa tolleranza sarebbe perniciosa. Essa dee punire, ancorché l’offeso perdoni; la guerra pubblica dee subentrare alla guerra privata; ogni individuo, indirettamente interessato nella punizione di quel delitto, deve avere il dritto d’impugnare le armi della legge contro colui che l’ha violata; e se la parte offesa si tace, se niun privato cittadino ardisce di chiamarne in giudizio il reo; allora, secondo il piano che si è proposto, il magistrato accusatore dee comparire in iscena, per evitare quell'impunità che il silenzio dell'offeso e degli altri concittadini avrebbero procurata al reo. Ecco il principio dal quale dee dipendere la distinzione de'    delitti pubblici, e de'    delitti privali. Ne’ primi ogni cittadino che, secondo il nostro piano, (2) non fosse dalla legge privato della libertà di accusare, dovrebbe avere il dritto di esserne l’accusatore; e negli ultimi questo dritto non dovrebbe appartenere che alla parte offesa, o a' suoi stretti parenti. Ma quali sono i delitti che dovrebbero esser compresi nella prima classe, e quali quelli che dovrebbero annoverarsi nella seconda? Noi non possiamo su quest'oggetto seguire le disposizioni delle antiche legislazioni. La diversità della natura de'    governi, della religione, de'    costumi e delle politiche circostanze de'    popoli ce lo impedisce. Molti delitti, che allora dovevano richiamare la massima vigilanza delle leggi, oggi più non esistono, e molli delitti ignoti agli antichi sono subentrati a quelli. Ma, senza fare un lungo catalogo de'    delitti che io credo che annoverare si dovrebbero in ciascheduna di queste classi, io colloco nella classe de'    delitti pubblici tutti que’ delitti che, secondo la pratica quasi comune dell'Europa, la parte pubblica, o sia il magistrato che rappresenta il fisco, può a sua istanza perseguitare in giudizio; e colloco nella classe de'    delitti privati que’ delitti che, senza la querela della parte offesa, la parte pubblica non può perseguitare, come le piccole ingiurie, le vie di fatto leggiere, ed altri piccoli delitti, nella punizione dei quali l’interesse che ha la società è minimo.

Ecco la prima divisione de'    delitti che ad altro non serve se non che a regolare l’ordine della procedura. Passiamo ora a quella che serve a regolare la distribuzione delle pene.


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CAPO XLIII

Divisione generale de'    delitti

Io debbo annoiare colui che legge con queste minute divisioni de'    delitti, senza delle quali il mio sistema rimarrebbe imperfetto, né il mio lavoro potrebbe mai sperare di divenir utile. La sua tolleranza sarà compensata dalla chiarezza che spero di portare in questa oscurissima parte della legislazione, e se col soccorso di queste distinzioni io giungerò a mostrare la possibilità di formare un Codice penale, nel quale ciaschedun delitto aver potesse la sua pena proporzionata ed assegnata dalla legge; io potrò gloriarmi di aver ottenuto quello che gli altri non han fatto che desiderare, e che hanno appena ardito di proporre.

La divisione generale de'    delitti, ch'è l’oggetto di questo capo, non consiste che nel ridurre in alcune classi i delitti, relativamente a' loro oggetti.

La Divinità, il Sovrano, l’ordine pubblico, la fede pubblica, il dritto delle genti, il buon ordine delle famiglie, la vita, la dignità, l’onore, la proprietà privata di tutti gl’individui della società, formano gli oggetti de'    nostri sociali doveri e de'    nostri sociali delitti.

Classi diverse di delitti

I. Oltre i doveri che ogni cittadino ha verso la Divinità come uomo, ne ha alcuni come cittadino. Le leggi civili non debbono ingerirsi ne' primi, ma debbono prescrivere gli ultimi. Rispettare la patria religione e il pubblico culto, è l’aggregato di tutti i doveri che un cittadino deve alla Divinità, come cittadino. Tutte le azioni, dunque, che si oppongono a questa venerazione, debbono esser comprese nella prima classe de'    delitti. Noi distingueremo questa classe col nome di delitti contro la Divinità.

II. Ogni società civile suppone l'esistenza di una costituzione e di una persona morale che rappresenti la Sovranità. Qualunque sia questa costituzione, qualunque sia questo rappresentante della Sovranità, ogni cittadino nascendo contrae il dovere di conservare illesa la costituzione del governo e di difendere quella persona morale che ne rappresenta la Sovranità. Tutti gli attentati, dunque, diretti (1) o contro la costituzione del governo, o contro il rappresentante della Sovranità, saranno compresi nella seconda classe che noi chiameremo de'    delitti contro il Sovrano.

III. Tra la serie delle obbligazioni che ogni cittadino contrae coll'intera società, oltre quelle delle quali si è parlato, vo ne sono della altre che non hanno direttamente per oggetto né il sovrano, né la costituzione del governo, ma che indirettamente interessano tutto il corpo sociale collettivamente considerato; queste sono quelle che dipendono dalle leggi destinate a conservare l'ordine pubblico. Noi collocheremo dunque in questa classe tutti que’ delitti che turbano l'ordine pubblico e la pubblica economia. Tali sono tutti i delitti contro la giustizia pubblica, contro la tranquillità e sicurezza pubblica, contro la salute pubblica, contro il commercio pubblico, contro l'erario pubblico, contro la continenza pubblica, contro la polizia pubblica, e contro l'ordine politico.

IV. Oltre le obbligazioni che ogni individuo della società implicitamente contrae, nascendo, colla sua patria come cittadino, ve ne sono altre che non si contraggono da lui che in quel momento, nel quale affidata gli viene una parte della pubblica confidenza. Tutt'i delitti contrarii a queste obbligazioni, tutti gli abusi che si possono fare di questa confidenza, saranno compresi nella quarta classe che noi chiameremo dei delitti contro la fede pubblica.

V. È chiaro che le obbligazioni contratte da una nazione verso di un’altra sono nel tempo istesso contratte da tutti i suoi individui. 0 che queste dipendano dal dritto universale delle genti, o da' particolari trattati di una nazione con un’altra, ogni privato cittadino vi è obbligato come la nazione intera; egli non può violarle, senza esporre a' maggiori rischi la pubblica tranquillità. Tutte le violazioni dunque di queste nazionali obbligazioni saranno comprese in questa quinta classe che si chiamerà de'    delitti contro il dritto delle genti.

VI. Tra la città e il cittadino vi è una società intermedia, e questa è la famiglia. Capo di questa è il padre, e da moglie e i figli ne sono gl'individui. La natura ha dettate le prime leggi di questa società; essa ha stabiliti i dritti e le obbligazioni reciproche de'    suoi componenti. Le civili leggi non debbono far altro che combinare questi dritti e queste obbligazioni coll’ordine della società generale, e dare alle naturali leggi il suggello della loro sanzione. In questa classe, dunque, che noi distingueremo col nome de'    delitti contro l'ordine delle famiglie, si comprenderanno tutte le violazioni di quelle familiari obbligazioni, nelle quali le leggi debbono interessarsi, e vi uniremo anche gli attentati degli estranei contro questi preziosi diritti. Il parricidio, l’infanticidio, il lenocinio ne' parenti, l’adulterio, l’incesto, il ratto ed altri delitti di questa natura, saranno compresi in questa classe.

VII. Da' delitti che più direttamente interessano tutto il corpo sociale o i suoi principali elementi che sono le famiglie, passando a quelli che più direttamente offendono i privati individui, noi collocheremo nella settima classe tutti gli attentati contro la vita e la persona del cittadino.

VIII. Nell'ottava, tutti gl'insulti recati alla sua civile e naturale dignità.

Nella nona, tutte le insidie tramate contro il suo onore.

Nella decima finalmente, tutti gli attentati contro la sua proprietà.

Ecco la generai divisione de'    delitti, dalla quale dipender dee la loro particolare ripartizione, o sia l’analisi de'    delitti che in ciascheduna di queste classi debbono collocarsi. Si cominci dunque da quelli che annoverar si debbono nella prima.


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CAPO XLIV

Prima Classe - De’ delitti contro la Divinità

Platone, facendo l’analisi de'    delitti che offendono la Divinità, mette nel primo luogo i seguenti. È un empio, dice egli, colui che nega l’esistenza di un Dio; è un empio colui che dice esservi un Dio, ma che non cura ciò che gli uomini fanno sulla terra; è un empio colui che crede che la Divinità si plachi co' doni. (1) Questa idea è sublime; noi non dobbiamo far altro che applicarla ai principii antecedentemente esposti, per dedurne i delitti che, tra quelli in questa prima classe compresi, richiamar debbono il maggior rigore delle leggi.

Si è detto che ogni individuo della società ha alcuni doveri verso la Divinità come uomo, e ne ha altri come cittadino; si è detto che le leggi, lasciando alla Divinità il punire la violazione de'    primi, debbono riserbare la loro sanzione per i secondi. Ogni trasgressione, dunque, di uno di questi doveri, è una violazione di un patto, e se a misura che il patto che si viola, ha una maggiore influenza sull'ordine sociale, cresce il valore del delitto, col quale si viola; a misura dunque che il dovere verso la Divinità, che si prescrive al cittadino, ha una influenza maggiore sull'ordine sociale, il peso della trasgressione diviene maggiore, cresce il valore del reato, crescer deve il rigore della pena.

Ritorniamo all'idea di Platone. Un uomo che nel segreto del suo cuore nega l’esistenza della prima causa; un uomo che ne ammette l’esistenza, ma crede che la Divinità non curi ciò che gli uomini fanno sulla terra; un uomo che sostituisce all'idea delle perfezioni del supremo Nume quella di un essere avido che espone venali le sue grazie, vende la sua giustizia e non si placa, che co' doni e le offerte; un uomo, io dico, che, sedotto da uno di questi errori, non cerca di sedurre gli altri, sarà un empio come uomo, ma non sarà un empio come cittadino. Se, malgrado queste idee, egli rispetta la patria religione ed il pubblico culto, ancorché l’autorità pubblica sappia il suo errore, sarebbe essa nel dritto di punirlo? Qual è il patto che egli viola; quale mai il sociale dovere che conculca; qual'è la legge che trasgredisce?

Se essa lo trascina innanzi all'altare; se innalza nell’atrio del tempio un rogo; se al cospetto di un popolo credente essa immola alla Divinità quest’essere che la nega, o non la conosce; qual è il bene che può nascere da questo male, giacché è sempre un male, ed un gran male la perdita di un uomo? Se si trattasse di vendicare la Divinità, io la vendico, potrebbe dire la legge. Ma la Divinità ha essa bisogno di noi per vendicare i suoi torti? Supporre in lei questa impotenza o questo bisogno non sarebbe forse l’istesso che offenderla nel tempo istesso che si cerca di placarla o di vendicarla? Se tra gli spettatori vi è un uomo che pensa come l’infelice che si tormenta, si correggerà egli dal suo errore? Le grida di quest'infelice, invece di palesare alla sua ragione il suo errore, non inaspriranno forse il suo cuore contro la legge che confonde le opinioni colle azioni, gli errori co' delitti? L’empio istesso che muore, non mescolerà forse co' suoi gemiti le più esecrabili bestemmie; non manifesterà forse le sue opinioni nel momento istesso che non ha più alcun interesse nell’occultarle; non diverrà forse reo anche come cittadino, quando non lo era che come uomo?

I suoi tormenti non daranno forse alla Divinità istessa molti inimici, invece di darle un adoratore di più? Terribile e funesta Inquisizione, tu sei presente alla mia immaginazione in questo momento. La Religione divina, in mezzo alla quale sei nata, avrebbe forse avuto tanti detrattori e tanti inimici, se i tuoi roghi avessero bruciati i tuoi ministri, invece di bruciare le tue vittime? Questa Religione che colla sua morale e co' suoi dogmi perfeziona r uomo, forma il cittadino, ed atterrisce il tiranno, non vedrebbe forse sotto i suoi vessilli combattuto l’errore da que’ filosofi istessi che tu hai armati contro di lei? Se tu non avessi dati tanti martiri all'errore, quanti proseliti di più avrebbe avuto la verità!

Mostro una volta terribile, ma oggi fuggitivo ed impotente, io inveirei maggiormente contro di te, se il mio Re non avesse in questi ultimi tempi incenerito il tuo simulacro istesso ne' suoi dominii, e se i lumi del secolo, proscrivendoti da tutto il resto dell'Europa, non ti riducessero a tenere un solo e vacillante piede nelle parte più estrema di essa, nella quale ogni piccolo urto basterà, io spero, o per gittarti negli abissi del mare, o per respingerti ne' deserti dell'Affrica, dove il dispotismo, la ferocia e l'ignoranza ti daranno forse un più degno, ma meno scandaloso asilo. Che mi si perdoni questa digressione: l’occupazione di colui che scrive sarebbe troppo penosa, se non gli fosse mai permesso di cedere agli urti del sentimento che l'opprime.

Riprendiamo l'ordine delle nostre idee. Le leggi, si è detto, non debbono punire l'empietà nell'uomo, ma debbono punirla nel cittadino. I delitti contro la Divinità non debbono soggiacere alla sanzione delle leggi, se non quando divengono delitti civili. finché l'ateo rispetta il patrio culto, e non cerca de'    proseliti al suo errore, l'ateo non viola alcun patto e per conseguenza non dee perdere alcun dritto; ma se, dimentico de'    doveri che ha contratti colla società, egli cerca di comunicare agli altri il suo errore, egli cerca di trovare de'    compagni alla sua empietà; se egli diviene l’apostolo dell'ateismo o il conculcatore del pubblico culto, in questo caso la legge dee dichiararlo reo e sottoporlo alla pena che avrà riserbata per questo delitto. Questa pena, si è detto, dovrà esser determinata dall'influenza che ha il patto che si viola, sull'ordine sociale. Or sotto questo aspetto, considerate le violazioni di tutti que’ patti che han per oggetto i doveri civili verso la Divinità, le maggiori, a mio credere, sono quelle che si raggirano intorno alle tre empietà da Platone enunciate.

Le due prime, distruggendo l'una ogni idea della Divinità, col negarne l’esistenza, e l’altra, distruggendo quel principio, senza del quale l'opinione dell'esistenza di un Dio è interamente inutile, distruggono il fondamento istesso di ogni Religione; la terza ne fa un istrumento di delitti. La dottrina dell’espiazione male intesa ha in tutti i tempi rovinata la morale e corrotti i costumi de'    popoli. Questa ha fatto più male dell’ateismo istesso. Chi sa l’istoria non condannerà questa proposizione. Nella classe, dunque, de'    delitti contro la Divinità noi metteremo nel primo luogo le tre empietà di Platone, ma con ordine inverso tra loro. Noi metteremo nel primo luogo la terza, nel secondo la seconda e nel terzo la prima. Noi metteremo l'empietà dell’ateo seduttore nell'ultimo luogo, perché l'ateismo è molto più difficile a trovar dei seguaci che non lo sono gli altri due errori; e tra questi due, il sistema di Epicuro è meno espansibile di quello dell'espiazione male intesa. A questa ragione se ne aggiunge un’altra, per la quale noi crediamo che la terza specie di empietà di Platone debba mettersi nel primo luogo e debba esser punita con maggior rigore delle altre due. Questo è l’interesse che si può trovare nel promuovere la dottrina di questa erronea espiazione, interesse che non si trova nell’apostolato degli altri due errori. L’istoria è una costante prova di queste verità.

Da questi primi delitti contro la Divinità io passo agli altri d’inferior valore. Il primo tra questi è il disprezzo ingiurioso del pubblico culto e della patria credenza. Bisogna distinguere il non conformista dal derisore o seduttore. Il primo viola doveri religiosi, il secondo viola doveri religiosi e civili. Il primo non dee dunque soggiacere che alla sanzione delle leggi ecclesiastiche, ed il secondo a quella dell'ecclesiastiche e delle civili. (1)

Cicerone, nel suo celebre trattato delle leggi, ci fa bastantemente vedere che questa verità non isfuggì a' suoi luminosi sguardi. Mescolando egli alcuni frammenti delle antiche leggi

della Romana Repubblica con alcune istituzioni attinte dalla greca filosofia, ci dà una raccolta di leggi religiose molto analoghe a questo gran principio. Osservando queste leggi, noi ne troviamo alcune prive di sanzione penale, ed altre accompagnate dalla minaccia delle pene pe’ trasgressori. La prima di queste leggi, regolando il culto, non stabilisce pena alcuna; ma lascia agli Dei la cura di punirne la violazione.(1)Noi ne troviamo molte altre dirette all'istesso oggetto, prive affatto di sanzione. La proibizione di adorare privatamente deità nuove o straniere dal pubblico non ricevute; (2) quella d’innalzare altari al vizio; (3) quella di ammetter le donne a' sacrificii notturni, e d’iniziarle a' misteri; (4) la legge che prescrive la stabilità del culto privato nelle famiglie; (5) quella che regola la religiosa osservanza delle feste e la maniera di solennizzarle; (6) la legge finalmente che proibisce all'empio di placare la Divinità co' doni, (7) sono tutte prive di sanzione penale. Noi ne troviamo al contrario delle altre, dove la pena è indicata. Il ladro sacrilego è condannato come parricida; (8) lo spergiuro è punito coll’ignominia; (1) l’incesto sacrilego coll’estremo supplicio;(2)il disprezzo alle determinazioni degli Auguri con una pena capitale.(3)Senza difendere l’eccessivo rigore di alcune di queste pene, io ammiro la distinzione fatta tra le leggi che andavan prive di sanzione penale, e quelle ove la pena andava indicata. Le prime riguardavano doveri puramente religiosi; le seconde riguardavano doveri religiosi e civili. Dove non vi era delitto civile, non vi era pena. Dove vi era il delitto religioso unito al delitto civile, ivi era la pena. Se da tutti i legislatori si fosse sempre fatta questa distinzione, quanti errori di meno ci offrirebbero i nostri Codici! Nella Sassonia, nella Fiandra, nella Franca Contea non si sarebbe condannato a morte colui che rompeva il digiuno nella quaresima; noi non troveremmo uno de'    più terribili monumenti della superstizione nell'archivio di un piccolo paese della Borgogna, (4) dove si conserva ancora il processo di un infelice che fu condannato a morte per essersi sottratto dalla fame colla coscia di un cavallo, in un giorno di sabato; le ordinanze di Francesco I e di Arrigo II non riempirebbero ancora di orrore la Francia; ed alcune leggi inserite ne' due titoli del Codice: De summa Trinìtate, e De Haereticis et Manichaeis non ci mostrerebbero le funeste conseguenze della superstizione nell’Impero, e la condizione infelice de'    tempi, ne' quali furono dettate.

Se il disprezzo ingiurioso del pubblico culto e della patria credenza occupar deve il quarto luogo nella classe derelitti contro la Divinità, la promulgazione del fanatismo deve occuparne il quinto.

Colui che accende l’immaginazione de'    credenti, e fa loro vedere de'    doveri e delle colpe che non esistono; colui che insegna delle pratiche che sono contrarie alla morale, e perniciose allo Stato; colui che dà alla forma quel che toglie alla materia; colui che, formando delle coscienze erronee, fa loro confondere i consigli co' precetti, il fanatismo colla pietà: costui, io dico, oltraggia la Religione e turba lo Stato; la rende ridicola pel savio, e pericolosa pel volgo. Le leggi non potrebbero mai essere soverchiamente vigilanti contro i delitti di questa specie. Esse dovrebbero distinguere quelli che procedono da uno spirito persecutore, da quelli che, senza estendersi fino a questo eccesso, si riducono ad ispirare alcune erronee idee sul sistema della Religione. Il grado distinguerà il valore di questi delitti, e la pena si proporzionerà alla qualità ed al grado.

Io passo a' sacrilegii che occuperanno il sesto luogo in questa classe.

Il sacrilegio è un abuso, una profanazione delle cose sante, un delitto commesso contro le persone o le cose al pubblico culto consecrate. Le pene più orribili sono dalle leggi di una gran parte de'    popoli d’Europa minacciate a questa specie di delitti.

Noi troviamo maggiormente punito il violatore di un vaso sacro che il parricida; il ladro sacrilego più del ladro assassino; colui che ruba i sacri arredi più del sicario che per una vile mercede toglie la vita ad un uomo, ed un cittadino allo Stato.

Effetti funesti della superstizione e dell’ignoranza, e fino a quando seguirete voi a deturpare i nostri codici, e ad oltraggiare la Divinità, rendendola la causa di questi orrori? Dovremo noi credere che la Divinità sia maggiormente offesa dalla perdita di un vaso sacro, che da quella di un uomo? Se per impedire che un infelice perisse dalla fame, bisognasse spogliare tutti i templi dell'universo, la santità della nostra morale non ci obbligherebbe forse a quest’operazione? Nel tribunale della ragione, ch'è anche quello della Divinità, colui che ruba ad un infelice quello ch'era necessario per la sussistenza della sua famiglia, non è forse più reo di colui che ruba un sacro arredo? Quando il solo ornamento de'    templi era la Divinità che l’abitava; quando si sacrificava nel legno o nella creta; quando le mani de'    sacerdoti erano più pure e i sacri vasi meno risplendenti; quando il trono del Pontefice era di pietra e le sue tuniche eran di ruvida lana; quando, io dico, l’oro e l’argento non era ancora penetrato ne' templi, la Divinità era forse meno onorata? Con un candelabro di più o con un candelabro di meno, il culto del supremo Essere sarà forse alterato?

Queste riflessioni che ci debbono indurre a condannare l’eccessivo rigore delle leggi contro questa specie di delitti, non ci debbono però ugualmente indurre a crederne inopportuna una più moderata sanzione. Ma siccome vi sono varie specie di sacrilegii, così è ragionevole che si distinguano quelli che sono più gravi da quelli che lo sono meno. La progressione delle pene in quest’istessa specie di delitti sarà con questo mezzo indicata al legislatore.

Ne’ sacrilegii la profanazione delle cose al pubblico culto consecrate è o il fine dell’azione, o n’è l’effetto. Quando la profanazione n’è il fine, il delitto è maggiore; quando n’è l’effetto, il delitto è minore.

Se il sacrilego entra in un tempio, sale sull’ara, gitta a terra, calpesta, conculca le statue e le immagini che fanno l’oggetto del pubblico culto, costui è più reo del sacrilego che ruba un vaso sacro per venderlo. Nel primo caso la profanazione è il fine dell’azione; nel secondo n’è l’effetto. Nel primo caso il disprezzo pel pubblico culto è maggiore che non lo è nel secondo.

Nel primo caso dovrà dunque esser maggiore la pena che nel secondo. Questa conseguenza è semplicissima; ma qual'è la differenza, si domanda, che passar deve fra la pena del ladro sacrilego, per esempio, e quella del semplice ladro?

L'unione della pena ecclesiastica colla pena civile; la privazione di tutti o di una parte de'    vantaggi che dà la Religione; l’espulsione de'    templi;la privazione del consorzio de'    fedeli per sempre o per un dato tempo; l’esecrazione ed altre simili pene formano gli oggetti dell’ecclesiastica sanzione. Tutte o una parte di queste pene, unite alla pena civile del furto, formeranno la differenza tra la pena del ladro sacrilego e quella del semplice ladro.

Quello che si è detto del furto sacrilego, si deve applicare anche all’omicidio sacrilego, all’incesto sacrilego e a tutti que’ delitti, che più gravi divengono per la qualità sacra o dell'oggetto sul quale cadono, o del luogo nel quale si commettono. Ecco ciò che la ragione ci detta sulla direzione della sanzione penale di questa specie di delitti.

Da' sacrilegii io passo allo spergiuro, che occuperà il settimo luogo nella classe de'    delitti contro la Divinità.

Le presenti leggi dell’Europa distruggono con una mano ciò che cercano di sostenere coll’altra. Esse abusano de'    giuramenti e puniscono quindi ferocemente lo spergiuro; esse promuovono un delitto che puniscono quindi con soverchio rigore; esse sono ingiuste, feroci ed inutili nel tempo istesso. Ne’ tempi liberi di Roma l’infamia Censoria (1) era la sola pena dello spergiuro. (2) In niun paese, in niun tempo, presso verun popolo, il giuramento ebbe maggior forza, lo spergiuro fu più raro. L’economia, colla quale se ne faceva uso, conservava il vigore di questo sacro vincolo, così indebolito presso di noi dall'abuso che se n’è fatto. Che si restringa dunque l’uso de'    giuramenti, e che si diminuisca la pena dello spergiuro. La semplice infamia farà in questo caso più che tutte le pene che oggi vi sono minacciate. Seguiamo anche, riguardo a quest’oggetto, i consigli del divino Platone, e ricordiamoci che ogni pena minacciata contro un delitto è sempre ingiusta, finché non si sono adoperati tutt’i mezzi per prevenirlo.

«Io lodo Radamente, dice egli, che riposava con tanta fiducia sui giuramenti de'    litiganti, e che con tanta facilità e sollecitudine metteva termine con questo mezzo a' litigi. Ne’ suoi tempi tutti credevano agli Dei, e molti se ne crev devano i discendenti.

Ma oggi che le opinioni degli uomini relative agli Dei si sono mutate; oggi che vi sono molti che negano la loro esistenza; altri che credono ch'essi non curano ciò che gli uomini fanno sulla terra, ed altri che credono che il loro sdegno si plachi co' doni; oggi questo cangiamento nell’opinione deve produrne uno nelle leggi. Lasciamo a' giudici il giurare; esigiamo il giuramento d’imparzialità dagli elet tori de'    Magistrati, da' giudici della musica e del canto, da' distributori de'    premi ne' giuochi gimnici ed equestri; sottomettiamo a questo sacro vincolo coloro che non hanno o aver non dovrebbero interesse di mentire; ma guardiamoci dal moltiplicare il numero degli spergiuri, coll'esigere il giuramento da coloro che noi possiam presumere interessati ad abusarne. (1)»

Io non mi distendo più sopra quest'oggetto, per non ripetere ciò che ho detto nella prima parte di questo libro. (2)

Passiamo alla bestemmia, che occuperà l’ultimo luogo di questa classe. Io comprendo sotto questo nome le imprecazioni contro la Divinità o contro gli oggetti del pubblico culto. La totale impunità mostrerebbe l’indifferenza del legislatore su questa specie di delitti; il soverchio rigore ne mostrerebbe l’ignoranza, la ferocia, la superstizione; una moderata pena di quelle che noi chiamate abbiamo correttive piuttosto che afflittive; una pena che non richiedesse le solennità di un ordinario giudizio, ma che si desse dal magistrato incaricato, secondo il nostro piano, (3) alla conservazione della pace o del buon ordine nel suo distretto; una pena, io dico, che non eccedesse questi confini, sarebbe giusta ed opportuna.

Giustiniano, che credeva di espiare i delitti del trono cogli eccessi della superstizione; Giustiniano, che immolava tesori a Teodora e umane vittime alla Divinità; Giustiniano, del quale lo Storico parlerà sempre con disprezzo, ed il Filosofo con orrore; Giustiniano, io dico, spinse tant’oltre la sua superstiziosa severità contro questa specie di delitti, che vi destinò la pena di morte. Egli minacciò della sua disgrazia iMagistrati che avessero trascurato di far eseguire una legge così feroce. (4)

Una legge simile venne promulgata in Francia sotto il governo di Filippo Augusto. Questo principe, che cominciò il suo regno colla proscrizione degli Ebrei e de'    Commedianti, volle manifestare anche il suo zelo religioso col condannare ad un’ammenda di pochi soldi i nobili, e ad essere annegati gl’ignobili che profferite avessero alcune imprecazioni fin d’allora frequenti nella bocca de'    Francesi. (1) Questa legge che ci fa nel tempo istesso vedere l’indipendenza de'    grandi, la depressione del popolo, e la superstizione di que’ tempi, rimase fortunatamente priva di esecuzione; ma non ebbe l’istessa sorte quella di San Luigi, colla quale si prescriveva che si forasse la lingua o il superiore labbro a colui che veniva convinto dell’istesso delitto. Vi volle tutta l’autorità di un Papa (2) per indurre questo Principe a moderare una pena così obbrobriosa; e vi vogliono più secoli di lumi per espiare questi errori dell'ignoranza.

Io non parlo delle pene che si trovano minacciate contro la magia ed il sortilegio. Il comune dritto ci offre su quest’oggetto leggi di sangue e di fuoco. Le leggi municipali della maggior parte delle nazioni europee non hanno di che invidiare, riguardo a questo punto, la ferocia di quelle del moribondo Impero. Io non voglio maggiormente funestare chi legge con nuovi orrori. Mi riserbo di parlarne nel capo che avrà per oggetto l’analisi de'    delitti che il legislatore non dee punire. Sospendiamo dunque la curiosità del lettore e rivolgiamo i nostri sguardi alla seconda classe de'    delitti: quelli contro del Sovrano. (3)


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CAPO XLV

Seconda Classe - Delitti contro il Sovrano, e prima di ogni altro:
Esposizione dell’antica e moderna legislazione riguardo a quest'oggetto

Il funesto cambiamento della condizione del Popolo e della sorte di Roma; la degenerazione del Governo e le vicende dell'Impero; gl'interessi opposti dell'ambizione e della libertà; la combinazione mostruosa delle antiche massime della Repubblica co' posteriori principii del dispotismo; la violenza della tirannia e gli spaventi; i sospetti e gli odii de'    tiranni; il contrasto continuo tra l’amor del potere che dettava le leggi e l’odio della dipendenza ch'era sempre da presumersi che si conservasse vigoroso in una parte de'    concittadini di Bruto; il passaggio rapido dell’impero in tante mani diverse, per lo più feroci, spesso usurpatrici, molte volte deboli e qualche volta virtuose; il concorso, io dico, di tutte queste cause, ha prodotto in quella parte della Romana legislazione, che riguarda i delitti di Maestà, quelle contraddizioni, quegli orrori, quelle ingiustizie che infelicemente o sono state adottate o aumentate in una gran parte de'    codici criminali dell'Europa.

Finché sui fondamenti della politica libertà si sostenne la civile sicurezza, la classe de'    delitti di Maestà fu nella Romana legislazione così ristretta, come dovrebbe esserlo. Il Proditore che la legge di Romolo immolava alle furie infernali, e del quale ciascheduno poteva esser impunemente l’omicida, era il vero traditore della patria, il vero reo di Maestà. (1)

Alcuni frammenti delle decemvirali tavole, la legge Gabinia, l'Appulea e la Varia, ci mostrano quali erano i delitti che fino alla dittatura di Silla furono in questa classe compresi. Suscitare inimici alla Repubblica, o dare in mano degli inimici un cittadino; (2) turbare la sicurezza pubblica colle assemblee notturne, (3) o colle clandestine unioni; (1) eccitare delle sedizioni tra i figli della patria, (2) o determinare gli alleati ad armarsi contro di essa: (3) ecco a che si riducevano i delitti di Maestà a' tempi di Silla.

Questo mostro che non potè mettere sul suo capo la corona, ma che distrusse la libertà; che gittò i fondamenti del dispotismo, senza poterne perfezionare l'edilizio; che sparse i semi della tirannia, senza partecipare de'    suoi frutti; che combatté due volte contro i suoi concittadini, conquistò due volte la sua patria e abdicò finalmente la dittatura: Silla, io dico, fu il primo a violare i giusti confini, ne' quali la classe de'    delitti di Maestà si era fino al suo tempo ristretta. La celebre legge di Maestà che porta il suo nome, (4) fu l’urto più forte che fino a quel tempo dato si fosse alla civile libertà. Tra i delitti ch’egli aggiunse a questa classe., ve ne sono alcuni che mostrerebbero bastantemente l’insidioso oggetto della legge, se l’impunità da essa conceduta a' calunniatori in questa specie di accuse non ce lo manifestasse evidentemente. Disubbidire agli ordini di un magistrato o essergli d’impedimento nell'esercizio delle sue funzioni; condurre senza ordine del Senato un’armata fuori de limiti della sua provincia, o intraprendere una guerra di sua propria autorità; sedurre l’esercito; perdonare a' capi degl'inimici presi nella guerra, o restituir loro per danaro la libertà; rimandare impunito un capo di ladri dopo averlo avuto nelle mani; coltivare l’amicizia di un Re straniero essendo cittadino di Roma; non aver fatta rispettare l’autorità del popolo romano nell’esercizio di qualche carica: ecco i nuovi delitti di Maestà in questa legge compresi. (5)

Basta riflettere all’estensione arbitraria che dar si poteva al primo ed all’ultimo di questi articoli, per vedere che una gran parte de'    delitti non solo dei più piccioli, ma anche una negligenza, una disgrazia, poteva divenire un delitto di Maestà. Che si aggiunga a questo l'impunità concessa a' calunniatori, e la pena stabilita pe’ delinquenti, (1) e si vedrà che l'oggetto della legge altro non era che di favorire colle sue sanzioni le proscrizioni del tiranno.

Il dispotismo che non si forma tutto ad un tratto, ma ch'è molto rapido ne' suoi progressi, non si fermò a questi primi passi ch'erano, per altro, bastantemente estesi. La legge di Silla fu confermata da Cesare, estesa da Augusto e portata sino all'eccesso da Tiberio. Il primo de'    Cesari non fece altro che togliere l’appellazione al Popolo da' decreti del Pretore, al quale la questione di Maestà era affidata.(2)Questo fu un nuovo urto che Silla non potè dare alla civile libertà, ma di cui si contentò di preparare i materiali. Augusto fece molto più. Egli rinnovò tutte le leggi che si erano fatte contro i delitti di Maestà; accrebbe la severità delle pene, e vi aggiunse nuovi altri delitti. I giureconsulti Ulpiano, (3)Marciano, (4)Scevola, (5)Venuleo, (6)Modestino, (7)Papiniano, (8) Ermogeniano (9)ci han conservato i diversi capi di questa celebre legge, che per brevità io non rapporto. Basta sapere che il vendere o bruciare una statua dell'Imperatore già consacrata, e il menomo insulto recato alle sue immagini, divennero delitti di Maestà. I libelli famosi furono anche compresi in questa classe, (10)e la penna del satirico ardito fu confusa colla spada del parricida e del ribelle. Silla si era contentato di concedere l’impunità legale a' calunniatori. Augusto, non contento di confermare questa scandalosa eccezione, ve ne aggiunse un’altra, colla quale esteso veniva il dritto d’accusare all'infame, al servo

contro il proprio padrone, ed al liberto contro colui che data gli aveva la libertà. (1)Egli volle di più, che i servi di coloro, che accusati venivano di Maestà, fossero al pubblico venduti, e venissero ammessi a deporre contro di loro. Egli si servì di questo mezzo per eludere l’antica legge che proibiva a' servi di far da testimoni ne' delitti de'    loro padroni, legge che favoriva nel tempo istesso l'ordine delle famiglie e la civile libertà. (2) I rispettosi riguardi di Augusto verso una libera costituzione che aveva egli stesso rovesciata, erano dettati dal timore ed erano dall'istessa passione sovente distrutti. La funesta rimembranza della morte di Cesare e la venerazione, nella quale era in Roma la memoria di Bruto, non gli permettevano né di violare manifestamente, né di rispettare riguardo a questi oggetti le antiche massime della Repubblica. Tiberio fu più ardito nel disprezzarle, perché trovati aveva i Romani più avvezzi al giogo che Silla, Cesare ed Augusto avevano loro imposto e che l'abito di più anni reso aveva meno pesante. Senza abolire la legge di Augusto, senza far una nuova legge di Maestà, egli non ebbe a far altro che dare a' diversi capi della legge Giulia quell’estensione, della quale erano suscettibili, per portar la cosa a quell'eccesso, al quale egli la condusse. Egli, in fatti, estese con questo mezzo alle parole, a' segni, alle imprecazioni, alle azioni istesse più indifferenti il delitto di 'Maestà. Molti cittadini si trovarono rei di questo delitto per aver battuto uno schiavo innanzi alla statua di Augusto, per essersi spogliati e rivestiti innanzi all’istesso simulacro, per aver portato una moneta o un gioiello colla sua effìgie in qualche luogo destinato a soddisfare a' bisogni della vita o a' piaceri della voluttà. (3) Un magistrato di una colonia espiò col maggior rigore della pena, a questi delittiminacciata, la picciola vanità di permettere che decretati gli fossero alcuni onori nell’istesso giorno, nel quale il Senato gli aveva conceduti ad Augusto. (4)

Un discorso profferito nella confidenza dell’amicizia, un sospiro, una lagrima gittata sulla sorte di Roma, erano tanti delitti di Maestà che si espiavano coll'esilio o colla deportazione. (1) È terribile la dipintura che Tacito ci ha lasciata di questi orrori, e la sua robusta penna ci ha in poche parole mostrata l’impossibilità, nella quale era anche l’uomo più avveduto di garantirsi da queste accuse. (2)

Questa breve, ma funesta esposizione delle leggi di Maestà, che furono successivamente fatte da Silla e da' primi Cesari in Roma, basterà, io spero, per mostrarci quanto impuro sia il fonte, dal quale la più gran parte delle Nazioni dell’Europa attinte hanno le loro leggi su questa specie di delitti.

Ma chi lo crederebbe! Queste acque che una sorgente così immonda ci ha tramandate, invece di purificarsi nel loro corso, si sono maggiormente imbrattate, a misura che si sono sparse pe’ vasti spazi che contengono le moderne Monarchie dell’Europa. Una Costituzione creduta la più libera, ma della quale noi abbiamo altrove (3) bastantemente mostrati i vizii ed indicati i rimedii, ha in questa parte della sua giurisprudenza leggi molto più barbare ed ingiuste di quelle che la nascente tirannia avesse mai prodotte in Roma.

Senza parlare di ciò che avvenne in Inghilterra sotto il regno infelice di Riccardo II, lo statuto del quale dichiarava delitto di alto tradimento la semplice intenzione di uccidere o di deporre il re, quantunque alcun’azione non esistesse che indicar potesse questo detestabile disegno; senza parlare, io dico, delle leggi di Maestà fatte sotto il governò di questo principe, che sperimentò egli istesso quanto son deboli le leggi troppo forti per prevenire i delitti; (4) senza neppur ricorrere agli statuti fatti su questo oggetto in quel funesto periodo del Governo Britannico, che si raggira dopo il governo di Arrigo IV fino al regno di Maria; e più d’ogni altro, di ciò che avvenne sotto il sanguinario regno di Arrigo VIII, il quale non altrimenti che Augusto e Tiberio, rendendo il Parlamento complice de'    suoi attentati, e ministro della sua ferocia, moltiplicò tanto il numero de'    delitti di alto tradimento, che il furto di un bestiame nel paese di Galles; un discorso privatamente tenuto sulla legittimità del matrimonio del re con Anna di Cleves o contro la sua supremazia; il profetare sulla morte del re; il silenzio dettato dal pudore di una fanciulla, che, avendo perduta la sua integrità, accettata avesse la mano del re senza avvertirlo della sua disgrazia, furono insieme con molti altri casi a questi simili compresi sotto il terribile nome d’alto tradimento; (1) senza, io dico, ricorrere alle leggi di questi tempi di turbolenze e di tirannide, e senza richiamare la riflessione di colui che legge, su questi periodi infelici dell’istoria di questo Popolo; noi abbiamo di che provare la nostra proposizione con quel che oggi è ancora in vigore, malgrado i progressi che la Gran Brettagna ha fatti nella sua libertà, e le correzioni che si son portate nella sua legislazione.

Chi crederebbe che nel secolo decimottavo e nel paese dell’Europa, nel quale il popolo è visibilmente penetrato dall’idea della sua libertà, debbano ancora essere in vigore le leggi che dichiarano delitto di allo tradimento il sostenere la giurisdizione del Papa; (2) il dimorare per tre giorni in Inghilterra senza uniformarsi al culto della Chiesa Anglicana, essendo suddito della Gran Brettagna e prete papista; (3) il lasciare di riconoscere la supremazia del re e riconciliarsi colla Sede Apostolica o aver indotto un altro a questo cangiamento; (4) spargere o costruire delle false monete o contraffare il suggello o la firma del re; (5) costruire, vendere, comprare o custodire gl’istrumenti atti alla monetazione o estrarli dal luogo, ove sono dalla pubblica autorità adoprati; (6) alterare il valore delle monete o limandole (7) o dando a quelle di argento il color d’oro ed a quelle di rame il colore di argento;sostenere con qualche scritto pubblico che il re in Inghilterra, anche di accordo col Parlamento, non abbia il dritto di disporre della successione al trono; (8) rendere qualche servizio al pretendente o ad alcuno de'    suoi figli, anche senza l’intenzione di richiamare questa famiglia al trono, dal quale fu cacciata: (1) chi crederebbe, io dico, che in questo secolo e nella Gran Brettagna questi delitti siano ancora dalle leggi chiamati col nome di alto tradimento, e confusi col parricidio, coll’assassinio del re, colla vera ribellione? Chi crederebbe che in questo secolo e nella Gran Brettagna l’augusto corpo che fa le leggi e rappresenta la sovranità, lasci ancora in vigore l’assurda ed abbominevole legge, che ne' casi moltiplicati nella Britannica legislazione, che si chiamano di picciolo tradimento, dà al principe il più assurdo ed il più abbominevole de'    dritti? I rei saranno condannati a morte, dice la legge, ed il re avrà i loro beni per un anno ed un giorno, e può commettere tutt'i danni ch'egli crede potervi fare, il che si chiama l’anno e il giorno ed il guasto del re.

Chi crederebbe, io dico, che in questo secolo e nel paese ove si detronizzano i re, e si fanno così spesso impallidire i ministri, vi sian poi in questa parte della sua legislazione tanti sintomi del dispotismo e della tirannia? Quale dovrà essere su quest'oggetto lo stato della legislazione degli altri popoli, se quello della Gran Brettagna è così deplorabile? Ahi! squarciamo per un momento il velo che cuopre questa parte della legislazione europea, e confermiamoci nell’opinione tanto vera, quanto spiacevole, che tra noi la tirannia esiste nelle leggi, se non si manifesta sui troni.

Qual’è la legge di Silla, di Augusto o di Tiberio che paragonar si possa con quelle che han vigore in una gran parte dell’Europa? Chi di questi tiranni ha mai permesso che nei delitti di Maestà il figlio accusi il padre, ed il padre il figlio? Augusto concesse, è vero, questo dritto all’infame, al servo contro il proprio padrone, ed al liberto contro colui che gli aveva data la libertà; (2) ma egli non ardì di estenderlo fino a figli contro i. padri, ed a' padri contro i figli. Egli disprezzo l’ordine civile e l’ordine domestico, ma non conculcò le leggi del sangue e quelle della natura. Il buon Trajano fece anche mettere in disuso la determinazione di Augusto; (3) e noi non solo l’abbiamo adottata, ma l’abbiamo così vergognosamente estesa! Quale inoltre è la legge di Silla, di Augusto o di Tiberio, che stabilisca come una regola generale, che nei giudizj di Maestà receder si possa da tutte le regole del dritto? (1) Sotto l’impero di Tiberio, sotto quello del feroce Domiziano istesso, che furono i più clamorosi pe’ giudizj di Maestà, non si ardì di stabilire una regola così assurda e dispotica. (2)

Giudici iniqui e corrotti, sotto il pretesto di vendicare la maestà del popolo romano, violata nella persona del suo primo Magistrato, immolavano, è vero, una quantità prodigiosa di vittime a' sospetti ed agli odj del tiranno; per favorire le sue mire si era, è vero, trasferita dal Popolo al Senato la cognizione di questi delitti, che sino al tempo di Tiberio giudicati si erano ne' Gran Comizi; ma, malgrado tutto questo, quando non col pugnale del sicario, ma colla spada della legge si voleva trucidare un infelice, l’estrema forma de'    giudizj era rispettata; l’accusato era difeso; le solennità giudiziarie, che proteggevano la sua innocenza, erano ancora in vigore, e quando egli soccombeva; malgrado i loro soccorsi, il vizio era negli uomini e non nelle leggi.

Noi non troviamo neppure nelle leggi di questi mostri quella che in Francia ordina a' Magistrati di sentire, ne' giudizj di Maestà, anche i testimoni che sono notoriamente inimici dichiarati dell’accusato. Silla, come si è veduto, ammise in questi giudizj le testimonianze delle donne;(3) Augusto quella de'    servi contro i padroni, e per eludere l’antica legge, egli ordinò che fossero, prima di deporre, al pubblico venduti;(4)ma né l’uno, né l’altro, né alcuno de'    loro successori estese questa eccezione fino agl'inimici dell'accusato.

Niuno di essi ebbe neppur la feroce impudenza di stabilire ciò che forma uno degli articoli della giurisprudenza Gallicana, e che infelicemente è stato più di una volta messo in esecuzione. Ne’ casi di maestà, dice la legge, la semplice volontà di commettere il delitto, disgiunta da qualunque atto e manifestata anche dopo che questa volontà istessa più non esiste, sarà punita, come punito sarebbe il delitto consumato e riuscito.(5)Augusto trovò, come si è detto, de'    delitti di maestà negli scritti, Tiberio nelle parole e ne' segni; ma era riserbato alla moderna giurisprudenza di un popolo che si crede il più umano di tutti, di trovarli ne' pensieri e ne' desiderii. Dionisio, il tiranno di Siracusa, punendo il sogno come indice de'    pensieri, avrebbe egli mai preveduto di trovare nella più tarda posterità così umani imitatori? Facendo egli troncare il capo all'infelice Marsia, per aver sognato di ucciderlo,(1)avrebbe mai creduto che in una gran monarchia e dopo il corso di molti secoli, su questo suo attentato si sarebbe foggiata una legge? Ma non finiscono qui gli orrori della moderna legislazione. Il Codice Vittoriano,(2)l’Ordinanza di Luigi XI, inserita nel Codice di Arrigo III,(3)le nuove Costituzioni del Senato di Milano,(4)e le leggi di un’altra gran parte dell'Europa,(5)considerano reo dell'istesso delitto tanto colui che, avendo cognizione di una congiura che si trama, non ne dà avviso al governo, quanto colui che n’è l’autore o il complice. Tutti gli sforzi possibili fatti per prevenirla o per distoglierla non bastano per garantirlo dalla pienezza del reato, e l’uomo che non ha saputo disprezzare i vincoli dell’amicizia o le leggi del segreto; colui che non ha avuto il coraggio d’immolare alla patria l’amico o il parente; colui che ha rispettate le leggi dell'opinione che lo condannerebbe ad un’eterna infamia; quest’uomo, io dico, colla migliore anima, col cuore il più retto, colla coscienza della propria innocenza, vien confuso nella pena e nel reato coll'autore del più orrendo e del più esecrabile de'    delitti.

Questa legge, ch'è stata modificata nel codice Britannico, (1) conserva tuttavia il suo vigore nel resto dell’Europa. È troppo nota la funesta tragedia avvenuta nella persona di uno dei primi magistrati della Francia, e figlio di uno de'    migliori istorici che abbia avuto l’Europa. Francesco Augusto Tuano terminò i suoi giorni sul patibolo, per non aver rivelata la cospirazione che si tramava dal duca di Bouillon, fratello unico del moribondo Luigi XIII e dal Gran Scudiero Arrigo d’Effiat marchese di Cinq-Mars. L’oggetto della congiura non era di dare alla Francia un re straniero o di abbreviare i giorni del regnante. Tra il duca di Bouillon ed il trono non vi era che un fratello moribondo e due figli nelle fasce. Egli era l’erede presuntivo del trono, o almeno di una lunga amministrazione. La congiura, se può chiamarsi con questo nome, era diretta a prevenire i colpi dell'ambiziosa politica del cardinale di Richelieu. Tuano aveva cercati tutt’i mezzi per distogliere il suo amico Cinq-Mars da questa impresa. Egli non volle mai prendervi parte alcuna. Fu constatata la sua innocenza riguardo a quest’oggetto, ma il non avere scoverta la congiura, il non aver tradito l’amico, il non aver abusato della sua confidenza, bastò per render reo di maestà Tuano, e per far perire sotto la mano del carnefice un uomo che tutta la nazione credeva innocente. (2)

Platone voleva che il legislatore invitasse i cittadini a scovrire le congiure che si tramavano contro la libertà della patria, ma non consigliava che ne fosse punito il silenzio; (3) e noi puniamo come reo di Maestà colui che non è accusabile di altro che o di una negligenza, o di una rispettosa delicatezza. Nelle leggi di Silla, di Augusto e di Tiberio noi non troviamo simili eccessi, simili abusi fatti del terribile nome di maestà.

Rivolgendo finalmente il nostro esame sulle pene per questi delitti adoperate, noi troveremo ancora la comparazione svantaggiosa per la moderna legislazione. Io non voglio fare l’apologista dell'antichità, né il detrattore de'    moderni; maio non trovo nelle leggi di Silla, di Augusto e di Tiberio minacciata altra pena che la privazione dell'acqua e del fuoco. (1) Questa moderazione fu, è vero, cagionata più dalle dispotiche mire di Silla e de'    primi Cesari, che dalla loro umanità. L’interesse che vi era di confondere, sotto l’istesso nome e sotto l’istessa pena, delitti di qualità e di grado molto diversi, e il timore di mostrare al popolo il disprezzo che si aveva per le antiche leggi, per quelle ch'erano a lui più care, (2) dettarono, è vero, la sanzione di queste prime leggi; ma quando questo motivo istesso più non esisteva; quando al civile Governo istituito da Augusto si sostituì il dispotismo militare di Severo; quando l’ombra istessa dell’antica Repubblica fu dissipata; quando dall’istessa mano e sull’istesso trono esercitata veniva palesamento l'autorità legislativa e l'esecutrice: allora niun freno trattener poteva la ferocia del legislatore; niun interesse moderar poteva il suo rigore. In questi tempi noi troviamo la legge di Arcadio e di Onorio, la quale, sebbene fosse la più fiera di quante se n’erano fatte fino a quel tempo, era nulladimeno molto lontana da quel grado di ferocia, al quale sono giunti i nostri umani legislatori. (3)

Essa condannava alle fiere il perduelle dell’infima condizione, ed alla semplice morte quegli di una condizione più nobile; ma Arcadio non ardì di prescriver l’esordio tormentoso che si fa oggi, dove più e dove meno, soffrire al delinquente prima di morire. Il carnefice non doveva con istudiata crudeltà dilaniare le membra del reo, squarciare con tanaglie infuocate le sue carni, immergervi del piombo liquefatto, bruciare a fuoco lento la mano parricida, fargli, in poche parole, soffrire tutt’i più acerbi dolori, de'    quali l’umana natura è suscettibile. (1) Egli non ardì di prostituire il linguaggio sacro delle leggi fino a questo punto; e quantunque l’umanità fosse da gran tempo abituata allo spettacolo della più feroce tirannia e delle stragi le più sanguinose, le leggi non furono mai così fiere, come lo era il tiranno che le dettava. La nostra condizione è per lo appunto l'opposto di quella de'    sudditi del Romano Impero. Noi abbiamo la tirannia nelle leggi e l’umanità su' Troni. I costumi distruggono o, per meglio dire, ingentiliscono il dispotismo, ch'è dalle leggi favorito e protetto. Queste ci condurrebbero alla schiavitù, se quelli non ci spingessero verso la libertà. Questo contrasto è nulladimeno pericoloso, e l’equilibrio che ne nasce, è molto precario. Non vi è che il bene prodotto dalle leggi che possa esser durevole nella società. Correggiamole e noi saremo stabilmente felici e tranquilli.


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CAPO XLVI

Proseguimento dell'istesso oggetto; su quello che si dovrebbe fare

Dopo aver osservato lo stato dell'antica e della moderna legislazione su i delitti di Maestà; dopo aver mostrato l’abuso che la tirannia ha fatto di questo nome, e che l’ignoranza o la negligenza ha perpetuato; dopo questa orribile esposizione di ciò che si è fatto, è giusto che io manifesti le mie idee su quello che si dovrebbe fare. Io richiamo, prima di ogni altro, l’attenzione di colui che legge sul piano che mi son proposto di tenere per la ripartizione de'    delitti. Io ho detto di volerli distribuire in varie classi relative a' loro oggetti. In questa ripartizione noi non ci occupiamo del grado, ma delle qualità.

Ogni delitto, come si è detto, è repartibile in sei o in tre gradi: in sei, quando è suscettibile di colpa; in tre, quando non è suscettibile che di dolo. Questa particolare suddivisione è stata già stabilita con alcuni canoni generali; ed il lettore può esser contento de'    nuovi lumi e della chiarezza che si è sparsa su questo oggetto.

Ristrette dunque le nostre cure alla generale ripartizione, noi non dobbiamo occuparci che della qualità. Questa, come si è detto, ò determinata dal patto che si viola; e dall’influenza maggiore o minore che hanno i vari patti sull'ordine sociale, vien determinato il maggiore o minor valore de'    delitti, co' quali si violano. Richiamate alla memoria di chi legge queste premesse, io vengo all’esposizione dello mie idee.

Allorché io parlo di Sovrano, io intendo di parlare di quella persona morale ch'esercita il potere supremo; ed il potere supremo è il potere legislativo. Se il re, per esempio, in Inghilterra non avesse parte alcuna nel Parlamento, egli non avrebbe parte alcuna della sovranità. Nelle altre monarchie dell’Europa il re è sovrano, perché è legislatore; e sotto questo aspetto soltanto noi possiamo, senza degradarci, chiamare i nostri re nostri padroni.

L’espressione della pubblica volontà non è che nella facoltà legislativa. L’esistenza della persona o del corpo che l’esercita, forma l’essenza della società. Fuori di essa non vi è chi abbia il diritto di comandare; senza di essa non vi è chi abbia il dovere di ubbidire. Quando questa perisce, la società civile si discioglie, l’anarchia ritorna, la naturale indipendenza si riacquista, e con essa si riacquista il diritto di difenderla.

Data quest'idea della sovranità, non vi vuol molto a vedere che il primo dovere del cittadino, il patto più prezioso, quello che ha la maggiore influenza, o per meglio dire, che non si può violare senza distruggere la società, è appunto quello che l’obbliga a non attentare contro la sovranità. La violazione dunque di questo patto è il maggiore de'    delitti. «Colui che cerca di rovesciare questo potere, dice Platone; colui che cerca di sostituire al vigore delle leggi l’arbitrio del l’uomo; colui che tenta di soggiogare la patria colle fazioni, e che, opponendo la forza alle leggi, riempie la città di sediziosi e di rubelli, costui è di tutta la società l’inimico maggiore.» (1)

Ecco il vero delitto di Maestà in primo capo. Ma determiniamo meglio quest'idea.

Ho detto che il primo dovere del cittadino, il patto più prezioso è quello che l’obbliga a non attentare contro la Sovranità. Ho detto Sovranità e non Sovrano, perché colui che si scagliasse contro l’uomo, o contro i membri del corpo che esercita e rappresenta questa sovranità, senza cercar d’usurpare questa sovranità, è meno reo di colui che facesse l’istesso male con questo peggiore disegno.

In una Monarchia ereditaria, per esempio, dove il potere legislativo è stato affidato alla famiglia regnante, colui che attenta alla vita del re senza cercar di usurpare la sua corona, è meno reo di colui che, commettendo l’istesso eccesso, cercasse d’impadronirsi della sovranità e del trono. La ragione n’è semplicissima; essa dipende dagli antecedenti principii. Nel primo caso, l’autorità legislativa non vien distrutta; la società non è disciolta, il nodo sociale non vien rotto. Una convulsione orribile ha sofferta il corpo civile, ma non è morto, perché lo spirito che lo anima non si è estinto. L’erede legittimo del trono ha l'istesso potere che aveva il suo predecessore; egli ha gl’istessi diritti sugl’individui della società, e questi hanno gl'istessi doveri verso di lui. Ma se il regicida sale sul trono, se unisce l’usurpazione al parricidio; allora la società è disciolta, il nodo è rotto, l'autorità legislativa è distrutta, è estinta, perché colui che l’esercita, non ha il dritto di esercitarla. Non vi è più sovrano, non vi son leggi, non vi è potere, non vi è sovranità. L’anarchia in questo caso è fondata sopra un dritto, il potere sulla forza, l’autorità sulla violenza. Nella classe, dunque, de'    delitti contro il sovrano, il primo di tutti è l’attentato contro la sovranità. Il secondo è il regicidio o sia l'attentato contro la vita del re o del capo della Repubblica.

I sacri titoli che mettono la corona sul capo de'    re; il muto decreto dell'urna che crea il dittatore o il console; la libera scelta di un Senato che elegge il capo di una Repubblica, sono gli oggetti che richiamar debbono la maggior venerazione del popolo, e gli atti più solenni della civile società. La vita più preziosa per uno Stato è quella del rappresentante della sovranità del popolo o del suo primo Magistrato. Quando un cittadino ardisce d’imbrattarsi lo mani con un sangue così prezioso, la famiglia civile perde il suo padre ed un suo individuo ne diviene il parricida. La pace pubblica turbata, l’ordine pubblico alterato o distrutto, la fedeltà de'    giuramenti violata, la Maestà del trono o della Repubblica vilipesa, lo scandalo del popolo ed il timore che s’inspira a chi dee governarlo, sono le funeste appendici di questo orribile attentato. Noi lo collochiamo dunque con ragione nel secondo luogo, (1) come collochiamo nel terzo la Prodizione.

Il Proditore è colui che dà o cerca di dare la patria o l’esercito in mano degl’inimici. Ne’ governi i più liberi questo delitto ha richiamato sempre il maggior rigore delle leggi. Questo è direttamente contro il sovrano, perché o cerca di privarlo della sovranità, o d’indebolirne la forza che la garantisce e la conserva. Il lettore istruito vedrà i vari delitti che, senza dare luogo alcuno all’arbitrio, sarebbero sotto questo nome compresi.

La resistenza violenta ed armata contro gli ordini del sovrano occuperà il quarto luogo in questa classe. In ogni Governo è necessario che vi sia un’autorità assoluta, la quale escluda dalla parte de'    sudditi, non il dritto di lagnarsi, di rappresentare, d’illuminare; non la facoltà di reclamare e di avvertire, per così dire, il sovrano della reazione che vi è intorno a lui; ma ch’escluda il potere di superare e il dritto di resistere violentemente. 0 che la sovranità risegga sul capo di un sol uomo, o che appartenga alla moltitudine, o che sia affidata ad un picciol numero; qualunque sieno le mani, nelle quali è stata depositata, essa è sempre della. medesima natura; essa non è mai altro che quel potere assoluto che può costringere ed obbligare a ubbidire, e può trionfare di tutti gli ostacoli.

Nella democrazia, quando il popolo ha parlato, quando la concione ha deliberato, non vi è potere fuori del suo istesso che possa impedire l'esecuzione de'    suoi ordini. Nell'aristocrazia dee dirsi l’istesso riguardo al Senato, e nella monarchia riguardo al Monarca. Senza questo potere non vi è governo; e siccome non vi è istituzione, ove l’uomo possa esser sottomesso alle volontà arbitrarie, così non ve n’è neppure alcuna, dove egli non debba esser soggiogato dalla legge, e dove non vi sia cosa alcuna così imperiosa, cosi autorevole come essa. Quando dunque una porzione de'    sudditi ricorre alla forza, per impedire l’esecuzione degli ordini del sovrano, quando invece di reclamare, illuminare, esporre delle ragioni, per indurlo a rivocare la legge, si ricorre alla violenza, si prendono le armi, si dichiara una guerra aperta al suo potere; allora la sovranità è lesa, e i refrattari sono veri rubelli.(1)Il sovrano non esige solo da' sudditi conservazione, difesa ed ubbidienza; ma esige anche venerazione ed ossequio. Questo è un altro patto, un altro dovere che, nascendo, il cittadino contrae colla società. La violazione di questo patto; i veri e manifesti insulti recati al sovrano, occuperanno dunque il quinto luogo in questa classe. Ma che mai dee comprendersi sotto il nome d’insulto recato al sovrano La legge dee definirlo, se non vuol lasciare l’adito all'arbitrio il più funesto. Io chiamo insulto recato al sovrano ogni azione manifestamente ingiuriosa, e nella quale il rispetto che si deve alla sovranità, viene manifestamente violato. Un libello famoso, per esempio, pubblicato contro il sovrano potrebbe esser compreso in questo numero. Io non chiamo insulto lo scritto libero di un Filosofo che rileva i mali della sua patria, per accelerarne le correzioni. Io non chiamo insulto una parola, un’imprecazione, una maledizione profferita nello sdegno. Io non chiamo neppure con questo nome un discorso libero, privatamente tenuto sulla condotta del capo della nazione. Se noi vogliam fare delle parole un delitto, la società si troverà piena di delatori e di rei. Il delitto di Maestà diverrà, come disse Plinio, il solo delitto di colui, al quale non si può alcun delitto imputare. (2) La confidenza, la buona fede, l’amicizia spariranno per dar luogo alla diffidenza ed alla tristezza. La nazione perderà il suo originario carattere; l’ignoranza o subentrerà a' lumi o vedrà perpetuate le sue tenebre, i suoi errori, i suoi pregiudizi; i costumi si corromperanno ed il trono sarà più esposto. Anche negli Stati dispotici bisogna lasciare al popolo che si opprime, la libertà di lagnarsi che lo solleva. La scontentezza che si svapora non è quella che dee temersi. Le ribellioni nascono da quella che, racchiusa, si esalterà colla fermentazione interna, e si sviluppa con effetti improvvisi e terribili. Il trono non è mai tanto esposto, se non quando crescono le vessazioni e cessano le lagnanze.

Non vi è forse nazione in Europa, nella quale le rivoluzioni sieno state così frequenti, quanto nella Russia; e non vi è nazione forse, nella quale si sia fatto tanto conto delle parole, quanto in questa. Un viaggiatore rinomato ci’ assicura che il giorno dopo la morte dell'imperatrice Elisabetta non vi era persona in Russia, che ardisse d’informarsi della sua salute. Ella era morta, tutti lo sapevano; ma niuno ardiva di parlarne.(1)Era un delitto il domandare se il principe Ivan fosse vivo o morto.(2)Basta che un Russo profferisca a voce alta queste due parole Slovvo Dielo (io vi dichiaro reo di Maestà, in parole e in azioni), per obbligare gli astanti ad arrestare l’infelice, contro del quale le ha profferite. Il padre arresta il figlio, il figlio il padre, e la natura geme nel silenzio. L’accusatore e l'accusato vengono all’istante condotti nelle carceri; e se il primo si contenta di soggiacere alla prova del Knout, l’altro si suppone convinto e vien condannato a morte, ancorché il suo delitto non sia provato.(3) Nel nuovo Codice che si prepara, questi orrori saranno sicuramente aboliti, e Caterina ha bastantemente manifestate le sue idee su quest'oggetto.(4)Essa darà alle parole quella libertà che ha cercato di dare alle persone, e nel mentre che quelle esprimeranno le lodi delle sue virtù, queste la sosterranno sopra un trono intriso tante volte di sangue.

Dagl’insulti recati alla sovranità io passo a' delitti che si commettono nella reggia, o nel luogo ove il corpo che rappresenta la sovranità esercita le sue funzioni. In tutt’i paesi, anche ne' più liberi, si è sempre venerata la sede del supremo potere; ma non in tutt’i paesi si è inasprita la pena de'    delitti in questo luogo commessi. Quando nel delitto vi fosse un diretto insulto al sovrano, allora la legge dee stabilire che alla pena del primo delitto si unisca anche quella del secondo. Ma se’ questo diretto insulto non esiste, perché aggravare la pena? Tutti gli spazi della Monarchia o della Repubblica non sono forse la sede della sovranità? 11 suo potere, simile a quello della Divinità, non si dee forse ugualmente sentire in tutt'i luoghi? In qualunque luogo che si commetta il delitto, la sovranità non n’è forse ugualmente offesa?

Il ladro che nella reggia ruba un gioiello ad un ricco cortigiano, è forse più reo di colui che ruba l’istrumento della sua sussistenza al colono nella sua capanna? Il patto ch’egli viola è forse più prezioso per lo Stato? La sua influenza sull’ordine pubblico è forse maggiore? Il bue e la zappa del colono non sono forse più preziosi pel sovrano che l’anello del ricco ozioso? La capanna del pastore non deve forse esser maggiormente custodita dalle leggi, che la reggia che lo è bastantemente dalle soldatesche e dalle guardie?

Quando si consulta la ragione, quante leggi si trovano assurde! Chiamando in soccorso i suoi principii, noi troveremo anche come giustificare le nostre invettive contro le leggi che in quasi tutta l’Europa dichiarano reo di alto tradimento colui che, avendo cognizione di una congiura che si tramava, non ne ha dato l’avviso al Governo, ancorché tutt'i mezzi possibili abbia tentato per impedirla. Il primo principio, che stabilisce la ragione, è che la legge non dee essere mai direttamente in opposizione colf opinione pubblica. Se questa è erronea, il legislatore dee cercare di correggerla, ma non deve urtarla. Il secondo principio ugualmente certo è, che se la legge può trovare fuori di essa un ostacolo al male, non dee distruggerlo. Il terzo principio; finalmente, è che non bisogna mai preferire un rimedio che preverrà in un solo caso il male, a quello che lo preverrà in molti. Applichiamo ora questi principii. Se un amico viene ad avvisarmi di una congiura che ha tramata, se dopo che tutt’i mezzi possibili per distoglierlo dalla sua intrapresa sono stati da me adoperati, se dopo aver io costantemente rifiutato di aderire a' suoi pravi disegni, la congiura o per altro mezzo si scuopre o scoppia secondo il disegno del suo autore; in questo caso se, convinto di aver avuta cognizione della congiura e di non averla rivelata, io sono condannato alla morte, come lo fu il presidente Tuano, l’opinione pubblica non vedrà forse in me una vittima dell'onore, e gli spettatori, applaudendo alla mia virtù, non malediranno forse la legge che la punisce? Qual vantaggio raccoglierà la società da questa pena? Essa la priverà di un cittadino che ha preferito l’onore alla vita, e le renderà odiosa la forza che glielo toglie.

Più. Quando la legge punisce in questo caso il silenzio, il rubelle che sa l’interesse che ha l’amico di tradirlo, ardirà egli mai di manifestargli il suo disegno? Non si nasconderà forse a lui, come al suo delatore? Tutt'i consigli, tutte le ragioni che l’amico avrebbe potuto dargli per distoglierlo dal suo attentato, non saranno forse impediti da questa ragionevole diffidenza? Un solo esempio di un segreto tradito pel timore della pena, o di una fedeltà punita colla morte, non basterebbe forse per distruggere una confidenza, nella quale la legge avrebbe in cento altri casi trovato un ostacolo al male? Una sola congiura prevenuta con questo mezzo non ne farebbe forse riuscire cento altre, che sarebbero forse state distolte se la legge non l’avesse mai adoperato? Se la legge può trovare fuori di se un ostacolo al male, perché distruggerlo? Se quest'ostacolo può prevenire in cento casi il male, perché preferirgliene un altro che non lo preverrà che in un solo? Se finalmente la legge non dee mai direttamente opporsi all’opinione pubblica, perché punire, quando questa assolve, ed assolvere, quando questa condanna?

Ecco le ragioni, per le quali io credo che la legge non dovrebbe mai punire in questo caso il silenzio.

Ma che diremo noi delle pene che minacciar si dovrebbero alle diverse specie di delitti in questa classe compresi? Chi ha presenti le mie idee relative al sistema penale, vedrà il motivo, pel quale, in questa ripartizione e distinzione di delitti, io non vengo mai a fissare la pena che sarebbe a ciaschedun di loro proporzionata. Io non scrivo per una sola nazione, né per un solo popolo; io scrivo per l’umanità intera, e dopo avere sviluppati i generali principii che determinano il relativo valore delle pene presso i diversi popoli, e dopo aver mostrata l'alterazione che le diverse circostanze politiche, fisiche e morali delle nazioni produr debbono nel loro sistema penale; io mancherei all’universalità del mio argomento, ed all’uniformità de'    miei principii, se per ciaschedun delitto indicar ne volessi la pena. Questa sarebbe forse proporzionata al delitto presso un dato popolo, ma potrebbe mai esserlo in tutt'i popoli, presso tutte le nazioni?

Ma se io indicar non posso la pena, il lettore potrà trovare ne' miei principii istessi quel termine che non si dee mai oltrepassare nel fissare la sanzione penale. Or questo termine è stato infelicemente oltrepassato presso tutte le nazioni di Europa, nelle pene di questi delitti. Io l’ho già detto altre volte: l’aver ecceduto nella pena di delitti meno gravi, ha costretti i legislatori ad oltrepassare questo termine ne' più gravi. Se si fa morire sopra una ruota un monetario falso, che si farà soffrire al regicida ed al rubelle? Quando dunque la correzione si portasse sopra tutto il sistema penale, allora anche questa parte potrebbe esser corretta, ed il legislatore, senza uscire dagli spazii ne' limiti della moderazione compresi, ritrovar potrebbe la pena proporzionata al massimo de'    delitti, qual è quello che in questa classe occupa il primo luogo. Siccome con questo delitto si violano tutt’i patti, così perder si dovrebbero tutt’i dritti. La vita, l’onore, la proprietà, dovrebbero esser sostituiti dalla morte, dall’infamia, dalla confisca. Le più terribili cerimonie, le più infamanti accompagnar dovrebbero la morte di questo mostro; ma i tormenti non dovrebbero precederla, non dovrebbero accompagnarla. L’esecuzione richiamar non dovrebbe le lagrime degli spettatori, né la loro compassione; ma l’orrore pel delitto, l’odio pel delinquente, gli applausi per la pena. Per mettere una differenza tra la pena del primo delitto e quella del secondo ch'è anche sommo, cioè tra il regicidio accompagnato dal disegno di usurpare la sovranità e il regicidio disgiunto da questo pravo disegno, il legislatore potrebbe regolare la confisca. Nel primo delitto la confisca cader potrebbe sopra tutt'i beni; nel secondo sulla più gran parte. Finalmente il legislatore non dovrebbe far altro che applicare i principii antecedentemente sviluppati, per determinar la pena degli altri delitti in questa classe compresi.

Io porrei termine a questo capo, se la confisca, che ho proposta, non mi obbligasse a manifestare i principii, su' quali è fondata. L’uso di questa pena, che riguarda piuttosto i figli e gli eredi del delinquente che il delinquente istesso, pare, a primo aspetto, che non dovrebbe entrare nel piano di una legislazione dettata dalla giustizia e dall'umanità. Se la perdita di un dritto non è mai giusta, se non quando è preceduta dalla violazione di un patto; qual è il patto che han violato i figli che la legge priva, in questo caso, della paterna eredità? Prima di Silla non si conobbe la confisca in Roma,(1)e sotto il Triumvirato istesso si lasciò la decima a' figli, e la ventesima alle figlie de'    proscritti.(2)Platone vuole che la pena pecuniaria non obblighi mai il delinquente a vendere il suo fondo;(3)egli non vuole che la pena del delitto del padre venga a cadere su' figli.(4)Si può finalmente addurre contro la confisca l’aborrimento che ne hanno avuto i buoni principi. Trajano, Antonino il Pio, Marco Aurelio, Adriano, Valentiniano e Teodosio il Grande la rilasciarono o in tutto o in parte. Ecco ciò che può dirsi contro la confisca.

Ma queste riflessioni, questi esempi, queste autorità non mi distolgono dal credere, in alcuni casi, giusta ed opportuna questa specie di pena. Se prima di Silla non si conobbe la confisca in Roma, un popolo ugualmente libero l’aveva adoperata. L’esilio perpetuo era in Atene accompagnato dalla confisca de'    beni. (1) Il Proditore era punito colla morte e colla confisca. (2) Se i buoni principi l’abborrirono, la dispensarono, questo derivava dall’abuso che se n’era fatto in Roma, e non dalla sevizia della pena. Finalmente l'autorità dello Scrittore, che io venero più che ogni altro, non mi dà alcun peso, perché da ciò che segue si vede chiaramente che l’oggetto di Platone non era di risparmiare i figli, ma di non alterare il censo. Le sue leggi, dopo avere stabilita l’uguale ripartizione de'    fondi, cercavano di conservarla; e su questo piano regolando le successioni, egli regolar doveva anche le pene: questo si deduce manifestamente anche da ciò che segue al secondo luogo da noi rapportato. Dopo aver egli detto che i figli non debbono pagare la pena derelitti del padre, soggiugne, fuorché in un solo caso, cioè, quando il padre, l’avo ed il bisavo fossero stati rei di morte. In questo caso la Repubblica li espellerà dalle sue mura, li rimanderà nell’antica patria, lascerà loro i beni mobili; ma il loro fondo, la porzione di terreno che nella censoria ripartizione pervenuta era nella loro famiglia, si torrà loro, e si darà a quel cittadino che la legge indica e destina. (3)

Vi era dunque un caso, nel quale Platone credeva che spogliar si potessero i figli, non delinquenti, della paterna eredità. Ma ancorché questo profondo Filosofo avesse altrimenti pensato, io potrei sempre sostenere la mia opinione nel tribunale della ragione. Che la perdita di un dritto debba essere preceduta dalla violazione di un patto, è un principio che io stesso ho stabilito; ma qual è il diritto che perdono i figli colla confìscazione de'    beni del padre delinquente? Il dritto di succedere non dipende forse dal dritto di disporre? Se la legge priva il padre del dritto di disporre, dove è più il dritto di succedere ne' figli? Se il padre avesse dissipati i suoi beni, potrebbero mai i figli, che non ebbero parte ne' suoi disordini, pretendere alla successione degli alienati beni? Essi non sarebbero anche in questo caso privati, senza lor delitto, della paterna eredità? Se il dritto dunque di succedere non esiste, quando non esiste il dritto di disporre; e se la perdita di questo dritto è una giusta pena per il parricida e pel rubelle, qual è, in questo caso, l’ingiustizia della confìsca? Questa non priva i figli, di un dritto che più non esiste, subitoché il padre, tra gli altri dritti che ha perduti colla violazione dei patti, ha perduto anche quello di disporre. In un solo caso la confisca sarebbe ingiusta, cioè, quando cadesse sui beni, dei quali il padre non aveva il dritto né di alienare, né di disporre, e ne' quali il dritto di succedere ne' figli supponeva un dritto di disporre in un’altra persona, e non in quella del padre delinquente. Per prevenire questo caso la legge stabilir dovrebbe che la confisca cadesse sempre sui beni disponibili del delinquente.

Ecco il principio, sul quale è fondata la giustizia della confisca. Per quello poi che riguarda la sua opportunità, questa dipende dall’ostacolo che il paterno amore può mettere ad attentati così funesti. La certezza o il timore di lasciare i figli nell’indigenza può in alcuni casi aver più forza che il rischio istesso della propria esistenza. La speranza dell'impunità che potrebbe incoraggiare la sua mano parricida l’abbandona subito, allorché rivolge i suoi sguardi sopra i suoi figli. Se egli potrà garantirsi dalla pena colla fuga, egli non potrà con questa liberare i suoi figli dall'indigenza.

Ma questa pena giusta ed utile, sempreché viene colla maggiore economia adoperata, diviene ingiusta e perniciosa, subito che se ne abusa. L’Istoria di Roma ce ne offre luminose prove. Per evitare i mali che produsse nell'Impero, io credo che se ne dovrebbe restringere l'uso a' soli delitti che occupano i primi tre luoghi, tra quelli in questa classe compresi. Tra questi limiti ristretta, la confisca entrar potrebbe anche nel piano di una savia legislazione. Ma i principii istessi, co' quali noi difeso abbiamo l’uso di questa pena, non ci annunziano essi l’ingiustizia di quelle leggi che distendono sui figli le pene de'    delitti del padre?

Che diremo noi della legge che, con pari sevizia e con uguale assurdità, condannava alla morte i figli de'    perduelli in Persia, (1) in Macedonia (2) ed in Cartagine? (3) Che diremo noi di quell’articolo della legge di Arcadio, il quale, parlando de'    figli de'    rei di questi delitti, vuole che vengano esclusi da qualunque eredità; che l’indigenza tormenti i loro giorni; che l’infamia copra il loro capo; che si renda così infelice la loro condizione, che la vita sia per essi un supplicio e la morte un sollievo? (1)Che diremo finalmente della legge che condanna in Francia all'infamia ed al perpetuo esilio il padre, la madre e i figli del parricida? (2)

Io lascio a colui che legge il giudicarne. Non voglio indebolire la forza dell’evidenza colf impegnarmi inopportunamente ad accrescerla. Io mi affretto di passare alla terza classe de'    delitti, nella quale noi collocheremo una gran parte di quelli che dalla seconda abbiamo esclusi, ed a' quali abusivamente si è dato e si dà tuttavia il terribile nome di Maestà. Questa terza classe comprenderà tutt'i delitti che direttamente si commettono contro l'ordine pubblico, come abbiam compresi nella seconda quelli che direttamente si commettono contro il Sovrano.


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CAPO XLVII

Terza Classe - De' Delitti che si commettono contro l’ordine pubblico

Tutt'i patti sociali concorrono’ alla conservazione dell’ordine pubblico; ma non tutt’i patti sociali hanno immediatamente per iscopo quest'ordine. Tutt'i delitti turbano l’ordine pubblico; ma non tutt’i delitti riguardano immediatamente quest'oggetto. Tutt'i patti sociali che ci obbligano a rispettare l’onore, la proprietà, la vita di ogni privato cittadino, hanno un’influenza sull’ordine pubblico; ma questa influenza non è così immediata, così diretta, come quella de'    patti che ci obbligano a non turbare o violare la giustizia pubblica, la tranquillità pubblica, il commercio pubblico, l’erario pubblico, la salute pubblica, la continenza pubblica, la polizia pubblica, il dritto politico o sia le fondamentali leggi che regolano la costituzione del governo. Nella violazione de'    primi l’ordine pubblico è turbato, perché si turba l’ordine privato; nella violazione degli altri l’ordine privato è turbato, perché si turba l'ordine pubblico. Questo, direm così, è un male di conseguenza negli uni, ed è un male di principio negli altri. In questa classe noi non collocheremo, dunque, che i delitti che immediatamente turbano o violano l’ordine pubblico. La moltiplicità di questi ci obbliga ad una suddivisione, che noi enuncieremo co' seguenti titoli.


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TITOLO I

De’ delitti contro la giustizia pubblica

Dopo il Sovrano, autore delle leggi, vengono i Magistrati, che ne sono i depositario I primi omaggi si debbono al re, al senato, alla concione; i secondi agli amministratori della giustizia. Il loro augusto carattere richiamar dee la pubblica venerazione, come gli abusi della loro autorità richiamar debbono il rigore delle leggi. Il cittadino, nascendo, contrae il dovere di rispettarli, di ubbidire a' loro ordini, di non opporsi al corso della giustizia protettrice della civile libertà. Attentare sulla vita di un Magistrato, insultarlo, oltraggiarlo, nel mentre ch’esercita le sue auguste funzioni; (1) resistere a mano armata agli esecutori de'    suoi ordini; strappare dalle loro mani il reo ch'essi conducono ne' legami della giustizia; favorire la fuga di un delinquente ch'è stato condannato, o che i giudici chiamano in giudizio per condannarlo; aprire le carceri, dove sono i depositi della vendetta pubblica, per rimetterli impuniti nella società che hanno offesa; dare asilo agli esuli ch'essi hanno proscritto, (2) o dar ricetto e garantire dal rigore delle leggi i mostri che le hanno conculcate; (3) favorire i furti con custodire o comperare le cose rubate; (4) disprezzare gli ordini del Magistrato, che ci chiama in giudizio, o impedire col dolo o colla forza ad un altro di presentarsi, allorché è citato; (1) rubare, sopprimere, mutilare, alterare e foggiare un registro, una scrittura pubblica per favorire la propria causa o quella di un altro; (2) impedire il corso di un Processo in una causa criminale; impedire a un testimonio di deporre o indurlo con minacce o con danaro a tradire la verità; corrompere o cercar di corrompere un giudice e privare la giustizia de'    mezzi ch'ella deve adoperare per difendere l’innocenza; (3) servirsi della libertà dell’accusa per calunniare un innocente, (4) o per contrattare e vendere ad un delinquente il proprio silenzio (5) e per rendersi reo di Prevaricazione, di Collusione o di Tergiversazione; (6) tradire la verità collo spergiuro ne' giudizii, essendo accusatore o testimonio; (7) ricever danaro o altro premio per non far testimonianza in un giudizio; (1) favorire la parte contraria, essendo avvocato dell'altra; (2) ecco i delitti de'    privati contro la giustizia pubblica. Passiamo ora a quelli de'    magistrati e degli altri ministri della giustizia.

Servirsi del deposito delle leggi per violarle; opprimere colle loro armi l’innocenza che dovrebbe esserne difesa; alterare il corso de'    giudizii o negare que’ rimedii che la legge offre per assicurare la civile libertà; servirsi di un’autorità conservatrice dell'ordine pubblico per turbarlo; trascurare i doveri del proprio ministero; opprimere i cittadini con esazioni o superiori a quelle che la legge prescrive o diverse da quelle ch'essa permette; ricever del danaro per assolvere o condannare, per affrettare o ritardare il giudizio, per favorire o nuocere all'una delle parti; permettere a' subalterni ministri della giustizia di vessare, rubare ed abusare del loro ministero; (3) rendersi, in poche parole, reo di negligenza, di parzialità, di venalità, di estorsione o di concussione: questi sono i delitti de'    magistrati e de'    giudici contro la giustizia pubblica.

A misura che la libertà civile è stata più rispettata dai legislatori, la venalità ne' magistrati e ne' giudici è stata maggiormente punita. Platone vuole che il magistrato che accetta un dono, ancorché sia per operar il bene, sia condannato a morte; (4) e la legge in Atene, sebben meno severa, non richiedeva l’ingiustizia per punirlo. (1) In Roma la pena di questo delitto variava secondo le circostanze, ma poteva anche giungere fino alla morte. (2) Ma il miglior metodo di punirlo, il più opportuno, il più giusto, quello che convenir potrebbe a tutti i governi, ed in tutte le diverse circostanze de'    popoli, pare che sarebbe quello che distinguesse i tre diversi casi: quando il dono si accetta dal magistrato o dal giudice, ma dopo l’esercizio della sua autorità o dopo il giudizio; quando si è ricevuto o accettato prima, ma la giustizia non è stata violata; quando si è ricevuto o contrattato per violarla. Nel primo caso basterebbe una pena pecuniaria; nel secondo alla pena pecuniaria unir si dovrebbe la perdita della carica e l’infamia; nel terzo finalmente alla pena pecuniaria, alla privazione della carica ed all’infamia, unir si dovrebbe la pena del taglione. Ne’ civili giudizii il taglione dovrebbe cadere sulle facoltà del magistrato, ne' criminali sulla sua persona. Ecco come andrebbe punita la venalità de'    magistrati e de'    giudici ne' suoi tre diversi gradi di dolo.

Finalmente, oltre i magistrati e i giudici, la giustizia pubblica ha bisogno di alcune mani subalterne per eseguire gli ordini di questi magistrati istessi e di questi giudici; per intimare, assicurarsi o custodire le persone ch'essi chiamano in giudizio; per eseguire i decreti ch'essi hanno profferiti. La negligenza, la venalità, le sevizie in questi subalterni ministri, sono tanto più da prevenirsi, quanto meno onorevole è la condizione delle persone, alle quali queste funzioni vengono affidate.

Favorire la fuga di un delinquente che condur dovrebbero in giudizio, o che viene alla loro custodia affidato; usare delle sevizie sulla sua persona per indurlo a comprare i loro venali favori; convertire i luoghi, ove la giustizia pubblica è costretta a custodire il cittadino che gli è divenuto sospetto, ma che non ha ancora giudicalo, in tanti patiboli, ove l’umanità geme sotto quelle mani istesse che dovrebbero soccorrerla; inasprire o raddolcire la pena che gli viene da' giudici decretata: ecco a che si ridurrebbero i delitti contro la giustizia pubblica di questi subalterni ministri, in un piano di procedura come quello che si è da noi proposto pe’ giudizii criminali, e quello che si proporrà pe’ giudizii civili, ove ogni influenza nella ricerca della verità fosse ad essi tolta.


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TITOLO II

De’ delitti contro la tranquillità e la sicurezza pubblica

Premio del sacrificio della naturale indipendenza è la civile tranquillità. Colui che la turba, priva gli esseri socievoli del maggior bene che la società ci offre. È un male, allorché si turba la tranquillità e la sicurezza privata; è un maggior male, allorché si turba la pubblica. Le azioni che producono direttamente quest’effetto, vengono comprese sotto questo titolo.

Le unioni tumultuose di più uomini attruppati o per conseguire un oggetto illegale o per riuscire in una legittima pretensione, ma colla violenza e col disordine, sono delitti contro la tranquillità pubblica. La legge, che dee cercare di prevenire piuttosto i delitti che di punirli, deve concedere la sua indulgenza a coloro che dopo un ordine di qualche magistrato o altro subalterno ministro della giustizia si sono ritirati. Deve anche fissare il numero delle persone che si richiede per dichiarare tumultuosa un’unione; dee porre una differenza tra la pena de'    capi e quella degli accessorii; dee finalmente distinguere, nel determinar la pena, l’unione tumultuosa destinata al conseguimento di un oggetto illegale, da quella nella quale l’oggetto è legittimo, ma il mezzo solo è ingiusto e violento.

Gli altri delitti contro la tranquillità e la sicurezza pubblica sono le aggressioni nelle strade pubbliche o per rubare, o per uccidere, o per abusare violentemente delle donne o degli uomini che per quelle passano. È perniciosa ed assurda cosa il confondere sotto l’istessa pena delitti così diversi. Noi abbiamo altrove combattuto quest’errore, ancora esistente in molti paesi dell'Europa. Noi abbiamo fatto vedere che non bisogna torre al ladro ed al rapitore l’interesse di non essere assassino; che punirlo nell'uno e nell'altro caso colla morte era l’istesso che indurlo a commettere due delitti invece di un solo; che finalmente la giustizia e l’interesse pubblico erano ugualmente contrarii a questa erronea sanzione. Le Romane Leggi distinsero le pene di queste tre diverse specie di delitti. (1)

Un altro delitto contro la tranquillità e la sicurezza pubblica è la guerra privata. Quando una porzione de'    cittadini si arma contro dell’altra, quando due potenti inimici seguiti da' loro aderenti vengono alle armi, quando il civile sangue si sparge dalle due opposte fazioni; allora l’ordine pubblico è turbato, e tutto il corpo sociale è in disordine.

Nel principio tutte le fazioni sono picciole e deboli. I loro progetti crescono e si estendono con esse. Nate da interessi. privati e da particolari discordie, esse finiscono col dividere la nazione intera. Perniciose per tutti gli aspetti, pe’ quali vengono osservate, esse si oppongono direttamente all’oggetto delle società civili, formate per profittare de'    mutui soccorsi. Quando il tempo le ha fortificate, una parte della società vien privata dell’appoggio dell’altra; la discordia e la confusione si manifestano nello Stato; il nodo sociale s’indebolisce o si rompe, e le mani de'    cittadini si bagnano col sangue civile. La fazione Verde e la Bleu sotto l’Impero di Giustiniano; i Guelfi e i Ghibellini in Italia; i Whigs e i Tories in Inghilterra; le discordie tra la casa di Guisa e di Montmorency in Francia, saranno sempre memorande nell’istoria delle sciagure de'    popoli, e saranno tante terribili istruzioni a coloro che governano su' mali a' quali è esposto uno Stato, ove si è lasciato ad una fazione il tempo di fortificarsi e di estendersi.

Nelle Monarchie questo disordine è più raro, o almeno è più facile a prevenirsi; ma nelle Repubbliche è più frequente e più difficile ad impedirsi. Nelle prime, l'autorità del Monarca è bastantemente forte per estinguere nel loro nascere quelle scintille che, circondate da materie combustibili, producono quindi sì grandi incendii. Una fazione allignata in una Monarchia è un sintomo della massima oscitanza del governo. La vigilanza dell'amministrazione ha infiniti mezzi per prevenirle, per estinguerle nel loro nascere, senza il minimo dispendio. Ma non si può dir l’istesso delle Repubbliche. In queste il potere si trova nelle stesse mani decomponenti delle fazioni. La custodia delle leggi può trovarsi affidata a' loro capi istessi. I primi Magistrati della Repubblica possono essere i primi faziosi.

Il Sovrano istesso, sia questo il senato o il popolo, è anche diviso negli opposti partiti. La legge molto diversa dall'amministrazione è impotente per prevenirle. La sua sanzione non può riconciliar gli animi di due inimici potenti. Essa può minacciar loro delle pene, allorché si offendono, ma non allorché si odiano. Essa può punire i faziosi, allorché vengono alle mani; può punire la guerra privata, ma non la fazione. Il suo impero non può farsi sentire che quando il male è giunto all’estremo, ed allora il rimedio è sovente inutile. Questo è dunque un inconveniente necessario delle costituzioni repubblicane, ed il rimedio ideato da Solone n’è anche una convincente prova. Egli condannò all’infamia quel cittadino che nell'interne fazioni non si determinasse per l’uno de'    due partiti. (1) La neutralità era un delitto. Egli vide che il miglior rimedio per indebolire l’irruenza di queste acque era di espanderle; che bisognava rendere universale il male, per mitigarne gli effetti; che conveniva mescolar nelle fazioni i cittadini più virtuosi, per renderle meno funeste; ch'era necessario di creare fuori del governo e nel disordine istesso una forza che potesse richiamar l'ordine, la tranquillità e la pace. Questa legge è ammirabile, questa è la migliore che poteva idearsi; ma la saviezza e la violenza istessa del rimedio c'indica l’esistenza del vizio del governo. Che mi si perdoni questa breve digressione in un esame, nel quale, per non annoiare chi legge, io corro con tanta rapidità.

Un altro delitto contro la tranquillità e la sicurezza pubblica sono i collegi illeciti e le clandestine unioni. L'ordine pubblico e la pubblica tranquillità richiedono che si prevengano i gravi mali e i funesti disordini nelle loro cause istesse. La legge, promuovendo il cittadino al bene della patria, dee togliergli, quanto può, i mezzi di nuocerle. Le unioni di più uomini per un oggetto comune radunati è sempre sospetta allo Stato, quando non è o dalla legge diretta o dalla legge approvata. Ne’ paesi istessi della libertà quest'oggetto ha richiamata la vigilanza ed il rigore delle leggi. In Roma, dove vi era unione di molti uomini, vi doveva essere il magistrato che aveva il diritto di convocarla e di presiedervi; (1) e fin da' primi tempi della Repubblica le assemblee notturne e le clandestine unioni erano severamente proibite. (2) Ne’ tempi posteriori i misteri di Bacco giustificarono bastantemente la vigilanza e la severità di queste antiche leggi. L’impenetrabilità del velo che li copriva, era destinata a nascondere quanto di più osceno e di più orribile sia capace di commettere l’umana malvagità.    (3)

Ma se la legge dee punire le clandestine e pericolose unioni, deve essa proibire ogni specie di unione? La soverchia oscitanza e l’eccessiva diffidenza riguardo a questo non sono forse ugualmente viziose? Se la prima espone lo Stato a' pericoli dell’anarchia, l’altra non gli fa forse sentire tutto il peso del dispotismo e della servitù? Quando il governo ha come assicurarsi dell’innocenza d’un’unione, ancorché il secreto sia uno de'    doveri de'    suoi componenti, non sarebbe forse una tirannia il proibirla? Gl'innocenti piaceri che incontra l’uomo in un’unione, nella quale alcuni più stretti rapporti l'uniscono ad altri uomini, dovranno forse richiamare lo spavento del governo ed il rigore delle leggi? L’Egitto, la Persia e la Grecia non rispettarono forse il segreto de' loro Iniziati? L’arcano che nascondeva i misteri d’Iside, di Mitra e di Cerere, li rese mai sospetti a' legislatori di questi popoli? La legge in Atene, molto lontana dal vietarli, non puniva essa colla maggior severità colui che avesse ardito di svelarli? (1) Il carattere delle persone che compongono una società, non basta forse al governo per indagarne lo spirito e l’oggetto? Il voler tutto permettere ed il voler tutto proibire, l’ignorar tutto ed il voler tutto sapere, indicano ugualmente la debolezza ed il vizio del governo. Non si può dare un passo fuori degli spazii della civile libertà, senza entrare in quelli della tirannia.

Finalmente per non trascurare alcuno de'    delitti, che vanno sotto questo titolo compresi, noi vi uniamo i seguenti. Cercar danaro per via di lettere o per altro mezzo, colla minaccia di uccidere o incendiare nel caso di rifiuto; spargere de'    falsi vaticinii o funesti presagi per ispaventare e sedurre il credulo volgo; turbare la pubblica tranquillità e sicurezza col venire alle mani, o impugnar l’armi in luogo ed in un tempo destinato a' pubblici affari, o a' pubblici piaceri; (2) preferire alla via pacifica ed ordinaria della giustizia e delle leggi quella della violenza e della forza, per mettersi in possesso di un bene, per ricuperarlo o per ritenerlo; (3) incutere spavento e terrore col portare armi dalle leggi proibite: (4) ecco gli altri delitti contro la pubblica tranquillità e sicurezza.


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TITOLO III

De’ delitti contro la salute pubblica

Da' delitti contro la tranquillità pubblica io passo a quelli contro la salute pubblica. Malgrado la velocità, colla quale io corro in questa enumerazione, mi pare sempre di fermarmi troppo sugli oggetti, ne' quali m’incontro. Io accelero il mio corso, a misura che la stanchezza si fa maggiormente sentire in me, e che la noia che questo esame mi cagiona, accresce la mia naturale impazienza. È difficile non annoiar gli altri, quando chi scrive annoia se stesso; ma nelle opere di sistema, e tanto più in quelle che riguardano la pubblica utilità, questo

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male dev'essere con pazienza tollerato e da chi scrive e da chi legge. Cerchiamo dunque di renderlo meno penoso col renderlo meno durevole.

Tra' delitti contro la salute pubblica il più funesto è il contagio della peste.. Tutte le nazioni hanno delle leggi per prevenire questo male, e queste leggi sono relative alla loro locale posizione ed alle altre particolari circostanze della loro industria e del loro commercio. Le violazioni di queste leggi formano tanti delitti contro la salute pubblica, il più grave de'    quali è quello, col quale si viola quella legge che ha una relazione più prossima col male che cerca d’impedire. Io non posso esprimermi qui che con termini generali; giacche, come si è detto, le disposizioni delle leggi relative a questo oggetto dipendono quasi interamente dalla situazione locale del paese, e dalle altre sue politiche ed economiche circostanze. Quel che ne ho detto, basterà per indicare la differenza che vi dev’essere nella loro penale sanzione, ed è inutile aggiugnervi la distinzione che in ciascheduna di esse trovar si dovrebbe sulle pene de'    rispettivi gradi di colpa e di dolo.

Manifatturare e vendere de'    veleni è l’altro delitto contro la salute pubblica. Colui che ne fa uso per tórre la vita ad un altro, è un omicida; ed il suo delitto non ha luogo in questa classe. Questo è l’inimico di un privato; ma colui che ne fa un oggetto di commercio, è l’inimico pubblico. (1)

Non molto diverso è il delitto di coloro che preparano o vendono le bevande destinate a cagionare gli aborti, delle quali i disordini delle donne rendono anche più frequente l'uso. Questo delitto è anche maggiore, perché è destinato a cagionare un parricida, e l'autore della bevanda non può ignorare che la conseguenza della sua opera dev’essere il più orrendo de'    delitti. (2)

L’incendio direttamente o indirettamente procurato è un altro delitto contro la salute pubblica. Questo delitto riguarda le persone e le cose, la vita e le proprietà. L’incendio che si cagiona in un luogo pubblico è un delitto maggiore che l’incendio che si cagiona in una casa privata; l’incendio di una casa in una città, in un paese, è più grave dell’incendio di una casa in campagna; l’incendio che si cagiona in una vigna, in un bosco, ecc., isolato, è minore dell'incendio che si cagiona in un luogo dove questo male può dilatarsi ed estendersi. La legge dee, dunque, distinguere l’incendio che non può recar male che a colui, contro del quale si commette, da quello che può recar male ad una comunità intera o a molti de'    suoi individui. Nel primo caso il delitto è minore, nel secondo è maggiore; perché nel primo caso il patto che si viola ha un’influenza minore sull'ordine sociale che nel secondo.

L’ultimo delitto finalmente, che io comprendo sotto questo titolo, è la vendita de'    cibi guasti e mal sani. Malattie epidemiche e desolatrici hanno più di una volta avuto origine da questa causa. Alla vigilanza dell'amministrazione unir si deve la sanzione delle leggi, per allontanare l’avarizia de'    venditori da questo pernicioso delitto. Le leggi d’Inghilterra non han trascurato quest'importante oggetto. (1)


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TITOLO IV

De’ delitti contro il commercio pubblico

Molti delitti relativi a quest'oggetto non riconoscono la loro esistenza che dal difetto e dal vizio delle leggi. La parte economica di una nuova legislazione, fondata sui principii da noi esposti e sviluppati nel II libro di quest’opera, farebbe sparire una gran parte di questa specie di delitti che oggi vengono puniti da quelle stesse leggi che li producono. Tolti gli ostacoli che trattengono il corso del commercio interno ed esterno di una nazione, ci sarebbe forse bisogno di punire il monopolio per evitarlo? Lasciando al contrario questi ostacoli, si eviterà forse il monopolio, punendolo? Lasciata la massima libertà all’ammissione ed all’estrazione de'    generi e delle derrate, vi sarebbe forse bisogno di una legge per punire coloro che nascondono o lascian perire una porzione delle loro derrate, per vendere a più caro prezzo l’altra? (2) L’interesse privato non farebbe forse allora le veci della legge, senza aprir l’adito alle sue vessazioni? Corretto il sistema delle imposizioni e de'    dazi, concessa la maggior libertà all'ammissione ed all'estrazione de'    generi e delle manifatture, adottato il gran sistema del dazio diretto, vi sarebbero forse più contrabbandi da punire e frodi da evitare col più assurdo rigor delle leggi? (3) La mano protettrice del governo, senza spaventare colla morte o colla servitù il cittadino industrioso e lo speculatore ardito; senza creare o sostenere quella giurisprudenza iniqua delle dogane, autorizzate a pronunziare le più terribili pene contro l’avidità che le disprezza, nel tempo che sottopongono ad una rigorosa schiavitù ed alle più amare umiliazioni la probità medesima che le rispetta; senza, io dico, riempiere lo Stato di delinquenti e di vittime, di violazioni e di pene, di attentati e di supplizii, non potrebbe essa provvedere alla sussistenza del popolo ed alla percezione delle pubbliche contribuzioni, concedendo la massima libertà al commercio ed introducendo la maggior semplicità ne' tributi?

Se la proprietà fosse così rispettata dalle leggi, come dovrebbe esserlo, si potrebbe forse condannare come delinquente il proprietario che non vuol vendere ad un moderato prezzo i prodotti del suolo o della sua industria? Lo stabilimento del Romano Dritto su quest'oggetto(1)non apparirebbe forse il più assurdo agli occhi del legislatore filosofo?

Se i dritti della proprietà personale fossero ugualmente rispettati dalla nuova legislazione; se la conservazione e la perfezione delle arti fossero interamente affidate alla libertà di esercitarle ed all'emulazione della concorrenza; se le corporazioni delle arti e mestieri fossero abolite, come si è da noi proposto, quanti delitti sparirebbero dal Codice criminale?(2) Di niuno di questi delitti noi parleremo dunque in questo titolo, perché niuno di questi delitti esisterebbe più in una legislazione regolata sui principii da noi esposti. Noi non parleremo neppure de'    fallimenti fraudolenti, rimettendo questo esame alla quarta classe, dove si parlerà de'    delitti contro la fede pubblica. Noi non parleremo che del guasto delle strade, dell'alterazione e falsificazione delle monete, della falsificazione delle lettere di credito mercantile, e dell'uso de'    fraudolenti pesi e misure, che sono i soli delitti contro il commercio pubblico che rimaner dovrebbero compresi sotto questo titolo nella nuova legislazione. Il primo di questi delitti turba l’ordine pubblico ed il pubblico commercio, o interrompendo o rendendo difficile la comunicazione che le pubbliche strade son destinate a mantenere. ed accelerare. Il secondo produce gl’istessi effetti, alterando o falsificando i mezzi rappresentativi del valor delle cose, senza de'    quali il commercio sarebbe ristretto negli angusti limiti delle permute, e gli uomini civili verrebbero ricondotti alla condizione de'    loro barbari padri. Niuno ignora i gravi mali che può produrre al commercio interno ed esterno la falsificazione e l’alterazione delle monete; ma niuno ignora la poca distinzione che si è fatta dalle leggi ne' delitti relativi a quest’oggetto, e l’eccessiva severità colla quale sono stati puniti. Colui che diminuisce il peso delle monete che sono dalla pubblica autorità coniate; colui che le falsifica, e colui che le smaltisce; colui che ne diminuisce il valore coniandole, e colui che le conia senza alterarne il valore,

purché sieno d’oro o d’argento, sono considerati rei dell’istesso delitto. La Legge Cornelia che Cicerone(1)chiamò testamentaria e numeraria, fu la prima a confondere delitti così diversi.(2)

Ma Silla, incorrendo in questo primo vizio, non incorse anche nel secondo. Egli si contentò di condannare all'interdizione dell'acqua e del fuoco i rei di questi delitti.(3)Non fu che ne' tempi posteriori che le condanne alle fiere, alla forca ed al fuoco furono adoperate per questi delitti.(4)

Ne’ codici della più gran parte dell'Europa l'errore di Silla e la ferocia de'    posteriori legislatori di Roma si sono entrambi seguiti. La legge non ha messa distinzione alcuna nella pena de'    delitti qui sopra accennati, e li ha tutti puniti colla morte.(5)I nostri legislatori non han veduto che chi conia una falsa moneta, dandole l’istesso valore della vera, non viola che un solo patto; e colui che la conia, dandogli un valore minore, ne viola due. Essi non han veduto che nel primo caso non si reca che un picciolo danno agl'interessi del Fisco, privandolo del lucro del conio, e nel secondo a questo male si unisce il maggiore, qual'è la frode pubblica ed il disturbo del commercio. Essi non han veduto che chi altera il valore delle monete dalla pubblica autorità coniate, è meno reo di colui che le conia senza dar loro il giusto valore. La giustizia e l’interesse pubblico richiedevano ugualmente una differenza nella sanzione penale. La progressione più giusta e regolata da' principii da noi stabiliti sarebbe la seguente. Coniare una falsa moneta e darle un minor valore della vera, sarebbe il maggiore di questi delitti. Alterare il valore delle vere o limandole o tagliandole o con altro mezzo, sarebbe il secondo. Coniarle senza commettere alcuna frode nel loro intrinseco valore, sarebbe il terzo. Finalmente colui che d’accordo coll'artefice esitasse le monete ch'egli ha o coniate o alterate, soggiacer dovrebbe all'istessa sua pena, vale a dire, a quella o del primo o del secondo o del terzo caso, cioè alla pena relativa al valore del delitto, del quale egli si renderebbe complice. Per le monete d’inferior condizione la pena dovrebbe anche essere più mite; sì perché il guadagno, che si può sperare falsificandole o alterandole, essendo molto minore, avrebbe bisogno di un minor ostacolo per essere prevenuto, come anche, perché il danno che ne riceve la società è molto minore.

La falsificazione delle lettere di credito mercantile, indebolendo i legami del commercio, e diminuendo quella buona fede che ne accelera il corso, deve anch’essa richiamare la maggior vigilanza delle leggi. In Inghilterra questo delitto è punito colla morte; e non vi è caso che il delinquente si sottragga dal rigor della legge, mediante la grazia del re. Se i vantaggi del commercio richieggono l’inflessibilità del governo, non possono però giustificare il soverchio rigor della pena. Una pena più moderata potrebbe ottenere l’istesso fine, senza eccedere gl’inviolabili confini della moderazione,e senza trascurare i principii della proporzione tra la pena ed il delitto.

L'ultimo delitto contro il commercio pubblico è, come si è detto, l’uso de'    fraudolenti pesi e misure. La relegazione e la prestazione del doppio è la pena che il comune dritto stabilisce per questo delitto. (1) Una pena interamente pecuniaria pare che sarebbe più analoga alla sua natura. Questa discenderebbe anche da' principii da noi antecedentemente stabiliti sull'uso di queste pene. L’uniformità de'    pesi e delle misure in uno Stato. potrebbe contribuire più della pena istessa a prevenire questo delitto.


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TITOLO V

De’ delitti contro l'Erario pubblico

Se adottandosi il sistema economico, del quale si è parlato, i delitti contro il commercio pubblico si ristringerebbero a quattro, quelli contro l’Erario pubblico si ridurrebbero a due: il Peculato e la Frode. Il peculato è un furto pubblico positivo; la frode è un furto pubblico negativo. Se il peculato si commette dagli amministratori o depositarli delle pubbliche rendite, diviene un delitto di qualità diversa da quello, del quale io qui parlo. Il depositario, l’amministratore unisce al furto l'abuso della pubblica confidenza; e questa è la ragione, per la quale noi collocheremo questo delitto nella classe di quelli contro la fede pubblica. Il peculato dunque, del quale qui si parla, è quello che si commette da colui che non è depositario, né amministratore, né esattore delle pubbliche rendite. Le Romane Leggi distinguono ancor’esse queste due specie diverse di delitto, dando all’uno il generai nome di Peculato, ed all'altro quello De residuis. (1) Passiamo alla frode.

Adottandosi il gran sistema del dazio diretto da noi proposto, la frode si restringerebbe all’occultazione del valore o dell’estensione de'    fondi, per defraudare l'Erario pubblico di una parte di quella contribuzione che gli sarebbe dovuta. Imitandosi uno stabilimento ammirabile dell’Attica legislazione, noi troveremmo il modo da prevenire e da punire nel tempo istesso questo delitto. Quest’era la permutazione delle facoltà. In ogni tribù si ripartivano i pesi pubblici, e bisognava che cadessero sui più ricchi di ciascheduna tribù. Se la giustizia era lesa nella ripartizione, se si risparmiava il più ricco e si aggravava il più povero, questi aveva il dritto di reclamare e d indicare la maggior ricchezza dell'altro. Se il più ricco ch'era rimasto immune nella ripartizione, confessava la superiorità delle sue ricchezze, il peso del più povero passava a lui e tutto era finito; ma se negava di esser più ricco, l’accusatore permutava con lui le sue facoltà, ed egli non poteva rifiutarsi a questa permuta. (2) Per adattare quest’istituzione al nostro piano bisognerebbe modificarla. Siccome la tassa sui fondi dovrebbe esser fissa e permanente, il legislatore dovrebbe lasciare a ciascheduno, pel corso intero di un anno, dopo formata la ripartizione, la libertà di accusare il proprietario che ha occultata una parte dell’estensione de'    suoi fondi, o che ne ha fraudolentemente occultato l’effettivo valore; e, trovandosi vera l'accusa, dovrebbe cederli all’accusatore per quell'estensione e per quel valore ch’egli istesso dato loro aveva. Questa pena sarebbe la più giusta; essa discenderebbe dalla natura istessa del delitto e sarebbe la più efficace a prevenirlo. Il proprietario istesso sarebbe il più rigido estimatore de'    suoi fondi, quando la frode l'esporrebbe alla sicurezza di perderli. Egli sarebbe sicuro che non mancherebbe un accusatore al suo delitto, quando vi fosse tanto vantaggio nel ma nifestarlo.


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TITOLO VI

De' delitti contro la continenza pubblica

Se le leggi penali formar non possono i costumi di un popolo, possono però contribuire molto a conservarli nella loro purezza. La corruzione degl'individui non si diffonde mai in tutto il corpo sociale) se non quando la privata depravazione elude il rigor delle leggi o vien da esse tollerata. Senza la censura la virtù sarebbe comparsa in Roma, ma vi sarebbe forse rimasta per minor tempo. L’oggetto di questa magistratura non era di far nascere gli eroi, ma d’impedire che gli eroi si corrompessero. Ecco anche la parte che le leggi penali prender debbono nel costume pubblico. Esse, come si è detto, non debbono formarlo, ma conservarlo. Per ottener questo fine esse punir, debbono i delitti contro la continenza pubblica o particolare, vale a dire, contro la polizia stabilita nello Stato sulla maniera, colla quale è permesso di godere de'    piaceri dipendenti dall'uso de'    sensi e dall'unione de'    corpi.

I clandestini matrimoni!; gl’incestuosi coniugii con frode contratti; la poligamia e la poliandria, dove queste son proibite; il concubinato; il lenocinio negli estranei; la prostituzione; la pederastia e gli altri delitti a questa simili che si chiamano col generale nome di delitti contro natura, vengono sotto questo titolo compresi. Io non parlerò qui dell'adulterio, del ratto, dell’incesto e dello stupro, né del lenocinio ne' parenti, perché questi delitti saranno in un’altra classe collocati. (1)

Le leggi che prescrivono le solennità delle nozze, per render certa la condizione degli sposi e quella de'    figli, e prevenire le funeste conseguenze dell’inganno e della frode; quelle che per l’ordine interno delle famiglie, per la moltiplicazione de'    sociali vincoli che le nozze producono, e per altre cause determinano i gradi di parentela, ne' quali non è permesso di contrarle; le leggi che stabilendo la monogamia favoriscono i principii della patria religione, e quelli dell’interesse pubblico; le leggi che veggono nel lenone il promotore dell’incontinenza pubblica, nel concubinato l’offesa de'    costumi, la diminuzione de'    matrimonii e dell'utile popolazione che non può che da questi procedere; e quelle che veggono nella prostituzione un male che non si può estirpare, che non si può proscrivere, ma che si dee render penoso per le donne che l’esercitano) coll’infamia e colla perdita di una parte considerabile delle civili prerogative; le leggi finalmente che cercano di prevenire l’introduzione o i progressi di un vizio che degrada l’umanità, sconvolge l’ordine della natura e minaccia la rovina della popolazione: queste leggi, io dico, che hanno la più grande influenza sull'ordine pubblico, perché dirette a conservare il pubblico costume, sono quelle che vengono violate da' delitti sotto questo titolo compresi.(1)In Roma, in Sparta, in Atene, in tutti i paesi, ne' quali i legislatori han conosciuta l’influenza che ha la conservazione de'    costumi sulla civile libertà, questi delitti han richiamata la maggior vigilanza delle leggi. È un errore il credere che le leggi in Greta permettessero il delitto contro natura, è un' maggior errore il credere che questo delitto si commettesse impunemente nelle altre repubbliche della Grecia. Uno scrittore celebre(2) ha fatto vedere cosa era presso questi popoli l’amor de'    fanciulli, ed ha vigorosamente difesa l’antichità da quest’obbrobrio. Non era la bellezza del corpo, dice Strabone,(3) che determinava il Cretese all'amore di un fanciullo; ma le doti dell'animo, la verecondia, la candidezza de'    costumi e il vigore dello spirito e del corpo, gl’ispiravano questa virtuosa passione. Era un’ignominia per un fanciullo il non avere un amante; quest’era un indizio del suo cattivo carattere e della corruzione de'    suoi costumi. (4)

In Sparta, dove la legge non solo non proibiva, ma prescriveva l’amor de'    fanciulli, ogni menomo attentato contro la più austera pudicizia era severamente punito coll’infamia e colla perdita delle civiche prerogative.(5)Un fanciullo istesso, dice anche Plutarco,(6)poteva avere più amatori, senza che la gelosia si mescolasse tra loro. L’oggetto degli amanti era di educare il fanciullo, e di avvezzare il suo cuore ed il suo spirito all'amore ed all'esercizio della virtù. I suoi delitti, le sue mancanze venivano attribuite all’amatore, ridondavano in sua vergogna ed erano in lui punite. Un fatto conservato da Eliano ce lo conferma.(1)Quest'amore non si estingueva col crescere degli anni, ed il fanciullo amato, giunto alla virilità, non lasciava di dipendere da' consigli e dalle istruzioni del suo amatore.(2)Finalmente basta gittare un’occhiata sull'Attica Legislazione, per vedere quanto l’amore dei fanciulli diverso fosse dal delitto, del quale si parla. Eschine e Demostene ci han conservate le varie disposizioni delle Attiche Leggi, relative a quest'oggetto.

Una legge di Solone proibiva l’amor de'    fanciulli ingenui a' servi.(3)Chi non è libero non può formare un uomo per la libertà. La legge che vedeva nell’amante un educatore, non voleva che il cittadino fosse nella sua infanzia allevato ne' sentimenti della servitù.

Non altrimenti che in Creta ed in Sparta, l’amor de'    fanciulli era permesso in Atene;(4)ma l’abuso di quest’amore era severamente punito. Il ratto violento di un fanciullo era punito colla morte.(5) L’accusa d'impudicizia era istituita contro il padre, il fratello o il tutore che prostituiva il fanciullo ch’era sotto la sua potestà, o contro colui che condotto l'avesse a quest’atto infame.(6)Non era necessario che il fanciullo, che si prostituiva o si violava, fosse cittadino o libero; ancorché fosse servo, s’incorreva in tutto il rigore della pena.(7)La legge vedeva in questo delitto più l’oltraggio che si recava alla natura che quello che si recava all'uomo. Finalmente la pena di colui, che veniva condannato d’impudicizia, era l’esclusione da tutte le cariche, dignità, onori, magistrature e prerogative della cittadinanza. Il delinquente non poteva più entrare ne' pubblici templi, né esser sacerdote o giudice; e violando la legge era punito colla morte.(1)

Questi fatti, queste leggi, queste testimonianze basteranno, io spero, per distruggere un pregiudizio che ha avuti ed ha tuttavia tanti seguaci. Una congettura si unisce a questi argomenti per dar loro maggior forza. Se l’amor de'    fanciulli fosse stato nella Grecia unito al vizio, contro del quale le leggi di queste repubbliche furono così rigorose, Socrate, il divino Socrate, avrebbe egli alimentata senza alcun mistero questa passione? Avrebbe egli palesato tanto poco riguardo per quelle leggi ch’egli rispettava tanto? Il suo amico, il suo discepolo, il suo panegirista Platone, avrebbe egli condannato con tanto orrore questo vizio; avrebbe egli chiamati omicidi del genere umano coloro che vi si danno in preda, se il suo eroe ne fosse stato intinto? (1) Gallia, Trasimaco, Aristofane, Anito, Melito e tutti gli altri nemici di quest’eroe accusandolo di tanti supposti delitti, si sarebbero forse taciuti sul vero? Il silenzio di tutti questi nemici di Socrate non ci deve forse prevenire in favore dell'innocenza del suo amore? (2)

Io mi son disteso troppo in questa digressione, ma l’amor della verità me lo ha prescritto.


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TITOLO VII

De' delitti contro la pulizia pubblica

Ogni nazione ha alcune leggi di pulizia, che hanno un’influenza immediata e diretta sull’ordine pubblico. Le violazioni di queste formano i delitti sotto questo titolo compresi. Tali sono le leggi che proibiscono alcune specie di azioni, che non sono da per loro stesse nocive alla società, ma che possono divenir tali per le loro conseguenze; tali quelle che proibiscono alcuni oggetti di fasto o di lusso; tali quelle che hanno in mira il comodo pubblico e la decenza pubblica nelle strade, negli edifizii e nelle pubbliche piazze; tali quelle che proibiscono le private case di dissolutezza e di postribulo; tali finalmente quelle che condannano l’ozio e l’inazione in quella classe di persone che, non avendo né proprietà né rendite, sono sempre pericolose per la società e sospette alle leggi, allorché non esercitano alcun’arte o mestiere per provvedere alla loro sussistenza. L’Areopago in Atene, per punir l’ozio, aveva il dritto d’interrogare ogni cittadino sulla maniera, colla quale egli provvedeva alla sua sussistenza. (3) Una simile funzione esercitar si dovrebbe da quel magistrato d’ordine e di pace, che noi abbiam proposto nella prima parte di questo libro. (1) La mendicità e l’ozio negli uomini, che non hanno altro patrimonio che quello delle loro braccia, dovrebbero esser puniti dalla legge; essa dovrebbe punire quell'uomo che perde nell'inazione la sua vigorosa gioventù, e che tende con bassezza e viltà al ricco quella mano che potrebbe essere utile allo Stato. Ma prima di punir l’ozio e la mendicità, essa dovrebbe estinguerne la sorgente.

Essa dovrebbe torre all’agricoltura, alle arti, al commercio quegli ostacoli che ne producono il languore; essa dovrebbe dare a ciaschedun cittadino i mezzi da provvedere alla propria sussistenza con un discreto lavoro; essa dovrebbe far passare nelle campagne una parte delle ricchezze e degli uomini che marciscono nelle città; essa dovrebbe garantire il debole ed il povero dalle oppressioni del ricco e del potente; essa dovrebbe diffondere le proprietà e moltiplicare i proprietari; essa dovrebbe correggere il sistema delle imposizioni e de'    dazi; essa dovrebbe in poche parole eseguire il gran sistema economico che si è da noi proposto, senza del quale vi saranno sempre nello Stato gli oziosi e mendici, e sarà sempre un’ingiustizia il punire l’ozio e la mendicità. Questi non son vizii naturali all'uomo. Egli dee superare un grande ostacolo, quello dell’umiliazione e della vergogna, per darvisi in preda. Se distrutte le cause che ve lo conducono, vi è chi per un abborrimento al travaglio e per una degenerazione di carattere preferisce l’umiliazione della mendicità a' sudori della fatica, allora costui deve incorrere nel rigor della legge, allora la sua sanzione è giusta, allora la pena è meritata.


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TITOLO VIII

De’ delitti contro 1 ordine politico

L’ordine politico d’uno Stato è determinato dalle fondamentali leggi che regolano la ripartizione delle diverse parti del potere, i confini di ciascheduna autorità, le prerogative delle diverse classi che compongono il corpo sociale, i diritti e i doveri che da quest'ordine procedono. Lo straniero che in una Repubblica s’intrude nella concione del popolo o si fa fraudolentemente ascrivere nel censo civile; (2) il servo, il liberto, l'infame o colui che, non avendo dritto al suffragio, si mescola ne comizi, stende la mano e gitta nell’urna quella frazione di un decreto che può decidere del destino del popolo; il candidato che, senza avere i personali requisiti dalla legge prescritti, ambisce una magistratura, e cerca di sorprendere il popolo; il candidato che lo corrompe co' doni, colle seduzioni o colle promesse; l’oratore o il magistrato che viola le leggi della concιone; il cittadino che, senza giusta causa, non v’interviene; il magistrato che eccede i limiti del suo potere, ch'estende la sua autorità, che oltrepassa i confini della sua giurisdizione; colui che disprezza o si arroga (1) i privilegi dalla legge concessi ad alcuni individui o a' diversi ordini dello Stato; (2) il cittadino che rifiuta di servire la patria o difenderla; il guerriero che fugge all’aspetto dell’inimico, che cerca nelle schiere nemiche un vile asilo, che si rende reo di diserzione; colui che senza il consenso della pubblica autorità milita sotto un principe straniero, o che, ricoverandosi presso i nemici della patria, rivolge contro di essa quelle armi che gli erano state date per difenderla; costoro, io dico, violano l’ordine pubblico e si rendono rei de'    vari delitti sotto questo titolo compresi.

Alcuni di questi delitti non han luogo che in una specie di governo; altri han luogo in tutte. Alcuni di essi sono più perniciosi nelle Repubbliche e meno nelle Monarchie. Alcuni turbano maggiormente l’ordine pubblico in un governo, ed altri in un altro. Alcuni sono più spaventevoli in un tempo, ed altri lo sono ugualmente in tutti i tempi. Si appartiene al legislatore di osservare queste differenze, di combinarle collo stato della sua nazione, e di dedurne la misura del rigore delle sue sanzioni. Io non posso esprimermi con maggior distinzione; ma potrei io tacermi sopra uno di quegli orrori della moderna legislazione, contro del quale non si può mai bastantemente inveire, ed al quale l’esame di questi delitti ci conduce? Potrei io passare sotto silenzio la ferocia, colla quale le nostre leggi puniscono uno de'    minori delitti, la semplice diserzione?

Che una Repubblica chiami tutti i figli della patria al suo soccorso; che quando la sua libertà è esposta, la sua sovranità compromessa, la sua indipendenza minacciata, armi tutte le mani che la compongono; che dichiari, come in Atene, vile ed infame colui che rifiuta di difenderla, che fugge o abbandona il suo posto; (1) che punisca come proditore e parricida il traditore che, abdicando il suo dritto alla corona, prostituendo la sua gloria e la sua dignità, vende i propri servigi a' nemici della società, della quale è membro: essa non fa che secondare i principii della giustizia e quelli dell’interesse pubblico. (1) Il fuggitivo di Sparta e di Atene aveva goduto de'    vantaggi, contro i quali egli cospirava; era concorso alla legge che condannava alla morte il reo di quel delitto, del quale egli si rendeva colpevole; aveva avuta parte nella concione che profferito aveva una così giusta sanzione.

Che in una Monarchia il monarca esiga l’istesso da' suoi sudditi; che adoperi l’istesse pene nelle stesse circostanze; che punisca coll'infamia il codardo che rifiuta di prender le armi, o che fugge ed abbandona il suo posto; che punisca anche colla morte colui che va ad arruolarsi nelle schiere mimiche, per rivolgere contro il proprio Sovrano quelle armi che avrebbe dovuto impugnare per difenderlo: in questo caso l’interesse della pubblica difesa pare che scusar potrebbe il soverchio rigor della legge. Ma che in una Monarchia e nel tempo di tranquillità e di pace, tra soldati vili, mercenarii e mal pagati; tra uomini che la frode, la seduzione o la violenza ha condotti a vendersi per un dato numero di anni, ed a trasformarsi in guerrieri; tra esseri che non conoscono altro sentimento, se non quello dell’indigenza che li fa languire e della schiavitù che li opprime: che in queste circostanze, io dico, si minacci, nel caso di diserzione, la pena di morte a questi spettri, a questi fantasmi armati; che si conduca sopra di un patibolo l’infelice che, non potendo reggere alle molestie della fame, della nudità e della servitù, ha cercato di riacquistare la perduta libertà e quel vigore, che non le fatiche della guerra, ma l'ozio delle guarnigioni, i cenci che lo cuoprivano e la scarsezza del cibo avevano fatto perdere al suo corpo mal vestito e mal nudrito; che la paterna mano del padre della patria sottoscriva il decreto di morte di quest'infelice che, osservato da alcuni aspetti, non si può dir reo di alcun delitto: la natura freme e tutti gli sforzi della più seduttrice eloquenza non basterebbero a scusare quest'orribile ingiustizia Ma chi 'l crederebbe! Nel mentre che un Ministro illuminato e savio ha fatto abolire la pena di morte pe’ disertori in una Monarchia militare, (2) il Congresso delle Provincie Unite d’America l’ha intimata a' bravi e liberi suoi difensori. Un giovane di 22 anni fu il primo a subire il decreto di una legge, della quale le Potenze istesse fondate sul dritto della spada oggidì arrossiscono. Anche nella città de'    Fratelli, in un campo ornato da' vessilli della libertà, tra' difensori arditi di una contrastata indipendenza, dovranno dunque penetrare i vizi delle nostre leggi? L’impero dell'errore dovrà dunque passare da un emisfero all’altro, e superare gli argini de'    lumi e della virtù? Lo stendardo della libertà dovrà dunque essere ugualmente imbrattato di sangue che lo scettro del dispotismo? Gli uomini che hanno spezzate con una mano le catene della servitù, non isdegneranno dunque di fare sfolgorar coll'altra il pugnale, di cui si arma il carnefice? No: l’Assemblea rispettabile, che profferì questa terribile sanzione, non macchierà sicuramente il nuovo codice che prepara con questa legge ingiusta. Essa troverà nel patriottismo e nell'onore il sostegno del coraggio, della costanza e del valore; e nell’infamia, la pena opportuna della viltà e della diserzione.

Non togliamo la vita al fuggitivo ed al vile, dice Platone; ma rendiamogliela penosa coll’ignominia e lunga coll’escluderlo per sempre dall'onore di difender la patria e di perire per essa. (1)

Savi e gloriosi Pensilvani, perché, invece di seguire le massime di questo repubblicano antico, dovreste voi piuttosto preferir loro quelle dettate dal dispotismo e ricevute dalla servitù? Perché e nella guerra e nella pace e nel foro e nel campo non vi dovreste voi ugualmente ricordare che siete liberi; che avete comprata la vostra libertà col vostro sangue; che avete sconosciuta la vostra madre per le ingiustizie de'    vostri fratelli; che avete proscritte le antiche leggi che vi regolavano, perché vi opprimevano; che avete scosso un giogo troppo pesante per la vostra fierezza, ma che sarebbe sembrato leggiero agli altri popoli che hanno avuta la disgrazia di perdere fin’anche la memoria della loro dignità?

Perché, nel formare il gran codice che da voi si attende, non vi dovreste voi ricordare che voi siete, nel gran continente che abitate, l'unico deposito della libertà ed il più tristo esempio pel dispotismo e per la tirannide? Ignorate voi forse che una legge come questa offrirebbe al vile partigiano del dispotismo un mezzo da calunniare la libertà; che gli errori degli uomini liberi sono spinti e numerati da coloro che non vogliono che gli uomini sian liberi;che ogni abuso dell’uguaglianza in una regione è un pretesto per distruggerla in un’altra; che i più gran mali della servitù sono fortificati e rassodati da' più piccoli inconvenienti della libertà? Nel mentre che il giovane disertore era da voi condotto al patibolo, credete voi che il difensore dell’antica dipendenza sia rimasto muto a questo spettacolo? Credete voi che egli non abbia profittato di questa occasione, per inaffiare i semi della servitù nel cuore de'    vostri concittadini? Credete voi che a mille leghe di distanza, quando la notizia di quest’atroce condanna pervenne nelle Monarchie dell'Europa, il cortigiano infame ed il servo vile non abbian detto: «Ecco ciò che avviene nell’America indipendente; in questo governo libero, che fa l’oggetto dell'ammirazione dell'entusiasta e del fanatico! Schiavi fortunati, avrà ancor detto, ardite ora di lagnarvi che io disprezzo le leggi e la libertà. Sotto un despota, voi potete sperare d’intenerire il vostro padrone: ma chi placherà la legge, se la virtù istessa del magistrato è di renderla inflessibile l'»

Cittadini liberi dell'indipendente America, voi siete troppo virtuosi e troppo illuminati per non ignorare che, conquistando il dritto di governarvi da voi medesimi, voi avete contratto agli occhi dell’universo il sacro dovere di esser più savi, più moderati e più felici di tutti gli altri popoli. Voi dovrete dar conto al tribunale del genere umano di tutti i sofismi che i vostri errori potrebbero produrre contro la libertà. Guardatevi, dunque, dal fare arrossire i suoi difensori e dal fare sparlare i suoi nemici.


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CAPO XLVIII

Quarta Classe - De’ delitti contro la fede pubblica

Un’appendice de'    delitti contro l'ordine pubblico vien formata da quelli contro la fede pubblica. Servirsi del deposito della pubblica confidenza, per violare que’ doveri che dipendono da questo deposito istesso, è il carattere de'    delitti in questa classe compresi. Anche i delitti de'    magistrati e de'    giudici contro la giustizia pubblica potrebbero essere in questa classe allogati. Ma siccome essi riguardano più da vicino quell'oggetto, noi abbiamo creduto doverli piuttosto inserire sotto il titolo de'    delitti contro la giustizia pubblica. Il lettore, che seguirà attentamente il corso delle mie idee, vedrà l’ordine occulto che io serbo in questa nuova classificazione de'    delitti, e troverà il filo che mi conduce in questo laberinto immenso.

Il peculato negli amministratori o ne' depositarii delle pubbliche rendite; (1) il delitto di falso ne' notai o ne' pubblici scrittori; (2)la falsificazione o alterazione delle monete nelle persone incaricate del pubblico conio; (3)la violazione de'    segreti dello Stato nella persona pubblica che ne è depositaria; (4)l’abuso del suggello del Sovrano in colui che lo custodisce; la frode del tutore sul suo pupillo; il fallimento fraudolento di un pubblico negoziante: sono i delitti che in questa classe si comprendono.

L’immensità della materia che ho per le mani e la brevità, della quale mi son fatta una legge, ma che violo sovente, quando il sentimento mi trasporta, non mi permette d’indicare alcune mie idee relative alla natura di questi delitti. Io le immolo volentieri a questa penosa brevità; ma non potrei senza rimorso omettere quelle che riguardano l'ultimo di questi delitti, il fallimento fraudolento. Il motivo, pel quale non posso tacerle, è di riparare ad un mio errore istesso.

Nel secondo libro di quest’opera, parlando dell’ostacolo che oppone al commercio la frequenza de'    fallimenti, ed indicando un nuovo piano che tener si dovrebbe per prevenirli ed una nuova sanzione che si dovrebbe adoperare per punirli, io proposi l'inustione sulla fronte del reo che indicar dovesse colle iniziali lettere del suo delitto la sua infamia e la sua mala fede; e dissi che, ornato di questi fregi, si lasciasse libera la sua persona, e si restituisse alla società l’infame. (1) Le ulteriori meditazioni fatte sul sistema penale mi obbligano a pentirmi di questo involontario errore. La legge, come si è da noi osservato, (2) non deve adoperare l’inustione, se non in que’ delitti, ne' quali questa pena combinar si può colla morte o colla perdita perpetua della libertà. Un uomo che porta sulla sua fronte il segno della sua ignominia, deve divenire un mostro subito che è lasciato in libertà. Sicuro di non poter mai più acquistare la confidenza de'    suoi simili in qualunque parte della terra che egli vada, egli non ha che a scegliere tra un volontario e perpetuo carcere o a darsi in preda a' più esecrabili delitti. Nel primo caso la legge, che gli rende la libertà, non gli fa alcun benefizio; nel secondo lo dispone a nuovi delitti e per conseguenza a nuovi supplizi; e dà nel tempo istesso alla società un uomo che non può avere altro interesse, altro oggetto, se non quello di offenderlo. Alla pena da noi proposta bisognerebbe dunque aggiugnervi quella della perdita perpetua della personale libertà.

Questo delitto, come tutti gli altri, essendo suscettibile di varii gradi, il legislatore non dovrebbe adoperare la proposta pena che per quello commesso col massimo grado di dolo. Il fallimento non fraudolento, ma proceduto dalla violazione di quelle suntuarie leggi che noi proponemmo nel citato luogo, meritar dovrebbe una pena molto a questa inferiore, giacché non dovrebbe considerarsi che o nel primo grado di dolo o nel massimo di colpa. Il legislatore dovrebbe dunque fissar le proporzionate pene per i tre gradi di colpa e per i tre gradi di dolo. Egli potrebbe adoperare l’inustione colla perdita perpetua della libertà e la semplice infamia, senza l'inustione, pel secondo grado di dolo; la semplice infamia e la perdita della libertà per un dato tempo, pel terzo; l’esclusione da tutte le cariche e dignità civili, colla perdita della libertà per un minor tempo, pel massimo grado di colpa; la semplice esclusione dalle cariche e dignità, pel secondo grado di colpa; e finalmente la sola perdita della libertà per un ristretto tempo, per l’infimo grado di colpa. Si apparterrebbe quindi a' giudici l'esaminare secondo i proposti canoni a quale de'    sei gradi riferir si dovrebbe il fallimento, del quale render dovrebbero il giudizio. La speculazione ardita non dovrebbe però mai entrare in alcuno di questi gradi. L’energia del negoziante non dev'essere indebolita dallo spavento della pena; è bastante quella che dipende dalla cosa istessa. Il legislatore non deve punire che la negligenza o la frode. Io prego colui che legge, di richiamare alla sua memoria ciò che su quest'oggetto ho pensato, di combinarlo colla correzione che qui ne ho fatto, e per vedere quello che si dovrebbe modificare, e quello che lasciar si dovrebbe in tutta la sua integrità.


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CAPO XLIX

Quinta Classe - De’ delitti contro il dritto delle genti

L’uso ed il consenso tacito delle nazioni hanno introdotte e adottate alcune regole dipendenti dall'applicazione de generali principii della ragione, per dirigere la reciproca loro condotta, per fissare i doveri e i dritti di un popolo verso di un altro popolo, e dare alle nazioni, che sono tra loro indipendenti, alcuni morali vincoli che non potrebbero essere da alcuna di esse spezzati, senza dare all'altra il dritto di armarsi contro di lei, e di farle sperimentare co' mali della guerra la tacita sanzione di questa legge universale. L’aggregato di queste regole forma quello che si chiama dritto delle genti. La custodia di questo dritto tra i diversi popoli è affidata alle squadre ed agli eserciti; ma la custodia di questo dritto tra gl'individui di ciascheduna nazione dev'essere affidata al governo ed alle leggi.

Se un cittadino viola uno de'    doveri dipendenti da questa universal legge, si appartiene al Governo di punirlo come conviene per conservar la pace sulla terra; poiché invano una nazione cercherebbe di osservarla religiosamente, quando i suoi individui potessero impunemente violarla. L’impunità di un delinquente che ha violato il dritto delle genti, può fare di un delitto particolare un delitto universale; può rendere il Sovrano complice del suo attentato; può richiamare la guerra nello Stato; può far piombare sul capo di tutti i suoi concittadini quella pena ch'egli solo meritata avrebbe pel suo delitto. Se se ne eccettui la Britannica Legislazione, ne' codici criminali dell'Europa non vi sono pene stabilite per questi delitti. Il Governo arbitrariamente li punisce, senzaché vi sia una legale sanzione. Ma questo metodo non potrebbe essere serbato in un nuovo codice, l’oggetto principale del quale fosse d’innalzare l’edifizio della libertà civile sulle rovine d’arbitrario potere e sulla sicura base delle leggi. Ecco perché nella ripartizione de'    delitti non ho voluto trascurare di collocare in una particolar classe i delitti contro il dritto delle genti. Noi li ridurremo a cinque oggetti: 1° All’abuso del potere verso l’estere nazioni in coloro che comandano e dirigono un esercito; 2° alla violazione de'    dritti degli Ambasciatori o rappresentanti; 3° alla violazione del salvocondotto; 4° alla trasgressione di qualche particolare trattato della propria nazione con un’altra; 5° alla pirateria.

1. Senza distrarci dal nostro argomento, senza esaminare i motivi, pe’ quali un popolo può muover guerra ad un altro popolo, noi possiamo asserire con sicurezza che al solo Sovrano si appartiene il dritto di dichiararla. Se il Generale o il Duce, abusando dunque del suo potere, rivolge di sua propria autorità le armi contro un popolo che il suo Sovrano dichiarato non aveva per suo inimico, egli diviene reo del massimo de'    delitti che in questa classe si comprendono. Platone vuole che il reo di questo delitto venga condannato alla morte; (1) e questa sanzione dovrebbe essere adottata anche in un codice, ove la massima moderazione fosse nelle pene serbata.

Le sevizie contro i prigionieri, proibite dalle adottate leggi della guerra, formano l'altro delitto dei Generale o del Duce contro il dritto delle genti, la principale legge del quale è di farsi nella pace il maggior bene e nella guerra il minor male che si può. L’umanità che il Cristianesimo e i progressi della coltura de'    popoli dell'Europa hanno introdotta in questa parte del dritto delle genti, dev'essere vigorosamente appoggiata e sostenuta dalle particolari leggi di ciascheduna nazione. Il Duce che le viola, dev’esser considerato come un mostro dalla nazione stessa che difende. Egli espone i difensori di essa alle calamità ed alle sevizie ch’egli ha fatte ferocemente soffrire agl’innocenti ed infelici suoi prigionieri. Ciò ch'è avvenuto nell’ultima guerra, è una trista prova di questa verità.

Ai sono finalmente molti altri stabilimenti riconosciuti e adottati da tutte le potenze, sulla condotta da tenersi verso gl’inimici o gli stranieri, così sul mare, come sulla terra, da coloro che comandano le navi o le truppe, che per brevità io non rapporto. Le trasgressioni di questi stabilimenti formano tanti delitti contro il dritto delle genti, pei quali il legislatore stabilir deve le pene proporzionate alla natura ed all'importanza della trasgressione.

2. I rappresentanti dell'estere nazioni hanno in tutt'i tempi ed in tutt'i luoghi esatta quella venerazione, godute quelle immunità, ottenuti que’ riguardi che si dovrebbero al Sovrano istesso che rappresentano.

Violare i dritti degli Ambasciatori, dice Tacito, è violare quelle regole che sono osservate e rispettate anche tra gl'inimici.(2)Cicerone crede che si violi l’umano ed il divino dritto, violandosi quello degli Ambasciatori e de'    Legati.(3)Ammiano Marcellino ci ha conservata la religiosa opinione degli antichi riguardo a quest’oggetto. Essi credevano che la Divinità fosse inesorabile per questo delitto e che le Furie ministre della sua vendetta non lasciassero mai di tormentare il mostro che se n’era reso colpevole.(1)Basta leggere la dipintura che fa Livio dell’attentato de'    Fidenati, per vedere l’orrore che gli antichi avevano per questo delitto. (2)

Ne’ nostri giorni l’uso introdotto presso tutte le nazioni dell'Europa, di reciprocamente spiarsi per mezzo degli Ambasciatori e de'    Ministri, fissando in ogni Stato, dove più e dove meno, un considerabile numero di rappresentanti, richiamar deve anche una maggior vigilanza delle leggi, affinché vengano i loro dritti rispettati, essendo anche maggiore il numero delle combinazioni che cagionar ne potrebbero la violazione. Colui che attenta sulla vita dell’Ambasciatore; colui che insulta ed oltraggia la persona di esso co' fatti o co' detti; il magistrato o il ministro della giustizia pubblica che non rispetta le sue immunità così personali come reali, così del rappresentante istesso, come di coloro che formano il suo seguito, si rendono rei di tanti delitti contro il dritto delle genti. Il valore di questi delitti essendo diverso, diverse ne debbono anche esser le pene.

Le leggi debbono dunque distinguere tutti questi delitti per ben distinguerne le pene; e siccome, se se ne eccettui la persona del re in una Monarchia o del primo magistrato del popolo in una Repubblica, non vi è persona, l'offesa della quale possa produrre sì gravi mali in uno Stato, quanti ne può produrre l'offesa recata al rappresentante di un’estera Potenza; così è giusto che la sanzione penale di questi delitti sia più severa, giacche la principal misura delle pene dee determinarsi dall'influenza che ha il patto che si viola, sull’ordine sociale. (3)

3. La violazione del salvocondotto è l'altro delitto contro il dritto delle genti. La pace è la prima legge delle nazioni, e la guerra n’è uno de'    maggiori mali. Tutto quello dunque che contribuisce a conservare o a ristabilire la pace di uno Stato, dev'esser religiosamente praticato. Il salvocondotto che si dà a coloro che vengono dall'estere Potenze commessi per quest'importante oggetto, rende per così dire sacre le persone. La violazione del salvocondotto è stata dunque con ragione considerata sempre come uno de'    più gravi e de'    più funesti delitti.

4. Due nazioni possono contrarre tra loro alcune obbligazioni che non dipendono dall'universale dritto delle genti, ma da un particolare trattato; e queste obbligazioni possono alle volte essere di tal natura che un individuo può violarle. Tali sarebbero quelle di una nazione che si obbligasse con un’altra a non fare un dato commercio in un dato luogo; a non innalzare degli argini ad un fiume che le separa, quando questi minacciar potrebbero la rovina del confinante popolo; a non pescare in un dato luogo; e tante altre a queste simili, nelle quali non si richiede la forza pubblica per violarle, ma la forza individua può bastare a trasgredirle. Anche queste trasgressioni entrano nella classe de'    delitti contro il dritto delle genti, giacché il dritto delle genti è quello ch'esige la religiosa osservanza de'    trattati.

5. La pirateria è finalmente l’ultimo, ma forse uno de'    più gravi delitti che in questa classe si comprendono.

Questo delitto pernicioso in tutt’i tempi, lo è oggi maggiormente divenuto, per l’influenza che ha il commercio sulla prosperità de'    popoli. Fortunatamente è divenuto molto raro nell’Europa, perché tutte le Potenze han conosciuto l’interesse che vi era di allontanarne i rispettivi loro sudditi. Ma chi ‘l crederebbe? Nel mentre che le leggi colla maggior severità lo puniscono nel tempo di pace, i Governi stoltamente lo fomentano nel tempo di guerra. Essi abituano gli uomini ad un delitto che le loro leggi cercano di prevenire, e gli avvezzano ad un mestiere che dovrebbe essere il più detestato tra gli uomini civili e colti.

I gravi danni che gli Armatori han fatto soffrire particolarmente in quest'ultima guerra alle nazioni dell'uno e dell’altro Emisfero; il poco vantaggio che ne hanno raccolto le nazioni istesse, da' porti delle quali sono stati spediti; i progressi che fa il sistema della neutralità armata, sono tante cause che ci danno un motivo da sperare che una nuova legge sarà ben presto aggiunta al comune dritto delle genti, colla quale sarà proibito alle belligeranti nazioni di ricorrere nell’avvenire a quest'infame mezzo di nuocere a' loro inimici, a spese dell’universale tranquillità.


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CAPO L

Sesta Classe - De’ delitti contro l’ordine delle famiglie

Dopo avere negli antecedenti Capi enumerati e distinti nelle loro rispettive classi que’ delitti che hanno un più immediato rapporto con tutto il corpo sociale, è ormai tempo di rivolgerci a quelli che più immediatamente riguardano gl'individui che lo compongono. Tra le città ed il cittadino vi è una società intermedia, e questa è la famiglia. Per conservare dunque in questa ripartizione de'    delitti tutto quel metodo, del quale quest’oggetto è suscettibile, è giusto che si cominci da quelli che l’ordine delle famiglie turbano o distruggono. Il primo tra questi è il parricidio.

Se si osservano le leggi degli antichi relative a questo delitto, si troverà o il loro silenzio o lo studiato loro rigore.

Nella Persia la legge supponeva bastardo il figlio che aveva ucciso il suo creduto padre, e come tale punito era qual semplice omicida.(1)In Atene Solone non fece alcuna legge contro il parricidio;(2)ed in Roma passarono de'    secoli prima che questo delitto avesse una particolare sanzione. La legge di Numa, rapportata da Festo, ci fa vedere che si dava questo nome a qualunque omicidio di un uomo libero.(3)Si quis liberum hominem, sciens dolo malo mortui duit, parricida esto. Questo ci conferma nell’idea da noi antecedentemente sviluppata(4)che in que’ tempi i soli uomini liberi erano i Patrizii (Patres). Colui che uccideva un uomo libero era parricida, perché uccideva un Padre, un Patrizio. Nelle decemvirati tavole noi troviamo stabilita la prima sanzione pel vero parricidio. La pena fu quindi inasprita ed estesa, e niuno ne ignora la natura e l’intensità.(1)

Le Romane Leggi passarono dal silenzio all’eccessivo rigore. L’istessa causa produsse forse il primo ed il secondo effetto; ma una più perfetta legislazione avrebbe ugualmente prevenuti i due estremi. Per quanto orrore ispiri un delitto, un savio legislatore non ne supporrà mai impossibile l’evento, né si dimenticherà mai degli stabiliti principii, co' quali determinar ne deve la pena Platone che io cito così sovente, perché spesso m’istruisce e m’illumina, malgrado l'orrore col quale ci dipinge questo delitto, e malgrado la prevenzione ch'egli aveva in favore dell’Egizia che Istituzioni, non adottò la terribile pena che presso quel popolo destinata veniva al parricida.(2)Nella sanzione, ch'egli propone, si scorge la moderazione della pena mirabilmente combinata coll'orrore e lo spavento che doveva produrre.

Che si faccia morire, dice egli, il parricida; che il suo denudato cadavere si conduca fuori della città nello stabilito luogo, ove le tre strade concorrono; che quivi, alla presenza del popolo ed in suo nome, ciascheduno de'    Magistrati gitti un sasso sul suo capo; che si trasporti finalmente il cadavere fuori de'    confini della Repubblica, e rimanga quivi insepolto, come le leggi prescrivono. (3)

Ecco l’ammirabile sanzione proposta dal divino Platone. I legislatori che han cercato ne' tormenti la proporzione tra il delitto e la pena, han smarrito l’oggetto che si dovevan proporre. Essi hanno eccitata negli spettatori la compassione del delinquente, in vece d’inspirar loro l’orrore pel delitto. La miglior pena, come si è da noi altrove dimostrato, (1) è quella che fa la maggior impressione nell'animo degli spettatori col minor tormento del reo. Ecco ciò che nella proposta pena si ottiene. Essa dovrebbe dunque essere adottata pel parricidio, sotto il quale nome noi comprenderemo l’omicidio di tutti coloro, da' quali o immediatamente o mediatamente si è ricevuta la vita, e di coloro, a' quali immediatamente o mediatamente si è data, come il padre, la madre, l’avo, Vava, il figlio, il nipote, ecc.(2)Noi uniremo a questi l’omicidio della moglie, del marito e del fratello. Fuori di questi stretti vincoli di parentela, noi considereremo negli altri l’omicidio sotto l’istesso aspetto che si considera quello degli estranei. Io lascio al lettore l’indagare il motivo di questa determinazione, e rivolgo la mia riflessione ad un altro delitto che sfugge spesso al rigore della legge, è che la corruzione de'    costumi ha reso pur troppo frequente; questo è il procurato aborto.

Un pregiudizio della Setta stoica, ch’ebbe tanta parte nella Romana Giurisprudenza, ha data origine all’opinione universalmente adottata dagli antichi Giureconsulti, che il procurato aborto entrar non dee nella classe degli ordinarii delitti; che questo o non è delitto civile, o pur non è né omicidio né parricidio, ma un semplice straordinario delitto ad arbitrio del giudice punibile. Gli Stoici credevano che l’anima s’intromettesse nel corpo colla respirazione dell'aere e per conseguenza che il feto fosse inanimato, finché restava nell’utero della madre.(1)Gli stoici Giureconsulti, applicando questo principio erroneo alla criminale legislazione, non trovarono né il parricidio né l’omicidio nel procurato aborto; giacché non era né figlio né uomo quello che privato veniva della sua esistenza.(2)

Ecco come i pregiudizi degli uomini e gli errori de'    filosofi hanno in tutt’i tempi alterata la morale e guastate le leggi. Ma il sistema della posteriore legislazione è stato anche più funesto dell’errore de'    giureconsulti antichi. Questo produceva l’impunità del delitto, ma quello ha immolati molti innocenti. La legge che condanna alla morte la donzella, il parto della quale è morto senza che abbia rivelata la sua gravidanza al Magistrato; questa legge che suppone ih parricidio, anche quando la morte del feto o del parto non è dipesa dalla madre; questa legge che in molti casi punisce colla morte una donzella che altro delitto non ha, se non quello di aver seguiti gl’impulsi del pudore nascondendo l’effetto dell’amore e della fecondità: questa legge,io dico,ch'è così manifestamente contraria a' principii della ragione e della natura, è nulladimeno in vigore in una gran parte delle nazioni dell'Europa. Noi abbiamo più volte declamato contro questa legge assurda; occupiamoci qui a correggerla.

Il procurato aborto è uno di que’ delitti, la pena de'    quali può eccedere, come si è da noi altrove dimostrato, (3) la regolare proporzione, per la facilità che vi è di occultarli. Io non indico qui la pena che a questo delitto potrebbe destinarsi, perché il mio oggetto non è qui di determinar le pene, ma di distinguere i delitti. Dico soltanto che la pena dovrebbe esser tale che compensar potesse la facilità che vi è di scamparla.(1)Ma se questo compenso può cercarsi nella pena, non si dee sicuramente cercare nella prova del delitto. Noi abbiamo diffusamente dimostrata questa verità nella prima parte di questo libro. La correzione, dunque, che dovrebbe portarsi in questa legge, sarebbe di ricercare la piena prova del delitto.

Che si punisca dunque rigorosamente il procurato aborto, ma che si punisca dopo essersi pienamente provato il delitto, e dopo essersi adoperati tutt’i mezzi per prevenirlo; che si somministrino degli asili alle donzelle che hanno avuta la disgrazia di soccombere alle combinate spinte del senso e dell’amore; che si spargano in tutte le parti dello Stato de'    ricettacoli pe’ loro clandestini parti; che la legge protegga le madri e ne faccia allevare i fanciulli; che cuopra e nasconda la loro debolezza, invece d’infamarle; che in vece di costringere il pudore, cerchi di riparare all'onore; ed allora i procurati aborti saranno più rari e più giustamente punibili.(2)Non molto diversi esser debbono i principii legislativi che riguardano l’incesto.

Questo è un altro delitto contro l’ordine delle famiglie, la pena del quale ecceder potrebbe l'osservata proporzione per la facilità di occultarlo. L’ordine delle famiglie richiede che il decoro de'    costumi venga più di ogni altro conservato nelle domestiche mura; che queste siano quanto più si può inaccessibili alla depravazione ed al vizio; e che le familiarità necessarie tra gl’individui dell’istessa famiglia non eccedano i confini prescritti dalla natura, dalla religione e dalle leggi. Queste ragioni, unite alla facilità che vi è di occultare questo delitto, scusar possono il soverchio rigore della legge nel punirlo, purché non giunga mai né alla perdita della vita, né alla perdita perpetua della libertà. Io non parlo qui degl’incestuosi coniugi con frode contratti, perché questi si riferiscono alla classe de'    delitti contro l’ordine pubblico, e noi in fatti l’abbiamo tra quegli annoverati.

Il lenocinio de'    parenti è l’altro delitto contro l’ordine delle famiglie che le nostre leggi contemporaneamente promuovono da un lato e rigorosamente puniscono dall’altro. La miseria di alcune classi, il celibato violento in altre, l’eccesso della miseria da una parte, e l’eccesso dell'opulenza dall'altra, questi mali che il vizio delle nostre Leggi e l’oscitanzade'    nostri Governi producono e sostengono, sono le cause di un delitto che l'opinione pubblica basterebbe a reprimere, quando dal concorso di tutte queste cause non venisse fomentato e promosso. In una nuova legislazione, nella quale fossero queste cause distrutte, basterebbe un’infamante pena per alcune classi, e la condanna a' lavori pubblici per quella che non conosce, né dà un prezzo all’onore per punirlo. (1)

Non minore, relativamente considerata, potrebbe essere la moderazione, colla quale punire si potrebbe il ratto, ma più distinta esser ne dovrebbe la sanzione. Il fiero Costantino che in vece di meritare il nome di Grande sarebbe un mostro nell’opinione degli uomini, se sostituito non avesse alla superba Aquila l’umile vessillo della Croce; Costantino che sarebbe ascritto nella serie de'    tiranni, se non avesse protetta una religione che, condannando i suoi delitti, non poteva mostrarsi ingrata a' suoi favori; Costantino che colle mani bagnate di sangue scrisse leggi di sangue; Costantino, io dico, fu l’autore della celebre legge contro il ratto che offende nel tempo istesso l’umanità, là ragione e la giustizia. Che un uomo violento ed ardito estragga con violenza una fanciulla dal paterno tetto; che, violando i doveri della natura e quelli della società, rapisca con violenza la moglie allo sposo; che, contaminando le domestiche mura, porti la desolazione e l’obbrobrio nella famiglia che le abita; che un uomo di questa natura espii colla perdita della vita l’oltraggio che ha recato alla donna, alla famiglia, alla società intera: in questo caso la ragione non potrà condannare il sacrifizio, né piangere sulla sciagura della vittima che s’immola al decoro de'    costumi, alla sicurezza pubblica ed alla domestica tranquillità. Ma se la ferocia o l’imbecillità di un legislatore confonde col ratto violento una fuga intrapresa di comune consenso; se confonde il ratto non violento di una fanciulla col ratto violento di una moglie; se all'istessa pena destinata pel rapitore armato che non si propone altro scopo nella sua violenza, se non quello di soddisfare al suo brutale appetito, egli condanna due trasportati amanti che non hanno altro oggetto nella fuga, che quello di render legittima la loro unione con un sacro vincolo; se ciò che la natura permette e la sola società condanna, è ugualmente punito di quello che condannato viene dall'una e dall’altra; se, in poche parole, di tanti delitti così diversi tra loro se ne fa un solo, con una sola legge, con una sola sanzione: in questo caso tutte le regole che dirigono il potere legislativo e determinano i limiti della sua estensione, verrebbero conculcate e lese da una legge così feroce ed assurda. Ecco ciò che si ritrova nella legge di Costantino, rinnovata da Giustiniano ed inserita in quella mostruosa collezione de'    monumenti della sapienza, della ferocia e dell’imbecillità de'    vari legislatori di Roma. Il rapitore felice viene in questa legge condannato alle fiamme o alle fiere. Se la vergine dichiara di aver prestato il suo consenso al ratto, lungi dal salvare il suo amante, si espone a dividerne il destino. I parenti della donzella sventurata e colpevole sono obbligati ad accusare in giustizia il rapitore, e se, cedendo a' moti della natura e del sangue, cercano di coprire l’insulto e ripararlo con una legittima unione, sono essi medesimi condannati alr esilio e confiscati i loro beni. Gli schiavi dell'uno e dell’altro sesso, convinti di aver favorito il ratto o la seduzione, vengono bruciati vivi o condannati a spirare sotto l’orribile tormento del piombo liquefatto. La prescrizione di questo delitto non è limitata ad un determinato numero di anni, e le conseguenze della sentenza si estendono fino a' frutti innocenti di questa illegittima unione.(1)Questa è la legge di Costantino, contro la quale noi ci siamo con ragione scagliati.

Per non incorrere dunque nell'istesso vizio, noi faremo la seguente progressione de'    delitti che al ratio si rapportano,e lasceremo al legislatore il fissarne le varie sanzioni secondo i generali principii da noi proposti.

1. Il ratto violento di una moglie.

2. Il ratto violento di una donzella o di una vedova.

3. Il ratto senza violenza, o sia la semplice fuga di una moglie.

4. Il ratto violento di una meretrice.

5. Il ratto non violento, o sia la semplice fuga di una donzella o di una vedova, fatto di comune consenso, ma senza l’oggetto di legittima unione.

6. Il ratto non violento di una donzella o di una vedova, fatto di comune consenso e coll’oggetto di una legittima unione.

Se l’universalità del mio scopo in quest'opera non mi proibisse d’indicar le pene che a' vari delitti anderebbero minacciate, giacché, come si è da noi dimostrato, queste variar debbono secondo le diverse circostanze fisiche, politiche e morali de'    popoli; se io scrivessi per un solo popolo e per un solo governo, io manifesterei anche le mie idee sulle pene a questi delitti proporzionate. Ma questo non mi è permesso che quando si tratta di alcuni delitti che sono suscettibili di una universale sanzione; e questo è il motivo, pel quale poche volte io propongo la pena e quasi sempre la taccio.

La seduzione di un minore ch'è ancora sotto la patria potestà o sotto la tutela, per indurlo ad abbandonare il paterno tetto o la vigilanza delle persone, alle quali la natura o le leggi l’hanno affidato, è anche un delitto contro l’ordine della famiglia, è anche una specie di ratto, di seduzione, che non dev'esser trascurato nel Codice penale.

Dovrebbe entrare in questa classe anche il delitto detto di parto supposto come dovrebbe anche esservi annoverato il violento ingresso nell'altrui casa. Quest'ultimo delitto è stato presso alcuni popoli punito colla massima severità. Il rispetto per gli Dei Penati che custodivano, secondo l’antica religione, le domestiche mura, considerar faceva questo delitto come un sacrilegio. Senza dargli questo spaventevole nome, senza secondare l’antica severità, il legislatore dovrebbe punirlo proporzionatamente all’influenza che hanno sull’interesse pubblico e sulla privata tranquillità i rispettosi riguardi che si debbono alle domestiche mura che i nostri padri con ragione chiamarono il Santuario della sicurezza del cittadino.

L’adulterio è l’altro delitto contro l’ordine delle famiglie.

Nell'infanzia de'    popoli, quando la moglie entrava nella classe de'    beni che si possedevano e si compravano, quando la patria potestà combinata col coniugale potere dava all'uomo sulla donna i dritti di padrone piuttosto che di marito, quando il sesso più debole languiva sotto il terribile giogo che la violenza del più forte gli aveva imposto, quando la metà della specie era degradata ed oppressa dall’altra, quando, in poche parole, il marito era il padrone della moglie, ed il padre era il despota nella sua famiglia, le civili leggi lasciarono a lui il dritto e la cura di punire l’adultera; e se ne fissarono la pena, questa eccedé sempre di molto i limiti che una giusta e rigorosa proporzione avrebbe prescritti. La Legge di Romolo abbandonava interamente al tribunale domestico il giudizio, non solo dell'adultera, ma la scelta anche della pena, alla quale lo sdegno dell’offeso marito dar poteva quell’estensione che voleva.(1)In Locri la pena era dalla legge fissata, ma era atroce. Si strappavano gli occhi dell'adultera, e non le si lasciava la vita che per renderla più dolorosa della morte istessa. La legge de'    Visigoti dava nelle mani del marito l’adultero e l’adultera, e gli dava il dritto di esercitare su dell’uno e dell'altra tutto quello che la sua vendetta gli avrebbe ispirato.(1)Nelle nostre Sicule Costituzioni noi troviamo una legge di Federigo, che ci mostra l’eccesso del male nella correzione istessa. Per moderare l’antica ferocia, egli ordina che l’adultera venga rimessa al marito, al quale si proibisce di darle la morte; ma gli si permette di troncarle il naso.(2)Io non la finirei mai se volessi qui rapportare tutte le bizzarre disposizioni de'    barbari codici relative a questo delitto. Distogliamo i nostri occhi da' monumenti de'    tempi così diversi da' nostri, e vediamo ciò che la ragione e lo stato presente de'    costumi ci suggeriscono.

Presso di noi, presso tutt’i popoli colti che oggi abitano l’Europa, l’adulterio infama ugualmente la moglie che il marito. L’opinione pubblica che le leggi non debbono mai urtare, e contro la quale sono sempre impotenti, coprirebbe d’ignominia il marito, la moglie del quale fosse stata d’adulterio convinta e giudicata. La sicurezza del ricevuto torto lascerebbe nella sua famiglia un'indelebile macchia che priverebbe d’infiniti vantaggi la sua innocente posterità. Un delitto che la corruzione de'    costumi ha reso così frequente; un delitto che si commette con tanta facilità, e il sospetto del quale fa così piccola impressione, è quindi seguito da appendici così funeste, allorché vien condotto in giudizio. Tra le bizzarrie dell’opinione, quelle che offre quest’oggetto sono forse le più strane; ma non per questo lasciano di avere una somma influenza su' costumi. L’opinione, che comunica al marito l’infamia dell’adultera, favorisce l’impunità del delitto, obbliga il marito ad occultare i disordini della moglie; rende inutile il rigore delle leggi. Per quanto severa si renda la loro sanzione, essa sarà sempre impotente, finché l’offeso e l’offensore avranno un uguale interesse di occultare il delitto. Cosa debbono dunque fare le leggi per prevenirlo?

Per risolvere il problema bisogna distinguere i paesi ove il ripudio per causa di adulterio è ammesso, da quelli ove l’assoluta indissolubilità è unita al coniugale vincolo. Ne’ primi, il marito è liberato dal contagio dell’infamia subito che ha ripudiata l’adultera. L’opinione, dunque, in que’ paesi non produce l’istesso effetto che negli altri, ove il ripudio è in qualunque caso proibito. In quelli il legislatore potrebbe, senza alcun rischio, adottare l’istituzione di Augusto sull’accusa dell’adulterio; (3) la legge di Atene che obbligava il marito dell’adultera al ripudio; (1) la pena che le leggi di Creta stabilivano per l’adultero, (2) e quella che le leggi di Solone stabilivano per l’adultera. (3)

Ma ne' paesi ove in qualunque caso è proibito il ripudio, ne' paesi ove il marito non ha questo mezzo da liberarsi dal contagio dell'infamia, le leggi debbono occuparsi a prevenire l’adulterio con ogni altro mezzo, fuorché con quello della pena. Un mezzo inutile discredita la legge che l’adopera, e sparge il ridicolo sopra il lavoro che dev'essere il più venerato dagli uomini. Un savio legislatore, correggendo i costumi, restringendo il numero de'    celibi, favorendo i matrimoni e, più d’ogni altro, aumentando e ristabilendo i patriarcali e coniugali dritti, interamente estinti ne' nostri tempi e presso i moderni popoli, troverà in questi paesi i mezzi da prevenire l’adulterio, senza inutilmente punirlo.

Noi ci occuperemo di quest'oggetto nell'ultimo libro di quest'opera, dove si parlerà delle leggi che riguardano la patria potestà ed il buon ordine delle famiglie. Quel che qui se ne è detto, basta per annunziare a colui che legge le mie idee su quest’oggetto, che non potrei qui sviluppare, senza mancare all’ordine ed al piano che mi son proposto.

Con quest'istesso mezzo il legislatore cercherà di prevenire il semplice stupro, e riserbando la sanzione penale pel solo stupro commesso con frode o con violenza. Una lunga esperienza ha fatto vedere che la legge, che nel primo caso obbligava l’uomo a sposare la donzella o a dotarla, moltiplicava i disordini, favoriva il delitto ed esponeva l’innocenza. La fanciulla che vedeva il vantaggio che trar poteva dal richiesto favore, aveva una ragione di più per concederlo e qualche volta per suggerirne la richiesta. I parenti concorrevano colla loro tacita approvazione al delitto, dal quale dipender doveva la sorte della loro figlia. J loro occhi si chiudevano, allorché era d’uopo di aprirli.

Finalmente le donne istesse che avevan messo in commercio il loro corpo, con istudiati raffinamenti e con simulata verginità, turbavano di continuo la pace di tanti onesti cittadini che venivano in ogni giorno da esse chiamati in giudizio per un delitto, del quale erano sicuramente innocenti. Esse avevan trovata la maniera da far pagare ad un Socrate istesso tutt’i figli di Alcibiade.

Queste ragioni han determinato alcuni Governi ad abolire questa legge, che sarà forse stata utile in altri tempi, ma che era divenuta perniciosa nel nostro. (1) ((2) La mia patria ha già sperimentati i felici effetti di quest'utile correzione, e i clamori della classe che vive sulle civili discordie ne sono un’evidente prova. Io enuncierò in poche parole le mie idee su quest’oggetto, io dirò che la violenza sia punita, non solo quando si commette contro la donzella onesta o contro la vedova; ma anche quando si commette contro la prostituta: che la pena dell'ultimo delitto sia per altro inferiore a quella del primo, giacche in tutti e due si violano i dritti della personale proprietà; ma nel primo si turba anche l’ordine della famiglia, si priva la donna dell’integrità del suo stato, si offende il suo pudore e si prepara la sua posteriore sciagura: che non s’imiti, riguardo a quest'oggetto, l’uniformità della pena prescritta nel Codice Britannico (3) per questi due delitti di qualità diversi; ma che non si adotti neppure l’indulgenza delle Romane Leggi sulla violenza commessa contro le meretrici; (4) che molto meno si richiami l’osservanza delle antiche leggi contro lo stupro di seduzione, o di comune consenso; che si bilancino i mali che nascono dal proposto silenzio delle leggi su questo delitto, con quelli che produce l’opposto sistema; che si punisca inoltre lo stupro con frode commesso; (1) ma che la pena di questo sia inferiore a quella dello stupro violento; che si consideri come violento lo stupro di una fanciulla che non è ancora uscita dall'infanzia, e come fraudolento quello della donzella che non ha ancora oltrepassato il dodicesimo anno della sua vita, ancorché vi sia stato il suo consenso; che nella posteriore età, quando non vi è né violenza né frode, lo stupro si supponga sempre volontario per tutte e due le parti, e per conseguenza escluso dalla sanzione della legge. (2) Ecco le disposizioni del Codice penale sullo stupro. Le altre parti della' legislazione preverranno quello che non si potrebbe punire, senza moltiplicare i disordini ed indebolire la civile libertà.


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CAPO LI

Settima Classe - De' delitti contro la vita e la persona de' privati

L’esistenza è il primo bene dell’uomo, ed il primo dovere che la società contrae col cittadino è il garantirla. Il patto più prezioso che un suo individuo può violare contro un altro individuo, è il privamelo. Il primo delitto dunque in questa classe compreso sarà l’omicidio. Senza il metodo, col quale noi regolato abbiamo la ripartizione de'    delitti; senza la differenza da noi stabilita tra la qualità di un delitto ed il grado; senza i generali canoni, co' quali noi indicate abbiamo le regole, colle quali discerner si dee in ciaschedun delitto il suo grado, vale a dire la minore o maggiore malvagità che mostrar si può nella violazione di un istesso patto, noi ci troveremmo così in questo, come negli altri delitti, ravvolti in quell’immenso numero di questioni, di divisioni e di casi che han riempiti i volumi degl'interpetri, che hanno intrigato i legislatori, e che han cagionata dove più e dove meno la confusione, il disordine e l’imperfezione in tutte le legislazioni di tutti i popoli in tutt'i tempi.(1)

Il nostro metodo ci garantisce da tutti questi combinati ostacoli. Un uomo che uccide un altro uomo può esser reo di un delitto di qualità diversa o di diverso grado, o di qualità e di grado diverso da quello che può commettere un altro uomo, uccidendone un altro. Un figlio che uccide il padre commette un delitto di qualità diversa da quello che commette un cittadino che uccide un altro cittadino che non ha alcun rapporto di famiglia con lui. Il sicario che uccide un privato cittadino per una vile mercede commette un delitto dell’istessa qualità, ma di grado diverso da colui che l’uccide nell'impeto della passione e per un grave insulto. Il cittadino che uccide con matura riflessione il Capo della nazione è reo di un delitto di qualità e di grado diverso da quello che commetterebbe un altro uomo, uccidendo per negligenza o nell’impeto della passione un privato cittadino.

Secondo il nostro metodo, la natura del patto che si viola, determina la qualità del delitto; e la maggiore o minore malvagità che si è mostrata nel violarlo, ne determina il grado. Nelle antecedenti classi noi abbiamo allegate le varie qualità di omicidii che, attesa la diversità de'    patti che con esse si violano, avevano con quelle rapporto. In questa, nella quale non si comprendono che i delitti che si commettono contro la vita e la persona de'    privati, noi non parliamo dunque che degli omicidii tra' privati.

Le sei diverse pene che, secondo l’esposto metodo, il legislatore determinar dovrebbe pe’ tre gradi di dolo e pe’ tre gradi di colpa, co' quali commetter si può questo delitto, basterebbero per ottenere tutta la proporzione possibile tra la gravezza del reato e la pena. I generali canoni indicherebbero al giudice il grado, e la sanzione della legge gl'indicherebbe la pena. Quelli gli annunzierebbero a quale grado di dolo riferir si dovrebbe l’omicidio, per esempio, pel sicario, e questa gli mostrerebbe la pena che a quel grado vien fissata. Quelli gli mostrerebbero la differenza del grado tra l'omicidio a sangue freddo commesso, e l’omicidio commesso nell'ebrietà della passione; tra quello commesso senza causa, e quello commesso per causa; tra quello commesso con istudiata sevizia, con crudeltà o prodizione, e quello commesso per negligenza, per trascuraggine piuttosto che per malvagità; e la sanzion della legge, senza lasciare alcun adito all’arbitrio del giudice, indicherebbe sempre la pena a questi, ed agli altri diversi casi proporzionata.(1) Io prego il lettore di leggere ilcapo XXVIII di questo libro, dove si sono esposti questi generali canoni, per vedere con qual facilità si potrebbe con essi regolare il giudizio, così negli altri delitti, come in quelli de'    quali qui si parla.

La mutilazione è il secondo delitto che in questa classe si comprende. Bisogna distinguere il delitto che ha la sola mutilazione per oggetto, da quello nel quale la mutilazione non è che una conseguenza del colpo che si è tirato per privare l’uomo non del membro che ha perduto, ma della vita.(1)Nel primo caso il delitto sarà di mutilazione, nel secondo sarà di omicidio. La qualità di questi due delitti è diversa, quantunque l’effetto ne sia lo stesso. Nel primo caso il delitto sarà minore che nel secondo, giacche il patto che ci obbliga a non privar l’uomo della sua fisica integrità, è meno prezioso di quello che ci obbliga a non privarlo della sua esistenza; e giacche, in vigore de'    principii antecedentemente sviluppati, (2)il conato al delitto è ugualmente punibile del delitto istesso perfezionato e riuscito, sempreché la volontà di delinquere si manifesta colf azione dalla legge vietata.

Per essersi allontanata da questi principii, la Britannica Legislazione è incorsa nella più strana assurdità. Le leggi di questo popolo puniscono colla morte la mutilazione, allorché è. l’oggetto del delitto; al contrario, siccome esse richieggono la perfezione del reato per la pienezza della pena, così sempre che il tentato omicidio non è seguito dalla morte del ferito, la pena di morte, ch’esse minacciano per questo delitto, viene in un’altra pena permutata, qualunque sia la mutilazione che l’attentato abbia potuto cagionare nel corpo dell’offeso. La volontà dunque di recare un maggior male ad un uomo garantisce in questo caso il delinquente dalla pena che subita avrebbe, se la sua volontà l’avesse determinato a recargli un danno minore. La causa celebre agitata pel delitto del Giurista Coke avrebbe dovuto avvertire il Corpo Legislativo di questa nazione della necessità di correggere quest'assurda determinazione delle sue leggi. (3) Mostrandogli i combinati errori che vi si contengono, avrebbe dovuto ricordargli che la pena di morte non è proporzionata per la mutilazione; che la pena della mutilazione non dovrebbe uguagliare quella dell’omicidio; che la pena di colui che ha mutilato, allorché voleva uccidere, molto lungi dal dover essere minore, dev'esser maggiore della pena di colui che non ha avuto altro oggetto che di mutilare; che la prima dev’esser la pena dell’omicidio e la seconda quella della semplice mutilazione, giacché, come si è da noi dimostrato, (1)la giustizia e l’interesse pubblico richieggono ugualmente che il conato al delitto sia punito ugualmente del delitto consumato e riuscito, sempreché la volontà di delinquere si manifesti coll'azione della legge vietata. Questo principio, adottato da legislatori di Roma, (2)fu insegnato dal divino Platone, quantunque i suoi rispettosi riguardi per la volgare superstizione obbligato l’avessero a garantirlo dall'opposizione delle ricevute opinioni sui tutelari demoni.(3)

Il delitto dunque, del quale io parlo, è quello che ha la semplice mutilazione per oggetto.(4)Questo è inferiore all’omicidio, ed è maggiore della privazione della personale libertà.

Prendere a viva forza un uomo per condurlo fuori della sua patria e lontano dalla protezione delle leggi; sedurlo con speranze e lusinghe, e venderlo quindi come schiavo; impedirgli violentemente di ritornare nella sua patria, allorché è da essa lontano; obbligarlo ad alcuni lavori, ad alcune fatiche contro la sua volontà; chiuderlo come in carcere e privarlo di quella personale libertà, della quale un individuo della società non può esser spogliato se non per ordine delleleggi e da colui che ne è il depositario, sono i varii delitti che sotto questo nome si comprendono.

La legge in Atene dava in questi casi all'offeso il dritto di uccidere l’offensore. (1)Basta leggere nel corpo del Romano Dritto le varie leggi contro la violenza privata, contro leprivate carceri, e contro il plagio, per vedere con quale severità venivan questi delitti puniti.(2)Noi, nel tempo istesso che consigliamo a' legislatori di raddolcire il rigore delle Romane Leggi contro questi attentati, gli preghiamo a sopprimere gli esempi funesti,che essi ne danno. Quelle misteriose lettere che in alcuni paesi dell'Europa privano il cittadino della sua personale libertà, senza l’organo e senza il ministero delle leggi; quelle corvate che sono ancora in uso presso molti popoli, malgrado le invettive che da ogni parte si sono contro di esse scagliate; l’abbominevole commercio degl'infelici Mori dell'Affrica, che si fa sotto la protezione di quelle leggi istesse che puniscono con tanto rigore il plagio, non sono forse tanti delitti contro la personale libertà dell’uomo, de'    quali i popoli ricevono l’approvazione o l’esempio da coloro che li governano? Perché tollerare o prescrivere, riguardo ad alcuni oggetti, ciò che si vieta riguardo ad altri; perché attentare con una mano ciò che si protegge coll’altra; perché dare al popolo gli esempi della violenza, nel mentre che gli s’inculcano i dovuti riguardi alla preziosa libertà dell’uomo? Queste contraddizioni sono manifeste; ma esistono nulladimeno in una gran parte delle Nazioni dell’Europa.

Una contraddizione ugualmente strana, ma meno dipendente dal Governo, esiste anche tra le leggi civili e quelle della opinione relative ad un altro delitto che in questa classe si comprende. Questo delitto è il duello.

Senza cercare l’origine di quel punto di onore, che obbliga l’offeso a vendicare colla spada alla mano il ricevuto oltraggio; senza impegnarci a dimostrare l’inconseguenza di questa assurda legge dell'opinione che avrebbe dovuto sparire co' lumi e co' progressi della coltura, ma che conserva tuttavia il suo vigore, malgrado le combinate opposizioni della religione, delle civili leggi e della ragione; senza inutilmente ripetere ciò che si è scritto e pensato riguardo a quest’oggetto da' teologi, da' moralisti e da' politici, contentiamoci di esaminare le conseguenze di questo stabilito errore, di combinarle co' principii da noi premessi, e di dedurne ciò che unicamente riguarda il penale sistema.

In quel capo di questa seconda parte, dove stabiliti si sono i generali principii relativi ai delitti, parlando della volontà, si è detto che vi sono alcune azioni che non procedono interamente né dalla volontà né dalla violenza, ma che partecipano dell'una e dell'altra, e che vengono, per questo motivo appunto, chiamate miste; si è detto che l’uomo si può trovare in alcuni casi costretto a scegliere tra due o più mali, in maniera da non poterne evitare uno senza incorrere nell’altro; si sono stabiliti alcuni canoni per determinare in quali casi l’azione contraria alle leggi sia in queste circostanze punibile, ed in quali casi non possa esserlo, e si è detto nel terzo canone, «che tra due o più mali disuguali, il minore de'    quali ferisce l’interesse personale dell’uomo che a scegliere vien costretto, la preferenza data al maggior male non può esser punibile che in un solo caso, cioè quando il male personale che si evita è molto piccolo, è molto soffri bile, e quello che si elegge è molto grave, è molto pregiudicievole o a tutto il corpo sociale o ad un altro uomo.» (1)

Richiamato alla memoria di colui che legge questo principio fondato sulle imprescrittibili regole della giustizia e della ragione, vediamone l’applicazione all'oggetto che qui c'interessa, e vediamo le circostanze nelle quali si ritrova l’uomo, sul quale la legge dell’opinione fa cadere l’infamia, se per lavare la macchia del ricevuto oltraggio non ricorre al duello. Il ricorrere alla violenza, o sia alla forza privata, per vendicare il torto che si è ricevuto, è, senza dubbio, la violazione di quel patto, di quella legge che ci obbliga a cercare nella forza pubblica la riparazione de'    mali che ci son pervenuti dalla violenza privata. Il ricorrere a questa forza pubblica) quando si tratta di vendicare un oltraggio è, al contrario, una trasgressione di quella legge di opinione che punisce colui che la viola colla pena più sensibile, più forte che vi sia per l’uomo d’onore, cioè coll’ignominia e coll’infamia. Essa vuole che l’offeso ricorra in questo caso al duello come all'unico mezzo per liberarlo dall’ignominia del ricevuto oltraggio. Fissati questi dati, io domando: la scelta del duello potrebbe mai esser punibile per l’offeso? Tra due mali, tra i quali l’offeso a sceglier vien costretto, la preferenza data al duello potrebbe mai esser punibile secondo lo stabilito canone? Rinunciando a questa illegale riparazione, non incorrerebbe egli nell’ignominia e nell’infamia? E l’ignominia e l’infamia non sono forse il più gran male per un uomo d’onore? Io son persuaso che la morale e la religione dovrebbero renderlo superiore a questi riguardi. Ma io prego colui che legge di ricordarsi di ciò che io dissi prima di stabilire i canoni, de'    quali si è parlato, cioè che le leggi, se debbono ispirare, non possono però esigere l’eroismo dell’uomo.

Premesse queste riflessioni, non è difficile il ritrovare quale esser dovrebbe la disposizione delle leggi relative a quest'oggetto. Esse dovrebbero punire il duello nella persona di colui che ha recato l’oltraggio, e lasciarlo impunito nella persona dell'offeso. Ma se nel duello è avvenuta la morte o la mutilazione in uno de'    combattenti, in tal caso che dovrebbe prescrivere la legge? Essa dovrebbe stabilire anche una differenza nella pena. L’omicidio o la mutilazione dovrebbe sempre esser punita in uno de'    gradi di colpa, allorché il mutilatore o l’omicida è l’oltraggiato, ed in uno dei gradi di dolo, allorché è l’oltraggiatore. Siccome può esservi un duello senza mutilazione e senza morte, così quando uno di questi mali ne deriva, si dee supporre che vi sia o la colpa o il dolo. Nell’oltraggiatore si dee supporre il dolo, perché ha egli cagionato il duello; nell'oltraggiato la legge dee supporre la colpa, perché poteva forse evitare la mutilazione o la morte dell'inimico; dee supporre in lui la colpa e non il dolo, perché l’azione che ha prodotto o l’uno o l’altro male, non è stata interamente libera, perché l'oltraggiato è stato per così dire costretto a venire al duello che ha prodotto l’omicidio o la mutilazione. Dalle circostanze che hanno accompagnato il duello seguito dalla mutilazione o dalla morte, i giudici del fatto giudicheranno del grado di colpa, nel quale si dee punire o l’uno o l’altro delitto nella persona dell’oltraggiato, se egli è stato il mutilatore o l’omicida; e del grado di dolo, nel quale si dee punire o l’uno o l’altro delitto, se il mutilatore o l’omicida è stato l’oltraggiatore. Se finalmente dall’una delle parti si sono violate le stabilite leggi dell’onore nel duello, colui che le avrà violate sarà punito come assassino. In questo caso l’oltraggiato non avrà alcun vantaggio sull’oltraggiatore, perché dal poco rispetto ch’egli ha mostrato per le leggi dell’opinione, si dee dedurre che cessi in lui il motivo che poteva indurre la legge a compatire i suoi trasporti.

Ecco quali dovrebbero essere, secondo gli stabiliti principii, le disposizioni delle criminali leggi relative al duello. Queste dovrebbero aver luogo, finché non si fosse corretta l’opinione che lo prescrive. I mezzi co' quali ottener si potrebbe questa salutare correzione, non entrano nel piano di questa parte della scienza legislativa, che ha per oggetto le leggi criminali. Nel seguente libro, quando si parlerà delle leggi che riguardano l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica, quest’importante oggetto non isfuggirà dal nostro esame. Contentiamoci dell'idee che per brevità abbiamo qui piuttosto accennate che sviluppate, e lasciamo a colui che legge un più profondo esame delle ragioni che abbiamo taciute e de'    vantaggi che ottener si potrebbero adottandole.(1)


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CAPO LII

Ottava Classe - De’ delitti contro la dignità del Cittadino, o sia degli insulti e degli oltraggi

Ai generali canoni., coi quali noi determinate abbiamo le circostanze che indicar debbono ai giudici il grado del delitto, noi dobbiamo qui aggiungerne un altro che non dee aver luogo che per que’ delitti, a' quali l’opinione dà un accidentale valore. Tali sono quelli che in questa classe si comprendono, lo mi spiego.

Ogni violenza dalla legge vietata, fatta da un uomo sulla persona di un altro uomo; ogni oltraggio, ogni ingiuria è un delitto, e per tale si è considerato presso tutti i popoli, in tutti i tempi. Battere un uomo, insultarlo colle parole o coi fatti, sono ingiurie che le leggi di tutti i popoli han punite. Questa è un’offesa che si reca ad un altro, e come tale non poteva sfuggire dalla sanzione delle leggi. Ma quest’offesa, questo male non era dell'istessa intensità presso gli antichi che presso i moderni; non lo è neppure oggi ugualmente presso tutti i popoli; non lo è neppure presso l’istesso popolo in tutte le classi, in tutti gli ordini della società. L’Ateniese illustre che, senza neppure adirarsi, rispose a colui che minacciava di batterlo: batti, ma ascoltami; sarebbe divenuto un infame presso una gran parte de'    moderni popoli che abitano l’Europa; e le vittorie di Agrippa non basterebbero oggi a liberarlo dall'ignominia, della quale sarebbe rimasto coverto per aver mostrata una simile moderazione in un pubblico convito. (2)

L’opinione che può essere dalle leggi maneggiata, ma che non è sotto il loro impero, quando si tratta d’un insulto, cuopre oggi d’ignominia l’invendicato offeso, e Io priva di quella considerazione, della quale goduto aveva fino a quel momento. Al male, all’offesa che si fa ad un uomo insultandolo, si unisce oggi il male d’opinione, incomparabilmente a quello superiore. Ma questo male istesso d’opinione, appendice necessaria dell’insulto, non è dell’istessa intensità per tutte le classi, per tutti gli ordini della società. Egli è maggiore, a misura che maggiore è la dignità della condizione dell'offeso, e minore, a misura che, questa dignità è minore. Egli va decrescendo per gradi, e diviene quasi zero nell'infima classe del popolo, in quella che come si è altrove detto, conosce poco l'onore, e teme poco l’infamia. Il valore del bene determina il valore della perdita. La perdita di quella considerazione, della quale la capricciosa legge dell’opinione priva l’invendicato offeso, è maggiore o minore, a misura che maggiore o minore è la considerazione istessa. Il patto dunque che si viola coll’insulto, non essendo ugualmente prezioso per tutte le classi, per tutti gli ordini della società, ugualmente severa non deve esserne la pena.

Questa conseguenza è semplice ed analoga a' principii che diriger debbono la penale sanzione. Ma un’obbiezione ci si potrebbe fare, e noi non dobbiamo trascurarla. Questa è fondata sull'uguaglianza della protezione che ciascheduno individuo della società ha diritto di pretendere e di conseguire dalla legge. Se una parte degl'individui della società, si dirà, può fare all’altra un torto con minor rischio di quello che incorrerebbe l’altra a quella recandolo, in questo caso il beneficio della società sarà parzialmente ripartito, ed una parte de'    suoi componimenti diverrà tiranna dell’altra. L’uguaglianza della proiezione sarà distrutta subito che l’istrumento, col quale questa si somministra ad una porzione de'    cittadini, diviene più forte di quello, col quale si somministra all’altra. Qualunque sia la costituzione del Governo, ancorché questa sia la più moderata, la società si dividerà allora in due classi, in oppressori ed in oppressi; i sintomi del dispotismo si faranno sentire nel seno istesso della libertà: la legge, molto lontana dall'uguagliare sotto la sua sanzione tutti coloro che si sono obbligati ad ubbidirla, diverrà lo scudo del potente che opprime, contro il risentimento del debole che ne viene oppresso; gli argini più forti contro l’aperta tirannia diverranno inutili, e l’insetto impercettibile che li rode, aprirà allora al torrente inondatore una tanto più perniciosa, quanto più occulta e non preveduta strada. Ecco le triste conseguenze che si potrebbero attribuire alla proposta disuguaglianza di pene. Ma queste conseguenze spariranno, allorché si osserverà che il luminoso ed incontrastabile principio, dal quale dipendono, non è applicabile alla questione che si agita.

Io dovrei dimenticare tutti i principii da me stabiliti in quest’opera, per dubitare che l'uguaglianza_della protezione sia il principale oggetto dell'ordine sociale, lo dovrei contrastare l’esperienza, o ignorare l’istoria, per negare i funesti effetti che dee presto o tardi produrre in uno Stato la disuguaglianza della protezione e la civile parzialità. Ma non debbo far altro che chiamare in soccorso la ragione, per mostrare che questo male non avrebbe luogo, quando l’oltraggio recato al nobile fosse maggiormente punito dell'oltraggio recato all'uomo della plebe. Se i due mali fossero uguali, allora la legge che uguaglia agli occhi suoi tutti coloro che hanno ardito di violarla, dovrebbe punire ugualmente l’oltraggiatore del nobile e l’oltraggiatore del plebeo; ma se, attesa la stabilita legge dell’opinione, il male che l’oltraggio reca al nobile è molto maggiore del male che reca l’istesso oltraggio al plebeo; se questi due delitti sono di valore diverso, perché diverso è il valore del danno che recano; se il nobile oltraggialo ed invendicato dee ritirarsi dal consorzio de'    suoi concittadini, dee spontaneamente proscriversi, esiliarsi, per evitare il dispregio di coloro che lo circondano, nel mentre che il plebeo oltraggiato ed invendicato non vede, neppure in piccola parte, diminuita quella considerazione, della quale prima godeva: in questa ipotesi la disuguaglianza della pena che si è proposta non distrugge l’uguaglianza della protezione; non altrimenti che questa uguale protezione non è violata, se la legge stabilisce una pena maggiore per colui che uccide un nobile, ed una pena minore per colui che ruba ad un plebeo. La disuguaglianza della pena non dipenderebbe dunque dalla disuguaglianza della condizione, ma dalla disuguaglianza del delitto; e l’uguaglianza della protezione verrebbe, in questo caso, favorita dalla disuguaglianza delle pene, come verrebbe distrutta dalla loro uguaglianza; giacché, stabilendosi l'uguaglianza delle pene, il plebeo incorrerebbe nell'istesso rischio recando al nobile il più gran male che incorrerebbe il nobile recando a lui il più piccolo male.

Prevenuta l'obbiezione che si poteva fare, stabiliamo il canone ch'è stato il motivo di questo lungo esame.

Ecco le parole, colle quali dovrebbe esser dal legislatore enunciato:

«Quando si tratta d’infamanti oltraggi, anche la condizione dell'offeso concorrerà, colle altre circostanze negli universali canoni comprese, per determinare il grado del delitto, e 'l corrispondente grado di pena. Seguendo le ricevute idee ed applicandole a quest’oggetto, le condizioni tra i privati saran ridotte a tre. La prima sarà quella d de'    nobili; la seconda quella de'    cittadini che sono tra la nobiltà e la plebe, e la terza sarà quella de'    plebei. Per questi delitti, a differenza degli altri, si stabiliranno otto gradi di pena. Tutte le altre circostanze uguali, l'oltraggio che recato al plebeo sarebbe punito colla pena stabilita per l'infimo grado di colpa, recato al cittadino della media con dizione sarà punito colla pena stabilita pel medio grado di colpa, e recato al nobile sarà punito colla pena fissata pel massimo grado di colpa. L’istessa proporzione si serberà da' giudici negli altri gradi. I due gradi di pena aggiunti a' sei che han luogo in tutt'i delitti, saran destinati per determinare la differenza della pena cagionata dalla condizione dell’offeso negli oltraggi relativi agli ultimi due gradi di dolo.»

Il lettore che avrà presenti le mie idee, enunciate nei capi XXVII e XXVIII di questo libro, non ha bisogno di alcuna illustrazione per vedere l'applicazione di questo canone. Io non l’ho inserito insieme cogli altri citati canoni, perché questo non può, come quelli, aver luogo per tutt'i delitti, per tutt’i popoli, per tutt’i governi e per tutt’i tempi. Questo non riguarda che i delitti in questa classe compresi; e non è opportuno che pe’ popoli, presso i quali la legge di opinione, della quale si è parlato, è in vigore, e pe’ Governi che ammettono la proposta divisione di condizioni. Questo canone finalmente non dee aver più luogo nel Codice criminale, subitoché i progressi della coltura e della ragione avranno sradicato il pregiudizio assurdo che lo rende oggi necessario.

Esposto il particolare canone che determinar dovrebbe i gradi di ciaschedun delitto in questa classe compreso, io venir dovrei alla distinzione di questi delitti. Io dovrei cominciare da' più gravi insulti, passare quindi a' meno gravi e terminare questa enumerazione co' più leggieri. Ma come riuscirvi? Non vi saranno forse due soli popoli che abbiano comuni idee così sulla natura, come sul relativo valore delle varie specie d’insulti. Quello che sarà insulto in un paese, non lo sarà forse in un altro; quello che sarà il massimo degli oltraggi presso un popolo, sarà il minore degli oltraggi presso di un altro; quello che sarà il più grave in Londra, sarà il più leggiero in Parigi; e quello che sarà il più grave a Parigi, sarà il più leggiero in Londra. Non potendo noi, dunque, né determinare, né classificare questi delitti secondo il relativo valore dipendente dalla loro qualità, noi dobbiamo lasciare alla particolare cura di ciaschedun legislatore questa operazione, che dev'esser diretta dalla particolare maniera di pensare e dalle ricevute opinioni di ciaschedun popolo. Egli determinerà con questa regola le azioni che debbono dalle leggi vietarsi come oltraggiose e ne fisserà il relativo valore. Riguardo poi alle pene da fissarsi pe’ varii gradi di ciascheduna di queste azioni, egli adotterà il proposto canone, se il motivo che l’ha suggerito avrà luogo presso il suo popolo, o si rimetterà a' generali canoni da noi stabiliti, se questo motivo non esiste.

Ecco tutto quello che, attesa l’universalità dell’argomento di quest’opera, poteva da me dirsi su questa classe di delitti. Io passo all'altra che non per altro motivo ho da questa distinta, se non perché i delitti che comprende non son sottoposti all'istessa eccezione.


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CAPO LIII

Nona Classe - De’ delitti contro l'onore del Cittadino

Colui che avrà letto con attenzione i precedenti capi, vedrà che i delitti, che in questa classe si comprendono, non possono essere se non quelli che ledono la riputazione del cittadino. Seguendo l'ordine e 'l metodo che ci siam proposti di osservare in questa ripartizione de'    delitti, noi abbiamo inserite nelle respettive classi le violazioni di que’ patti che, secondo il nostro piano, non potrebbero essere in questa comprese. La moltiplicità delle idee che si contengono in quella dell'onore, esigeva questa dichiarazione, senza della quale il numero de'    delitti, de'    quali si parlerà in questo capo, avrebbe potuto comparire difettoso e mancante. Ristretto dunque il nostro presente esame a' soli attentati contro la riputazione del cittadino, osserviamone l’importanza e la qualità. Tra i vari bisogni che la società ha aggiunti a quelli della natura, il favorevole suffragio di coloro che ci avvicinano e ci circondano, è sicuramente uno de'    più forti e forse de'    più molesti. L’uomo solitario ed isolato non poteva avere che il germe appena di una passione, che non poteva in lui svilupparsi senza il contatto de'    suoi simili. Quando divenne sposo, padre e padrone, egli cominciò a sentire il primo bisogno di quella stima che gli somministrava o che gli rendeva almeno più dolci i combinati piaceri dell’amore, dell’ubbidienza e del rispetto. Formata la città, divenuto cittadino, le spinte di questo bisogno crebbero coll'accrescimento delle cause che ne rendevano più prezioso l'oggetto. La sola coscienza del proprio merito non gli somministrava alcuno di que’ piaceri, de'    quali pur troppo si acquista l'appetito nella società. Il suo cuore agitato dalle sociali passioni non poteva più gustare le delizie di un sentimento troppo tranquillo per lui. Senza la stima degli altri, la stima di se medesimo gli parve troppo sterile per compensare i sacrifizii della virtù. Tutt'i suoi sforzi furono dunque diretti a determinare in suo favore l’opinione degli altri uomini; ed il meritarla gli parve troppo piccola cosa in confronto dell’ottenerla. L’apparenza della virtù fu preferita alla virtù istessa, e resistenza morale dell'uomo dipese interamente dall’opinione degli altri uomini.

Ecco il prezzo che gli uomini civili danno a ciò che volgarmente chiamasi stima e riputazione, ed ecco la misura del male che loro si reca col privameli. I mezzi, co' quali un uomo può recare ad un altro questo male, son molti, ma non ve ne sono che due che possano essere sotto la vigilanza delle leggi, e sottoposti alla loro sanzione: i libelli famosi e le pubbliche detrazioni. Il Governo non deve sicuramente istituire un inquisizione segreta per garantire l'onore de'    cittadini. Il rimedio sarebbe in questo caso più funesto del male. La legge deve contentarsi di punire gli attentati manifesti contro questo onore, e lasciare alla morale ed alla religione l’evitare quelli che non potrebbe sottoporre alla sua ispezione, senza indebolire o distruggere la civile libertà.

Per quel che riguarda i libelli famosi e le pubbliche detrazioni, noi troviamo questo delitto punito dalle leggi di tutti quei popoli, presso i quali la licenza non è stata confusa colla libertà. Fin dal tempo delle decemvirali tavole, una pena dolorosa ed infamante fu stabilita per questo delitto.(1)Gli editti del Pretore,(2)la Legge Cornelia e i Senatusconsulti che l’ampliarono e l’estesero,(3)i responsi de'    Giureconsulti,(4)e le Costituzioni de'    Principi,(5)ci fan vedere che la legislazione non si tacque mai in Roma contro questo delitto.

In Atene vi era un'accusa propria per questo delitto.(6)Il detrattore veniva chiamato in giudizio, e se non poteva provare la verità di ciò che aveva scritto o detto contro l’altrui onore, veniva condannato alla pena dalla legge fissata.(7)Per ovviare all'abuso che si era introdotto nel Teatro, di discreditare le persone ch'erano in odio al Poeta, designandole, senza per altro nominarle, sotto il carattere di alcuno degl’interlocutori, all'antica commedia si sostituì la nuova, dalla quale questa licenza fu interamente proscritta. Noi sappiamo che Menandro si fece tanto ammirare nell'una, quanto Aristofane si era fatto temere nell'altra.

Finalmente se noi rivolgiamo i nostri sguardi verso la legislazione di un popolo, ove la libertà dello scrivere è stata più che in ogni altra parte favorita, noi troveremo i libelli famosi esclusi dalla tolleranza della legge e puniti in ragione della malvagità che manifestano. In Inghilterra l’autore del libello infamante è punito, ancorché il suo scritto non sia calunnioso. La verità de'    suoi detti non lo libera, come in Atene, dal rigore della legge; egli non ha questo mezzo per garantirsi dalla pena. La legge vede ne' suoi scritti un’accusa illegale destinata a turbare la tranquillità del cittadino, e non già a privare la società di un malvagio con una giudiziaria accusa. Ecco la ragione, per la quale il libello, ancorché non sia calunnioso, vien punito dalla legge. Questa ragione non basta per altro a distogliermi dal preferire la disposizione dell’Attica Legislazione. Io stabilirei l’infamia e la perdita perpetua della personale libertà per pena del libello o della calunniosa detrazione; io stabilirei che qualunque cittadino potesse avere il dritto di chiamarne in giudizio l’autore, per obbligarlo a dimostrare la verità de'    suoi detti; e vorrei che, non potendo provare ciò che ha asserito, fosse condannato a subire la proposta pena; ma non istabilirei pena alcuna, quando la maldicenza fosse unita alla verità. Il legislatore non dee temere alcun male da questa censura privata che, molto lontano dal nuocere, potrebbe anzi favorire i costumi, col somministrare un freno di più al vizio, ed uno spavento di più al vizioso. La legge, non potendo minacciare le sue pene che contro i delitti, non dee rinunziare a' soccorsi che una forza straniera può somministrarle contro il vizio che non è sottoposto alle sue sanzioni. Essa dee contentarsi di prevenirne col proposto metodo l’abuso, e di punire il calunnioso detrattore. La proposta pena dovrebbe essere adoprata per questo delitto, ma nel massimo grado di dolo. Essa dovrebbe esser proporzionatamente raddolcita negli altri gradi; ed il legislatore vedrebbe in questo modo la sua sanzione da se medesima proporzionarsi ai diversi gradi di malignità o di colpa, de'    quali questo delitto è suscettibile.


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CAPO LIV

Decima Classe - De’ delitti contro la proprietà del Cittadino

Non vi è classe di delitti, nella quale le leggi de'    diversi popoli e de'    diversi tempi siano così varie, così incostanti, così diverse tra loro, come lo sono in quella che ha per oggetto gli attentati contro la proprietà. Scorrendo l'istoria e le leggi degli antichi popoli, noi troviamo la scaltra sagacità del ladro tollerata dalla legge nell'Egitto, (1), ed applaudita in Sparta.(2)

Noi troviamo da principio in Atene punito qualunque furto colla morte.(3)Noi troviamo quindi corretta quest'antica severità e riserbata soltanto per alcuni casi che pareva che meno l’esigessero. La legge di Solone condannava alla restituzione del doppio il ladro, quando il padrone ricuperata aveva la cosa rubata ed alla prestazione del decuplo, quando non si fosse restituita. Una pena afflittiva di corpo di piccola durata si univa a questa pecuniaria sanzione, allorché gli Eliasti la prescrivevano.(4)

Quando il valore pel furto eccedeva una data somma, la sanzione era molto più rigorosa.(5)I Saccularii manifesti eran puniti colla morte.(6)I manifesti ladri delle vettovaglie eran puniti coll'istessa pena.(7)Il menomo furto commesso nel Liceo, nell’Accademia, ne' Ginnasti, ne' Bagni, ne' Porti, o nel Cinosargo si espiava colla perdita della vita.(8)La rapina alcontrario o sia il furto unito alla violenza veniva punito colla semplice prestazione del doppio al proprietario, e del doppio all'erario pubblico. (1)

La Romana Legislazione, sebbene più moderata, non ci offre minori assurdi. Le disposizioni delle decemvirali tavole relative a quest’oggetto non ci sono state involate dal tempo. Il ladro notturno poteva essere impunemente ucciso.(2)Poteva esserlo ugualmente il ladro di giorno, quando attaccava il proprietario colle armi e questi chiedeva soccorso prima di ucciderlo.(3)Il furto semplice, ma non manifesto, era punito colla prestazione del doppio. (4) Il furto semplice, ma manifesto, era punito colla fustigazione e colla schiavitù del cittadino e colla flagellazione e colla morte dello schiavo.(5)Si considerava e si puniva come manifesto il furto, non solo quando il ladro era preso sul fatto, ma anche quando colla prescritta solennità la cosa rubata si ritrovava nella sua casa. (1)

Questa infinita distanza tra la pena del furto manifesto e quella del furto non manifesto; questa differenza assurda messa in un istesso delitto, accompagnato dalle stesse circostanze, cagionato dalla medesima causa e seguito dall’effetto medesimo, basta per indicarci il merito di queste leggi che noi abbiam per altro un potente motivo da venerare, perché meno assurde, meno feroci e molto più degnamente enunziate e concepite delle nostre.

La posteriore legislazione di Roma non ci offre che alcune imperfette modificazioni di queste leggi, ed un considerabile numero di distinzioni più degne di un casista che di un legislatore. La distinzione tra il furto manifesto e non manifesto fu conservata; ma la differenza della pena fu ridotta alla prestazione del quadruplo nell'uno, e del doppio nell’altro. (2)

Il tempo, (1) il luogo, (2) il modo, (3) le circostanze, nelle quali si commetteva il furto, (4) la qualità della persona che lo commetteva, (5) il numero delle volte che si era commesso, (6) la quantità, il valore (7) e la natura delle cose che si rubavano, (8) richiamarono un prodigioso numero di disposizioni e di leggi, la maggior parte delle quali eran prive di sanzione; giacche nella maggior parte de'    casi quest'era ciecamente affidata all’arbitrio del giudice. (9) La Legge di Giustiniano che proibiva di estendere la pena del furto commesso senza armi e senza violenza alla mutilazione o alla morte, (10) ci fa sospettare che l’arbitrario decreto del giudice intimar potesse prima di questo tempo e l'una e l’altra pena.

Qualunque, per altro, sia l’imperfezione dell’antica legislazione su quest'oggetto, noi abbiamo sempre di che arrossire, se la paragoniamo colla moderna. Quella parte de'    codici criminali dell'Europa, che ha per oggetto i delitti contro la proprietà, è superiore a qualunque invettiva che si possa contro di essa proferire. Pare che i nostri legislatori si siano impegnati a ricompensare la poca sicurezza che offrono alla proprietà le civili leggi, coll'eccessivo rigore delle leggi criminali; pare ch'essi abbiano emulata la ferocia di Dracone; pare che abbiano dimenticati o ignorati tutt'i principii di giustizia e di umanità.

La pena del furto domestico che le Romane Leggi vollero che fosse più mite di quella di qualunque altro furto, (11) è presso la più gran parte de'    moderni popoli la morte. La pena del furto, accompagnato da scassazione, è la morte. La pena del furto violento commesso nelle pubbliche strade è la morte. La pena del furto sacrilego è la morte. La pena del furto commesso negl'incendi o ne' naufragi è la morte. La pena del furto semplice per colui ch'è stato per la terza volta convinto di questo delitto è la morte. La pena dell'abigeato (1) è la morte. Ne’ paesi ove le leggi della caccia sono ancora in vigore, la pena di colui che uccide o ruba una fiera ch'è nell’altrui foresta, è la morte.

Francesi, Spagnuoli, Germani, Italiani, sono queste le leggi che garantiscono la vostra proprietà! (2) La dolce, ma potente influenza delle scienze e de'    costumi non ha ancora sradicati quest'ignominiosi avanzi della vostra antica ferocia. Essa fa sovente tacere queste leggi; ma non le ha abolite. La mano spergiura del Magistrato dee cercare nel delitto l’unico rimedio contro la tirannia dell’oracolo che dovrebbe dirigerla. La verità deve essere occulta e tradita ne' giudizii, perché la giustizia è violata nelle leggi. L’impunità dev'esser favorita, perché la pena è troppo feroce. Le leggi debbono perdere il loro impero, perché vogliono conservarlo da tiranne. E voi, cittadini liberi delle superba Albione, voi che avete insanguinato il vostro trono, uccisi e proscritti i vostri re, per riacquistare la vostra libertà, voi rispettate ancora le leggi de'    vostri tiranni, voi prestate ancora un vile omaggio alle reliquie della vostra servitù? Voi che avete innalzata la dignità del cittadino per metterlo al livello della Sovranità, della quale è a parte, conservate ancora la legge che condanna alla morte quest’individuo istesso della Sovranità, perché ha uccisa e rubata la lepre, destinata a divertire la noia dell’ozioso proprietario? (3) Voi che avete richiamate nel vostro paese le ricchezze de'    due emisferi, non avete ancora abolita dal vostro Codice l’antica legge che dichiarava come grave il furto del valore di 12 soldi e che lo puniva colla morte? (4) Voi che proscrivendo l’antico culto non avete riformato l’abuso delle immunità, avete poi sottratte dal privilegio clericale quasi tutte le specie di furti, per togliere anche questo abusivo, ma opportuno rimedio contro la perfidia di sanzioni così feroci? (1) Voi che avete protetta con tante leggi la sicurezza dell'uomo ne' criminali giudizii, mostrate poi tanto pocoriguardo per la sua vita, fino a privamelo in molti casi per un furto di cinque soldi? (2) Qual motivo potrebbe giustificare questi errori, qual pretesto potrebbe garantirvi da' rimproveri de'    popoli che voi disprezzate, a chi potreste voi attribuirne la causa? Voi che siete i vostri sovrani e i vostri legislatori, voi che avete il prezioso dritto di creare e di abolire le vostre leggi, non avete, come noi, quello di lagnarvi dell’altrui oscitanza. Con ragione dunque la filosofia aspetta da voi l’esempio di questa desiderata correzione. Il piano, sul quale potrebbe dirigersi, mi pare che dovrebbe essere il seguente.

Senza confondere, come pur troppo si è fatto da' legislatori e dagl’interpreti, senza confondere, io dico, quei delitti che dovrebbero esser distinti e senza distinguere quelli che dovrebbero esser confusi, io non parlerò in questo capo di que’ delitti, i quali, quantunque diretti all'usurpazione delle cose, sulle quali l’usurpatore non ha alcun dritto, hanno nulla di meno un rapporto più immediato colle altre classi, nelle quali si sono ripartiti; né parlando di quelli che a questa rapportar si debbono, io mi permetterò tutte quelle distinzioni assurde e puerili che in vece di facilitare han distrutta la giusta proporzione tra' delitti e le pene, ed han resi così disprezzabili agli occhi del savio i venerandi libri delle leggi.

Cominciando da' furti io non adotterò la distinzione assurda stabilita nell’Attica e nella Romana Legislazione tra il furto manifesto e 'l furto non manifesto. Io non distinguerò neppure lo stellionato dal furto, né gli abigei da' saccularii, né i saccularii da' semplici ladri. Io non distinguerò nemmeno il furto domestico dal furto semplice. La notte o il giorno non farà nel mio piano due furti di qualità diversa; e la distinzione generalmente adottata tra il furto tenue ed il furto grande non sarà da me ammessa. Io preferirò riguardo a quest’oggetto i consigli del divino Platone a' principii troppo ciecamente ricevuti dagli antichi e da' moderni legislatori. Io porrò, come egli, una gran differenza tra il furto violento ed il furto non violento, (1) e non ne porrò alcuna tra il furtotenue ed il furto grande.(2)) Io vedrò ne' primi due furti due delitti di qualità diversa, e vedrò negli altri due delitti dell’istessa qualità, ma che possono esser diversi riguardo al grado; e questa diversità riguardo al grado sarà nel mio piano così indipendente dal valor numerario del furto, che il furto tenue potrà divenire un delitto di grado maggiore del furto grande. Illustriamo queste idee e richiamiamo colui che legge a' generali principii da noi stabiliti.

La qualità del delitto, si è detto, dipende dal patto che con esso si viola; ed il grado, dalla maggiore o minore malvagità che il delinquente ha mostrata nel violarlo. La differenza dunque della qualità di due o più delitti non può dipendere che dalla diversità de'    patti che con essi si violano; e la differenza del grado tra due delitti dell'istessa qualità non può dipendere che dalia differenza della malvagità che si è mostrata nel commetterli.

Applichiamo questi principii al presente oggetto e vediamone le conseguenze.

1. Il ladro preso sul fatto ed il ladro semplicemente convinto han potuto violare l’istesso patto, mostrare un’eguale malvagità nel violarlo.(3)) La differenza dunque tra il furto manifesto ed il furto non manifesto è assurda.

2. Il patto che si viola col furto non violento, è quello che ci obbliga a non usurpare l'altrui proprietà. Colui che ha venduto o pignorato ciò che si apparteneva ad un altro, o ciocche aveva già ad un altro pignorato o venduto, ed usurpa in questo modo o la proprietà dell'uno o il danaro dell'altro, viola l'istesso patto che viola colui che prende il giumento, il bue o la capra della greggia altrui; e questi viola l'istesso patto che viola quei che ruba destramente ciòche si ritrova nella tasca altrui. E se tanto il primo, quanto il secondo, come il terzo han mostrata l’istessa malvagità nel violare questo patto, come può facilmente avvenire, in questo caso essi saran tutti e tre rei di un delitto dell'istessa qualità non solo, ma anche dell'istesso grado. La distinzione dunque tra lo stellionato ed il furto, tra gli abigei e i saccularii, tra i saccularii e i semplici ladri, è assurda.

3. È fuor di dubbio che il ladro domestico violi l’istesso patto che viola il ladro straniero. Egli può, è vero, dimostrare maggior malvagità, per l’abuso della confidenza; ma questo non potrà produrre altro che una differenza nel grado e non nella qualità del delitto, e questa differenza istessa del grado è accidentale, giacche l'abuso di confidenza non è inerente al furto domestico; poiché può darsi che si commetta dal servo che non ha alcun rapporto di più col suo padrone di quello che ha con lui ogni altro uomo. La servitù, molto lontana dall’essere un titolo di confidenza, di amicizia, è ordinariamente un motivo di diffidenza e di odio. La miseria, alla quale, per la durezza de'    padroni, sono per lo più condannati coloro che s’impiegano a questo vile ministero, può anche, secondo lo stabilito canone, (1) diminuire il grado del delitto. Si appartiene a' giudici il decidere a quale grado debba riferirsi il furto commesso, e non è nella natura istessa del furto domestico l’eccesso della malvagità. La differenza dunque tra il furto semplice ed il furto domestico è assurda.

4. Colui che ha rubato nel giorno, e colui che ha rubato nella notte, se né l’uno né l’altro ha unita la violenza al furto, han violato l’istesso patto, ed han potuto mostrare l’istessa malvagità nel violarlo. La distinzione, dunque tra il furto notturno ed il furto diurno sarà assurda.

5. Se il patto che si viola col furto è quello che ci obbliga a non usurpare l’altrui proprietà, è chiaro che questo patto è violato così nel furto tenue, come nel grande. La quantità del furto non può dunque cangiare la qualità del delitto; e se colui che priva il miserabile colono del bue che forma tutta la sussistenza della sua famiglia, può mostrare una maggior malvagità di colui che ne ruba dieci al ricco ed ozioso proprietario, è anche chiaro che la quantità del furto non potrà neppure determinar costantemente il grado del delitto. La differenza, dunque, tra il furto tenue ed il furto grande è, come le altre, assurda.

6. Se colui che unisce la violenza al furto, viola più patti, colui che ruba senza violenza non ne viola che un solo; se il primo viola il patto che ci obbliga a rispettare la persona del cittadino, a non turbare la sua tranquillità con minacele e spaventi, a non impugnare contro di lui le armi che nel solo caso di difesa contro un’ingiusta aggressione, e viola contemporaneamente il patto che ci obbliga a non usurpare l’altrui proprietà; e se il secondo non fa che violare quest’ultimo patto, è chiaro che la qualità del primo delitto sarà diversa dalla qualità del secondo. La distinzione, dunque, tra il furto violento ed il furto non violento è, con ragione, la sola che tra le riferite noi adottiamo nel nostro piano.

Per secondare, dunque, questo piano, il legislatore non dovrebbe far altro che distinguere due specie di furti, il violento ed il non violento. Questi dovrebbero essere due delitti, a ciascheduno de'    quali egli stabilir dovrebbe i tre gradi di pena, proporzionati a' tre gradi di dolo; giacche i tre gradi di colpa non possono aver luogo in questa specie di delitti. Questi tre gradi di dolo, secondo i generali principii da noi stabiliti, (1)comprenderebbero così nell’uno, come nell’altro delitto, tutte quelle circostanze che indicar potrebbero la maggiore o minore malvagità che il delinquente ha mostrata nel commetterlo, e risparmierebbero al legislatore tutte quelle penose e minute distinzioni che sono più imperfette a misura che sono più numerose. Per quello poi che riguarda la pena, la distanza tra quella del furto violento e quella del furto non violento, ne' respettivi gradi, dovrebbe esser così grande, come lo è la distanza tra l’uno e l’altro delitto. Le pene pecuniarie dovrebbero essere unite alle pene privative o sospensive della libertà personale ne' furti violenti; e ne' furti non violenti, le pene privative o sospensive della personale libertà non dovrebbero adoprarsi che nel caso che le pecuniarie non potessero aver luogo. Così l'uno come l’altro delitto, dipendendo dall'avidità del danaro, soggiacer dovrebbe, secondo i nostri principii, (2)alla pecuniaria sanzione. Ma secondo i nostri principii istessi questa non potrebbe bastare per punire il violento furto, giacche chi viola più patti, dee perdere più diritti; (3)né potrebbe aver luogo nella maggior parte de'    casi, attesa la miseria che ordinariamente accompagna gli uomini che si danno in preda a questo delitto. (4)Per adoprare dunque la proposta sanzione, il legislatore dovrebbe stabilire i tre gradi di pena pecuniaria e di pena privativa o sospensiva della personale libertà, pei tre gradi del violento furto, e fissare il proporzionato compenso nel caso che la pena pecuniaria non potesse aver luogo; e nel furto non violento minacciar dovrebbe la sola pecuniaria pena ne' respettivi gradi, ed il proporzionato compenso, nel caso che quella non potesse aver luogo, senza combinare le due pene, come far dovrebbe nel primo delitto. La facilità che vi è di proporzionare la pena alla qualità ed al grado del delitto, così nelle pene pecuniarie, come in quelle che si comprendono nella classe delle pene privative o sospensive della personale libertà, aumenterebbe i vantaggi della proposta sanzione. Io mi contento di averne indicata la natura, e lascio a ciaschedun legislatore il determinarne la specie, secondo le particolari circostanze del suo paese e del suo popolo che non potrei indicare, senza mancare all'universalità del mio argomento ed a' principii istessi che ho stabiliti sul rapporto del sistema penale co' varii oggetti che compongono lo Stato delle nazioni. (1)

Da' furti io passo a' danni, senza l’intenzione di rubare, recati che formano l’altro delitto contro la privata proprietà. Questo delitto, meno frequente del furto, non suppone una minore malvagità di animo, anzi ardisco di dire che richiede per lo più una malvagità maggiore. Quello può essere cagionato dalla miseria, ma questo, quando è accompagnato dal dolo, non può essere dettato che dall’odio e dalla vendetta. La differenza che io trovo tra l’uno e l’altro delitto, è che nel primo le pene pecuniarie sono opportune, e nel secondo non lo sono; perché il primo è cagionato dall’avidità del danaro, ed il secondo non è cagionato dall’istessa passione. L’altra differenza è, che il furto non può esser disgiunto dal dolo, e il danno recato è suscettibile di colpa. In questo delitto come in tutti quelli che sono suscettibili di colpa, il legislatore dee dunque fissare i sei gradi di pena, pei tre gradi di colpa e pei tre gradi di dolo. Con questa operazione egli conseguirà la desiderata proporzione tra la pena ed il delitto accompagnata da quelle circostanze, che indicano la maggiore o minore malvagità che il delinquente ha mostrato nel commetterlo. È inutile l’avvertire, che, oltre la pena, il delinquente soggiacer dovrebbe alla riparazione del danno; giacché questa deve aver luogo in tutti i delitti che sono suscettibili di riparazione, e per tutti i delinquenti che sono nel caso di renderla.

In quest’analisi de'    delitti contro la proprietà io non parlo della remozione de'    termini; poiché, se dalle circostanze che accompagnano il delitto, si vede che l’oggetto del delinquente era l’usurpazione di una parte dell'altrui fondo, in questo caso il delitto sarà considerato e punito come semplice furto, in vigore del generale principio da noi stabilito, (1) che il conato al delitto è punibile quanto il delitto istesso consumalo e riuscito, sempreché la volontà del delinquente si manifesti coll’azione dalla legge vietata. Se al contrario le circostanze non indicano l'usurpazione, allora sarà considerato e punito come danno recalo.

L’istesso, presso a poco, dee dirsi dell'insolvibilità. Se il creditore può mostrare la frode nel suo debitore, allora questi sarà considerato e punito come ladro; ma se la causa dell’insolvibilità è una disgrazia, allora l’azione del creditore sarà un’azione puramente civile; allora non vi sarà più né delitto né pena. Punire senza distinzione l’insolvibilità col carcere; confondere la miseria col delitto, e la sciagura collafrode; covrire l’innocenza coll’ignominia della malvagità, ed esporla alle sue seduzioni; togliere all’uomo, che la sorte ha privato di tutto, anche la proprietà del suo corpo che quella gli ha lasciato; compensare con un lungo e forse perpetuo supplicio il breve sollievo che egli ha ottenuto in mezzo ai suoi mali; rendere il soccorso che ha sospesa per un istante la sua miseria, la causa di una disgrazia molto più dolorosa; condannare all’inazione ed all’ozio colui che non ha altri mezzi per alimentare la sua famiglia, e per soddisfare il suo creditore, se non quelli che gli somministrerebbe la sua attività; privare la società d’un uomo che non l’ha offesa e che potrebbe servirla; lasciare al creditore il barbaro diritto di ritenere in questo stato di obbrobrio e di desolazione il suo debitore, per quanto tempo gli piaccia, e di soddisfare alla più ingiusta vendetta colle armi istesse della legge; offendere la giustizia, conculcare i diritti più preziosi dell'uomo e del cittadino; moltiplicare i mali che vanno uniti all’indigenza senza neppure favorire la proprietà, sono questi gl’inconvenienti della carcerazione per debiti, stabilita in tutte le nazioni dell’Europa, anche in quelle che si credono le più umane e le più libere. In Inghilterra per due sole ghinee si conduce un debitore nelle carceri, e, quel che sembra più strano, si è, che in quell’istesso paese, ove la personale libertà è vigorosamente difesa con tante leggi dal pericolo d’una carcerazione arbitraria, in quell’istesso paese, allorché si tratta d’insolvibilità, non vi è neppur bisogno di produrre l’obbligo del debitore, per esercitare su di lui questa tirannia; ma un semplice giuramento del creditore, o vero o falso, basta per ottenere l’ordine legale che strappa dal seno della sua famiglia un cittadino, per condurlo nelle carceri, in maniera che la legge può in questo modo concedere al più spregevole impostore quella fiducia che nega al Capo della nazione.

Il silenzio de'    costumi su questa legale violenza ci sembrerà altrettanto più strano, se rifletteremo che tutte le nazioni nella loro barbarie hanno sofferta una simile ingiustizia nelle loro leggi; ma che l’han quindi corretta nella loro civiltà. Quando la forza pubblica non ha ancora acquistato il suo vigore, quando la tutela de'    privati diritti è ancora affidata alle forze individue, la legge, che frenar non potrebbe lo sdegno del creditore, dev’esser molto contenta se ne impedisce gli eccessi. Ecco ciò ch'ella otteneva in questo imperfetto stato, di società, dalla carcerazione del debitore insolvibile. Perfezionato quindi lo stato civile, aumentata la forza pubblica, e resa inutile per la privata tutela la forza individua, non vi è più bisogno di questo temperamento, opportuno nell’antico stato, ingiusto e pernicioso nel nuovo. Questa verità, comecché ignorata da' moderni, non isfuggì dagli occhi degli antichi legislatori. Noi troviamo una Legge di Boccaris nell’Egitto, che permetteva al creditore di prender possesso dei beni del debitore, per ritrarne il pagamento, ma che proibiva l’esecuzione personale stabilita dall’antica legge sul debitore medesimo.(1)La celebre Legge di Solone chiamata Sisachtia era diretta a correggere l’istesso avanzo dell’antica barbarie. Essa toglieva al creditore l’autorità di obbligare personalmente il debitore al pagamento.(2)Diodoro di Sicilia ci fa sapere ch’eran derisi quei legislatori che, avendo proibito al creditore d’impossessarsi delle armi o dell’aratro del suo debitore, avevan lasciata in vigore la legge che gli permetteva di condurlo nelle carceri.(3)Chi crederebbe che in quasi tutta l’Europa esiste ancora una stranezza derisa venti secoli fa 1 Roma istessa, Roma così feroce ne' primi tempi contro i debitori, corresse ben presto la sua antica severità. Molto lontana dal permettere che 'l debitore insolvibile fosse privato della politica libertà, essa non volle neppur privarlo della libertà personale. Quando costava la buona fede, la sua persona era in sicuro. Questa non era esposta alla perdita della libertà che in due soli casi, cioè quando nel debito vi era concorso Io stellionato, vale a dire il dolo e la frode, o quando il debitore medesimo si era solennemente obbligato alla personale coazione, ed in quest’ultimo caso istesso la cessione de'    suoi beni faceva succedere al rigore di questa legge la legge di libertà. (4)

Noi non troviamo che presso i moderni popoli conservato per sì lungo tempo il religioso rispetto per una legge che, come si è detto, non è opportuna che pe’ nascenti popoli, nello stato della loro barbarie.

Queste riflessioni ci richiamano ad un altro errore de'    nostri legislatori, che forse non ha poco contribuito alla perpetuità del primo. Si crede che l’interesse del commercio esiga la personale coazione annessa alle lettere di cambio. La salutare invenzione della carta circolante ha data al commercio quella celerità che non avrebbe potuto mai ottenere dalla moneta. Dopo questa scoverta la mercatura è divenuta un gran corpo, tutt'i membri del quale si toccano e ne dividono reciprocamente gli accidenti. Tutto il corpo soffre, se il giuoco de'    piedi è interrotto. Bisogna dunque recare, dicono essi, i più efficaci rimedii contro il ristagno che può farsi in questo piede malato, e questo rimedio non può trovarsi in altro che nella personale coazione.

Ecco il fondamento d'un errore che si risente dall'infanzia della nostra, pur troppo, vecchia legislazione. Per conoscere tutta la debolezza di questo fondamento, basta riflettere che il negoziante ha un interesse molto maggiore al pronto pagamento del suo debito, di quello che può nascere dalla personale coazione. Un momento di ritardo indebolisce il suo credito ch'è il sostegno della sua ricchezza; l’insolvibilità lo distrugge interamente. Quale sprone più forte di questo potrebbe mai adoperare la legge? Quando essa punisce il fallito di mala fede, che bisogno ha di ricorrere ad inutili ed ingiuste violenze per atterrire il negoziante onesto, ma infelice? Se questi non ha come pagare, il carcere gliene somministrerà forse il modo? o non gli toglierà piuttosto quei soccorsi ch’egli ottener potrebbe dalla sua attività? L’impotenza di pagare non è forse il maggior disastro che possa temere un mercante onesto? e per colui che non lo è, non vi sono forse le altre pene dalla legge intimate? Se un rimedio ingiusto non si dovrebbe neppure adoperare, quando fosse utile, che dovrà dirsi, quando è non solo inutile, ma anche pernicioso? Or la coazione personale, della quale qui si parla, è nel tempo istesso manifestamente ingiusta, manifestamente inutile, manifestamente perniciosa. È manifestamente ingiusta, perché confonde il delitto colla disgrazia, e priva di un dritto un uomo che non ha violato alcun patto. È inutile, perché il negoziante che ha come pagare, ha un interesse molto maggiore di questo per adempire al suo dovere; è inutile pel negoziante disonesto, perche questi ha pene molto maggiori che debbono spaventarlo; è inutile per colui che non ha come pagare, perché il carcere non gliene somministra sicuramente il modo; è finalmente perniciosa, perché in cento casi di un momentaneo disordine il negoziante, fuori delle carceri, potrebbe riparare a' suoi interessi; ma con una esecuzione solenne come questa perde interamente il suo credito, e per conseguenza perde la possibilità di pagare; egli va in rovina, e rovina i suoi creditori. È anche perniciosa, perché somministra l’adito della sicurezza alle usure che, sotto gli auspicii della personale coazione e della via esecutiva annessa alle lettere di cambio, fanno la più gran strage nelle famiglie; giacché niuno ignora che i tre quarti delle lettere di cambio non sono sottoscritte che da privati cittadini pe’ più rovinosi prestiti. È finalmente, in quest'istesso aspetto considerata, perniciosa per lo Stato intero; perché, fomentando le usure, fomenta i vizi di una turba di giovani, che senza questo mezzo sarebbero forse nella preziosa impotenza di proseguire la carriera della corruzione, e sostituisce ad una industria legittima ed utile un’industria ingiusta, illegale e distruttiva.

Ecco come un solo errore di legislazione produce infiniti mali; ed ecco come le verità le più manifeste, che lacerano di continuo il cuore di colui che scrive sulle leggi, rimangono ignote, o non sono bastantemente forti per destare dal loro profondo letargo coloro che hanno il dritto di farle. Che dovremo noi sperare da quelle che non sono suscettibili dell'istesso grado d’evidenza? Di tal natura sono quelle che siam nell'obbligo d’illustrare nel seguente capo.


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CAPO LV

De’ delitti che non si debbono punire

Dopo un lungo e noioso esame delle azioni contrarie alle leggi che richiamar debbono il loro rigore, è giusto di osservare se ve ne siano delle altre, che richiederebbero il loro silenzio piuttosto che la loro sanzione. Il suicidio è uno degli oggetti di questo esame. Le varie disposizioni delle antiche e delle moderne legislazioni, relative a quest’oggetto, aumentano la nostra incertezza, in vece di dissiparla. Cominciando dagli antichi legislatori, noi troviamo in Atene prescritta la mutilazione della mano del suicida, e la ridicola proibizione di chiuderla nell'istesso tumolo, ove era riposto il rimanente del corpo.(1)Noi troviamo nel celebre Trattato delle leggi di Platone proposta anche una pena sepolcrale; ma meno ridicola e meno indistintamente minacciata di quella di Atene.(2)Noi troviamo in un’antica città della Francia(3)una singolare istituzione che Valerio Massimo ci ha conservata. Una bevanda velenosa era sempre dalla pubblica amministrazione serbata per uso di coloro che richiedevano ed ottenevano dal Senato il permesso di uccidersi. Un preliminare giudizio di quest’augusta assemblea legittimava quest'atto tutte le volte che veniva cagionato da motivi giusti e ragionevoli a' suoi occhi. Il timore di perdere la felicità, della quale si era in possesso, o il desiderio di porre un termine alle sciagure che accompagnavano la vita, eran motivi ugualmente efficaci per indurre il Senato a concedere la micidiale bevanda. Noi troviamo finalmente nel corpo del Romano Dritto un titolo nel Digesto ed un altro nel Codice su i beni di coloro che si son dati colle proprie mani la morte; e troviamo in tutte le leggi, in questi titoli comprese, distinto il caso del suicida delinquente che si uccideva per isfuggire la condanna di un giudizio capitale, da quello nel quale il suicidio era da tutt'altro motivo cagionato. Nel primo caso i beni del suicida erano confiscati, come se il suo giudizio fosse stato terminato ed eseguito; ma nel secondo la legge non minacciava pena alcuna, né impiegava le sue importanti sanzioni contro le ceneri o l’innocente posterità dell'infelice, che aveva cercato nel riposo della morte quella pace che una vita, tormentata dalle sciagure e da' dolori, gli aveva negata. (1)

Molto lontano dal condurre sopra un infame patibolo il cadavere del suicida; molto lontano dal privare la sua posterità de'    suoi beni, e dal covrirla dell'ignominia della pena del suo disgraziato parente; essa non vedeva nel suicida altro che la perdita di un cittadino che si era volontariamente esiliato dalla patria, per trovare lungi da essa l’ignota e desiderata felicità. Contenta del naturale ostacolo che oppone a questo delitto l’amor della vita; persuasa della sua impotenza contro un uomo che col delitto istesso dimostra di non temer la morte; la legge credè più giusto e più decente di lasciarlo impunito, che esporre le sue sanzioni alla derisione della moltitudine, al manifesto disprezzo del delinquente, e ad una perfida violenza sulla sua innocente posterità.

Queste ragioni, che ispirarono l’indulgenza de'    legislatori di Roma riguardo ad un delitto che non può esser cagionato che da un disordine delle facoltà fisiche e morali dell'uomo, non sono state ammesse da' moderni legislatori dell’Europa, malgrado il cieco rispetto ch'essi han mostrato per le Romane Leggi. In Francia, (2) in Inghilterra, (3) in molti altri paesi dell’Europa la legge inveisce contro il cadavere del suicida; chiama in giudizio l’essere che ha terminato di vivere e di sentire; instituisce contro di lui un’accusa ed un processo; condanna ad ignominiose esecuzioni il suo corpo; confisca i suoi beni e punisce in questo modo, non il delinquente che ha violata la legge, ma il figlio che ha perduto il padre, e la vedova ch'è rimasta priva del suo marito. Io non voglio fare l'apologia di un’azione che la religione detesta, e che le leggi non debbono approvare; io non voglio moltiplicare il numero degl'intrepidi discepoli di Zenone, e de'    fanatici individui della Setta stoica; io non ignoro ciò che Plutarco, (4) Seneca, (5) Marco Aurelio, (1) l’Abate di S. Cirano, (2) Mopertui (3) e molti altri filosofi hanno scritto e pensato in favore di quest’azione; ma son molto lontano dal dichiararmi del loro partito, come sono anche molto lontano dall'impegnarmi a confutarli. Io dirò soltanto che l’uomo è obbligato a fare il maggior bene che può a' suoi simili, e che a niun uomo mancano i mezzi da soddisfare a questo dovere, finché ha la volontà di farlo. 0 ricco o povero o potente o debole, egli può essere sempre il benefattore o l’istruttore degli altri uomini; egli può almeno avere la speranza di divenirlo. Togliersi la vita è l’istesso che privarsi del fondamento di tutti i mezzi adoperabili per adempiere a questo sacro ed universale dovere. Ma qualunque forza possa avere quest'argomento, io non m’impegno a sostenerlo. Io esamino quest'oggetto da politico e non da moralista; e, senza approvare il suicidio come lecito, condanno le leggi che lo puniscono come inutili e come ingiuste. Io consulto l’esperienza, e questa mi fa vedere i suicidii non essere in alcun paese così frequenti, come lo sono in quelli, ove le leggi li puniscono con maggior rigore.(4)Io consulto la ragione, e questa mi dice che l’uomo, che ha superato il più forte ostacolo, non può esser trattenuto dal più debole; che l’uomo che abborrisce tanto la vita, fino a concepire il disegno di privarsene, non può avere alcun’altra cosa così cara sulla terra che possa distogliernelo; che un padre tenero per i suoi figli, uno sposo tenero per la sua moglie, non cerca di separarsene, e per colui che non lo è, la confìscazione de'    beni lascia di essere un valevole freno; che finalmente l’ignominia, che si sparge sul cadavere, non tratterrà la mano del suicida, il quale non può ignorare che questa non priverà la sua memoria di quell'onore che non si appartiene alla legge né di dare né di tórre; ma all'opinione, la quale non ne priva, se non colui che ha violate le sue leggi. Io consulto i fondamentali principii della scienza legislativa, e questi mi dicono che se la pena minacciata al suicida è inutile, è anche ingiusta; giacché quando la pena non è efficace, manca il motivo che ne giustifica l’uso; giacché una sanzione impotente è una sanzione tirannica, perché fa un male privato senza ottenerne un bene pubblico. Io consulto finalmente le inalterabili regole della universale giustizia; e queste mi dicono che l’individuo di una società vien liberato da tutt'i doveri che ha con essa, subito che rinuncia a tutt'i suoi vantaggi; che quando egli se ne proscrive volontariamente, questa non può punirlo che in un solo caso, quando le portasse la guerra; ed allora essa combatte un suo inimico piuttosto che punire un delinquente; che fuori di questo caso l’esule non essendo più individuo di quella società, dalla quale si è disciolto, non è più subordinato alle sue leggi, non può soggiacere alle loro sanzioni. Il suicida è l’esule, e la morte è l’atto, col quale egli rompe il nodo che l'univa alla società che lo metteva a parte de'    suoi vantaggi, lo soggettava alle sue leggi, l’esponeva alle loro pene. Rotto questo nodo, egli non è più né cittadino né suddito; egli non è più né sotto la protezione delle leggi, né sotto il loro impero. Ogni atto d’autorità che queste esercitano su di lui, è una violenza, è un abuso della forza e non un esercizio del potere.

Ecco le ragioni che m’inducono a collocare il suicidio nella classe di que’ delitti che non si debbono punire. Io adotterei la distinzione delle Romane Leggi, e punirei il suicida delinquente che si è data la morte per isfuggire la condanna che aveva meritata; ma lo punirei come delinquente, non come suicida; io farei eseguire sul suo cadavere o sulla sua proprietà quell'istessa pena che subita avrebbe, se fosse rimasto in vita, e questo nel solo caso che la pena, alla quale era stato condannato, fosse stata pecuniaria o infamante, o quando il suicidio fosse stato posteriore alla condanna; poiché, se l’avesse preceduta, la legge, che non dee mai permettere che si condanni un uomo che non può difendersi, dovrebbe considerare come naturalmente morto il reo, e per conseguenza estinta l’accusa che si era contro di lui intentata. Il lettore che ha presenti le mie idee sul sistema penale, conoscerà i motivi ed i vantaggi di questa disposizione.

Dal suicidio io passo a' delitti d’incantesimo, magia, sortilegio, stregoneria, divinazione, augurio, interpetrazione di sogni, incubismo, succubismo, ecc., nomi per sempre memorandi nell’istoria delle sciagure, degli errori e della superstizione de'    popoli; nomi che dopo aver bagnata di sangue l’Europa avrebbero dovuto sparire da' suoi Codici; ma che, ignominiosamente pe’ nostri legislatori, vi conservano ancora il loro posto e non lasciano di fare, dove più e dove meno, qualche strage, malgrado i progressi de'    lumi e della coltura, e malgrado la decadenza del fanatismo e della superstizione.

La Romana Legislazione, che ci ha somministrato un opportuno esempio in favore dell’impunità del suicidio, non ci offre l’istesso spirito di moderazione e di filosofia riguardo a' delitti, de'    quali qui parliamo.

Che tra le leggi regie, inserite quindi nelle Decemvirati favole, noi troviamo immolato a Cerere l’incantatore delle biade altrui; (1) che tra l’istesse leggi noi troviamo punito come omicida colui che proferito aveva contro di alcuno il magico incantesimo; (2) la superstizione che accompagna sempre l’infanzia de'    popoli, e ch'è l’ancella della loro barbarie, previene la nostra sorpresa, e ci richiama alle universali idee del solito corso delle nazioni e de'    popoli. Noi non abbiamo a far altro che rivolgerci a' Codici della posteriore barbarie, per trovare i costanti effetti dell'istessa causa. (1)

Che sotto l’Impero di Costantino noi troviamo adoperato il fuoco e le fiere contro gl'infelici che questi errori avevano sedotti; (2) la feroce devozione di quest’imperatore che credè di onorare il vessillo della croce colla persecuzione e colle stragi, ci fa piangere sulla sorte delle vittime che furono immolate al suo preteso zelo; ma non può destare la meraviglia in coloro che sono avvezzi ad osservare gli effetti funesti del fanatismo, allorché è combinato colla ferocia e col potere. Noi non ci maravigliamo neppure che l’istessa causa abbia prodotti gl’istessi effetti sotto il governo degl’imbecilli suoi successori. (3)

Ma che ne' tempi di Silla, (4) di Tiberio (5) e di Claudio, (6) che sotto l’Impero istesso di un filosofo, (7) quando l’ignoranza e la barbarie erano sparite insieme colla libertà, quando l’ateismo era succeduto alla superstizione, quando i vari culti ammessi nell'Impero eran così dal filosofo che dal magistrato e dal sacerdote considerati come ugualmente utili e come ugualmente falsi, quando la tiara del Pontefice e le vesti dell’Augure nascondevano un Ateo, e i religiosi riti altro non erano che il soggetto o l’istrumento de'    pubblici divertimenti o della nazionale vanità; che in questi tempi, io dico, si ritrovi il mago confuso col sicario, l’indovino coll’avvelenatore, l’autore dell’incantesimo coll’omicida o col ribelle; la meraviglia dee necessariamente sorprendere l’animo di chi legge, e noi non possiamo spiegare simili fenomeni che con una riflessione tanto trista, quanto vera, che gli effetti dell’ignoranza e della superstizione sono molto più durevoli che non lo è la loro causa istessa.

Quello che avvenne in Roma, è avvenuto a' moderni popoli dell'Europa. Le leggi dettate dall'ignoranza e dalla superstizione esistono, nel mentre che l’ignoranza è stata dissipata, e che la superstizione è stata soppiantata dall'irreligione e dall’ateismo. Se se ne eccettui la Francia (1) e l’Inghilterra, (2) presso gli altri popoli le feroci leggi contro questi delitti non sono state abolite, e se non sono così frequentemente eseguite come prima, questo dipende dalla virtù de'    magistrati e non dalla correzione del legislatore. Se il rispetto per l’opinione pubblica le fa tacere nelle grandi città e nelle capitali; nelle provincie e ne' villaggi, ne' tugurii dell'agricoltore e del pastore esse cagionano, nell’oscurità e nel silenzio, molti occulti sì, ma non meno funesti disordini. Chi crederebbe che in questo secolo, ed in paese ove la Riforma è stata adottata, dove non vi sono né inquisitori né frati, sia stata bruciata non più che anni fa una donna come strega? (3) Chi crederebbe che molti paesi dell’Italia abbiano, anche più recentemente, vedute simili esecuzioni? Io farei torto al mio secolo, se mi sforzassi a dimostrare che simili delitti sono una chimera, che gl'imbecilli sono quelli che vi si danno in preda, e i delinquenti coloro che li puniscono. Io farei torto al mio secolo, se cercassi di dimostrare che per allontanare gli uomini da questi errori la derisione è molto più efficace della pena, l’istruzione più delle leggi, e lo spedale de'    matti più del carcere e de'    roghi. Io farei finalmente torto al mio secolo, se cercassi di dimostrare che per garantire un Governo dall'ignominia di queste leggi non basta l’addurre ch’esse non si eseguiscono; poiché le leggi debbono esser corrette e abolite dal legislatore e non dal Magistrato, dal Sovrano che le fa e non dal giudice che le dee fare religiosamente eseguire.

L’altro delitto, che non si deve punire, è l’usura. La legge non dovrebbe punirlo, ma non dovrebbe neppure proteggerlo. I rispettosi riguardi dovuti alla proprietà dovrebbero indurre il legislatore a lasciare al ricco la massima libertà nell'impiego delle sue ricchezze, e la coazione personale per la insolvibilità abolita ne preverrebbe gli abusi. Senza di questa, come si è osservato, il giovane libertino non troverebbe chi affidar gli volesse quelle somme che l’avaro gli accorda oggi ad enorme usura, sotto gli auspicii di questa personale coazione; e l’avaro, che non avrebbe la sicurezza di riavere il suo danaro, l’impiegherebbe a tutt'altro che a questo illecito e pericoloso negoziato. Egli non darebbe il suo danaro, se non a colui che avesse beni da ipotecare; e colui che ha beni da ipotecare, non ha bisogno di ricorrere ad una enorme usura. La concorrenza degli oblatori preverrebbe il male, ed il delitto sarebbe impedito dall'interesse istesso del delinquente, senza l’opera della legge e della sua sanzione.

Un motivo ugualmente ragionevole richiamar dovrebbe il silenzio delle leggi sopra un vizio, che i Codici di molte nazioni vietano come un delitto, ed inutilmente puniscono. lo parlo de'    giuochi proibiti. L’inclinazione al giuoco, non altrimenti che le altre inclinazioni tutte, non conduce l’uomo al delitto, se non quando la ragione lascia di dirigerla. finché è sotto il suo impero, finché non ha cagionato il delitto, non è suscettibile del frenò della legge. Come azione, essa è indifferente; come passione, non è punibile. La sanzione penale non dee cadere che sul delitto. Il vizio dev'essere prevenuto dalle leggi, ma non punito.

Quando la passione del giuoco renderà ladro il giuocatore, allora egli sarà punito come ladro, ma non come giuocatore. La legge che punisce il ratto e l’adulterio, punisce essa l’amore? Tutt’i delitti dipendono dal disordine delle passioni, ma le leggi han dovuto contentarsi di punir gli effetti, e di semplicemente diriger le cause. La passione della gloria, che ha prodotte tante virtù, ha anche cagionati tanti delitti. L’ignoranza del gran sistema legislativo ha fatto credere a' legislatori di poter ottenere colle leggi penali quello che conseguir dovevano con tutt'altro mezzo.

Essi han voluto sempre andare direttamente al loro oggetto, quando dovevano andarvi per la strada più curva. Essi hanno lesa la libertà dell'uomo, e smarrito il loro scopo. Contenti di aver punito il vizio, essi han trascurato di prevenirlo. L’inopportunità del mezzo ha fatto trionfare il vizio, ed ha prodotto il disprezzo della legge. Ecco ciò che si osserva in una gran parte delle disposizioni de'    nostri Codici; ed ecco ciò che più evidentemente si trova in quelle che riguardano la proibizione de'    giuochi. L’impotenza della sanzione penale contro questo vizio si è manifestata in tutte le nazioni, che l’hanno adoperata. Luigi XIII giunse fino a dichiarare infami, intestabili ed incapaci di ottenere uffizi! reali coloro che giuocato avrebbero a' giuochi di azzardo. Il pubblico fu irritato dalla ferocia della pena e dall’abuso dell’autorità; si chiusero le porte che si tenevano aperte, e si giuocò come prima. (1)

Io conchiudo questo articolo con una riflessione di Tacito, che mi si offre opportuna a questo argomento: Nescio si suasurus fuerim omittere potius praevalida et adulta vitia, quam hoc adsequi, ut palam fìeret, quibus flagitiis impares essemus. (2)


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CAPO LVI

Appendice all’antecedente Capo

Un errore di alcune moderne ed antiche legislazioni è l’oggetto di questo capo. Sotto il Regno di Luigi IX in Francia fu solennemente appiccato un porco che aveva ucciso un ragazzo. In una Capitale dell'Italia, non ha gran tempo, si vide una simile esecuzione. Il popolo fu spettatore di un giudizio e di un giudice che con tutti gli apparati della giustizia e col braccio de'    suoi ministri fece mazzolare alcuni cani, che avevan commesso il delitto d’aver seguito con troppo impeto il loro naturale istinto.

Presso gli antichi legislatori quest'errore fu anche più comune che tra i moderni. Una Legge di Dracone condannava alla morte il cavallo o altro animale che aveva ucciso o recato del male ad alcuno.(1)Pausania (2)ci fa sapere che questa si estendeva anche alle cose inanimate. Se una statua, un vaso, una colonna, cadendo, uccidevano o ferivano l’uomo che le osservava o che si trovava sotto passando, un processo veniva subito formato, e la statua, la colonna, o il vaso micidiale, condannato veniva ad esser messo in pezzi, i capi d’opera di Fidia e di Prassitele erano ugualmente esposti al rigore di questa legge assurda, e le Muse protettrici delle arti, più d’una volta, piansero insieme col popolo la perdita che si faceva delle loro più belle e più auguste produzioni.

La Legge di Dracone non fu abolita da Solone; e Suida ed Euschio ci dicono che questa si trovava anche stabilita in una gran parte degli antichi popoli.(3)Platone, Platone istesso non vide il vizio di questa legge assurda; ed egli ebbe la debolezza di prescrivere un giudizio ed una pena contro il giumento omicida o l’inanimata cosa che avesse recato l’istesso male.(4)Tanto è vero che gli errori di un secolo rimangono spesso ignoti anche agli uomini più illustri dell’istesso secolo, nel mentre che il più ignorante della posterità sorride sugli errori de'    suoi padri, senza riflettere a quelli che i suoi contemporanei han loro sostituiti.

Malgrado il rispetto che io ho per gli antichi legislatori e pel filosofo profondo che ho citato, io trovo puerile ed assurda questa penale sanzione contro il giumento o l’inanimata cosa. Io trovo ch'essa discredita la legge, profanando le sue sanzioni; ch’eccita il riso in vece del rispetto; che può in cento casi lasciare impunito l’uomo delinquente, per punire l’istrumento ch'egli ha adoperato per delinquere; che può in cento altri casi punire maggiormente la minor negligenza del padrone della statua di Prassitele, che la negligenza maggiore del padrone del vaso del più ignorante degli artefici; che può maggiormente punire l’infimo grado di colpa del padrone di un cavallo, che il massimo grado di colpa nei padrone di un cane. Senza rompere la statua o il vaso micidiale; senza condannare alla morte il giumento o il bue che ha ucciso l’uomo; perché non punire la negligenza o il dolo del padrone del vaso, della statua, del giumento o del bue in quel grado di colpa o di dolo, che dalle circostanze che hanno accompagnato l’evento viene indicato? La pena verrebbe allora a cadere sul delinquente, e non sull'istrumento del delitto; verrebbe ad esser proporzionata al grado del delitto; verrebbe anche ad esser proporzionata alla sua qualità; giacché il vaso o la statua che, cadendo, poteva al più mutilare un uomo, ma non ucciderlo, produrrà, nell'istesso grado di colpa o di dolo, una pena inferiore a quella che cadendo poteva uccidere un uomo.

Il lettore che ha presenti le mie idee, vedrà che col metodo da me stabilito non si richiederebbe neppure una particolare legge per quest'oggetto.


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CAPO LVII

Dell'impunità

«Che niun delitto rimanga impunito nella Repubblica; che 'l fuggitivo istesso soccomba alla vigilanza delle leggi ed alla loro sanzione; che la morte, i ferri, i flagelli, l’infamia, l’ignominia, la relegazione o le multe siano sempre le appendici inevitabili della violazione delle leggi; (1) che 'l malvagio disperi tanto di scampare il loro rigore, quanto confidar deve il cittadino onesto di goder della loro protezione; (2) che l’impunità si consideri come il fomite del de fitto; (1)l'indulgenza pe’ rei, come tante insidie tramate contro la probità e la civile sicurezza; (2) le grazie male impiegate, come tanti torti recati; (3) il ritorno degli esuli, la libertà degli avvinti, il perdono de'    condannati, come i manifesti segni della decadenza di una repubblica: (4)» ecco ciò che Platone, Cicerone e l'antica filosofia han pensato sull'impunità, prima che alcuni moderni scrittori impiegata avessero la loro eloquenza per dimostrare queste non ignorate verità.

Montesquieu che ha così spesso dette delle cose false, per dire delle cose spiritose; Montesquieu che ha voluto trovar tutto ne' suoi principii, ma che vi ha trovato spesso l’errore; Montesquieu, senza avvedersene, ha mostrata la fallacia de'    suoi principii volendoli applicare. Egli dice che nelle monarchie «il Principe dee perdonare e la legge dee con dannare; egli dice «che la clemenza del Monarca è necessaria nelle monarchie, dove gli uomini son governati dall'onore, il quale spesso esige ciò che la legge proibisce. (5)

Se il Principe dee perdonare e la legge dee condannare, le leggi, invece d’essere l’ostacolo innalzato dalla forza pubblica contro le violenze private, saranno dunque i lacci tesi dal tiranno contro quella porzione degl'individui della società che non han saputo procurarsi il suo favore; e saranno l'oggetto della derisione e del disprezzo per lo schiavo avveduto che può violarle impunemente, sotto gli auspicii di un eunuco o di una favorita. Se. il Principe dee perdonare e la legge dbe condannare, il principale interesse del cittadino non sarà dunque di ubbidire alle leggi, ma di piacere al Monarca. Se il Principe dee perdonare e la legge dee condannare, il Giudice dunque che ha esposta venale la giustizia; il Magistrato che si è reso reo di concussione e di estorsione; il Generale che ha venduta all'inimico della patria la sicurezza e la gloria della nazione; il Ministro che si è servito del suo potere per arricchire la sua famiglia, e per opprimere i suoi competitori, basta che conservino una parte delle ricchezze che hanno acquistate, per gittarla opportunamente nelle mani della concubina o del favorito del Monarca, quando i loro delitti venissero manifestati, per essere sicuri della loro impunità; nel mentre che tutto il rigore delle leggi verrebbe a piombare sopra l’infelice che non ha saputo violarle tanto, quanto si richiedeva per rendersi ad esse superiore. Se finalmente «la clemenza del Monarca è necessaria nella monarchia, dove gli uomini son governati dall’onore, il quale spesso esige ciò che la legge proibisce»; o bisogna dire che nella monarchia sia necessario che il principio, che fa agire il cittadino, sia in opposizione colle leggi che debbono dirigerlo, ciocché sarebbe stato un assurdo; o bisogna dire, con maggior verità, che il principio che anima la monarchia sia tutt'altro che l'onore. Quando vi è opposizione tra alcune leggi civili ed alcune leggi dell’opinione, il legislatore abolirà le prime, finché non abbia corrette le seconde. Così nella monarchia, come nelle repubbliche, egli non concederà il perdono a colui che ha violate le une per non disubbidire alle altre, ma toglierà l’opposizione istessa. Questa operazione formar dovrebbe una delle principali sue cure; ma questa operazione sarebbe, secondo il sistema di Montesquieu, perniciosa nella monarchia; giacché le leggi dell’onore, quelle istesse che sono le più contrarie all’ordine sociale, non potrebbero esser corrette, senza indebolirsi o distruggersi il principio istesso che, secondo lui, anima il governo.

Ecco come i bei detti e le brillanti espressioni scompariscono agli occhi del lettore che medita e combina il sistema delle cose, nel mentre che impongono un vergognoso rispetto agli spiriti superficiali e mediocri, i quali leggono per noia e giudicano per consenso.

I principii dunque stabiliti dall'Autore Dello spirito delle Leggi non debbono formare una valevole eccezione in favore dell’impunità nelle monarchie. Noi diremo che in questo governo, come in tutti gli altri, le leggi debbono esser dolci e moderate, ed il Sovrano inesorabile; noi diremo che se il dritto di far la grazia a' delinquenti non si vuol considerare di sua natura come abusivo, non si può dubitare che nella maggior parte de'    casi l’esercizio di questo dritto è un’ingiustizia commessa contro la società; che la cura di conservare e difendere la sicurezza pubblica e la tranquillità privata dev'essere il primo dovere della Sovranità; che la clemenza, ch'è in opposizione con questo dovere, è una debolezza, un vizio manifesto; che la virtù, che si chiama con questo nome, dee manifestarsi nelle correzione delle leggi ingiuste e feroci, e nel privarle del loro rigore; che ogni grazia conceduta ad un delinquente è una derogazione della legge; che se la grazia è equa, la legge è cattiva; e se la legge è buona, la grazia è un attentato contro la legge; che nella prima ipotesi bisogna abolir la legge, e nella seconda rifiutare la grazia; che questa regola non è suscettibile di eccezione che in due soli casi: 1° Quando nella persona del delinquente concorrono i grandi meriti personali, e le grandi speranze che i suoi talenti e le sue virtù offrono alla patria; quando nel suo delitto si manifesti piuttosto l’impeto di una passione, che la depravazione del cuore; quando e i giudici che l’hanno giudicato, ed il popolo ch'è stato testimonio delle sue virtù e de'    suoi servizii, reclamino la sua grazia e la momentanea sospensione della legge; quando, in una parola, l’impunità, in vece di offrire un adito al delitto, somministrerebbe un incoraggiamento alla virtù: ecco il primo caso. Il secondo è quello di una popolazione intera delinquente. Quando un gran numero di cittadini vien sedotto da uno spirito torbido ed inquieto; quando una città, un villaggio intero si rende complice di un delitto; quando la pena dalla legge prescritta lascerebbe un vuoto pernicioso o nella popolazione o nell’agricoltura o nelle arti, allora la salute della Repubblica, che dev’esser la suprema legge dello Stato, può esigere il silenzio della particolare legge che destina a ciaschedun complice la sua pena; allora la paterna mano del Padre della Patria può sottoscrivere il decreto del perdono e della pace; allora la spada della giustizia, dopo aver percosso il capo degli autori del delitto e de'    principali rei, può esser rimessa nel suo fodero, senza recare detrimento alcuno alla pubblica tranquillità. Fuori di questi due casi, io non ne veggo altri che, supposta la perfezione della criminale legislazione, ed il vigore della giustizia pubblica, richieder debbano l’impunità.

La reggia, il trono, il tempio e l’ara offrir non dovrebbero asilo alcuno al cittadino che ha violata la legge, non dovrebbero chiudere le loro porte alla giustizia che va a cercare la sua vittima, e che dovrebbe avere il diritto di strapparla dalle braccia del Re, dal grembo istesso di Giove. La maestà del trono, la sede del Re, il tempio, l’ara, l’immagine del nume, lungi dall’esser vilipese, verrebbero onorate dal trionfo della giustizia e delle leggi. (1)

La remissione della parte offesa non dovrebbe neppure richiamare, in qualunque caso, l’impunità del delinquente o la diminuzione della pena. Il diritto di punire è del Sovrano che fa la legge, è del Magistrato che l’applica a' particolari casi e non dell’offeso. L’oggetto della legge, come si è dimostrato, non è la vendetta, ma la correzione e l’esempio. L’offeso può rinunziare alla riparazione del danno; ma non può privare la società di un esempio, ed il Sovrano di un dritto che non si appartiene più al cittadino, da che lo ha depositato nelle sue mani.

Molto meno ammetter si dovrebbe come un ragionevole motivo d’impunità il perdono che si suol promettere ad un complice per la scoverta degli altri. Quando la santità delle leggi non fosse incompatibile con un rimedio che ha il più vile tradimento per mezzo; quando non fosse un indizio di debolezza e d’impotenza il vedere che la legge implora l’aiuto di chi l’offende; quando l’esperienza non ci avesse mostrato che in questi casi il più malvagio è ordinariamente quegli che scampa il rigore della pena; la sola ragione bastar dovrebbe per distogliere il legislatore dal ricorrere a questo rimedio, il quale non solo è inefficace a produrre l’effetto che si desidera, ma può divenire la causa dell’effetto opposto.

La speranza o la sicurezza dell'impunità concessa alla delazione del complice, invece di distogliere, renderà più ardito il malvagio avveduto ad intraprendere il delitto che ha bisogno del concorso di più uomini. Prima di sedurre i suoi compagni all’intrapresa del delitto, egli ha già concepito il pravo disegno d’immolarli alla sua sicurezza, quando vedesse prossima la scoverta de'    rei. Ciascheduno de'    suoi compagni prima di aderire, formerà l’istesso disegno. La speranza dell’impunità allignerà ugualmente in tutti questi perfidi cuori, e li renderà più arditi all'intrapresa. Ciascheduno vedrà nella delazione il suo sicuro asilo, e con questa lusinga il terrore della pena sarà ugualmente indebolito in ciascheduno de'    complici dalla comune speranza dell'impunità; il delitto sarà incoraggiato dal mezzo istesso che la legge adopera per punirlo; ed il legislatore, deluso nelle sue speranze, vedrà con rimorso i funesti effetti di un rimedio che, ancorché utile, dovrebbe esser abbandonato come contrario alla veneranda dignità delle leggi.


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CAPO LVIII

Conchiusione di questo terzo Libro

Dopo aver mostrati i funesti effetti degli opposti vizi dell’indulgenza e della ferocia, dell’impunità e del soverchio rigore; dopo aver proscritto dal Codice penale tutto quello ch’era straniero a' suoi oggetti, e che l’interesse, l’ignoranza e la superstizione vi avevano intruso; dopo aver enumerata e divisa nelle varie classi la confusa serio de'    delitti; dopo aver portato l’ordine e la chiarezza in questo caos informe; dopo aver distinti i delitti per le loro qualità e pe’ loro gradi, pe’ varii patti che con essi si violano, e per la maggiore o minore malvagità che si può mostrare nel violarli; dopo aver ridotte ad una generai misura tutte quelle circostanze che in uno stesso delitto indicar possono questa maggiore o minor malvagità che ne forma il grado; dopo avere osservati, misurati e distinti tutti materiali delle pene, e sviluppati i generali principii che debbono dirigerne l’uso; dopo aver portati i nostri sguardi profondi su i vari gradi d’infanzia e di maturità dei popoli, su i vari loro governi, religioni, caratteri, costumi, climi, situazioni, ricchezze, produzioni, terreni, in poche parole, su tutte le diverse circostanze politiche, fisiche e morali de'    popoli, ed osservata l’influenza che queste aver possono sul sistema penale; dopo aver fatto vedere quali siano i confini degli spazii delle pene nella moderazione compresi, e dopo aver cercato nella ragione e nella giustizia, nell’interesse pubblico e nell'oggetto istesso delle pene, i motivi che debbono distogliere il legislatore dall'oltrepassarli; dopo aver mostrato cornei materiali delle pene in questi spazii compresi si moltiplichino e s’equilibrino a quelli de'    delitti tra le mani del legislatore umano e filosofo, e si diminuiscano tra quelle dello stolto e del tiranno; dopo aver combinato il sistema del Codice penale con quello della Procedura, e mostrata la possibilità di distruggere l’arbitrio del giudice nella destinazione della pena; dopo avere, in una parola, coll’una e coll’altra parte delle criminali leggi mostrato, come allontanar si possa dall’innocente lo spavento, dal delinquente la speranza, da' giudizii l’errore, e dalle condanne l’arbitrio, noi possiam lusingarci di aver corrisposto al vasto piano che ci eravamo proposti in questo libro. Ma questo piano sarà forse creduto mancante, per non aver io scritta una sola parola sopra un oggetto così interessante, come lo è quello di prevenire i delitti? La mia apologia è così evidente, come lo è la causa istessa che la produce. Se io non scrivessi la scienza della legislazione, ma la scienza delle criminali leggi; se le mie vedute si limitassero a questa parte sola di quest’immenso edificio, questo importante oggetto non sarebbe sicuramente sfuggito dal mio esame. Ma questo oggetto non è forse sparso in tutta l’opera che io scrivo?

Qual altro è il mezzo di prevenire i delitti, se non quello di perfezionare la legislazione? Tutte le sue parti non corrispondono forse a questo fine? Qualunque sia la loro particolare destinazione, l’effetto della loro perfezione non è forse costantemente combinato con quello, del quale qui si parla?

Se le leggi politiche ed economiche son destinate a moltiplicar gli uomini, a richiamare le ricchezze nello Stato, ed a ben ripartirle; se i loro mezzi sono la suddivisione delle proprietà; la moltiplicazione de'    proprietari; la diminuzione de'    violenti celibi; la distruzione degli ostacoli che si oppongono a' progressi dell'agricoltura, delle arti e del commercio; la correzione e la perfezione del sistema delle contribuzioni e de'    dazi; il loro equilibrio co' bisogni dello Stato e coll’opulenza pubblica; la difesa del colono, dell’artista e del negoziante dall’ingiustizie, dalle vessazioni e dalle trame di una percezione iniqua e dispendiosa; la soppressione ed il compenso delle cause che restringono le ricchezze in poche mani, che le richiamano nelle capitali, che ve le lasciano languire, senza ritorno nelle provincie e senza scolo; se questi sono gli oggetti ed i mezzi delle leggi politiche ed economiche; (1) chi non vede che i loro effetti saranno necessariamente combinali colla diminuzione di tutti que’ delitti che procedono dal celibato violento; dalla difficoltà de'    matrimoni; dal ristagno delle proprietà; dalla preferenza che si dà all’ozio, quando la fatica non ci somministra quel che fa d’uopo per vivere con un certo comodo; dalla necessità di violare le leggi, quando queste non provveggono alla nostra conservazione ed a' nostri bisogni; dalla discordia; dalle violenze; da' risentimenti e da' vizi che produce e promuove l’eccesso dell'opulenza da una parte e l’eccesso della miseria dall’altra?

Se l'immediata destinazione delle leggi criminali è di punire i delitti, qual altro è il loro oggetto, quale il loro effetto, se non quello di prevenirli? Quando la sicurezza della pena fosse costantemente accompagnala alla volontà di delinquere, in quanti casi l’ostacolo della legge trionferebbe dell’impeto delle passioni? Il solo timore dell’infamia ben maneggiato non basterebbe forse a prevenire due terze parti de'    delitti che sarebbero suscettibili di questa sanzione? Un piano di procedura, qual è quello che si è da noi proposto, quanti delitti preverrebbe ne' giudici, quanti ne preverrebbe negli altri ministri della giustizia, quanti ne preverrebbe in tutti gli altri ordini dello Stato? Quando il potere, la nobiltà, le ricchezze non fossero un titolo d’impunità, quando l’imparzialità della legge fosse unita all'imparzialità de'    giudizi, le oppressioni sarebbero meno frequenti e meno frequenti sarebbero le illegali vendette. Il potente rispetterebbe il debole, ed il debole oppresso, in vece d’impugnare il pugnale, ricorrerebbe alle armi della giustizia per vendicare i suoi torti.

Se l’oggetto delle leggi che riguardano l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica è di formare il cuore e lo spirito degl’individui della società; di condurli alla virtù per la strada istessa delle passioni; di aggiungere al timore delle pene pe’delitti la speranza de'    premii per la virtù; di sostituire a' pregiudizii ed agli errori i lumi e le verità; di distruggere quell’ignoranza che, nascondendo all’uomo i suoi veri interessi, lo conduce a' vizi che sono gli esordi de'    delitti; lo induce a quelle azioni, dalle quali questa cognizione sola de'    suoi veri interessi basterebbe a distorglierlo; lo priva di quell'elevazione di animo che si richiede per conoscere ed apprezzare i piaceri della virtù e della stima di se medesimo; gli fa cercare ed ottenere i suffragi dell'opinione pubblica in quelle azioni istesse che dovrebbero privamelo; gli fa confondere le idee del bene e del male; lo priva fin anche de'    rimorsi; se tale è lo scopo di questa parte della legislazione, (1) la diminuzione de'    delitti non ne sarà forse la conseguenza?

Se le leggi, che riguardano la Religione, son destinate a proteggere e conservare il vigore di questa forza così efficace, a contenere le passioni degli uomini, e a dirigerli al bene, anche allorché son lontani dagli occhi della legge e de'    suoi ministri; se i loro principali oggetti sono di evitare i due estremi, vale a dire l’irreligione e la superstizione, de'    quali il primo priva lo Stato de'    vantaggi di questa forza, e l’altro ne fa l’istrumento de'    delitti, della corruzione e dell’ignoranza; se il disprezzo de'    numi e le false massime di religione; se l’orgoglioso ateismo e la fanatica superstizione han forse cagionati più delitti tra gli uomini che non ne han prodotti tutte le altre cause insieme combinate; se i mezzi che impiegar debbono le leggi per evitare questi due perniciosi estremi, correggono contemporaneamente, come si vedrà a suo luogo, (2) un altro prodigioso numero di mali, de'    quali il comune risultato è la pubblica depravazione; chi non vede quale argine rigoroso innalzato viene da questa parte della legislazione contro il torrente de'    delitti?

Se le leggi civili, vale a dire quelle che riguardano la proprietà e gli acquisti, son destinate a difendere le private facoltà contro le trame dell'avidità e della frode, (3) quando la scienza legislativa avrà perfezionata questa parte della legislazione, i delitti de'    giudici, le prevaricazioni degli avvocati e le usurpazioni de'    potenti, saranno forse così frequenti?

Se finalmente l’oggetto delle leggi che riguardano la patria potestà ed il buon ordine delle famiglie, è d’innalzare un tribunale tra le mura domestiche; di dare alla famiglia un Magistrato ed un Codice; di non lasciare impuniti quei delitti che l’amore e l’onore obbligano ad occultare, ma che la paterna mano punirebbe nel silenzio, quando avesse il dritto di farlo; di abituare gl’individui della società, fin dal loro nascere, aduna dipendenza dolce, perché temperata dall'amore; efficace, perché combinata colla vigilanza; utile, perché correggerebbe il vizio, allorché non ha ancora avuto il tempo da fortificarsi: se questa è la destinazione di queste leggi, quando esse foggiate fossero sul piano che sarà da noi proposto, (1) quanti obbrobrii di meno nasconderebbero le domestiche mura, quante contaminazioni di meno soffrirebbero i letti degli sposi, quanti libertini di meno conterrebbe la società!

Ecco come tutte le parti della legislazione concorrerebbero a prevenire i delitti, ed ecco come in una buona legislazione le leggi,che sembrano più disparate tra loro, si soccorrerebbero scambievolmente e tenderebbero a produrre effetti comuni.

Questa verità si renderà più evidente nei seguente libro.

FINE DEL VOLUME SECONDO


NOTE

1Quest’espressioni si comprenderanno in tutta l’estensione e precisione nella quale io l’adopro, allorché si perverrà alla seconda parte di questo libro.

1 Quando il lettore perverrà alla seconda parte di questo libro, ch’è destinata a regolare il Codice penale, si avvedrà, io spero, dell’immensità dello spazio che restava ancora da scorrere. Lo percorrerò io interamente? Che il lettore ne giudichi.

2L'Inghilterra.

1 Prima d'innoltrarci nella materia, io prego il lettore a non meravigliarsi di un apparente lusso di note, che troverà in questa parte della mia opera. Le invettive che si fanno da"" dotti centra le opere de' moderai, che sembrano inimici delle illustrazioni e delle citazioni, mi han determinato a prevenire questi rimproveri, che non sono per altro molto ingiusti. Colui che vorrà riposare sulla mia fede, potrà trascurare la lettura delle note, le quali son destinale soltanto pe' lettori più sospetti e diffidenti. Egli potrà con questo più facilmente seguire il corso delle mie idee, e conoscerne i rapporti.

1Deut., XIX, 17 e XXV, 1. Sigonio (De Rep. Hebrceor., lib. VI, cap. 7) ci fa vedere manifestamente che presso gli Ebrei ne' giudizi criminali ordinari! non si conobbe altro processo che l'accusatorio. Egli ci ha anche conservata la formola colla quale l'accusatore intentava la sua accusa, e designava la pena ch’egli credeva doversi dare al reo. Judicium mortis est viro huic, quia hoc; aut illud fecit. (Ibid., lib. VI,cap. 4 e 5.)

2Non solo era a tutti permesso di accusare presso gli Egizii, ma in alcuni delitti era un dovere. Se per esempio alcuno vedeva un omicidio, e non ne accusava al magistrato l’autore, era punito. Veggasi Diodoro, lib. I, pag. 88.

3Vedi Luciano, De non temere credendo calumniae ex versione Melanchtonis, tomo I, pag. 818. Maxim. Tyr., Dissert. 38. Tomas,Dissert. De Orig. Process. Inquisit. La libertà dell’accusa entrava anche nel piano della celebre legislazione di Platone. Veggasi il suo trattato De Legibus, Dialogo 11, dose parla de' falsi testimoni! e de' turbolenti litigiosi; ed il Dialogo 12, dove parla della pena da darsi all’accusatore, che non aveva a suo favore la quinta parte de' suffragi, ecc.

4 L. 8, I) de accusat. In questa legge e nelle seguenti si fa vedere quali sono le persone alle quali, per eccezione della regola generale, non era permesso di accusare. Noi l’osserveremo da qui a poco. Io non rapporto qui i delitti, l’accusa de' quali non si apparteneva che alle parli offese; questi son troppo noti. Vedi Sigonio, De Judiciis, lib. XI, cap. 11.

5L. 7, pr., ecc.; §. 'D. de accusat. Non bastava che l’accusatore promettesse di non ritirare la sua accusa, ma bisognava ch'egli ne desse de' fideiussori. V. L. 3. C. qui accus. non poss. e L. 1, ecc.; 2. C. ad SC. Tarpili. L’oggetto di questa legge era di evitare le calunnie e la prevaricazione; poiché se l’accusatore avesse potuto ritirarsi prima della sentenza, egli avrebbe potuto scansare la pena che la legge destinava a' calunniatori, o transigersi col reo e favorire l’impunità. Una legge degli Ateniesi per l'istesso motivo esigeva dall’accusatore l'istessa promessa; noi l’osserveremo da qui a poco. Se l’accusa cadeva sopra un delitto capitale, non bastava la promessa e la fideiussione; le romane leggi voleano che l’accusatore si presentasse nelle carceri, purché la sua condizione non lo garantisse da ogni sospetto di fuga. Vedila L. 2, C. de Exhib. reis, e L. ult. C. de accusat.

1 L. 2, C. de exhib. et trasmitl. reis. La formola, colla quale l’accusatore si obbligava alla pena del taglione, era la seguente: «Ego ille adversum te in rationibus publicis adsisto. Si te injuste interpellavero, et rictus exinde apparuero, eadem poena, quam in te vindicare pulsavi, me constringo, atque conscribo, partibus tuis esse damnandum. Et pro rei totius firmitate manu propria firmo, et honorum virorum judicio roborandum dabo.» Vedi Brissonio, Formiti., lib. V. Si avverta, che io ho detto che questo metodo salutare si teneva in Roma durante la libertà della Repubblica, e ne’ bei giorni dell'Impero. Si sa che vi furono de' tempi, ne' quali queste savie leggi furono poste in disuso. Noi sappiamo che la massima fatale profferita da Silla, che non bisognava punire i calunniatori, fu adottata da' tiranni di Roma. I premii che si accordavano a' delatori, de' quali parla Tacito (in Annal. lib. 6) e Cicerone(Orat. pro Roseto) e 'l nome istesso di Quadruplator, Sectator, ecc., ci fa vedere l’alterazione avvenuta in alcuni tempi in Roma su questa parte della legislazione. Ma sotto il governo degl’imperatori più moderati fu più volte richiamata l’osservanza delle antiche leggi, e furono nuove leggi emanate per istabilire nuovi rimedii contra le calunnie. Si sa quali furono le cure di Tito, Nerva e Trajano riguardo a quest'oggetto. Leggasi Plinio in Panegirico, Svetonio in vita Vespasiani, e Poleto, Historia Fori Rom., lib. IV, cap. II.

2 L. 4. C. de edendo.

3Se, terminato il giudizio, assoluto il reo, il pretore diceva all’accusatore, non probasti, egli non soggiaceva ad alcuna pena; dovea soltanto pagar le spese del litigio, (Argum. I. 3. C. de bis qui accus. non poss.), ma se pronunciava quella tenibile formola kofantisaj (calumniatus es) allora egli era dichiarato per l'editto pretorio infame (L. 1. D. de bis qui not. infam.), ed era contemporaneamente condannato alla pena del taglione (L. non potius, 7, et L. ult. C. de caluma.). La pena del taglione contra il calunniatore è antichissima. Diodoro (lib. I, pag. 88, 89), ci dice ch'essa era stabilita da gran tempo presso gli Egizii. Dionisio di Alicarnasso ci offre una luminosa prova dell’antichità di questa pena, non solo presso i Romani, ma anche presso le altre città latine. Veggansi le sue Antichità Romane, lib. IV; dove parla della calunnia ordita contra Turnio Erdonio Latino da Tarquinio il superbo in un’adunanza delle città latine. Le leggi delle XII Tavole è fuor di dubbio che la prescrissero. Veggasi Poleto. Histor. Fori Rom. lib. IV, cap. 5.

1 Vedi Cujac., in L. 1. Ad Senatusconsultum Turpillianum. Io non ignoro le varie denominazioni date a questa legge, chiamata da alcuni Mentia, da altri Mummia, da altri Rhemmia. Io mi son servito del nome che le volgari edizioni delle Pandette le danno (L. 1, § 1. ad SC. Tarpili. L. 13. D. De testib.). Questa legge uni al taglione l’inustione della lettera K sulla fronte del calunniatore. Non entro neppure nella discussione, se la lettera che s’imprimeva fosse stata piuttosto il C, o il D, che 'l K. Lascio alla filologia degl’interpelri queste più minute ricerche. Veggasi ciò che ne ha scritto Arrigo Breneman ne' due suoi trattati inseriti nel Tesoro del dritto di Everardo Ottone, l’uno de' quali ha per titolo. Lete Rhemmia, sive de legis Rhemmia exitu liber singularis. E l’altro: Fata calumniatorum sub Imperatoribus. Leggasi anche l’erudito Commentario su questa legge del giureconsulto Bernardo de Ferrante.

2 Vedi Anton Matth. ad lib. 48. Dig. tit. 17, cap. 3, § 5, 6, 7 e 8; e si osservi come questo dotto giureconsulto concilia quell’apparente antinomia, che si osserva riguardo a quest’oggetto tra le L. 2. C. de his qui accus. non possunt. L. 2. C. de bis quib. ut indig., e L. 14. D. ad Leg. Jul. de adult., colle leggi 2 e 4. C. de calum. L. 30. C. ad Leg. Jul. de adult, e L. 37. D. de minor.

3 Poleti, Histor. Fori Rom., lib. IV, cap. 7.

4 Vedi Plut. nella Vita di Catone d'Utica, e nel trattato Della maniera colla quale si potrebbe ricavare l’utile dalle cose avverse.

1 L. 1, 2, e 8. D. De accus ationìb.,'L.. b, 5,e 14. C. qui accus. non poss., L. 19. C. ad L. Corn. de Jais. Da queste leggi si vede ch'esse non potevano accusare, se non quando si trattava di perseguitare l’ingiuria propria, o de' suoi. Esse potevano anche accusare nedelitti che interessavano l’intero corpo della repubblica L. in queestionib. 8. D. ad Leg. Jul. Majest., L. 13. De accusatio nib., L. ult., § ult., D. ad Leg. Jul. de annon.

2 L. 2. e 8. D. de accusationib.

3 I servi non potevano alcuno accusare, e molto meno i padroni, fuorché ne' delitti di fraudata annona, di fraudato censo, ài falsa moneta, o di lesa maestà; ne' quali potevano anche accusare i loro padroni. Vedi L. 7, § 2. D. ad Leg. Jul. Majest., e L. 53. D. de judiciis. Essi potevano anche accusare l’omicida del loro padrone (L. 1. C. de precibus Imperatori offerendis), o il loro padrone istesso di aver soppresse le tavole del testamento, nelle quali si ordinava la loro libertà (L. 7. D. ad Leg. Corn. de fals.).

4 L. 4, e L. 8. D. de accus.

5 L. 19. C. qui accus. non poss. L. 9, § 2. 2. D. de accus.

6 L. 5. D. de pub. jud.

7 L. 8. De accus.

8 L. 10. D. de accus.

9 L. 4, e L. 9. D. de accus.

10 L. 8. D. de accus.

11 Si osservino le citate leggi, e più d’ogn altra la L. 11, e 13. D. de accusat. Si avverta che qui si parla dedelitti di maestà. Questi savj stabilimenti fecero, al riferire di Plutarco, che l'accusare fosse un'azione onorevole presso i Romani: «Id accusandi studium (die’egli) vel sine privata occasione haud igno bile videbatur: quinimo plurima delectatiooe eos mirari laudareque juvenes consuevere, quos scelestis ac flagitiosis hominibus, ceu feris generosos catulos, acerrime cernerent incumbentes. Vedi Plutarco, in Lucidi.»

1L. hos accusare, pr., D. de accusai. L. 15. D. ad Leg. Jul. de aduli. Vedasi anche Valerio Massimo, lib. III, cap. 7.

2L. II, § 1. D. de accus.

3L. 8, § ult. Dde accus. e L. 51. C. qui accusar, non poss.

4L. sì magnum, 13, L. sì sororem, 18. C. qui accusare non possunt. La legge parla de' delitti alquanto gravi.

5Essa poteva soltanto accusarlo di adulterio, o di lenocinlo, quando era stata prima dal marito accusata come adultera. L. 13, § 3, D. ad leg. Jul. de aduli, L. 2. § 4, D. cod., L. 4. C. cod.

6 L. 5, C. ad L. Com. de Jais.

7 L. pen. C. qui accus. non poss.

8 L. iniquum, 17. C. qui accus. non poss.

1 L. querela 12. C. ad Leg. Corn. de Jais., L. 1 § praiscriptio, et seq. D. de jur. Jìsci. L. 5 e 28. C. ad L. Jul. de adult, L. 29, § ccusationem, D. ad SC. Tarpili. Vedi anche Ant. Mattei in Lib. XLVI1I. Dig., tit. XIX, cap. IV.

2 Veggasi l’opera del celebre Nood, che ha per titolo: Diocletianus et Maximinus, sive de pactione, et transactione criminum. — Lib. singular., cap. 12.

3 L. 4, 20,34. D de Jur. Fise.; L. ult., D. de Pravaric., e Vinnio, Tract. De. transact., cap. 7, num. 24 et 25.

4 L. pen., D. de Praevaricat., L. 1 e 4, § pen. D. de his qui not. infam.

5 L. 16. D. de accus.

1Ascon., in Divin. Argum. Gell., Lib. 11, cap. 4. Cic., Divin., c. 16. Si avverta che Asconio interpretando un passo di Cicerone, dove dice; Custodem Tullio me apponile, crede che per custode Cicerone non intendeva qui il custode che si dava dal reo all’accusatore; ma il soscrittore che assister doveva al preferito accusatore. Egli meritava in fatti questo titolo.

2 Panti labein dikhn uper tou kakwj peponqotoj exeinai. «Cui vis eum, qui alteri contumeliam intulerit, accusare permissum esto.» V. Plut. in vita Solonis. In Atene, non altrimente che in Roma, vi erano le accuse pubbliche e le private; quelle si chiamavano athgoriai, e queste £xai. Nelle prime ciascheduno poteva essere accusatore; nelle seconde non poteva accusare che colui che aveva ricevuto il torlo. Questa distinzione ci vien chiaramente insegnata da Isocrate nell'Orazione de Jugo. Le accuse pubbliche dette kathgoriai si suddividevano ili varie altre classi o specie, ciascheduna delle quali conteneva un certo numero di delitti: grafh, fasij, endeixij, apagwgh, afhghsij, androlhyia, eisahhelia, erano i nomi delle varie specie delle pubbliche accuse. Il dottissimo Sigonio, nel suo trattatole Republica Atheniensiunt, lib. III, cap. 1, ha classificati i vari delitti, che a ciascheduna di queste accuse appartenevano. Io mi distenderei troppo, se volessi qui trascrivere questa lunga serie, che un lettore più curioso potrà leggere nella citata Opera. Quello che conviene qui avvertire, è, che la più gran parte de' delitti erano in queste classi compresi, vale a dire, che nella più gran parte de' delitti l’accusa era pubblica. Vedi Joan. Polleri, Archceologia Greve., lib. I, cap. 22.

3 Ta pria thj ousiaj merh tw apograyanti gignesqai. «Dodrans honorum quae fisco cedunt, illius osto, qui detulerit.» Demosth., in Theocrinem.

1Ei men talhdh mhnuseie tij eikai adeian; ei de ta eudh, tejnanai. «Indici vera indicanti, impune; sin falsa, capital esto.» Vedi Andocides, de Misteriis, e Isocrates, in Oratione de antidosi.

2 Ton mellonta kathgorein, omnussai uper tou epexelqein. «Accusator juramentum dato, se actionem prosequnturum etc. » Vedi Demosth., in Nidiam. I Romani, come si è osservato, adottarono questo stabilimento degli Ateniesi.

3 Vedi Filostrato, lib. 1. Vite de Sofistis vita di Eschino. Questi fu, come si sa dall’istesso autore, condannato a questa pena, allorché accusò Ctesifonte. Demostene (in elristocratem) ci parla anche di questa disposizione delle attiche leggi.

1Questo non solo presso i Franchi era un dritto, ma in alcuni casi era anche un dovere. Nella collezione delle leggi Saliche, e propriamente nel patto «pro tenore pacis Dominorum Childeberti et Chlotarii Regum cap. 3; si punisce come ladro colui, che sapendo l’autore di un furto non lo accusava. Ne’ Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, si stabilisce che il giudice non possa alcuno giudicare, allorché manca un legittimo accusatore. Vedi i Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. V, cap. 248, De non judicando quamquam absque legitimo accusatore. Vedasi anche l'Editto di Teodorico, cap 20.

2Vedi il Codice de' Visigoti, lib. VI, tit. 1, De accusationibus criminosorum, cap. 6, Qual iter ad regem accusatio deferattir.

3 Vedi il celebre Editto di Teodorico, cap. 43. Si osservi che non è nel solo Codice de' Visigoti, e nell’Editto di Teodorico, che si stabilisce la pena del taglione per l’accusatore calunnioso. L’istessa pena si trova stabilita per l’istesso delitto ne' Capitolari di Carlo Maguo, e nelle nostre Costituzioni Fridericiane. Vedi i Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. VI, cap. 329. De his, qui innocentes apud principini, vel apud alios accusaverint. E lib. VII, cap. 480. Quod eamdem panam passurus sit accusator, si convincere accusatum non potuerit, quam reus passurus erat. Vedi anche le nostre Costituzioni Sicule, dove si contiene la legge di Federico, e propriamente, lib. 14, tit. 44, De pana calamuia? contro calumniatorem stabilita.

4Vedi il Codice degli Alemanni, cap. 44.

1 Nella legge Salica s stabilisce, che colui che accusava un altro d'un delitto grave, e che non si trovava veridico, fosse condannato alla pena di 200 soldi, e di 62 se il delitto era di poco momento: pena fortissima, se si vuol paragonare alle altre pene, colle quali si trovano puniti in questa legge gli altri delitti. Vedi la legge Salica, tit. 20, § 11.

2 Vedi l’Editto di Teodorico,cap. 50; dove si dice: «Occultis secretisque delationibus nihil credi debeat, sed eum, qui aliquid defert, ad judicium vera nire convenit: ut si, quod detulit non potuerit adprobare, capitali sulqaceat ultiont.»

3 Vedi i Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. VII, cap. 145 e 168.

4Vedi le due Costituzioni di Federico nella raccolta delle Costituzioni Sicule, lib. 11, tit. 13 e 15.

5Vedi il Codice deLongobardi, lib. 11, tit. 51, De testib., § 8.

6Vedi i Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. 1, cap. 45. De aera cusatione vilium personarum; lib. VI, cap. 144. De non credendo servo, si super dominum suum, vel super alium liberum crimen injecerit; e lib. VI, cap, 298. «De illis,qui quum diversis sceleribus implicati sint, ad accusationem, vel ad testimonium non admittuntur.»

7Nell’eccezione fatta dalla legge in favore del padrone, del padre di famiglia e del patrono, erano anche compresi i loro rispettivi figli. Leggasi il cap. 48 e 49 dell’Editto di Teodorico.

1 Veggasi Tomasio nella sua dissertazione De origine processus inquisìtorii e l'opera di Boeniero, che ha per titolo: Jus Ecclesiasticum Protestantium, ec. lib. V, tit. 1, § 80 et seq.

2 In Francia la parte offesa si chiama per questo motivo parie civile.

3Noi troviamo anche negli Atti degli Apostoli, una prova della precisione, colla quale le romane leggi prescrivevano che l’accusato vedesse il suo accusa tore, e che alla sua presenza si profferisse l’accusa. Veggasi negli Atti degli Apostoli il cap. 25, § 2, v. 46. Veggasi anche Cujaccio in lib. IX, C. tit. De Qatest.

1Per quel che riguarda l'assistenza dell’accusato alle deposizioni de' testimoni, noi ne abbiamo inGoite prove nel corpo del dritto, e negli antichi scrittori. Noi ne abbiamo una prova nella L. si poslulaverit, 27, § questioni, D. ad Legem Juliam de adult. un’altra nella L. 15, et pen., C. de testib. un’altra nella L. 18. C. defid. instrum. z ed un’altra nella Novella 90, cap. ult., dove si prescrive che non si possano esaminare i testimoni senza la presenza di ambe le parti.

Noi abbiamo inoltre un luogo di Cicerone (in orat. pro Flac.) dove ci fa vedere che l’arte dell’oratore consisteva nel bene interrogare i testimoni, enei rimproverarli, allorché oscuravano ciò che poteva giovare al chente, ecc. Un luogo di Asconio, (lib. Il, in Verr.) che ci fa vedere che non si poteva cominciare a parlare prima di aver interrogati i testimoni, e che s’interrogavano da colui, contro il quale venivano prodotti. Plinio (lib III, cpist. IX) dice: «Concipere animo potes, quam simus fatigati, quibus toties agendum, toties altercandum, tam multi testes interrogandi, sublevandi, refutandi.» L’istesso si riferisce da Quintiliano (Lib. V, Inst. Orat., VII.) Io ho potuto portare tutte queste autorità, perché la comune scuola de' Dottori, interpretando male le parole della L. nullum 14, C. De testib., che dicono: testes intrare judicii secretimi, ecc., crede, che i testimoni si esaminassero presso i Romani in secreto, donde poi forse è venuto l’uso barbaro, ricevuto in una gran parte de' tribunali di Europa, di non far sentire all’accusato, se non il giuramento che fa il testimonio, senza fargli sentire la sua deposizione. Si avverta che il secretum, dove è nato l'equivoco, significa in questa legge il banco del giudice, come in varie altre leggi si trova adoprato. Intrare secretum, per dire, parlare secretamente, non sarebbe latino. Per quel che riguarda poi il sistema, che si teneva riguardo a ciò ne' tempi barbari, veggasi quel che si è detto nell’antecedente Capo, e leggasi Beaumanoir, cap. LXI, pag. 315.

2 Vedi Poleto, Historia Fori Rom., lib. IV.

1( )Esprit de Lois, lib. VI, cap. 8.

1 Vedi la nota I dell’antecedente Capo, alla pag. 8. Nella legge Cornelia pubblicata nella dittatura di Silla, che riguardava i delitti di Maestà, si conteneva questa spaventevole determinazione: Calumniatoribus nulla poena sit. Majestas n est (scrive Cicerone ad Attico) ut Sylla voluit, ut in quemvis impune declamali liceat. Questa legge di Maestà di Silla fu inserita da Cesare e da Augusto nelle leggi Giulie; e questo è il motivo pel quale non vi è su di essa alcun titolo né nel Digesto, né nel Codice.

2 Per persuadersi della verità di questo fatto io mando il lettore alla storia di un imperatore, il cui nome non viene ordinariamente inserito tra quelli de' più Ceri tiranni di Roma. Che si legga l'enumerazione, ch'Elio Sparziano ci fa de' senatori, ed altri personaggi distinti, fatti morire da Settimio Severo sine causae dictione, e si vedrà dove era giunta l'onnipotenza dispotica dì questi tiranni. Elio Sparziano, in Sestero 12, 14, 15.

1 Vedi Giulio Capitolino, in M. Ant. Philos. 11, e ciò che in questo luogo soggiogete il celebre Casaubono, in Hist. Aug., T. I, pag. 331, num. l, ediz. 1671; e più d'ogni altro Plinio nel Panegirico di Trajano, dove, dopo aver accennato ciò che da Tito e da Nerva si era fatto su questo proposito, colla massima eloquenza espone ciò che si fece da Trajano. Giova qui rapportare le sue parole, per mostrare gli effetti che produssero le benefiche cure di questo principe: «Quam juvat cernere serarium silens et quietum, et quale ante delatores erat, nunc «templum illud,nunc vere Deus, non spoliorum civium cruentarumque praedarum saevum receptaculum, ac toto in orbe terrarum adhuc locus unus, in quo optimo principe, boni malis impares essent; manet tamen honor legum,nihilque ex publica auctoritate convulsum, nec poena cuiquam remissa, sed addita est ultio, solumque mutatum, quod jam non delatores, sed leges timeotur.» E parlando delle pene de' delatori, dice: «Contigit desuper intueri delatorum ora supina, retortasque cervices agnoscebamus, et fruebamur, cum velut piaculares publicat sollicitudinis victimae; supra sanguinem noxiorum ad lenta supplicia gravioresque poenas ducerentur.» L’istesso avvenne nel breve regno di Pertinace, come si può vedere nel citato Giulio Capitolino, in Perlin., VI, VII, IX, X.

1 Vedi Ant. Mattei in Comm., ad lib. XLVlll, Dig, tit. XVII, cap. III, § 7. Erano anche compresi in questo numero tutti quegli, i quali ex officio accusavano nelle straordinarie procedure, come i curiosi, stazionar], ecc. Arg. L. ea quidem 7. C. de accus. L. I. C. de Curios. et station., L. 6, § nuntiatores, D. ad SC. Turpill. L. Divus 6. in fin. D. de custod. et exhib. reor.

1 L’illustre cittadino, che ne' bei giorni di Roma chiamava in giudizio un altro cittadino potente, mostrava nel foro quel coraggio che mostrato avea nel campo. Il suo patriotismo era premiato dalla legge e dall'opinione, nel mentre che il vile delatore era un mostro agli occhi de' suoi concittadini. Vedi Sueton. in Jul. Caes., c. 4. Cicer., Divinat., C. 20. pro Cxl., c. 7, e 30, ad Quint. Lib. Ili, Ep. 2 e 3. L’istesso Cicerone, Orat. pro Balbo, c. 25, ci dice che il premio dell'accusatore, che faceva condannare un altro d'ambito, era d ottenere il dritto del suffragio nella tribù di colui che era stato giudicato.

1L. 2. pr. et § Divus Pius, L. 15. § 1, 2, L. 22, § ult., L. 23, e più di ogni altro L. 24, D. de pire fise. Noi abbiamo osservato nell’antecedente ca po, che l'accusatore non era esposto ad alcuna pena pel semplice non probasti, che profferiva il magistrato che presedeva (Vedi la nota 1,p. 8, del capo precedente): ma non era così del delatore. L’Imperatore Costantino il Grande giunse sino a proibire che si prestasse orecchio a' delatori. Noi non potremmo, diceva egli, sospettare dell’innocenza di un uomo, al quale è mancato un accusatore, nel mentre che non gli mancava un inimico. Veggasi la L. 6, Cod. Theod. de fiamosis ZiùeZZiJ. Veggansi anche le altre leggi da lui e da' successori emanate contro i delatori, e propriamente le leggi 1,2,8 e 10. Cod. Theod. de petition. et nitro datis, et delator.

2 Macchiavelli ne Discorsi sulla prima deca di Livio, Lib. I, cap. VII.

1 Le femmine, i pupilli, i servi, gl'infami ecc. Vedi la p. 9.

2 I magistrati,! legati, e tutti coloro che, Reipublica caussa, erano assenti, non potevano essere accusati per delitti commessi prima della loro assenza. Vedi la p. 10.

3 Il padre non poteva essere criminalmente accusato dal figlio, il patrono dal liberto ecc. Vedi la pag. 16.

4 Io prego il lettore di rileggere le p. cit. Si vedranno in questo luogo l’eccezioni cd i motivi, pe’ quali furono ultimamente stabilite.

1 Si avverta che quando io parlo di proprie intendo sempre di comprendere sotto questo nome anche le offese de' suoi stretti parenti.

2Vedi Ant. Mattei, de Criminib. Comm. ad Lib. XLVII. Dig. Prole g., cap. IV; e Sigonio, de Judiciìs, lib. II.

3 Vedi la p. 6, la p. 13, e la p. 16.

4 lo rapporto qui le parole di questo giureconsulto. «Coss. ìllis, die illo, apud illuni Praetorem, vel Proconsulem, L. Titius professus est; se Maeviani Lege n Julia de adulteriis ream deferre, quod dicat eam cum C. Seio in civitate ìlla, domo illius, mense ilio, consulibus illis adulterium commisisse.» Vedi la Legge 3, D. de accus. Vedi anche Sigonio, de Judiciis, lib. Il, cap. X; e Lib. III, cap. VII. — Da' diversi nomi delle pubbliche azioni ritrovali da) celebre Sigonio nel suo trattato de Republica Atheniensium si può dedurre che i Legislatori di questa Repubblica non furono meno diligenti di quelli di Roma su quest'oggetto. Veggasi la citala Opera,lib. III, cap. I.

1 Nel delitto, per esempio, di tradimento, bisogna dire che si è commesso traditoriamente e contro la fedeltà giurata. In altri tempi si diceva in latino, proditorie, et contra ligeantice suce debitum. Nell'accusa di omicidio bisogna dire, che il delinquente ha ucciso, o messo a morte il tale: l'espressione latina della bassa latinità era murderavit. Nell'accusa di fellonia, l'avverbio fellonemente deve essere adoperalo. Nel ratto la parola inglese ravished è necessaria. Nel furto i termini inglesi feloniously look and carried away (egli ha preso e trasportato fellonemente) sono assolutamente richiesti nell'accusa. Vedi lo Statuto I di Arrigo V, cap. 5; e Blanckstone, Comm. sul Cod. Crini. Inghilterra, cap. 23.

2 Quando si parlerà della ripartizione delle giudiziarie funzioni, si toglierà la difficoltà, che potrebbe qui nascere sul mezzo da tenersi per istruire l'accusatore della formola d accusa, che conviene al delitto, del quale egli chiama in giudizio il reo.

3 Vedi la p. 11 di questo Libro: in quelli, ne' quali la prescrizione era meno di tre anni, noi adotteremo il tempo dalle romane leggi prescritto.

1Lo Statuto 7 di Guglielmo III, cap. 3, proibisce di perseguitare in giudizio i delitti di qualunque specie nel caso che il bill dell’accusa non sia stato presentato nello spazio di tre anni dopo il delitto. Non si eccettuano che gli attentati contro la vita del Re.

2 Il padre che accusava la morte del figlio, o il figlio che accusava la morte del padre, non era punibile per semplice calunnia. L. 2, et 4, C. de calumn. L. ult. D. de publ. Jud. L. in SC. t 15, § eost L., ad SC. Turpill. La donna che perseguitava in giudizio le offese contro la sua persona, o contro i suoi, L. de Crimine, 42, C. qui accus. non poss. L’erede estraneo che per ordine del testatore, ahquem venejìcii accusabat; D. L. 2, C. de calumn. Il marito che fra sessanta giorni jure mariti accusava la moglie adultera, L. quamvis, 30 C. ad Leg. Jul. de aduli. I Tutori e i Curatori che accusavano invece de' pupilli, L. 2, C. de his qui accus. non poss., L. 2, C. de bis quib. ut indig.

3 Vedi ciò, che poc’anzi si è detto riguardo all’avvocato del Fisco.

4 Questo è il caso della calunnia, che i giureconsulti chiamano semplice.

1 Vedi Anton. Matt., Comm. ad Lib. Dig. XXVIII, Tit. XX, cap. I.

2 De Orig. Process. Inquisit. Diss.

3 Ulpiano (nella L. 13, pr. D. de offìc. prasid.) dice «Congruere bono et gravi praesidi, curare, ut pacata atque quieta provincia sit, eumque id non difficile obtenturum, si sollicite agat, ut malis hominibus provincia careat, eosque conquirat: nam et sacrilegos latrones, plagiarios, fures conquirere debet et prout quisque deliquerit in eum animadvertere, recepta toresque eorum coercere.» Vedi anche la L. 4, § 2, D. ad Leg. Jul. pecul.

4 Il loro officio era di andare in cerca de' rei de' delitti notorii, de' quali non era comparso alcun accusatore, di prenderli, di sentirli, e di mandarli al magistrato competente, insieme colle loro relazioni, che chiamavansi elo già, notoria, nunciationes eie. Il magistrato ex integro li ascoltava, e l’irenarca doveva presentarsi per provare ciò, che aveva contro di essi asserito e costato. Vedi la L. ea quidem, 8, C. de accusat., L. divas, 6. D. de custod. et exhib. reor. L. I. C. cod., L. I. C. de curios. et station., L. 6. § nuntiatores, D. ad SC. Turpill.

5 L. I, § Quies D. de offìc. pr. turb., L. I, pr. C. de custod. Reor.

6 Oltre le citate leggi relative all'uffizio del preside; alle funzioni degli Irenarchi, Curiosi, Stazionari, ed all’officio del Prefetto della Città, si potranno riscontrare le seguenti L. 2, § si public. D. ad Leg. Jul. de aduli. L. jubemus, C. deprobat. L. nullum, C. de probal. L. nullum, C. de Testib. L. 19. C. de Caluma.

1 Vedi Sallustio in Bell. Catil., e Cicerone nella terza Catilinaria. Da questi scrittori si vede chiaramente che la procedura, che si tenne in questa occasione dal Console, fu interamente inquisitoria.

2 Vedi Sallustio, ibid, n. 41, 52, 53 e 55.

3 Ubi hoc exemplum, per senatus decretum, consul gladium eduxerit; quis illi finem statuet, aut quis moderabitur? Vedi Sallustio, ibid. n. 51 Egli rapporta tutta la parlata di Cesare, la quale fu proferita dopo il voto di morte dato dal Console Sillano collega di Cicerone.

4 Vi è chi crede che dopo l’istituzione delle questioni pubbliche e perpetue, delle quali parla Pomponio (nella L. 2, §. 32, D. de orig. jur.) e di quelle anteriormente istituite nell'anno ab U. C. 604, delle quali parla Cicerone (in Bruto) vi è, io dico, chi crede, che i Pretori incaricati di queste questioni, all'ordinaria loro funzione di ricever l'accuse e di cono sccre de' delitti compresi nelle loro respettive questioni, unissero anche quella d inquirere sugli autori di questi delitti, quando non ci era chi l’accusasse. Balduino ne' suoi Comment. ad edict. vet. princip. de christianis, commentando una lettera di Trajano, nella quale questo principe rispondeva a Plinio, che l’interrogava sugli affari de' Cristiani, sostiene quest’opinione, e pare che il celebre Gerardo Noodt l'abbia anche egli adottata, come si può vedere nel suo trattato de transazione et pactione criminum, Cap. IX. All'autorità di questi scrittori si uniscouo alcuni fatti. Uno è quello di Cesare il quale trovandosi Judex quxstionis de sicariis si servì dell'autorità della sua carica per citare al suo tribunale, e per condannare sotto il titolo di sicari coloro, che si erano impiegati nella proscrizione di Silla, e che avevano ricevuto danaro per uccider un cittadino romano. Questa citazione non fu preceduta d’accusa privata. (Vedi Plutarco nella vita di Cicerone, e Svetonio nella vita di Cesare n. 2.) Bisogna però avvertire, che vi sono alcuni giureconsulti, che contrastano quest'opinione. Tra gli altri Bocmeto nel suo Jus Ecclesiasticum protestantium, lib. V, tit. 1, § 81, et seq. e Tomasio nella Dissertazione, de Orig. Process. inquisit., vi si scagliano, ma convien dirlo, molto debolmente.

1 «Famam atque rumores, (dice Quintiliano) pars altera consensum ci vitatis, et velut publicum testimonium vocat; altera sermonem sine ulto certo auctore dispersum, cui malignitas initium dederit, incrementum credulitas, quod nulli non innocentissimo possit accidere, fraude inimicorum falsa vulgantium.» Quint., Instit. Oro., Lib. V, cap. 3.

1Vedi la nota 4 dell'antecedente Capo, a p. 69, ed osservinsi le parole della L. 6, de cast. et exhib. reor.

1 «Reum fieri (dice Asconio) est apud Praetorem legibus interrogati: cum in jus ventum esset, dicebat accusator apud Praetorem reo; Ajo, te m Siculos spoliasse; si tacuisset, lis ei aestimabatur, ut vieto; si negasset, petebatur a magistrato dies inquirendorum ejus criminum, et instituebatur accusatio». Questo metodo aveva ugualmente luogo ne' giudizj civili e criminali, colla differenza soltanto, che il silenzio dell'accusato bastava ne' primi a produrre la convinzione, ma non bastava ne' secondi, giacche in questi, come si osserverà da qui a poco, l'aperta confessione neppur bastava da se sola a produrre la pienezza della pruova. Quando dunque Asconio dice: si tacuisset, lis ei cestimabatur ut vieto parla della conseguenza pecuniaria, ossia civile, che produceva il silenzio e non già della conseguenza penale, giacche la legge oltre della restituzione, stabiliva la pena dell'esilio pel delitto del quale qui si parla. In una parola, nel caso del quale parla Asconio, il silenzio dell'accusato faceva che l'accusa criminale si convertisse in accusa civile, e siccome nell’accusa civile il silenzio o la confessione del reo bastavano per la pienezza della pruova, così si ordinava dal Pretore l’estimazione della lite; ma se l'accusatore insisteva sulla pena, allora è da presumersi che, malgrado il silenzio dell’accusato, bisognava proseguire il giudizio, per poterlo condannare. I dotti Giureconsulti non disapproveranno forse questa mia congettura, che mi contento d’aver accennata, quantunque avrei molti argomenti per sostenerla.

1 Ecco perche si chiamava citatio per trinundinum. Vedi L. 1, et seq. D. de reg. vel absen. damn. et L. 40. D. de pubi. jud.

2 Questo si trova stabilito dalle seguenti leggi. L. 4., e 2, D. de requirendis vel absentibus damnandis. L. 4, 2, e 3, C. de requirendis reis de exhib. et transmitten reis. In Atene si praticava presso a poco l’istesso. Pollux, L. 8, c. 9. L’istesso presso a poco veniva stabilito nel Codice de Longobardi, e ne' Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, a riserba che quelli esigevano una citazione di più, e Io spazio da una citazione all'altra era maggiore. Veggasi il Codice de' Longobardi, Lib. II, Tit. 43, e i Capitol. di Carlo Magno e Ludovico, Lib. III, Cap. 10, de mannitione secundum Legem ad mallum. Veggasi anche ciò che la legge Salica, Tit. I, e il Codice de' Visigoti, Lib. 2, Tit. I, cap, 48, stabiliscono riguardo a quest'oggetto.

3 L. 3. D. de absentib. L. b, D. de panis L. 7, D. de requir vel absen damn. Le parole di Marciano in questa legge sono le seguenti; «Hoc jure utimur, ne absentes damnentur; ncque enira in audita causa quem quam damnari squitatis ratio patitur ecc.» Veggasi anche ciò che dice Gordiano nella L. 6, C de accitsat.

4 Le Costituzioni Sicilie Fridericiane, Lib. II, Tit. III.

5 L. 7. D. de cust. et exhib. reot'. j e la citata L. 2, C. de exhib. et transmitt. reis.

1 L. Divus 6, de cust. et exhib. reor. Egli poteva anche opporre 1eccezioni dette dilatorie, riguardo all’accusatore se non aveva il dritto d’accusare, all’incompetenza del giudice, all’irregolarità che trovavasi nel libello dell’accusa, al non poter essere accusato, ecc. Quest’eccezioni potevansi opporre prima che l’accusato fosse messo nel numero de' rei, cioè prima che la lite fosse contestata. L. 15, § 7, D. ad leg. Jul. de adult. L. 33, C. ad leg. Jul. de adult. Esse non avevan vigore dopo che la lite era contestata.

2 Sigonio, De judiciis, lih. II, cap. 10.

3L. 2, C. de exhib. et transmitt. reis,, L. ult. C. de accusat. Queste stabiliscono che la persona dell’accusatore sia custodita egualmente di quella dell’accusato, quando sovrasta a questo il pericolo della vita.

4L. 1, D. de cast. et exhib. reor. Noi sappiamo che i complici di Catilina, allorché furono scoverti dal Console e chiamati in Senato, furono quindi consegnati a diversi Senatori, quantunque il loro delitto dovesse essere dopo il giudizio punito colla morte. Veggasi Sallustio, Catil.

5La legge degli Ateniesi, che ci ha conservata Demostene è la seguente:

Oude dhpw Aqhnaiwn oudena oj egguhtaj treij kaqioph to auto teloj telountaj plhn ean tij prodosia thj polewj h epi katalusei tou dhmon suniwn alw. «Jus ne esto Senatui Atheniensium aliquem vincire, si sponsores tres dederit ejusdem census; nisi quis ad urbem prodendam, aut popularem statura evertendum conspiraverit.» Vedi Demost. in Timocrat. I magistrati nel possesso che prendevano della loro carica, dovevano promettere con giuramento l’ubbidienza a questa legge. Vedi Pottero, Archeolog. Graec., lib. I, cap. 18.

1 Ulpiano, (lib. VII, De officio Proconsulis) dice: «Divus Pius ad epistolam Antiochensium graece rescripsit non esse in vincula conjiciendum eum, qui fidejussores dare paratus est, nisi si tara grave scelus admisisse eum constet, ut neque fidejussoribus neque militibus commini debeat: verum hanc ipsam poenam ante supplicium sustinere.» Vedi L. 3, D. de cust. et exhib. reor. Questo è appunto l’habeas corpus degl’inglesi. Vedi Blakstone, Codice criminale, cap. 22.

2 L. 4, C. de cust. reor. Veggansi anche le altre leggi che prescrivevano di non prolungare i giudizj de' rei che si ritrovavano nelle carceri L. 1, § 1, C. de cust. reor., L. 5, C. cod. L. ult. C. ut in cert. temp. Crini, quaest. term.

1 Luctus et ultrices posuere cubilia curae,

Pallentesque habitant morbi, tristisque senectus,

Et metus, et malesuada fames, et turpis egestas.

Vìrgil. AEneid., lib. VI, v. 278, et seq.

Par che questo Poeta avesse voluto qui dipingere le nostre carceri.

1 Noi abbiamo già osservato le disposizioni di molti di questi codici relative all'accusa giudiziaria nel 2 capo di questo libro. Noi troviamo anche in alcuni di essi il sistema della fidejussione de' Romani, ossia dell’habeas corpus degl’inglesi. Veggansi i Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. IV. cap. 29. Le Costituzioni Sicule, lib. II, tit. X, de his qui fidejussores dare possunt ne ìncarcerentur. Mi ricordo anche di aver letta nel Codice de' Visigoti una legge che stabiliva il sistema della fidejussione, ma non mi sovviene sotto quale titolo essa fosse.

1 Quando intimato legittimamente rifiutasse di comparire. Nello stato presente della procedura il decreto di cattura deve essere preceduto d alcuni indizj detti ad capturam. Ma adottandosi il sistema dell’accusa da noi proposto, la sola accusa è un sufficiente indizio, perché l’accusatore, o pubblico o privato, non potrebbe senza fortissimi indizj rischiare di esporsi alla pena del taglione, che sarebbe una conseguenza necessaria di un’accusa capricciosa, e fatta di mala fede. A questo passo violento della cattura non si dovrebbe però venire che ne soli casi proposti, cioè, quando l’accusato non volesse ubbidire alla citazione, o quando la gravezza del delitto, o la sua condizione priva di domicilio e di onore lo rendesse sospetto di fuga.

1 Tutti i dubbj che potranno presentarsi a colui che legge su questo metodo, saranno prevenuti nel decorso di questo libro. Io non posso dir tutto ad un tratto. Senza questa economia, io, o dovrei mancare all’ordine, o ripeter le cose istesse più volte.

2I Romani distinguevano ciò che essi chiamavano libera: custodite, dalle carceri. Pare che le prime fossero riserbate per gli accusati che goder non potevano del beneficio della fidejussione, e le altre per gli accusati già convinti. Il citato luogo di Sallustio sui congiurati di Caldina, un luogo di Livio citato da Sigonio (lib. II, cap. 3. de Jud.) una legge di Venulejo, ed un’altra di Scevola sotto il titolo de' Dig. de custodia reorum, ce lo fan congetturare.

1 L’Inghilterra.

2Vedi ciò che si è detto nel cap. 6, a pag. 71. Noi non troviamo presso le antiche legislazioni monumento alcuno di questa ferocia. In Roma il contumace era punito come contumace, ma non come reo di quel delitto, del quale veniva accusato. Veggasi la collezione delle Leggi attiche di Petito, lib. IV, de Judicibus, tit. II, leg. II. Malgrado l’estremo rigore degli Ebrei nel perseguitare i delinquenti, noi abbiamo una loro legge che ci mostra che non si poteva alcun condannare, se non era inteso. Vedi Num. XXXV, 12. Questo abuso ha avuto origine presso le nazioni barbare, come si osserverà da qui a poco.

3Molti giureconsulti hanno ardito di sostenere che non era necessario, che il delitto fesse provato per condannare il contumace; che la fuga del1 accusato era una prova del delitto; e che il disprezzo che dimostrava per la Giustizia ricusando di comparire, meritava l’istesso gastigo che s’egli fosse convinto. Con questi principi si amministra la giustizia in una gran parte de' tribunali dell'Europa, dove agli errori delle leggi si uniscono i delirj di alcuni uomini senza suffragio, che non hanno impiegato il loro talento che a renderle più feroci, e più funeste.

1Io ho dovuto servirmi di alcune espressioni generali nel parlare di questa condanna per contumacia, perché quantunque nel fondo della cosa i codici delle nazioni di Europa siano uniformi, nulladimeno essi differiscono in alcune solennità, ed in alcuni oggetti, ch’era inutile di riferire, e che non interessano il mio argomento. Avendo osservate le Ordinanze di Francia, le Costituzioni di Savoja, gli Editti di Ginevra, le Costituzioni napoletane, e il Codice criminale d’Inghilterra, ho trovato dappertutto l’istessa ingiustizia adottata con alcune modificazioni diverse.

2La legge di Federico, compresa nel titolo delle nostre costituzioni de Forbannitis et Forjudicatis, ha funestamente ancora vigore presso di noi. In questa legge si dà a tutti il dritto di uccidere il contumace Forgiudicato, e si parla del premio che si deve dare a colui che l’uccide. Vedi la collezione delle leggi barbare di Lindenbrogio, voi. I, pag. 340, Venezia. In Inghilterra vi era anticamente l’istessa barbarie: il contumace in alcuni delitti era riputato avere caput lupinum, un capo di lupo, che ciascheduno aveva il dritto di troncare. Oggi si è abolito questo dritto, ma si è conservato il sistema di condannare il contumace come convinto del delitto, pel quale è stato chiamato in giudizio. Leggasi Blakstone, Codice criminale d’Inghilterra, cap. 24. Boemero riporta la terribile formola che si adopra nella Germania nel pubblicare il bando di forgiudica. Fa orrore come le leggi di popoli che si chiamano civili, possano adoprare un linguaggio che farebbe orrore nella bocca istessa di un Irocchese. Vedi Bohemer, De J. Crim,, Sect. I, cap. 47, § 430.

1 Nello stato presente delle cose, se la perdita de' beni fosse la sola pena stabilita per la contumacia, come era in Roma, lo Stato si vedrebbe ogni giorno privo di cittadini onesti, i quali non avendo né beni, né proprietà da perdere, (come infelicemente sono la maggior parte degli uomini che costituiscono oggi il corpo sociale) preferirebbero la perdita della loro patria a' rischi ed a' disastri, a' quali si esporrebbero presentandosi. Si corregga la procedura, e si adotti il sistema di Roma.

2 In Inghilterra si è pensato al primo di questi oggetti, ma il secondo si è trascurato. Se si raddolcisse il suo codice penale, che per altro è uno de più feroci dell'Europa, in questo caso l'habeas corpus diverrebbe infinitamente più favorevole alla libertà personale degl'Inglesi. La ragione n’è chiara. A misura che si moltiplicherebbero i casi ne' quali il cittadino potrebbe godere di questo privilegio, questo si renderebbe più utile. Or per moltiplicare questi casi, si dovrebbero raddolcire le pene. Non voglio lasciard’avvertire che il magistrato che ha ricevuta l’accusa contro il contumace, non dovrebbe trascurare di far solennemente registrare le testimonianze e i monumenti dall’accusatore prodotti, per poter esser nel caso di ricominciare la procedura sempre che il reo o si presentasse, o cadesse nelle mani della giustizia.

1 L. ult. C. de Probationibus.

1 L. 3, C. de testibus. L. 24, D. cod.: erano compresi in questa classe quelli che abitavano nell’istessa casa, e ch'erano stati educati in quella famiglia; in una parola tutti i domestici e familiari. Veggasi Mattei Comm, ad lib. XLVIII. Dig. tit. XV, cap. 2, § 10.

2 L. 5, C. de testib. L. 3, pr D. cod.

3 Cit. L 5, C. cod.

4 Cit. L. 3. D. cod. e L. si quis 47, C. cod.

5( )I servi non potevano essere interrogati contro i padroni. L. 8, C. cod. L. 7, C. de quistionibus. L. 1, § 3, e L. 18, § 6, D. de quast. In Atene essi erano interamente esclusi dal dritto di far testimonianza. Noi ne abbiamo una prova nel Formione di Terenzio, Atto II. Scena I.

6( )L. 6, C. de testib. L. 9, D. cod.

7 Colui che aveva patrocinata una causa o civile, o criminale, non poteva far da testimonio nell’istessa causa. L. 25, D. cod.

8 I liberti e i figli de liberti non potevano far testimonianza contro coloro che avevan data loro la libertà. L. 12, C. cod. L. 3, § 5, D. cod.

9 L. 3, § 5, e L. 20, D. cod. Nelle cause civili però erano ammessi a far testimonianza coloro che, essendo sub judice in un giudizio pubblico, non erano nelle carceri; ma anche in questo caso erano esclusi, allorché si trattava di cause criminali.

10 L. 13, e L. 3, § 5, D. cod. L. 6, § 1, D. ad Leg. jul. Repet.

11 Cit. L. 3, § 5, e arg. L. 21, § si ea rei D. cod. Anche in Atene noi troviamo gl’infami esclusi dal far testimonianza. Mh marturein touj ati mouj. Ignominiosi intestabiles sunto. V. Demost. in Neaerram. Un frammento delle dodici Tavole riportato da Gellio, lib. XV. cap. XIII. ci mostra che i Romani adottarono dagli Ateniesi questa legge.

12 L. 14, D. de testib.

13 L. 3, § 5, D. cod.

14 Repetundarum damnati, L. 15, D. cod.

15 Quei ch’erano stati convinti di aver altre volte ricevuto danaro per fare o non fare testimonianza, L. 3, § 5, D. cod.

16 Questi erano gli autori de' Libelli famosi. L. 5. § 9, D. de injuriis e L. 21, pr. D. de test.

17 L. 11, C. de testib. Chi crederebbe che, secondo le leggi della mia patria, il socio del delitto non solo non è escluso da far testimonianza, ma la sua deposizione contro del reo fa prova come ogni altro idoneo testimonio? P. Pragm. I, de exulib. Pragmatic. 6, de receptat.

18 Ne’ qiudizj criminali non potevano essere ammessi a far testimonianza i puberi, se non avevano compiuto il ventesimo anno della loro vita. L. in testimonium 20, D. de testib.

1 L. 23, D. de testib.

2 Quaestionem., dice il giureconsulto Ulpiano, inlelligere debemus tormenta et corporis dolorem ad eruendam veritatem. N. L. 15, D. de injur. et famos. libell.

3 L. 21, § si ea rei D. test. L. 8, § servis C. de qutestionib. L. 13, C. de testib. Nov. 90, tit. li, cap. I. Circa la natura di questi tormenti, de' quali si faceva uso presso i Romani per quest’oggetto, leggasi Valer, lib. VI, dove parlando del servo dell’oratore Antonio, dice: «Plurimis laceratus verberibus, eculeo impositus, candentibus laminis ustus, omnem vim accusatoris, custodita Rei salute, subvertit.» Si avverta che prima di Cesare non si sottomettevano a' tormenti che i soli servi. L’uso di esporvi i liberi ed i cittadini stessi non fu introdotto, come si osserverà da qui a poco, che sotto gl'Imperatori, da' quali furono in diversi tempi nuovi tormenti inventati. Svetonio nella Pita di Domiziano ci parla di quei di cui fece uso quest'imperatore, per scoprire alcuni rei; e nella Pita di Tiberio ci parla d’un’invenzione di questo tiranno; «Excogitaverat inter genera cruciatus etiam ut larga meri potione per fallaciam oneratos repente veretris deligatis, fidicularum simul, urinaeque tormento distenderet.» Veggasi anche ciò che se ne dice da Seneca nel lib. III, De Ira, da Valerio Massimo, lib. VIII, cap. 4, e da Ammiano Marcellino, lib. XXIX, dove parla di quelli de' quali fece uso Valentiniano.

4 Gl’inconvenienti che nascevano da questa libertà illimitata di portare un immenso numero di testimoni in giudizio, furono alquanto riparati dalle costituzioni de' principi, come si vede dalla L. 1, §2. D. de testib. Un luogo di Valerio Massimo ci fa vedere, che in altri tempi era permesso di chiamare in giudizio fino a 120 testimoni. «Scaurus (dice egli) adeo perditam defensio nem in judicium attulit, ut accusator diceret, lege sibi centum atque vi” ginti hominibus denunciare testimonium licere. Questa era la celebre legge Servilia repetundarum.» Veggasi Valerio, L. 8, c. 1. Nella Miloniana di Asconio si trovano chiamati in giudizio per far testimonianza 54 servi. Veggasi anche Cicerone, lib. II, De Jìnibus. E Sigon., De judidis, lib. II, cap. 15.

1 L. ex libro 15, pr. e L. unius 18. D. de Qucestionibus.

2L. de minore, 10. § 1. D. de quaestionib. L. 4, C. ad Leg. Jul. majest.

1Alla nota 5 della pag. 61.

2 Cic. pro Milone.

3 L. 2, C. de queestionibus.

4 I delitti eccettuati, pe' quali si ammettevano le testimonianze de' servi contro i padroni, si possono osservare nelle seguenti leggi: L. 4, C. de questionibus, e L. I, § in caussa; L- 8 e L. 17, D. de quaestionib. L. 1, D. ad Leg. Jul. de annon. L. vix certis 53. D. de jud.

Augusto avea trovato un temperamento che pareva conciliabile coll’antico sistema. Egli ordinò che i servi di colui che aveva cospirato contro la sua persona, fossero venduti al pubblico, affinché avessero potuto deporre contro il loro antico padrone. (Ved. Dion. in Xiphilin.) Ma chi sa quanto odiosa sia la persona del padrone al servo, vedrà quanto era contraria questa legge alla sicurezza civile. Noi sappiamo che ne' tempi primitivi della repubblica, Vìndice, scovrendo la congiura fatta in favore de' Tarquinj, non potè essere testimonio contro i figli di Bruto suoi padroni; e noi sappiamo anche che l’imperatore Tacito, persuaso di questa verità, stabilì che i servi non potessero esser testimonj contro i loro padroni, neppure ne’ delitti di Maestà. Questa legge non e nel Codice, ma la rapporta Flavio Vopisco nella vita di quest'imperatore.

5 In atrocissimis leviores conjectnrae suffìciunt et licet judici jura transgredi. I nostri forensi scrittori chiamano privilegiati que delitti, ne' quali ha luogo questa assurda regola.

1 Vedi, Legis Bajuvariorum, tit. Il, cap. 1. Si quis de morte Ducis consiliatus fuerit, § 2.

2 Io prego il lettore di paragonare questi determinazioni della romana giurisprudenza, con quelle de' codici delle bai bare nazioni, per vedere come lo spirito di contraddizione è stato quasi sempre lo spirito de' legislatori in tutti i tempi. Nel mentre che l’uso de' duelli e delle altre pruove, comprese sotto il nome di giudizj di Dio, era quasi universalmente adottalo, le leggi facevano pompa della più eccessiva delicatezza nel determinare la credibilità de' testimonj, e nello spaventare la loro mala fede. Veggansi nella collezione di Lindenbrogio, la legge de' Longobardi, lib. II, tit. 51, de testili., la legge degli Alemanni, cap. 42, § 2, i Capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. Ili cap. 10, 32, 52, 78; lib. IV, cap. 23; lib. VI, cap. 40,145, 157, 271; lib. VII, cap. 179, 354, e la legge de' Bavaresi, tit. 14, ecc.

1 Ea natura est omnis confessionis, ut possit video demens qui confitetur de se. Hic furore impulsus est, alius ebrietate, alius errore, alius dolore, quidam questione. Nemo contra se dicit, nisi aliquo cogente. Quintil., Declam., 314.

1Hobbes, De Civ., lib. I, cap. 2, § 49. Noi dimostreremo con maggiore evidenza questa verità nel seguente capo, parlando della tortura.

2Si avverta che né le parole di Paulo (in L. 1, D. de confess.) che dicono, Confessus in jure pro judicato habetur; né quelle di Bipiano (in L. 25, D. ad Leg. Aquil.) che dicono: nullae sunt partes judicantis in confitentes; né quelle della legge 1. Cod. de confes. dove l’imperatore dice: confessos in jure pro judicatis habere placet, sono da opporsi a questa regola; poiché basta osservare il proposito pel quale sono state adoprate, per vedere ch’esse riguardano i giudizj civili e non i criminali. Io non trovo be’ premessi principi una ragione per credere nulle le confessioni degli accusati ne' giudizj civili, giacché siccome non è contro la natura che io mi privi di una cosa che mi appartiene, per darla ad un altro, così non é contro alla natura che io confessi che quel che ho, non mi si appartiene. Non è così quando si tratta di una pena da subire.

3L. 1, § quis ultra D. de quaest., L. 1, § item illud e L. 5, § non alius D. de SC, Silan.

4Mattei ad Lib. dig. XLVIII Com. Tit., XVI, cap. I, § 3 e 4 adde arg. L. 1, C. Si non a competente judice.

1 L. 2, C. Quor. appel. non recip e L. unius 18,5 peti. D. de quaest.

2 Mattei ibid. § 5.

3 L. 'l, § 47, D. de Quaest. Le parole di Ulpiano sono le seguenti: Divus Severus rescripsit, confessiones reorum pro ei pi orati s facinorilnis haberi non oportere, si nulla probatio religionem cognoscentis instruat. Gl'interpreti si sono sforzati di alterare il senso di questa legge, per salvare l'antinomia che vi si contiene colle altre leggi, che riguardano la confessione de' rei. Male parole della legge sono molto chiare, e lo spirito di essa non ammette interpretazione. Bisogna persuadersi che nel dritto romano le contraddizioni più manifeste non sono mai un raro fenomeno.

1 Veggansi le sentenze di Paulo, lib. V, tit. 29, lib. 4, C. ad Leg. jul. Majest. L. 16, C. de quaest. L. 10, J 1. D. cod. Le persone di minor dignità potevano essere esposte anche a' tormenti per delitti di minore importanza. Veggasi Mattei, Comm. ad lib. XLVIII, Dig., tit. XVI, cap. 2 e 3.

1 Si sa quanti delitti furono sotto gl'Imperatori annoverati tra la classe di quelli, che chiamansi di Lesa Maestà. Una legge di Graziano, Valentiniano, e Teodosio condannava come sacrileghi coloro che mettevano in dubbio la rettitudine de' giudizj del principe, e dubitavano del merito di coloro, ch’egli avea scelto per qualche carica. Questa legge è nel Codice de crim. sacril. Un’altra legge di Arcadio, ed Onorio condannava come rei di Maestà coloro che attentavano alla vita de' ministri o degli uffiziali del principe. Nam ipsi pars., dice la legge, corporis nostri sunt. jL. 5, C. ad Leg. Jul. Majest.) Un altra dichiara come rei di Maestà i falsi monetar], L. 9, C. TheodoS. de falsa moneta.

Ogni oltraggio recato alle statue del principe era anche un delitto di Maestà (L. 6, D. ad Leg. Jul. Majest.) L’apostasia, la simonia, l’eresia de' Manichei e de' Donatisti, furono anche comprese in questa classe. L. 4, C. de lueret. L. si quenquam 31. C. de episc. et cler. Noi ne abbiamo degli altri, che per la brevità non debbo qui riportare.

2 L. 7, C. de male, et mathem.

3 Alessandro III, Innocenzo III ed Onorio III, furono, come si sa, i pontefici che dettero l’ultima scossa al sistema delle pruove pe’ giudizj di Dio. Vedi il cap. 10, de excessib. praelat, e cap. Ili, de purgat. vulg. E noi sappiamo che l’uso della tortura, abborrito fino a quel tempo dall’antica Chiesa, cominciò ad introdursi ne' tribunali ecclesiastici sotto questi Pontefici. Alessandro III, fu il primo a dare questo scandalo alla Chiesa, ed all’Europa. Vedi cap. 1, de depos. L’uso della tortura si era ristretto fino a quel tempo a quella piccolissima porzione di uomini, che viveva sotto il dritto romano, ma dopo questo tempo si rese di giorno in giorno universale; e noi dobbiamo a due Papi la funesta causa del sistema inquisitorio e della tortura. Senza la loro pontificale influenza il progresso de' lumi e della società avrebbe aboliti i giudizj di Dio, cosi contrarj al buon senso ed a' principi della nostra santa religione; ma senza il loro esempio l’antico uso della tortura non si sarebbe forse risvegliato nell’Europa, e il processo inquisitorio non sarebbe forse conosciuto. Noi dobbiamo ad Alessandro III il primo di questi mali, ad Innocenzo III, il secondo.

1 Carlo I emanò la legge che prescrive tra gli Svizzeri l’uso ed il metodo della tortura.

1Spesso i sacerdoti furono magistrati, e giudici nelle barbare nazioni. Vedi Caesar, De bell. Gali., lib. VI, cap. 15. Dion. Halicarnas, lib. II, pag. 152. Strab., lib. IV, pag. 302. Plat., De Legib., lib. VI, pag. 869 e lib. VIII, imi. Tacit., De Morib. german., cap. 7. jElian., Var. Jàstor., lib. IV, cap. 35. Justin., lib. II, cap. 7, dove parla di Mida Re della Frigia.

2Il primo Re che in Grecia separò lo scettro dal sacerdozio, fu Eretteo, il quale ritenendo per st la potestà reale, diede a Butes suo fratello il Pontificato di Minerva e di Nettuno. Veggasi Apollod., lib. III, pag. 108.

3Meneteto in Egitto, Zaleuco in Locri, Radamanto e Minos in Creta, Licurgo in Sparla, Zatrauste presso gli Arimaspi, Zamolxi presso i Geti, Mida nella Frigia, Numa in Roma, ed altri legislatori in altri luoghi finsero di conferire con qualche divinità, e di ricever da lei quelle leggi ch'essi quindi comunicavano a' loro popoli. Veggasi Homer., Odvss., lib. XIX, v. 179. Diod., lib. I, pag. 105. Valer. Max., lib. 1, cap. 2., Strab., lib. XVI, pag. 1105. Plat. in Noma, pag. 62. Dion. Halicar., lib. II, pag. 122.

1Un’obbiezione si potrebbe qui fare. O l’accusatore, o l’accusato doveano mentire; l’uno, o l’altro doveva dunque credere, che la prova non fosse un esperimento della verità, e che la divinità non vi si mescolasse per manifestarla. Ma io rispondo che l’accusatore che affermava, e l’accusato che negava, potevano l’uno, e l’altro affermare, e negare di buona fede, ed esporsi con ugual fiducia all’esito della prova. Molte volte in fatti l’accusatore si contentava del giuramento che l’accusato faceva della sua innocenza, e le leggi di Childeberto, quelle de' Borgognoni, e quelle de' Frigioni permettevano all’accusato di far giurare insieme con lui dodici altre persone, che si chiamavano conjnratores o compurgatores.

2 Nel Decreto di Graziano part. II quaest. 7, si condannano l’Ordalie con quel precetto del Signore: non. teutabis Dominum Deum tuum. Nel terzo concilio di Valenza tenuto nell'855, si condanna il duello come una prova crudele che nel seno della pace risveglia gli orrori della guerra. Nel concilio di Aquisgrana dell'anno 1322, si condanna la prova dell’acqua fredda. Nel terzo concilio di Laterano, tenuto sotto Alessandro III nell'anno 1179, e nel quarto sotto Innocenzo III, che, come si è detto, dette l’ultima scossa a questo disordine, si condannano non solo i duelli, ma tutte le altre prove superstiziose, che si chiamavano col nome di Giudìzj di Dio. L’Istoria ecclesiastica ci somministra una serie quasi non interrotta di esortazioni, d’invettive, di minacce di molti Papi e di molti Vescovi, dirette all’abolizione di queste prove. (Veggasi Baumanoir cap. 39; Du Cange, Glossar, voce duellum.) Ma questi sforzi rimasero per molto tempo inutili a segno tale, che gli ecclesiastici stessi furono qualche volta costretti ad autorizzare i duelli, ed a permettere che si ricorresse a questo esperimento per terminare le controversie che nascevano sopra i beni delle Chiese.

L’imperatore Arrigo I dice, chela sua legge, nella quale si autorizzava la pratica de' combattimenti giudiziari. era stata fatta col consenso e coll’approvazione di molti fedeli Vescovi. (Veggasi Bouquet, Recueil des hist., t. IX, p. 231.) Noi ne troviamo molti altri esempj presso Robertson, Hist. de Charles Quint, t. II, alla nota 22. Il Concilio di Lillebonna, tenuto nell’undecimo secolo sotto Guglielmo il conquistatore re d’Inghilterra, e duca di Normandia, condanna ad una pena pecuniaria que’ preti che si battono in duello senza il permesso de' loro Vescovi. Bisogna dunque supporre che molti Vescovi di que’ tempi si credessero nel dritto di poter permettere questo sperimento, che lo spirito universale della Chiesa aborriva. Più; in alcuni Episcopii della' Franchia vi erano le Monomachie ossia i luoghi destinati a' duelli chi si ordinavano dal Giudice del Vescovo ne' litigi de' servi additizj di quella Chiesa. Questo si trova in un Manoscritto di Pietro le Chantre di Parigi, che scriveva nel 1180. (Descr. du dioc. de Paris, par M. Lebaeur). Muratori dice che alcuni Vescovi dell'Italia ottennero quest'istesso privilegio nel principio dell'undecimo secolo L’Imperator Corrado lo diede a Pietro Vescovo di Novati nel 028., e nel 052 Arrigo III l'accordò al Vescovo di Volterra. La confidenza che si aveva allora in questa specie di prova, era tale, che noi abbiamo degli esempj nell’istoria, che qualche volta si ebbe ricorso al duello, per determinare qualche articolo di giurisprudenza, o qualche punto di disciplina. La celebre legge, adottata in tutta l'Europa, che stabilisce, che i figli del figlio debbano esser noverati tra figli di famiglia, e possano, rappresentando il loro padre, succedere a porzioni uguali co' loro zii nel caso che il loro padre premuora all'avo; questa legge, io dico, per la quale vi furono varie altercazioni, fu nell'XI secolo emanata dopo un duello che l’imperadore ordinò, che si fosse fatto, per vedere quale de' due partiti era il più ragionevole, e la celebre. controversia insorta in Ispagna nell'undecimo secolo sotto Alfonso VI Re di Castiglia per determinare se la liturgia mosarabica, o la romana fosse più grata a Dio, fu anche rimessa alla prova del duello. Vedi Storia delle Rivoluzioni di Spagna del P. d’Orleans t. 1. pag. 217.

1 Nel cap. 2, del lib. I.

1 Tacit., De Morib. German. Mi piace di far qui osservare che presso tutte le nazioni ancora barbare, le pene di morte furono considerate come sacrifizio fatto agli Dei. Questo era lo spirito delle leggi decemvirati, e per questo motivo sacer esto significa sia punito colla morte. Da qui deriva anche, che le pene capitali si chiamarono supplicia, volendo con ciò significare ch’erano offerte fatte agli offesi Dei per que’ delitti. Da qui deriva, che presso gli antichi Germani i sacerdoti stessi erano i carnefici de' rei, e da qui deriva, che presso alcuni popoli il carnefice si chiamava Gran sacrificatore.

2 Hmen d’etoimoi kai mudruj airein ceosin

Kai pur dierpein, kai qeuj o rkwmotein.

Eramus autem parati ignitum ferrimi manu capere; Et ire per ignem j et jtirare.

Sofocle nell'Antigona,, v. 269 e 270.

3 Eustathius, lib. VIII et XI De amore Tsmetiice., et Jsmenes.

4 Vedi Achille Stazio De Amoribus Clitophontis, et Leusippes, lib. VIII, pag. 241, edit. Comini Venturae Borgomi. Si legava al collo della donna accusata d’impudicizia la tabella, nella quale era scritto il giuramento della sua innocenza. Si faceva quindi discendere nel fonte. Se le acque non si movevano in maniera da non bagnare la tabella, essa era dichiarata innocente. Se poi l'agitazione dell'acqua faceva che si bagnasse la tabella, era considerata come convinta. I. istesso Stazio, ibid., a pag. 223, parla dell'altro esperimento che si faceva per l’istesso oggetto: e questo si chiamava il giudizio della Fistola nella spelonca del Dio Pane.

1 Frid. Heinius, De probat. quae olim fieri solebat per ignem et aquam.

2 Vellejo Patercolo, lib. III, cap. 118.

3 G. O. Stiernhook nella sua celebre Opera De jure Sujonum vetusto, lib. I, cap. VII.

4 Veggasi Muratori, Antiq. Italic., diss. XXVIII. Egli ci dice che Gregorio VII, accusato di simonia, si sottomise a questa prova.

5 Quando v'è sospetto che in un villaggio vi sia uno stregone, o una strega, si fa bere alla presenza de' giudici a tutti gli abitanti un liquore formato da una radice detta sitibonda, che ubriaca, e trattiene il corso delle urine. Ciascheduno dee beerne, e quindi correre. Colui che nel correre cade per terra, vien convinto come delinquente, e precipitato dal popolo da un’altezza. Le mogli del re, vengono esposte all’istessa prova, allorché sono accusate di adulterio.

6 Questa è una bevanda velenosa che si fa bere all’accusato. Se egli la vomita, è assoluto come innocente, ma se ritenendola gli cagiona convulsioni, ed altri indizj dell’operazione del veleno, allora è considerato come colpevole, e vien condannato. Presso questi popoli si adopra un’altra prova della belli, molto simile a quella del ferro rovente, che si adoperava in Europa.

1Knox ci dà un distinto ragguaglio delle cerimonie, che precedono questo noto esperimento, nella relazione de' suoi viaggi.

2Le sacre cerimonie che precedevano questi esperimenti, sono una prova di questa verità. Noi possiamo per quest'oggetto dirigere il lettore alle seguenti Opere. Veggasi «Baluzio In capitular. Du Cange in Glossar, mediai, et infim. Latinit. voc. judicium Dei., Alartene, De anliq. eccles. ritib Murat.» Diss. XXVIII seg. Antiq. Italie.

Noi sappiamo che i combattenti dovevano invocare il nome di Dio, della Vergine e di qualche Santo, che dovevano giurare di non avere le armi incantate, che dovevano anticipatamente assistere al sacrifizio della Messa, e prepararsi con questi sacri riti all’esperimento. Nel giudizio dell’acqua e del fuoco, l’accusato doveva anche prepararsi alla prova coll’eucaristica comunione.

1 Finché i popoli non conobbero la servitù civile, finché conservarono quella porzione della naturale indipendenza, ch’era propria dello stato politico, nel quale noi parliamo, fino a questo tempo, io dico, non ebbero che una voce per esprimere la virtù, e la forza, o per meglio dire, la virtù era forza, e la forza era virtù. Quest'è l’Areth de' Greci de' tempi, de' quali parla Omero, e questa è Virtus de' Latini. Omero non adopra la voce areth che per indicare, la forza, siccome si serve della parola sofia. sapientia, per indicare l’abilità e destrezza nelle arti meccaniche necessarie alla guerra.

Siccome le idee della virtù e della forza da principio si confondevano, così i Romani chiamarono Foretes i popoli che non si erano mai da essi ribellati, e Sanates quelli che dopo essersi ribellati, ritornati erano nel loro dovere; e così si può interpretare quel frammento delle decemvirali tavole dove si dice; «Nexo. Soluto. Foreti. Sanati. Quo. Siremps. Jus. Esto. Che sia ristabilito nel l'antico diritto non solo il debitore, allorché sarà uscito dalla schiavitù, ma anche il popolo rubelle, ell'è ritornato nel suo dovere; sia rimesso negli stessi 'diritti, de' quali gode il popolo ch'è stato sempre fedele.» Vedi Festo voc. Sanates. Il popolo fedele si chiamava forte, perché non vi era che l’idea della forza, che indicava originariamente ogni virtù. Da ciò deriva anche, che gli antichi scrittori latini chiamarono fortis colui che ora si direbbe bonus, e chiamarono bonus colui che ora si direbbe fortis.

1Chi non si ricordasse la natura di queste diverse specie di prove, che per brevità non ho fatto che accennare, potrà ricorrere a Du Cange nel Gloss. media:j et infim. Latinit., voc. judicium Dei.

2 Nel Codice dei Turingj, tit. 14, noi troviamo una legge, che condanna alla prova dell’acqua bollente qualunque donna, anche di un rango distinto, quando accusata d adulterio non si fosse presentato in giudizio alcun campione per essa. I codici delle altre barbare nazioni contengono altre leggi presso a poco simili. Le donne, almeno le ben nate, non si esponevano a quest’esperimento, che in mancanza de' campioni. Questo ci fa vedere l’interesse che esse avevano di accattivarsi uomini di valore che avessero potuto in qualunque caso difendere la loro causa. L'uso di battersi per dar piacere alla sua signora, quest’uso così conosciuto ne' secoli dalla cavalleria, e che si conservò anche dopo che il duello lasciò di essere una prova giudiziaria, non è dovuto che a questa origine; come all'istessa origine si dee la legge cavalleresca ancora esistente, che obbliga l’amante a battersi, per difendere l'onore della sua signora, e per vendicare i suoi torti.

3 Noi la troviamo stabilita in quasi tutti i Codici barbari. Veggasi la legge de' Ripuarj, tit. 32, 57, 59. La legge de' Longobardi, lib. I, tit. 15. L 2, tit. 32. L. 4, tit. 35. L. 1, lib. II, tit. 35. L. 2. E più di ogni altro nel tit. 55, L. 38 dell'istesso libro, dove si rapporta lo stabilimento di Ottone Imperatore, col quale obbligava ad adattarsi agli editti relativi alle prove per duelli, anche quelli che vivevano sotto la legge romana. La legge de' Borgognoni, tit. 8, L. 1, 2, tit. 80; L. 1, 2, 3. La legge de' Turingi, tit. 1; L. 31, tit. 7, 8. La legge de' Frigioni, tit. Il, 14. La legge de' Bavaresi, tit. 8, De Furto., cap. II, § 6, e cap. Ili, § unico; ibid. tit. 9, De incendio Domer. etc., cap. IV, § 4. La legge degli Alemanni, cap. LXXIX, De eo qui hominem occiderit, et necaverit. I capitolari di Carlo Magno e Lodovico, lib. VII, cap. CLXXVI, De accusatoribus non facile recipiendis, nec absque etc. I capitoli aggiunti alla legge Salica da Lodovico Imperatore, cap. I, Si quis cum altero.

Noi non troviamo tutte le altre prove giudiziarie cosi universalmente ricevute, o almeno esse ebbero molto minor durata. Beaumanoir, che viveva nel tempo di San Luigi, facendo l’enumerazione delle diverse specie di prove, parla del duello, e non parla delle altre. Noi troviamo nella Costituzione di Lotario inserita nella legge de' Longobardi, lib. 11, tit. 35, § 31, abolite le pruove dette della croce, e dell'acqua fredda; noi troviamo al contrario l'ultimo duello ordinato dal Magistrato in Francia per prova giudiziaria nell’anno 1547; noi ne troviamo anche ordinati in Inghilterra nel 1571, nel 1651 e nel 1538; e noi ne troviamo finalmente ordinato uno in Spagna da Carlo I nel 1522. Veggasi Robertson, Istoria di Carlo V, tom. II, alla nota 22.

1 Che si legga ciò che nella seconda parte di questo libro si dirà da me sull’origine del dritto di punire, e si vedrà come ogni obbiezione che mi si potrebbe qui fare, svanirà a fronte dell'evidenza de' miei principii.

1 Paul. I, sent. 12, § ultimo, L. 6. Veggasi ancheUlpiano nella L. 6, § 23, D. De qutcst., e più di ogni altro, Livio, lib. XXIV, cap. 5. Tacit., Annal., lib. IV, c. 45; e Seneca, De Ira, lib. II, cap. 13, dove si troveranno de' fatti che evidentemente confermano ciò che io ho detto. Una risposta data dall'inglese Felton convinto reo dell’assassinio del Duca di Buckingham, al Vescovo di Londra, il quale gl'intimò, che s'egli non accusava i suoi complici, si sarebbe dovuto preparare a soffrire i tormenti della tortura, è anche molto opportuna al nostro proposito; «Monsignore, egli disse, se la cosa deve andare a questo modo, io non so chi potrò accusare nell’estremità del dolore; forse il Vescovo Laud, o qualche altra persona di questo tribunale Ammirabile riflessione, dice il celebre Foster, nella bocca di un entusiasta e di uno scellerato. Questa risposta non bastò per distogliere il Vescovo dalla sua idea. Egli propose la tortura, ma i giudici di unanime sentimento risposero che questo feroce esperimento non era permesso dalle leggi inglesi. Vedi De Loline Cost d? Inghilterra, cap. X, pag. 113.

Mi si permetta di aggiugnere qui una riflessione. Chi crederebbe, che la legislazione brittanica, che ha sempre abbonita la tortura, autorizzasse poi una ferocia, che niun’altra legislazione dell’Europa ha ardito di adottare, e che non ha corretta, che pochi anni fa (nel 1772)? Io parlo della pena forte, e dura. Se un uomo veniva convinto di un delitto di fellonia, o di picciolo tradimento, e se costui per non incorrere nel giudizio, che chiamasi di corruzione di sangue, giudizio, che porla seco la confiscazione de' beni, e l’incapacità a' figli di ereditare in avvenire; se, io dico, quest'infelice per non incorrere in questo giudizio, rifiutava di dare alcuna risposta alle interrogazioni de' giudici, se egli conservando un rigoroso silenzio, non negava, né confessava il suo delitto, del quale per altro era stato convinto; allora invece di condannarlo all'ordinaria pena della morte, si condannava alla pena forte, e dura. Si faceva discendere in un carcere sotterraneo ed oscuro; si faceva distendere nudo il suo corpo sul suolo; gli s’imponeva un masso di ferro di esorbitante peso, gli si dava a mangiare poche once di pane in un giorno, e poche once di acqua stagnante in un altro, e si lasciava in questa situazione fino a che egli moriva. Morto in questa maniera i suoi beni non venivano confiscati, ed i figli non perdevano il diritto ad ereditare, come sarebbe avvenuto, se egli avesse data qualche risposta a giudici o affermativa o negativa, giacche il silenzio, che gli faceva soffrire una morte cosi tormentosa, lo liberava dalla corruzione ilei sangue (Veggasi Blackstone ne’ Comm. al Cod. Crim., di Inghilterra, cap. XXV. Nel tempo, che scriveva questo dotto giureconsulto, questa pena non si era ancora abolita.) Per poco che si siano osservati i principii che si sono qui sopra sviluppati sulla confessione de' rei, e sul dritto del silenzio, si potrà vedere come alla massima ferocia si unisce anche la massima ingiustizia in questa determinazione. Una riflessione mi si presenta in questo punto. Se in un paese dove la nazione intera dispone delle leggi, e dove coloro che le dettano, sono que’ che debbono quindi soggiacervi, se in questo paese, io dico, si trovano simili stranezze, quali orrori non si dovranno trovar in quelli, dove la facoltà legislativa si trova tra le mani di un solo? Infelice quell’uomo che avendo un’anima sensibile, si trova immerso in simili studi!; a misura ch’egli impara più, si trova più infelice!

1 La legge istessa, io dico, concorre a sostenere e fomentar questa opinione, giacche essa dà in molti casi il diritto a giudici, che ordinano la tortura, di stabilire nell'istesso giudizio, che quest'esperimento non debba pregiudicare alle prove che già si sono raccolte, ed in questo caso, ancorché il reo sostenga la sua innocenza tra' tormenti, i giudici condannar lo possono, fuorché alla morte, a qualunque altra pena. La legge dunque non confida nell'esperimento, che adopra. Vedi Domat, Suppl. al diritto pubblico, tit. V, § 4.

1 L’infamia stabilita in molte nazioni per coloro che si battono in duello, è una prova di questa verità. In que’ paesi ove ha avuto vigore questa legge, gli uomini non han lasciato di battersi, perché tra le due infamie quella della opinione pubblica prevaleva sempre a quella della legge.

1 Bovillaud. Questo celebre matematico diceva: «Ho letto più volte questo luogo di Archimede, ed io non ho memoria di averne mai compresa tutta la forza: Et memini me nunquam vim illius percepisse totam.» Veggasi la Prefazione agl'infinitamente piccioli di M. de l’Hopital.

2 Viette, geometra anche molto conosciuto. Il nuovo metodo posteriormente tenuto per ritrovare queste proprietà, ha fatto conoscere la verità delle scoverte di Archimede.

1 Buffon, nel suo saggio di Aritmetica morale ha creduto anche di poter ridurre a calcolo la sognata distinzione tra il valore della certezza fisica e della certezza morale. Dopo vari raziocinii e vari calcoli, egli dice, § 3, «che la certezza fisica, ell'è una grandissima probabilità, è alla certezza morale che anche è una gran probabilità, ma minore di quella: 22,189,999: 10,000.» Quale stranezza in un uomo cosi grande 1 II suo stesso errore è una prova delle mie idee.

1 Queste erano le sole tre risposte che i giudici del fatto potevano dare in Roma: Absolvo, Condonino, Non Liquet, che come si sa, si davano colle lettere iniziali di ciascheduna voce.

1 Quando l'accusato restasse sub judice, l’accusatore potrebbe sempre produrre nuove prove del suo delitto: ecco ciò che dovrebbe determinare il reo in questo caso ad abbandonare la sua patria.

1 Per poco che si rifletta su questo primo canone, si vedrà che in esso si contengono tutte l'eccezioni ragionevoli e giuste, che possono addursi contro l’idoneità di un testimonio. Le leggi romane, come si è Osservato, vollero troppo individuarle, e questo produsse due gravi disordini. In alcuni casi l’eccezione della legge non bastavano, in altri erano eccessive. I giudici erano a vicenda ora ristretti dalle tante eccezioni che rendevano impossibile l'appuramelo del fatto, ed ora obbligati a riparare ed a supplire al difetto della legge. Le leggi debbono essere quanto più si può generali; a misura ch'esse particolarizzano più, esprimono meno. Le leggi moderne della più gran parte dell’Europa, hanno adottato questo difetto della giurisprudenza romana. I giudici sono oggi nell’istesse circostanze, colla differenza però, che un nuovo male si è aggiunto a questo disordine. L’impossibilità di dimostrare il fatto colle prove legali, ha dato origine all'abuso di condannare alla pena arbitraria il reo che non ha potuto essere legalmente convinto; e quelle istesse leggi che cercarono di ristringere l'arbitrio del giudice, glielo hanno esorbitantemente aumentato. Il minimo de' mali è quello, che dee sempre cercare il legislatore ed il politico. I grandi mali e gli abusi più gravi, non derivano per lo più, che dallo spirito di perfezione. In quanti casi il ricercato sistema sull’idoneità de' testimoni renderebbe impossibile la pruova di un delitto! Un delitto, per esempio, commesso nelle carceri, non può avere per testimoni che coloro che sono sub judice. Un delitto commesso nelle galee, o ne' lupanari, non può aver per testimoni che i servi della pena, o le prostitute. Un delitto commesso da un mendicante, non può ordinariamente aver per testimoni che altri medicanti. Gli uomini che sono sub judice i servi della pena, le prostitute, i mendicanti, ecc., dovranno dunque esser esclusi dal far testimonianza del delitto alla loro presenza commesso? Se l'accusatore può dimostrare che questi non hanno alcun interesse di alterare, o di tradire il vero, per qual ragione non potrebbero far essi una prova legale? Il canone da noi proposto pare che prevenga tutti questi inconvenienti.

1 In questo secondo canone si stabilisce che i giudici, prima di decidere della verità del fatto, decidano della idoneità di ciaschedun testimonio, colla re' gola stabilita nel primo canone. Il motivo di questa legge nasce dal mio sistema istesso. Altro è il dire: questo testimonio è idoneo, è credibile; altro è il credere alla sua testimonianza. Due testimoni idonei, che uniformemente attestano il fatto che han veduto, bastano a formare una prova legale; ma non basteranno forse a produrre la moral certezza del giudice. Or siccome, in vigore del piano che si è esposto nell'antecedente capo, il giudice, malgrado la sua moral certezza in favore dell'accusa, non può dire l’accusa è vera, quando manca la prova legale, e malgrado la sua moral certezza in favor dell’accusato, non potrebbe dire l’accusa è falsa, quando esistesse la prova legale; è giusto dunque, che prima che si venga a decidere del fatto, si determini se esista o no la prova legale. Or nella prova testimoniale, l’idoneità de' testimoni forma appunto la prova legale. Ecco dunque, perché il giudizio della credibilità, o sia dell'idoneità del testimonio, dee precedere quello del fatta L’ordine che dovrà tenersi in questo giudizio, si esporrà allorché si parlerà dell'ultima parte della procedura, cioè della sentenza.

2 La ragione sulla quale è fondato questo canone, non è quella adottata da Montesquieu, cioè, che quando non vi è che un testimonio che afferma, ed il reo che nega, la testimonianza del primo vien distrutta dalla testimonianza del secondo. Questo è falso; perché il reo ha un interesse di negare; ma il testimonio non ha alcun interesse di affermare. La ragione dunque di questo canone si è, ch'è molto difficile che due testimoni, separatamente esaminati, possano entrambi convenire nella relazione delle circostanze che hanno accompagnato il supposto delitto; e che la sola verità può rendere uniformi le loro testimonianze.

3 Io intendo qui parlare del criterio legale, poiché se il reo nel mentre che si difende, manifesta, o confessando, o con altri mezzi, il suo delitto, questa manifestazione, che non potrà mai fare alcuna prova legale, potrà però determinare contro di lui la moral certezza de' giudici, giacche questa non è sottoposta ad alcuna regola legale.

1 Queste precisioni non sembreranno strane a colui che sa quanto facile sia il calunniare un uomo sopra i suoi detti. Un’istessa parola proferita in un modo risveglia un’idea, e proferita in un altro tuono, e con un diverso gesto, può risvegliare un’idea tutta opposta. Quante volte gli uomini più onesti sono stati attaccati d’irreligione, d’empietà, o di sedizione, per alcune parole mal'intese da uno stupido che ignorava le circostanze nelle quali furono proferite, e che non seppe discernere l’ironia dalla verità dell’espressione! I roghi dell’Inquisizione avrebbero bruciati molti infelici di meno, se si fosse avuta maggior diffidenza nelle testimonianze su' detti.

2 Se due testimoni asseriscono uniformemente di aver inteso dire ad alcuno: io voglio uccidere il tale; se costui viene ucciso, la loro testimonianza non farà una prova legale contro colui che ha detto di volerlo uccidere. Le testimonianze su i detti non debbono aver luogo che ne' delitti di sole parole: come sarebbero, per esempio, le ingiurie, le contumelie, ecc.

3 Non è credibile quanto questo metodo gioverebbe per la scoverta della verità. Vi è gran differenza tra il sentire il testimonio colle proprie orecchie, o il sentirlo colle orecchie degli altri. Una parola che si trascura, può alterare il senso della testimonianza. La maniera istessa di parlare può far iscorgere al giudice la verità, o la falsità della deposizione. L’altercazione col reo non lascia anche di essere vantaggiosissima cosa. Tra noi questa non è ammessa. Il reo non fa che assistere al giuramento che fa il testimonio allorché ratifica; e quel ehè peggio, i giudici istessi non sono quelli che sentono la prima deposizione, che fa il testimonio. Questa si fa la prima volta alla presenza del commissario, il quale, dopo averla intesa, ordina allo scrivano di scriverla. Allora lo scrivano si ritira io sua casa, conduce il testimonio, lo esamina di nuovo, gli caccia dalla bocca quel che vuole, gli fa tacere quel che gli piace, e non trascura d’esagerargli tutt i pericoli a' quali si esporrebbe, mutando in minima parte la sua deposizione nel momento della ratifica, che è quella che si fa alla presenza del corpo intero de' giudici. Ecco come si giudica tra noi della vita e della libertà dell’uomo. Chi non freme contro questo perfido sistema, o non ha mente, o non ha cuore.

1 Questo canone è secondo i principii della Romana giurisprudenza. Asconio nella III Verrina ci dice che i testimoni, che asseriscono il non fatto, non giovano al difensore.

2 Questo canone è preso dall’Attica legislazione. La legge, che conteneva questo stabilimento, ci è stata conservata da Suida e da Demostene:

Ton egalhteuqenta, h marturein, h exomosasqai, h ciliaj dracmaj, apotisai tw dhmotiw. In jus vocatus, testimonium vel dato, vel durato, vel mille drachmis mulctator. Vid. Demosth.. dd Timotheum.

3 Le leggi romane corressero, riguardo a quest'oggetto, il vizio dell'Attica Legislazione. In Atene il giuramento si esigeva non solo da' giudici, dall’accusatore e dai testimoni, ma anche dall'accusato. In Roma si esigeva soltanto da' giudici, dall’accusatore e da' testimoni. In Inghilterra si è adottata la correzione di Roma; ma noi, che conserviamo ancora le reliquie delle canoniche purgazioni, non permettiamo all'accusato di dire una sola parola, senza u giuramento. Per quel che si è detto degli Ateniesi, veggasi Sigonio, De Repub. Atheniensium, lib. III, cap. II; Pottero, Archeologia grceca, lib. I, cap. XXI. Per quel che riguarda i Romani, veggasi il luogo di Asconio nella II Verrina, dove parla del giuramento de' giudici, la legge 9, C. De testib.; Sigonio, Dejuditiis, lib. II, cap. X., e Bocmetto, De Jur eccles., lib. V, tit. 34, § 3, e seg., dove dimostra che l’accusato non era sottomesso al giuramento. Per gl’inglesi, veggasi Blackstone, Codice criminale, cap. XXVII.

1 Io chiamo scrittura autentica quella ch'è stata legalizzata da una persona pubblica.

2 La relazione degli esperti sulla confrontazione de' caratteri è un giudizio, e non una pubblica testimonianza; magis judicium guani testimonium. Gli esperti altro non possono dire: à noi pare simile il carattere, ma non possono dire: questo è l’istesso carattere. L’arte, che hanno alcuni d’imitare I’ altrui carattere, rende fallaci i giudizi di confrontazione. Giustiniano ce ne offre una prova nella Novella 73. La confrontazione de' caratteri non potrà dunque produrre altro che un indizio, ma non potrà mai da se sola formare una prova legale.

3 La falsificazione di nna polizza di banca colla firma del falsario, e coll’autentica del notaio, renderebbe la scrittura il soggetto del delitto. Un istrumento solenne, che contenesse o un contralto di usura, o un contratto simoniaco, sarebbe il caso della diretta ed immediata manifestazione del reato. Ecco due scritture, che potrebbero fare da loro sole una prova legale.

4Si chiama indizio necessario quello che è conseguenza così necessaria del fatto, che non potrebbe esserne separato senza o un impossibile metafisico, o fisico, o morale. Una donna che ha partorito, ha dovuto aver copula con un uomo. Il parto è un indizio necessario della copula. Ecco il caso nel quale un indizio solo fa una prova legale.

1I criminalisti non stenteranno molto a vedere tutto ciò che si comprende in questo quarto canone. In questo si contiene tutto il sistema della prova indiziaria, sulla quale i dottori hanno scritto immensi volumi. Per illustrarlo agli occhi di coloro che non professano questa materia, io ricorro ad un esempio. Supponiamo che un uomo sia stato ucciso, e che, essendosi esaminato il cadavere, si sia ritrovato nel suo petto il coltello omicida. Viene uno accusato di questo delitto, e l'accusa è fondata su' seguenti indizi. Due testimoni idonei asseriscono che, essendosi trovati poco discosti dal luogo dove si era trovato il cadavere, e nel momento istesso nel quale fu commesso il delitto, videro l’accusato fuggire sbigottito. Due altri testimoni idonei asseriscono d'averlo veduto intriso di sangue. Due altri testimoni idonei dicono di avergli veduto comprare il coltello che si ritrova nel seno del cadavere, e il venditore non distrugge la loro assertiva. Ecco una perfetta prova indiziaria contro l'accusato. In questa si contengono tutt'i caratteri che si sono fissati nel canone. Noi abbiamo tre indizi, tutti e tre disgiunti tra loro; niuno di essi dipende dall'altro; tutti e tre tendono a far credere che l’accusato sia effettivamente il reo; ciascheduno di essi è poggiato sulla fede di due testimoni idonei. Secondo il mio sistema, dunque, i giudici potrebbero in questo caso decidere che l’accusa è vera, purché la loro moral certezza non l’inducesse a rispondere diversamente; giacche, esistendo la prova legale, essi possono anche dire: la prova è incerta, quando quella non basta a produrtela loro moral certezza. Ma se in vece de' suddetti indizi, non vi fossero che i seguenti: cioè, due testimoni, che dicono di aver veduto fuggire l’accusato; due altri, che dicono di averlo veduto ritornare in casa ansante: due altri, che dicono di averlo veduto patteggiare una vettura per andare fuori dello Stato: questi indizi formerebbero essi una prova indiziaria? no; perché tutti questi tre indizi non formano che un solo indizio, qual è la fuga; ed un solo indizio, come si è detto nel 1° canone, non fa mai una prova legale.

1 Questo canone è dedotto dalla savia disposizione delle leggi di Roma, dirette a prevenire la prevaricazione. Noi ne abbiam parlato nel 11 e III capo di questo libro. Esse uguagliavano la procurata prevaricazione alla confessione, la quale, per altro, non bastava da sola a formare una piena prova. Noi l’uguagliamo ad un indizio, perché non abbiam dato alcun valore alla confessione.

2 I giureconsulti chiamano questi delitti di fatto permanente, facti permanentis; come l’omicidio, il furto con scassazione, ecc.; chiamano poi delitti facti transeuntis que’ delitti: che non lasciano alcuna traccia di loro; come il furto semplice senza scassazione, l’adulterio, le ingiurie verbali, ecc. Ne’ primi è necessario che si consti il corpo del delitto. Allorché si parlerà della ripartizione delle giudiziarie funzioni, si vedrà a chi appartener si dovrebbe questa ispezione, e con quale diligenza dovrebbe essere eseguita. Noi osserveremo anche allora l’importanza di questo canone.

1 Le tenebre che ravviluppano questa parte della Romana istoria, e dell'antica giurisprudenza, mi costringono ad illustrare con molte e lunghe note i fatti che saranno semplicemente accennati nel testo, lo spero che il lettore, invece di condannarmi di pedantismo, voglia essermi grato degli sforzi che ho dovuto fare per illustrare in poche pagine uno degli articoli più oscuri della romana antichità.

1 Dion. Halic, lib. II,cap. V.

2 Quoniam de capite civis Romani in jussu Populi Romani, non erat permissum consulibus jus dicere. Pomponio, L. 2, § 46. D. De orig. jur. Quando si trattava di un delitto di uno straniero, di uno schiavo, l’accusa si portava in un Tribunale destinato a questo oggetto, e i Giudici, che lo componevano, chiamavansi Triumviri Capitales. Vedi Cicerone, pro Clueutìo,cap. XIII. Ciò che ci dice Livio, lib. X, sul proposito di questa legge, ci offre una riflessione sulla dolcezza delle pene ne' paesi ove vi è virtù. Egli dice che la pena, ch'essa minacciava al Magistrato che l’avrebbe violata, era di esser riputato malvagio: Nihil ultra quam, improbe factum adjecit.

3 «De capite civis, nisi per maximum comitiatum ne ferunto.» Cicer., De leg. t lib. 3, cap. IV. OraL pro Sexto, cap. 34.

4 Livio, lib. IV, cap. XLI, lib. XXV, cap. IV. Vi era dunque bisogno di una legge per condannare un cittadino alla morte; di un Plebiscito per condannarlo ad una pena pecuniaria.

1 Noi abbiamo molti monumenti de' giudizi fatti dal popolo ne' comizi. Dionisio di Alicarnasso, lib. VII, ci fa menzione di quello di Coriolano, che i Tribuni accusarono di aver aspirato alla tirannia. Noi troviamo in Livio e in Valerio M. moltissimi altri giudizi fatti dell'istessa maniera dal Popolo. Vedi Livio, lib. II, cap. 41, 52, 51, 61; lib. III, cap. 2 e 42; lib. IV, cap. 40; lib. V, cap. 9, 12 e 32; lib. VI, cap. 45 e 16; lib. VII, cap. 4; lib. VIII, cap. 37; lib. XXV, cap. 3; lib. XXVI, cap. 34, e lib. XLIII, cap. 8. Veggasi Valerio Massimo, lib. VI, cap. 4; lib. VIII, cap. 22; lib. X, cap. 31.

2 Questi Magistrati straordinari venivano chiamati Quasitores parricida; giacche con questo ultimo nome si chiamavano tutti i capitali delitti: Quaesitores parricidi! appellatos, quos solebant creare rerum capilalium; dice Festo, Voc. Quaesitores. Io non descrivo qui la maniera colla quale questi Magistrati eseguivano la loro commissione, perché questa era perfettamente simile a quella, che si tenne posteriormente, allorché furono create le Questioni perpetue, delle quali da qui a poco si parlerà. Veggasi Sigonio, De judiciisj lib. II, cap. 4. Noi abbiamo anche molti esempi di giudizi fatti in questa maniera, come si può vedere in Sigonio nel citato luogo.

3 Nell'anno ab. U. C. DCIV. L. Pisone tribuno della plebe fu il primo ad introdurre questa novità. «Carbone forum tenente (dice Cicerone in Bruto), plura judicia fieri coeperunt; nam et quaestiones perpetua hoc adolescente constitutae sunt; quae nullse ante fuerant. L. enim Piso trib. pl. legem primus de pecuniis repetundis, Censorino, et Manilio Coss. Tulit.»

4 Le quattro prime questioni perpetue istituite furono quelle di delitto di maestà (majestatìs), 2, di cabala e d’intrigo, per ottenere qualche magistratura (ambitu), 3, di concussione (repetundarum); quelle di peculato. Silla vi aggiunse quelle «de veneficiis, de sicariis,de falso, et de corrupto judicio, de parricidio: e le leggi Giulie vi aggiunsero quelle che riguardavano le violenze pubbliche e particolari, gli spergiuri e gli adulteri: «Leges Juliae de vi publica, de vi privata, de perjuriis, de adulteriis.»

1( )«De ea re puetoris quaestio esto o pure: «Praetor, qui ex hac lege quseret, facito ut, etc. Ecco come si commetteva la questione.

2 Questa parte della Ròmana Costituzione è oscurissima; ed è necessario d’illustrarla. Bisogna dunque sapere, che prima dell’istituzione delle questioni perpetue, non vi erano che due Pretori in Roma e quattro nelle provincie. i primi due esercitavano la giurisdizione urbana e peregrina nella città, e gli altri nelle provincie. Dopo l’istituzione delle questioni perpetue, i quattro Pretori delle provincie dovevano restare in Roma il primo anno della loro pretura, per esercitare quella questione che la sorte a ciascheduno di loro destinava. Nel secondo anno essi andavano ad esercitare la pretura nella provincia che era della loro pertinenza, sotto il titolo di Propretori, ed in Roma si creavano i nuovi Pretori che dovevano rimpiazzarli. Non si confonda giurisdizione e questione. il Pretore, che aveva la giurisdizione, non aveva altra influenza che negli affari privati. Il Quesitore, o il Pretore incaricato di una questione, aveva la direzione de' giudizii pubblici, o sia di quelli che riguardavano i delitti pubblici. Quando Silla istituì le altre quattro questioni, si aggiunsero quattro altri Pretori che presieder dovevano a questi tribunali. (Veggasi Pomponio nella citata legge 2, § 32, D. De orig. juris.) Ma da che deriva che noi troviamo qualche volta assegnate all’istesso Pretore due questioni diverse, ed alle volte noi troviamo combinata in un’istessa persona una giurisdizione ed una questione? Sotto il consolato di Catulo e di Lepido noi troviamo C. Verre nel tempo istesso Pretoreurbano, e quesitore de' veleni, vale a dire, noi troviamo in un’istessa persona una giurisdizione combinata con una questione; e noi troviamo sotto l’istesso consolato due questioni cadute in sorte alla stessa persona, cioè a M. Fannio. Noi vediamo che Cicerone perorò per due cause di delitti di diversissima natura, l'uno d'ambito, e l'altro de vi pubblica j che appartenevano a due questioni diverse, innanzi all’istesso Pretore CN. Domizio Calvino. (Vedi Cicer., pro Cluent.) Noi troviamo finalmente nell’anno ab. U. C. 987, Publio Cassio Pretore della città e Pretore del tribunale, o sia della questione di Maestà. (Vedi Ascon., Argum., Cornei, p. 124.) Questo si spiega facilmente. Il numero de' Pretori non fu sempre in Roma uguale al numero delle cognizioni. Quando Silla distese ad otto il numero delle Questioni perpetue, vi sarebbero bisognati dieci Pretori: due per esercitare la giurisdizione su' cittadini e su' peregrini nella città, e otto per presiedere alle questioni. Ma il Senato rare volte fece creare più di otto Pretori. Bisognò dunque che alcuno di questi Pretori o avesse due questioni a se assegnate, o una giurisdizione ed una questione nel tempo istesso. Quello che dice Sigonio (De judiciis; lib. Il, cap. IV), che qualche volta una stessa questione era esercitata da due Pretori diversi nel tempo istesso, non mi persuade. Il suo equivoco è derivato dal vedere in alcuni casi due delitti, dell’istessa classe, portati innanzi a due Pretori diversi. Ma questo non dee recar meraviglia, quando si riflette che la distribuzione de delitti era tale che poteva facilmente equivocarsi nella competenza del tribunale. Le circostanze che avevano accompagnato il delitto potevano mutarne la natura. Il sicario, per esempio, poteva essere accusato come parricida (cioè omicida, ché suonava in Roma l’istesso), ed il parricida come sicario. Celio, accusato di aver tentato di avvelenar Clodia, non fu accusato al tribunale de veneficiis s ma il suo accusatore ne fece un delitto di Stato, e presentò la sua accusa innanzi al tribunale che giudicava della violenza pubblica (de vi publica Lege Luctatia): Cic. orat, pro Coelio, cap. I.) Riguardo poi al Giudice della questione, è fuor di dubbio che questo Magistrato, non altrimenti che il Quesitores o sia Pretore, si mutava in ogni anno. Egli faceva le veci del Pretore quando questi non poteva assistere al giudizio. Le sue funzioni ordinarie erano, riguardo ad alcuni oggetti, presso a poco simili a quelle del giudice, che noi chiamiamo commissario; ma né il Pretore, né il Giudice della questione avevano voto nel giudizio. Vedi Sigonio, De judiciis, lib. II, cap. V, e Tomasio, Dissertat. De orig. Proces. Inquisit.

1Ho detto dal Pretore urbano o dal Peregrino, perché noi troviamo dei monumenti che ci mostrano questa scelta ora fatta dal primo. ora dal secondo. Nella Legge Cornelia si trova: «Pnetores Urbani, qui juratos opti mum quemque in selectos judices referre debent, etc.»; e nella Legge Servilia Glaucia si trova: «Praetor qui jus dicet inter peregrinos CDL, viros legat etc.» Circa la condizione di questi giudici vi furono delle continue mutazioni. Questa è una delle prove della fluttuante ed incostantissima costituzione di Roma. Nel principio dovevano essere scelti dall'ordine Senatorio; quindi dall’ordine Equestre, Lege Sempronia C. Gracchi; quindi dal Senatorio e dall’Equestre, Lege Servilia Ccepionis; quindi dall’Equestre soltanto, l. ege Servilia Glauciae; quindi un’altra volta dal Senatorio, Lege Livia Drusi; quindi dai tre ordini Senatorio, Equestre e Plebeo, Lege Plautia Silvani. Sotto Silla ci fu un’altra innovazione molto nota, dopo di lui un’altra, e sotto Cesare finalmente fu stabilito che si prendessero dall’ordine Senatorio ed Equestre nel tempo istesso. La loro età, per uno stabilimento della citata Legge Servilia, non poteva essere né meno di 30, né più di 60 anni. Alcune leggi posteriori la ridussero a 35, ed Augusto la ridusse di nuovo a 30. Vedi Svetonio in Vita Augusti.

2 Siccome le leggi, che regolavano questi diversi tribunali, erano anche esse diversissime, così diverso era ancora il numero de' giudici che dovevano in ogni tribunale giudicare. Noi troviamo in Cicerone, Orat. pro Clueutio, cap. 27, un giudizio fatto da trentadue giudici; noi ne troviamo un altro di settantacinque, Orat. in Pisouem, cap. 40. La Legge Servilia. come osserveremo da qui a poco, né ordinava cinquanta per le accuse di concussione. Nel giudizio di Milone noi troviamo cinquantuno giudici. Vedi Asconio, Arg. Miloti.

1 Leggasi il luogo di Asconio presso Sigonio, De judiciis, lib. II, cap. XII.

2Cicerone, pro Murena, cap. 23; pro Piando, cap. 15 e 17. Ne’delitti di concussione la Legge Servilia Glauda stabiliva che l’accusatore nominasse 100 giudici di quegl’inseriti nel ruolo del Pretore, e che da questi 100 l’accusato ne scegliesse 50 che dovevano giudicare. «Praetor (sono le parole della legge) ad quem nomen delatum erit, facito, ut is che vicesimo ex eo die, quo cujusque quìsque nomen detulerit, centumviros ex eis, qui ex hac lege quadringenti quinquaginta viri in eum anuum lectì erunt, legat, edatve. Quos is centumviros ex hac lege ediderit, de eis ita facito, juret palam apud se coram, se eos scientem dolo malo non legisse. Ubi is ita Centumviros ediderit, juraritque, tum eis facito, ut is unde petetur, che vicesimo, postquam nomen ejus delatum erit, quos centum is, qui petet, ex hac lege ediderit, de eis judices quinquaginta legat, edatve.» Queste due ultime maniere di scegliere i giudici, che dicevansi per editionem, non erano usitate che in alcuni casi particolari. Il metodo universale era quello che si faceva per la sorte, che si è esposto. Tanto poi nell'uno, quanto nell'altro si vede per altro benissimo, quanto i Legislatori di Roma favorirono la ripulsa de giudici.

1Licer., Orai, pro Clueutio. Veggasi più di ogni altro Cujacio, Observationes, etc. lib. 9, cap!23.

2Per questo motivo appunto dietro il luogo dove sedeva il Pretore, vi erano sempre de' Giureconsulti, che somministravano al Pretore i principii della Giurisprudenza, giacche i Pretori ordinariamente non erano Giureconsulti, ma questi Giureconsulti non proferivano il loro sentimento se non interrogati dal Pretore.

3 Sigonio: De Judiciis, lib. Il, cap. V, e Noodt: De Jurisd. et Imperio, lib. II, cap 5.

4 Le lettere iniziali, come si sa, erano A, absolvo; C, condemno; o pure NL, noti liquet, ch’era quando il giudice non aveva sufficienti ragioni per assolvere, né per condannare il reo. I giudici non gittavano nell'urna i bollettini, dove erano scritte queste lettere se non dopo di avere inteso tutto ciò che dall'una parte e dall’altra doveva dirsi, ed allorché colui ch’era stato l’ultimo a parlare avea proferita la parola dixi. Ma prima di gittare nell'urna il bullettino, essi si abboccavano tra loro per deliberare sulla sentenza, e questo dicevasi ire in consilium. Vedi Asconio, p. 65 e 178; Val. Massimo, lib. VIII, cap. I, n. 6. Il Pretore, dopo aver raccolti i bullettini, pronunciava formalmente la sentenza a tenor della pluralità de' suffragi, che trovava espressi nell'urna.

1Questo piccolo inconveniente, pare che fosse anche riparato in parte dalla libertà, che aveva in alcuni casi il reo, di scegliere di esser giudicato con suffragi segreti o palesi. «Cum in consilium iri oportebat (dice Cicerone) quae sivit ab eo reo C. Junius Quaésitor, clam, an palam de se sententiam ferri» vellct; de Oppianici sententia responsum est, clam velie ferri. «Cic., pro Chientio.

2«Tum primum et campo comitia ad patres translata sunt: nam ad eam diem, etsi potissima arbitrio Principis, quaedam tamen studiis tribuum fiebant. Tacit., j4un., lib. I. Questo avvenne sotto l’impero di Tiberio.

3I delitti di Maestà in pruno capo, detti di Perduellione, furono giudicati dal popolo ne' comizii Centuriati, anche dopo l’istituzione delle Perpetue questioni. Veggasi Cicerone, In Kerr., lib. I, cap. 5. Oltre di questi delitti ve ne erano degli altri, i quali, non essendo compresi nelle Perpetue questioni, venivano straordinariamente o giudicati dall'istesso popolo, o commessi ad un Quesitore creato dal popolo per quella tale occasione. Noi abbiamo molti esempi di questi straordinari giudizii. Veggasi Cicerone, De Jtnib. bon. et mal., lib. II, dove parla del giudizio di L. Tubolo; l’istesso, in Bruto, dove parla dell’omicidio fatto nella Selva Scanzia, dell’incesto delle Vestali e dei partigiani di Giugurta. Veggasi anche Asconio, Argurn. Milon., p. 100, dove parla della commissione data dal popolo a L. Domizio per conoscere dell’omicidio fatto da Milone nella via Appia. Livio e Dionisio di Alicarnasso ci offrono anche molti altri esempi di questi straordinari giudizii. Tutti questi delitti sarebbero stati giudicati dal Senato, se fossero stati commessi dopo il fatale cangiamento, del quale si è parlato.

4 Dal decreto del Pretore poteva sempre appellarsi a' Comizi o Centuriati, se era di morte, o Tributi, se era di pena pecuniaria. Questo avveniva rare volte, perché rare volte il popolo annullava ciò che aveva stabilito il tribunale. Ma queste appellazioni divennero frequenti quando i dritti de' comizi furono trasferiti al Senato.

1 Ne’ tempi posteriori la cognizione de' delitti fu rimessa a' Magistrati dall'arbitrio dell'Imperatore creati, e che esercitavano la giurisdizione da lui delegata. Il Prefetto della città subentrò nella più gran parte delle funzioni de' Pretori, o sia Quesitori, ne' delitti commessi nella città e nell'Italia intra centesimum lapidem. Vedi Ulpiano in L. 1, D. De ojpc. prof. urb.

2La poca chiarezza, colla quale sta esposto questo sistema dagli scrittori nazionali, mi ha indotto a svilupparlo. Essi parlano agl'Inglesi, i quali conoscono il loro sistema, e questo è il motivo pel quale ciò ch'essi dicono non basterebbe ad uno straniero, per conoscere. chiaramente questa parte della Britannica legislazione. Io non ho dovuto travagliar poco per venirne in chiaro.

1Questo magistrato inferiore chiamasi Giustizia o Giudice di pace. In ogni Contea ve n’è un sufficiente numero. Il loro uffizio è di ricevere l'accusa, di costatare l’esistenza del delitto, che i criminalisti dicono il corpo o sia l’ingenere del delitto; di fare arrestare l’accusato per interrogarlo, e trascrivere le sue risposte; e finalmente di assicurarsi della sua persona ritenendolo nelle carceri fino alla prossima sessione, se il delitto è capitale, o non essendo capitale, ricever la cauzione stabilita dalla legge, colla quale si obbliga a comparire in giudizio allorché sarà chiamato. Veggasi Blackstone, Commentario sulle leggi d’Inghilterra, t. II, cap. I, e sul Codice criminale, cap. XVI, art. I, e cap. XXII, e cap. XXVII.

2Blackstone, Commentario sulle leggi d'Inghilterra, tom. II, cap. I.

3Questi gran Giurati terminano il loro ministero col finire della sessione per la quale sono stati destinati. Essi si rinnovano in ogni tre mesi. Delolme, Costituzione d’Inghilterra, cap. X; Blackstone, Codice criminale d’Inghilterra, cap. XXIII. Si avverta che lo Sheriff istesso si muta in ciascheduna contea in ogni anno.

1 È questa l'espressione inglese. Fino al momento, nel quale i gran Giurati non hanno ancora approvata l’accusa, questa non ha alcun valore. Veggasi Blackstone, Commentarti sul Codice criminale d’Inghilterra, cap. XXIV.

2 Questi giudici sono i Giudici di pace, allorché 1 accusa si propone nelle Corti delle quattro sessioni generali di pace; o i giudici d’oer, et terminer, allorché l'accusa è portata innanzi alle Corti che si tengono due volle l'anno in ciascheduna Contea meridionale, una volta l’anno nelle quattro Contee settentrionali, e otto volte l’anno in Londra ed in Midlesex, per evacuar le prigioni e per decidere delle capitali accuse. Stabilimento prezioso, che, unito all'habeas corpus, assicura la libertà personale del cittadino che si trova nei legami della giustizia, e non gli fa temere la dimenticanza alla quale sono cosi facilmente esposti coloro che trovansi nelle carceri degli altri paesi. Della maniera istessa se l'accusa è portata innanzi al tribunale del Banco del Re, o a qualunque altro tribunale che conosce degli affari criminali, i giudici ordinarii di questi tribunali sono quelli che istruiscono i piccoli giurati in quel che riguarda il diritto, e che adattano la determinazione della legge al fatto da essi indipendentemente giudicato. Per sapere quali sono le accuse che si portano in ciascheduna di queste diverse Corti, leggasi Blackstone, Codice criminale, cap. XIX e cap. XXVII.

3Qualche volta avviene che lo Sheriff dee, per un solo fatto particolare, mandare la lista de' giurati della sua contea, e questo avviene allorché l’accusa non è portata innanzi alle Corti che si tengono nelle regolari sessioni: come sarebbe, quando si porta innanzi alla Corte suprema del Banco del Re. Vedi Blackstone, Codice criminale, cap. XIX, § 3, e cap. XXVII.

4 «Nullus liber homo capiatur, vel imprisonetur, aut exulet, aut aliquo alio modo destruatur, nisi per legale judicium parium suorum.» Questo è un articolo della Gran Carta. Vedi lo Stat. 9 di Arrigo III, cap. 9. Se l’accusato é un Lord temporale, l’accusa si decide da tutta la Camera alla, ma non con l’unanimità de' suffragi. La pluralità è allora quella che decide. Se é un forestiero, la metà de' giurati dev'essere straniera, Jury de meditiate lingua, purché il delitto non sia di cospirazione contro del re.

1 Liberos et legales homines de vicinato.

2 Si avverta che per le accuse che si propongono nelle regolari sessioni delle diverse Contee (tanto nelle Corti dette dì pace, quanto in quelle che si tengono innanzi a' Giudici detti d'oyer et terminer, per evacuare le carceri), lo Sheriff non nomina 42 giurati per ogni altare, ma ne nomina 48 per tutte le accuse che si debbono giudicare in quella sessione, l’una dopo l’altra, e da questi 48 si debbono in ogni giudizio scegliere i 12 Giurati, purché il numero delle ripulse non esaurisca l’albo; ed in questo caso si sostituiscono con un Writ del giudice Ì giurati che mancano per compire il numero de' XII. Delolme, Costituzione d’ Inghilterra, cap. X.

3In questo caso il Giudice di pace fa le veci dello Sheriff, e fa un nuovo panuet, o sia un nuovo albo di giurati.

4 Il celebre giureconsulto Coke divide in quattro classi queste ripulse: per Cause, cioè, propter honoris respectum, che ha luogo quando il giurato non è pari del reo; propter delictum, quando un giurato fosse stato condannato in qualche criminale giudizio; propter defectum, quando il giurato fosse uno straniero, o non avesse un fondo di terra della rendita prescritta dalla legge; propter affectum, quando si può provare che il giurato potesse avere qualche interesse nel condannare l'accusato.

5 Quest'ultima ripulsa dicesi perentoria.

1 Stat. 7 di Guglielmo III, c. 3, e Stat. 7 di Ann.,c. 21. Quest’ultimo atto non dee prender forza che dopo la morte dell'ultimo pretendente.

1 Se le ripulse hanno esaurito il pannet ossia l’albo dello Sheriff allora egli nomina i nuovi giurati che mancano al pieno numero de' 12.

2Anticamente non si ammettevano i testimoni prodotti dal reo ne' delitti capitali. In Francia sussiste ancora questo abuso. (Montesq., lib. 59, cap IL) Ma gl'Inglesi han saputo correggere questa ingiustizia dell’antico metodo. Non solo si ammettono i testimoni prodotti dal reo, ma si ammettono con giuramento. Il celebre Eduardo Coke fu quegli che scosse la nazione su quest'articolo della criminale procedura. Un bill'della Camera de' comuni insistè con vigore contro questo abuso a fronte delle ripugnanze della Camera alta e del Re. Finalmente lo Stat. VII di Guglielmo III, cap. 8, e lo Stat. 2 di Anna, cap. 9, stabilirono che i testimoni dell'accusato si ammettessero a prestar il giuramento, non altrimenti che i testimoni dell’accusatore, affinché i Giurati potessero ugualmente deferire alle testimonianze degli uni come degli altri.

3Purché il giudice non lo permetta loro. Quando non vi cade dubbio alcuno sul giudizio, essi non si ritirano, ma danno alla presenza istessa de' giudici il loro giudizio.

1Se dodici de' gran Giurati non credono ammissibile l’accusa, e se dodici piccoli giurati non la credono vera, l’accusato non può esser condannato. All’incontro basta o che dodici de' gran Giurati non l’ammettano, o che, ammettendola essi, sia dichiarata falsa da' dodici piccoli giurati per esser assoluto.

2Il giudizio de' dodici Giurati dev’essere unanime.

1 «Io prego colui che legge di non dare un’applicazione troppo generale ad alcune espressioni, che si troveranno in questo capo, relative così a' Feudatarii come a Magistrati. Nell’uno e nell’altro corpo vi è una quantità d’individui che esercita colla maggiore esattezza ed equità quelle prerogative, delle quali è per gli altri così facile, così frequente e così inevitabile l’abuso. Nell'uno e nel altro corpo io conosco degli uomini che uniscono, a tutte le virtù del cuore, que’ talenti e que’ lumi che sono necessari per conoscere i vizii di quel sistema, del quale i loro colleghi sono i feroci difensori. Io conosco molti feudatarii che fan voti per l'abolizione della loro giurisdizione; ne conosco degli altri che la difendono di buona fede, perché non ne hanno giammai abusato. La beneficenza di alcuni virtuosi individui di questo pernicioso corpo si è mostrata più di ogni altro nell'occasione dell'ultimo disastro, che ha rovinata una delle provincie più belle del Regno, lo non ho voluto trascurare di rendere questo dovuto omaggio alla virtù ed alla verità. Non voglio neppur trascurare di dire, che nello stato presente delle cose, nella mia patria l'abolizione della feudale giurisdizione, quando non fosse seguita dal nuovo piano di ripartizione delle giudiziarie funzioni che io proporrò, sarebbe inutile e forse anche perniciosa. 1 nostri Tribunali di provincia sono foggiati sopra un piano così difettoso, che l’ingrandimento del loro potere e della immediata loro influenza sarebbe il peggiore de' mali. Quando si tratta di correggere un abuso, non bisogna mai sostituirgliene uno peggiore.

1 Quando non vi fosse querela delle parli, il governatore, ossia il giudice del feudo, è colui che da se cerca di venire in cognizione del reo.

2 Non vi è forse un Barone solo tra noi che paghi il giudice, o sia il governatore del suo feudo. Per eludere la determinazione della legge, il Barone, prima di consegnare al governatore le lettere patenti, gli fa sottoscrivere una simulala ricevuta di tutto il salario che sarebbe nel diritto di ripetere.

1 Veggasi ciò che si è detto da noi su quest’oggetto nel capo VII, del II libro di quest'opera.

1 «La conquista (dice Locke) è così poco l'origine ed il fondamento degli Stati, quanto la demolizione di una casa è la. vera causa della costruzione di un’altra.»

1 Lib. II, delle Leggi politiche ed economiche, cap. XII.

2 Lib. II, delle Leggi politiche ed economiche, cap. XX.

1Io prego il lettore di rileggere ci che si detto di questo Magistrato accusatore nel cap. V di questo libro.

2Vedi il capo Ili di questo libro.

3Nel capo IV di questo libro a pag. 32, n. 2, si indicato il motivo di questa disposizione.

4Quando il privato accusatore che si presenta in giudizio, non avesse i requisiti che la legge richiede, dovrebbe in suo luogo subentrare il Magistrato accusatore. Veggasi ci che si detto su quest'oggetto nei citati cap. IV e V.

5Vedi r istesso cap. IV a pag. 29-30, e il cap. II a pag. 15.

6Cap, VII di questo libro.

1 Io lascio indeterminato questo valore, perche siccome io non scrivo per un solo paese, ma le mie vedute sono generali, cosi bisognerebbe esaminare lo stato delle ricchezze di ciaschedun popolo, per poterlo fissare. Si sa a che ascende questo valore in Inghilterra.

1 La differenza tra quel che propongo ed il sistema inglese, è che in Inghilterra quest'albo che si chiama Pannel si rinnova in ogni tre mesi, cioè nel tempo delle ordinane sessioni, ed io, ad esempio de' Romani, credo che basterebbe che si rinnovasse ogni anno dal Preside, nel principio della sua magistratura.

1 In Inghilterra a' motivi qui sopra accennati, se ne aggiunge un altro, e questo è della disuguaglianza della condizione, giacche, come si è detto, i Giurati debbono essere pari dei reo. Un Lord non può esser giudice di' un cittadino, che non potrebbe aver sede nella Camera de Pari, e viceversa questi non potrebbe esser giudice di un Lord. Ma siccome nelle altre costituzioni monarchiche, quando la feudalità fosse abolita, la distinzione di nobiltà e di popolo sarebbe una distinzione di onore, ma non d’Impero; così sarebbe inutile di adottare questa specie di eccezione, come inutile sarebbe lo stabilire che i giudici del fatto fossero dell'istessa condizione del reo.

1 Io prego il lettore di riscontrare il capo XIV e XV di questo libro, altrimenti ciò che io qui accenno gli sembrerà oscuro.

1 Nel capo IX di questo libro.

1 Esse però si convertono nel più duro de' tormenti, sg si tarda molto l’esecuzione. Queste morali scosse s’indeboliscono a misura che si prolunga il tempo, e gli orrori della morte subentrano allora nel luogo di queste consolanti idee. Noi l’esamineremo da qui a poco.

2 Io ho qui corretto un difetto della legislazione inglese su questo articolo. Vi sono de' casi ne quali lo Sheriff nomina ciò che chiamasi uno speciale Giurato, cioè un albo di 48 giurati per la decisione di quella particolare accusa. Or questa circostanza può divenir funesta in alcuni casi; come 1 è divenuta più volte in Inghilterra. In quelle cause particolarmente nelle quali è interessato il Governo, lo Sheriff può formare un albo di persone tutte addette alla Corte, ed in questo caso con tutte le ripulse permesse dalla legge, non lascerebbe l’accusato di esser giudicato da giudici prevenuti. Or questo non può avvenire quando, secondo il nostro piano, l'albo che il Preside ha pubblicato nel principio istesso della sua carica, è quello dal quale si debbono, anche negli straordinarj giudizj, estrarre i giudici che decider debbono del fatto. Un nuovo albo non si dee formare per un particolare giudizio, che nel solo caso, che da noi si è esposto nell’articolo IX, cioè quando l’accusato può, sopra motivi legali, dichiarar sospetto il Preside, che l’ha formato.

1 Veggansi le seguenti leggi, L. levi a 9. D. de accusai. L. unius 18. D. de Quaest. L. neu quiquam 9. § de plana D. de off. procons. Riguardo agl'Inglesi leggasi Blakstone, Codice criminale iT Inghilterra, cap. XX, dove parla della procedura sommaria. E per quel che si fa in Ginevra, leggasi l’opera, che ba per titolo: Elementi della procedura criminale di Francia, di Savoia e di Ginevra, Cap. II.

1 Questi sono i delitti che i Forensi chiamano facti permanentis. Vedi nel cap. XV, il canone ultimo.

1 Diodoro, lib. I, pag. 86, 87.

2 V. Anc. Relat. des Indes et de la Chine, pag. 194, 203. Rec. Voyag. Holland. T. I, 351, 552.

3 Ubbon. Emen. descript. Reip. Lac. in Thesaur. Gresvii. T. IV.

4 Sest. Empir. adv. Rhet., lib. 2, pag. 304.

5 Mhde prsimiazesqai, mhd exw pragmatoj legein. Neque praefantor, neque affectus movente, neque extra rem dicunto. Pollux, lib. VIII, cap. X. Arist. Rhet. lib. I, c. I inìt.

6 Arist., loc. cit., Quintil., Inst., lib. VI, cap. I.

1 «Qui judicaturi sunt, dic’egli, nullo modo litigantes permittant aut jurare persuadendi caussa, aut sibi generique suo imprecari, aut turpiter supplicare, aut commiseratione muliebriter uti; sed quod iustum putant, mansuete doceant, et docentem audiant. Quod si ab his aberrat, ad rem a magistrato reducatur. Plat. De Legib. Diaìog. XII.»

2 Cicerone loda l’espediente, che ritrovò l'Oratore Marco Antonio, avo del Triumviro, per liberare dalla meritata pena Manlio Aquilio già convinto di concussione. Egli lacerò tutto ad un tratto la sua tunica, e mostrò al popolo le ferite, che ricoprivano il suo petto. Cic. in Brut., cap. 62 e in Kerr. lib. V. c. 1.

3 «Cum a Libone, tribuno plebis, Ser. Galba pro rostris vehementer in creparetur........... reus pro se jam nihil recusans, parvulos liberos suos, et Galli sanguine sibi conjunctum filium, flens commendare coepit: eoque facto mitigata concione, qui omnium consensu periturus erat, pene nullum triste suffragium habuit. Valer. Maxim. lib. VIII cap. 1.»

4 La pioggia sopravvenuta nel tempo che l’assemblea del popolo si era convocata per giudicarlo, fece disciorre la concione, e risolvere che più non si convocasse a quest’oggetto, per non opporsi al volere degli Dei. Cicer. I, De Divinai, e II, De Natura Deorum.

5 Lib. VIII, cap. I.

1 Veggasi Sigonio, DeJudiciis, lib. Il, cap. XIX, de Laudatione, e Polleto, Historia Fori Rom, lib. Il cap. IV. § Laudatores et Deprecatores, e veggasi più di ogni altro quel luogo di Asconio in Orat. pro Scauro, che comincia: Laudaverunt Scaurum consulares novem etc. dove si potrò vedere una dipintura esatta dell'eccesso, al quale era giunto in Roma quest'abuso. E veggasi anche ciò che l’istesso ci dice su quest’oggetto nella Corneliana.

2Questo dovrebbe aver luogo nel caso che l’accusa si producesse nel tempo istesso della sessione, o si dovesse discutere in una sessione straordinaria, perché in qualunque altro caso vi sarebbe sempre quest'intervallo tra l'accusa ed il giudizio; giacché, secondo il proposto piano, vi sarebbe sempre un intervallo di tre mesi tra una sessione, e l’altra, ciocche farebbe, che l’accusa non potrebbe mai esser meno di dieci giorni anteriore al giudizio.

1Niente di più facile ad avvenire, che la difesa di un reo dipenda dalla testimonianza d'un assente. Io questo caso il reo, a spese sue, lo farebbe presentare in giudizio, o il Preside lo farebbe interrogare dal giudice di quel paese, ove egli si ritrova. Quest'operazione ha bisogno di tempo. Vi sono anche altre cause, per le quali è necessario posporre il giudizio. Io non le rapporto, ma mi contento di rimettere il lettore alle seguenti leggi Romane, dove son tutte comprese L. 1 e 2. C. de dilationib. L. quaesitum 60. D. De re judicata. L. 36 et L. 45. D. De jud. L. 23. § ult. D. ex quib. caus. maj. Veggasi anche ciò che dice Cicerone in Verrem, lib. I, c. 9 et ibi Ascon.

2 Pollati Historia Fori Romani, lib. IV, cap. XII, XIII.

1 Cap. XV, can. 12 e la nota che l’illustra.

*Si avverta che, seguendo l’edizione originale, dalla pag. 42 alla 181 si stamparono come varie parti del Libro terzo, quelle che non sono altro che suddivisioni della parte prima del libro medesimo. Dalla pag. 181 e segg. è fatta la rettificazione. (Gli edit.)

1 Veggasi ciò che si è detto nel capo XIII sulla certezza.

1Cap. XVI.

1Veggasi il citato cap. XIV., dove si troveranno i motivi di questa disposizione.

2 Bisognerebbe restituirgli la sua libertà personale, perché non è giusto dare una pena certa per un delitto incerto. Bisognerebbe lasciarlo sospeso dalle prerogative della cittadinanza, perché un uomo ch'è sub judice per un delitto, finché non abbia dimostrata la sua innocenza, non merita la pubblica confidenza. Questo si praticava anche in Roma.

3 Veggasi il capo XIII.

1 Vedi il cap. XIX.

2 Vedi il cap. XVI.

1 Veggasi il capo II e III di questo libro.

1 Vedi Sigonio, De judiciis, lib. Il cap. XXV. Nat. Com. ad lib. Pjg. XLVIII. Tit. XVII. cap. 3.

2 L. 1. C. De calumniatoribus L. inter 10. D. De pubi. jud. L. 1. D. ad SC. Turpilianum. Veggasi anche il 12 capo di questo libro.

3 Vedi il capo XVI di questo libro.

4 Vedi il cap. Il e III di questo libro.

5 Si dovrebbe dare al nuovo reo l’istesso dritto alle ripulse de giudici del fatto, 1 istesso adito alle difese, ed, in una parola, gl'istessi soccorsi che la legge darebbe, secondo il nostro piano, al reo di qualunque altro delitto.

1Purché s’incontrino in lui i requisiti stabiliti dalla legge.

2Veggasi il capo IV e I di questo libro.

3 Cic. in par tit ioni bus. Plin., lib. Ili epistolarum. Sig., De Judiciis, lib. Il, cap. XXV. Marcianus L I. D. ad S. C. Turpìllianum. Veggasi anche ciò che si è detto nel secondo capo di questo libro.

4V ed. Rescrip. divi Severi et Heliogabali apud Jul. Paul, in L. 6. D. De praevaric.

1Per non trascurare cosa alcuna in questo piano, voglio avvertire che, quando la sentenza che sospende il giudizio, riguardasse un delitto, la pena del quale o fosse pecuniaria, o portasse seco confìscazione de' beni; allora il giudice del dritto dovrebbe dichiarar nulla qualunque alienazione che il reo far potrebbe, o di quella parte delle sue sostanze che abbraccerebbe la pena pecuniaria, o di tutte, quando si trattasse dell'intera confìscazione de' beni, fino al tempo, che il reo ottenuta non avesse una sentenza assolutoria. Il motivo di questa disposizione è troppo chiaro, per non obbligarmi ad indicarlo.

1 Nel capo XIX art. XIV.

2 «Et poena ad paucos, metus ad omnes perveniat.» Cic.

1Morsquae minus paenae, quam mora mortis habet. Ovid. Heroid. Ep. I, 10, v. 82. Seneca nel suo Agamennone fa domandare da uno de suoi interlocutori: Mortem aliquid ultra est? e fa rispondere dall’altro: Vita, si cupias mori. Act. v. scen. ult., vers. 147.

2La legge Attica, che conteneva una simile disposizione, è la seguente: Demosia mhdena apoktinnunai prin an wij Dhlon afkhtai to ploion, kai palin deuro. Deliorum festos dies, dum Deliun itur, ac reditur, damnatorum suppliciis ne funestato. Plat. in Phaedone.

3 In Inghilterra quando il ladro è condannato alla morte, gli si palesa subito la sentenza, ma se ne pospone 1 esecuzione da una sessione all'altra. Si fa, vale a dire, languire in quest’agonia il reo almeno per 6 settimane. In questa guisa, dice un celebre scrittore, dopo esserglisi tolta la speranza, gli si lascia la vita, come se si desiderasse di fargli maggiormente sentirete angosce della morte, che ha continuamente innanzi agli oc;hi, in un così lungo intervallo. Pare, in fatti, che la legge si compiaccia di questa tortura dello spirito molto più tormentosa di quella del corpo, che ha abrogata; essa non abbandona la sua vittima alla morte fisica, se non dopo aver lasciato al più terribile de' carnefici, all'immaginazione, la cura di lacerargli il cuore a brani a brani, e di esaurire, per tormentarlo, tutto quello che l’idea di una morte inevitabile, e della quale è stabilito il momento, ha di più orribile.

I legislatori di Roma non caddero nell'istessa crudeltà. Essi conobbero il vantaggio della pronta esecuzione della sentenza. Nella L. 5. C. De custod. reor. noi troviamo la voce statini adoperata per indicare questa prontezza di esecuzione. È vero che nella L. is vindicari 20. C. de pan. si trova prescritta la dilazione di 30 giorni, per l’esecuzione della sentenza; ma il celebre Cujacio (in obser. Libris) ci fa vedere che questa era un’eccezione alla regola generale, che non aveva luogo, se non in que’ casi, ne' quali il Principe aveva prescritta una maggiore e particolare severità di pena. La L. cimi reis 18. C. de pan. conferma l’opinione di Cujacio.

1 «Quid tam inauditum, quam nocturnum supplicium cum latrocinium tenebris abscondi soleat; animadversiones, quo notiores sunt, plus ad exemplum, emendationemque sufficiunt.» Seneca, III. De ira.

1Veggasi il primo Capo del primo Libro.

1 Nella Democrazia.

2 Nella Monarchia.

3 Per gli Ottimati in un’Aristocrazia.

4 Per la plebe nell'istesso governo.

5 Io non rapporto qui questi esempi, che per facilitare l’intelligenza de' principii Allorché verremo all’applicazione di essi, si vedrà quanto sieno fecondi in risultati.

6 Spero che il lettore troverà nel decorso di questo libro sviluppata fino all’evidenza questa materia, che dagli altri è stata trascurata.

1 Veggasi ciò, che dice Platone, relativamente a quest’oggetto, nell’esordio al nono Dialogo De Legib.

1Io non ho fatto qui, che accennare le mie idee. Queste saranno sviluppate da qui a poco, quando, parlando della pena di morte, dimostrerò il dritto che ha il Sovrano d’infliggerla.

2Noi faremo vedere nel decorso di questo libro, che finché la vendetta è l'oggetto della pena, la società è nello stato di barbarie. Nel Cap. 36 si troverà molto illustrata questa verità.

3 Nemo prudens punii, dice Platone, quia peccatum est, sed ne peccetur. Vedi Plat, in Protagora; Vedi pure Aristot., Politic. hb. 7, cap. d3, cc. Obbes, De Civ, cap. 3, § II.

4 «In vindicandis injuriis, dice Seneca, brectria lei secuta est, qure princeps quoque sequi debet, ut eum quem punii emendet, aut ut poena ejus ceteros meliores reddat, aut ut sublatis malis securiores ceteri vivant»

1 «Sic igitur leges civitatibus conscribantur, ut patris, rastrisque personam lator legum penitus gerat: scriptaque caritatis, prudentiaeque virtutem habeant potius, quam domini, tyrannique imperium minitantis tantum, et describentis, rationem vero nullam penitus assignantis.» Plat., De Legib. Dial. 9.

1 Delitti e pene, § 28.

2 Lib. VIII. Cap. 3, § 1.

1 Leggasi il Cap. 5 del Contratto sociale. L'Autore non fa che modificare la minore del sillogismo, lo non rapporto il suo ragionamento, perché è troppo noto.

1 Nel suo secondo trattato sul Governo Civile, cap. 2, § 7.

2 Senza ammettersi l'esistenza di questo comune dritto di punire nello stato naturale, io non so come si potrebbe mai giustificare il diritto della confederazione di due o più nazioni, per far rispettare i loro diritti, e per punire quella nazione che ardirebbe di violarli. Le Nazioni sono fra loro nello stato di Natura, come lo erano gli uomini prima della formazione delle società civili. Or niuno ha negato che tutte le nazioni hanno il diritto di unirsi, e di muover la guerra a quella Nazione, che ha violato il diritto delle genti contro qualcheduna di esse. Non è la sola nazione offesa che ha questo diritto, ma tutte le altre possono a lei unirsi per vendicarla; giacche ciascheduna nazione è custode e vindice delle leggi dipendenti dal diritto delle genti. Se si concede questo dritto alle nazioni, bisogna concederlo agli uomini nello stato naturale, e se si nega agli uomini, si dee negare alle nazioni.

3 Odden gar h fusij poiei toiouton aion calkostupoi thn delfiken mscsirsn penixrioj all'en proj en. «La natura molto diversa da quegli artefici, che per povertà lavorano tutto col coltello delico, non si serve d'un mezzo, che per Un solo fine. Arist, De Re pub., lib. I.

1Genesi, IV. 14.

2 Se essa mi obbliga a far rispettare i miei e gli altrui diritti, essa mi dee dare il diritto di far uso de' mezzi necessari per ottenere questo fine; e tra questi mezzi il principale sono le pene. Veggasi Wolfio nel Jus natura, p. 1, cap. 3, § 1058, 4059. Egli dimostra evidentemente questa verità, facendo derivare da tale obbligazione il diritto di punire. Forse questi stessi principi han fatto dire al Malebranche che l’inflizione delle pene è piuttosto un dovere del Principato, che un dritto.

1 Nel Capo 36.

2 Questa nota è destinata a prevenire un’obiezione, che qualche Juspubblicista pedante potrebbe fare su quel che si è detto circa il dritto di punire, che ha l’uomo nello stato naturale. La pena, dicono i Juspubblicisti, e un atto di autorità di un superiore verso un inferiore; ma 1 eguale non può avere impero sull’eguale: par iti parerti non habet imperium: nello stato naturale, dunque, tutti gli uomini essendo eguali, non vi può esser tra loro chi abbia il dritto di punire. Per rispondere a quest'obiezione, io potrei negare la maggiore del sillogismo. Potrei dire che questa circostanza di superiorità, che i Juspubblicisti credono necessaria nella persona che infligge la pena, non è adattabile che nella civile posizione degli uomini. Potrei dire con Barbairac (Comentarii al Dritto di Natura e delle Genti., di Puffendorf, lib. VIII, cap. 3, § 4, nota 3), che siccome per una conseguenza necessaria della costituzione delle società civili, le pene non s’infliggono che da un superiore, da ciò è derivato, che gli uomini si sono avvezzati a credere questa circostanza come essenziale alle pene, ed a porla di fallo, senza dimostrarlo, come se fosse una nozione comune, che portasse la sua pruova con se. Ma lasciamo ai Juspubblicisti le loro idee sulle pene, e rispondiamo all’obbiezione, senza negare il principio, dal quale è dedotta. Che cosa s’intende per uguaglianza naturale, io domando? Questa non può esser altro che l’uguaglianza de' dritti. Gli uomini sono dunque uguali nello stato naturale, perché hanno uguali dritti. Se dunque uno perde un dritto, nel mentre che gli altri lo conservano, colui che lo perde non è più naturalmente uguale a coloro che lo conservano, ma questi sono superiori. Or nello stato naturale colui che attenta al dritto di un altro, perde (coni! si è veduto) nel tempo stesso il dritto corrispondente ch'egli aveva: in questo caso, dunque, egli non è più eguale al resto degli uomini, e per conseguenza tutti gli altri, che non han perduto alcun dritto, sono superiori a lui, e come superiori possono punirlo. Il delitto, dunque, nel tempo stesso che distrugge l'uguaglianza, trasmette il dritto di punire.

1Severitas, quod maximum remedium habet, assiduitate amitlit auctoritatem. Senecc., De Clement. lib. I, cap. 21.

2Gli attentati indiretti sarebbero unaccusa calunniosa, o la testimonianza falsa di un delitto, che porta seco la pena di morte. I venditori di veleno, i delitti de' giudici in materie capitali, sono anche compresi in questo numero.

1Veggasi il Capo dell'oggetto delle pene.

1 Questo costume degl'Indiani ci sembrerà altrettanto più strano, se si rifletta al loro dogma della metempsicosi. Essi credono che l’anima, dopo la dissoluzione del corpo, va ad animare un altro corpo, e che queste trasmigrazioni successive e continue non avranno mai fine. Io non so come con questo sistema abbia potuto stabilirsi, chela sposa debba mescolare le sue ceneri con quelle di uno sposo, dal quale dee rimaner per sempre separata. Ma per un effetto della solita contraddizione dello spirito umano, una sposa che evitasse questo orribile suicidio, sarebbe per sempre infame nell'Indostan, e i suoi figli verrebbero anche a partecipare della sua ignominia. Gli Europei non han dovuto stentar poco per diminuire il numero di questi spettacoli ne' paesi da essi soggiogati. Alcuni Principi Mori ne han fatto un oggetto di contribuzione, col permetterli mediante un considerabile pagamento. Chi 'l crederebbe! Vi sono delle donne indiane che si son vedute occupate a' più penosi lavori per guadagnare la somma, ch'era destinata a comprare il permesso di questo strano suicidio. Se 1 opinione può tanto contro la natura, e la ragione, qual forza non avrebbe quando fosse combinata coll’una, e coll’altra 1 Nel quarto libro di quest’opera noi ci occuperemo di questo grande oggetto, che non osserviamo qui che dall’aspetto che interessa il codice penale.

1Veggasi Diodoro, lib. I, p. 103.

1Vedi Plut. in Minos.

2Vedi Nicolai Graji De Republica Lacedam. lib. III; Tabula IV, Instit. I, 11 et III; Tabula VI, Insiti. X et Tabula VIII, Instit. XI. Apud Cronov. in Thesaur antiqut. Tabula V.

3Polibio, dove parla della Legislazione di Locri, rapporta, tra le altre, una legge di questo legislatore, colla quale, per impedire il lusso delle donne, si stabiliva che le sole prostitute portar potessero ornamenti di oro, e vesti dipinte. Diodoro Siculo la rapporta pi diffusamente. he una donna (diceva la legge), dì condizione libera, tutta volta, che non sia ubbriaca, non possa aver presso di se più di una serva: che non esca di notte fuor di città, quando non lo faccia per andare a ritrovare il suo drudo: ch’ella non si carichi di giojelli, né di stoffe dipinte, purché non professi il mestiere di cortigiana: che nessun uomo porti addosso abiti di drappo Milesio, quando non lo faccia per prostituirsi ad un’infame dissolutezza. Vedi Diodor. Sic., Hist, lib. XII, cap. XX. Una legge simile ebbe anche luogo in Sparta, come si può vedere in Clemente Alessandrino, Padagog., lib. II, cap. X ed in Eliano, Var. Histor., Lib.. XIV, cap. VII.

4 Egli stabilì una pena infamante pe’ calunniatori, ed un’altra per coloro che abbandonassero 1 esercito, o rifiutassero di prender le armi per la difesa della Patria. I primi dovevano condursi per le pubbliche strade coronati di Tamarino, per far conoscere al pubblico fin dove era giunta la loro malvagità; e gli ultimi dovevano rimaner tre giorni esposti nella pubblica piazza, vestiti con abiti da donna. Veggasi Diodoro Siculo, Olimp., 83, an. 3. Queste due leggi basterebbero per far meritare a questo celebre legislatore le Iodi che Aristotile giustamente gli dà nel libro I De Repub., cap. ultimo.

5 Veggasi la Collezione delle Leggi ittiche di Petito, ne' varj titoli, e più di ogni altro nel lib. IV, tit. IX, e nel lib. VIII, lit. Ili, e Pottero, Archaeologia Or ceca, lib. I, cap. XXV, dove parla delle tre specie di Artita, o sia d’ignominia, che prescrivevano le leggi, e dove parla della pena detta Sthlh che consisteva nello scrivere in una colonna il delitto ed il nome del delinquente. Demostene (Orat. in Naeram) rapporta una legge colla quale era proibito al marito di ritenere la moglie adultera, ed a questa di assistere a pubblici sacrifizj.

6 Censoris judicium nihil fere damnato affert, nisi ruborem. Itaque quod omnis ea judicatio versatur tantummodo in nomine, animadversio ista ignominia dicta est. Cicerone, lib. IV, De Rep.

7Vedi Sigon De Judiciis. lib. II, cap. III.

8 L. 3. C. de dignit.

9 L. 4. § ad tempus D. de re milit.

10 L. ne quis 38. C. de decur L. I. P. ad Leg. Jul. de vi priv. L. cum prattor. 42. § Leg., D. de jttd. L. 2. D. de offic. adsessoris.

11 L. 4 et L. 8. D. de accus.

12 L. 3 et L. 21. D. de testib.

13 Per persuadersi dell’abuso, che si fece in Roma dell’infamia, basta leggere nel Digesto il titolo: De iis qui notantur infamia; e nel Codice il titolo: Ex quibus causis infamia irrogatur.

1 Aristotile, De Repub. lib. VI, cap. ultimo.

1 Mi piace di rapportare qui una legge de' Borgognoni, dove si trova osservato questo canone. Per un antico ed universale pregiudizio, l’adulterio è un delitto infamante per la femmina, e non per l'uomo. La legge de' Borgognoni segui l'opinione pubblica nel punire questo delitto. Essa punì con una pena pecuniaria l’uomo, e coll’infamia la donna. — Veggasi nella Collezione di Lindenbrogio, il Codice de' Borgognoni, cap. XLIV.

2 Solone, vedendo che il numero degli infami si era troppo moltiplicato in Atene, fece stabilire che si restituissero nel loro onore tutti quelli ch'erano stati condannati all’infamia prima della sua pretura, a riserba di alcuni che nella legge vengono specificati: osoi atmoi hsan h Solwna arxai, epitimuj einai, plhn osoi.... «Infamia notati quotquot sunt ante Solonis praturam, integra famae restituuntur, praeter quam ii, etc....» — Solonis Lex, ex Plutarcho.

1 Io non parlo in questo Capo dell’uso che si è fatto da popoli barbari di queste pene, quest'oggetto interessante richiamerà da qui a poco le nostre cure. Esaminando il rapporto delle pene co diversi oggetti, che compongono lo stato d’una nazione, noi esamineremo diffusamente i motivi, pe’ quali i popoli barbari non han, per così dire, conosciute altre pene che le pecuniarie, e mostreremo l’opportunità di questo sistema penale col sistema politico de' popoli che sono ancora nello stato di barbarie.

1 Noi troviamo nel Codice de Longobardi una prova di questa verità. 1 Longobardi, conquistata ch’ebbero l’Italia, passarono istantaneamente dalla povertà alla ricchezza. L’antico valore delle pene pecuniarie divenne inefficace ad impedire i delitti. Rotario, loro re, conobbe donde veniva il male, e fu costretto ad accrescere la quantità delle multe; egli le proporzionò alle nuove ricchezze della sua Nazione. (Veggasi il Codice de Longobardi, lib. I, tit. VII, § 15.) Caterina, imperatrice delle Russie, vuole che il valore delle pene pecuniarie si muti in ogni 30 anni (Cod. Ruff., artic. 19, § 443); ma questo non giova che ad evitare l’ultimo de' tre inconvenienti che si sono indicati.

1 Si avverta che io non intendo qui di dire che tutt’i delitti che dipendono dall'avidità del danaro, debbano esser puniti con questa specie di pena; giacche tra questi ve ne sono alcuni che richieggono o una pena maggiore, o altre pene a questa combinate: dico solo che le pene pecuniarie non debbono essere adoperate che per que’ delitti che dipendono dall'avidità del danaro: è questo il principio generale che io ho voluto stabilire.

2 Cap. XIV.

1 La legge dovrebbe, per esempio, stabilire che chi non ha il valore di 400 ducati almeno di beni disponibili, non possa soggiacere a pena pecuniaria; ma che se egli incorrerà in delitti, ne' quali viene stabilita pena pecuniaria, questa debba permutarsi in una pena afflittiva di corpo che la legge dovrebbe anche fissare. Un esempio potrebbe togliere al lettore ogni dubbio, sul modo col quale la legge dovrebbe esprimersi. La pena dello stellionato (dovrebbe essa dire), sia la perdita. della metà delle fortune del reo, e di anni tre di condanna a' lavori pubblici, se il valore delle sue facoltà non ascende a quello già stabilito (cioè al valore di 400 ducati almeno).

1Ton ofdhmo, إmh poλιτευεσθαι. Ærarius Rempublicam ne gerito. ٠ — Libanius, Argumento Androtianae.

2Ton qentageilonta leg, aradidostai tois endekararius orationem ad populum habuisse condictus, ad undecimviros capitales abducitur. Dinarcus in Aristogitonem.

3n ofedemosmecris an anatish, atimon einairarius, donec mulctm irrogatam solverit, ignominiosus esto. Libanius, Argument. Orat, in Aristogit.

4i tij ofeilon pri , idpodidonai oflhma, mh, inai, . Si quis serarius, antequam mulctam solverit, obierit, liberi eam solvunto. Secus si faxint ignominiosi sunto, donec solverint. Ulpianus, Timocrat.

1 Cap. XIX, art. ult. Che si osservi ciò che si è da noi detto su quest'oggetto, e si troverà, che questo sommario giudizio non lascerebbe d avere de' freni bastantemente forti per impedire l’ingiustizia, e l’errore. Tutto ciò ch'è arbitrario, è così alieno dal nostro piano, che noi ci vergogneremmo di tollerarlo, anche quando si trattasse di una pena cosi leggiera, come quella che qui si propone. Io ho sempre innanzi agli occhi ciò che scrisse Cicerone sulla Censura: Primum illud statuamus, utrum, quia Censores subscripserint, ita sit; an quia ita fuerit, illi subscripserint. Videte quid agatis, ne in unumquemque nostrum censoribus in posterum potestatem regiam permittatis; ne subscriptio censoria, non minus calamitatis civibus, quam illa acerbissima proscriptio possit afferre; ne censorium stilum, cujus mucronem multis remediis majores nostri retuderunt, seque post hac, atque illuni dictatorium gladium pertimescamus. — Cic., pro Cluent., 44.

1 Gli Ateniesi, per quel che ci riferisce Platone (De Legib. lib. X), avevano un carcere destinato per pene, diverso da quello che era destinato per custodia dei rei. Essi avevano ancora varie specie di vincoli o di macchine per punire gli abusi della personale libertà, simili a quelle che si usano presso di noi tra' guerrieri, per punire i delitti contro la militare disciplina. Tal'era il EÓov irevrecvotvvov, o sia il ceppo a cinque buche, dove si serravano le mani, i piedi, ed il collo del reo. Tal era il Coinij, o sia ceppo, dove si serravano le gambe, ch'è ancora in uso a' nostri giorni tra soldati. Tal era il Sanij, tale la macchina detta Pausikath, ed altre che negli antichi scrittori trovatisi riferite.

1La Legge Acilia dichiarò in Roma l’ambizioso incapace di qualunque Magistratura. — Dion. Cass., Histor., lib. 36.

1«Exilium, dice Cicerone, (Orat. pro Caecina) non est supplicium, sed perfugium, portusque supplici!; nana qui volunt poenam aliquam subterfugere aut calamitatem, eo solum vertunt, hoc est, locum ac sedem mutant. Itaque nulla in lege nostra reperietur, ut apud ceteras civitates, maleficium ullum exi]io esse muletatum. Sed quum homines vincula, neces, ignominiasque vitant, quae sunt legibus constitutae, confugiunt quasi ad aram in exilium; qui si in civitate legis vim subire vellent, non prius civitatem, quam vitam amitterent.»

1Paulus K) sent. XXVI, § et qui eum.

2 Da questo principio dipendeva anche in Atene la libertà, che aveva il reo di fuggire dopo la prima orazione ch’egli faceva in sua difesa. La legge, in questo esilio volontario, trovava una pena ugualmente forte di quella che subita avrebbe dopo il giudizio. L'esilio volontario veniva allora confermato dalla pubblica autorità, ed il delinquente non poteva più ritornare nella Patria. Questo stabili mento aveva luogo pel cittadino, e non per lo straniero; e questo conferma la nostra riflessione. — Veggasi Demostene, in Aristocrat. e Polluce, lib. VIII.

3 Dopo la perdita della libertà, la Legge Porcia non fu, e vero, manifestamente abrogata, giacche si voleva conservare l’apparenza della perduta libertà; ma se n’eluse la forza per mezzo della servitù della pena. Con questa finzione di dritto, un Cittadino Romano, che aveva commesso un delitto enorme, non si considerava più come cittadino, ma si riguardava come schiavo, e come tale si faceva morire. Paulo, nella legge 6. D. De injust. rapt, irrit. fact. testam. dice: «Si quis fuerit capite damnatus, vel ad bestias, vel ad gladium, vel aliam poenam, quae vitam adimit, testamentum ejus irritum fiet, non lune cum consumptus est, sed quum sententiam passus est: nam servus poena efficitur.» Veggansi anche le L. 3, L. 12, L. 29. D. De poenis. L. ultim. C. De emancipat. liberor., dove si parla della servitù della pena.

1 Si avverta che quando io dico esilio dalla Patria, non dico l’istesso che se dicessi l'esilio da un dato luogo. L’esilio dalla Patria è l’esilio dallo Stato; l’esilio da un dato luogo, è l'esilio da un paese. L’uso che di questo si può fare, è stato esposto nell'antecedente capo.

1Si vegga ciò che sì è detto nell’ultimo Capo del primo libro, dove si sono esposti i principii generali del rapporto delle leggi coll'infanzia, e colla maturità de popoli. Al lettore non dispiacerà che io lo richiami spesso sull’unità delle mie idee, e del sistema di quest'opera.

2 Io scrivo la Scienza della Legislazione per tutti i popoli, e per tutti i tempi. Ricordiamoci della proprietà della scienza, stabilita da Aristotele: Sdentici debet esse de universalibus, et ceternis.

1 Veggasi il primo Capo del primo libro di quest’opera, dove si sono esposti i motivi della sociabilità, e dove io non ho potuto osservare che gli estremi, cioè il passaggio degli uomini dallo stato della naturale indipendenza a quello della dipendenza civile, senza indicare gli spazii intermedi che si sono dovuti percorrere per giungervi. Questa ricerca che sarebbe stata inutile all’oggetto che io mi proponeva in quel Capo, è ora necessaria ed opportuna a quello che qui mi propongo.

2Questi erano i Ciclopi di Omero, quest'era il suo Polifemo al riferir di Fiatone, il quale vede 1 origine delle Dinastie nel governo familiare (Plat., De Legib., lib. II); e questi erano i primi Patriarchi, o sian Padri Principi della Sacra Storia. Sovrani indipendenti nella loro famiglia, essi esercitavano un impero monarchico, così sulle persone, come sugli acquisti de' loro figli, i quali a tale oggetto vengono da Aristotele, Polit., lib. I, chiamati animata instrumenta parentum, e nelle decemvirali tavole col nome REI SUJs, come si osserva in quel frammento così noto: «Uti pater familias super pecunia tutelave Rei suae legassit, ita jus esto. Il Jus vitae et necis su' figli conservato dall’istesse Tavole a' padri di famiglia, e il dritto del peculio che ha avuta una durata molto più estesa, sono conseguenze di questo originario potere.

3 Veggasi l’appendice a questo Capo, dove si svilupperà fino all’evidenza quest'idea che non potrei qui illustrare senza distrarre il lettore.

4 Giustiniano forse per questa ragione le chiamava Juris antiqui fabulas ed in fatti il Jus Quiritium de' Romani, come lo dimostra il celebre Vico, non conteneva che i simboli di quello che si praticava nell'antico stato della naturale indipendenza, nel quale, per servirmi delle sue parole, «homines exleges quidque sua manu capiebant, usti capiebant, vi tuebantur; suum usum seu possessionem rapiebant, et sic vi sua reciperabant: unde erant mancipio res vere manu captte; nexi debitores vere obligati; vere Mancipationes, Usucapiones, Vindicationes; uti Uxores Usuraria, quae in possessione erant, non in potestate virorum, trinoctium usurpabant, hoc est tres perpetuas noctes usum sui rapiebant viris, ne in eorundem manum, seu potestatem anni usucapione transirent. Judicia duella erant, sive singularia certamina inter duos te quales, quia tertius non erat judex superior, qui controversias vi adempta dirimeret. Vindicationes per veram manuum consertionem (manus enim conferre pugnare est) peragebantur: et Vindiciae erant res vere per vim serre vatte. Actiones autem personales erant vere conditiones.... Per veras autem conditiones creditores cum debitoribus, qui aut inficiarentur debitum, aut cassarent, ob torto collo tractis suam condibant seu simul ibant domum, ut ibi operis sui nervo nexi debita exsolverent, etc.... Hoc jus majorum gentium, primi rerum publicatum fundatores in quibusdam imitationes violentioe com mutarunt; ut mancipatio, qua omnes ferme actus legittimi transiguntur, libe tali nexus tradìtione (questo era il nodo fìnto, colla consegna del quale si rappresentava la tradizione civile), usucapio non corporis adhaesione perpetua, sed possessione principio quidem corpore quaesita, deinde solo animo conservata, usurpatio non usus rapina quadam, sed modesta appellatione, quam vulgo nunc citationem dicunt; obligatio non ultra corporum nexu, sed certo verborum ligamine; vindicatio per simulatam manuum consertionem, et vim, quam Gellius appellat fìestucariam (quest'era la zolla del podere, che si presentava al Giudice colla formola della revindicazione: Ajo Hunc Fundum meum esse Ex Jure Quiritium, che fin che durò il Jus arcanum si espresse colle sole lettere iniziali); tandem, ut alla omittam, conditio, sive actio personalis non itione creditoris cum debitore, vel cum re debita, vel cum realia, sed sola denunciatione peragerentur (unde conditiones postea dictae sunt condictiones, quia denunciare Prisci dicebant candicere).» Io mi son presa qui la libertà di mescolare varii luoghi molto tra loro separati delle opere di questo profondo Scrittore per rischiarare una verità, che non mi pare molto conosciuta. Chi vorrà riscontrarli legga la sua opera che ha per titolo: De uno universi Juris principio et fine uno, liber unus, cap. 100, 424 e 135. L’altra che ha per titolo: De Constantia Jurisprudentia:, par. II, cap. Ili; e finalmente la sua Scienza Nuova, lib. IV, pagg. 432, 439 e 480, 483 della terza edizione Napoletana.

1 L’etimologia istessa dalla voce ce l’indica: krinein presso i Greci significava combattere e giudicare; Decernere presso i Latini era l’istesso, che coede definire. Onde si diceva decernere armis. Quest'istessa voce si applicò a' giudizii, perché questi nel principio non erano che combattimenti.

2 Vedi la nota del Cap. XI, della prima Parte di questo libro.

3( )Egli li chiama drhjthrej; Vedi Odiss XVI, vers. 248, ed in molti altri luoghi. I Greci si servivano della voce douloj per esprimere i servi schiavi, che erano quelli che si fecero quindi colle conquiste, drajthr, o drhsth era il debole che cercava un asilo dal più forte, per fuggire i rischi del suo stato. In fatti draw significa fugio.

1 Vedi Vico, Scienza nuova, lib. I, pagg. 65, 66; ibid, pagg. 95, 96. Dignità LXX, e Dignità LXXIX, e l’altra sua opera: De universi juris principio uno, et fine uno, cap. 104, dove colla più vasta erudizione dimostra, questa essere l’origine della Clientela de' Romani, che poi in tanti altri luoghi delle sue opere conferma.

2 Vedi Cesare, Comm., lib. VI; De Bello Gallico, cap. XV.

3 Noi troviamo presso i Regni Eroici della Grecia chiamarsi anche Uomini i plebei, a differenza de' nobili che si chiamavano Dei, o figli degli Dei. Omero ce ne offre molti esempi. Questa è una delle infinite prove che ci dimostrano come l’istessc circostanze ritornando, ritornano le medesime idee, si osservano i medesimi fenomeni. Vico fa vedere che questi homines, o sian servi rustici de' tempi eroici ritornati, non erano nella loro origine altro che i primi Clienti de' Romani. Veggasi la sua Scienza nuova, lib. IV, pag. 495 fino a 510, e l’altra citata opera: De uno universi juris principio, etc. cap. 129.

4 Ecco ciò che l'istorie di tutte le nazioni ci dicono essere avvenuto nelle circostanze, delle quali parliamo.

1 Con queste formalità si dee cercare di prevenire quanto più si può l'abuso nell’esercizio di questo dritto. Io lascio al lettore l’applicazione di questa teoria a fatti che ci mostrano, che ciò che io qui dico che si dovrebbe fare, è appunto quel che si è fatto da' popoli situati in queste circostanze. Io credo che la voce Quiritare de Romani, applicata ne' tempi civili ad alcune giudiziarie azioni, fosse ne' primi tempi, quando essi erano in quel primo periodo di barbarie, del quale qui si parla, credo, dico, che fosse nella sua origine destinata ad indicare una di queste formalità. L’offeso prima di venire alla vendetta doveva Quiritare, cioè, chiamare ed annunziare a Patrizi, che sin d’allora chiamavansi Quiriti, l’offesa che aveva ricevuta, e la vendetta che far ne voleva.

Una simile formalità si trova rapportata da Omero presso gl'Itacesi, i quali, secondo egli ce li descrive, erano per lo appunto in quel grado di barbarie che qui si suppone. Telemaco offeso da furti che i Proci, o siano i Patrizi facevano di continuo nelle sue greggi, li convoca, e dopo aver loro palesato le offese che aveva da essi ricevute, dopo aver interessati gli Dei nelle sue lagnanze, dice: nhpoinoi ken epeita domwn entosqen oloiste impune deinde intra domum vas occidam. Odiss. Il, vers. 145.

1 Arist. De Repub., lib. III. Dee passare lungo tempo prima che il corpo sociale possa prender parte alle offese private. Il primo caso che ci offre la storia Romana della parte presa dal corpo sociale in un’offesa privata, fu sotto Tulio Ostilio, per la morte di Orazia. Ne’ tempi della guerra di Troia, Omero ci fa vedere che l’omicida presso i Greci non era obbligato a restare fuori della sua patria, se non finché si fosse pacificato co' parenti del morto. Quando gli aveva placati, egli era esente da ogni rischio, da ogni pena. Vedi Feitb., Antiq. Hom. L. 2, cap. VIII, pag. 187. In questi tempi, dunque, il diritto di punire era ancora presso i Greci tra le mani de' privati. Presso i Germani il diritto della vendetta personale si conservava ancora in tutta la sua estensione a' tempi di Tacito, vale a dire due secoli e più dopo che Cesare ci aveva dipinti i loro costumi, e dopo che avevano avute molte occasioni da trattare, e conoscere i Romani. «Suscipere tam inimicitias seu patris, seu propinqui, quam amicitias necesse est; nec implacabiles durant. Luitur enim etiam homicidium certo armentorum ac pecorum numero, recipitque satisfactionem universa domus, utiliter in publicum, quia periculosiores sunt inimicitiae juxta libertatem.» Tacit. De Blorib. German, cap. 21. Vedi il cap. 7 e 21. De Morib. German.

2 Veggasi l'appendice a questo Capo, dove si troverà la distinzione del Jus majorum gentium, e del Jus minorum gentium.

3 «Ne quid inaugurato faciunto.»

«Ne quis nisi per portas urbem ingreditor, neve egreditor.»

Moenia sancta sunto. Ecco due Leggi Regie de' Romani che 'l tempo non ci ha involate. Aggiugniamo a questa la riflessione che 'l primo uso che troviamo fatto, sotto i Re in Roma, della pena del Culeo, è adversus Deorum vialatores. Vedi Valer. Max., lib. I, cap. I, num. 43.

1 Le pene si chiamarono quindi supplicia, perche non erano nella loro origine altro che preghiere dirette a' numi, come erano considerate da' Germani, per quel che ne dice Tacito. De Morib. German., cap. I, e da' Galli, per quel che ne dice Cesare. Comment., lib. VI, cap. XV.

2 Sei quis termiuom e arar sit ipsos Boveis que Sacrei sunto. Questo è un frammento di una Legge Regia del Codiee Papiriano, rapportato da Fluvio Urfino colle note al libro De legibus, et Senatuscousultis d’Antonio Augustino. Noi ne abbiamo anche altri simili frammenti che per brevità non rapporto. Le Leggi delle XII tavole conservarono quindi questa antica espressione nelle condanne di morte, anzi in alcuni casi esse esprimevano il nome della divinità, alla quale s’immolava il deliquente. Noi troviamo in esse consecrato a Giove chi aveva violato un Tribuno della Plebe; consa crato agli Dei de' Padri il figliuolo empio; consacrato a Cerere, chi aveva dato fuoco alle biade altrui. Queste non sono che conseguenze degli antichi e primitivi costumi, nati dal bisogno, e conservati quindi dall’uso. Non voglio tacere una riflessione. Io credo di ritrovare in questa istituzione la vera origine degli umani sacrifizi, così comuni appresso le barbare nazioni. La feroce superstizione d’immolare alla divinità un uomo, come le s’immolerebbe un irco o un bue, non ha potuto aver luogo che presso pochissimi popoli, e piuttosto nella loro depravazione che nella loro infanzia. Gli umani sacrifizi, comuni alla più gran parte de' popoli nella loro infanzia, non dovettero essere altro che i sacrifizii de' malvagi, de' quali abbiamo noi qui parlato; ed infatti i delinquenti che si facevano sotto questo religioso aspetto morire, venivan prima esecrati, scomunicati, consegnati alle furie; e questi erano li diris devoti de' Latini, e gli Anaqhmata de' Greci. Questo costume apparentemente superstizioso e feroce, fu comune a' diversi popoli, perché comune ne fu il bisogno nelle politiche circostanze, nelle quali noi l’abbiam fissato.

3 Noi troviamo presso quasi tutte le barbare nazioni in quell'epoca della loro barbarie, della quale noi qui parliamo, la giudicatura unita al sacerdozio ne delitti che si riferivano alla divinità. Veggasi Dionis. d'Alicarn., lib. Il, pag. 132. Strab. lib. IV, pag. 302. Plat. De Legib., lib. VI, e lib. VIII, init. Giustino, lib. II, cap. VII e quell'aureo luogo di Tacito De Morib. German., cap. VII, dove dice: «Ceterum neque animadvertere, neque vin ciré, neque verberare quidem nisi sacerdotibus permissum, non quasi in poenam, nec ducis jussu; sed velut Deo imperante, quem adesse bellantibus credunt.» Presso i Galli i Druidi erano Giudici e Carnefici nel tempo istesso. Vedi Cesare, Comm. lib. VI, cap. XV. Forse da questo derivò che in alcune Monarchie dell’Asia il Boia seguitò ad essere una carica ragguardevole sotto il titolo di Gran Sacrificatore, come si è altrove osservato; e questo è senza dubbio il motivo, pel quale in tutti i Governi barbari il sacerdozio è stato sempre nel corpo de' Patrizii, il capo, il Re è stato quasi sempre il supremo Sacerdote. «Patres sacra magistratusque soli peragunto, ineunto que. Sacrornm omnium potestas sub Regibus esto; Sacra Patres custodiunto (Lex Regia). Vedi Dion. Alicar., lib. II. Aristotile ne' suoi libri di politica, facendo la divisione delle Repubbliche, novera tra queste i Regni Eroici, m dove i Re, dice egli, in casa amministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, ed eran capi della Religione:» Polit., lib. III, ediz. cum Peti. Vittor., pag. 261, 262: ed in fatti il primo Re, che nella Grecia separò lo scettro dal sacerdozio, fu Eretteo. Vedi Apollod., lib. III, pag 198, ed i Re di Roma furono tutti anche Re delle cose sacre (Reges Sacrorum); onde poi, discacciati i Re, il capo de' Feciali fu chiamato coll’istesso nome. Noi ritroviamo finalmente gli avanzi dell'istesso spirito nella consecrazione dei Re nella barbarie posteriore. Noi sappiamo che Ugo Capeto si faceva chiamare Conte ed Abate di Parigi; e il Parridino (Annali di Borgogna) rapporta antichissime scritture, nelle quali molti Principi di Francia comunemente Canti ed Abati, o Duchi ed Abati s’intitolavano.

1 Veggasi su di ciò Vico, De uno universi Juris principio, et fine uno, cap. 167 e 168, e nella Scienza nuova, lib. I, Dignità 92, pag. 101.

2 Senza ricorrere all'istoria de' tempi barbari a noi più vicini, che potrebbe molto illustrare questa verità, ma che io suppongo più universalmente nota a' miei lettori; io ne trovo nella barbarie più remota, ne' tempi eroici degli antichi popoli, una pruova che mi pare di non doverla tacere. Noi troviamo presso tutti i popoli barbari l’istituzione degli Asili, anteriore all’istituzione delle leggi penali, vale a dire ne' tempi, ne' quali l’esercizio del dritto di punire era ancora interamente tra le mani degl'individui. Noi vediamo in Euripide, Andromaca rifuggita nel Tempio di Tetide, Androm. Act. I; noi vediamo nell'Ecuba, Polissena consigliata a rifuggire ne' tempii e presso gli altari, per evitar la morte (... iqi pro$ naouj iqi pro$ bwmouj.. abi ad templa, abi ad attoria etc. Eurp. Ecuba); noi vediamo in Omero, Femio cercare nell’ara di Giove un asilo contro di Ulisse, Omer. Odiss. XXII; noi vediamo Priamo rifuggito nell’ara di Giove Erceo, dopo la presa di Troia, Pausania in Corinthiacis; vediamo nell’Edipo Collonneo di Sofocle, Edipo rifuggirsi nel luco dell’Eumenidi; e tanti altri esempi che per brevità trascuro. Riflettendo su questa universale istituzione de' tempi eroici, io ne cerco la cagione. Io veggo che questa non poteva avere altro oggetto, ne' tempi dei quali noi parliamo, se non di garantire l’offensore da' primi impeti della vendetta dell’offeso; di lasciargli uno spazio di tempo, nel quale procurar potesse i mezzi di placarlo, coi doni, colle offerte, colle preghiere ecc., o pure uno spazio di tempo atto, se non a distruggere, a raffreddare almeno l’impeto dello sdegno, ed a prevenire gli eccessi della vendetta. Il timore d’incorrere nella pena del Sacrilegio, che in questo stato della società doveva essere, come poco anzi osservammo, un delitto pubblico, perché delitto contro gli Dei, doveva distogliere l'offeso da qualunque intrapresa contro il suo offensore, finché questi reggeva nell’Asilo che doveva per altro essere uno stato molto penoso per un barbaro che più di qualunque altra cosa apprezza la sua personale libertà. Considerato dunque sotto questo aspetto, l'Asilo altro non era che una dilazione tra l'offesa e la vendetta; era una tregua, durante la quale poteva o stipularsi la pace, o evitarsi una parte de' mali della guerra. Io mi servo di questa espressione, perché non è possibile supporre che nello stato di barbarie un uomo si consecrasse a rimaner perpetuamente in un tempio, per evitare la vendetta dell'offeso. Questo sforzo non poteva essere che ad tempus, ed ecco perché io lo considero come una semplice dilazione,

1 Tacit. De Morib. Gennari.

2 Vedi Du-Fresne, Glossar, voce fredum, e faida. Questa era la somma che andava all’offeso ed a' suoi parenti; e quello il prezzo della custodia che si pagava al garante. Si conservò quindi quest’istesso dritto, anche quando l’oggetto n’era diverso, cioè quando non era più necessaria la custodia dell’offensore; perché si era giù tolto dalle mani de' privali il dritto della vendetta, o sia l’esercizio del dritto di punire. Non si fece altro che stabilire i casi, ne' quali si doveva pagare il fredum, e questo era quando vi era l’offesa. Il solo maleficio senza volontà non era soggetto al fredum. Veggasi il Codice de' Ripuari tit. 70 e 46, quello de' Longobard., lib. I, cap. XXI, § 6. Veggansi in Marculfo, lib. I, le formole 2, 3, 4, 17.

1Io parlo del taglione in genere, non del taglione adoperato dalla sanzione penale in alcuni casi. Quest’ultimo può convenire anche a' popoli pervenuti al massimo grado di maturità (noi in fatti l’abbiamo, all’esempio di Roma, proposto per pena della calunnia); ma il primo non conviene che a popoli situati in quel tale periodo di barbarie.

2Gli Europei che han trovato alcuni popoli di America in quel grado appunto dì barbarie, del quale noi parliamo, han trovato l’uso del taglione già stabilito in quella maniera che si è da noi esposta. Veggasi il Viaggio di Coreal. Tom. I, pag. 208; Viaggio di J. de Lery, pag. 272, e l’Istoria generale dei viaggi Tom. IV, pag. 324, 325.

1 Aristotile nella sua Etica chiama il taglione il Giusto Pitagorico, perché Pitagora lo stabilì nella Magna Grecia, da lui trovata precisamente in quello stato di barbarie, di cui qui si parla.

1 Omero, questo grande istorico della barbarie, questo poeta che offre al filosofo i materiali per osservare i diversi stati, pe’ quali i popoli debbono passare per giugnere allo stato civile, ci fa vedere i Feacesi in quest’ultimo periodo di barbarie, del quale noi parliamo, e ci dipinge in poche parole la loro forma di Governo. Dodici Re, o sien Patrizi, governavan la plebe divisa in varii vichi o tribù, ed il decimo terzo Re (Alcinoo) giudicava i dodici Re inferiori, o sian Patrizi. Nella parlata ch'egli mette in bocca di Alcinoo si serve di queste parole:

Awdexa gar kata dhmon ariprepe es basilhej

Arcai kraiusi triskaidekatos d^egw autoj.

Duodecim enim in populo precetari reges

Principes imperante tertius decimus autem ego ipse.

Omer. Odyss., lib. VIII, v. 390 e 391. Il lettore non ha che a leggere tutta la narrazione ch'egli fa a questo proposito, per confermarsi nel mio sistema.

2 Con questo mezzo, Tarquinio fece morire una gran parte de' Patrizi. Un argomento fortissimo che il Re in quest'ultimo periodo del Regno eroico di Roma giudicasse i Patrizi, si è che discacciati i Re, questa prerogativa passò a' consoli ch'ereditarono una gran parte dei dritti de' Re. Bruto ne fece uso per punire i partigiani de' Tarquini, e i suoi figli. Noi abbiamo altrove osservato, che la legge Valeria fu quella che dette il primo riparo a questa perniciosa prerogativa, che dalle leggi delle XII Tavole fu quindi interamente abolita. E vero che in queste leggi si parla in generale di Cittadino di Roma; ma noi dimostreremo da qui a poco, in altra nota, che per Cittadini non potevano allora intendersi che i nobili. Il diritto dunque di giudicare della vita di un cittadino, che i Consoli ereditaron dai Re, era quello di giudicare di un Patrizio. Che i Patrizi poi giudicassero come magistrati i clienti che componevano la plebe, noi ne abbiamo varii argomenti. Il citato frammento della legge regia n è una pruova: Patres sacra, Magistratus que soli peragunta, ineuntetoque. N’è una pruova anche l’altro frammento che minaccia una forte pena al Patrizio che abuserà di questo dritto: Si Patronus Clienti fraudem fecerit, sacer esto. Questo frammento ci è stato conservato da Servio su quel verso del sesto libro dell’Eneide, che dice: Aut fraus innexa clienti. E molto verisimile anche che la ripartizione fatta sotto gli ultimi Re della plebe in varie Tribù fosse diretta a distribuire la giurisdizione di ciaschedun Patrizio sulla sua clientela, su gl’individui della quale egli esercitar dovesse il giudiziario potere ne' familiari giudizi. Gli argomenti che io avrei per provare questa congettura, sono molti, ma io li sacrifico alla brevità.

3Le giurisdizioni signorili in quest'ultimo periodo della posteriore barbarie sono cosi note, che ogni documento relativo a quest’oggetto sarebbe inutile, giacche bisognerebbe interamente ignorare l'istoria per dubitarne. Per quello poi che riguarda il diritto del Re nel giudicare i Patrizii, o siano i Proceri ed Ottimati per servirmi delle voci usate ne' codici di questi popoli, io non so come alcuni han potuto dubitare, che il Re, assistito dal suo privato consiglio, avesse non solo avuto ma esercitato questo dritto. Le leggi, le formole, gl’istorici di quei tempi, tutti ci assicurano di questa verità. Vedi Greg. Tur., lib. VI, cap. 32 e 35, e lib. X, cap. 18 e 19.

4Veggansi tutti i Codici barbari nella collezione di Lindenbrogio, e particolarmente il Codice de' Longobardi, lib. I, tit. VI, § 3; il Codice de Frigioni, tit. V, e seg.; il Codice de' Borgognoni, tit. V, X, XI, XII; il Codice degli Alemanni, tit. LVIII, § 1 e 2; la legge Salica tit. XIX, XXI, XXI, XLIII, LXI, e Gregorio Turonense, Zs., lib. 4, c. 28.

1Vedi i citati titoli del Codice de' Borgognoni, e, oltre a questi, i titoli XXVI, XXX, XXXIII, XLVIII; la legge Salica in parte de' citati titoli, e ne' seguenti titoli XXXVII, XLI, XLIII. Art. 6, 7, 8. A questo corrispondono anche gli altri codici.

2 Gellio, parlando della Legge Regia inserita quindi nelle decemvirali tavole (Si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto), ci fa vedere che in quel tempo che corrisponde a quel periodo di barbarie, del quale noi parliamo, era nell’arbitrio dell’offensore e non dell’offeso lo scegliere tra il taglione e la composizione. Retini, dice egli, habuisse facultatem paciscendi, et non necesse pati talionem, nisi eum elegisset. Vedi Gell., lib. XI, cap, I; et Sigon. De Judiciis, lib. II, cap. III. Nei codici delle Nazioni della barbarie posteriore si trova generalmente questo metodo stabilito. Il taglione s’infliggeva, quando il reo non voleva, o non aveva di che pagare il prezzo della composizione. Veggasi tra le altre la legge Salica nel tit. LXI.

1 È un errore il credere che Bruto istituisse in Roma la Democrazia. Se dopo l’espulsione de' Tarquinii il sistema antico della clientela decadde, non per questo gli individui che questa formavano, e che componevano un solo corpo sotto il nome di Plebe, ebbero parte alcuna al Governo. Essi seguitarono per qualche tempo a non conoscere altro dominio, che il bonitario, istituito nel censo di Servio Tullio, indizio di dipendenza e di servitù; e quando colla seconda legge Agraria che fu il soggetto della prima legge inserita nelle XII Tavole, essi ottennero il dominio Quiritario, questo era anche molto imperfetto nelle loro mani. Siccome la plebe non aveva ancora nozze solenni, cosi essa non ne aveva neppure gli effetti civili, quali sono Patria potestà, suità, agnazioni, gentilità, successioni legittime. I Plebei, finché non ottennero connubia Patrum, ch’è l’istesso che il dritto delle nozze solenni, e non già il dritto di apparentare co patrizii, come la maggior parte crede; i plebei, io dico, finché non ebbero da' Patrizii comunicata questa ragion delle nozze, che Modestino definisce: Omnis divini, et humani juris communicatio, non potevano considerarsi come cittadini. Se essi non partecipavano agli effetti civili delle nozze, come avrebbero poi potuto partecipare agli effetti politici? Quando essi l’ottennero, dopo tanti clamori e tante minacce, allora furono Cittadini; ma dopo tutto questo, dovette anche qualche tempo passare prima che la Sovranità passasse al Popolo composto di Nobili e di Plebei, giacche prima di questo tempo per popolo non s’intendeva che il corpo de' Nobili, eh erano i soli Cittadini. La Democrazia cominciò in Roma co' Gran Comizii composti, come si sa, di Nobili e di plebei. Prima di questo tempo, quando si parla di Popolo, non s’intende altro che il corpo de' Nobili, una parte de' quali formava il Senato, nel mentre che tutto l’ordine di essi Nobili rappresentava il Popolo. L’istoria romana di questi tempi sembra piena di contradizioni, se non si legge con questa prevenzione. Io prego il lettore di riflettere su questa nota che io non posso maggiormente estendere, e che mi costa una lunga meditazione, sulla prima costituzione Aristocratica istituita in Roma dopo I’ espulsione de' Tarquinii, i quali, come si è osservato, furono più che per ogni altro motivo, cacciati per l’abuso che fatto avevano del dritto di punire i Patrizii.

1 Io prego colui che legge, di ricordarsi di ciò che si è detto nell'ultimo Capo del I libro di quest'opera, per vedere come i principii generali da me in quel libro premessi, vengono man mano applicati nel corso dell'opera. Io non cerco che l’unità, e questa dee formare il difficile merito di ogni opera di sistema.

1 Questi furono presso i Caldei fino al numero di dodici che i Greci, come si sa, per esprimerli, si servivano della sola parola dódeka; e questi erano Giove, Giunone, Diana, Apollo, Vulcano, Saturno, Vesta, Marte, Venere, Minerva, Mercurio, Nettuno.

1 Capo XXXV.

2Nella prima parte di questo III libro si è diffusamente dimostrata questa verità. Veggasi il Capo XVIII.

1Una prova di questa verità ce l'offre l'istoria della Romana Legislazione. Prima di Cesare, l’interdizione dell’acqua e del fuoco non era accoppiata alla confìscazione de' beni. La perdita della patria bastava a formare la più gran pena pel Romano libero. Perduta la libertà, la perdita della patria divenne una pena troppo piccola, e siccome si trovava destinata a' più gravi delitti, Cesare per non alterare interamente il sistema penale, vi accoppiò la confiscazione de beni. Vedi Svet. in Cses. e Dion., lib. L.

1Si avverta che nell'Aristocrazia io non intendo per la cosa istessa popolo e plebe. Il popolo è la parte della società che ubbidisce, la plebe è l’infima classe del popolo, e contro quest'infima classe io dico che adoperar non si debbono le pene d’infamia.

1 Plutarco in Vita Solon.

2 L’istesso Autore in Vita Licurg.

1 Panamanach. Veggasi Kircher.

2 La Loubre, Relation de Siam, pag. 416.

1 Veggasi la citata Collezione de' Piaggi che han servito per lo stabilimento della compagnia dell’Indie, tomo III, Parte I, pag. 63.

2 Veggasi la Collezione de' viaggi che han servito allo stabilimento della Compagnia dell'Indie, tomo V, Parte I, pag. 122.

3 Veggasi la Prelazione di Frere Jean Duplan Carpin, spedito in Tartaria dal Papa Innocenzo IV nell’anno 1246.

1 Lettres edif. quintième recueil.

2 Plat. lib. IO. De legib. metemψucwsij, metenswmatwsij.

3 «In primis hoc volunt persuadere, non interire animas, sed ab aliis " post mortem transire ad alios; atque hoc maxime ad virtutem excitari pu tant, metu mortis neglecto. Cses. De bello Gallico, lib. VI, cap. XIII.

4 Si sa troppo dagli Italiani il coraggio, col quale, non più di cinque anni fa, andò alla morte il celebre Sales in Milano, e la quantità de' suicidii che si commisero in Cremona, dopoché questo fanatico aveva diffusa ed insegnata la dottrina della Metempsicosi.

1Veggasi il Capo XIV del I libro. Io prego il lettore di rileggere questo capo, se mai gli verranno delle difficoltà su quello che son per dire in questo. Mi pare di aver ivi esposto con bastante chiarezza il mio sistema, per non esser nell'obbligo di maggiormente dimostrarlo.

2Che si leggano le diverse relazioni de' diversi viaggi fatti nella Lapponia, e si troverà che niente vi è di esagerato nelle mie espressioni.

3 Nel citato Capo XLV del I libro.

1 L. 23, § excipitiir et ille D. De oedil. ed. L. impuberem 22. D. ad Leg. Corti. De fals. L. 1 § impuberes C. De fal. mon.

2geneto de kai Pittakoj nomwn dhmiurgoj nomos d'idioj autou to, tous mequontaj an tupthswsi, pleiw zhmian apotinein twn nhfontwn; dia gar to pleiuj ubrizein mequontaj h nhfontaj, ou proj thn suggnwmhn apeblefen, oti dei meqususin ecein mallon, alla proj to sunferon «Fuit autem et Pittacus legum opifex.... Lei autem propria ipsius est, ut ebrii si aliquem pulsarint, maiore poena afficiantur, quam sobrii: quia enim plures ebrii, quam sobrii contumeliosi sunt, non respexit ad veniam, quam decet temulentis magis dare, verum ad id, quod conducit.» Aristot. De Repub, lib. II in fin.

1 Il lettore che si ricorda ciò che si è detto in questo capo, si ricorderà anche ciò che io intendo per clima moderato.

2 Questo è evidente. Siccome il naturale meccanismo dell'uomo é ugualmente alterato ne climi brucianti che ne' climi gelati, è chiaro che queste due cause fisiche opposte debbano produrre gli stessi effetti morali. Se Montesquieu avesse riflettuto a questo, non avrebbe senza alcuna distinzione attribuito il coraggio agli abitanti de' climi freddi, e la viltà a quei de' climi caldi. Quando si tratta di climi, la temperatura de' quali differisce poco tra loro, le concause morali e politiche possono rendere più coraggioso l’abitante del clima più caldo che l’abitante del clima freddo, e viceversa. L’istoria che tanto distrugge il sistema di Montesquieu, è una costante pruova di questa verità. Il difetto di coraggio, di energia, di sensibilità ecc. prodotto dal clima, io non lo trovo che o tra gli abitanti di un clima eccessivamente freddo, o tra gli abitanti di un clima estremamente caldo, dove il naturale meccanismo dell'uomo è ugualmente alterato e deteriorato dal clima, e, per conseguenza, è ugualmente alterato e deteriorato il suo morale. In tutti gli altri le concause morali e politiche producono questi effetti, ed il clima non vi ha che una infinitamente picciola parte. E bizzarra la maniera, colla quale Montesquieu, a questo proposito, cerca di liberarsi da un contrasto di fatti. Gli Indiani (che secondo il mio sistema vivono, almeno la maggior parte de' popoli che vanno sotto questo nome, in un clima moderato, giacche non è la sola posizione riguardo al sole, che determinar dee l’estremo caldo o l'estremo freddo del clima, come si è da noi dimostrato nel citato capo); «gl’indiani, dice Montesquieu, lib. XIV, cap. Ili, sono naturalmente senza coraggio. I figli stessi degli Europei nati nell'Indie perdono quello del loro clima. Ma come com binare questo difetto di coraggio colle loro atroci azioni, co' loro costumi, colle loro barbare penitenze? Gli uomini si sottomettono in questa regione a mali incredibili, e le femmine si bruciano volontariamente dopo la morte de' loro sposi.» Come combinare tanta forza c?n tanta debolezza? L’enigma si scioglie facilmente dal nostro Autore. «Quell’istessa delicatezza di organi, dice egli, prodotta dal clima e che fa loro temere la morte, fa loro temere molte altre cose più della morte istessa.» Questa soluzione basterebbe a mostrarci a quali stranezze può condurre l'amor del sistema. Io vorrei che Montesquieu mi dicesse, se il coraggio consiste nel non temer la morte o nel superare questo timore? Nel non amar la vita, o nell'amar più della vita qualche altra cosa? Il Romano era forse così bravo nella guerra, perché non temeva la morte, o perché più della morte temeva l’ignominia, la schiavitù, la perdita della sua libertà? Sono i soli Indiani forse che temono la morte, ma che in alcuni casi non apprezzano la vita, perché più della morte temono tante altre cose? Il guerriero più coraggioso non è forse riguardo a quest’oggetto simile all’Indiano? Se egli fugge innanzi all’inimico, questo non deriva dunque dal clima, ma dall’indifferenza che il dispotismo ispira per la patria; dalla bassezza che cagiona la servitù; dalla mollezza cagionata dal lusso, e dall’abbondanza; dalla sicurezza di dover essere sempre ugualmente oppresso o dall’antico o dal nuovo tiranno, o vincitore o vinto.

1 Combinando le relazioni de' viaggiatori che ci descrivono i costumi dei paesi eccessivamente caldi, con quelli che ci descrivono la maniera di vivere dei popoli più settentrionali, si troverà vera e l’una e l’altra asserzione.

1 Nel primo Capo di questa II Parte, o sia nel Capo XXV di questo libro.

2 Veggasi il Capo XXVIII di questo III libro.

1Aokei dh akousia einai ta bia, e di agnwsian giuomena. Videntur invita ea esse, qua aut vi, aut ignoratione efficiuntur. Aristoteles, Moral. Nicom., lib. III, cap. I.

1 Le Romane leggi estendono anche all’età prossima all'infanzia questo beneficio. L’impubere fino all'età di dieci anni e mezzo, vale a dire, sino alla metà del secondo periodo, non può essere esposto a pena alcuna; perché la legge lo dichiara incapace di dolo. L. infans II. D. ad Leg. Corn. De Sicar. La legge dei Sassoni l’estendeva fino a' 12 anni. Le leggi presenti d’Inghilterra lo restringono nel solo primo periodo che termina ai sette anni, e Blackstone rapporta un giudizio, nel quale furono condannati a morte due ragazzi dell’età l’uno di nove e l’altro di dieci anni. Cod. Crim. d’Inghil., cap. II.

2 I Giurati in Inghilterra sono quei ch’esaminano, se l’impubere accusato abbia o no l’uso della ragione. Prima de' sette anni non vi è bisogno di questo esame, perché la legge l’assolve; dopo i sette anni, se l’accusato impubere si trova da' giurati capace di dolo, vien condannato.

3 Questo è un fatto, e per conseguenza l’esame di esso dee, secondo il nostro piano, dipendere dal giudizio e dall’esame de' giudici del fatto.

4 Eccone un esempio. Nel mio terreno murato, le porte del quale son chiuse, e le chiavi in mio potere, io veggo una lepre, le tiro un colpo di fucile, e questo invece di ferir la lepre uccide un uomo che si era ivi nascosto, e che io era sicuro che quivi non potesse trovarsi; quest'omicidio si chiamerà omicidio per caso, e la legge non può a niuna pena condannarmi per questo.

1 Se tirando ad una lepre che fugge per una strada pubblica, io uccido un uomo, questa sarà una colpa; l’omicidio si chiamerà colpabile. Quantunque il fine che io mi era proposto, era quello di uccider la lepre; nulladimeno io non ignorava la possibilità che vi era che un uomo passasse per quel luogo in quel momento; e questa era una delle circostanze dell’azione che doveva determinare la mia volontà a lasciar in pace la lepre, piuttosto che espormi al rischio di commettere un omicidio.

2 E diverso 1uccidere un uomo, tirando ad una lepre che fugga in una strada di campagna poco frequentata, che uccidere un uomo tirando ad una lepre che fugge per la strada d’una Città, ed in un’ora nella quale vi t in quella gran concorso di popolo. Chi non vede la gran diversità del valore di queste due colpe?

1 S’intende de' delitti che si possono commettere per colpa, giacche ve ne sono alcuni che non ne sono suscettibili: tale è l’assassinio, il furto ecc.

2 Secondo il nostro piano di criminale procedura, i giudici del fatto combinando le circostanze dell’azione con questo canone, indicar dovrebbero a qual grado di colpa dovrebbe essa riferirsi; e i giudici del dritto dovrebbero trovare nella legge la pena a quel grado di colpa fissato. Si osservi ciò che si è detto nella prima parte di questo libro, cap. XIX, art. 7.

3Aris. ral, ad Nicomach. lib. III, cap. I.

1Ahsthj proairesewj ou ginetai, turannoj ou ginetai. Questa sentenza del celebre Epiteto.

2plj men gar oudeij lambanetai (taj ekbolaj) ekwn epi sothria kai auton, kai twn loipwn, apantej oi noun econtej. Miktai men oun eisin ai toiautai praxeij, esikasi de mallon ekousioij. Nemo enim sponte absolute (in tempestatibus) sua subiicit; sed ob sala temtum suam, tum aliorum, omnes, modo mentis compotes sint, Tacere id videntur. Mista: igitur hujusmodi actiones quum sint, spontaneis tamen magis sunt similes.» Arist. Ibid.

3 Non è inutile l’avvertire che, secondo il nostro piano, l’esame dell’uguaglianza o della disuguaglianza de' mali dovrebbe farsi da' giudici del fatto, e l’applicazione del canone legislativo da' giudici del dritto. Da essi si dovrebbe anche esaminare, se il minor male che si è evitato, feriva l’interesse personale di colui che a scegliere è stato costretto, e se questo è bastante a giustificare la sua scelta. Il seguente capo dissiperà tutte le difficoltà che potrebbero nascere su que sta teoria; giacche in questo noi distingueremo tre gradi di colpa.

1 Io prego il lettore di paragonare queste idee con quello che nell'antecedente capo si è detto sull'ubbriachezza ne' climi estremamente freddi. Egli vedrà che ciò che qui si determina, non deve aver luogo ne' paesi situati in questi climi.

2 Questa è quella che noi abbiano chiamata colpa massima, e che i moralisti chiamano lata.

1 Legge 18. D. De poenis.

2 Plutarco ci ha conservato il nome di questa vittima della giurisprudenza de Tiranni. Questi fu un certo Marsia che aveva sognato di scannare il Tiranno.

3 Veggansi le opinioni opposte di Binkershoek, e di Cuiacio sulla Legge 14. D. ad L. Cornei. De Sicar. dove si dice: in malefìciis voluntas spectatur., non exitus. Vedi Binkershoek, observ. lib. III, cap. X, e Cuiacio lib. XIX, observ. cap. X.

4 Io questo caso la legge altro non dee fare che obbligare il Magistrato, al quale è commessa la custodia della pace, di assicurarsi della mia persona, finché non mi avra interamente distolto dal delitto. Ma questa non sarebbe una pena, sarebbe soltanto un mezzo da impedire il delitto.

1Veggasi il primo capo eli questa II Parte.

2Veggansi i principii generali premessi nel primo capo di questa II Parte.

1 Nel capo I di questa II Parte.

2 Nel capo I di questa II Parte.

1 Un uomo per provare il valore della sua polvere, non ha gran tempo, tirò un colpo di fucile ad un infelice che ncppur conosceva. Ecco un omicidio senza causa.

2Nedelitti dunque suscettibili di colpa; giacche, come si è osservato nella nota dell’antecedente capo, non tutti Io sono, in questi delitti, io dico, il legislatore dee nella sanzione penale stabilire sei gradi di pena, cioè per l’infima, per la media, e per la massima colpa, e per l’infimo, il medio, ed il massimo dolo; ed in quelli che non sono suscettibili di colpa, tre gradi, cioè per l’infimo, il medio, ed il massimo grado di dolo.

1 Vedi i due canoni relativi alla colpa e al dolo, il primo a pag. 294 e segg., ed il secondo a pag. 295.

1 Nel capo XXXI di questa II Parte.

1 Il lettore mi troverà qui in contraddizione con quel che ho detto nel capo XXIII del II libro sulla pena da stabilirsi pe’ fallimenti fraudolenti. Ma que sta non è una contraddizione, ma è piuttosto la correzione di una erronea idea che sarà riparata nel proseguimento di questo III libro.

1 Che non mi si opponga il sistema di una gran parte delle antiche legislazioni, di non unire la pecuniaria pena alla pena afflittiva di corpo. Moderata populì judicia, dice Cicerone, sunt a majoribus constit ut a primum ut plena capitis cum pecunia non conjungatur (Cic. pro domo sua). Demostene ci ha conservata una legge antica degli Ateniesi a questa simile. Mhden ti mhna uparkein epi krisei pleon, e en i puteron an to dikajhrion, paqein, e apotijai, amfo tera de, mh exestw. Per ne plures ne inrogantor, quameumque inflixerint judices, luendam sive in corporea sive in cere; utramque simul ne inroganto. Le leggi barbare che si sono tante volte citate, anche convengono tutte relativamente a quest'oggetto. Quando le pene pecuniarie non si adoperano come pene, ma come transazioni delle pene afflittive di corpo, è chiaro che non debbono con quelle concorrere. Ma nel nostro piano le pene pecuniarie si adoperano come pene, e non come transazione di altre pene. Il luat in corpore, aut in are non deve aver luogo nel nostro sistema. Manca dunque il motivo, pel quale queste pene non potevano alle altre unirsi. In Roma istessa, quando col progresso della civiltà disparvero gli avanzi del sistema barbaro delle pecuniarie transazioni, noi troviamo i giudici corrotti condannati dalle leggi alla perdita della carica, all’ignominia, ed al quadruplo di quanto avevan preso. (L. I, C. ad Leg. Juliam repetund. e L. 3, C. cod.) Noi troviamo anche l’ambito punito colla confiscazione di tutti i beni, e colla deportazione dagl’imperadori Arcadio ed Onorio (C. Theod. De ambitu e troviamo anche combinate queste due pene pel ratto di qualche Vergine a Dio consegrata (L. 2, C. Theod. De rapt. vel. matr.).

1 Veggasi il capo del rapporto delle pene co' diversi oggetti che compongono lo stato di una Nazione.

1 In Francia è ancora in vigore l’assurda legge di Arrigo II, che condanna alla morte la donzella, il parto della quale perisce, quando, trattenuta da un sentimento di onore, essa non ha avuto il coraggio di palesare la sua gravidanza al magistrato.

1 Per quel che riguarda gli Ateniesi, Plutarc. in Solon. Isocratcs contro Lochitoni. Pollux lib. VIII. Sigonius De Republica A'theniensium, lib. III, cap. I. Potter. Archceologia Graca, lib. 1, cap. XX, et XXIV, e per quel che riguarda i Romani veggasi Domat. Ius pub. lib. III. Introd. e Mattei Prolegomeni ad Comment. etc. Cap. IV, § 8. Institutlonem lib. IV, tit. XVIII, § I.

2 Vedi il capo II, 111 e IV di questo libro.

1Dico diretti, perch altrimenti ogni abuso di autorit nella persona di un magistrato, ogni disubbidienza agli ordini del Sovrano, nella persona di un cittadino, potrebbero esser compresi in quella classe. Ma questo sarebbe l'istesso che annoverare tutti i delitti nella classe de' delitti che comunemente si dicono di Maest. Ecco perch ho detto i soli attentati diretti.

1 Veggasi il dialogo X, De Legibus, di questo divino Filosofo, lo prego i miei lettori a non trascurare la lettura di questo profondo libro.

1Una legge degli Ateniesi condannava a pena capitale colui che sgravava il suo ventre nel tempio di Apollo. Ton alonta qakeuonta en tw temhnei tou Apollwnoj eauton aitiasasqai, kai qnhskein. Qui in aede Apollonìs ventre exoneravit, se impluni in judicio deferto, eique capitai esto. La pena di questo delitto si risente della tirannide dell’autore della legge, che fu Pisistrato; ma non per questo il delitto non meritava una pena. Il legislatore doveva per altro distinguere il caso, ne) quale l’azione si commetteva per disprezzo, da quello col quale si commetteva per ignoranza o bisogno. Potteri, Archeologia: Grece, lib. I, cap. XXVI, tit. I, L. 7.

1Ad Divos adeunto caste: pietatem adhibento, opes amovento. Qui secus faxit, Deus ipse vindex erit. Su questo principio si fondava, io credo, la massima profferita da Tiberio nel senato: Deorum infuria Diis curae. Tacit., Ann.

2«Separatim nemo babessit Deos, neve novos: sed ne advenas, nisi publice adscitos, privatim colunto.»

3 «Divos et eos, qui codestes semper habiti, colunto, et ollos, quos in coelum merita vocaverunt, Herculem, Liberum, sculapium, Castorem, Pol lucem, Quirinum; ast olla, propter quae datur homini adscensus in caelum, Mentem, Virtutem, Pietatem, earumque laudum delubra sunto. Nec ulla vitiorum sacra solemnia obeunto.»

4 «Nocturna mulierum sacrificia ne sunto; pueter olla quae pro populorite fient. Neve initianto, nisi ut assolent Cereri, Graeco sacro.

5 «Sacra privata perpetua manento (et alibi).... Constructa a patribus delubra habento. Lucos in agris habento, et larum sedes; ritus familiae, patrum que servanto.»

6 «Feriis jurgia amovento: easque in famulis, operibus patratis, habento, itaque, ut ita cadat in annuis amfractibus, descriptum esto; certasque fruges, certasque baccas sacerdotes publice libanto: hoc certis sacrificiis, ac diebus. «Itemque alios addes, ubertatem Iactis, fretusque servanto. ldque ne committi possit, ad eam rem, et rationem, cursus annuos Sacerdotes finiunto.

7Impius ne audeto placare donis irarn Deorum. Questo stabilimento è in conseguenza di ciò che scrisse Platone sulle tre prime specie di empietà.

8Sacrum sacrove commendatum qui clepserit rapseritque, parricida esto. Questa ha tutti i caratteri di legge decemvirale. La pena è eccedente; ma il mio fine non è qui di esaminare l’opportunità della pena, ma il vedere in quali casi Cicerone credeva che si dovesse minacciar la pena; ed in quali lasciava alla Divinità il punire il trasgressore.

1 «Perjurii poma divina, exitium: humana dedecus.»

2 «Incestum Pontifices supremo supplicio sanciunto.»

3 «Interpretes autem Jovis optimi maximi, publici, augures, signis, et auspiciis postea vidento, disciplinam tenente.... quaeque augur injusta, nefasta, vitiosa, dira defixerit irrita, infectaque sunto; quique non paruerit, capital esto.»

4 Questo paese si chiama San Clodio, e questa orribile esecuzione porta la data del 28 luglio del 1629.

1Noi abbiamo, in un’altra occasione, detto ciò che s’intendeva sotto questo nome. Vi era gran differenza tra l’infamia Censoria, e quella per l’editto del Pretore. Quella era molto a questa inferiore.

2Aul. Gell., Noct. Attic., lib. III, cap. XVIII; Valer. Max., lib. II cip. IV; Cicer., De Off'., 3, 31.

1 Vedi Platone, De Legib., dialogo XII.

2 Nel capo XV, nella nota al Canone XII, dove si è parlato dell’uso de' giuramenti ne' giudizii criminali.

3 Veggasi il capo XIX, art. XV, nella prima parte di questo III libro.

4Praecipimus.... permanentes in praedictis illicitis, et impiis actibus (blasphemiarum) post hanc admonitionem nostram comprehendere, et ultimis subdere suppliciis, ut non'ex contemptu talium inveniatur et civitas, et respublica per hos impios actus laedi. Si enim et post hanc nostram suasionem, quidam tales invenientes, hos subter celaverint; similiter a Domino Deo condemnabuntur. Ipse etenim goriosissimus praefectus, si invenerit quosdam tale aliquid delinquentes, et vindictam in eos non intulerit, secundum nostras leges, primum quidem obligatus erit Dei judicio. Post haec autem et nostram indignationem substinebit. Cap. igitur, praecipimus, nov. 77.

1teble ventrebleuj corbleu, sangble. Questa legge fu del 1181.

2Innocenzo IV.

3 In questa classe de' delitti contro la Divinità, io non ho parlato contro i delitti che particolarmente dipendono dall’abuso del ministero ecclesiastico; vale a dire, di quelli che si commettono da' ministri della religione, sotto gli auspicii di quella confidenza pubblica che loro dà il ministero che esercitano: come sarebbe tra noi il delitto di sollecitazione, e quello di rivelazione, allorché si tratta di confessione, ed altri di questa natura. Siccome tutto quello che riguarda il corpo del Sacerdozio sarà da me trattato nel I libro di quest'opera, cosi mi astengo dal permettermi qui alcun esame relativamente a quest'oggetto.

1 Questa legge è rapportata da Dionisio di Alicarnasso, lib. II, pag. 84.

2Legem XII, tabularum jussisse (dice il Giureconsulto Marciano, L. 3, D. ad Leg. Jul. majest.) eum qui hostem concitasset, quique civem hosti tradidisset, capite puniri.

3 Porcio Latro ci ha conservata quest'altra determinazione delle decemvirali tavole: Primum XII, tabulis cautum esse cognoscimus, ne quis in urbe coetus nocturnos agitar et, etc. In declamai adv. Catilin. Capo XIX. Fulvio Ursino ne' Commentari al libro di Antonio Augustino, De legibus et senatus consultis, ci ha rapportato il testo di questa decemvirale legge: Quei calim eudo urbe nox coit coiverit Kapital. estod.

1 Questa Legge porta il nome d’Apuleo Tribuno della plebe nell’anno 651, ab U. C. E se ne fa menzione da Cicerone, De Orat., lib. II, cap. XLIX. Sigonio crede che in questa legge si stabilisse la questione perpetua de' delitti di Maestà. Vedi Sigonio, De Judiciis, lib. II, cap. XXIX.

2 L’istesso Latro ci riferisce la disposizione della Legge Gabinia: «Deinde lege Gabinia proinulgatum, qui coitiones ullas clandestinas in urbe conflan visset, more majorum capitali supplicio mulctaretur.» Idem, ibid.

3 Anche questa Legge porta il nome di un tribuno della plebe, cioè di Vario, nel tribunato del quale fu emanata. Veggasi Valer. Max., lib. III, cap. VII, num. 8. Lib. VIII, cap. VI, num. 4 e Asconio iti Orat. pro Scauro, pag. 172.

4 Cornelia.

5Pretor, qui ex hac lege quaeret, de eo quaerito, qui intercessionem sustulerit, aut magistrali, quo minus munere suo fungatur, impedimento fuerit. Qui exercitum e provincia adluxerit, aut sua sponte bellum gesserit. Qui exercitum sollicitaverit. Qui ducibus hostium captis ignoverit, aut pecunia liberarit. Qui ducibus praedonum captis ignoverit. Qui potestatem suam in administrando non defenderit. Qui civis Romanus apud regem externum versatus fuerit. Mulieris testimonium accipiatur. Calumniatoribus nulla poena sit. His damnatis poena aque et ignis interdictio sit. Questi capi della Legge Cornelia si trovano sparsi nelle Opere degli antichi scrittori, tra gli altri nell'Orazione di Cicerone in Pisonem et pro Cluentio nella terza Verrina di Asconio, nella Vita di Claudio di Svetonio, ed in altri, da' quali il dotto Sigonio gli ha estratti. Veggasi Sigonio, De Judiciis, lib. II, cap. XXIX.

1Questa, come si veduto nel rapportato testo, era linterdizione dell'acqua e del fuoco.

2Cicerone facendo menzione della legge Giulia, così detta dal nome di Giulio Cesare che ne fu l’autore nella sua dittatura, ci fa vedere ch'egli tolse quest’appellazione al popolo, quanto a' rei de vi et de majestate damnatis. Il luogo di Cicerone può farci credere anche che questa novità fosse stata fatta da Antonio, console dopo la morte di Cesare. Veggasi Cic., Philip., 1, cap. IX.

3L. 1, 2, e II. D. ad Leg., JuL Majest.

4L. 3 e 5. D. cod.

5 L. 4. D. cod.

6L. 6. D. cod.

7 L. 7. D. cod.

8L. 8. D. cod.

9L. 9 e 10. D. cod.

10Primus Augnstus cognitionem de famosis libellis speàe legis de mdjestate tractavit. Tacito, Ann., lib. I, cap. XIV. Dai libelli si passò subito a tutti quegli scritti, ne' quali lo scrittore si era alquanto abbandonato alla ingenuità dei suoi sentimenti. Cordo fu accusato come reo di Maestà, per aver ne' suoi Annali chiamato Cassio l’ultimo de' Romani. Ibid., Annal., lib. IV, cap. V.

1 Cit. L. 7. D. ad L. Jul. Majestatìs.

2 l'Imperatore Tacito abolì questa feroce istituzione di Augusto; ma è da presumersi che la sua legge avesse poca durata, perchè noi non la troviamo neppure accennata nella Giustiuianea collezione. Veggasi Flavio Vopisco in vita Tacit., cap. IX.

3 «Hoc genus calumniae eo processi!, ut haec quoque capitalia essent, circa Augusti simulacrum servum cecidisse, vestem mutasse, nummo vel annulo effigiem impressam latrinae, aut lupanari intulisse.» Veggasi Svetonio in Tib., cap. LVIII.

4Svetonio, ibid.

1Svetonio, ibid e TaciL, Annal., lib. I, cap. XIV.

2 Parlando egli dell'accusa fatta da Ispone a Marcello nel tribunale di Maestà, per aver tenuti de' discorsi ingiuriosi sulla persona di Tiberio, soggiunge: «Inevitabile crimen, quum ex moribus Principis foedissima quoque deligeret accnsator, objectaretque reo; nani quia vera erant, etiam dieta credebantur.» Tacit, ninnai., lib. I. Traiano fu molto lontano dal lasciarsi trasportare da questo timido furore. Egli non permise mai che si facessero delle inquisizioni contro i detrattori del suo nome e del suo onore: «Quasi contentus esset magnitudine sua, qua nulli magis caruerunt, quam qui sibi majestatem vindicarunt.» Vedi Plinio nel Panegirico di Trajano.

3 Lib. I, cap. II.

4 Egli fu deposto, e quindi ucciso dopo 20 anni di regno.

1 Blackstone, Cod. Criminale, cap. VI.

2 Statuto 5, cap. I, di Elisabetta.

3' Statuto 27, cap. II, dell'istessa Elisabetta.

4 Statuto 3, cap. IV, di Giacomo I.

5 Statuto 2, cap. VI, di Maria.

6 Statuto 8 e 9, cap. XXVI, di Guglielmo III, confermato dallo Statuto, cap XXV, della Regina Anna.

7 Statuto 4, cap. II, di Elisabetta.

8Statuto 13, cap. I, di Elisabetta. Blackstone, per altro, dice che, dopo la morte di questa Regina, questo delitto fu tassato A’ alta incondotta punibile colla confiscazione de' beni.

1Statuto 13 e 14, cap. Ili, di Guglielmo III.

2Cit. L. 7. D. ad Leg. Jul. Majest.

3 «Reddita est (dice Plinio nel Panegirico di Trajano) amicis fides, liberis pietas, obsequium servis. Verentur, et parent, et dominos habent. Non enim jam servi Principis nostri amici, sed nos sumus; nec pater patriae alienis se mancipiis cariorem, quam civibus suis credit Omnes accusatore domestico liberasti, unoque salutis publicae signo, illud, ut sic dixerim, servile bellum sustulisti, in quo non minus servis, quam dominis praestitisti: bos enim securos, illos bonos fecisti. Non vis interea laudari; nec Portasse laudanda sint; grata sunt tamen recordantibus Principem illum,in capita do«minorum servos subornantem, monstrantemque crimina, quae tanquam de lata puniret; magnum. et inevitabile, ac toties cuique experiendum malum, quoties quisque similes Principi servos haberet.»

1 Constit. ad reprimendum, in extrav. tit. Quomodo. in Lese Maj. crini, proc. Questa Costituzione è dell’imperatore Arrigo VII, e dalla Germania si è infelicemente estesa anche in molti altri tribunali d'Europa.

2 Vedi Tacito, vtnn., lib. III. Svetonio in Domitian. e Plin. in Panegyr.

3 Vedi l’antepenultimo articolo della Legge Camelia di Maestà qui sopra rapportata nella nota 2 a pag. 235.

4 Veggasi ciò che qui sopra a questo proposito si è detto.

5 Veggasi Domat, Supplemento al Dritto pubblico lib. III, tit. II, artic. 4. Noi abbiamo nell’istoria di Francia due casi, ne' quali si trova eseguita questa barbara legge. 1. Un nobile vicino a morire si confessò di aver avuto, in un certo tempo di sua vita, il pensiero di uccidere il Re Arrigo II. Il Confessore ne dette l’avviso al Procurator Generale. L’infelice moribondo, essendosi ristabilito dal suo male, fu sopra questa confessione condannato a morte ad Halles, e la sentenza fu eseguita. 2. Un Vicario di San Niccola dei Campi a Parigi fu appiccato, in esecuzione di un decreto degli 11 di gennaio del 1590, per aver detto che si sarebbe trovato anche qualche altro uomo da bene come Giacomo Clemente, per uccidere il Re Arrigo IV; e che in mancanza di ogni altro vi sarebbe stato egli stesso. Veggasi Bouchel nella Biblioteca del Dritto Francese, all’articolo: «Lesa Maestà. I Giureconsulti francesi pretendono difendere questa legge con quella del Romano dritto che dice: «Eadem severitate voluntatem sceleris, qua effectum in reos laesae Majestatìs jura puniri voluerunt.» Questa è la L. 5. C. ad Leg. Jul. Majest. Ma essi son nell'errore., poiché per voluntatem. sceleris qui non s’intende il semplice pensiero, ma l’intenzione accompagnata dall’atto, ma non riuscita. Un’altra legge espressamente ci dice: «Cogitationis pcenam nemo patitur; e quest’antinomia era troppo visibile per non saltare agli occhi di Triboniano istesso.

1 Veggasi Plutarco nella Vita di Dionisio.

2 Il Codice Vittoriano, lib. IV, cap. VII, art. 5.

3 Ordinanza del 22 dicembre del 1477.

4 Constitutiones nova: Senatus Mediolanensis, lib. IV, tit. De crimine laese Majestatìs.

5 Veggasi Farinacio, tom. I, opp. I, quest. I, num. 69 e 72. Giulio Clario, lib. Sententiar., § Leaee Majestatìs Crimen ed altri. Gotofredo ci dice anche che l'opinione della maggior parte de' Dottori è questa; e questa opinione ha infelicemente avuto vigor di legge, dove questa mancava: «Qui nudam factionis notitiam habet citra participatae factionis crimen (de quo aliae sunt leges), certe in proprio perduellionis crimine versatur capitali, et hunc conscium, poena puniri frequentior schola recte sciscit.» Vedi Jacob. Gothofr. ad L. quisquis C. ad L. Jul. Majest.

1 Lo Statuto 1 e 2, cap. X, di Filippo e Maria, dichiarano il delitto di non rivelazione semplice Fallo-mepris.

2 Veggasi l’istoria di questo processo alla fine del XV volume della traduzione dell'Istoria generale di Tuano. Sotto il regno di Arrigo IV vi fu anche un altro esempio di questa Datura, nella persona di un cuoco del re, al quale un gentiluomo del Desinato aveva offerta una somma di danaro, perché avvelenasse il suo padrone. Il cuoco rifiutò l’offerta, ma non denunziò Il delitto del gentiluomo; e fu condannato e punito come reo di Maestà. Veggasi Bouchel nella Biblioteca, del Dritto Francese, all'articolo: Lesa Maestà. In Firenze Bernardo del Nero, gonfaloniere, fu condannato a morte per non aver rivelata una congiura contro il Governo. Guicciardini, Istoria, delle guerre d’Italia, sotto Panno 1497.

3 «Quare unusquisque vir, qui modo alicujus precii civis fore studet, m haec Judicibus referat, eumque in judicium trahat, qui patriee insidiatus, vi ad iniquam gubernationem vertere illam conatur.» Plato, De Legib., dialogo IX.

1 Il Giureconsulto Paolo ce lo fa vedere manifestamente. Veggasi Paul. in Sententiis, lib. V, tit. XXIX. Si rileva anche da un luogo del I libro degli donali di Tacito, e dalla poc’anzi citata Filippica I di Cicerone, cap. l'e IX. Ottomano sopra debolissime congetture ha diversamente opinato. Veggasi Hottoman in Comment. de verb. stgn. verbo, perduellis. Non dee recar meraviglia se l’Istoria ci mostra apparentemente il contrario. Quando si faceva dal tiranno morire un cittadino, questo non si faceva colle armi della legge, ma co' sicari, cogli assassini. Silla, Tiberio ed Augusto istesso fecero fare molte di queste esecuzioni; ma la legge non veniva alterata, e la pena seguitava ad esser l’istessa.

2 La Legge Porcia e Sempronia. Veggasi ciò che dice su quest’oggetto il dotto signor Cremani, nella sua rinomata opera, De Jure Criminalilib. I, parte li, cap IV, § 106, nota 7.

3Veggasi la Costituzione di Arcadio ed Onorio in L. Quisquis 5, C. Ad Leg. Jul. Majest.

1 Questa è la pena che si adopera in Francia. Veggasi Domat Supple~ mento al Drillo pubblico, lib. III, tit. II, art. VI. In Inghilterra si strappa il cuore del condannato, e gli si dà sulle gote; è cosa meravigliosa il vedere, quanto le leggi de' tempi barbari erano più dolci riguardo a quest'oggetto. Veggasi il Codice de' Visigoti L. Il, capo II. L’Editto di Teodorico, capo CVII.

Codice de' Bavaresi, tit. II, cap I, art. I, e cap. II, articolo unico.

1 Plat., De Legib., dial. IX, pag. 860.

1 Nella Monarchia ereditaria l’attentato contro la vita della moglie del re, o dell’erede del trono, è giusto che sia della maniera istessa punito. La prima, associata alla sovranità, ed il secondo, destinato a succedervi, debbono avere gl’istessi riguardi che la legge esige per colui ch'è sopra il trono.

1 In Inghilterra, in vigore del contratto fatto con Guglielmo III, contratto che ha il vigore di Legge fondamentale, la nazione può legittimamente sollevarsi per mantenerne l'osservanza; ma si avverta che, in questo caso, la nazione non si solleva contro il sovrano, ma contro il suo primo Magistrato; si può dire che in questo caso il sovrano si arma contro del re.

2 Majestatìs sitigulare et unicum crimen eorurn qui crimine vacant. Plinio, Panegyr.

1Viaggio in Siberia dell'abate Chappe d'Auteroche, tomo I, pag. 492, dellediz. di Amsterdam del 1769. Il manifesto della fu Czarina del 1740, fatto contro la famiglia Olgaurouki, ci conferma ci che dice il citato viaggiatore. Uno di questi principi fu condannato a morte per aver profferite alcune parole indecenti che avevano rapporto alla persona dell'Imperatrice; ed un altro per aver malignamente interpretate le sue disposizioni per lImpero, ed offesa la sua persona con parole poco rispettose.

2Viaggio in Siberia, ibid.

3Ibid.

4Veggansi le Istruzioni di Caterina alla Commissione stabilita per la formazione del nuovo Codice, art. XX, § 460.

1 «Tam moderata judicia sunt a majoribus constituta, ut ne prona capitis cum pecunia conjungatur.» (Cicero pro domo sua). La Legge Cornelia De proscrip. dichiarò i figli de' proscritti incapaci di godere di alcuna dignità e de' beni de' padri confiscati.

2 Mattbrei, Comm., ad lib. XLVIII. Dig., tit. Il, cap V, § 7. Cesare finalmente fu quegli che unì la confisca de' beni all’esilio, in tutti i delitti che prima eran con quest'ultima pena puniti. Vedi Svet. in Cassar.

3 «Sed quando quis ea patravit, que pecuniarum muleta luenda sunt, quod supra sortem possidetur, id impendatur; sors integra maneat.» Plat., dial. IX, De Legìb.

4 «Et ut breviter dicam, peccata patris non luant filii, etc.» Plat., ibid.

1Quest’esilio si chiama furh), a differenza di quello che si chiamava ostrakismoj che non durava più di dieci anni. Potteri, Archceologiae Graecae lib. I, cap. XXV.

2 Ean tij polin prodidw, h ta ieru klepth, kritenq a en dikasthriw, an katagnwqh, mh tafhnai en th Attikh, kai de crhmata autou dhmosua einai.

«Si quis in judicio proditionis, ut sacrilegii damnatus fuerit, intra Atticam ne seppellitor: bona ejus publicantor.» Questa legge e rapportata da Senofonte nel lib. I, é ellenikwn.

3 «Peccata patris non luant fili!, nisi pater, avus, ac proavus deinceps „ capitis rei sint: hos autem cum bonis suis, SORTE SEMPER EXCEPTA, m in antiquam civitas patriam mittat. Et de filiis civium, quibus plures quam unus sunt, non pauciores quam decem annos nati, eos sorte deligant, quos patres, aut avi paterni maternive nominaverint, nominaque ipsorum Delphos mittant, et qui oraculo Apollinis approbabitur, huic feliciore fortuna SORS et domus destituta reddatur.» Plat., De Legib, dial. IX.

1 Ammian. Marceli, lib. XXIII, cap. VI. Herodoto, lib. III. Giustino, lib. X, cap. II.

2 Q. Curzio, lib. VI, cap. II; lib. VIII, cap. VI.

3 Giustino, lib. XXI, cap. IV.

1 «Filii vero ejus, quibus vitam imperatoria specialiter lenitate concedimus (paterno enim deberent perire supplicio, in quibus paterni, hoc est, haereditarii criminis exempla metuuntur) a materna, vel avita, omnium etiam proximorum hrereditate, ac successione habeantur alieni; testamenti extraneorum nihil capiant; sint perpetuo egentes, et pauperes; infamia eos paterna semper comitetur; ad nullos prorsus honores, ad nulla sacramenta perveniant: sint postremo tales, ut bis perpetua egestate sordentibus sit et mors solatium, et vita supplicium.» L. 5, § 1. C. ad Leg. Jul. Majest.

2 Domat, Supplemento al Dritto pubblico, lib. III, tit. II, § 6.

1Veggasi su quest’oggetto il titolo del Digesto: «Si quis jus dicenti non obtemperaverit. »

2 In Atene questo delitto era punito coll’esilio: Me upodekesqai twn feugontwn udenaj, e en toij autois enecesqai upodecomhnon touj feugontaj. «Exulum nullum recipito: qui secus faxit in exilium mittìlor.» Demosthenes in Polyclem. Veggasi anche Platone nel luogo qui appresso citato.

3 «Qui exulem, seu quemvis hujuscemodi fugientem susceperit, inoria tur. Quippe, quem civitas amicum sibi, vel hostem decreverit, eundem sibi quisque similiter existimare debet.» Plat., De Legib., dial. XII. Veggasi anche la Legge 1, Cod. de his qui latrouj vel aliis critnin. reoSj etc. e L. 1, D. De Recept. 1 parenti dovrebbero essere esclusi da questa pena. Le romane Leggi, malgrado il rigore eccessivo, col quale punivano questo delitto, volevano che si diminuisse la pena ne cognati, ed in quelli che avevano qualche affinità col delinquente. Vedi L. 2, D. De R. eceptator. La moglie, il padre, la madre, il figlio, i fratelli dovevano dunque essere interamente esclusi.

4 «Si quis rem furto sublatam sciens receperit, in eadem culpa sit, qua ille qui furatus esto.» Plat., ibid.

1 Chi volesse vedere le disposizioni del Dritto Romano riguardo a quest'oggetto, potrà leggere Noodt, Commentar. Ad Pattd., lib. II, tit. V, et tit. VII ed i due titoli del Digesto: Re quis etitn qui in jus vocabiturj vi eximat; e l’altro: De eo, per quem factum eut, quominus quis in judicio sistat. Per quel che riguarda la contumacia negli affari criminali, io ho bastantemente enunciate le mie idee su quest’oggetto nella prima parte di questo terzo libro, al cap. VIII.

2 Leggasi le disposizioni del Romano Diritto su questi delitti. Nelle Pandette sotto il titolo: De Lege Cornelia de falsis, et de SC. Liboniano. La Legge Cornelia non riguardava propriamente che il falso testamentario e numerario; ma i Senatusconsulti, e le Costituzioni de' principi l’estesero alle falsificazioni degl'istrumenti, lettere, nomi, testimonianze, accuse, obbligazioni, misure e pesi. Da ciò nacque la distinzione tra' delitti di falso e di quasi falso. I primi erano quelli, de' quali parlava la Legge Cornelia, i secondi quelli che nascevano da' Senatusconsulti e dalle Costituzioni dei principi. Vedi L. 1, § ultimo, e L. 16. D. h. tit.

3 La Legge di Atene che riguardava queste ultime due specie di delitti era la seguente: Eav tij Aqhnaiwn lambanh para tinoj, h autoj didw eterw, h diafqeirh tinaj epaggellomenon epi blabh tou dhmu, kai tinoj twn politwn tropw h mhcanh htinioun, atumoj estw, kai paidej, kai ta ekeinu. «Si quis Atheniensium ab alio munera accipiat, aut ipse det alteri, aut pollicitationibus corrumpat alios in perniciem Populi aut alicujus civis, aut quocumque alio modo et arte, ignominiosus esto cum libe ris et bonis suis.» Demosthenes in Midiana.

4 Veggasi il II e III Capo della prima parte di questo III libro, dove si è detto, come è stato e come anderebbe punito questo delitto.

5 Questo è l’istesso che convertire un dritto prezioso, che dà la legge, in un’arma infame di estorsione. Contro questo delitto competeva in Roma il giudizio pubblico della Legge Cornelia De falsis. Vedi L. 2, D. De concuss. L. 8, D. De calumniat. L. ultima, D. Ad L. Cornei. De falsis, etc.

6 Io mi servo di quest’adottata nomenclatura. Senza dilungarmi nel definire questi delitti, io mando il lettore alla Legge 211, D. De verbor. significat. ed al titolo del Digesto, Ad Senatusconsultus Turpillianum, ed al Cod. cod. tit.

7 Veggas Capo, dove si è parlato dell'uso de' giuramenti ne' giudizii criminali, nella prima parte di questo III libro.

1 Mi piace qui rapportare un frammento delle decemvirali tavole, relativo a questo delitto: «Qui se sirit testarier Libripens ve fuerit ni testimonium fariatur improbus intestabilis que estod.» Aulo Gellio, lib. XV, cap. XIII. Quell’espressione Libripens. ve fuerit c’indica che ancorché colui che chiamato in testimonio rifiutava di deporre, fosse una persona pubblica, la sua condizione non escludeva dal comun dovere, e per conseguenza dalla pena.

2 Questa è un’altra specie di prevaricazione. Le Romane leggi le danno l’istesso nome. L. 3, § quod si Advocatus D. De pracvaricator. L. 1, C. De advocat. Cujac. in Observat. L. 9, cap. XL.

3 Leggansi le disposizioni della Legge Calpurnia (chiamata anche Cecilia, forse dal nome dell'altro Tribuno della Plebe che fu collega di Lucio Calpurnio Pisone autore di questa Legge), della Legge Giiuiia, della Legge Servilia, della Legge Acilia, della Legge Cornelia e della Legge Giulia, De pecuniis repetundis. Sigonio ha raccolti tutti i monumenti degli antichi scrittori relativamente a queste leggi, nel cap. XXVII del lib. II, De Judiciis. Che il lettore legga anche il titolo del Digesto e del Codice: Ad Legem Juliam Repetiuidarum, dove troverà i delitti qui sopra accennati.

4 «Qui patri in aliqua re ministrant, nullo modo munera recipiant; nec ulla occasione, aut ratione nobis persuadeamus, in rebus quidem bonis suscipienda esse munera, in aliis minime. Nam nec cognoscere facile est, neque quum cognoveris, continere. Idcirco totius est, legibus obtemperare, dicentibus, nulla pro patria? ministerio munera esse suscipienda. Si quis vero minus obtemperasse damnatus fuerit, moriatur.» Plat., De I. egib., dialogo XII.

1 Touj dwrodokountaj, h qanatw zhmiousqai, h dekaploun tou exarchj lhmmatos ektinein. «Si quis eorum, qui Rempublicam gerunt, dona acceperit, capite luito, aut ejus, quod accepit, muneris decuplum pendito.» Dinarch. in Demosthenem.

2 L 7, § hodie D. Ad Leg. Jul. repetundarum. Quest'era un avanzo della disposizione delle Leggi delle XII tavole relativa a quest’oggetto. Il frammento indicato da Cecilio in Aulo Gelilo., lib. XX, cap. I, è il seguente: «Sei judex arbiter ve jure datus ob rem dicendam pecuniam accepsit capital estod.» Una conseguenza dello spirito di queste antiche leggi era anche il giuramento che i magistrati e tutti coloro che avevano qualche officio pubblico, dovevano prestare di non ricevere doni, né durante né dopo il corso della loro incombenza, per qualche oggetto che potesse quella riguardare. Leg. ult. Cad. ad Leg. Jul. repetund.

1 Veggasi la L. 1, D. De effractar. L. 28, § 8 e 12,1. D. De pan. L. 15, D. cod.

1 Atimoj eutw, o en stasei mhdete raj mefidoj genomenoj. Si quis in factione non alterius utrius partis fuerit, ignominiosus esto. Lex SoIonis, ex Plutarcho.

1 «Majores vestri (dice Livio, lib. XXIX, cap. XV), ne vos quidem, nisi cum, aut vexillo in arce posito comitiorum gratia, exercitus edictus esset, aut plebi concilium tribuni edixissent, aut aliquis ex magistratibus ad concionem vocasset, forte temere coire voluerunt; et ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum multitudinis rectorem censebant debere esse.»

2Noi abbiam rapportato poc’anzi nel Capo XLV di questa seconda Parte il luogo di Porcio Latro che ci ha conservate le disposizioni delle Leggi delle XII tavole e della Legge Gabina su questi oggetti.

3È terribile la dipintura che ne fa Livio, lib. XXIX, cap. XIII: «Primo, sacrarium id feminarum fuisse.... et interdiu Bacchis initiatas.... post permisos feminis viros, et licentiam noctis accepisse: nihil ibi facinoris, nihil flagitii praetermissum: plura virorum inter sese, quam feminarum esse stupra: si qui minus patientes dedecoris et pigriores ad facinus sint, pro victimis immolari.»

1 Ton exeiponta ta Musthria teqnanai. «Qui mysteria vulgarit, ei capital esto.» Sam. Petitus nel Trattato delle Leggi Attiche tit. I, L. 15.

2 In Atene colui che turbava il buon ordine del teatro ne veniva espulso da' ministri dell'Arconte che vi presedeva, e non volendo ubbidire era con una pena pecuniaria punito. Bastava un’alterazione di parole, bastava un contrasto di competenza di luogo, per soggiacere al rigore della Legge. Veggansi nella Collezione delle Leggi Attiche di Petito, al tit. I, le L. 35, 36 e 38.

3 Le disposizioni del Romano Dritto su quest'oggetto si troveranno nelle seguenti leggi: L. qui coelu 5, D. ad Leg. Jul. de vi publica. L. si quis 5, D. ad L. Jul. de vi privata. L. si creditor ult. D. e od. L. jubemus Jj C. De privatis earceribus inhibent.

4 Checché ne dica l’Autore del Libro de delitti e delle pene j io trovo che il portar armi nelle Città è stato proibito ne' paesi, ove la civile libertà e sicurezza è stata più rispettata. La Legge di Atene era la seguente: Ostij en autei sidhroforoin, mhden h opla exenegkoi eij to dhmosion timasqai. «Si quis intra urbem, nulla necessitate cogente, ferro accinctus, armisque instructus, prodierit, mulctator. Solonis Lex, ex Luciani Anacharside. L’istessa proibizione vi era in Roma ne' tempi liberi della Repubblica, e fu quindi estesa sotto gl'Imperatori molto anche di più. Veggasi Sigonio, De Judiciis, lib. II, cap. XXIII. Antonio Mattei, Com., ad lib. XLVIII, Dig., tit. IV, cap. I, num. 4, e l’accuratissima opera del signor Cremani, De Jure. Crim. lib. I, parte IH, cap. IV, De vi publica et privata. Quello che sarebbe da permettersi, è il portar armi allorché si viaggia. Non bisogna privare il viaggiatore di un mezzo di difesa, ed il ladro pubblico di un timore di più. Nelle Città il cittadino è bastantemente custodito dal Governo per non aver bisogno del loro soccorso. La Legge di Solone non proibiva le armi che nelle Città.

1 Le decemvirali tavole chiamavano ugualmente parricida colui che manifatturava il veleno, e colui che lo dava: «Qui malum venenum faxit dait ve Parricida estod.» Veggasi il passo di Festo nei fine della lettera P, supplito, per le lacune che vi si trovano, da Scaligero. Co’proposti canoni che determinar debbono i diversi gradi di ciaschedun delitto, noi non avremo bisogno di discendere a tutti que’ dettagli che si ritrovano nella Legge Cornelia De Veneficiis, e nei Senatusconsulti che l’interpetrarono.

2 In questo titolo io non parlo che de' venditori di veleno o delle bevande destinate a procurare l’aborto. Il delitto di coloro che ne fanno uso, deve essere in un’altra classe allogato.

1 Veggasi Io Statuto 51, cap. VI, di Arrigo III, e lo Statuto 12, cap. XXV, di Carlo II.

2Questa Legge esiste nel diritto comune. Veggansi le Pandette sotto il titolo Ad Leg. Jul. de Annona.

3Quando le imposizioni si riducessero ad una tassa fissa su i fondi, basterebbe condannare al doppio del pagamento il fraudatore per punire questo delitto. Allorch ho parlato del dazio diretto, io ho bastantemente mostrata la semplicit della percezione e la maniera di evitar le frodi. Il lettore non ha che a vedere il cap. XX del libro II.

1Veggasi la L. 2. D. ad Leg. Jul. de Annona e L. aiuionam 6, de Extr. crim.

2 La novella 122 di Giustiniano contiene le lesioni più enormi della proprietà personale.

1 Cic. in Verrem, orat. III.

2 Questa legge di Silla riguarda i vari delitti de falso. L'articolo che riguardava la falsificazione delle monete è il seguente:«Preetor, qui ex hac lege (idest de falso) quseret, de. ejus capite quaerito,qui nummos aureos partim raserit, partim tinxerit, vel finxerit; qui in aurum viti! quid indiderit; qui argenteos nummos adulterinos flaverit; qui cum prohibere tale quid posset, non prohibuit. Qui nummos stanneos, plumbeos emerit, vendiderit dolo malo: eique damnato aqua et igni interdicito.» Sigonius, ut infra.

3 Sigonius, De Judiciis, lib. II, cap. XXII.

4L. Quicumque 8, D. ad Leg. Corneliam de falsis. L. 9, D. cod. L. si quis 2, C. de falsa moneta.

5 Nelle Costituzioni Napolitane noi troviamo, per altro, qualche differenza nella pena di questi delitti. La Legge di Ruggiero condanna il falsificatore delle monete alla morte ed alla perdita de' beni, ed il rasore delle vere alla pubblicazione de' beni e della persona. Veggansi nella Collezione delle leggi barbare di Lintembrogio le Costituzioni Cicutet lib. III, tit. XL, § 2 e 3.

1 L. hodie 32, D. ad Leg. Cornel, de fals.

1 L. 9, § 2, e L. 4, § 3, 4, 5, D. ad Leg. Jul. peculat. Vedi Cujac. ad Cod., lib. IX, tit. XXVIII. Duaren. in commentar, ad Pandect., tit. adLeg. pecul., cap. I e IV. Altro non vi era forse di comune tra questi due delitti, se non che la questione del peculato e quella De residuis erano all'istesso Pretore affidate. Veggasi il luogo di Asconio nella Corneliana presso Sigonio, De Judiciis, lib. II, cap. XXIX.

2 Kaq' ekaston etoj taj antiadoseij, ton eij leiturgian tina ceirotonoumenon upexelqein ek tou snutagmatoj, ei tina eautou plusiwtemon scolazonta epedeiknue ei mhn o problhqeij omologei plusiwteroj ei nai, eij touj triakosiuj antikaqistatw, ei de hrneito, ousian antedidosan. «Quotannis ad facultatum permutationes provocante. Se positus ad obeunda munera classe sua excedito, si quem se locupletiorem vacantem ostenderit. Si is, qui designatus est, locupletiorem se esse fassus sit, in trecentos alterius loco refertor: si neget, facultates inter se permutante.» Demosthen. in Leplin et Phenipp. La casa dell'accusato veniva subito suggellata dall’accusatore, per impedire che se ne traessero le ricchezze che ivi si contenevano, Parasemai nein ta oikhmata tou problhqentoj. «Ejus, qui ad facultatum permutationem provocatus est, aedes obsignator.»

1 Nella VI classe.

1 La mannaja, la forca ed il fuoco non debbono sicuramente esser gli istrumenti della sanzione penale in questi delitti. L’infamia, la perdita o la sospensione dalle civiche prerogative, la privazione della personale libertà, l'esecrazione, ecc. sono le opportuni pene per delitti di questa natura. I nostri codici sono molto lontani da questo metodo di punire, ed il loro ingiusto ed inopportuno rigore cagiona l’impunità, ed i progressi de' vizi che una più moderata sanzione basterebbe a reprimere.

2 Maximus Tyrius, Dissert. X.

3 Strab., lib. X.

4 Potteri, Archaeologiae Graecae lib. IV, cap. IX.

5 Xenophon., De Repub. Lacedcem. et Plutarc., Instit. Lacon.

6 Plut in Lycurgo.

1 AEliam. Far. Hist., lib. XIII, cap. V.

2 Plutarc, in vita Cleomenis.

3 Doulon eleuqeru paidoj mh eran, mht'epakoluqein, h tuptsqai th dhmosia mastigi penthkonta plhgas. «Servus ingenuum puerum ne amato, neve assectator; qui secus faxit, publica; quinquaginta plagarum ictus illi infliguntur.» Eschines in Timarchum.

4 Solone istesso conobbe questo virtuoso amore, come ce l'attesta Plutarco in vita Solonis.

5 Ean tuj eleuqeron paida h gunaika proagwgeush, ton proagwgon grafesqai, kan alwh, qanatw zhmiousqai. «Si quis ingenuum puerum, aut feminam produxerit, dica ei scribitor: convictus morte mulctator.» Eschines in Timarchum.

6 Ean tina ekmisqwsh etairein pathr, h adelfoj, h qe oj, h epitropoj h olwj twn kuriwn tij, kat'autou men tou paidoj grafhn etaiρήσεως ٥ύκ εiναι, κατά dέ τού μισθωσαντoj, και τού mισθωmενoυ, τού mεν oti έξεmίσθωσε, τού δε oτι εmiσθωσατο, καί ισα τα έπιτιmια εκατερω εiναι. «Si quis alium prostituerit, sive pater is sit,sive frater, sive patruus, sive tutor, sive quis alius, in cujus potestate sit; adversus puerum impudicitise actio ne esto, sed adversns illum, qui prostituerit, et qui conduxerit. Et uter que eamdem pcenam incorunto.» Idem, ibid.

7j a paida, dr, , , mon, , oij . «Si quis puerum, aut feminam, aut hominem, sive ingenuum, sive servum, corruperit, aut opprobrium contra leges fecerit, dicat ei Atheniensium quivis, cui fas esto, scribito, etc.» Idem, ibid. Demosthenes in Midiana.

1 Αν τις Αθηναίων εταιρηση, mh εξέστω αύτω twn εννέα Άρχοντων γενεσθαι, mhd ιερωσύνην ιερασασθαι, mhde sundικηsai τώ dηρω, mhde αρχήν άρχετω mηdεmιαν, mhte εκdηmon, mhte κληρωtηn, mηtε χειροτοnηtην mhd'επί κηρuκείαν αποστελlέσθω, mηdε grωmην λεγετω, mη'είς τα dηm٥τελη ierά είσετw, med'en ταΐς κοιναΐς στηfανηfοριαις στεfανoύσθω, mηd'έντος τών της αγοράς περιrrαntηriων πορευέσθω. Εaν dε τις ταύτα ποιh καταγνωσθεντος αύτού ετάιrεin, θανατω zηmιούσθω. «Si quis Atheniensium corpus prostituerit, inter novena Archontas ne sorte capitor; sacerdotium ne gerito: syndicum creari fas non esto; magistratum nullum, sive intra, sive extra fines Atticae, gerito, vel sorte captus, vel suffragiis creatus: praeco nullum in locum mittitor: sententiam ne dicito; in templa publica ne intrato: neque cum ceteris in pompis coronatori neque intra fori cancellos ingreditor. Si quis autem impudicitia damnatus legem hanc praeterhabuerit, capite luito.» Eschines in Timarchum.

Io credo che l’amor de fanciulli presso i Greci fosse simile al nostro Comparatico. I doveri del Patrino paiono simili a quelli dell'Amatore presso i Greci. Egli doveva educare il fanciullo, come il Patrino è dall'ecclesiastiche leggi obbligato ad educare il suo figlioccio, ed a far le veci del padre. Non voglio qui trascurare di paragonare l'opportunità dell'Attica sanzione colla feroce pena del fuoco, stabilita per gli Pedaristi dagl’imperatori Costanzio, Costante e Valentiniano. (Vid. Jacob. Gothofr. ad Leg. Jul. de adult., et Cod. Theod. tit. ad Leg. Jul. de adult.) Io fremo nel vedere leggi così feroci adottate così universalmente. Io fremo, allorché veggo che tutta la correzione fatta in Inghilterra all'antica legge si sia ristretta a permutare il fuoco colla forca. (Vedi lo Statuto 25, cap. VI, d’Arrigo VIII.) Io fremo più che d'altro nel sentire che Giustiniano, avendo pubblicata una legge contro questo delitto, si contentò della deposizione di un sol testimonio, qualche volta di quella di un fanciullo, e qualche volta di quella d'uno schiavo, per condannare l’accusato a tutto rigore della pena. (Vedi Procopio, Istoria secreta.) Pare che alcuni legislatori si sian serviti delle Leggi non per prevenire i delitti, ma per trovare de' delinquenti. In fatti l’istesso Procopio dice che i ricchi e quei della fazione Verde erano le più frequenti vittime di questa legge. Procop., ibid.

1 Mi piace rapportare qui un luogo di Platone che concorre a garantire questo nume dell’antichità da questa falsa imputazione. Abstinendum igitur a maribus jubeo. Nam qui istis utuntur, genus hominum dedita opera interficiunt, in lapidem seminantes; ubi radices agere quod seritur numquam poterit. Plat., De Legib., dialogo VIII.

2 Vid. cit. Maxim. Tvr., Dissert. VIII, IX, X, XI.

3 Diodoro, lib. I ed Erodoto, lib. Il, dove parlano dell’Egitto, ci fan vedere la Legge contro gli oziosi venuta dall'Egitto nella Grecia. Una gran parte de' popoli dell'antichità l'ha anche adottata. Veggasi Perizon, ad AElian. Par. Misi., lib. IV, cap. I, pag. 328.

1 Cap. XIX, art. 15.

2 Alcune Leggi Attiche ci faran vedere quanto alcuni di questi delitti richiamar debbono la vigilanza del legislatore nelle Repubbliche. L’accusa di peregrinità era terribile in Atene. Demostene, Orat. in Neceram, ci ha conservata la Legge che permetteva a ciaschedun cittadino di accusare lo straniero che aveva illegalmente ottenuto, o si era arrogato, il dritto di cittadinanza. L istesso Demostene ci ha, in altro luogo, conservata la Legge che escludeva l’accusato dal dritto di non esser prima del giudizio condotto nelle carceri (prerogativa che l’Ateniese godeva in altre accuse) e la pena che veniva minacciata a questo delitto: Tou$ thj xeniaj gragqentaj en tw oikhmati pro thj krisewj; men einai, kai mh exeinai egguhtaj katasthsai, kan men alwsi, kai para tw dikasthriw peprasqai. «Peregrinitatis accusati in vincula, ante quam judicium reddatur, conjiciuntor. Fidejussores dare iis jus non esto. Convicti apud judices venduntor.» Demosth. in Timocratem. Ipperide ci ha indicata un’altra Legge, che stabiliva un’eccezione per i giudizii di questo delitto. Se l'accusato era assoluto, poteva esser accusato di nuovo di aver corrotti i giudici co' doni: Touj apofugontaj xeniaj tw bulomenw palin graψαsqai dwroxeniaj. «Absolutum judicio peregrinitatis jus esto cuicumque libuerit, accusare corrupti muneribus judicii.» Hyperides in Aristagoram.

1Uno de' gravi delitti che Cicerone rimprovera a Verre, è di aver fatto perire sulla croce Gavio, che come cittadino Romano non poteva soggiacere a questa specie di pena. Tu hai violati i dritti della patria, dice egli, dispreizando i privilegi de' suoi individui. Veggasi la settima Verrina, dove con uno de' più brillanti tratti di eloquenza quest'immortale Oratore espone il valore di questo attentato.

2Le disposizioni delle Leggi Attiche su quest'oggetto eran molte ed ammirabili; per conoscerle il lettore potrà rivolgersi alla collezione di queste Leggi fatta da Petito, lib. I, tit. 1, De Legibus.; tit. II, De Senatusconsultis et Plebiscitis; tit. Ili, De Civibus aboriginibus, et adscititiis; tit. IV, De Liberis legitimis, nothis, etc.; lib. III, tit. I, De Senatu Quingentorum, et Conclone; tit. II, De Magistratibus; tit. Ili, De Oratorib. Il lettore potrà anche osservare le varie leggi in diversi tempi emanate in Roma contro 1 Ambito. La prima fu quella che proibiva a' candidati l’uso della toga molto bianca, per richiamare gli sguardi del popolo: Ne cui album in vestimentum addere petitionis caussa liceret. Questa è rapportata da Livio, lib. IV, cap. XXV, e fu emanata nell’anno ab U. C. 322. La natura istessa della proibizione indica l’innocenza de' tempi. La Legge Poetelia rapportata dall’istesso Livio, lib. VII, cap. XV, e considerata da lui come la prima Legge contro l'Ambitot mostrava l’introduzione del male. La Bebia Emilia; la Cornelia Fulvia; quelle rapportate da Cicerone nel lib. III, De Legibus, il nome delle quali si è perduto; la Legge Maria; la Legge Fabia; la Legge Acilia Calpumia; la Legge Tullia; la Legge Aufidia pubblicata due anni dopo; la Legge Licinia; la Legge Pompea; la Legge Giulia di Cesare. e la Legge Giulia di Angusto che, per cosi dire, si succedevano, quasi senza interruzione, l'una all'altra, ci mostrano i progressi del male, la corruzione della Repubblica e la rovina della libertà. Infelice quella Repubblica ch'è costretta a moltiplicare e rinnovare di continuo le Leggi contro questo delitto, in questa Repubblica si avvererà la predizione di Giugurta: O urbem venalem et cito perituram, si emptorem invertenti Veggansi Livio, oltre a' citati luoghi, anche nel lib. XL, cap. XIX. Id. Epit. 47, Dion. Cass., lib. XXV. Ascon., in Corn. et in Milon, Cic. pro Sext., cap. XXVI, in Vatin., cap. XV. Dion. Cass., lib. XXIX et lib. L. Svet., in August., cap. XXIV. Veggasi anche Sigonio, De Judiciis, lib. II, cap. XX.

1 Ton astrateuton, kai ton deilon, kai ton liponta thn taxin, apegesqai agoraj mhte stefanousqai, mht/eisienai eij ta iera ta ghmotelh. «Qui militiam detrectat, aut ignavus est, aut ordinem deserit, a foroareetor, neque coronator, neque in publica intrato templa.» AEschincs in Ctesiphontem Demost., loc. cit., nieìatévac et$ ispàj. «Qui arma abjecerit, ignominiosus esto.» Lysias in Theomnestum Orat.

1 Touj automolountaj qanatw zhmiousqai Atimoj estw kai polemoj tou dhmu twn Aqhnaiwn kai twn summacwn autoj kai genoj. «Trasfugae capite puniuntur.... Ignominiosus esto, hostisque esto populi Atheniensis, et sociorum, quam is, tum ejus liberi.» La prima sanzione è rapportata da Ulpiano ad Timocratemi e Ja seconda da Demostene nella Filippica III. Si avverta che qui si parla di colui che, rifuggendosi presso l’inimico, ha rivolte le armi contro la patria.

2 In Francia sotto il ministero del conte di Saint Germain.

1 «Sed quaenam abiectionis armorum damnato, et a virili fortitudine de generati poena congrua erit? praesertim quum impossibile sit hujusmodi in contrarium commutari, aut Ceneum Thessalum ferunt divina quadam vi n in naturam viri ex foemina commutatum. Abjectiori enim armorum, contrarium maxime conveniret, ut in mulierem ex viro translatus, sii puniatur. Nunc vero quoniam id fieri non potest: proximum aliquid excogitemus, ut postquam ille usqueadeo vivendi cupidus est, deinceps nullum periculum su beat, sed reliquam vitam, et quidem quam longissimam improbus, et cum dedecore vivat. Haec igitur lex sit. Eo, qui arma turpiter projecisse damna tus est; nec imperator, neque praefectus aliquis pro milite unquam utatur, nec in aciem recipiat.» Plat., De Legib., dial. XII.

1 Veggasi nell'antecedente capo il titolo V.

2 Questo delitto è punito colla perdita della mano, nella più gran parte de' Codici d'Europa. Ma la mutilazione delle membra non dovrebbe aver luogo in una legislazione, nella quale l'umanità regolasse la sanzione penale. Questa pena è stata dagli Egizj introdotta. Vedi Diod., lib. I, pag. 89.

3 Questa merita una pena maggiore che non merita il falsificatore delle monete, che non è impiegato nella zecca. Anche nel Dritto Romano si trova questa distinzione. Veggasi la L. Sacrilega 6, § 1. D. Ad Leg. Jul. Peculat, e L. 2. C. De fals. mon.

4 L’istesso legislatore che stabili nell’Egitto la perdita della mano pel delitto poc’anzi menzionato, stabilì la perdita della lingua pel violatore del pubblico secreto. Diod., ibid.

1Nel secondo libro, cap. XV.

2Nel capo XL di questo III libro.

1 «Si quis consilio suo, absque auctoritate communi, pacem inivit, aut bellum movit, ultimo supplicio condemnetur. Quod si pars civitatis id tentavit, hujus rei auctores a militiae Imperatoribus tracti in judicium, et damnati morte plectantur.» Plat, De Legib. dialog. XII.

2 «Hostium quoque jus, et sacra legationis, et fas gentium rupistis.» Annal, lib. I, cap. XLII, num. 3. «Legatorum privilegia violare, rarum est inter hostes.» Hist., lib. V.

3 Sic enim sentio, jus legatorum, quum hominum praesidio munitum sit, tum etiam divino jure esse vallatum.» Cicer., Orat. de Harusp., cap. XVI.

1 «Utrices legatorum Dirae violationem juris gentium prosequuntur.»

2 Vedi Livio, Decad, I, lib. IV.

3 In Inghilterra per lo Statuto VII, cap. XII, della Regina Anna, se in virtù di un processo un ambasciatore o alcuno degl’individui della sua casa venisse arrestato, o sequestrati i suoi effetti, il processo è pieno pire dichiarato nullo dalla Legge, e tutti coloro che vi hanno avuta parte sono dichiarati violatori della Legge delle nazioni, e perturbatori del riposo pubblico, e puniti come tali. Nel caso poi di un’offesa enorme, la Legge non ha stabilita una pena particolare, ma ha dato a' tre principali giudici del Regno un potere illimitato di proporzionare la pena all'oltraggio. Questa indeterminazione di pena non è per altro degna della Britannica Costituzione. In qualunque delitto bisogna che il cittadino sappia a quali rischi si espone commettendolo, e la fissazione della pena deve in qualunque delitto esser sempre l’opera della Legge, e mai del magistrato o del giudice. Questa lunga e penosa ripartizione de' delitti che io fo, sarebbe inutile, se destinata non fosse a conseguire questo grande oggetto.

1 Erodoto. Forse l’istessa sottigliezza ha fatto che in Inghilterra la pena del parricidio non sia diversa da quella dell’omicidio pensato. Veggasi Blackstone, Codice criminale d’Inghilterra, cap. XIV.

2 Veggasi Cic., pro Sext. Rose. A merino dove osserva che l’eccesso di questo delitto non ne fece credere a questo legislatore possibile l’esistenza.

3 Voce Parricidium. Il frammento della Legge Regia, che ci ha conservato l’istesso Festo, ci fa vedere che la Legge non aveva preveduto il caso del vero parricidio, ma soltanto quello di un oltraggio recato al padre. «Sei. Parentem. Puer. Verberit. Ast. Oloe. Plorasit. Diveis. Parentum. Sacer. Estod. Sei. «Nurus. Sacra. Diveis. Parentum. Estod. Veggasi Festo, voce Plorare.

4 Nel capo XXV di questo libro, dove si è parlato del rapporto del sistema penale collo stato della società. Io non ho la notizia che altri abbia data questa interpretazione a quest'antica Legge: questo mi farebbe dubitare della mia, se una nuova serie d'idee non mi ci avesse condotto.

1 «Qui malum carmen incantassit, malum venenum faxit, duitve, parricida esto. Qui parentem necassit, caput obnubito, culeoque insutus in profluentem mergitor.» Vedi Valer. Maxim., lib. I, cap. I, § 13. Festo, Voc. Nuptias e Nonio, cap. Il, su quel che dice delle voci Perbitere e Perire. Questa pena delle decemvirali tavole fu quindi modificata nel seguente modo. Si cuciva il parricida, dopo aver sofferta la fustigazione, in un sacco di cuoio, in compagnia di una scimmia, di un cane, di una vipera e di un gallo,e si gittava quindi nelle acque (Vedi Modest. in L. 9. D. De Leg. Pomp. de parricidiis). La Legge Pompea confermò quindi quest'antica pena, e l’estese a tutti gli omicidii che riguardavano il Padre, la Madre, l'Avo, l'Ava, il Fratello, la Sorella, il Patrono,o la di lui Moglie (Vedi Paul. V, Sent. XXIV). lo non parlo de' posteriori stabilimenti della Romana Legislazione relativi a questo delitto, perche non potrei farlo senza estendermi più di quello, che potrei 11 lettore potrà consultare la nota opera di Antonio Mattei nel Com. ad Lib., Dig. 48, tit. VI.

2 Diodoro, lib. I, pag. 88, ci ha conservata la pena, colla quale punito veniva il parricidio in Egitto. Si traforava il corpo del parricida con molte piccole canne della lunghezza di un dito; s’inviluppava poi in un fascio di spine, e vi si appiccava quindi il fuoco. La pena poi del padre che uccideva il figlio era molto diversa. Egli veniva obbligato a tenere per tre giorni e tre notti continue l’ucciso figlio tra le braccia, in mezzo alla guardia pubblica della città che lo circondava. Se il pentimento non lo faceva morire, la Legge lo lasciava in vita in preda a suoi rimorsi. La pena del secondo delitto mi pare più plausibile di quella del primo.

3 «Et qui caedis hujusmodi condemnatus fuerit, tam a judicum ministris, quam a magistratibus occidatur, trahaturque extra urbem in statutum trivium nudus, ubi singuli magistratus pro universa civitate in mortui caput lapidem mittant, atque ita civitatem omnem purificent. Demum ultra regionis fines portatum, secundum leges insepultum ejiciant.» De Legib., Dial. IX.

1 Capo XXVII di questo libro.

2 Mi piace di far qui osservare a colui che legge, come la ripartizione che io fo de delitti, combinata co generali principii co' quali noi determinati abbiamo loro diversi gradi di dolo o di colpa, la rendono adattabile all'uso ed efficace a conseguire il nostro oggetto, quale è quello di somministrare al legislatore la maniera di fissare a ciaschedun delitto la pena, senza che il giudice alterare la possa. Si supponga, per esempio, che la pena del parricidio commesso col massimo grado di dolo sia quella da Platone proposta; si supponga che il legislatore abbia stabilita anche la pena per ciascheduno degli altri gradi di dolo o di colpa di questo delitto. In questa ipotesi, supponiamo che una donna abbia esposto il suo figlio, appena nato, in un dato luogo, per non render pubblico il suo parto, o per risparmiarsi la cura di allevarlo. Se questo fanciullo si ritrova morto, e si verifichi la madre che l’ha esposto, allora il giudice non dee far altro, che co' proposti canoni determinare a quale de' gradi di colpa riferir si deve questo parricidio. e condannarla a quella pena che a questo grado di colpa è stata dalla Legge fissata. Il lettore non dee far altro che rileggere il capo XXIX di questo libro, per persuadersi della facilità di questa operazione, e degli ostacoli che impedirebbero ogni arbitrio a' giudici. Quante leggi sull’esposizione risparmiate con questo metodo!

1 Vedi Plutarco, De Placit. Philoph., lib. V, cap. XV. Just Lips., Physiolog. Stoicor., lib. III, dissert. 10.

2 Noi troviamo, in fatti, ne' libri de' Romani Giureconsulti spesse volte chiamato il feto pars ventris, o portio viscerum, o considerato non ancor uomo, finché non abbia abbandonato l’utero della madre. Veggasi tra le altre la L. I, § 5. D. De inspiciend. venir., e L. 9. D. Ad Leg. Falcid. Il celebre Gerardo Noodt crede che prima del rescritto degl'imperatori Severo ed Antonino (che si trova nella L. 4. D. De extraord. crimin.) il procurato aborto rimasto fosse sempre impunito anche nelle maritate donne. Binckersoek al contrario crede che 1 impunità non avesse avuto luogo che per le donne libere. Vedi Noodt in singulari libro, qui inscribitur: Julius Paulus., cap. ult, e Bvnckers. De Jur. occid. liber., cap. VII. Veggasi anche la L. 39. D. De poen. e la L. 4. D. De extraord. crimin. dove si rapportano i due particolari casi, ne' quali questo delitto veniva punito.

3 Capo XLI di questo libro.

1 Nel Codice de' Visigoti la pena della donna ingenua, che si procurava l'aborto, era la perdita della sua libera condizione ed il passaggio nella servitù. Se il marito l'obbligava a bere la pozione dell'aborto, o permetteva che le si desse, tanto colui che preparata aveva la pozione, quanto il marito, era condannato a scegliere tra la perdita della vita o della vista. Vedi Leg. Visigot, lib. VI, tit. III, cap. J.

2 In Londra vi è una casa destinata a ricoverare le donne che vogliono di nascosto partorire. Il secreto vi è inviolabile, e l'onore della donna è al coverto. I fanciulli che nascono da questi parti sono allevati ed educati in un’altra pubblica casa a quest’oggetto destinata.

1 Nelle nostre Costituzioni Sicule una Legge di Ruggero ed un’altra di Federigo condannavano alla mutilazione del naso quelle madri che prostituivano le loro figlie. Veggansi nella collezione delle Leggi barbare di Lindenbrogio le Costituzioni Sicule, lib. III, tit. XLVIII e LIII. La pena infamante, che noi proponiamo, non dovrebbe però lasciare sul corpo del delinquente il seguo indelebile della sua ignominia. Essa dovrebbe esser convertita in una condanna a' lavori pubblici per un dato tempo, nell’infima classe della società. Il lettore, che si ricorda i principii antecedentemente sviluppati, conoscerà il motivo di questa determinazione.

1 Vedi Jacob. Gothofred. Ad Cod. Theodos, L. 2, tit. De rapt. virg. e L. unica tit. Ad Leg. Fab. Veggasi anche la Legge di Giustiniano nel Codice sotto il titolo De raptu virginum, seu viduarum, etc.

1«Sei stuprum comisit. aliud ve peccassit Maritus judex et vindex. estod De que co cum cognatis cognoscito.» Vedi Dion. Halic., lib. Il, pag. 95. Gell., lib. X, cap. XXIII.

1 Legis Wisigothorum lib. III, tit. IV, L. I e 3.

2 Constitutionum Sicularum., lib. III, tit. XLIII. La mutilazione del naso per 1 adultera ha avuto luogo presso altri popoli. L’antica legge attribuita ad Elio, figlio di Vulcano, prescriveva questa pena all’adultera nell’Egitto. Vedi Diod., lib. I, pag. 89 e 90. Nelle antiche Leggi d’Inghilterra si trovava prescritta l’istessa pena unita colla mutilazione delle orecchie.

3 L’estraneo non poteva accusare una donna d’adulterio senza prima convincere il marito di lenocinio. L. constante 26. D. Ad Leg. Jul. de adulteriis. Fuori di questo caso l’accusa d’adulterio non competeva che al marito. Questo temperamento alla libertà dell’accusa è necessario in questo delitto per conservare la tranquillità domestica.

1 'Epeidan de eloi ton moicon, mh exejù tù elonti sunoikein th gunaiki, ean de sunoikh, atimoj ejù. Postquam adulterum maritus adulterii damnaverit, ab uxore adultera divertito; nisi diverterit, ignominiosus esto. Demost. in Nearram.

2 Si coronava di lana l'adultero, si multava con una pecuniaria pena, e si escludeva da tutte le cariche e le dignità della Repubblica. Questa legge è rapportata da Ebano, lib. XII, cap. XII, Var. Hist. Secondo il nostro piano non si dovrebbe far altro che convertire l’infamante pena nella condanna ai lavori pubblici per gli uomini dell'infima classe della società, pe’ quali l’infamia lascia di essere una pena.

3 Athn gunaika, ef h an alw moicoj, mh xeinai kosmeiqai, ean de kosmhtai, tun entuconta katarrhgnunai ta imatia, kai ton kos mon afaireisqai, kai teirgomhnon qanatu, kai tou anaphron poihsai. Adultera in publicum ornata ne prodito: si secus faxit, quivis ejus vestes discindito, ejusque mundum auferto, atque eam pulsato, si libuerit, dummodo ne occidat, aut membro aliquo captam reddat. Aeschines in Timarchum. Questa pena mi pare più opportuna per punire l’adulterio, che tutte quelle che la ferocia di alcuni legislatori ha ideate. Si avverta che io qui adopero la voce adulterio nel senso de' Giureconsulti, e non in quello de' Moralisti.

1 Io mi servo di questa moderazione nel far la censura di questa Legge, perché è stata adottata da una gran parte de' popoli. Oltre gli Ebrei, gli Ateniesi anche obbligarono lo stupratore a sposare la vergine che aveva violata. TÒn btasamhnon korhn authn gamhin. Qui virginem vitiarit, ducito. Vedi Hermogenis Schol., e per gli Ebrei Deuteronom., cap. XXII, v. 28 e 29. Essa ha avuto luogo presso una gran parte de' moderni popoli. Ma se si consulta la ragione, come ci dice, che un delitto che si commette da due persone non deve esser punito nell'una e premiato nell'altra. Se si consulta l’esperienza, questa ci ha pur troppo mostrati i disordini che derivano da questa determinazione. La ragione e l’esperienza prevaler debbono all’autorità ed agli esempi.

2

3 Blakstone, Codice criminale d'Inghilterra cap. XV.

4 Vedi la L. 2, C. ad L. Jul. de adult. L. ancillarum 27, D. de htered. petit. L. verum est 39, D. de furt.

1Tale sarebbe lo stupro fatto dopo un finto matrimonio, dopo aver dato qualche bevanda inebriante alla donzella, nel mentre che quella è fuori de' sensi.

2 In Atene lo stupro di seduzione era maggiormente punito dello stupro violento. La ragione di questa istituzione era che il seduttore corrompeva il corpo e lo spirito della donzella; nel mentre che colui che adoperava la violenza non corrompeva che il corpo. Vedi Lys. Orat., Pro cade Erathost. Io non credo per altro che vi sarebbe un solo uomo oggi che ne pensasse al tremoto.

1 I titoli del Digesto e del Codice Ad Legem Corneliam de Sicariis basterebbe da se soli a mostrarci la necessità che vi era di trovare una nuova strada per perfezionare il Codice penale La Legge di Silla accresciuta e riparata da tanti senatus consulti, da tante disposizioni degl'Imperadori, da tanti responsi de' Giureconsulti, è tuttavia imperfetta e mancante; confonde sotto l’istessa pena delitti molto diversi j è troppo rigorosa, e troppo indulgente nel tempo istesso.

1 Fra' mezzi, co' quali toglier si può la vita ad un uomo, uno de' più funesti per la società è il veleno. La difficoltà di provare l’omicidio, quando si è con questo mezzo commesso, può dare un incoraggiamento al malvagio per la maggiore speranza dell'impunità. Questo è uno di que’ delitti occulti, ne' quali, come si è da noi detto nel capo XLI di questa seconda parte, la stabilita proporzione delle pene dev’essere alterata per la maggiore speranza dell’impunità che ispirano. Per corrispondere, dunque, a questo principio che si è da noi premesso, il legislatore potrebbe prescrivere una determinata alterazione di pena per l'omicidio commesso col veleno in ciascheduno de' suoi gradi di dolo e di colpa. Quest'alterazione non dovrebbe però mai eccedere i confini nella moderazione compresi; non dovrebbe né farsi morire il delinquente nell’acqua bollente, come fece stabilire Arrigo VIII in Inghilterra, né farlo spirare nelle fiamme, come presso alcuni altri popoli si pratica. Non vi è delitto, pel quale la Legge possa profanare la sua sanzione con queste atrocità. In Inghilterra si è moderata l’antica pena; ma in un paese dell’Italia, dove si è scritto e pensato molto sulla criminale legislazione, esiste ancora la pena del fuoco. Vedi lo Statuto 22 d’Arrigo VIII, cap. IX, e lo Statuto I di Eduardo VI, cap. XII, che l'ha corretto. Veggansi anche Constit. Domiu. Mediolan. lib. VI tit. De pan. in princ.

1 Dalle circostanze che accompagnano il fatto, si può facilmente discernere l’oggetto dell'azione. Se io lego, per esempio, un uomo ad un albero, e gli tronco il naso, l’oggetto dell’azione non potrebbe sicuramente esser altro che la mutilazione; ma se io tiro un colpo di fucile ad un uomo che fugge, e, invece di ucciderlo, lo privo dell’istesso membro, allora l’oggetto dell'azione non poteva sicuramente esser la mutilazione, ma la morte.

2 Vedi il capo XXVII di questa seconda parte.

3 Egli aveva dato ad alcuni Sicarii la commissione di uccidere il suo inimico. Questi credettero di aver eseguita la loro commissione co' replicati colpi che scaricati avevano sul collo e sul volto dell'uomo che Coke volea morto, e ehessi credettero di avere ucciso. Il ferito si riebbe; ma il suo volto rimase da ogni parte mal concio e mutilate alcune sue membra. Condotto in giudizio il Giurista come reo di mutilazione, per evitare la pena di morte egli cercò di provare che il suo disegno e quello de' Sicarii era stato di uccidere quell’uomo, e non di mutilarlo; e che, essendo reo di un omicidio tentato, ma non riuscito, non poteva soggiacere alla pena di morte. Questa difesa imbarazzò molto i giudici, i quali, per condannarlo alla morte, dichiarar dovettero che l’istrumento, del quale si erano serviti i Sicarii, indicava che il disegno di Coke poteva essere cosi di far mutilare, come di far uccidere il suo inimico; e ch'essendo avvenuta la mutilazione, doveva presumersi che questa ne fosse l’oggetto. Bisognò dunque provare ch’egli era reo di un delitto minore per condannarlo alla pena maggiore.

Questo fatto è rapportato da Blackstone in una Nota al capo XV del Codice criminale d'Inghilterra. Io non so come questo dotto Giureconsulto non abbia rilevato a questo proposito il vizio della Legge.

1 Nel capo XXVII di questa seconda parte.

2 L. 1, § 3. D. Ad Leg. Corn. de Sicar.

3 «De vulneribus igitur ita sanciamus. Si quis voluerit cogitaveritque amicum hominem, ex iis quos prohibet lex, interficere, vulneraverit autem, nec interficere potuerit; Dune, omni remota misericordia, non aliter, quam si vita privasset, dare caedis supplicium cogeremus, nisi fortunam ejus, non omnino protervam, daemonemque coleremus, qui tam vulneratum, quam m vulnerantem misericordia prosecutus, infelicitati utriusque obstitit, fecitque, ne vulnus huic lethiferum, illi fortuna calamitasque execranda infligeretur.» Plat. De Legib. dialogo IX.

4 Non è necessario stabilire una pena diversa per ciaschedun membro, sul quale cadde la mutilazione. Le sei pene fissate per i sei gradi del delitto basteranno a conseguire la proporzione tra la natura della mutilazione e la pena. Una maggiore precisione poteva aver luogo nelle Legislazioni de' tempi barbari, nelle quali, come si è da noi altrove osservato, capo XXV di questo libro, il Codice penale altro non era che la tariffa de prezzi delle composizioni de' vari delitti. L’Additìo sapientium al Codice de' Frigioni nel tit. Il e III contiene un’enumerazione di pene per la mutilazione di ciaschedun dito della mano, di ciaschedun dito del piede, di ciaschedun membro del corpo. L istessa precisione si trova, a un dipresso, nel Codice de Bavaresi al tit. III, e nella Legge Salica, tit. XIX.

1 Kai ean feronta h agonta bia, euquj amunomenoj kteih nhpoini teqnanai. «Si quis alium injuste vim inferentem continenti neces sii, jure csesus esto. Demosthen. in Aristocratem.

2 Vedi nel Digesto e nel Codice i varii titoli: Ad Legem Juliam de Vi privata. De privat. carcerib. inibend. Ad Legem Flaviam de plagiaritis.

1 Veggasi il capo XXVII di questa seconda parte.

1 Io debbo manifestare a colui che legge il motivo pel quale, in questa classe de delitti contro la vita, e la persona de' privati, non ho parlato della bastonatura. Questo motivo è semplicissimo. O la bastonatura è tale che indica che il disegno dell'offensore era di uccidere o di privare l'offeso dell'uso di qualche membro, ed allora il delitto, secondo gli stabiliti principii, sarà o di omicidio o di mutilazione. Se poi dalle circostanze che hanno accompagnata l’azione, si vede che l’oggetto della bastonatura era di recare piuttosto un oltraggio che storpiare l’offeso, ed in questo caso il delitto di bastonatura avrà luogo nella seguente classe.

2 Egli, come si sa, soffrì pazientemente che il figlio di Cicerone gli gittasse una tazza sul capo.

1«Si qui populo occentasit carmen ve condisit quod infamiam faxit flagitium ve alteri, fuste. ferito». Questa disposizione delle Leggi delle XII Tavole ci è stata trasmessa da Cicerone nel lib. V, De Repub., e dal Giureconsulto Paolo, nel lib. V, Receptarum sententiarum, tit. IV, § 6. Si avverta che occentare pìpulo nell'antico linguaggio valeva l’istesso che publice convicium facere. Occentassint antiqui, dice Festo, dicebant quod nunc, convicium fecerint dicimus, La disposizione di questa Legge, non riguardando che gli attentati manifesti contro 1 onore del cittadino, si adatta a' nostri principii.

2Vedi L. item. 15, § 21 e 23. D. De injuriìs.

3 Vedi L. 5, § 40 e L. 6. D. De injuriìs. e Paul., Receplar. sententiar., lib. V, tit. IV.

4 Veggasi nel Digesto l’intero titolo De injuriis.

5Veggansi le Costituzioni de Principi nel Codice Teodosiano nel titolo De famosis libellis, e la Legge unica del Codice in quest'istesso titolo. Noi siamo per altro molto lontani dall'approvare la pena capitale, minacciata per tal delitto in questa Legge.

6Kathgoriaj di dwsin o nomoj grayasqai pottou oj an blasfhmh tina ouk ecwn apodeixai, peri wn legei safij ouden. Accusationem lex tribuit contra eum, qui aliquod proLrum alicui objecerit, quod aperte demonstrare nequeat. Ex Dione Chrysostomo, Oraione X

7ton legonta kakwj, ean apofainh wj ejin alhqh ta eurhmena, xhmiousqai.Qui de alio detraxerit, ni probarit, verum esse, quod objecit, probrura, mulctatar. Le Solonis et Lysise, Orat. I in Teomnetum.

1 «Satius Lator legis esse duxit (quum impossibile esset furta prohiberi), potius alicujus portionis, quam totius rei amissse homines jacturam pati.» Diod. Stati Rer. Antiq., lib. Il, cap. III.

2 Plut. in Vita Licurg.

3Questa Legge di Dracone fu antiquata e modificata quindi da Solone. Vedi Plut. in Solone, ed Aul. Gell., lib. XI, cap. XVIII.

4 Οτι εάν τιj άπολεση, εάν mέν αυτό λάβη, τhν διπλάσιαν καταdικάζειν, καν ¿ε mη, την dεκαpλάσιαν προς τoiς έπαίτιοιj dedeθαι d'εν τη ποdοκάκh toν πόδa πενθ' ηmεrαj καi νύκταj isaj εάν προστimηση η 'Ηλιαι'α. «Si furtum factum sit, et quod furto perierat, receperit Dominus, duplione luito furtum qui fecit, et quorum ope consilioque fecit, decuplione vindicator: ni Dominus rem furtivam receperit; in nervo quoque habetor dies ipsos quinque, totidemque noctes, si Heliast pronunciarint.» Solonis, Lex., ei Aul. Gell., lib. X, cap. XVIII.

5 Eι mεν tij mεθ/ η mεrαν πεντηκοντα δράχmας κλεπτοι, touton γην πroj τουj endeka είναι; ei de τιj νυkτωr οτιοΰν κλε'πτοι, τούτον εxειnαί και άποκτειναι, καί trosαι diωκωντα, και άπαγαγεΐν τοΐj ενdεκα, ει βλούοιτο. Τw o/ άλοντιών αi απαγωγαί εΐσιν, ٥υκ εγγυησιj καταστηsαντι εκτισιν είναι τwν κλεμmάτων, αλλά θάνατον την ζηmίαν. «Si quis interdiu furtum, cujus estimatio sit supra quinquaginta drachmas, faxit, ad Undecimviros rapitor: si nocte furtum faxit, si eum aliquis occidit, jure caesus esto, aut vulneravit fugientem, sine fraude esto, aut rapitor ad Undecimviros؛ manifestum hujusmodi furtum qui faxit, etiam si vades dederit, non noxae factae sarcitione, sed morte luito.» Demost. in Timocratea.

6 Έάν τιj faνeroj γενεται βαλαντιοτοmοiν, τούτw θάνατον είναι την ζηmiαη. «Manifesti Saccularii morte luunto. Xenoph. Apomnhmon..a

7'Εάν eι fανεroj γενεται τοιχωρυΧων, τουτwθάνατον εi ναι την ζηmιαν. «Victicularii manifesti morte luunto.» Idem, ibid.

8 Kai ei tij g ek Dukeiu η εκ Akadhmiaj η εκ Κυνοσάργuη imation η ληκυθιου, η άλλο τι fαυλοτατον, η τών σκευών τι τώ¿ εκ τών γυmnάσιων ufειλετο, η εκ' τών βαλανειων, η εκ τώνλιmενων, uπεr dεκα δράχρας, καί τούτοij θάνατον είναι την ξηmιαν. «Si quis item e Lyceo, aut Academia, aut Cynosarge, vestem, aut lagunculam, aut quidquam aliud minimi pretii, aut suppellectilem e Gvmnasiis aut Portubus surripuerit, supra decem drachmas: huic quoque mors poena esto.» Demosth., ibid.

1 Ton bia otioun afelonta diploun ektnein tw idiwthTvj, kai toson tw dhmsiJ prostiman. «Qui per vim aliquid abstulerit, in duplum tenetor ei, a quo per vim abstulerit, in duplum quoque aerario publico tenetor.» Demosthenes in Midiana.

2 «Sei nox furtum faxit si im aliquis occisit jure casus estod.» Macrob., Saturn., lib. I, cap. IV.

3 «Si se telo defensit quiritato endo que plorato post m deinde si caesi escint se fraude estod.» Questo frammento ci è stato tramandato dal Giureconsulto Cajo nel lib. VII, Ad Edictum Provinciale, citato nella L. 4, § 1. D. Ad Leg. Aquil. Cicerone ne fa menzione nell'orazione pro Milane.

4 «Si adorat furto quod nec manifestum escit duplione decidito.» Vedi Festo nelle voci Nec et Adorare. Egli, additandoci questa legge, dà alla voce Adorare il medesimo senso che al verbo Agere. È capricciosa la distinzione che noi troviamo cosi nelle Attiche Leggi, come nelle Romane tra il furto manifesto e non manifesto. Secondo l’idea che ce ne dà il Giureconsulto Paolo, Receptarum sententiarum, lib. II, liL XXI, § 2, si chiamava furto manifesto, quando il ladro era preso sul fatto, e non manifesto, quando non era preso sul fatto, ma non poteva negare di aver commesso il delitto.

5 «Si luci furtum faxit si im aliquis endo ipso capsit verberator illi que cui furtum factum escit addicitor servus virgis casus saio dejicitor.» Questa Legge ci è stata trasmessa da Aulo Gellio, lib. II, cap. ull'Questo testo ci conferma nell'idea che si è data del furto manifesto e non manifesto. Le parole «si im aliquis endo ipso capsit», ci indicano il ladro preso sul fatto «si eum quis in ipso (id est furto) deprebenderit.»

1 «Sei furtum lance licio que conceptum escit uti manifestum vindicator.» Ex Aulo Gellio, lib. XI, capo ultimo. Questo testo mi richiama alle idee da me sviluppate nel capo XXV di questo libro, dove si è detto, che gli atti legittimi non erano altro che i simboli di quello che si era realmente praticato dagli uomini nello stato della primitiva barbarie, quando il jus minorum gentium o sia il dritto della violenza privata, era ancora nel suo vigore. Questa formalità che si richiedeva per legittimamente sorprendere la cosa rubata nella casa del ladro, indicata dalle parole lance licioque conceptum, non era altro che il simbolo di quello che si praticava in quell’antico stato della società, quando la tutela delle cose e de' dritti era affidata alle forze individue, quando colui ch'era rubato bisognava che andasse egli medesimo in cerca del ladro, per ricuperar la sua roba e vendicare il torto. Egli entrava nella casa di colui, sul quale cadeva il sospetto, col corpo denudato, per non lasciare il dubbio che avesse su di se ciò che diceva di essergli stato preso, ciuto soltanto su' lombi da una piccola rete, e munito di un piatto che poneva innanzi a' suoi occhi per riguardo delle donne che si ritrovavano nell’interno della casa. «Lance (dice Fe sto) et licio dicebatur apud Antiquos, quia qui furtum iba qurerere in domo m aliena, licio cinctus intrabat, lancemque ante oculos tenebat propter ma trum familias, aut virginum prresentiam.» quest'uso, introdotto dal bisogno, divenne quindi collo sviluppo della società un atto legittimo, una solennità legale. Platone rapporta un simile uso presso i Greci de' tempi eroici, lib. XII, De Legib. Io prego il lettore di perdonare questa piccola digressione, alla quale mi ha condotto la rimembranza delle idee che mi son costato il maggiore sforzo per isvilupparle.

2 Gell, lib. Il, cap. ult., e Iustit., lib. IV, tit. I, § 5 e tit. Il, § 1.

1 L. 1, D. de furiò, baia. L. 3, § ult., D. de offe, prcef. vigil. L. 6. pr., D. ad Leg. Jul. pecul. L. D. de effract. et expil. L. 2, D. cod.

2 L. 1, D. de furib. baln. L. 2, D. cod. L. 1, D. de abig. L. ult., D. cod. L. 16, § locus, e § ult., D. de pan.

3 L. 1, § ult., D. de effract. et expil. L. ult, D. cod. L. pen., D. ad Leg. Jul. de vi pubi. L. 28, § famosos, D. de pcen. L. 7, D. de exter. crini. L. 3, D. ad Leg. Cornei, de Sicar. L. 13, D. cod. L. 4 e seg., C. de male. et mathem.

4 L. 1, § 1, D. deposit. L. de eo 48, D. cod. L. 1, D. de incend. ruin. naufr. L. 3 e 4, D. cod. L. 3, § 3, D. ad Leg. Jul. de vi pubi. L. 1 e § ult., D. ad Leg. Jul. de vi privai.

5 L. 3, D. de furib. baln.

6Arg. L. eum qui 14, idem dicunt, D. de furt. L. ultim., qui sepius, D. de abig. L. S. 1C ad Leg. Jul. de vi pub L. 28, grassatores, D. de pen.

7L, 4, D. de incen. ruin. nauf. L. 5 e 6, C. de nauf. L. aut facla 16, quantitas, D. de pan. L. 1, sed et qui porcam, D. de abig.

8Leggi 1, 4, 6, 9, D. ad Leg. Jul. pecul. L. 1, D. de abig. L. ultima, D. od.

9L. ult., D. depriv. del. L. interdum 66 D. de Furt. L. ult., D. od.

10Vedi la Novella 134, cap. ult.

11L. perspiciendum., § furia, D. de peniis. L. 17 e 36, § 1. L. 52 e 89, D. de furt. L. 4, C. de patria potestate.

1Furto de' bestiami.

2 Pe’ Francesi vedi Bare., Instit., tit. De Furib. Domat., Sup. al diritto pub., lib. III, tit. VIII ed il Codice della Caccia di questa Nazione. Per gli Spagnuoli vedi Diarius, Pr. crim., cap. LXXIV, num. 2. pe’ Germani vedi Antonio Matteo in Com. j ad lib. Dig. XLV1I, tit. I, De Furtis. Vedi anche la pena di morte stabilita dall'imperator Federico pel furto di cinque soldi in Constitut. de pac. ten. et ej. viol., e per quel che riguarda gl’italiani vedi Constit. RTediol., tit. De pani. § Si quis feccrit robariam. Vedilo Statuto Mantovano, Rubr. de Furib. et latrouib. Le gloriose correzioni fatte nel Codice criminale da Pietro Leopoldo d'Austria han banditi dalla Toscana questi orrori.

3 Statuto 9 di Giorgio I, cap. XXII.

4 L'antica Legge Sassone puniva il furto semplice colla morte, purché oltrepassasse il valore di 42 soldi, ma il reo poteva riscattarsi dalla pena con una pecuniaria commutazione. Nel IX anno del regno di Arrigo I questo potere di ricomprare la vita fu tolto, e rimase la pena di morte. Questa Legge è ancora in vigore. Vedi il Glossar, di Arrigo Spelman a pag. 350. I Giurati, per impedire che il reo di un delitto così leggiero sia condotto al patibolo, procurano, quando possono, di far constatare che il valore del furto sia al disotto di 12 soldi. Essi commettono uno spergiuro, per riparare all'ingiustizia della Legge.

1 Il furto di un cavallo, di una pezza di lana o di tela in una manifattorìa, di un montone, o qualche altro capo di bestiame indicato dalla Legge; il furto commesso su qualche fiume navigabile, al di sopra di 40 scellini; quello commesso in un bastimento naufragato; la sottrazione delle lettere di credito spedite per la posta; il furto di un daino, di una lepre o di un coniglio nelle circostanze indicate nell'atto nero; il furto al di sopra de 42 soldi, in una chiesa, in una casa di abitazione, in una capanna, o in una locanda abitata; ogni furto al di sopra di cinque soldi, accompagnato da scassazione o senza scassazione, ma commesso in un magazzino, in una scuderia o in una bottega; il furto commesso sulla persona, anche senza la minima violenza, che passa il valore di 42 soldi, sono esclusi dal privilegio clericale. Veggansi lo Statuto 1 d’Eduardo VI, lo Statuto 22, cap. Ili di Carlo 11, lo Statuto 44, cap. VI e Statuto 24, cap. XLV di Giorgio. Il, lo Statuto 12, cap. XVIII di Anna, lo Statuto 7, cap. L di Giorgio III, lo Statuto 9, cap. XXII di Giorgio I e i posteriori Statuti raccolti dal celebra Barr. 375.

2 Vedi i citati casi nell’antecedente nota.

1 «Pecunia furtum illiberale quidem est; rapina vero turpissima,» etc. Plat., Da Legib., dial. XII.

2«De furto autem sive magnum quid, seu parvum quis furatus sit. una lei, poenaque similis omnibus sit.» Plat, De Legib., dial. IX. Rispondendo alla difficoltà che gli fa Clinia, egli illustra diffusamente questo principio.

3 Ho detto che han potuto violare l’istesso patto e mostrare l’istessa malvagità, poiché se il ladro preso sul fatto avesse commesso il furto con violenza,e l'altro l’avesse commesso senza violenza; allora la qualità del primo delitto sarebbe diversa da quella del secondo, come si osserverà da qui a poco, ma questa differenza non dipende dall'essere stato preso sul fatto., ma dall’aver violati patti diversi. Quel che si è detto della qualità., si deve anche dire del grado.

1 Nel capo XXXVIII di questa II parte.

1 Nel capo XXXVIII di questa II parte.

2 Capo XXXII di questa II parte.

3 Capo XXV di questa II parte.

4 Io prego il lettore di riscontrare il citato capo XXII, nel quale si diffusamente illustrato l'uso di questa specie di pene, e dove vedrà i principii, de' quali questo che io qui propongo non è che una conseguenza.

1Vedi i capi XXXV e XXXVI di questa II parte.

1 Nel capo XXXVII di questa li parte, dove si è parlato del delitto in generate.

1 Diod., lib. I, pag. 90.

2 Plut. in Solon. e Diod., idem.

3 Diod., idem.

4 Vedi nel Digesto il titolo De crimin. stellionat.

1an tij auto diaeirisht, thn ceira toto okoptein, kai cwrij tou swmatoj qaptein. «Qui sibi manus intulit, et manus, quae id perpetravi prreciditor, nec eodem cum corpore tumulo sepelitor.» AEschines in Ctesiphontem.

2 «Sed quid de ilio judicandum, qui proximum, atque amicissimum crede prodiderit qui, dico, seipsum vita, et sorte fatorum, vi scelerata privaverit? non judicio civitatis, nec tristi, et inevitabili fortunae casu coactus, neque pudore aliquo extremo compulsus, sed ignavia, et formidolosi animi imbecillitate, injuste sibi mortem consciverit? Quae purgationes, et quae sepulturae huic lege conveniat, Deus ipse novit; proximi tamen huic genere ab interpretibus legibusque harum rerum haec exquirant; et quemadmodum ab his statutum fuerit, ita faciant. Sepultura igitur istis solitaria fiat, ubi alius nemo condatur; deinde in his locis sepeliantur, quae de duodecim regionis partibus ultima, deserta, innominataque sunt: sic obscuri, ut nec statua, nec iscripto nomine sepulcra notentur.» Plat., De Legib. dial. IX.

3 Marsiglia.

1 Veggansi le Leggi rapportate ne' due citati titoli De bonis eorum, qui mortem sibi consciverunt. Le parole d’una di queste Leggi sono le seguenti: Si quis impatientia doloris, aut taedio vitae, aut morbo, aut furore, aut pudore, mori maluit, non animai) vertatur in eum. Simile a questa è la L. 1, Cod. cod.

2 Vedi Domat, Supplemento al Diritto pubblico, lib. III, tit. VII, articolo 49.

3 Vedi Blackstone, Cod. crim. d’Inghilterra, cap. XIV. Io sono sorpreso nel vedere che quest'umano Giureconsulto si sforzi a far l’àpologìà di questa ingiusta sanzione.

4 Plut. in varii luoghi delle sue opere.

5 Seneca, Epist. 70.

1 M. Aurelio Ant., lib. V, § 30.

2 S. Cirano, Trattato del suicidio, impresso a Parigi nel 4609.

3 Maupertuis, Essai da Phil, morale chap. V.

4 Niuno ignora che la Francia e l’Inghilterra sono i paesi dell’Europa, ove i suicidii sono più frequenti, e dove le leggi sono più rigorose contro i suicidii.

1 «Qui. Fruges. Excantassit. Suspensus. Cereri. Necator.» Plinio, lib. XXVIII, cap. II dell'Istoria naturale, e Seneca, nel IV libro delle Questioni naturali, ci han conservata questa Legge.

2 «Qui. Malum. Carmen. Incantassi. Parricida. Estod.» Vedi Plinio, idem.

1 Veggansi il Codice de' Visigoti, lib. VI, tit. II, De Malefìci S, ac constilenti bus eos. Il Codice de' Longobardi, lib. II, tit. XXVIII, De Harìolis. Le Costituzioni Siculo, lib. III, tit. XLII, De Correctione poculiun amatorium porrigentinm vel ementium. L. 3 et Capitula Caroli Magni, lib. VI, cap. LXXII.

2 L. 3, C. De Male, et mathem.

3 Veggansi le due Leggi di Costanzio, e le altre due di Valentiniano e Valente, inserite nell’istesso titolo del Codice De Malefìc. et mathem.

4 Veggansi i varii delitti compresi nella Legge Cornelia, De Sicariis in Pauli Receptar. sententiar, lib. V, tit. XXIII, § Magico: artis conscios.

5 Tacito ci dice nel libro II de' suoi Annali, che sotto l’Impero di Tiberio si esiliarono tutti i Maghi e gli Astrologi, e che uno di essi chiamato Pituanio fu precipitato dalla sommità del Campidoglio, e che un altro chiamato Martino fu punito, secondo l’antico costume, fuori la Porta Esquilina.

6 Si trova nel libro XII degli stessi Annali di Tacito un sanguinoso editto fatto dall'imperatore Claudio contro gli Astrologi. Queste replicate disposizioni delle Romane Leggi contro questi delitti suggerirono a questo Autore la seguente riflessione: «Mathematici, genus hominum potentibus infldum, sperantibus fallax, quod in Civitate nostra et vetabitur semper, et retinchitur.» Tacit., Hist., lib. I.

7 Alessandro Severo. Vedi Sparziano, dove parla delle pene minacciate da questo Imperatore a coloro che portassero, sospesi al collo, alcuni super stiziosi rimedii contro la terzana e la quartana.

1 Una Legge di Luigi XIV proibì a' Tribunali di Francia di ricevere accuse di sortilegio, ecc.

2 Lo Statuto 9 di Giorgio II, cap. V, ha prescritta la cosa istessa ai Tribunali della Gran Brettagna.

3 Nel vescovado di Vurzhurg si fece questa terribile esecuzione in persona di una vecchia convinta di stregoneria nell’anno 1748.

1 L’imbecille Giustiniano credette di poter tutto ottenere, dispensando il perditore dal pagamento, e dandogli il diritto di ripetere la somma perduta dal suo vincitore, quando l’avesse pagata. Egli dette a quest'azione la durata di cinquantanni. Vedi la L. 2 o 3, Cod. de alcat. Ma egli non si avvide che per porre un ostacolo alla passione del giuoco egli dava una pericolosa scossa alla buona fede ed all’onestà.

2 Tacit, Annali, lib. III, § 53.

1 Vedi Guglielmo Bud. nel suo Commentario sulla lingua greca.

2 Vedi Pausania in Eliac.

3 Vedi Euseb., lib. V, De Prap. Evang.

4 «Si jumentum, aut aliud animai hominem interficiat, nisi publico in certamine id fecerit, interfecti hominis propinqui id judicibus deferant. Et agrorum curatores illi, quibus quotque propinquus ipse mandavit, judicent, et damnatum jumentum extra regionis fines interfìciant. Quod si quid inanime, praeter fulmen aut aliud telum divinitues missum, anima hominem cadentem ipsum, aut ipsum caedens privaverit; genere propinquus interfecto m proximum in vicinia ad hoc constituat judicem; atque haec et celera, prout erga mortuum ipsum convenit, pro sui ipsius et cognationis totius expiatione perficiat. Quod vero damnatum fuerit, ut de animalibus dictum est, exterminetur.» Vedi Plat., De Legib., dial. IX.

1 «Peccatum nullum impunitum sit, neque profugus ullus aut impunis abeat; sed aut morte plectatur, aut vinculis, aut verberibus, aut ignobiliter m sedendo, standoque in sacris, ad extremitates regionis productus, aut pecuniis, ea qua diximus ratione, poenas luat.» Fiat., De Legib., dial. IX.

2 Plat., ibid.

1 «Impuntate nihil periculosius est, qua semper ad deteriora prolabitur.» Ex Libris Ipoph. Collecc. a Bartholomaeo Magio.

2 «Impuntate injuriae exemplum omnibus injuriam minatur. Etenim si liceat impune leedere, quis tutus erit ab improborum violentia» Idem, lbid.

3«Benefacta male locata, malefacta arbitror. Ennius» ex Cic., De offìc., lib. II.

4 «Perditas civitates, desperatis omnibus rebus, hos solere exitus exin tiales habere, ut damnati in integrum restituantur, vincti solvantur, exules reducantur, res judicatae rescindantur. Quse cum acciduot, nemo est, quia iatelligat, ruere illam rempublicam. Ciccr., VII, in Verr.

5 Vedi lib. VI, cap. XXI, Dello spirito delle Leggi.

1 Nel capo XXV di questa II parte, dove si è paragonato Io sviluppo del sistema penale collo sviluppo della società istessa, si è mostrata 1 origine degli asili. Si è detto che nel tempo nel quale si conservava ancora la naturale indipendenza tra gl'individui della Barbara società, per porre un freno alla vendetta dell’offeso, per fare che il suo sdegno si raffreddasse in maniera da potersi dar luogo alla transazione, il primo passo che si fece fu di stabilire gli asili, i quali producevano questo salutare effetto. Il difetto delle Leggi e della forza pubblica, l’imperfezione di questo nascente stato della società richiedeva questo rimedio così opportuno in quello stato di cose. Ciò che ci dice Diodoro, lib. III, Sull’Asilo di Samotracia; ciò che dice Pausania (in Atticis et Achaicis) nell’evento di Filone rifuggito nel tempio di Minerva; ciò che ci dice Giustino (Hist., lib. XXVIII, cap. Ili) sull’evento di Laodamia rifuggita nel tempio di Diana; e ciò che c’indicano i tragici greci, e tra gli altri Euripide (nell'Andromaca, v. 256, e nell'Ercole Furente, v. 240), ci prova la verità di questa nuova idea che noi abbiamo appoggiata sui più luminosi documenti della Storia eroica, e non per altro motivo abbiamo qui ricordata a chi legge, se non per mostrargli, come le reliquie della primitiva barbarie si conservano nello stato della società più civilizzata, senza riflettere alla diversità infinita delle circostanze che rendono utile in un tempo ciò che non solo diviene inutile, ma anche pernicioso in un altro.

1 Vedi l’antecedente libro.

1 Vedi nel piano generale di quest'opera l’Analisi del IV libro.

2 Nel l'libro di quest'opera. Veggasi nel piano generale, che ho premesso, l'Analisi di questo libro.

3 Vedi al citato piano l’Analisi del libro VI.

1 Nell'ultimo libro di quest’opera e eh è stato accennato nel piano generale.


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Vita ed opere di Gaetano Filangieri [Life and works of Gaetano Filangieri]

Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito

1772 - NOTIZIE DE' LETTERATI - Della Morale de' Legislatori di Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1782 - Giuseppe Grippa - LETTERA al Cavaliere Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1784 - Giuseppe Grippa - Scienza della Legislazione sindacata HTML ODT PDF
1785 - Dissertazione politica di Giuseppe Costanzo in risposta a Grippa HTML ODT PDF
1787 - GIUSTINIANI - Memorie Istoriche degli Scrittori Legali del Regno di Napoli HTML ODT PDF
1798 - Le Spectateur du Nord: Don Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1804 - Scrittori classici italiani di economia politica - Gaetano Filangieri HTML ODT PDF
1813 - Biografia degli Uomini Illustri del Regno: Filangieri (Martuscelli) HTML ODT PDF
1817 - La Scienza della Legislazione del Cavaliere Gaetano Filangieri (GINGUENE’) HTML ODT PDF
1819 - BIANCHETTI - Memorie scientifiche e letterarie - FILANGIERI HTML ODT PDF
1822 - Oeuvres de FILANGIERI - ELOGE de FILANGIERI (Salfi) HTML ODT PDF
1826 - Sopra l'opera del Cavalier Gaetano Filangieri di Pietro Sghedoni HTML ODT PDF
1828 - Comento sulla Scienza della Legislazione scritto da Beniamino Constant HTML ODT PDF
1834 - Biografia degli Italiani Illustri nelle scienze, lettere ed arti HTML ODT PDF
1836 - LOMONACO - Vite degli eccellenti Italiani - FILANGIERI HTML ODT PDF
1840 - Notizie di alcuni cavalieri del sacro ordine gerosolimitano (Marchese di Villarosa) HTML ODT PDF
1844 - Vite e ritratti di illustri italiani (Filangieri di E. Carnevali) HTML ODT PDF
1852 - FILANGIERI - Delle leggi politiche ed economiche (FRANCESCO FERRARA) HTML ODT PDF
1857 - Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII: Filangieri HTML ODT PDF
1863 - Discorso genealogico della famiglia Filangieri (ERASMO RICCA) HTML ODT PDF
1864 - Intorno ai tempi ed agli studi di Gaetano Filangieri (PASQUALE VILLARI) HTML ODT PDF
1873 - Gaetano Filangieri o l’idea dello stato nella filosofia italiana del secolo XVIII HTML ODT PDF
1774 - GAETANO FILANGIERI - Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano HTML ODT PDF
1820 - GAETANO FILANGIERI - 01 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1822 - GAETANO FILANGIERI - 02 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
1872 - GAETANO FILANGIERI - 03 - La Scienza della Legislazione HTML ODT PDF
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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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