Eleaml - Nuovi Eleatici



Di Michele Farnerari pubblicammo, nel luglio 2007, il testo “Della Storia Militare del Reame di Napoli 1130-1861” per gentile concessione del sito https://www.nazionenapulitana.org/ - oggi mettiamo a disposizione di amici e naviganti l’opera “DELLA MONARCHIA DI NAPOLI E DELLE SUE FORTUNE”. Chi era Michele Farnerari? Quando si fondò in Gaeta la Gazzetta ufficiale, l’autore ne divenne il direttore, avendo il noto storiografo Mauro Musci declinato l'incarico.

A questa importante opera di Farnerari abbiamo aggiunto un indice onde permettervi di eplorare agevolmente il testo.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Zenone di Elea - Ottobre 2019

DELLA MONARCHIA DI NAPOLI E DELLE SUE FORTUNE

Cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt: delecta ex his et constituta reipublicae forma, laudari facilius guam evenire; et, si evenerit, haud diuturna esse potest.

TACITO

Tipografia di Nicola Jovene

Via S. Sebastiano,42

1875

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
[Indice nostro - eleaml.org - N. d. R.]
01- 20 - La parte del paese a mezzodì  3
21- 40 - La disfida di Barletta, argomento  19
41- 60 - E a chi ricorre i fati del secolo  38
61- 80 - Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat 
54
81- 100 - Vi rifulge il Conte Tocco di Montaperto  69
101- 120 - La storia non trascurerà i minori 85
121- 140 - Il Re s’infermava. S’è poi bucinato  104
141- 160 - Solitaria, e nondimeno non vuota  118
161- 177 - Gl’Inviati, meno i Ministri Inglese  133

DELLA MONARCHIA DI NAPOLI

01-20 La parte del paese a mezzodì

La parte del paese a mezzodì, poco meno che lembi estremi d’Italia, rifulse assai innanzi ch'esuli antichissimi, fermandovi stanza, vi tramescessero ai trovati splendori luce di civiltà feconda. A’ fiorenti giorni di Roma, noi fummo municipi, colonie; v’ebbero città federate; e ad alcune, vuoi indole d’abitatori od ossequio, a memorie remote, s’accordò, con leggi Attiche, reggimento a popolo. Allo scadere delle fortune, divenimmo prefetture suburbicarie;finché, sfasciato l’enorme impero, n’andaron più degli aggiogati i protetti in brani, preda lungamente di strane genti che ci rapiron tutto, fuori i fantasmi delle passate età. Soprastando il Cristianesimo, n’ebbero da prima i Pontefici la tutela, stretta in progresso a certa forma di feudalità. Ruggiero ci compose a Monarchia con sapienza antica. De’ posteriori principi alcuni per virtù, i più per rigor cronologico van ricordati; ed i vicari, venuti d’oltremente, intesero a ciò che è in natura de’ mali instituti, apprestare cagioni a ri volture, con infortuni dal genio di grandi uomini non potuti rimuovere; e si patì ogni maniera di tirannide. Carlo di Borbone diè opera a ristorare gli ordinamenti di Ruggiero: non gli fecero difetto gli uomini, ma i tempi a cui fu o parve immaturo. A’ successori tardi venuti e traditi molto mancò, e novamente il Reame fu perduto.

Ho dubitato di compilare questi capitoli, tra per sentire al carico non pari il vigor dell’ingegno, e per la malagevolezza, toccando de’ miei tempi, di parere non immune da ciò che s’addomanda contagione di parte. Sacerdozio si è l’ufficio delle lettere; e niun magistero fu più arduo dello scrivere storie. È dramma complesso, che s’apre innanzi tutto a’ sensi di passioni roventi. Tacito stesso, narratore sovrano, non ischivò la taccia di pingere in nero l’uman genere, come se a giudicar de’ mortali men de’ libri autorevole fusse il consorzio de’ vivi.

Noi seguimmo la Monarchia ne’ suoi lutti; quando ultima mano di animosi trapiantava, a decoro estremo, le regie insegne di Napoli su gli spaldi di Gaeta, che cadeva. Liberi allor che il regno avea stato, e sì gran numero di devoti prostravansi agl’idoli del giorno, ne’ silenzi eletti della vita ci percuotevano le voci de’ pubblici mali senza tuttavia farne rabbioso lamento. E, senza involgerci in fila di cospiratori, senza millanterie postume, la mercé d’innata e composta libertà d’animo, e per coraggio di rivelarci quali siamo, abbiam potuto non che indulgenza di generosi, meritare altresì confidamenti intimi de’ più riguardevoli, i passati per l’aspra tempera di parecchi moti, i salvi dal taglio delle rivolture.

Onde ci son cogniti gl’intendimenti riposti, le tolte divise, gli adoperati espedienti, gli attori alti, gli ausiliari infimi. Né questo è solo. Le rivolture assunsero, in ogni età, elle stesse il carico di recitare la propria storia. Da poi che in Napoli la spartigione della potenza ingenerò le lotte dei complici, non indugiarono le rivelazioni; elle nacquero forzate e spontanee a un tempo. Rinacerbironsi gli odi fuori modo; i non satolli o frustati in più alte brame, testimoni da prima alla difesa, sursero giudici implacabili a suo danno. L’immoderato livore venne punto punto trasformando le parti; assottiglionne alcune, altre invigorì, e riapparvero, i più da’ consueti ozi, quei che nomansi legittimisti, non dissimili in essenza ai testé travestiti a tribuni pubblici.

Erano i turbini della rivoluzione, che avean smosse le pigro e quasi immote maree, sotto cui s'agitava, ignoto ai più, il marcio morale del paese, dalla reggia al tugurio, dal tempio alla bettola, dalla cella del cenobita al carcere dorato della prostituta. E ci parve ogni moto una forza, che logora e conquista. Essendo che tra le demolizioni alcun che di penoso e congiuntamente di salutevole l'ultimo rivolgimento ci sembrò dar fuori. E nel modo. che dopo la tempesta va l'aria smorbandosi, molte ombre sonosi simigliantemente rimosse; assai sembianti, stati ingannevoli, han mostrata la lor essenza nuda. Abbiam per tanto contemperati parecchi pensamenti, ritratte opinioni, la mente nettata; e gli uomini ci si sono offerti altrimenti; scoloriti pur troppo nelle pruove, ovvero come sono. Venuti nella sentenza di non appetire i nuovi né più né meno di ciò che vollero alla lor volta i caduti, di rivolgere cioè a lor pro, e farne retaggio, il bene pubblico, uno sconforto ci era sopravvenuto. Ma, per esservi sensi che vincono ogni altro, e debiti che han gli studi volti a scopo civile, levato e rinfrancato l'animo, noi togliemmo queste fatiche.

Chi opera i rivolgimenti?

Si è comparata a quella degl’individui la vita de’ popoli. Non s’è posto animo in ciò che ambo han di più notevole, il progredire a certo simultaneo scadere. Spariscono le nazioni, muoiono i linguaggi, tutto tramuta il tempo, per fino i ruderi si smarriscono e se ne dilegua la memoria. Questo è nella natura e nella storia. Gli uomini in tanto, soli o agglomerati, individui o popoli, perdurano in essenza che resta immune: non v’ha mobilità o piuttosto ondeggiamento che ne’ modi o forme. Mancarono agli antichi molte cose appo noi in onore: le dissepolte vestigia non per tanto di altre grandissime ci discoprono ignote idee, e sorprendono ne’ loro studi i più provati interrogatori de’ silenzi e delle tombe. Nulla ostante la più spessa luce delle scienze naturali la forza dell’uomo va tuttodì manifestamente menomando, più accorciata la vita, più diffusi i semi e saldamente radicate le cagioni di morte. Alla stampa, al dagherotipo, alla potenza ignea o vapore, al telegrafo, a cotesti fulminei trovati non s’è contrapposto il danno, che n’è a un tempo venuto; le vie al falso più spianate, la men riposata contemplazione, le lussureggianti larve alle arti aggiunte, l'agevole imperio che sulle moltitudini dinanzi al genio angosciato trova l’impostura. Vi ha per fermo nell’intrigato magistero delle umane cose un compensamento, la cui esplicazione è problema tuttora, o vena di metallo in alte roccie più ricerca che rinvenuta. Schiudonsi da una banda nuove fonti al bene in quello che non resta, s’inoltra dall’opposta l'onda piena de’ mali. La lunga o breve vita par trascorrere in ragion contraria della prosperità fuggevole; ed il termometro segna di continuo ne’ secoli i gradi stessi.

L’idea del meglio universale non è realtà; è il più fragile fantasma che s’affaccia e tormenta lo spirito umano. Le leggi più che regresso, han vuoti che spaventano. Si è bandita. o dove si dà opera ad iscancellare la pena di morte; generoso intendimento, se, perduto il pudore, ad infrenare correnti di delitti si rinvenisse fuori il patibolo espediente più pronto. A spartire gli averi, a meglio comporre nella famiglia il censo s’è casso ne’ codici, s’è sgagliardito lo spirito di feudalità. Ma s’è blandito, s’è sbrigliato il lusso, che tutto adultera, e gli antichi s’ebbero le sontuarie leggi. La fame di oro tra facili fatiche ha fatto venir su certi larveggiati traffichi; le Borsene porgon tuttodì spettacolo plaudito, e allato a pubblici lutti veggonsi sfrontatamente sorgere fortune ladre. L’età, che s’arroga il vanto di rivendicar già tanti diritti, non ha ne’ codici un articolo, che raccomandi i domestici servi. Tante disugualità diconsi pareggiate, e le produzioni dell’ingegno van meno estimate di fatti lascivi levati a mestiere. Si gettano tesori a piè d’istrioni, e non s’offre al cuore rotto del genio un asilo dove far battere, dimenticato, gli estremi suoi palpiti. Il teatro chiuso all’igiene, alla vita dello spirito, non ha concenti che per la voluttà de’ sensi. Ricerche e incoraggiate le voci de’ cantambanchi, Eschilo antico v’è non inteso o muto. Vi han rigori per chi traffica lascivie; non v’è bando che segnali chi ponendo a lucro le facoltà d’ingegno, uccide l’anima. Le corti, le accademie, i palagi de’ potenti, i templi van contaminati da sì fatta lue, a selvaggi ignota.

E la prostituzione dell’animo segna l'abbandono delle leggi costituenti la dignità dell’umana natura. È il principio della morte morale degl’individui e de’ popoli. È la suprema espiazione, dopo cui ogni risorgimento va disfidato; conciossiaché non si vive due volte. Alla virtù superstite non resta allora Che volgere altrove sulla terra l'incerto pellegrinaggio.

Non ricerco l’occulto principio delle naturali proprietà, o tocca appena la sopraffaccia delle umane cose; il senno antico disautorato, s’è trascorso a sfigurare il concetto, che nomasi progresso. Il mendacio per tal guisa è ito montando in credito, lo si è fatto ufficiale, gli si è dato emolumento: mendacio pretium (1)

.

Sonósi oltraggiati i morti, santità profanate, secoli ammiseriti. Anche al breve intervallo, che ci separa da’ nostri più onorevoli defunti, s’è dato taccia di,muffito; e solo l'onda fuggevole, che segna e scancella nello spazio il nostro vivere e sparire, si osa proclamar foriera di prosperità non vedute. Nel modo che spunta co’ corpi un vario ed indefinito germe di morte, s’ingenera medesimamente in ogni età de’ popoli una maniera d’idea che li agita e sospinge. La brama di novità più che senso è istinto. Il bene ripetuto produce incuria; l’abitudine snerba i primi sensi che dan le cose, e lo scellerato per monotonia lascia talvolta il delitto. A capovolgere gli Stati monarchici si esagera la bontà de’ reggimenti a popolo; a struggere questi proclamasi non di rado il bisogno di ridurre in uno la podestà dei più. Gridasi sempre alla libertà in pericolo; talora alla licenza per difetto di turgido imperio. Quando è certa indipendenza che fa d’uopo ricuperare, quando è questa o la tal forza, che si addita nel frangente sgagliardire o trasmodare. Dà fuori ogni età certe voci, certe brame di novità; e, surtone come un frastuono, solo indistinte per riuscir vigorose a tempo, ignote alle moltitudini trascorrono le voci ladre. La parola non fu mai strumento più esercitato a mentire che sulle labbra di promettitori di felicità: ut imperium evertant, libertatem praeferunt ((2).

Rivoltato ogni ordine col mutar del reggimento, s’ingegna e compone ognuno a bene accoglierlo. Cadon giù le divise antiche; se ne tolgon le più strane; e chi sopra modo briga a farne mostra, più monta in favore. La podestà incerta non serba prestigio permanente; prende e assume nome vario da coloro che si levano e mancano. La sovranità diventa come una preda fieramente contrastata; ed è nella lista dei più che menano scalpore, che tu vedi i nomi de’ futuri dominatori. Le pratiche più VIII, la sfrontatezza unica, quanti consiglia espedienti rei il genio del male, tutto va messo a pruova. Allato ai lutti che l’impunità moltiplica, s’aprono nelle rivolture le più ridevoli scene. I più codardi della vigilia levansi la dimane a tribuni; i più provati a spionaggio, i nati ad ogni forma di male odonsi ragionar di libertà. I poeti burleschi vi troverebbero argomentosa materia a crivellar di epigrammi la miseria degli uomini. Tutto va mutato; i sistemi delle idee si sviano; i sensi del cuore volgonsi altrove; i vocaboli perdono la notizia lor primitiva; son virtù la tradigione e l’ingratitudine; ogni norma va confusa; s’attua l’indipendenza dei doveri; una coscienza nuova si compone; e si cerca salute nella corruzione che sola a pubblici uffizi spiana la via. Nò basta. Certe pene subite sotto i caduti governi per comuni reità s’ingegnano i colpevoli colorire a politico martirio. S’inventano titoli, ricercansi testimoni, si trovano interpetri, aderenti ed amici. Una rivoluzione ha merce per tutte brame, ha libertà per ogni vizio, ha impunità per ogni delitto. Ella è altresì proteiforme. A. raggiungere suoi intenti non guarda ad espedienti che adopera, ad ausiliari che assolda, ad alleati cui s'allaccia, a modi che serba, ad istrumenti di che si giova. Insofferente di freno, operosa niegazione di ordine, resta inadatta a sostenere qual si sia podestà. Gridata con quella del diritto la libertà del dovere, non maggioreggia che il male.

L’eccedenza ne accelera il fine. Allor che una rivoluzione è compiuta, sonosi già scosse le fortune grandi, spostate le mezzane, le minime perdute, con simultaneo apparire di disugualità spaventose. Brigano ritrarsi i satolli dal bottino stremato in quello che altri, tuttora famelici, gridano al pasto in vano. La guerra dei complici riarde feroce. Le moltitudini spossate e deluse, gli onesti atterriti, un bisogno di riparazione s’affaccia agli animi di tutti. È in tal frangente che la storia addita gli scaltri, stati per avventura i più modesti nelle lotte, levarsi in iscena e dominar plauditi la situazione. Sonosi per tal modo innalzati i Napoleonidi. È l’abbassamento della marea in furore; un principio di ritorno al passato; non è ristorazione di pensieri e di ordini, opera malagevole, che vuole altro, come dirò. Conciossiaché, non restituita al diritto la pienezza della forza, il bene non si compie, la libertà resta un problema, un abbozzo ciò che si vuol dipinto. La rivoluzione non è spenta; ella si assottiglia, s’agita men rumorosa, si raccoglie e resta in agguato, a nuove colpe di principi e di popoli. Son giorni di transazione; tutti restano in iscena, salvo i singoli, in ogni tempo non partigiani di uomini e di sistemi, protestazioni vive contri ogni forma, che il male assume.

A colorire l’animo dei forti ne’ mutamenti degli Stati adoperò la storia colori indelebili. Il difetto dei contemporanei s’ebbe riparazion di omaggio più vivo nella giustizia della posterità. Quando alla virtù sventurata tutto va lacero, gli è dopo sepolta che a lei ne viene il diritto di più meritato compianto. La folla dei voltabili, o di nature duplici, s'ebbe per converso come nel giudizio di Michelangelo sfolgorata la mobile positura. E si è a coteste generazioni di vendevoli ed abietti che vuoisi innanzi tratto riferire la diffusione e l’agevole predominio del danno.

Alcuni han pensato doversi a certo settario lavoro riferire la cagione de’ pubblici mali. Gli Stati antichi non ebbero sì fatti che s’addimandano settari, e tuttavia non iscamparono da ruina. Gl’individui, anche congiunti o coperti in setteche dicono, non creano congiunture di rilievo; son queste che li dan fuori, e li moltiplicano. Non è il settario, che solo cospira contro un costituito reggimento. Il consigliere dappoco, l’ufficiale ladro, il soldato codardo, il prete simoniaco, lo alzato in podestà senza virtù, il preposto a carichi pubblici senza galateo, il giudice iracondo, il mezzano di grazie, il cortegiano borioso, benché per tolti impegni sien forzati a respingere ogni moto, per vie nondimeno opposte del settario, le cui opere essi avvalorano, disonestando il governo, ne maturano il disfacimento. Abbia pure un edifizio l’artefice più solerte, le fondamenta più salde, il custode più vigile; surrogato da puntelli fradici, trema al primo moto, lo scrolla il primo nembo. Ogni rivoltura è fatto complesso; ha cagioni varie e difformi; e la corruttela ha già tante facce e nomi. L’avere all’età nostra il 1789 a fontale origine dei posteriori avvenimenti è ammiserire il concetto storico; è riguardare l’ossatura del corpo sociale, misconoscendo la varia natura del tarlo, che il rodea per farne polvere.

Corruzione, rivolture ed espiazione, è questo che vedesi, nei secoli alterno periodo, in che, qual che si abbia forma di reggimento, sviato da’ suoi principi, l’uman genere s’involge. Allor che la corruttela degli animi trapela in ogni ordine, il guasto si fa canceroso, si allarga e tutti uccide nel progresso della sua morte. A niuno è dato d’arrestarne il danno. E sì fattamente caddero già illustri monarchie, si spensero repubbliche, smarrironsi nazioni, ed il servaggio s’impose durevole a quanti non seppero o meritarono vivere liberi. Gli antichi tutto ciò riferirono a inesorabilità di cieco nume o fato; parecchi moderni a’ prosperi o disastrosi moti dei popoli assegnarono le solite ragioni di progressoo regresso. Noi pensiamo, che cauto nel tempestare delle passioni resti il passo della ragione; che trasformisi il mondo; ed i mutamenti doversi attribuire a certa legge, a certa giustizia che vien da alto. Le espiazioni, sentite di meritare, son le più acconce a comporre l’avvenire.

Vi han dunque generali e intrigate condizioni, che precedono i pubblici moti; vi ha come una forza morbifera, che l'ingenera e n’è coefficiente.

Appetto a scelleratezze osate da pochi, volute da molti e patite da tutti, ciò che andrò rammemorando, parrà lieve cosa o monca. Vi han ricordi che si dileguano, ed effigie che più scolorano allato a scure tinte, che fanno orrore. Non sarà nulladimeno disutile ricorrere certi membretti di storia, che da prima niente paiono, ma sono alla vita ammaestramenti fecondi. Do storico nell’ufficio di anticipare nella memoria degli uomini il giudizio di Dio, cotesto sacerdote delle lettere, levandosi a giudice de’ tempi che precorsero il 1860, fuori corti intervalli, salvo troppo splendide singolarità, torrebbe a descrivere un malaguroso incremento di corruzione; troverebbesi di fronte una monotona seguenza di tristizie, che, implacabile, svisceratala, rimuoverebbe, affidandone verdetto più aspro all’odio dei posteri. E gli uomini, gl’istrumenti del male, scoprirebbe potenti in Corte, confederati in alti uffizi, diffusi nella milizia, santificati nel clero, da per tutto, in cui v’ebber traffichi di grazie e di favori con danno inestimabile della giustizia. La quale, a lungo manomessa, ha potenza d’apprestare, quando notturnamente, quando a pien meriggio, le forze del contrario al suo opposto: e sorgon le lotte e le violenze; e si propagano le rivoluzioni, dietro cui tu vedi cumuli e brani insanguinati di rei e d’innocenti, come le ruine dopo il turbine ed il tremuoto.

La storia non ha lavoro in tempi, che son normali: ella non opera che nelle trasformazioni di rilievo. Da Carlo III a Francesco II van documentati parecchi rivolgimenti. Faticoso e fecondo il primo, che ricompose la Monarchia. Torbido e tristo il periodo che si svolse dal cader del passato al cominciamento del presente secolo. La signoria Francese s’ebbe i beni e i mali degli Stati precari. La Restaurazione, per non esser di uomini né di principi, accrebbe i germi, che produssero poco stante gli affrettati moti del 1821, più tardi il sanguinoso dramma del 1848, e da ultimo il disfacimento della Monarchia.

Mi studierò, quanto comporta l’animo e l’ingegno, di rimontar più oltre, e toccar de’ remoti per le attinenze che leganli ai novissimi. M’ingegnerò di sceverare dal vero lo scuro, di che le passioni lo annebbiano. Sono quindici anni, grande spazio dell’età mortale (3)

Vi han generazioni che sopravvengono; non si copra il passato, non s’inganni l’avvenire. Non abbiamo piati ad avvocare; e la storia debb’essere un giudizio.

Al cader del 1860 e sorger del nuovo, l’insegna del Reame sventolava tuttora sulla cittadella di Messina, affidata a incorrotto e strenuo soldato, Gennaro Fergola: la si vedea in remoto confine su vecchio castello a Civitella del Tronto, custodito da pochi veterani, ed in su la rocca di Gaeta, che difendea il Re. Era l’ultimo atto, con che si chiudea la Monarchia. Ruggiero, che la fondò con mirabil arte di guerra e confermò con leggi, visse operoso, e morì a cinquant’otto anni, come tutti i grandi uomini soglion morire, con la coscienza aperta alla storia, di aver redenta la terra, e fattala Monarchia potente e temuta. Tutto mancò al suo figliuolo, inetto e malvagio al regno. Ma Guglielmo II trasse dalla provvida madre, che fu Margherita di Navarra, la più nobil parte dell’esser suo, certa grandezza d’animo; per cui intese a riprodurre le opere dell’avolo, che immaturo fine a trentasei anni interruppe. Tancredi, figliuol naturale d’un primonato di Ruggiero, eletto da’ Baroni e dal popolo, tuttoché non chiamato da testamento di Guglielmo, fu il principe, che in Salerno, avuta in sua podestà prigioniera l’imperatrice Costanza, non volle altrimenti rimandarla al marito che sovraccarica di onoranze. Lui morto, a Guglielmo III suo figliuolo, ultimo dei Normanni, il marito della Costanza, Arrigo di Svevia, dava la prigione e la morte.

Un trono, che s’alza splendido, ed un carcere scuro ed insanguinato segnano il principio e la fine del dramma normanno.

Le crudeltà occorrenti a chi ha fame di regno, contrassenarono le prime opere Sveve. Arrigo anticipò nella storia dei rigori gli esempi di rigori ai vinti. Abbandonato da Costanza, nel cui spirito rilucean tuttora idee normanne, moriva esecrato. Giovaron le cure dell’ottima Donna ad aggrandire i destini dell’orfano figliuolo, Federico, commesso alla tutela del Pontefice, che il fè salvo da prima da’ Saraceni, e gli diè poscia per casi sopravvenuti la corona de’ Cesari in Aquisgrana. Principe, pagò ai cortegiani il tributo di loro arti, nell’annerirgli la chiara effigie del miglior amico, che fu Pier delle Vigne, morto in cieco carcere. Legislatore, monumento di lui rimane un codice, che molti discancellò residui di barbarie longobarda. Letterato, la storia delle nuove lettere comincia in Italia col suo nome; il primo ad annobilire il volgare in Corte, il secondo in Europa a fondare in Napoli Università di studi. Guerriero, la civiltà cristiana difese in Oriente, e s’incoronò re di Gerusalemme. Volse, tornato in patria, i nemici a distruggere gli amici, che aveanlo tradito, sino ad atterrire un Pontefice, che venne a patti con lui. Implacabile a figliuolo, che gli si mostrò ribelle, sventò le guelfe trame del tempo, e s’insignorì di Lombardia. Per non composte controversie con Roma, ebbe anatemi che non curò, o rispose con fatti d’arme sin quasi a morte, che il colse in Puglia, ov’era ito a raccorre armi e danari.

Disputaronsi variamente il retaggio due figliuoli di madri diverse, Corrado e Manfredo morto il primo a ventisei anni, non senza sospetto di veleno propinatogli da Manfredo; e questi dopo fortunosi casi, tradito da’ Baroni ed in odio a Roma, era ucciso in battaglia contro Angioini presso Benevento.

Corradino, nato del primo, giovanetto, venuto più tardi da Germania a ritentare l’acquisto del Reame, tradito anch’egli e rotto a Tagliacozzo, avea in piazza del Mercato a Napoli per comando del nuovo Re mozzo il capo sul palco.

Tra lucide orme, pur nera e non interrotta ha il tempo degli Svevi lunga striscia di sangue! Con pomposi mostramenti di culto che traggono a superstizioni, con gravezze per arricchire, e burbanze di conquistatori inauguraron lor signoria gli Angioini. Ad imbaldanzire era lor incitamento l’onnipotenza della corte di Roma, che Giovanni da Procida seppe non guari a se trarre, vendicò Corradino, e liberò la Sicilia. Le Assemblee generali, statuti della Monarchia, e di cui primo esempio diè Ruggiero in Ariano al 1140, continuato da' suoi e non interrotto dagli Svevi, Carlo d’Angiò a voler tutto assorbire, e ad eludere ogni pubblicità, intese ad abolire sino a volerne casso il nome, che al 1269 in Napoli fè chiamare Consigliosenza intervento dei Baroni e de’ Sindaci delle Terre, per a solo simulacro di deliberazione sulla sorte di Corradino, ch’ei volle morto ad ogni costo.

Fabbricò e accrebbe templi; non restaurò primamente l’uomo interiore; non rilevò la scaduta disciplina. Aggiunse a servi titoli di nobiltà, e distribuì onoranze, che conferite a indegni danno infamia. Vano in Corte, altezzoso in Trono, dappoco in caserma, inetto e crudele nei consigli, fu più volte veduto con sembiante composto a pietà assumere in chiesa veste di canonico. Moriva odiato a Foggia; e gli fu successore Carlo, suo figliuolo, principe di Salerno, più atto a piangere in un cenobio che a reggerlo, più bacchettone che pio, vissuto senza notevole infamia, e morto, benché re, oscuramente.

Roberto che a lui tenne dietro, resero commendevole da prima, tra infortuni pubblici, opere di pace, e compianto poscia disavventure domestiche. Maritò una figliuola di premorto figliuolo, Giovanna, di sette anni, con Andrea d’Ungheria, che dappoco e sconcio di forme, in formata età l’avvenente Regina odiò e fè strangolare, sposandosi a Luigi principe di Taranto, e seguentemente dopo fortune varie a principe di casa d’Aragona; e novamente, morto anche costui, ad Ottone di Brunsvicho.

Popolata d’amadori la Reggia, l’era vuota di eredi; e Giovanna predestinava alla corona Carlo di Durazzo; a cui, nelle controversie di lei per la elezione di Papa Urbano VI, e però scomunicata, il Pontefice diè anzi tempo l’investitura, e Carlo s’insignorì del Reame.

Menata la Regina in carcere a Castelnuovo, le si chiuse quivi con il circuito della terra ogni speranza. Lamentò l’ingratitudine di lui, trapassando per lunga e stentata agonia di animo, finché non piacque allo sleale vincitore di farla strozzare nel modo che fu morto Andrea d’Ungheria. L’ingratitudine, che gli anticipò il Reame, Carlo mantenne a provvedimento di regno. Vinto Luigi d’Àngiò, che Giovanna presso a morte nominava suo erede, ei la rivolse tosto al Pontefice, che avealo beneficato. L’assediò in Nocera; né valsero anatemi a fermarne gl’impeti. Potè nondimeno, aiutato il Pontefice da grandi di parte Angioina, schivare più crudeli rigori, e volgere altrove. E Carlo, a torre altro diadema, andò in Ungheria; e vi rinvenne due regie donne, Maria e Margherita, discendenti di Carlo Martello, che simularono di affidare a lui la lor regia podestà. E, dopo l'incoronamento, invitatolo in loro stanze, il fecero sotto i lor propri occhi da sicari appiattati istantemente trucidare.

La corruzione leva onde più piene, e s’offre alla storia maggior disordine di uomini e di cose. Col sangue, che gli diè Carlo di Durazzo, il figliuolo Ladislao ne eredò nel modo stesso gli spiriti ed i propositi. Fanciullo, a dieci anni incominciò suo regno, sorretto dalla madre, che il difese primamente contro Luigi d’Angiò, stato poco tempo re di parte del Reame, e gioco a un tempo di Baroni: i quali, venuti la mercé sua in maggior potenza, il tradirono e rimandarono in Francia.

Ricuperata intera la podestà, l’animo fiero aprì Ladislao a più alte brame. Immaginò farsi re d’Italia, senza il coraggio ch’ebbe nell’idear Io stesso lo Svevo Manfredo, con più difetto di congiunture che all’età nostra si ebbe Gioacchino Murat, ed abbondarono non guari a Vittorio Emmanuele di Savoia. Impadronitosi Ladislao di Roma con gli espedienti, che la perfidia consiglia, se ne dichiarò solo Principe. I Fiorentini, che previdero nel suo ingrandimento il loro servaggio, collegatisi col Pontefice, ne lo espulsero istantemente. Niente domo in faticose lotte che sostenne, senza pur lasciare traccia di monumento, che attesti virtù di principe in normali tempi, prodigo sino a vendere uffizi pubblici e titoli di nobiltà a ignobilissimi, moriva, dicono, di veleno apprestatogli in Perugia, lasciando sì fattamente sformato il Reame a Giovanna, sua sorella; che dovea con più danno pareggiare in faccende di amore e sventure la prima del nome stesso.

Più avvenente della prima s’imbattè Giovanna II anche in amadori più ingrati. Sposatasi per aver prole a un Conte della Marca di Francia, prima opera di costui fu il far mozzare il capo a Pandolfello, favorito della Regina, e lei a un tempo sopravvegliare nella corrotta Reggia. Ma non andò guari che il Conte in lotte apprestategli da cortegiani fu a sua volta vinto, chiuso in carcere dalla Regina; e, a supplicato riparo, s’ebbe ritorno in Francia.

Non ebbero allora i colpevoli amori più misura. Non v’era Stato, v’era Corte; vi eran istrioni, a cui s’affidavano i pubblici fati, poligami adulteri e lenoni che s’annobilivano. Un Sergianni Caracciolo, tuttoché altro gli assegnino bugiarde leggende, disperato di aver titolo di principe, percosse la Regina, e ne ebbe in risposta la morte, notturnamente orditagli da Covella Ruffo, Duchessa di Sessa, emula di lui in potenza, e della Giovanna, dicono altri, in avventure d’amore. I mal spartiti favori, le gare di uomini e di donne in Corte e fuori, dovean ingenerare odi ed accrescer rancori; e questi come in politica, come in culto ed altro, dividere il paese in parti. Niun concetto nazionale, niun’opera civile: ristoramenti di fabbriche di chiese e non di costumi. Lotte di famiglie, speranze attuate o deluse di ricchezze, di onoranze, di amori, che misti a cumuli di superstizioni contrassegnano l’età misera.

Sciagurati Baroni lavoraron di soppiatto a chiamar nel Reame Luigi d’Angiò di quel Luigi, stato nemico di Ladislao. E Giovanna, vuota la Reggia di successori, eleggea Alfonso di Aragona. Il quale, superato agevolmente il comune nemico, sopravvincea a un tempo anche lei, per modo che l’infelice donna trascorse ad invocare lo stesso Luigi, che mandò in Calabria a domare gl’insorti Baroni.

Morto Luigi, ella dichiarò erede il figliuolo di lui, Renato, ultimo degli Angioini, tardi soprarrivato ad onestare l’avito nome, il primo e forse, salvo Roberto, il solo, che sino alla sotterranea riuscita degli Aragonesi in Napoli, della stirpe meritò nome di Re; dopo lunga seguenza di superstizioni, miste a scandali e a delitti.

La storia degli Angioini si riduce a fatti intricatamente di Corte. S’ebbe Napoli sotto la lor signoria ciò che di peggiore offrivano con l'Islamismo i piccoli principati d’Oriente. Per nullità di civile opere, per disfacimento d’ogni ben pubblico, salvo il corto risvegliamento di Renato, la Monarchia patì come sospension di vita nella secolar vita dei popoli.

Alfonso d’Aragona, chiamato e repulso da Giovanna II; ma già re di Sicilia, vinto Renato, dop'oltre un secolo e mezzo ricongiungea all’isola il continente Napoletano. Egli è la terza o quarta figura di rilievo nella storia del Reame. Seppe, datore di leggi, meglio intendere i tempi, ed il Parlamento muto sotto gli Angioini, riaprì in Benevento un anno innanzi, che egli entrasse in Napoli. Fondatore del Sacro Regio consiglio, spianò a’ successori la via di procedere oltre. Intese nei consigli ad aver seco ministre l’intelligenza e la virtù. Degli artisti si giovò a ristorare ed ergere monumenti, che tuttora van riguardati; dei letterati a diffondere l’amor degli studi, ch’ei, anche a conforto del suo animo, mantenne tenace quanto l’amore, che il legò alla Lucrezia d’Alagni. Lo si appunta di aver non per tanto invigorita la podestà baronale, per conferirle il diritto del barbaro mero e misto impero. Ma le teorie di tutto infeudare reggean trapotenti; e a discancellarle dai codici facea d’uopo, che il tempo con altri moti e con gl’infortuni che contempcrano gli animi, ne divellesser innanzi tutto da scuole e da costumi le epidermiche idee.

Smogliato, non mostrò licenza di vita. Sobrio e mansueto in casa, generoso in guerra co’ vinti, indulgente ad inimici, l’imperio regio parve assumere per sé, ed esercitò per lo ben di tutti. Formoso della persona, più bello n’era l’animo; largo, aperto a certo gentil senso, che seppe pur contrapporre alla natia catalana fierezza. Maturo dai casi ancor giovanetto, a sessantanni avea poetici spiriti, misti a senno di capo canuto.

Egli è immagine di Re, che in corrotti tempi si leva e sorprende la storia.

Al 1458, nel solitario castello dell’Ovo, il dì 27 Giugno, alla terza ora di notte, al suo letto di pacata agonia non vi avea calca di coeredi a lamentarne, o aspettare il fato estremo. Spariva una natura e forma di uomo, che, per lasciare durevole traccia di sé nell'estimazione degli avvenire, sforza i più repugnanti ancora a men disistimare il genere umano, e nobilita la cronaca dei re.

Il blandire i feudali ordini fu danno al paese ed espiarono i Principi. I Baroni intesero a spodestare Ferrante, figliuolo naturale di Alfonso; e s’ingegnò il nuovo Re, a sua volta, di vincerli con arti di regno, che più van coperte, più risultan disoneste. Non nato a rigori, le condizioni che gli si frapposero, il fecero crudele. Ebbe alto ingegno, e cuore quanto aperto a guiderdonare tanto rigido a punire. Primo in Napoli ad accogliere l’arte dei tipi, ritrasse dal paterno esempio l’abito di onorar le lettere; ed ospitalità con virtù antica accordò, come Alfonso, ai Greci, che fuggian di Costantinopoli. Il figliuolo, che fu Alfonso II, trascorsa la prima età in contrari moti e terribilità di rigori, venne odiato al regno, che mantenne poco. Ed impaurito di Carlo VIII, che, mosso di Francia, discendente di Renato, il Papa incoronava, confortandolo al riacquisto del Reame, egli si fuggì in Sicilia. Volle chiudersi al mondo; si rendé frate Olivetano, abbandonando i brani laceri della Monarchia a Ferdinando, secondo del nome e terzo a provare il frutto de’ benefizi del bisavo ai baroni, che il tradirono. Onde, disfidato di proseguir la guerra, aborrendo dal sangue, diè il mirabile esempio di sciorre dal giuramento i soggetti, che tuttora il seguitavano; e si ridusse inerme sull’umile e solitario scoglio d’Ischia. E quivi, per destare l’ingrandimento di Carlo VIII sospetto o gelosia ai principi di Europa, Ferdinando detto il Cattolico inviò Consalvo di Cordova, che il restaurò nei diritti, serbati da lui modesto, e poco tempo per morte immatura.

La monarchia n’andò a Federigo, suo zio, che in guerra nuova mossagli da Luigi XII successore di Cario VIII, ebbe a strumento di ruina contro di sé quel Consalvo, che fu di salute al predecessore. Sostenne non per tanto con presenza di animo ogni mutabilità di fortuna per tradigione del congiunto, che il Pontefice premiò contro giustizia. Federigo invocò e si ebbe da’ nemici per sé e pel figliuolo, già prigione di Consalvo, asilo in Francia; dove nella mutua guerra dei complici che seguì, Francesi e Spagnuoli, alla spartigione delle spoglie ch’ei vide, innanzi di morir compianto potè altresì presentirsi vendicato nel giudizio della storia, costretta dopo gli Aragonesi a torre il bruno. Essendo che furon dessi nell’ordine della Monarchia ciò che gli sparsi lembi di sereno sono alternandosi al durar dei temporali; che più lascian di loro confortevoli impressioni quanto più scuri e minacciosi nuvoloni si riaddensano nello spazio a spaventar la coscienza storica.


vai su


21-40 La disfida di Barletta, argomento

La disfida di Barletta, argomento poeticamente svolto a dì nostri da Massimo d’Azeglio, è il solo fatto che rischiara l’età, in cui da due re, per ingordigia dell’uno e tradigione dell’altro, Napoli fu aperto campo a stranieri, e preda serbata a Ferdinando il Cattolico dopo la giornata di Cerignola. Il Reame fu fatto provincia, a cui reggere s’inaugurò la signoria di Vicari, con sciami di congiunti affamati. Si tentò introdurre ne’ pubblici atti la lingua Spagnuola per sostituirla al Latino imbarberito, ciò che rallentò gli studi del nostro idioma, già perfetto al 1500. Si osò proporre il sant’uffizio, specie di tribunale instituito al pensiero, in culto niegazioue dell'Evangelo, in arte di regno espediente non ignoto a Tiberio, e riprodotto appo noi non guari nelle leggi di Pica e di Crispi. Con tali intendimenti e sì fatte opere regnò Ferdinando il Cattolico e governarono i Vicari. Tolse il regno col tradimento, mantennelo con simulazioni ed ipocrisie, e a coloro che gliel’aveano apprestato, rispose con l’ingratitudine. E primo a provarne i rigori fu Consalvo di Cordova. La vasta dominazione lasciava a Giovanna, sua figliuola, che poco stante rinunziava a Carlo primonato di lei nelle nozze con Filippo d’Austria; il quale ancor sedicenne, ebbe a suo impero l’Austria, la Spagna, l’Italia, la Fiandra, le terre del nuovo Mondo; quinto del nome, secondo esempio dopo Carlomagno di vastità di regno, e primo per avventura di animo, che infastidito del soverchio passò istantemente all’opposto; di non ambire al culmine di sua potenza che i silenzi e l’umiltà di un cenobio in Estremadura.

Una grandiosa figura contrappone il secolo a Carlo V; egli è Francesco di Francia. Con riferirsi per sangue a Luigi d’Angiò, avea dopo sforzi del Pontefice, a cui era grave la potenza di Carlo, inviato lo svizzero Lautrecco alla riconquista di Napoli. La città fu assediata, e vi perì in sortita notturna Ugo di Moncada. A vincerla, più dell’ostinato coraggio degl’imperiali dentro, si frappose la peste levatasi fuori nel campo. Al 1528 il colle di S. Maria del Pianto, detto poscia Lotrecco fu sepoltura a venticinque mila Francesi per lue finiti. E scemati sìffattamente gli assedianti, i fuggiti residui affidati al Marchese di Saluzzo presso Aversa stremò ultima disfatta; che diè agio crudele a un principe di Orange, succeduto ad altri Vicari, di più inferocire in Napoli contro i lor partigiani. A parecchi Baroni fu mozzo il capo sul palco; ed il Cardinale Colonna, trovato come esaurito ogni tributo di sangue, tolse con ogni maniera di gravezze a votar di denari le provincie. Pietro di Toledo men stemperato de’ primi, ma più astuto, ai danni della guerra, alle miserie dell’assedio, ai lutti della peste, al terrore del patibolo e alle rapine del Colonna, immaginò aggiungere il sant’uffizio, che il popolo, benché oppressato, levatosi come per ultimo istinto di salute, concordemente protestò di non subire. Tre mila scherani Spagnuoli, per comando di Pietro ricoverato in Castel Nuovo, intesero a sedar la levata, che sbigottì e volse l’animo del principotto a più miti consìgli, nei quali si morì non guari a Firenze; dove, infaticabile nell’amore che il congiunse al suo Sovrano, era corso a sedare i Senesi. Gli apologisti della forza in fortuna ne fanno un uomo di rilievo; e sopra modo per opere pubbliche di che egli intese ad abbellire Napoli. Ma non sono le mura e i tragetti, che muniscon ed avviano a splendori gli Stati.

E’ lo spirito previdente di chi regge, che l’innalza o abbatte. Eran tempi per tutte specie d’intolleranza crudeli; senza più patria; l’uomo era a livello dei tempi; e di essi spaventosa testimonianza fu Pietro di Toledo.

Più malaguroso lo stato di Sicilia, taglieggiata di dentro da Vicari esiziali, infesta di fuori da incursioni d’Africani. Il Lanusa ed il Moncada sono i primi, a cui la storia assegna celebrità trista. Disperanza di non poter altrimenti schivar tanti mali avea più volte i Siculi sospinti di commettersi a nuovi padroni. Cospirazioni per tanto, inquisizioni e patiboli in esercitamento furon dei tempi la triplice alternazione di opere coperte e pubbliche. Vi rimasero larveggiati i Parlamenti, sin quasi all’età nostra, in quello che nel Napoletano mancarono affatto, durati in Sicilia con più irrisione al diritto regio e dei popoli.

Filippo II, che succede a Carlo V, fuor che negli Austriaci domini, ebbe, venuto anch'egli in disfavore di Papa Paolo IV, guerra con Enrico di Francia. E le provincie s’ebbero nelle vittorie degli uni. e nelle restaurazioni degli altri scambi di Vicari, che faceau desiderar gli antichi. Il Duca di Guisa e il Duca d’Alba hanno nomi, che spaventano tuttora la fantasia dei popoli. Solo in miserie, che v’aggiunsero al 1560 tremuoti e carestie, rifulse, miracolo di luce, il Duca d’Alcalà; e commendevole va ricordato il suo successore, il Cardinal di Granvela. Il quale tentò, fatica malagevole a Cardinale, di comporre, con vantaggio dei diritti regi, le controversie con Roma. Il Granvela fu primo formatore dalla lega che strinse i Principi a sorreggere in Oriente la civiltà Cristiana, rassicurata non guari colla vittoria di Lepanto. Don Giovanni d’Austria, figliuolo naturale di Carlo V, traeletto al supremo comando, entrò primo a Napoli in mare; e, per domandare dopo le durate fatiche non si sa qual guiderdone in denaro, n’ebbe repulsa, che il Granvela scontò con esser rimosso dal Vicariato, surrogato da chi potea istantemente ritorre nelle ammiserite provincie l’ufficio di rigori e di rapine.

Il Marchese di Mondeiar, Giovanni Zunica, principe di Miranda, il Duca d’Ossuna,. il conte di Miranda, nipote del primo, il conte Olivares son figure più o men triste, o affatto grame, che s’affacciano alla storia.

Filippo III, al 1598, fu espression misera di coscienza più che di ragione. Men astuto del padre e dappoco, ressero per lui ministri e consiglieri iniqui. A Napoli fu mandato il conte di Demos con ufficio di raffrenare i Calabresi, che dal poetico che pur dà la disperazione in casi estremi, traevano il concetto d’innestar repubblica a tronco fradicio di tirannide antica. La vaga idea trascorse sino a creder valido aiuto la forza dei Turchi; e, ciò che più stupisce, ella sopravvinse il senno di uno de’ più gravi pensatori dell’età sua e di altre ancora, il frate Tommaso Campanella; che dall’umile convento di Stilo in Calabria sperò con schiera di amici e frati armati ridestar compagni all’impresa. La sollevazione isolata fu agevolmente repressa. Il carcere fu ripopolato di puniti; la tortura s’ebbe i suoi pazienti; il patibolo continuò il suo ufficio. Il filosofo, fattosi ad arte giudicar folle, potè salvar la vita. E, per sospetto d’eresie reclamato istantemente in Roma, giacque in prigione. Ne uscì, ma per errare variamente, è morì in Parigi.

La scienza era men pratica che teorica. Allor che le forze d’un governo a tutt’altro son volte che a favoreggiar gli studi il genio che sorge, si serba solitario. Gli è il frangente, in cui il pensiero in sé si chiude, od osa appena affacciarsi alla vita che gli è contraria. I tempi delle maggiori tirannidi son quei in che più lavorano e vivono, conscii a solo sé stessi, i gran pensatori. E per converso, quando a miti condizioni volgono i governi, ciò che fu isolato, diventa comune; ciò che fu coperto, va discoperto e si applica. La tecnologia nasce tardi; o ella ha d'uopo di congiunture felici. Giordano Bruno, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, Antonio Serra, Giambattista La Porta ed altri sono i martiri del tristo periodo. Occorreano altre età e nuovi moti, perché i lor concetti avesser rilievo in felici pruove; ed i loro nomi distinto uh ricordo nel tempio della gloria.

Travagliavan le provincie, oltre i preposti a reggerle, le gare baronali, le ruberie in mare e gli sbarchi de’ corsari alle sponde, il brigantaggio nei monti, il brigantaggio ufficiale le controversie colla corte di Roma. Erano in pieno vigore le teorie, di potere la volontà d’un principe conferir diritto di proprietà su terre ch’eran pubbliche, e per succeduto disvolere ritoglierlo agl’investiti per distribuirlo ad altri. La feudalità ha nel suo progredimento più misfatti che il malandrinaggio nelle sue leggende. Il lavoro, debito assegnato all’uomo per averne a compenso diritto di proprietà su parte di ciò che va prodotto, era tuttavia idea feconda, ma occulta negli scritti. Il barone ed il pirata non volean altrimenti sapere, di diritti che nei maneggi in alti uffizi e nei successi della forza. La giurisdizione del mero e misto impero, sciaguratamente da Alfonso d’Aragona accordata al baronaggio, avea più scompigliato ne’ tribunali il cammino tardo della giustizia. Tutt’era traffico; spossato ogni aiuto di legge, sorgeano e si perpetuavano le male fortune.

Il Conte di Benavento fu uomo provvidenziale. Infrenò ingordigie di potenti, punì avarizie di magistrati, e s’ingegnò smorbare di ladri i pubblici uffizi. Il castello di Durazzo, rifugio di pirati, fu da lui distrutto. Provvide a mancamenti di lavoro; ed opere pubbliche di lui furono le vie di £ Luciae di Poggiorealeed il Ponte di Chiaia; e nelle provincie van ricordati i ponti di Bovinodi Beneventoe di Cava. E, ciò che più distinse l’infaticabile operosità dell’onest’uomo, si fu la discrezione ed il coraggio, con che seppe nelle controversie con Roma difendere l’immunità dei regi diritti.

La memoria del Conte di Benavento va rispettata dalla posterità nel modo che ne fu temuta dai malvagi la presenza; persecutore istancabile del male, che non potè distruggere, per esserne soverchia la corrente. I Vicari che gli tenner dietro sino alla morte di Filippo III, fuori il Conte di Lemos, nipote del primo, che, dotto in lettere, avea con disegno del Fontana trasferita l’Università degli Studi dove fu poi il Museo Borbonico, e salvo il Duca di Ossuna, che per essersi opposto a nuove gabelle e al non mai restato progetto del sant'ufficio, sotto accusa di volere per sé il principato di Napoli e per altro era stato chiamato a Madrid, chiuso e morto in prigione; i due ultimi, ambo Cardinali, Borgia e Zapatta, venuti in ufficio, risposero alla vocazione della loro indole e dei tempi.

Filippo IV, prodigo e dissoluto, avea d’uopo di gabellieri fuori Spagna. Il Duca d’Alba primo venuto in Napoli estorse e gli mandò un milione di ducati. Sotto il Duca d’Alcalà si fe mercato di terre demaniali, sempre più infeudandosi uomini e cose. E per aborrire le città regie la podestà baronale, vanamente intesero alcune a sfuggirne il danno. Inviarono donativi al Re, e furon nondimeno vendute. Il Duca di Medina impose gravezze per fin sulle ceneri de’ morti. Si riscossero forzatamente da’ mercadanti dugento mila ducati, si raccolse altro milione, e si continuò per essi la guerra di Catalogna. Una cospirazione si ordiva, e n’era cosciente il Cardinal Mazzarini. Discoperta dallo spionaggio, disciolsela il terrore. Un Alfonso Enriquez, inviato dopo il Medina, si sentì disadatto al gran disordine; e surrogollo il famoso Duca d’Arcos.

E di rincontro a costui nella più ammiserita Sicilia, pari a ferocità di propositi, signoreggiava certo LosVelez. Al 1642 Palermo insorse; si schiusero le carceri a tutti i detenuti; si arsero agli uffizi di Spagna i libri delle imposte; si tentò bruciare il palagio del Pretore. A raffrenar l’ira pubblica il LosVelez menomò le tasse; ma non ne furon gli animi satisfatti, e l’insurrezione proseguitò. Non doma da rigori di sorta più inferocita risorse, capitanata da’ popolani, Giuseppe Alesi e Pietro Pertuso, che se ne disputaron tosto l’assoluto comando, ed il secondo fu gridato Capitano. La corruzione del governo era anche in coloro, che s’affaticavano di abbatterlo; e la vittoria era serbata a chi n’avea maggiore, per espiarne più crudelmente le colpe. Lo Alesi, giovandosi non guari di momentaneo per lui favore di popolo, fè mozzare il capo, come ribelle, al Pertuso. Ogni forza rivoluzionaria rimase a lui solo; ed egli presentì di non poterla altrimenti reggere che con venire a patti col Vicario. L’ebbero tosto i suoi a ligio degli Spagnuoli; e costoro, a spacciarsene come di testimonianza importuna, lo accusaron di serbate attinenze co’ Francesi. Il disfavore degli unì e la vendetta degli altri ne affrettarono il supplizio misero.

Le cagioni istesse in Napoli concitavano le moltitudini a tumulto. Non istinti a ribellione, non brame di dominio sospingeano a rumoreggiare. Era il mal governo, era il caro dei viveri in paese di produzioni, con giunta di gravezze e selvaggi modi di stranieri venuti a riscuoterle. Tommaso Agnello, o napoletanamente Masaniello, fu il più desto e audace delle migliaia di oppressati a svegliarne il moto. Isolato, con pochi od in altre età, ne sarebbe ignoto passato il nome. Le meridionali fantasie nelle istantanee congiunture ne fecero un capitano, poco stante un volgare malfattore, e dopo morte un eroe.

Masaniello è il venturiero del giorno in quello che altri lo sono di più anni e di secoli. Rappresentò la somma di tutte le ire, di tutti gli odi che cencinquanta mila armati, che gli si agglomeraron d’intorno, avean contro il Vicariato. Egli fu l’umile pescivendolo, a cui la fante del curato avrebbe, senz’udirne risposta, disdegnosamente chiuso l’uscio in faccia; e nondimeno nella momentanea ebbrezza della vittoria comandò al ViceRe, alla ViceRegina, comandò al Cardinale di avere loro omaggi, e li ebbe a modo di Re. Il Duca d’Arcos avea simulacro di Trono; egli se ne fè altro più specioso ergere in piazza del Mercato. Il Duca accordava albagioso chiuse udienze a’ cortegiani, a baroni, a spioni; il lazzarone intronizzato le accordò pubbliche a moltitudini briache. Ma l’uno a perdurare in podestà si consigliava con certo rigore di cifre; nell’altro la casuale potenza paralizzò ogni calcolo, e governò la fantasia. Il Duca a strumenti di silenzio a’ nemici avea la corda ed il capestro; Masaniello anche con più sommarie forme l’adoperò ciecamente contro suoi devoti. L’uno astuzia o paura confinò da prima in un monastero; riposo e fatiche di otto giorni di regno, passati in sproloqui e delitti, traeva l’altro in cella apprestatagli nel convento del Carmine. Il Duca ne riusciva a tempo; il lazzarone ucciso, trascinato cadavere, ed il capo fitto ad un palo per le vie. Rimpianto non guari dai nobili, contro cui, esaurite le vendette contro popolani, dovean poscia più pensatamente esercitarsi le vendette alte; e però tardi, dopo sepolto, s’accordarono i cuori di tutti ad estimarlo un liberatore. La storia null’altro sa vedere nel frangente ed in quell’uomo che un istinto di salute, sprecato in rivoluzione di tempi corrotti e corruttori.

I quali più volsero in peggio, quando i Napoletani, a sottrarsi dalla tirannide di Filippo IV, non trovando a cui commettersi, immaginarono in nuova insurrezione reggersi a popolo con far puntello di lor repubblica un Duca di Guisa, Francese. Certo Gennaro Annose, tristo mobile di rivolture, Io fè proclamar Doge; e il Duca mostrò di non poter altrimenti tener la repubblica che con feudali ordini e modi. Sospetto ai Baroni, odiato, per non poter tutti sfamare, da coloro che l’aveano acclamato, tardi soccorso dal Mazzarini, tradito dall’Annese, che, frodato nelle speranze di maggior potenza, si facea in piazza democratico e di soppiatto lavorava co’ Spagnuoli, il Doge dissennato si trovò solo o con pochi a fronteggiar Don Giovanni d’Austria, venuto con nuove forze a sedar le provincie; e si fuggì.

E prima opera di Don Giovanni fa la elezione al Vicariato d’un raro modello di strumento punitore, il Conte d’Onatte. Gli esercitati rigori toccarono per fino l’animo de’ lontani ministri di Filippo, che il rimossero, e vi allogarono in vece il principe di Castrillo, uomo di mite natura, ma implacabile a un tempo contro i perduranti nel matto intento di restaurare il Guisa e l’eteroclita repubblica.

Nulla mancò a provare la ruinosa età. Al 1659 una pestilenza, specie di tifo, ingombrò di oltre a dugento mila cadaveri le grotte del monte Lotrecco, le catacombe di S. Gennaro de’ Poveri, e le fosse all’uopo scavate dove oggidì in Napoli s’apre il Cavone e le corte e spuntate vie adiacenti. Altra pestilenza morale venia dalla pluralità delle leggi, dalla moltitudine de’ causidici, e però de’ piati. Vasta ed indigesta erudizione era la scienza, che più richiamava a sé ogni studio. Vi si distinsero Scipione Rovito, che dettò commentario alle Prammatiche;Carlo Tappia, che lavorò a un codice Filippino;Pierantonio Ursino scrisse un trattato, de successione feudorum;Antonio de Marini s diè fuori le decisionidel reggente Revertera con decreti della Regia Camera. Son libri di congiunture, e nulla più; che non per tanto rivelano dei compilatori l’infaticabile operosità.

Opere pubbliche eran restauri a mura di città, che si tenean chiuse quando per continuo stato di guerra, quando per iscorrerie di pirati alle sponde del triplice mare; ed altresì per non mai restate contenzioni e scaramucce baronali e per non meno esiziale permanenza di ladroni sparsi e aggruppati in campagne. Chiusa era ogni via a vita pubblica; si moltiplicavano i cenobi, e le difficili nozze a donzelle nobili accrescean il numero delle claustrali. L’assoluto difetto di libertà più scemava di abitatori le terre feudali. Men tormentoso ai profughi parea il vivere in Napoli, che non valsero pestilenze ed altre anche più crudeli tirannidi ad isolar mai sotto il suo bel cielo, fatato dopo i Fenici ed i Greci, i primi popoli della storia, a coprire razze imbastardite da corruzione latina, da barbarie gota, e da più dannoso foresterume iberico.

A Filippo IV, mobile ed incurante, nel 1665 succedea dappoco e cagionevole, fanciullo ancora, Carlo II. A più ruina precipitavano i pubblici ordini. Per potere i malfattori, rifuggiti in templi o monasteri, rimaner lungamente immuni da pene, brigate di ladroni funestavano campagne, borgate e per fino città regie. L’antica civiltà umana parea essersi tutta smarrita. Alla sapienza delle Romane tavole s’era sostituito alcun che di più barbaro del Longobardo guidrilgildoìo multa con cui si compensava il delitto. Un nipote del Cardinale di Aragona, venuto a surrogar lo zio, per far denari, con venderne vieppiù l’impunità ne accrebbe il numero e la baldanza. Un Luigi de Hoio, vicario in Sicilia, comperava grani nelle penurie per accrescerne in mercato il caro e la miseria a’ poveri. Messina insorse, e gridò suo Re Luigi di Francia. Ma il moto non seguirono le altre città, per durare abominevole il nome degli Angioini. In Napoli un Conte del Carpio, un Conte di S. Stefano, e il Duca Medina Coeli, uomini di buona tempera, s’ingegnavano di disacerbire i mali pubblici rinacerbiti tant’oltre dal Marchese LosVelez, che per aver danari, insecchita ogni fonte, tolse a vendere titoli di nobiltà a malnati, ed uffizi ad indegni.

Al 1675 il Re s’infermava a morte. Frale e gramo di corpo, gli avean gli uomini più isterilito l’animo con paure e superstizioni, che traggono a demenza, il misero giovane, per non convenirgli nome di re, atterrito da storie di fantasmi, artifiziosamente recitategli da ipocriti, i terrori del giorno credea placare con farmachi d’impressioni notturne. Solitario e. chiuso il dì alla luce, riparava la notte ne’ templi a lume incerto di fiaccole; facea scoperchiare sepolture; interrogava, s’abbracciava le trovate ossa; chiedea salute ai morti. Stato costantemente spettro vivente, diè tutto agio a’ cortegiani di spartirne a lor modo innanzi tempo l’impero, il più vasto dopo la mezza età veduto affidarsi a creatura misera sì, ma troppo dagli uomini contraffatta, per favorir dentro e fuori ambizioni di conquista e di regno.

Lega e discordie di Baroni; una più intricata ed alta di principi; il culto a Cristo sempre più fuorviato; gli uomini ed i popoli infeudati, erano le generali condizioni, tra cui sorgea la guerra dei trent’anni.

La Regina, il Confessore regio e l’Inquisitore, triplice genio del male allato di Carlo II, lui vivente, avean parteggiato per Austri. L’Inghilterra d’altra banda, l’Olanda, la Savoia, il Portogallo si spartivano in lega fatta diversamente il retaggio. Un primo testamento di Carlo avea eletto a successore Ferdinando di Baviera. Ma vinsero pratiche varie in Corte e fu dilacerato. Rivinsero non guari altri maneggi e rielesselo il Re; finché non sopravvenne morte improvvisa, dicono, per veleno a Ferdinando in Bruxelles; e Carlo, avutone anche conforto dal Pontefice, dichiarò suo erede Filippo di Francia, venuto, lui morto, in possesso al 1700.

Fiaccati tostamente in campo gli alleati, non potè Filippo tutti rimuoverne altrove i formidabili maneggi. In Napoli un Barone di Sassineto fu inviato dal Cardinal Grimani a sollevare i nobili in favor d’Austria. Giacomo Gambacorta, principe di Macchia ne fu nel civile il primo moderatore, Carlo dei Sangro il capitano a guidar gli armati. Ma il popolo, che ricordava certo, scrivono, tradimento di nobili a Masaniello, non ne volle sapere; abbandonò i congiurati, che atrocità di supplizi finì in carcere e fuori. Il capo a Carlo dei Sangro mozzo sul palco inaugurò i politici martiri del secolo.

Filippo, quinto del nome, avrebbe in pari congiunture emulato, per averne l’animo, l’avolo Luigi XIV. Restate per poco le armi, sedato l’ultimo tumulto, s’affacciò a Napoli. La conservazione d’uno Stato egli vide non essere un. segreto e solo dipendere dalla conformazione di tutti, principi e privati, alti e soggetti, a composte leggi. Opera salutevole estimò innanzi tratto congiunger gli animi, e rilevar delle moltitudini lo spirito imbarberito da ignoranza, ed abbattuto da rigori. Restituì ai nobili certi lor privilegi, ed altri aggiunse al popolo. Scemati i tributi, n’ebbe spontaneo dalla Città altro di ducati trecento mila; e, richiamato altrove per guerra, a memoria di lui, in piazza pubblica s’innalzò equestre statua. Affidava partendo, per la morte del Medina, il governo di Napoli al Duca d’Ascalona, che resse con fede e amore in sino ai disastri del Re, che riapriron le. provincie a Carlo d’Austria, meno la Sicilia, venuta per lo trattato di Utrecco in podestà di Vittorio Amedeo di Savoia.

L’inosservanza del trattato sviò le prime alleanze, diè origine a nuovi patti e ad avvenimenti, che dovean più tardi tramutare la faccia politica degli Stati.

Nel 1731 per lo stesso trattato di Utrecco il retaggio dei Ducati di Parma e di Piacenza era devoluto alla Spagna. A tome il possesso avea il Re Filippo inviato il figliuolo, ancor sedicenne, l’infante Don Carlo. Giovandosi poco stante della guerra di Polonia, in cui eran impegnate lo forze d’Austria, per lo che vedea sguerniti i presidi in Sicilia, spedi tosto in Toscana con nerbo di fanti e cavalli il Duca di Montemayor, a cui si congiunse Don Carlo, e si entrò nel Napoletano ad espellerne Giulio Visconti, vicario di Carlo VI.

Rotti gli Austriaci a S. Germano, riparavano i residui in Capua; il Visconti con altri in Puglia; e Carlo di Borbone figliuolo di Filippo, che tanto avea di sé destato desiderio nel suo brieve soggiorno, forte di armi e dell’amor di tutti, con lasciar Capua in man de’ nemici alle spalle, al 1734 entrava in Napoli.

Diciassette casse di preziose verghe ne precedeano l’ingresso. Ed egli anche sentì di dover altro ad un popolo, famelico innanzi tutto di giustizia. Chiese ed ebbe altro dal padre provvido: il quale, smorbata poco dopo e agevolmente di Vicari Austriaci pur la Sicilia, ne lo dichiarò Re di quella e di Napoli. E nel Duomo di Palermo, dove il fondatore della Monarchia tolse il Diadema, simigliantemente Carlo, terzo del nome, desiderò incoronarsi.

Sin dal cadere del decimo quinto secolo il concetto in Europa di ricomporre le diverse legislature assumea forza di bisogno. Vi reggean nel Reame di Napoli i più complicati elementi. Erano teoriche e pratiche Romane, Longobarde, Normanne, Sveve, Angioine, Aragonesi, AustroIspane, AustroTedesche, feudali e chiesiastiche, con giunta di Greche leggi nelle consuetudini di Napoli, di Gaeta, di Amalfi e di Bari.

Carlo III, al settimo anno di regno, formò un collegio di notabili, nomato Giunta, per ordinare autonoma codificazione; ed a segretario fu eletto Pasquale Cirillo, uomo chiarissimo. Le contrarietà de' potenti a presentir percossi i feduali diritti ne resero da prima più arduo il lavoro. La partenza del Re, chiamato in Ispagna a cingersi di maggior corona, i sopravvenuti rivolgimenti, la Francese signoria, ne indugiarono poscia la promulgazione, seguita dopo l’esempio di Napoli dalla Regina di Portogallo, da Caterina di Russia, da Giuseppe di Germania, da Federigo di Prussia.

Memorabili tra le opere di Carlo III la storia segna il Catastoovvero la misura di gravezze con morte di assai privilegi. Il Consiglio Collaterale, magistrato di Ferdinando il Cattolico, ristretto a due consiglieri presso i Vicari, fu ampliato nella Camera di S. Chiara con attribuimento di nuovi uffizi; la revisione della stampa per lo innanzi commessa ad intolleranti, il giudizio di competenza fra i Tribunali, la disanima delle sentenze di morte, l’affissione del Regio Exequatura diplomi ed atti stranieri. E, ciò che più rileva, vi si sparsero i germi d’avere il Principe nel ristorato Collegio un aiuto in ogni legge, un consiglio in dubbi affari di Stato. Fu riproduzione sotto altra forma e per avventura più rigorosa dell’Assemblea di Ruggiero.

Al 1739 s’instituì il Tribunale di Commercio, con bandirsi colà primamente dalle sentenze il latino barbaro. Vi si apriron gli appelli contro le sentenze dell’Ammiragliato, stato solo intento a piati marittimi. Ed oltre a faccende di traffichi, di arti e mestieri, vi si sottoposero i giudizi di cambio, le lettere di cambio; abolendosi per tal modo i Delegati,specie di giudici eletti da’ Vicari e sorretti da’ Baroni. Un’insigne prammatica diè l’esempio di un codice di procedura giudiziaria, stato in vigore anche sotto il dominio Francese sino al 1809; e avventuroso a ricomporre le antiche controversie risultò il Concordato al 1841 con Benedetto XIV.

Con provvedimenti sì fatti assai germi di tirannide si distrussero. La feudale potenza tocca da Ruggiero e quando afforzata o Bgagliardita in progresso, re Carlo stremò. L’ordine di mezzo, o borghesia, nato o desto appena nelle città regie, venne rilevandosi; e, da per ogni dove, da borgate e castella, da tra mezzo il popolo si videro venir fuori e rifulgere uomini, che all’albagia de’ ciechi nati in fortuna contrapposero l’inconfiscabil luce che dà l’ingegno. Vittime, o a giogo ribelli, popolavano gl’innumerevoli chiostri. Sì diè opera istantanea a scemarli. Il celibato men comandato, n’ebbe danno solo il culto scaduto a mestiere; e si rilevarono i costumi pubblici.

Slargate le leggi di successione, il diritto di proprietà si estese, fu meglio serbato il censo, più equamente spartita la ricchezza. La popolazione crebbe mirabile. Al lavoro della natura ne’ campi si aggiunsero novelle braccia dell’uomo. L’agricoltura in più vigore le produzioni accrebbe; diè moto ad industrie, e vita a novelle. L’indigenza menomata sminuì i delitti, ed agevolati per ispianate vie i traffichi, le città s’ingrandirono; Napoli più che di opere si abbellì di monumenti, per cui l'effigie del Principe, più della ritratta in bronzo da Canova, riman durevole nella memoria degli avvenire. Egli recò tesori d’ogni maniera; fu largo a’ Napoletani d’ogni bene. Se si dovesse ripetere elogio di lui, potendone la stessa democrazia comporre il concetto, sarebbe d’uopo farne recitamento appiè della statua di Ruggiero. I benefattori de’ popoli non han partiti: nati alla gloria, essi hanno il culto de’ secoli.

Una forma di uomo antico si leva allato del Principe; Bernardo Tanucci. Nato in Stia, contado Pisano, venne giovane ancora, in fama di studi e di conferenze alte nell’Università di Pisa. Leopoldo di Lorena l’offrì a Carlo III; ed altri narrano, che il Re, ammiratane in controvversia l’argomentosa parola, il richiedesse istantemente al Gran Duca, secoil menasse a Napoli.

Sformato, come accennammo, il paese da tutte specie di tirannidi, imbastardito da foresterume di più maniere, rotto a pagane superstizioni, stremato da ruberie larvate a diritto; ogni ragione di proprietà venia da successo della forza o da privilegi. In quello che la popolazione scemava di fuori, s’accrescea ne’ chiostri. Assai prole bastarda quando non uccisa nel nascimento, trafugata e nascosta. I più senza zolla di terra. La mendicità diffusa e variamente abbarbicata raro sollievo rinvenìa ne’ chiamati a tutt’altro che all’apostolato di Cristo. II difetto di vie rendea più malagevoli i reclami de’ miseri a giustizia; e più sconfinata si facea l’autorità degl’incastellati Baroni. Il Conte di Conversano, il Duca di Calabritto ed altri sono nomi, che ai terrieri suonano ancor terrore. Per variare di costumi, di ragioni, e dinastie v’era un caosse di leggi; per cui un sotterfugio a delitti alti, inesorabilità di feroci pene agl’infimi. La giustizia prostrata spesso a’ piedi di trapotenti malvagi. Un nobilume strano, imparentatosi co’ più ricchi del paese, era venuto, anche altrimenti abbottinatosi, in opulenza e tracotanza. Parecchi, i discendenti della mala genia, tuttoché per mutamenti di fortuna svigoriti, stremati in privilegi, nella redata albagia pur testimoniano la misera età. Riformare l’antico, ricomporlo a nuovi ordini e precorrere a tempo le inesorabili leggi di trasformazione, fu nel reggimento di Stato il concetto dominante di Tanucci. Cancellò privilegi; ruppe monopoli di caste; spostò agiamenti usurpati; erse a rigore di culto la giustizia ne’ Tribunali; la nobiltà s’ingegnò ridurre a’ suoi principi; nettò di ladri e di uomini di mal affare le infeste campagne; fò dentro mite e desiderata la podestà del Principe, allargò fuori i diritti regi; s’oppose a certe vestigia sott’altro nome volute serbare di sant’uffizio, sino a farne abolire pur la paura, per editto in marmo a S. Lorenzo. Lottò vincitore, finché la stella di Carlo III non fu altrove chiamata a rifulgere. Il Monarca gli affidò, partendo, il figliuolo minorenne Ferdinando, quarto allora del nome. Le affrettate nozze con Maria Carolina d’Austria gli tolsero di mano il giovanetto, che con indefesso amore egli intendea di formare a principe, pari a’ tempi. Era stato medesimamente sciolto il Consiglio di Reggenza, già splendido di chiari nomi, Domenico Cataneo, Michele Reggio, Giacomo Milano, Giuseppe Pappacoda, Pietro di Bologna, Domenico de’ Sangro, Lelio Carafa e Io stesso Tanucci. I sopraggiunti moti di Francia porsero agio a chi n’avea invidia di abbassarne gli alti divisamenti; Acton, che lo temeva, tolse a contaminar di fiele l’anima incontaminata del vecchio; il fò rimuovere dai consigli della Corona, relegandolo a vita oscura, finché la morte, che il rinvenne povero e rassegnato, l’affrancò da ulteriori affanni; consegnandone il nome alla storia, che raccoglie e registra riverente, in lui verificandosi il presentimento de’ savi; gli splendori uscir da’ sepolcri.

Volse più misero il fato a Luigi Vanvitelli, d’ingegneria maestro, e primo artefice di opere, che in Napoli sorprendono l'osservatore.

Di umili parenti, gli fu l’oscurità dello stato istinto a cercare splendori, nel modo che i sortiti in fortuna brigano spesso per opposte vie discaricarsene e chieder vita in sonnifera inerzia.

Luigi Vanvitelli visse al lavoro, e rivive ora nelle opere. Entrava nel vigor dell’età e del genio, allor che l’onda della corruzione che tutto avvolgeva, ne copriva senza traportarlo il modesto’ nome. Un frate, che la sapiente prosa di Antonio Ranieri, e di cui toccherò, ritraeva dall’oblio, il vide giovane nella folla e lo additò a Tanucci. Il Re avea pensieri grandiosi; il suo Ministro ne li volgea avvedutamente ad opere le più acconce in ogni tempo a riordinar nello Stato innanzi tutto la morale pubblica, che sono le traenti a durabilità di lavoro. Ed il giovane ingegnere, messavi mano con ispartirle a migliaia d’operai, si rivelò maturo sino ad emulare in pregio l’artistica forza degli antichi. I Ponti della Valle, la Reggia di Caserta ed altro son suoi concetti e monumenti.

Il pudore, che completa la morale grandezza, il rese cir cospetto e però impotente a vincere la nequizia degli uomini. Prevalsero i di costoro maneggi, che gl’invelenirono ed accorciarono i residui di vita, consumata in fatiche splendide, e sparita oscuramente. E pare impossibile, come sotto la signoria di Carlo III siasi lasciata impunemente compiere tanta ingiuria; se d’altra banda non fossero provate, à compensarne la nobiltà, ormai funeste le doti compartite agli animi grandi. La cicuta nondimeno apprestata? in vita agli alti spiriti, non regge, per fato provvidenziale, a protrarne il danno oltre la tomba. La caducità connessa alle umane cose non raggiunge, o con assai indugio’ i miracoli dell’arte; che contemplati hanno da chi vien dopo, più rispettosi omaggi nelle glorie del marmo e del bronzo. Ed il Municipio di Caserta, dopo cento anni, tardo ma pur commendevole riparo, decretava testò monumento alla memoria di Luigi Vanvitelli.

Non ha la storia individualità solitarie, nel modo che. per esser tutto collegato, non ha albero il deserto, che s'alzi sulle arene isolato.

Compagni a Tanucci, ed altresì, in uffizi diversi, emuli in fatiche, v’ebbero parecchi chiari uomini, il marchese Brancone, Carlo de Marco, il marchese Targianni, Adriano Ulloa, ed altri di venerato nome. La rinata Monarchia, com’è natura de’ nuovi Stati, avea d’uopo di lavoro istantaneo, e di prevedimento istancabile ad argirare il male, levato al colmo sotto la tirannide de’ Vicari. Il secolo preceduto offre in fatti alcun che di sconfortevole alla coscienza storica. Misere gare e non di rado sanguinose lotte di feudatari in politica; crescenti pratiche che paganizzano in religione il culto; disutili e sonniferi argomenti di controversie teologiche, che menano in iscienza a distruggere Iddio; ed in lettere mostruose leggende di santi, versi evirati a celebrar virtù bugiarde di potenti, ad inghirlandar vittime cacciate in chiostri, o canti, come del Marini, deputati a blandir vizi di giovani e ricrear lascivie di vecchi insecchiti. Francesco Sanseverino, Cesare Mormile, Placido de’ Sangro, che sorgon ne’ tumulti a riparo di manomessi diritti; Anna Maria Longo, che fonda con sue fortune ad estremo asilo d’indigenti gl’ZncurafóZt; Cesare Scondito, che pone la prima pietra di quel rifugio, l’Annunziata,dove i primi oltraggiati ne’ naturali loro diritti trovano un filo di carità, che li lega alla vita; il genio artistico e le sapienti satire di Salvator Rosa, non han ripetizione di esempi: sono miracoli della corrotta età. Erano gli uomini, che avean fatto, dopo brieve ed angosciata vita, morire oscuramente in carcere Antonio Serra, Calabrese, il fondatore della scienza Economica; erano gl’intolleranti, che per chiamar male ciò che solo va contrario al loro bene, avean apprestato il rogo a Giordano Bruno, bandito del paese Tommaso Campanella: eran costoro i preposti al governo e alla felicità de’ popoli, alla saldezza dello Stato, all’indugio delle sociali trasformazioni, volute dalla ragione, reclamate dal diritto, e quando miseramente quando vittoriosamente accelerate dall’ultimo espediente, che la disperanza d’ogni bene terribilmente consiglia, la forza!

La filiazion de' fatti va studiata nell'occulta fecondità de’ principi. Il secolo, che seguiva, dovea venir assumendo nuove forme; e ne avean parecchi avuto lucido presentimento. Giovan Battista Vico indagava, come nessun’altro ricercò mai, le scaturiggini donde derivaron già tante vicissitudini dell’umana famiglia; Pietro Giannone avea tolto a scrivere con civile sapienza la storia del Reame nella giurisprudenza inviscerata nel midollo delle legislazioni antiche e poi barbare, scrutando le origini dei lor dettami; Antonio Genovesi, sviluppatosi dalle reti di teologiche disputazioni, in che si tenea miseramente avvolto, avea ottenuto mercé l’amore e denaro di Bartolommeo Intieri cattedra di Commercio nell’Università di Napoli, la seconda fondata in Europa; Ferdinando Galiani dettava un libro sulla Moneta,che meritò, lui vivente, la traduzione di quante son lingue dotte, e speciali laudi di Principi, tra cui Federico di Prussia. Il primo meditò, ampliò, creò la filosofia della storia: visse e morì incompreso, condizioni apposte al genio. Il secondo, audace difensore della libertà dei Re in faccia al diritto consuetudinario di Roma, s’ebbe persecuzioni, e fine misero in un carcere di Torino. Genovesi trovò nella cattedra procuratagli un pò di tregua. Per umor gaio, per argute facezie e detti memorabili in Corte e fuori, per l’arte in brieve di uccellare gli uomini vani, di tutti solo felice ed onorato il Galiani.

Visse inosservato, e ne serba appena il nome una pietra umilmente posta in S. Domenico Soriano, Giacinto Dragonetti, il precursore del concetto Meritoe Compensamento,più tardi mirabilmente slargato da Melchiorre Gioia. I grandi veri, la cui faccia nuda suol essere odiosa quanto più liete vanno le maschere accolte, i Napoletani ingegni vedean modo di colorir altrimenti, senza offenderne l’essenza. In scritti Economici di quell’età sino all’ultima che si svolse appo noi, i più salutevoli provvedimenti pubblici venian temperatamente esposti, e percossi i più radicati ed esiziali errori. I più intricati, i più urgenti, i più mal veduti bisogni politici venian fuori, dirò colorati di luce Economica. Carlo Broggia, Filippo Briganti, il Marchese Palmieri, Giuseppe Galanti, padre della Statista in Italia, non intesero ad altro. Francesco d’Andrea, giureconsulto ed oratore insigne, i pubblici errori, con artifizi acconci sfolgorava ne’ Tribunali; Nicola Capasso, felice interpetre d’Omero in dialetto Napoletano e popolare causidico, i vizi del tempo su per le piazze, nelle vie, nelle arringhe, nelle bettole, ne’ saloni de’ grandi, con lepidi e mordaci motti percuoteva infaticabile. Il canonico Alessio Mazzocchi, di singolare pietà, non disgiunse dal suo ministero l’uffizio di tener desti i vivi risvegliando i morti. Pesto, Cuma, Ercolano, le. non guari rimosse macerie che coprian Pompeia, gli offriron materia ampia al genio archeologico. Scese e diseppellì fram menti che rivelano gran parte del senno antico. Ciò che mancava alle dissotterrate reliquie, egli aggiunse o ricostituì col pensiero. E dai suoi studi ed esempi vedemmo poscia venir più o men maturi ad interrogar obliate ruine Giovanni Maria Rosini, vescovo di Pozzuoli, il canonico de Iorio, Giuseppe Avellino ed altri sino a Giuseppe Fiorelli, direttore del Museo, precipua opera dei Borboni, ed a cui per odio di parte, che non vince la storia, s’è casso il primo e meritato nome.

Seguitatori, compagni, taluni maestri, altri discepoli dei primi rammemorati, erano i più di coloro, che generose illusioni trassero nelle sopraggiunte rivolture ad avere il laccio sulle forche in piazza del Mercato. Si arrestò in taluni non sol tanto il senno vigoroso di un’età, ma il progredire salutevole di molti secoli ancora. I crudeli infortuni porsero occasione a dubitare del migliore andamento delle umane cose. Se ne rimossero i più desti; gl’ignoranti ed i furbi ne anneriron la vita, e dopo uccisi la fama. La scienza fu creduta un’arma solo opposta a ferire gli Stati; ed i principi ne temerono come di luce che vien da fulmine. Gli artefici, i maestri di superstizioni in fatto di culto vi trovarono il lor tornaconto a radicarle e spandere vie più. Sospetto e perseguito il genio, alle cattedre, a’ maestrati, alle prelature, agli alti uffizi furono più spessamente preposti i mediocri, che sono i più dannosi alla scienza, i più micidiali agl’ignoranti. Non si potè nullameno soffocare affatto il bisogno d’istruzione pubblica. Si moltiplicaron le scuole; s’ebbe ogni comune la propria e gratuita; gli ordini religiosi n’ebbero mille, ma spesso con supremazia affidata a tarpatori di ali, a castratori di cuore.

La prima Restaurazione al cominciar del secolo, anche per durar più turbinoso lo stato d’Europa, resse poco; la signoria Francese s’ebbe suo retaggio di corruzione, che trasmise all’età nostra, e la Monarchia finì.

Ripigliando animo dirò, che s’affrancaron da maggior contagio, tanto può la forza de’ buoni esempi, parecchi tra i nobili; i quali, smesse le frivole usanze, di che si fan pregio e venuti nella sentenza di estimar solo bene ciò ch’è onesto, e solo male ciò ch’è turpe, e la potenza e la nobiltà e tutto che non s’appartiene all’animo non esser bene né male, la vita intesero a trapassar non come morti; e sepolti rivivono. I de' Sangro, già rinverdito l’antico nome da Raimondo, che dopo le giornate di Velletri, non più curata la gloria de’ campi, visse solitario alla scienza e ad opere d’invenzione, avean la lor Cappella, museo insigne. E, a mantener tra i loro deste le lettere, a disseppellire capolavori ignoti, a render più comune e diffuso ciò che per difetto di luce riman patrimonio di pochi e di singoli, giovandosi delle riformagioni all’arte tipografica aggiunte dall’esimio congiunto, serbavano a loro spese in casa propri tipi.

E, prima e dopo cotesti esempi, la storia vede venir fuori schiera eletta di uomini prestantissimi; Francesco Capecelatro, Giuseppe Palmieri, Gaetano Filangieri, il Marchese Berio, il Conte Tocco di Montaperto, Luigi de’ Medici, Carlo di Ligny, principe di Caposele, Marchese Gargallo, Giordano de’ Bianchi, Duca di Monteasi, il Barone Giuseppe Cosenza, ed altri sviluppatisi da nullaggini del giorno, per altra vita nell’estimazione de’ vivi, e nel desiderio de’ posteri. Erano i partecipi al moto, e alla scienza del moto dell’universo, che tutti trae e pochi sanno.


vai su


41-60 E a chi ricorre i fati del secolo

E a chi ricorre i fati del secolo, non è dato lasciar inoontemplata un’umile figura, che fuori le solitarie pareti d’un cenabio si leva grande su per le piazze,, rigida e santa sotto le volte dei templi, intemerata alle porte della Reggia, e luce di carità ne’ casolari del povero. Egli è Francesco di Matteo Rocco, nato in Napoli a dì 4 Ottobre 1700, che, ancor giavanetto, rendutosi frate di S. Domenico, e, com’è l’usanza, mutato il nome, gli fu detto frate Rocco. Per uffizi del suo ministero traeletto a lunghi viaggi, traversò assai paesi, vide uomini e studiò costumi. Non ignoto, reduce in patria, a Carlo III, cui nulla di ciò che aver potea rilievo, sfuggiva, trasse il Principe dai consigli del frate il pensiero d’ergere in Napoli l’Albergo dei Poveri: magnum totius regni pauperum hospitium. Simigliantemente a sue istanze, a riparo di maggiori infortuni nelle pestilenze, fu scavato fuori le mura della città un cimitero pubblico. Niuna città grande d’Europa si avea in allora fiaccole di notte a rompere il buio; ed il frate fè porre alle cantonate delle vie pie immagini, assegnando alla spontanea carità de’ popolani il tributo d’appendervi lampade e rifornirle. Savonarola napoletano, benché più mite per l’ammorbidamento de' tempi, fu men dotto ma più pratico percussore de’ vizi dei grandi, agevolandone con la voce e con la luce di esempi l’oscuramento immancato. Vide e predisse commosso le prime ruine de’ monastici instituti, che più tardi corruttela crescente ed odio cresciuto di novatori dovean sterminare. Né a lui mancò, partito il Monarca, la quota d’infortuni, assegnata notabilmente a’ benefattori dell'umanità. Le singolari virtù ed i regi favori gli avean controsuscitata folla incalzante di cortigianesche invidie. Fu bandito del Reame ai primi giorni di Ferdinando IV; ma richiamato poco dopo, instando Tanucci e il bociare del popolo. Il quale al 1806, allor che la chiesetta di S. Spirito, non guari discosta dalla Regia in Napoli, e dove umilmente giacea sepolto sin dal 1782, venia demolita, con calca, con funebri e a un tempo festevoli onori, com’è connaturata usanza de’ Napoletani, ne volle trasportare le ceneri a S. Maria la Libera sul colle del Vomero, anticipando per tal modo alla storia il debito di onorarne la memoria.

S’ebbero altresì le donne lor parte al dramma, che il secolo apriva. La storia delle lettere va contrassegnata primamente da poetici monumenti; e le nostre in Italia dierono le Nine Sicule. All’età, cui accenniamo, per la recondita forza che affatica e sospinge il moto delle umane cose, parea la mobile fantasia non aver d’uopo di novelli splendori. La ragione in vece, nuda o in disadorna veste per incuria di studi di lingua seguita alla vacuità del seicento, parea nelle lotte voler sola poter bastare. Il Cristianesimo, come sempre, avea men bisogno di parole che di esempi. Ai volumi di teologiche controversie occorreano opere innanzi tutto a controcambiarne l’enormezza. Ne’ pubblici ordinamenti, alla tirannide dei privilegi facea d’uopo surrogare senza scosse ruinose l’economico concetto del lavoro, il solo che risponde fecondo ai diritti dell’uomo, ed istoriato nelle prime linee della Genesi. Si volea mondar la storia delle favole, di che aveanla scontorta fuorviate fantasie, adulazioni de’ tempi e piaggerie postume. Le scienze naturali, e sopra modo la geologia nascente terebrando la crosta del pianeta, dovean porgere notizie preistoriche, e le vicissitudini della natura più che nei detti degli uomini rinvestigar nei fossili. E valido aiuto, per rigor di metodo e potenza di analisi, le scienze naturali traevano dalle matematiche, a cui non mancò in Napoli, tanto può la forza delle nuove idee, l’opera stessa di donne insigni.

Maria Ardingbelli ebbe ingegno potente a sottilmente svolgere ogni ragion geometrica, e meritò laudi dal Lalande. Eleonora Barbapiccoli riprodusse, ed osò fronteggiar con la filosofia di Cartesio l’evirato scolasticismo. Faustina, principessa di Colobrano, fu in estimazione di quanti avea alti ingegni il suo tempo. E passionata cultrice di lettere, smesse le muliebri vanezze, e le più boriose di rango, a tutto anteponendo i solitari e fecondi studi, fiorì Eleonora Sanseverino. E la poesia, la facella che s’alza alla culla e si scolora al declinar de’ popoli, coetanea di Leopardi e di Bellini, significazione anch’ella del tempo, dava testò a noi, e morte immatura rapiva, serbandola a culto di lungo avvenire, Giuseppina Guacci.

Era come il febbraio del tempo. Da per ogni dove, ed in tutte guise una sortita, un incrociamento, un simultaneo sviluppo di contrarie e feconde idee. Si espellea in filosofia dalla materia lo spirito, o a questo tutta se ne fondea l’essenza. Il culto paganizzato in superstizioni, la discordanza crescente delle dottrine ed azioni, il regio lusso de’ prelati, le dissolutezze delle Corti, gl’impuniti e però fortunati delitti dei potenti; tutto facea dubitare, se provvidenza o caso reggesse le umane cose. La scienza fatta scettica, il cuore errava o s’imbruniva. Dalla moltiplicità e disordinamento delle leggi come di ciò che va torbido, alcun che si spandea di putrido e di morto. Da per tutto un’estremo agone di forze, dell’una che vuol durare e dell’altra che insorge a sopravvanzarla. Lo Stato invalido; l’antica ragione spossata; Luigi XIV, Leopoldo di Lorena, Federico di Prussia, Maria Teresa d’Austria, Caterina II, Carlo III non erano più. I successori, fuor che Pio VII, di tutti il più tempestato, inesperti all’ingrossare delle fortune.

Forti ingegni avean potentemente sorretta l’opera de’ Principi a precorrere in riformagioni le millantate poscia ne’ successi. Non si potè tuttavia rimanere immuni da certo predominio d’immature idee, che più son disadatte, più han forza di seduzione. Concetti strani, d'altre età e d’altri popoli, appo noi trapelarono: la seduzione s’apprese ai migliori, e trasseli a propositi, che l’incerto e turbinoso stato d’Europa più avvalorò. Errarono, scrive Carlo Botta, ma per illusione. Non v’ebbe penuria di errori alti. Il Re Ferdinando, nuovo ancora, la regina Maria Carolina, inacerbita dalle immanità francesi, furono da consiglieri pessimi tratti e condannati a trasmodare in rigori. Nelson ed Acton; quai nomi! Ove s’iscancellassero dalle ree effigie le macchie di sangue, di che van lordi cotesti due stranieri, allora sol tanto l’ombra del Cardinal Ruffo ricercherebbe d’un difensore nella memoria degli uomini!

Il nome Caracciolo va notato in assai libri della storia di Napoli; e leggesi quando alto e quando dimesso nelle difformi facce de’ rivolgimenti. Ricordanze di virtù o di delitti, di casi prosperi o disastrosi, ove non isplendore ha pur il riguardo che dà l’antico. Niun nome ha quanto il suo diramazioni, che il fato del tempo più rende instabili ed oscura. Il pareggiano per vetustà i Capeci; noi raggiungono i Pignatelli; men spartiti vanno i Carafa; i Ruffo da poc’oltre due secoli; più recente si è l’allontanamento dei Sangro; sparsi ed in incuria i Mormile; gli Arcamoni ed altri obliati o finiti.

Tranne i Capeci, di speciale memoria onorati da chiarissimo congiunto (4), e non guari i Ruffo (5), la storia degli altri va corrotta in cronache, confusa in tradizioni, e non di rado mal laconeggiata in epigrafi su tombe. E sarebbe d’uopo, per lo prevalere dell’altitudine che dà la virtù, e per cert’ombra che si riversa da quella a’ sottoposti o nati dopo, che i venuti in retaggio d’illustri nomi, specialmente i viventi nello aringo delle lettere, le forze dell’animo rivolgessero all’intento; che, decorando il proprio, risveglia e continua il nome de’ trapassati. Ne avrebbe più lume, la storia; ed un serto si recherebbe a sepolture ingratamente obliate.

Greci instituti in mutate forme furono i sedilidi Napoli. Era il popolo diviso in fratrieo unioni, che o per numero, o per mutamento di Stato o altrimenti sformate, se ne diè poscia il primato ai pochi che n’eran degni; e si venner componendo i sedili. Degenerati anch’essi, n’ebbe e ricuperò dopo lotte il suo il popolo. Stavano cotesti ordini tra l’assoluto dominio dei re e la popolare" licenza; e alla regalità, spesso insidiata da’ nobili incastellati nelle provincie, i sedili di Napoli assai volte furon consiglio e puntello. Le spoglie de’ vinti baroni furono titoli aggiunti al primo e nudo nome; l’investitura era dei re sin da’ Goti, che ci recarono i beni e i mali della feudalità. La quale scodifìcata, e surtone il second’ordine che nomasi borghesiae questo ormai anch’esso a corruzione maturo, ha germi d’altre fratrie, d’altri sedili, d’altre spartigioni nel diffuso e mal applicato principio del lavoro; che prepara nuovi moti, nuovi travagli, nuove maniere di reggimenti civili, con corteggio di virtù e delitti, conseguenza di prosperità e disastri.

L’investitura, innanzi d'appartenere ai re, sorgea spontanea dove una non comune forza o virtù, trovando modo di significarsi, procacciava notabilità o nobiltà. Corrotti i costumi, e con essi ogni naturale e social legge, ella divenne una merce, nelle Monarchie vendevole quanto nelle repubbliche. Non ha la storia moccoli per accendere a profanati altari, né incensi a falsi idoli. Vaga di luce ch’ha colori per la virtù e tinte scure al suo contrario. Io toccherò de’ nobili di Napoli.

Niuno Stato d’Italia n’ebbe esuberanza quanto Napoli. In quello che le rivoluzioni tutto demolivano, i titoli di nobiltà vie più s’accrescevano. Ove a produrli giovò in antico la virtù, a serbarli e diffonderli ne’ corrotti tempi valsero le leggi di successione le attinenze alte, la moneta e da ultimo il delitto. I nuovi principi rinvennero ne’ titoli di nobiltà agevole espediente a sfamar brame, e comperar servigi. E la tradigione, che sin da’ Normanni apparve alla culla della Monarchia, seguitatala nelle sue fortune, n’affrettava ella la morte con trarne costantemente a speciale compensamento uffici o titoli o nomi, che si estimavan valevoli a nobiltà. L’argomento è ingrato; ma io tacerò de’ passati, e riguarderò appena i novissimi.

E duplice emozione a farne cenno l’animo sente. L’argomento a modo del mostruoso dramma ha pure scene ridevoli. Lo sciupio di titoli e di cavalleresche insigne al 1815 diè materia ampia a poeti burleschi di crivellar d’epigrammi gli uomini e i tempi. E più giù, i feudali titoli aggiunti a nomi plebei, a nomi di usurieri e peggio; e novissimamente, al 1860, la croce de’ Santi Maurizo e Lazzaro distribuita come merce esuberante e disutile in mercato; e, ciò che sopravvanza spettacoli antichi e nuovi, la corona d’Italia segnatamente accordata a stati spioni, ladri e sfacitori d’Italia; e l’ordine della Annunziata, che si osava allogare sul feretro di Roberto de Sauget, vissuto sessant’anni gendarme, e morto, dicono i complici, liberale; le sono mostruosità, che velano ogni luce, e documentano la cresciuta corruzione. Né basta.

Gl’innocui e doppocchi, i più scemati in averi, sonosi ingeguati, con ricordanze muffite, l’impallidito lor nome colorir del colore più gramo ancora del fantasma feudale. Abbiam veduto il solitario palazzo Farnese assediato da calca di composti a devoti, fuori pericolo, importunare l’esule Principe per feudali titoli. Abbiam notato millantatori a suon di tromba di opere pie, e ghermitori a un tempo di ecclesiastici averi, assediare per aver tìtoli il già tempestato Vaticano. I più vani, i più sciocchi rivolgersi alla Repubblichetta di 9. Marino, ed inviar supplicazioni, e tesser brighe per fino oltre mari nel lontano Brasile. I repulsi da tutti, per non esservi ormai più tribunale a giudicar di nobiltà, né più fonte a cavarne, han tolto a crearseli di proposito, e sfacciatamente a dirsene insigniti. Tutti rami di diverso innesto e di un tronco; tutti vermi di forme diverse e d’un loto; che proverebbero assai vero il raro detto di quell’uomo, che, interrogato da un borioso del suo nascimento, rispose di non esser nobile,né titolo volerne a decoro presente in vita, e ad onoranza futura in epigrafe sulla tomba.

Era il 1799. Sbandato in sue marce, senza pur vedere il nemico, il regio esercito, all’inoltrarsi de’ Francesi il Re si partiva di Napoli con sua Corte, e con allato Giovanni Acton, il genio del male. Alle provincie, ricorse da contrari moti, deputò, giunto in Palermo, a ricomporle Fabrizio Cardinal Ruffo. La suprema cura di Napoli con autorità di Vicario s’era commessa al principe Francesco Pignatelli.

Niun altro uffizio potea risultar più malagevole al probo cavaliere. Le plebi, come da per ogni dove, prive di politici sensi, e solo per istinti di rapina pronte a novità; le generose e funeste illusioni de’ migliori, di potersi in età corrottissime reggere le moltitudini a modo di Sparta e d’Atene; l’isolamento de’ timidi ed onesti, l’audacia de’ facinorosi nelle situazioni incèrte; le agevoli trasformazioni de’ codardi, le private vendette a cui è facile in rivolture dar sembiante di giustizia; le stragi, quando in nome di Dio che tutti invocano e i più profanano, quando per proclamato bisogno di libertà, pretesto ai malvagi di montare in uffizi; e tutto dava faccia a Napoli di città sforzata a un tempo da parti avverse. Era il dì 16 gennaio; e non restava al Pignatelli, che o lasciarsi sopravvincer dall’onde turbinose, o sorreggere la fatica de’ repubblicani e tradire il mandato regio, o parer disadatto allo impossibile reggimento e riparare altrove. Prevalse nella notte l’ultimo consiglio, e si rifuggì in Sicilia.

La città rimanea alla discrezione de’ casi. Lucio Caracciolo di Roccaromana e Girolamo Pignatelli di Moliterno son nomi, che rifulgono nel frangente. Scomparso il Vicario, eglino a terrore de’ tristi, tumultuosi per intenti diversi, s’eran tratti sul castello di S. Elmo, lasciando tuttavia il più arduo compito di vincere il disordine in città al Duca di Castellucciò, Antonio Caracciolo, e ad inermi rappresentanti il Municipio. Prevalea nelle lotte con atroci delitti la plebe di parte regia. Il Duca della Torre e Clemente Filomarino, ambo illustri fratelli, per denunzia di vile barbiere eran selvaggiamente da ciurmaglia inferocita, che actagionavali di giacobinismopresi e strappati dalla pacifica lor casa a S. Giovanni Maggiore; trascinati e percossi per la via; uccisi ed arsi i cadaveri e sparse le ceneri in mare al Molo Piccolo. Giuseppe Zurlo, già preposto dal governo regio al primo uffizio della Finanza, arrestato simigliantemente e percosso, salvato, con menarlo in prigione al Carmine, la pietà del Duca di S. Valentino. L’anarchia montava e tutto invadea. Erano scene di rapina e dì sangue; ì nomi di Re e di libertà pretesti a misfare; da per tutto uno strano connubio di sacro e di orribile. Né l’azione degl’incastellati a S. Elmo né la solerzia de’ deputati al Municipio potean confinare il disordine. Championet, alle porte di Napoli variamente combattuto, era salute nel naufragio d’ogni ordine, era necessario e vincea. E la repubblica venia proclamata, con avere in seno i soli germi che han gl’innesti a rami e tronchi magagnati.

Ad altre immagini l’infortunio rivolge il conturbato pensiero.

Francesco Caracciolo, del ramo di Brienza, fu natura di uomo ricusante ogni splendore, che non venia da virtù. Accagionato di ribellione, quando espedienti estremi di salute in anarchia, e forse trapotenti impulsi che danno le illusioni, componeano la repubblica Partenopea, avea assunto uffizio di difenderla dal lato di mare contro gl'inglesi, che stavano pel Re. Egli operò in breve giro ciò che altri in assai tempo, in più vasto mare e con più navi non avrebbe pur osato. N’ebbe dalla luce de' fatti l’ammiraglio nemico bagliore all’anima, che ingenera dispetto. Arrestato da un Scipione La Marra dopo i laceri patti della dedizione, gli altri al patibolo; lui pretese vivo il Nelson per vie più martoriarlo in morte. Impiccato al pennone di trinchetto, gli si diè stentata agonia; ed i brani miseri gettati in mare, v’attiraron all’alba del nuovo dì gli occhi e la pietà di poveri pescatori; che, memori di sue largizioni, ne li raccolsero e tumularono notturnamente nella chiesetta di S. Lucia.

Opera di atrocità domestica contrassegnò non di rivolture sol tanto, ma di natura i disordini. Un giovanetto, di casa Marino, unico nato del Marchese di Genzano, accusato di ribellione, fu dannato nel capo. Potea salvarlo il padre, estimato in Corte, potente e però temuto da giudici iniqui. Non volle, e dicea per culto al Re. Ma no: in quello che l’inesperto figliuolo era trascinato in piazza del Mercato, e montava sospinto le fatali scale; in quello che a spettacolo di plebi crudeli ed atterrite dall’alto del patibolo il manigoldo mostrava il capo divelto e insanguinato, il vecchio fìllicida dava lauto desinare a suoi amici! Era di quelle rare nature che amano il vuoto, e sono i primi mostri del mondo morale.

Tutto il converso della popolana Nunziata delli Fanti, che, vedova e madre di orfano unico, diciottenne; supplicata la Giunta di Stato e repulsane; chiusale da feroci portieri ogni via alla Reggia, corse il dì del supplizio scapigliata, disperato rifugio, in piazza del Mercato a chieder mercé al carnefice.

Alle moltitudini accalcate a vedere l'esercizio del patibolo, moto e bisbiglio cagionaron le convulse strida della misera; che, convulsionata da sofferenze ed agonia giunse, e cadde morta appiè del patibolo, insanguinato del sangue del figliuolo.

Non dirò altri fatti per esser troppo noti e divulgati. Ci parve tuttavia non importuno il venir qui rammemorandone alcuni, tuttoché da altri accreditati con più lume ed eloquenza; affin che dagli usi di riferir solo a dati sistemi orribili rigori non s’incolpino sol le Monarchie. I supplizi di Napoli al 1799 rispondean ai più numerosi e terribili, non guari seguiti a Parigi. Gli uomini che avean colà dannati a morte Condorcet, Boulanger, la Harpe, Bailly; che avean niegato a Lavoiser un’ora ancora per compiere la soluzione d’un problema, e nel maturo capo del giovane Andrea Chenier, che volean tronco, pretesero non esservi nulla di grande; que’ giudici non eran monarchici; si diceano repubblicani, ed erano mostri. Il delitto non fu mai d’instituti, ma di uomini sotti ogni divisa, sottiogni reggimento, sott’ogni culto, sottogni impero di leggi e di passioni.

Complicato, dicevamo, il magistero d’una rivoluzione; complessi simigliantemente i maneggi e gli effetti. Una nave in fortuna non rompe solo per cagione isolata. Il difetto o la solerzia del pilota dee potere avere altri coefficienti. Il re inesperto; la regina Maria Carolina inacerbita dai delitti della Convenzione, ed ambo dominati da stranieri non chiamati, ma concorsi in Napoli, come altrove a combattere la Francia; gli sfogamenti d’ira di parte feroci quanto più recenti le offese; nature varie d’intolleranti e però implacabili, specialmente deputati a giudizi ed a rigori; reazioni di cupidigie nuove ad ambizioni vinte; la face di vendetta, che per fin nei temperati ultima si spegno tra civili discordie. la pressa e le gare incalzanti de’ più tristi a disputarsi i primi favori di chi vince; lo spionaggio, il sospetto, la paura e la foga; l’abbattimento de’ vinti; il terrore degl’innocenti; il silenzio o lo smarrimento d’ogni senso di pietà, e tutto agevolò i precipitati giudizi, le crudeli condannagioni, le orribili specie di morte. Con quegli uomini, in quelle internazionali attinenze, in que’ rincontri non potea altrimenti svolgersi il sanguinoso dramma. Fu sventura ed una fatalità, a cui resta la giustizia della storia; che pur senza rigida analisi, in tanta piena di mali sa scernere i singoli, che, nemici dei caduti, si opposero tuttavia, sopravvinti anch’essi, a vederne il fine misero.

Fabrizio Ruffo, o più comunemente il Cardinal Ruffo che avea lavorato alla restaurazione, protestò in vano contro l’infrangimento de’ patti, che facean salva la vita dei repubblicani capitolati. Lo ingannò Nelson; e la sua voce si perde ne’ clamori di quei, a cui tornava conto il contrario. N'ebbe guiderdoni, è ben vero, che nol compensaron da’ dissapori che ne amareggiaron poscia la vita, fuori ogni scena politica, e fuori Corte.

La Giunta di Stato da lui formata il 15 Giugno al quartier generale del Ponte della Maddalena fu surrogata istantamente da altra ferocissima, eletta sul Fulminante. Egli tentò indarno strappare da Nelson i frodati vinti. Si arrestò sua potenza al Ponte della Maddalena; ogni podestà assorbì Nelson, e l’esercitamento della giustizia fu affidato alla ferocia delle passioni.

Fu uomo di pronto ingegno; operoso più che maturo a senno che nella congiuntura volea essere prevedimento; più soldato che prete; più audace che risoluto. Fu la morale figura grandeggiante in Corte dopo Tanucci. Egli fu altresì il Tanucci ne’ consigli alti a più scostare dai popolari i regi diritti, come quegli ad appropinquarli e mescerli nel comune intento del bene pubblico. S’ebbe per avventura l’intendimento stesso, meno la multilatere coltura, che trae gli uomini di Stato a stringere con inavveduti legamenti gli opposti. Nato alto, mantenne le illusioni di rango. Uomo l’altro della comune vita, n’avea attinto largo senso degli uomini e delle cose, e più note sensitive, che menano al vero. Ambo con pari istinti, con pari voleri, ma per diverse vie s’ingegnarono provarsi sinceri amici de' Borboni. N’ebbe tuttavia incuria il primo, più disfavore l’altro. Una folla d’immalvagiti codardi ingombrò la Reggia; stranieri s’introdussero ne’ consigli difficili; dettò leggi Nelson e dominò Acton.

S’alternavano a sgarare il Re e la Regina l’uno e l’altro; pessimo dei due il secondo. Figliuolo di oscuro medico Irlandese, che al 1737 avea fermato dimora a Besanzone, fu gregario da prima nell’armata Francese; donde cacciato per fellonia, riparò in Toscana, e poscia venturiero in Napoli. Venuto in gran favore per i torti tragetti, a’ tristi noti, e per l’odio che mostrava alla Francia, che avealo ospitato, montò a solerte faccendiere in Corte. Gli porsero i terrori della Convenzione facile il destro di screditare ogni concetto nuovo; i pensieri del vecchio Tanucci involse nel sospetto; ne pinse in nero l’animo incontaminato, gir rapì l’estimazione, staccò da lui il cuore del Re, e della Regina, e restò solo, coadiuvato dal conterraneo Nelson, a timoneggiare in fortuna la scussa nave dello Stato. Abietto arnese di Corte, fu altresì esiziale strumento di regno. E tutto sotto i suoi consigli corse a ruina estrema. Al 1803, instando la Francia, fu rimosso di Corte, e confinato in Sicilia, dove morì al 1808. Lasciò ricchezze e titoli di nobiltà, strappati in giorni di malaugurati favori; che nella narrazione de’ tempi testimoniano, senz’altro, le fortune del delitto.

Contrassegnò le maniere di morte un martirio libero, per ischivarne altro peggiore, fe’ difenditori del castello di Viviena presso il Ponte della Maddalena. Circuiti, di fronte e lati di terra, da crescenti bande del Cardinal Ruffo e da plebi armate uscenti della Città, le medesime, che opposta non guari avean formidabile resistenza a Championet nel suo entrare in Napoli, e poscia, udito il Re partito, gli avean ogni via appianata con averne in mercé il saccheggio della Reggia; fulminati i chiusi in Viviena per mare da’ proietti Inglesi; stremati di munizioni, e di speranza, con cencinquànta regi già entrati per breccia aperta; avanzò loro la dote di coraggio, che anche a molti antichi mancò. Dier fuoco a’ residui di polvere all’uopo serbati; e tutto n'andò con essi in fiamma, fuor la rimembranza del raro esempio, che la storia registra. E fu in Napoli l’ultimo fatto, con che si chiù dea il secolo, regnanti i Borboni in congiunture agevoli a conoscersi, difficili a serenamente giudicare; men prevedibili che fatate.

L'Assemblea legislativa de' venticinque in S. Lorenzo, avea messo mano, com’è natura de’ governi nuovi, a confusamente riordinar lo Stato. Sradicando a selvaggio modo tutto ciò che vi avea d'antico, e di più consuetudinario, ne avea inveleniti i gaudenti e aggiunti nemici alle novità. Le istantanee gravezze, imposte ai ricchi, avean tocchi e gravati altresì i più che avean d’uopo d’esserne alleggeriti o di non averne punto. Onde la risorta Monarchia con dare opera a immantinenti bandirle, n’ebbe plausi e amici. Il motteggiare le superstizioni, dove culto delle moltitudini è la superstizione, ringagliardì l'odio de' pinzoccheri contro le ideate e già mal provate riformagioni; ed ebbe anatemi tutto ciò che potea aver sembiante di nuovo. Nulla di ferocità estrema, salvo sfogamenti di privati odi, contrassegnò il governo della Repubblica. Anche, infranti i patti della Capitolazione, gli ostaggi in S. Elmo non furon tocchi. Va compianta la fucilazione nelle fosse di Castel Nuovo dei Baccher, padre e figliuoli, autrice inconscia Luigia Sanfelice, che n’ebbe alla restaurazione il laccio sulle forche; complice sciente ed operatore del doppio e misero fato, Ferdinando Ferri, infiammato di democrazia allora e sfuggito a ogni rigore della stagione; arso in progresso di principi monarchici, venuto, soprannuotando a fortune varie, dopo il 1815 in alti uffizi, insignito di commende e di titoli, vissuto lautamente in agi, e morto Ministro Segretario di Stato di que’ Principi, a cui il lordarsi in prima del sangue di loro operosi amici, e la taccia di crudeltà loro apposta per lo supplizio d’infelice donna che per amore errò, parvero argomenti a meritare altro, se più oltre fosse vissuto. Documenti alla storia del capriccioso svolgimento de’ fati nel progresso della corruzione umana.

Il Cardinal Ruffo, ristorata la podestà regia, n’avea commiato. Dalla spiaggia di Catona con brieve mano di animosi sino alle sponde del fiume Neto, lungo gli ardui tragetti della citeriore Calabria, nella montuosa Lucania sino alle sponde dell'Adriatico nel Barese; da Altamura a Nola e alle porte di Napoli, avea in ogni rincontro mostrato guerriero accorgimento, e nella vittoria temperanza di modi sino alla generosità, tanto più commendevole in lotte ch’eran civili. Le appuntature, che gli furon date, sono esagerazioni di spiriti partigiani, che scontorcono dannosamente ogni nesso, e giustizia di storia. Il raro esempio d’esercitar sì fattamente il comando gli avea procacciato amici ed altri aggiunti alla causa del Re. Non potea per tanto mancargli l’invidia di cortegiani, stati fuori pericolo in Palermo, ad aspettar il trionfo per usufruirne solo essi ogni bene. V’ebbe, lui rimosso, riproduzione di fatti antichi, e scandali nuovi. Allontanato Tanucci, crebbero i pubblici errori; e si era istituito un feroce tribunale nomato Giunta di Stato, con a capo certo Vanni. Simigliatamente alla Giunta di Stato formata dal Ruffo il dì 14 giugno 1799, con tra i componenti uomini di mite indole, altra, infranta la Capitolazione, come accennai, fu per comando di Nelson ordinata sul Fulminante di ferocissimi giudici, la cui memoria fa tuttora spavento.

Nulla di rilievo diè il quinquennio della prima restaurazione. Era l’incerta tregua dopo la tempesta, che le generali condizioni d’Europa non parean poter fermare. L’anarchia più che nelle idee e nelle ambizioni degli altri era nello Stato, dove tutto rendea precario l’incertezza. E però il sistema del sospetto in alto, l’opera infaticabile degl’intriganti giù ne’ soggetti; gl’ingegnamenti de’ più scaltri di comporsi in ogni modo primi ai venti di fortuna. Non lettere, non studi; sospetto per fino il nome. Muti o nascosti i buoni; duplice ognuno a mostrar nelle congiunture contrari sensi. I più codardi, i più ipocriti plaudire a rigori, estimar bisogno supremo il sant’uffizio, il rinnovamento di certa feudalità gotica, ogni maniera di turgido imperio. L’intervento del Cielo, con corteggio di miracoli, non potea mancare. Per essere stato il dì 13 giugno ultimo della Repubblica, si predicava S. Antonio di Padova averne voluto anch’esso l’esterminio. Era noverato tra i patroni di Napoli, e dal volgo alto alle plebi basse contrapposto a S. Gennaro, reo del consueto miracolo al primo entrar de’ Francesi, e però giacobino. La Regina Maria Carolina n’era stomacata. Ella avea ingegno, avea lutti nel cuore; presentiva nuovi turbini, e cercava, smorbata la Reggia di Acton e di altri, intelligenza e virtù; ch’eran morte; e le superstiti, ove non ancor contaminate, ignote od atterrite.

L’arsione di Viviena avea a modo antico chiuso il corto periodo della Repubblica. Altro non men notabile fatto in Civitella del Tronto chiudea al 1806 l’incerto stato della Monarchia. Dal dì 22 gennaio al 22 maggio dell’anno, non più che 323 uomini, militi provinciali i più, assottigliandosi via via per morte e per fame a soli trenta, duce Matteo Vade, lottano imperturbati contro Francesi, di numero e di forza maggiori. Negli archivi militari non si legge il nome dei trenta. Erano veterani di fede innanzi d’essere tanto di coraggio provati.

Isolati in estremo lembo del Reame, circuiti da nemici d'ogni maniera, destituti d’ogni aiuto, senza più speranza, tra i consigli ultimi di dar fuoco a’ residui di polvere e morire abbracciando le ruine, o capitolare richiesti, prevalse il pensiero che fu patto, di far consegnare da milite per ferite cieco la regia insegna al vincitore. I Francesi discutendo l’aveano ad oltraggio: il Vade rispose di bastar loro il vanto d’avere a prigionieri di guerra reliquie di uomini sì fatti. Una pietra alla porta del Castello ricorda l’avvenimento (6). Ai futuri co’ suoi splendori l’offre la storia. L’antichità se ne sarebbe annobilita, per esser noi, sviati da deliri di parte, incuriosi anche del poco che ci avanza.

Niun partito,o parte, ha per sé ogni ragione, nel modo che a niun lembo di terrestre sopraffaccia fu mai assegnata l’universa luce. Le impressioni van diverse e spesso contrarie; e sono gl’intoppi per cui mal si leva il pensiero nell’orizzonte del vero. Le disugualità, richiamando non parimenti l'azion della luce, dan fuori ombre e sembianti; si creano in ogni magistero sistemi ne’ sistemi; ciò che pruova quanto a discoprir la faccia del vero proceda non di rado spuntato anche lo scalpello della più rigida analisi.

L’uomo è un complesso di bisogni. Tutto ciò, che la natura gli offre di agevole a satisfarli, si combina e si feconda nella sua anima. E quello altresì che le virtù ed i vizi sociali gli fan conoscere, gli è fonte di brame, che aggiunge alla tirannide de’ bisogni. Egli non vive che per accogliere ciò che è, o gli sembra bene. Di qui il vero o le illusioni; le forze di attrazione o centrifughe del mondo morale; e l’opera infaticabile d’ognuno a corre $er tutte vie l’intento; ciò che ingenera i partiti, stati in ogni età, in tutti i pubblici moti un misto di alti e di plebei, d’ingegnosi e d’ignoranti, di pensatori e di mediocri, di eroi e di comuni birbanti. La storia li ricerca.

Gli avvenimenti di Napoli al 1806 si riproducean nella guisa ch'eran altrove seguiti i moti maggiori. Gli uomini e i tempi di Luigi XV avean maturati i fati del 1789; le esagerazioni di parte della prima Assemblea avean menato alla Convenzione; ed il Terrore alla necessità del Consolato, e poco stante dell’impero, che s’allargava; ed alcuni de’ piccoli Stati in Italia, retti non guari da Principi, e sforzati poscia a repubbliche, componeano il Regno d’Italia.

Dicemmo i Napoleonidi rappresentare ne’ pubblici moti l’abbassamento della marea o un principio di ritorno al passato. Vi ha, anche nel mondo morale, una forza cosmica che collega tutto, ed il congiungimento andarne a grado, come il suo contrario. La sventura si è, che i rimedi procedon tardi; l’insieme de’ mali sopravvanza spesso l’ordine de’ beni, e muoiono gli Stati. La incertezza, che offriano già tanti Stati in Europa; le tuttora spaventose trame di rivolture, le reazioni crudeli ed affrettate, i rinacerbiti odi di parte, le non potute schivar nuove cagioni e nuove conseguenze di guerre, le dome e non vinte passioni, nuove brame, nuovi bisogni, e tutto accelerava il corso delle trasformazioni, che assume la faccia degli elementi allo allentar de’ turbini.

I Borboni di Napoli, con i migliori intendimenti, spesso generosi sin oltre il debito, in gran difetto di uomini, tratti dall’Inghilterra, riparavan in Sicilia. Ed i Francesi, stati non guari democratici, rientravan monarchici in Napoli.


vai su


61-80 Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat

Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, l’uno più filosofo,l'altro più soldato che principe, presentendo per avventura di non poter lungamente perdurare in regia podestà, s’ingegnarono di mostrarsene non disadatti. Uomini prestantissimi vollero ne’ loro consigli; Francesco Ricciardi, Monsignor Giuseppe Capecelatro di Morrone, Giuseppe Zurlo, Melchiorre Delfico ed altri ne onorarono ne’ più alti uffizi il reggimento. Si rimossero parecchie utopie rivoluzionarie; serbossi quanto di più rilevante s’era fatto sotto Carlo III, ed anche il rimasto appena incominciato si diè opera a finire. Li si appuntano di ferocità contro la parte Borbonica. Ma, se fossero nati principi, che importa aver minor sospetto degli uomini; se già gran parte di Europa non si fosse loro mantenuta minaccevole, poco o nulla davvero di ciò, che fa commendevoli i principi, sarebbe lor mancato. La resistenza di Gaeta e di Civitella del Tronto ne’ primordi del regno; la permanenza quasi alle porte di Napoli del principe di Canosa; la non lontana dimora de’ Borboni in Sicilia, guardata da navi Inglesi, e potente per attinenze non interrotte con assai partegiani nel continente del Reame, la voltabile fantasia delle plebi, pronte sempre a novità, l’insurrezione delle Calabrie, doma, e non vinta; contribuì tutto a farli trascorrere in sconsigliati rigori. E, ciò che sopra modo nocque alla lor fama, si fu l’aver essi a tutto potere messe a pruova in Napoli certe male arti di regno; tra cui la corruzione de' caratteri,che crebbe in progresso. Essendoché, non paghi di sfamare con uffizi e con onoranze d’ogni maniera le turbe, solo per mutare fortuna state gridatrici nelle rivoltare, i più focosi tribuni della repubblica poterono a sé trarre e convertire in ciambellani e servi i più vili.

La sollevazione delle Calabrie è il fatto, che internamente più travagliò il loro regno. Pietro Ulloa ne ha di fresco con arte classica, a modo antico, tessuto istoria. Le azioni di Genialitz di Bagnara, di Falsetti, di de Michele, di Musitano, di Carbone, di Parafanti, e innanzi tutto di Michele Pezza, che secondo le passioni ebbe soprannome di diavoloo di angiolo, i di costoro casi prosperi e avversi, tutto ciò che fecero contro la signoria Francese, la vita operosa, le tragiche morti, con ragguagli di rilievo, più che ordinati ha l’Ulloa coloriti con quel magistero, che gli studi, il senso pratico delle umane cose, e l'alto sentire gli fan singolarmente proprio. Senza riguardi ad affetti di parte, egli ha ritratto l’uomo in quelle fortune. Gl’ingegnamenti de’ Reali di Napoli, confinati in Sicilia, a ricuperare il trono, l’operosità Francese a sventarli, i maneggi, le lotte de’ partegiani, i rigori de’ vincitori, la disperazione, gli sbandeggiamènti, l’ultima miseria de’ vinti, tutto va collocato al suo posto, quando giudicato, quando difeso; e, com’è natura di chi scrive fatiche e dolori, sempre compianto.

Un più che volgare furfante disonestò in Napoli il reggimento Francese; Cristofaro Saliceti. Natio di Corsica, levossi da oscuro causidico a Parigi nell’Assemblea del 1789 a rabbioso tribuno. Membro della Convenzione, votò la morte, s’insanguinò nel sangue del migliore dei Re, Luigi XVI. Rimosso da Bonaparte nel colpo di stato, per esser solertissimo in ogni forma di maneggi, trovò modo di disacerbirne il disfavore. E venne sì fattamente, democratico e regicida, variamente adoperato in tenebrose arti di regno. Ministro di polizia e di guerra sotto ambo i principi, Giuseppe e Gioacchino, fu masserizia di Stato; mostrò che possa in gran fortuna il genio del male.

Vago di sangue, non percosse solo il sospetto, lo spionaggio rivolse al pensiero. Fu tormento a quanti amavano i Borboni; ammiserì per confische assai famiglie; si ebbe nella spartigione delle spoglie sua parte di bottino; si arricchì; s'imparentò con nobili Napoletani, che noi camparono dall’odio pubblico, spesso frustato nel proponimento di trucidarlo, finché al 1809 non venne subitanea morte a tutto interrompere, fuor la durabilità dell’odioso nome.

Opere commendevoli de’ Francesi rimasero tuttavia gli aggiunti temperamenti alle amministrazioni e legislature. Sin dal 1309, regnante Roberto d’Angiò, un tribunale era in Napoli di Maestri Ragionieri, deputato a sopravvegliare i diritti e gli averi fiscali, nomato da prima Andentia Rationum,più tardi Andentia Summaria,e da ultimo Camera Summaria. La costante uniformità de’ giudizi diè alle sentenze il nome di Riti, raccolti e pubblicati anche sotto il principato di Roberto da Andrea d’Isernia.

Alfonso d’Aragona ordinò d’aggiungersi oltre al rendimento de’ conti fiscali le cause della investitura de’ feudi, de’ padronati regi e delle ecclesiastiche dignità. Il reggente Revertera, il Moles ed altri vi rivolsero i loro studi. L’instituto della Sommaria s’ebbe beni e mali nelle trasformazioni de’ tempi. Giuseppe Bonaparte lo abolì con legge del 19 dicembre 1807; e venne fuori la Gran Corte de’ Conti,tribunale delle Finanze, a disaminare più agevolmente i conti generali dell’introito e dell’esito di pubblici agenti.

Si stabilirono i Giudici di pacein vece de’ governatori locali;s’ebbe ciascuna provincia un tribunale di prima istanza o Civile, ed altro Penale, surrogato alle numerose Udienze. Furono instituìti altri tribunali, o Corti di Appello,quattro in tutto il Reame; ed in Napoli un supremo magistrato, o Corte di Cassazione, per la revisione d’ogni giudicato. Ai dispacci, specie di leggi, sott’altra forma vennero i Decreti(9),ed i primi diè Giuseppe, ancor generalissimo de’ Francesi al 1806 in Calabria, innanzi al senatoconsulto che il facea Re di Napoli. De’ quali, per poter anch’essi constituire un dirittocomune, si ordinò annuale pubblicazione in Libri, il Bullettino delle Leggi, non interrotto sotto i Borboni, col nome Collezione delle Leggi e Decreti. Una legge del 1808 riguardò i delitti e le pene, che congiuntamente ad altre intorno a giudiziario ordinamento fu attuata nel 1809.

E provvido sopra modo fu l'ordinamento delle Finanze. Aboliti i fedecommessi e maggiorati, scancellate assai tracce di privilegi fiscali, giuridici, militari ed onorifici, alla disugualità di gravezze venne sostituendosi la Contribuzione fondiaria;e si bandirono gli arrendamenti, voce spagnuola, di cui non ci par disutile qui toccare.

Mercadanti Genovesi n’ebbero la prima idea, allorché, al 1484 sconfitti dai Veneti, fu loro forza di assegnare a’ creditori le rendite di Dogana. Erano in Napoli gli arrendamenti ciò che lo Stato riscuoteva da’ dazi diretti. Le entrate e il diritto a riscuotere si conferiano spesso a privati, che nomavansi consegnatari;ed il governo ne avea in cambio un pattuito capitale. A’ consegnatari era data facoltà di delegare ad altri tutto o parte del loro diritto; e costoro si diceano assegnatari. Partite d’arrendamenton’erano i corrispondenti capitali, di cui si ordinò da’ Francesi con determinate norme la generale liquidazione, restituiti in specie di carte monetate, dette Cedole, con libertà a’ posseditori di giovarsene in compere di luoghi pii soppressi e demaniali, o di fonderli con averne, per riscuoterne annuali interessi, titoli intestatisul Gran Libro del Debito Pubblico.

Gioacchino Murat, intento per istinti, per condizioni pubbliche d’Europa, per alleanze e simultanee contralleanze, ad opere di guerra, si ebbe a consiglieri di Stato uomini solertissimi, i più provati alla scienza, e a’ rigori de’ tempi, che s’ingegnaron di altrimenti supplire a monumenti di pace; i soli durevoli, che, con far legislatori i principi, ne perpetuano la memoria. I codici compilati in Francia il dì primo del 1809 furono simigliantemente pubblicati ed applicati al Reame di Napoli. Le leggi Romane, le Consuetudini, i Capitoli, le Prammatiche, i Dispacci vennero aboliti; e a vieppiù moralizzare il Foro, a temperare l’ingordigia de’ causidici e l’ingratitudine de’ clienti, fu composto un. tribunale onorario, la Camera di Disciplina degli avvocati.

Fu riordinamento di civile senno antico, guasto e ripurgato per tanti moti; ed a cui non il genio d’un solo, ma lo studio, l’intento lavoro, talora inavvertito e più spesso martoriato di più geni, di più generazioni insieme, di più fatiche, di più dolori. Fu riordinamento e progresso. Fu un lato discoperto de’ tanti già diritti dell'uomo. Il Cristianesimo, che a ristorare il mondo morale è ciò che tutti insieme furono i fisici moti a comporre il pianeta, non restò mai né resta dì venir innestando gli alti principi ai segnati, altrimenti ne’ mutabili codici umani. Il signoraggio avea riprodotto lo schiavo, e la donna cosa. Agli strazi, cui il paganesimo dannava difformi e indigenti, il Cristianesimo, deificando il povero ed il disgraziato, sostituiva i già tanti asili; che lo spirito di padronanza da per tutto, e appo noi specialmente, disonestava in moltiplicar cenobi, dimore a secondonati, o cieche pareti per cacciarvi dentro; sotto specie di più castimonia, fanciulle, predestinate da ingordigia a consumare il suicidio della propria volontà in solitario circuito, sfrondato d’ogni germoglio, senz'altra vena di pensieri che le meditazioni e i fantasmi del carcere e della tomba. I dugento è più monasteri di frati, cominciati a mancare in Napoli, al cadere dello scorso secolo; le meste e brune pareti di S. Gaudioso, e di S. Arcangelo a Baiano non spirito irreligioso scrollò; fu necessità, fu diritto, fu riparo a diritti naturali colà da ferrea mano oscuramente soffocati. Il martirologio de’ popoli non enumera sol nomi di re; registra baroni, segna trapotenti, nota a tinte scure quanti ebbe ed ha, sott’ogni forma, feroci egoistiil genere umano.

La restaurazione al 1815 non fu di uomini, né di principi. L’Europa ricollocavasi spossata ed insanguinata sotto i vecchi ordini, con giunta d’idee, che aveanla altrimenti trasformata. Gli ultimi rivolgimenti aveano insegnato quanto giovasse nelle fortune la voltabilità di animo. La parola, questo strumento a mentire, per nuove esercitazioni, s’era più appuntata. Al primo entrare de’ Borboni fuvvi smodato lusso di forme, e copia di falsati visaggi. L’ipocrisia s’invigorì; crebbe in numero;. ella divenne di quella e delle vegnenti età la forza dominante. La storia non per tanto scevera dalla calca de’ tristi singolari nomi, Giuseppe Zurlo, stato alla direzione delle Finanze, estimato dal Cardinal Ruffo, rimosso da Acton, e traeletto da Giuseppe e Gioacchino a Ministro di Stato, di proverbiale integrità e morto povero; Monsignor Giuseppe Capecelatro, a cui in pena degli alti uffizi s’era tolto il suo Pontificato,com’et diceva, di Taranto, tollerato da Roma nulla ostante l’odio a certi suoi scritti, intento al culto di antichi studi, con corteggio sin nella tarda età di letterati e di artisti; Francesco Ricciardi, conte di Camaldoli, di gran sapere, di gran virtù, e stato Gran Giudiceo primo Ministro; Melchiorre Delfico, consigliere di Stato, ed economista insigne; il Duca di Civitella che tra per affetto ai vinti e paura de’ vincitori miseramente finì; Luca de Samuele Cagnazzi, che per attendere più liberamente alle lettere avea ricusato l’arcivescovato di Ostuni, amico di Pio VII, il solo dopo Genovesi, che tenne con lode cattedra di Economia nell’università di Napoli; Antonio Spinelli; principe di Cariati, ultimo dell’antico titolo, modello di cavaliere; il Duca di Campomele, cortegiano incorrotto; costoro e pochi altri, rimasti in Trita, misurata la corruzione de’ caratteri,pregaron sin d’allora d’essere e di morir dimenticati.

E, voltando carta, la giovanaglia, la scolaresca pigra, imbelle de’ gagliardemente immaginosi finiti in carcere o sul patibolo al 1799, trovò modo, ritolta altra maschera, di comporsi, di favorire i nuovi ordini, e d’esserne in favore. Gl’istìnti, la scuola decenne, gli amici, i congiunti, che per fede serbata ai Borboni esuli levavansi potenti in Corte e fuori, il trattato di Casalanza, che non dioconoscea i venuti in frugiferi uffizi sotto i Francesi, e tutto in brieve confortavali a rinnegamenti, a mutanze di sembianti, a cupidigie di più favori e di maggior potenza. I più beneficati da Murat non che misconoscerlo nella mutata fortuna, si fecero volontari strumenti ad accelerarne l’ultimo fato. Pietro Colletta, il più coperto, il più reo de’ suoi traditori, quel medesimo, che più tardi, al 1821, smessa la tolta al 1815 divisa Borbonica dopo la democratica; dopo la Francese del decennio, s’affacciava liberale, e n'era nella reazione proscritto; e, indispettitone, s’ingegnò di accattare alla storia, che porta il suo nome, le forme ed i colori che dielle Pietro Giordani; e sorprese la buona fede di Gino Capponi; Giacomo Filioli, il segretario di Carolina Murat, il cavaliere delle Due Sicilie sì colmo di favori, strappati ai Francesi e a’ Borboni; Gaetano Peccheneda, strumento di Cristofaro Saliceti, e dopo il 1848 Direttore di Polizia in Napoli; Giustino Fortunato; Ferdinando Ferri; Emmanuele Taddei, panegirista degli afforcati al 1799, e poscia di Maria Carolina d’Austria, e compilatore del Giornale Uffiziale al 1815, ed altri ed altri, più o men oscuri, più o men scellerati, gente voltabilissima, con codazzo d'innumerevoli, tutti riaffacciandosi nelle scene pubbliche Borboniani arsi, poteron sin d’allora, beffandosene in segreto, comporsi a’ tempi, e montare in fortuna.

Con sì fatti Uomini, con memorie troppo vive, e con avvenire che dovea impaurire, niun principio era stato fermato, molte promesse vernano indugiate, assai riformagioni sconsigliatamente interrotte. Non si avea monarchia assoluta, né temperata; v’era da per tutto fusione di uomini, e più strana d’idee, e d’intenti. E nondimeno, fuori la fucilazione di Murat non voluta dal Re, contrastata nel Consiglio di Stato dal principe di Canosa, preconcetta da Medici, chiesta da’ gabinetti di Europa, ed accelerata, come dissi, dai più, a cui il vinto avea prodigato favori, alcuni primi atti della Restaurazione furono commendevolissimi.

Leopoldo, principe di Salerno, di liberalità sconfinata, che vecchi tuttora ricordano, entrò primo nel Reame; ed aprì la reggia di Portici innanzi tutto a parecchi di coloro, che s’eran mostrati nemici. Tra gl’intervenuti comparve Vincenzo Coco, autore del Platone in Italia,che, sfuggito al patibolo ne’ moti del 1799, avea, esule in Milano, scritto il Saggio storico della Rivoluzione di Napoli. Consigliere di Stato nel decennio, avea come il Zurlo, odiato la polizia di Saliceti e molto giovò a perseguitati per affetto serbato ai Borboni. Presentatosi al Principe, e, richiesto del nome, glielo profferì timido. Ed il Principe rispose di ricordare il suo storico lavoro. Al che egli come esterrefatto non ripeté motto. Scommiatatosi appena, un delirio che dà lo spavento, gli corse per l’animo, ed istantemente immattì. Avvisatone Leopoldo, n’ebbe rimorso; e si decretò, per esser povero, di serbarglisi a vita la pensione di Consigliere dì Stato, portagli fedelmente per oltre a due lustri sino al giorno di sua morte, in casa del fratello Michele Coco, per largizione regia meritamente levato anch’egli a’ gradi alti nel maestrato; che per dottrina e santità dì costumi singolarmente onorò.

Il Marchese Giovanni d’Andrea, figliuolo di quel Francesco, di cui sopra toccai, benché non ancora assunto a’ primi uffizi di Stato, l’onorevole indigenza, in che era venuto il Conte Giuseppe Zurlo, ricordò al Re Ferdinando; e fè decretare in pro del vecchio amico mensile e larga sovvenzione. La disparità di condizioni non mai avea negli animi dei due onestuomini alterati i germi di affetto e di virtù antica. Il Zurlo avea pur desiderato di render lo stesso al Marchese d’Andrea, quando costui, lontano d’ogni uffizio sotto i Francesi, per certo innato timore che destavangli le pubbliche novità, ritiratosi in modesta villa alla Cercola, l'ultimo decennio avea trascorso tra la castimonia de' coniugali affetti, in pietà operosa, in consigli gratuiti a’ poveri nei loro piati; e, per avere alto cuore esercitato a classici studi, avea lavorato a nuovo volgarizzamento di Tacito, tuttora inedito.

Il debito di fare amici alla Monarchia non mancò in alcuni. Egli era ne’ desideri altresì de’ Principi, e de’ provati specialmente a rigori di avvenimenti.

E fatti rilevanti della Restaurazione furono le meglio composte leggi Organichegiudiziarie, la instituzioue dei Giudici Istruttori,un nuovo Concordato con Pio VII per le novità da’ Francesi aggiunte; la circoscrizione delle Diocesi e la necessità del Regio Exequaturper Bolle e Brevi di Roma; le leggi Organichedella civile amministrazione, divisa in provinciale,in distrettuale,in comunale. Si diè alla Corte de' Conti speciale regolamento di procedura intorno alle sezioni contabili; una legge si promulgò sul Notariato, con che si resero più certi i contratti; e conseguenza di questa furono le due leggi sul Registro e Bollo.

Al 1819 la completa attuazione del concetto di Carlo III, d’un codice unico, il più compiuto, che videsi poscia in Europa, fu opera della Restaurazione. E a dargli forma e splendore vi lavorarono, per diversi modi chiamati e diversamente in progresso estimati, i più insigni uomini del tempo. Giovanni d’Andrea, Nicola Parisio, Gaspero Caponi, Angiolo Abatemarco, Davide Vinspeare, Nicola Nicolini, Giuseppe Raffaeli, Francesco Laurià ed altri dal Medici e dal Marchese Tommasi. primi ministri, avuti per non comune scienza e per virtù in alto pregio.

E v’ebbe di più. Cassi nel decennio i vecchi instituti, la Regia Camera di S. Chiara,il Consiglio di Finanza, la Giunta degli Abusi, il Delegato della Real Giurisdizioneed il Cappellano Maggiore,magistrati intenti a giudizi ed a consigli, s’era da’ Francesi sostituito il Consiglio di Stato,per dare suo avviso in affari di rilievo. La Restaurazione, mutatone il nome, ne serbò l’uffizio nel Supremo Consiglio di Cancelleria,deputato a riguardar tutto ciò che venia al Re proposto nel Consiglio di Stato. E, non guari dopo, abolendosene pure il nome, se ne allargò l’intento nella Consulta generale del Regno,formata di ventiquattro Consultori,con serbare nelle deliberazioni a presidente un Ministro Segretario di Stato.

Era sott’altra maniera, dopo secoli ed in età sì diversa, la generale Assemblea voluta da re Ruggiero; era il Sacro Regio Consiglio di Alfonso d’Aragona; era la Regia Camera di Santa Chiara, ampliata e di più poteri invigorita da Carlo III; era il preconcetto Parlamento nelle Bue fortune, quando onorato di onest’uomini, quando ridotto a combriccola di faccendieri e peggio.

Non s’ebbe il coraggio, o non si colse il destro, e n’era tempo, anche dopo lo Statuto promesso alla Sicilia nel 1812, di dar forma spiccata, più conforme alle costituzioni degli altri Stati d’Europa, all’antico concetto normanno. Dove nelle prische Assemblee avea dato consiglieri particolarmente il Baronaggio; nelle ricostituite appo noi novamente, salvo singolari casi, era l’alta burocrazia, che dava, ed in numero più ristretto, i consultori. La fondamentale idea rimanea trasformata, ma non svolta in meglio, e però non progredita. E, caduto il favoleggiato colosso, stato dinanzi agli occhi e sulle labbra del secolo, gravissimo errore di principi e consiglieri si fu lo immaginar co’ tempestosi moti dileguate le idee, la scienza aver sospetta, ed i costumi riguardar nelle sembianze in quello che giù sostanzialmente eran marci. Più dannosa la credenza di estimar se non spenta, rimossa per successi di armi, per esempli di terrore, e per isciagure patite ogni cagione di nuovi rivolgimenti. Si era la fedeltà, che non istà nelle moltitudini ma negl’individui, non parimenti guiderdonata; sfamati gli stati nelle rivolture i più irrequieti; ogni conversione di sensiogni profession di fede si avea se non sincera, per avventura durevole. Le teorie di Grozio e di Puffendorfio tornavano sulle cattedre intanto che assai niegazioni ritratte sulle labbra, tenacemente confitte restavan infondo degli animi. Alla recente ricordanza d’inni democratici, all'eco perdurante di suoni e canti guerreschi di soldati vincitori, si succedean su per le piazze e nelle vie, alternandosi, simboli di servitù o d’abbattimento di virili propositi, canzoni d’amore e nenie di pinzoccheri. Non v’era genio tutelare negli alti consigli. I venuti di Sicilia mal tolleravano i favori prodigati a coloro ch’essi dicean liberali. Questi più Sagaci, più esercitati a mentire, sapean sopravvincerli in forme di fede, schivarne i colpi e crivellarli di motti e di epigrammi memorabili. La Regina Maria Carolina avea, come accennai, lamentata la dappocaggine di quanti, salvo singolarissimi, s’erano stretti ai regi destini. Ella, di mente più desta e più vasta che a donna è dato, di cuore provato a grandi infortuni, dovea, per non sostenerne più oltre la tirannide, a coloro che le avean scurate da presso, sin da principio, la scienza e la virtù, dovea non poterne a sua volta sfuggire l’odio e il danno estremo. E la sua morte fu sventura. Ella fu l’ultima delle grandi vittime del secolo. Dalla Reggia alla piazza; da questa alla caserma; da’ campi di guerra alla Corte e nell’esilio il pensiero storico erra atterrito. L’avvilimento di Tanucci, il patibolo a Pagano, la rimozione di Fabrizio Ruffo, la fucilazione di Murat, il veleno propinato in Malta alla Regina, il male sparso a tempo e fuor di tempo su rei ed innocenti, tutto è complicato dramma mercantescamente ordito. Son strisce di sangue, sono note di dolore e d’infamia satanicamente intrecciate da spirito e mano Inglese. La storia è implacabile.

Eravi dunque, scomparsa Lei, che sola valea quanto l’aptiveggenza di più uomini insieme, e sconfortato ed irresoluto il Re Ferdinando, primo del nome, eravi specialmente in Corte, d'onde le monarchie ritraggono lor forma, quando aperta quando sotterranea gara di favori e d’uffizi. Vi avea studio infaticabile di simulazioni, di accattar grazie, di rincalzarsi d’ogni lato, di soprammeitire, di trionfare. Ne’ civili ordini, anche tra i frustati di più oltre avere, era malagevole rinvenir audaci a levar voce ed esser principio di novità. Ma negli eserciti, male accozzati, un complesso dove null'era collegato, codardi, rinnegati, stati in livrea di due e tre padroni insieme, gente cieca d’istinti di guerra e di pace, la corruzione era al colmo. I de Sauget, i Nunziante ed i residui di putridume rimasti sin oltre il 1860, imprecavano al trattato di Casalanza, che chiùdea loro le vie a maggiori fortune. In istrani connubi con i Colletta ed altri voltabili, s’erano ingegnati a più dislegar le male aggiunte fila, ed a cacciar in esse con l’anarchia delle idee il disordinamento degli affetti. Le non ancor satolle brame d’altra banda degli amnistiati, de’ ritornati in grazie, de’ sopraccarichi di favori vi apprestavan altresì il lor contingente. Il volgo, per esser nuovo o facile a scordare, era pronto a tutto. Lo sciopero della studentaglia, le fantasie di poeti eunuchi; in fine quanto l’atmosfera ha di sembianze, ha di colori, ha di elementi che precedon la tempesta, offeriva Napoli ed il Reame, corso e ricorso da ciarlatani, al cader del 1819.

Vi avean bisogni; potea noverarli la scienza ch'era sospetta, e niente vale in guasta età. Si avvinazzaron due o tre caporali, i più scapigliati dell’eteroclito esercito; e nacque sì fattamente il moto di Monteforte.

E fu moto incomposto; fu opera isolata tra piccoli Stati, ricacciati, salvo la Toscana, in positure antipode alle idee del secolo. Fu fatto inconsiderato, che dovea prevedersi sconsentito da’ grandi Stati, che più avean coadiuvato il lavoro della Restaurazione; non esclusa l’Inghilterra, che avea fatto lasciar larva giurata di Costituzione in Sicilia, per sepellirla o ridestarla ne’ suoi bisogni. Forzato il Re a sviarne il progredimento,. tra le fluttuazioni d’ogni maniera dell’animo, prevalse il diniego, ch'ei mandò da Leibac. Ad avvalorare il quale, più, del dissentimento de’ gabinetti d’Europa, vi contribuiron le solite intemperanze di piazza, le cento tribune in Caffè,i paroloni fuori pericolo e fuori tempo, le impertinenze a voler tutti alti uffizi, il difetto di pasto a numeri rinascenti di bramosi. v’ebbero i soliti armamenti, le note rodomontorie, le fughe, e le viltà. V’ebbe ogni scena che trae alla commedia, con seguenza di mali non potuti rimuovere, dove il bene ha immaturità, e disperanza il meglio.

Non v’ebbe tuttavia sterilità affatto di buoni esempli: ché le civili virtù più van commendate quanto più a loro esiziali volgono i tempi. Svilupparonsi da’ tristi parecchi, più generosi che accorti. Eran di quei, che ripudiate le poetiche idee di Sparta e di Atene, la Costituzione,maniera di reggimento che si vuol desumere dal simultaneo esercizio di podestà regia e di popolo, pensavano potersi agevolmente comporre e render durevole. Matteo Caldi, presidente dell’Assemblea de’ deputati raccolti in S. Sebastiano, al Re, nel suo primo entrare, ricordò con decoroso modo antico, al Dio di Israele non essere stato onta il venire tal volta a patti col suo popolo. Paolo Anania de Luca rammentò la caducità degli umani giudizi per cagioni ignote anche ai più alti geni; la dipendenza e maturità de’ consigli essere salute a tutti, ai Re e a’ popoli. Francesco Bozzelli dimostrò la podestà regia più venire in prestigio, più invigorirsi in certa irresponsabilità, che le si sarebbe da nuove leggi conferita. Giuseppe Poerio con parola concitata e con lacrime, che il nobile sentire gli facea ne’ rincontri consuete, riferì le spesse cagioni di pubblici disastri al difetto nelle Monarchie di libere Assemblee. Ed altro con libertà e modestia dissero Gabriele Pepe, Giuseppe de Cesare, Nazario Colaneri, Francesco Gamboa, e singolarissimi di quel tempo. Erano studi, eran motti memorabili di cattedra; infecondi su labbra di chiamati a legislatori di moltitudini corrotte.

I fatti e i casi del 1821 tornarono, com’è consueto, a solo danno dei più, che ne avean preveduto il risultamento, e si risolveron più tardi a sventure di tutti. Mancò discernimento agli adottati rigori, ed inschiumato restò solo ciò che di più guasto era su venuto dal fondo delle turbe in moto. I liberali di mestiere s’aran più denudati; i fedeli di Sicilia s’ebbero l’opportunità di più annerire i buoni intenti, e tutto e tutti mescere in rei giudizi. Il Principe di Canosa, Capece Minutolo, chiaro nome nelle storie del Reame, che notammo nel decennio operoso amico de’ Borboni, uomo d’ostinate in buona fede ed implacabili teorie, fu trascelto, Ministro di Polizia, a sopravvegliare i più noti complici. Il nome di lui anche oggidì suona terrore: ma è ufficio difenderlo. Appetto a coloro che mutano e vendono anima a ogni volger di casi, per esser la costanza d’un principio tanto raro esempio, l’immutabilità a modo di culto ch'ei serbò anche a disusate idee in prosperità e disastri, il fan commendevole e compianto. Non si rizzaron patiboli; non v’ebber confische; egli s’era opposto, come fu detto, dissentendone gli altri, alla fucilazione di Murat. Gli sovrastò men certo per virtù che per iscienza de’ tempi Luigi de’ Medici. Il governo della Monarchia dopo il 1821 fu variamente commesso a loro due, che nell’intendimento d’averne il primato dovean rompere, e si divisero. Trovato un generale Austriaco acconcio a rovinarlo, il Canosa fu d'improvviso casso d’ufficio e notturnamente bandito. Al 1825 egli s’infermava in Modena, ed al Duca di Rodi, conterraneo, che gli stava presso del letto, disse sconfortato innanzi di spirare: Lascio il mondo come quarantanni or sono, da che entrai nella vita pubblica: birbanti i liberali, ignoranti i monarchici.

Arduo compito della Restaurazione era stato il modo di satisfare tanti opposti bisogni o meglio interessi. Ell'ebbe di lato e di fronte a sfamare due contrarie calche di bramosi; i suoi martirie coloro, che per difetto d’altro censo fuor ciò che loro può dare certo merito d'ingegno, impotenti a suicidio di volontà, che volge ad alto, sono come forzati a servire qual che si sia, o venga reggimento. Il Re n’era sì fattamente assediato, che desiderò più volte alle condizioni del giorno preferire le passate amarezze dell’esilio. Vide modo il Medici d’affrancamelo alquanto. Venne man mano alle basse amministrazioni inframmettendo i più bisognosi e volgari; aggiunse nomi e titoli feudali ai più boriosi; ed a quei, che, per non potersi altrimenti annobilire, appetivano la stessa gratuita merce, distribuì croci ed altre cotali insegne. Ai Tribunali, agli alti Uffizi, in cui sarebbe stato gran danno allogare ignoranti, per abbondarne la parte che si millantava fedele, introdusse quando con discrezione quando scandalosamente parecchi, stati notabili strumenti de’ passati moti, tra cui Giustino Fortunato, che fu nel decennio presidente del Tribunale delle Grazie eretto a sentenziare de’ partegiani de’ Borboni; reintegrato più tardi in uffizi e montato ne’ più alti, morì con pensione di Ministro Segretario di Stato.

Ferdinando I ne’ brevi giorni che gli avanzarono, e Francesco I che gli succedé, ambo responsabili, regnarono senza avere governo. Medici, che si ebbe o elesse colleghi proverbialmente dappochi, restò solo, e solo dominò tutto. Egli variò coi tempi; ma fu d’alto intendimento. Cadetto di feudale famiglia si ritrasse dalle usanze di rango; amò gli studi, convisse i giovani anni con sapienti, e meritò da Mario Pagano la dedicazione d’un suo lavoro. Male inteso e provocato da dissennate minacce di parte, se ne allontanò; ed il volontario esilio al 1789 porse agio ad altre genie d’intolleranti di annerire e tirare al peggio le sue libere opinioni. Avutone non guari in effigie condanna di morte,. riparò in Sicilia; congiunse sin d’allora i suoi a’ destini de’ Borboni, e nelle congiunture poscia fortunate reagì variamente contro a’ nemici, senza trasmodare e diveller dell’animo certa generosità, che gli era innata.

Lungamente stato a vita pubblica, s’ebbe più retto senso delle cose, né tollerò che teorie anche buone, per tema d’importunità, fusser frapposte all’andamento da lui dato a speciali opere di governo. Rilevò in calamitose condizioni il pubblico debito, che rinvenne a 50 e lasciò a 85. Fondò, a sovvenire i piccoli commerci, la Cassa di Sconto, degenerata in progresso a favorire fortune grandi e ladre. L'Edilizio di S. Giacomo, ampliatolo, volse a contenere tutti i Ministeri, il Banco ed altro. Di costumi temperati, smogliato, operoso sempre, assuefatto a pochi bisogni, la sobrietà in tutto fugli cagione d'inconsciamente arricchire. Inaccessibile a tutte specie di corruzione, fu per troppa fidanza ne’ propri insofferente di consigli altrui, che al genio stesso non son soverchi. Dovea pur rompere; e lo scoglio trovò, lui già vecchio, in una Duchessa di S. Clemente, Fiorentina, platonica amante; per le cui istanze venner mano mano riallogati in uffizi alti i dimessi, i pentiti complici delle ultime rivolture, i partegiani di Canosa gli stessi suoi nemici. La signoria delle femmine dal 1821 al 1830 trascorse in Corte e fuori ogni misura. Il Re Ferdinando ne avea dato l’esempio, congiungendosi in private nozze a certa Lucia Migliaccio, vedova d’un Grifeo. Gl’intrighi e la potenza d’una DonnaCaterina de Simone sono famigerati. Tornò agevole alla S. Clemente, per esser di tutte la più intelligente, gran parte a sé trarre della potenza. Ell'era il cuore di Medici; e, assorbendone la mente, finì con affievolirne il già vigoroso giudizio.

Caduto il Canosa, la cui casa s’era veduta ingombra di sinistre facce, simulanti devozione a rigidi principi di ordine, i saloni della S. Clemente e della Migliaccio s’erano affollati di alti e bassi intriganti. Erano le officine, dove si lavoravan meriti per aver fortune in ricevitorie generali,in conservazioni d’ipoteche,in direzioni generali,in frugiferi militari comandi,in intendenze,in concessioni di fornisureed altro. Tutto ciò che in progresso fu notato di retaggio in privilegi ed in alte onoranze, s’ebbe colà il suo cominciamento. Un Giuseppe de Matteis, inviato a regger le Calabrie, desolò la provincia sino a meritare d’esser ad istanza di Generali Austriaci sottoposto a pubblico giudizio. Michelangelo Viglia è speciale figura del tempo. Un abatino attillato, certo Caprioli, s’ebbe la protezione della Migliaccio, che gli fu principio nel Segretariato di Corte a salire in potenza e ricchezza. È la pagina oscura che copre il decennio dopo il 1820: ve n’ha tuttavia un picciol lembo, con memori nomi, tanto più splendidi quanto più singolari.


vai su


81-100 Vi rifulge il Conte Tocco di Montaperto

Vi rifulge il Conte Tocco di Montaperto. Uomo versato in assai specie di discipline, d’alto ingegno, e tipo di cavaliere; eletto Intendente non mitigò, ma soppresse ogni maniera d’usati rigori. E allorché, accagionatone, lo si volea convertire a solo strumento di partigìanesche passioni, ricusando anche maggiori uffizi, sconfortato di non poter altrimenti fare amici alla Monarchia, ritirossi e visse singolarmente modesto in seno a studi interrotti ed antichi. Il Marchese Domenico Vigo, d’insigne pietà, che per serbarsi fedele ai Borboni avea nel loro esilio anteposto a nobili carichi, che gli si officiano, vita in disagi, non volle, per tema d’errare, far parte di certa Commessione di Scrutinio,sconsigliatamente formata. Luigi Siniscalchi, di cui Medici, Canosa, Intontì e Io stesso Re Francesco I giovaronsi in consigli e missioni difficili, seppe, spesso componendo discordi intenti, Direttore di Polizia e Magistrato, accrescere decoro a sé e numero di amici al Re. Il Barone Giuseppe Bammacaro trovò modo, che alcuno de’ suoi dipendenti nel Magistrato di Salutenon fusse pur tocco dalla Commessione di Scrutinio; e più volte fu veduto supplicare il Re per richiamo di esuli, e sovvenzioni a famiglie de' morti in disfavore del governo. Gaspare Capone è chiaro nome nel foro di Napoli. Di principi affatto opposti a nuove idee spesso dal Re richiesto d’avviso in elezioni di magistrati, a dubbi che gli si proproneano, rispondea le contrarie teorie di parecchi indicare più illusioni che altrove dover sempre i principi, anche con loro pericolo, arigori far prevalere l’indulgenza.

Ma gl’individui non salvano gli Stati. Morto Ferdinando I a ciò che vi avea di antico, la corruttela in ogni ordine vi avea aggiunto il nuovo delle rivolture. Francesco I, principe da natura e da rigori di casi più esercitato a pensieri di cenobio che di regno, lasciò fare ad altri, che ne abusaron troppo. Medici, non guari trapassato in Ispagna, poco dopo colà giunto a figurare nelle nozze di Maria Crestina di Napoli con Ferdinando VII, e con lui già scomparsi i singoli ed incorrotti cortegiani, tra cui un Carafa, principe di Ruoti; in sì fatte condizioni, Ferdinando, secondo del nome, al 1830, assumea la Corona.

Parve ridestarsi libera la podestà Regia. Parecchie usanze in Corte il Re comandò istantemente smettersi. Il servidorame capitanato da Michelangelo Viglia si smorbò tosto di certo vecchiume ladro. Il testamento del Re defunto, per cui veniano più arricchiti gl’usi a carpir favori, fu dilacerato. Prese il giovane Re a ricorrere le provincie, smettendo ogn’altra pompa che non meni a discoprir più agevolmente il bene e il male. A surrogare Intendenti dappochi o tristi, furono eletti uomini prestantissimi, senza riguardo a studi odiati, tra cui il Duca di Monteasi a Lecce ed il Marchese di Montrone a Bari. Rivolse suo pensiero il Re altrove, e si decretò il ritorno in patria di quanti o per giudizi precipitati o per paura erravano esuli. E, tra i primi arrivati, notabili furono Matteo Imbriani, modello di cittadino; il vecchio Barone Poerio, un pò vano, ma di cuore ottimo, e facondissimo avvocato; i due ancor giovani fratelli, Domenico e Gabriele Abatemarco; Pasquale Borrelli, autore della Geneologia del pensiero,pubblicata a Lugano; Francesco Bozzelli, eloquente maestro di Estetica nella celebre Imitazione tragica presso gli Antichi ed i Moderni; il dotto ed intemerato Colonnello Gabriele Pepe; Francesco Fuoco, che povero e ramingò dopo aver venduto in Parigi a un Giuseppe de Velz, Comasco, lo scritto che analizzò negli Annali Italiani Melchiorre Gioia, la Magia del credito,avea dato in luce a Pisa i Saggi Economici,non ricordati oggidì in Italia ed encomiati in Germania.

Si diè opera istantanea a riordinare, e moralizzar l’esercito e l’armata. Il Re comandò restituirsi a’ primi gradi uomini stati espulsi od esuli. Carlo Filangieri, Florestano Pepe, Alessandro Begani, Raffaele Carrascosa, il principe d’Ischitella Raffaele. Cosi vennero altresì promossi a più importanti uffizi. Gabriele Pepe, già colonnello, solo ricusò per credere a possibilità di miglior forma di reggimento pubblico, e risultò più mirabile. A certa parte di vecchia accozzaglia, ai baldanziti dopo il 1821 ed a coloro, cui più della militar vita tornava conto l’ozio, lungamente protetto da forze Austriache, e lo spionaggio frugifero, dolse del Re il generoso atto. E crebbero i rancori, allorché Ferdinando voll’egli il primo visitar d’improviso nel solitario castello di Pietramolara Lucio Caracciolo che seco menò, ed elesse a Capitano delle Guardie del Corpo. E si vide venir fuori, sotto specie di fede, una maniera di protestazione; e tra le prime firme sta di rilievo quella di Roberto de Sauget; il medesimo che dopo tanti anni, raro esempio di coperta fellonia, si rivelò gonfio unitario, contaminando del suo nome il nome d’Italia, come avea disonestato la Monarchia, statagli sconsigliatamente larga di favori e di impunità.

Contrassegnò innanzi tutto Io entrar nel regno di Ferdinando II la elezione ne’ consigli della Corona di tre singolari uomini, Giovanni d’Andrea, Nicola Parisio ed Antonio Statella, principe del Cassero. Il primo, arduo problema in difficili condizioni, con iscemar gravezze intese a ricomporre, e ristorò le finanze pubbliche. Il secondo, preposto al governo della Giustizia, la sviata per ultimi moti magistratura volse a riordinare, senz’altra luce per guida che la vegnente dal merito. Nicola Nicolini, Michele Agresti, Angiolo Abatemarco, Innocenzo de Cesare, Pietro Ulloa, Giuseppe Marcarelli, ed altri ragguardevolissimi furon da lui ricordati al Re, e variamente riposti in uffizi. Trent’anni dopo la sua morte leggonsi in giornale nemico dei Borboni intorno a Nicola Parisio queste parole: «Una nobile eccezione avemmo a Napoli quando a resse la Giustizia il cavaliere Parisio. Quest’uomo onesto osò, non una ma più volte, resistere all’onnipotenza di Del Carretto; e il Capo dello Stato, sebbene monarca assoluto, ne seguiva l’ascendente per quella forza che si appunta nel suffragio della pubblica opinione (7).» Il principe del Cassero, che, al 1799 surrogato nella Luogotenenza del Regno, iniziò sua vita pubblica con imporre alla Giunta di Stato il più sollecito disbrigo de’ giudizi, per implorare dal Re, come seguì, una generale amnistia, ricomparso in iscena si segnalò parimenti. Intemerato amico de’ Borboni, lavorò nel Ministero degli Esteri all’opera nelle diplomatiche relazioni, già tanto manomessa, di libertà al Re, di decoro al paese. Tutti e tre, esempli di civile sapere, avrebber dato ed accresciuto splendore anche a Stati grandissimi. Vissuti i due primi singolarmente operosi, sobri e morti poverissimi; ed il Cassero dimesso al 1841 per dignitoso dissentire dal Re e Colleghi nell’affare dei Zolfi in Sicilia; ritiratosi senza boriose forme di rango, che il cavalleresco sentire gli serbava ignote, gentile e modesto costantemente; e scampato, nella rovina de’ Borboni, ai giorni della maggior libertà del male, a non morire, per presenza di animo che gli era innata, anche di cuore più rotto.

Il Re avea tolto in moglie la più onesta, la più pia donna che fosse in Italia, Maria Cristina di Savoia. La quale, mondata la Corte di vecchie e giovani faccendiere, a compagnia avea elette matrone di provata virtù, tra cui Argentina Caracciolo, Duchessa di Martina, stata moglie dì Riccardo de’ Sangro. Si rimossero scandali; si arginaron correnti di favori. Alla madre del Re, Isabella, insofferente di menar vedovaggio, si offrì, ad eleggersi un compagno, lunga nota di giovani aristocratici, tra cui un Caravita che ricusò l’invito, e un del Balzo che accettò ed arricchì.

La pietà di Maria Cristina era sentita; non avea lusso di forme; ell’era sostanzialmente operosa. La cristiana modestia si frapponea a svelar di lei più alti intendimenti; e con essa finì la tirannide delle femmine in Corte e fuori.

Nondimeno, poiché infaticabile rimanea il genio della corruzione, incominciò più trapotente la signoria di taluni preti. Il Reame si ebbe al governo della pubblica Istruzione, frammisto a tutte maniere di faccende, un monsignor Colangelo, vescovo di Castellammare, la cui potenza eredò poscia e più funestamente esercitò monsignor Celestino Code, frate Liguorino. La Reggia per molti anni, deserte le pareti alzate da Carlo III, fu il convento di S. Antonio di Tarsia, dove il prelato senza modestia s’ebbe stanza superba e regnò. Era un mercato; era un’officina, in cui tutti a calche accorreano. Vi si trafficaron favori, e si distribuì giustizia!

La forza operosa del male vince anche la potenza dell’uomo di genio. Gl’istanti a produrre paiono aver la gagliardia de’ secoli; a rimuovere il male i secoli sono atomi. L’integrità di D’Andrea, la fermezza di Parisio, il contegno del principe del Cassero non avean potuto, lottando, vincere il progredimento della corruzione. Ell’era altresì accresciuto retaggio delle precedenti età. Una più che paterna amministrazione era nell’intendimento del Re, e si dava opera a menomarla. Ma i mali eran cronici; i danni dell’ignoranza richiedean luce; a discancellare tante forme d’errori facea d’uopo far risorgere l’impero della verità. Si avea un benesseredi apparenze; ma erano i colori dell’infermo; i visceri infetti, la vita più accennava al disfacimento.

Santuario era la casa del Re; e i principi Carlo ed Antonio, n’erano rimossi. La Corte non per tanto, salvo rare eccezioni, iva ringombrandosi quando non di malvagi, di inscienti. Da poi che si vedea il Re volger vie più alla pietà, gl’infingimenti, le ipocrisie eran le forme, a cui ognuno vedea modo di comporsi. Moriva al 1836 la Regina al parto di Francesco II, preludio al regio orfano di maggiori infortuni aspettati in progresso. Maria Teresa, figliuola del celebre Carlo d’Austria Arciduca, fu poco stante in seconde nozze data al Re. Mi sarà d’uopo di tornare su cotesta augusta donna. Mi basti ora accennare, che l’indole di lei più acconcia a splender privata che a figurar Regina, potentemente contribuì a sminuir nell’azion sua l’operosità del Re. Il quale incominciò a veder meno; il brieve numero de’ buoni gli si assottigliò d'intorno; venner crescendo i dappochi, ed in potenza i più tristi.

La stampa non avea luce libera. I pubblici mali, intraveduti dalla sola intelligenza fatta muta, erano altrove accennati e ventilati con l’esagerazione, che tra lo storico e la verità le passioni frappongono. Lo inquirire, ingenerar sospetti, lo spionaggio al pensiero, il coltello anatomico alle voci, eran mestieri, levati ad uffizi. L’intolleranza trascorrea, con tirare al peggio, a tutto annerire. Senza libertà di stampa anche ai più svegliati principi i pubblici bisogni risultano un indovinello. Un solo scritto della stagione, per opportunità di concetto e venustà di forme rimasto un monumento di lettere, l’Orfana della Nunziataosò rompere l’assonnamento, che dà la corruzione, e tante rivelò scaturiggini di mali. Ma n’ebbe tosto l’autore, Antonio Ranieri, il carcere, disserratogli poscia dal Re, contro le istanze del Ministro, Nicola Santangelo.

Sopravvenuta la facenda de’ Zolfi, su cui tornerò, il principe del Cassero s’era decorosamente dimesso. Moriva al 1841 il Marchese d’Andrea; rimanea il Parisio, e con lui, quasi immune da contagio la magistratura, ristorata nell’antica fama. Gli alti uffizi e i più che rendean lucro, eran proprietà di numerate stirpi; in man di pochi ogni monopolio di grazie e di potenza. Sospetto lo splendore del merito, e creduto sinistro alle fortune pubbliche; e delle virtù troppo felici le più obliate. Un bisogno di riparazione si affacciava urgente agli animi, che collegate forze di contrari intenti tenean discosti dalla Reggia. Trapassati i più provati amici della Monarchia, sconfortati i singoli superstiti, e vecchi; i nuovi venuti, i giovani dotti, stranieri o in uggia ai potenti, trovavan ogni via abbarrata a vita pubblica, senz’uscita nell’avvenire. Si leggea; si esageravano, si sognavano novità. Ogni speranza si volgea a moti; e le congiunture non poteano indugiare.

Morirono in questi ultimi anni, taluni mancando all’invidia de’ tristi, parecchi chiari uomini. Nicola Covelli, naturalista ammirato fuori d’Italia, che potè appena la vita sostentare tra le funzioni oscure di farmacista in via Forcella in Napoli, e sotto i penosi lavori, commessigli da un Teodoro Monticelli. Il quale, usurpatone il pregio, se ne giovò a parere dotto, montare in potenti uffizi, sino, fortunata immodestia, a farsi eleggere Segretario perpetuo della Reale Accademia delle scienze.

Vi morì Giacomo Leopardi, filosofo e poeta di tempera e vena più greca che italica, o l’una e l’altra insieme. Nato in Recanati di Ancona, perseguito per liberi istinti dagli stessi congiunti, povero e malato imbattutosi a Firenze con Antonio Ranieri, trovò in lui un miracolo di amore. Tratto al mite clima di Napoli, glielo inaspriron tantosto, più che i patèmi del macero corpo, la turba regnatrice de’ mediocri, e i proposti al sant’uffizio della stampa.

S’ebbe nuova della morte di Vincenzo Bellini, Siculo, inspirato alle armonie, nudrito alle aure di Napoli. Ei parve o fu per vero una delle più armoniche idee, che vestì terrena forma, e risvegliò concenti d’un senso, che si sente e non si dice. Alle indefinite note, che compone l’amore o il dolore, accordò con magistero unico melodie del paradiso. Il Leopardi dell’arte, rivelò il suo essere, il suo sentire; espresse il tempo, a cui immaturo mancò. Pari a Cimarosa, il precursore non superò in varietà d’immagini, il vinse per avventura in certa magia d’ispirazioni. Ambo per fati diversi sepolti in terra straniera; come quegli dell’età sua il culmine de’ rivolgimenti, Bellini il funereo sopore, che dopo i nembi vien dagli stagni, patì e disparve.

Mancarono ai vivi; Francesco Fuoco, di cui sopra feci memoria, Luigi Galanti, insigne geografo, Pasquale Galluppi, restauratore in Italia di studi filosofici, Monsignor Giovanni Rosini, archeologo, che continuò in rari investigamenti gli esempi del Mazzocchi. E morì Ottavio Colecchi, filosofo e precettore eloquente, che avrebbe di sé lasciato ai posteri monumenti di più durevole splendore, se, per esser sconfinato il potere della fortuna anche sulle opere d’ingegno, queste non avesse a lui impedito di raccòrrò o affinare primamente una singolare modestia, e poscia la travagliata vita, l’incuria e l’ingratitudine de’ contemporanei. Trapassò, e ne cenno a documentare la nequizia de’ tempi, un Emmanuele Taddei; il quale, sfratatosi al 1799 e involtosi in rivolture, d’ingegno desto e non digiuno di buoni studi, compilò il funebre elogio degl’impiccati della stagione. Vissuto vario e disonesto sotto i Francesi, la Restaurazione il rinvenne acconcio a tutto, sino a dargli uffizio che accettò, di recitare l’orazione funeraria di Maria Carolina d’Austria, da lui innanzi diffamata. Esercitato seguitatore d’ogni maniera di vita, rifattosi prete, non rientrò in tempio che a recitar panegirici di potenti, degni o no. Solo costante a mantener serva la parola, s’ebbe fortuna che sprecò in spese matte per gastronomia. Morto, trovandosi la casa di tutto sfornita fuor che di arnesi da cucina, e la vendita di questi non creduta bastevole a fargli solenni esequie, il Ministro Santangelo ordinò di supplirvisi con denaro pubblico. Ed al nuovo Cimitero a Poggio Reale, sopra zolle assegnate a tumuli di sedicenti letterati, gli fu medesimamente eretto monumento, ora caduto e dimenticato.

Il morale disfacimento era accelerato dalla mala vita de’ preposti al ministerio degli altari. Si credea, con accrescer numero di preti, di più allargare la potenza della parola, in quello che sopra modo salutevole autorità vien dall’esempio. Assoldati più che eletti avean sciaguratamente ingrossate le fila del clero. Nelle trascorse età aveale ripiene la feudale tirannide; nelle succedute, fatto il sacerdozio agevole scala a salire, aveale popolate la brama di agi. L’infaticabile operosità di parecchi vescovi trovossi non di rado impotente anch’ella a frenarne nelle diocesi l’irrompente numero. Il male avea e mettea radici nell’interesse. S’abbarbicava variamente, e prendea sempre più formidabili proporzioni. Il nobile scaduto, il notaio, il ciabattino, e per fino il macellaio d’una borgata, ciascuno trovava modo di cacciare in Santuario un figliuolo, spesso indegno. Non era apostolato; era mestiere che fruttava; e spessamente furon veduti indegnissimi traforarsi e mantenersi potenti anche in alti e civili uffizi.

Sin dallo scorso secolo si diè opera a mondare la Chiesa di ministri profanatori. E nel Reame di Napoli, ciò che parrebbe contraddizione ad unilateri, vi contribuì salutevolmente il governo di Carlo III con parecchi di nota pietà, tra cui Alfonso de’ Liguori, innalzato agli onori dell’altare. L’uno mise mano a demolire ciò che vi avea di soverchio e di guasto; l’altro per dimesse vie, nella Congregazioneda lui formata intese a ristorare, e diffondere esempi di disciplina. Il simultaneo lavoro, per la diversità de’ modi, sembrò lotta, di cui si giovarono i bacchettoni a screditare gl’intendimenti di Carlo III, ed i liberi pensatori a crivellar di epigrammi il lavoro di Alfonso de’ Liguori. Non estimò opportuno il governo di Carlo III, è vero, apporre il regioexequatura’ nuovi instituti. Il Cappellano Maggiore monsignor Galiani, i Ministri, la Camera di S. Chiara, apprezzando lo spirito del fondatore, ne avrebber voluto più slargare il concetto, con aggiungervi certo debito di insegnamento, che il Santo non credè mescere a’ suoi statuti e che si sarebbe trovato poco stante plaudito da’ tempi. Questo ritardò lo stabilimento nel Reame de’ Liguorini instituti; ma non l’intendimento di rilevare il Culto.

E la città di Napoli, la mercé di accorti Prelati, non lamentò mai penuria a modo delle provincie di buoni esempi. I padri della Missione di S. Vincenzo de’ Paoli, chiamati dall'Arcivescovo Innico Caracciolo al cadere del XVII secolo, vi avean recato con le opere lo spirito di carità del santo fondatore. Affidati ai lor consigli, e, ciò che più rileva, ammaestrati dai lor esempi, assai giovani, voluti entrare nel sacerdozio, vennero in mirabile apostolato. E per toccare de’ morti alla nostra memoria, il formatore ne’ decennali rigori di sacerdoti insigni, che fu monsignor della Torre, i canonici Ignarra, Rossi, Ciampi, Savarese, de Iorio, Sanseverino, Parascandolo, Ferrigni, Alfano, i fratelli Bellacosa, monsignor Carbonelli ed altri, son nomi di che la Chiesa si conforta; di alcuni le più severe lettere si onorano; tutti per virtù stata operosa restano memorabili.

E c’inchiniamo dinanzi all’effigie di un umile prete, Placido Baccher. Soldatello di Ferdinando IV al finir del passato secolo, egli vide, fanciullo, il padre e due fratelli per furori di parte spenti in Castel Nuovo. Sospetto pel nome alla polizia francese, giacque in prigione, e tratto poscia al Tribunale della Madonna delle Grazie. Componeano il terribile Magistrato nove giudici. Se n'era proibito l'ingresso, per la potenza della parola, all’avvocato Francesco Lauria; e vi si era oltraggiato il venerando Domenico Cotugno. E narrasi di Pietro Colletta, un de’ giudici, che, votata un dì la morte di parecchi, tra cui due donne, dalla sanguinaria sala uscisse sorridendo, con chiedere d’un rinfresco che gustò, in quello che i sentenziati in camera propinqua anticipatamente per terrore agonizzavano. Da sì fatto tribunale scampò miracolosamente la vita Placido Baccher. Affranto il suo animo primamente da domestici lutti, non credè il giovanetto altrimenti rinvenir tregua alla tempestata vita, che di anteporre a ogni altro l’uffizio di clerico. E, datagli nella Restaurazione la Chiesa detta di Gesù vecchio, vi attrasse pietosamente gran gente di fedeli, che in ogni maniera d’avversità s’ingegnava racconsolare. In assai estimazione alla Reggia, richiesto, non v’entrò che ad implorar sovvenzioni a poverelli. Ricusò onoranze e vescovati; serbò vita in mezzo al popolo chiusa a tutte specie di splendori, ed aperta a solo beneficare disgraziati. La morte il rinvenne al 1851 in tarda età, trascorsa nulla per terreni agi, fecondissima in opere di carità, povero sino a mancare con che aver sepoltura. Al qual difetto supplì spontaneo l’amore de’ popolani, che ne vollero la spoglia meglio che in sepolcro tumulare in luogo distinto, dietro l’altare maggiore della sua Chiesa.

Lo si appunta di strane superstizioni, che non danneggiano quando a tutto prevalgono singolari virtù. Gli si assegnano miracoli, che son favole; e si ha in non cale il vero, il solo, il gran miracolo in tempi ipocriti e corrotti, di un uomo infaticabilmente operoso, con l’esempio, a fare il bene, e vivere per gli altri.

Nelle provincie, dove la prebenda, i larghi e facili benefici ecclesiastici, e la cupidigia di maggioreggiare più sospingea i codardi, le condizioni del clero erano peggiori. Il conclave del 1846 intravide per avventura i soprastanti pericoli, e la forza de' bisogni; e s’ebbe Pio IX. Il quale incominciò opera, pare, più alta che non s’è veduta da’ contemporanei. Egli è, dopo secoli, l’iniziatore d’una restaurazione dell’uomo ben più lata, che non sono i confini della politica. Si è percosso il suo civile principato; non s’è riguardata cert’altra regalità, che ha potuto vincere ben altre generazioni e più formidabili secoli. I Papi han fatto l’Italia, ed assai più che un’Italia. Da poi che per corruzione sopravvenuta l’antica civiltà venne mancando, al finire del mondo romano incominciò pel Cristianesimo insediatosi a Roma altro nome all’Italia. Non la sola pazienza nelle lotte, ma l’energica fedeltà nel compiere il debito della nuova missione assunta da spiriti eletti, fu la primordiale virtù de’ Pontefici antichi. All’idea biblica incarnata, alla parola de’ discepoli, al coraggio de’ martiri, al domma fermato ne’ primi concili, tenner dietro istantemente il risorgimento delle lettere, il magistero della storia, lo splendore delle arti. L’antichità nota contrassegna due monumentali avvenimenti, di Alessandro e di Augusto. I posteriori secoli han dato Leone X e Luigi XIV. Non è rigoroso lo arrogarci noi Italiani il prestigio di due storie. I remoti fatti succeduti sul nostro terreno, ove pur non frissero d'altri popoli, son tutti assorbiti dal nome romano; che mancò, allor che Odoacre s’intitolò re d’Italia. E la podestà de’ Barbari principalmente caduta ne' Pontefici, venner questi informando allo spirito dell’Evangelo; che, per esser poscia salutevolmeate diffuso, contemperò la civiltà degli altri popoli.

Sursero in Italia più tardi comuni e principati, quando congiunti quando in lotta coi Pontefici; per cui vi furon chiamati stranieri, che vincitori, delle disfatte degli uni accrebbero la potenza degli altri. Il concetto federativo surto co’ comuni rimase in fondo agli animi di tutti. Manomesso da stranieri, trascurato da principi, perseguito ne’ cultori che il vedean nella storia e nell’indole degl’italiani, diè fuori nella disperanza di ogni altra l’idea unitaria, figlia della democrazia; a cui toglievate il Conte di Cavour; ed applicavate con arti, che, per esserne corrotti gli strumenti, parvero e furono di regno.

Un’idea di riparazione non rimanea affatto ignota ai principi d’Italia. Le tracce de’ moti del 1821 in Napoli e Torino, i torbidi di Rimini, l’audace sbarco dei Bandiera in Calabria, gli scritti clandestini, e certa autorità che venia innanzi tutto da Antologie celebri e da Mazzini magnieloquente, nulla ostante le confutazioni di evirati o compri autori; dovean per fermo impensierir talvolta i men assonnati in lauti uffizi. Le riformagioni non mai smesse, progredite altresì nel lembo attico d’Italia, che Pietro Giordani qualificava del nome di beato; le iniziate da Carlo Alberto in Piemonte; l’operosità in Napoli di pochissimi a veder modo di ristorar già tanti infermi ordini; tutto ciò dovea senza vincolo federale, senza libera pubblicità proceder difforme, parere isolato, destar brame alle moltitudini, e sospetti a’ principi. Si cercavan fuori farmachi al male; non vi avea consiglio di principi in lor casa. Avean d’uopo di voce tanto autorevole quanto più impensata, e venne da Giovanni Mastai, allorché questi fu Pio IX.

E Ferdinando II, il più allentato a progredire, il più sopraffatto da consigli d’altre età, si mostrò nullameno primo in Italia ad ormeggiare, e sopravvanzò per avventura il Pontefice.

Ciò che il Re volle mostrare di essere, e l’intelligenza desiderò, e le moltitudini fecero nel gennaio del 1848, fu necessario e libero a un tempo. Da tra mezzo il popolo, il vero popolo, affollatosi in via Toledo ad abbracciare, a baciare le ginocchia del Re, fu tratto un uomo, stato per avversione ad ipocrisie e per libera parola in odio a’ potenti; e la celebrità che davangli le lettere, gli avea accresciuto il numero de’ nemici. Il carcere e l’esilio gli eran stati più scuola ad aver scienza dell’uomo, che non tutti i libri da lui svolti a rinvenirne la complessa effigie. Egli avea lutti antichi nel cuore; e sulla fronte, già scolorata dagli anni, gli stava appena un lauro, lacero dall’ignoranza e dall’invidia.

A costui, che si chiamò Francesco Bozzelli, fu dato il carico di dettare lo Statuto; che gli era fitto in cuore, in quel che ad altri stava sulle labbra od era un ignoto; avvocato da lui variamente in iscritti; avutone calunnie e dolori; pubblicato con libero consentimento del Re, e da tutti plaudito.

Non per tanto tra le genti aggruppate su le piazze e nelle vie a render festevoli que’ giorni, vi eran mal nati, vi si agitavan i liberali di mestiere, e quanti in parer di cercar l’altrui domandano ne’ rivolgimenti il solo lor pro. Un uomo già onorato dai Borboni di maestrato nel foro e nell’università, di Napoli, persecutore del Bozzelli, o di quanti per memorie di antiche opinioni erravan sospetti, ed esuli nella stessa lor patria; Aurelio Saliceti, che avea le simpatie del Ministro di Polizia del Carretto per dedicazione fattagli d’un suo scritto, cotestui si rivelò primamente nemico allo Statuto, testò plaudito e giurato.

Ed aperto come a dire un comitato,vi accorsero quanti nella fermezza del Bozzelli trovavano intoppo ad entrare e salire in uffizi, che dan lucro. Ad illudere le moltitudini contribuirono i simultanei moti e rivolgimenti degli altri Stati d’Italia e sopra tutto la rivoluzione del 24 febbraio a Parigi. Lo Statuto non guari proclamato, si fe’ sparger voce, non poter satisfare i bisogni del tempo, non pareggiare il solito progresso; una Costituente,smessa la Camera de’ Pari, poter solo spianar la via a reggimento migliore. Si sostituì tosto alla libertà licenza di stampa; si diè opera istantanea a lavorio di motteggi e di calunnie. La piazza si trasformò in tribuna, dove gli stati spioni, denunciatori, ladri, travestiti a liberali, per suggerimenti che lor venian dal Comitato, o forzavan o dettavan decreti. La guerra civile percorrea già rapida la sua parabola.

La bottega di un Materazzo al 1821; il Caffèsotto Buono nella stessa via Toledo al 1848 erano stati i primi Parlamenti. Ricettacoli di giovanaglia scioperata, vi avean prestigio i più ciarlatani. Vi si eleggean tribuni, creavansi rinomanze, novelli Statuti eran formolati. Venuta in Napoli, dopo la guerra rotta all’Austria, da Milano la Cristina Trivulzio di Beigioioso con nugolo di cortegiani, il Caffèsotto Buono fu primo tribunale di leva, e caserma di Rodomonti. Faccendieri tra tutti apparvero, un Diomede Marvasi, calabrese, per posteriori avvenimenti venuto in magistrato alto ed in Senato, e un Pietro Mileto, anche calabrese, villano e furibondo, scannato più tardi da compagni ne’ moti di Calabria. Il capitanato della piazza tennero variamente parecchi, discordi tra loro; tra cui un Giuseppe Pica, che in progresso in legge recante il suo nome radicò celebrità d’infamia, e Silvio Spaventa, il coadiutore del Curletti a fondare in Napoli specie di polizia, che può aver riscontro in quelle di Caligola ed Eliogabalo. Il magistero della stampa si esercitò congiuntamente da parecchi, veduti poscia nella reazione mutar sembiante, e montare in uffizi, come Agostino Magliani, gli Orgitani e simili. Solo Ferdinando Petruccelli nel Mondo Vecchio e Nuovo,a molte esagerazioni frammiste discoprì veri, e scalzò birbanti.

La cupidigia di dominio venne dai più scaltri sfogandosi in carichi pubblici, presi come per assalto. Luigi Settembrini si mostrò pago dell’uffizio di Capo di Ripartimento al Ministero della Pubblica Istruzione. Francesco Trinchera, prete, uscito di Diocesi per isciorsi de’ giurati voti, s’era stabilito a Napoli. Smessa la tunica e la chierca, e sopravvegliato dalla Polizia, gli fu questo un merito politico. Lasciata la piazza, e se ne querelaron gli amici in giornali, s’insediò tronfio in Ministero a Capo di Ripartimento. Benché restato di gridare, e compostosi a moderato,nella reazione che seguì, fu casso d’uffizio; ebbe condanna di esilio, e riparò in Piemonte, donde mosse al 1860 per avere più lauto uffizio nel governo degli Archivi. Il padre Giordani, gesuita, espulsa la Compagnia, si sciolse di soppiatto d’ogni voto. Si mantenne incerto finché la reazione noi consigliò dopo il 15 di maggio di comporsi a prete osservandissimo. Si ebbe cattedra nell’Università di Napoli da’ Ministri de’ Borboni; ed al 1860, mutata anima e vestimento, vel confermavano i ministri del Regno d’Italia, e promoveano. Rodolfo d’Afflitto, in dimessa fortuna innanzi alle contratte nozze con certa vedova Pandola e al retaggio d’un zio, il Duca di Campomele, s’era giovato del nome di nobileper ottenere sottosindacato nel Municipio di Napoli, che gli apriva, com’era usanza, la via a frugiferi impieghinell’amministrazione civile. Sottointendente non guari dopo a Bovino, vi esercitò oltre all’amministrativo anche l’uffizio di polizia con modi burbanzosi che gli eran consueti. A proseguitare l’agognato cammino lo sviarono i primi moti del 1847, a cui si mostrò liberale e n’ebbe guiderdone. Mal veduto nella reazione, patì mancamento d’uffizio, che gli valse al 1860 a meritare i più odiosi. Prefetto due volte in Napoli, presidente della Giunta di Stato, detta di Pica, contristò ed ammiserì famiglie. Voltabile ed iracondo, inasprito dell'odio pubblico che gli si levava nella stampa, parve ultimamente riaccostarsi alla parte caduta, e voler surrogare nel Consiglio Municipale all'odierno l’antico elemento. Ma venne subitanea morte ad interrompere scene più oltre, fuori l’esequie fattegli ufficialmente pompose. E la vedova Pandola, a renderlo durabile, immaginò di farne pietrificare la spoglia. Gli mancò la straordinarietà del delitto, per essere affidato alla sola immortalità che dà l’infamia.

In tanto i rimasti senza pasto, che davan gli uffizi, con clamori ed altre arti aggiungevan forza al Comitato. La regia podestà iva scemando; montava la demagogia. Caduto il Ministero Bozzelli, i portafogli vennero a modo feroce disputati; e Saliceti ne tolse il più importante. I moti cresciuti in Italia, di Francia, e innanzi tutto la rivoluzione di Vienna, accesero vie più le napoletane fantasie. E ne’ primi Consigli di Stato, a voler anch’egli, Saliceti, fortuneggiar co’ venti, trascorrendo in progetti di trasformazioni accennanti a popolare reggimento, con maniere sbirresche volea imporne al Re, che per suggerimenti venutigli da Bozzelli, rimastogli intemerato amico, non si lasciò impaurire. Frustato nelle sue aspettazioni, con dimettersi istantemente, crebbe in popolarità che dàn le rivoluzioni. Lavorò più indispettito e assiduo a screditar tutto; in piazza preparò con nuclei d’illusi e di codardi i lutti che seguirono. E vinto al 15 di maggio, lo stato giudice e professore di diritto in Università, regnanti i Borboni, si fè tribuno e triumviro a Roma, e sel patì un Mazzini. Riparò poscia in Francia, dove congiuntamente a compagni che l’ormeggiarono, si prostrò a’ piedi di Luciano Murat, confortandolo alla conquista di Napoli. Mancatene le congiunture, rifuggì a Cavour; che, anche nei più difficili bisogni, temendone la subdola indole, noi volle a collega nel Ministero. Il confinò in lauto uffizio, dove la morte, che il colse poco stante, liberò la storia dal segnar peggio.

La quale è inesorabile. Di aura popolesca s’invaghì Paolo Emilio Imbriani. Anch’egli del Ministero Saliceti cercò dimissione. Figliuolo di padre ottimo, ne eredò i più rari pregi fuor che certo riposato senno; che il fè Ministro della Dittatura in Napoli, cattedratico all’Università, Senatore e giudice della Giunta di Stato di Pica, Sindaco, oratore dove potea sfogare odio contro i Borboni, e poeta epigrafista a memorie di volgari assassini. Lui ormeggiò, più tardi, Raffaele Conforti, curiale, ingegnoso e dicitore infaticabile. Dimessosi prontamente dal Ministero, invigorì in ogni maniera l’opera della rivoluzione. Gli era stato promesso certo magistrato in una repubblica; per cui lavorò, ragunando in sua casa i più scapigliati, venuti dalle province a cercar fortune in nuove lotte. Ricerco dalla reazione dopo il 15 di maggio, se la svignò: unissi con altri a Parigi a supplicare Murat della conquista del Reame; e, disperatone, riparò in Piemonte. Quivi dimorò in sino a che le vittorie di Garibaldi non gli riapriron le porte di Napoli, con. assegnargli a prima giunta uffizio di Ministro, stato più di vendetta che di giustizia. I decreti più odiosi recano il suo nome. E, compostasi la rivoluzione a partito, armato, pretese e si ebbe, affamato ed immodesto, compensamento con denaro pubblico sotto specie di Ministro esule dodici anni. Accrebbe, congiuntamente ad altri, bottino alla rivoluzione con la confisca de’ particolari averi di Casa Borbone Con codazzo di scherani, sorprese in sua casa un vecchio e probo uomo, il cavaliere Rispoli; e gli strappò con minacce i titoli di rendita de’ Borboni altrimenti intestati, sforzando in piazza VIII agenti, di cambio a venderli senza firma degl’intestati. Da ultimo, levati in lucrosi uffizi parenti ed affini, rafforzati in Napoli i complici, componenti il consortume,da Cavour creduto masserizia di regno, e partecipe del suo ministero, si ebbe, vecchio oramai, riposo ed agi in Corte di Cassazione.


vai su


101-120 La storia non trascurerà i minori

La storia non trascurerà i minori: ella riguarderalli pur nelle virtù, che s’ebbero. Carlo Troya fu posto a capo del Ministero sformato e dimesso. Letterato commendevolissimo per istudio di forme, e di non comuni concetti, dopo lungo esilio raccoltosi in patria, avea potuto ottenere dai Borboni larga sovvenzione mensile pel suo lavoro Storia del Medio Evo. La nota pietà d’un suo fratello, Ferdinando, magistrato integro, aveagli a certe velleità politiche procurato certa indulgenza. Natura debole d’uomo, fu dal Comitato prescelto a suo strumento. I suoi atti nel governo segnarono la stessa mobilità de’ suoi concetti negli scritti. Di non liberi istinti sembrò per congiunture libero, e gliene diè più credito la rinomanza dell’ingegno. Non punito della reazione, e morto, s’ebbe, volendone per forza gli uomini fare un martire, effigie in marmo nell’università di Napoli, di rincontro a Giacomo Leopardi, che avea, per invidia o arroganza, calunniato in vita e perseguito.

Giuseppe Marcarelli, buon magistrato, resse poche ore il Ministero di Giustizia. Gli fu successore Giovanni Vignali, di fama ottima, finché si tenne giudice e regio procuratore in Tribunali; ed anche partecipe del Ministero di Aprile mostrò temperanza di concetti e di modi. Non tocco dalla reazione egli ricorrea con plauso l’avvocadura, ed era stato altresì sovvenuto di particolare aiuto mensile sotto specie di vecchio magistrato. Il rimossero della modesta vita i moti del 1860. Consigliere di Stato in Torino; e, per ricomporre, dicono, certi suoi dissesti economici, sceso in piazza a faccendiere, s'imbatté in volgarissimi birbanti, che il trassero a trovar modo di dar faccia di vero a falso testamento di un marchese di Villa Hermosa. N’ebbe processura e condanna; e fu abbandonato da’ suoi amici, sì come parve aver le virtù scordato e i debiti di gratitudine, che il legavano a Casa Borbone. Antonio, Scialoia pronipote del Parroco di Procida, del nome stesso, strangolato al 1799, non affrettò, non desiderò la catastrofe del 15 di maggio. A parer complice valse l’essere stato Ministro d’Agricoltura e Commercio, ch’era novità nel governo; e vi contribuì forse certa rinomanza che veniagli dell’ingegno. Confuso con volgarissimi, e mal giudicato, n’ebbe condanna di carcere, che la mercé d’istanze di congiunti al governo Francese gli fu commutata in esilio. La qual pena e la memoria d’essergli stata nel 1844 niegata a torto la cattedra di Economia nell’università di Napoli, lo inasprirono contro i Borboni. Di generosa ospitalità onorato in Piemonte, accolto da Cavour, crebbe in favori; e, Ministro del Segno al 1866, fu il primo in Italia a non veder altro modo di satisfare gl’impensati bisogni che dare alla carta monetario valore.

Luigi Dragonetti è nome, che si appartiene alle lettere. La politica nol rammemorerà che per gl’intendimenti e gl’infortuni. D’illustre lignaggio, del largo censo redato si giovò a solo rispondere in opere d’ingegno e di cuore a’ titoli, che veniangli dal nome. Intento da fanciullo a forti studi, innamorato d’ogni maniera di bello, degli scritti che diè fuori, provò essergli agevole il doppio pregio in età, che n’era tuttora incuriosa, del pensiero e della forma. Spettatore de’ rivolgimenti del secolo, n’era rimasto il suo animo come temprato. Le sue più che idee eran sentimenti; e le opinioni convincimenti. Sin dalla Restaurazione, giovane ancora, avea sentito doversi ai già provati sostituire nuovi modi di reggimento. Caldeggiatore di sistemi rappresentativi men per bontà veduta in essi che per nuova faccia dopo tante pruove assunta dall’Europa, non potè lungamente durare inosservato. Sospetto al governo; contrariato nel suo uffizio di Direttore del Tavoliere di Puglia, ed espulsone, il parentado che legavalo al Marchese d’Andrea, i domestici agiamenti che gli apprestavan modo d’intraprender viaggi, il silenzio ricerco degli studi, gli furon per avventura ripari a schivare i peggiori colpi, ad altri toccati, dell’ignoranza e dell’ipocrisia. Gli nocque lo aver nell’Aprile del 1848 disavvedutamente assunto il Ministero degli Esteri. E n’ebbe carcere ed esilio, ch’ei sostenne, vecchio oramai, con mirabile presenza d’animo sin quasi al 1860, che il rinvenne di un pezzo e senza maschera.

Ricusato ogni uffizio pubblico, per sentita usanza di generosi di non accettar compensi dopo il carcere politico; non mai disgiunto da eletti studi, in copiosa varietà di scritti per in sino agli ultimi di vita al 1871 intese solo a percuotere infamie del tempo. Senatore del Regno, non si curvò a correnti d’avverse idee; non rinnegò i suoi concetti di federazione; ritenne artificiale la progredita unità italica; e nello scioglimento a selvaggio modo de’ monastici instituti protestò in apposito scritto di dimettersi; né più fu veduto rientrare in Assemblea. E sì fattamente egli compiè sua vita; trascorsa in istudi e intendimenti, stati operosi; in persecuzioni ed ambasce virilmente portate; rinnovellandogli la nequizia degli uomini, come in giovanezza, lo stesso turbinio di nembi al tramonto; dov’ei tutta eloquentemente, con isperanze cristiane, compendiò la lunga e intemerata esistenza.

Il 15 di Maggio fu opera di demagogia. Ciò che sparsamente nelle provincie agitavasi di più guasto e di reo fu anticipatamente raccolto in Napoli ed apprestato. Vi lavorarono a precipui motori parecchi, venuti in più luce per fatti posteriori.

Silvio Spaventa, terrazzano Abruzzese, capo di studentaglia, tribuno da caffè; rinnegatore nel costituito dinanzi a’ Giudici di opinioni e di fatti; condannato nel capo; assoluto rimasto in carcere e poco stante cacciato in esilio; strisciatore a Parigi nelle antisale di Luciano Murat; compagno più tardi dato a Curletti per fondare magistero di polizia; tormentatore di quanti avean concetti diversi da' suoi; punito di bastonate in pubblico da certo Calicchio, a cui mezza Italia mandò plausi; deputato; redattore di Gazzette; puntello di Consortume; ministro del Regno d’Italia;

Nicola Nisco, di S. Giorgio alla Montagna, un morto di fame, che molti ricordano fanciullo con divisa di zampognaro; ne fa cenno il Diario di Persano; Io ha processato la stampa d’ogni colore; lo ha condannato, nulla ostante la potenza venutagli dal Governo e dalle ricchezze, il pubblico odio;

Francesco Paolo Ruggiero, curiale, Ministro in Aprile, e non guari dimessosi per brama di più favori in piazza; Ministro rieletto a caso nella notte che seguì il 15 di Maggio; alla tunica di guardia nazionale indossata fuori pericolo il nefasto giorno sostituì la giubba di regio Ministro, tanto l'ambizione rende voltabili gli uomini;

Giuseppe Ricciardi, che con titolo di Conte tolto dopo il 1860 ha tanto traparlato di governo popolare senza offrirne esempio in se; certo Vollaro, certo Giunti di Mormanno con ischerani innumerevoli, ed altri di nome morto, tutti sulle piazze e nelle vie, sulle terrazze e alle barricate furon il 15 Maggio a far numerosa minacciare, a percuotere fanciullescamente la regia soldatesca; che si tenne sulla difesa, finché la soverchia tolleranza non parve prometter vittoria alla canaglia.

E,'d’altra banda invisibili, al coperto d’ogni sinistro, intenti a consigli, a ordinamenti, a spartigione innanzi tempo di futuri uffizi, si teneano, Giuseppe Pisanelli di Tricase, curiale venuto in fama per onore tollerato da Robertoo Bavarese di allogarselo allato in Cattedra di Diritto; Giuseppe Massari, figliuolo di vecchio impiegato di Ponti e Strade,rimasto panegerista uffiziale d’ogni podestà; e i componenti in massa l'eunucomacchia letteraria Napoletana, con a capo Luigi Settembrini; i più rivelatisi quando servi, quando liberali, secondo le speranze, ed i casi de’ rivolgimenti. Nemici del Bozzelli; millantatori di opinioni, che non ebbero mai; gli uomini, che al 1848 voleano anticipate le infamie del 1860.

Gabriele Pepe, che, come dissi, avea ricusato di servire sotto reggimento assoluto, esule volontario a Campomarano, suo luogo natio, dava opera a studi antichi, nel modo che le passate disavventure in forzato esilio gli avean dato occasione di scrivere sapienti articoli nell’Antologia di Firenzee nel nuovo giornale de’ Letterati di Pisa. Generale della Guardia Nazionale di Napoli al Gennaio del 1848, intese solo a comporne un’arma di libertà, un baluardo contro licenza, un puntello allo Statuto. Non potè il Ministero di Aprile rimuoverlo da’ suoi propositi, nò sviarne gl’intendimenti. La notte del 14 Maggio, io che scrivo, il vidi intemerato affrontar gli oltraggi di canaglia armata, ch’ei s’ingegnava in vano ritrarre da ciò ch'ei chiamava e furon ruine. Il vidi in via Toledo appuntargli sul petto da dissennati baionette ed altr’armi: l’anarchia era al colmo.

E tanta virtù pur noi campò nella reazione da ira feroce d’altra specie di codardi. Consigliato da amici, forzato da nemici, uscì di Napoli, ritraendosi come innanzi in oscuro paesello del Sannio; sconfortato degli uomini e delle cose, non per tanto pentito discepolo della virtù, né renitente a’ sacrifizi, che ne sono il corteggio. E sì fattamente egli morì!

Gabriele Abatemarco, che da non guari avea tolto uftìzio di Direttore dell’interno, s’era serbato immune da’ male arti preparanti il 15 di Maggio. Sin dalla notte del 14, richiesto dal Re, s’era nel frangente ingegnato di comporre un Ministero. Le principali vie di Napoli eran gremite di soldatesca, percorse da Svizzeri furenti; e si vedean cadaveri giacenti, di soldati e borghesi, stati specialmente fulminati da codardissimi, tenutisi dietro materasse ed altri ordegni, sicuri in balconi e terrazze. Scortato, a sera, in carrozza, da una mano di Ussari, si recò presso alcuni, che non rinvenne o trovò ripuguanti. A tarda ora, in via Fosse del grano,vide Francesco Paolo Ruggiero, che in divisa ancora di guardia nazionale disarmato fuggiva. Il raccolse in carrozza, menollo in sua casa ed, incoraggiatolo, lo trasse istantemente al Re, che gli diè il Ministero delle Finanze, per essere in fama di Economista.

La notte istessa, discutendosi in Consiglio della sorte di seicento e più, arrestati per le vie, innocenti o no, e chiusi in Arsenale, Ruggiero, complice poco innanzi, anche per rimuovere ogni ombra di sospetto in lui, chiedea si fucilassero. Ma prevalse il voto, che al Re suggerì la sua mite indole, e le ragioni di Abatemarco, per potersi in simili rincontri trovar l’innocenza con la reità confusa, e a tutti si diè libertà.

Gabriele Abatemarco, per caldeggiare idee nuove in politica, avea trascorsa la giovanezza dopo il 1821 in esilio. Profugo da prima in Malta, vi trovò Gabriele Rossetti, da cui il disgiunsero poscia difformità d’intendimenti e maniera di studi. Passato in Francia col fratello Domenico, simigliantemente errante, ambo si strinsero in amistà con Beniamino Constant, con Lafayette, col Tracy, col Geoffroy, con G. B. Say ed altri illustri; e più intimamente con. esuli italiani, Giovanni Biagioli, Carlo Botta e Pietro Giordani, ristoratori di classici studi.

Innammoratosi delle schiette forme del Trecento, intese a farle proprie; lo stile studiò ne’ Cinquecentisti; la lingua, ch’è tutta letteraria, pur nel vivo della voce sin d’allora andò mirabilmente serbando. Tornato in Italia, soggiornò a Firenze, e collaborò con Giordani ed altri a riguardar le forme, che Pietro Colletta intendea pur dare al suo storico lavoro. Al 1828 egli era a Roma, accolto ed estimato dal Mezzofanti, e da quell’Angelo Mai, che meritò inno da Giacomo Leopardi. Ricercatore di ciò che solo è grande, non gli furon straniere le artistiche celebrità del secolo, e per avventura di più secoli insieme. Canova, Camuccini, Rossini, furon da lui personalmente riveriti; e la presenza d’un certo passato,che solo a Roma rinviensi, gli fu cagione di più oltre spingersi in istudi storici, e nei più remoti biblici.

Reduce in patria al 1830, non attese all’avvocadura, come il vecchio padre avea desiderio, e seguitò gli studi, a cui le condizioni pubbliche, e la libera indole l’andaron sempre più confortando. Ne’ quali chiuso, e solo aperto a pochi ed eletti amici, rigido percussore d’ipocrisie, ne’ costumi del tempo previde e lamentò le ultime sciagure della Dinastia e del paese. Al 1860 non chiese compenso a provati infortuni. I surti putridamente a custodire i nuovi ordini gli apparvero tanto rei quanto i corruttori della Monarchia. Si sentì bastare a sé stesso; si rimosse da tutti; e morì, com’era vissuto, senza rimorsi e libero.

Antonio Spinelli, ultimo principe di Cariati, fu la notte del 15 di maggio traeletto ad assumere la presidenza del Ministero. Presentatosi al Re, presenti altri Ministri e cortegiani, dichiarò innanzi tratto di non potere altrimenti la Monarchia servire che in reggimento temperato. Non dovere, egli aggiunse, la malvagità di pochi esser cagione di danno al diritto de’ più; le generali Assemblee essere nel diritto pubblico del Reame sin da Ruggiero; l’Europa quasi tutta volgersi a nuovi ordinamenti; l’Austria sfasciata; ed i principi come i capitani in guerra allestirsi alle occasioni, non farsele sopravvenire.

Il principe di Cariati non avea profondi studi. Figliuolo del Marchese di Fuscaldo, ambasciadore del Re di Napoli a Roma; e posto, fanciullo, in collegio di Marina, com’era usanza dei nobili, uscitone per tempo uffiziale, tra per paterni ammaestramenti e pruove che davagli la tempestosa età, era venuto acquistando certo senso pratico delle umane cose, che negli uomini di Stato allor che n’è penuria, reca più danno che il mancamento di scienza. Vissuto dopo la restaurazione in odio a chi ne invidiava le cavalleresche virtù, straniero alla Corte e più che remoto da vita pubblica, tra pochi onest’uomini e liberi, di che solo ambì circondarsi, ebbe lungamente tutto l’agio di osservare mali ed errori pubblici, tra cui, la invano da’ governanti scongiurata trasformazione de’ tempi. Tolto nondimeno il potere in malagevoli congiunture, coadiuvato da colleghi di chiaro nome, tra i quali il principe di Torella e Nicola Gigli, non mancò alle difficili pruove. Sciolta la già da sé stessa disgregata a Monteoliveto Assemblea di Deputati, si ebbe cura di comporne tantosto altra, per lo ringagliardire di passioni riuscita peggiore.

Gli scempi moti di Calabria, sorretti principalmente da Giuseppe Ricciardi, da certo Longo e delli Pranci, disertori, da Pietro Mileto e da eteroclite forza di pessimi o immattiti, vennero istantemente repressi da Ferdinando Nunziante, unico della stirpe, non veduto mai abusar di conferiti uffizi; mostrò in iscontri in campo accorgimento di capitano; e tuttoché usato a caserma, composti fuori i dissidi, diè saggi in città di retto amministratore. Il che, se gli giovò alla fama, per l’invidia dei tristi nocque alla sua pace. E, mancato non guari dopo il suo richiamo in Napoli, l’immatura morte diè materia a sospetti, che per esser troppo divulgati ed inverisimili mi asterrò di qui riferire.

Ma innanzi e dopo il componimento delle Calabrie, i rieletti e congregati Deputati in Napoli, salvo singolarissimi inesperti a rivolgimenti, malvagi i più o dappochi, inorgogliti de’ moti che simultanei altrove s’ingeneravano, ricominciarono il solito lavoro dentro e fuori l’Assemblea di scuotere il Ministero. Due egregi uomini, alternandosi in uffizio, aveano il governo della Camera; Domenico Capitelli, insigne avvocato, il primo per avventura in Napoli dopo tanta incuria di contemporanei e di superstiti a ridestare nelle legali discipline la venerazione a Vico; e Roberto Bavarese, che in ispeciale scuola da più anni dava opera ad ampliarne salutevolmente il culto. Di tempra più pratica il Capitelli; d’indole singolarmente modesta il Bavarese, s’ingegnavan spesso in vano di raffrenare in pubbliche sedute intemperanze di Deputati, messi su da canagliume di piazza. Cerretani interpellanti erano innanzi tutto Silvio Spaventa, Giuseppe Pica, Nicola Nisco,ed altri più chiariti da’ moti del 1860. Villanamente accolto, spesso interrotto, più volte oltraggiato da furfanti, di che le tribune eran gremite, potè tuttavia il Ministro Bozzelli con l’eloquenza che gli era consueta, pronunciare un giorno le parole, oggimai degne di memoria. Il tempo mi giustificherà. Ed il Re Ferdinando d’altra banda avea detto: Dopo di me venti anni di anarchia;e potea meglio dire d’espiazione!

La Camera non avea cittadini; non avea omogeneità di menti, non unità di cuori. Uomini inetti a costruire, lavoravano a distruggere. Ella fu sciolta. Si deliberò in Consiglio, risultata vana ogni cura di ricomponimento, di riordinar con armi la già scompigliata Sicilia; e, discaricatone dell’uffizio il de Sauget, se ne affidò il mandato a Carlo Filangieri; che la domò, smorbolla di foresterume liberalesco sbarcato a cercar fortune, ed inaugurò con generale amnistia buon andamento di civile amministrazione.

Gli ausiliari inviati a re Carlo Alberto a combattere gli Austriaci furon tantosto richiamati. Non risposero per brama di militar vita o per amore a concetti di libertà parecchi ufficiali, giudicati poscia disertori; fra cui Girolamo Ulloa, del quale si giovò il Manin nella difensione di Venezia. Caduta la Piazza, e niegatogli dal governo della reazione il ritorno in Napoli, vagò da prima incerto per Europa; si fermò alcun tempo a Parigi, seguentemente in Italia a Torino, dove tutto l’agio si ebbe di provare i costumi de’ Napolitani ivi profughi. Schivonne il contagio, e si ridusse in Toscana, l’antico asilo da’ Lorenesi aperto alla ignota o perseguitata virtù. E quivi, apertogli il benemerito Gabinetto Viessieux, potè men disagiatamente ricorrere i militari studi, in lui testò riavvalorati da pruove sul terreno. In estimazione del Gran Duca, sopravvenuti i noti maneggi di un Buoncompagni, non rispose a modo di altri all’accordatagli più anni generosa ospitalità; se ne ritrasse, ed al 1860, riapertegli le porte di Napoli, vi entrò senza rabbia di fuoruscito, e senza fame di oro.

Veduto rotto il concetto di federazione, ed estimando artificiale ogni altro; e segnatamente sconfortato de’ costumi degli artefici, non volle uffizio pubblico di sorta; sdegnò profferte ed emolumenti. Il Principe, che avealo tenuto sospetto, riossequiava esule in Roma. Si accomunò ai vinti; e povero e vecchio ormai in Firenze, dove ancor vive, si raccolse immune da taccia dinanzi alla storia di aver mostrato liberi sensi per aver mancie.

Per doversi le leggi contemperare alle condizioni, tra cui fa d’uopo raggiungere il supremo fine della pubblica quiete, vincere la demagogia, e render certa la riuscita del diritto costituzionale si fu l’operoso intento del Ministero Cariati. Ma non era lo spirito rivoluzionario solo a dover combattere. Vi eran altre passioni più croniche a far disutili concetti alti e lavoro. Interessi spostati dalle novità, privilegi sospesi; il rilievo, che ne’ governi dove tutto vien discusso e dove la stampa è libera, fra tutte le prominenze suol prendere l’ingegno; retaggi di favori in pericolo; ogni maniera di monopoli usurpati da maneggi ed ipocrisie minacciata; gli sconcerti sopraggiunti nelle fila di cortegiani; tutto ciò ed altro dovean alle prime vittorie del regio diritto riattivar d’altra banda l’appiattatasi ne’ pericoli intelligenza del male. La rivoluzione era stata rotta, ma non iscalzata. Mancò l’occasione, e la più salutevole, di conoscere gli uomini, che per diverse vie l’avean ingenerata e snaturata. Le liberalesche intemperanze da prima, l’ignoranza e l’odio a’ nuovi ordini di altri, s’alternarono nel lavoro che, demolendo, tutto precipitò.

Il principe di Cariati fu ritirato; dalla Direzione dell’interno fu rimosso Gabriele Abatemarco; non si perdonò a Ruggiero la sua complicità o mascherata nelle opere del 15 di maggio; dimessi gli altri Ministri, ed anche a Bozzelli fu dato commiato.

Il Re avea provato rovinoso il concedere; non previde i danni del niegare; e tra le fluttuazioni e le paurose incertezze prevalse e secondò il diniego.

A lui riavvalorato da uomini inconsci de’ tempi; da consiglieri credenti a immutabilità del mondo; e, ciò che più rileva, da turbe di uomini, usi a proclamar disordinamento il solo disquilibrio di loro interessi. Un nembo per ciò restava ed un moto tutto opposto, con nuova corrente d’idee, sorgea ad accelerarne altro e fatale. Gli artifizj di alcuni furon specialmente rivolti a pingere in nero i più chiari e lucenti per singolarità di virtù; e la perfidia di altri trovò modo di uccidere notturnamente con la calunnia le superstiti ed alte intelligenze, onoranti il paese; fuor che i congiunti e gli amici.

Agostino Magliano, già curiale e clandestino editore de’ versi di Berchet, potè in quello che altri eran dannati, per protezione accordatagli dal Ministro Murena rimanere in ufficio, esserne altresì promosso, riaffacciarsi liberale al 1860 e meritar nuovi favori, nuove onoranze del regno d'Italia. Un Niutta, certa brutta forma ed essenza d’uomo, che al 1860 recitò il panegirico del plebiscito con lo stesso ardore, con che avea in Corte di Cassazione celebrato il trionfo delle armi regie al 1849, io che scrivo, vidi in quella stagione accattare personalmente d’uscio in uscio a case potenti firme numerose per l’abolizione dello Statuto. Cotesto impostore meritò di rimanere Magistrato, per aver altro dal Governo del Regno d’Italia, sino a Ministro Guardasigilli. A Giuseppe Vacca, ed a cento altri, cassi d’uffizio e supplicanti, si accordò sovvenzione mensile. E si perseguì per converso con processura, per morte interrotta, Luca de Samuele Cagnazzi; si carcerò il Marchese Luigi Dragonetti; fu sbandeggiato il Duca di Maddaloni, che in progresso, in faccia ad Assemblea di furibondi in Torino, con mozione memorabile tentò in vano di rivendicar l’autonomia di Napoli. Venne relegato all’ozio delle così dette Classi Raffaele Cosi, ammiraglio, il solo in Napoli, e per avventura in Italia che avrebbe in pruove ridestato il nome, ed i miracoli di Francesco Caracciolo; uomo grande e modesto, per alterni casi della vita, per rigori veduti e patiti, e per prevedimento di peggio in futuro, morto nell’oscurità e di cuor trambasciato.

Ferdinando Troya, magistrato integerrimo, avea tolto il carico della presidenza del nuovo Ministero; ma, vecchio oramai ed inclinato anche per lungo abito di sentita pietà più a interrogare misteri di morte che in iscienza gli oracoli della vita de’ popoli, le virtù e le abnegazioni del cenobio avrebbe voluto sostituire, ne’ sociali moti, alle umane agitazioni. Il Ministero di Agricoltura e Commercio in odio alle novità s’abolì; fu restituito alla Direzione dell’interno l’odioso nome di Polizia; e se ne diè il governo a certo Scorza, e poscia a Gaetano Peccheneda, di cui feci memoria; alla Giustizia fu preposto un Longobardi di principi rigidissimo; Salvatore Murena variamente adoperato quando all’interno e quando alla Finanza: un nobile agli Affari esteri, Carafa di Traetto.

Si accrebbero rigori, e si rinacerbirono gli odi. E più nocque, nella brama di reagire tutto mescendo, di dar rinomanza a certuni, che non per politiche ma per reità comuni dovean punirsi. E si riedè a certa moda del giorno di riferire a studi di sette ciò che la corruzione avea dato fuori nel rivolgimento d’intempestivo e di reo. Una mal compilata processura del 15 di maggio; ed altra più sconnessa intorno ad unitari furono le opere inaugurate del reazionario Ministero. Niuno degli accusati in fatti, per non sentire o non aver proprie opinioni, si rendè notabile, fuor che Saverio Barbarisi, stato sin da giovanezza libero propugnatore di reggimento rappresentativo; e però odiato e rimosso dal magistrato, ch’ei tenne sotto la signoria Francese. Il suo Costituto,allegato al processo, è il testamento d’un grand’animo, che affida alla posterità il giudizio della sua vita. Tra i chiamati a deporre intorno a lui, interrogato l’Avvocato Antonio Starace, se il conoscesse, rispose d’averlo veduto sedere intemerato più anni dove nell’infortunio i suoi giudici. Ma ogni concetto iva travolto; tutti i detti si tiravano al peggio; prevalevano le cieche ire; ed egli, innocente de’ fatti del 15 di maggio, fu condannato nel capo. Udì il vegliardo imperturbato la ferale sentenza, e tratto poco stante in speciale carcere si componeva a morire. Vennegli dal Re commutata la pena in ergastolo, che non provò; accorciandogli più degli anni i patemi d’animo il fine misero nell’ospedale carcerario di San Francesco.

Resta Saverio Barbarisi il solo nome onorato di coloro, che condannati o no, videro modo di sconfessare non che i fatti le loro opinioni. Non fu espediente omesso di disarmare con tutte forme di supplicazioni i vari giudici a loro assegnati. Quel Carlo Poerio, che al 1860 si levò tronfio unitario, a schivar la morte ed anche meno, dettò per i giudici un Costituto,che, per essere pubblicato, riman durevole documento a chi nol conobbe, di viltà d’animo e peggio.

Il Re Carlo Alberto ricombatteva solo contro Austria, Più avventuroso degli altri principi in Italia, salvo gl’incomposti moti di Genova, non avea in casa a riguardar altri nemici. Gli stavano altresì allato i più previdenti, e dirò i più grandi uomini d’Italia, tra cui Cesare Balbo. E d’altra parte il Duca di Modena, la Duchessa di Parma, il Gran Duca di Toscana, il Pontefice erano esuli; il Re di Napoli, di tutti il più disgraziato, avea a lottare, tra due correnti di nemici in casa; i non guari raffrenati demagoghi, e gli esagerati, in buona o mala fede, reazionari implacabili.

Da rotta di Novara, lo scioglimento rapido della Repubblichetta proclamata a Roma in danno di chi primo avea levato il gridò di riformagioni, e la Francia accennante a Monarchia; tutto iva dando valore a’ dappochi consigli. Si trascorse, come dopo la tempesta, non che a sperar, ma a creder durevole l’apparente sereno. La reazione delle idee si distendea ed affrettava quella delle forme. Gli stati più agitatori si componeano a uomini di ordine;le chiese vennero riaffollandosi di strani volti; i pergami si trasformarono in cattedre di politica; la potenza parve ricader in preti intolleranti; e surse col nepotume il Cardinale Giuseppe Cosenza.

Il Re tuttavia dubitava ancora. Rimosso e poi morto Monsignor Code, certo de Simone, non intrigante, ma una nullaggine, gli si era posto allato in uffizi di pietà. In iscrupoli sopravvenuti sul debito del Giuramento allo Statuto si volle interrogare un collegio di prelati. Presidente n’era il Cardinale Cosenza, e tra gl’intervenuti notaronsi Monsignor lavarono e Monsignor Laudisio, famigerati per intolleranza di opinioni e ferocità di propositi.

Sentenziarono i più, di potersi sciorre i costituzionali patti per difetto di osservanza in un de’ contraenti. Ma il Re avea non dati ed accolti patti per dissennati; avea obblighi con la intelligenza e con la virtù. E contro dotte e coraggiose ragioni di Monsignor Vincenzo Spaccapietra, che ne uscì sospetto e odiato dal Consiglio, prevalse il balordo giudizio, stato in progresso funesto a’ destini della Monarchia.

Il Re fu isolato; e gli stessi, che lo avevan rimosso dal popolo, intesero ad inimicargli vie più l’Inghilterra.

Al 1840 era bastato lieve incidente a rinacerbir l’animo del primo Ministro, Palmerston, contro la Corte di Napoli. Avea il Principe Carlo, fratello secondonato, tolto in moglie con dissenso regio certa Smith; ed avutone bando dal Regno. La Regina Isabella, che spessamente fu veduta prediligere il figliuolo Carlo, più venne amandolo nelle disavventure dell’esilio. Alle cui calde istanze il Re non apponendo più oltre diniego, diè particolare incarico a Paolo Versace di comporre d’accordo con Palmerston ogni controversia. Non si dovea dare alla Smith titolo di principessa,ma di duchessa. A privare i figliuoli del paterno nome s’invocava dal Re un decreto del 7 Aprile 1827, per cui era niegata legittimità di nome a’ nati di nozze con donna d’altro culto.

Il Ministro Inglese d'altro lato rispondeva, di non menomare né aggiunger prestigio il mutamento del nome d’un titolo, specialmente in Napoli, dove il titolo di principe era già comune a tanti privati. Il matrimonio, soggiungea, risultare da spontanea unione di animi; non dover essere giurata prostituzione o calcolo di convenienze, a cui non s’opponea il solo Cristianesimo, ma la civiltà s’era opposta de’ secoli antichi; e più, per lo affinamento degli umani diritti, si leverebbero contro i tempi avvenire. Ma il Re sì ostinò ne’ suoi divisamenti, e fu errore. Il principe Carlo, ohe spirito di adulazione a pregiudizi di Corte e di nobili nulli, ha tanto calunniato, confermò con sacrifizi, che ne afflissero la vita, certa grandezza d’amore, ch'è virtù, che legollo alla Smith; diè ai figliuoli erranti il proprio nome, per essere i diritti che dà natura superiori a tutto; e porse a’ nemici del Re di Napoli nuovo seme di odio, aspettato più tardi a dare con altri una produzione funesta.

Un trattato del 26 Settembre 1816, tra Napoli e l’Inghilterra proibiva in Sicilia ogni monopolio di Zolfi. Stato libero il traffico sino al 1838, parecchi Inglesi vi avean prese a censo le solfatare, ed alcuni n’eran divenuti proprietari. Il governo di Napoli, aumentatasi la produzione, a non vedere invilire il prezzo, avea formato contratto con Compagnia Francese; che si obbligava comperare da’ possessori, a prezzo determinato, annue cantaia seicentomila. Il governo vietava ai proprietari la produzione oltre le seicentomila cantaia, con l’obbligo d’altra banda alla Compagnia di pagare carliniquattro per ogni cantaio, niegato al proprietario di estrarre nell’annua produzione. Avrebbe il governo riscosso dalla Compagnia quattrocentomila ducati, e cantaia ventimila di zolfo per le polveriere.

Era un monopolio dannoso agl’inglesi, che istantemente ne domandaron la cessazione. Il Re indugiò a rispondere: ma vie più instando i due Incaricatid’affari, M. Kennedy e M. MacGregor, si promise per il principe del Cassero di far cessare il pattuito a dì primo Gennaio 1840. La promessa mancò; e Palmerston diè ordine a Kennedy di chiederne l’osservanza. Il Re se ne risentì, e parve di non volerne più sapere. M. Temple, ministro Inglese a Napoli, mandò fuori un dispaccio con domandare l’istantanea abolizione del monopolio e un ristoro a’ danni venuti agl’inglesi in Sicilia. Il Re se n’estimò più offeso, imponendo al Principe del Cassero di far noto a M. Temple il suo assoluto diniego. Il Cassero, stato relatore della promessa di abolizione, ricusò di trasmettere il Regio disvolere; diè la dimissione ed a modo d’esule partì per Roma. La sua rimozione segnò il principio d’altre sventure. Il governo di Napoli nel frangente fu salvo dalla Francia, che sì interpose al conflitto armato. Napoli pagò tutto; e l’Inghilterra, satisfatta in ogni pretesa, si riostinò nell’odio.

Rimanea la Francia; ed ella dopo due rivolgimenti, del 1848 e del 1852, non era la stessa; e molto meno era quella del 1830. L’esule Duchessa di Berry, sorella a Francesco I di Napoli, avea, per sue disavventure, svegliati sospetti, ed imbarazzi più volte creati alla Corte di Napoli; onde il re Luigi Filippo e suoi Ministri poteano poco sostenere il Re e suo governo. Nullameno nella controversia con l’Inghilterra vide la Francia un pericolo di disquilibrio, che rimosse infrapponendosi consigliera di pace; ed i ministri Guizot e Thiers fecero anche di più in pro del governo di Napoli, suggerendogli riforme; per le quali in opuscoli mediocremente dettati osò proporre miti intendimenti il Marchese di Pietracatella, stato assolutista stemperato nel suo primo entrare alla vita pubblica.

E più imperiosi consigli dopo il colpo di Stato venne al Re di Napoli trasmettendo Napoleone III. Ma si avean in odio dell’autore, non che sospette, certo dannose le sue proposte. Il Gran Duca di Toscana, il più generoso e però il più compianto Principe, che s’ebbe alla stagion nostra l’Italia, vanamente tentò nello stesso suo esilio a Napoli di sviluppare il Re da’ tristi od ignoranti, che gli abbarravan ogni uscita. Egli volle, nel suo ritorno a Firenze, menar seco Francesco Palermo, e il fè Bibliotecario al Palazzo Pitti confortandolo a lasciare un paese, dove tanto facile vedea il trionfo del male. La libertà di fatti veduta in Toscana e costantemente serbata da’ Lorenesi, era agli occhi de’ Ministri di Napoli peccaminosa quanto la proclamata da Carlo Alberto, e raccomandata a Novara cadendo.

Si credea scongiurar ogni moto, ogni forza avversa con la forza del principio religioso, che, per non esser sentito, riman dannosa apparenza ed accelera il disfacimento di uno Stato. Le pie credenze voglion essere ispirate. Comandarle si è promuovere le ipocrisie. Si era imposto anche alle più note intelligenze l’esame del Catechismo nella Regia Università. Si piegava a’ ripugnanti, per certo invincibil decoro, la facoltà d’insegnamento; e, per vecchia usanza di prodigar. favori, la si accordava a indegni; tra cui, non ultimo, sor Filippo de Blasio, stato in giovanezza il buffone in iscuola di Roberto Bavarese; servidore poscia umilissimo del principe di Petrulla; poliziotto celebre al 1861; ed ora che scrivo, niente meno Deputato sinistro all’Assemblea in Roma.

Reggea il Ministero del Culto e dell’istruzione Pubblica certo Scorza, che, quando ricevea lettere o supplicazioni in nome del Cardinal Cosenza, innanzi di conoscerne i concetti baciava e lacrimava. A Presidente della Istruzione Pubblica, disgraziato ufficio fuor che a’ giorni di Monsignor Mazzetti, s’era levato un prete, gonfio di sonnifera scienza, e di modi. che ne ricordavano la plebea origine, Monsignor d’Apuzzo; inquisitore inerme per la diversità de’ tempi. Una consorteria, povera di numero, ma forte di legami e di aderenze s’era piantata nella solitaria Reggia. E, per non potersi altro dare ad un colonnello d’Agostino, lo si elesse a Segretario perpetuo. dell’Accademia delle Scienze. Gli uffizi lucrosi, tuttoché dissimili, si congiungean talvolta nello stesso individuo. Roberto de Sauget impiegava sul Gran Libro del Debito Pubblico ducati settemila, prezzo di ricevitoria che ottenne e vendé. La potenza rimanea in pochi, di cui furfanti i più; i singoli modesti, e però impotenti a conreggere le bilancie della giustizia, ormai non più renduta a peso, ma ad occhio.

Sin dal primo immattire della reazione fatue commissioni di Scrutinioivano sempre più scontorcendo il vero. Le testimonianze spesso traevansi da parrochi, che si doveano solo lasciare a pietosi uffizi, e che a loro volta informazioni cavavano da ciabattini o cenciai pinzocherati. Si vennero formando uffizi diversi di polizia. Se ne stabilì uno in Corte, con a capo certo Faraone, a cui in rimerito la rivoluzione assegnava cento ducati mensili, in quello che niegava al vecchio, probo e dotto Consigliere Giuseppe Maddaloni, dopo i danni di penoso esilio, la pensione di ritiro, dovutagli per antichi servigi prestati alla giustizia, ed alla Monarchia, che singolarmente onorò. Altra èpecie di polizia appiè della Reggia esercitava tra cento sciagurati Paolo Caracciolo di Torchiarolo, non disonest’uomo, ma dappoco, senza pur riguardo all’alta dignità, di che era investito, Capitano delle Guardie del Corpo. Spontaneo uffizio di polizia, diverso per intendimenti é per forma, s’era composto allato della Reggia, sotto il palagio del Principe di Salerno, detto Casina Militarcon a capo il Nunziante, di cui sarà d’uopo fare in progresso speciale memoria, e con giornale sgrammaticante, diretto da un Rota, uffiziale di cavalleria, fellone al 1860. E, non guari dalla Reggia, al principio di Via Nardonesvecchi residui di brigantesche bande ed arnesi di mali affari, come in bottega di mereiaio, davan materia a chi per procacciarsi pane non vedea altro espediente, d’esercitar spionaggio, e di affinare sospetti.

Eran le fonti, a cui lor forza attingeano i più intriganti per isconfortare il Re, disonestare il governo, e rendere per comandati rigori più odiosa la prefettura di Polizia; solo accagionata d’ogni danno allora, e sola selvaggiamente punita al 1860.

Ve man medesimamente suggerite ed accresciute dalle sorgenti stesse le listecosì dette di attendibiliche oggidì han mutato nome di ammoniti;le antiche per sopravvegliare i nemici del Trono, le odierne della libertà. Ogni capitale di provincia avea le stesse consorterie o sette, che si diramavan poscia ne’ comuni; e tutte per diverse vie mettean capo a Napoli. Il Ministero d’Interno era stato assunto, lasciato e ripreso da Salvatore Murena, uomo di mani nette, di non comune ingegno, ma d’ostinate teorie, che il traevano a giudizi d’altre età. Tenea molto alle forme, e ne’ governi ogni ordine egli riferiva a rigida osservanza di esse senz’altro. La politica è prevedimento innanzi tutto. I mutamenti seguiti; altri che ne conseguitavano; l’ospitalità aperta in Piemonte a quanti vi eran profughi in Italia, degni o no; la stampa di Europa; certi disordini non potuti sempre rimuovere ne’ Ministeri di Napoli, mantenuti da favoriti, e per cui si vendea la giustizia; il cicalio delle moltitudini, che anche quando non rimpiangono il passato e talvolta il presente, vagheggian l’ignoto nell’avvenire; la demogagia che inventava Poerio,o il martirio, testimone Petruccelli della Gattina; tutto ciò ed altro agli occhi di Murena parea poco o nulla.

Il tentativo a Sapri di un Pisacane, che i posteriori avvenimenti millantavano patriota focosoed era stato un volgare birbante, per domestiche svergognatezze espulso da Napoli; il mancato regicidio di Agesilao Milano; i consigli di Napoleone III; l’operosità di Camillo Cavour, eran fatti pubblici, che dovean impensierire i Ministri del tempo.

Ma lo spirito d’ipocrisia da lunga mano avea lavorato; e s’ingegnò la superstizione d’aspettar ogni forza dal Cielo, e di riferire a miracolo la salute del Re. Specialmente dopo l’attentato di Milano le mostre di pietà crebbero; si corse con più calca a segnare la sera del pericolo giù ne’ portoni della Reggia il proprio nome; si cantarono nuovi inni all’Altissimo; si manipolarono indirizzi; si diè cominciamento a fabbriche di chiese, affidandosene la direzione a militari ingegneri, ai Ponseca, ai Firrao, ai Guarinelli, agli Sponsillo, e ad altri, che al 1860, mutata maschera, arricchitisi rubando favori sotto i Borboni, il paese vide e patì unitari.

Forme e null’altro in religione; il civile governo assorbito da un partito; rigori esercitati a sospetti e nullaggini; il Re incastellato a Gaeta; e, per odio a luce di stampa, inscienza completa delle condizioni in casa e de’ moti di fuori.

E, per essere infaticabile il genio del male, vuoi bramosia di più stringere in pochi ogni podestà, o presentimento del non lontano fine del Re, temendosi della giovanezza di Francesco, e del sangue di madre, per cui più si congiungea a Casa Savoia, odiata per ciò che si operava in Torino, s’immaginò al Re, già tutto intento a chiusi uffizi di pietà, suggerire pensieri di abdicazione; e contro gli statuti della Monarchia la corona preporre sul capo del primonato in seconde nozze, il Conte di Caserta. Né mancaron cultori della scempia idea; tra i Ministri si sospettò del Murena, e nelle provincie di tre Intendenti, Mirabelli, Valia, e Guerra.

Il Re, avutone sentore, se ne impensierì, e mandò spie ad ormeggiare i più; che se ne mostravan fautori, tra cui Nicola Merenda, che fu poco stante espulso da Napoli e confinato a Messina.

La Regina Maria Teresa fu dagli odi del tempo creduta complice del fatto. Ella potè averne scienza, ma non volontà. Disadatta per innata modestia a splender Regina, la sua ripugnanza anche a festevoli splendori di Corte, se contribù! a più restringere la mente del Re, con gli esempi delle virtù che fan lodevole la donna, ne allargò per altra via il cuore, ch’ebbe pietoso ed indulgente. Ella continuò in casa Borbone gli esempi di domestica santità recati da Maria Cristina di Savoia; e, madre tenera, allorché la corruzione si denudò tutta, piuttosto che vederli pervertiti o codardi, i figliuoli confortò a seguitar soldati Francesco II in Gaeta. Il difetto di numerose e larghe sovvenzioni a disgraziati provato in Napoli dopo il 1860 scopriva il segreto della sua carità; e le testimonianze sopravvenute di non essersi affacciati indigenti all’uscio della sua casa d’esilio senza averne sollievo, sono gli ultimi atti, che la storia raccoglie a sua difesa, ed a sbugiardare ingrati.

A Francesco, venuto ormai in ferma età, si deliberò al 1858 di dar moglie. Tre ritratti di reali principesse il Re si ebbe dinanzi; e fu veduto più volte accennare con desiderio a Clotilde di Savoia, stata poscia principessa Bonaparte. Ma gli si dimostrò pericoloso l’avvicinarsi a dinastia capitanante rivoluzione. E, ciò che valse a più. distogliere il Re, fu il consumato disaccordo di re Vittorio Emmanuele con la Santa Sede. Non s’interrogò innanzi tutto il cuore del figliuolo, chiuso a tutt’altra vita fuor che all’angustissima nell’assegnatagli cameretta della Reggia. La libera elezione vuol scienza innanzi tratto, diritto che mancò e mancherà fatalmente a quanti sono altinati. Niuna delle prime fu dunque accetta. Le ragioni frapposte a sviare l'animo del Re dall’una, non valsero medesimamente per le altre; e, fuori ogni aspettazione, si ebbe Maria Sofia di Baviera; fatata in pari età, sott’altra forma, entrando in Napoli, a provare, dopo secoli, le sventure del memorabile suo antenato, Corradino di Svevia.


vai su


121-140 Il Re s’infermava. S’è poi bucinato

Il Re s’infermava. S’è poi bucinato per veleno propinatogli a mensa dal vescovo d’Ariano nel viaggio, di crudo verno, per le nozze in Bari del figliuolo Francesco. Millanterie liberalesche accolte da credenzoni.

Fu monsignor Caputo un comune malvagio. Non ebbe ingegno, né lettere: non gli mancò tuttavia il tristo dono e fortunato di spirito ipocrite. Frate Domenicano da prima, compostosi a santo s’acquistò le grazie del Cardinal Cosenza, per lo cui mezzo, trasforatosi nell’Episcopato, crebbe in simulazioni tutt’altre che di odio o d’amore a pubbliche libertà. Primo autore di selvaggia reazione ad Ariano nel luglio del 1860, allorché presentì disfatto il Regio Governo, non che a cadere ma a montar più su, si prostrò a Garibaldi. Rinnegati i giurati voti, s’invischiò in tristissimi, da cui si ebbe plausi in vita, conforti nella fine goffamente misera, e laudi dopo morte. E gli diè specialmente rilievo, che durò poco, il pretume scattolizzato, rimasto rifiuto d’ogni culto, e sopra modo dal governo d’Italia punito di odio e di dispregio.

S’ebbe il Re nel viaggio da Napoli a Lecce le ovazioni immancabili a chi regna; le più rumorose a Bari, apprestategli da certo Capriati,d’ordine cavalleresco insignito allora, e per le stesse, volte non guari dopo ad onoranza del regno d’Italia, decorato di altro. Specie di viltà, ch’io accenno a documento de’ tempi. Lungo le vie, dove si avvicinava o fermava il regio corteo, erano fiori e'concenti; di notte danze e luminarie; ed in taluni luoghi uscian schiere di terrazzani insaccati con cerei ed altri emblemi, come si usa ne’ mortori; sostituendo solo al silenzio e alla simulata compostezza l’ipocrisia di festevoli grida. Ed autori di sì fatte commedie erano gl’intendenti, i sindaci, i capourbani, assai preti, ed i più che al 1860, smesso lo spontaneo od uffiziale spionaggio si rivelarono liberali.

Era stato lodevole intendimento del Re di mandare,a tempo commessarinelle provincie ad investigarne i bisogni. Ma traeletti da’ favoriti, che più dominavano in Corte, e trombettati innanzi tempo, le moltitudini non vedeanli, che allo spettacolo di lauti desinari lor preparati da’ preposti disavvedutamente a’ pubblici uffizi. Il vero per sì fatta guisa rimanea in ombre; la giustizia beffata, ed il Re tradito.

Il quale, aggravatosi a Bari, più della paurosa incertezza dell’avvenire sospinse ad affrettare suo ritorno per mare la speranza di sanità. Più angosciato nel tragitto, a celare il progredimento del morbo, toccato appena Portici, il chiusero nella reggia di Caserta. E, disfidato da’ consueti medici, fu dopo lungo dibattimento di cortegiani chiamato Vincenzo Lanza, celebrità della scienza. Ma gli si niegò la veduta dell’infermo in memoria di sue libere opinioni, e del recente esilio.

La Reggia si rendea più solitaria. Solo era un avvicendarsi, un accalcarsi agli usci segreti di preti e di pinzocheri, maestri solerti a vaticinar miracoli. Il Cardinal Cosenza era il desiderato, e forse il solo ubbidito. Il Re raccomandavagli il figliuolo successore; e, dicesi, altresì al Duca Riccardo de’ Sangro, a cui, contrastandosi negli ultimi la veduta del morente, fu d’uopo sforzar l’entrata.

Nato in Napoli dal Duca Nicola e da Maria Giuseppa Carata, sorella del Conte di Ruvo, decollato nelle stragi del 1799, nel contrasto di domestici esempi seguì fanciullo il padre nel decennale esilio de’ Borboni. E, povero per confisca di beni in Napoli, costretto a lavoro, fu fatto entrare giovanetto nella milizia con grado di Alfiere. Ben veduto nella Restaurazione, tra per retaggi di nobili congiunti, e per le nozze con Argentina Caracciolo, Duchessa di Martina, e innanzi tutto per non mai smessa virtù di parsimonia nel reggimento di vita, crebbe in agi, che, vivo, distribuì a’ figliuoli. In estimazione crescente sotto quattro Re, l’animo cavalleresco mantenne più fedele che cortegiano. Il fecero gli alti uffizi apparire, ma singolare modestia gli vietò d’essere potente. Inresponsabile di errori pubblici, a ribenedirne il nome basterebbe l’ultima virtù con che, vecchio e cagionevole, lasciati figliuoli ed agi per seguitar Francesco II in Gaeta, ultimo lembo della Monarchia arso da proietti, vi chiudea l’incontaminata vita.

Il Re, poco stante, tra chiusa costernazione de’ suoi, e le voci di miglioria, fatte uscir dalla Reggia, vuota d’amici, rendea lo spirito. Era un’ora dopo il mezzodì del 22 maggio 1859. Ne affrettò l’avviso dove la paura, dove la bramosia di novità, inevitabili a chi muore principe. Venuto in luce a Palermo a’ 12 gennaio 1810, regnò ventun'anno all’incirca. Avrebbero i casi del tempo ammaestrato a scienza di regno; ma prevalsero principi d’altra età, a lui infusi col latte, ad isterilirne i concetti, da natura in germi prodigatigli fecondi. Di cuore ottimo, s'affidò da prima a tutti; gli parve agevole l’opera del bene, e s'imbatté in tristi. Dopo il 1848 diffidò d’ognuno; la rimozione del male commise solo a Dio; chiusesi, Re ancora, a solitaria vita tra pochi, anche più tristi. Ad essere tipo di privato uomo e santissimo gli fu impedimento la regalità; a rifulgere Monarca gli fecero difetto gli uomini e i tempi, che non conobbe. Per essere, innanzi tutto i principi il risultamento di quei, che li circondano, la scienza gli fu mostra sospetta; i larghi sensi di pietà s’ingegnarono gl’ipocriti di stringere e volgere a superstizioni, l’innata benignità volsero a loro pro, o ad annobilire ingrati. Al 1860, squadernato il volume della corruzione, de’ nemici alla sua memoria la storia segna raccapricciata i nomi di coloro, che più beneficò. Ed in quello che, seguendo il suo uffizio, s’appresta d’immortalizzarli all’infamia, richiama sulla tomba di Re Ferdinando non che indulgenza, ma il desiderio degli avvenire.

Accrebbe la mestizia de’ funerali il proclama del nuovo Re, compilato dal Ministero, confermato al potere. Si sperava da lunga mano nel giovane principe. Non rinnovamento di leggi, non rumorosi Statuti, non radicali riformagioni. Mutare cortégiani che avean isolato il Re defunto; certe troppo note intelligenze e virtù erranti chiamare a pubblici carichi; rompere usurpati privilegi, e per l’intimo collegamento dello Stato e della Chiesa, smorbar questa da’ profanatori, che del sacerdozio avean fatto un mestiere. Parea tutto ciò a’ Ministri intendimento di massonio liberali che dicevano; e la minor novità si dimostrò poter produrre rivolture.

Al Re, allevato e come formato a non veder altro svolgimento di vita, fuor che il rappresentato da’ pochi, che il circuivano; le condizioni di casa, il lavoro del Piemonte, i moti generali d’Europa rimaneano tuttora ignoti. Asceso al Trono in età pari al genitore, gli era minore in intelligenza, che le occasioni maturano. Il superava per avventura in istudì più riposati; ma l’Europa non era più governata co’ principi di Grozio. Il diritto è immutabile; ma le maniere o forme con che va applicandosi, non restano; nel modo che la materia serba sua essenza, mutando tuttavia i modi di essere. Le morali leggi del mondo seguono il destino stesso delle fisiche; ed i rivolgimenti sono trasformazioni, connaturate a tutto. Possono allentarsi, indugiarsi nel modo che la scienza combatte i morbi; vincerli non mai. È nelle trasformazioni, che più rifulge l’azione della Provvidenza. Tutto l’uomo è una trasformazione; e allorché stranamente ci si sfigura e sparisce, la morte è principio d’altro modo di essere o immortalità. Si trasforma la famiglia per nuovo innesto di sangue; si trasformano i popoli; si trasformano gli umani instituti. L’immutabilità ripugna alla creazione; ella è solo nell’essenza di Dio.

Il primato civile la storia ci testimonia traverso } secoli appartenere quando ad abitatori d’una regione, quando a popoli di altra. Non ci ha esempio di politici splendori rimasti durevoli. È la legge di compensamento a tutti distribuita. La barbarie ha stanza dove prima ai ebbe culla la civiltà. Tra i residui di nazioni state floridissime in Europa vi han, tra individui, animi che durano superstiti con coscienza di ruine immenso. Greci innanzi tutto e Italiani sonosi mostrati ripugnanti alle mutate sorti del mondo. Nuovi Prometei han sentito l’inesorabilità della forza, senza rassegnazione a’ destini che trae. Ne’ fatti ultimi di Grecia, salvo i miracoli di coraggio e di pietà di Suli, di Parga ed altri singoli; non trovi che tracce interrótte di virtù antica. In Italia, caduto il mondo romano, niuno potè mai durare nell’opera di farne un soh Reame. Due grandissimi, puniti in vita ed onorati dopo morti, espressero variamente l’alto concetto dell’italica unità, Dante e Machiavelli. Ed all’età nostra il riproducea sott’altra maniera Giuseppe Mazzini, difendendolo con eloquenza, che rivela il sentire di un animo incomparabilmente agitato. La stessa unità politica, ma risultamento di Stati Uniti in Italia, più conforme alle stirpi diverse, alle tradizioni, e alla storia, altri ingegni e più numerosi han propugnata a’ dì nostri; tra cui Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti, e ogni altro il più rotto a pratica d’ogni laudabil cosa, Cesare Balbo.

Ma combattutone il concetto da interessati a voler ne’ governi l’immobilità, temuto o non udito, da principi; i mostrati rigori alla parola, che il dava fuori, ne venner accrescendo il pregio, e la ricerca d’ogni congiuntura per vederne il trionfo.

A cotesta unità dava occasione dopo il trattato di Parigi, al 1856, la vittoria de’ Francesi in Italia nel 1859. Dei generosi concetti, ove gli uni non si curino, i più desti si giovano. Sì fattamente van le lustre di libertà assunte spesso dai più, che ne sono indegni, e le più seducenti voci trovi sulle labbra di conquistatori. Luigi Napoleone scorgea per avventura in federati Stati italiani occasione di dar principato ad alcuno de’ suoi; e Casa Savoia nello stesso trattato di Zurigo nuovo modo d’ingrandimento di regno. Un uomo destissimo per istudi e senso pratico del civile reggimento de’ popoli, infaticabilmente operoso, un di quegli uomini, che autore o presente a tutte specie di pubblici moti, padroneggia il magistero di rivolgerli a suo pro; un Napoleone I senza il guerresco genio, ma gli sarebbe soprastato in quel de’ maneggi; pari arso d’ambizione, men largo in concetti, ma più accorto, Camillo Benso, conte di Cavour, sovraneggiava in Piemonte dopo i disastri di Novara, governando moralmente in Italia tutti gli spiriti irrequieti.

Avea, giovane, lavorato nell’Armonia, giornale di rigidi principi d’ordine. Non trovando uscita a sue brame; modificò concetti e mutò insegna. S’atteggiò ad oppositore in piazza con democratici artifizi, che gli apriron l’Assemblea. L’aura popolare e la facile parola gli agevolaron l’entrata in Ministero; gli diè il forte ingegno la potenza di maggioreggiare in tutto; e congiuntura felice a capovolgere man mano i già guasti governi d’Italia, gli fu la corruzione degli uomini, che potè a sé trarre, ed avviare a ciò che parve impossibile.

Napoli gli offriva al lavoro, che mantenne indefesso, materia ampia. Non pago della Lombardia, l’animo degl’Italiani slargò a desideri più lati. La guerra avea aggiunto al Piemonte ubertose provincie; dovea la rivoluzione aggiogare il resto. A porre in atto la confederazione dei vari Stati bastava l’accordo de’ principi, che mancò; ed a lui parve maturo il tentare altra unità politica. Egli preferse, per darle più tardi forma a senno suo, la radicale idea di Mazzini, che blandì secondo la natura varia degli uomini; i quali dal carcere e dall’esilio, testimoni i Gallenga, i Melegari, i ViscontiVenosta ed altri, seppe tradurre in regi saloni, fragorosi di concenti e di danze. Far tesoro d’ogni odio, e molto ce ne avea, raccorre ed ospitare profughi, colorire di gai colori a ciechi o no il simulacro d’italica unità; a cantori vendevoli, ai Prati, ai dell’Ongaro, commettere la consueta recitazione. di liberaleschi inni; accendere la fantasia delle plebi, le speranze di falliti, svegliar propositi di vendette ed istinti di ladronaia;. a questo ed altro egli potentemente lavorò, confortato dagli accordi di Plombiers, e dallo studiato concetto in libri di caducità apposta a tutto ciò, che è o par vetusto. Navigatore egli fu, che anche in mar pacifico invoca i venti a rischio di aver tempesta e di rompere.

Non potea la voce de’ primi moti non percuotere l’animo dell’inesperto Re. Gli parvero allora, forse la prima volta insufficienti i confermati Ministri, e volle tosto ne’ Consigli a primo Ministro Carlo Filangieri, illustre nome sin dal 1813 nelle guerre del tempo, e figliuolo di più chiaro padre. Il quale v’entrò animoso, e molto ei disse delle malagevoli condizioni del Regno. Ma, sospetto poco stante o temuto, se ne indispettì, e s’appartò dalla Reggia, preferendo alle apprestate lotte gli ozi di Sorrento. E riapparvero alla sua sparizione, protagonisti, i credenti ancora alla fermata del sole ed all’immobilità della terra. Si diè corpo al solito spettro delle sette, nulla sì notò delle mutate condizioni pubbliche; un Pianell, fatto,capitano in fasce e Conte in nozze, con nerbo di fanti e cavalli s’inviò a sopravvegliare i confini negli Abruzzi; a più svegliare l’amor dell’esercito si aggiunsero onoranze vane; e nulla per le moltitudini, già scosse da’ primi moti, frodate in isperanze ed avide di novità. Ed in questo, Giuseppe Garibaldi, con mille agguerriti da Cavour e d’ogni lato incoraggiato in mare da Inglesi e Francesi, prospettando milioni, che l’aspettavano, vincitore sbarcava a Marsala.

Una dominazione in città più che governo; v’era in campo numero e non esercito; e nell’armata navale un’accozzaglia di uffiziali, più bellimbusti che soldati. Dal fanciullone alfiere, di fresco uscito di collegio, al vecchio capitano imbellettato ed armato, traeletto al primo comando della nave in bonaccia, tu non vedevi che mozze effigie, nature incomplete d’uomini sol vaghi di splendere, la mercé di que’ Principi, che dovean più tardi abbandonare e tradire. Un Amilcare Anguissola, avea per antichi benefizi de’ Borboni tronfio ed ignorante, potuto beffarsi dello spregio pubblico e montare ad alti gradi nell’armata. Prepotente, fu più volte veduto eludere giuridiche ricerche di creditori implacabili, e schivare il carcere per sovvenzioni venutegli dal Re. E parve in Corte sì fido, che a lui dopo il 1848 era stato commesso il comando della nave al servigio del Re. Indovinò a’ primi rumori il pericolo soprastante a’ suoi benefattori; sperò avventure a sé più prospere, ed il primo nell’armata diè l’esempio d’accelerarne la ruina. Smise a modo dell’impensato, che dà il tradimento, la vecchia divisa, ed altra assunse; che i vincitori, servitisi di lui e misuratane tantosto la viltà, gli strappavan non guari di dosso, gittandolo al così detto riposo. Ed ebbe, che ne ormeggiaron poco meno i passi, in servilità prima e nella tradigione poscia ed oggidì in comunanza di destini, altri; che, per troppo in numero affollarsi nella mente, anche in idea temendone come contagio, la mano sdegnata ricusa di qui segnare.

Non guari dissimili le condizioni erano dell’esercito. Traevasi l’ufficiliato da Collegi aperti a privilegiati, dalla Compagnia delle Guardie del Corpo a cavallo, zeppa, salvo singolarissimi, di nobili dissoluti, e da certo terzo disponibileche diceasi serbato al Re, e ne disponeano i maneggi. Non istinti né genio ne determinavano gli eletti; era la milizia un espediente ad avere un soldo. Il generalato dava il tempo; l’acceleravan tal volta le più seducevoli apparenze. A’ potenti nelle province era agevole governare a lor modo il sorteggio di leva; ed erano poveri contadini, eran braccia menomate al lavoro, i predestinati a sostenér l’esilio dei lor focolar; e, ciò ch’era peggio, tra gli ozi di pace a patir più delle asprezze di guerra i rigori di capitani insolenti. La striscia di sangue che dall’estrema Sicilia va segnata sin dentro Gaeta, fu dei figliuoli del popolo. Veggonsi tuttora uomini dalle braccia o gambe monche, dagli occhi ciechi, immaturamente invecchiati, trascinarsi a stento per le pubbliche vie in isperanza di generosi, che lor porgano un’elemosina. È il vae victisdi Tacito, che colpisce i caduti, e percuoterà domani, pel ritorno che non resta tra gli uomini di colpe e di sventure, i vulnerati di sociale egoismo, i rimuneratori delle infamie.

Reggeva la Sicilia un Ruffo di Castelcicala, figliuolo di vecchio diplomatico, che avea seguitato il Re Ferdinando in Sicilia ne’ primi rivolgimenti del secolo, e avutone poscia compenso in alti uffizi in Corte ed ambascerie fuori. Uomo di fede, non parve tuttavia aver del mondo altra scienza fuor ciò ch'ei traeva da’ fortunati, a cui era uso aprir gli splendori de’ suoi saloni, o da bassi intriganti che vi si cacciavano per venire in potenza. Un Ministro pel governamento della Sicilia da più tempo s’era in Napoli aggiunto ne’ Consigli della Corona; e n’ebbero spesso il carico riguardevoli uomini. Ma si deliberava sulle relazioni del Luogotenente, che cavavale a sua volta da labbra di gaudenti, interessatia scontorcere il vero. Mancò a’ Siciliani, tra leggi ottime, l'accorgimento dei preposti a reggerli. E le moltitudini erano in condizioni di chi pur tra il soverchio presentendo calamità, e per istinto di salute vagheggiando il meglio, s’appiglia al peggio.

L’invasione di Sicilia, agevolata da tradigione del general Landi e codardia di altri, il Re svegliò a maturi consigli. Vide al montar della marea la doppocaggine de’ timonieri; e dalla solitudine, in che incuria o sospetto aveanli confinati, furon tantosto invitati alla Reggia parecchi notabili; tra cui Giuseppe Ferrigni, stato molti anni in magistrato, dotto ed integro, uomo, in odio ai tempi per liberi sensi. Ma, o per presentir disperata la salute della Monarchia, o per non fidarvisi ormai più dopo la reazione del 1849, o, memore dei patiti oltraggi, a volerne aver vendetta, ricusò d’andarvi, e fu gran danno. V’andò, chiamato, Antonio Spinelli di Scalea tipo d’uom privato, modello di cavaliere, di gran dolcezza di modi, ma irresoluto. Al soprastar de casi, presidente nei Consigli, s’affidò a compagni variamente, e ne riuscì naufrago. Un Carlo de Cesare, in fama di economista, fu deputato alle Finanze. Disleale e sconoscente, estimò nei pericoli tornargli più conto, Ministro ancora, porger di soppiatto mano alla rivoluzione; e fu abietto traditore. E tra gli affollantisi nel frangente, in Reggia e in piazza, a torre e smettere maschere, a volere e disvolere, a puntellare la Monarchia e a demolirla, a giurar fede al Re e blandirne i nemici, a proclamar libertà e proteggere la licenza, a spiare ogni moto a strisciarsi da per tutto; impaurire all’inoltrarsi di Garibaldi ed allestirsi simultaneamoate a farne l’apoteosi; niuno dei nati e vissuti a solo seguitare in ogni moto i prosperosi venti, vinse in codarda iniquità Liborio Romano.

Nato d’oscuri parenti in borgata di Terra d’Otranto, sarebbe anche più oscuramente vissuto, se casuali cure di poveri preti non ne avessero il desto ingegno a più alti studi svegliato. Ne’ Tribunali di Lecce va primamente segnato il nome suo; e ne’ registri del Ministro Canosa pe’ moti del 1821 ha l’aggiunto di ribelle, che vuoisi esplicare costituzionale. Le persecuzioni, trabalzatolo in Napoli, gli aggiunsero certa rinomanza, che gli giovò a far quattrini in avvocadura. Al 1848 per maneggi di clienti Deputato nell’Assemblea, pel dubbio correre degli avvenimenti non fiatò. Gli diè nondimeno carcere la reazione e poscia esilio, che non guari durò per non mai restate supplicazioni al Re. Composesi, tornato in Napoli, a fedele suddito in quello che si tenea di soppiatto politico martire co’ suoi pari; che all’irrompere de’ moti gli apriron l’adito al maggior potere. E sbirreschi istinti, più che elezione o consigli di amici, il trassero tontosto al magistrato di Polizia.

La storia vuol pure suo coltello anatomico. Non vi ha dopo il 25 Giugno del 1860 notabile fatto, a cui il nome di cotest’uomo non vada congiunto. Per modi proteiformi, che gli avea aggiunti a natura arte di curiale, a lui si affidava il Re, il seguiano i Ministri, lo estolleva cert’aura di reggia e di piazza. Tu il vedi volgersi con magistero unico alla piega de’ moti, e solo sovrannotare a tutto. Vuol salva la Dinastia, se gli par Garibaldi fermato in suo. cammino; scalzala sfrontatamente allor che più s'accorge d’invader vincitrice la corrente de’ successi opposti. Detta proclamazioni e articoli in giornali di salutevole temperanza, in quel che turbe di assassini assolda ad aggredire pubblici uffizi di sicurezza. Ne rampogna i rigori, compiange le vittime; ed i vuoti seggi istantemente ingombra di volgari scellerati. Prodiga speranze e conforti a timidi cortegiani, ed a’ costituiti di fresco in sette, che irrompono in sua casa, promette uffizi e favori sulle ruine di quelli. All’anarchia, che paralizza ogni calcolo, oppone argini di reazione; incoraggia i più irresoluti ad accrescer scompigli. Scusa ed abbellisce al Re i più che rumoreggiano; apre ai più audaci l’animo ormai perplesso del Re, e lo calunnia. Non gli par bastevole lo Statuto del 1848; egli è dei primi a caldeggiar nulla ostante il concetto di federazione; ed in quel che consiglia a mandar per lega in Torino, invia spioni a tastar Garibaldi. Sconcerta in Corte i pochi amici; di cospirazioni contro libertà li pinge artefici alla piazza; blandisce a Mazziniani tutte avventate idee; getta tra comitati i primi germi di dualità; pone dissidi, lavora a tutto mescere, e si crea sì fattamente Ministro dell’Interno.

Ma gli è effigie, che scolorasi di rincontro ad Alessandro Nunziante. Nato da quel Vito, stato non oltre che gregario nelle guerre del decennio in Calabria, s’ebbe nel paterno esempio incoraggiamento ad estimar durevoli i capricci della fortuna. Ne avean fatto un nobilei privilegi; ne fecero i mali ordinamenti dell’esercito un generale. Gli accrebbe cupidigia di più montare la Corte; il consorzio dei più tristi ne immalvagì più l’indole. Potentissimo, dicesi avergli il Re Ferdinando conferito mandato di frammettersi a’ liberali per spillarne i concetti. Onde, spione deputato presso costoro in tornai che il mestiere potea accrescergli arroganza, dovea, per difetto di convincimenti averne contagio d’idee e rendersi loro strumento al volger de’ casi. Considerò i soprastanti pericoli, indovinò la forza della rivoluzione; il ferro nell’imbelle orfano portogli da benefattori ciechi rivolse contro di loro, e si rivelò unitario.

Dannogli del settario; ma non ne avea l’ingegno: il dicono traditore; ma gli è mancato il cuore di uccidersi, in quel che guarda istupidito nel regno d’Italia che il ripudia, l’esiliò della Dinastia, a cui è un rimorso, e l’odio del paese, a cui rimane un’onta e peggio.

Giuseppe Mazzini s’era tratto in Napoli, e teneasi tuttora a modo di profugo appiattato in modesto albergo. Se ne impensierì il Marchese di Villamarina, Ministro Piemontese accreditato presso del Re, ed operoso artefice di rivoluzione. Ne diffamò tosto i concetti, e gli rapì seguitato». A vincere idee, o piuttosto cupidigie nelle rivolture, sapea di non occorrere ragioni, ma posti profferii ad ambizione ed a fame. Liborio Romano, sgomberando municipi, dava modo a plebi mal nate d'irrompere le prime e gli uffizi occupare. Erano lo sottointendenzeed intendenzescala a montare dei più scaltri, con millanterie di martirio, che non mai patirono. Uomini oscuri, senza ingegno, senza cuore, prole i più di stati spie e spioni anch’essi, i supplicatori in ogni tempo di grazie, si cacciavan da per tutto, dov'era un pane a ghermire, un agio ad accrescere, una fortuna a promettersi, una vendetta a compiere.

Stremata la regia Autorità; solerti i Ministri di Francia e d’Inghilterra a screditare gl’intendimenti del Re; inerti o non creduti gli altri Diplomatici; non avea assoluto imperio che la brama di annessione al Piemonte, vanamente contrastata da inermi; e da Mazzini vaticinante, negli annessori, ladri e gabellieri.

Si diè comando di arrestare e bandire Mazzini; e si creò il Comitato d’Ordinecon a duce Silvio Spaventa. La bassa forza; potere esecutivo del Comitato, spartita per rioni, capitanava certa femmina, Marianna de Crescenzo, detta la Sangiovannara. Il primo comando de’ camorristis’ebbero parecchi, tra cui un Mele,che trucidò in pien meriggio un disgraziato ufficiale della vecchia Polizia, e fu in progresso a sua volta, lui già potente nella nuova, simigliantemente pugnalato e morto. Erano i camorristispecie di setta importata da Spagnuoli; ladri tollerati; il volgo stesso sotto i Vicari assoldato a misfare, o far terrore; e nel frangente i nepoti delle plebi, che al 1799 in piazza del Mercato appiè del patibolo del Marchese Palmieri e della forca di Mario Pagano, condannati per diversi intenti, s’affollavan plaudenti al carnefice in alto, mostrante, tra le grida il sacro capo dei morti.

E a sì fatti commetteansi uffizi di libertà.

I Intento ad accelerare annessione,opera precipua del Comitato d’Ordine,isolato Mazzini in piazza, si fu d’isolare il Re. A comperare irrequieti e volgerli a suo pro, gli giovò presto il denaro somministratogli, Dio sa come, da Nicola Nisco, a cui si era da Cavour aperto credito presso il de Gas ed altri banchieri in Napoli. Non gli parve agevole la fatica di vincere nel modo stesso i pochi amici tuttora rimasti in Corte. Si era lavorato a suscitar reazioni; e furon le prime lotte di lazzaroni e di bersaglieri Piemontesi, fatti scendere da navi Sarde ancorate in porto, ed opportunamente avvinazzati. Non si potendo accagionarne il Re, già tutto come consegnato a Liborio Romano, se ne incolpavano i singoli e più modesti, rimasti in Corte; tra cui il principe di Scaletta, Vincenzo Ruffo. Il quale, anche a dar pruova di non tollerarne anche il sospetto, confortato di lasciar la Corte, ne partì immantinenti; e volle il Re, che la principessa sua moglie, insigne dama di compagnia presso la Regina, ne seguisse non guari dopo medesimamente i passi in Roma. Potea il principe di Scaletta, nell’alto uffizio di Capitano delle Guardie del Corpo, remoto da civili brighe, non desiderare novità nel Regno. Ma aveale accolte, e si apprestava a confermarle in opere il Re; e ciò gli era bastevole. Calunniato dagli uomini del Comitato d'ordine,dovea più tardi per facili giudizi sulla virtù, quand’ella è fuori occasioni, non poter schivare dicerie a suo carico di coloro; che, senza pur traccia di volontario esilio, protestazion viva contro i successi, sol fede politica estimano i vantamenti fuor le intrigate sociali attinenze. Il Conte Francesco La Tour ed il generale Ferrara, d'incorrotto nome, latori di calde istanze del principe di Scaletta a Gaeta, di voler condividere ogni pericolo, n’ebbero, apprezzandone il Re l’antica fede, diniego che credè prudenza. La tricolore insegna su Torre d’Orlando, come ne’ giorni ultimi della Reggia in Napoli, in faccia a rivoluzione armata dovea pur serbarsi libera da sospetto di coprire notabilità, in parosismo di passioni mal estimate. Essendoché è il tempo, che più serenamente giudica i nati e serbati alti nella vita degli Stati.

Le bande di Garibaldi, in nome di Vittorio Emmanuele, lasciando, dietro e ad ambo i lati, soldati traditi, invadeano il Salernitano. Nella già percorsa Lucania, anche innazi al sollevamento delle Calabrie, s’eran formati provvisori governi, con averne podestà uomini senza nome, o i più comuni malvagi. Dava contingente a ringagliardire ogni opera, nelle provincie il corrotto clero, ed in Napoli i fuggenti da lunga mano episcopali rigori per mal costume e peggio. In Ariano il vescovo Caputo, come dissi, avea iniziato reazione, che mancata, il volse ad altro, e crebbe il disordine. Il Conte di Cutrufiano in Napoli, soldato manesco ed avventato, ma devoto al Re, immaginò ordinar forze non a reagir nel frangente, ma ad abbatter l’invincibile; la già diffusa corruttela di dentro, l’odio operoso fuori di nemici coperti e potenti, Napoleone e Palmerston. Ed un’essenza d’uomo reissimo perdurava, strisciandovisi, tuttora in Corte; che, a spiare e riferire i riposti sensi dell’animo del Re, fu della rivoluzione il più dannoso elettrico filo; Roberto de Sauget.


vai su


141-160 Solitaria, e nondimeno non vuota

Solitaria, e nondimeno non vuota affatto la Reggia. Il Re s’apprestava a partire; fu da prima suo pensiero; osarono alcuni fargliene istanze; era ne’ desideri de’ suoi nemici. Di tanti servi ed amici gli avanzavano i pochi, che la disavventura discopre. Commendati collettivamente ed in astratto dal Persano Diario,vuol debito storico, che se ne notino gli onorevoli nomi. Ed erano, il principe del Cassero, il principe di Montemiletto col figliuolo, duca di Popoli, il Marchese Michele Imperiale, Nicola Donnorso Marasca, duca di Serracapriola, il barone Giovanni Giraldi, il barone Rodinò di Maglione, il vecchio Cesare, Arao, il Duca della Regina, e singoli altri. De’ Ministri singolarmente incorrotto s’era serbato il barone di Letino, Salvatore Carbonelli; ed un altro, a comporre in supremi istanti nuovo Ministero se ne aggiungea con firma del dimissionario Antonio Spinelli, il magistrato Pietro Ulloa, fratello di Girolamo e di Antonio, già illustri nomi; il quale nella congiuntura, la rinomanza che veniagli dalle doti d’ingegno volle sopravvincere con altra più mirabile, che gli era da lungo esercitamento di virtù fatata.

Partita la principessa di Scaletta, due, a lei pari in virtù, matrone rimaneano presso le costernate Regine, e le seguiano in esilio; la duchessa di S. Cesario e la contessa Statella, ambo figliuole di quel Marchese Borio, ohe più d’ogni altro censo, nobile retaggio a’ suoi lasciò nella memoria dell’onorato nome.

A di 6 Settembre 1860, al cader della sera, Francesco II con la Regina, per esserne gli. altri già partiti, traevasi dalla Reggia alla sottostante Darsena, ed entrava in nave apprestata. l’ormeggiavano tuttora, per abbandonarlo tantosto, traditori Ministri; e il de Sauget, non ancor discoperto gli era allato a profferir consigli di guerra oltre il Volturno. Il duca Riccardo de’ Sangro s’era non guari scommiatato da' figliuoli, confortandoli ad estimare nella sua partenza il debito che, soldato e cavaliere, legavalo a Casa Borbone; seguiva con presenza d’animo il Re, e modesto come ne’ giorni non sinistri. Medesimamente Emmanuele Caracciolo, duca di S. Vito, il generale Ferrara; e pochi ed ultimi servi di Corte. Era in Napoli un nuovo e grande scompigliamento. Moltitudini di cittadini s’eran come costernati sparsamente raccolti lungo il Molo, e tutti intenti al porto militare dove sapeano dover intervenire alcun che d’inconsueto. In molti era per fermo affetto, che colà li menava; e nei più l’indefinito istinto, che ci trae l’animo a guardar ciò che ne’ tempi è, o ci pare sconosciuto. Né mancarono, allor che la nave mosse, a rompere il silenzio e le prime tenebre, alte e confuse voci di auguri, frammiste a pianto e sventolar di bianchi cenci. L’incertezza durava ancora; e seguitò nella notte, finché, fatto giorno, un medesimo grido n’andò di Francesco partito, e di Garibaldi in possesso.

Si denudò la generale corruzione il vegnente dì. Nascosti o fuggiti gli onesti; quasi tutti, salvo singolari nomi, tra’ quali il Consigliere di Corte Suprema Falconi, ed il Presidente del Tribunale di Commercio, d’Andreana, che si dimisero, i posti in uffizi, plaudirono, finti o no, all’ingresso di Garibaldi. Dalla reggia, che sfamava settecento impiegati,alle migliaia in ogni amministrazione, chi per serbare il soldo, altri per ingrandirlo, chi per paura, tutti da codardi istinti, da vecchia usanza di vivere doppi, o da calcolo dominati, non sapean più che fare per cacciarsi in grazia di chi vincea. Mostraronsi solleciti a meritarne i favori i più beneficati da Casa Borbone. Un Sabatelli, a generalato di Marina assunto nel modo che davano i tempi, per mercanteggiati concedimenti di fornisure già opulente e suocero di quel Giovanni Manna, che, mandato per lega a Torino, trafficò per sé, e sen tornò con grosso uffizio nelle Dogane di Napoli; un Quintino Guanciali, poeta arcadico, tratto dal Ministro Santangelo a buona mancia in Ministero, caro ai tempi per assumere in tutte chiese forma di pinzochero, surse anch’egli in lingua morta al offrire suo inno: de unitate italica.Ma occorrerebbero larghi spazi a segnar nomi di quanti ingratitudine o ipocrisia, svelò dispregevolissimi.

Il primo decreto suggerito dal Comitato d’Ordinee voluto da Liborio Romano, passato senza interrompimento da Re Francesco a Ministro del Dittatore, si fu la destituzione di ogni uffizio, che davangli le lettere, di Francesco Bozzelli. Si apoteizzò l’assassinio; si diè mancia, che durò poco, a’ congiunti di Agesilao Milano; si profusero largizioni ed onoranze a disertori e furfanti; si commise a nobili scaduti e famelici il governo della Real Casa; per cui s'iniziò più tardi, e fu interrotta, processura a carico di un Marchese Salluzzo, diversissimo dagli onorandi del nome stesso, i Duchi di Corigliano; e le moltitudini s’intese tosto a vie più uccellare con isminuir balzelli, stati in progresso esiziali e maledetti.

Un cerusico di Liguria, Agostino Bertani, s’era allogato presso il Dittatore. Riconfermato alla Finanza Carlo de Cesare, che niegò al suo Re, di cui era Ministro, ultimi rinfranchi a fronteggiar la rivoluzione. Mutati i reggitori de’ Banchi, e la Cassa di Sconto affidata a certo Libertini di Lecce. Preda più agognata erano i Ministeri; a cui carpire s’accalcavano i più ambiziosi, scesi giù di Torino con rabbia di fuorusciti, con vantamenti di politico martirio, con millanterie d’illustri nomi, con boria di vincitori. E nel complesso dipinto del giorno giganteggiano, tra i mille, le figure di Raffaele Conforti, di Pasquale Mancini, e di Giuseppe Pisanelli, triade curiale. Mercadanti Svizzeri e Liguri, venturieri da lunga mano fermati in Napoli a trovar fortune; i calabresi Arlotta, stati da prima non più che ambulanti venditori di cereali in pubblici mercati, doveano alla lunga pace dopo la Restaurazione ed ai facili favori loro accordati dalla Regia Cassa di Sconto i loro grossi guadagni, e certo lor credito punto punto montato; certi Cassitto, terrazzani di S. Pietro a Patierno, ed altri più o men noti, più o men beneficati da’ Borboni, si rivelarono loro nemici. E mostrò suo contingente alla rivoluzione la Borsa di Napoli, immemore di giovar solo, e precipuamente a’ commerci, l'ordinato e pacifico trionfo delle nuove idee; le violenze paralizzare il calcolo ed agevolar le ruine. I trionfali carri, usciti di Borsa a dispregio de' Borboni, schiacciavan poco stante sotto le lor ruote i più, che n’erano stati artefici dissennati e malvagi.

A percuotere i vinti più diffamatrice si levò la stampa. Un Jacopo Bozza, straniero e beneficato da’ Borboni, un Marco Monnier, stato lungamente sensale in Alberghi, un Bianchi Giovini, venduta l’anima quando a Mazzini e quando a Cavour, con codazzo di Napoletani, prole i più di beneficati o spioni, ne furono i primi ministri. Da’ codardi s’appartò un solo; e sin dal primo rompere della rivoluzione mostrò malagurata potenza d’ingegno e di parola. D’umili natali, a sfolgorar tutto esaurito ogni modo, colorì ed esercitò la bestemmia. Una fantasia di fuoco arse tutto; esagerò il bene e il male. La sua parola era più senso che ragione. Il diniego e il culto, lo sconforto e la speranza, furono le alterne contraddizioni, tra cui fortuneggiò il suo spirito. La piena delle idee non diè misura al suo genio; e gli fu d’intoppo a riposatamente venirlo conformando a grandi esemplari, ed apparve monco. Dalle lettere dimenticato, riman tuttavia non ignoto alla storia della rivoluzione, a cui fu istrumento e flagello. La Pietra Infernale, la Plebe,il Popolo,la Soluzionesegnarono le trasformazioni e spesso i più compassionevoli patèmi della sua anima. Il primo in Napoli a scalzare i riposti intendimenti di coloro, che avean tolta liberale divisa, ed i maneggi de' più scaltri a comporre la forza, che s’è poscia nomata consorteria,e forse il solo, che, in calamità a lui sopravvenute, richiesto dal Prefetto d’Afflitto d’odioso uffizio, l’oltraggiatore Marchese chiamava dinanzi a’ Tribunali a render conto del mancato pensiero. Ed in questo moriva immaturo ancora, rotto ma pur forte di cuore, Giovanni Gervasi.

Il Re valicava come irresoluto ne’ silenzi della sera la quieta baia di Napoli; e, spuntato il Capo Miseno, s’imbatteva in regie navi, affidate a capitani, che alle coste di Sicilia e Calabria avean agevolati i leggendari miracoli di Garibaldi. Non risposero a ripetuti segnali di volgere altrove; e il Re proseguitò la solitaria rotta per Gaeta. Solo era poco stante aggiunto dalla Partenope,nave veliera, disertata dai suoi ufficiali, fuor ohe dal Colonnello Pasca, che ne aveva il comando. Dettava il Re, giunto in Gaeta, a’ soldati che si racooglievan oltre il Volturno, un memorabile ordine del giorno,. confortandoli di lottare ancora per la salute della Monarchia. I presidi di Napoli consegnati al generale Cataldi, fuor che il Castello dell’Ovo, comandante il vecchio Maggiore de Torrenteros, che si dimise tosto, furono fellonescamente ceduti. Il Castello di Baia, custodito da pochi veterani, serbossi in fede; e rispose, coraggiosamente, finché sovraccarico di pericoli si arrendé con patti onorevoli.

Non avea, partito il Re, l’invaso Reame sol faccia, di sforzato paese. Tutto avea prospetto di luoghi, dove esempi di terrore e di pietà, di assai viltà e di rara grandezza, s’alternavano a più denudare la multiforme corruzione, la scarsa, e però più lodevole virtù.

Raccoglievansi. oltre il Volturno assai fedeli soldati. Il colonnello Achille Cosenza, aspettato in progresso dal nuovo governo a lungo è penoso carcere, tuttocché abbandonato da uffiziali sbandatori di cinquecento cavalli, s’era dalle' Puglie con appena residui condotto presso del Be. Le piazze di Capua e di Gaeta si riempivan. d’animosi, intolleranti, dopo il successo del 19 Settembre sotto Capua, di più oltre indugiare. Avea il Be commesso il governo della guerra a uomini di provata virtù. Francesco Casella, Antonio Ulloa, Giosuè Ritucci, Giovanni Balzano, Gennaro Marulli è singoli altri avrebbero in pari rincontri, come ne’ forti ultimi del Regno, emulati Carlo Filangieri e Paolo Pronio, indimendicati nomi. Ma n’erano più disastrose le condizioni; e la coscienza di sentir loro mancare ogni prestigio sopra soldati, a cui le fellonie di altri tutto rendea sospetto, e certa pur irresolutezza del Re, sopraffatto da impensati casi, contribuì ogni incertezza a volger in peggio.

Tra i giovani, i più recenti studi, ardore d’istinti e di età, eran stimolo a distinguersi. Avean nondimeno d’uopo di libertà di comando a propositi audaci, spesso sì proficui in guerra. De’ quali, per coraggio in difficili pruove e poscia per decoro serbato in condizioni di vinti non pochi si mostraron commendevolissimi: il colonnello Tedeschi, i fratelli Gottiger, i due Ossani, i Guandel, Davide Vinspeare, Mariano Purman, Giovanni de Torrenteros, Giuseppe Iovine, Raffaele del Giudice, Ferdinando Frezza, Carlo Corsi, Federico Piolen, ed altri che non ricordo; e a cui, vivi o morti, per gli angusti confini del lavoro chiedo indulgenza di non riferir qui l’onorato nome.

Buona la soldatesca; e la reclutata nel contadiname punto' sdruccevole ad usanze, che traggono ad indisciplina o pigrizia. Vi avea cuore, quanto non ve n’era stato, lontano il Re, da Marsala a Capua. Sol vi mancava, malagevole a comporsi in viluppi strani di casi, certo supremo accordo, certa ben definita unità di comando, che regge lo spirito degli eserciti e li mena alla vittoria.

Rompere numerosi gruppi nemici, sol prestigiati da voce ed esempio d’audace condottiero; e marciar 'difilato sopra Napoli volea essere l’unico compito. S’indugiò; si discussero strategiche teoriche; s’ingrandì il nemico, e volle far prevalere ciascun generale il suo pensiero: che accolto in parte e congiunto ad altri opposti, disunendo ogni concetto, capovolse il successo. Misconosciuta poco stante la propria vittoria, si diè agio ai garibaldini d’apparir forti fin nello sterminio.

La corruzione, i facili aiuti porti loro dal Piemonte, il difetto di unità di comando, che trae ad irresolutezza di proponsiti, aveanli incorati dopo il 19 di Settembre a riprendere le posizioni in faccia Capua. Vi avea intorno a Garibaldi certo nucleo di generali avventatissimi, tra cui un Bixio, un Tùrr ed altri di più barbaro nome. A costoro si accodavano parecchi Napoletani, i più beneficati di Casa Borbone, Cesare Gaeta, Eugenio Locaselo,i figliuoli del noto de Sauget, Nicola Somma del Colle,ed altri eran là a dare indizi, a dirizzar colpi che dovean affrettare l’agonia della Monarchia. Il Re avea raccomandato a Clemente Fonseca, generale e Direttore del Ministero di Guerra, di salvare nel frangente ciò che avanzava di attrezzi guerreschi, e di spedirlo a Capua. Era stato costui ben voluto da’ Borboni sino all’ingiustizia. I più costosi e non di rado disutili lavori erano stati, per arricchirlo, a lui principalmente commessi. E, sopraggiunta l’ora del pericolo, al Re, che aspettavalo, osò rispondere, scrivendo di proprio pugno, non voler oggimai riconoscere altra sovranità fuori gl’idoli della rivoluzione. Non indugiò la giustizia di Dio a meritamente retribuirnelo. Tolto da morte pessima agli sguardi di quanti aveva avuti a testimoni della codarda vita, ne avea pubblicamente in morte sorrisi e spregio sulla bara.

In Napoli, montando il bollore delle passioni, tutto volgea al peggio. Si rinacerbiva sempre più la lotta per i lucrosi uffizi. A dì 8 Settembre s’erano aggiunti al Ministero, con diversi nomi, Rodolfo d'Afflitto, un dottore Antonio Cicconi, e Napoleone Scrugli, già capitano di vascello e disertore. Il dì 12 s’arrogava il Ministero di Polizia, più conforme a sua indole, Raffaele Conforti. Il 14 un Sirtori di Lecco, era da Garibaldi eletto a prodittatore del Napoletano. Il 16 Filippo de Blasio s’assumea nientemeno la direzione del Ministero di Giustizia. Il 22, posto al ritiro il benemerito principe di Belmonte, Angelo Granito, era chiamato alla sopraintendenza degli Archivi il Marchese Luigi Dragonetti, che ricusò. Nel giorno stesso Francesco Crispi, causidico Siciliano, celebre più tardi per legge di sospetti, toglieva l’uffizio di Segretario degli Affari Esteri. Il 24 pubblicavasi da Pisanelli, monumento di inquisizione, la pena di carcere e di ammenda a’ preti, che non voleano aggiogarsi al trionfale carro della Rivoluzione. Il 25 si dava a speciale Commissioneil carico d’inventariare gli averi della Real Casa di Napoli; e tra gli altri il ladro uffizio accettavano, Giuseppe Talamo,giudice sotto gli ultimi Borboni, giudice e in progresso levato in Corte di Cassazione sotto i vincitori, e strumento deputato acconcio nella Giunta di Stato per la legge Pica ad incrudelire contro anche i sospetti di parteggiare per coloro, che aveanlo beneficato; ed un Conte Viti, che avea fellonescamente abbandonato in Teramo il governo della provincia, per avere uffizio più conforme a sue brame in Napoli. Ad afforzare vie più la rivoluzione autorizzavasi in Napoli, e Messina l’ordinamento di due depositidi Ungari, o raccogliticci di quelle regioni. Ed il 27, ringagliardendo la fame de’ portafogli,cadea giù il primo Ministero dittatoriale; surrogandosi a Liborio Romano Raffaele Conforti, a Napoleone Scrugli Amilcare Anguissola, e via via altri, più o men noti; Luigi Giura ingegnere, Pasquale Scura, già vecchio magistrato in fama di liberale, Francesco de Sanctis, letterato.

In tanto rimescolamento di uomini e di cose è debito notare il bene, che s’ideò; condannato da poi o smentito.

Si decretò il divieto di sostituzioni ad uffizi di ricevitore di imposte o averi pubblici. Il dannoso giuoco del lotto si promise abolire. Si dichiarò annullarsi la categoria de’ fondi segreti presso ciascun Ministero. Il dritto di dazio su’ commestibili, confiscato tutto o parte del regio tesoro, si decretò restituirsi a’ comuni. La cumulazione d’uffizi diversi si disse interdetta; e si vietò a’ potenti d’apprestare alle spoglie di congiunti altro ricetto estremo fuori i pubblici cimiteri. Nulla mancò di ciò, che promettono in ogni moto i novatori, e le moltitudini accolgon plaudenti; inconscie delle malagevolezze, che vi si frappongono anche quando gl’intendimenti ne sien sinceri, e gli uomini tutt’altro, che i provati nella corrotta età.

All’albeggiare del primo Ottobre le regie milizie con irresoluto comando usciano di Capua, partendosi in tre colonne. Più forte di numero la ordinata nel centro; più esercitate ed animose le disposte a’ lati. Si avea alle spalle a rifugio la Piazza; non si pensò, grave errore, d’aver meglio in aiuto un nerbo di riserva. Diretti i primi colpi agli appiattati in S. Maria, si rispose con formidabile artiglieria, che ingenerò tantosto ciò che più nocque, men strage che viluppo d’idee e di comandi presso i Napoletani. E vi morì, tra’ primi, Giuseppe de Mullot, giovane e ardito capitano di Tiragliatori, che al 1849 in grado inferiore militando nel decimo di linea, avea sul Po combattuto contro a Tedeschi; aspettato, per abbondare i disertori e fedifragi, ad averne più tardi da mano di statigli compagni in compenso là morte.

L’ala destra si spinse con miglior fortuna fin oltre a S. Tammaro. L’era aperta la via di Aversa; ma disaccorta o incerta degli eventi delle altre, indietreggiò. Per conforme ardire, benché lasciata dal generale Barbalonga, più risoluta la divisione a manca. Snidò, rispondendo di continuo a nudrito fuoco di artiglieria, il nemico a monte S. Angelo diè agio al valoroso VonMechél con battaglioni di Bavari di battere la garibaldinaia raccolta a Maddaloni; e solo l’inscienza di un RuizBalestreros, a cui s’era affidato buon nerbo di milizie, che consegnò prigioniero a Garibaldi in Caserta, gli fa intoppo di più oltre proseguire.

Non battaglia, era un disordinato scaramucciare; irresolutezza nel campo regio, confusione e pruove di estrema audacia presso Garibaldi. Il rombo del cannone si ripercotea nei. dintorni e per fin nelle vie di Napoli. La facile vittoria, che si ripromettean i più, indugiava ancora; e se ne impensierivano i codardi fuggiti, o rimasti a insolentire in città. Erano le piazze e le più ampie vie di Napoli gremite di sbirraglia, uscente dalla guardia nazionale. Il reo rifiuto d’ogni provincia s’era aggiunto alle solite plebi d’ogni rinvoltura. Erano facce barbare, volti stupidi, insegne. strane, sembianti patibolari e ridevoli insieme. Vedeansi frati e preti serbare allato del Crocefisso pugnali ed altri arnesi di assassini; e miste ad essi, uscite di lupanari, stuoli d’impudiche, con grida, con ischiamazzi, con bestemmie proclamar ormai giunta l’ora della libertà.

L’aspettata vittoria indugiava ancora. Il crescente soprarrivar di feriti; lo sgomento di fuggiaschi, ed il tramonto venner punto punto l’aspettazione volgendo in isperanza, e questa poco stante in paurosa incertezza. E solo allo sciogliersi degli strani attruppamenti, allor che certo sgomento suggeriva ai più compromessi d’assumere altri tra vestimenti, l’impensato ritiro de’ regi ne’ baluardi di Capua consigliò l’accorto dittatore di fare improvvisamente, a tarda sera, apporre alle cantonate delle maggiori vie la scritta «Vittoriasu tutta la linea.

Voi eravate in pessime, condizioni, quando io giunsi sul Volturno,in pubblica Assemblea di Torino disse Enrico Cialdini a Garibaldi. E Cavour in effetti non indugiò, dopo Castelfidardo, d’inviarlo tosto in Napoli a sorreggere la cadente rivoluzione. Egli trovò da fellonia del generala de Benedictis aperti gli Abruzzi; e più giù al Macerone, fucilati selvaggiamente lungo il cammino gl’insorti pel Re di Napoli, gli agevolò ogni altra via, la dappocaggine d’altro generale, certo Scotti Donclas, che con mille cinquecento armati si profferì a lui prigioniero. L’inerzia seguita in Capua e ne’ dintorni dopo la. giornata di Ottobre, l’improvvida spartigione delle forze, che dovean convergere a Napoli, l’inaspettata nuova del Macerane, ed altre ventilate artifiziosamente a sconforto, consigliaron mutar la già mutabil strategia, circuire vieppiù Capua, e lasciando la linea del Volturno, con allato il mare e più da presso Gaeta tenersi alle sponde del Garigliano. Cialdini in tanto con numerose e fresche milizie invadea la Terra di Lavoro: ed intento a rompere il filo, che tuttora univa Capua e Gaeta, primi e gagliardi intoppi trovava a Cascano presso Sessa, che superò; e la notte del 27 Ottobre s’accampava alle orientali alture prospettanti il Garigliano; dove all’opposta. sponda oltre a trentamila Napoletani, più agglomerati che ordinati, si mostravan pronti a battaglia.

All’alba del 29 il generale Matteo Negri, desto dagli avamposti, s’inoltrò primo ad esplorare. S’accorse del progredir de 'Piemontesi; che, forti di fanti e di cavalli, con bersaglieri in ordine aperto, s’apprestavano ad aggredir di fronte il campo. Egli, avvertito il generai Colonna di sloggiar coi, ì cavalli e ripiegar istantemente all’opposta sponda del fiume, ordinava sue artiglierie di fronte. I Piemontesi, ingombrando a dritta e a manca la via menante al Ponte, nulla ostante la micidiale moschetteria de’ cacciatori Napoletani, si inoltravano. Era loro intento guadagnare ambo le sponde; e più rendeali animosi il pensiero di. credere in fuga i cavalli del Colonna. I quali, passato il Ponte, disavvedutamente disfatto, dieron agio alle opposte batterie di Negri di fermarli, e volgerli tantosto in ritirata, seguita senz’ordine per molti prigionieri fatti dà’ Cacciatori, impediti per difetto del Ponte e costretti di ripassare a guado il fiume, a farne di più ed inseguirli. Il Generale Negri, ferito al piede, vi perdurava operoso, volgendo e dirizzando anch’egli la punta del cannone, finché altro proietto non venne nell’addome a colpirlo. Si restava con giornata indecisa. I prigionieri eran a sera tratti in Gaeta. Il Re lamentava il fato di Negri; che sulle braccia di soldati menato a Scauri non guari discosto, in umile casetta indi a poco spirava.

Era nato a Palermo, e fanciullo posto in Collegio Militare, n’era uscito, giovanetto, soldato de’ Cacciatori. Egli si avea bontà d’animo, avea studi e gli erano innati di coraggio gl’istinti. Ferito a Catania ne' fatti del 1849, avea per fermo senso pratico di guerra, ed era meritamente promosso a gradi distinti in Artiglieria, nulla ostante le avverse sue opinioni, meno alla forma del reggimento che a’ costumi di coloro, che ne assumevan gli uffizi. Per lo che si ebbe due formidabili nemici a combattere; gl’ignoranti, ed il volgo sopra modo che, usufruiti i favori della Monarchia quand'ella si reggea assoluta, disertavanla, allorché s’informava a’ reclamati principi. In lui la mostrata fede al suo Re fu sentimento d’animo temperato all’onestà. Negli altri ogni contraria pruova al passato la storia ritien postuma; fu codardia, e peggio; fu cambio.

Il navilio Francese era nelle acque di Formia spettatore, non a riparo della spiaggia, su cui seguivano i fatti del 29. L’ammiraglio Persano all’inaspettato insuccesso di Cialdini ne chiese lo sgombero per battere di lato il campo Napoletano. v’ebbero scambi di avvisi di Parigi a danno della Monarchia cadente. ché non gl’individui sol tanto, ma nazioni e principati vengon in disfavore allo scadere delle fortune. Il re Vittorio Emmanuele era a Sessa con forte retroguardia tra grazie ed inni della rivoluzione, che slegavasi da Garibaldi e a lui si rivolgea. Anche altrimenti si ricomponeano gli affetti e lo spirito pubblico in Napoli. Le plebi testé ne’ temuti pericoli vaghe di riaver Francesco II, s’apprestavano ad accogliere festevoli il nuovo re. I più feroci democratici smetteano schiamazzi e divisa; restando sola masserizia a Garibaldi i più scompigliati o disaccorti. Sciami d’incodarditi e di affamati, sformato il garibaldino, accorreano al regio campo di Sessa, con mostre di devozione all’uomo e alla libertà, che dovean tradursi più tardi a pretese o a supplicazioni di frugiferi carichi. Gaeta parea deserta; o solo notavasi il trambasciato arrivo di soldati traditi ed eroi.

Io vedeva e meditava tristi cose. Niuno de’ fatti ricchi, degli annobiliti, de’ beneficati dai Borboni era là. Vi stavano Pietro Ulloa e Salvatore Carbonelli di Letino; v’era Antonio Winspeare, che, sviluppatosi con protestazione memorabile da Cavour, ricorrea ad accomunare il suo al destino del Re sventurato. Non mai veduti tutti e tre ne’ lieti giorni brigare nelle regie anticamere per carpir favori, o a pinger con gai colori ciò ch'era giallume; eglino sospetti o ignoti in sino allora, ricompariano in iscena a rappresentare ciò che contrassegna la mirabile liberalità d’animo; la parte cioè, che mena per osservanza di debiti, ove pur è dato di schivar peggio, al carcere ed all’esilio. Erano tra i più notevoli rimasti al fianco del Re due cavalieri e soldati, Riccardo de’ Sangro e Giuseppe Statella. E cento sedici anni innanzi, due loro antenati, Domenico de’ Sangro e Francesco Saverio Statella, erano nella tenda di re Carlo III nella giornata di Velletri; assistendo con loro pericolo all’innalzamento della monarchia, come i lor discendenti in casi più rischiosi a compiere l’uffizio di non abbandonarla cadendo.

I Napoletani si tenean nel basso Garigliano, fronteggiando con fortuna varia i Piemontesi. La notte del dì primo Novembre, scomparso d’improvviso il navilio Francese, il Perdano con tre fregate e quattro vapori apriva dalle foci del fiume a Scauri vivo cannoneggiamento, in quello che dentro terra vedea modo il Cialdini di combatterli d’ogni lato. La situazione si rendea malagevole; il Re ordinava ritirata. Il sesto Cacciatori, che si tenea sulla destra riva, dal Ponte alle foci, attaccato di fronte ne contrastava fieramente il passaggio. Ostinato ed ultimo a proteggere la ritirata, vi perdea moltissimi, tra cui Domenico Bozzelli di Castel di Sangro, che, soldato nel 1834, tra Cacciatori militando modesto ed operoso, sotto la stessa insegna cadeva capitano.

Non avea la via da Scauri. a Formia fuggenti; la ingombravano feriti e cadaveri. I salvi da’ proietti di terra eran dilacerati da mitraglie di mare. Il bombardamento del navilio Sardo continuò tutto il giorno, la sopravvegnente notte ed anche il vegnente di, traendo quando contra soldati impotenti a contrapporre pari espedienti di guerra, quando ciecamente, a solo terrore, contro spiaggia, coperta di morenti e desolata.

Il dì tre Novembre, a prima luce, tre fregate ad elica, quattro pirofragate, quattro pirocorvette, una bombardiera e due cannoniere schieraronsi a tiro di rincontro a Formia, dove s’eran raccolti i Napoletani; ed aprivano con trecento bocche da fuoco cannoneggiamento di sterminio contro inermi case e gli ospedali, che avean oltre a mille languenti. Si potè appena rispondere con quattro pezzi, smuniti di parapetto, e ridotti poco stante ad un solo, feriti e morti gli artiglieri. Il generale Giosuè Ritucci dimostrò non potersi più oltre difendere Formia, per simultaneo attacco di maro e di terra, che non indugiò. I Napoletani, protetti da batteria comandata dal prode capitano Feyot e dal tenente Brunner, che vi perderon tantosto la vita, a stento volsero a Gaeta. Due compagnie di Leggieri, che occupavan Maranata, disgiunte per ostinata resistenza dal resto de’ loro, s’apriron mirabili un varco tra’ nemici, e all’annottare, decimate per morte, giungean al piano di Montesecco. Giovò alla generale ritirata in Gaeta il nono Cacciatori, che vi perdeva il suo Maggiore Ferdinando de Filippis. Il giorno innanzi, avuto avviso di nuove forze Piemontesi volgenti a Fondi, s’erà affidato al Marchese Ruggiero buon numero di fanti e cavalli per custodir Formia alle spalle, e, come intervenne, per prevedimento di non potersi il soverchio raccòrrò in piazza aspettata ad assedio.

Il generale Ruggiero si tenea nelle gole d’Itri, allorché, caduta Formia, gli giunse ordine di procedere oltre a suo consiglio. Incontratosi col Piemontese de Sonnaz, ricusò ogni profferta indecorosa a disgraziati soldati; e preferì, senza più pruove di sangue, darsi con armi e bagagliume a’ Francesi, posti a guardia de’ pontifici confini.

I fati della Monarchia volgeano tristamente al maturo; appena una corta striscia di sabbia, guardata da formidabili rampari, separavala da ultima ruina. L’antico regno avea faccia più sforzata, che non s’ebbero le terre tutte a’ peggiori tempi del vicariato. Ne’ comuni eleggeansi a sindaci i più audaci a misfare; capitanavano le turbolente ed imbelli guardie nazionali i più da natura disposti e da fortuna esercitati a sbirreggiare. Le polizie de’ più corrotti Stati avrebbero trovato ne’ colonnelli, nei capitani ed altrettali sedicenti ufficiali i più acconci strumenti a favorire il male, e a martoriare l’ultimo bene. Cavour ne misurò tosto la malaugurata potenza, e lavorò a prepararne il disfacimento. Dopo il specie di politica commedia, non ignota anche alle più felici repubbliche, notabile opera civile fu l’accelerare in Napoli l’ingresso di re Vittorio Emmanuele, nel modo che v’entraron gli antichi e v’entreranno i futuri vincitori. Luminarie e concenti; lusso di cenci colorati, e d’inni. E d’altra banda rancori e paure, lutti ed imprecazioni. Al lavoro di demolire ciò che parea soverchio, s’aggiunse l’ardua fatica di mondare il soverchio nuovo, che vi s’era introdotto. I più turbolenti si vide modo di dividere; si blandiron i più arrendevoli; si corbellaron i più balordi; a’ più scaltri si crearono nuovi uffizi; più pasto si dava ai necessari; si vuotava il tesoro pubblico. Era impossibile nel disordine assottigliar la ragion di governo. Il Ministero rimanea in piazza; e sempre dallo strepito si passava come a specie di cuccagna.

Il prestigio di Garibaldi iva pur stremandosi. Ristretto il suo campo per morti, per diserzioni, per indisciplina dei più, assumea tra i rimasti faccia di vera Babele. Dove un ordine in Inglese, dove un controcomando in Tedesco. Al reciso accento del Magiaro s’univa l’armonioso dello Spagnuolo ed il chioccio del Danese. Non vi avean soldati; tutti per gradi erano insigniti. Caserme ai più eran le bettole in campagna, i lupanari in città. Certa gentilezza del Toscano, l’astuzia del Genovese, la perfidia del Romagnolo, lo spirito desto del Veneto, la franchezza Lombarda, le rodomonterie del Napoletano, la barbarie del Siculo, si vedean talvolta in istrani congiungimenti, per dissolversi tantosto. Videro i generali Piemontesi essere accozzaglie più opportune a numero che a forza. Rimosso dai lor consigli Garibaldi, dierono istantanea opera a più venir confortando la diserzione de’ suoi. Tolsero i più audaci a sfamare; gli ostinati confinaron man mano in carceri ed in isole; i pigri e codardi, deputati a tener desta la rivoluzione, furono, variamente assegnati in città e borgate, fusi più tardi in brevettata ladronaia, che si disse guardia mobile a combattere il brigantaggio.

Le scaramucce eran finite; si offrivano dinanzi Capua e Gaeta.

Erano in Capua oltre a ottomila uomini; ma salvo pochi giovani ufficiali, e Francesco Rossaroll, soldato antico, e avuto in incuria, a vero governatore della piazza rimanea il Cardinale Cosenza.

Il Piemontese della Rocca s’apprestava ad aggredir le mura, ed il Cardinale facea raccorre gente e soldati in Duomo a pregare Iddio. I generali, a cui s’era commesso il primo governo, avean più spirito di cenobio che di campo. Mancò, o potea correr rischio di vita chi avesse osato consigliare avventure di sortita. La popolazione disavvedutamente rimasta nelle mura protestava di voler esser al riparo d’ogni sinistro. Le già rotte comunicazioni con Gaeta; le nuove della disastrosa ritirata di Formia, e dello sbandamento del Ruggiero nel Ponteficio; il trionfale ingresso di re Vittorio Emmanuele in Napoli, e tutto contribuì a’ primi proietti lanciati dal nemico di rendere tosto accetti ignobili patti d’arrendimelo; ed inno di grazie all’Altissimo si levò nel tempio dal Cardinal Cosenza, che creduto in lieti giorni operatore di miracoli, operò ai disastrosi della Monarchia il miracolo d’accelerarne il disfacimento. Spirito esiguo e superstizioso; vedea Iddio negli atomi, noi ravvisava nella essenza dei mondi, che gli furono ignoti; come rimarrebbe il nome suo, se non gli avessero gl'ignavi tempi dato rilievo, che la storia scancella.

L’insegna della Monarchia copriva il Re, che dilacerata volle pur in lembi contrastare al nemico.

Era l’assedio preceduto da ultimo fatto del colonnello Pianell, fratello del generale; il quale, attendato fuori Montesecco mostrò esser stato non fede, ma calcolo l’uffizio sino allora serbato con lode, s’accordò co’ Piemontesi a Formia; e, come è usanza de’ traditori, notturnamente diessi col suo Battaglione a Cialdini. Una sua lettera il vegnente dì fu sorpresa al Maggiore Antonio Nunziante, con che confortavalo a seguirne l'esempio. Un consiglio di guerra giudicò non correo dell’infamia il Nunziante; ma volle il Re, a serbare immuni anche da sospetto i rimasti appo lui, che il Maggiore ne uscisse.

La piazza avea difetto di assai cose. I generali, che l'avean lungamente governata, vuoi inscienza o calcolo di secondare i dominanti principi del tempo, aveanla innanzi tutto sol provveduta di chiesette e di ville. Gli eletti a condurne i lavori, n’avean trovato il loro tornaconto; e tra essi un Guarinelli,nel pericolo disertore, avea per sé levato palagio di rilievo, dannoso in piazza di guerra. Ell’era svettovagliata; discoperti gli ospedali; malconci mulini e forni, con cannoni ricordanti la difensione dell’ultimo vicario di Filippo V, l’Ascalona. Non avea Gaeta che la roccia datale da natura; il lato della Porta all’istimo, mal ricucito dopo tanti assedi, accusava l’incuria degli uomini. Avea la fede e l’ardore di pochi soldati; la costanza e il coraggio di un Principe nuovo al regno, e tradito.


vai su


161-177 Gl’Inviati, meno i Ministri Inglese

Gl’Inviati, meno i Ministri Inglese e Francese, erano nella Rocca, presenti oramai ad ogni rigore d’assedio. Arrestata l’azion di Garibaldi, non si avea più guerra di rivoluzione a principi di ordine; era di monarchi a monarchi. La Regalità era stretta da forza più. ordinata, più formidabile, che si surrogava d’intorno a Gaeta a quella della rivoluzione mascherata. Erano Corti e gabinetti congiunti a cassare d’Italia il secolare monumento di Ruggiero, di Federico di Svezia, di Alfonso d’Aragona e di Carlo III. Poche lune ancora, ed altra insegna dovea sventolare sul culmine percosso di Torre Orlando. Si sperava, che la Russia, in memoria de’ prodigati favori da re Ferdinando II nell’ultima guerra di Crimea, non si fosse fermata a protestazioni sterili. Si coloriva dalla facile fantasia ogni idea accennante a forze collegato di altri Stati, pronti ad opera di aiuto. In ogni dimanda di tregua, in ogni lontano cencio, che si discernea agitarsi nel solitario mare, si avvisava indarno un sintomo, un preludio di ritorno ad osservanza di trattati. La causa della Monarchia nel Senato di Torino era sentitamente difesa dal BrignoliSales; ell’era dal Re assediato raccomandata in ispesse ed eloquenti moteai Monarchi, come lui additati a perire. Ma le parole corean vanamente; e sperdeale un rombo più forte, che non è quello dei cannoni; la forza che surrogasi al difetto di fondamentale ed ordinato diritto pubblico, mancato all’Europa dopo il 1815, vuoi per mal inteso accordo di Principi, o dove per licenza di popoli.

Fuori un senso di personale rispetto, ogni altro era non curato o morto. Ed i primi proietti, lanciati segnatamente a inermi siti della Piazza, avvertivan già gli assediati del duplice lavoro, che contro essi s’apprestava; la preponderante forza del nemico, e la tradigione de’ rinnegati nel suo campo. I Locascio, i Gaeta, i de Sauget. i Firrao, i Guarinelli, i Somma del Colle erano presso Cialdini a disegnargli i ricoveri non casamattati, i forni, ed i sacri ospedali.

Al temuto spettacolo delle ultime ruine, l’Arcivescovo Cammarota con corteggio di preti ne usciva; e v’entrava il Cristianesimo in opera, la Figlia di Carità.

L’ingegneria Piemontese avea sin da prima i suoi studi rivolti a Montesecco, custodito da Napoletani trincerati. È il monte a cinquecento metri dalla prima cinta di fortificazioni. Ad occuparlo e costruir batterie per l’investimento della Piazza avean d’uopo di tempo. S’incominciò a’ Cappuccini, a mille e quattrocento metri della cinta a stabilire batterie di mortai a terrore della Città. Facea d’uopo d’una via, e non s’indugiò a porre mano. Non avean i cannoni di Gaeta portata oltre a quattro mila e cento metri; onde potean di rado colpire e fermare i lavori nemici. Ad osservarne il progredimento s’ordinò una sortita, che diresse il generale Ferdinando Bosco, testò giunto in Gaeta. Una colonna di 440 uomini, commessa al Tenente Colonnello Aloisio Migy, all’albeggìare del 29 novembre traversò il brieve piano di Montesecco, s’inoltrò sul colle Atratina, coprendo i lati di fiancheggiatori arditi. Alle prime case del Borgo fu sorpresa una vedetta nemica, e rapidamente avanzando oltrepassò la valle Atratina e saliva il colle de’ Cappuccini Un antiguardo nemico diè l’allarme; ed un battaglione bivaccante dopo il Convento ed altri due nascosti, l’uno agli estremi del Borgo e l’altro fra le colline a manca, si disposero con istantaneo fuoco a respingere l’esploratrice colonna. Non per tanto potè un distaccamento di essa progredir sin oltre la linea del Convento, e discopri formidabili lavori. Il Bosco, a non farli in ritirata circuire, spinse innanzi due compagnie di Cacciatori, poste a riserva nel piano di Montesecco. Lo scopo era raggiunto, e costò la morte di tre soldati; s’ebbero ventuno feriti, tra cui cinque uffiziali, ed il prode Migy, colpito gravemente, la notte spirava in Gaeta. E maggiori perdite toccarono ai Piemontesi; che, più audaci, fattisi fin sotto il tiro della Piazza, le scagliate granate decimarono. Altra sortita seguì ne’ primi giorni di Dicembre con l’intento colto, senza pur perdere un uomo, di struggere le vicine case del Borgo, oramai utili solo a nemici agguati.

Questo a Gaeta. Nelle provincie ed in Napoli, lasciata ogni fatica a’ Piemontesi assedianti, la guerra de’ complici per rincalzarsi nel nuovo stato, si rinacerbiva vie più. Luogotenente era Luigi Farini, che non prosperoso nelle scienze mediche, si rivolse alle lettere, in cui non diè per fermo gran pruova di sé, e ne avean fatto le congiunture un uomo politico. Spogliato, dicono, il ducale palagio di Modena con protestazione di voler morir povero, era stato per istanze di Napoletani, che lo avean conosciuto esule a Torino, inviato a curar Napoli, non d’altro morbo oggimai inferma che d’appetito di fortune. Nelle provincie, restate le antiche gare per la elezione di un arciprete,d'un capurbano,o d’un prioredi arciconfraternita; le lotte erano di elezioni comunalie provinciali;e guerra capitale sorgeva innanzi tutto per lo legislatore, o deputatoall'Assemblea di Torino. La sovranità era dei più tristi; facile l’impunità a misfatti; il terrore più che dissentimento, o come in progresso l’incuria, ingenerò la cancerosa piaga dell’astensione. Il Farini, nel modo che va rammemorato nelle gazzette, si sentiva come sul letto di Procuste; e più importuni e pericolosi degli affamati, ch'egli metteva alla porta, lo assediavan gli amici. I frustati d’ogni banda volgeansi a Madonna Farini, con boria regia e millanterie d’italianità venuta anch’ella ad emular in grazie le antiche regine. E parecchie Napoletane, donne dei teste montati in alti uffizi, le Pandole,le Niscoed altrettali, s’ingegnavan d’averne l’amistà, e d’imitarne l’atto e piglio sovrano: destinati ad esse i primi posti nelle sollazzevoli riunioni, e, nuove principesse, i palchi di Corte a S. Carlo.

Francesco II a dì 8 Dicembre dava fuori un proclama, in cui va rilevato il fondamentale principio della Monarchia. Surta con liberi ordini, ella variò co’ tempi. I rivolgimenti del secolo, le intervenute guerre, le scompigliate sociali attinenze, il difetto di ben saldo diritto pubblico, l’inscienza o l’incuria spesso sviarono i principi, e la generale corruzione ne accrebbe l’infermità.

Le libertà erano nel suo antico diritto pubblico. In lettera memorabile del 22 Febbraio 1734 di Filippo I ricordate a Carlo III, la lor sospensione trasse quando il regno a tirannide, quando da questa si andò a rivolture. Non si osò mai fronteggiare l’uno e l’altro nemico del buon governo, con bilanciarne pacatamente le forze, per dare allo Stato sicura ordinazione e fermezza. Dopo i moti del 1848 prevalsero intemperanze dannose; non s’ebbe governo conscio dell’isolamento, in che aveanlo confinato fuori le seguite leggi di trasformazioni, e dentro certa intolleranza levata a sistema, l’infallibilità attribuita a consigli di dappochi, il mancamento di libera stampa, la scaduta disciplina de’ chiamati a tutt’altro che all’apostolato di Cristo, la pietà nulla in opere di alti, il culto riabbassato a pagane forme degl’infimi, l’indifferenza dei più.

Era al fondamentale principio della Monarchia, sì fattamente manomesso, che il Re dalla percossa rocca di Gaeta dirizzava lo snebbiato animo. Ed era solo. Lo avean lasciato i più sollecitamente chiamati nel frangente; aveanlo tradito i più benvoluti; e le stesse testimoneanze de’ Ministri stranieri appo lui rimasti, erano screduti. L’Europa intendea da lunga mano ricomporsi altrimenti con danno dei più deboli; e la nave nel deserto de’ mari, con vele ripiene di malagurosi venti, correa all’ignoto. Non restava che annobilire la sventura; rompere e stringersi animoso alle ultime ruine.

Darò dell’assedio ragguagli, per quanto comporta l’animo.

Disponea il nemico di forze rinascenti; aveano i Napoletani aiuti manchevoli. Da Formia a Gaeta, e da questa a quella, avea il tempestar de’ proietti rombo pieno e per nulla interrotto. Ma dall’una si partia il fuoco senza averne danno; la piazza fulminata potea appena contrapporre sterile molestia. d’ambo le parti si contracambiarono durante l’assedio oltre a trecento mila proietti. Il navilio Francese avea permesso soccorsi di vettovaglie agli assediati, e coperto le navi Sarde, che, accodateglisi, s’eran tenute anche in fortune di mare a tiro delle batterie a fior d’acqua. I più sfacciati disertori dell’armata, i Marino Caracciolo, i Brocchetti, i d’Amico, i Mantese ed altra plebe, eran con Persano, più ad accattar nuovi favori che ad affrontar pericoli. Il Borgo, già popoloso, era una ruina. In Gaeta scapezzate le alte torri, forati i templi, assai edifizi abbattuti. Si vedean muri e pareti correre in frana, avviluppando inermi ed innocenti, voluti rimanere o nascosti in mal fermi ricoveri. E, ne’ sacri ospedali, ai travagliati di febbre o feriti le cadenti volte consumavano la stentata agonia.

Mancato a centinaia di cavalli e muli il gramo sostentamento, erravano dì e notte stupidi ed affannosi per fame. Spelate le code, i ciuffi e crini de’ colli per languore curvi, i frantumi d’imposte e di usci, i residui di conquassate carra erano gli ultimi foraggi. Non mancò la pietà di poveri soldati, che divisero con essi negli estremi l’assottigliata razione.

I cani, e ce n’eran molti, s’appiattavano ne’ cavi delle case, ne’ sotterranei, nelle sepolture delle sfondate chiese. Si rifuggiano dovunque un riparo loro offriano le succedevoli ruine inarcandosi. Ne uscivano nelle momentanee tregue, o tal volta cacciati da fame o da istintivo amore di riveder soldati, più compagni che padroni, ormeggiati da Melazzo per ismarrirli lungo la via o morti in Gaeta. Correndo, si fermavano a quando a quando per le vote vie, con gli occhi attoniti in alto al fischiar de’ proietti sul capo.

Crudo e tempestoso il verno. Il confinato cielo più tristo rendea, peggio del fuoco dei cannoni, il fumo delle non subito spente arsioni di travi e moli proiettate da turbine di proietti.

L’aere ghiaccio e grave, appestavano miasmi di affollati in estremi ripari, d’infermi, di spoglie insepolte di uomini e bruti putrefatti. S’indopavano le sventure l’una con l’altra; ed i vari morbi risolveansi a tifo, che accrescea le ambasce e la morte. Quà un soldato anche fuori servigio era colpito; colà, io che scrivo, vidi giovane madre da rovente scheggia percossa nelle mammelle, con salvo il poppante, abbandonato alla discrezion de’ casi. Dove eran grida di scolte, dove strida e lamenti di abitatori sotto volte e moli scrollate.

Erano sopra modo le trincee, che all’annottare davano tributo spaventoso di feriti e di morti!

Il Re, la Regina, e da essi non disgiunto il Duca di Sangro, scemando o ingagliardendo il furiar de’ proiètti, vedeansi da per tutto, da’ rampari a fronte di Terra agli alti baluardi di Trinità e Regina, per fin su Torre d’Orlando, dove tempestata agitavasi l’insegna della Monarchia.

Era la lor presenza il coraggio, che s’aggiungea agli animosi, il conforto ai sofferenti, il desiderato compenso, ultimo in terra a’ morenti per fede serbata. Non avean per essi maggior pena le fatiche; ogni pericolo primo ad affrontare venia eletto; ricerche, per esserne necessarie, le malagevoli pruove; e non pochi anteposero, per averne la virtù sospesi gl’istinti, alla vita la morte. La lor presenza, la lor voce, i loro modi avean grazia efficace di tirare gli animi a sacrifizi. Ridestavasi la pietà della Regina ad ogni maniera di sinistre impressioni; per fino a provvedere d’ultimo foraggio, che scemava al suo, un cavallo veduto più volte macero e rotto all’uscio della regia e deserta casamatta.

La Duchessa di S. Cesario, Francesca Berio, seguitava, in grave età, a piedi, la Regina, dividendone il coraggio e le cure. A lei, rimasta ultima negl’infortuni, s’aggiunse più volte, miracolo d’amore, Angelica Caracciolo di Torcila, Marchesa di Renda, che di soppiatto, sfidando fortune e pericoli, si recava in Gaeta.

Moriva il di 12 Dicembre d’istantaneo morbo, che il campò dal veder peggio, Emmanuele Caracciolo, Duca di S. Vito. Soldato sin da giovanetto, salito a gradi alti, mostrò, sotto pubblici ordini assoluti, essergli innate le doti di onest’uomo e di cavaliere. Generale e magistrato spedito in Calabria ad esercitar rigori, intese in difficili congiunture ed esserne pacificatore ed amici aggiunse alla Monarchia. Tardi eletto, per averne ingegno e compostezza, a reggere il Ministero di Polizia, non potè al 1860 raffrenare l’invadente turbinio. Ma se ne sviluppò, ed intemerato si tenne allato del Re sotto l’insegna, che onorò vivo, e meritò d’esserne coperto morto. Al figliuolo, che, ancor tenero di tempo, il volle nei pericoli seguire, non lasciò bagliore dì censo, ma schietta luce di esempio, accetto a Dio, e durevole nella estimazione degli uomini.

Non allentava il fuoco; e la prevalente forza iva sempre più svigorendo le ragioni del diritto. S’immillavano agli assediati tutte specie di danni, in quel che per converso s’accresceano a’ nemici i casi prosperi. I Ministri esteri casamattati in Torrion Francese n’eran atterriti. E, nulla ostante le lor testimonianze, niun Monarca d’Europa osava sobbarcarsi al carico di avvocare il Re di Napoli. La corruzione avea tutto disguisato. Dopo il bombardamento del dì 8 Gennaio 1861, il navilio Francese avea abbandonato le acque di Gaeta. La sua presenza era stata una remora alla fretta del nemico di compiere la distruzione. Più micidiale fu il bombardamento del 22. All’ordine del giorno spesso ripetuto di potere uffiziali e soldati domandare l’uscita delle piazza, parecchi aveano saldato il conto agl’istinti di preferire la propria salute, e n’erano fuori. Dopo il 22 Gennaio non fuvvi istanza di sorta. Invece s’accalcavano i rimasti nell’uffizio del vicecomandante di Piazza, generale Marulli, a segnare i loro nomi, per riconfermare al Re ed al paese lor devozione alla causa della Monarchia, con giuramento di morire, a tutto anteponendo l’onor militare, contaminato da disonesti ed ingrati. La qual dichiarazione in celebre ordine del giorno del Cialdini fu poco stante alla caduta testimoniata; la stampa divulgò, benché senza firme, gli analfabeti supplicando, che altri segnassero i lor nomi; umili ai contemporanei, ma non incuriosi alla storia e alla posterità.

Il 22 Gennaio, per tempo, spirata la corta tregua, al grido di viva il resessanta cannoni delle batterie a fronte di Terra tirarono sulla nemica a’ Cappuccini. La quale impensatamente percossa non potè che a stento rispondere; mostrò vigore mancante e si tacque. I caduti parapetti, e gli smontati cannoni provarono la terribilità della Piazza contri opere costruite a suo tiro. L’ardore nemico si raccolse allora dove altre grosse artiglierie con cannoni Cavallipotean certo schivare il proprio e accrescere il danno degli assediati. E, scoprendo per tal modo tutta la linea di fuochi, oltre a dodici mila proietti venner scagliati e sparsi in Gaeta.

Alle batterie di mare non s’avvicinaron le navi. Prospettando di lontano la Piazza, accrebbero, sprecando munizioni che l’onda assorbì, il toneggiante fragore; ritiraronsi a sera dal lato di S. Maria nella direzione di Ponza, per ricomparir la dimane a prospettar le ruine dal consueto ancoraggio a Formia. L’armata Sarda non ha pagina nella cronaca dell’assedio. Fuori le stragi al Garigliano, ella non diè nerbo all’esercito; ed il suo stare nel golfo fu a lusso, o inoperoso ozio di verno.

L’intensità per contrario del fuoco dal lato di terra il dì 22 moltiplicò i disastri in Gaeta; né minori da principio toccarono ai Piemontesi, che a sera allentarono ogni opera, e affatto sospesero la notte ed il giorno che seguì.

Più volgea al tristo la fortuna, men si perdean d’animo i Napoletani. Ordinò il Re ai presenti il dì primo Febbraio rivista per insignirli di memore medaglia. I cannonieri dell’armata, che, renitenti a consigliata diserzione, s’eran alla spicciolata tratti dentro Gaeta, traforandovisi parecchi anche a cominciato assedio, avean meritato sin dalle prime pruove dal vecchio e fedele viceammiraglio quest’ordine, ch'è pregio rammemorare: «Cannonieri e Marinari; Egli è con la massima mia soddisfazione che da tutte le autorità preposte al reggimento delle opere in questa Piazza di guerra mi pervengono rapporti a lode della vostra onoratezza, del coraggio e dell'abnegazione, che vi è guida ne’ tanti carichi a voi affidati. E però nel ringraziarvi uno per uno, nel tributar le meritate lodi al vostro Comandante ed ai vostri Uffiziali, sono un’altra volta superbo di appartenere a questa Marina, nella quale per cinquant’anni ho servito e che ora forma oggetto delle mie più indefesse cure, e nelle ultime infauste vicende alcuni malvagi ha coperto di onta. Ma ecco che voi ricacciate la taccia sul viso a’ tristi, che la provocarono; ecco che riguadagnate la stima ed il rispetto di quanti vi han fedeli del nostro amatissimo Sovrano; ecco che prendete parte attiva e gloriosa in questo assedio, che segnerà una delle illustri ere nella nostra storia»—Il viceammiraglio— Leopoldo del Re.

Non pertanto tra la virtù eia vittoria rimanea fatale l’interposizione. Un cerchio di ferro e di fuoco, in terra ed in mare, cingea Gaeta isolata. Finiva l’assedio e sorgea l’ossidione o largo assedio. All’azion rapida della lotta dopo il 22 Gennaio, ed ai più infausti casi de' vegnenti giorni parea solo mostrar la morte il suo progredimento. Assottigliata la guarnigione per feriti, per uccisi, per esserne molti già usciti, come accennai. Lo scoppio di due provvisioni di polvere avea pur costernati i rifuggiti in casematte. Fuori le vigili scolte, e salvo il penoso lavoro de' soldati a riparar frane, a spargere terreno su i rampari, a disgomberar di rottami e di cadaveri le sformate vie, la Piazza parea vuota. Il Re era un lavoro anch’esso, e stimolo risvegliativo d’ardire in tutti. Avea egli il primo dato l’esempio di contromettere al violento comando Io zelo pacato. L’abitudine, più che tempo, vuol continuità d’esercitamento, e troppo in corto intervallo n’aveva egli acquistato. Gli avea la spessa usanza a’ pericoli, e a disinganni plumbei rendute ben salde le fibre dell’animo. Il libro, a lui squadernato a Gaeta, gli diè in brievi pagine ciò che non gli avevan dato i precettori al primo svolgersi della giovinezza nell’angusto giro ed intricato delle regie pareti. La Monarchia gli s’era mostra coperta, ed ell’era svisata; gli si era colorito il paese, ch’era infermo; il tempo gli s’era detto di rompere all’alba, ed avea solo gl’infausti crepuscoli della sera. Erano ombre e sembianti, a cui da ministri, da cortegiani e da servi postergata od annerita era la luce del vero. La realtà gli si affacciò nuda e lugubre in Gaeta; essendocché è al primo imbatterci in isventura, che noi incontriamo la virtù; ed il pericolo non ci si discopre spesso, che al sopravvenire della tempesta.

Era il cinque Febbraio, e più terribile sin da notte du rava incrociandosi il fuoco d’ambo le parti. Moriva il Duca Riccardo de’ Sangro, sfuggito già tante volte a nemici proietti, colto e finito di tifo. Il povero cencio, che il ravvolse cadavere, gli fu tuttavia funereo drappo più onorevole del trapunto in oro, che la chiarezza del nome ed il largo censo domestico gli avrebbero apprestato in tempi inoperosi. — Morivano soldati alle batterie, soldati sparsi a’ lavori, soldati agli ospedali, e, tra i rimasti, vecchi, donne e fanciulli riparati indarno nei cavi delle case. Era il fuoco nemico più specialmente rivolto al lato di Porta di Terra, dov’era facile aprir la breccia. Erano poc’oltre le quattro pomeridiane, e più avevan d’uopo di ripari le aperte ruine. Il generale Francesco Traversa ordinò a un suo aiutante di Campo di correre ad esplorare il Iato, dov’egli per lo più rapido spesseggiar de’ colpi temea danno estremo. Ma pensò, misurata la pericolosa ricerca, darne primo l’esempio; e libero e solo, a passi solleciti, senz’altro intento che di compiere un ufficio, a quella volta si mosse. Ed entrava nella larga via, che ultima s’apriva a Porta di Terra nello istante che bastioni a dritta, case e parte di roccia a manca svellendo e rovesciando, tutto confondea esplosione di polveriera; ed egli sotterrato disparve.

Nato al finir del passato secolo in Bitonto, fu posto fanciullo in iscuola Militare, e ne uscì ufficiale, regnando Murat. Serbato nella Restaurazione, se ne mostrò riconoscente, non veduto mai al mutar de’ casi smetter costumi. Aveva cuore e ingegno; ciò che porse a chi n’ebbe invidia, il destro di annerire e spesso tirare al peggio i nobili suoi intendimenti; e militò lungamente incurato. Gli valse la congiuntura di Pio IX esule a Gaeta, lui già Maggiore, di non esser più oltre sottratto all’occhio del Re, che gli diè insegna di cavaliere, deputandolo a più alti carichi; in cui, perseverando con modestia e solerzia antica, incontrò sì fattamente la morte.

Ricerco ne’ penosi disgombramenti del 6 Febbraio, l’appena avanzata spoglia di lui si avvisò dal bastoncello, che vecchio a meglio reggere il passo era uso menar seco, e da’ larghi occhiali confittigli nel capo pesto. Era poverissimo. Ricusò nell’assedio ogni razione, che non s’addicesse a semplice soldato. Un serto di gloria è ciò che resta al tuttora indistinto e senza nome suo. sepolcro.

Perirono, involti nella ruina, oltre a quattrocento, tra donne, vecchi e fanciulli, e più che cento soldati, che di fresco usciti dalle trincee, non vi avean sfidata la morte che per trovarla più crudele in casematte a Porta di Terra. Il prolungato rombo de’ cannoni, le alte e spesse moli e macerie che si scomposero e ammonticchiarono, impedirono per avventura che più straziosi lamenti e sinistri si levassero la già percossa aria e scurata a percuotere. Ad alta notte, restato ogni fragore, l’animo de’ superstiti senti o immaginò udir gemiti; a cui la pietà degli scavatori non potè che tardi rispondere e intempestiva. Deludeano ogni misericordiosa ricerca l’immensità e lo strano ricomporsi delle fulminate macerie; e deluse rimasero chi sa quante sotterra speranze estreme di miseri. Una giovinetta mezzo sepolta ebbe a riparo due macigni casualmente inarcatelesi sul capo, e visse. Un fanciullino, tratto sano nelle prime fatiche della notte, non ricuperò i primi sensi, che per perderli al terrore, che veniagli dalla novità degl’ignoti che il salvavano. Paolo de’ Sangro di S. Severo, tenente colonello d’ingegneria, era nell’istante dell’esplosione a provveder di ripari mura non guari discoste e cadenti. Variamente percosso al ventre e alle gambe da schegge di roccia lanciate dall’esplosione, difformato cadea. E tratto poco dopo su braccia di anch’essi feriti soldati al più vicino spedale, innanzi che altra pena gli si aggiungesse di arte cerusica, sentissi egli stesso disfidato. Durò in acerbezze, con solo il tempo e l’animo di scrivere alla vecchia madre, la veneranda Maria Giuseppa Ulloa, una lettera, che in brievi forme ebbe eloquenza, e grandezza di pietà e d’amore.

Avea l’esplosione levato intorno orribile bagliore come da fasci di folgori. Vinse il fragore ogni altro; le case Scossero; e nel circuito della Piazza sfondarono le balestrate materie edilizi percossi in sino allora invano da’ più formidabili proietti. Men avvertita, per la curvità della fortezza, dalle batterie, che rispondeano alle contrarie, non restaron queste dal fuoco; ma tacque il nemico, riferendone da. prima il caso a breccia aperta. Si mossero le sue navi ad esplorare; ma minacciate dalle artiglierie, più propinque alle mura, rimaste staccate ed illese, sé ne rimossero tosto. Volle il Re, si fermasse alle batterie operanti ogni azion di fuoco e levossi parlamentare bandiera per chieder tregua a Cialdini; che accordò a brieve intervallo, bastevole appena a raccorre feriti che a disotterar chi sa quanti ancor vivi in ultime ed ignote ambasce! Era una terribile notte; ed il rompente giorno dovea rischiarare la più infausta delle sventure, in tre mesi di assedio.

Costernati n’erano i Ministri esteri, per soprastante pericolo d’altro scoppio di polveriera pur facile ne’ dintorni del loro ricovero. Vi aveano, anche tra i più risoluti ad ogni estremo, animi stanchi di più oltre patire. Le munizioni scevrate; assoluto il difetto di cannoni; non sufficienti i viveri a’ sani, gli aiuti ad infermi, la operosa compassione de’ robusti a tante maniere di patèmi. Inferociva il tifo, e facea strage di coloro, che non colpiano i proietti. Muti i re d’Europa; e le vele, avvisate da su i bastioni, s’indirizzavano altrove; non più solcavano le torbide onde, che s’incalzavano solitarie per infrangersi appiè di Gaeta. Un consiglio di Generali s’era raccolto, discordante per mirabile virtù di alcuni e per lodevole temperanza di propositi di altri. Ma vinse il senno del Re; e maturò la sua pietà, più della prevalente forza nemica, il fato dell’arrendimento.

Contrappose ai preposti patti da prima dure repulse il Cialdini; che quanto più stremate vide le Napoletane fortune, tanto s’ingegnò a diletto, o a terrore, d’affliggerne i residuali istanti. Fè ringagliardire il fuoco ne’ seguenti giorni, traendolo la presentita ebrezza di vittoria a immoderati rigori. Ed erano Italiani, che s’arrandeano a Italiani; e si dava opera sì fattamente a comporre un più vasto Regno.

Il conte di Cavour, a cui i compiuti fatti forza assumean di giustizia, mandò più miti consigli a Cialdini, che dierono agli assediati men incomportabili condizioni; dissentendone parecchi, tra cui il Generale Bertolini, che, capo dello Stato Maggiore, ricusò i capitoli firmare, e sottosegnò invece il Generale Antonelli. Il 13 Febbraio, null'ostante la chiusa discussione degli articoli, volle il rappattumato nemico sprecare altre munizioni a danno d’ultime ruine; ed esplose a sera la riserba di polvere alla Trinità, con perdita di trenta artiglieri, e del giovanetto uffiziale, Luigi Giordani, uscito della Nunziatella, e trattosi volontario ad affrontar la morte nel suo primo entrare alla vita. Le arse spoglie de’ miseri, per esser la batteria subalza rocciosa sporgente in mare, l’esplosione disperse, ed assorbiron l’onde; avanzando sol di essi lacrimata memoria nell’ultima e fastica ora dell’assedio. Restato sì fattamente ogni strepito, il silenzio che seguì, diè agli animi presenti la costernazione tacita, che si rivela a’ funerali; ed ai più parve preludio di altri sinistri in avvenire. I difensori di Gaeta son quasi tutti morti. Non isfuggirono a miserie di vinti i sepolti; hanno i pochi superstiti vita raminga ed esule nel loro paese.

S’affacciò nella notte nave Francese al porto di Gaeta. Aveala il Re prescelta a suo viaggio fuori il terreno del vincitore.

All’albeggiare del dì 14, era io con pochi nella prima cameretta della regia casamatta, che s’apriva alla pubblica via. Da umile ricovero contiguo usciva poco stante il Re, a cui intesi primamente investigare in volto i riposti sensi dell'animo. Ne usciva fermo; tuttoché certo pallore nel sembiante rivelasse disusatamente commosso. All’istantaneo apparir dopo lui della Regina in semplice divisa di viaggio, sentii al non potuto rattener suo pianto rispondere consonante quello degli astanti; e distinsi il singhiozzo di Marino Doria, conte di Capaccio. Certo intoppo, che ad uscir della casamatta trovava primo il Re, mi avvertì, che glielo formavan gran calca di superstiti a ruine; e le voci e certe concordi strida erano come le use a spandersi per via in pubblici lutti. Ad aprire via nondimeno sino a Porta di Mare non si adoperò maniera di forza, fuori ciò che passo passo producea la preghiera di Re ad uomini, che meritavan d’esserne onorati. Durò molto l’andare, perché a tutti fu dato rivedere ancora i lor Sovrani, e a molti stringerne l’ultima volta le ginocchia. Erano uffiziali d’ogni grado, soldati d’ogni arma, feriti fasciati, alcuni avvolti in lenzuola lacere, che lasciavan gli ospedali e pur febbricitanti si gettavano con pianto ai lor piedi. Vidi il vecchio e intemerato Pietro Ulloa, che ha preparato a sua vita il più nobile de’ tramonti, io il vidi piangere di largo pianto. I memori suoni dell’inno di Casa Borbone percotean l’ultima volta, nell’esterrefatta aria, degli accorsi gli animi colvulsi. I cannoni delle Batterie davano i lor saluti, in quel che s’imbarcavano i Reali esuli. I Piemontesi, che avean già occupati i bastioni di Porta di Terra, guardavan dall’alto attoniti l’ultima scena; e la secolare Insegna della Monarchia su Torre Orlando cadeva, coprendo mine.

I castelli di Messina e di Civitella del Tronto, serbatisi onorevolmente in fede, furono, compiuto il dramma, ciò de’ cadaveri nei tepori ultimi avanza di finali spiriti. Esule il Re di Napoli, la secolare Monarchia era finita. Né autori a corromperne la vita furono i sistemi, ma gli uomini, a cui van commessi. Avea lo Stato nelle sue leggi assai germi, quando svolti e quando soffocati, e che, avvedutamente promossi, avrebbero senza ruinose scosse dato al reggimento salutevole tempera. Ed il federale concetto, trapotente all’età nostra, era la politica unità degl’italiani più conforme a natura, più ossequente a storia ed a tradizioni. Se ne misconobbe la forza, legando ad ingannevole durabilità di un fortunato presente l’avvenire, che si sviluppa e trae e vince i più intenti a fermarne il moto.

A Francesco II il tempo sopravvenne grave di nuove idee, poco men che invincibili. Glielo celò da prima l’età; glielo svisaron poscia i sortiti a snebbiarne l’animo aspettato immeritamente a disinganni e dolori: uomini usi a nomar solo vero, solo diritto, solo possibile ciò che mettea loro conto.

Misterioso è il futuro. Ma qual che s’affacci, nelle ignote sue forme nulla di somiglievole aver potrebbe a ciò che multiforme corruttela recò di morboso al passato e di peggior contagio al presente. Artefice si è la mano della Rivoluzione; essendoché Iddio anche a colpe ed errori diè modo di trovare in espiazione salute. Ed ove ai vinti fosse pur dato di ricuperar diritti, non sarebbero per fermo casuali successi di forza od altro, che ne ristorerebbero il prestigio antico; ma la scienza degli uomini, che segnatamente ci si apre nelle disavventure; ed i Principi premunisce in fatiche di regno a durare; anche caduti ad aver grandigia; e rivivere, sepolti, nella luce della storia.

San Giorgio a Cremano, presso Napoli, l’autunno del 1874.

M. Farnerari

___________

1 Tacito.

2 Tacito.

3 Quindecim annos, grande mortalis aevi spatium. Tacito.

4 De antiquitate et varia Capvciorum fortuna.

5 Istoria della Casa dei Ruffo, Napoli 1873.

6

Memoriae Posteritatis

Lapis Hic Commendat

Fortitudinem Virtutemque Bellicorum

Civium Truentinoram

Qui Anno MDCCCVI

Cum Parva Manu Militum Praesidiarorum

Duce Matineo Vade Arcìs Praefecto

Patriae Propugnatione Suscepta

Impetum Gallorum

Magnis Copiis Graviquo Obsedione

Castrum Prementium

Per III Mensis

Singularis Fidelitatis Exemplo

Sustinuerunt.

7 Roma del 28 dicembre 1874 n. 358.


















vai su





Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.